I figli di Tom

di Utrem
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All'altro capo del mondo I ***
Capitolo 2: *** All'altro capo del mondo II ***
Capitolo 3: *** Horace ***
Capitolo 4: *** Non impari mai ***



Capitolo 1
*** All'altro capo del mondo I ***


10 settembre 1967

Era arrivata all’ultima macchina ancora parcheggiata.
Non era quella di Davis.
Linda sentì accasciarsi: era delusa, non da lui ma da sé stessa.
Come pensare che non lo avrebbe rifatto di nuovo?
Si girò per tornare indietro.
La cabina telefonica era all’ingresso del parco. Poteva chiamare suo padre e chiedergli di venirla a prendere.
Risalì, piegando le ginocchia, scansando la coppietta che stava uscendo; si ricordò dov’era lo stand dei popcorn.
La cabina, però, era occupata da un alto ragazzo biondo, affiancato da un altro, più basso e bruno.
Linda allora si fece da parte, per aspettare.
“Che cretina…” ripensò, guardando in basso “Sarei dovuta andare via con Margot.”
Oltretutto, sembrava che il ragazzo biondo ne avesse ancora per molto.
“No, Panky… per favore, non insistere…”
Linda ridacchiò. ‘Panky’, che razza di soprannome.
Non avevano grande considerazione del loro amico.
O forse era una ragazza?
“Panky… non torniamo, no. Te l’ho già detto.”
Allora Linda vide il ragazzo più basso andare dall’altra parte della cabina.
Allungò il collo, e lo vide trascinando una specie di valigia a forma di carrello: aveva le ruote, ma era rivestita in pelle e aveva il manico di un carrello.
Linda aprì d’istinto la bocca, soffocando una risata.
“Siete dei geni!” esclamò allora, battendo le mani.
Il ragazzo basso allora si girò di scatto e si mise a ridere insieme a lei.
“Niente. Tutto a posto, Nick.”
Subito il ragazzo biondo sembrava un po’ allarmato, ma poi ricominciò a parlare.
“Allora… abbiamo i vasi. N-non torniamo indietro, però. Non possiamo. Hai capito, Panky?”
“Dei vasi?!” chiese Linda, allargando le braccia.
“Sono miei!” rispose il ragazzo bruno, con un sorriso.
Linda scoppiò a ridere.
Era strano, ma molto carino.
“Tu hai dei vasi?”
“Sì. Li dipingo, perché.”
“Ah… wow!”
“Ti sembra strano?”
“… non lo so!” rise ancora Linda.
“Sono dentro questo carrello. In piedi, così non si rompono.”
“AH! E perché li porti in giro?”
“Perché stiamo traslocando. Nick, che dice Panky ora?”
Il ragazzo biondo mise una mano sulla cornetta e rispose, agitato:
“Continua, continua a dire che vuole pulirli!”
“Dille che non ne abbiamo bisogno e che pulisca altro” rispose il bruno, con un tono ambiguo.
“Ma mi dispiace!”
“Eh lo so, Nick. Pazienza. Poi torneremo.”
Il ragazzo biondo allora annuì pazientemente e tornò a parlare a telefono.
Linda non ce la faceva più.
“Scusate… ma chi è Panky? La tua ragazza?”
Il ragazzo bruno rise debolmente, scuotendo la testa.
“È la nostra elfa domestica.”
Linda spalancò gli occhi.
“Avete bevuto…?” disse poi, con la mano davanti alla bocca.
“Non abbastanza” rispose il ragazzo bruno, e le porse una mano un po’ tremante. “Scusami, di solito non sono così. Mi chiamo Horace e lui è mio fratello Nick.”
Linda si morse il labbro. Non stava capendo più nulla.
“… Linda.”
“Piacere mio, Linda. Là abbiamo il resto delle valigie. Niente in confronto a questa, ma…”
Allora Linda vide due valigie accatastate: quella sopra era molto piccola e completamente dipinta, e l’altra gigante e nera, con gli angoli un po’ rovinati.
“Bellissime” commentò Linda, con una smorfia.
Il ragazzo biondo uscì dalla cabina e le porse la mano.
“Mi chiamo Nicholas. Insomma, Nick” le disse, un po’ incerto.
“Ciao, Nick.” rispose sorridendo, entrando nella cabina “È stato un piacere, davvero, ma ora devo chiamare mio padre e dirgli di riportarmi a casa.”
“Ah… lo devi aspettare qui?” Nick, il ragazzo biondo, parve preoccuparsi “Sei da sola?”
“Sì… ma non importa, davvero! Non voglio darvi fastidio! Andate pure!”
“No, Linda. Nessun fastidio.” rispose il fratello carino.
“Intanto mettiamo insieme le valigie” gli disse Nick, dandogli un colpetto sul braccio.
“Ma no, no! Ci metterà un po’! Mi dispiace… tanto nessuno passerà di qui”
Linda si sentiva estremamente in colpa, ma si rese conto che non voleva nemmeno separarsi da quei due strani idioti. Però, erano simpatici. Soprattutto Horace.
“Appunto, nessuno passerà di qui” insisté lui, spostando le valigie sproporzionate davanti alla cabina telefonica.
Linda rise, guardandolo.
“State scappando di casa?” chiese, con un ghigno.
“Eh… si vede così tanto?” rispose Horace sorridendo.
“Certo. Tutti gli scappati di casa si portano dietro un carrello pieno di vasi!”
“Noi non volevamo” disse Nick, serio “Ma…”
“E tant’è siete qui” finì Linda, come per contraddirlo “Ma forse non avete solo bevuto…”
Horace rise; Nick sembrava confuso, ma non fece nessuna domanda e guardò la sua valigia.
“Dovrei sistemare quegli angoli” disse allora. Fu come se avesse pensato ad alta voce.
“Eh, sì. Sennò ti si rompe.”
Nick annuì, preoccupato.
“Quando arriviamo, magari” suggerì Horace, gentilmente.
“Ah be’, sì.”
Linda aveva la cornetta in mano… ma non aveva finito.
“Seriamente… chi è Panky? Perché la chiamate così?”
“La nostra governante. È bravissima, ma un po’ autoritaria. Anche se, tecnicamente, non può dare ordini; però sai, ci gira attorno…”
“Ah!”
“… ed è un’elfa domestica.”
Linda annuì con condiscendenza.
“Giusto.”
“La abbiamo chiamata per dirle che è tutto a posto e stiamo bene.”
“No! Ma dove sono i vostri genitori? Non avete paura che rintraccino la chiamata? Possono mandare la polizia a cercarvi…”
Nick chiuse gli occhi e iniziò a sospirare.
“Se nostro padre vuole trovarci, lo farà” rispose Horace con amarezza.
“No! Mi dispiace… vedrete che non vi troveranno! Guardate, ora chiamo, faccio in fretta, così potete andare.”
“Tranquilla, Linda. Abbiamo tutto il tempo che vuoi.” disse Horace, e le fece l’occhiolino; oppure no, il buio la aveva ingannata.
Si decise allora a fare il numero, guardando ancora quello strano carrello.
“Papà… pronto? Davis è andato via, con la macchina. Sono dal luna park… no, non sono da sola. C’è… c’è… c’è una volante della polizia, qui davanti. Non preoccuparti, sto bene.”
Vide Horace scuotere la testa, divertito. Stavolta non era un inganno.
Trattenne una risatina e continuò:
“Sì, lo so. Sì. Va bene. Non preoccuparti. Ciao, papà”
Rimise a posto la cornetta e uscì dalla cabina con un balzo.
Horace finse di guardare un orologio da polso e poi si rivolse a Nick:
“Tuo padre: due minuti. Panky: mezz’ora. Chi è più accomodante?”
Nick alzò gli occhi al cielo e Linda sbuffò.
“Questa volta forse ha capito, ma di solito… è il primo a starmi addosso, fidatevi.”
“Certo. Dove ce ne andiamo, quando arriva? Ci dovremo pur nascondere” fece il gesto di tirar indietro il carrello “E questo non si mimetizza con l’ambiente.”
“Potreste mettere i vasi in giro per la strada, nascondere le valigie e il carrello e buttarvi dentro!”
“AH! No, no, è troppo pericoloso!”
“Perché no?” disse Nick con un filo di voce.
Linda scoppiò a ridere, ma Horace sembrava serio.
“Lasciar per strada i miei vasi? E se si rompono? Ci abbiamo messo così tanto a fasciarli …”
“Ah… eh, sì” Nick sembrava costernato.
“No, Nick, è una bella idea in realtà, ma…” ammise Horace, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Linda non ce la faceva più dal ridere.
“Oddio! Ma io… ma come ci state lì dentro?”
“Proviamo.”
Horace tirò una cerniera in cima al carrello-valigia, scoprendo almeno dieci… venti vasi.
“Sbrighiamoci Nick, eh!”
“Sì, sì.”
“A tema, mi raccomando. Sennò è brutto.”
“Intendi… questo qui, più in alto?”
Nick mostrò un vaso tubulare su cui era dipinta una notte stellata.
“Sì, sì! Perfetto!”
Nick iniziò ad arrampicarsi su un albero, con il vaso sottobraccio, mentre Horace corse a piazzarne uno vicino a una siepe.
Linda non poteva crederci.
“Ce li potresti passare?”
Ne prese uno bombato, piccolino, quando alzò un dito per fermarla:
“Mi raccomando, attenta, o li devi rifare identici e mandarmeli per posta.”
“Peggio per te, allora! Non ci riuscirò mai”, e glielo diede in mano “E i postini usano casse dentro furgoni, non carrelli, quindi potrebbero rompersi di nuovo.”
“Perché hanno ancora molto da imparare”
“ATTENZIONE!”
Horace si fece subito da parte: Nick cascò giù dall’albero con un fruscio incredibile, piombando a terra con un tonfo.
Si rialzò, ancora in equilibrio precario; Linda non si sentiva molto tranquilla ad affidargli il prossimo vaso.
“Ti passo…?”
“Sì, Linda, grazie.”
Non appena lo ebbe in mano, prese a correre veloce sul marciapiede, fermandosi in mezzo a un’aiuola lontana.
Horace si stava arrampicando su per un lampione a sistemare il proprio, quando Nick tornò e ne prese sottobraccio quattro. Horace fece lo stesso, e iniziò a vagare per la strada come un ossesso, strappandole i vasi di mano di proposito, in modo sempre più brusco. Linda allora cominciò a correre con il carrello giù per la strada, facendo tintinnare pericolosamente gli ultimi due vasi, mentre Horace le veniva dietro.
Nick allora riuscì a fermarla da davanti: nell’impatto, i vasi saltarono. Orripilati, si lanciarono tutti in volo per prenderli: Linda sbatté la testa contro Horace, ma prese comunque il vaso per l’orlo e lo tenne stretto. Il carrello, intanto, si rovesciò e cadde dritto nella loro pancia.
“L’HO PRESO!” urlò Nick, poco distante; subito dopo, si industriò a rimettere a posto il carrello e a sistemare il loro vaso.
“Abbiamo fatto?” esclamò Horace allora, rialzandosi come se non fosse stato niente.
“Sì! Tutti posizionati!” rispose Nick entusiasta.
Linda, però, non si sentiva granché bene.
Horace le porse la mano per aiutarla.
“Tutto a posto?”
Provò ad alzarsi, ma sentì un male terribile alla pancia.
“Non lo so… dammi un attimo, magari.”
“Va bene.”
Allora si sedette accanto a lei, sull’asfalto, ad aspettare.
Per fortuna, sentì che il dolore alla pancia stava pian piano diminuendo. Si tirò su di scatto e riuscì finalmente ad alzarsi.
“Adesso dovete entrare!”
“Sì. Nick, vieni qua: vai prima tu, sei più alto.”
Nick si assicurò che la cerniera fosse del tutto aperta: alzò una gamba e la lasciò scivolare delicatamente dentro; poi infilò anche l’altra e si accucciò strettissimo. Ci stava davvero.
“Linda, il tuo compito è chiuderla e nasconderci dove abbiamo messo le valigie. È stato un piacere conoscerti.” Le strinse calorosamente la mano, e si tuffò dentro con nonchalance. Il carrello traballò e si mosse un po’ in avanti: Linda lo raddrizzò e lo portò dietro a quell’edificio abbandonato.
“Be’, alla prossima allora!” disse, dando due colpetti sulla pelle del carrello valigia.
S’era già girata, quando sentì:
“Noi andiamo in Australia! A Wood Wood!” 
La voce di Horace da dentro.
“Wood Wood?”
“Sì, Wood Wood!”
“Mai sentita!”
“Infatti! Se vuoi puoi cercarla sulla mappa e venirci a trovare!”
Linda annuì, anche se non potevano vederla.
“Va bene. Allora ci troviamo lì!”

 

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Capitolo 2
*** All'altro capo del mondo II ***


3 luglio 1968


“Ti lascio qui, allora?”
Sul cartello era scritto a caratteri in rilievo: “BENVENUTI A WOOD WOOD”. 
Linda rise.
“Allora, Linda? Lo hai l’indirizzo?”
“Certo. Non preoccuparti Carl, va bene? Ci ritroviamo qui stasera.”

Il caldo cominciava a farsi sentire e Wood Wood era più grande di quel che avesse previsto.
Linda si fermò per bere dalla borraccia.
Che aspetto poteva avere la loro casa?
“Una tenda…?”
Non ne aveva la più pallida idea, ma a ogni passo si sentiva più soddisfatta e più innamorata della sua follia.
Sapeva che li avrebbe incontrati di nuovo.
Svoltò per un sentiero, e scorse, in lontananza, il parco.
“Potrebbero essere lì…!” capì all’improvviso, e iniziò ad andare più spedita.
Entrò, e si ritrovò immersa da alberi altissimi.
Il sole picchiava sempre più forte, mentre la seguivano canti di uccelli esotici.
Camminava sull’umido: vicino doveva esserci una qualche fonte d’acqua.
Continuò, continuò, e sentì lo scrosciare prima di un torrente, poi di una cascata.
Scese giù verso la pianura, all’ombra delle foglie, e la vide precipitarsi giù in un piccolo lago.
Abbandonò lo zaino per terra e si lavò la faccia, le braccia: il sole le splendeva ancora in fronte.
Attraverso la luce vide qualcuno, seduto sulla riva.
Si avvicinò, passo passo… e rise.
“Nick!”
Lo riconosceva, lungo come era, con i riccioli biondi e lo sguardo un po’ allucinato.
Si alzò in piedi e le sorrise, con un po’ di imbarazzo, allargando le braccia.
“… ehi. Ce l’hai fatta, allora! Sei venuta…”
“Sì! I miei già pensavano di fare una vacanza in Australia qui vicino, e quindi… in realtà stavo cercando la vostra casa. Non ho potuto guardare sull’elenco, perché siete scappati e perché non so il vostro cognome, quindi sto tirando a indovinare.”
“Ah… oh, no, è vero! Non ti abbiamo potuto dire…”
“Oh, non importa! Mi sto divertendo!”
Nick fece un sorriso storto.
“Ti accompagno o vuoi continuare a cercare?”
“Accompagnami. Mentre mi accompagni, provo.”
“Va bene. Dove pensi che viviamo?”
Iniziarono a camminare, e Linda indicò un luogo indefinito dietro gli alberi.
“Con i sacchi a pelo, e venite qui a pescare”
“Oh, no. Non pescherei qui. Comunque, no. Abbiamo una casa.”
“Avete? In affitto?”
“No, no, è nostra.”
Linda si fermò, stupefatta.
“Come… ma avete rubato i soldi ai vostri genitori? Vi siete messi a spacciare droga? Come avete fatto? Siete veramente degli spacciatori, allora…?”
Nick rise per la prima volta.
Sembrava molto più a suo agio rispetto alla prima volta. Linda ne fu felice.
“No. Abbiamo solo preso i nostri soldi dalla banca. Ci spettavano, perché…”
Linda aspettò, ma Nick esitava a continuare.
“Perché?”
“Ci spettavano e basta.” Concluse, distogliendo lo sguardo “È qui dietro, comunque.”
Linda scoppiò a ridere.
“Come, qui? Nel parco?!”
“Sì, nel parco.”
“Certo, come no! Nel parco!”
Nick fece spallucce e arrivò alla svolta.
“Vieni a vedere, allora.”
Linda sgambettò fino a raggiungerlo, e guardò avanti…
Era rivolto verso una grande villa a tre, quattro piani, adombrata da alberi vicino, con una serra dietro e una piscina davanti.
Così Linda scoppiò a ridere di nuovo.
“Vendevano il garage?”
“Lo vuoi comprare?”
Linda scosse la testa, con una smorfia di confusione.
Non si capiva se stesse scherzando o no, finché non rise anche lui.
“Non lo vedi perché è dall’altra parte. Abbiamo una bella macchina. Io non guido, ma Horace può portarti a vedere Wood Wood, se vuoi.”
“Questa non è la vostra casa” Linda cercava conferma.
“Sì che lo è. È troppo grande, è vero, ma l’abbiamo scelta per via della serra. Non sono molto bravo con le piante, ma ci provo…”
Iniziò a dirigersi verso il cancello.
Linda si mise una mano sul viso.
“Ma come è possibile…”
“Non abbiamo tante cose, ma i soldi sì. Non che li vogliamo. Li abbiamo spesi per sbarazzarcene. Ora stiamo cercando di capire come impiegare gli altri…”
“Ne avete ancora…?”
Nick annuì con aria scocciata, come se gli desse fastidio, e girò le chiavi nelle serrature del cancello.
“Troppi.”
Spinse la porta e si aprì.
Vide allora da vicino la piscina: il blu dell’acqua era striato di luce e la pulizia rendeva visibile il fondo. A comporlo erano piccole piastrelle colorate, che insieme formavano un grande fiore blu.
“Lo ha fatto lui” disse Nick “Dovrebbe essere laggiù, comunque. Andiamo!”
“Horace!” urlò Linda, ridendo “Horace!”
La sua voce echeggiò nello grande spazio aperto, quando sentì la risposta:
“Linda!”

Horace si girò a guardare.
“Dovrebbe essersi addormentato, adesso…”
“Che vuoi fare?” Linda chiese, con tono di sfida.
Horace tirò in dentro il labbro, sorridendo.
Non c’era più molto spazio sul divano…
Subito dopo, però, si abbandonò a un gran sospiro.
“Che c’è?”
Horace allora le prese le mani e le strinse.
“Non voglio… fingere. Non voglio ingannarti. Se dobbiamo restare in contatto, rivederci… allora devo essere chiaro. Spiegare perché Nick è sempre così guardingo quando ci sei… perché abbiamo questa casa, perché siamo qui in Australia.”
“Va bene. Dimmi.”
Sentì le mani scivolare fra le sue dita.
Si girò dall’altra parte sul divano e sospirò ancora.
“Sono un cretino.”
“Be’… sì…”
Horace si voltò di nuovo, con buffa pazienza.
“Lo sono davvero, però.”
Giunse le mani e finì per guardare il soffitto.
“… oppure te ne puoi andare adesso. Ci siamo divertiti oggi, no? Quanto rimani a Wood Wood?”
“Sei giorni ancora. Ma ti ho detto di parlarmi! Voglio sentire…”
“Non sai quello che stai per sentire.”
“Allora dimmelo!”
In faccia aveva un sorriso triste.
“Sono cose molto serie.”
“A maggior ragione. Me ne intendo, di cose serie. Se posso aiutarti…”
Linda gli prese di nuovo la mano.
Horace la tenne, e aprì con ansia la bocca.
“Vedi… nostro padre è…”
“Un mafioso?”
Horace corrugò la fronte e abbassò gli occhi.
Linda gli strinse più forte la mano.
Non poteva crederci.
“Non è un mafioso” disse allora.
Linda sentì il cuore ricominciare a battere.
“Ma…”
Le tirò in su il braccio guardandola negli occhi.
“… ha commesso dei crimini. Adesso è a piede libero e purtroppo nessuno sa dov’è.”
“Scherzi…?”
“No. Senti… quando ti parlavo del fatto che abbiamo un’elfa domestica. Noi siamo dei maghi, Linda.”
La ragazza a quel punto si alzò. Era inquietata.
“Cosa stai dicendo?!”
“Sto rovinando tutto. Te l’ho detto che sono un cretino. Però è vero, Linda” si alzò in piedi e la raggiunse “Ti prego, credimi, perché io e Nick non c’entriamo niente. Non ne vogliamo più sapere. Per questo siamo qui, per essere liberi! Se puoi, ascolta ancora, così che poi possiamo non pensarci più!”
“Va bene” Linda annuì. Non seppe perché, ma lo fece.
“Dimmi: come è finita la Seconda Guerra Mondiale?”
“Cosa? Gli Stati hanno trovato un accordo e hanno smesso di combattere. Cosa c’entra?”
Horace allora prese dei vecchi giornali dalla cassettiera vicino e li mise sul tavolo.
Uno era un New York Times, e aveva come titolo:
“I MAGHI SONO FRA NOI. GRINDELWALD HA POSTO FINE ALLA GUERRA”
“Chi è Grindelwald…?”
Horace le indicò l’articolo.
“Il Mago rivoluzionario, Grindelwald, è intervenuto con blitz immediati in tutti i conflitti in corso, fermando i soldati e recuperando i feriti. È in atto la deposizione del Primo Ministro inglese…”
Linda era atterrita.
“Ho molte altre copie in cantina” spiegò Horace “Se le vuoi vedere… ma leggi il giornale dopo…”
L’altro giornale era strano. Si chiamava “La Gazzetta del Profeta” e le immagini si muovevano… in quella più grande c’era un uomo che sembrava Horace…
“LA STRAGE DI TOM RIDDLE”
“La battaglia al Ministero ha visto la fuga dell’assassino di Silente, Grindelwald e innumerevoli altri, nonché il possibile nuovo Mago più potente al mondo: Tom Riddle. Attualmente, si ignora la sua posizione: gli Auror superstiti si dividono fra l’indagine e la preparazione di un carburante da immettere nei mezzi Babbani, contenente Obliviate. L’incantesimo è stato perfezionato perché faccia dimenticare ai non Maghi le memorie relative a questi giorni, sostituendole con altre che certifichino un intervento diplomatico straordinario da parte dei Presidenti dei loro Paesi.”
“È esattamente quello che diceva mia zia…” Linda scuoteva la testa “Non era pazza…”
“L’Incantesimo non ha funzionato su tutti” spiegò Horace “I non Maghi nelle campagne, poco a contatto con le macchine, ricordano ancora quello che è successo…”
“E lui… è lui tuo padre, Horace?”
Il ragazzo sospirò senza rispondere.
“Non ho mai saputo niente… fino al giorno prima che i miei fratelli iniziassero la scuola. Si siede lì…” indicò una distanza approssimativa “... ci guarda negli occhi, dice… ‘Sono un assassino.’”
Linda sentì le lacrime salirle agli occhi.
“E ci fa vedere questo stesso giornale.”
Horace, però, sembrava risoluto.
“Ero un bambino felice, prima. Giocavo, mi divertivo, avevo tanti amici. Dopo… quello, non dissi più una parola per mesi. Aveva detto che era cambiato ed ora era solo il padre che avevamo conosciuto e che ci amava: ma io non ce la facevo più a fidarmi e non parlavo, più che altro per vergogna. Mi facevo capire dagli altri a gesti. Mia madre mi implorava e lui insisteva, insisteva, da solo con me, dicendo che era cambiato… anche i miei fratelli insistevano, perché avevano voluto credergli... E cedetti. Finalmente, gli credevo anche io, perché non ce la facevo più ad essere arrabbiato, ad essere triste, a vederlo diversamente da come lo avevo sempre visto... e poi, sei mesi dopo la ‘confessione’… mio padre sparì. Passò una settimana e mia madre venne a sapere che aveva ucciso nostro nonno. Ed ecco che non era mai cambiato.”
Sul suo viso apparve un disgusto orribile.
“È stato come… rendersi conto che mio padre, quello di prima, a cui avevo voluto così bene e ammirato così tanto… anche quello già assassino che si era anche fatto perdonare... non era mai esistito. Mai. Aveva mentito, sempre, così come aveva fatto isolandoci dal mondo e dagli altri Maghi, così che non venissimo a sapere dei suoi crimini. Mia madre era stata complice perché credeva nel suo cambiamento, ma…”
Sospirò.
“Capisci che… se ho dovuto aspettare che Nick si addormentasse, è perché solo sentire il suo nome lo fa stare male. Saremmo dovuti rimanergli accanto una notte intera. Forse anche domani mattina. Tutto questo, mentre Xelas si è fatto una schiera di seguaci e si è messo in testa di emularlo, per ‘renderlo fiero’, e il resto del nostro Mondo è convinto che è nostro dovere affrontarlo… quando noi non abbiamo fatto niente per meritarcelo!”
A quel punto Linda si alzò dal divano, con le mani instabili sui fianchi.
Improvvisamente, Horace parve devastato.
“Mi dispiace, mi sono messo a parlare… perché mi piaci, e…”
Linda deglutì e distolse lo sguardo.
“Non ero pronta a sentire… tutto questo” disse lei, con voce tremante.
“Lo so, e mi dispiace. È che sento di non poterne parlare con nessuno… sono successe tante, tante altre cose. Io… ho lasciato tutto, venendo qui. Non solo la mia famiglia, ma anche i miei amici. Ho tenuto dei segreti, per tanto tempo e ora, giustamente, ce l’hanno con me.”
Linda rimase ferma, in piedi, mentre lui era piegato in avanti, sul divano, con le braccia distese sulle gambe.
Aveva una domanda che aveva paura a fare, ma le uscì dalla bocca:
“Perché dovrebbero avercela con te, però? Hai detto che non hai fatto niente…”
Horace alzò subito la testa, con preoccupazione.
“Non so se… forse è meglio che non ne parliamo più.”
“Questo riguarda te, però. No?”
“Be’… sì, riguarda me. Ma…”
Horace sorrise, come lo aveva visto fare la prima volta.
“Io sono come mi hai visto, Linda. Un… mezzo artista, ecco. Mi piace creare e faccio quello che posso. Modello vasi, come hai visto, li decoro e poi Nick li riempie di fiori. Questo è tutto quello che voglio.”
Linda rispose spontaneamente al sorriso.
Ma la paura e la curiosità non erano finite.
“Però hai detto che ce l’hanno giustamente con te… solo con te, non con tuo fratello?”
Linda vide la luce sparire dai suoi occhi.
“Scusa, ma avevi detto che non volevi fingere con me, Horace. Il resto, mi hai spiegato, non ti riguarda davvero… ma questo sì.”
“Quanto ho sbagliato.” Commentò Horace, battendo le palpebre “Ti avrei dovuto lasciar andare. Scusa, Linda, ma se ti rispondessi… daresti ragione ai miei amici, e forse non riuscirei a sopportarlo…”
Esitò per sospirare, e continuò:
“Tutti gli anni a nascondermi, a soffrire! Io… non tornerò indietro. Non ora che sono libero. È deciso e basta.”
Linda annuì, con un’espressione confusa.
“Mi dispiace davvero tanto, Horace. Ora, però, è un po’ tardi…”
“Ti accompagno a casa, se vuoi.”
“… ma mi dispiace lasciarti.”
Linda si sedette di nuovo sul divano e gli prese la mano.
“Lo so che è stupido. È la seconda volta che ci vediamo e mi hai appena detto delle cose… fuori dal mondo. Per qualche motivo, però, sembrano vere… sento che ho paura, quindi sto sbagliando, ma… ”
“Ho scaricato i miei problemi su di te. Non è giusto.”
“Hai detto che non avevi nessun altro con cui parlarne.
Horace scosse la testa.
“Io voglio che tu ti fidi di me… ma ovviamente capisco che dopo tutte queste follie tu voglia solo scappare.”
“Ma vedi… forse è che non mi sembrano così tanto delle follie. Anche se più in piccolo, è tutto molto meno grave, ma sto vivendo anche io quello che provi tu.  Penso spesso di scappare dalla mia famiglia, che mi controlla e mi sta sempre addosso… mio padre, soprattutto. Devo mentire pur di potermi vedere con dei ragazzi che loro non conoscono… quindi non posso farmi accompagnare da te. Adesso devo andare al punto di ritrovo con mio fratello, a cui ho detto che mi vedevo con una mia compagna che si è trasferita in Australia. Il punto è… anche io voglio la libertà.”
Horace le lasciò la mano.
Aprì la bocca, ma poi si trattenne.
“Parla” lo spronò Linda, seriamente.
“Volevo dire… se possiamo essere liberi insieme e rivederci, una volta.”
“Va bene” Linda allargò le braccia.  
Horace allora le rivolse un sorriso pieno di gioia.
Era troppo contagioso e scoppiò a ridere.
“Riesci a tornare?”
“Sì, non ti preoccupare.”
“Allora andiamo sino al cancello.”
Uscirono insieme dalla porta principale; Linda si ritrovò davanti la notte stellata e costeggiarono la piscina che la specchiava.
Horace le camminava a fianco: Linda gli prese la mano per tenerlo più vicino, e sentì una strana commozione.
Le aveva detto che gli piaceva la seconda volta che si erano visti, ed era tutto assurdo, ma… in qualche modo, nella sua testa, tutto aveva un senso.
Quei giorni in cui aveva fantasticato sul parlargli, baciarlo… non era successo niente del genere, ma Linda voleva rivederlo ancora.
Erano finalmente arrivati al cancello.
Horace lo aprì delicatamente e disse:
“Torna per trovare gli altri vasi. Te ne mancano quattro.”
“Manca il retro della casa…”
“Non c’è solo quello, però. Ci sono moltissime possibilità. Dopotutto, un bel vaso non sfigura da nessuna parte. Nemmeno su un…”
Horace aspettò che finisse la frase, ma Linda si limitò a ridere.
“Un te…” continuò Horace, incoraggiandola con lo sguardo.
“Sul tetto?!”
“Te lo sei perso. Abbiamo troppi piani, perché.”
“Eh, sì. Allora ciao, Horace” disse Linda, col petto impazzito.
Lui fece un cenno con la testa. Mentre usciva dal cancello, si infilò in mezzo, le passò delle chiavi e un grosso fischietto colorato ed esclamò:
“Quelle ti servono per aprire il parco, e quello… be’, fa’ un fischio quando arrivi.”
“Un fischio?”
“È un trucco… magico.” disse, facendole l’occhiolino “Tu non sentirai niente, ma io sì. Fischia una volta, se va tutto bene. Due, se avessi bisogno di aiuto.”
“Ah! Fischierò mille volte stasera, allora. Mio padre mi aspetta…”
“No, davvero. Usalo… e verrò a salvarti.”
“Che principe…”
“Certo. Il miglior principe.”
“Ciao allora, Horace.” Linda sospirò “Nel caso partissimo improvvisamente domani mattina… spero che tu risolva tutto con i tuoi amici, e… auguro il meglio, a te e a Nick.”
Horace abbassò il collo, in una specie di mezzo inchino.
“Auguro io il meglio a te. Ciao, Linda.”

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Capitolo 3
*** Horace ***


10 febbraio 1956

“Ehi, tu! Come ti chiami?”
Il bambino sorrise subito e rispose con entusiasmo:
“Horace!”
“Ah!”
La signora gli sorrise e annuì.
“Che bel bambino” disse, rivolgendosi a Vera “Scommetto che è anche bravo a scuola.”
“Be’… diciamo che non ha mai avuto molte difficoltà” rispose lei, con un po’ di esitazione e un mezzo sorriso.
“Lo sapevo” la signora sospirò, guardando ancora il bambino “Sai, ho un nipotino della tua età… Micheal. Non è molto studioso, purtroppo: lascia i libri sul tavolo, va a giocare… e poi la mattina dopo si becca le urla delle maestre.”
“Oh, non creda, anche lui” spiegò Vera, tenendolo d’occhio “Non gli piace molto stare fermo.”
“Ah! Però alla fine prendi sempre buoni voti, vero?”
“Sì!” esclamò Horace, entusiasta.
“Sì, ma solo perché a un certo punto o io o suo padre gli veniamo a portare i libri. Allora, se ne ha voglia, studia; altrimenti si fa spiegare la lezione dai suoi fratelli la mattina stessa.”
La signora continuava a sorridere, ma pareva un po’ imbarazzata: il bambino, infatti, si era rabbuiato molto.
“Non fai così, Horace?” gli chiese Vera, con fare apprensivo “Sai, non puoi dire alla signora di essere studioso quando non lo sei. Non è vero e basta.”
 Horace tirò in dentro il labbro.
“Sono sicura che fai abbastanza” disse la signora, sorridendogli.
“Lei non lo conosce” Vera negò, con sicurezza.
Horace deglutì, abbassando il capo.
“Mi dispiace, ma mio figlio non è perfetto. È un bambino normale, probabilmente non molto diverso da suo nipote. Perciò, mi scusi, ma non credo sia il caso di fare questi confronti. ”
“Non ho mai detto che suo figlio è perfetto!” replicò la signora, ora offesa “Gli ho solo fatto qualche complimento…”
“Va bene. Mi dispiace, ma sembrava un po’ esagerato. Non è la prima volta, ecco.” Vera sembrava molto tesa: guardò Horace, sempre più cupo.
“Voglio che mio figlio si ricordi sempre di essere umile… perché è un bambino come tutti gli altri.”
“Ma deve pur riconoscere i suoi meriti!”
“Lei li ha appena elencati, no? Bello, intelligente, studioso! Poi?! Si è sbilanciata abbastanza, mi pare!”
La signora scosse la testa, con disapprovazione, mentre lui sembrava sul punto di piangere.
“Horace… per favore. Andiamo, adesso.”
Vera lo prese per mano e lo portò via in fretta, tesissima.
Horace la seguì, con il naso che si chiudeva e gli occhi rossi.
“Ascolta…” Vera cominciò, con voce ansiosa “Non posso lasciare che degli sconosciuti ti facciano montare la testa. Certo che sei… un bravo bambino, ma non sei perfetto. E io non voglio lasciare che tu lo creda, perché non è così, e non ti fa bene.”
“Sì, mamma.”
“Tutte queste donne vengono da me e fantasticano su una vita grandiosa, prendendo te come esempio… ma tu non sei diverso dagli altri” insisté Vera, con la rabbia nella voce tremante “No! Non lo sei!”
“… lo so.”
“Sì. Lo sai. Per favore, non dimenticarlo. Anche quando non ci sono io… non dimenticarlo più.”

 

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Capitolo 4
*** Non impari mai ***


30 aprile 1956

“Ma secondo te la mamma ci sgrida?” gridò Horace, arrampicato sul ramo di un albero.
“Lo abbiamo invitato. Lui ha detto che voleva rimanere a casa” rispose Xelas, seduto sul ramo sotto.
“Sì, ma secondo me ci sgrida” disse Horace, con gravità “Perché lo abbiamo lasciato solo. Anche se ci divertiamo di più senza di lui…”
Xelas scosse la testa.
“Infatti. E poi Nick sta sempre da solo.”
“Non so perché. Stare da soli è noioso. Perché non ci vuole?”
“Perché è strano” rispose Xelas, con aria saccente “E’ sempre strano Nick.”
“Sì, è vero.”
Xelas saltò a terra, con un tonfo; Horace saltò subito dopo, da molto più in alto, e cadde accovacciato, a fatica.
“Devi cadere in piedi” gli disse allora.
“Lo so. La prossima volta cado in piedi sicuro!” esclamò Horace, facendo un mezzo cerchio con la mano.
Camminarono ancora un po’, finché arrivarono al ciglio, davanti al torrente.
“Horace!” chiamò allora Xelas, con aria di segretezza.
Allora bambino porse l’orecchio al fratello, che disse piano:
“Se ti butti con tutti i vestiti, ti faccio un regalo”
“Un regalo?” Horace esclamò, tutto emozionato.
“Sì” rispose Xelas, con sicurezza “Non dire niente a mamma e papà, però.”
“Ma me lo fai davvero, eh? Non è uno scherzo?” si assicurò Horace, un attimo dubbioso.
“Certo che te lo faccio! Però ti devi buttare tra cinque… quattro… tre…”
Il bambino corse velocissimo e si tuffò con leggerezza in acqua.
Dopo qualche secondo riemerse, sputando un po’, ma pieno di energia.
“Adesso devi arrivare dall’altra parte del fiume” gridò Xelas “In trenta secondi!”
“Ma…” protestò debolmente Horace, tenendosi a galla.
“Non ho detto che dovevi solo tuffarti. Se vuoi fare il regalo, devi fare queste cose: se sei stanco, ti arrendi. Va bene?”
“Va bene. Allora vado!”
“Aspetta un attimo! Devo iniziare a contare.”
Horace cercò di rimanere il più immobile possibile, restando in acqua; Xelas si schiarì la voce e cominciò:
“Allora… trenta, ventinove…”
Il bambino iniziò a muoversi, frenetico, con i vestiti appiccicati al corpo, mentre la corrente gli remava contro e lo spostava sempre più in basso.
“Venticinque, ventiquattro…”
Usando tutte le sue forze, riuscì a resistere e proseguire, ma era ancora molto vicino alla riva.
“Ti devi muovere! Venti, diciannove, diciotto…”
“È forte!” urlò Horace.
“Ti arrendi? Sedici…”
“No! no-”
All’improvviso mentre parlava fu investito da acqua più alta, e scomparve sott’acqua.
Tornò a galla subito dopo; aveva bevuto, ed era più lento.
“Tredici, dodici…”
Horace si gettò in avanti, per affrettarsi: continuava con pesanti spruzzi e tonfi, oltrepassando finalmente la metà.
“Otto, sette… Horace, se continui così…”
“MMHH!”
Il bambino proseguì, velocissimo, sempre sospinto in basso.
“Quattro, tre, due…”
Toccò l’altra riva. Alzò la mano, per indicare che era arrivato.
“Sali!”
Sospirando per la fatica, Horace si tirò su con entrambe le braccia e toccò terra prima con una gamba, poi con l’altra.
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!”
“Bravo!” Xelas rise.
“Cos’è il regalo?!”
“Allora… il regalo è, che se riesci a rifarlo subito e arrivi a casa prima di me, puoi usare tu la scopa.”
L’espressione di Horace cambiò in un attimo.
“Ma… mi avevi detto…”
“Ci sei cascato ancora.”
“Ma… avevi detto che…”
“Devi smettere di cascarci, Horace! Non impari mai!”
Ciò detto, Xelas gli voltò le spalle e cominciò a correre.

 

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