Sangue di drago

di Mana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Sai che principeggiare è un'arte ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Anche essere draghi è un'arte ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio ***
Capitolo 5: *** Epilogo - Ora lo so di chi è l'incantesimo ***



Capitolo 1
*** Prologo - Sai che principeggiare è un'arte ***


Sangue di drago Prologo

Sangue di drago

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Sai che principeggiare è un'arte
e ogni principe che si rispetti deve essere blu come il cielo, avere virtù, trafiggere spettri
ogni principe che si rispetti dovrebbe tenere un cavallo fedele da trattare come lo spirito, come chi naviga fa con le vele
e conoscere i nomi di tutti i velieri, e conoscere i nomi di popolazioni che portano nuovi misteri da terre straniere
instaurare la pace tra fate e gnomi nei boschi uggiosi e difendere il re e la regina mostrando vigore alle prime occasioni da eroi coraggiosi...

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–Prologo–

 

 

La sola cosa che s’intravedeva dalla fessura della piccola cella era un cielo plumbeo e opprimente. Il fetore e l’umidità erano le uniche compagne che condividevano quella gabbia con la figura cenciosa e lugubre del prigioniero. Se non si fosse trattato di un accadimento eccezionale, nessuno gli avrebbe fatto visita. Nel corso della sua vita l’avevano chiamato in tanti modi: mago oscuro, stregone, alchimista, negromante. L’avevano ammirato, adulato, odiato e temuto, fino a rinchiuderlo laggiù. Re Glic in persona si trovava dinanzi a lui, ben poco disposto a tollerare a lungo quell’ambiente.

«Allora potete farlo?» incalzò, impaziente.

Re Glic, fino a quel momento, lo aveva semplicemente informato delle proprie intenzioni di incantare qualcuno, senza però specificare altro, reclamando che gli svelasse quale fosse il maleficio più potente e crudele di cui fosse a conoscenza.

«Voi avete tutti gli ingredienti richiesti? Incluso il sangue di un drago?» domandò, pur immaginando già la risposta a quel quesito.

«Il sangue del drago Smok è stato gelosamente conservato e tramandato in un’ampolla magica per oltre cinque secoli dalla famiglia reale» affermò sin troppo pomposamente Re Glic. «Ma ciò che ci manca sono le scaglie.»

«Senza di esse l’incanto non sarà completo. Ma potrà comunque servire al suo scopo» sorrise divertito.

«Il nostro indovino è molto dotato, ha visto che il mio Bréagach può ambire alla mano della principessa Bláth, e quindi al suo trono, ma solo tramite il tuo intervento!» s’impettì il re alzando la voce, schermandosi il volto con un braccio per resistere al tanfo di quell’ambiente. «Cosa comporta l’assenza delle scaglie?»

«Il vostro cosiddetto indovino non è capace di far nulla che non sia vedere frammenti di ciò che potrebbe essere, mentre io sono un alchimista versato nelle arti della stregoneria più oscura. Sono stato rinchiuso qui per lo stesso motivo per il quale ora esigete il mio aiuto. Curioso, non trovate?»

La sua magia era più potente di quelle quattro mura, ma questo non glielo disse. Avrebbe potuto liberarsi in qualsiasi momento, ponendo fine alla vita di quello sciocco senza alcun tipo di rimorso. Ma aveva ben altri piani in mente.

«Ditemi cosa comporta l’assenza delle scaglie.»

«Ci sarà la remota possibilità che la maledizione sia reversibile. Ma lo sapremo soltanto noi, quindi non dovrebbe essere un problema. Fornitemi semplicemente tutto ciò di cui disponete. In cambio chiedo solo di diventare il mentore del principe Bréagach.»

 

Si racconta che tanto tempo fa, nel Regno Bianco, nacque una sola, bellissima erede al trono: la principessa Bláth. Nei sette regni, che come nomi avevano i nomi dei sette colori dell’arcobaleno, ogni principe primogenito avrebbe avuto la possibilità di diventare il Re Supremo sposando la giovane pulzella, non prima però del di lei sedicesimo compleanno. Da parte sua, la principessa Bláth trovava estremamente noiosi tutti i suoi pretendenti, che già a nove anni altro non facevano se non cercare di conquistare il suo favore, tramite regali, lusinghe e complimenti.

Certo non si poteva dire che ella non fosse estremamente ben fatta: aveva ereditato la beltà dalla regina sua madre, morbidi boccoli chiari come la luce della luna che le incorniciavano il viso, mentre i suoi occhi parevano due gemme d’ambra come quelle del re suo padre, le sue gote rosee in contrasto con la sua pelle diafana e perfetta, che ricordava porcellana finissima. Aveva già conosciuto i principi dei sette regni durante l’infanzia, ben sapendo che un giorno uno di loro sarebbe diventato il suo sposo e il suo re. Era lei l’unica erede, la Principessa Bianca, perciò sin dalla più tenera età aveva compreso e accettato quella responsabilità, anche se non sapeva come il suo futuro consorte sarebbe stato scelto.

Se c’era qualcuno che aveva un’indole ribelle, tra quei sette turbolenti fanciulli, questi era Maith, il giovane principe del Regno Azzurro, l’unico che non si uniformava al resto dei giovani, tant’è che amava sgattaiolare fuori dal castello del Regno Bianco ogniqualvolta era costretto a adempiere formalità che trovava pompose e tediose. Bláth si stava recando da lui per rimproverarlo per le assenze dei giorni precedenti quando lo vide in procinto di fuggire dalla finestra.

«Ma cosa fate?! Vi ucciderete!» esclamò preoccupata, tendendo istintivamente la mano verso di lui.

«Non accadrà nulla del genere, principessa.»

Le prese la mano, avvicinandola a sé, facendole poi vedere cosa ci fosse al di fuori di quelle stanze.

«Prima andrò lì e poi lì, infine su quell’albero» le spiegò indicando il percorso.

«Mi sembra pericoloso! E poi non c’è il sole» commentò preoccupata dall’oscurità all’orizzonte.

«Non lo è. C’è qualcuno che mi attende, credetemi.»

«Di chi si tratta?»

«Se siete così curiosa, perché non venite con me?»

«Va bene, vengo con voi!» affermò spavalda, nonostante i propri timori.

«Dovreste indossare qualcosa di più comodo, se realmente desiderate seguirmi. Potete prendere qualcosa dal mio guardaroba. E togliete i sandali.»

Ella dapprima s’indignò all’idea di vestire abiti maschili, ma Maith sembrava così sicuro di sé che non poté che assecondarlo. Era molto agitata quando mise i piedi nudi sulla fredda pietra, ma Maith la tenne per mano tutto il tempo, guidandola.

Si erano addentrati in profondità nella foresta vicino al castello, tenendosi ancora per mano mentre la fitta vegetazione riduceva ulteriormente la luce proveniente dal cielo sopra di loro.

«Cos’è questo posto?» domandò quando egli si fermò.

Quel bosco uggioso le faceva timore, ma si manteneva eretta e fiera pur con quegli abiti troppo grandi per lei e quella sensazione di umido che avvertiva sulla superficie della propria pelle. Le piante rampicanti sembravano sul punto di prender vita per intrappolarla in quella foresta per sempre.

Maith tirò fuori un flauto in legno di palissandro, intonando una breve melodia delicata. Bláth, che si teneva vicinissima al principe Maith, era preoccupatissima dall’effettivo infittirsi della vegetazione intorno a loro. Non era la sua immaginazione: ogni cosa intorno a lei sembrava muoversi, infoltendo la trama di quella prigione naturale.

«Questo è il regno delle fate» dichiarò Maith inchinandosi.

«Io non vedo nulla.»

«Rhoséd, perché non vi vede? Potete permetterle di vedervi?»

«Con chi parli?»

Prima il giuramento, un sussurro giunse alle sue orecchie.

«Ripetete dopo di me, principessa. Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno.»

«Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno» affermò lei formale, un po’ confusa.

Sentì profumo di fiori e di erba bagnata. Davanti ai suoi occhi comparvero centinaia di piccole fate, mentre il verde della foresta si illuminava con i colori di mille magici fiori che non aveva mai veduto in vita sua. Si presentò a Rhoséd cerimoniosamente, sperando che la normale etichetta andasse bene con le fate, ma Maith la prese in giro, insegnandole che alle fate non importava null’altro che della sincerità del cuore degli esseri umani.

Maith le spiegò che era già da un po’ di tempo che gli gnomi si lamentavano del suono delle campane delle fate, perché esso danneggiava il loro udito; solo per tale ragione continuavano a rubare la polvere di fata per guarire le loro orecchie, non per un semplice capriccio o dispetto. Rhoséd era assai impressionata dal fatto che Maith fosse riuscito a comunicare con gli gnomi, ancor più sbalordita dalla notizia che le loro dolci campanelle ledessero qualcuno. Che si trattasse di gnomi aveva poca importanza, perché le fate desideravano vivere in armonia e in pace con tutti.

«Tornerò appena riuscirò a parlare nuovamente con il re degli gnomi, Rhoséd. Vedrete che riuscirò a instaurare nuovamente la pace! Le piante mi stringano come serpi tra le loro spire soffocandomi, se dovessi venir meno a questo giuramento.»

Si era già guadagnato il rispetto di entrambe le magiche comunità, nonostante fosse soltanto un semplice umano, uno degli esseri verso i quali quelle piccole creature nutrivano la più profonda diffidenza. Perciò aveva fiducia nelle proprie capacità. Non sarebbe venuto meno alla propria promessa: avrebbe trovato un punto d’incontro in grado di permettere una convivenza priva di inutili attriti. Intanto Bláth aveva portato le mani al viso, costernata dalla leggerezza con la quale egli aveva pronunciato parole così imponenti.

 

Malgrado la sua poca fiducia nella promessa fatta da Maith e nonostante fosse stata duramente rimproverata per averlo seguito all’infuori delle protettive mura del castello, Bláth non fece che pregarlo di portarla con sé ogni volta che poteva, indossando abiti maschili e dimenticando per un po’ di essere una principessa.

Quel bosco era strano, perché da un lato la terrorizzava, atterrendola fino a farla sentire nulla di più che un minuscolo insetto che l’attraversava, mentre dall’altro la attirava, con un sottile invito a fondersi con esso, divenendo parte di qualche antica magia. Maith non sembrava subire lo stesso fascino oscuro che la foresta esercitava su di lei, quindi si trattenne dal parlargliene, rincuorandosi con l’idea che egli avrebbe semplicemente pensato che desiderasse seguirlo per trascorrere del tempo con lui. E in effetti era ciò che iniziava a farsi strada nella mente del principe Maith, il quale però, nella sua giovane vita, non aveva ancora sviluppato alcun interesse verso le fanciulle.

Ciò che più lo soddisfece, durante quella visita, fu l’orgoglio di essere riuscito a tener fede al proprio giuramento verso le fate. Grazie al suo ingegno la pace fu ristabilita e messa per iscritto, con un documento che gnomi e fate vollero chiamare Il trattato di Maith, in suo onore. Erano già moltissimi anni che amava interagire con le fate, e Rhoséd discusse animatamente per convincere le altre a ricompensarlo con qualcosa di valore, nonostante egli insistesse di non necessitare di null’altro che della loro serenità e di essere pienamente soddisfatto soltanto con la loro gratitudine.

«Maith, dammi il tuo flauto» gli ordinò Rhoséd, una volta che la decisione fu stata presa.

«Ma come potrò chiamarvi, senza il flauto?» domandò il principe, non comprendendo.

«Maith, abbi fiducia. Fidati di me come noi tutti ci siamo fidati di te.»

Maith annuì, consegnandole lo strumento, che venne messo da parte. Poi la voce armoniosa della fata invase la foresta.

«In nome di Hath, il grande biancospino, io ti ordino di utilizzare d’ora innanzi questo flauto incantato ricavato dal suo magico legno. Che sia segno e simbolo della purezza del tuo cuore e tua libertà di chiamarci in qualsiasi momento e con qualsiasi melodia.»

Vicino alle mani di Rhoséd frammenti di magia forgiarono lo strumento, davanti agli occhi trasognati di Maith e di Bláth, imbarazzata dalla propria presenza a un evento così importante, al quale si sentiva indegna di assistere. Maith s’inchinò rispettoso, imitato da lei, che non voleva essere causa di alcun tipo di biasimo da parte delle piccole creature, e ricevette tra le proprie mani il nuovo flauto.

«E ora la polvere di fata. Che essa ti protegga dal male, fornendoti uno scudo incantato e meraviglioso» disse Fíonnula, una fata dai lunghi capelli turchesi, agitando le piccole braccia per lanciare sul suo viso la prodigiosa e finissima polvere. «Sii benedetto dalle fate.»

Gli gnomi furono molto meno generosi delle fate nel ricompensare Maith, almeno secondo la principessa, ma in cambio dell’immenso favore che aveva loro procurato gli assicurarono appoggio e fedeltà, svelandogli come ottenere la fiducia di qualsiasi gnomo grazie alle loro frasi segrete, che si tramandavano da millenni. Ella non le udì, perché quelli si rifiutarono di rivelarle in sua presenza, ma non se ne fece un cruccio; in fondo era stato Maith l’eroe della situazione, lei l’aveva semplicemente seguito come un’ombra silenziosa, distratta dai sussurri della foresta.

Terminata la primavera, Bláth fu costretta a salutarlo, insieme a tutti gli altri principi. Anche per quell’anno sarebbero tornati nei rispettivi regni, lasciandola alla noia più assoluta. In verità, fu triste soltanto perché non avrebbe più potuto rivedere Maith per moltissimo tempo, né avrebbe potuto lanciarsi all’esplorazione del bosco senza la sua presenza, anche perché gliel’aveva promesso. Quell’ultimo giorno che avevano trascorso insieme, laggiù, tra le fronde ombrose, egli aveva preteso la sua parola sul fatto che non sarebbe ritornata lì senza di lui. L’aveva persino sfiorata il folle pensiero di supplicarlo di regalarle il suo flauto, per poter chiamare le fate, ma poi la vergogna per una simile idea l’aveva fatta desistere. Così, pur a malincuore, con un profondo peso sull’anima, aveva acconsentito a dare la propria parola. Per quanto l’avesse desiderato, non sarebbe ritornata nella foresta da sola.

 

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[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno ***


01 Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno

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Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno
che canta di principi e maghi come ci fosse un oscuro disegno
e racconta di draghi, di uomini ormai destinati a sembianze orripilanti
che solo le labbra di una principessa potrebbero sciogliere tutti gli incanti...

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–Capitolo 1–

 

*Sette anni dopo*

Il principe Maith era l’orgoglio dei suoi genitori. Nonostante la scarsa prestanza fisica, s’impegnava diligentemente nell’uso delle armi, pur dicendosi con convinzione dedito alla ricerca della pace. Loro non comprendevano appieno cosa il figliolo intendesse con tale espressione, nondimeno vederlo così amato dal popolo, così acclamato dalle masse, non poteva che rallegrarli. Persino la principessa Bláth aveva dimostrato un chiaro interesse verso di lui, durante quegli anni. Ogni primavera, infatti, quand’era il momento per lei di trascorrere il suo tempo con i principi degli altri sette regni, tentava sempre di seguirlo nelle sue avventure. Purtroppo tali bighellonate da bambini dovevano essere abbandonate, perciò gli avevano fatto comprendere che non doveva in alcun modo mettere in pericolo la vita della principessa.

Per tale motivo Maith aveva non solo scoraggiato, ma infine impedito a Bláth di corrergli dietro come suo solito. Ella fremeva, inquieta, ogniqualvolta lo vedeva in procinto di fuggire da quel castello che aveva cominciato a detestare, fino ad arrivare al punto di fingere di svenire tra le sue braccia per poter entrare in contatto con lui, avvertendo con tocchi fintamente ingenui la presenza, sotto la sua tunica, del magico flauto di Hath, come era solito chiamarlo Maith.

«Bláth» la avvertì lui, che privatamente aveva abbandonato qualsiasi tipo di formalità con lei. «Non dovresti toccarmi in questa maniera. Ormai sono un uomo, sai...»

La principessa fu improvvisamente cosciente di quell’eccessiva vicinanza, ben oltre i limiti della decenza loro imposta, e spalancò i delicati occhi alla vista di quel suo sguardo, così intenso da farle torcere repentinamente ogni organo nella pancia. Le labbra socchiuse di lei e l’espressione ormai consapevole mentre si teneva aggrappata a lui spinsero Maith a coprire quell’ultima distanza che li separava in un bacio irruento, al quale la principessa Bláth faticò a rispondere, travolta da emozioni che fino a quel momento aveva negato di provare. Eppure nella sua mente c’era ancora dello spazio per il pensiero della foresta, lì, appena un po’ più in lontananza, oltre quella finestra dove si consumava il loro ardore, il calore che le infiammava per la prima volta punti del corpo che aveva sempre volutamente ignorato.

In quel grigiore, tra quei mattoni che odiava, vedeva Maith come un uomo e non voleva lasciare la sua mano.

«Non avremmo dovuto, Bláth...» provò a protestare debolmente lui, pur lasciandosi trascinare in un nuovo bacio.

Anche Maith, fino a quel momento, non l’aveva degnata di uno sguardo, quasi non accorgendosi del pregio della sua beltà sbocciata in quei sedici anni; era stato completamente assorbito dal suo rapporto con gli abitanti del suo regno, umani o non umani che fossero, dimentico di principi e principesse, a malapena cosciente persino dei suoi stessi genitori. Vedendola tra le sue braccia non desiderava altro che continuare a stringerla, cancellando la sua attrazione per quel bosco così misteriosamente affascinante.

«Maith» lo invocò Bláth.

Maith scacciò le immagini inquietanti di qualcuno che entrava nella stanza e li scopriva insieme, distruggendo per sempre la sua reputazione nel trovarli avvinghiati in maniera così indecorosa. Nervosi, con l’orecchio teso a captare ogni più fine rumore, si separarono, anche se Bláth sembrava non volerlo lasciare andare. Si trattennero ancora un po’ per calmare i loro cuori davanti alla finestra che tante volte li aveva visti complici. Quante volte erano fuggiti insieme, perdendosi nella foresta per ore, a chiacchierare con le fate? Quante volte erano stati rimproverati per quelle poco educate assenze da eventi previsti nei loro regali doveri?

«Non seguirmi, Bláth» le disse infine Maith.

«Perché non posso seguirti?»

«Sai bene perché» fece serio, carezzandole la fronte, prendendo le sue mani per baciarle entrambe. «Sei splendida.»

Non poteva svelarle la verità in maniera esplicita, perché Fíonnula si era raccomandata di negargliela a tutti i costi, in quanto sarebbe stata solo più deleteria, sebbene una giustificazione alla sottile insania che aveva infettato la sua mente avrebbe potuto forse arginare la sua frustrazione. Maith usò il potere di quella loro nuova intimità per persuaderla a restare nel castello. La principessa Bláth si arrese, trattenendo le lacrime. Le rilasciò soltanto quando lui fu sparito, oppressa dalle ombre di quella tetra fortezza che non sopportava più, nella quale non faceva che sognare alberi e piante che le si attorcigliavano alle gambe, trascinandola in un sottobosco magico e accogliente, umido e fresco, odoroso di fiori ed erba bagnata. Se solo avesse potuto riposare un solo giorno tra quelle dolci braccia! Allora forse quell’affanno che avvertiva si sarebbe placato e si sarebbe sentita finalmente libera.

Ma aveva promesso di non disubbidire a Maith e riteneva che la propria parola avesse ancora un qualche valore, sebbene avesse violato i propri doveri di Principessa Bianca donandogli il suo cuore. Premendosi su quelle pareti fredde, che odiava in quel momento più che mai, impose a se stessa di controllare le proprie emozioni. Una piccola parte di Bláth fantasticava ancora sulla possibilità che Maith la invitasse nuovamente ad andare con lui. L’altra era più assennata e le suggerì di non introdursi più con tanta sfacciataggine nelle camere di un uomo. Ancora un anno soltanto, poi sarebbe stato suo, perché l’avrebbe scelto, non curandosi del torneo che avrebbe organizzato il re suo padre. Ella non ne aveva saputo nulla fino a pochi mesi prima, quando aveva casualmente origliato una conversazione dei suoi genitori. Prima era sempre stata convinta che sarebbe stata soltanto sua, la scelta, ma neppure in quello era libera.

Nonostante quei propositi continuò a intrufolarsi nelle sue stanze, pregandolo ogni volta di portarla con sé, ricevendo in cambio soltanto qualche bacio e qualche ammonimento. Quella passione sembrava mettere un freno al suo desiderio di ritornare nel bosco, ma quel palliativo durava soltanto fino al giorno successivo, così infine Bláth decise di tenersi lontana da lui.

Prima che Maith fosse costretto nuovamente ad abbandonarla lo mise a conoscenza del dettaglio concernente il torneo di giochi, facendogli promettere di non rivelarlo ad anima viva, pregandolo tuttavia di impegnarsi al massimo affinché avessero potuto sposarsi. Maith, in realtà, aveva sospettato di aver effettivamente fatto cosa sgradita alla principessa Bláth, poiché a un certo punto ella non s’era più ripresentata nella sua stanza e, quelle poche volte che erano stati insieme a tutti gli altri, lo aveva trattato con un deferente distacco che gli faceva venir voglia di afferrarla davanti a tutti per coprire ancora una volta quelle labbra con le proprie. Con quell’ultimo incontro capì che Bláth s’era dunque tenuta a distanza per evitare nuovamente quella dolce e proibita tentazione. Il fatto poi che non gli avesse più accennato di voler andare nella foresta lo aveva rassicurato.

La poveretta dovette trattenere ancora la mestizia quando infine si salutarono. Eppure stava accadendo qualcosa di inquietante: si era sentita osservata da un uomo, del quale non ricordava il nome, che seguiva sempre Maith quand’era fuori dal castello per gli eventi ufficiali. Curiosamente, però, l’aveva visto distratto quando re Glic aveva proposto un brindisi in onore della sua bellezza, con quell’oscuro rosso vino prelibato che veniva preventivamente servito all’assaggiatore in una bella coppa colma fino all’orlo. Verificata l’assenza di fiele nella bevanda tutti i reali ne bevvero, esclusa lei, che non aveva il permesso. Tornò a cercare con lo sguardo l’uomo che prima la guardava, affrettandosi in quella direzione, ma la nicchia in cui era protetto da sguardi troppo indiscreti era vuota.

 

L’uomo che aveva attirato l’attenzione della giovane principessa Bláth era Charbán, il mentore del principe Maith. Gli insegnava a duellare con spada e fioretto, sebbene Maith dimostrasse scarsa attitudine a quel tipo di attività, nonché a giostrare e a battersi corpo a corpo. Riteneva che per lui fosse meglio essere in grado di difendersi anche a mani nude, se la situazione l’avesse richiesto.

«Charbán, sei mai stato innamorato?» gli chiese Maith durante il viaggio di ritorno al Regno Azzurro.

Charbán scoppiò a ridere. Egli non s’era mai fatto tormento di tali questioni, nonostante qualche volta avesse avvertito quella che i comuni umani avrebbero definito semplicemente attrazione. Ma si era comunque imposto di non coltivare tali sentimenti, troppo impegnato a spostarsi di regno in regno per celare la propria maledizione, troppo desideroso di apprendere sempre nuove arti per potersi fermare in un singolo posto.

Charbán, in gioventù, aveva dedicato i suoi giorni allo studio della magia. Definire cosa fosse gioventù, nella sua lunga vita, sarebbe stato complesso persino per lui, dal momento che aveva già centoquarantasei anni, pur dimostrandone a malapena venti. La storia di come fosse arrivato ad avere un’esistenza così lunga probabilmente era nota soltanto alla propria persona e a suo fratello gemello, Chàrosh. Era nato in giorni oscuri, dominati da sospetto e diffidenza verso le arti magiche e alchemiche. Ciononostante Athair, suo padre, era uno degli alchimisti più rispettati del suo tempo e intendeva trasmettere la propria arte ai suoi due figli. Per farlo si era appartato nei pressi di un luogo ammantato di magia, la foresta di Saile, ricolma di giganteschi salici piangenti, nel cuore di un regno in cui Charbán non aveva più tentato di tornare.

Sin dalla più tenera infanzia i due fanciulli si erano distinti in personalità e interessi. Charbán era curioso ma posato, sempre delicato nell’approcciarsi a ogni sostanza che Athair gli metteva tra le mani, attento a dosare con cura ogni singolo ingrediente, leggendo fin dai quattro anni, con estrema minuzia, i grossi libri di alchimia e di magia concessigli dal padre. Chàrosh, invece, era impaziente, avido di sapere e di sperimentare, nonché invidioso della maggiore fiducia che il padre sembrava riporre in suo fratello. Mano a mano che i fanciulli crescevano quei tratti si intensificavano sempre di più, convincendo Charbán dell’imprevedibilità del fratello e Chàrosh del proprio superiore, vispo intelletto.

Quelle volte che Charbán interpellava il padre riguardo alle proprie incertezze e insicurezze, per le quali spesso il fratello tentava di farlo sentire inferiore, il padre gli rispondeva con una frase che con il passare degli anni avrebbe assunto un significato sempre più compiuto.

«Il dubbio è l’inizio della conoscenza.»

All’età di tredici anni Charbán aveva persino osato confessare al padre le proprie riflessioni sull’altro, pur consapevole che Athair avrebbe potuto considerarlo semplicemente desideroso di rivalità, ma ritrovando nel padre le stesse preoccupazioni che albergavano nella propria mente. La stretta vicinanza di Chàrosh alla natura incantata di quel posto era sempre stata causa di controversie, perché Athair non approvava che Chàrosh trascorresse i pomeriggi a leggere di antica magia all’ombra dei rami e dei fiori di quegli alberi.

Quando Athair propose a Chàrosh di rinunciare all’uso delle sue arti per dedicarsi a un’attività più affine ai regni degli uomini fu deriso dal suo stesso figlio. Charbán origliava, di nascosto, come un piccolo spione traditore, anche se le voci concitate non gli avrebbero impedito di ascoltare neppure se si fosse tappato entrambe le orecchie.

«Non rinuncerò mai all’alchimia e alla magia, io diventerò un mago potentissimo! Perché non vedi le mie potenzialità, padre? Sono molto più dotato di mio fratello. Sarei persino in grado di esperire la pozione dello specchio!»

Athair gli tirò un ceffone che rimbombò nella stanzetta fino al nascondiglio di Charbán, che a fatica soffocò un singulto per lo sbigottimento derivante dall’assistere a un gesto tanto impetuoso da parte del genitore.

Chàrosh si dileguò, furioso e umiliato, sbattendo la porta, senza notare minimamente la presenza del gemello, che aveva oltrepassato in preda a sentimenti di rabbia. Corse e corse fino a inoltrarsi nella foresta, abbracciando il suo cuore, il centro di quel suo piccolo mondo. Confidò al saggio albero quanto accaduto, piangendo, scalpitando, chiedendo e pretendendo un consiglio. Temeva per la propria vita, quindi doveva parlargli, altrimenti non sarebbero potuti più stare insieme.

«Salix, aiutami, ti imploro! Salix!»

Ma l’albero non rispondeva e Chàrosh trascorse ancora molte ore in quello che sarebbe ai più apparso come un semplice monologo, addormentandosi infine, sfinito, alla sua ombra. A risvegliarlo da un sonno agitato e privo di sogni fu un sussurro sinistro, graffiante e allo stesso tempo suadente come i fiori di quell’albero.

La pozione dello specchio.

Aveva vantato tale dote soltanto con l’intento di impressionare il padre, tuttavia non era certo di poterci realmente riuscire. Sapeva che il padre era adirato anche perché il libro che conteneva quella pozione a lui era stato negato, ma non era così sciocco da non comprendere che ormai da mesi non gli venivano affidati altro che compiti elementari e privi di sfida, mentre Charbán imperterrito andava avanti con lo studio, tentando inutilmente e scioccamente di superarlo. Il proprio talento però era superiore, di questo ne era certo, così avrebbe dovuto far capire anche al padre e al fratello che non avrebbero potuto tagliarlo fuori. Non gliel’avrebbe permesso.

Una volta tornato a casa si scusò col padre, il quale acconsentì a fornirgli un nuovo libro dalla sua collezione, pur tuttavia intimandogli con serietà di fare attenzione ai propri esperimenti e di consultarsi con lui prima di qualsiasi pratica concreta e riguardo a qualsiasi intruglio alchemico nel quale avesse voluto cimentarsi. Chàrosh annuì serio, ma fu soltanto Charbán a cogliere un riflesso divertito nei suoi occhi. Quel giorno aveva cominciato ad avere paura di suo fratello.

A causa di quell’angoscia Charbán non si rivolse più ad Athair, per non turbarlo ulteriormente, ma iniziò a seguire il fratello. Lo spiava con una certa discrezione, stando sempre ben attento a non farsi cogliere sul fatto, piuttosto rinunciando se i rischi erano elevati, come quando il gemello si recava nella foresta, territorio a lui ignoto. In casa però aveva la certezza che Chàrosh stesse rubando gli ingredienti per una pozione alchemica, anche se non sapeva quale fosse. Purtroppo non aveva avuto possibilità di scorgere quali avesse sottratto alla fornitissima dispensa del padre, né aveva l’arroganza per porgere al padre domande così specifiche.

Più i mesi trascorrevano, però, più l’inquietudine e un inconsueto senso di attesa si facevano strada in lui, arrivando a fargli dubitare della sua stessa sanità mentale. Quel morboso interesse verso il fratello non era sano ed era inoltre certo che la foresta avesse qualcosa a che fare anche con la sua ossessione. Di quella si sentì libero di accennare ad Athair, facendogli notare che percepiva la presenza della foresta come qualcosa di vivo, che lo attirava da lontano col suo pianto. Il padre gli suggerì semplicemente di non recarsi per alcun motivo all’interno. Non che avesse bisogno di quella raccomandazione: c’era già il suo cuore pavido a fermarlo.

Eppure una volta decise di seguire il fratello. Non sapeva se fosse stato uno strano mormorio a indurlo ad abbassare la guardia, o se il fruscio dei fiori e dei rami fosse diventato improvvisamente irresistibile, ma un ronzio in testa gli suggeriva di andare appresso a Chàrosh. Non fece neppure attenzione a non far rumore, mentre posava gli stivali su quel terreno sconosciuto, né provò ansia quando il fratello si fermò ai piedi di un grosso salice piangente. Provava uno strano sollievo, come se fosse stato giusto trovarsi lì, anche se una parte della sua mente ancora cercava di trasmettergli un’emozione diversa, più negativa, più appropriata, più...

«Vieni, fratello mio» lo chiamò Chàrosh, guardando verso di lui. «Non temere.»

Quella voce dolce e melliflua sembrava la propria, così diversa dal tono naturale utilizzato dal gemello, così rassicurante da scacciare anche l’ennesimo barlume di coscienza che riusciva a filtrare attraverso il brusio del suo cervello. Chàrosh gli afferrò un braccio, scostando la manica per incidere il suo polso con un piccolo pugnale, poi fece lo stesso con il proprio. Lasciò ricadere il sangue di entrambi all’interno di una piccola ciotola posata per terra, sopra a uno specchio che era appartenuto alla loro madre mai conosciuta. Poi prese la ciotola tra le mani e la levò verso il cielo, verso l’albero.

«Il mio sangue per il tuo sangue, metà della mia vita per metà della tua, il mio corpo per il tuo corpo!» dichiarò a gran voce, immergendo poi le dita nella pozione alchemica, tracciando quindi strani simboli sulla fronte del fratello e sulla propria, e infine sul tronco dell’albero. «Possa il mio destino essere per sempre il tuo destino!»

Versò il contenuto della ciotola sulla superficie dello specchio, che rifulse per un istante abbagliandoli così forte da farli ritrarre. Il cielo si era fatto ancora più scuro da quel che potevano vedere, così come lo specchio, che ormai non rifletteva più nulla. Chàrosh lo raccolse, ghignando soddisfatto. Era andato tutto secondo i suoi piani. Neppure il minimo cambiamento era intercorso, neanche la più piccola interferenza.

«Che... che è successo? Cosa mi hai fatto?» chiese Charbán, come risvegliatosi da un sogno.

Ricordava tutto, sebbene a tratti quelle immagini gli risultassero sfocate, come irreali. Ma la ferita perdeva sangue e dovette tamponarsela, senza contare che Chàrosh aveva degli strani simboli dipinti sulla fronte.

«Lo dirò a nostro padre!» minacciò, allontanandosi da lì.

Temeva che il fratello gli avrebbe fatto del male, o che sarebbe corso a bloccargli la strada, ma tutto ciò non avvenne. Corse e corse per quelle che gli parvero ore, mentre per entrare nella foresta gli era sembrato che fossero bastati pochi minuti, e non gli fece piacere vedere la ripugnanza manifesta negli occhi di Athair, quando accorse al suo richiamo esagitato, reclamando la sua attenzione. Nonostante avesse fatto in fretta, proprio in quel momento giunse al suo fianco anche Chàrosh, uno storto sorriso di palese vittoria sulle labbra.

«Come hai potuto? Tuo fratello, non avrai mica... Quella magia non ha questo scopo!»

«Zitto, vecchio! Ora non potrai più uccidermi. Ho legato le nostre vite per sempre.»

Athair si ritrasse, ancora più disgustato, scottato da quelle parole. Aveva intuito in un lampo che se avesse provato a ucciderlo anche l’altro suo figlio l’avrebbe seguito nella stessa sorte. Eppure doveva farlo, perché quello non era più suo figlio. Quantunque fosse un ribelle, non si sarebbe mai comportato così sconsideratamente.

«Sai bene cos’ho fatto, eh? Adesso avrò anche la tua vita.»

Charbán non stava capendo nulla ed era ancora un po’ intontito da tutta quella faccenda, ma sentendo il tono minaccioso del fratello si frappose tra lui e il loro padre, lanciandogli uno sguardo d’intesa. Athair tentò di correre in casa, ma appena diede loro le spalle Chàrosh gli lanciò il piccolo pugnale che ancora stringeva tra le mani, superando Charbán e penetrandogli un fianco.

«Perché fai questo? Dovresti essermi grato per ciò che ti ho donato. Grazie a me avrai una vita più lunga di ogni altro, non ti mancherà il tempo per studiare la magia e l’alchimia e non avrai problemi di malattie, dovrai solo evitare di ostacolarmi.»

Diceva così, ma in realtà l’aveva risparmiato soltanto perché necessitava della sua vita per evitare che il vecchio tentasse di ucciderlo. Sarebbe stato un epilogo quantomeno violento, perciò era giusto che a lasciare quel mondo fosse soltanto Athair. Era questione di pochi minuti. Avrebbe messo fuori gioco Charbán, senza fargli troppo male, poi si sarebbe occupato di quell’altro, in modo che non restasse nessuno in grado di comprendere la maledizione praticata. Ma fu costretto a urlare per il ribrezzo quando le fiamme avvolsero la casa, tirando via con sé anche Charbán, travolto da un orrore ben diverso dal suo.

«Sciocco, sciocco, stolto!» ripeté pensando alla mole di libri dall’inestimabile valore che andavano in fumo in quell’ultima, folle e scaltra mossa di Athair.

Poi spinse via con stizza Charbán, abbandonandolo. Lì non c’era più nulla che gli interessasse. Charbán si allontanò dall’incendio, vomitando sangue. Si rifiutava di tornare verso la foresta, quindi seguì il sentiero opposto a quello imboccato dal fratello. Non aveva voglia di rivederlo. Al primo ruscello lavò dal viso i resti di quella pozione che ancora non aveva compreso, lasciandosi finalmente andare al pianto più disperato per la perdita del padre.

Camminò per giorni e giorni senza tener conto del passare del tempo, desideroso soltanto di incontrare un altro essere umano. Si era premurato di mantenersi sempre pulito, sia lui che i suoi abiti, sfruttando l’acqua del ruscello che stava seguendo, così come qualche semplice incantesimo. Quando raggiunse il primo villaggio non riuscì ad aprire bocca, ma gli fu dato del cibo e una stanza in cui dormire. Più tardi, specchiandosi, non si riconobbe. Sembrava il volto di un altro, quello di qualcuno più adulto e più vissuto, e i suoi occhi avevano cambiato colore: da scuri che erano se li ritrovava a metà tra il verde e il giallo, in uno strano gioco di sfumature che realizzò avere qualcosa a che fare con quella bizzarra pozione che il fratello lo aveva costretto a utilizzare in un rito che non aveva ancora studiato.

La pozione dello specchio.

«Bán, sono stato indiscreto?» la voce del principe Maith che cavalcava di fianco a lui lo riportò al presente.

«Dell’arte dell’amore, vi confesso, amico mio, di non essere affatto esperto. Ma a quanto pare la bella principessa Bláth ha infiammato il vostro cuore.»

«Ella mi ricambia, vi dico» affermò con sincerità. «Ma come mai d’un tratto ciò che mi pareva di conoscere mi sembra sconosciuto? Cos’è questo dubbio che mi tormenta, nonostante mi abbia promesso il suo cuore? Ti confesso che non ne capisco nulla di governo, né vi ambisco, ma desidero sposarla.»

Charbán era arrivato nel Regno Azzurro quando Maith era solo un bambino. Con una semplice ghironda raccontava di avventure in terre lontane, risalenti ad altri tempi, con dei toni così ammalianti e coinvolgenti da fargli guadagnare in poco tempo il titolo di cantastorie del regno. La voce era giunta fino al Castello Azzurro, così gli era stato ordinato di presentarsi al cospetto della famiglia reale. Maith aveva soltanto quattro anni, ma una sconfinata fantasia, e non volle saperne di lasciarlo andar via, dopo aver sentito i suoi racconti. Venendo a conoscenza del fatto che avrebbe potuto trascorrere molto meno tempo con il piccolo a causa dell’imminente scelta di un mentore da parte dei suoi genitori, Charbán si era proposto volontario.

Aveva svelato di essere stato addestrato dai migliori combattenti di tutti i regni, elevando a livello d’eccellenza la propria preparazione. Era anche vero che mai aveva ricoperto un ruolo così importante come formatore di un principe, eppure si era mostrato determinato nell’insistere per ottenere tale nomina. C’era stato scompiglio e sconcerto, perché nessuno credeva che un semplice cantastorie potesse nascondere doti di tale portata. Però le aveva dimostrate con i fatti, accettando di sfidare ogni possibile candidato e di arrendersi se avesse perso anche solo in una singola disciplina. Così, infine, col benestare dei sovrani e per la gioia di Maith, era divenuto il precettore del Principe Azzurro.

«Il dubbio che provi è l’inizio stesso della conoscenza, è proprio questa la ragione della tua incertezza. Ciò vale in tutte le cose, perciò anche l’amore non può fare eccezione.»

Charbán si ripeteva la frase di suo padre ogni volta che si accostava a nuova attività. Ogni volta essa gli dava più forza per affrontare l’ignoto. Di Athair non gli era rimasto che quello, perché ormai neppure la memoria conservava il ricordo del suo viso.

«Devi rendermi più forte, amico mio. Degno di lei» asserì solennemente Maith.

 

–––

[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Anche essere draghi è un'arte ***


02 Anche essere draghi è un'arte

–––

Anche essere draghi è un'arte
e ogni drago che si rispetti deve girare intorno alla torre ogni volta che tu principessa ti pettini...
Però è raro che un drago sia rispettato se è stato anche un principe prima,
risulterà molto difficile per gli altri draghi dargli fiducia e stima...

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–Capitolo 2–

 

Chàrosh non aveva necessità di alcun aiuto esterno. Gli sarebbe bastata anche soltanto la presenza del Principe Verde, Bréagach, per portare a termine la trasformazione alchemica, ma chiaramente re Glic aveva insistito affinché anche lui e il suo ignorante indovino assistessero alla magia. L’avevano tormentato fino allo sfinimento con domande stupide e banali, alle quali aveva dovuto rispondere esaustivamente, sopprimendo il desiderio di staccar loro la testa. In compenso, Chàrosh aveva fatto pressioni su re Glic, persuadendolo a compiere il maleficio all’interno della torre dove risiedeva Amaideach, per poter sfruttare quell’occasione per dare uno sguardo alle sue stanze. Esse erano spoglie e prive di qualsiasi futilità: oltre alla dispensa con pochissimi intrugli c’erano soltanto la libreria, un tavolino e qualche oggetto per la divinazione. L’alloggio non l’aveva visto, ma del resto non ne aveva bisogno.

Chàrosh fece segno agli altri occupanti di quello spazio angusto di restare in silenzio. Sul legno consumato del tavolo era già stata riempita la coppa col residuo della sua pozione, quel liquido scarlatto in tutto e per tutto simile a del vero vino sia nell’aspetto sia nel gusto. Bréagach gli porse ubbidiente il braccio, come l’aveva precedentemente istruito a fare, e Chàrosh lo incise con il suo fidato pugnale, facendo sgocciolare il sangue all’interno della coppa. Quando ritenne che fosse abbastanza aggiunse l’ultima goccia di sangue del drago Smok, ancora conservata nel fondo dell’ampolla magica che re Glic gli aveva affidato.

Il siero cominciò subito a ribollire, reagendo alchemicamente. Bréagach esitò per un attimo, ma vedendo che Chàrosh gli annuiva serio e autoritario bevve dalla coppa, sperando che andasse tutto come gli era stato promesso.

«Chiamo il sangue del drago con sangue di drago. Risparmia chi oggi beve il tuo sangue, colpisci invece il sangue reale di chi ancora non ha superato i vent’anni. Che possa vendicare il sangue sottratto ingiustamente!»

Come da copione, Bréagach finì di bere, sentendosi infine più sicuro di sé. Chàrosh l’avrebbe reso re. In quel fisso desiderio non fece caso al vibrare dei mattoni sotto i propri piedi, piuttosto provò un inconsueto compiacimento nel cogliere un barlume di sospetto negli occhi del re suo padre.

«Ci vorrà un po’» rivelò più tardi Chàrosh, prima di accomiatarsi dal giovane principe. «Ricordate che voi dovrete essere lì. Per ora siate paziente.»

 

***Sette mesi dopo***

Chàrosh detestava gli uomini inetti. In quel mondo e in quella vita erano in pochi a meritare il suo rispetto e, nonostante il suo disprezzo, era naturale volerli dominare tutti. Una volta arrivato ai vertici di quella assurda monarchia avrebbe potuto governare nell’ombra, senza esporsi troppo.

La maggior parte delle sue preoccupazioni erano legate alla vita di suo fratello Charbán. Egli era ancora vivo e in giro per il mondo, da qualche parte, lontano dalla sua vista e dal suo controllo. Forse, recidendo il legame con lui, avrebbe liberato anche se stesso dal vincolo con la foresta di Saile. Anche perché desiderava troncare ogni suo collegamento con i due maghi, sebbene magari Charbán avrebbe potuto ancora essergli utile, se ricordava qualcosa di ciò che aveva imparato da bambino. Avrebbe voluto effettuare un nuovo scambio alchemico, ma temeva di perdere la vita nel tentativo. Se solo avesse potuto avere accesso ai libri che Athair aveva distrutto, forse avrebbe potuto approfondire abbastanza lo studio da avere la certezza che sarebbe andato tutto secondo i suoi piani. Ma quello non era stato possibile, quindi era inutile starci a rimuginare sopra.

Gli uomini erano stolti; si sarebbero fatti manipolare da lui, come sempre. Il principe Bréagach non faceva eccezione: era un giovane impertinente e viziato, ma Chàrosh l’aveva messo in riga sin dal primo giorno, insegnandogli a temerlo prima d’ogni altra cosa, facendogli comprendere che sarebbe diventato grande, se solo avesse seguito le sue indicazioni. Sarebbe diventato re. Ma nel frattempo non doveva attirare l’attenzione, doveva mantenere un atteggiamento naturale e quanto più neutro possibile. Il fanciullo era diventato un giovane uomo, temprato dal suo disprezzo e dalla sua durezza, in modo da poter essere utilizzato al momento giusto.

Amaideach svoltò l’angolo, sparendo dalla sua vista. Per spiarlo e apprendere tutto sui suoi movimenti era bastato pochissimo tempo, perché l’indovino aveva delle abitudini consolidate e delle giornate molto simili tra loro. Sin dal loro primo incontro c’era stato subito, da parte di Amaideach, un vile servilismo che l’aveva disgustato dal profondo. Aveva dovuto comprendere velocemente, assai velocemente, che il suo ruolo sarebbe stato marginale, da quel momento in poi. Chàrosh aveva anche immaginato di farlo sparire subito, ma avrebbe attirato inutilmente dei sospetti su di sé, proprio dopo essere stato liberato.

Quindi aveva atteso con pazienza, con meticolosa premeditazione, il momento in cui quell’uomo non sarebbe più stato necessario o importante per nessuno. Ormai era vicino al compimento delle proprie trame; di certo non l’avrebbe fermato un indovino da quattro soldi. Strisciava alle sue spalle con una maestria che qualunque ladro o assassino gli avrebbe invidiato, frutto di decenni di perfezionamento e di intensificazione dei propri sensi, senza che la propria lunga veste producesse alcuna frizione sul freddo pavimento della torre, i piedi avvolti in calzari da mago che aveva fatto fare su misura, in una scamosciatura studiata per non produrre il minimo rumore.

Tutto era pensato per limitare il più possibile i rischi da correre, anche se avrebbe dovuto farlo all’umana maniera. Se avesse utilizzato un qualsiasi tipo di magia o di pozione le possibilità di essere scoperto sarebbero aumentate esponenzialmente, rovinando tutto il lavoro che aveva svolto. Le ombre di quella giornata erano amiche che contribuivano a celare la sua presenza ad Amaideach, che continuava a vagare per la torre in cerca di qualcosa, con passo nervoso, che tradiva la sua ansia. Forse i suoi poteri gli avevano dato sentore di ciò che stava per accadere. Forse era semplicemente un pusillanime codardo. Chàrosh si augurava che fosse conservato almeno un libro decente, nella sua libreria, anche se non ci sperava troppo.

Il lampo di un fulmine inondò di luce la torre, illuminandola a giorno. Amaideach si voltò di scatto, tirandosi il mantello vicino al petto, ma non c’era nessuno a seguirlo; era solo la sua immaginazione a giocargli cattivi scherzi, a causa di quei brutti sogni che lo tormentavano ogni notte. Protese la lanterna verso il buio corridoio, tentando di rincuorarsi un po’ quando vide che era solo. Il rombo di quel tuono lo riscosse, e riprese la sua marcia. Da qualche parte avrebbe trovato una pozione per dormire, per scacciare le immagini che gli invadevano la mente durante il sonno... perché a Chàrosh non poteva chiedere nulla di simile, pieno com’era di un terrore annichilente, che andava oltre l’umana ragione. Non comprendeva come re Glic potesse esserne immune, perché gli occhi del mago mostravano sempre uno sguardo iracondo e privo di qualsivoglia sentimento di tolleranza, un verde iniettato di un giallo innaturale.

Era appena entrato nel suo piccolo laboratorio che già si sentiva ancora più angosciato da quell’oscurità, così tanto che neppure l’aria fresca del temporale riusciva a confortarlo, mentre si affacciava all’unica piccola finestrella della stanza. Gli parve di cogliere l’ombra di qualcosa, al successivo lampo, e sudando freddo cercò con lo sguardo tra le ombre delle pareti, ma la luce l’aveva abbagliato, rendendolo ancora più vulnerabile di quanto già non fosse a causa della sua instabile condizione mentale. Aveva avuto lo stesso incubo da quando aveva partecipato all’incantesimo con Chàrosh, tuttavia provò sincero stupore quando il frastuono coprì il suo singulto.

L’ombra era reale. L’aveva seguito per tutto quel tempo e ora esigeva la sua vita. L’aveva pugnalato su un fianco, poi era scivolata in assoluto silenzio alle sue spalle, tagliandogli la gola senza esitare. Amaideach si accasciò per terra tra qualche insulsa convulsione, con la mano vanamente vicina alla ferita mortale, mentre Chàrosh già ripuliva quella lama dal sangue dell’indovino, godendosi i suoi ultimi attimi. Amaideach aveva imbrattato il pavimento col suo sangue inutile, così Chàrosh dovette spostarsi velocemente, per evitare che le sue vesti si macchiassero. Era stato tutto molto più pulito di quanto avesse sperato. Quello sciocco era ancora più ingenuo e inetto di quanto gli fosse sembrato in precedenza.

Si chinò un’ultima volta a contemplare il volto della morte sovrapposto al suo, poi inzuppò un dito in quella linfa vitale che scorreva via, portandoselo alle labbra. Sì, Amaideach sapeva proprio di inetto.

 

I ruggiti dei draghi avevano il suono di un vibrato lamento, rombavano nel Regno Bianco ormai da un mese come segno dell’oppressione dei suoi abitanti. Persino la giovane principessa Bláth era intrappolata nella propria torre, a causa della furia dell’animale che aveva fatto crollare parecchie stanze ai piani inferiori. Sua madre e suo padre la ritenevano abbastanza al sicuro, anche perché i draghi minacciavano un’altra parte del castello. Incurante delle loro preoccupazioni, tuttavia, quand’era sola spiava frammenti di ciò che v’era fuori dalla finestra, col cuore in gola per la paura, ma con la smania di poter lanciare uno sguardo a un drago.

Si narrava che i draghi si fossero estinti da almeno quattro o cinque secoli, tanto che qualcuno li considerava persino creature leggendarie. Essendone comparsi sei quasi nello stesso momento, si riteneva che essi si fossero semplicemente nascosti, in attesa del momento propizio per vendicarsi dello sterminio dei loro vecchi compagni. Poco meno di qualche settimana prima si erano presentati tutti nel Regno Bianco, volando da ogni direzione, infuocando il cielo e la terra.

In quel caos erano davvero in pochi a ricordare che il drago Smok fosse stato abbattuto dalla famiglia del Regno Bianco, né potevano immaginare che quei draghi fossero lì in cerca di vendetta. Tra loro uno solo sembrava diverso dagli altri. Un maestoso quanto terribile dragone dalle squame taglienti come lame e lucide come l’ossidiana, che aveva tentato di ragionare con gli altri suoi simili.

Perché non mi ascoltate?

Non era neppure certo di aver comunicato efficacemente con loro, quando dalle sue fauci fuoriuscivano null’altro che aspri versi privi di senso per l’orecchio umano. Eppure la sua mente era cosciente, i suoi ricordi e la sua memoria intatti, così come le sue facoltà di intuire la situazione in cui si trovava. Non la comprendeva perché non aveva idea di cosa pensare, ma accettava le cose così com’erano. Un giorno aveva avuto l’impellente desiderio di recarsi fuori dal castello, con la pelle che gli bruciava piena di ustioni immaginarie. Non ricordava molto altro della propria trasformazione, soltanto che era avvenuta in solitudine, lontano da chiunque potesse dargli una mano. Aveva avuto l’impressione di aver tentato di afferrare il suo flauto magico, accorgendosi troppo tardi di non averlo portato con sé.

Perché non rispondete?!

Maith soffiò quel fuoco azzurro verso il drago più vicino. In quel mese aveva fatto di tutto per proteggere il Castello Bianco, pur non sapendo perché gli altri draghi l’avessero preso di mira. Desiderava soltanto rivedere Bláth, anche se non aveva idea di dove si trovasse. Aveva provato ad affacciarsi alle sue stanze, ma quasi tutta quell’ala del castello era crollata e disabitata. Non poteva credere che la principessa avesse perso la vita, neppure per un attimo. Aveva già ucciso tre draghi, in scontri violenti e attacchi a sorpresa. Gli ultimi due, tuttavia, si mantenevano a distanza di sicurezza, ormai consci del suo tradimento. Il suo timore era che, impegnandosi in uno scontro con uno di quelli, l’altro avrebbe attaccato nuovamente il castello.

Volò verso la torre più elevata, girandovi intorno, tenendo sotto controllo la situazione dall’alto. Il cielo ospitava ormai permanentemente colori che mai vi aveva visto tanto a lungo, violetto, rosso e azzurro. Maith colse con l’occhio blu la presenza di un piccolo corpo umano dietro la finestra. Riconoscendo Bláth che si pettinava i lunghi capelli si agitò, tentando di attirare la sua attenzione, ma ella si ritrasse spaventata, atterrita da quel mostro spaventoso che aveva dinanzi, che avrebbe potuto incenerirla in un battito di ciglia.

Quasi attratti da quella sua distrazione gli altri due draghi lo attaccarono in contemporanea, volando verso l’alto per poterlo caricare. Maith si scostò per evitare che Bláth e la sua torre fossero coinvolti nello scontro, quindi punto l’occhio azzurro verso di loro, preparandosi a combattere. La principessa si sporse leggermente per osservare quell’incredibile scena da lontano, consapevole del pericolo ma impossibilitata a distogliere lo sguardo da quelle gigantesche creature. Sebbene fosse certa anche da quella distanza che il drago nero era stato colpito dal fuoco degli altri due, quello sembrava illeso, come immune agli attacchi. Erano in realtà le sue scaglie ad averlo protetto, facendo scivolare magicamente quel fuoco lontano dalla pelle sottostante.

Bláth intimamente esultò, perché si augurava che fosse il drago nero a vincere lo scontro, dato che aveva distrutto anche gli altri draghi, spinto da chissà quale antica rivalità. La prodezza del drago nero fu ricompensata quando il primo avversario cadde strepitando, ustionato dalle sue fiamme gelate, del colore del mare.

Maigeth?

Maith ebbe un attimo d’esitazione; un dubbio strisciante si fece velocemente strada nel suo cervello, una consapevolezza della realtà che faticava ad accettare. Gli tornarono in mente le parole che soleva ripetergli spesso Charbán, sul fatto che in ogni cosa il dubbio fosse l’inizio della conoscenza. Maigeth, il Principe Viola, non poteva essere lì, come lui, intrappolato all’interno di un drago... oppure sì?

 

Charbán aveva galoppato più veloce del vento per raggiungere prima possibile il Regno Bianco, dopo che diversi messaggeri erano giunti ad avvisare gli abitanti del Regno Azzurro della minaccia dei sei draghi. Stando ai loro resoconti, poi, la comparsa dei draghi sarebbe curiosamente coincisa con la sparizione di Maith, che mai si era allontanato tanto a lungo senza portare con sé il fidato mentore o quantomeno avvisarlo dei suoi spostamenti. Aveva chiesto e ottenuto dai sovrani del Regno Azzurro il permesso di partire immediatamente alla volta del Castello Bianco, informandoli con fare misterioso della possibilità che la scomparsa di Maith fosse collegata a quell’evento eccezionale.

Già da lontano aveva notato il cielo cambiare colore, inoltre aveva dovuto evitare cumuli di macerie, detriti, esseri umani distrutti e terrorizzati da quelle figure gigantesche poco oltre l’orizzonte del loro sguardo, bambini che piangevano e urlavano mentre Charbán si stringeva di più al proprio cavallo, incitandolo con uno strano presentimento. Aveva intravisto i draghi poco dopo, quando il passo era stato rallentato da enormi pozze di lava incandescente alternate a qualche freddo specchio di fuoco azzurro, una magia della quale in vita sua non aveva mai letto o studiato.

In oltre cento anni di vita non aveva rivelato a nessuno di aver studiato le arti magiche e alchemiche. Era passato parecchio tempo anche da quando le aveva utilizzate, con la conseguenza che questo gli aveva impedito di perfezionarle, nonostante gli anni di studio con suo padre Athair. La sensazione che suo fratello fosse coinvolto in tutto ciò si faceva sempre più pressante a mano a mano che si avvicinava al castello. Forse era a causa del legame ancora esistente tra loro, ma ebbe la netta sensazione che in quella maledizione ci fosse la firma di Chàrosh.

In cielo, tra i fumi di quella nuova realtà, rimanevano due enormi draghi a scontrarsi con violenza, lottando per restare in volo, colpendosi come comuni bestie, senza l’uso del fuoco magico, artigliandosi e persino mordendosi. Il drago rosso era invaso dal dolore derivante dall’incontro delle zanne e della tenera carne della bocca con le enormi scaglie adamantine del drago nero. Dietro di loro il viola sfumava sempre più, svanendo nel rosso e nell’azzurro. Con un poderoso colpo di coda il grande drago nero spinse via quello rosso, approfittandone per sputargli addosso una fiammata cerulea, che lo fece capitombolare verso il basso. Charbán notò che il drago rimasto era ferito, perché volava in maniera irregolare, dirigendosi verso una delle torri del castello.

Voleva riprendere anche lui ad avvicinarsi per capire meglio quale fosse la situazione, ma Chàrosh gli si parò davanti, affiancato da diversi soldati verdi che gli bloccavano la strada. Nessuno dei due era sorpreso di vedere l’altro.

«Non avvicinarti, rovineresti la scenetta che ho preparato. Ormai manca poco.»

«Che cosa hai fatto stavolta?!»

«Arrestate quest’uomo, è nemico dei regni» ordinò Chàrosh, impedendogli qualsiasi mossa o via di fuga.

In quel terreno accidentato sarebbe stato impossibile evitare di essere catturato anche se avesse avuto a disposizione delle magie. E lui non le aveva. Perciò Charbán si arrese senza dire altro, sperando in cuor suo che avrebbe avuto l’occasione di spiegare a qualcuno cosa stesse accadendo. Il gemello non poteva ucciderlo, quindi aveva ancora qualche possibilità.

 

Deárg!

Aveva tentato di richiamarlo, di comunicare con lui, ma il Principe Rosso non gli aveva lasciato altra scelta. Deárg era riuscito ad azzannargli la tenera carne dell’ala destra, l’unico punto in cui le oscure squame non lo proteggevano da attacchi diretti. Anche l’ultimo drago era caduto, quindi Maith scese scompostamente verso la torre dove aveva visto Bláth. Voleva rivederla almeno un’ultima volta. Ella era già lì, bellissima e terrorizzata, le iridi d’ambra spalancate e fisse nei suoi enormi occhi diversi, uno azzurro e l’altro blu.

Bláth!

Maith ruggì; lei si portò una mano al cuore convinta di morire dallo spavento. Il drago non sarebbe riuscito a mantenersi in aria ancora per molto.

Ti amo, Bláth!

Il ruggito divenne un soffio di fuoco che travolse di fulgida luce azzurra l’intera torre. Maith non riuscì a vedere altro perché precipitò inesorabilmente verso il basso, anche se la torre non sembrava essersi incendiata. Forse l’aveva uccisa, soltanto per il suo disperato tentativo di trasmetterle un’ultima volta il proprio amore. In alto, tra nuvole piene di china, vedeva ripristinato l’azzurro del cielo. Perse i sensi.

Quando riaprì gli occhi tentò istintivamente di alzarsi, riuscendo a fatica a tirarsi sulle zampe. Aveva ormai perso la cognizione del tempo e dello spazio; fu a malapena cosciente delle corde che limitavano i suoi movimenti mentre il profumo del biancospino, in quello scenario d’inferno, gli invadeva le narici. Era vicino all’amata foresta di Hath, e se solo avesse potuto piangere l’avrebbe fatto. Consentì a quell’odore di inebriare il suo intero essere, sentendo rallentare il battito del proprio cuore nonostante il dolore per Bláth, dimentico della minuscola presenza di Bréagach che gli puntava l’arco, scoccando una freccia dritta verso il suo cuore.

Bréagach ghignò gelido al suono del tonfo prodotto dalla caduta di quell’enorme drago nero, avvicinandosi per estrarre con lenta perfidia la freccia magica che gli era stata messa tra le mani da Chàrosh.

«Ora che tutti i draghi sono stati sconfitti, possiamo ricostruire questa terra!» proferì con enfasi, coinvolgendo con lo sguardo chiunque avesse assistito a quella scena. «Soltanto io sono venuto ad aiutarvi e salvarvi, solo io! Dove sono i principi che avevano giurato fedeltà al Regno Bianco? Seguitemi, vi dico!»

Uno dei suoi soldati gli si affiancò titubante.

«La principessa Bláth è viva, mio principe. Ella è... Non so come...»

Bláth arrivò al cospetto di Bréagach a cavallo ed egli, per un momento, non fu certo che fosse veramente la stessa fanciulla. I suoi capelli erano completamente azzurri, lisci e lucenti come quel fuoco magico che era fuoriuscito dalla bocca del drago che aveva abbattuto. Bréagach se la fece portare più vicina, sfiorandoglieli preoccupato, ma quelli non bruciavano, quindi concluse che non v’era pericolo. Anche gli occhi erano diversi, perché l’ambra delicata aveva lasciato il posto al nero della notte.

La principessa Bláth era ancora traumatizzata da quanto era accaduto pochi minuti prima, quando era stata travolta da un gelo azzurro, incapace di fuggire. Una volta che aveva realizzato di essere viva, tuttavia, era corsa giù dalla torre, in cerca dei propri genitori, insistendo sul fatto che dovesse vedere che fine avesse fatto il drago. Vedendolo privo di vita era stata colta da strane e conturbanti emozioni che non sapeva spiegarsi, perché la mente era cieca a ciò che il cuore le sussurrava.

Venne sollevata di peso da un uomo incappucciato che le ricordava terribilmente il mentore di Maith, ma aveva un’espressione molto più sinistra e cupa, che la paralizzò ancora di più. Si aggrappò a Bréagach soltanto per un riflesso automatico, mentre gli occhi vagavano sperduti verso il bosco, notando decine di alberi di biancospino distrutti. Sebbene la principessa Bláth fosse viva, non si sentiva molto diversa da uno di quei tronchi devastati. Lei e il principe Bréagach corsero via e il galoppo del cavallo le fece perdere i sensi, intontita e confusa com’era.

Tra le fila di quel corteo di vincitori, incappucciato, legato e costretto a cavallo insieme a un qualunque soldato, Charbán aveva visto tutto, i pezzi dell’oscuro disegno del fratello che si delineavano sempre più chiari ed evidenti davanti ai suoi occhi. Sotto il mantello, nascosto dalla tunica e dalla casacca, il flauto magico di Maith aderiva alla pelle nuda del suo corpo, ustionante come ferro fuso.

 

–––

[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio ***


03 Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio

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Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio,
se avessi continuato a fare il mago forse ti avrei tolto da ogni maleficio
e se fosse stato troppo tardi giuro che con sotterfugi ti avrei vendicato,
con un cappio al collo adesso canto questo perché tu non devi essere dimenticato,
ora sto cantando a tutto il reame che hanno ucciso un drago che non è reale...

–––

 

–Capitolo 3–

 

 

Il mattino successivo alla battaglia il cielo era ancora oscuro. Qua e là si scorgeva qualche piccolo sprazzo di sereno, ma perlopiù erano dense nuvole a velare la pallida luce di quel triste inverno che volgeva al termine. Per rimarcare la propria posizione, Bréagach aveva deciso di cominciare niente meno che con l’esecuzione di Charbán, scatenando l’odio più profondo in Chàrosh, che non lo immaginava così stupido da agire senza prima consultarlo. La vanagloria aveva già dato alla testa a quello sciocco, ma gliel’avrebbe fatta pagare più tardi, con calma. Purtroppo, però, già moltissimi dei suoi soldati verdi avevano appoggiato quella follia, nonché gli stessi sovrani del Regno Bianco, che avevano acconsentito alla condanna a morte per impiccagione.

Il problema era che Chàrosh l’aveva saputo tardi, quindi era stato costretto a correre per raggiungere la piazza del patibolo. Da lontano non sentiva nulla, ma temeva che Charbán, arrivato a quel punto, svelasse qualcosa. Ciò che realmente lo faceva sudare freddo, tuttavia, era il legame della pozione dello specchio, che avrebbe senza alcun dubbio posto fine alla vita di entrambi, rispettando il patto alchemico. Nessuno, nel tempo che aveva trascorso su quella terra, aveva mai osato fargli provare il sentimento della paura con così tanta intensità. Aveva il corpo di un umano, ma la sua vita aveva un valore al di sopra di quella del misero essere che occupava. Persino Charbán, alla fine, non l’aveva mai realmente ostacolato, evitando di incrociare la sua strada per moltissimi anni.

Poco più in là, al centro della piazza, a Charbán fu finalmente tolto il bavaglio che gli impediva di parlare.

«Ebbene, è almeno concesso un ultimo desiderio a un condannato a morte?»

Re Bardhë, il Re Bianco, gli accordò il permesso di esprimere quell’ultimo desiderio.

«Non desidero altro che suonare il flauto per la principessa Bláth. Vi chiedo, dunque, di slegarmi le mani solo per il tempo necessario affinché io possa portare a compimento il mio desiderio.»

Appena gli furono slegate le mani estrasse dalla tunica il flauto di Hath, gli occhi puntati in quelli della Principessa Bianca, della quale aveva già la completa attenzione, perché aveva riconosciuto il flauto di Maith. Le poche e semplici note di una melodia antica, eseguita con triste pacatezza, risuonarono per tutta la zona, lasciando i cuori colmi allo stesso tempo di contrizione e di meraviglia. Charbán approfittò del momento per comunicare con la principessa Bláth.

«Principessa, ricordatevi sempre che il dubbio è l’inizio della conoscenza.»

Il flauto gli fu sottratto dalle mani, mentre il cappio tornava ad adornargli il collo, e Charbán fu certo che fosse giunta la sua ora. Poteva sentire già qualche gocciolina di pioggia sul viso, o forse erano comunissime lacrime di paura. La sua unica consolazione era la consapevolezza che, dovunque suo fratello si trovasse, anche la sua anima sarebbe stata liberata da ogni pena.

La sua mente immersa nei meandri di remoti ricordi non gli permise di udire con chiarezza le parole pronunciate da Chàrosh, quando questi richiamò l’attenzione di tutti, costretto a intercedere per la vita del gemello, adducendo come attenuante il proprio contributo nell’aver fornito al principe Bréagach la freccia magica in grado di sconfiggere il drago nero. Sfruttando al massimo l’arte della persuasione, che tanto aveva affinato sin dall’inizio della propria esistenza, li convinse tutti, dal primo all’ultimo, che la condanna a morte fosse troppo severa, persino per un traditore, ché tenerlo rinchiuso nelle segrete del Castello Bianco, lontano dalla luce del sole e dalla sua terra, sarebbe stata una punizione molto più crudele.

Il sollievo per la riuscita di quella misera impresa, tuttavia, non sollevò Chàrosh dalle preoccupazioni che ancora lo attanagliavano. Forse si stava solo facendo prendere dall’ansia a causa del panico provato per quello scampato pericolo. Sentiva di aver perso parte della sua lucidità. Aveva riconosciuto chiaramente un richiamo di fate nel soave e misterioso motivo prodotto dal flauto che era custodito dalle mani della principessa Bláth. Forse aveva sottovalutato Charbán. Ma sarebbe stato rinchiuso per sempre, dimenticato dal mondo, l’ultimo alchimista ad aver avuto accesso al sapere delle arti magiche, ricordato unicamente come cantastorie traditore. E qualche minuscola fata non avrebbe di certo potuto ostacolarlo.

 

Fíonnula e Rhoséd avevano udito il richiamo. Grazie al potere racchiuso nel flauto di Hath sapevano anche che a inviare quella richiesta di aiuto non era stato Maith, ma qualcun altro, qualcuno con un corpo maledetto dall’unione proibita di alchimia e stregoneria. Maith era sempre stato un buon amico per loro, forse l’unico essere umano, in decenni, a meritare la loro più profonda stima, in quanto dotato di una purezza di cuore più rara del più raro fiore conosciuto. Perciò si recarono insieme alle altre davanti al grande biancospino. Fu tanto il loro stupore nell’incontrare gli gnomi, anch’essi venuti a supplicare l’albero nella speranza che aiutasse Maith.

«Crataegus, immensa Mathanas, dona la vita a chi ha servito la natura e la pace» invocò Rhoséd, prostrandosi ai suoi piedi.

Fíonnula offrì la propria campanella in dono, piegandosi a sua volta.

«Offro la mia stessa vita» sussurrò determinata.

Rhoséd stava quasi per rimproverarla quando udirono la risposta di Mathanas.

Egli vive ancora. Ha accettato il mio aiuto. Gli concederò soltanto una goccia.

Fíonnula e Rhoséd si guardarono consapevoli, ritornando a volare leggere verso il punto più nascosto dell’albero, che stava aprendo le sue fronde per consentire loro il passaggio. Quelle si richiusero dietro di loro, ma la brina che vi si era formata si sciolse di colpo, pur lasciando un freddo innaturale. Rhoséd si sporse verso il corimbo che splendeva più degli altri, in riverente attesa, porgendo la propria campanella. Una sola minuscola e fulgida goccia scese da quei fiori per riempirla, e le due fate si affrettarono ad abbandonare il sacro luogo per cercare Maith. Non fu difficile, perché il corpo del grande drago nero si trovava proprio ai margini del bosco, ancora legato da crudeli ed enormi corde.

Rhoséd si avvicinò alla sua bocca, quindi vi fece scomparire la luccicante goccia, allontanandosi. Le due enormi iridi si spalancarono contemporaneamente, destando Maith dal sonno nel quale era imprigionato. Fíonnula e Rhoséd agitarono dolcemente le rispettive campanelle, rompendo le corde che ancora gli impedivano di levarsi in volo. Anche le sue ferite si risanarono per effetto della magia, le scaglie di nuovo marmoree e perfettamente riflettenti. Il drago distese le ali senza ancora levarsi in volo, accorgendosi della presenza intimorita e curiosa della principessa Bláth, che lentamente si appropinquava sempre di più, col flauto stretto tra le mani. Fíonnula soffiò con un po’ di polvere di fata un vento dolce, che sollevò da terra la principessa adagiandola sul dorso del drago.

«Fuggite, presto! Prima che si accorgano di voi.»

Maith ringhiò fiero, dispiegando le ali per abbandonare quel luogo, con la principessa Bláth che tentava di tenersi salda, incastrata tra quelle squame inospitali. Per sua fortuna il viaggio durò poco, perché il drago la portò al di là della foresta di Hath, il luogo che tanto aveva bramato di rivedere. Da quel lato appariva più tenebroso di quanto ricordasse, lo stesso verde degli alberi come oscurato da una sottile patina di grigiore triste, che ricalcava quello del cielo sopra di loro.

La principessa Bláth scese con prudenza dalla grande bestia, ritrovandosi poi davanti ai suoi immensi occhi. Un po’ impaurita dall’oscura profondità dell’iride blu spostò l’attenzione su quella azzurra, avvertendo un’emozione di struggente ambiguità.

Ricordatevi sempre che il dubbio è l’inizio della conoscenza.

Il drago nero non muoveva un muscolo, le quattro zampe ripiegate in posizione quieta e inoffensiva, così come le ali intorno al suo corpo smisurato, mentre Bláth si avvicinava sempre di più. Poi emise uno strano brontolio, abbassando il collo finché il muso non si ritrovò a poca distanza dalla principessa. Osservando quell’occhio ancora più da vicino protese istintivamente una mano verso di lui, l’altra stretta saldamente sul flauto che si premeva in petto, quasi temendo che le sfuggisse.

Maith?

«Cosa ti hanno fatto?»

Dalla gola del drago un altro latrato sommesso. Bláth sentì i propri occhi riempirsi di lacrime, nella comprensione della verità. Non sapeva né come né perché, ma Maith, il suo amore, in qualche modo era lì dinanzi a lei, impossibilitato a parlarle.

«Amore mio...» sussurrò in un soffio. «Sei davvero tu?»

Con le punte delle dita la principessa sfiorò la pelle squamosa della testa del drago, poi vi posò le labbra, nell’accenno di un bacio. Quando riaprì gli occhi dovette ritrarsi subito, schermandosi il volto: una sfolgorante luce avvolgeva il corpo della creatura, che si contrasse fino a raggiungere la forma di un essere umano.

«Maith...!»

«Non so che magia abbiano compiuto le vostre labbra, ma ora sono davvero io.»

La principessa Bláth gli si strinse contro, stremata da tutte quelle sensazioni. Si baciarono con passione, felici di essersi ritrovati, sostenendo i propri corpi sul tronco di un giovane biancospino, il cui legno sembrò ammorbidirsi fino a curvarsi sotto il peso dei loro corpi avvinghiati in quella stretta romantica.

«Le fate...» suggerì la principessa, porgendogli il flauto di Hath.

Maith annuì, prendendo lo strumento e intrecciando la mano con quella di Bláth, dunque si addentrò con lei nel bosco. Nella foresta una densa e fredda nebbia impregnava l’aria, i sentieri erano confusi e Maith faticava a trovare quello che l’avrebbe condotto verso il regno delle fate. Bláth avvertì nuovamente, dopo tanto tempo, la dolce malia di quel luogo, dei suoi alberi e dei suoi cespugli, dei rami e delle foglie, dell’umidità invitante del sottobosco. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto, ma il suo Principe Azzurro la teneva per mano e non l’avrebbe abbandonata.

Una volta raggiunto il cuore della foresta Maith intonò con il flauto una sola nota delicata, e le fate comparvero. Àrsaidh, la più anziana tra le fate, spiegò loro quanto avevano compreso di ciò che era accaduto sino a quel momento: Maith era stato vittima di un crudele maleficio che aveva convertito sei principi in sei giganteschi draghi. Poiché a tale scopo era stato adoperato il sangue del drago Smok, chi era stato trasformato aveva cercato vendetta nella Famiglia Bianca, colpevole di aver distrutto il leggendario drago oltre cinque secoli addietro. Ma chiunque fosse stato l’alchimista ad aver tramato una simile pozione, egli aveva dimenticato di aggiungere una scaglia di drago, per rendere il mutamento definitivo. Senza quella sarebbe invece stato possibile controvertere l’effetto della maledizione con un bacio di una principessa innamorata.

Il fatto che Maith non avesse perso la memoria, inoltre, Àrsaidh lo imputò alla protezione della polvere di fata, donatagli sette anni prima in quella stessa foresta. Infine, prima che Maith fosse colpito al cuore, Mathanas, il grande albero di biancospino, aveva fatto sì che il suo battito rallentasse fin quasi a farlo apparire morto, portandolo in un particolarissimo stato di sospensione vitale, che era stato interrotto da una purissima goccia di vita elargitagli dallo stesso albero. Su chi avesse ordito un simile copione Àrsaidh non sapeva fornire risposte.

«È stato quell’uomo» si intromise la principessa. «Quello che rassomiglia al vostro maestro.»

Maith pensò subito a Charbán, e a come stoltamente aveva creduto che l’amico l’avesse tradito, quando in realtà quello che aveva visto non era che una brutta copia del proprio mentore. Bláth gli raccontò quanto avvenuto nella piazza delle esecuzioni, di come Charbán avesse richiamato le fate e di come l’avesse dunque spinta a interrogarsi sulla vera natura di quella situazione. Proprio mentre ne discutevano comparve Charbán tra i grossi biancospini ancora non fioriti.

«Dovete uccidermi» esordì immediatamente. «Ma prima vorrei portarvi in un posto.»

 

Charbán aveva lasciato dei cavalli appena oltre il limite del bosco. Bláth salì in sella assieme a Maith, tenendosi stretta a lui. Cavalcarono spingendo impietosamente gli animali, esortati dall’urgenza nella voce di Charbán, che aveva rimandato le spiegazioni a più tardi. Soltanto al tramonto, sulle rive di un ruscello salvatosi dalla furia del fuoco di drago, dove i cavalli poterono abbeverarsi assieme a loro, si premurò di fornire qualche delucidazione.

Egli spiegò ai due giovani di essere fuggito grazie all’uso di un trucco magico, lo schiocco dell’ombra. Sebbene si trattasse di magia oscura, era tra le più semplici e innocue, in quanto permetteva di celarsi nelle ombre dell’ambiente con un minimo residuo di tenebra per l’utilizzatore. Quel giorno di buio ve n’era parecchio, pertanto non era stato difficile approfittarne, lasciando dietro di sé, ancora per qualche minuto, l’ottenebramento di una sagoma illusoria nelle menti dei suoi carcerieri.

Ciò che Charbán aveva taciuto era stato l’incantesimo di memoria con il quale aveva richiamato a sé ogni ricordo della propria vita, rendendolo nitido e chiaro quanto il presente stesso. Ogni incantesimo, pozione alchemica e magia appresa durante la sua infanzia era ritornata a lui, che aveva allontanato tali conoscenze in preda all’angoscia più cupa. Nel suo dolore per la morte del padre, infatti, aveva rimosso lo strano incubo che aveva occupato il suo sonno quel funesto giorno, in cui Athair gli svelava con poche, semplici parole, ciò di cui aveva bisogno.

Quello non è più tuo fratello.

Che quel sogno fosse stato il frutto di un’ultima disperata magia del padre non ne era certo; ciò che sapeva era che quelle parole avevano avvalorato i terribili dubbi che lo avevano attanagliato per decenni. Ogni giorno aggiungeva qualcosa alla sua storia, rivelando nuovi dettagli. Maith fu incredibilmente sorpreso dalla sua conoscenza dell’arte della stregoneria, ma non volle indagare oltre. Lo spaventava anche l’ordine di ucciderlo che Charbán gli aveva ingiunto, eppure aveva deciso di seguirlo senza fare ulteriori domande. A grandi linee aveva compreso che il fratello di Charbán e lo stesso Charbán erano stati protagonisti di un potente scambio alchemico praticato con una pozione attivata tramite una formula magica, anche se di sortilegi non ne sapeva nulla.

Dopo aver parlato con i due giovani, Charbán si isolava, lasciandoli soli, permettendo loro di discutere e riflettere senza la sua ingombrante presenza. Bláth aveva raccolto in una treccia scomposta i lunghissimi capelli azzurri, per i quali Maith si era scusato dal profondo del cuore, perché la fiammata con la quale intendeva dichiararle il suo amore non aveva avuto l’effetto sperato. Ella non lo biasimava, anzi l’aveva compatito per ciò che aveva dovuto sopportare nei panni di quella bestia; gli era inoltre profondamente grata per aver fatto il possibile per difenderla dalla furia degli altri draghi.

Maith non si perdonava tutta la devastazione che non era riuscito a evitare, però aveva una motivazione per diventare re: quella di ripristinare l’equilibrio e la pace e ricostruire quanto era stato ingiustamente distrutto.

«Quando tutto questo sarà finito, amor mio, ci sposeremo» gli promise la principessa Bláth.

«Il mio cuore e la mia vita sono tuoi» rispose Maith, con le dita intrecciate alle sue.

Quella era l’antica formula del congiungimento delle mani. Egli l’aveva pronunciata sotto il cielo notturno, denso della pece più nera, ma la principessa Bláth ne fu ugualmente felice, anche se, in fondo al cuore, una parte di lei non faceva che bramare soltanto il ritorno alla foresta di Hath. Entrambi avevano perso il conto dei giorni trascorsi galoppando sotto quell’incalzante fretta che Charbán instillava in loro. Quella sua ansia si quietò soltanto quando, da una piccola altura brulla, intravide un esteso bosco di salici piangenti.

A Bláth, nonostante i precedenti pensieri, non piacque doversi inoltrare in quell’ambiente: quelli che da fuori sembravano splendidi salici, all’interno della foresta creavano un curioso gioco di spazi chiusi, delineati da penduli rami ricolmi di fiori verdi, che opprimevano Bláth togliendole il respiro. Charbán li guidava con passo sicuro, ma era difficile stargli dietro, perché sia Maith che Bláth continuavano a incespicare. Nonostante tutto riuscirono a fatica a non perderlo di vista, finché egli non si fermò in una stretta radura ombrosa. Chiese loro di mantenersi al limite e si avvicinò al grande albero di salice piangente dal manto verde e giallo, quindi con delicatezza posò le palme delle mani sul suo tronco slanciato.

«Sei davvero qui?» chiese Charbán titubante. «Parlami, Chàrosh.»

Charbán volse lo sguardo verso quella chioma, dubitando ancora per un istante delle proprie deduzioni, dei suoi stessi ricordi.

Fratello, sei tornato.

«Volevo solo rivederti un’ultima volta e chiederti perdono.»

Sarei io a doverti chiedere perdono, la stoltezza della mia giovane età mi ha condotto a scelte sbagliate, ma questa non è una giustificazione. Fearg mi ha corrotto la mente soltanto perché ha trovato terreno fertile per le proprie lusinghe. È una creatura più antica di quanto immagini. Devi affrettarti, perché è già qui vicino. La mia vita è quasi al termine, perciò non affliggerti.

Poco distanti, Maith e Bláth attendevano. L’agitazione della principessa era palpabile, perché ogni ramoscello, ogni foglia, ogni fronzolo le pareva muoversi sotto la spinta di un vento innaturale, del quale non capiva la provenienza né comprendeva la direzione. Maith cercava di rassicurarla, assicurandole che qualsiasi cosa fosse accaduta l’avrebbe protetta, ma anche lui iniziava a sospettare che quello stato d’animo fosse causato dalla saturante magia di quella foresta. Quando infine Charbán tornò da loro, ripeté l’ordine che aveva impartito loro quando si erano riuniti. Maith protestò, poiché, pur avendo ascoltato in quei giorni la storia della sua vita, non poteva concepire che non esistesse un’alternativa.

«Non c’è più tempo per i dubbi! Non posso farlo da solo.»

Charbán si aggrappò disperatamente al principe, tentando invano di fargli prendere quella decisione. Sapeva che si trattava di una richiesta estrema, eppure non aveva altra scelta. I suoi occhi balzarono sulla principessa Bláth, che con aspetto smarrito lo guardava di rimando. Colto da un’illuminazione si rivolse a lei, scongiurandola in ginocchio di fare quanto necessario.

«Maith, dammi il flauto» fece calma, per poi sottrarglielo.

Egli era immobile; neppure aveva provato a impedirle di prenderlo. Charbán protese la testa e il collo verso un lato, osservando con un sorriso il suo caro, vecchio amico, il bambino che aveva cercato di rendere un uomo, l’unico essere umano al quale fosse riuscito ad affezionarsi dopo oltre un secolo di solitudine. Sussurrò un lieve incanto di benedizione, poi la principessa levò il flauto, decisa a puntare il suo collo. Anche quella stregoneria non sapeva come sarebbe avvenuta, ma in qualche modo pareva che ella ne fosse conscia, o che seguisse un istinto inspiegabile.

«Ogni giorno al vostro fianco è stato gioioso, amico mio» sussurrò Charbán con gli occhi puntati nuovamente in quelli del principe.

Il tempo sembrò rallentare mentre Bláth calava il flauto sulla gola di Charbán: in quell’istante il chiaro legno di biancospino si trasmutò in una luminosa lama affilata, che mozzò di netto la testa del mago. Quella cadde al suolo in un tonfo morbido e Maith distolse lo sguardo, con le mani di fronte al viso, invece la principessa rimase immobile, incapace di comprendere dove avesse trovato la forza per compiere un tale gesto. Guardando le proprie mani Bláth trovò, perfettamente integro, il flauto di Hath.

Un brivido impressionante attraversò il suo corpo, poi si ricordò di Maith.

«Andiamo via, ti prego. Ho paura, Maith, ho paura! Dobbiamo andare via.»

Poco distante, ancora nascosto ai loro occhi, Fearg cadde in ginocchio, avvertendo un forte dolore al collo. Istintivamente si portò entrambe le mani intorno al gozzo, dal quale cominciò a sgorgare una considerevole quantità di sangue cremisi.

«No!» esclamò terrorizzato, in un singulto sbigottito.

Attingendo a tutte le proprie riserve di magia trovò la forza di rialzarsi e di attraversare l’ultima parete di fronde che lo separava dalla radura del grande salice piangente. Poi stramazzò a terra, i suoi poteri inutili contro la forza dello stesso incanto che egli stesso aveva voluto sfruttare per liberarsi.

Chàrosh aveva sentito il suo arrivo così come aveva percepito ogni suo passo in quella foresta che ormai rappresentava la sua dimora da oltre un secolo. Ironicamente Fearg era tornato per morire nel luogo della propria antica prigionia. Chàrosh invece aveva persino avuto il privilegio di riconciliarsi con suo fratello Charbán, una speranza che non lo aveva mai abbandonato durante tutti quegli anni.

Accolse con sollievo la magia alchemica della pozione dello specchio, che stava infine reclamando anche la sua essenza, sciogliendo il suo vincolo con il tronco del grande albero.

 

Per convincere Maith ad allontanarsi, Bláth l’aveva dovuto richiamare più e più volte, pregandolo di seguirla, perché la strana corrente che si era levata dopo la morte di Charbán sembrava aumentare di secondo in secondo, sollevando e smuovendo l’intera boscaglia. Maith aveva voltato la testa poco dopo, fissando gli occhi spalancati dell’amico esangue.

Disperata, Bláth l’aveva preso per mano, fino a trascinarlo con sé, alla cieca, rintracciando a tentoni il sentiero che avevano percorso per giungere alla piccola radura, scostando faticosamente decine di lunghe fronde dal loro cammino, lottando contro quegli spifferi gelidi. Affannata ma determinata la principessa lo aveva guidato, fino a ritrovare i due cavalli che li avevano accompagnati in quel viaggio.

«Dobbiamo andare, Maith» ripeté.

«Bláth, come hai potuto...?» chiese lui ancora disorientato.

«Dovevo farlo, Maith! Maith, guardami, devi reagire! Dobbiamo tornare subito nel Regno Bianco. Hai dimenticato i discorsi che mi hai fatto in questi giorni? I tuoi propositi di riportare la pace, di ricostruire per il bene del popolo? Ho bisogno di te, Maith. Amor mio, il mio cuore e la mia vita sono tuoi. Dimmi, è ancora lo stesso per te?»

«Il mio cuore e la mia vita sono tuoi. Ora e sempre» confermò il principe, iniziando finalmente a riscuotersi.

Maith allungò le mani a riprendere il suo flauto, quindi lo ripose al sicuro sotto i propri abiti. Piegandosi in due rigettò l’intensa nausea che si era impadronita di lui durante quei momenti, infine aiutò la principessa Bláth a salire a cavallo, montando poi sull’altro, deciso a non farsi fermare dagli eventi delle ultime ore.

«Verso il Regno Bianco.»

«Fai strada, amor mio.»

 

 

–––

[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

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Capitolo 5
*** Epilogo - Ora lo so di chi è l'incantesimo ***


04 Ora lo so di chi è l'incantesimo

–––

Ora lo so di chi è l’incantesimo,
ora lo so nella storia chi è il drago...

–––

 

–Epilogo–

 

I giorni necessari a ritornare al Regno Bianco furono fondamentali per il principe Maith. Ogni giorno, un po’ come all’andata, egli raccontava alla principessa Bláth dei propri ricordi di Charbán. Per lui, Charbán era stato non solo un mentore o un maestro, ma soprattutto un amico. Ogni giorno, man mano che le parole fluivano dalla propria mente, avvertiva lo scioglimento di quel dolore nel conforto che Bláth gli dava con le sue spiegazioni logiche, perché ella gli rievocava quanto il mago avesse comunicato loro durante quelle ultime ore trascorse insieme.

Maith fu estremamente grato, inoltre, del fatto che fu lei a occuparsi di fornire spiegazioni su quanto accaduto, una volta che furono arrivati nel Regno Bianco. La storia che la principessa raccontò fu leggermente semplificata per i più, ma ad ogni modo inchiodava re Glic e suo figlio Bréagach come colpevoli e complici di un tradimento di dimensioni spropositate, che aveva causato morti e devastazioni oltre ogni misura. Furono condannati a morte per mezzo di decapitazione, senza alcuna possibilità di redenzione. Simbolicamente fu altresì dichiarato colpevole Chàrosh, la cui esecuzione era già stata perpetrata dalla stessa principessa Bláth, come riflesso di quella di Charbán.

Poco dopo fu celebrata la cerimonia del congiungimento delle mani, cosicché Bláth e Maith divenissero ufficialmente sposi e maestà di tutti i regni. Ci vollero quindi moltissimi mesi per risanare il territorio sfigurato dal fuoco dei draghi, ma quell’obiettivo aiutò Maith a curare anche il proprio spirito ferito. Aveva riscoperto il proprio amore per il popolo, per ogni forma di vita abitante i regni. Forse quella terra non sarebbe mai più stata la stessa di un tempo, ma Maith avrebbe impiegato tutto l’impegno di cui disponeva per renderla di nuovo dignitosamente abitabile.

Sette mesi dopo, solo quando ritenne di essere sufficientemente soddisfatto dalle bonifiche effettuate, Maith ritornò nella foresta di Hath. Ogni ramo, ogni cespuglio, ogni foglia e ogni fiore lo accolsero, mentre un pulviscolo fatato avvolgeva il suo corpo. Intonò la melodia del richiamo delle fate col flauto che quelle gli avevano donato, lenta, come Bláth gli aveva descritto essere stata suonata da Charbán nel nobile gesto col quale l’aveva aiutato. Come sempre, comparvero centinaia di fatine meravigliose e persino qualche piccolo gnomo che, vedendolo, fece una timida riverenza.

«Sii benedetto dalle fate, Maith di Hath. Questo è il titolo che Àrsaidh ha voluto per te» esordì Rhoséd.

«Sii benedetto dalle fate, Maith di Hath» ripeterono in coro le altre fate, inclusa Fíonnula.

Aveva atteso quel momento con encomiabile pazienza, imponendosi di non visitare il bosco finché il suo cuore non fosse stato libero e leggero come una foglia. Maith raccontò la sua versione della storia, riuscendo a stupire persino l’anziana fata. Tutte concordarono nel confermargli la giustezza delle azioni compiute, lenendo ancora di più le pene del suo cuore. Charbán era stato il suo più caro amico, e di lui aveva saputo così poco, prima di quei fatidici avvenimenti.

«L’invocazione del tuo amico è stata estremamente pura. Puoi essere fiero di lui. Non tutti avrebbero suonato il flauto con il suo stesso autentico desiderio. Sebbene si tratti di un flauto magico, non saremmo accorse, sapendo che non eri tu a produrre quella musica, se non avessimo avvertito l’intensa genuinità del suo richiamo.»

«Àrsaidh, puoi darmi informazioni su Fearg?»

«Dicevano che Fearg fosse un dio iracondo, crudele oltre ogni immaginazione. Ma quand’ero giovane ricordo che fu confinato in una prigione magica con una potente stregoneria alchemica che coinvolse diversi dèi. Non so chi praticò una simile magia, forse gli elfi. Ormai sono secoli che non vedo un elfo su questa terra. In questa foresta è rinchiuso lo spirito della tranquillità che contrasta l’ira. Forse è per questo che il flauto di Hath ha trasformato se stesso in un’arma.»

Prima che andasse via, Rhoséd lo invitò in privato a ricordarsi di non lasciar venire nella foresta la sua consorte, la regina Bláth, in quanto la sua tormentosa attrazione doveva essere controllata e ridotta. Essendo il suo cuore profondamente inquieto, non avrebbe mai potuto percorrere i sentieri del bosco senza subirne la fatale seduzione. Maith annuì, informando la fata dell’avanzato stato di gravidanza della propria sposa, ormai quasi prossima a dare alla luce il loro primo figlio, al quale avrebbero dato nome Charíon, un nome che richiamava la purezza in onore della foresta.

Fíonnula agitò la propria campanella, sorridendo.

«Che sia benedetto dalle fate!»

 

–––

[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

 

 

 

Note dell'autrice

Non ho inserito il testo completo della canzone perché solo quello conta oltre 1000 parole, ma ad ogni capitolo, nei credits, si trova un link a Youtube dove poterla ascoltare direttamente. A proposito del testo, vorrei chiarire che la trasformazione fisica di Blath è dovuta a una mia liberissima interpretazione del verso 'lei prende fuoco se lui apre bocca e le dice ti amo', che non ho inserito direttamente, ma che volevo facesse parte del mio racconto. Un'altra delle poche cose che tengo a specificare è che Maith in versione drago ha gli occhi uno azzurro e l'altro blu come citazione a Vecchioni (nel caso vi interessi il significato, lascio a voi la libertà di cercarlo oppure no). Se ancora qualche dettaglio della storia vi risulti poco chiaro, sentitevi liberi di chiedermene il senso.

La verità è che avevo scritto tantissime parole come notazione a questa storia, anche perché mi sono ispirata a tantissime letture per diversi elementi, ma alla fine l'unica cosa che vorrei veramente svelare è il significato di alcuni dei nomi che ho scelto per i personaggi (grazie a Google translate):

Gli umani:

  • Chàrosh: è l'alchimista, lo stregone, è l'unico il cui nome non ha un vero significato, ma mi suonava minaccioso
  • Charbán: bán significa bianco; volevo dare l'idea di mago bianco, anche se ho distinto la pronuncia dei nomi dei due fratelli
  • Figlio di Maith e Bláth: Charíon (íon: puro, Char: richiamo al nome dell'amico)
  • Maith: buono (perché ha un cuore puro)
  • Bláth: fiore (per richiamare la sua bellezza)
  • Breagách: tenebroso, non vero
  • Amaideach: sciocco (inspiegabilmente mi sono affezionata persino a lui)

Le fate:

  • la fata Rhoséd: volevo richiamare la rosa ovviamente
  • la fata Fíonnula: mi piaceva semplicemente il nome e mi sembrava un nome da fata
  • la vecchia fata Àrsaidh: il suo nome significa antica

Altre entità:

  • Fearg: ira, in quanto Fearg è il dio dell'ira
  • Hath: significa biancospino, così come anche Crataegus
  • Salis: significa salice, così come anche Salix
  • Smok: drago

Vorrei ringraziare Dark Sider per il concorso che ha indetto, perché avevo in mente di scrivere questa storia già da mesi ed ero ferma al prologo senza riuscire a proseguire; le sue richieste per il concorso mi hanno letteralmente infiammato la fantasia. Ringrazio anche Luca per aver corretto gli ultimi errori grammaticali ancora presenti nel testo.

Mana

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