Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Non mi avete fatto niente
Non mi avete tolto niente
Questa è la mia vita che va avanti
Oltre tutto, oltre la gente
Non mi avete fatto niente
Non avete avuto niente
Perché tutto va oltre le vostre inutili guerre
Ma contro ogni terrore che ostacola il cammino
Il mondo si rialza col sorriso di un bambino…
(“Non mi avete fatto niente” – Ermal Meta, Fabrizio Moro)
Il ragazzo era giunto a Firenze il giorno prima e
adesso si trovava davanti alla Cattedrale incompiuta di Santa Maria del Fiore.
Era incantato dalle dimensioni di quella chiesa, dalla sua bellezza ed eleganza
e… si chiedeva perché accidenti non l’avessero finita di costruire! Senza la
cupola, di sicuro non era agibile, a meno che non la usassero d’estate per fare
le celebrazioni religiose al fresco!
Tuttavia non era per ammirare la Cattedrale che era
venuto a Firenze, bensì per incontrare Cosimo de’ Medici. Sarebbe dovuto pur
passare da quelle parti e lui ne avrebbe approfittato per parlargli.
Il problema, caso mai, era un altro: lui conosceva il
Medici di fama, certo, ma non lo aveva mai visto in vita sua, come avrebbe
fatto a riconoscerlo, se pure gli fosse passato davanti? A questo non aveva
pensato, quando era partito da casa sua, a Siena… Beh, pensò, era l’uomo più
importante di Firenze, in qualche modo si sarebbe fatto notare più degli altri,
no?
Il giovane aveva visto giusto, o magari fu solo
questione di fortuna. Qualche minuto più tardi vide passare proprio davanti
alla Cattedrale un uomo elegante, dall’aspetto austero, accompagnato da un
ragazzo. L’uomo si fermò e indicò al giovane che lo accompagnava qualcosa in
alto, dove ci sarebbe dovuta essere la cupola, dicendo qualcosa che il nostro
protagonista non riuscì a udire. Poi un altro uomo passò accanto ai due e li
salutò.
“Buongiorno, Messer Medici, buongiorno, Messer Piero”
disse il passante, con un sorriso, e i due ricambiarono cortesemente il saluto.
Il cuore balzò nel petto del giovane: eccolo, era
quello Cosimo de’ Medici, e il ragazzo doveva essere suo figlio… Sorrise. Piero
doveva avere più o meno la sua età.
Il ragazzo si fece ardito e si incamminò deciso verso
Cosimo.
“Buongiorno, Messer Medici. Potrei scambiare una
parola con voi, per favore?” gli domandò.
Cosimo, sorpreso, si fermò a guardare il giovane
sconosciuto che gli aveva parlato. Era davvero molto giovane, un ragazzo di non
più di sedici o diciassette anni, vestito con abiti semplici ma ordinati e
puliti. Occhi e capelli castani e un volto aperto, che ispirava fiducia. Il
rapido esame di Cosimo promosse il
giovane interlocutore e il Medici si mostrò disponibile ad ascoltarlo.
“Vorrei sapere prima il tuo nome, ragazzo, poi potremo
parlare” rispose.
“Mi chiamo Giovanni, Messere, Giovanni...” e qui ci fu
una rapida esitazione, che però non sfuggì a Cosimo. Insomma, non stava
conquistando il potere a Firenze facendo la figura del fesso! “Giovanni
Ranieri. Sono giunto a Firenze proprio ieri da Siena e desideravo molto
incontrarvi.”
Da come Cosimo lo fissava, Giovanni si rese conto di non
essere credibile proprio per niente e quindi cercò di rimediare, finendo per
incartarsi ancora di più.
“Mio padre mi parlava molto bene di voi, nutriva una grande
stima nei vostri confronti, Messer Medici, diceva sempre che avreste fatto
grandi cose per Firenze e… beh, io ho pensato che sarebbe stato bello poter
lavorare per voi, per questo sono venuto” proseguì il ragazzo, intuendo
vagamente che la sua posizione era sempre meno solida. “Lui è morto due mesi fa
e io non avevo ragione di rimanere a Siena.”
“Non hai nessun altro della tua famiglia?” gli chiese
il Medici, continuando a scrutarlo.
“Mia madre è andata a vivere con il mio fratello
maggiore, Lapo, che a Mantova è capitano delle guardie, e gli altri miei due
fratelli seguono la carriera militare a Verona” rispose Giovanni, “ma io volevo
venire a Firenze. Ho sognato di Firenze per tutta la vita, grazie ai racconti
di mio padre e di mio nonno e…”
S’interruppe, a un tratto timoroso di aver detto fin
troppo.
“Tuo padre e tuo nonno erano di Firenze, quindi”
riprese Cosimo che sì, gli stava facendo il terzo
grado, ma aveva ben ragione di sospettare in quel clima di tensioni e
intrighi e anche un ragazzino apparentemente innocente come quello poteva
essere inviato da qualche nemico.
“Tutti noi siamo di Firenze” replicò il ragazzo, con
un lampo fiero nello sguardo, che subito cercò di nascondere. “Cioè, i nostri
antenati erano di Firenze e…”
Quelle parole inaspettate incuriosirono Cosimo che
decise di scoprire di più su quello strano ragazzo, però prima preferì
allontanare il figlio e mandarlo a casa, al sicuro. Insomma, non si poteva mai
dire, magari era un attentatore in erba!
“Piero, aspettami a palazzo, io ti raggiungerò presto”
disse. Il giovane avrebbe voluto protestare, si era incuriosito anche lui e
voleva capirci di più sulla storia di quello sconosciuto che aveva rimorchiato suo padre davanti alla
Cattedrale, ma dovette obbedire.
“Dunque tu sei venuto a Firenze perché i tuoi antenati
erano di qui” ricapitolò Cosimo, “e adesso vorresti metterti al servizio della
famiglia Medici?”
Di nuovo quel lampo fiero negli occhi del ragazzo, che
proprio non ce la faceva a dissimulare più di tanto quando venivano toccati
certi argomenti…
“Io non sono al servizio
di nessuno! Vorrei lavorare per voi, come un impiegato della vostra Banca, ad
esempio, perché ammiro quello che state facendo per Firenze e…”
“Va bene, ragazzo, cerchiamo di parlarci chiaro.
Questo non è un buon momento per Firenze, il lavoro manca per tutti, la gente
finisce per strada a causa delle tasse imposte per la guerra contro Lucca”
spiegò Cosimo. “Non capisco perché dovrei dare lavoro a uno sconosciuto che non
mi dice nemmeno la verità.”
Beh, era vero che i Medici aiutavano il popolo e che
Cosimo stesso, quasi vent’anni prima, aveva raccolto dalla strada Marco Bello
facendone poi il suo uomo di fiducia, ma a tutto c’era un limite!
Giovanni trasse un lungo sospiro e chinò il capo.
“Io non vi ho mentito, Messer Medici” disse, “è vero
che la mia famiglia è originaria di Firenze e che mio padre e mio nonno
ammiravano tutto ciò che voi e vostro padre avete fatto per la città. E’ vero
che i miei fratelli e mia madre sono andati a vivere a Mantova e a Verona e che
io, invece, ho inseguito il sogno che ho sempre avuto e sono venuto a Firenze.
Spero che voi mi possiate aiutare, Messer Medici.”
“Potremmo cominciare da una cosa molto semplice: il
tuo nome è veramente Giovanni Ranieri?” lo incalzò Cosimo. Da un lato era
ancora sospettoso, dall’altro, però, il coraggio del ragazzo lo aveva colpito:
rimasto solo, era venuto a Firenze per inseguire il suo sogno, cosa che lui non
aveva avuto modo di fare alla sua età.
“Io… non proprio” ammise il giovane. “Io mi chiamo
Giovanni, sì, ma Ranieri era il nome di mio padre. Si chiamava come un suo
antenato, un valoroso capitano delle milizie fiorentine. Non ero sicuro di
poter dire il nome della mia famiglia perché per tanto tempo è stato un nome
che a Firenze non si poteva nemmeno pronunciare, ma adesso io sono sicuro che,
con voi, le cose potranno cambiare!”
Ora il Medici sembrava più confuso che sospettoso.
“Un capitano delle milizie fiorentine? Ranieri? Non è
un nome che conosco…”
“Perché è più noto come Neri” riprese Giovanni, e c’era di nuovo quella luce di orgoglio
nei suoi occhi. “Neri degli Uberti, il fratello del grande condottiero
Farinata… e da Farinata degli Uberti discende la mia famiglia, ecco.”
Questa rivelazione scombussolò non poco Cosimo. Era
vero, la famiglia Uberti era stata una delle più antiche e nobili famiglie
fiorentine del Duecento, ma poi era stata sconfitta dai suoi avversari politici
(tra cui c’erano anche i Pazzi, quelli ci sono sempre, alla fine!), i
possedimenti confiscati e distrutti, i discendenti perseguitati e costretti
all’esilio, perfino le spoglie mortali di Farinata e di sua moglie Adaleta
erano state profanate e i guelfi vincitori si erano impegnati a distruggere la
loro memoria. Non c’era da stupirsi che, anche dopo tanti anni, il ragazzo
temesse una reazione negativa.
Oddio, a quanto pareva non è che a Firenze i bei tempi antichi fossero poi tanto
diversi da quelli in cui si trovava a vivere Cosimo con la sua famiglia!
Tuttavia, almeno per quanto riguardava gli Uberti, le
cose erano cambiate: non c’erano più le divisioni tra guelfi e ghibellini (in
compenso c’erano tante altre cospirazioni e trame non meno torbide, ma vabbè…)
e negli ultimi anni a Firenze il nome di Farinata degli Uberti, la sua nobiltà
d’animo e il suo impegno al concilio di Empoli per la salvezza della sua città,
che i rivali volevano radere al suolo, erano state riconosciute e onorate. E
lui stesso, Cosimo de’ Medici, ammirava quella figura e spesso si ispirava a
lui nel suo impegno per evitare altre guerre civili a Firenze. *
“Tu dunque sei un Uberti” commentò, comprendendo
adesso perché il giovane apparisse così dignitoso pur in abiti semplici e la
motivazione della fierezza che spesso illuminava il suo sguardo. “Ma perché
volevi parlare con me? Come potrei aiutarti?”
“Messer Medici, la vostra famiglia è in ascesa a
Firenze e il vostro prestigio e potere crescono ogni giorno” replicò Giovanni,
con veemenza. “Sono convinto che, se voi parlaste in favore della mia famiglia
e dei miei antenati, gli Uberti tornerebbero ad essere rispettati nella nostra
città.”
“Credo che tu mi stia attribuendo un potere che non
possiedo, ragazzo” disse Cosimo, adesso intenerito da Giovanni e dal suo zelo
per il nome della sua famiglia, “tuttavia cercherò di accontentarti, sebbene
questo non sia davvero un momento favorevole per Firenze. Ma penseremo a una
cosa per volta. Hai un posto dove alloggiare?”
“Potrei dormire in una locanda, come ho fatto
stanotte. Per il resto… sapete che i palazzi degli Uberti sono stati rasi al
suolo e sulle rovine ci hanno costruito il vostro Palazzo dei Priori, no?”
Giovanni aveva pronunciato quelle parole con una punta
di ironia, ma Cosimo poté scorgere la malinconia nei suoi occhi.
“Molto bene, Giovanni, allora sarai ospite a Palazzo
Medici!” concluse Cosimo.
Ecco, come avevo detto, a lui piaceva raccattare la
gente dalla strada… era fatto così!
Ma la collaborazione tra Medici e Uberti avrebbe portato vantaggi a entrambi, anche se
ancora non potevano saperlo… e, in un periodo di grande crisi a Firenze, il
giovane discendente degli Uberti si sarebbe adoperato per smorzare le faide che
ancora una volta infiammavano la città, proprio come aveva tentato di fare il
suo illustre antenato circa centocinquant’anni prima!
Fine
capitolo primo
*Questa è una mia “licenza poetica”, non ho idea di cosa Cosimo de’
Medici pensasse di Farinata degli Uberti. So comunque che il granduca Cosimo,
suo discendente, aveva a palazzo un suo ritratto e per questo ho pensato che la
famiglia Medici avesse stima e ammirazione per la figura del nobile fiorentino.
Non ho l’arroganza di piacere a tutti i costi Ma non far di me il bersaglio dei tuoi fallimenti
Ho una madre e un padre
A cui devo davvero tanto
La mia scala di valori parte dal rispetto
Scegli tu se preferisci
Starne fuori o dentro.
Sotto effetto degli affetti mi difenderò da te
E da tutte le tue cattiverie
Sotto effetto degli affetti io mi sento a casa
Mentre la vostra brucia… (“Malelingue” – Emma)
Giovanni si trovava a Palazzo Medici da circa tre settimane e, se la situazione a Firenze si faceva sempre più fosca, con la guerra e le tasse che impoverivano sempre di più il popolo, la presenza di quel ragazzo pareva aver rasserenato i rapporti che, solitamente, erano piuttosto tesi. Lorenzo, il fratello di Cosimo, aveva preso Giovanni in particolare simpatia, considerandolo in un certo senso il figlio che non aveva avuto; Piero e Lucrezia, che aspettavano il loro primo figlio, erano diventati buoni amici del giovane e si sentivano sollevati di avere finalmente in casa un ragazzo più o meno della loro età col quale ridere e scherzare. L’atmosfera di Palazzo Medici era sempre così ansiogena e tetra e, almeno, Giovanni stemperava i vari conflitti che esistevano tra i familiari: Cosimo che non aveva abbastanza fiducia in Piero, Contessina che si sentiva continuamente respinta da Cosimo, Piccarda, l’anziana madre dei due Medici, che sembrava avercela con tutto e con tutti… insomma, cose così.
Tanto per alleggerire le cose, Cosimo aveva deciso di usare le decime destinate al Papa per costruire, finalmente, la famosa cupola della Cattedrale e questa sua scelta, sulle prime, aveva innervosito parecchio il resto della famiglia, poi, però, le cose erano andate migliorando.
“Avete ragione, padre” aveva detto Piero con entusiasmo, ricevendo un’occhiata di approvazione da Cosimo. “Questo permetterà di creare lavoro per la popolazione e risolleverà le sorti di Firenze!”
“Sembrerebbe pazzesco, ma credo proprio che tu abbia ragione” aveva approvato anche Lorenzo. “La gente di Firenze ti sarà grata per aver dato loro un’occupazione e non lo dimenticherà.”
Così, il giorno seguente, mentre Cosimo si trovava nella Cattedrale con il figlio Piero e con Brunelleschi, che esponeva con molta enfasi le sue idee sulla realizzazione della cupola, Lorenzo e Giovanni accoglievano tutte le persone che desideravano lavorare a quell’opera, dividendole secondo le mansioni e offrendo loro qualcosa da mangiare per ristorarsi.
Proprio sul più bello, tanto per rompere le uova nel paniere e forse anche qualcos’altro, giunse a cavallo, direttamente dal fronte di Lucca, Rinaldo degli Albizzi con il figlio Ormanno e squadrò con un’espressione di sincero schifo la scena che gli si parava dinnanzi.
“Cosa state facendo con questa gente, Medici?” domandò, ovviamente senza nemmeno degnarsi di salutare, caso mai gli avesse fatto male alla salute.
“Cosimo ha deciso di iniziare i lavori per la costruzione della cupola” rispose Lorenzo, con un gran sorriso a presa in giro.
“Cosa? Adesso? E non aveva un qualsiasi altro momento per mettere in atto questa idea assurda?”
“Voi portate la guerra e la distruzione, Messer Albizzi, i Medici portano lavoro e ricostruzione” replicò tranquillo Lorenzo.
“Ah, beh, meglio così” commentò sprezzante l’uomo, rivolgendosi al figlio. “Questa follia li porterà più in fretta alla rovina.”
E, con quella frase a effetto, Albizzi si allontanò insieme al figlio. Eppure, prima di andarsene, fece in tempo a sentire la battuta pungente che Giovanni rivolse a Lorenzo.
“Messer Lorenzo, il signore a cavallo è venuto a risollevarci lo spirito, a quanto pare” disse, con un mezzo sorriso. “Dev’essere uno di quelli che vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto!”
Lorenzo scoppiò in una gran risata.
“Più che altro, Rinaldo Albizzi si fa un punto d’onore di mettersi sempre contro la nostra famiglia, qualunque cosa diciamo o facciamo” spiegò.
“Ah, ecco, le cose non sono cambiate poi tanto rispetto ai tempi dei miei antenati” mormorò Giovanni, deluso. Ricordava fin troppo bene le storie sulla famiglia Donati e tutti gli intrighi che avevano tramato pur di rovinare gli Uberti… questo Albizzi sembrava fatto della stessa pasta, purtroppo.
In parole povere, un gran rompiballe!
Comunque non era destino che la cosa finisse lì.
La guerra contro Lucca si stava rivelando sempre più devastante per il popolo di Firenze e Cosimo decise di aggirare l’ostacolo e rivolgersi direttamente al generale Francesco Sforza, che guidava l’esercito dei milanesi, per trattare la pace. Partì dunque con il figlio Piero, senza che la Signoria e i Priori ne sapessero un bel niente, raggiunse l’accampamento dei milanesi e concluse la pace, promettendo a Sforza una bella somma di denaro (gentilmente offerta dalle corporazioni di Lucca perché… beh, sì, il generale Sforza era comunque ancor sempre un mercenario!).
Tutti felici e contenti, dunque… con buona pace di Albizzi che non aveva idea di che cosa fosse accaduto!
Così, un paio di settimane dopo, ci fu un’importante riunione al Palazzo dei Priori per votare se continuare a finanziare la guerra o cercare la pace (l’avevo detto, io, che nessuno sapeva che Cosimo aveva già concluso la pace a modo suo con Sforza…).
Giovanni, per motivi tutti suoi personali, aveva da tempo un gran desiderio di partecipare ad un Consiglio dei Priori e decise di approfittare di quella memorabile giornata, proprio una a caso… Convinse Piero ad accompagnarlo, insistendo sul fatto che, in fondo, lui meritava di essere presente perché era andato con suo padre all’accampamento di Sforza e aveva partecipato agli accordi di pace in prima persona. Non era mica giusto che Cosimo lo avesse escluso dalla riunione dopo quanto aveva fatto, no? No?
Quando entrò nel Palazzo dei Priori, per lunghi istanti Giovanni rimase muto, immobile a fissare quel grande salone pieno di gente e aveva di nuovo quella strana luce negli occhi (capirete dopo il perché!). Solo dopo un po’ si accorse che Albizzi stava pontificando come suo solito in mezzo al salone, incoraggiando i Priori a votare in favore del proseguimento della guerra.
“La vittoria è a portata di mano, una vittoria che darà lustro a tutta Firenze, ma soltanto se continueremo a combattere. Dobbiamo continuare a mostrare a Milano la nostra forza, solo così vinceremo! Questa è la nostra città, questa è la nostra Repubblica!” esclamava, bello convinto, mentre gli ascoltatori parevano, in effetti, conquistati dalla sua innegabile oratoria.
Così tutti si stupirono enormemente quando Giovanni, che era un illustre sconosciuto per quasi tutti i presenti, si fece largo tra la folla degli uditori e si diresse deciso verso i Priori e verso Albizzi, che rimase a metà della sua trascinante arringa e si mostrò piuttosto scocciato per essere stato interrotto. Gli si piazzò davanti e, senza tanti complimenti, disse la sua.
“Avete ragione, Messere, tutti noi vogliamo che Firenze si mostri forte, ma un saggio governante sa anche quando è arrivato il momento di trattare” replicò. “Questa guerra sta logorando Firenze, la gente non ha cibo, non ha lavoro e, mi dispiace tanto deludere le vostre aspettative, ma in realtà il nostro esercito non sta vincendo affatto!”
Nella sala calò un silenzio agghiacciante. Pareva la fine del mondo.
In effetti, quando mai qualcuno si era permesso di interrompere lo show di Albizzi e di rimbeccarlo addirittura davanti a tutti? E poi, chi accidenti era quel ragazzino sbucato fuori dal nulla?
Il Gonfaloniere Guadagni sapeva che avrebbe dovuto bloccare lo sconosciuto ma, in tutta sincerità, provava una certa qual soddisfazione nel vedere qualcuno che, una volta tanto, le cantava in faccia a quell’arrogante di Albizzi ed era anche curioso di vedere come sarebbe andata a finire.
Lorenzo si agitò sul suo scranno e si rivolse a Cosimo.
“Ma cosa ci fa qui Giovanni? Non gli avrai mica dato il permesso di presenziare a un Consiglio dei Priori? Per… per interrompere Albizzi, poi!” disse a bassa voce al fratello.
Cosimo, però, aveva un sorrisetto sul volto.
“Giovanni il permesso se lo è preso da sé e, per quanto riguarda Albizzi, tra poco avrà un’altra sorpresa ben poco gradita” rispose, con l’aria di chi la sa lunga.
Rinaldo Albizzi era rimasto senza parole per lo shock ma, ovviamente, non poteva rimanere ammutolito più di tanto. Ritrovò ben presto la padronanza di sé e la sicumera e reagì con l’indignazione che ci si poteva aspettare.
“Come ti permetti, tu, di presentarti qui e di interrompere me? Non sai niente di Firenze né di questa guerra e non hai nemmeno il permesso di parlare al Consiglio dei Priori” esclamò, fissandolo come se volesse incenerirlo sul posto. “Sei solo un ragazzino che Cosimo ha raccolto dalla strada chissà dove, come quell’altro suo sicario che manda in giro per Firenze, e hai l’impudenza di metterti in mezzo mentre sto parlando? Ma lo sai chi sono io?”
Per nulla impressionato, ancora una volta Giovanni rispose a tono (e qui la parte a cui Albizzi non stava poi tanto simpatico cominciò a ridacchiare piano…).
“No, in effetti non so chi siete voi. So però di avere il pieno diritto di parlare in questa assemblea perché sono sicuramente di una famiglia più antica e illustre della vostra” replicò. E qui si lasciò scappare un sorrisetto e lo sguardo saettò per tutto il salone prima di tornare a posarsi su Albizzi, che non sapeva più nemmeno se credere ai propri occhi e alle proprie orecchie. “Io sono Giovanni degli Uberti, l’ultimo discendente di un uomo che ha fatto grande Firenze e che da essa è stato ingiustamente scacciato e dimenticato: Manente degli Uberti, che probabilmente tutti voi conoscete meglio come Farinata! Sono venuto a Firenze perché voglio che il nome del mio antenato e della mia famiglia sia riabilitato!”
Mormorii di stupore serpeggiarono tra i Priori e coloro che assistevano al dibattito. Il Gonfaloniere si congratulò con se stesso per non aver fatto portar via il ragazzino (che alla fine si era rivelato ben più di quanto sembrava), mentre Albizzi, dopo il primo momento di disorientamento, fu l’unico ad avere la presenza di spirito di rispondere (e ce ne vogliamo stupire?).
“Sei un Uberti, allora” disse, continuando a squadrare Giovanni come a volerselo imparare a memoria e magari era davvero così! “Ma non hai un seggio nella Signoria, quindi non hai nemmeno il permesso di parlare.”
“Prima di essere il vostro Palazzo dei Priori, questa era la dimora della mia famiglia” ribatté Giovanni. “Dopo aver cacciato gli Uberti da Firenze, i nobili fecero radere al suolo le loro proprietà e sulle rovine fecero edificare questo palazzo. Quindi, tecnicamente, io sarei a casa mia e avrei tutti i diritti di parlare!”
Ed ecco spiegato perché Giovanni aveva guardato ben bene tutto il palazzo prima di iniziare a rovinare la giornata a Albizzi!
Rinaldo Albizzi non sapeva se ridere, ammirare tanta sfacciataggine o prenderlo a schiaffoni…
“Molto bene, allora, se sei il discendente di Farinata degli Uberti, saprai anche che era un grande e valoroso comandante” riprese l’uomo, a cui bisogna riconoscere un certo talento nel rigirare la frittata a suo favore. “Credi che, in una situazione come questa, non avrebbe incoraggiato Firenze a continuare a combattere per il prestigio della città?”
“No, non lo avrebbe fatto se avesse visto che la città si indeboliva e si impoveriva a causa di questa guerra” ribatté Giovanni.
E, proprio sul più bello, un altro ospite inatteso si fece largo tra la folla e interruppe quell’interessantissima discussione.
“Messer Albizzi, mi rincresce molto disturbare un dibattito tanto appassionante e confesso che avrei voluto rimanere a vedere come sarebbe andato a finire, purtroppo il tempo è tiranno e io sono venuto a portare un messaggio molto urgente per la città di Firenze” disse l’uomo.
Per la seconda volta in quel giorno, Albizzi rimase del tutto spiazzato, cosa che non era affatto abituale per lui. Avrebbe ricordato quella giornata come un incubo.
“Generale Sforza?” disse.
Esatto, mancava proprio lui e adesso era arrivato. Si capisce adesso perché Cosimo fosse tanto sicuro di sé…
Probabilmente innervosito per tutte quelle interruzioni, Rinaldo Albizzi si rivolse al Gonfaloniere.
“Fate arrestare subito quest’uomo!” esclamò.
“Potete farlo, ma allora arrestereste un amico” replicò Sforza. Eh, no, quella non era proprio giornata, per Albizzi… “Sono venuto qui oggi per annunciarvi una tregua nelle ostilità.”
“Una tregua?” ripeté Albizzi, come se avesse detto una parolaccia.
“L’esercito del Duca Visconti di Milano si sta ritirando da Lucca. La guerra è finita” annunciò Sforza, con un sorriso. Beh, ovviamente non disse di essere stato pagato profumatamente per far ritirare l’esercito, ma quello non era così importante, no?
I Priori e gli altri presenti esultarono a quelle parole. La guerra era finita, non ci sarebbero più state tasse esose per finanziare l’esercito, niente più perdite… insomma, a quanto pareva l’unico che teneva tanto a fare la guerra era Rinaldo Albizzi, che in verità era rimasto parecchio deluso.
Mentre Sforza si dirigeva verso Cosimo per stringergli la mano e tutti gli altri sorridevano, si davano pacche sulle spalle e commentavano quell’indimenticabile giornata al Palazzo dei Priori, l’uomo approfittò della confusione per afferrare Giovanni per un braccio e spingerlo in una rientranza della parete, dove nessuno poteva vederli… e comunque nessuno, in quel momento, avrebbe badato a loro.
Lo immobilizzò contro il muro e gli parlò, a voce bassa, vicinissimo.
“Hai sbagliato portone, ragazzino” gli disse. “Sei andato a chiedere aiuto a Cosimo de’ Medici per riabilitare il nome della tua famiglia, ma da lui non avrai niente. I Medici sanno solo ingannare e colpire le famiglie nobili e di certo non ti aiuteranno.”
“Messer Cosimo è stato molto gentile con me” protestò Giovanni che, a dire il vero, non capiva nemmeno perché Albizzi, per parlare con lui, dovesse stargli tanto appiccicato… Non scappava mica!
“Fatti raccontare da Cosimo che cosa suo padre ha fatto alla mia, di famiglia, e poi magari cambierai idea. Ad ogni modo, lui non ha il potere di riabilitare gli Uberti nemmeno se volesse. Io, invece, potrei aiutarti, potrei perfino farti avere un seggio tra i Priori” continuò Rinaldo Albizzi, che un certo qual potere di persuasione lo aveva pure. “Saresti dovuto venire da me e non metterti contro. Ma non è troppo tardi, sei sempre in tempo per scegliere la parte giusta.”
“Cosa volevate dire? Cosa ha fatto il padre di Cosimo alla vostra famiglia?” insisté Giovanni.
“Chiedilo a lui, vediamo se ha il fegato di dirti la verità. Poi, quando avrai capito con chi hai a che fare, torna a cercarmi” continuò l’uomo. “Io posso fare in modo che il nome della tua famiglia venga riabilitato, posso ridare agli Uberti il posto che spetta loro… se tu appoggerai la mia causa, naturalmente. Riflettici bene, ragazzino impertinente.”
Detto questo, Albizzi si staccò da Giovanni e si allontanò, lasciando il giovane Uberti parecchio ma parecchio confuso.
Cosa aveva voluto dire? Messer Cosimo e i Medici avevano fatto qualcosa di spregevole, così come i Donati tanti anni prima avevano tramato contro gli Uberti?
E poi… cosa significava appoggiare la causa di Albizzi? La guerra era già finita, no? Che altro poteva volere da lui?
Giovanni avrebbe capito solo in seguito che la Firenze in cui si trovava non era per niente diversa da quella di fine Duecento… e lui ci era proprio nel mezzo! Fine capitolo secondo
I like to
make-believe with you
Da, da, da, da, do, do, do
That we always speak the truth
I like how we pretend the same
Da, da, da, da, do, do, do
Play this silly little game. Hey!
I've got some
things to say
'Cause there's a lot that you don't know
It's written on my face
It's gonna be hard to swallow
(Everybody's got a secret)
I got some things to say
(Everybody's got a secret)
(“Secrets” – Pink)
Le parole di Albizzi avevano operato
proprio quello per cui erano state concepite, ossia insinuare l’ombra del
dubbio in Giovanni. Il ragazzo fino a quel momento aveva nutrito una fiducia
illimitata in Cosimo de’ Medici, l’uomo che stava riportando Firenze alla sua
grandezza, l’uomo che anche suo padre ammirava tanto… ma quello che Rinaldo
Albizzi gli aveva detto non voleva uscirgli dalla testa.
Se avesse soltanto fatto allusioni alla
disonestà dei Medici, al fatto che fossero dei lanaioli arricchiti e degli
usurai, Giovanni non lo sarebbe stato nemmeno a sentire: aveva visto Albizzi
due volte, ma gli era bastato per capire che era fondamentalmente invidioso del
potere e del prestigio dei Medici.
Eppure quell’accenno a un atto meschino
da parte del padre di Cosimo, un atto che aveva danneggiato la famiglia
Albizzi…
Giovanni era, come si può ben
immaginare, molto sensibile riguardo a simili argomenti. Del resto era venuto a
Firenze proprio per riabilitare il nome della sua famiglia, osteggiata,
calunniata, cacciata e oltraggiata per nient’altro che l’invidia di una
famiglia rivale, che poi aveva trascinato con sé tutte le altre. Possibile che
il padre di Cosimo avesse fatto una cosa simile alla famiglia Albizzi?
Quel dubbio tormentava talmente Giovanni
che alla fine, qualche sera dopo, andò a parlare proprio con Cosimo per
togliersi il pensiero una volta per tutte.
Nel frattempo a Firenze si era scatenata
la peste (sì, in quei giorni non si facevano mancare proprio niente, ogni
giorno una novità!) e Cosimo e la sua famiglia si stavano preparando a partire
per trasferirsi nella loro villa di campagna con la speranza di
sfuggire al contagio.
Giovanni scelse
proprio quella sera per fare la sua domanda indiscreta al Medici.
“Messer Cosimo, sono
giorni che mi tormento per una cosa che mi è stata detta, una cosa che non
riesco a credere sia vera perché vi conosco e vi stimo come uomo avveduto e
corretto, che mi ha accolto con grande generosità pur non conoscendomi. Eppure
questa storia mi fa pensare e ripensare e non so…” esordì il ragazzo. Un altro,
al suo posto, sarebbe stato imbarazzato, insicuro, ma Giovanni degli Uberti?
Per niente!
“Va bene, dimmi pure
che cosa ti angustia tanto e cercherò di aiutarti” rispose Cosimo, incuriosito.
“Vi prego di non
fraintendermi, ma io devo capire” riprese Giovanni. “Cos’è successo tra voi e
Messer Albizzi quando eravate ragazzi? E’ vero che vostro padre ha cercato di
rovinare la sua famiglia?”
“Questa storia te l’ha
raccontata Albizzi, non è così?” fece l’uomo, rabbuiandosi. Si chiese anche, per
inciso, come Rinaldo avesse trovato il tempo e il modo di mettere in testa al
ragazzino quell’idea… ma, evidentemente, le sue vie erano infinite come quelle
di Nostro Signore!
“Mi ha detto soltanto
che non dovevo fidarmi di voi, che non farete niente per aiutare la mia
famiglia perché, anzi, voi Medici
siete capaci solo di distruggerle, le famiglie. E di chiedere a voi per saperne
di più. E io appunto mi sono chiesto se vostro padre potesse aver agito
scorrettamente con gli Albizzi, se potesse aver fatto qualcosa di così meschino,
così come i Donati fecero con la mia famiglia. Voi lo capite che io questa cosa
devo saperla, vero?” e sì, si capiva benissimo che per Giovanni la faccenda
stava diventando fin troppo personale.
“Purtroppo quello che
Albizzi ti ha detto è vero” ammise Cosimo, con lo sguardo perso nei suoi
pensieri. “Vent’anni fa io e lui eravamo diventati amici, tanto che Rinaldo mi
parlò di un affare importante che la sua famiglia aveva per le mani,
chiedendomi un parere da amico. Si fidava di me, voleva un mio consiglio…”
Si vedeva proprio
quanto il ricordo di quella storia tormentasse ancora il Medici.
“Mio padre iniziò a
farmi tante domande su Rinaldo e sugli affari della sua famiglia, fino a
spingermi a raccontargli tutto” riprese, affranto. “A quel punto lui usò le
informazioni che aveva avuto da me per mandare a monte l’affare degli Albizzi,
fargli perdere molti soldi e farli estromettere dalla Signoria. So che il vero
responsabile di tutto ciò è mio padre, ma io penso tuttora che non avrei dovuto
farmi manipolare così da lui, fui un ingenuo… e Rinaldo non me l’ha mai
perdonato. Tutto il male che sta cercando di fare ora alla mia famiglia e i
disordini che crea in Firenze, alla fine, nascono da questo e io non posso non
sentirmene in parte colpevole.”
Giovanni era
pensieroso.
“Sì, posso
comprendere il rancore di Messer Albizzi. In effetti quello che vostro padre ha
fatto è stata, con il dovuto rispetto, una gran carognata” commentò con la
consueta schiettezza che molto spesso sconfinava nella sfacciataggine. “Comunque
mi rincuora sentire che voi non volevate affatto danneggiare quella famiglia e
che, quindi, ho avuto ragione a fidarmi di voi fin dal principio. Mio padre
faceva bene a credere in voi e ad ammirarvi.”
Cosimo sorrise. La
disamina di Giovanni lo faceva sembrare più maturo della sua età, aveva saputo
comprendere la situazione e viverla dal punto di vista di entrambe le parti, in
modo equilibrato. Sicuramente questo gli veniva dai saggi insegnamenti di suo
padre e suo nonno, che lo avevano cresciuto nel culto della famiglia Uberti e
dell’antenato Farinata. Il Medici cominciò a pensare a un progetto, ancora
piuttosto vago nella sua mente, ma abbastanza forte da insediarvisi: e se
avesse cercato di sfruttare la capacità di empatia di Giovanni per ricucire lo
strappo tra lui e Rinaldo? Forse l’intervento di una persona estranea ai fatti
e tuttavia in grado di provare solidarietà per entrambi avrebbe potuto
migliorare le cose e questo sarebbe stato un grande guadagno anche per Firenze,
che di certo non aveva bisogno di lotte intestine (no, aveva già abbastanza
guai per conto suo…).
“Ti ringrazio,
Giovanni. Mi rimprovero spesso di essere stato troppo fiducioso e non riesco a
perdonarmi per essermi fatto usare da mio padre, penso che avrei potuto fare di
più, ma ora le tue parole mi fanno capire che potrebbe esserci un’altra strada
per risolvere questa ostilità e riportare la pace a Firenze” concluse Cosimo,
senza meglio precisare quale potesse essere questa altra strada.
Giovanni, però, non
se ne preoccupò minimamente perché, con tutta evidenza, non pensava che la cosa
lo coinvolgesse più di tanto. Era invece contento di poter contare sul Medici e
di aver avuto risposta a quegli interrogativi che lo avevano tanto turbato. Per
lui la cosa finiva lì.
Che ingenuo!
Il giorno dopo, la
famiglia Medici partì per la campagna, mentre Giovanni e Marco Bello, il
servitore personale di Cosimo (e sicario a tempo perso…), scelsero di restare a
Palazzo Medici per monitorare la
situazione. In realtà, il problema principale era monitorare Albizzi.
L’uomo aveva deciso
di approfittare dell’assenza dei Medici da Firenze per mettere a segno alcuni
colpi che gli permettessero di rovinarli. Aveva iniziato con l’accusare Cosimo
durante un Consiglio dei Priori, sottolineando che stava sprecando le risorse
della città per l’edificazione di quell’inutile cupola e che, tanto per
cambiare, era un usuraio e non aveva il diritto di far parte della Signoria. Il
Gonfaloniere Guadagni, però, che aveva sentito quel discorso già un milione di
volte, aveva respinto tutte le accuse al mittente, lasciando Albizzi alquanto
indispettito.
Vista l’impossibilità
di convincere il Gonfaloniere e i Priori, Albizzi aveva avuto la brillante idea
di andare direttamente sulla scena del
crimine, ossia nella Cattedrale dove gli operai stavano continuando a
costruire la cupola che ormai, a quanto sembra, vedeva come una nemica
personale.
“La Signoria non fa
nulla” pontificava davanti a tutti coloro che erano disposti a starlo a
sentire, ancora parecchio alterato perché, appunto, il Gonfaloniere gli aveva
risposto picche. “Non ha a cuore gli
interessi del popolo di Firenze e preferisce proteggere il tiranno che ha
scatenato questa peste sulla nostra città. Cosimo dice che la cupola è per Dio,
ma in realtà è chiaro che è per lui, che sta cercando di comprare Dio esattamente
come compra gli uomini.”
Gli operai avevano
interrotto i lavori e stavano a guardarlo e ad ascoltarlo, qualcuno pure
coinvolto, altri probabilmente si chiedevano se questo non si fosse messo in
testa di essere il nuovo Messia.
“Cosimo finanzia con
l’usura questa atrocità” continuò, riferendosi alla cupola. Beh, sarebbe
rimasto male se avesse saputo che, nei secoli a venire, la cupola del
Brunelleschi da lui definita atrocità
sarebbe diventata meta ambita per i turisti di tutto il mondo… “Io vi imploro,
gettate a terra i muri di questa empia cupola, denunciate Cosimo de’ Medici
davanti a Dio e Dio vi salverà da questa piaga. Io stesso sfamerò e pagherò
ogni uomo che lo farà!”
Rinaldo Albizzi non
sapeva di avere due ospiti indesiderati in mezzo agli spettatori del suo show così ispirato, tipo predicatore di
qualche setta: uno era Marco Bello che, avendo ascoltato abbastanza, si
affrettò a raggiungere Cosimo nella villa di campagna per avvertirlo delle
manovre del rivale.
L’altro era Giovanni.
Giovanni, che aveva
le sue ragioni personalissime per volere l’edificazione della cupola e che
sembrava aver preso gusto a contraddire pubblicamente Rinaldo Albizzi ogni
volta che si imbatteva in lui, nemmeno fosse diventata la missione della sua
vita.
Quando decise che la
misura era colma, sbucò fuori dal gruppo di operai in mezzo ai quali si trovava
e, con un’invidiabile disinvoltura, si rivolse alla folla di gente proprio come
aveva fatto Rinaldo fino a pochi attimi prima.
“Cittadini di Firenze”
esordì con una certa qual teatralità, probabilmente messa su appositamente per
ridicolizzare l’enfasi di Albizzi, “vi sembra normale che la nostra patria sia
priva di un Duomo di grande importanza, come invece hanno altre città come
Milano o Roma? Questa Cattedrale è un capolavoro e potrebbe essere il vanto e
il prestigio della Repubblica… ma non potrà esserlo finché non sarà consacrata,
e non potrà essere consacrata se manca la cupola.”
Il ragionamento di
Giovanni non faceva una piega, sebbene mancasse dei toni drammatici e dell’atmosfera
apocalittica del discorso di Rinaldo Albizzi, e parecchi operai distolsero lo
sguardo dall’uno per posarlo sul ragazzo giunto così inaspettatamente alla
ribalta.
“Messer Albizzi dice
che questa cupola è maledetta e che per questo Dio ci ha mandato la peste”
obiettò un tale, a quanto sembrava particolarmente suggestionabile.
Giovanni assottigliò
lo sguardo. Quello era un punto sul quale non intendeva transigere.
“Io diffido già per
principio di tutti coloro che si arrogano il diritto di parlare per conto di Dio”
replicò senza tanti giri di parole. “Io discendo dagli Uberti e la mia famiglia
è stata calunniata e poi cacciata da Firenze per false accuse di eresia, messe
in giro da altre famiglie nobili che erano invidiose del potere e del prestigio
dei miei antenati. Nessuno può essere tanto presuntuoso da sentirsi il
portavoce di Dio, a meno che quel qualcuno non sia Mosè o Abramo o qualcun
altro dei Profeti, intendo!”
A quelle parole, diversi
tra gli operai iniziarono a sghignazzare: in effetti Albizzi, durante il suo
discorso, aveva tutta l’aria di Mosè quando alza il bastone e separa le acque
del Mar Rosso…
Rinaldo era rimasto
impietrito per qualche minuto. Non poteva essere. Quel ragazzino stava
diventando il suo incubo peggiore. E, oltretutto, adesso si permetteva pure di
ridicolizzarlo davanti alla gente di Firenze?
Eppure c’era qualcosa
in quel ragazzo, qualcosa che lo attirava, forse proprio quel suo carattere
impertinente e arrogante, quella sua spavalderia e spregiudicatezza che un uomo
come lui non poteva fare a meno di ammirare e che gli risvegliava degli strani
impulsi, che andavano dallo strangolarlo con le sue proprie mani al fargli
molte altre cose che, per decenza, non starò ad elencare…
Così la sua reazione
fu veemente in tutti i sensi.
“Adesso mi hai
veramente seccato, tu!” esclamò, afferrandolo per un braccio e trascinandolo
fuori dal Duomo senza troppe storie. S’infilò nel primo vicoletto deserto che
trovò, imprigionò Giovanni contro il muro e… e lo baciò con un’intensità e una
forza che non si sarebbe mai immaginato nemmeno lui.
Quando, finalmente,
lo lasciò andare, si sentì pure in dovere di spiegare quell’atto impulsivo a un
Giovanni per una volta rimasto davvero senza parole (e che non aveva ancora
nemmeno capito bene la dinamica degli avvenimenti!).
“A quanto pare ho
trovato il modo per farti stare zitto” disse, mentre il ragazzo lo fissava con
un paio d’occhi sgranati, pensando con ogni evidenza che l’uomo avesse perso
totalmente la ragione. “Ti diverti tanto a sfidarmi, eh? Ma non è nel tuo
interesse, te l’ho già detto. Non hai capito che solo io ti posso aiutare a riabilitare il nome della tua famiglia?
Non aspettarti che quell’usuraio di Cosimo possa fare qualcosa per te, lui è
capace soltanto di usarle, le persone.”
“Gli ho parlato di
quella storia che mi avete raccontato, Messer Albizzi, e lui mi ha spiegato
come sono andate realmente le cose” replicò Giovanni che, nonostante tutto, non
poteva restarsene zitto più di tanto. “Quello che ha fatto il padre di Messer
Cosimo è una carognata bella e buona, ma lui non ha colpe, è stato raggirato e
usato. E io capisco benissimo come vi sentite, la mia famiglia ha sperimentato
inganno e tradimento sulla sua propria pelle, ma Messer Cosimo non è quel
vigliacco di suo padre.”
Suo malgrado, ad
Albizzi scappò un sorrisetto.
“Immagino che tu non
ti sia fatto scrupoli a dire in faccia a Cosimo quello che pensi di suo padre”
commentò, divertito. “Carogna, vigliacco… confesso che mi sarebbe piaciuto
essere presente.”
“Certo che gliel’ho
detto, non penserete mica di avere l’esclusiva, non me la prendo con voi per
partito preso, solo quando dite qualcosa di irragionevole e questo, purtroppo,
capita spesso ma…”
“Non un’altra parola,
ragazzino impertinente. Per oggi sono stato fin troppo paziente con te e ti
assicuro che non è la mia dote migliore” lo interruppe Albizzi.
“Ah, su questo non ho
dubbi” scappò detto a Giovanni, che però si bloccò subito quando vide lo
sguardo truce dell’uomo posarsi su di lui. Era vero, quel giorno aveva sfidato
fin troppo la sorte!
E il vero problema
era che non aveva la minima idea di ciò che quella sua sfacciataggine suscitava
in Rinaldo Albizzi…
“Ad ogni modo, ti
ripeto che non puoi fidarti di quel Medici” riprese l’uomo. “Se veramente vuoi
che il nome della tua famiglia venga riabilitato, devi appoggiare me. Sarebbe
la scelta più logica in ogni senso, cos’ha a che spartire un
Uberti con una famiglia di lanaioli del
Mugello? Le famiglie nobili devono stare unite per non perdere il
predominio su Firenze a favore di questi arricchiti senza morale!”
“Uniti come i Donati
con gli Uberti?” obiettò Giovanni. Beh, qualche sassolino dalle scarpe se lo
voleva togliere anche lui…
“Io non sono un
Donati, ragazzo, questo tienilo bene a mente. E, tanto perché tu lo sappia, la
casata dei Donati e quella degli Albizzi non sono mai andate molto d’accordo,
per usare un eufemismo” ribatté Rinaldo. “Te l’ho già detto e te lo ripeto:
rifletti bene a proposito del partito da appoggiare, e poi torna a cercarmi
quando avrai fatto la scelta giusta.”
Detto questo, Albizzi
girò i tacchi e se ne andò.
Santa
pace, ma a Firenze bisogna per forza stare dalla parte di qualcuno? Io voglio
soltanto riabilitare il nome della mia famiglia,
pensò Giovanni, guardandolo andar via.
Marco a uomo tutta l'aggressività
Ma non posso privarmi del nome che porto
Conscio di una brutta popolarità
Perché a volte mi faccio giustizia da solo
Odio nascondermi e mendicare
Credo solo in quello che fa bene a me
E non chiedo alla vita niente di speciale
Cammino da solo e non mi volto mai
Continuo a correre…
(“Calma e sangue freddo” – Luca Dirisio)
La cosa bella di Albizzi era che non
potevi mai sapere se avesse deciso di mollare o se invece ti stesse prendendo
per i fondelli e avesse in animo qualcosa di nuovo da tramare! Poteva sembrare
che, dopo il colloquio avuto con Giovanni, l’uomo avesse deciso di soprassedere
e lasciar perdere quella povera cupola… e invece il giorno dopo eccolo di nuovo
lì, bello tranquillo e soddisfatto, perché gli operai si erano convinti a
lasciarsi pagare da lui e avevano iniziato a buttare giù impalcature e mattoni.
Nel frattempo Cosimo, allertato da Marco
Bello, aveva deciso di tornare a Firenze per cercare di fermare quello scempio,
nonostante la madre Piccarda fosse in fin di vita per aver contratto la peste
(ma non erano andati in campagna per sfuggire al contagio?).
Quando giunse in città si recò subito
alla Cattedrale, scortato da Marco Bello, e rimase esterrefatto di fronte alla
scena della devastazione della cupola e del sorriso compiaciuto di Rinaldo che
stava in beata contemplazione del casino che aveva provocato. Cosimo sarebbe
voluto intervenire con veemenza per fermare gli operai e dirne quattro ad
Albizzi, già che c’era, ma prima di lui arrivò Giovanni che anche questa volta
era rimasto a spiare confondendosi in
mezzo alla folla.
Il ragazzo si fece avanti, senza sapere
che anche Cosimo era presente, e senza mezzi termini dichiarò che quello che
stava succedendo era una colossale idiozia.
“Ma cosa fate? Non potete distruggere
tutto il lavoro che è stato fatto! Questa è la cupola della nostra Cattedrale,
diventerà il vanto di Firenze” protestò.
Diverse persone lo guardarono in
cagnesco. I soldi di Albizzi, se non le sue parole, avevano sortito l’effetto
desiderato…
“Questa cupola è figlia del demonio!”
beh, sì, Albizzi aveva fatto scuola e qualcuno si era davvero lasciato
convincere.
“Dio ha mandato la peste a Firenze per
punire i peccati dei Medici!”
“Solo quando la cupola sarà distrutta
saremo salvi!”
Questo tanto per dimostrare quanto la
folla si lasci trascinare dal primo deficiente che straparla…
“Ma vi ascoltate quando parlate? Credete
davvero che la peste sia una punizione divina per la costruzione della cupola?”
La maggior parte della gente annuì
convinta; altri erano convinti semplicemente dai quattrini di Albizzi…
“Bene, sapete come la vedo io, allora?
E’ vero che Firenze ha dei gravi peccati da scontare, ma non riguardano certo
l’edificazione di una cupola” replicò Giovanni. “I peccati di Firenze sono
legati alle infinite guerre civili che si sono succedute e ai tanti innocenti
che ne sono rimasti vittime! I miei antenati, gli Uberti, sono stati trattati
in maniera crudele e vergognosa dopo aver fatto tanto per il bene di questa
città. Sono stati esiliati, ma non solo: i figli di Farinata degli Uberti,
ancora bambini, sono stati rinchiusi in prigione e uccisi in modo atroce, solo
uno di loro è riuscito a salvarsi. E ancora peggio, le spoglie mortali di
Farinata e di sua moglie Adaleta sono state disseppellite e profanate!”
Gli occhi di Giovanni mandavano tuoni e fulmini e appariva lampante che
Rinaldo Albizzi non era l’unico, da quelle parti, ad avere la memoria lunga per
le offese…
“Volete espiare i peccati di Firenze?
Allora riparate agli oltraggi che i miei antenati hanno subìto! Io vi chiedo di
edificare la cupola per permettere la consacrazione della Cattedrale e a quel
punto i resti di Farinata e di sua moglie potranno riposare nel posto che gli
spetta, con tutti gli onori, nel Duomo di Firenze” esclamò il ragazzo. Cosimo,
che lo ascoltava con molto interesse, pensò che era un’idea mica male: la
cupola sarebbe servita anche per rendere omaggio agli Uberti e ripagarli per
gli oltraggi che avevano dovuto sopportare…
Albizzi, che si era visto rovinare anche
quella giornata che gli era parsa tanto promettente, non la vedeva allo stesso
modo, anzi! Quel ragazzino sfacciato non voleva proprio capire e si permetteva
una volta ancora di farsi beffe di lui e di fregarsene allegramente dei suoi
tentativi per rovinare i Medici.
“Questa cupola è un’empietà e deve
essere distrutta” intervenne, in un altro emozionante
confronto pubblico con Giovanni. “Non c’è niente di onorevole nell’essere
sepolti in un luogo edificato con i soldi ricavati dall’usura e tu non puoi volere questo per i tuoi antenati!”
“Siete così pronto a condannare i Medici
per il loro lavoro di banchieri, ma non vi è venuto in mente che quello che
avete fatto voi, ossia pagare gli
operai perché distruggano la cupola, potrebbe essere definito corruzione?” decisamente Giovanni aveva
un bel fegato, questo bisogna riconoscerlo!
Albizzi si sarebbe volentieri scagliato
sul ragazzo per fargli non si sa bene cosa dopo essere stato definito corrotto (e pure ipocrita, per buona
misura) davanti a tutta la gente di Firenze, ma in quel momento Cosimo pensò
bene di intervenire per spostare l’attenzione di tutti su di sé. Aveva ammirato
l’audacia di Giovanni e si convinceva sempre più del fatto che quel giovane
fosse molto importante per i suoi piani, leale e affidabile com’era…
possibilmente, preferiva che Albizzi non gli spaccasse la testa con un mattone!
“Distruggere la cupola non fermerà la
peste” esclamò, facendosi largo in mezzo alla gente. “Questa cupola è un
omaggio a Dio e…”
“Ma sentitelo, adesso vuole parlare in
nome di Dio!” fece, sprezzante, uno degli operai. Altri annuirono energicamente
e brontolarono contro Cosimo.
“E’ forse Cosimo de’ Medici che vuole
parlare a nome di Dio?” intervenne Giovanni, che non riusciva proprio a stare
zitto, era più forte di lui… “Ma non è proprio quello che Messer Albizzi sta facendo da due giorni?”
A dirla tutta, Giovanni aveva ragione e
qualcuno tra la folla dovette rendersene conto, perché ci fu un certo
scompiglio. In compenso, il Messer Albizzi in questione era veramente
scocciato.
“Non ho mai affermato di parlare in nome
di Dio” disse, con una straordinaria faccia di bronzo. “La verità è sotto gli
occhi di tutti: la peste è arrivata a Firenze da quando è iniziata la
costruzione della cupola. E non dobbiamo stupircene, perché Dio non può
accettare l’omaggio di un usuraio come Cosimo che ha sottratto le decime del
Papa per costruire la sua opera!”
Le cose parvero mettersi improvvisamente
male per il Medici. La gente cominciò a guardarlo con odio e qualcuno iniziò
perfino a insultarlo e ad armarsi di sassi per colpirlo. Marco Bello si mise in
mezzo per difendere il suo padrone e, tanto per cambiare, Giovanni volle far
sapere al resto del mondo come la pensava sulla questione!
“Messer Albizzi ha ragione” dichiarò,
con grande sorpresa di tutti. Ma se fino a quel momento non gliene aveva
lasciata passare una…? Tuttavia il ragazzo era piuttosto abile nel far girare
il vento a suo favore. “Né Dio né la mia famiglia possono accettare un omaggio
edificato con del denaro sottratto alla Chiesa. Infatti dovranno essere le
famiglie nobili fiorentine a pagare per la costruzione della cupola: sono state
loro a oltraggiare i miei antenati e a profanare le loro spoglie mortali,
pertanto saranno loro a fare ammenda, finanziando la costruzione della cupola!”
Cosimo era entusiasta: a quanto pareva
quella era la perfetta quadratura del cerchio. Non doveva più preoccuparsi per
la cupola e così decise di allontanarsi insieme a Marco Bello prima che gli
operai ci ripensassero e ricordassero per quale motivo avevano preso in mano
quei sassi…
Ci mancherebbe solo
questa! Io dovrei pagare per la costruzione di una cupola che nemmeno voglio?
Non se ne parla neanche, pensò Albizzi, alquanto irritato per la soluzione
trovata da Giovanni. Tuttavia anche lui non era da meno quando si trattava di
rigirare la frittata, come avevo già fatto notare altre volte.
“Forse Messer Uberti non ha tutti i torti” replicò, con un sorrisetto
sprezzante. “Tuttavia ciò che è stato costruito
finora deriva dall’usura e pertanto va distrutto. Quando la parte che offende
Dio sarà spazzata via insieme ai peccati dei Medici, allora e solo allora le
famiglie nobili di Firenze saranno più
che disposte a finanziare la costruzione della cupola.”
E come no?
La partita si era
conclusa con un pareggio, uno a uno e palla al centro. Giovanni aveva strappato
una risicata promessa di finanziamento per la cupola, ma Albizzi avrebbe
continuato a pagare gli operai perché buttassero giù ciò che era stato
costruito fino a quel momento.
Cosimo de’ Medici
avrebbe dovuto trovare un’altra strada. E la trovò, infatti, come un’illuminazione
improvvisa.
Quando, il giorno dopo,
Rinaldo Albizzi si recò alla Cattedrale insieme al figlio Ormanno, vide con suo
grande disappunto che gli operai erano tutti fuori dall’edificio e che la
distruzione della cupola era bloccata.
“Cosimo ha fatto
della Cattedrale un rifugio per gli appestati e gli operai non entrano per
paura del contagio” spiegò Ormanno con lo stesso tono sprezzante del padre, di
cui era il perfetto clone vivente.
Albizzi ne aveva
veramente abbastanza di quella storia. Portò il suo cavallo di fronte al
portone della Cattedrale e si mise a chiamare Cosimo.
“Che cos’è questa
storia, Medici? Pretendo una spiegazione!”
Ma quando il portone
si aprì non ne uscì Cosimo, bensì Marco Bello.
“Il mio padrone è
dentro con i malati” disse con una gran faccia da schiaffi. “Se volete entrare
siete il benvenuto.”
Rinaldo Albizzi non
aveva la minima intenzione di entrare in una Cattedrale piena di appestati, col
rischio concreto di contrarre la malattia. Però, evidentemente, quello che non
voleva fare lui lo dovevano fare gli altri. Irritato per la risposta sfacciata
del servitore di Cosimo, non lo degnò nemmeno di una risposta e si rivolse
invece agli operai che erano tutti lì fuori.
“Entrate subito nella
Cattedrale e continuate a distruggere la cupola!” ordinò.
Quelli, ovviamente,
se ne guardarono bene e, anzi, lo fissarono con espressioni che dicevano
chiaramente entrateci voi se ci tenete
tanto e la cupola potete buttarla giù
da solo per quel che ci riguarda.
“Vi ordino di
obbedire! Entrate immediatamente!” ripeté, sempre più infuriato.
Certo, come no? Gli
operai, brontolando e scuotendo il capo, iniziarono addirittura ad
allontanarsi, tanto per chiarire meglio il concetto. Intanto Marco Bello, sul
portone della Cattedrale, si divertiva un sacco… e questo mandò alle stelle il
giramento di scatole di Albizzi.
Poi, ad un certo
punto, anche a lui venne un’illuminazione. Cosimo pensava di fregarlo? Molto
bene, gli avrebbe reso il favore con gli interessi!
“Hai detto che il tuo
padrone è dentro con gli appestati. Dove si trova il suo protetto, Giovanni
Uberti?” domandò a Marco.
“Anche lui è dentro
con i malati” rispose l’uomo, preso alla sprovvista.
Perché quella era
proprio la risposta che Rinaldo si aspettava e non si lasciò sfuggire l’occasione.
“Cosimo de’ Medici ha
portato quel ragazzo in una Cattedrale piena di malati di peste? Ma non ha proprio
un briciolo di vergogna? Giovanni è un ragazzino, è sotto la sua protezione e
lui lo espone al contagio!” esclamò, ostentando un’espressione scandalizzata. “Se
il tuo padrone non vuol degnarsi di uscire, abbia almeno il buon senso di
mandare fuori il ragazzo. Vuole forse farlo morire? Questo non è il suo posto.
Dirai a Cosimo che mi occuperò io di
Giovanni, visto che lui si comporta in maniera tanto irresponsabile, e lo
porterò a Palazzo Albizzi.”
Marco Bello non trovò
niente da replicare. In effetti, una volta tanto, l’uomo aveva ragione. Peccato
che la sua offerta non fosse così innocente e disinteressata come voleva
sembrare…
“Come volete, Messere”
disse, rientrando nella Cattedrale.
Mentre aspettava che
Giovanni uscisse, Rinaldo si rivolse al figlio.
“Il leccapiedi di
Cosimo ha gironzolato per la città anche se i Medici erano andati via. Scopri
che cosa ha in mente” gli disse. Il giovane annuì e partì a cavallo e se
qualcuno pensa che volesse togliersi dai piedi il figlio per avere un incontro senza testimoni con Giovanni… beh, a
pensare male si fa peccato ma in genere ci si azzecca!
Albizzi sorrise. Per
una volta le cose stavano andando nella giusta direzione. Cosimo credeva di
averlo preso in contropiede, ma l’ultima parola sarebbe stata la sua: avrebbe
portato Giovanni al suo palazzo e, finalmente, sarebbe riuscito a convincerlo a
passare dalla sua parte.
E poi, già che c’era,
si sarebbe tolto anche qualche soddisfazione personale, qualcosa che aveva
pensato fin dalla prima volta in cui quel ragazzino presuntuoso aveva osato
sfidarlo…
Il portone della
Cattedrale si aprì di nuovo e questa volta fu Giovanni a uscire, con un’aria
alquanto perplessa. Con ogni evidenza, Cosimo lo aveva incoraggiato ad
accontentare Albizzi e lui non capiva perché. Forse si era reso conto del
pericolo a cui lo aveva esposto e voleva rimediare… o forse aveva pensato che
era giunto il momento di fare una concessione a Rinaldo per avere qualcosa in
cambio.
“Ah, eccoti, meno
male che Cosimo ha avuto almeno la lungimiranza di farti uscire” commentò l’uomo,
non appena lo vide. “Avanti, vieni, ti porto al mio palazzo. Quel Medici è
davvero senza scrupoli, quando ha in mente quella sua dannata cupola non riesce
a pensare ad altro! E’ abominevole che abbia portato un ragazzino come te
dentro una chiesa piena di appestati… Cosimo è senza scrupoli, senza morale e
senza vergogna.”
“Messer Cosimo ha
detto che devo venire con voi, ma io non capisco perché. Avrei potuto tornare a
Palazzo Medici e…” disse Giovanni, facendo qualche passo poco convinto verso
Albizzi. Si guardava intorno come a cercare una spiegazione, ma l’uomo non
aveva voglia di perdere altro tempo in chiacchiere. Scese da cavallo, andò
deciso verso il ragazzo e lo afferrò per un braccio, sospingendolo poi verso l’animale.
Risalito in groppa, prese Giovanni, lo sollevò e lo mise davanti a sé sul dorso
della bestia.
“Cosa faresti a
Palazzo Medici da solo? Cosimo avrebbe dovuto occuparsi di te ma,
evidentemente, ha di meglio da fare, così ci penserò io” replicò Albizzi.
“Guardate che io non
ho mica bisogno di una guardia del corpo, so cavarmela da solo, non c’è nessun
bisogno che venga nel vostro palazzo” cercò di protestare il ragazzo, ma senza
molto successo.
Albizzi spronò la
cavalcatura e se lo portò via, molto compiaciuto della sua apparente vittoria.
Non sapeva che, in
realtà, Cosimo aveva avallato tranquillamente quella specie di sequestro di persona. Aveva avuto modo
di conoscere bene Giovanni ed era sicurissimo che, comunque fosse andata, il ragazzo
avrebbe tenuto la testa sulle spalle e non si sarebbe lasciato manipolare da
Albizzi.
In compenso, Giovanni
non aveva idea di che cosa stesse succedendo!
Oh yeah, I'm
haunted by the distant past
Called to the skies but she was overcast
But I won't
never give up, no, never give up, no, no No, I won't never give up, no, never give up, no, no
And I won't let
you get me down
I'll keep gettin' up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
I won't let you get me down
I'll keep gettin' up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
I'll find my way, find my way home, oh, oh, oh…
(“Nevergive
up” – Sia)
Giunto a Palazzo Albizzi, Giovanni rimase
ancora più sbalordito: quella dimora era addirittura più grande e lussuosa di
Palazzo Medici, soltanto che lì parevano abitarci solo Rinaldo e suo figlio.
“Bene, visita pure il palazzo, se vuoi, poi
accomodati dove preferisci” gli disse Albizzi. “I miei servitori ti porteranno
quello che chiederai. Io devo uscire di nuovo, ho alcuni… beh, impegni con mio figlio e con la
Signoria. Tornerò stasera.”
Giovanni era più stranito che mai: se doveva
restare comunque da solo, tanto valeva che fosse tornato a Palazzo Medici… ma,
in realtà, aveva rinunciato da tempo a cercare di star dietro agli ingranaggi
mentali di quell’uomo!
La giornata, comunque, passò in fretta nell’esplorazione
delle tante stanze di quel palazzo ed era già sera quando Rinaldo rincasò.
Giovanni aveva già cenato da solo e l’uomo non si fece tanti scrupoli a
prenderlo e portarselo nella sua stanza.
“Messer Albizzi, è successo qualcosa?
Sembrate più scontroso del solito” commentò il ragazzo con la consueta
sfacciataggine.
“Sembra che i malati nella Cattedrale stiano
guarendo e che l’epidemia di peste sia passata. Entro pochi giorni Firenze
dovrebbe essere liberata da questo flagello” rispose lui, come se la cosa gli
arrecasse un danno personale.
“Ma questa è una bella notizia, non c’è
bisogno di fare la faccia da funerale” replicò Giovanni, che poi non poté
trattenersi dall’aggiungere una frecciatina… “Avete visto che non era colpa della cupola? Anzi, magari è
proprio per questo che siete seccato, avete avuto la dimostrazione che vi
sbagliavate!”
Albizzi lo fulminò con lo sguardo. Giovanni
ci aveva preso in pieno, come sempre.
“Ti consiglio di non riportare il discorso su
questa storia” sibilò. “Comunque Cosimo è stato davvero un irresponsabile nei
tuoi confronti: ha portato la sua famiglia in campagna ma ti ha lasciato qui a
rischiare il contagio. Non eri forse sotto la sua responsabilità?”
E ti pareva! Per Albizzi, Cosimo era
responsabile di tutti i mali del mondo passati, presenti e futuri e ogni
occasione era buona per rimarcarlo.
“No, non è andata così” ribatté il giovane.
“Messer Cosimo voleva portare anche me nella sua villa in campagna, sono stato
io a rifiutare. Per tutta la vita ho desiderato venire a vivere a Firenze e,
adesso che ci sono finalmente riuscito, non sarà una pestilenza qualsiasi a farmi andare via!”
Suo malgrado, Rinaldo lo fissò con
ammirazione: quel ragazzo lo stupiva ogni giorno di più e… beh, sì, doveva
ammettere che gli piaceva, e anche parecchio.
“Sei coraggioso oltre che sfacciato,
ragazzino” commentò. “Pensi più a Firenze che alla tua stessa incolumità.”
Per la prima volta Giovanni gli rivolse un
sorriso spontaneo.
“Mi sembra che questo valga anche per voi,
allora, non è così, Messer Albizzi? Nemmeno voi avete lasciato Firenze come
invece hanno fatto tanti altri nobili” disse.
“Forse siamo più simili di quanto pensassi”
ribatté Albizzi, al quale la cosa piaceva assai.
Prese Giovanni e senza perdere altro tempo in
chiacchiere lo strinse a sé e iniziò a baciarlo. Però si rendeva conto che
quella che inizialmente era stata solo una ripicca nei confronti di Cosimo
adesso si stava trasformando in qualcosa di diverso e lui si sentiva davvero
meglio stringendo tra le braccia quel ragazzino
impertinente, come lo chiamava lui. Anzi, si sentiva bene come non gli
accadeva più da tanti, troppi anni…
Albizzi
distese Giovanni sul letto e continuò a baciarlo a fondo e lungamente. Le
attenzioni audaci dell’uomo, sulle prime, sconvolsero il giovane Uberti, che
decisamente non aveva pensato che la faccenda prendesse quella piega…maRinaldo dimostrò pazienza e un’attenzione che
non ci si sarebbero mai aspettate da lui e il ragazzo, sempre più sorpreso, scoprì
che il suo corpo rispondeva inspiegabilmente a ogni sollecitazione e si
abbandonò, lasciando che il nobiluomo facesse di lui tutto ciò che voleva e
perdendo completamente ogni concezione di spazio e tempo in quel vortice
confuso di sensazioni.
Quando
si risvegliò nel letto di Albizzi, la mattina dopo, Giovanni ci mise un po’ a
capire dove si trovasse e perché, poi ricordò… e rimase ancora più incredulo
per essersi lasciato andare così.
Insomma,
quell’uomo non gli stava nemmeno granché simpatico e gli aveva permesso di fare
di lui tutto quello che voleva (non che avesse avuto voce in capitolo in ogni
caso, ma vabbè…)? E per giunta si era anche sentito… beh, la cosa non era stata
poi così spiacevole, ecco!
E
ora che sarebbe successo?
Apparentemente
nulla di nuovo. Rinaldo Albizzi si era già alzato e si stava preparando per
andare a causare guai da qualche parte.
“Ah,
sei sveglio, credevo che intendessi dormire tutto il giorno” gli disse l’uomo,
come se tra loro non fosse successo niente di particolare.
“No,
certo, anzi, adesso mi dovrò preparare e ritornare a Palazzo Medici” rispose il
ragazzo, alzandosi dal letto. “Se davvero la pestilenza è passata, allora
torneranno anche gli altri dalla campagna e io ho voglia di rivedere Piero,
Lucrezia e Messer Lorenzo. Del resto anche voi state uscendo, immagino andrete
ad una riunione della Signoria, no?”
“Sì,
tra le altre cose” replicò Albizzi, senza meglio specificare quali fossero
queste altre cose, di certo nulla di
buono. “Tuttavia, per adesso, dovresti rimanere nel mio palazzo almeno per
qualche altro giorno. Come hai visto, è un palazzo molto grande e praticamente
vuoto. Mia moglie vive in campagna e viene a Firenze molto di rado, solo per
occasioni di rappresentanza, perciò…”
Quell’informazione
turbò Giovanni molto più di quanto si sarebbe aspettato.
“Ah,
dunque c’è pure una Madonna Albizzi?”
fece, piccato e senza sapere perché la cosa gli scocciasse tanto.
La
sua frase strappò un sorriso a Rinaldo.
“Sei
forse geloso, ragazzino
impertinente?” commentò, divertito. “Da dove credevi che fosse venuto fuori
Ormanno, scusa? Comunque, come ti ho già detto, lei non vive qui e viene a
Firenze molto raramente. Ormanno va a trovarla spesso e per il resto ad
entrambi va benissimo così.”
Il
che non era certo una stranezza nei matrimoni di quel tempo… e anche in diversi
di adesso, oserei dire. Però a Giovanni non piaceva lo stesso!
“Dovrei
davvero tornare a Palazzo Medici” ripeté, stizzito e iniziando a vestirsi.
“E
io dico che ci tornerai quando sarò io
a darti il permesso” tagliò corto Albizzi.
Giovanni
sgranò gli occhi.
“Cos’è
questo, un rapimento? Adesso fate anche prigionieri,
Messer Albizzi?” protestò.
“A
volte, ma non è il tuo caso” fu la risposta niente affatto rassicurante
dell’uomo. “Semplicemente, per adesso preferisco che tu non abbia contatti con
i Medici. Ormai li conosco troppo bene e ho il sospetto che Cosimo ti abbia
mandato da me per scoprire cose che potrebbe poi usare per danneggiarmi… e del
resto non sarebbe la prima volta, no?”
“Vi
ho già detto che sono addolorato per quello che vi è accaduto vent’anni fa, ma
sapete bene che non fu colpa di Messer Cosimo” replicò Giovanni, “e, comunque, io non sono un Medici e non tradirei mai la vostra fiducia. Almeno di me vi
dovete fidare, se non volete fidarvi di Messer Cosimo!”
“Magari
di te mi fiderò, prima o poi, ma non mi fido dei Medici e per questo non ti permetterò di tornare da loro, almeno
per ora” concluse Albizzi, e quella era chiaramente la sua ultima parola
sull’argomento. “Oltretutto, tu sei un Uberti, un nobile, perciò il tuo posto è
qui e non certo con quella famiglia di usurai.”
Sì,
Rinaldo Albizzi tendeva leggermente a
ripetersi…
Tuttavia,
compiaciuto di aver ancora una volta messo in chiaro la situazione, l’uomo si
chinò a baciare Giovanni e poi se ne andò.
Era
più che ovvio che non pensasse nemmeno lontanamente di lasciare che Giovanni
tornasse a Palazzo Medici: aveva finalmente trovato una scusa per far arrestare
Cosimo, grazie alle informazioni ricevute dal figlio il pomeriggio precedente,
e proprio quella sera avrebbe avuto la sua rivincita. Visto che Cosimo sarebbe
finito presto in prigione, tanto valeva che Giovanni restasse nel suo palazzo.
Se poi fosse riuscito a convincere la Signoria a giustiziarlo, ancora meglio e,
a quel punto, il ragazzo non avrebbe più avuto motivo di far ritorno a Palazzo
Medici, no? No?
Aveva
pensato proprio a tutto!
Quello
che non aveva previsto, però, era la reazione che avrebbe avuto Giovanni.
Quella sera, ovviamente, Albizzi si guardò
bene dal dire qualcosa al ragazzo, sebbene fosse tornato giusto allora dalla
sua bella pensata, vestito più elegante del solito tanto per dimostrare che
lui, almeno, il bastardo lo faceva con un certo stile… Tanto per dirla in due
parole, aveva convocato Cosimo al Palazzo dei Priori con l’inganno e poi lo
aveva fatto arrestare con un pretesto, subito prima di tornarsene a casa
tranquillo e soddisfatto. Si prese tra le braccia Giovanni e se lo portò a
letto come la sera precedente. E, ancora una volta, il ragazzo si abbandonò
totalmente a lui, perdendosi in quel caos di sensazioni che lo facevano sentire
come se fosse finito in un’altra dimensione.
La mattina seguente, però, Giovanni era ben
più lucido e la storia dell’arresto di Cosimo venne fuori.
“Questa mattina avrei piacere di passare da
Palazzo Medici per salutare i miei amici” disse il giovane, prendendola molto
alla lontana.
“No, oggi decisamente
non è il caso” tagliò corto Albizzi.
“Ma perché no? Non vi capisco! Voglio solo
salutare Piero e Lucrezia e poi tornerò qui, se questo è ciò che volete”
protestò Giovanni.
A quel punto, Rinaldo pensò che tanto valeva
dire la verità: il ragazzo sarebbe comunque venuto a saperlo, prima o poi.
“Non c’è ragione che tu vada a Palazzo Medici
perché ieri sera ho fatto arrestare Cosimo e ci sarà una gran confusione, non
credo che qualcuno avrà il tempo per badare a te” spiegò, come se stesse
parlando del tempo.
Giovanni trasecolò.
“Avete fatto arrestare Messer Cosimo?” ripeté,
sperando di aver capito male.
“Beh, sì. Mio figlio ha scoperto che quell’usuraio ha mandato il suo sicario
a uccidere delle persone che gli davano fastidio e così…”
“Ma avete perso
completamente la ragione?” esclamò Giovanni, sconvolto.
Come sempre, il ragazzo non si faceva
scrupoli di dire quello che gli passava per la testa. In quel caso, però,
Albizzi se ne risentì, forse perché, in fondo in fondo, ma parecchio in fondo,
non si sentiva del tutto con la coscienza a posto. Sentendosi aggredito ingiustamente, aggredì a sua volta.
“Non devo certo discutere con te delle decisioni che prendo. Ho
ritenuto che Cosimo fosse un pericolo per Firenze e l’ho denunciato alla
Signoria” dichiarò, con la solita faccia di bronzo.
“Messer Cosimo ha cercato di riconciliarsi
con voi, voleva che dimenticaste finalmente quel fatto di venti anni fa,
probabilmente mi ha mandato da voi proprio come gesto distensivo e voi, invece…” protestò il ragazzino.
“Cosimo si è forse illuso che, vendendoti a
me, io avrei potuto perdonare quello che ha fatto a me e alla mia famiglia?”
replicò Albizzi, ma capì subito di aver detto qualcosa di molto sbagliato,
qualcosa di imperdonabile, addirittura.
Giovanni gli si parò davanti con gli occhi
colmi di rabbia, vergogna, dolore e mille altre emozioni. Se avesse potuto, lo
avrebbe fulminato sul posto.
“E’ questo dunque che pensate di me, di un Uberti?” gridò, infuriato. “Io mi
sarei venduto a voi? E’ così che la
vedete?”
La rabbia di Giovanni era talmente violenta
che Rinaldo tentò invano di arginarla. Il ragazzo era fuori di sé e non lo
ascoltava nemmeno più.
“Avete oltraggiato Messer Cosimo e, cosa
ancora più grave, avete oltraggiato me!
Un’offesa come questa dovrebbe essere lavata con il sangue, ma sapete cosa vi
dico? Voi non meritate nemmeno che mi prenda il disturbo! Siete un essere
ignobile e meritereste di starci voi nella prigione dove avete fatto
rinchiudere Messer Cosimo, a marcire fino alla fine dei vostri giorni!”
Indignato, Giovanni si avviò verso la porta
della stanza di Albizzi ma, prima di uscire, volle rivolgere un’ultima frase
velenosa all’uomo che lo aveva ingiuriato.
“Mi ero fidato di voi e voi mi avete offeso e
ferito. Biasimate Messer Cosimo, ma voi siete mille volte peggio di lui. Ora io
me ne vado a Palazzo Medici e voi non mi fermerete” affermò, deciso. “Sono
stato uno sciocco, ho creduto che in voi ci fosse una parte buona, ma non c’è,
siete solamente un uomo crudele e pieno di invidia e risentimento, non meritate
nemmeno i miei insulti!”
Detto questo, uscì dalla stanza sbattendo la
porta con violenza, tanto da far risuonare tutto il palazzo. Albizzi, che
cominciava a rendersi conto di aver un
tantino esagerato, cercò di andargli dietro ma Giovanni aveva già
attraversato il salone, sceso le scale e raggiunto il portone del palazzo,
uscendo e sbattendo anche quello con tutta la forza che aveva.
Rinaldo rimase pensieroso a guardare il
portone chiuso finché non fu raggiunto da Ormanno, piuttosto preoccupato.
“Padre, che succede? Quello era Giovanni
Uberti? Ho creduto volesse buttare giù il palazzo… ma cosa gli è preso?”
domandò.
Albizzi tentò di recuperare un minimo di dignità,
almeno davanti a suo figlio.
“Ha saputo dell’arresto di Cosimo de’ Medici
e si è infuriato” rispose. “Ma non temere, è un Uberti, un nobile come noi.
Presto capirà che Cosimo merita ciò che gli è accaduto e tornerà nel posto che
gli spetta, qui nel nostro palazzo, al nostro fianco.”
Ma, nonostante la fermezza che cercava di
infilare nel suo discorso, Rinaldo Albizzi non era poi così sicuro di ciò che
affermava.
Questa volta, temeva, si era spinto davvero
troppo oltre con quel ragazzino…
Ovviamente non gliene fregava un beneamato di
aver fatto imprigionare Cosimo, ma era consapevole di aver detto qualcosa di
veramente oltraggioso e ingiusto a Giovanni, e di questo non andava fiero.
Ma cambiami tu, ci riesci di più
Di tutte le parole della gente
Sei la cosa più bella e importante che ho
Non ne devi abusare però
La differenza sostanziale
È che con te mi sento di nuovo bene
Ogni giorno di più è il potere che hai tu
Di accendere e riequilibrare
La conseguenza naturale
È che non c’è più niente che mi trattiene
La seconda metà, sei la mia libertà
Ma il fatto è che non può bastare
Se non so più amare.
(“Non so più amare” – Marco Carta)
A Palazzo Medici
regnavano davvero la confusione, la rabbia e la disperazione e Giovanni si recò
subito da Piero e Lucrezia che, oltre a questo, avevano anche dovuto superare
la perdita del bambino che la ragazza aspettava.
Giovanni abbracciò
gli amici.
“Piero, Lucrezia, mi
dispiace veramente tanto per il vostro bambino” disse loro, “ma non voglio che
a questo dolore dobbiate aggiungere anche la preoccupazione per Messer Cosimo.
Non ci sono prove della sua colpevolezza, l’arresto è stata una totale
assurdità e il Gonfaloniere Guadagni è un uomo saggio, farà liberare Messer
Cosimo il prima possibile, ne sono convinto.”
Nel frattempo era
arrivato anche Lorenzo. Anche lui abbracciò Giovanni, ma con molto meno
ottimismo dipinto in volto.
“Non ne sarei così
sicuro. Albizzi ha convocato l’assemblea della Signoria per questo pomeriggio
per presentare le accuse contro Cosimo” spiegò in tono cupo.
“Messer Albizzi le cose se le sogna la notte,
a quanto pare, e poi le condivide con chiunque voglia starlo a sentire” ribatté
il ragazzo, ancora irritato. “Tuttavia non ha alcuna prova, si farà soltanto
ridere dietro. Firenze ama Messer Cosimo e non certo lui!”
Lorenzo scosse il capo, ancora poco convinto.
Ma anche Giovanni, in realtà, non era così sicuro di ciò che affermava. La
storia della sua famiglia gli aveva insegnato fin troppo bene che non c’era
affatto bisogno di prove se gli accusatori riuscivano ad avere dalla loro parte
la maggioranza delle famiglie, anche tramite menzogne, inganni e corruzione.
Così era andata per gli Uberti…
Era talmente disilluso (e forse non soltanto
per l’arresto di Cosimo…) che quel pomeriggio non volle nemmeno partecipare
alla prima arringa di Albizzi contro
il Medici, al Palazzo dei Priori. Quando Lorenzo e Piero tornarono, non
sembravano molto ottimisti, tuttavia il giovane Medici era agguerrito, aveva
tirato fuori tutto il suo carattere e si dichiarò disposto a fare di tutto per
cercare delle prove che scagionassero suo padre.
“Se vuoi posso aiutarti” si offrì Giovanni, “dimmi
cosa devo fare.”
“In realtà c’è un altro modo in cui puoi
cercare di aiutare mio fratello e questo puoi farlo soltanto tu” intervenne
Lorenzo. “Cosimo mi ha raccontato che Albizzi sta sviluppando una certa qual
simpatia per te in qualche suo modo contorto, so che sei stato al suo palazzo,
che ti parla spesso… Forse potresti aiutare Cosimo proprio tentando di
convincere Albizzi a desistere dal suo proposito. Io ci credo poco, quel
mascalzone non si lascerà persuadere tanto facilmente, ma non si sa mai, no? E’
comunque un’altra strada. Ognuno di noi proverà a portare a termine il suo
compito e, in questo modo, avremo più possibilità di liberare Cosimo.”
Evidentemente Lorenzo non era al corrente
degli ultimi sviluppi e del fatto che
Giovanni non intendesse più rivolgere la parola a Rinaldo Albizzi perlomeno
fino al Giorno del Giudizio Universale… Ma in ballo c’era la vita di Cosimo e
Giovanni non era un egoista. Trasse un sospiro e cedette.
“Va bene, Messer Lorenzo, proverò a parlare
con Messer Albizzi, ma non fatevi illusioni e continuate ad agire su altri
fronti perché io sono sicuro che questo metodo non funzionerà mai.”
La mattina successiva era prevista la seconda
arringa di Rinaldo Albizzi contro
Cosimo de’ Medici e, questa volta, Giovanni seguì Lorenzo e Piero al Palazzo
dei Priori per assistere… e per dire la sua. Sì, beh, il ragazzo aveva pensato
a un modo tutto suo per respingere le
accuse di Albizzi a Cosimo senza doversi esporre più di tanto con lui…
Albizzi quel giorno diede il meglio di sé (o
il peggio, a seconda di come lo si voglia vedere). Aveva fatto portare al
Palazzo dei Priori perfino la statua del David di Donatello come reperto A o qualunque cosa pensava che
fosse, ed era talmente infervorato da proporre addirittura tre capi d’accusa.
Forse Giovanni aveva ragione e lui veramente se le sognava la notte!
La povera statua del David venne esibita come
prova della corruzione e immoralità di Cosimo che, di conseguenza, stava
inquinando le tradizioni di Firenze e la coscienza dei bravi cittadini.
“Questa scultura è un’oscenità” pontificava
Albizzi, dimostrando ancora una volta che il suo gusto artistico era pari a
zero… “Il David è il simbolo di Firenze, ma qui è stato rappresentato come un
ragazzino effeminato che può soltanto indurre pensieri lascivi nelle menti
delle persone. Cosimo è un perverso corruttore dei costumi della nostra città!”
La seconda accusa era, come ovvio, quella di
usura, la più cara e sentita da
Albizzi! Cosimo venne accusato di essersi arricchito estorcendo denaro con gli
interessi a povera gente e perfino ad un convento. Cosimo era dunque anche un imbroglione, un ladro e un
usuraio (già sentita…).
La terza accusa, però, fu la perla della
giornata.
“C’è però una cosa ancora più grave di queste”
dichiarò l’uomo in tono ispirato, facendo pure una pausa a effetto per attirare
ancora di più l’attenzione. “Cosimo de’ Medici ha ostentato grande generosità
verso gli ammalati di peste durante l’epidemia, ma il suo vero scopo era molto
più losco: lui vuole conquistare il popolo per poi tentare un colpo di Stato,
distruggere la Signoria e diventare l’unico tiranno, padrone incontrastato di
Firenze. E questo, signori miei, si chiama alto tradimento e deve essere punito
con la pena di morte!”
Cosimo ascoltava le accuse, allibito. Invece
Lorenzo non poté più trattenersi e interruppe la tirata di Albizzi.
“E voi, invece, Messer Albizzi, che cosa
avete fatto durante l’epidemia di peste?” domandò.
“Ecco Lorenzo de’ Medici che tenta di
difendere suo fratello, ma le sue parole non serviranno a niente” replicò
Albizzi, sarcastico, per poi affondare il capolavoro della giornata. “Non sono
io sotto processo. Io sono solo un onesto cittadino che ama Firenze e vuole il
bene della città. Io non sono il padrone di Firenze, io ne sono l’umile servitore!”
Parliamoci chiaro, ma quello credeva davvero
di convincere qualcuno con questa stronzata? Ci sarebbe stato da ridere, se non
fosse stato da piangere, e anche il Gonfaloniere fece una faccia che sembrava
voler dire ci mancava solo il povero
martire…
Nei pochi istanti che seguirono questa
sparata, mentre Albizzi teneva ancora la mano sul cuore e il capo chino e tutti
aspettavano in silenzio, risuonò un applauso ostentato e una vocetta scanzonata
e ironica spezzò l’incantesimo.
“Bravo, bravo, bravissimo, che grande
interpretazione, Messer Albizzi!” fece Giovanni, applaudendo e sorridendo. “Avete
sbagliato mestiere, lo sapete? Sareste stato un grandissimo attore, mi sono
quasi commosso! E probabilmente la vostra grande esibizione ha impedito al
Signor Gonfaloniere e ai Messeri qui presenti di rendersi conto di quanto ogni
vostra accusa si possa ritorcere contro di voi con una facilità irrisoria.”
L’intervento di Giovanni fu talmente
spiazzante da impedire a chiunque una reazione. Lo stesso Albizzi restò
interdetto e, con la sua esitazione, diede modo al ragazzo di procedere con la sua
esposizione. Del resto, gli altri Priori e Messeri si guardavano allibiti e Lorenzo
si voltò verso Piero, che continuava a prendere appunti, come a voler dire che
forse far intervenire Giovanni non era stata poi quella bella pensata…
Il Gonfaloniere Guadagni, invece, sembrava
compiaciuto: ultimamente, grazie a quel ragazzino imprevedibile, le assemblee
della Signoria erano diventate molto più movimentate ed era curioso di sentire
cosa avrebbe detto stavolta.
“Tu non puoi parlare, non hai un seggio nella
Signoria e non hai alcun diritto di oltraggiarmi pubblicamente in questo modo!”
reagì infine Albizzi, ma era troppo tardi.
“Invece lo ascolteremo tutti, Messer Albizzi.
Abbiamo stabilito già la volta scorsa che il giovane è un discendente degli
Uberti e, come tale, ha pieno diritto di parlare in questa assemblea in difesa
di Messer Cosimo, se così desidera” tagliò corto il Gonfaloniere.
“Vi ringrazio, Signor Gonfaloniere” disse
Giovanni prima di iniziare, sempre molto divertito. “Bene, cominciamo da quella
povera statua che non vi ha fatto niente e che voi, Messer Albizzi, avete preso
in antipatia proprio come avete fatto con la cupola.”
Qui qualche risatina soffocata si fece
sentire tra i Priori, con grande dispetto di Albizzi.
“E’ vero, questa statua rappresenta David
come un ragazzino, ma vedete… ecco, se voi aveste letto veramente la Bibbia,
invece di usarla come vostro scudo senza conoscerla nemmeno, sapreste che David
era, in effetti, solo un fanciullo quando affrontò Golia. L’episodio della
Bibbia mette bene in risalto il fatto che il profeta Samuele, quando fu mandato
da Dio a scegliere un campione da opporre al gigante, fu il primo a restare
stupito, perché Dio non scelse uno dei fratelli maggiori, grandi e forti, bensì
il pastorello David, un ragazzino dall’aspetto fragile” spiegò il giovane, e la
sua precisazione, così dettagliata, attrasse l’attenzione anche dei più
scettici. “Perciò io trovo che la statua rappresenti perfettamente il vero
David così com’è descritto nella Sacra Scrittura. Quanto al fatto che questa
rappresentazione ispiri pensieri lascivi nella gente… beh, per me non è così e
non credo che sia così nemmeno per la maggior parte dei presenti.”
Ovviamente tutti si affrettarono a negare…
“Bene, dunque, se questa statua di un David
giovane e apparentemente debole induce pensieri osceni in voi, Messer Albizzi… oserei dire che questo è piuttosto un problema
vostro e non della statua, non vi
pare?” e con questa allusione Giovanni vendicò su due piedi l’offesa ricevuta
due giorni prima dall’uomo, di essersi venduto
a lui. Ora, se non altro, erano pari.
Dall’assemblea della Signoria si levarono
grandi risate, anche il Gonfaloniere dovette farsi notevole violenza per
smettere di sghignazzare e cercare di riportare l’ordine e perfino a Cosimo
scappò un sorriso. Decisamente non aveva sbagliato a puntare su quel ragazzo,
comunque fosse finita quella brutta storia…
“In quanto al fatto che Messer Cosimo abbia
praticato l’usura… beh, io forse non avrei osato toccare l’argomento” riprese
Giovanni, quando le risate si furono placate. “Dimenticate forse, Messer
Albizzi, che voi stesso avete dichiarato pubblicamente che avreste sfamato e pagato chiunque avesse
lavorato per distruggere la cupola? Credo che vi abbia sentito tutta Firenze. E
sono certo che molti qui presenti potrebbero testimoniare di aver ricevuto da voi l’offerta di una posizione di
prestigio o terre o qualsiasi altra cosa purché avessero votato contro Messer
Cosimo. Io questa la chiamo corruzione…
o forse la Signoria fiorentina le dà un altro nome?”
Qui le sghignazzate si fecero più forti, ma
diversi tra i sostenitori di Albizzi, e qualcuno anche tra quelli di Cosimo,
abbassarono lo sguardo, segno che le offerte le avevano ricevute eccome!
“Infine, come dimenticare la vostra
magistrale interpretazione di umiltà quando vi siete dichiarato servitore di Firenze e al contempo avete
accusato Messer Cosimo di volersi fare tiranno. Veramente commovente, ve l’ho
detto, come attore avreste un futuro garantito. Peccato che siate tanto
teatrale quanto ipocrita, perché le voci che corrono dicono che in realtà siete
proprio voi che state organizzando
una Signoria tutta nuova, con voi stesso a capo e i vostri alleati come
consiglieri. E’ per questo e solo per questo che state cercando di eliminare
Messer Cosimo” concluse Giovanni. “Le vostre accuse non stanno in piedi, perché
voi stesso potreste essere accusato delle medesime colpe. Cosa ne dite di
questo, Messer Albizzi?”
Albizzi avrebbe avuto parecchie cose da dire,
ma sarebbero state principalmente parolacce. Così fece uno sforzo per dominarsi
e per non mostrare quanto le parole di Giovanni avessero colpito nel segno,
indossò di nuovo la sua maschera imperturbabile e si rivolse al Gonfaloniere e
ai Priori come un agnello innocente mandato al massacro.
“Signori, dovremo stare ad ascoltare ancora
per molto le parole di un ragazzino che non ha nemmeno un seggio nella Signoria
eppure osa comunque scagliare accuse contro uno dei suoi membri più nobili ed
eminenti?” esclamò, fingendosi scandalizzato. “Signor Gonfaloniere, chiedo che non
si tenga conto alcuno della testimonianza di Messer Uberti, che non avrebbe
dovuto nemmeno avere il permesso di prendere la parola.”
“Va bene, Messer Albizzi” acconsentì il
Gonfaloniere, che si era già divertito abbastanza. “I membri della Signoria non
tengano conto delle parole di Messer Uberti!”
Albizzi si rivolse a Giovanni.
“Nessuno terrà conto delle tue parole e delle
tue ridicole accuse, ragazzino impudente” gli disse, trionfante.
“Molto bene, tuttavia le hanno sentite” replicò Giovanni, senza perdere
il suo sorrisetto. Sì, forse i membri della Signoria avrebbero finto di non
credere a ciò che aveva detto, magari molti di loro si erano già fatti
corrompere da Albizzi, ma lui era soddisfatto: si era tolto diversi sassolini
dalla scarpa e sentiva di aver fatto veramente quello che poteva per difendere
Cosimo de’ Medici.
Il Gonfaloniere sciolse l’assemblea, le
guardie riportarono Cosimo in cella e Giovanni seguì Lorenzo e Piero che
uscivano dal Palazzo dei Priori.
“Hai parlato bene, Giovanni, però non era
proprio questo l’aiuto che speravo da
te” gli disse Lorenzo, perplesso. “Albizzi potrebbe inasprirsi ancora di più
contro Cosimo e…”
Proprio in quel momento, Albizzi in persona
piombò in mezzo al piccolo gruppetto, afferrò Giovanni per un braccio e lo
strattonò via.
“Tu adesso vieni al mio palazzo, piccolo
impertinente. Io e te dobbiamo fare una bella chiacchierata” ordinò,
perentorio.
“Non temere, sono certo che non gli farà
alcun male” lo rassicurò Lorenzo. “Dopo le accuse all’assemblea, se a Giovanni
succedesse qualcosa, Albizzi sarebbe il primo ad essere sospettato e lui non è
certo così sciocco. Anzi, forse il nostro giovane amico riuscirà a trovare
qualche altro suo punto debole che noi potremo usare per salvare Cosimo.”
Piero non era molto convinto, ma non poté far
altro che accettare l’inevitabile e lasciare che Albizzi portasse di nuovo Giovanni
al suo palazzo. In fondo lui aveva già abbastanza da fare per recuperare prove
che potessero scagionare suo padre…
E Lorenzo de’ Medici aveva ragione: Albizzi
era sì indignato per essere stato ridicolizzato alla Signoria, ma ciò che più
gli bruciava era che Giovanni si fosse messo, di nuovo, apertamente contro di
lui. Non aveva dimenticato quello che era successo tra loro, nel bene e nel
male, e adesso si sentiva nuovamente tradito, come vent’anni prima… soltanto
che, in questo caso, era consapevole di essersela cercata. Aveva oltraggiato
lui Giovanni, lo aveva umiliato e adesso il ragazzo si era vendicato. Forse,
dopo tanto tempo, non era più in grado di tenersi accanto le persone?
Rinaldo Albizzi sentiva che valeva la pena
cercare di riportare Giovanni dalla sua parte e non solo per liberarsi di
Cosimo, c’era anche qualcos’altro… non voleva perdere l’unica persona che, dopo
tanti anni, gli aveva fatto pensare di potersi ancora aprire con qualcuno.
I'm walking
uphill both ways, it hurts
I bury my heart here in this dirt
I hope it's a seed, I hope it works
I need to grow, here I could be
Closer to light, closer to me
I don't have to do this perfectly, yeah
Rain, it pours,
rain, it pours
It's pouring on me
The rain, it falls, rain, it falls
Sowing the seeds of love and hope, love and hope
We don't have to stay, stuck in the way
Have I the
courage of change?
Have I the courage of change?
Have I the courage of change today? (Oh)
(“Courage” – Pink)
Giovanni non sapeva
cosa aspettarsi una volta giunto a palazzo Albizzi ma Rinaldo, tutto sommato,
non appariva arrabbiato come avrebbe potuto essere, vista la colossale figura di merda fatta alla Signoria. No,
sembrava piuttosto… era difficile dirlo… forse deluso da Giovanni.
“Io non ci posso credere” gli disse infatti,
non appena furono soli nella sua stanza. “Ti rendi conto di come mi hai
umiliato davanti a tutti i membri della Signoria?”
“Me ne rendo conto sì, l’ho fatto apposta”
replicò il ragazzino. “Ve lo meritavate per come mi avete mortificato e poi
dovevo pur controbattere le vostre ridicole accuse ai danni di Messer Cosimo.”
Rinaldo rimaneva sempre destabilizzato di
fronte a tanta ammirevole sfacciataggine!
“Non erano affatto ridicole, è tutto vero.
Cosimo è colpevole e dovrà essere giudicato e condannato” insisté, e
probabilmente almeno lui ci credeva sul serio!
“Voi per primo sapete che non è così” fece
notare Giovanni, “ed è proprio per questo che ho voluto dimostrare ai membri
della Signoria quanto le stesse accuse che voi muovete a Messer Cosimo possano
valere anche per voi, in mancanza di prove. Io non penso di voi le cose che ho
detto, ma così tutti hanno capito quanto sia facile colpire qualcuno con accuse
prive di fondamento.”
“Ah, mi fa piacere sentire che almeno non lo
pensi davvero” fece Albizzi, sconcertato.
“No, non lo penso, ma almeno io lo ammetto.
Voi, invece, sapete benissimo che Messer Cosimo è innocente e volete lo stesso
condannarlo, come fecero tanti anni fa con i miei antenati!” lo accusò il
ragazzo.
“Cosimo non è affatto innocente, tutt’altro”
ribatté Albizzi, che ora cominciava chiaramente a perdere buona parte del suo
dignitoso aplomb. “E’ un sovvertitore
delle tradizioni, un immorale, un uomo che pensa solo al denaro e che vuole
distruggere i nobili per far governare mercanti e contadini!”
“Santa pazienza, ma voi vi ascoltate mai
quando parlate, Messer Albizzi? Queste sono assurdità! Comunque possa pensarla
Messer Cosimo, le famiglie nobili non perderanno mai il loro potere e
prestigio” disse Giovanni, molto più pratico e meno idealista. “E voi volete
far esiliare o, peggio, uccidere un uomo per simili sciocchezze?”
Era troppo difficile continuare a fare la
commedia davanti a quel ragazzo che si dimostrava tanto logico e pragmatico. Rinaldo
Albizzi comprese che, almeno con lui, doveva essere sincero fino in fondo. E, a
dirla tutta, la verità gli bruciava dentro così tanto e da così tanto tempo che
non poteva più celarla.
“Voglio che Cosimo soffra come ho sofferto
io!” esclamò, afferrando Giovanni per le spalle. “Voglio vedere la sua famiglia
rovinata e umiliata così come lui ha fatto con la mia. E’ questo che volevi
sentirmi dire? Eppure proprio tu dovresti capirmi meglio di tanti altri!”
Giovanni vide il dolore ancora vivo e presente
negli occhi di Albizzi, sentì l’accento disperato nella sua voce… e per la
prima volta si sentì toccare fino in fondo al cuore.
Quell’uomo soffriva davvero tanto, da venti
anni non trovava pace, e ogni sua malvagità, alla fine, derivava da questo,
comprese le stronzate che spesso faceva, tipo quella di cercare di far
distruggere la cupola… insomma, si capiva che non ci stava tutto con la testa,
ma adesso il giovane Uberti sembrava comprendere veramente e in modo totale
quanto tutta quella rabbia e quella lacerazione interna lo avessero
condizionato. Annuì, provando un’improvvisa quanto violenta empatia nei
confronti di Rinaldo, tale da esserne quasi travolto.
“Avete ragione su questo, Messer Albizzi, io
posso capirvi” ammise, in tono comprensivo. “Sono venuto a Firenze proprio per
avere giustizia per la mia famiglia, perché chi l’ha osteggiata e gettata nel
fango faccia ammenda e riabiliti il nome degli Uberti. Ma quello che cercate
voi non è più giustizia, è diventata vendetta.”
“Giustizia, dici?” obiettò Albizzi con
veemenza. “E’ stato forse giusto quello che i Medici hanno fatto alla mia
famiglia? E’ stato giusto denunciare mio padre per i suoi debiti e fargli
perdere il posto nella Signoria?”
“No, non è stato giusto” replicò Giovanni, “non
è stato giusto per niente, ma non lo sarebbe nemmeno far pagare un uomo
innocente per le colpe di suo padre.”
“Perché, tu non lo faresti, se potessi?”
insisté l’uomo, che per qualche sua misteriosa ragione aveva proprio bisogno di
sentirsi dar ragione da quel ragazzino strafottente… “Non vorresti punire le
famiglie che hanno distrutto la tua?”
Giovanni si rabbuiò, quello era sempre un
tasto dolente per lui.
“Certo che lo vorrei…” ammise. “Vorrei che i
colpevoli marcissero in prigione fino alla fine dei loro giorni. Ma il fatto è
che sono già morti da anni, Messer Albizzi, da molti anni, e non avrebbe senso
per me colpire i loro discendenti adesso. Non mi farebbe sentire meglio e non
mi darebbe pace. Voi credete veramente che vi sentirete appagato se riusciste a
far condannare Messer Cosimo?”
Un lampo saettò negli occhi di Albizzi.
“Certo che sì. Senza di lui la sua famiglia
si dissolverà e le cose, finalmente, cambieranno per noi nobili” dichiarò. “E
tu dovresti pensarla allo stesso modo, come discendente di una nobile casata.
Anzi, dovresti appoggiarmi!”
“Non è questo il modo di aiutarvi veramente,
lo volete capire o no? Io vi capisco, ma sempre più spesso mi chiedo… ecco, mi
chiedo…”
Giovanni sapeva che non avrebbe dovuto dire sempre tutto quello che gli passava per
la testa, ma in genere non riusciva a trattenersi e non lo fece nemmeno quella
volta.
“Mi chiedo quanto abbia sofferto quel ragazzo
aperto e scanzonato di vent’anni fa per diventare una persona fredda e senza
scrupoli” mormorò, con lo sguardo perso nel vuoto. “Fino a che punto sia stato
spezzato dentro…”
Per un lunghissimo istante ci fu un silenzio
assoluto e quasi spaventoso.
Giovanni era consapevole di aver detto
qualcosa di immenso, qualcosa che andava oltre la sua solita impudenza e che
era, a tutti gli effetti, il punto focale della questione.
Rinaldo pensava invece che nessuno mai, in
quegli ultimi vent’anni, aveva compreso così bene il suo dramma interiore,
nessuno mai aveva cercato di condividerlo.
Quel ragazzino era davvero particolare e lui
lo voleva assolutamente dalla sua parte, ad appoggiarlo e sostenerlo. Doveva
essere suo e non legarsi a quegli
usurai dei Medici (tanto per cambiare…)!
Lo prese tra le braccia e lo baciò con foga, per poi
distendersi con lui nel letto continuando a baciarlo e accarezzarlo, sempre più
profondamente, sfiorando quel corpo giovane e delicato, consapevole che non
doveva esagerare, che il ragazzo non doveva spaventarsi; lo prese con infinita
pazienza e premura, attento a non fargli male, fino a giungere con lui ad una
totale fusione di amore e dolcezza. Lì non c’era niente che non andasse, tutto
sembrava possibile, anche ritrovare la pace senza bisogno di condannare Cosimo…
ma era troppo presto, tutto andava troppo veloce e Rinaldo, in realtà, non era
ancora pronto a trovare il coraggio di cambiare.
Giovanni
se ne sarebbe accorto fin troppo presto…
La
mattina successiva Cosimo de’ Medici era chiamato a testimoniare in propria
difesa davanti a tutta la Signoria. L’uomo, però, era stato drogato con del
vino avvelenato dal suo carceriere (ovviamente pagato proprio da Albizzi:
perché, avevate dei dubbi in proposito?) e non poté difendersi, balbettò
qualche parola sconnessa e poi cadde a terra e dovette essere soccorso.
Piero,
che era presente all’assemblea della Signoria con Marco Bello e Giovanni, pur
con molta titubanza e timidezza si offrì di testimoniare in favore del padre:
lui aveva trovato le prove che dimostravano che i Medici non praticavano
affatto l’usura, ma anzi facevano spesso donazioni generose a conventi e
monasteri. Nonostante l’evidente disagio, le parole di Piero furono chiare e
probabilmente sarebbero riuscite pure a convincere qualcuno, se non ci si fosse
messo il solito Albizzi a contestare ogni affermazione del ragazzo, allo scopo
non solo di invalidare la sua testimonianza ma anche di metterlo in ridicolo,
da vero bastardo dentro.
“Messeri,
non vorrete veramente credere alle sciocchezze di questo ragazzino? E’ chiaro
che sta solo cercando di ingannarci, come fanno sempre i Medici” intervenne,
con un sorrisetto maligno. “Ne abbiamo abbastanza dei trucchi e dei sotterfugi
di questa famiglia di imbroglioni e dobbiamo condannare Cosimo una volta per
tutte!”
Nella
Signoria c’era indecisione: in realtà Piero era stato piuttosto convincente e
anche alcuni nobili parevano pronti a cambiare idea… ma l’intervento sprezzante
di Albizzi lo riportò in vantaggio.
Fu
allora che Giovanni si arrabbiò veramente e, con grande soddisfazione del
Gonfaloniere Guadagni che si divertiva sempre quando lo vedeva, fece la sua mossa geniale!
“Proprio
voi accusate i Medici di ingannare e ostentare trucchi, Messer Albizzi?”
esclamò il ragazzo, facendosi avanti. Dentro di sé si sentiva ribollire di
rabbia e non sapeva se fosse più per come Albizzi aveva appena mortificato
Piero… o per come aveva ingannato lui. La sera prima era sembrato un’altra
persona, pareva cercare conforto e comprensione da lui e adesso tornava a
essere il tronfio arrogante di sempre. Sì, forse era questo che irritava di più
Giovanni… “Messeri, nessuno si è chiesto perché mai Messer Cosimo si senta così
male? Pensate forse che abbia preso un’infreddatura? Guardatelo bene… soltanto
a me sembra drogato?”
Un
mormorio di stupore attraversò la Signoria e più di uno dei presenti dovette
ammettere che, in effetti, il ragazzo non aveva tutti i torti: Cosimo de’
Medici presentava sintomi alquanto strani che non potevano essere ricondotti ai
disagi e al gelo della cella.
“Forse
siete stato voi a farlo drogare, Messer Albizzi, per impedirgli di testimoniare
in sua difesa? O magari volevate avvelenarlo,
così vi toglievate il pensiero e al diavolo il voto della Signoria?” riprese
Giovanni, ma questa volta la sua accusa fu fin troppo infamante.
Rinaldo
Albizzi si scagliò su di lui e lo colpì con uno schiaffo che lo sbatté a terra,
bello disteso sopra il giglio, simbolo di Firenze, che ornava il pavimento del
Palazzo dei Priori.
“Ora
stai veramente esagerando, ragazzino insolente. Come ti permetti di insultare
in questo modo un membro della Signoria? Le tue accuse sono oltraggiose e
dovrei farti arrestare su due piedi!” ruggì. “Ti stai prendendo fin troppa
libertà confidando sull’appoggio dei Medici e sulla pazienza del Gonfaloniere,
ma adesso basta, non tollererò altre ingiurie da parte tua. Sei solo un
ragazzino che crede di essere chissà chi perché discende da una casata
decaduta!”
Ecco.
Forse Giovanni era andato troppo oltre con le sue accuse, ma ora Rinaldo aveva passato
il segno offendendo il nome degli Uberti.
Il
ragazzo si rialzò in piedi lentamente, tenendosi la mano sulla guancia colpita
e sfregando il labbro inferiore ferito e insanguinato. Quando parlò di nuovo ad
Albizzi, la sua voce sembrava venire da un’altra dimensione e anche il
nobiluomo fu colpito dall’odio che lesse nei suoi occhi.
Forse,
in quel momento, anche lui si rese conto di aver appena fatto una grandissima
stronzata…
“Magari
la mia casata sarà caduta in disgrazia, ma ricordate bene le mie parole: voi
stesso sarete la rovina della vostra. Tra qualche anno, nessuno ricorderà
nemmeno più che sia esistita una famiglia che si chiamava Albizzi, e sarà un bene per tutti, visto che razza di essere
spregevole siete voi!” sibilò.
“Messer
Uberti, se continuerete su questi toni sarò costretto a farvi arrestare” disse
il Gonfaloniere, non con fare minaccioso, però, piuttosto come un padre che
rimprovera il figlio scapestrato. In fondo a lui quel ragazzino piaceva e, al
contrario, non aveva grande simpatia per Rinaldo Albizzi che pretendeva di
spadroneggiare su tutto e tutti come se fosse stato lui il Gonfaloniere.
“Non
preoccupatevi, Messer Gonfaloniere, non intendo proseguire” rispose Giovanni. “Non
ho altro da dire a Messer Albizzi, né ora né mai più.”
Girò
sui tacchi e uscì di scena con un’aria da principino offeso che avrebbe fatto
ridere, non fosse stato per la drammaticità della situazione.
“Dunque…
si dia inizio alla votazione per decidere il destino di Cosimo de’ Medici”
annunciò allora il Gonfaloniere, che doveva riprendere in mano la situazione.
Ma
Albizzi non era d’accordo. Dopo tutto quello che era successo, c’era il rischio
che la votazione andasse a favore di Cosimo e lui non poteva permetterlo.
“Non
possiamo farli votare ora” disse al figlio, come se fosse la parola d’ordine. E
probabilmente lo era, perché Ormanno scattò e colpì con un pugno uno dei
presenti, che poco prima era sembrato favorevole alla testimonianza di Piero…
si scatenò una rissa generale, un po’ come succede nel Parlamento italiano
oggigiorno, tanto per capirsi, e il Gonfaloniere non poté fare altro che
aggiornare la seduta.
Insomma,
pareva proprio che Rinaldo Albizzi volesse prendere la Signoria per sfinimento: non li avrebbe fatti votare
finché non avessero votato come voleva
lui.
Aveva
un suo personalissimo concetto di democrazia,
a quanto pareva!
And I won't bow,
I won't break
No, I'm not afraid of you whatever it takes
I'll never bow, I'll never break
'Cause I'm a
warrior
I fight for my life like a soldier
All through the night
And I won't give up, I will survive
I'm a warrior
And I'm stronger, that's why I'm alive
I will conquer, time after time
I'll never falter, I will survive
I'm a warrior.
(“Warrior” – Avril Lavigne)
Alla fine Rinaldo Albizzi era riuscito a
prendere la Signoria per sfinimento, anche perché non avrebbe smesso di
convocare assemblee finché la maggioranza non avesse votato la condanna di
Cosimo! Così quei poveretti dovettero, in effetti, dare il loro voto per
condannare il Medici: in caso contrario, probabilmente non sarebbero mai più
ritornati a casa dai loro cari, imprigionati a vita nel Palazzo dei Priori…
A quel punto, però, si era creato un bel
casino perché Lorenzo de’ Medici aveva pagato il Generale Sforza e il suo
esercito e si trovava con loro alle porte di Firenze, minacciando di mettere a
ferro e fuoco la città se suo fratello non fosse stato liberato.
La situazione alquanto critica era
tuttavia stata risolta dall’intervento della volitiva Contessina che si era
presentata irrompendo a cavallo nel Palazzo dei Priori e aveva convinto i
membri della Signoria a commutare la condanna a morte di Cosimo in esilio, pena
l’attacco a Firenze da parte dell’esercito guidato da Francesco Sforza.
In conclusione, la famiglia Medici era
stata condannata all’esilio. Cosimo, invece di essere grato alla moglie che gli
aveva salvato la pellaccia, si era infuriato come una iena (forse preferiva
morire da martire?) e aveva deciso di
partire per Venezia con Lorenzo, Piero e Lucrezia lasciando Contessina a
Palazzo Medici… insieme al solo Giovanni che, com’è ovvio, non essendo un
Medici non aveva subito le conseguenze di quella condanna.
A dirla tutta, il ragazzo era rimasto
molto deluso da Cosimo: Contessina era stata tanto coraggiosa e aveva fatto di
tutto per amor suo e lui la trattava così male? Così, prima che Cosimo partisse
con la famiglia per Venezia, volle dirne quattro anche a lui (anche per la par condicio…).
“Messere, trovo che vi siate comportato
in maniera inqualificabile con vostra moglie che invece ha mostrato tanto
coraggio e tanto affetto nei vostri confronti” gli disse senza mezzi termini.
“Io l’ho ammirata molto e voi avreste dovuto fare lo stesso e ringraziarla, non
certo trattarla con una simile e ingiustificata durezza!”
Cosimo era ancora parecchio seccato per
via dell’esilio, tuttavia anche a lui non dispiaceva avere qualcuno che, ogni
tanto, gli dicesse le cose in faccia… visto che in fondo lo faceva per il suo
bene.
“Dovrei essere felice per una condanna
all’esilio? Proprio tu me lo dici? Eppure sai bene che cosa significhi”
replicò, brusco.
“Certo, ma so anche che dall’esilio si
può tornare, dalla tomba è un tantino più
difficile” ribatté Giovanni. “E poi l’idea di vostro fratello Lorenzo, far
saccheggiare Firenze dagli uomini di Sforza… ma che gli diceva il cervello?
Possibile che in questa città non ci sia nessuno che riesca a comportarsi come
una persona normale?”
Il Medici voleva mostrarsi arrabbiato,
ma il modo di fare di Giovanni gli metteva addosso una gran voglia di ridere.
Tuttavia ostentò ancora un’aria fredda e severa, aveva una reputazione da
mantenere, lui.
“Non è stata certo colpa di Lorenzo, lui
ha solo cercato di liberarmi. Albizzi ha avuto la possibilità di accettare le
nostre condizioni e le ha rifiutate sdegnoso” fece notare.
“Messer Albizzi, ah, certo, buono anche
quello!” esclamò il ragazzo, esasperato. “A volte penso che siate entrambi dei gran
testardi e che forse dovreste risolvere la questione che vi trascinate dietro
da vent’anni facendo a cornate tra di
voi. Sarei veramente curioso di vedere chi dei due ha la testa più dura!”
A quel punto Cosimo non riuscì più a
trattenersi e scoppiò in una gran risata.
“Forse avremmo dovuto farlo tanto tempo
fa, ma ormai è tardi” replicò. “Sono certo che Contessina saprà gestire gli
affari di famiglia al meglio durante la mia assenza e chissà, magari hai
ragione e un giorno i Medici potranno far ritorno a Firenze.”
“Ne sono convinto” affermò Giovanni.
Quando Cosimo uscì dal palazzo con la
sua famiglia, era ancora amareggiato con la moglie, ma il breve colloquio con
il giovane Uberti gli aveva risollevato almeno un po’ il morale e ridato
speranza. L’esilio non era la fine di tutto, Giovanni aveva ragione. Le cose
sarebbero potute cambiare, mentre la morte sarebbe stata… come dire… ben più definitiva. In esilio i Medici avrebbero
potuto fare amicizie, stringere alleanze e chissà, forse sarebbero rientrati a
Firenze prima del previsto.
Ma le cose non andavano
affatto bene a Firenze mentre Cosimo e la sua famiglia erano in esilio a
Venezia. Nei mesi successivi, Rinaldo Albizzi assoldò un gran numero di
mercenari per tenere la città in un regime di terrore ed essere più sicuro di
mantenere il potere, ma ottenne il solo risultato di rendersi ancora più odioso
agli occhi della gente comune, che pativa la fame e la perdita di casa e
lavoro, e perfino di alcuni degli stessi nobili, privati del loro potere e
consapevoli che la loro vita e quella dell’intera Firenze andava molto meglio
quando c’erano i Medici, che fossero o meno dei mercanti arricchiti.
Ancora peggio stavano
andando le cose per Giovanni, a cui sembrava di rivivere come in un incubo le
stesse persecuzioni e sofferenze provate dai suoi antenati: ancora una volta
una famiglia aveva assunto il potere con l’inganno, cacciando ingiustamente la
casata rivale; ancora una volta Firenze pativa la sottomissione forzata a un
tiranno e a mercenari stranieri e una lotta intestina che la dissanguava giorno
dopo giorno. Spesso il ragazzo pensava di aver commesso un grandissimo errore
venendo a Firenze con l’illusione che fosse un luogo diverso, dove gli Uberti
avrebbero riavuto gli onori che spettavano loro e dove finalmente la gente
avrebbe potuto vivere in pace e benessere, senza queste continue rivolte, senza
sicari che potevano tagliarti la gola in un vicolo o massacrarti di bastonate
per un capriccio.
E pensava anche che,
forse, tutto ciò che aveva sognato si sarebbe anche potuto avverare se i Medici
fossero rimasti al potere… ma la situazione era precipitata per colpa di
Albizzi, sì, quello stesso Albizzi a cui lui si era avvicinato, per il quale
aveva provato empatia, comprensione e… beh, sì, anche qualcos’altro che nemmeno
capiva bene.
Aveva sbagliato
tutto. Non avrebbe mai dovuto lasciarsi avvicinare da quell’uomo, anche se era
stato proprio Messer Cosimo a favorire quel legame, sperando in un’improbabile
riconciliazione con Rinaldo che proprio da quell’orecchio non ci sentiva. Erano
stati ingenui tutti e due, perfino Cosimo de’ Medici. Non c’era possibilità di
redenzione e di riconciliazione per uno come Albizzi, avrebbero dovuto
spazzarlo via e tanti saluti.
Eppure, ogni volta
che pensava così, Giovanni si sentiva male e non capiva perché.
Nel frattempo, Contessina
faceva il possibile per gestire gli affari dei Medici in una Firenze in piena
crisi e cercava anche alleanze con persone che avrebbero potuto aiutarla a
riportare a casa la sua famiglia. Una sera fu invitata ad una cena a Palazzo
Pazzi (che già allora non era un posto troppo sicuro in cui trovarsi…) da un
suo vecchio amico, innamorato di lei da sempre, Ezio Contarini. L’uomo
desiderava aiutarla e aveva pensato che partecipare a un banchetto al quale
erano presenti persone influenti come, appunto, Messer Pazzi, gli Albizzi, i
Contarini, il Gonfaloniere e altri sarebbe stato vantaggioso per lei. Dopo
molti ripensamenti, Contessina aveva accettato, ma a patto che con lei ci fosse
anche Giovanni. Non le sembrava corretto presentarsi ad una cena al fianco di
un suo vecchio spasimante proprio mentre il marito era in esilio, Dio solo
sapeva quante chiacchiere e calunnie girassero già sul suo conto: la presenza
di Giovanni avrebbe reso meno scandalosa quell’uscita e, inoltre, lui era un
Uberti e aveva pieno diritto di presenziare ad un banchetto di nobili.
Giovanni accettò
molto di malavoglia. Gli veniva l’orticaria al solo pensiero di metter piede a
Palazzo Pazzi (eh, già, non dimenticava il ruolo che quella famiglia aveva
avuto al fianco dei Donati nella persecuzione dei suoi antenati… e il lupo
perde il pelo ma non il vizio!) e, come se non bastasse, non aveva nessuna
voglia di ritrovarsi di fronte ad Albizzi. L’ultimo incontro avuto con lui era
stato soprattutto uno scontro, con quel ceffone che gli aveva tirato di fronte
a tutta la Signoria e le accuse urlate contro di lui e l’oltraggio alla sua
famiglia e… insomma, preferiva stargli lontano e basta.
Tuttavia non poteva
deludere Contessina che era sempre stata così gentile con lui.
Giovanni si era preparato
a una serata da schifo sotto ogni punto di vista, ma di certo non si aspettava
che le cose sarebbero andate ancora peggio del previsto!
Entrato nel salone di
Palazzo Pazzi accanto a Contessina, non ebbe neanche il tempo di sentirsi
rivoltare lo stomaco per la presenza del padrone di casa perché, proprio
accanto ad Andrea Pazzi e al Gonfaloniere Guadagni, a fare gli onori di casa in casa d’altri stava Rinaldo Albizzi,
tutto tronfio, compiaciuto e soddisfatto… con la moglie al fianco.
Albizzi accolse
Contessina con un gran sorriso (falso come Giuda) e cominciò a dire un mucchio
di cretinate sul fatto che l’ammirava per il suo coraggio, che conosceva bene
il suo nobile padre, che Cosimo era stato un vero sciocco a non seguire i suoi
saggi consigli e altre idiozie similari, ma Giovanni non capì una parola, non
le sentiva nemmeno, a dire il vero. Tutta la sua attenzione era stata catturata
dal modo in cui Madonna Albizzi stava appesa al braccio del marito con la
stessa espressione tronfia e soddisfatta su quella faccia da stronza,
ingioiellata come la Madonna in processione (questi furono i pensieri che
passarono per la mente del ragazzo…), e dalla naturalezza con cui
quell’ipocrita perverso di Albizzi faceva la parte del marito modello.
Il mal di stomaco che
aveva iniziato a torturare Giovanni già dal momento in cui aveva fatto il suo
ingresso nel salone di Pazzi si trasformò, di colpo, in un dolore acuto e
bruciante come se fosse stato trafitto da una spada infuocata e si irradiò
dallo stomaco al cuore, alla testa e in un sacco di altri posti.
Rabbia, dolore,
delusione, indignazione, mille sentimenti travolsero il ragazzino, che avrebbe
soltanto voluto mettersi a urlare.
Il Gonfaloniere
Guadagni, che lo aveva preso in simpatia fin dal suo primo duello verbale con
Albizzi (e che, forse, sperava di divertirsi anche quella sera), fu il primo ad
accorgersi del pallore mortale sul viso di Giovanni.
“Messer Uberti, vi
sentite bene?” domandò, preoccupato.
A quel punto anche
Contessina e Contarini si volsero verso di lui e la donna si spaventò vedendolo
in quelle condizioni.
“Giovanni, sei
pallidissimo e stai tremando, che cos’hai?” gli chiese, posandogli una mano
sulla fronte per sentire se avesse la febbre, ma il volto del ragazzo era
gelido. “Ti senti male? Ezio, forse dovremmo andarcene…”
“No” riuscì a
mormorare Giovanni, e la sua voce sembrava provenire dall’oltretomba, “no, non
voglio che vi disturbiate per me, Madonna. Io… io non mi sentivo bene già prima
di arrivare qui, credevo di farcela ma… ecco, preferisco tornare a Palazzo
Medici. Voi però restate pure con Messer Contarini, non vi preoccupate, non
voglio rovinarvi la cena.”
Dal canto suo
Albizzi, che ostentava generalmente la sensibilità di un pachiderma ma in
realtà era molto più acuto, aveva compreso perfettamente la ragione del
repentino malessere del ragazzo. Anzi, forse in un certo qual modo sapeva di
averlo perfino provocato, ma vedendolo stare così male aveva iniziato a provare
un principio di qualcosa che poteva ricordare, molto alla lontana, un senso di
colpa.
“Ti faremo
accompagnare a Palazzo Medici da qualcuno, non puoi andare da solo in queste
condizioni” disse, ma uno sguardo di puro odio di Giovanni lo azzittì seduta
stante.
“Conosco
perfettamente la strada” replicò in tono glaciale.
Per un istante tutti
ammutolirono, poi fu Contessina la prima a intervenire.
“Come preferisci,
Giovanni” disse, “il nostro Palazzo non è lontano e a casa ci sarà Emilia.
Rivolgiti a lei per qualsiasi bisogno, va bene? E io tornerò presto.”
“Vi ringrazio,
Madonna Contessina. Perdonatemi ancora, e anche voi, Messer Contarini” rispose
il ragazzo. “Vi auguro una buona serata.”
Rivolse poi uno
sguardo frettoloso davanti a sé.
“Buona serata anche a
voi, Messer Guadagni, e scusate questo spiacevole contrattempo” disse al
Gonfaloniere, ignorando ostentatamente tanto Pazzi quanto Albizzi e consorte.
Girò sui tacchi e se ne andò seguendo le regole della più elementare forma di
maleducazione, tanto per far capire al gruppetto che cosa pensava di loro.
Giovanni tornò in
fretta a Palazzo Medici, che in effetti non era molto lontano da Palazzo Pazzi
(pensate voi, erano pure vicini di casa!)
e camminare all’aria aperta gli permise di scaricare un po’ del nervosismo
accumulato. Però, nel momento in cui giunse a palazzo e riuscì ad arrivare fino
alla sua stanza, la tensione che lo aveva sostenuto fino a quell’istante si
sciolse e il ragazzo poté soltanto buttarsi sul letto, scoppiando in un lungo
pianto disperato, con singhiozzi che lo scuotevano e lo facevano tremare tutto.
Non
mi importa niente di quel bastardo ipocrita e tanto meno di quella mummia
ingioiellata che si tira dietro! Non me ne importa niente! Che tutti gli
Albizzi brucino all’inferno!
Ma forse qualcosa gli
importava, perché continuò a piangere e piangere finché, sfinito, non si
addormentò.
Il giorno dopo,
comunque, stava meglio. Contessina fu felice di vedere che aveva ripreso un
colorito sano e si sentì più tranquilla quando Giovanni le disse che sarebbe
uscito a fare due passi. Ovviamente anche lei sapeva che Cosimo aveva tentato
di avvicinarlo ad Albizzi nella speranza di una tregua fra loro e aveva
compreso che il ragazzo soffriva perché le cose erano finite così male… magari,
però, non immaginava che Giovanni l’avesse presa così sul personale!
Il giovane Uberti
stava passeggiando sulla riva dell’Arno e, nel frattempo, si diceva che avrebbe
dovuto cominciare seriamente a pensare alla possibilità di andarsene da Firenze
e di raggiungere il fratello e la madre a Mantova, quando venne avvicinato da un
servitore di Rinaldo Albizzi.
“Messer Uberti, il
mio padrone mi ha ordinato di consegnarvi questa lettera” disse l’uomo.
Giovanni guardò
l’incolpevole domestico come se fosse responsabile di tutti i mali del mondo.
“Vi prego, Messere,
prendetela, il mio padrone ha insistito molto” ripeté il servo.
Dite
pure al vostro padrone che può ficcarsi la sua lettera dove non batte il sole e
andarsene al diavolo, pensò il ragazzo, fissando la
missiva come se fosse qualcosa di schifoso appiccicato alla suola del suo stivale.
Tuttavia era pur sempre un giovane nobile e non pronunciò quelle parole. Alla
fine si arrese e prese la lettera, più che altro perché non voleva che quel
pover’uomo fosse punito per non avergliela consegnata. Però la tenne in mano
come se scottasse e non provò nemmeno ad aprirla.
“Beh, adesso l’ho
presa. Cosa ci fai ancora qui?”
“Messere, il mio
padrone mi ha ordinato di attendere la vostra risposta” rispose il servitore.
Un sorrisetto amaro
sfiorò le labbra di Giovanni.
“Ah, davvero? Molto
bene” disse. Accartocciò la missiva e senza pensarci due volte la gettò nel
fiume che scorreva poco distante. “Riferisci pure al tuo padrone che questa è la mia risposta!”
Il servo lo fissò,
allibito, poi chinò il capo in segno di saluto e si allontanò.
Ma
chi si crede di essere quel presuntuoso? Capirà presto cosa significa
oltraggiare un Uberti!
Il gesto impulsivo
era servito a sfogare la rabbia di Giovanni, ma nel cuore del ragazzo restava
una spina che pungeva forte e lo torturava e lui non capiva perché e nemmeno
come farla smettere…
Getting tired, of hearing that
You're dangerous, but they won't stop
Until I leave, they won't believe
That being with you won't break my heart
So worried ‘bout, the road ahead
They can't see that, you're my best friend
They never gonna take me away from you
There's nothing they can do
I can't stop, can't fight, can't resist it
When the wrong one loves you right
I Can't run, I can't hide, I can't say no
When the wrong one loves you right…
(“When the wrong one loves you right” – Celine Dion)
Giovanni credeva di
aver chiuso definitivamente con Albizzi (sebbene la cosa, chissà perché, gli
facesse un gran male in qualche posto in fondo al cuore…), ma si sbagliava di
grosso!
Qualche giorno dopo,
infatti, se lo ritrovò di fronte mentre stava per uscire da Palazzo Medici… e
da lì non poté scappare.
L’uomo lo fissava con
un sorrisetto storto: sapeva bene che fine avesse fatto la sua lettera, ma
sapeva altrettanto bene che, trovandoselo davanti in carne e ossa, Giovanni non
sarebbe riuscito a fare l’indifferente come fingeva di essere.
“Visto che non
rispondi alle lettere, ho pensato che saresti stato molto meno spavaldo se mi
fossi presentato di persona” gli disse, divertito dal suo evidente imbarazzo.
“O forse pensi di buttare in Arno anche me?”
Era proprio vero.
Giovanni, di fronte a lui, aveva perso tutta la sua baldanza in meno di un
secondo! Tuttavia cercò di darsi un certo contegno, attingendo alla nobiltà
degli antenati Uberti e a tutte quelle cose là.
“Cosa siete venuto a
fare?” fece, scontroso.
“Non è ovvio? Volevo
parlarti” e, così dicendo, lo prese per le spalle e si accostò a lui invadendo
di molto il suo spazio vitale. “Tu c’entri qualcosa con la rottura del
fidanzamento tra mio figlio e Isabella Contarini?”
Giovanni lo guardò
come se avesse bestemmiato in chiesa.
“Ma di che state
parlando? Non so nemmeno chi sia Isabella Contarini, non c’entro niente con la
vostra famiglia e non mi potrebbe importare di meno di vostro figlio, di vostra
moglie… e di voi!” reagì,
contraddicendo con il suo atteggiamento seccato le sue parole.
Albizzi era quasi
sicuro che Giovanni, in effetti, non c’entrasse niente in quella sporca
faccenda, tuttavia quella era la scusa con cui si era presentato e quindi
decise di insistere un po’.
“Non ne sai niente?
Avevo organizzato un matrimonio segreto tra Ormanno e la Contarini, sarebbe
stato vantaggioso per la mia famiglia, ma poi…” l’uomo si rabbuiò, “poi
qualcuno mi ha tradito, ha raccontato tutto a Cosimo e lui, da Venezia, ha
proposto al Doge Foscari di far sposare Isabella Contarini a suo figlio,
ottenendo così il suo appoggio per far ritorno a Firenze.”
Giovanni, a dirla
tutta, era la prima volta che sentiva parlare di questa specie di soap opera e non gliene fregava un
beneamato del mancato matrimonio di Ormanno Albizzi, aveva già abbastanza
problemi per conto suo. Tuttavia decise di mantenere il suo atteggiamento
scostante e di sfoderare la superiorità morale degli Uberti… o qualcosa del
genere.
“E dunque? Messer
Cosimo ha tutti i diritti di fare quanto è in suo potere per tornare a Firenze,
visto che è stato esiliato ingiustamente”
tagliò corto.
“Cosimo non avrebbe
dovuto nemmeno venire a conoscenza di questo fidanzamento” insisté Rinaldo. “Io
voglio sapere chi ha tradito la mia fiducia, chi lo ha informato sui miei
piani. In pochi sapevano del mio accordo con Contarini e qualcuno lo ha
rivelato a Cosimo.”
“State insinuando che
sarei stato io? Non sono una spia, non lo avete ancora capito?” replicò
Giovanni, imbronciato.
“No, non lo sei,
immaginavo che non fossi stato tu. Vedo bene che non sapevi nemmeno del
fidanzamento e, comunque, so che non mi tradiresti, nonostante il tuo
caratterino” commentò Albizzi, che si divertiva davvero un sacco. “Sei leale e
onesto, anche se rimani un ragazzino impertinente e adesso anche geloso!”
“Io non sono…” provò
a reagire Giovanni, ma Albizzi lo prese tra le braccia e lo baciò a lungo,
stringendoselo forte. Quel ragazzino gli era mancato veramente e non intendeva
lasciarselo sfuggire un’altra volta.
“Non hai capito
niente, Giovanni” mormorò, tenendolo sempre stretto. “Te l’ho già spiegato, mia
moglie vive nella nostra villa in campagna e viene a Firenze soltanto in
occasioni speciali. La cena di qualche sera fa, quando mi hai visto con lei e
sei scappato, sarebbe dovuta essere
appunto un’occasione speciale: il fidanzamento di Ormanno con Isabella
Contarini. Ma, ora che tutto è andato a monte per colpa di Cosimo, lei è
tornata in campagna, perciò non hai alcuna ragione di essere geloso.”
Lo baciò di nuovo.
Giovanni voleva sentirsi ancora in collera con lui, avrebbe voluto respingerlo,
mandarlo al diavolo, ma non riusciva nemmeno a reagire e perdeva ogni barlume
di logica e razionalità quando Rinaldo lo baciava così e lo teneva stretto tra
le sue braccia!
“Ora verrai a Palazzo
Albizzi con me” gli disse, staccandosi da lui solo per un istante. “In questi
giorni sono solo, sai? Anche Ormanno è andato in campagna con sua madre: è
rimasto molto deluso per la rottura del suo fidanzamento, era davvero preso da
Isabella Contarini.”
Giovanni, che era
stato tanto bravo a mostrarsi deciso e arrogante davanti al servo di Albizzi,
ora si era del tutto arreso e si lasciò condurre dall’uomo verso il suo
palazzo, sebbene avesse giurato su tutto ciò che aveva di più sacro che non vi
avrebbe rimesso piede nemmeno morto!
Per strada, Rinaldo e
Giovanni si imbatterono in Ezio Contarini.
“Buongiorno, Messer
Contarini. State andando a Palazzo Medici, immagino” lo salutò Albizzi.
“Era questa la mia
intenzione, in effetti, Messere” replicò l’uomo. Se trovò singolare il fatto
che Albizzi si stesse tranquillamente portando Giovanni a casa non lo diede a
vedere. “Sono lieto di avervi incontrato, comunque, poiché volevo ribadire la
mia totale estraneità alla triste vicenda che ha causato la rottura del
fidanzamento tra mia nipote e vostro figlio.”
Rinaldo Albizzi si
dispose ad ascoltarlo con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.
“Non avrei mai
tradito consapevolmente la vostra fiducia e so che anche mio fratello non
voleva ingannarvi” dichiarò con foga Contarini. “Anzi, io sono particolarmente
addolorato per ciò che è accaduto poiché in Ormanno e Isabella rivedevo me alla
loro età… Credevo in quel matrimonio e non per questioni di interesse, bensì
perché vedevo in loro un sentimento vero, pulito e profondo.”
Il tono di Ezio
Contarini era davvero disperato e Albizzi non ebbe difficoltà a credergli.
“Siete sincero, lo
comprendo” rispose, “e credo che nemmeno vostro fratello sia del tutto colpevole,
sebbene mi abbia tradito. Cosimo gli ha prospettato un’unione molto
vantaggiosa, il matrimonio di sua figlia con Jacopo Foscari, ed era un’offerta
che in pochi avrebbero saputo rifiutare… in fondo posso capirlo. Il vero
colpevole è Cosimo, come sempre, che agisce esclusivamente per i propri
interessi calpestando senza alcuno scrupolo i sentimenti altrui.”
Secondo voi c’era
qualcosa di personale in questa ultima frase di Albizzi? Ma certo che sì, la
cosa gli bruciava ancora dopo vent’anni e non perdeva occasione di
sottolinearlo con chiunque gli capitasse a tiro!
Comunque, almeno in
questo caso, Albizzi dimostrò di averla presa bene: strinse la mano a Contarini
e poi i due uomini proseguirono ognuno per la propria strada. Ezio Contarini
sarebbe andato a parlare con Contessina, lamentandosi di essere stato usato:
perché sì, lo avevano capito anche le pietre di Firenze che era stata lei a
rivelare a Cosimo del fidanzamento segreto e lui aveva agito di conseguenza,
con buona pace dell’ingenuo e poetico fessacchiotto innamorato!
Giovanni, nel
frattempo, aveva ascoltato con attenzione la conversazione tra i due e, nel
tragitto verso Palazzo Albizzi, esternò le proprie convinzioni a Rinaldo, che
volesse o meno starlo a sentire.
“Messer Albizzi, io
non credo che qualcuno volesse danneggiarvi consapevolmente” disse. “Detto fra
noi e con il rispetto che meritate, mi sembrate un po’ paranoico: tutti ce l’hanno con voi, tutti vogliono rovinarvi… Ma
non è così. Oddio, almeno non proprio tutti.
Madonna Contessina ha saputo per caso di questo matrimonio segreto e,
ovviamente, ha usato l’informazione per cercare di aiutare suo marito, che voi avete ingiustamente fatto esiliare.”
“Vedo che non hai
perso un briciolo del tuo caratterino insolente, ragazzino” replicò Albizzi,
che tuttavia, bene o male, da Giovanni si faceva dire un po’ di tutto senza
arrabbiarsi veramente. Sapeva bene lui come farlo stare zitto, quando voleva!
“Sappiate che io vi
dico sempre quello che penso, sempre” ribadì il ragazzo.
“Sì, me ne sono
accorto” commentò Rinaldo, ironico.
“Proprio per questo
dovreste fidarvi di me” ribatté Giovanni, convinto. “Sono altre le persone che vi consigliano per la vostra rovina, non certo
io.”
“So badare a me
stesso, ragazzino, non crederai che abbia davvero bisogno dell’aiuto di un
diciassettenne?” fece l’uomo, divertito. Ma Giovanni era serissimo.
“Forse sì, visto che
continuate a concedere la vostra fiducia alle persone sbagliate” insisté. “Vedrete
se non ho ragione…”
Questo tono profetico
non si addiceva più di tanto al giovane Uberti, ma Rinaldo Albizzi dovette
rendersi conto, suo malgrado, che avrebbe dovuto prestare maggior attenzione alle
sue parole.
Trascorsero pochi
giorni e a Firenze arrivò la notizia che Cosimo de’ Medici aveva sventato un
complotto ordito dai milanesi contro Venezia. Il Doge, per dimostrargli la sua
gratitudine, gli avrebbe concesso l’appoggio per fare ritorno a Firenze e la
città era in subbuglio. I sostenitori di Cosimo scendevano in strada e
inneggiavano ai Medici e anche quelli che prima non erano suoi sostenitori
avevano fatto presto a cambiare bandiera, una volta mutato il vento. Così
andava il mondo già secoli fa, e adesso non è poi tanto diverso…
La cosa, come si può
facilmente immaginare, aveva fatto franare il terreno sotto i piedi del nostro paranoico amico Rinaldo Albizzi, che
alla fine vedeva confermati tutti i suoi peggiori timori. E, a quanto pare, la
notizia del prossimo ritorno di Cosimo gli diede proprio alla testa perché lo
indusse a fare l’unica cosa che avrebbe dovuto evitare e a scavarsi la fossa
con le proprie mani.
Giovanni si trovava a
Palazzo Albizzi e poté quindi assistere al drammatico colloquio di Rinaldo con
suo figlio che, una volta tanto, non dava ragione al padre per partito preso e
tentava di fargli comprendere che la sua idea era una follia, per usare un
eufemismo.
“Attendo molti altri
uomini dalla campagna. Le famiglie nobili di Firenze si uniranno a noi e
marceremo sulla Signoria, prendendo finalmente il potere con la forza, se
necessario” dichiarò Albizzi, ritenendo, chissà, di essere il nuovo Giulio
Cesare che marciava su Roma…
“Ma ci daranno di
traditori” obiettò Ormanno, e Giovanni si trovò a riflettere sul fatto che,
forse, quel ragazzo non era poi così male e che ogni tanto sapeva anche pensare
con la propria testa. Quello che Albizzi stava dicendo era un vero e proprio
delirio e qualcuno avrebbe dovuto farglielo capire.
“Noi siamo i
difensori della Repubblica, non possiamo lasciare che il morbo dei Medici
faccia ritorno” replicò Rinaldo, con il tono ispirato di una specie di Avenger ante litteram. “Tutti quelli che
sono leali a Firenze ci sosterranno.”
Il suo ottimismo era
tanto commovente quanto ingiustificato. E il peggio fu quando, subito dopo,
decise di andare a Palazzo Pazzi, convinto che Andrea Pazzi fosse uno di quei famosi
sostenitori sui quali riponeva tanta fiducia. Peccato che Messer Pazzi, come
tutta la sua ascendenza e discendenza, tenesse per convenienza il piede in due
scarpe e si fosse già accordato con il Gonfaloniere Guadagni per incastrare
Rinaldo e salire allegramente sul carro del vincitore.
Però, forse era vero
che quel poveretto di Rinaldo Albizzi aveva la brutta abitudine di dare fiducia
sempre alle persone sbagliate…
Giovanni, ovviamente,
non poteva sapere del tradimento di Pazzi, ma sapeva, per storia familiare, che
dei Pazzi non ci si deve mai fidare e, per tutto il tragitto da Palazzo Albizzi
a Palazzo Pazzi, cercò di convincere Rinaldo a non fare la sciocchezza più grande di tutta la sua vita, a lasciar perdere l’assurda
idea dei mercenari e della marcia su
Firenze, insomma, a fermarsi due secondi per riprendere lucidità e vedere
le cose con un tantino di lungimiranza.
Macché, tanto valeva
che avesse parlato al vento. Albizzi entrò a Palazzo Pazzi e si presentò nello
studio del padrone di casa, con Giovanni che lo seguiva come un’ombra
nonostante la sua idiosincrasia congenita nell’entrare in quel palazzo…
“Pazzi, ci sono folle
di sostenitori di Cosimo de’ Medici là fuori” esordì Rinaldo, troppo impegnato
nella sua crociata per salutare e persino per accorgersi che Pazzi faceva l’indifferente…
“Dobbiamo agire subito o lui sfrutterà la situazione per tornare! Ho detto ai
miei uomini di tenersi pronti al mio segnale, sono meno di quanto sperassi, ma
sono in arrivo rinforzi dalle campagne.”
Giovanni, che non era
uno stupido, si era accorto subito che Pazzi si comportava in modo strano e che
tirava una brutta aria in quel palazzo. Ebbe la tentazione di saltare addosso
ad Albizzi e impedirgli di dire altre idiozie prima che fosse troppo tardi… e
forse avrebbe fatto meglio, invece esitò e la situazione precipitò in un
battibaleno.
“Voi e io dobbiamo
prendere la Signoria con la forza. Con la forza!” ripeté l’uomo, caso mai non
si fosse inguaiato già abbastanza. “Non è il momento di essere codardi, Pazzi.
Abbiamo il potere di agire, facciamolo!”
La frittata era fatta
e Giovanni lo lesse negli occhi di Pazzi prima ancora che quel voltagabbana
aprisse bocca. Glielo aveva detto e ripetuto, lo aveva avvertito in tutti i
modi di non fidarsi di Pazzi, che quella famiglia era bacata da sempre, che
erano stati loro ad appoggiare i Donati quando avevano voluto distruggere gli
Uberti… Niente, Rinaldo Albizzi non aveva sentito ragioni. Adesso la storia si
ripeteva con un parallelismo agghiacciante davanti agli occhi di Giovanni. I
racconti drammatici che aveva ascoltato tante volte da suo padre e da suo nonno
sulla rovina di Farinata degli Uberti divenivano realtà in quella stanza. Tante
volte il ragazzino avrebbe voluto poter riportare indietro il tempo, parlare
con il suo antenato, avvertirlo di stare in guardia dalle famiglie traditrici…
e adesso, in quel palazzo maledetto, tutto avveniva di nuovo ai danni di un
uomo che Giovanni aveva imparato, senza nemmeno accorgersene, ad amare.
E lui non era
riuscito a fare niente nemmeno questa volta.
Nonostante fosse
stato presente, nonostante avesse tentato di fermare Albizzi.
Rinaldo non lo aveva
ascoltato e adesso il baratro si stava spalancando anche sotto i suoi piedi.