Fuck Up My Life and Say That You Love Me

di Ellie_x3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuck Up My Days ***
Capitolo 2: *** Bulletproof Heart ***
Capitolo 3: *** I slept with a bandage wasting machine and all I got was this roaring fucking headache ***
Capitolo 4: *** Vantablack ***
Capitolo 5: *** Dig us a Grave and Kill me Softly ***
Capitolo 6: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Fuck Up My Days ***


 

Fuck up My Life and Say that you Love Me

or

The Life and Times of Two Idiots

 

 

I want you to fuck up my nights
yeah, all of my nights


I want you to bring it all on
If you make it all wrong, then I'll make it all right

 

Non è che Chuuya e Dazai avessero deciso di vivere insieme, esattamente.
Era stato un avvicinamento graduale costruito in anni di condivisione degli spazi, quando due quindicenni pigri avevano compreso che convivere era meglio che lavare i piatti da soli, cucinare da soli, percorrere in solitudine i tetri corridoi della Port Mafia per raggiungere l’altro e giocare ai videogiochi quando — per quanto li infastidisse reciprocamente — erano gli unici adolescenti nell’intero edificio.
Kouyou O’nee-san l’aveva suggerito per prima.
Dopotutto, sarebbe stata una soluzione ottimale perché Dazai smettesse di rompere bicchieri (e studiare fantasiosi usi del vetro per porre fine alla propria miseria) e per assicurarsi che Chuuya si svegliasse in tempo per le riunioni quando giocava fino a tardi, perchè Dazai non avrebbe mai negato a sè stesso il piacere di svegliare il proprio partner nelle maniere più crudeli possibili, compreso il caricarselo direttamente in spalla e lanciarlo dal cinquantesimo piano. Come aveva previsto, Chuuya aveva ripreso conoscenza e utilizzato la propria abilità ben prima di sfracellarsi al suolo; peccato.
Per strano che fosse, erano una coppia che funzionava.
A dispetto dei loro superiori, e di loro stessi, eccellevano nella quotidianità come nelle missioni, una macchina ben oliata che aveva stupito chiunque.
Quando aveva lasciato la Port Mafia, Dazai si era trasferito nei dormitori della Armed Detective Agency perché sostanzialmente incapace di prendersi cura di una casa propria.
Quattro anni dopo la loro ultima convivenza, esasperato dall'ennesima missione in cui Mori e Fukuzawa li obbligavano a collaborare e dal fallimento annunciato nella caccia contro Hunting Dogs, Chuuya aveva urlato addosso all'ex partner che per colpa sua non aveva assolutamente idea di come fare una lavatrice, e che sempre a causa della terribile influenza di Dazai non aveva nemmeno intenzione di imparare.
Ancora una volta non l’avevano deciso, ma era successo e nessuno dei due si era tirato indietro.


Così erano quietamente finiti a vivere insieme di nuovo, concordando che una partnership come la loro poteva, con discrezione, rendere la vita più facile a tutti, organizzazioni comprese.
Per meglio dire, Dazai si era presentato alla porta di Chuuya una sera dopo l’altra dichiarando di non aver nulla per cucinare, e l’altro era troppo schiavo del proprio buon cuore — e inorridito dall’idea che Dazai si lasciasse morire di fame e Mori lo potesse incolpare, come se avere un ex partner idiota fosse colpa sua — per poter rifiutare, a patto che lo spreco di bende si rendesse utile in casa.
La verità era che, dopo tutti quegli anni insieme, all’inizio Chuuya aveva amato il silenzio e la pace della solitudine, ma erano divenuti presto compagni ingombranti e costanti, come una patina grigia su una vita che era sempre stata fastidiosamente colorata.
A volte se ne pentiva, maledicendo la propria socialità e il fatto di aver sempre vissuto — prima di Arahabaki — in compagnia di altre persone ma, non avendo intenzione di tornare a fare il babysitter a Q, aveva accettato di buon grado di vivere con Dazai: dopotutto, cosa poteva andare storto?
“Nee, sei proprio un cane, chibikko, se ti lasciano troppo solo soffri.”
“Vaffanculo, kuso Dazai.”
“Non temere, ora il tuo padr—” il suono secco del tagliere che volava e si schiantava contro lo stomaco di Dazai lo interruppe a metà, accompagnato da un ‘ooof’ soffocato.
“Consideralo un avvertimento,” sbottò Chuuya, lanciandogli un’occhiata da sopra la spalla. L'uomo era piegato in due dal colpo e una sola lacrima faceva capolino sul suo volto, ma Chuuya non aveva intenzione di scoprire se si trattasse di sorpresa o divertimento.
“Da quando in qua prima colpisci e poi avverti?”
“Non hai capito, il tagliere era un avvertimento. La prossima volta ti ammazzo.”
“Detto come un vero mafioso!” commentò allegramente lui, alzando l’indice.
L’orgoglio di qualunque altro assassino sarebbe stato disintegrato vedendo una stupida mummia — con la prestanza fisica di un cucciolo storpio, per di più— non batter ciglio di fronte ad un colpo del genere, ma Dazai era più resistente di quanto sembrasse e Chuuya scosse le spalle e si limitò a tornare a versare il vino con attenzione, senza sprecarne nemmeno una goccia.
Prima di poterlo scacciare, Dazai gli era andato vicino, il mento appoggiato sulla testa dell’ex partner e le mani che riposavano sulle sue spalle.
“Cosa c’è per cena, Chuuya?”
“Uva.”
“Il vino non è uva e non è una cena,” sbottò Dazai, con un broncio appena accennato.
Oh no, non ha diritto di parola, si disse l’executive, sospirando pesantemente, quando lui e quell’altro detective si nutrivano di dolcetti e gelato. 
“Io devo lavorare. Se vuoi mangiare, chiama qualcosa a casa.”
“Ma—”
“O muori di fame, non mi interessa.”
“Hm. Potrei ordinare Pizza Hut, e fartela mangiare mentre dormi...”
Un ghigno si era dipinto sul volto di Dazai, spaccandolo da guancia a guancia, e Chuuya avvertì un brivido gelido corrergli lungo la schiena.
Chiunque lo conoscesse sapeva che il  aveva sviluppato un certo palato per il cibo costoso, vivendo con O’nee-san, e apprezzava la buona cucina; ovviamente, Dazai era uno stronzo con una creatività pressoché illimitata, ed aveva avuto modo di darne prova durante una missione in America.
Chuuya, nel pieno del proprio addestramento con Kouyou O’nee-san, un ragazzino raffinato che sapeva leggere il silenzio in una casa da tè nonostante il calcio facile e l’insulto ancor più pronto, era stato costretto a sopravvivere unicamente a pessima pizza americana dagli ingredienti più improponibili per due settimane, impossibilitato ad uscire dalla Safe House e con Dazai come unico corriere — il bastardo.
Solo a sentirla nominare, sentì uno sforzo di vomito risalirgli lungo la gola.
“Non ti azzardare, squilibrato!” ringhiò, girando bruscamente sui tacchi per puntare un dito contro il coinquilino. Partner. Ex-partner, quello che era. “Ti uccido, giuro che questa volta è quella buona.”
Tuttavia, Dazai era già sparito, lasciandolo a parlare da solo. 

 

- - -

 

Per qualche motivo, il fatto che vivessero insieme aveva dato nuova vita a Soukoku.
Mori-san, una volta notato che Akutagawa tallonava la tigre dell’Agenzia quasi senza rendersene conto e in qualche modo il destino finiva sempre per riunirli, aveva dichiarato di non aver intenzione di ignorare il loro potenziale ed, evidentemente, era ancora dell'idea che solo una coppia di diamanti gemelli potesse provvedere all'addestramento: Dostoevsky era un fantasma nel buio, sempre in agguato, e quella che Dazai aveva rinominato ‘shin Soukoku’ (si era guadagnato un pugno) poteva essere la carta che avrebbe rivoluzionato l’intera partita.
Così, Chuuya era giunto alla conclusione che Yokohama fosse una città troppo piccola per tutti loro, e che aveva bisogno di una lunga vacanza lontano da qualsiasi cosa riguardasse l'ex partner e la coppia che stava tramando per formare.
Nel frattempo, però, non poteva che eseguire gli ordini.

 

“Ah, Dazai-San! E... Nakahara-San?!”
Essere un executive implicava molte comodità, ma anche degli occasionali momenti di imbarazzo che, solitamente, coinvolgevano almeno un corpo senza vita, Rashomon e una tigre minorenne, ex orfano ritrovatosi figlio adottivo di Dazai (non poteva andargli peggio). Chuuya lasciò che gli occhi di Jinko lo studiassero, verdi e lucidi e dalla bizzarra sfumatura violacea, carichi di domande alle quali non osava dar voce.
Dazai, le mani in tasca ed appostato di fronte al cadavere di Tsuchiyama Miyamoto — 53 anni, broker dall’abilità utile quanto innaffiare i cactus e pessimo truffatore — sorrise ad Atsushi e ad Akutagawa, che era come un’ombra scura alle spalle della tigre, seguito a propria volta dalla figura minuta di Kyouka.
“Atsushi-kun!” salutò, “è andato tutto bene?”
“Sí— sembrerebbe d—”
“Hm. Dunque il target principale è stato annientato.” lo interruppe Akutagawa, in una buffa imitazione in nero di Dazai, con il capo piegato e le mani affondate nelle tasche del cappotto scuro.
"Annientato è un termine incredibilmente forte per una missione così basilare," replicò Chuuya, lanciando uno sguardo di sottecchi a Dazai.
“Chuuya qui ha fatto il lavoro sporco.”  
A propria volta, Kyouka si inchinó brevemente.
“Grazie per esservi presi carico della missione. Il perimetro è sicuro.” disse, e quelle parole — la sfumatura di Kouyou in esse, il ricordo di un sè stesso più giovane sottoposto al medesimo addestramento— addolcirono il sorriso dell'executive.
“Ottimo lavoro, Kyouka-chan.”
Gli occhi azzurri della ragazzina gli si puntarono contro, certo indecisa su cosa farsene dell'approvazione del nemico; ogni pausa aveva un significato, con i protetti di Kouyou, ma dopo un attimo di esitazione annuì, stringendo il cellulare che portava al collo.
Onii-chan; c’era stato un periodo in cui Kyouka aveva sorriso, seppur raramente, in sua presenza, chiamandolo come un fratello, ma nessuno con un po’ di amor proprio rimaneva mai nella mafia a lungo.
“È stato troppo facile.” mormorò Akutagawa, scrollando il capo.
“Akutagawa-kun, come sai non era una missione da cui ci aspettavamo un’abilità particolarmente offensiva,” Chuuya si lanciò un’occhiata alle spalle, al corpo esanime le cui braccia e gambe erano piegate in angoli innaturali, “riserva la ricerca di un avversario degno a quando ce ne sarà uno.”
“Se mai imparerai a cercarli nel posto giusto.”
“Oi, mackerel—”
“Akutagawa-kun, non sopravvalutarti.”
La voce di Dazai tagliava come un coltello, e scavava nelle viscere di Akutagawa con la precisione data dall’esperienza.
In silenzio, Chuuya vide il giovane incassare il colpo; ogni attenzione di Dazai per lui era un regalo piovuto dal cielo, una nuova motivazione, ma Chuuya sentì lo stomaco stringersi nel cogliere lo smarrimento nei suoi occhi scuri. Nonostante non fosse più un suo superiore, l'uomo spingeva costantemente le capacità di Akutagawa al limite, testando la forza di Rashomon, ma non gli interessava il prezzo — non gli era mai interessato.
Nel frattempo, la figura minuta di Atsushi si era accucciata accanto al cadavere; Akutagawa lo seguì dopo un istante.
“Com’è morto?”
“Cause naturali,” disse Chuuya, togliendosi il cappello per passarsi pigramente una mano fra i capelli, improvvisamente stanco.
Atsushi gli scoccò uno sguardo sconvolto, le labbra socchiuse.
“Nakahara-San, non credo sia plausibile...”
In silenzio e con quella che voleva essere discrezione, Akutagawa piantò un gomito nelle costole di Atsushi, guadagnandosi una protesta soffocata da parte dell’interessato e un sopracciglio sollevato dall’executive, perplesso ed indeciso sul perchè Akutagawa dovesse proteggere uno come Jinko. Certo, ogni singola cellula di Nakajima Atsushi urlava per essere costantemente guidata lungo il percorso della società — da parte sua, Chuuya non poteva dire di non capire ciò che Jinko stesse provando— ma Akutagawa era...bizzarro. Amichevole.
O, meglio, più violentemente protettivo del solito.
“Lascia perdere, Jinko.” gli aveva sussurrato, in quella che sembrava una minaccia.
Istintivamente, Chuuya incrociò le braccia al petto.
“Che diavolo sta succedendo qui?”
Il volto pallido di Atsushi si tinse di scarlatto; tuttavia Dazai, in piedi accanto al proprio protetto, si era concesso un sospiro esasperato.
“Chuuya, lascia perdere. E non scrivere nel rapporto che è morto per cause naturali… L’hai spinto dal ventesimo piano.”
“La gravità è perfettamente naturale.”
“Quanto sei idiota, hatrack.”
“Io? Chi é quello che ha pensato tutto questo teatrino, eh, stupido mackerel?” gli si scagliò contro Chuuya, il pugno chiuso nascosto dal guanto, e che sventolava ad un palmo dal naso dell’ex partner. Dovette chiamare a sè tutto il proprio autocontrollo per non colpire, e unicamente perché non era sicuro di voler dare ad Akutagawa segnali contrastanti riguardo quello che il ragazzo considerava ancora un mentore.
“Ma ha funzionato, no?”
“Se l’idea è quella di farlo apparire un incidente non possiamo urlare all’assassinio, ti pare, spreco di bende? E togliti quel sorriso dalla faccia, mi dai i brividi.”
Due ore dopo, nella quiete dell’ingresso dell’appartamento che condividevano, Dazai sorrideva ancora.
A dispetto del broncio del proprio ex partner, che si sentiva le membra pesanti e un fastidioso pulsare alla testa, il sedicente maniaco del suicidio era felice come una scolaretta, talmente di buon umore da aver abbracciato Kunikida una volta tornato all'agenzia. 
Solo a ripensarci, Chuuya sentiva brividi infastiditi corrergli lungo il corpo.
“Ahh, che soddisfazione.” commentó Dazai, togliendosi l’impermeabile nell’ingresso e allentandosi il colletto della camicia, “un’altra missione andata a buon fine per i mini me.”
“Nessuno vorrebbe essere un mini te, mackerel. Sei la peggior figura paterna sulla faccia del pianeta.”
“Oh! Sei preoccupato per Akutagawa? E con Kyouka-chan… Sei proprio una mamma chioccia come si deve, Chuu-u-ya!”
“Ti uccido”.
Non era una minaccia— non toccare il mio cappello, quella era una minaccia, quello che era sfuggito dalle labbra di Chuuya era più un intercalare, e Dazai lo accolse con una risata.
“È molto dolce come hai preso Akutagawa-kun sotto la tua ala protettrice, chibikko, considerato che è più alto di te.”
“Qualcuno doveva pur farlo,” sbottò, scrollando il capo e lasciandosi cadere sul divano. “Visto che qui una certa mummia non ha dignità.”
Inizialmente, Chuuya aveva intenzione di prendere un divano in pelle: un pezzo d'arredamento minimal ed elegante che si adattasse al suo gusto in fatto di interni di design, ma Dazai sosteneva che non fosse abbastanza 'comodo e adatto a risollevare lo spirito quando il peso esistenziale diventava insostenibile', qualsiasi cosa quell’idiota volesse intendere. Quando il peso esistenziale bussava alla sua porta Chuuya rispondeva con una bottiglia di vino, non rotolandosi tra i cuscini come una ragazzina. Ad ogni modo, alla fine ovviamente aveva vinto l’idiozia sullo stile.
“Non ho idea di cosa tu stia dicendo.”
“Giuro che ci puoi arrivare.”
“Hm. Vediamo… dimmi, come ci si sente ad essere guardati dall’alto da Rashomon, n-a-n-o?”
Digrignando i denti, Chuuya pregò per della pazienza, perchè con ancora un po’ più di forza e Arahabaki avrebbe disintegrato la città intera pur di assicurarsi di polverizzare Dazai.
“Non sono affari tuoi.”
“Però è innegabile che sia migliorato, Ryunosuke, ed è più composto: hai visto come dava di gomito ad Atsushi? Pare aver imparato qualcosa, dopotutto. Sono quasi fiero di lui.”
Quasi. 
Akutagawa non sarebbe stato contento di sentirlo, ma Chuuya sospettava fosse un buon passo avanti.
“Direi di sì.”
“Sono sollevato; sapevo che avresti fatto un lavoro migliore del mio, Chuuya.”
Sorpreso dal tono assorto, con una vena che con ogni altro essere umano non sarebbe stato azzardato definire malinconica, ma si parlava di Dazai, Chuuya alzò gli occhi sul proprio partner.
“Hm? Davvero?”
“Ovviamente no, vuole ancora più bene a me.”
L’uomo era fortunato che Chuuya non avesse intenzione di lavare il sangue dal tappeto bianco, ma nulla gli impedì di far volare un cuscino direttamente sulla faccia dell’ex partner, il quale poteva anche averlo previsto ed evitato, ma non aveva calcolato — non poteva averlo calcolato— il libro che gli era volato addosso dalla libreria alle sue spalle.
Chuuya pregò di potergli rompere il naso, e che fosse sufficiente a farlo stare zitto, ma Dazai si scansò abbastanza in fretta da prendere l'ex partner alla sprovvista, colpendo l'oggetto con un gesto secco per abbassarne la traiettoria.
Per un momento, la visuale di Chuuya si tinse di bianco, poi di nero, e il dolore era una rosa scarlatta che gli avvolgeva la faccia.
Con orrore, si rese conto non solo di avere una mano imbrattata di sangue, ma di aver permesso all’idiota di rigirare Per Il Dolore Corrotto contro di lui.
“Ma sei impazzit—”
“Ho vinto. Mi spiace, Chibi.”
Masticando un insulto tra i denti, Chuuya si domandò per l’ennesima volta perchè, fra tutti, il destino l’aveva appaiato con il peggior bastardo della città. Mori aveva naturalmente caldeggiato la possibilità che la convivenza con l’ex partner convincesse Dazai a tornare sui propri passi — riguardo Fukuzawa, Chuuya non aveva la minima idea di come lo spreco di bende l’avesse convinto — ma il giovane iniziava a sentire il peso dell’esperimento sociale sulle proprie spalle.
“Sei diventato più lento, chibikko. Stai bene?”
Chuuya si strinse istintivamente nelle spalle, dal momento che una domanda del genere da parte di Dazai non poteva che portare a delle pessime conseguenze. Per qualche motivo, finiva sempre male.
“Non mi lanciare le tue solite maledizioni, bambola voodoo ambulante."
Dazai alzò gli occhi al cielo con fare drammatico e, con una mano ancora sul volto dolorante, Chuuya avrebbe voluto strangolarlo.
Come osava alzare gli occhi, proprio lui che era un fastidio continuo? Per di più, Dazai non aveva il diritto di riservargli il trattamento del silenzio dopo avergli quasi rotto il naso.
“Oi, maledetto Dazai!”
“Per l’ennesima volta, osservare con attenzione è tutto fuorché magia nera. Anche se posso capire che ci sia poco spazio per i neuroni, in quel tuo piccolo cervello da gamberetto.”
“Non accetto commenti del genere da una mummia. Porti sfortuna,” dichiarò Chuuya, affondando quasi completamente fra i cuscini.
Da quando si era unito alle fila della Armed Detective Agency, per qualche motivo Dazai era ancor più inquietante del solito: vivere con lui era come vivere con una tavola Ouija, interrogarlo era come disporre un bicchiere sulle lettere annerite per dare la parola ad un fantasma vendicativo, senza mai sapere se ne sarebbe venuto fuori qualcosa di utile o un insulto con tanto di emoji finale.
Dazai sorrise — un sorriso ampio, allegro, sin troppo allegro — e non rispose.
La mattina dopo, Chuuya ovviamente aveva scoperto di avere abbastanza linee di febbre da costringere a letto una persona normale per settimane: Dazai sosteneva di averlo semplicemente notato prima, ma Chuuya era sempre più convinto che l’ex partner portasse sfortuna.

 

- - -

 

Avevano deciso di vivere insieme perchè Chuuya si prendeva a cuore le persone, proprio malgrado; aveva un'innata predisposizione alla leadership che all’altro mancava, ma doveva ammettere che lo spreco di bende era un buon alleato nella vita quotidiana.
Chuuya si assicurava che Dazai mangiasse decentemente e Dazai si assicurava che Chuuya avesse sempre qualcuno che gli posava una coperta sulle spalle quando si addormentava sul tavolo, russando piano con la testa poggiata su dei documenti.
Non parlavano dei rispettivi ambienti di lavoro se non era necessario, e Chuuya aveva pregato Mori-san di non rendere le cose più complesse di quanto già non fossero, ma questo non impediva all’executive di minacciare Dazai di rispedirlo a calci nei dormitori, se non si fosse comportato bene.
Oppure, dal momento che al mackerel idiota piacevano così tanto i felini troppo cresciuti, l’avrebbe chiuso personalmente nel recinto delle tigri allo zoo, liberando per sempre il mondo dalla sua ingombrante presenza.

“Ah, quindi non ti dispiacerebbe se decidessi di vivere con Atsushi-kun, che è così dolce e vuole bene, non come un certo chihuahua rabbioso?”
“Nessuno si merita il peso esistenziale di vivere con te, Dazai, tantomeno il ragazzino.”
Naturalmente, dato che la reazione naturale sarebbe stata troppo normale per uno come Dazai, la risposta suscitò in lui un gridolino di soddisfazione mentre gli lanciava le braccia al collo.
“Chuuya! Mi stai dicendo che devo vivere solo con te?”
“Ti sto dicendo che rendi la mia vita un inferno, stupido mackerel” brontolò. Che non era esattamente una negazione, ma solo perchè Dazai era una persona con cui sapeva di poter convivere senza uccidersi (se non altro perchè gli era stato esplicitamente ordinato il contrario).
Inoltre, tutto era meglio del costante banco di prova che era vivere con Kouyou O'nee-san — in confronto, per quanto fosse inquietante e fastidioso, Dazai era quasi rasserenante: dopotutto, Dazai non lo costringeva a sostenere terribili meeting nè a organizzare combinazioni floreali solo per vedere se aveva ancora presa sulla propria eleganza, oltre che sull’essere un ventenne che prendeva a calci la gente. Kouyou aveva sempre insistito che Chuuya fosse entrambe le cose.
L’aveva odiata a sedici anni quando era stato costretto a mettersi un rossetto rosso e infiltrarsi nella più schifosa casa da tè che avesse mai visto, e a volte la odiava a ventidue perché ora sapeva flirtare e leggere esattamente il non detto in ogni pausa, in ogni alzata di sopracciglio.
A volte, era meglio non sapere.
C’erano sere in cui però gli mancava, la lussuosa casa tradizionale di O’nee-San. A volte gli mancava qualcuno che gli tenesse compagnia senza essere...beh, Dazai.
La stessa persona che aveva “sbadatamente” dato fuoco al suo armadio, con una particolare attenzione ai cappelli d’importazione che collezionava. La stessa persona che gli hackerava la carta di credito ogni due giorni e che a volte camminava per casa nel cuore della notte, i piedi scalzi e l’espressione vuota, in preda ai fantasmi dell’inquietudine (Chuuya lo obbligava a sedersi sul divano e gli faceva compagnia, in silenzio, domandandosi cosa potesse fare per migliorare le cose). La stessa persona che, e questo meritava enfasi particolare, improvvisava match per Atsushi e Akutagawa nel loro salotto, spingendoli clamorosamente l’uno contro l’altro con promesse che non aveva alcuna intenzione di mantenere.
Era un lavoro a tempo pieno, convivere con quell’idiota, ed era vero che gli rendeva la vita un inferno.
Tuttavia, più spesso di quanto volesse ammettere, si era chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quattro anni di separazione.

“Neh, Mr Mafia Boss? Mi stai ascoltando? Chibikko? Chuuihuahua? Hai sentito?”
Voltando il capo verso Dazai, Chuuya sbatté le palpebre.
Qualunque cosa avesse detto o stesse dicendo, gli era scivolata addosso senza lasciare alcuna traccia; si sentì in colpa, per un istante, abbastanza da ignorare anche l’orribile soprannome. Per una volta, non c’era malizia quando replicò:
“Neanche una parola. Ripeti.”
Dazai aggrottò la fronte.
“Da dove, esattamente?”
“Dall’inizio.”
“Certo che hai persino lo span di attenzione di una pianta, chibi, sei sfiancante,” sospirò, pizzicandosi il naso nel tentativo di pensare. “Dicevo, che forse è il caso che io torni a vivere con l’Agenzia. Non mi piace la frequenza con cui Mori-san si sta presentando casualmente nel tentativo di reclutarmi.”
L’idea che Dazai tornasse a vivere in qualsiasi altro buco fuori da casa sua avrebbe dovuto riempire Chuuya di gioia; per qualche motivo, gli strinse lo stomaco in una morsa.
“Eh? Da quanto ci stai pensando, kuso Dazai?”
“Un po’.”
Era un’ammissione che aveva strappato a Dazai qualche istante di riflessione, e si prese un momento per guardare Chuuya, studiarne la reazione negli occhi chiari. Fastidio; era tutto quello che l’executive si era concesso di esternare, con una bella spolverata di non-me-ne-frega-niente come vendetta personale.
“Hm. Fai come vuoi.”
“Mi spiacerebbe, sai. Dopotutto, avere chibikko che si occupa di me come una moglie è indubbiamente una comodità, ma prima o poi si arriverà a un conflitto. Cosa faremo, quando la tregua sarà finita?”
Aggrottando le sopracciglia, Chuuya sospirò.
“Dazai, idiota, la tregua è finita da un pezzo.”
“Ecco, appunto!”
Appunto, come se avesse avuto ragione.
“Forse, se parlassi con Kunikida seriamente a riguardo…”
“Boo, noioso! Assolutamente no, voglio morire ma non di noia, e non ucciso da Kunikida per aver vissuto con un executive della Port Mafia alle sue spalle!”
Per un momento, Chuuya lasciò che il pensiero lo avvolgesse, che cadesse nel silenzio come un ciottolo lanciato nell’acqua.
Kunikida Doppo, il partner di Dazai, non sapeva che vivevano insieme.
Kunikida, l’uomo più ridicolmente attaccato alle formalità tra i membri della Detective Agency, non sapeva nulla e quel cretino sperava di tenerglielo nascosto per sempre.
D’altra parte, prima di caricare un insulto, l’uomo considerò che l’ex partner aveva sempre un motivo; qualsiasi sua mossa era calcolata, solitamente per il meglio, quindi richiuse la bocca senza farne uscire alcun suono. A ben pensarci, forse anche tutta quella conversazione era pianificata in anticipo per estorcergli qualcosa che solo Dazai vedeva con chiarezza.
“Non che mi interessi quello che deciderai in futuro, sia chiaro, ma perchè hai deciso di vivere con me, stupido mackerel? Ce l’hai una casa.”
“Non è ovvio?”
Chuuya gli lanciò uno sguardo rabbioso.
“Se te lo chied—”
“Perchè sei un fastidio continuo, ma è innegabile che funzioniamo bene assieme,” rispose Dazai, prima che potesse finire; aveva un sorriso quieto, quell’espressione che lasciava trasparire quando non aveva nessuno intorno.
Chuuya l’aveva vista quando Dazai crollava addormentato, e finalmente il suo corpo si rilassava, e in poche occasioni durante le missioni. Solitamente, accadeva dopo che aveva liberato la forma corrotta del proprio potere, come se gli stesse regalando una parte nascosta di sè per premiarlo di essersi affidato a lui ancora una volta, senza remore, senza tentennamenti.
“Per quanto chibikko sia fastidioso, e io riconosco di essere una personalità a volte sin troppo vitale ed affascinante per un microbo noioso come te, viviamo bene. Ma c’è dell’altro, a dire la verità.”
“Hm?”
“Perchè semmai dovessi dire quelle parole di nuovo, voglio essere il più vicino possibile.”

 

Grantors of dark disgrace

 

Non ci sarebbe stato bisogno, giusto? Arahabaki dormiva e dormiva e non c’era alcun bisogno di disturbarlo.

 

Do not wake me again.

 

Chuuya sperava che Dazai sarebbe stato lí, a regalargli quel sorriso quieto, ringraziandolo per essersi fidato di lui ancora una volta.

 

- - -



Avevano deciso di vivere insieme per svariati motivi, uno fra i tanti l’amicizia — la rivalità — che li legava da anni, quella legge intangibile che decretava che tutto quello che facevano insieme sarebbe andato per il verso giusto, in un modo o nell’altro.
Questo, però, significava anche ubriacarsi, convivere, smascherare le proprie debolezze, e non c’era nessun altro con cui avrebbero potuto farlo senza sentirsi infinitamente goffi e vulnerabili, perchè Chuuya conosceva Dazai e Dazai conosceva Chuuya.
Il disastro era accaduto una sera in cui Dazai era incredibilmente tornato tardi dall’Agenzia: aveva sostenuto di aver lavorato, ma un veloce check con Atsushi aveva rassicurato l’executive che Dazai aveva semplicemente finito l’ennesimo libro sul suicidio e si era addormentato sui divani messi a disposizione per i clienti. Nell’inaspettata sera di libertà, senza un ammasso di bende a gironzolare per casa, Chuuya si era appropriato della terrazza, una bottiglia di vino semivuota e una t-shirt che gli sfiorava le ginocchia, nascondendo gli shorts.
Chuuya non avrebbe mai lasciato nessuno —nessuno— in vita dopo averlo anche solo intravisto con addosso vestiti del genere, perchè aveva una dignità e anche una O’nee-san piuttosto suscettibile riguardo lo stile, ma kuso Dazai non contava: era come vivere con un fastidioso pappagallo con un repertorio di insulti troppo ampio.
Tale pappagallo aveva appena avuto la decenza di calciare via le scarpe che già aveva attraversato il salotto per raggiungere la terrazza. Immediatamente, si era lasciato cadere sulla sedia accanto a Chuuya con un sospiro pesante.
“Sono stanco,” aveva dichiarato, poggiando il mento sul tavolino.
Stanco di fare un cazzo come al solito, era stato il commento mentale dell’executive, ma per qualche motivo le parole gli risultavano difficili. Forse era colpa della bottiglia semivuota, o dei due bicchieri che si era concesso lavorando.
Forse, a ripensarci, era la stanchezza delle missioni accumulate.
“Vai a dormire, idiota.”
“Non voglio,” si lamentò l’altro, agitando debolmente le braccia; Chuuya odiò la risata che gli salì lungo la gola, e la represse con tutte le proprie forze “Come faccio ad addormentarmi senza Chuuya?”
“Oi, mackerel, non dire certe cose—”
Dazai alzò lo sguardo su di lui, gli occhi resi lucidi dalla stanchezza e la brezza serale che gli scompigliava i capelli.
“Ma è vero.”
“Dormiamo in stanze separate, idiota, non andare in giro a dire cose che la gente potrebbe fraintendere.”
“Una volta dormivamo insieme tutto il tempo. Chibikko ha i piedi freddi ed è così basso da piantarmeli nella schiena, è fastidioso anche quando dorme.”
Nonostante il peso della giornata, e con grande sorpresa dell’altro, Dazai riuscì comunque a schivare il calice di plastica che Chuuya gli aveva lanciato.
Sperò fosse abbastanza per mascherare la pelle d’oca che gli era comparsa sulle braccia al ricordo — quelle notti in città straniere, con il vago eco delle sirene fuori dalla stanza e ventilatori che ronzavano vicino alla coppia di letti gemelli in cui, tuttavia, uno rimaneva sempre intoccato. A volte crollavano semplicemente sullo stesso posto dopo una rissa, altre parlavano.
Dazai blaterava di quanto fosse bravo Oda, intelligente Ango, buono Oda, noioso Ango, e Chuuya ascoltava. A volte era Chuuya a raccontargli di come aveva dovuto evadere l’ennesimo tentativo di essere appaiato da O’nee-san, dichiarando che prima o poi sarebbe finito in un matrimonio combinato, e si lamentava rumorosamente di come tutti lo definissero ‘carino’; Dazai fingeva di vomitare.
Si addormentavano uno con la mano dell’altro al collo, ed erano i migliori ricordi che Chuuya serbasse di quelle missioni.
“Neh, Chuuya. Perchè abbiamo smesso?”
“Perchè te ne sei andato, cretino.” sbottò, automaticamente.
Era una risposta per tutto, un jolly.
Il jolly di Dazai, che Chuuya gli concedeva di malumore, era fingere che quella singola azione non avesse ferito nessuno dei due.
“Chibikko è una lumaca lenta come al solito; intendo ora che viviamo nella stessa casa.”
“Perchè siamo adulti e perchè russi, Mr. detective,” replicò, passandosi stancamente una mano fra i capelli. Era estenuante avere a che fare con Dazai, con la sua intelligenza, la sua crudeltà e la sua fastidiosa attitudine ad avere sempre ragione.
Senza che se ne accorgesse, Dazai gli aveva allontanando la bottiglia, abbracciandola come se fosse un orsetto di peluche — o, nel caso di quell’idiota, probabilmente una pistola carica o un tostapane in una vasca piena d’acqua.
“Ah! Come al solito Chuuya è una persona cattiva —“
“Piantala, kuso Dazai.” gli abbaiò contro “giuro che non ne posso più. Se non la smetti di flirtare in modo così svergognato, prima o poi smetterò di andarci leggero con te.”
Chuuya giurava, giurava con tutto il cuore, che voleva essere una minaccia. Ovviamente, intendeva che l’avrebbe ammazzato, derubandolo della possibilità di uccidersi con la sua bella donna di turno.
Ovviamente, però, la formulazione aveva acceso una luce interessata negli occhi di Dazai.
“Oh?”
“Ah— io n— non ti fare strane idee, spreco di bende!”
“Se Chuuya vuole che gli faccia compagnia deve solo dirlo,” dichiarò l’altro, inclinando il capo di lato con un ampio sorriso.
“Nella tomba.”
“Mi spiace, Chibikko, ti ho detto che per quello sto cercando una bella donna. Ma posso dormire con te, nel frattempo, tutte le notti che vuoi.”
Per un istante Chuuya lo fissò, la fronte aggrottata e uno strano, inquietante senso di insicurezza a rimescolargli lo stomaco.
Se avesse colpito Dazai, avrebbe probabilmente anche rotto la bottiglia, e non aveva intenzione di compiere tale sacrificio.
“Ho detto di non dire cose disgust—”
“Seriamente, Chuuya. Una sera sola; per favore?”
Di fronte al repentino cambio di tono, da executive con una certa fama qual era e in memoria delle vecchie tradizioni, Chuuya aveva accettato solo a patto che Dazai lo battesse a Tekken: mezzo addormentato com’era non doveva essere difficile riuscire a rubargli una vittoria, considerò, per accaparrarsi il diritto di dormire nella quiete del proprio letto solitario senza dover ospitare quello spreco di bende rumoroso e appiccicoso.
La mattina successiva, Chuuya aveva deciso — dopo una lunga consultazione con il proprio ego — che doveva smetterla di sottovalutare l’abilità ai videogiochi dell’ex partner, e che rifare un letto invece di due era un discreto risparmio di tempo.
Doveva convincersi, o non avrebbe potuto convivere con l’idea di essere tornato a condividere un letto con quell’ammasso di bende.


Alla fine non era stata una sera sola, ed una sconfitta ai videogiochi aveva —ancora una volta — portato all’inevitabile tracollo nella quiete di Nakahara Chuuya,  troppo giovane per morire e troppo stanco per continuare a gestire quell’ammasso di disagio e sprezzo per lo spazio personale altrui con cui condivideva l’esistenza.




Note:

Lol è una stupidaggine di mini-long per la Dazai Happiness Week che mi è venuta in mente durante il concerto di Ed Sheeran, dato che in apertura Zara Larsson ha cantato Ruin my life, che è la cit all'inizio.
Non ci sarà una trama precisa, sono momenti random un po' slegati, da qui il format del "life and times," che è un po' come dire "non ho sbatti di fare una raccolta altrimenti diventa infinita" 🙊😂
Baci <3

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Capitolo 2
*** Bulletproof Heart ***


Nota: In questo capitolo sono presenti leggeri spoiler dal Manga 🖤



Bulletproof Heart



Let's blow a hole in this town

 

La vera essenza di Soukoku era una ragnatela, nodi scarlatti che legavano Chuuya e Dazai in una danza senza musica, legami intrisi di sangue che ad ogni goccia facevano sbocciare un fiore sull’asfalto di Yokohama.
Due adolescenti raccolti dai bordi della strada. Una coppia prodigio, il protetto suicida di un medico e l’irritabile allievo di una cortigiana, due parti opposte dello stesso nero.
Grazie a quei fili, Dazai si sentiva legato all’esistenza; a causa di quel legame, Chuuya ricordava la propria umanità. Quando coglievano l’ombra reciproca fra le strade affollate, l’uno accompagnato dai nuovi compagni e l’altro seguito da un gruppo di sottoposti, Chuuya immaginava che anche lo stomaco di Dazai si stringesse per un istante, abbastanza da risultare fastidioso ma non da parlarne apertamente.
La loro convivenza era un campo di battaglia, e allo stesso tempo era la cattedrale in cui si rifugiavano. Era le bende di Dazai e il choker nero di Chuuya, era il vino dopo l’una di notte e la colazione saltata per correre all’Agenzia, erano i tentativi di suicidio fallimentari e gli scoppi d’ira. Un appartamento che fungeva da sepolcro per un Soukoku che non era mai morto del tutto, un fantasma catturato in un limbo. Era dinamite, due diamanti che facevano a gara a chi rifletteva meglio la luce, eppure come grafite continuavano a scrivere una storia già scritta.
Tornare a percorrere i vecchi pattern era sin troppo facile, sentieri dissestati che credeva di aver dimenticato, e Chuuya si convinceva ogni giorno di non aver mai davvero conosciuto Dazai.
Quella gioia che riservava ai nuovi colleghi e che l’executive non aveva mai visto erano dita di una mano che artigliava le viscere di Chuuya ogni volta che l’immagine allegra dell’ex partner si sovrapponeva al ragazzino vestito di nero coperto di bende. O, magari, quella gentilezza aveva sempre languito nell’ombra, sepolta sotto i cerotti e le fine ferite e la sincera, straziante richiesta di morire: con tutto il tempo libero che aveva, forse Oda l’aveva solo vista prima di chiunque altro, quella frattura nella maschera, vi aveva infilato le dita e l’aveva spezzata liberando una parte più luminosa dell’animo di Dazai, una parte più buona.
Intravedere l’ex partner sorridere al cellulare mentre scriveva a Kunikida, sentire la sua risata mentre si rivolgeva ad Atsushi, riportava Chuuya ai momenti che avevano condiviso, facendogli chiedere se quel Dazai non fosse sempre stato lì, in attesa di un motivo per smettere di nascondersi.

“Chuuya, allora? Ti muovi?”
A diciassette anni, nella notte rovente di Osaka con ancora l’odore del sangue e della polvere da sparo sulle dita, Chuuya si sentiva in trappola. La voce di Dazai era solo benzina sul fuoco.
“Vaffanculo, kuso Dazai!” urlò, per tutta risposta, la voce soffocata dall’acqua corrente. I muri del motel erano talmente sottili che giurò di sentirli vibrare, e gli riportarono la risata compiaciuta di Dazai come se gli fosse accanto.
“Non vorrai mica dormire nel bagno? Su, slug, ti ho fatto portare una cuccia.”
“Fatti gli affari tuoi,” ricordava di aver sbottato, ma non ne era certo. La mente gli giocava brutti scherzi e la memoria era una puttana, alle volte, uno specchio in frantumi in cui ogni riflesso era leggermente diverso.
In ogni versione del ricordo, però, Dazai compariva sulla soglia, una spalla mollemente poggiata allo stipite in plastica dopo aver calciato la porta perchè si aprisse, rivelando Chuuya chinato sul lavandino, l’acqua che gli scorreva ad un soffio dal viso.
Corruzione non era mai facile, ma alcune volte erano peggio di altre. In futuro, Osaka sarebbe stato l’episodio peggiore, il primo di una lunga serie di malesseri che avevano insegnato al ragazzo che vivere come un esperimento del governo non significava essere invincibile.
Merda, però. Era tutto quello che aveva pensato all’epoca, il sapore acre della città polverizzata in bocca e la testa che pulsava.
“Posso fare qualcosa?”
“Va’ al diavolo, è sufficiente.”
“Stai bene?”
“Come ti sembra che stia?”
Dazai non aveva risposto; gli aveva posato una mano bendata sulla schiena, dita tiepide che lo sfioravano che esprimevano parole con cui Dazai non si sarebbe sentito a proprio agio, e in cambio Chuuya non aveva fatto commenti sul suo orribile pigiama grigio e su come lo facesse sembrare un orfano ad un funerale. Era rimasto lì per tutto il tempo necessario, una fonte di calore inaspettata quando il mondo era diventato gelido, finché Chuuya non si era risvegliato nel proprio letto senza ricordare come vi fosse arrivato.

Forse, sì, era sempre stato lì.
Due Dazai convivevano nella vita di Chuuya. Uno gli dava i brividi e l’altro apparteneva all’agenzia, e l’idea gli faceva ribollire il sangue di rabbia perchè, seriamente, per quale motivo un essere umano aveva bisogno di personalità così opposte? Che se ne poteva mai fare?
A volte, Chuuya immaginava di tendere una mano, sfiorare quell’immagine, capire se si trattasse davvero di due persone sovrapposte o solo della speranza di un idiota nostalgico a cui, dopotutto, lavorare da solo non piaceva poi tanto.
Il tempo, però, gli aveva insegnato che Dazai non era l’unico ad indossare una maschera; e sorprendentemente non era stata la convivenza ad insegnarglielo, ma la Port Mafia.

 

Tachihara 
23:01

Chuuya-san, per favore, vediamoci al Yokohama Ramen Mousem. Ho delle informazioni; aspetterò tutto il tempo necessario.

 

Ora, Chuuya non era tipo da far attendere le persone “tutto il tempo necessario”, perché sapeva che c’erano individui che avrebbero aspettato fino alla fine dei tempi e, in parte, sospettava di sapere come sarebbe andata quella conversazione.
Quando era arrivato, la luna era coperta da nuvole violacee, l’eco di un temporale alle porte, e Tachihara aveva piantato gli occhi sull’asfalto, le guance scarlatte perfettamente distinguibili nella penombra e un’espressione combattuta che Chuuya aveva visto mille volte.
Maledizione. 
Avrebbe davvero, davvero voluto sbagliarsi qualche volta.
“Allora? Quella delle informazioni era un pretesto, non è così?” domandò, sfiorandosi il capello, soprappensiero.
Tachihara - controllato, sicuro di sè, solido Tachiara - era arrossito fino alle orecchie.
“Mi dispiace immensamente; non mi è venuto in mente niente di meglio.”
“Ormai siamo qui. Dunque?”
“C— Chuuya-san, io...”
Nonostante volesse scappare, Chuuya si obbligò a non interromperlo.
L’executive si era sempre ripromesso di non guardare mai dall’alto in basso i sentimenti di qualcun altro: era una cosa che avrebbe fatto Dazai, o Akutagawa, e l’idea di sfiorare certi livelli di incapacità sociale lo metteva a disagio. Non importava quanto volesse gettarsi nella baia di fronte ad una qualsiasi implicazione extra lavorativa (perché la sua vita era già complicata a sufficienza, grazie mille), Chuuya aveva affondato le mani nelle tasche dei pantaloni neri e lasciato parlare l’altro.
“Io, vorrei—“ il ragazzo aveva stretto i pugni. Non era la prima persona che si lanciava in quel rischio sapendo già la risposta, e Chuuya se non altro poteva apprezzarne il coraggio. “Chuuya-san, non voglio sembrare irrispettoso, ma usciresti con me?”
"Fai sul serio? Non ti facevo così sfacciato, Tachihara,” replicò, inarcando un sopracciglio e sentendo, proprio malgrado, un sogghigno piegargli le labbra. Le alleanze erano così labili, così insensate; Gin l’avrebbe ucciso, “dovrei porre fine alla tua vita qui ed ora, e tu mi chiedi di uscire.”
L’altro sbattè le palpebre e, per un istante, Chuuya notò che il bomber verde valorizzava gli occhi dell’altro, la spruzzata di lentiggini, il rosso dei capelli. Non l’aveva mai guardato, prima.
“Dal momento che Chuuya-san è con Dazai-san costantemente, ho pensato che valesse fare la pena fare un tentativo.”
“Sono bloccato con quell’idiota di un mackerel perché è come una gomma sotto le scarpe,” sbottò, “è lavoro.”
Dazai era 'lavoro' perchè Mori aveva una curiosa fissa con la stupida agenzia, mentre O’nee-san non perdeva occasione di visitare Kyouka-chan e Yosano, nonostante non avesse idea dei legami che potevano unire la sua distinta tutrice ad un medico assassino armato di motosega. Persino Akutagawa correva costantemente appresso a Jinko in una maniera che aveva le sfumature dello stalking (e della cotta adolescenziale, ma Chuuya non avrebbe protestato finché Jinko rimaneva una buona influenza sul ragazzo).
Ma, tutto questo, Tachihara già lo sapeva.
“Lo so. Naturalmente, immaginavo che le mie azioni cambiassero qualcosa, ma quello che ho fatto, quello che è successo, non cambia i sentimenti che provo.”
Chuuya giurò di sentire la terra tremargli sotto i piedi.
Era un dialogo già avvenuto nella sua testa, ma non pensava che quelle parole sarebbero mai arrivate da Tachihara.
“No, ma influisce su altri fattori. Durante uno scontro francamente mi troverei in difficoltà, non trovi?”
Ridacchiò perché no, non aveva intenzione nemmeno di considerare quella possibilità, e finse di non notare che l'altro era sobbalzato.
“La stessa cosa varrebbe per te, no, Tachihara?”
“Sicuramente, sì. Però—”
“In ogni caso, non avrei il tempo di uscire con qualcuno in questo momento."
Tachihara abbassò il capo, lo sguardo velato di delusione; aveva sempre avuto dei begli occhi, quel ragazzo, e indossava le proprie emozioni senza riserve, senza nasconderle, fieramente.
La tristezza, la sconfitta, non sembravano spaventarlo.
“Capisco.”
“E poi, O’nee-san non mi perdonerebbe mai.”
Scaricare la colpa su O'nee-san era semplice, ma in quel caso non completamente vero, perché chiunque sarebbe andato bene a parte Dazai: non che Chuuya avesse alcun interesse nel frequentare lo spreco di bende in qualsiasi senso oltre alla convivenza di comodo, e sicuramente il suo ultimo desiderio era passare più tempo con lui di quanto già non facesse, ma O’nee-san aveva preferito vagliare ogni ipotesi a dispetto delle proteste di entrambi.
“Oh. Oh,” Tachihara si umettò le labbra, sollevando lo sguardo, “Kouyou-sama non approverebbe.”
“Niente di personale, O’nee-san non approva nessuno," Chuuya sorrise. Un sorriso vago, in memoria delle sere passate a bere in compagnia e della cioccolata amichevole a San Valentino e delle missioni passate, “Quindi, mi spiace.”
Si disse che Tachihara era un bravo ragazzo, nonostante tutto.
Era anche carino, ad un occhio disinteressato, ed evidentemente Chuuya aveva un debole per quel genere di personalità con la tendenza a disattendere le sue più basilari aspettative — non poteva credere di averlo detto davvero —, ma non c’era molto da dire oltre a “no, grazie.”

Mi spiace, non fa niente. Facciamo finta che non sia successo nulla, torniamo ad essere persone che si odiano; persone su fronti opposti, burattini.

Per un periodo, Chuuya aveva pensato uscire di più ed iniziare a frequentare persone che non fossero prone a piantargli coltello nella schiena o a giurare fedeltà all’organizzazione: forse doveva semplicemente scaricare un’applicazione come le persone normali. La realtà era che Chuuya non era interessato a nessuno; per qualche motivo, però, tutti davano per scontato che il motivo avesse un nome e cognome.
Dazai Osamu era una seccatura.
Dazai Osamu casualmente conosceva i tasti da premere per isolare Chuuya, terrorizzando ogni possibile partito mentre riusciva contemporaneamente a flirtare con cinque donne diverse. Dazai Osamu era un'ombra costante di cui nessuno si riusciva a liberare.
Il ritorno di Dazai non era la motivazione per cui Chuuya era single sin dalla fine della propria missione all’estero, ma l'executive doveva ammettere che era in parte la causa: c’era chi aveva un figlio a carico, Chuuya aveva un ex-partner psicopatico.
Ma, no, ancora una volta, una mummia insignificante non aveva assolutamente nulla a che fare con le sue scelte di vita (era un uomo occupato, ok?) e con la sua difficoltà a provare interesse nelle persone (standard troppo alti, era colpa sua se aveva un certo canone estetico?) , con l’incapacità a fidarsi (le controindicazioni della vita nella Mafia, giusto?) e con la tendenza a preferire storie veloci piuttosto che impegni seri (à la Europea, perché l’idea di mettere su famiglia gli metteva i brividi come a chiunque, no?).
Comunque lo guardasse, Dazai era stato un errore di cui Chuuya si pentiva perché, in qualche modo, l’aveva bollato per sempre.
Un gesto impulsivo aveva dato l’autorizzazione all’idiota di agire come se Chuuya non fosse solo il suo cane, ma una sua proprietà: era stato con l’idea che a sedici anni si potesse sbagliare che aveva lasciato che Dazai lo zittisse nelle maniere più inconsuete — ficcandogli la canna della sua colt in bocca e minacciandolo di sparare, o premendo le proprie labbra contro quelle di Chuuya.
Due anni dpo le missioni costanti, lo stile di vita frenetico, le occhiate pregne di lussuria che gli lanciavano sottoposti di entrambi i sessi scivolavano via solo nel momento in cui, durante un litigio per qualcosa di stupido, Chuuya smetteva di cercare di colpire Dazai e attraversava la stanza per lasciarsi cadere insieme sul pavimento, la cravatta del demone della Port Mafia già allentata e la giacca dell’executive sfilata con voracità. Ma quelli erano gli ormoni, niente di serio.
Ora, ogni volta che Chuuya ricordava anche solo vagamente come fosse la sensazione delle sue dita sulla pelle libera dalle bende, un’altra voce gli strillava nella testa di non dimenticare com’era finita la prima volta.
In mesi, non era accaduto nulla.
Litigavano, Chuuya bloccava i polsi di Dazai sul pavimento e gli stringeva le ginocchia contro i fianchi e l’altro sogghignava e si tendeva in avanti finché le loro fronti non si sfioravano solo per caricare una testata che avrebbe mandato Chuuya dall’altra parte della stanza, e potevano guardarsi quanto volevano, ma nessuno avrebbe fatto la prima mossa.
Dunque le considerazioni di Tachihara erano sbagliate.
Mortalmente sbagliate.
Inoltre, c’era un dettaglio che l'executive non riusciva a superare nonostante gli anni che si susseguivano. Riviveva una notte d’autunno nella penombra dello studio di Mori-san, il tappeto scarlatto brillava come sangue illuminato da uno spiraglio di luna e il volto del boss era nascosto, Elise risucchiata dal buio, e si chiedeva perchè.
'Chuuya-kun, c’è una cosa che è tuo diritto sapere.'

 

“Mi spiace per te, mackerel, dev’essere stato orribile quando Mori ti ha detto di no.”
Aggrottando la fronte, Dazai si fermò per un secondo. Al rumore dei piatti riposti nelle mensole dopo l'ennesima lotta a chi doveva sistemare la cucina (il conto delle stoviglie cadute in battaglia iniziava a diventare ingombrante) si sostituì un silenzio assordante mentre Chuuya veniva scrutato da occhi nocciola che cercavano di ricordare quando Mori gli avesse impedito, in varie declinazioni del termine, di fare qualcosa.
“Cosa?”
“Sei anche sordo, adesso?”
“Dovrai essere un po’ più specifico di così, chibikko,” dichiarò il detective, infine, decidendo che quella delle cose che gli erano state negate da Mori non era una montagna di spazzatura che poteva spalare da solo.
Un ordine in particolare, l'ultimo che aveva disatteso, bruciava come una ferita ancora fresca e portava a galla serate passate in compagnia, una vecchia macchina fotografica e un bar che odorava di sigari ed alcool; sorprendentemente non c’era andato troppo lontano.
“Quando hai chiesto di cambiare partner. Con la questione di Mimic non ho più avuto l’occasione di insultarti come meriti, traditore bastardo che non sei altro.”
“Hm? Non ricordo niente del genere, devi davvero smetterla di credere a tutto quello che ti dicono."
“Non fare il finto tonto,” Chuuya si passò una mano fra i capelli come se non gli importasse, ma gli importava. Dazai poteva leggere fra le righe, cogliere la punta di rosso sulle sue guance. “Mori me l’ha detto ed era ovvio che con Oda ci fosse maggior affidabilità, più chimica, qualcuno che riuscissi a vedere durante le missioni, yada yada yada. Potevi anche dirmelo, ti avrei aperto la porta e dato una festa in tuo onore, ma non mi hai mai detto perché.
Preso alla sprovvista, Dazai aprí la bocca — e la richiuse, e la riaprí come un pesce lasciato a boccheggiare, la mente completamente bianca.
Chuuya lo guarda attraverso gli occhi socchiusi, la quieta convinzione di chi non ha un solo motivo al mondo per dubitare che il proprio partner avrebbe mai voluto azzardare una richiesta del genere. Per qualche motivo, era quella sicurezza che lo insultava più delle parole.
“Pensi davvero che gli avrei chiesto una cosa del genere?”
“Perché no?” replicò l’altro, la schiena poggiata al bancone della cucina. “Eri un lamento continuo, non se ne sentiva più la fine. Vorrei almeno vedere il mio partner, oh, è difficile lavorare con chibikko, OdaSaku non si ubriaca durante le missioni—”
Dazai sogghignò.
“Tutto vero, devi sapere che è difficile collaborare con un microbo.”
“Perchè, secondo te è facile collaborare con un idiota suicida?!” sbottò Chuuya, trattenendosi a fatica dal lanciargli addosso la ciotola di ramen precotto che aveva smesso di girare nel microonde, dimenticata.
Dazai lo guardò, quell’espressione quietamente curiosa ancora dipinta sul volto.
“L’avrei portato all’attenzione di Mori, secondo te?”
“Mi sorprende che ti ci siano voluti anni, francamente.”
Non un secondo d’esitazione.
In quell’istante, Dazai realizzò che non aveva fatto altro che dargli ragione, allineando motivi per cui Chuuya era arrivato a credere di essere sostituibile; e lo era, tutti erano sostituibili, ma non in quel modo. Gli parve quasi di sentirla cadere, la maschera, spezzarsi con un suono sordo. Quello che c’era dietro la pellicola di disinteresse che aveva messo a punto con così tanta minuzia era puro fastidio, una linea che riempiva le sue parole di sdegno.
“Sei stupido? Ti ho già detto che lavoriamo bene insieme, perché dovrei voler— perché avrei dovuto voler cambiare partner?”
“Che diavolo ne so, non sono io che l’ho chiesto.”
“OdaSaku era una persona migliore di me e te, sicuramente migliore di chiunque dentro la Port Mafia,” mormorò Dazai, abbassando lo sguardo, “non mi sarei mai azzardato a volerlo trascinare con me in quel nero, in quel luogo senza luce. Soffocare un fiore per il puro gusto di averlo per sè è un’azione piuttosto crudele, non trovi?”
La serietà e la profondità erano tratti del suo carattere che Dazai aveva lasciato intravedere solo in determinate occasioni, e mai dopo che Soukoku era stato sciolto: ma mentendo ora gli sembrava di mancare di rispetto a OdaSaku, ma anche a qualcosa di più grande— ad una speranza che, su fronti opposti, li legava tutti.
“A posteriori, avrei voluto avere la forza di fare quello che ha fatto Atsushi con Kyouka-chan, se vuoi. Trascinare entrambi nella luce, prima che fosse troppo tardi.”
“Tu? Mr demone della Port Mafia, re dello squilibrio mentale, portare qualcuno sulla buona strada?” Chuuya aggrottò le sopracciglia “Questa è la più grossa idiozia che tu abbia mai detto, e ce ne sono state tante.”
“Vedi che non capisci nulla, chibikko? Sarebbe stato il contrario. OdaSaku mi avrebbe salvato come si salva la Bella Addormentata, e saremmo vissuti felici e contenti. Fine.”
“Sembri una ragazzina innamorata, kuso Dazai, mi fai venire i brividi.”
“Se avessi fatto attenzione, sapresti che Mori ti stava prendendo in giro.”
Chuuya esitó.
“Lo sapevo,” dichiarò, dopo un istante, “per quanto fosse plausibile, sapevo che doveva essere una sorta di macchinazione. Ma poi mi hai fatto saltare la macchina, e nessuno ti ha visto per anni.”
Poi gli hai dato ragione. 
Era stato in quel momento che Dazai aveva mosso due passi verso Chuuya e gli aveva preso il volto fra le mani. Non stavano litigando e la scusa dello stress era scivolata fuori portata, ma per qualche momento Dazai pensò che Chuuya l’avrebbe colpito e che se lo meritava, perché aveva continuato a ferire senza rendersene conto.
No, non aveva idea che Mori avesse detto una cosa del genere.
No, non si sarebbe mai disturbato a negare.
Tuttavia, in quel momento Chuuya aveva le guance bollenti, un rosso acceso in un contrasto bizzarro con i suoi capelli e gli abiti neri: sembrava più che mai un gamberetto e tutto ad un tratto Dazai faticava a respirare, lo stomaco retrocesso ad un groviglio di emozioni e fastidio e dolore. Devo essere allergico ai garberetti come chibikko, avrebbe voluto dire, ma la voce di Chuuya lo interruppe — e tremava e maledizione, cosa gli avrebbe voluto fare e cosa gli stava per fare e cosa, cosa, cosa gli avrebbe fatto in tutti quei mesi di convivenza se avesse avuto meno autocontrollo.
“Oi, Daza—”
“Mi spiace per la macchina, chibi, ma era un insulto al buon gusto e non mi risulta che i cani possano avere la patente. Comunque, la moto non l’ho toccata, no? Dovresti ringraziarmi,” lo interruppe.
Sempre fedele al proprio carattere -- orribile e irruento, come un cane, dichiarò a sé stesso Dazai, -- Chuuya aveva già iniziato a produrre un brontolio sordo e Dazai stesso era fin troppo conscio dei suoi polpastrelli che sfioravano la nuca e i fianchi dell'ex partner, la pelle tiepida e la stoffa costosa, ma si umettò le labbra e si fece coraggio. 
“E non potevo permettere che sospettassero di Chuuya.”
Era stata un’ammissione sussurrata, ovattata da labbra che premevano contro le quelle di Chuuya, ma il modo in cui l'executive aveva sussultato aveva, in qualche modo, sciolto il nodo di tensione che immobilizzava Dazai. Era come tornare a respirare senza essersi mai accorti di aver vissuto in apnea.
Chuuya avrebbe dovuto fermarlo perché non erano più dei ragazzini, ma le labbra di Dazai erano ruvide e gentili, era fastidioso e rumoroso ma il silenzio che li avvolgeva quando lo baciava era il suono migliore che Chuuya avesse mai sentito. E, sì, Chuuya non l’avrebbe mai ammesso ma il sogghigno che si dipingeva sul viso dell’ex partner quando si alzava istintivamente sulle punte per incontrarlo a metà gli rimescolava lo stomaco, sapendo che da qualche parte in quell’idiota era nato un commento sarcastico che avrebbe potuto aspettare più tardi.
Dazai era pigro, e lento, e si lamentava di qualsiasi cosa, ma non aveva esitato un momento quando Chuuya l’aveva spinto sul letto e usato la gravità per chiudere la porta con un sono secco.


La sveglia sul comodino segnava le sei e un quarto, tre cifre rosse che l’avrebbero presto strappato a quel momento di calma. Nonostante il sole non fosse che un timido accenno azzurrino oltre i profili dei palazzi, Chuuya scivolò fuori dal groviglio di coperte e bende senza fare rumore.
Si mise a sedere e si voltò, lentamente, cercando di imprimere nella propria mente ogni dettaglio di quell’immagine nuova che gli stringeva lo stomaco in un misto di paura e tristezza. Ed era sciocco, perchè avrebbe dovuto essere felice — era felice — ma quello che vedeva lo terrorizzava.
Il profilo di Dazai, pallido in contrasto con la federa scura del cuscino, i capelli castani che gli cadevano sulla fronte e le labbra socchiuse. Le bende allentate dalla notte precedente che gli fasciavano mollemente il collo, lasciando intravedere un unico segno che andava arrossandosi, e la mano tesa che scompariva sotto il cuscino di Chuuya.
In silenzio, Chuuya si disse che era la cosa più terribile che avesse mai fatto a sè stesso. Dazai non era una persona fatta per rimanere. Era inquieto ed infelice, terribile e fragile, ironico e crudele; ma, più di tutto, era geneticamente programmato per abbandonare le persone, camminando su un piano diverso dell’esistenza.
Prima o poi avrebbe lasciato andare anche il suo nuovo allievo nel momento in cui aveva più bisogno, come aveva fatto con Akutagawa.
Eppure, mentre lo guardava respirare pesantemente, le ciglia che sfioravano gli zigomi alti, il torace bendato che spariva sotto il lenzuolo e quell’espressione inerme che non era né il sorriso sagace di repertorio né la maschera impenetrabile, Chuuya non aveva la forza di negare a sé stesso che ne era valsa la pena.
Ne era sempre valsa la pena.
Lasciando vagare lo sguardo sul volto addormentato di Dazai, affioravano alla mente vecchi ricordi: sigarette offerte dopo le missioni, passate fra mani macchiate di sangue nel tentativo di condividere il più possibile, Dazai allo stremo che si addormentava sulla propria scrivania ed Oda che se lo caricava in spalla, i pomeriggi a prendersi cura di Elise. Più lo guardava, più Chuuya immaginava di passargli le dita fra i capelli, svegliarlo e parlare come se i loro caratteri non fossero impossibili da coniugare, sputar fuori tutte le cose che non sapeva bene come esprimere a parole.
Quando erano ragazzi si erano vergognati, non dell’atto in sè, ma dei propri gusti in fatto di partner: Chuuya non poteva credere di aver di nuovo ceduto al ricatto emotivo di Dazai, e sapeva per esperienza (e perchè l'ex partner era piuttosto verboso a riguardo, specialmente con i suoi due migliori amici) che lo spreco di bende l’aveva imputato alla noia eccessiva.
Nulla di serio.
In quel momento però, mentre i raggi si facevano più tiepidi e illuminavano la stanza ed il volto addormentato dell’ex partner, Chuuya non aveva intenzione di mentire a sè stesso riguardo quello che era successo.
In silenzio, si alzò e chiuse le tende dimenticate aperte dalla sera prima per non svegliare Dazai, immaginando con un sorriso indulgente che quell’idiota sarebbe di nuovo corso al lavoro in ritardo e che nessuno, comunque, se ne sarebbe stupito.


- - -

 

La luce gioiosa di mezzogiorno illuminava ma promenade sul mare, riflettendo cristalli di luce sulle onde. Il caldo aveva costretto Dazai ad abbandonare l’impermeabile, e anche Chuuya aveva arrotolato le maniche della camicia, lasciandosi cadere pesantemente su una panchina.
Di fronte a loro un gruppo di bambini urlavano in un’area giochi, una delle tante che costellavano il lungomare; Dazai si sedette accanto a Chuuya, quietamente, posando il sacchetto rosa accanto a sé apparentemente poco preoccupato degli sguardi che aveva attirato: un bell'uomo con un sacchetto di un famoso negozio di giocattoli con sè doveva essere una visione curiosa, si disse l'executive sollevando un sopracciglio, ma non fece commenti.
“Sei sicuro che Yumeno volesse questa bambola?”
“È lo stesso regalo da anni,” Chuuya sospirò, sopprimendo un brivido al ricordo dell’altra bambola di Q, sotto chiave chissà dove, “quel piccolo bastardo è un abitudinario.”
“Non credere che non abbia notato il vestito— e la consolle? Chuuya ha così tanti soldi che li spende in giocattoli nonostante non sia più un bambino~”
“Deficiente, non sono cose per me.”
“Oh, giusto, giusto! Dev’essere arrivato Natale in anticipo per i fratelli Akutagawa, non è così?”
Sul volto di Dazai si disegnò un sogghigno stiracchiato ma, per quanto si sforzasse, Chuuya non ne comprendeva il motivo.
“E allora? Hai dei problemi?”
“Hm-hm. Sei sempre stato una mamma chioccia, hatrack.”
Nessun insulto, solo un tono affezionato e le loro mani che si sfioravano.
“Non è vero.”
“O forse dovrei dire una mamma pecora, eh?”
Infastidito dal ricordo, e dal ruolo che Dazai aveva avuto nel tracollo politico che l’aveva quasi ammazzato, Chuuya digrignò i denti.
“Dacci un taglio, se non vuoi che ti avveleni la cena.”
“Uh, che paura~”
“Oi, Dazai. Non trovi che sia una bella giornata?”
Anticlimatico, smielato e patetico: quel commento era tutto quello e anche peggio, oltre che imbarazzante, peccato gli fosse scivolato dalle labbra prima di poterlo fermare, un sussurro che gli aveva portato tutto il sangue al viso non appena Chuuya si era reso conto di cosa si fosse lasciato sfuggire. Il sorriso di Dazai pareva una mezzaluna, lontana e illeggibile, una falce che guidava nella notte individui che altrimenti avrebbero brancolato nel buio, eppure non si degnava di illuminare i pericoli.
“Siamo diventati sentimentali, Chuuya? È per questo che tu, O’nee-san e Tachihara siete andati a vedere i ciliegi?”
Chuuya sbattè le palpebre.
“Cosa?” domandò. Aveva ricordi offuscati di quell’hanami, ma non del mal di testa che l’aveva perseguitato per tutta la settimana successiva.
Dazai scosse le spalle.
“Tachihara mi ha parlato, dopo quel giorno. Mi ha chiesto il permesso per uscire con te!” esclamò, battendo le mani, “deve aver capito che sei il mio cane, no? E bravo Tachihara!”
Chuuya giurò di sentire lo stomaco crollargli alle caviglie.
Dunque il bastardo prima era andato da Dazai; avrebbe voluto ucciderlo solo per quello, ma aveva anche la sensazione di aver perso il diritto di offendersi dopo ciò che era successo.
“Cos— e che diavolo gli hai risposto, bastardo?”
Dazai si strinse nelle spalle.
“Che dovevo dire? Auguri e figli con un miglior senso della moda del tuo, petit mafia. E più alti.”
Dazai era fottutamente sereno e Chuuya si chiese come potevano sperare di fare qualsiasi passo avanti se quello spreco di bende e disagio lo vendeva al miglior offerente? Che poi era Tachihara: Tachihara che si preoccupava che Chuuya avesse sempre un posto di riguardo, che pensava a lui prima che agli altri, addirittura prima che a sé stesso, Tachihara che era di gran lunga il meno fastidioso fra gli executive che dimostravano interesse nei suoi confronti.
Con uno scherzo della natura come Dazai arrabbiarsi non sarebbe servito a nulla. Chuuya se lo ripetè per l'ennesima volta rilassando il pugno già stretto e volse lo sguardo all’oceano.
“Hm. Ci stavo pensando anche io.”
“Ehh?”
“Tachihara non è male, e mi ha chiesto di uscire. Forse...”
Prima di poter finire la frase, l'executive sentí due braccia che gli si stringevano attorno al corpo e il peso di Dazai che gli premeva contro una spalla.
“No.”
“Sei impazzito, idiota?”
Gli rispose solo un lungo silenzio, una sorta di ronzio inconsulto, che costrinse l’executive a sollevare un sopracciglio e azzardare un’occhiata laterale.
“Hm?”
“Dovrò ucciderlo,” sibilò la voce di Dazai, ultraterrena, abbastanza spoglia di qualsiasi emozione da far sussultare Chuuya. “Addio, Tachihara Michizou.”
L'uomo riuscì a disfarsi del proprio ex-partner con un pugno, che venne schivato ma obbligò Dazai a lasciarlo andare, ma doveva immaginare che le proteste ululate — Tu non uccidi proprio nessuno, brutto deficiente! Ma la tua stupida Agenzia non era contro l’omicidio? — e l’aria svagata dell’altro avrebbero spaventato i bambini ed i genitori all’area giochi, attirando le occhiate dei curiosi e generando un fuggi-fuggi generale.
Quando Dazai si era alzato per andare a commettere chissà che bagno di sangue, dichiarando di avere una missione da compiere, Chuuya aveva utilizzato la gravità per sollevare i sampietrini bianchi della promenade e, a quel punto, la maggior parte dei civili era già scomparsa. Non che importasse a nessuno dei due.
Certe cose non cambiavano mai, nonostante Yokohama fosse un luogo migliore e il sole che calava oltre il mare vegliasse su una città pacifica guidata da due organizzazioni che coesistevano.
In pace; più o meno.


“Ma Chuu~!”
“E non azzardarti a darmi nomignoli, mackerel! Ti uccido!”

 

- - -

 

“Usciamo, Chuuya.”
“Dove andiamo?” Sbottò Chuuya, meccanicamente, senza alzare lo sguardo dal libro. Un secondo di pausa. Lentamente, le parole presero un significato differente — e più le interiorizzava, più alzava lo sguardo su Dazai sul divano e più si sentiva la presa sul libro farsi molle.
Lo stupido mackerel aveva un sogghigno dipinto sul volto, gli occhi che brillavano di malizia e gioia per essere riuscito nuovamente a mettere in ridicolo l’ex partner.
“Oh,” gorgogliò, incapace di dire altro. “Oh.”
“Un appuntamento, certo che chibikko non ci prova nemmeno a sembrare intelligente~! Dovrei dire tipo ‘passo a prenderti alle sette’, o qualcosa del genere? Non posso lasciare che mi si veda sulla tua moto rosa, sarebbe troppo imbarazzante…”
“É rossa e viviamo insieme, spreco di bende. Comunque assolutamente no.”
Dazai ridacchiò, e Chuuya sapeva di non avere più nulla da dire sull’argomento perché, che se si fosse rifiutato, l’altro avrebbe comunque trovato un modo — probabilmente illegale, pericoloso e con ingente rischio di danni collaterali alla città — per trascinarlo fuori di casa.
“Chibi non ha bisogno di uscire di casa per delle passeggiate, come ogni chihuahua? Non è così, Nakahara Chuihuahua-kun?”
“Sei morto. Giuro che ti taglio la gola,” masticò Chuuya, fra i denti, eppure sembrava che la minaccia mettesse di buon umore Dazai nonostante spergiurasse di essere alla ricerca di una fanciulla che si unisse a lui nel suicidio.
“Sono solo un bravo padrone che si preoccupa per il suo chibikko. Capisco che sei un microbo tascabile, ma questa casa diventerà stretta anche a te, no~?”
“L’unica cosa stretta è il cappio che ti legherò al collo, kuso Dazai.”
“Noiosooo, Chuuya! Non va bene!”
“Dove vuoi andare?” sospirò, passandosi una mano fra i capelli perché no, non c’era un modo di uscire da quella situazione e Chuuya sentiva già il principio di mal di testa pungolargli la nuca. Sperava solo che uscire fosse indolore e che Dazai non finisse per utilizzare un appuntamento come pretesto per infastidire Jinko (e Kunikida di conseguenza), distruggere Dostoevsky, ribaltare il governo e conquistare il mondo.
Ma ovviamente aveva sperato invano.
Alla fine, Dazai lo aveva trascinato fuori casa dopo un breve giro di telefonate, dichiarando che sarebbero andati a fare una passeggiata Sankei-en, perchè ‘stare sempre vicino al mare lo metteva di cattivo umore’.
Incredibilmente, era una considerazione con cui Chuuya poteva empatizzare e dopo il conflitto il memoriale Sankei e la residenza Hara erano ancora miracolosamente intatti, così come i giardini, quindi non aveva trovato motivo di protestare: quella parte della città era una località piacevole, troppo raffinata per una macchina spreca-bende ambulante come Dazai Osamu, e Chuuya doveva immaginare che ci fosse qualcosa sotto.
Appena raggiunsero le vicinanze dei giardini, alla realizzazione si aggiunse un vago odore di bruciato e asfalto spaccato permeava l’aria, mentre una cappa di fumo chiaro sovrastava il profilo frastagliato della pagoda.
Portami fuori’ un cavolo.
Tutto quello che avevano fatto, fra il chiacchiericcio spaventato di un drappello di turisti, era stato separare una rissa fra Jinko ed Akutagawa — Chuuya si disse che la Port Mafia doveva decisamente iniziare a stringere il guinzaglio sul suo assassino, che stava crescendo vagabondo come quell’altro idiota del suo ex mentore — dovuta all’ennesima collisione fra le rispettive missioni. Nakajima Atsushi aveva le zampe di una tigre bianca al posto delle braccia, mentre Rashomon svettava come una nuvola temporalesca accanto ad Akutagawa.
Con un sospiro pesante, Chuuya si ripromise di non fidarsi mai più di quell’idiota, né di lasciarsi trascinare nelle sue ritrovate manie da maestro elementare.
“Neh, neh, Atsushi-kun! Non credi di averne avuto abbastanza? Ranpo-san mi ha mandato a riprenderti.”
La voce di Dazai era allegra, una patina di gentilezza che addolciva la minaccia che Chuuya ed Akutagawa riuscivano a percepire — il primo per esperienza, il secondo per puro trauma.
Istintivamente, entrambi i ragazzi alzarono gli occhi verso di loro.
“Nakahara-san, Dazai-san!”
“Allora? Non avevate detto di voler combattere come si deve, voi due?”
“Ha cominciato Akutagawa!” replicò Jinko, gli occhi cangianti carichi d’apprensione che erano l’esatto opposto della freddezza di Akutagawa, che da solo avrebbe potuto rabbuiare una giornata d’agosto.
“Jinko mi ha provocato.”
“Non ho neanche parlato!”
"Come al solito, dimostri un'ingenuità che dovrebbe averti già ammazzato. Non è necessario parlare, Jinko, per provocare il tuo avversario."
“Hm; vedo, vedo. Beh, Akutagawa-kun, mi sembra chiaro che stesse vincendo Atsushi, dunque continuate pure~”
“Ma, Dazai-san…!”
Chuuya avrebbe voluto morire: persino il modo in cui lo chiamavano era in sincrono, come due uccellini abbandonati nel nido che attendevano il ritorno della madre.
Ballavano al suono del fischietto di quel bastardo manipolatore senza nemmeno rendersene conto, ed era affascinante e orribile al tempo stesso. La tentazione di sfoderare il cellulare per mandare un video a Gin morì quando la sensazione di qualcosa di morbido che gli si strusciava contro una gamba lo fece sobbalzare violentemente e, sbattendo le palpebre, l’executive abbassò gli occhi. Processò a fatica l'immagine di un gatto rosso e marrone che gli si sfregava leggermente sui pantaloni, lunghi baffi neri che vibravano su un muso illuminato da occhi color cioccolato abbastanza espressivi da sembrare umani.
Jinko, Akutagawa, Dazai ed un gatto…se glielo avessero raccontato, l’avrebbe dichiarato l’inizio di una brutta barzelletta, o più probabilmente un altro thriller infernale del tirapiedi di Edogawa Ranpo.
“Che diavolo—” 
“Ah, Sensei, ben trovato,” salutò Dazai, con un ampio sorriso. Il micio rispose con un miagolio leggero, come se avesse capito il linguaggio umano, saltando su una panchina con un balzo aggraziato.
“Ora parli ai gatti, spreco di bende?”
“Taci, Chuuya, fammi questo favore,” inamovibile, il sorriso sembrava stampato sul volto di Dazai ed ogni secondo lo rendeva meno genuino. “Ora, che dovremmo fare con voi due?”
A differenza di come si comportava con Akutagawa, Dazai non sembrava in grado di essere crudele con Nakajima Atsushi.
Nonostante le informazioni che aveva sul ragazzino fossero sparse e poco confortanti, Chuuya stesso doveva ammettere che Jinko tendeva a non essere una persona che ispirava violenza indiscriminata a differenza della maggior parte dei suoi colleghi: non era nè fastidioso al punto di chiedere di essere annientato, come Ranpo, nè eccessivamente pericoloso come Yosano.
“Jinko non è in grado di essere un avversario degno; Dazai-san dovrebbe riconsiderare le proprie scelte e riconoscere che questo animaletto  non è degno d’attenzione.”
Il sorriso di Dazai si fece gelido.
“Oh? Stai mettendo in discussione le mie scelte, Akutagawa-kun?”
“No,” rispose il ragazzo, portandosi una mano al volto ed abbassando lo sguardo, “Non mi permetterei.”
“Molto bene, allora. Non vi sto facendo collaborare perchè diate spettacolo in città, quindi niente più abilità, intesi? Capito, Atsushi-kun?”
Atsushi si era tirato indietro come se il tono gentile dell’uomo l’avesse scottato.
“In realtà, non dipende da me,” sussurrò, lanciando uno sguardo al proprio rivale.
Occhieggiando il cappotto nero di Akutagawa, la sua postura tesa e l’espressione scontenta, Chuuya non aveva dubbi a credere che fosse stato lui a cominciare: tuttavia, cosa doveva dirgli? Non c’erano tregue apertamente dichiarate con l’Agenzia, checchè tramassero Mori e Fukuzawa
“E tu, Akutagawa-kun?” stava continuando Dazai, la voce improvvisamente annoiata; era quel distacco a rendere la differenza fra i due così netta. L’interesse del mentore nei confronti del potenziale di Akutagawa era vicino allo zero, e non mancava di ricordarglielo, “Non costringermi ad intervenire per spiegarti ancora una volta una cosa così semplice, persino un bambino l’avrebbe già capito.”
Gli occhi di Akutagawa si strinsero, una patina scura che ne velava le iridi nonostante la mano che teneva di fronte al viso ne nascondesse l’espressione.
“Vieni qui un secondo, brutto stupido,” lo chiamò Chuuya, afferrando Dazai per un braccio, avendo cura di affondargli i polpastrelli nella carne fino a sentire l’osso.
Si augurò di imprimere lividi neri nonostante le bende, segni profondi come quelli che Dazai continuava a lasciare su Ryunosuke, perché nessuno aveva il diritto di comportarsi così.
Lasciando Sensei a monitorare la situazione ed i due ragazzi ad urlarsi contro, troppo spaventati dalla presenza del mentore per contraddirlo, Chuuya aveva piantato una gomitata nelle costole di Dazai nella vana speranza di cancellargli l’espressione compiaciuta sul volto.
“Oi, kuso Dazai. Lo avevi previsto, figlio di puttana?”
“Mi sembra ovvio!” replicò lui, allegramente, “Con una così bella giornata, il parco è pullulante di turisti e visitatori di ogni tipo. Atsushi-kun ed Akutagawa-kun sono qui grazie ad una soffiata anonima, un’informazione che Dostoevsky avrebbe fatto saltare una bomba nel parco.”
“Non me lo dire,” ringhiò Chuuya, sentendo il sopracciglio sollevarsi.
Non era possibile, non poteva essere così machiavellico.
“Esatto, esatto, quella soffiata era dell’intelligenza più raffinata della città, modestamente. Ma secondo Ango c’era effettivamente una possibilità che un’organizzazione estera si materializzasse e attaccasse, anche se minima; non abbiamo rischiato ed è servito a rafforzare il loro legame, quindi tutto è bene quello che finisce bene!”
“Tutto è bene? Ma se si stanno ammazzando, kuso Dazai!”
“Hm, e non ti ricordano qualcuno?” gli scoccò un sogghigno affilato, “ad ogni modo, abbiamo quasi finito. Ti prometto che tra poco ce ne andremo, così chibikko può portarmi in un ristorante costoso di quelli che gli piacciono tanto!”
“Non ci pensare nemmeno! Non ti pago la cena, kuso Dazai, mi hai ricattato per uscire.”
“Suvvia non essere taccagno per una volta che non sei tu ad essere portato fuori, Ya-ch-chin,” commentò Dazai con un ghigno crudele. Preso alla sprovvista dal ricordo che lo investí con un momento di ritardo ma abbastanza violentemente da far scomparire nello sfondo il litigio fra Jinko e Akutagawa, Chuuya sbattè le palpebre.
Era stato Tokyo, quasi sei anni prima: non era la prima volta che si fingeva una geigi per isolare un bersaglio, flirtando dietro una maschera di trucco e un kimono di seta di O’nee-san.
Improvvisamente, sentì il bisogno di scappare.
“Hai una memoria allucinante solo per le cose sbagliate, brutto imbecille,” abbaiò, ma era certo che a Dazai non fosse sfuggito il gesto di allentarsi la cravatta, perché scoppiò in una risata.
“Interessante.”
“È stato imbarazzante, bastardo di un mackerel. Non parlarne mai più.”
“Uh, chissà perché era così imbarazzante. Forse perché Chuuya era una cortigiana molto credibile? Ho sentito che O’nee-san ha ancora quel vestito…”
“Oggi ti ammazzo se continui, giuro.”
“Allora? Vorrei mangiare granchio, ma visto che sei una brava cortigiana e hai una paga decisamente superiore alla mia mi accontento di una bella cena di sushi, o un ristorante europeo!

“Ti chiudo in una stanza con Akutagawa se non la smetti.”
“Hm, e io che pensavo che chibi volesse del vino. Dopotutto, a casa non c’è.”
Chuuya sbattè le palpebre.
A casa aveva una bottiglia d’importazione da poco aggiunta alla sua collezione, un nuovo Petrus su cui aveva speso buona parte del proprio stipendio. L’aveva comprata ad un’asta oltreoceano durante una missione e riposta sbadatamente in un’anta a caso, tanto in chiavistelli erano il pane quotidiano di Lupin 2.0, e l’aveva...
Oh no.
No.
Ancor prima di parlare, sentí un ringhio salirgli in gola come un animale messo al muro.
“Bastardo, se hai fatto qualcosa giuro che—”
“Rilassati, hatrack. È solo nascosta.”
Chuuya non era certo di aver sollevato scientemente le rocce che si erano lanciate come proiettili contro Dazai, e che l’altro aveva evitato con grazia senza battere ciglio. Un sassolino aveva colpito Atsushi, però; karma negativo per Dazai, si disse Chuuya, era colpa sua.
“Ridammela e ti finirò in fretta senza farti soffrire troppo, kuso Dazai.”
“Portami a cena.”
“Te lo scordi!"
“Giusto, errore mio: lasciami riformulare per i chibi idioti,” sorrise, “portami ad un appuntamento, Chuuya.”
Chuuya sussultò, perché era il tono più profondo e quieto che avesse mai sentito, e perché chi aveva esattamente dato il permesso a Dazai di essere così affascinante, quando non si comportava come un perfetto idiota ed uno scherzo della natura?
“N—”
“Sì?”
“No,” ripetè l’altro, ma era una negazione priva di forza.
Senza dire una parola, Dazai si piegò su di lui, le labbra che sfioravano quelle di Chuuya per il più breve e nascosto degli istanti. Quello dopo, nonostante l’executive fosse ancora bloccato con le guance in fiamme, Dazai era già corso ad infastidire Akutagawa e a giocare alla pessima figura paterna con Jinko, il gatto che li fissava dalla panchina senza emettere un suono.
Chuuya, quella sera, optò per un ristorante francese che negli anni era diventato uno dei suoi rifugi prediletti, un locale costoso con affreschi che prendevano spunto dai palazzi più famosi e vero cristallo che pioveva dai candelabri in stile europeo, oltre che una fornitissima lista di vini che certamente Dazai non avrebbe apprezzato nè notato, ma non distolse per un secondo lo sguardo dal proprio ex partner.
Con un peso sul petto si chiese se — e quando — si fosse innamorato di un cretino.


 

And do our talking with the laser beam
Coming out of this place
In a bullet's embrace
Then we'll do it again

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Capitolo 3
*** I slept with a bandage wasting machine and all I got was this roaring fucking headache ***


I slept with a bandage wasting machine and all I got was this roaring fucking headache

 

 

Non è che Chuuya volesse ignorare il problema, nè cercasse in alcun modo di tenere nascosta la relazione con Dazai.
Il detective era una mummia dagli improbabili istinti suicidi, uno spreco di spazio ed un imbarazzo per la società, ma era il suo imbarazzo per la societá e Nakahara Chuuya era abbastanza maturo ed adulto per essere padrone delle proprie scelte, grazie tante, anche quelle fottutamente stupide come pretendere un comportamento normale da Dazai Osamu.
Ad ogni modo, non era quello il punto.
Il problema era, piuttosto, che nessuno sembrava intenzionato a credergli.
L’ultima volta che aveva provato ad accennarlo ad O’nee-san, nella tacita speranza che lo facesse rinsavire e gli ricordasse perché era una pessima idea, Kouyou era scivolata fuori dalla stanza senza che Chuuya se ne accorgesse (forse si era lasciato un po’ prendere la mano dal racconto, ma non era colpa sua se lo spreco di bende aveva dato fuoco alla cucina la sera prima).
Higuchi l’aveva fissato con occhi vuoti, in silenzio, prima di scoppiare in una risata; c’era quasi cascata, aveva detto, ‘Chuuya-san sarebbe davvero convincente se non lo conoscessi!’
Nonostante non avesse alcun interesse nel giustificare alla Port Mafia e all’Agenzia degli stupidi, inutili Detective Armati le proprie scelte era a conoscenza dei limiti di Dazai e delle difficoltà portate nel convivere con un nemico, seppur occasionale alleato.
Kunikida, ad esempio, non sembrava il tipo di persona che ne sarebbe stato felice; Mori-san l’aveva visto come un aggancio politico, se non come un bizzarro segno del destino. Fukuzawa era un maledetto enigma, Jinko probabilmente non si sarebbe accorto di qualcosa che accadeva sotto il suo naso e Edogawa— beh, Chuuya era scosso da un brivido al solo ricordo di come l'aveva abbandonato in un caso irrisolvibile, gran bel detective del cazzo.
Poi c’era Akutagawa che avrebbe vissuto quel cambiamento con eccessiva drammaticità, infatuato com’era dell’ex mentore, e Chuuya non aveva il tempo per recuperare un executive con la sindrome dell’abbandono, non quando era già difficile avere a che fare con lui e Jinko nella stessa stanza.
D'arta parte, nulla importava davvero se non quello che pensavano lui e — ugh — Dazai.
Certo, non poteva negare che fosse un’altalena.
Le notti in cui Dazai rincasava con un sorriso sulle labbra ed un sacchetto di carta del take away fra le mani erano lavate via insieme al sangue sui vestiti di Chuuya. I momenti di quotidianità, le colazioni insieme e le sere sul divano, erano cancellati come scritte sulla sabbia, sovrastati dall'esplosione delle litigate, dagli insulti, dal silenzio ossessivo di Dazai.
La sua espressione monocolore ("hai davvero gli stessi occhi morti di un pesce, mackerel") un tempo non aveva avuto significato per Chuuya, ma ora urlava la superiorità delle azioni dell’Agenzia. 
Noi non uccidiamo. 
Balle, avrebbe voluto dire l'executive, e comunque le morti accumulate da Dazai erano sufficienti per due vite. Comunque fosse, la sopravvivenza pacifica di Yokohama rimaneva un campo di battaglia e la Port Mafia avrebbe vinto; che Dazai tornasse a casa impettito e felice di aver salvato gattini dagli alberi, poco importava. E quanto era felice, Dazai, di sentirsi importante, di fregiarsi di quella ritrovata capacità di aiutare il prossimo che sfoggiava come un vestito nuovo. 
Più scivolava nella trappola dei momenti di pace più Chuuya sentiva di mal tollerare le crisi, le differenze. Era tornato emotivamente un diciottenne e di quello sì, di quello si vergognava.
Ma era troppo tardi per tornare indietro.


Capitava spesso che Chuuya rimanesse sul divano fino a tardi, Dazai impegnato in chissà che piano per infastidire il prossimo piuttosto che smaltire l'enorme montagna di report e documenti che aveva lasciato indietro dalla giornata. ‘Lasciali fare ad Atsushi-kun,’ cinguettava, ‘e solo i cattivi tramano nell’ombra della notte, Chuu-chuu. Noi buoni finiamo di lavorare quando il sole è alto, perché la luce è il nostro palco!’
In quelle occasioni, l’executive accoglieva le stronzate dell’ex partner con un grugnito disinteressato e si preparava ad una serata particolarmente produttiva accompagnata da un calice di rosso, sfogliando documenti con una matita a fissargli lo chignon disordinato sulla nuca e un’altra fra le labbra a mò di sigaretta per inibire il bisogno di fumare.
Quella sera, però, Chuuya sollevò lo sguardo, kanji e numeri che gli danzarono di fronte agli occhi anche un istante dopo aver smesso di guardare il foglio.
Dazai era in ritardo. Di solito, tornava a casa ben prima di lui.

A casa.

Chuuya di era soffermato sull’implicazione di quelle parole, a ca-sa, sillabe che suonavano familiari anche quando le pronunciava per la prima volta, tremanti anche se venivano dal fondo del cuore. A casa. Quando Dazai non era ancora tornato Chuuya non lo aspettava — no, si godeva la pace — ma si domandava ugualmente dove fosse, con chi. Cosa stesse facendo.
Immaginava il tracciato di dita fantasma che gli accarezzavano il corpo, e a volte se ne vergognava perché essere in astinenza da idiozia era l’ultima cosa che avrebbe mai sospettato, oppure vagava con la mente alle cose che avrebbero potuto fare, alle discussioni, ai mille difetti dell’ex partner.
Chuuya aveva un enorme repertorio di distrazioni Dazai-centriche e si facevano più insistenti ogni ora che passava. L’orologio sulla parete opposta segnava l’una meno un quarto quando Il suono della chiave che girava nella toppa lo fece sobbalzare.
Dazai era una figura barcollante nella penombra, il volto illuminato dalla lampada accanto al divano che rifletteva un’ombra sotto gli occhi castani. Chuuya si mise a sedere, aprendo la bocca per chiedergli cosa fosse successo, ma Dazai si lasciò crollare su di lui senza nemmeno sfilarsi di dosso l’impermeabile.
Non aveva idea se la sua presenza fosse un semplice ostacolo tra l'ex partner e il divano o se quella fosse stata una mossa calcolata, ma meccanicamente Chuuya gli posò la mano libera sul capo. Dazai aveva i capelli arruffati, e le sue dita inciamparono in ciocche annodate.
“Daza—”
“Taci,” mormorò l’altro, la voce roca di stanchezza e qualcos’altro, un pozzo scuro che Chuuya conosceva bene.
Non era la mancanza di tatto a sorprenderlo, quanto il fatto che Dazai avesse perso l’abitudine di allontanarsi da chiunque quando qualcosa andava storto: il partner che aveva conosciuto si isolava, rinchiudendosi in quattro mura di ossessione e calcoli per prevenire la situazione in futuro. Quella sera invece Dazai rimase immobile su di lui, la testa appoggiata sul suo petto, il mento appuntito che gli premeva in mezzo allo sterno nonostante la camicia ancora indosso dal lavoro, le braccia mollemente lasciate andare lungo i fianchi.
Chuuya chiuse gli occhi, lasciando perdere gli aggiornamenti sulle armi — un altro “lemon bomb” in orribile katakana, i tratti sgraziati e spigolosi, e i suoi neuroni avrebbero iniziato a supplicarlo di ammazzarsi con Dazai — e rilassando la testa contro il bracciolo. Come se non avesse aspettato altro, sentì il proprio corpo distendersi.
Dazai rimaneva teso, le sue spalle un intreccio di nodi e muscoli contratti, i suoi occhi sbarrati sul vuoto.
Lentamente, Chuuya occhieggiò il proprio smartphone sulla cassettiera: sarebbe stato ridicolmente facile scrollarsi di dosso lo spreco di bende e raggiungerlo, ma Dazai lo fermò prima.
“Non farlo.”
Chuuya sollevò un sopracciglio.
“Hah? Sei finalmente ammattito?”
“Non chiedere ad Atsushi,” mormorò Dazai, la voce cupa e sottile come vento invernale.
L’altro avrebbe voluto scrollare il capo, farlo parlare, abbracciarlo. Invece sbuffò.
“Non saprei come contattare Jinko, idiota. Pensavo al tuo partner quattr’occhi, Kunikida.”
Dazai non rispose, ma il ‘non ti azzardare’ esplose fra loro ugualmente. 
Non disse più nulla per quelle che parvero ore, e Chuuya rispettò quella decisione e lasciò che il silenzio li avvolgesse, accettando che qualcosa fosse andato storto e qualcuno fosse morto— forse un cliente, forse un passante. Accettò che Dazai ora desiderava che l'ex partner fosse testimone silente del suo lutto, qualunque esso fosse, e gli fece scorrere le dita sulle spalle e la schiena in lunghe carezze silenziose, tiepide, che volevano essere abbracci quando un abbraccio era troppo opprimente. 
Ripensò ai sacchi neri in cui tornavano i suoi uomini, persone che aveva conosciuto, il sangue, i corpi rigidi, le facce sfocate. Q nell’ultimo anno aveva sulla propria coscienza il maggior numero di quelle morti. 
La morte cosa valeva? Finché non era un amico — finché non era Akutagawa, che considerava come un fratello minore, finché non era Dazai — la morte era una corrente priva di freni che gli passava accanto senza che se ne accorgesse. 
Sentendo il respiro regolare dell'ex partner e il peso del suo sguardo fisso su un punto oltre la sua spalla, Chuuya si ripromise di evitare accuratamente di immergersi nel fango dei pensieri di Dazai sapendo che non vi avrebbe trovato nulla se non tenebra. Non dormirono quella notte, uno sull’altro su un divano troppo corto per il metro e ottanta di Dazai, il peso umano che gravava su Chuuya che non era nulla in confronto a quello mentale — procurata, agognata, assistita, inevitabile — che li accomunava.
Le prime luci dell’alba illuminavano la baia di Yokohama in lontananza, oltre i tetti e i grattaceli più bassi, quando Chuuya, accumulando una dose non indifferente di coraggio, socchiuse le labbra.
“É stato uno dei nostri?”
“No.” aveva la voce arrochita dal silenzio, e l’exectuive ricordò i giorni in cui Dazai, nonostante non alzasse mai la voce nel dare ordini, tornava a casa con un tono roco e rovinato.
“Dostoevsky?”
“Sei ficcanaso, petit mafia.”
Chuuya sbuffò.
“Rispondi,” ordinò
“No. Un caso per la polizia, niente abilità.”
“Ah; mi dispiace.”
Dazai gli scoccò un’occhiata — lunga, e silenziosa ed intellegibile. Alla fine, annuì, tornando a posare la testa sul suo petto.
“Sì,” mormorò, “dispiace anche a me.”

 

- - -

 

From: Mackerel
Chuuuuya~
Chibikko~
Mi annoio! (=ↀωↀ=)

To: Mackerel
Dovresti lavorare, non avere il tempo di annoiarti.

From: Mackerel

Ah! Mi hai risposto subito! ~(꒪꒳꒪)~
Chibikko stava aspettando il mio messaggio? 


Chuuya non era arrossito. Era sicuro di non avere la minima traccia di imbarazzo sul volto mentre girava il telefono con lo schermo rivolto verso il tavolo senza degnarsi di rispondere, tornando a concentrarsi sulle informazioni da distribuire ai propri sottoposti per una missione.
“Va’ al diavolo.” brontolò, fra sé e sè.
Avrebbe voluto dire di esserci abituato, ma una parte di lui era sicura che non si sarebbe mai abituato alla fastidiosa sensazione di avere Dazai accanto, più abrasivo che mai nonostante fosse decisamente più amichevole e — un bel respiro, Chuuya, puoi dirlo, ce la puoi fare — affettuoso rispetto agli anni precedenti.
Poteva abituarsi.
Poteva smettere di sobbalzare, di nascondere un mezzo sorriso ogni volta che rispondeva ad un ID sconosciuto e la voce di Dazai lo avvolgeva, gentile e morbida e bassa dall’altra parte della connessione. 
Ma c’erano cose a cui non avrebbe mai fatto l’abitudine.

“Chuu~ya?”
Ad esempio, non c’era nessuno che pronunciasse il suo nome come Dazai. Nessuno che stiracchiasse le u come se ci si potesse rotolare, arrotondando persino le consonanti più secche. Sulle sue labbra, il nome di Chuuya diventava una presa in giro e la cosa più bella del mondo allo stesso tempo.
Da persona che amava i contrasti, di quello non si poteva lamentare.
Di tutto il resto, invece...
“Chuuya!” Sí lamentò Dazai, di nuovo, il naso all’insù.
Chuuya soppresse l’istinto di lanciargli addosso il cacciavite che fluttuava accanto a lui. 
“Sei appena arrivato e già fai casino, mackerel?”
"Mi piaceva il lampadario vecchio!" brontolò, incrociando le braccia. Chuuya alzò gli occhi al cielo, pregando Arahabaki di dargli, per una volta, pazienza invece di un incontrollato istinto omicidia.
"Allora ci potevi pensare prima di distruggere metà del salotto."
“Chibikko ha fatto tutto da solo," lo corresse, con un sorriso affilato; l'executive strinse la presa sulla ceramica, evitando di puntualizzare che Dazai l'aveva infastidito così tanto che l'intero salotto necessitava di mobili nuovi, "Comunque! Se Chuuya non scende dal soffitto come posso dargli il mio regalo per il suo compleanno~?”
Il cuore di Chuuya non aveva appena mancato un battito. No, no, assolutamente no.
E non era per nascondere imbarazzo che la voce si era alzata. No.
“Il mio compleanno è tra due mesi, imbecille!”
“Ma chibi merita di essere viziato, e fortunatamente ho trovato il giusto regalo per lui...”
“E quale sarebbe?”
“Se la smetti di ignorarmi te lo dico~”
Oh, no.
Per un secondo, Chuuya sentì la presa su Per il Dolore Corrotto esitare, rischiando di far cadere tutti gli oggetti— se stesso compreso — che levitavano sul soffitto.
“Non vedi che sono impegnato?”
Il volto di Dazai si contorse in una smorfia.
“Non puoi prendere una sedia come tutte le persone normali?” giurò che la lampadina che aveva appena finito di cambiare fosse caduta ai piedi dell'altro per caso, ma forse non era vero. “Oh! Forse non ci arrivi neanche con la sedia, neh, hatrack?”
Chuuya ingoiò un sospiro sibilante, incapace di mettere freno alla vena che aveva iniziato a pulsare sulla tempia.
Cinque minuti; Dazai era nel suo raggio d’azione da cinque minuti e già l’executive sentiva montare un gran mal di testa. 
“Ahhh, almeno Chuuya potrebbe installare delle travi, se si sente in vena di lavori in casa!” Si lamentò Dazai, lasciandosi cadere drammaticamente sul divano. Scoccandogli un'occhiata dall'alto, Chuuya sollevò un sopracciglio. 
“Per cosa, per trovarti impiccato il giorno dopo?”
Gli occhi scuri dell'uomo si illuminarono, accompagnati da un verso deliziato che non poteva, non sarebbe dovuto, provenire da un uomo adulto.
“Ah~ Chuuya mi conosce così bene!” 
“Va’ al diavolo, mackerel! Ti proibisco di ucciderti in questa casa, non voglio dover convivere con il tuo fantasma per il resto della vita.”
“Chissà se farei amicizia con i fantasmi che già ci sono~” Mormorò Dazai, con fare allusivo.
Ma non fu quello, nè il sorriso sornione che gli si era dipinto sulle labbra, a far tremare le mani di Chuuya abbastanza da fargli quasi perdere la presa sulla lampadina, facendo ondeggiare pericolosamente il lampadario.
Maledizione a quello spreco di bende. 
“Dacci un taglio o ti uccido,” sibilò, lanciandogli addosso il cacciavite. Dazai lo schivò semplicemente rotolando su un lato e schiacciandosi contro lo schienale del divano come l’idiota che era, con un gridolino di gioia e scherno.
Ovviamente era colpa di Dazai se Chuuya aveva paura dei fantasmi.
Ovviamente, la prima ed ultima volta che Chuuya si era lasciato trascinare nel covo degli amichetti della mummia pur di non restare solo nell’oscurità della propria camera, l'idiota era anche stato molto contento di spiegare al suo adorato OdaSaku e al quattrocchi come e perché Chuuya fosse stato sul punto di abbandonare una missione che comprendeva un criminale la cui abilità era creare fantasmi, al prezzo di diventarne uno lui stesso.
'È l’unica volta che Chuuya, solitamente lento come una lumaca, ha proposto di usare Corruzione prima ancora di provare il piano!’ Aveva trillato Dazai, trasformatosi da falco in maledetto fringuello in presenza di Oda e ingurgitando una generosa sorsata di sakè. 
Chuuya era affondato nel proprio bicchiere di vino senza dire nulla e rifiutandosi di specificare che avrebbe felicemente raso al suolo l’intera città pur di neutralizzare quella abilità prima che potesse anche solo entrare nel suo raggio visivo e traumatizzarlo per sempre. Aveva percepito la vaga pietà di Oda, quella sera: la sua pacatezza accompagnata da una nota indulgente di divertimento, ma il ragazzo non riusciva a scrollarsi di dosso un senso di nausea che gli aveva afferrato lo stomaco non appena si era seduto al bancone di Lupin.
In quel momento, avrebbe voluto scappare.
Oda lo faceva sentire vulnerabile, la sua presenza insinuava dubbi su cosa avrebbe potuto essere se qualcuno l’avesse trovato quando navigava nel vuoto di Arahabaki e lo avesse trattato come un bambino, come un essere umano.

"Ha sedici anni, Dazai. Hai sedici anni; possibile che ti sembri così strano avere paura dei fantasmi?"
Dazai aveva riso.
Chuuya sospettava che non si fosse mai reso conto delle infinite volte in cui Oda aveva cercato di salvarlo, prima della sua morte.

 

 

- - -

 

Innamorarsi è sempre una scelta sbagliata.
Uno dovrebbe non farlo mai, e se proprio deve, innamorarsi dopo i trent’anni, quando sei consapevole
.  Non trovi, Atsusku-kun?”[1]

Dazai aveva parlato fra sè e sè, appoggiato alla balaustra che lo separava dal mare; Atsushi lo fissò con occhi sgranati. Nel profilo del mentore v’era una bellezza che prometteva distruzione ed un presagio di sventura rimaneva annidato nel modo in cui lo sguardo dell’uomo era perso all’orizzonte. La luce violetta del tramonto gli illuminava il viso, mentre il vento gli scompigliava ciocche di capelli scuri, ma aveva l'impressione che Dazai non notasse nulla di tutto ciò che accadeva fuori dalla sua mente. 
Era un’immagine di decadimento, di preparazione, eppure Atsushi non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva sentito.
Non era certo di poter replicare.
“Non ho idea di cosa rispondere,” decise, infine, “non ho mai avuto occasione di pensarci.”
Dazai gli scoccò un sorriso che gli ammorbidiva il viso, i tratti solitamente affilati resi gentili.
“No, ovviamente no.” 
“Non credo che però provare dei sentimenti sia una scelta consapevole.”
“Non credi? Beh, forse dovremmo sforzarci di renderla tale.”
“Se fosse così facile, potremmo smettere di soffrire desiderandolo e provare sensazioni a comando; ci potremmo liberare dei fantasmi in maniera semplice. Troppo semplice.”
“Forse,” ammise l'uomo, inclinando il capo, “forse è una maledizione che ci viene imposta. Te l’ho già chiesto una volta, ma ti trovi bene a lavorare con Akutagawa?”
Atsushi aggrottò la fronte.
‘Neanche un po’, è un incubo, semmai il contrario,’ era la prima cosa che aveva voluto dire.Assolutamente no. Akutagawa era una forza dirompente e disobbediente, lo trascinava nei propri piani senza degnarsi di assicurarsi che Atsushi fosse d’accordo e respingeva qualsiasi segno d’amicizia dietro un muro di minacce e odio. 
No, non si trovava bene a lavorare con lui. 
Per niente.
“Sta migliorando,” rispose, però, con un istante d’esitazione. Dazai doveva aver colto i suoi pensieri perché il suo sorriso si illuminò, una scintilla di divertimento a schiarire gli occhi castani.
“Non molto, vero?”
“No, è sempre orribile,” replicò Atsushi, con un sospiro.
Tuttavia, non aveva intenzione di lasciar perdere e smettere di tentare di far funzionare le cose: Akutagawa non era un pessimo partner di per sè, ma c’erano momenti che rendevano orribile la collaborazione. Solitamente, quei momenti bui seguivano gli istanti in cui Atsushi si era illuso che avessero fatto dei passi avanti, che potessero lavorare insieme.
“Vedo, vedo. Beh, Atsushi-kun, ti chiedo di portare pazienza ancora per un po’,” Dazai gli lanciò un’occhiata allegra. Atsushi si chiese cosa nascondesse. “Sono certo che arriverà il momento in cui andrete d'accordo."
A dispetto del fastidio che provava nei confronti di Akutagawa, Atsushi sentì una scarica di calore attraversargli il corpo e le guance farsi bollenti.
Perché gli tornava in mente Rashomon ora, e il momento in cui l’aveva indossato?
Akutagawa teneva a quell'abilità come se non avesse altra ragione per vivere, come se non possedesse altro al mondo. Indossare il cappotto di Akutagawa e prendere possesso di Rashomon sembrato un gesto dettato dalla necessità, ma Atsushi si stupì di non averlo mai considerato prima come qualcosa di più intimo, un’ammissione di fiducia incredibile e totale, un passo dal quale non si tornava indietro.
“Credo che ci si possa lavorare,” replicò, appoggiando la schiena al ferro della balaustra, “Per la città e per il suo equilibrio. E credo che Akutagawa lo debba a sè stesso.”
“Hm?”
“Dovrebbe perdonarsi.”

Ipocrita, Atsushi.
Proprio tu parli?

Ma Dazai aveva volto lo sguardo al mare, senza rispondere per quelli che parvero anni.
“Perdonarsi, eh? É interessante; quasi impossibile, ma interessante.” 
Atsushi scosse la testa. Akutagawa era competitivo e disperato, ma non era ancora troppo tardi. Non importava quante persone avesse ucciso, come Kyouka-chan, nè quanto il suo animo fosse torbido, come Dazai-san. No, Atsushi sperava di essere ancora in tempo per fargli capire quando fosse forte, quanto non dovesse nulla a nessuno, per quanto fosse frustrante dover lavorare con il suo orribile carattere e la sua tendenza alla sociopatia.
Mentre si sforzava di voler vivere senza scusarsi, Atsushi aveva promesso a sè stesso di condividere i propri progressi con lui.
“Non credo sia impossibile, non ancora. C’è qualcosa di buono in Akutagawa e vorrei che lo vedesse anche lui.”
“Una persona mi ha detto una cosa simile, una volta.”
“È...

“Un amico,” il sorriso che gli increspava le labbra era leggero, velato di malinconia. Ad Atsushi ricordò un altro tramonto, su una nave.
Anche quel giorno parlavano della sua rivalità con Akutagawa e Dazai aveva quella stessa espressione e teneva fra le dita un bicchiere di champagne che brillava sotto i raggi del sole ed una vecchia scatola di fiammiferi. 
Quando aveva chiesto a Dazai se stesse bene, non aveva ricevuto risposta: era come se l’uomo fosse scarico, troppo immerso nei propri pensieri per rispondere con il solito tono scanzonato.
Atsushi rimase accanto a lui, in silenzio, finché il sole non sparí definitivamente oltre il mare ed il cielo si tinse di un blu inchiostro e Dazai dichiarò che aveva fame — e la carta di credito di Kunikida.

 

- - -

 

“Oi, Dazai. La tua abilità— 
La voce di Chuuya si spense prima di poter finire la frase, soffocata dai pensieri.
Pigramente, prese la mano dell’altro fra le proprie, bende ben strette che contrastavano con la pelle pallida. Il petto premuto contro la sua schiena smise di alzarsi ed abbassarsi per un istante prima di riprendere ritmicamente, il cuore che sfarfallava impazzito sotto le costole.
Sentiva lo sguardo perplesso di Dazai su di sè, che attendeva e calcolava; quando non insisteva stava avvenendo una conversazione parallela nella sua testa. A volte, preso da un brivido gelido, Chuuya realizzava che vivere con Dazai era simile a vivere con Dostoevsky. 
L'executive sospirò, affondando il volto nel cuscino. 
“Stavo pensando, che semmai dovessi volermi uccidere davvero, tu e la tua amata Agenzia, ti basterebbe spingere Mori-san al punto critico e incrociare le braccia, guardare la mia stessa abilità divorarmi."
“Chuuya non ha niente di meglio a cui pensare nel suo tempo libero?”
“É colpa di Arahabaki.”
Dazai non rispose.
Chuuya lo interpretò come un invito a spiegarsi meglio e si aggiustò nella presa dell’altro, il braccio di Dazai che gli stringeva pigramente i fianchi; nei giorni della mafia le sue membra non avevano mai posseduto quella morbidezza, quella disponibilità a rilassarsi e a lasciarsi sfiorare senza ritrarsi istintivamente.
“É una voce nella testa, costantemente, e le cose orribili che dice... Fanculo, sono troppo persino per me. Sarebbero troppo persino per qualcuno come Mori.”
Dazai gli sfiorò i capelli con le labbra.
“Pensavo che l’addestramento di Kouyou—

“Non lo zittisce del tutto, è pur sempre una parte di me. Sono io a pensare quelle cose, Dazai, e quando siamo così non lo sento più e magari mi rende un po' più umano per quanto, dieci minuti? Ore?" esitò; stava divagando, ma abituarsi alle dita di Dazai sulla sua pelle significava anche iniziare a distinguere l'incendio che Lo Squalificato spegneva, lasciando solo il fantasma di Arahabaki, "Poi torna, torna sempre, come il fottuto mostro che è.
“Arahabaki non definisce la tua umanità. Chuuya è Chuuya.” 
Mordendosi le labbra, il ragazzo si trattenne dal ricordargli che Nakahara Chuuya, data di nascita assegnata d’ufficio, non esisteva nemmeno per la stragrande maggioranza della sua infanzia. Era un topo da laboratorio. Una cavia non dissimile da Dostoevsky, con un vecchio cappello come unico ricordo della mano che l’aveva liberato.
“Hm.”
“Te l’ho già detto. Se ti fidi di me, arriverò sempre a salvarti.”
Chuuya rabbrividì.

E dov’eri, Dazai, dov’eri in questi anni? Dov’eri quando non mi hai portato al punto di raccolta per divertimento, dov’eri quando mi sono buttato contro un fottuto drago pur di rivederti?

“Cazzate,” replicò, la voce secca. Non gli sfuggì il modo in cui Dazai lasciò andare la presa, per un secondo.
“Non mento in questo genere di contrattazioni, Chuuya, lo sai. Anche se dovessimo arrivare a quel punto, ti finirò personalmente.”
Nonostante i mille motivi razionali per ridergli in faccia, Chuuya si voltò ugualmente. Lanciando un’occhiata oltre la propria spalla, soppesò fra sè e sè i danni futuri che avrebbe potuto procurargli credere a Dazai in quel momento.
Fece appena in tempo a notare un’espressione seria sul volto dell’altro prima di sentirne le labbra sulle proprie.
“Sará un piacere mettere fine alla tua esistenza, chibikko.”
“Provaci, kuso Dazai, e vediamo chi muore per primo.”

 

Cosí era iniziato ufficialmente l’inferno di Nakahara Chuuya, vessillo di un Dio del caos, coinquilino di una mummia, partner e qualcos’altro non ufficiale di un idiota.
Cosí era iniziato, e non avrebbe potuto percorrere nessun’altra strada.

 

To: Slug

Chuuya!
ChuuChuu! Slug!
Ehy.
Ehi.
Hat rack.
Petit Mafia.
Chuuya!!!!!!


From: Slug
COSA.

To: Slug
Guarda, ho trovato kaomoji Q ┌(☆o★)┘


From: Slug

Quanto cazzo ti odio.

 

 

Ripensandoci, a volte si pentiva immensamente delle proprie scelte.



 

[1] Ispirato da Il Sole si Spegne; Dazai Osamu, 1947.

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Capitolo 4
*** Vantablack ***


 

Vantablack
 


Essere Nakahara Chuuya significava navigare in un oceano di sofferenza, mal di testa costante e superlavoro, con l’odore nauseante delle corsie d’ospedale, del sangue e della polvere da sparo costantemente sui vestiti come una seconda pelle.
Se non era all’ospedale a trovare i propri sottoposti, allora era per fare da babysitter a quel deficiente del proprio ex-partner — partner, Chuuya. Sii padrone delle pessime scelte che hai fatto nella tua vita —che si era fatto crivellare, accoltellare o lanciare da un ponte a seconda dell’occasione.
Chuuya non l’avrebbe mai ammesso, ma ogni volta che sul display del cellulare appariva un’email da Dazai con una stanza d’ospedale, il cuore gli faceva una capriola in petto.

From: Mackerel
Hatrackkkk vienimi a salvare! Kunikida-kun mi sta facendo la predica (ΩДΩ)

Ah, sì. Stanza A37, terzo piano. Ho sbagliato un po’ i calcoli, ma tutto sotto controllo~ (人·∀·)

 

Tutto sotto controllo implicava che lo spreco di bende non era morto — non ancora —, ma nulla di più. A causa della sua ossessione nel farsi catturare e nello strisciare alle spalle del nemico da solo, Dazai si era fratturato praticamente qualsiasi osso e aveva sofferto qualsiasi genere di contusione. Era una sfortuna che nessuna abilità potesse rimetterlo in sesto in fretta, perché l’ospedale lo metteva di buon umore, e non c’era niente di più fastidiosamente irritante che Dazai di buon umore.

 


- - -

 

“Oh. Ma tu non sei quello... Ah, sì, mr fancy hat!”
Chuuya giurò di sentire la temperatura abbassarsi di svariati gradi quando superò la porta, come se il suo ingresso avesse portato l’inverno nonostante le finestre aperte e la brezza primaverile. Yokohama profumava, invasa da boccioli che si schiudevano sotto un sole gentile, e nevicavano petali rosa. Yokohama era in guerra, come sempre.
Quando non viveva con lui, Dazai era solitamente in terapia intensiva. Idiota com’era, impossibilitato ad essere curato da Yosano-san, Dazai era praticamente l’unico a visitare regolarmente l’ospedale.
Quando lo vide, Chuuya soppresse un sussulto. Le lunghe membra bendate dell'ex-partner facevano capolino dalle lenzuola bianche e, disteso su un lettino che odorava di chimico, la pelle nivea spiccava da sotto la vestaglia confondendosi con il bianco delle bende-
Attorno al suo letto erano raccolti Kunikida, che non gli staccava gli occhi di dosso, ed Edogawa. Lanciandosi un’occhiata attorno, Chuuya si accostò al letto Dazai; sentiva il peso dell’odio che aveva risvegliato, anche perché era almeno in parte causa della Port Mafia se Dazai si trovava in ospedale. L’idea per un attimo gli fece considerare di guardare Dazai e dirgli che era preoccupato, chiedergli come stesse, se potesse fare qualcosa.
Prima che potesse parlare, Dazai sogghignò.
“Sei in ritardo.”

Ho sbagliato, credevo fossi in obitorio,” il suo volto si aprí in un ghigno gemello. “Peccato che tu sia ancora qui.”
“Quanto sei rumoroso, Chibikko. Non vedi che siamo in un ospedale?”
Era stanco e Chuuya lo sentiva in ogni sfumatura della voce di Dazai — la stessa che gli rispondeva quando Chuuya doveva alzarsi e quell’idiota gli si accoccolava contro la schiena in cerca di calore. Per un momento, l’idea che Dazai potesse davvero morire lo colpí con forza da fargli sentire il pavimento tremare sotto i piedi.
Lentamente si tese verso l’altro. Gli occhi castani erano velati, il ghigno già scomparso.
“Vedi di non morire, kuso Dazai.”
Con un suono soffocato Dazai scosse la testa.
“Chibi non aveva promesso di trovarmi una bella donna?"
“Sono serio, cretino.”
Un nuovo sorriso pigro, portato via dal sonno.
“Farò del mio meglio, partner.”

 

Kunikida aveva il volto scarlatto mentre gli puntava una pistola dall'altra parte del corridoio, una fiamma color sangue che bruciava nel suo sguardo solitamente calmo. Due o tre infermiere erano state veloci a sparire oltre le barriere di stanze chiuse, lasciando il corridoio per l’Agenzia e Chuuya, quell’executive della Port Mafia che era stato così idiota da danzare dritto tra le fauci del lupo — della tigre? — ed era stato chiamato partner.
Con le labbra arricciate in un sorriso, Chuuya si aggiustò il cappello.
“Huh. Non c’è alcun bisogno di essere sentimentali, mr detective, me ne sto andando.”
“Credi di potertene andare così?”
“Ooh~” Echeggiava la voce di Ranpo, come a prenderlo in giro, ma Chuuya non gli lanciò che un’occhiata sbieca.
Una parte di lui temeva che potesse tirare fuori uno di quei libri orribili da un momento all’altro, un’altra era ancora infuriata perchè l’aveva lasciato a marcire in un caso irrisolvibile dopo aver messo di cattivo umore chiunque.
“Quello che ha detto Dazai—” La voce di Kunikida tremava. Onestamente, Chuuya non poteva biasimarlo. “Cosa significa?”
Chuuya si strinse nelle spalle. Il fatto che il partner di Dazai avesse evocato una pistola dal suo quadernetto delle meraviglie come un prestigiatore non implicava necessariamente che lui dovesse usare una vera abilità: non ancora, non quando sentiva il vibrare e trillare delle macchine a cui era collegato Dazai oltre la porta chiusa.
Era piuttosto sicuro che Mori-san non sarebbe stato contento di una rissa.
“Nulla.” Esitò. Era tutto un piano di quell’imbecille? “Nulla che vi riguardi.”
Un proiettile gli sfiorò una guancia e, per riflesso, l’executive si assicurò che il cappello non scivolasse a terra.
Lo sguardo di Kunikida si assottigliò, due fessure nel volto contratto dal sospetto.
Il prossimo non sarà d’avvertimento.
“Oi, Kunikida, non ho l’ordine di ucciderti; non costringermi.”
“Un ordine non porta un executive della Port Mafia al capezzale di Dazai,” fece notare Ranpo, con tranquillità. “Tuttavia, mi sembra ovvio che tu non sia qui per conto di Mori, partner.” 
“Ah, quello—”
Kunikida digrignò i denti, un sono cupo che fece venire voglia a Chuuya di scappare e lasciare che Dazai si gestisse da solo il muro di bugie che si era costruito.
“Partner è una parola pesante da lanciare nella conversazione.”
“Era drogato,” Chuuya scoccó uno sguardo a Kunikida, “cosa a cui dovreste essere abituati ormai, se la mia intel non è errata.”
E non lo era. 
“Bastardo

“Risparmiami, ti prego. Ero venuto ad assicurarmi che l'imbecille non morisse prima che lo potessi uccidere, non è davvero niente di personale.”  
Il nuovo proiettile che Kunikida gli aveva indirizzato venne fermato a mezz’aria, intrappolato dalla gravità prima di essere ridiretto contro un muro; avrebbe voluto potergli dire che lo risparmiava per rispetto di Dazai, più che di una futura alleanza, ma le parole dell’altro lo costrinsero velocemente a riconsiderare. Avrebbe davvero voluto poter rimettere Kunikida al proprio posto.
“Il giorno in cui crederò alla mafia non è ancora arrivato,” sibilò, la voce resa sottile dalla rabbia e ancor più fina del fischio del proiettile nell’aria.
Qualsiasi forma di sfiducia sembrava estranea al vocabolario del detective, pronunciata con un filo di incertezza.
“Giuro, quattr’occhi, se ci tieni tanto al titolo di babysitter della macchina spreca bende, prego. Io me ne vado.”
“Neh, mr fancy hat, aspetta un attimo.”
Ranpo lo fissava, gli occhi stretti e una linea intellegibile a solcargli la fronte. Chuuya rabbrividì istintivamente al pensiero di essere nuovamente costretto in un libro con lui, ma si fermò.
“Ho un nome.”
“Come credi di gestire la situazione, quando sarà necessario? Prendendo tutti a pugni un’altra volta?”
Naturalmente sapeva. Chuuya poteva sentire il peso dello sguardo di Kunikida su di sè, lo stupore tutto dedicato al collega, ma fronteggiare Ranpo gli faceva prudere le mani, a metà fra il desiderio di cancellare quel ghigno con il solo potere dei propri pugni e il piacevole cambiamento di avere a che fare con qualcuno che possedeva una crudeltà infantile e un Q.I. superiore alla media dell'agenzia.
“Probabilmente,” sbuffò, lanciando uno sguardo veloce nella direzione della stanza “ma finché non accade...”
Dazai valeva quello e altro.
Que serà, serà.”
Il commento di Ranpo echeggiò fra di loro, guadagnandosi un’occhiata perplessa da Kunikida oltre gli occhiali, la confusione negli occhi chiari che tradiva il fatto che se stesse seguendo una conversazione senza avere tutte le informazioni; Chuuya si chiese quanto sapesse del proprio partner Kunikida Doppo.
“Dazai è il tipo a cui piacerebbe quel motto imbecille,” replicò, scrollando le spalle e ricominciando ad allontanarsi. Prima se ne andava, meglio era.
“Tu e Dazai-kun vi conoscete molto bene, non è vero?”
“Per mia sfortuna.”
“Abbastanza da vivere insieme?”
Chuuya si immobilizzò per un istante, scoccando un’occhiata al detective da sopra la spalla.
“Il vostro presidente pensa che sia una buona soluzione,” sbottò, ignorando il suono strangolato proveniente da Kunikida, “finchè lui la pensa così, ciò che avete da dire voi non conta molto.”

Ranpo annuì ma non chiese più nulla, e Chuuya preferì non domandare come un uomo sulla strada dei trent’anni — l'asso nella manica della polizia di Yokohama, fra tutti — avesse estratto dalla tasca un Uchiwa, scartandolo abilmente e ficcandoselo in bocca come se non gli interessasse più di altro e nessun altro fosse presente e degno d’interesse.
Lo sfarfallio della luce che illuminava il profilo di Yokohama dipinto sul lecca lecca scintillò per un istante, facendolo brillare come se stesse guardando la città attraverso una goccia di poggia, fu l’ultima cosa che l’executive vide prima di voltarsi definitivamente.
Sorprendentemente, Kunikida lo lasciò andare.

 

- - -

 

“Oi, Dazai. Svegliati, spreco di bende.”
Dazai Osamu, 22 anni, sin dai primi anni della propria vita era stato abituato ad essere strappato dalle braccia di Morfeo nelle maniere più bizzarre: colpi di pistola in lontananza, Elise che saltava sul suo letto chiedendogli di accompagnarla fuori dai cupi uffici della mafia, Atsushi che inciampava su qualsiasi cosa nel tentativo di arrivare in orario al lavoro e la grida di Kunikida. Sentire qualcosa di morbido atterrargli sul volto, però, era una novità. Con un ‘oof’ sommesso l’uomo rotolò su un fianco quando un secondo cuscino gli colpì il naso.
Se gli avessero chiesto come immaginava il risveglio dopo essere colpiti da un camion, avrebbe gesticolato verso sè stesso — se ne avesse avuto la forza. Se non fosse stato per la propria Abilità, avrebbe giurato che la gravità lo spingesse innaturalmente verso il centro della terra, impedendogli di alzare un solo muscolo senza sentirsi drenato di qualsiasi forza, con la testa che pulsava violentemente man mano che scivolava nella veglia.
“Chuuya è sempre più violento~” mormorò, intorpidito.
A volte, quando andava bene, più bene di quanto non meritasse, poteva ancora incontrare nei sogni il ricordo di Odasaku. 
“Non hai il diritto di dire una cosa del genere, idiota!” gli rispose Chuuya, e Dazai avrebbe negato fino alla morte che quell’abbaiare troppo rauco, troppo energico per la mattina, gli avesse incurvato le labbra in un sorriso, nonostante quel semplice gesto gli costasse uno sforzo innaturale.
“Non hai ancora imparato come si sveglia Biancaneve?”
“Hah!?”
Un terzo cuscino che gli volava addosso. Stavolta Dazai fu abbastanza pronto da schermarsi il volto con il braccio, seppur più lentamente di quanto avesse previsto.
“E poi Chuuya dovrebbe darmi tregua, è colpa sua se dopo ieri sera non ho più forz—”
“Dazai!” strillò l’altro, a corto di fiato, interrompendolo non appena fu chiaro il significato della frase. E, Dazai doveva ammettere che aveva previsto che Chuuya si sciogliesse in un ammasso di insulti e violenza fisica per pura vergogna, ma il ghigno che gli si stava pigramente dipingendo sul volto venne freddato dall’ondata di panico nella voce dell’altro.
Sbattendo gli occhi, Dazai si degnò per la prima volta di mettersi a sedere, le bende che gli premevano dolorosamente sulle braccia leggermente più gonfie del solito.
Ogni muscolo strillò contro quel gesto, pregandolo di tornare a dormire, ma non fu una protesta neanche lontanamente forte quanto quella che esplose nella sua mente nel momento in cui mise a fuoco Chuuya, il cappello, il choker nero, l’ennesimo cuscino tra le mani guantate, e qualcun altro.
Per un secondo, Dazai sgranò gli occhi prima di poter neutralizzare la punta di fastidio che gli pungeva il petto. Gli ci volle un secondo e più autocontrollo di quanto volesse ammettere per aggiustare un sorriso cortese sulle labbra, inclinando il volto verso l’ex partner.
Maledizione a Chuuya, perchè non faceva aspettare in salotto come le persone normali?
“Chuuya poteva dirmi che abbiamo un ospite,” mormorò, la voce che grondava falsa gentilezza. “Fukuzawa-dono, mi spiace per la pessima presentazione.”
“Ho cercato di svegliarti per un’ora,” sibilò Chuuya, e Dazai si disse che le sopracciglia erano aggrottate così tanto da farlo sembrare ancora più basso, ma la sfumatura di preoccupazione nella sua voce era impossibile da non cogliere.
“Oh,” mormorò.
Aveva un vago ricordo di aver aperto l’armadietto del bagno la notte prima, mentre Chuuya dormiva da ore, il respiro soffocato nel cuscino ed i piedi che di tanto in tanto calciavano le caviglie di Dazai mestamente.
Quando finalmente ne aveva avuto abbastanza del rigirarsi nel buio, dirigendosi all’armadietto dei medicinali l’uomo aveva mormorato fra sé e sé che non c’era modo di riposare altrimenti, che quella sua testa non voleva saperne di spegnersi, di rallentare, di lasciarlo in pace. Si era domandato se si meritasse una buona notte di sonno o un’eternità di pace.
Overdose di farmaci; sembra sicuramente meno dolorosa di un proiettile in mezzo agli occhi.
Dazai aveva sospirato e anche nel buio le sue dita avevano meccanicamente cercato e trovato una bottiglietta arancione, svitando il tappo e ingoiando una manciata di compresse senz’acqua.
Kunikida non mi perdonerebbe mai se non mi presentassi al lavoro domani. Sarà per un’altra volta.
Il tempo di tornare a letto, sentire il materasso scricchiolare sotto il suo peso e Chuuya che brontolava qualcosa nel dormiveglia, e tutto veniva inghiottito nella nebbia. Si era svegliato a Lupin, con un drink già versato davanti a sè, e Ango ed OdaSaku sorridevano;  notti come quella, intere ore di sonno così profondo da riportarlo indietro non erano la normalità.
Ecco perchè Fukuzawa-dono doveva essersi stancato di aspettare.
Questo doveva spiegare anche il mal di testa che lo stava divorando. 
“'Oh' un accidenti, spreco di spazio!”
“Dazai-kun.” la voce di Fukuzawa era dura, ma non priva di preoccupazione. Ne ingentiliva le consonanti, faceva sembrare meno freddi gli occhi argentei, “Come ti senti?”
“Benissimo.”
Sorriso, check; aria svagata, check.
Tuttavia Fukuzawa sollevò impercettibilmente un sopracciglio, costringendo Dazai a proseguire.
“Davvero, mi sento molto bene.”
“Atsushi-kun mi ha fatto presente che ultimamente è preoccupato per te.”
“Cosa?”
“É un ragazzo sveglio, Atsushi-kun.” offrì il presidente come unica risposta. Una manciata di parole che tagliavano come il filo di una spada — sai benissimo cosa intende — e che il detective incassò in silenzio.
Dazai posò il mento sul pugno chiuso, per il semplice fatto che sentiva la testa pesargli così tanto che temeva gli avrebbe spezzato il collo.
“Hm-m, è davvero una brava persona.”

Inoltre, Kunikida-kun e Ranpo durante la tua convalescenza di qualche tempo fa hanno avuto modo di essere aggiornati in merito alla situazione.”
“Mi sorprende che Ranpo-san non l’avesse già capito.”
Ranpo avesse semplicemente atteso che la questione venisse alla luce da sola, e Dazai lo sapeva: per quello sorrideva, per quello lasciava che la sua voce suonasse come le fusa di un gatto, pigra e affezionata.
“Entrambi hanno espresso dubbiosità riguardo il fatto che ti lasciassi vivere qui.”
Istintivamente, Dazai inarcò un sopracciglio. Cozzava con la messa in scena allegra che cercava di mantenere ma il modo in cui Chuuya aveva abbracciato il cuscino restante ed era sparito oltre la porta, lasciando all’Agenzia la privacy di cui aveva bisogno, aveva fatto crollare lo stomaco di Dazai. Per un qualche motivo, nelle mattine come quella si sentiva più sicuro se il suo cane da guardia era nella stanza.
“Tecnicamente è anche il mio appartamento,” puntualizzò.
“Appartamento che dovrebbe essere compromesso insieme agli altri che hai lasciato indietro dopo aver abbandonato la mafia.”
“Ango ha gentilmente rimesso in regola questo per me,” replicò Dazai, con una scrollata di spalle. Aveva voglia di morire, perché ogni singolo muscolo del suo corpo aveva deciso di ribellarsi? “E Chuuya non ha mai davvero smesso di viverci, quindi…”
Lo sguardo di Fukuzawa vagò nella stanza: sugli arredi neri laccati e spolverati alla perfezione, sul lampadario di cristallo e sulla testiera quasi invisibile del letto dalle lenzuola in seta borgogna, un colore così intenso da sembrare sangue. Non appariva intenzionato a vocalizzare la propria opinione riguardo la camera di Chuuya, e Dazai gliene fu grato.
Il silenzio li avvolse per un lungo momento. Infine, Fukuzawa sospirò.
“Non sono sicuro di essere in disaccordo con le proteste mosse da Kunikida-kun. Nonostante questa sembrasse una buona opzione quando ne abbiamo discusso dal punto di vista esterno è non solo difficile da accettare, ma rischia di compromettere la nostra posizione.”
“Mori-san non è un problema.”
Lo sguardo di Fukuzawa si assottigliò, una luce gelida gli induriva il volto.
“Ancora,” precisò.
“Kunikida-kun non può non aver notato che da quando Chuuya mi butta fuori di casa sono sempre in orario~”
“Inoltre, Nakahara-san ha confermato le mie preoccupazioni sulla tua salute mentale, Dazai-kun.”
Maledizione a chibikko.
“Un periodo,” rispose, gesticolando come se potesse fisicamente scacciare l’argomento.
“Se questa disposizione non andasse più bene, sei il benvenuto a tornare agli alloggi dell’Agenzia quando preferisci.”
Dazai replicò con un ‘hm’ impensierito.
Come aveva previsto, era comodo avere qualcuno che cucinasse pasti decenti e pulisse e si liberasse delle bottiglie di sakè che lui dimenticava sul tavolo, che gli sfilasse ancora il taglierino dalle mani come aveva fatto quando davvero Dazai intendeva morire, ma la mente continuava a vagare all’armadietto dei medicinali, ai coltelli in cucina.
Addormentarsi con Chuuya fra le braccia, il mento poggiato sulla sua testa, e andare al lavoro con il corpo che ancora profumava del bagnoschiuma dell’executive lo aiutava a restare a galla e allo stesso tempo lo intrappolava in un limbo. Ed era sciocco, naturalmente, perchè vivere e occasionalmente ritrovare un po’ di quotidianità con il suo chibi preferito non lo riportava in alcun modo sotto l’ala della mafia, ma era umiliante. Era umiliante aver bisogno di qualcuno che si era lasciato alle spalle e una voce insisteva chiedergli cosa stesse pianificando per il futuro, perchè vivere il momento era pericoloso.
Perchè era difficile sopprimere il broncio quando Chuuya gli annunciava con un messaggio che sarebbe uscito con dei colleghi e di non aspettarlo alzato.
Dazai non era possessivo: Dazai era entusiasta e conscio del valore di quello che aveva fra le mani. Quello sì che sembrava un passo indietro rispetto alla sua promessa e compromettersi così tanto, così spesso, senza pensare.
La consapevolezza che da azioni non pianificate non potessero che sbocciare disastri in qualcuno finiva ucciso
e non lui, mai lui lo tormentava.
“Questa disposizione va benissimo,” rispose, lasciando che la sua stessa voce lo strappasse dai pensieri e inchinandosi appena per ringraziare Fukuzawa.
L’uomo lo guardò, gli occhi stretti in fessure intellegibili nonostante Dazai fosse certo di leggerci lo stesso dubbio che attanagliava lui: per quanto sarebbe durato? E quando fosse stata l’ora, sarebbero stati in grado di usare quella particolare pedina a vantaggio dell’agenzia, o a quel punto Dazai sarebbe stato troppo debole, troppo emotivamente coinvolto per fare qualsiasi cosa?
L’idea lo fece sobbalzare, e fu grato che le lenzuola fossero abbastanza spesse e pretenziose da nascondere qualsiasi movimento.
“Dazai-kun, c’è sempre una via d’uscita, e non deve essere per forza drastica. Spero che tu non te ne stia dimenticando.”
Dazai annuì, già trascinato nella palude dei propri pensieri. A volte, gli era facile perdere di vista la soluzione e Fukuzawa lo sapeva, sapeva quanto fosse facile cadere in quella spirale dove tutto diventava enorme e buio e finiva per soffocarlo.
Tuttavia, non sembrava intenzionato a nominare i sonniferi, anche se era certo che Chuuya l’avesse informato.
Poteva giurare di sentirla ancora, la voce di Odasaku, velata di preoccupazione.

Cosa diavolo stai facendo, Dazai.

Sperò di non doversi dare una risposta troppo presto, ma i suoi calcoli e previsioni indicavano tutt’altra strada.

A volte odiava aver sempre ragione.

 

- - -

 

C’erano tante cose che a Chuuya ricordavano Dazai. Il granchio in scatola, le luci di Natale (con cui aveva cercato di impiccarsi molti anni prima, senza successo), ogni impermeabile che riusciva a cogliere con la coda dell’occhio.
Il cane della pistola che scattava all’indietro.
Chuuya alzò gli occhi al soffitto, distratto dalla familiare sensazione di una silhouette alle proprie spalle: il braccio teso, le dita strette attorno al calcio dell’arma, la plastica che si fondeva con l’acciaio, lo sguardo incolore in un unico occhio scoperto dalle bende che gli attraversavano il volto. Poteva immaginarlo, quello sguardo, anche se non lo vedeva.
Poteva quasi percorrere i momenti che non aveva visto — Dazai che era entrato senza annunciarsi, senza il solito baccano e la pantomima da coinquilini che si amavano, e aveva sapientemente tenuto le luci spente fermandosi sotto l’arco della camera da letto.
Chuuya aveva recentemente aggiunto una scrivania alla propria camera, esattamente di fronte all’entrata, perchè Dazai aveva preso possesso dello studio; mai colpo era stato più facile.
L’executive sorrise.
Aveva avuto la delicatezza di portare a casa solo lavoro d’ufficio, nessun prigioniero, e Dazai lo ringraziava puntandogli una pistola alla nuca.
“Non dirmi che non te lo aspettavi.”
Il sorriso divenne un sogghigno.
“In verità, stupido mackerel, mi aspettavo un’altra trappola. L’ultima era andata piuttosto bene.”
Il Dazai dell’Agenzia forse avrebbe riso, ma quella sera era tornato a trovarlo un fantasma.
“Una trappola non ha statisticamente le possibilità di rimuovere un executive del tuo calibro in maniera definitiva,” una risposta atona e fredda, “non quanto un proiettile abbastanza a fondo”.
“Wow. Ma allora sei intelligente.”
Dazai scosse la testa. Sarebbe potuto rimanere lì tutta la notte, e il braccio non avrebbe ceduto di un millimetro.
“Era una possibilità latente.”
Quindi hai aspettato tutto questo tempo?”
"La tregua dell’Agenzia con la Port Mafia è spezzata; Black Lizard ha attaccato Kenji-kun e Tanizaki questa mattina,” una pausa calcolata, come ogni cosa in Dazai, “non dirmi che non lo sapevi."
Chuuya scosse le spalle, sfiorando la maniglia in bronzo del primo cassetto della scrivania senza voltarsi. Dazai non gli avrebbe mai sparato alle spalle — o sì? Non ne era più certo.
“Lo avevo intuito.”
“Questo dovrebbe alzare considerevolmente le nostre probabilità di vittoria ad un costo minimo. La guerra la vince chi fa la prima mossa, dopotutto, non è così che diceva quella persona?”
“Quindi la prima mossa dell’agenzia è un assassinio.”
Poteva quasi sentire il corpo di Dazai sussultare come se fosse il proprio, nonostante non potesse vederlo, nonostante nessun altro avrebbe mai colto quell’impercettibile alzarsi e abbassarsi del suo braccio.
“Chiamalo incidente~”
“Dunque il tuo nuovo lavoro è chiamare cose con un nome cretino, mackerel? O è uccidere senza fare sapere ai tuoi compagni?”
Dazai non era tenuto a spiegare i propri piani, ma gli piaceva: oh, se gli dava soddisfazione provare di essere più intelligente, più svelto, più furbo, più spietato. Nei suoi occhi velati di scarlatto brillava una luce inumana e Chuuya ancora una volta rimpianse che i genitori di Dazai, chiunque fossero i poveri bastardi, non avessero mai investito in una buona scacchiera piuttosto che lasciarlo in pasto alla mafia.
“Non è necessario che sembri un assassinio. Grazie per la cortesia di non installare telecamere interne, chibi,” Chuuya aggrottò la fronte e strinse la penna che aveva utilizzato fino a quel momento nel pugno così forte che non si accorse nemmeno del rumore secco e dell’inchiostro che zampillava, macchiandogli le dita. “Oppure potresti farmi un favore ed attaccarmi, rendere tutto meno patetico.”
“Bastardo.”
Istintivamente, un fermacarte levitò dalla scrivania, lanciandosi contro Dazai.
Un centimetro più a destra e avrebbe centrato l’occhio che l’uomo aveva tenuto bendato per anni; un centimetro più a destra e l’ossidiana gli avrebbe sfondato il cranio. Invece l'oggetto si schiantò contro il muro come un pugno, una palla di cannone, evitando il volto.
Amare Dazai significava mirare sempre un centimetro troppo a sinistra nonostante la ragione imponesse di mettere fine alla sua fastidiosa esistenza una volta per tutte.
“Sai, Chuuya, ho sempre sognato di premere questo grilletto.”
“Dunque è così che vuoi morire?”
L’istante prima che la pallottola gli sibilasse contro, Chuuya si curvò ed aprì il cassetto su cui aveva tenuto la mano, pronto a scattare. Le sue dita inciamparono ciecamente nella fredda plastica di un’Uzi così minuta da sembrare un giocattolo per bambini, ma non c’era niente di infantile nel modo in cui si era chinato sul pavimento, un braccio poggiato sul ginocchio piegato per sostenere l’arma.
Dazai sorrise, aggiustando il tiro.
“Chibi, diventi sempre più basso~ É un’abitudine?"
“Vaffanculo, kuso Dazai.”
“Oh, ti ho fatto arrabbiare? Alcuni potrebbero dire che giocare sull’altezza di chibikko è un colpo basso, ma sicuramente Chuuya non ha un’alta opinione di me…”
Il suono dei denti dell’executive digrignati uno contro l’altro era quasi un boato, la sua presa sulla pistola tesa e scattosa. Qualora avessero sparato, Dazai era infinitamente più preciso.
Merda.
“Ultime parole, figlio di puttana?”
“É quasi romantico.” mormorò Dazai, fra sè e sè.
Per un istante, il mondo di Chuuya si tinse di rosso. Lasciò andare la pistola, come un idiota — come avrebbe fatto a quindici anni — per lanciarsi contro Dazai, un destro caricato con la potenza della gravità che sarebbe scomparsa al contatto con l’abilità di Dazai ma che, nella migliore delle ipotesi, l’avrebbe fatto volare dall’altra parte della stanza. Persino nell’aria rarefatta, Dazai riuscì a schivare saltando indietro; riuscì anche a premerlo, quel grilletto che aveva sempre desiderato, e la sensazione gelida e bollente del proiettile che gli sfiorava la spalla accese un mare di scintille bianche e roventi nella mente di Chuuya. Il dolore era sordo, era incolore, ma gli fece salire in gola un ruggito come se urlare e sporgersi in avanti di nuovo per colpire Dazai potesse fargli dimenticare che, per un momento, aveva pensato fosse finita.
Che fossero davvero qualcosa.
Ma qualunque cosa avesse creduto Dazai aveva ragione, e chiunque fosse morto quella notte avrebbe permesso all’altro di portare a casa una pedina che avrebbe mosso l’ago della bilancia che gestiva Yokohama, forse ribaltando le sorti dell’organizzazione o forse aiutando la vittoria definitiva. Qualunque cosa lo animasse — rabbia, derisione, una mal sopportazione covata negli anni e tramutatasi in passione a dispetto di Chuuya — caricò il pugno dell’executive come se dovesse distruggere la città intera.
Con un’espressione incolore, Dazai premette di nuovo il grilletto.
Bastardo. 
Sei sempre stato un ragazzino viziato, un mostro, un—
Stringendo gli occhi, Chuuya riuscì a bloccare il proiettile e reindirizzarlo, la luce rossa di Per il Dolore Corrotto che pulsava e schiacciava la capsula bronzea a terra, e non sentì nulla quando le sue nocche colpirono il volto di Dazai. Non c’era niente se non il potere che scemava, lasciando agire la pura forza bruta.
Per un istante, lo vide sbarrare gli occhi — cosa c’è, credevi non l’avrei fatto, kuso Dazai?— poi il silenzio della sera fu spezzato dal tonfo del corpo che veniva spinto contro il muro del corridoio. Non che fosse abbastanza per bloccare quel bastardo che sembrava immortale, ma Chuuya notò la presa sulla pistola che si ammorbidiva e l’arma che volava dall’altra parte della stanza, fuori portata.
Ignorò la stretta allo stomaco, sollevando il mento con fierezza.
“Chi è il cane adesso?”
Mosse un passo in avanti.
Dazai sogghignava e lo guardava dal basso, asciugandosi un rivolo di sangue dalle labbra con il dorso della mano.
Hai usato Corruzione credendo in me? Sono così commosso che potrei piangere.
Un altro passo; una nuova sensazione piacevole, come se anche a terra Dazai tenesse il suo petto nel proprio pugno.
Chuuya deglutì a fatica.
“Quanta violenza. Cosa direbbe O’nee-San?” il ghigno di Dazai si distese in una mezzaluna spietata, “dopotutto, sei sempre stato la sorellina preferita.”
Doveva avergli urlato di stare zitto, che era un bastardo. Chuuya non ricordava, ricordava solo rosso e bianco e che si era lanciato di nuovo contro l’ex partner con tutta la propria forza.
Dazai si era trascinato in piedi puntellandosi contro il muro, barcollando leggermente. L'aveva atteso e aveva sorriso come ad invitarlo.
Un istante troppo tardi, Chuuya ricordò.
Dazai voleva morire ma non lì, non con lui fra le braccia, e aveva trovato nel suo nuovo protetto una ragione per cui vivere ancora un po’. Accecato dall'illusione di normalità, Chuuya era stato così idiota da lasciare il proprio coltello in casa, con la scusa che se avessero voluto accoltellarsi durante un litigio avrebbero usato quelli da cucina.
L'executive sentì la punta gelida premergli contro il fianco sinistro e si immobilizzò con il braccio libero di Dazai gli cingeva la vita, tenendolo gentilmente appoggiato alla lama a sufficienza da mozzargli il respiro ma senza ferirlo.
“Sorpresa.”
“Quando—?”
“Tieni sempre il tuo coltello nella giacca.”
Chuuya strinse gli occhi, puntandoli contro Dazai.
“Bastardo.”
“Questo e molto altro,” replicò lui, con un sorriso. Giocava sporco, ma l’aveva sempre fatto. “Ora, ti direi di lasciare Yokohama fino alla fine della guerra, dirti ‘vattene, chibi, trova un altro padrone’, ma non posso rischiare. Cosa farei se tornassi con Mori-san? No, non ho altra scelta.”
“Hai finito di giustificarti, spreco di bende?”
“Come potrei uccidere Chuu~ ya senza una spiegazione?”
Chuuya sobbalzò. Una brutta idea. E Dazai, bastardo, lo sapeva, sapeva che quell’attimo di tensione gli avrebbe permesso di affondare un po’ più a fondo il coltello, abbastanza da strappare la stoffa e pungere l’addome.
Senza sapere come replicare, l’executive socchiuse le labbra; avrebbe inveito, ma venne interrotto dallo squillo di due cellulari gemelli. Dazai, da ragazzina idiota che era, aveva proposto modelli uguali quando avevano quindici anni.
Per un istante che sembrò durare un’eternità, i due si fissarono.
“É—”
Mori-san aveva una suoneria particolare, così come Fukuzawa. Erano le stesse abitudini a renderli un team formidabile, ma in quel momento Dazai lo scrutava con le sopracciglia aggrottate.
“É un colpo troppo fortunato per fartelo sfuggire, spreco di bende. Non farmi vergognare di essere stato il tuo partner.”
Dazai si rabbuiò. Doveva aver immaginato che la chiamata simultanea potesse voler dire qualcosa di importante, ma sembrava indeciso; Chuuya odiò l’esitazione nella sua voce, il leggero tremare delle dita dell'altro, la presa sul suo fianco che cedeva impercettibilmente.
“Stai a cuccia?”
“Te lo scordi, mackerel.”
Approfittando di quell’attimo l’executive si lanciò all’indietro, scivolando con uno scatto fuori dalla portata di Dazai. Lo sentì masticare un’imprecazione, ma qualsiasi cosa volesse dire o fare fu inghiottita dall’esplosione dei vetri che li circondavano e dalla luce dorata che aveva invaso le stanze altrimenti buie.
Istintivamente, Chuuya cercò lo sguardo di Dazai. Vedere l'ex partner che si schermava il volto dai pezzi di vetro, con i capelli mossi indietro dall’esplosione e l’impermeabile che gli svolazzava alle spalle era surreale, sembrava solo l’ennesima missione insieme.
“Non vi si può lasciare soli due minuti, voi due.” si lamentò una voce femminile, abbastanza conosciuta perchè Chuuya sollevasse lo sguardo con la mascella a terra.
Fu Dazai a rispondere per primo, cercando conferma nel bagliore accecante.
“Kouyou-san?"
“Sei una vergogna. Attaccare nella notte come un ladro, Osamu, e fare rissa come bambini… Mi meraviglio di voi, entrambi.”
Golden Demon si era ritirato alle spalle di Kouyou, un’aureola che si ergeva a partire dall’acconciatura della donna e il cui movimento del capo faceva muovere cascate di pettini dorati.
Chuuya deglutì a fatica.
“O’nee-san, che sta
?”
“La tregua è di nuovo in atto. Cielo, chissà cosa combinano quei due; comunque sia, Natsume-dono li ha fermati e voi non siete più autorizzati ad ammazzarvi,” lo sguardo affilato di Kouyou vagò su di lui, e le labbra si strinsero nel momento in cui i suoi occhi sfiorarono la figura accucciata di Dazai. Sentendo una scarica di vergogna, Chuuya abbassò lo sguardo. “Mori-san vuole vederti, Chuuya. Osamu, ugualmente, non credo che i tuoi superiori saranno contenti di te.”
Rimettendosi in piedi e abbozzando al contempo un inchino appena accennato, Dazai annuì.
“Come se non fossero abituati ai rischi,” commentò. 
Nessuno rispondeva a Kouyou; tuttavia, proteggendo l’agenzia, Dazai proteggeva Kyouka. Era difficile comprendere esattamente il punto in cui l’amore per la giovane protetta superasse quello per la propria stessa esistenza; Kyouka era la figlia che nella mafia non aveva mai potuto avere, un'orfana con il suo stesso demone.
Forse era per quello che la donna chinò il capo con un sospiro pesante.
“Il tuo ragazzo-tigre, Osamu—

“Atsushi?” la incalzò, assottigliando gli occhi. Il tono si era fatto gelido, protettivo, ma la donna annuì elegantemente aggiustandosi le maniche del kimono rosso.
Ha protetto Kyouka-chan. Porgigli i miei ringraziamenti.”
“Vero, vero! É un proprio un bravo allievo, non è cosììì~?”
“Ma voi due… Voi due siete sempre i soliti. Avete intenzione di sistemare questa casa, ora? Chuuya, cosa intendi fare?”
Non ci pensò nemmeno un istante e sbuffò, mettendosi in piedi. Prima di potersi fermare a riflettere sulle implicazioni di quella sera si stava spolverando i pantaloni scuri con gesti frettolosi.
“O’nee-san, accomodati, ti prego. Vado a prendere del vino,” lanciò uno sguardo all'ex partner, all'escoriazione che gli tagliava il labbro. “Tu, spreco di bende. Vieni a darmi una mano.”
Con un sorriso, Dazai si aggrappò al braccio di Chuuya.
“Aaah, chibikko mi vuole ancora! Su allora, fai il bravo cane e portaci da bere.”
“Vaffanculo, approfittatore! E fai piano, mi hai sparato.”
“E tu mi hai quasi slogato la mascella, ma non è di questo che si nutre il nostro amore? Oi, Chuu~ya, questa è violenza domestica! Ah, O’nee-san, prego, prego. Chuuya è una pessima moglie, se la casa è un disastro ti prego di considerarla interamente colpa sua.”
“Cosa?! Kuso Dazai, non dire stronzate!”
“Non sei una brava massaia, chibikko.”
“Non sono la tua massaia e non sono tua moglie, bastardo,” urlò Chuuya, scrollando il braccio con veemenza, ma Dazai doveva avere delle maledette ventose su quelle bende, “e stammi lontano!”
Nel mostrare alla donna la strada per il salotto, seguito dai passi quieti di Kouyou e dal chiacchiericcio ossessivo di Dazai, Chuuya giurò di vederla passarsi una mano sul viso, sconfitta dal loro comportamento.
Con le guance in fiamme, l'executive si augurò che la terra si potesse aprire per inghiottirlo una volta per tutte.



Il rumore di Dazai che rovistava nelle mensole alla ricerca dei calici, in qualunque altro momento, sarebbe stata un’abitudine: un sottofondo conosciuto, il tintinnare del vetro e il suo respiro calmo nonostante stesse inveendo mentalmente contro l’intera mensola. Ma non quel giorno.
“Oi, bastardo."
Dazai ridacchió, un soffio di vento nel silenzio. Con O’nee-San nel loro salotto non c’era garanzia che la conversazione non fosse origliata, eppure quelle parole erano bloccate nella gola dell’executive e non riusciva a trattenerle.
“Non ti pare si dover essere più cortese, chibi? O non ti insegnano l’educazione alle elementari delle pecore?”
Chuuya sospiró, alzando drammaticamente gli occhi dalla bottiglia di vino.
“Hai esitato.”
“Ho esitato perché non volevo ucciderti,” replicò Dazai, con tranquillità.
“No, hai esitato perché non hai più lo stomaco. Ti farai ammazzare, Dazai.”
Non importava che avesse esitato con lui, perché era lui; nel loro mondo, nulla era per sempre e nessun amico era prezioso, nessun partner insostituibile, nessuna moglie inavvicinabile. Neppure l’Agenzia dei Detective Armati aveva il lusso di esitare.
Chuuya, dal canto suo, l’aveva lasciato fare. Voleva prendersi tempo. Dovevano combattere come se si stessero amando e amare come se fosse una guerra, e litigare come se dovesse finire sempre tutto contro un muro, con un bacio e un pugno e uno sguardo vorace e un insulto.
Quando si voltó, Dazai lo stava guardando, due bicchieri fra le dita che sporgevano dalle bende e un sorriso gentile a piegargli le labbra.
“Avevo un piano. Sapevo che la tregua sarebbe stata ristabilita, presto o tardi.”
“Il piano era di farti rompere il naso? Credevo odiassi il dolore.”
Il sorriso di Dazai tremó impercettibilmente.
“A volte schiarisce le idee.”
Chuuya lo guardó a propria volta, aggrottando la fronte. Non era semplice vivere con quel matto dell'ex partner, ma era una necessità con cui poteva venire a patti perché a volte credeva di amarlo con la stessa intensitá con cui lo infastidivano le sue macchinazioni e l’aria annoiata.
“Dunque cosa dovremmo fare ora?”
“Aspettiamo,” Dazai inclinó la testa ed il sorriso divenne luminoso, “fino a quel momento, sono felice di non aver ucciso Chuu~ya.”
Sfilandogli i bicchieri dalle mani con velocità febbrile nel tentativo di nascondere le guance bollenti, Chuuya soffocó un insulto e si voltó per versare il vino.
“Vattene da O’nee-San, vagabondo. Qui hai fatto abbastanza.”
Almeno una cosa l’aveva imparata: nonostante non si fosse mosso quando il detective si era piegato sopra la sua spalla per posargli un bacio sulla guancia, l’intonaco scrostato del salotto e una scrivania distrutta avevano cambiato qualcosa, e la casa era immersa in una luce cupa.
Fino a quel momento.
Chuuya non aveva mai realizzato, prima di quella sera, che Dazai si fosse lasciato andare ad una pantomima di convivenza perchè dava per scontato che quella cosa non sarebbe durata: una parentesi che fluttuava in un mare di altri eventi senza importanza, una bolla che stava per scoppiare.
Fanculo, nessuno riusciva a rovinare qualcosa di bello come Dazai Osamu.

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Capitolo 5
*** Dig us a Grave and Kill me Softly ***


Dig Us a Grave and Kill Me Softly



Come l’aveva chiamato Mori-san?

Ah, già.

'L’ex migliore amico di Dazai', quando in realtà il bastardo non l’aveva mai considerato tale: se avesse avuto bisogno d’aiuto Chuuya non sarebbe stato il suo primo pensiero.
Oda non era morto perché lui corresse alla Port Mafia al primo problema, nonostante fossero entrambi coscienti dell’occasionale vantaggio di allearsi con il nemico. Dazai avrebbe chiamato Atsushi di cui si fidava ciecamente e Kunikida, il suo povero, paziente partner, o Yosano. Ranpo, anche se Chuuya non era certo della misura in cui il detective migliore della città sarebbe stato interessato ad aiutare qualcuno che non fosse sè stesso.
Ma no, Chuuya era l’ultima persona che Dazai avrebbe chiamato e, presto o tardi, Dazai se ne sarebbe andato di nuovo.
Dazai — spreco di bende, spreco di spazio, spreco di sentimenti — avrebbe nuovamente gettato dalla finestra qualsiasi aspettativa Chuuya avesse e gli stava bene, perchè non aveva ancora imparato e, davvero, a questo punto era colpa sua tanto quanto di quell’idiota bendato.
Se ne andrà.
Quella semplice realizzazione aveva trasformato l’avere a che fare con Dazai nell’equivalente emotivo di aprirsi taglio nella carne e spruzzarlo di sale, non necessario e doloroso, ed il valzer di insulti a cui credeva di essere abituato aveva iniziato a scavare nel suo autocontrollo.

Aspettiamo.
Fino a quel momento—

Dazai se ne sarebbe andato.
Non quel giorno, forse non quello seguente, ma ogni volta che Chuuya si chiudeva la porta alle spalle non era sicuro di cosa avrebbe trovato ad aspettarlo.

“Oi, Dazai.”
Dazai aveva a malapena alzato gli occhi dal libro dalle pagine mangiucchiate, con la familiare copertina rossa consumata a forza di essere spiegazzata; Chuuya spinse il ricordo che si trattava di un manuale sul suicidio nel fondo della propria mente, dove non poteva fare danni.
“Hm?”
“Qual è la tua opinione su questa,” gesticolò fra di loro, “questa cosa?”
“Cosa intendi? Oh, no, chibikko ha mangiato qualcosa di strano e sta vaneggiando.”
Chuuya sbuffò.
“Magari voglio iniziare ad avere un po’ di stabilità.”
Non pretendeva che un executive della mafia potesse avere vera stabilità, ma vivere con Dazai era un fottuto mare in tempesta. Nemmeno quella domanda fu sufficiente ad ottenere l’attenzione dell’uomo, che si aprì in un ghigno di scherno con gli occhi ancora puntati sulla pagina.
“Stabilità~? Magari una villetta in campagna e una cuccia? Oh, Chuu~ya, sei proprio un cane—”
“Dacci un taglio con questa storia del cane, Dazai.”
Dimenticando il libro Dazai si immobilizzò, gettando indietro la testa per incrociare lo sguardo dell’ex partner.
Ah?”
“Mi stai davvero stancando.”
“Chibi si è offeso?”
“Non sei in grado di dire una cosa gentile, ogni tanto?”
“Perchè, il mio chihuahua ha bisogno di conferme?”
“Vaffanculo,” sbottò, cogliendo il principio di sorriso che stava già curvando le labbra dell’altro.

Se ne andrà e lo farà con il sorriso e tu chi sei per dire ad Akutagawa di non farsi illusioni e smetterla di corrergli dietro?
Maledizione, Chuuya. Sei un executive della Port Mafia, non una scimmia ammaestrata.

Animato dal bisogno di colpire qualcosa, Chuuya si alzò, allontanandosi dalla poltrona su cui era stato accoccolato fino a quel momento con abbastanza rabbia che, nell'istante in cui posò un piede sul pavimento, fece tremare ogni soprammobile in preda al suo personalissimo terremoto. 

Nessuno ama quel disagiato perché è Dazai, a meno che tu non sia un idiota o Jinko, ricordò, infastidito dalla propria stessa idiozia, ami Dazai nonostante sia Dazai.
Quanti nonostante aveva accumulato negli anni; quanti, per essere ancora lì a commettere gli stessi errori, a farsi ribollire il sangue e cadere negli stessi trucchetti che Dazai sapeva l’avrebbero infastidito.
Senza una parola Chuuya si chiuse in camera, lasciandosi cadere sul letto con un sospiro pesante.

Se ne andrà di nuovo.

Da un po’, ogni volta che Dazai si riferiva a lui come al suo cane o il suo tirapiedi — un vecchio scherzo che, tuttavia, non mancava mai di mordere via un pezzo della sua pazienza, della sua autostima — il cuore di Chuuya si stringeva in una morsa: era leale e amava la compagnia e non gli piaceva essere abbandonato, e allora? Non erano tratti umani? 
Era un problema essere feriti dopo anni da un ex partner che svaniva nel cuore della notte?
Si fidava di Dazai sul campo di battaglia: gli avrebbe consegnato la propria vita senza batter ciglio e sarebbe saltato ad occhi chiusi da una scogliera sapendo che l’altro l’avrebbe preso ma, proprio perchè lo conosceva, non si fidava di lui in ogni altra cosa.
Dazai non osò provare a scassinare la serratura, eppure Chuuya sospettava che sapesse che non l’aveva mai chiusa a chiave.

 

- - -

 

“Chuuya?” 
Chuuya aveva esitato, incapace di alzare gli occhi. Sentiva il respiro tiepido di Dazai sul viso e una voce gli diceva di chiudere gli occhi e smettere, smettere di pensare, ma era in trappola, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quel sorriso che sembrava scavato nell’acciaio e che sapeva non raggiungere gli occhi dell’ex partner. Non era certo di poter guardare qualcosa che non fossero le sue labbra e domandarsi come potesse esistere qualcosa di così invitante e deludente al tempo stesso.
Lasciò che il suo nome echeggiasse fra loro, una domanda che riempiva lo spazio che Chuuya non aveva più la forza di colmare.
Era un adulto e non aveva intenzione di rimanere fermo il momento in cui Dazai si sarebbe allontanato: un altro capitolo lasciato a metà, chiuso senza degnarsi di ridare le chiavi perchè comunque le avrebbe bruciate o fatte esplodere, o avrebbe trovato un modo di usarle per ferire sè stesso e tutti coloro che tenevano a lui.
“Chibi?” 
Un altro nome fra di loro, sospeso, come se dovessero essere separati da qualcosa: un suono, la distanza, due intere organizzazioni.
“Lascia perdere,” aveva sussurrato Chuuya tirandosi indietro, “se non hai niente da dire, smettila di ripetere il mio nome. Cazzo, mi fai venire i brividi.” 
Il respiro di Dazai e la vicinanza delle labbra che aveva fissato fino ad un secondo prima lasciarono un vuoto gelido nel momento in cui l’uomo obbedì e mosse due passi indietro, distogliendo lo sguardo.
Era così che avevano ripreso ad ignorarsi in quei giorni, sin dal momento in cui Chuuya si era chiuso per primo. Dazai aveva provato, pazientemente ma senza troppo impegno, a fare qualche scherzo ma il suo poco mordente e l’atteggiamento rassegnato avevano infastidito Chuuya, che l’aveva ignorato con ancor più insistenza. 
L’aveva ignorato e avrebbe voluto che fosse più difficile, finché una sera non era esploso.


Doveva succedere.
“Fino a quel momento” non poteva durare per sempre.

Come spesso gli accadeva, Chuuya non dava vita alle peggiori discussioni per qualcosa che lo riguardava direttamente; ma, ehy, sin da ragazzino era sempre stato bravo a prendersi fin troppo a cuore i casi disperati. Per come la vedeva lui, non c’era nulla di fragile come il leggero tremore nella voce di Akutagawa mentre chiamava Dazai, il suo sguardo basso, il broncio più cupo del solito, le sue mani affondate nelle tasche come se stringersi nelle spalle potesse renderlo più piccolo, meno prono ad essere colpito.
Dazai-san. Un nome così semplice da pronunciare, così chiaramente lanciato nel silenzio in attesa, se non di una risposta, di un istante di riconoscimento.
Uno stupido, insulso momento d’attenzione.
Ma Dazai l’aveva guardato, abbassando gli occhi sulla figura tesa e scura del ragazzo che sperava in una risposta e aveva passato quasi distrattamente un braccio sulle spalle di Atsushi, dedicandogli tutta la sua attenzione ed un sorriso luminoso.
Jinko era sobbalzato al contatto.
Chuuya avrebbe sorriso se non avesse notato anche il morale di Akutagawa che cadeva a pezzi.
“Beh, qui abbiamo finito, no?” aveva trillato Dazai. Chuuya aveva stretto i pugni.
“Pessimo lavoro di squadra come sempre, ma ci arriveremo. Ora, Atsushi-kun, è ora di pranzo e qualcuno qui si è meritato del chazuke—”
Jinko aveva protestato ma Dazai aveva riso, sventolando l’ennesima carta di credito non sua (Chuuya si era prontamente tastato le tasche per controllare che quell’idiota non gli avesse sfilato il portafogli mentre era distratto).
Il mondo sembrava pesare ancora un po’ di più sulle spalle di Akutagawa.
Quella sera, Chuuya aveva giurato che non gliel’avrebbe fatta passare perchè era da quando avevano sedici anni che guardava lo spettro di Dazai ingrandirsi in ogni gesto e in ogni silenzio di Akutagawa — di Ryunosuke, per l’amor del cielo, era un ragazzino — ed aveva esaurito la voglia e la pazienza di non dire nulla.


“Oi, spreco di bende, è l’ultimo avvertimento: se non la smetti di trattare Akutagawa come se fosse una pedina ti uccido,” seduto ad una tavola già liberata dalla cena, Chuuya alzò gli occhi sul proprio partner, “e sono serio.”
L’espressione pigra che esitava sulle labbra di Dazai fino ad un secondo prima si piegò all’ingiù, qualsiasi traccia di indulgenza lavata via dalla minaccia. Con un gesto disinvolto smise di asciugare i piatti, posando delicatamente il canovaccio sul bancone per voltarsi.
“Oh? Cos’ho fatto questa volta?” le labbra del detective si curvarono in un accenno di sorriso, ma era distante. “Riguarda oggi?”
“Il ragazzo ci tiene, Dazai. Se vuoi che lavorino insieme prova almeno a fingere di trattarli alla pari.”
Immediatamente, Dazai inclinò il capo di lato come avrebbe fatto un animale incuriosito.
“Non ne ho alcuna intenzione,” rispose.
Aveva gli stessi occhi vuoti e sorpresi di una bambola.
Due pezzi di vetro.
“Sei il peggiore degli stronzi.” lo accusò Chuuya sentendo la sincerità appesantire ogni sillaba, vedendo qualcosa a cui non sapeva dare un nome scintillare dietro la maschera di Dazai.
L’unica emozione autentica ad animarlo, in quel momento, era la sorpresa.
“Come al solito, Chuuya non è molto bravo a spiegarsi.” replicò, puntellando la schiena contro il bancone, “non vedo perchè dovrei trattarli ugualmente. Non lo meritano, e Atsushi ha chiaramente bisogno di più—”
“Jinko ha bisogno esattamente di quello di cui ha bisogno anche Akutagawa, imbecille.”
“Non vedo perchè dovrei mentirgli.”
“Ma sei serio?” abbaiò, sentendo la frustrazione intorpidirlo.
Arahabaki brontolava, da qualche parte nel buio, facendogli sfarfallare davanti agli occhi immagini sanguinolente, modi in cui poteva evitare quella conversazione facendo esplodere la città intera. Infastidito, fece schioccare la lingua. Dazai era un imbecille, ma non meritava di essere polverizzato per la sua inettitudine.
“Non te ne frega davvero niente di un ragazzino che tu hai reso quello che è oggi? Onestamente, mi chiedo come ragioni a volte, perchè sembra che tu non sia mai cresciuto. Mi sembra che tu abbia bisogno di veder morire qualcun altro prima di renderti conto che non sei una brava persona, mackerel.”
Gli occhi dell’uomo si strinsero, due fessure che avevano perso ogni traccia dell’ambrato che Chuuya riconosceva essere merito dell’agenzia e della luce verso cui era stato spinto. In quel momento Dazai restava immobile, i gomiti coperti dalle bende posati sulla superficie liscia della cucina e aveva la sensazione che gli sarebbe potuto saltare alla gola da un momento all’altro.
“Non voglio veder morire nessuno,” sibilò.
Una minaccia ed un invito a stare zitto: Chuuya sapeva che Dazai non poteva sopportare che qualcuno nella mafia nominasse ancora Oda, non dopo quello che Morì aveva fatto e l’intera organizzazione aveva spalleggiato. Sapeva anche che, a volte, il detective credeva di non averne il diritto lui stesso. 
“Allora dovresti rivedere questo tuo atteggiamento da psicopatico, perché prima o poi ti ritroverai con un cadavere fra le braccia,” soppensando le parole si umettó le labbra, “e questa volta sarà colpa tua.”
L’altro lo fissó in silenzio, l’espressione terribile e distante che ricordava gli anni della mafia; gli anni in cui l’unica sfortuna di nemici di Dazai era quella di essere nemici di Dazai. Gli anni in cui era stato una tagliola sempre sul punto di esplodere ed uccidere, e non era mai una fine pulita. 
Tuttavia, Chuuya si strinse nelle spalle. Qualcuno doveva dar voce alla disperazione che spezzava gli occhi di Akutagawa mentre il suo mentore si allontanava per l’ennesima volta, e quel silenzio era la peggiore delle offese.
“Oh, mi spiace che la realizzazione di non essere migliorato di un solo giorno rispetto a quando hai lasciato la mafia ti offenda.”
Non che fosse completamente vero: Dazai era migliorato, nonostante fossero sforzi mirati solo a chi non l’aveva conosciuto prima, ma si sforzava di sorridere di più e soffrire di meno. Tuttavia, Chuuya voleva solo aprirgli la testa per vedere se c’era solo granchio in scatola e ghiaccio e crudeltà. Voleva capire se aveva sperato invano che Akutagawa potesse essere riconosciuto da quell’uomo che pareva non apprezzare nulla.
“Non esagerare, Chuuya.” 
“Oh, ho finito, non preoccuparti. Ma lascia che ti dica una cosa prima, potresti trovarla interessante.”
“Ne dubito,” sussurrò Dazai, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, “ma prego.”
“Non c’è un lato che salva le persone e uno che le uccide: è una cazzata semplicistica di qualcuno che non ha mai capito l'organizzazione, e cambiare lavoro di per sè non ti rende migliore, nonostante la vostra stupida agenzia si fregi di essere questo e quello. Essere dalla parte dei buoni, qualsiasi cosa voglia dire, non ti rende meno una persona di merda se ricadi sempre nelle stesse abitudini e smettere di uccidere non vuol dire niente se continui a ferire senza neanche rendertene conto.”
“Chuuya—

Un nuovo avvertimento, ma Chuuya strinse i pugni.
“No. Quello che fai ora ti rende solo un cazzo di ipocrita, e sono sicuro…” esitó. Era troppo? Probabilmente. Se ne sarebbe pentito? Sicuro. Lo pensava davvero? Ogni parola. “...E sono sicuro che se vedesse che sei lo stesso di sempre, tossico e figlio di puttana, il tuo prezioso Oda Sakunosuke si pentirebbe di aver mai suggerito ad uno come te di avvicinarsi a delle brave persone.”
Senza aspettare che finisse, pallido come un fantasma e altrettanto minaccioso, etereo nelle sue bende e con quegli occhi spenti e la pelle come carta velina, nel momento in cui il nome di Oda aveva riempito la stanza Dazai aveva stretto le labbra ed era uscito dall’appartamento senza dire una parola.

 

Il giorno successivo le loro interazioni non erano andate oltre il 'non mi parlare, Chuuya'.
Dazai si era silenziosamente trasferito nella propria camera, quella che non puliva mai nè si preoccupava di tenere in ordine, e Chuuya aveva inghiottito milioni di mi dispiace perchè no, perchè Dazai non si era mai scusato con Akutagawa.
Chuuya sapeva di aver toccato un nervo scoperto. Vedeva il modo in cui Dazai si guardava le spalle e sobbalzava ogni volta che entrava nella stanza come se si aspettasse qualche altra sberla emotiva e lo fissava con un rancore che non riusciva a mascherare, ma ciò non scusava il dolore che aveva inflitto lui fino a quel momento.
Pochi giorni dopo il detective aveva concordato con Fukuzawa che probabilmente non era una cattiva idea tornare nei dormitori: certo, l’appartamento era più comodo e il fatto che se ne stesse fuori dai piedi permetteva ad Atsushi e Kyouka di avere stanze separate, ma Dazai aveva silenziosamente tirato un sospiro di sollievo.
Stava diventando tutto troppo serio, troppo in fretta.
Le parole di Chuuya lo tormentavano, avevano aperto una slabbratura che bruciava e non ne voleva sapere di chiudersi, ma era difficile convincersi che l’avesse fatto per puro desiderio di ferirlo: lo pensava davvero, ogni singola parola.
E Dazai sentiva la paura immobilizzarlo perchè aveva la sensazione che avessero tenuto il freno tutta la vita sulla loro relazione ed ora si era ridotto ad un pericoloso o tutto o niente, o stare immobili o schiantarsi contro un muro a tutta velocità.

 

Me ne vado, chibi è troppo noioso~
Era ora.

 

Ed era finita così, in non detti che si portavano dietro dall’adolescenza e nuove ferite aperte perché erano degli stupidi e sapevano che sarebbe andata così, ma ci avevano provato comunque. 
Vedi? Avrebbe voluto urlare Chuuya, nonostante una voce serpeggiante gli sussurrasse che era colpa sua. Ti amo, mi dispiace, ti sto allontanando e perchè diavolo me lo stai lasciando fare?
Era tutto intrappolato nella gola dell’executive, ma aveva la sensazione che Dazai non se lo meritasse. A volte assumeva la forma aggressiva di un “ammettilo che mi ami e dillo, spreco di tempo e di spazio” urlato nella sua mente, a volte lo sussurrava ad una stanza vuota. L’unica certezza era che nessuno avrebbe fatto quel passo. Era sempre così: Dazai aveva lasciato perdere e lui lo aveva lasciata andare.
Chuuya lo aveva sempre saputo.
“'Fino a quel momento', hm?” mormorò a sè stesso, accendendosi una sigaretta con un sospiro. “Pare che sia arrivato prima di quanto pensassi.”

 

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Inaspettatamente, fu il lavoro a far piovere una soddisfazione sulla testa dell’executive, oltre che una piacevole distrazione dalla casa improvvisamente vuota e silenziosa: il fu Yamaguchi Gumi, un vecchio gruppo distrutto dalla guerra, aveva artigliato le poche risorse che gli erano rimaste ed aveva iniziato a scavare le fondamenta per il proprio ritorno. Una talpa grassa e cieca, l’aveva definita Mori, intorpidita dagli anni di inattività e dall'ozioso periodo d’oro che aveva vissuto prima del conflitto. Ad ogni modo, era un embrione ancora vivo che andava schiacciato.
Il nuovo clan avrebbe fatto il proprio ingresso sulla scacchiera di Yokohama ad un party in cui non si sarebbero scambiati solo valzer e cocktail occidentali, ma appalti e segreti di stato: la Port Mafia era naturalmente invitata, ma Chuuya non si aspettava certo di essere chiamato a supervisionare la situazione.
Questo finché Kouyou non aprí un armadio gli rivolse un sorriso enigmatico che costrinse il ragazzo a sollevare un sopracciglio. 
“O’nee-San?” 
“Hirotsu-san nei molti anni di servizio ha stabilito buoni collegamenti: presenzierà formalmente mentre tu e Akutagawa rimarrete in incognito.” spiegó la donna, inclinando delicatamente il capo, “capisci la necessità della copertura, non è così?”
“Naturalmente,” mormorò lui, muovendo appena le labbra.
Quel genere di missione riportava a galla vecchie missioni di Soukoku, ma tenere sotto controllo le proprie emozioni era la prima lezione che O’nee-san gli aveva impartito.
“Chuuya,” Kouyou sospirò. Era un suono leggero che gli ricordò un petalo durante la fioritura, ma che mal celava una nota di disappunto, “Cosa vuoi chiedere?”
“Non capisco il motivo di questa missione, O’nee-san.” ammise.
Poteva mandare Gin o Higuchi: dopotutto, entrambe lavoravano bene con Ryunosuke, e il comportamento del ragazzo sembrava più stabile da quando era obbligato a collaborare con Jinko. Non c’era motivo di tirare fuori una vecchia mascherata, il ricordo di una partnership che ora era solo una slavata sfumatura grigio — lo stesso grigio del tulle scintillante che avvolgeva l’ampia gonna dell’abito da sera —, ma broncio di Kouyou gli fece capire di aver posto le domande sbagliate.

“Hirotsu-san sarà sotto sorveglianza e Mori-san intende mettere in campo le pedine migliori.”
“Perchè?”
“Non credere che non abbia provato, ma Mori-san è…incredibilmente poco collaborativo, come sempre,” la donna strinse le labbra, “ti prego di agire secondo le sue richieste, non c’è molto altro che tu possa fare.”
L’executive strinse i pugni e respiró a fondo il profumo di incenso e fiori nella stanza.
O’nee-san lo calmava, l’aveva sempre calmato.
“Se abbiamo già delle informazioni sugli obiettivi posso agire facilmente su di loro.”
Non mi riconosceranno mai, ed ho bisogno di sporcarmi le mani.
Ho bisogno di sentire il sangue, qualcosa che mi ricordi che sono umano e non solo un esperimento e una bomba ad orologeria.
O'nee-san, ti prego...
“Con calma, Chuuya,” mormorò la donna con una risata leggera, “vedremo se si presenterà l’occasione.”
Incapace di contraddirla, Chuuya annuì. La donna aveva pensato che il giovane executive fosse a caccia di gloria offrendosi di annullare tutti i target da solo, ma per lui si trattava di mera sopravvivenza.
In quel momento voleva solo togliersi i guanti e prendere a pugni un sacco da boxe fino ad aprirvi una voragine, fino a che il suono della pelle lacerata e la sabbia che cadeva sul pavimento non fossero l’unica cosa che gli riempiva le orecchie; fino a che il legno di una tavoletta spezzata e l’odore pungente delle nocche insanguinate non avrebbe avvolto qualsiasi altra sensazione in una pellicola, soffocandola. 

“Ah, e Chuuya?”
Chuuya si era voltato con una mano giá posata sul legno della porta scorrevole. Ikebana, cerimonia del tè, trucco, assassinio: Kouyou gli aveva insegnato tutto quello che sapeva per affinare un diamante grezzo, un ragazzino che conosceva solo la forza della gravitá e una responsabilità prematura, ma raramente aveva sentito un tono così dolce da quando era diventato a tutti gli effetti un adulto. 
Kyouka-chan era la destinataria di quella voce, spezzata da una nota di malinconia eppure delicata come una foresta di bambú mossa dal vento.
“O’nee-san?”
“Mi sono arrivate delle voci; puoi fare molto di meglio.”

 

- - -

 

“Kuuunikiiida-kuuun~”
Il cuore di Chuuya perse un battito.
Di nuovo. La loro relazione, qualunque essa fosse, arrivava ad un punto di stallo e di nuovo, di nuovo, se lo trovava davanti con un sorriso. 
Maledizione. 
Lanciando un’occhiata ad Akutagawa, che tossí ma riuscì ugualmente ad annuire, Chuuya pregó che la missione e la credibilità di Hirotsu non venissero intralciate dallo spreco di bende e dal patetico teatrino dell’Agenzia dei detective armati. Dopo un suo cenno Akutagawa sparí nella folla senza dire una parola nè tradire alcuna emozione, l’ombra nera di Rashomon inghiottita da haori colorati e giacche eleganti, da ventagli e vestiti da sera, e Chuuya lo invidiò perchè se non avesse avuto dei maledetti tacchi avrebbe potuto svanire nello stesso modo.
Se.
Prima che potesse seguire il collega, sentí una voce alle proprie spalle: una risata allegra perché quell’idiota sembrava sempre felice di essere ovunque fosse…eccetto quando era con lui, chiaro.
Il giorno peggiore della mia vita, Chuuya, quello in cui ti ho incontrato!
“Non essere scortese, Kunikida! Ah~” Chuuya rabbrividì, riconoscendo il tono, “Signorina! Dovevo saperlo che era il giorno perfetto per un suicidio di coppia, non capita tutti i giorni di vedere una donna così bel—”
Prima di potersi trattenere Chuuya si voltó, caricando un pugno con tutta la forza che aveva in corpo.
Gli occhi di Dazai si spalancarono per un istante prima che l’executive sentisse le nocche schioccare contro la mascella dell’ex partner, facendolo volare all’indietro. Il bianco dei guanti di seta era un bagliore diverso rispetto al solito nero e per un istante Chuuya temette che il colpo fosse scivolato, ma Dazai era finito contro un gruppetto di altri ospiti, mandando a gambe all’aria un cameriere ed un vassoio di tartine. Le persone attorno a loro iniziavano già a sussurrare, e la parola 'rissa' che si alzava tra gli invitati gli si scaricò addosso come una secchiata d'acqua gelida.

Fanculo, la copertura.

Stringendo i denti, l’executive decise rapidamente che era il momento di ritirarsi: aveva vissuto abbastanza con Kouyou da sapere che spesso gli astanti notavano solo quello e che con una pettinatura diversa ed un abito differente sarebbe tornato ad essere solo un’altra bella ragazza nel mezzo della folla. Approfittando della confusione, e di Kunikida che era accorso al fianco del partner, Chuuya sollevò la pesante gonna dell’abito con entrambe le mani e svicoló fra gli sconosciuti, sussurrando alla ricetrasmittente che teneva all’orecchio che avrebbe lasciato la sala principale. Doveva ringraziare O’nee-san per avergli lasciato almeno due cambi d’abito e lenti a contatto.

Era a metà del corridoio, con un vestito azzurro cielo che si apriva a campana attorno a lui e il suono dei tacchi che riverberava nel corridoio, quando una voce nell’orecchio gli geló il sangue nelle vene.
Doveva essere un incubo.
“Chuu~yaaa! Non ti pare di essere troppo violento?”
Istintivamente, Chuuya premette l’indice contro il proprio auricolare, orrore puro che gli scorreva in corpo.
Kuso Dazai?! Che diavolo—“
“Infiltrare la vostra intelligence è un gioco da ragazzi. Akutagawa-kun?”
Non rispondere, lo pregò Chuuya mentalmente.
Sapeva anche che era inutile.
“Dazai-san?” arrivó, come da manuale, seguito da un rumore statico. Chuuya imprecó sottovoce, coperto dalla risata argentina dell'altro.
Sentirla senza vederlo era una tortura, incapace com'era di prevedere da dove sarebbe arrivata la prossima mossa.
“Dovresti essere con Atsushi, giusto?”
“Jinko mi ha raggiunto questo istante.” c’era una nota infastidita nella sua voce, e Chuuya immaginò Akutagawa mentre scrutava Jinko senza alcuna cordialità, “siamo pronti a muoverci verso il target.” 
“Ottimo, ottimo. Magari avrai modo di mostrarmi dei miglioramenti, chi lo sa~”
“Bastardo,” sussurró Chuuya, con il terribile presentimento che sarebbe finito nei guai: gli sembrava di essere solo, ma era difficile ignorare una donna che parlava da sola con una voce da uomo “Che diavolo vuoi fare?”
“Chibi, nello studio del secondo piano sta avvenendo uno scambio di atti di proprietà. Una warehouse a Tokyo, una a Yokohama e una a Kyoto.”
“Hah!?”
Il tono di Dazai si fece più sottile, come se stesse sorridendo contro il microfono e Chuuya masticó un’imprecazione, girando sui tacchi.
“Sai cosa significa, no?”
“Quei figli di puttana, li ammazzo.”
“Potrebbe essere un problema per la città se iniziassero ad espandersi,” chiarificò il detective per il resto degli agenti collegati, con voce flautata. Chuuya sentí un brivido, irritazione e qualcos’altro corrergli lungo la schiena. 
“Giuro che questi bastardi vogliono morire stanotte.”
“Fermo lì~ Hirotsu-san sta gentilmente provvedendo a creare un diversivo mentre Kunikida, Tanizaki e Gin se ne stanno occupando.”
“E allora che cazzo—”
“C’è un terzo membro dell’organizzazione, una sorta di garante: secondo i miei calcoli hai circa dieci minuti. Lo troverai sulla terrazza del primo piano, non sei distante.”
Chuuya sentì un’imprecazione scivolargli fra le labbra. Le memorie del recente litigio sfrigolavano come bruciature di sigaretta sotto il velo di disinteresse che aveva tanto lavorato per creare: anni ed anni ed anni di meditazione ma Dazai arrivava sempre come un terremoto, un piano suicida e nessun rispetto per gli sforzi altrui.
“Ma sei serio?”
“Perchè, Chuu~ya? Non ti fidi dei miei piani~?”
“Quanto di odio.”
“Ottimo, ottimo! Contiamo sulla collaborazione di tutti voi!”
Chuuya si morse l’interno della guancia per non imprecare.
Qualcuno che non riconobbe stava snocciolando nomi e posizioni mentre Atsushi si lanciava ogni pochi minuti in assicurazioni che tutto stesse andando per il verso giusto, seguito dall’eco soffocato delle repliche di Akutagawa. In silenzio, Chuuya pregava solo che la serata finisse in fretta ed ognuno andasse per la propria strada: Jinko ed Akutagawa sarebbero potuti andarsene a casa insieme, a quel punto, non gli interessava.

Avrebbe voluto prendere a calci il muro, sentire la gravità che polverizzava il pavimento e piegava il legno ad ogni passo. Sarebbe stato un peccato distruggere una così bella villa, ma non era nella natura della bellezza esistere nonostante la bruttezza dell’essere umano? Notare l’eleganza dello spazio attorno a sè era come alzare gli occhi e ammirare una nevicata su un incendio: inevitabile, un miraggio degno d’attenzione per un momento ma inutile e, francamente, anche piuttosto ridicolo.
Ridicolo come il fatto che cinque executive e svariati luogotenenti stessero ancora pendendo come burattini dai fili tirati da un traditore.
“Chibi, non farti notare come al solito. Sento le vibrazioni da qui, non vorrai distruggere il palazzo e permettere a tutti i cattivi di scappare, nee?”
La voce di Dazai era bassa, le fusa di un gatto, e Chuuya avrebbe voluto prendergli il volto fra le mani e schiacciarlo contro il muro più vicino.
“Pensa alla missione, mackerel.”
“Non vorrai ripetere Fukuoka? Devo venirti a salvare?”
“A Fukuoka stava andando tutto benissimo!”
“Hm-hm~” aveva mormorato Dazai, allegramente “cerca di non prendere iniziative questa volta, chibikko-chan.
“Cretino! Sei tu che—”
“Voi due, smettetela di dire cose che nessuno capisce.”
“Siiii Kunikida~”
“Oi, quattrocchi, tu e la vostra stupida agenzia non dovreste nemmeno essere qui, non dirmi cosa devo fare.”
Un silenzio attonito lo avvolse dall’altra parte della trasmittente, prima che l’ululato di Kunikida lo colpisse così forte che Akutagawa, da qualche parte al secondo piano, aveva ceduto all’istinto di strapparsi di dosso quell’affare infernale. In sottofondo l’executive sentì un soffocato, “Jinko, tieni tu quello stupido aggeggio e facciamola finita”.
“Come mi hai chiamato, Nakahara!?”
“Cosa, stupida agenzia? Quattrocchi?” un sogghigno animale gli distese le labbra, miele che colava da ogni offesa, “mi spiace di aver toccato un tasto dolente, Mr quattr’occhi dell’inutile Agenzia degli stupidi Detective Armati, non riuscite neanche a stare dietro a quello spreco di bende perché non intralci il lavoro altrui.”
“Nakahara—” 
La voce di Kunikida era animata da una nota minacciosa, una promessa di regolare i conti al di fuori della situazione che strappò un sogghigno a Chuuya.
“Cosa, la stupida inutile Agenzia è suscettibile?”
“Neh, neh, Chuu~ya?”
“Stanne fuori, Dazai.” sbottó Kunikida con la voce ancora tremante d’ira. Chuuya sentí un moto di rabbia rimestargli lo stomaco al trillo d’assenso di Dazai. 
Vaffanculo.
O’nee-san aveva scelto un vestito troppo stretto, stava soffocando. 
La terrazza era due corridoi più in là, ce la poteva fare.
“Aaaaa, non maltrattare il tuo collega preferito, Kunikida-kuuu~n!”
“Vuoi smetterla con i giochetti, spreco di bende?” gli ringhiò Kunikida, e Chuuya giurò di sentire Jinko sospirare, “il minimo che dovevi fare era avvertirmi!”
Sicuro, continua a sperarci.
“Ma Kunikida-kun mi avrebbe strangolato~”
“Te lo saresti meritato!”
“Non voglio morire per mano di una persona che ama il suo quaderno più del proprio partner!” 
“Come se facessi qualcosa per meritarlo, ipocrita!”
“Sí, kuso Dazai, ascolta il tuo nuovo partner,” sibiló.
Gli scivoló fuori dalle labbra carico di rancore prima di poter ricordare che Dazai era un mostro e che erano letteralmente in streaming. Prima di pensare, prima di modulare la voce così da non sembrare una ragazzina gelosa, prima di farlo suonare vagamente dignitoso.
Pessimo tempismo.
Pessima serata.
Chuuya sentí la bolla di silenzio gonfiarsi attorno a lui — fu scoppiata da Dazai e poteva giurare che stesse sogghignando per la vittoria che gli aveva strappato.
“Chuuya, sei geloso?”
Senza pensarci due volte Chuuya spense la trasmittente e si affrettò oltre la porta a vetri che dava sulla terrazza. Se quell’idiota di Dazai voleva comunicare il suo stupido piano avrebbe trovato il modo, altrimenti si sarebbe arrangiato perché come al solito era solo colpa sua.
Era stata colpa sua sin dall’inizio.

 

Dopo Fukuoka, Mori aveva imposto a Dazai di non sovraccaricare Chuuya: non potevano rischiare la distruzione di una città perché qualcosa andava storto.
“Chuuya può utilizzare il suo potere liberamente,” aveva replicato Dazai, chiudendosi nel cappotto nero che teneva drappeggiato sulle spalle “è la sua vita ed è sempre una sua decisione.”
Come se avessi scelta, quando ti fai catturare ogni volta senza nemmeno avvertirmi.
“Sta diventando troppo frequente, Dazai-kun. Impegnati a trovare delle alternative.”
Tu e i tuoi stupidi piani.
“Se Chibikko si impegnasse di più—”
Vaffanculo; sei un serpente, altro che un pesce.
Sgombro dell’accidenti.
“La vostra vita non è spendibile, Dazai-kun, speravo l’avessi capito.”
Non voglio morire. Non come te, non con te. 
“Sí, boss.”
Il pugno aveva colpito la parete accanto al suo letto prima che potesse pensare e fermarsi ed il dolore partito dalle nocche era esploso dietro la sua visuale, bianco e rosso e fiammeggiante. Ricordava l’intonaco scheggiato, il silenzio, il vago sorriso di Mori.
“Vuoi dire qualcosa, Chuuya-kun?”
“Arahabaki è al servizio della Port Mafia,” un nodo gli stringeva la gola. Sei fortunato, hai il dovere di proteggerci, non hai diritto di rifiutare. “Non ho intenzione di privare l’organizzazione di questo vantaggio.”
Quello che voleva dire era che la sua vita non avrebbe avuto altrettanto valore altrimenti perchè non sarebbe stato che un’arma mutilata abbandonata per paura, ma non ne aveva avuto il coraggio. 
Non aveva intenzione di dare a Dazai l’ennesimo motivo per prendersi gioco di lui.

 

Usare la parte corrotta del proprio potere dopo quattro anni era stato come sfondare a testate una diga piena d’olio bollente, ma Chuuya non aveva il diritto di lamentarsi: tutto quello a cui riusciva a pensare in quel momento era come la terrazza che dava sul giardino all’occidentale, ornata di vasi di camelie e illuminata da lampade bianche, gli ricordasse bizzarramente la casa da tè di Fukuoka.
Dazai non l’aveva lasciato in pace per mesi —Chuuya, Yacchin, versami il sakè! Ti dona il ruolo di ragazzina ricca! — e un sedicenne Chuuya aveva perso velocemente la pazienza. Nessuno aveva previsto che il sakè fosse drogato: a Fukuoka, Chuuya aveva ringraziato Dazai per la prima volta. Era tenuto a salvarlo dai proiettili, dalla sua abilità, da sè stesso ma non da quello, non dai rischi di essere sotto l’ala protettrice di O’nee-san.
Come Dazai aveva previsto, un uomo in giacca e cravatta fumava mollemente appoggiato alla balaustra in marmo: i corti capelli neri, la nuca pallida, le spalle ossute, il braccio piegato a sostenere una sigaretta le uniche cose che Chuuya riusciva a vedere. 
Deglutì a vuoto e mosse il primo passo nella sua direzione.
Con lo stomaco stretto, l’executive indossò il proprio miglior sorriso appoggiandosi al marmo; il rossetto aveva lo stesso sapore cipriato di sempre, ma quella sera era coperto dall’odore della nicotina.
Il marmo era freddo sotto i guanti di seta. Una villa degna di un re, peccato appartenesse ormai ad un cadavere.
“È una bella serata.”
Non era una domanda e Chuuya voltò il capo leggermente, ciocche di capelli rossi che gli sfioravano gli zigomi affusolati.

Uomini del genere avevano in mente una sola cosa.
Uomini del genere morivano facilmente.

“Questo genere di eventi sono sempre una noia mortale,” replicò. 
L’uomo gli sorrise.
Troppo facile, mortalmente noioso.
“Accompagna qualcuno, signorina?”
Poteva quasi sentire la tensione emanata dal corpo altrui, la percepiva come un animale anticipava una tempesta: se fosse stato più giovane, meno smaliziato e con meno sangue sulla coscienza, forse avrebbe avuto voglia di vomitare.
Mosse un passo verso l’uomo, tendendo la mano coperta dal guanto e sorrise quando gli offrì la sigaretta.

Uomini del genere non se ne accorgevano nemmeno ed erano già morti.

“Una cosa del genere.” 

 

- - -

 

Pulire la lama del coltello sull’orlo interno del vestito di O’nee-San, una rosa cremisi in bella vista eppure nascosta, risvegliava in Chuuya una scarica di adrenalina alla bocca dello stomaco. Era sfuggire alla polizia quando aveva quindici anni, quando ancora l’incapacità delle forze pubbliche lo illudeva di essere veloce, era meglio di una bottiglia di vino costosa, meglio di uno sconosciuto in un bar che lo spingeva in una stradina buia quando nessuno poteva vedere. Era la prova di un’abilità superiore, di adattamento, di fare necessità virtù. 
L’animo umano era facilmente malleabile, corruttibile, ed ingannarlo era un gioco da ragazzi.
Tuttavia, il singolo suono di qualcuno che entrava nella terrazza fu sufficiente per derubare l'executive anche di quella piccola soddisfazione personale. 
“Ho cercato di assicurarmi che fosse andato tutto bene, ma come volevasi dimostrare sei inaffidabile.”
Sbuffò, lasciando cadere l’orlo della gonna pesantemente.
“Cosa stai insinuando, kuso Dazai?”
“Se petit mafia avesse tenuto la trasmittente non sarei dovuto venire fino a qui di persona.”
Dazai sorrideva con uno sbaffo di sangue sulla guancia. Prima di chiedere Chuuya si morse il labbro inferiore: non sembrava ferito e, nonostante ciò, il suo cuore aveva iniziato a correre all’impazzata.
“È colpa tua. Sei sempre insopportabile.”
Dazai ridacchiò, affondando le mani nelle tasche dell’impermeabile. 
“Atsushi e Akutagawa si sono occupati del target principale. Confido di poterti affidare la pulizia di questo,” lanciò un’occhiata eloquente al corpo riverso a terra, “prima di andare.”
Con uno sbuffo, Chuuya si strinse nelle spalle.
“Ovviamente, per chi mi hai preso?”
“Ottimo.”
Giurò di sentire una nota condiscendente, ma strinse i pugni prima di poter colpire quell'idiota di nuovo quando ancora sentiva le nocche formicolare dal pugno nella sala principale. C’era un numero massimo di volte in cui Dazai poteva tradirlo e disattendere le sue aspettative? C’era un limite alle volte il cui il cuore di Chuuya poteva essere strizzato e calpestato come uno straccio?
“Non pensavo usassi ancora questo vecchio trucco,” commentò Dazai, la voce priva di qualsiasi serietà.
“Non è che un trucco diventa vecchio quando tu te ne vai, brutto imbecille. Se funziona…”
“Ah, quindi chibi sa di essere una bella donna~”
“Non ho mai detto una cosa del genere!” sbraitò, sentendo lo stomaco fargli un tuffo alle caviglie nel momento in cui gli veniva ricordato il trucco, e il vestito, e i tacchi e il profumo costoso. 
La risata di Dazai era come un abbraccio, ma aveva le spine della presa in giro in sè oltre al gelo delle accuse che Chuuya gli aveva rivolto.
“Va’ all’inferno da dove sei venuto, vagabondo. La tua presenza porta solo problemi.”
“Me ne stavo andando,” assicurò Dazai, il sorriso cristallizzato sulle labbra che non gli raggiungeva gli occhi.
Non vedeva l’ora di andarsene, ancora una volta.
Non aveva avuto rimorsi, ma non ne aveva mai avuti quindi perché si stupiva ancora?
Chuuya annuì.
“Era ora.”

Dí, smetterai mai di lasciare che questo bastardo si prenda gioco di te? 

Odiava molte cose, in quei giorni. Odiava il senso di responsabilità. Odiava la solitudine.
Odiava sè stesso per l’apparizione di Dazai, per averlo ferito e per il modo in cui l'ex partner lo guardava; odiava come si era voltato un’ultima volta prima di sparire oltre il vetro che separava la casa dalla terrazza, occhi castani che lo sfidavano a fermarlo.
Si odiava perchè sapevano entrambi che non l'avrebbe fatto.

 



 

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Capitolo 6
*** Epilogue ***


Epilogue
-

Tsubaki petals on the Balcony

 

Wait for me to come home

 

 

 

I mesi si erano susseguiti in un fiume di avvenimenti sempre uguali, una patina di insensatezza che avvolgeva la routine quotidiana e la privava della luce nella sfiancante imitazione di un prisma che agiva al contrario.
In quel periodo Higuchi era rimasta ferita durante una missione ed era stato il volto conosciuto di Yosano che gli aveva rivolto un cenno quando l’uomo era entrato nell’infermeria privata della Port Mafia. La dottoressa dell'Agenzia dei Detective Armati al capezzale della giovane donna gli aveva stretto lo stomaco in una morsa. L'executive aveva soppresso a malapena un ringhio riconoscendo quanto le barriere fra tutti loro si stessero assottigliando, ma Mori vegliava al fianco di Higuchi con le mani affondate nelle tasche del camice bianco, mentre Elise aggrappata alla sua gamba spiava in punta di piedi ogni movimento di Yosano Akiko, e Chuuya si morse l'interno della guancia senza commenti.
Non che tutti gli sforzi congiunti delle organizzazioni di Yokohama fossero negativi: no, per lo più era una catena di successi. I membri corrotti della Dieta erano stati scoperti e neutralizzati da Edogawa mentre Akutagawa e Jinko si erano occupati insieme di un serial killer dotato di abilità, consegnandolo nelle mani di Sakaguchi Ango con tutta la fanfara del caso.
Grazie a loro, tutti loro, Yokohama era una città un po’ più sicura ed un po’ meno sporca.
Nel frattempo Eyes of God e Fitzgerald vegliavano sulla sicurezza privata e pubblica come una divinità benevola (con un debole per gli sconti sui casalinghi), con il benestare della polizia e del governo. Nel frattempo Yumeno, il vero Dio della morte, giocava con una bambola innocua lamentandosi ma lasciando che “Dazai-nii” vegliasse sull’oggetto di pezza che, altrimenti, avrebbe attirato una carneficina su tutti loro.
A dispetto delle differenze anche Akutagawa e Jinko continuavano a lavorare insieme.
Giorno dopo giorno, a volte seguiti da Kyouka e altre tallonati dall'occhio vigile di Higuchi, miglioravano e familiarizzavano l'uno con i ritmi dell'altro: Chuuya, prendendo silenziosamente esempio da come i due avevano iniziato a non protestare, aveva a propria volta smesso di prendere sul personale le volte in cui si era trovato a sedere ad un tavolo di fronte a Dazai, Kunikida e il loro presidente. Mori insisteva che fosse presente ed aveva la sensazione che O'nee-san l'avrebbe sventrato come un pesce se si fosse azzardato a rifiutare, dunque Chuuya aveva preso un pesante sospiro, indossato il miglior paio di guanti neri che possedeva e aveva fatto pace con l'idea di vedere non solo Dazai, ma anche la stupida Agenzia di smidollati a cui si era affiliato.
Una sola volta non era riuscito a mantenere la maschera annoiata di fronte all'agenzia.
Una sola volta era sobbalzato.
Una sola, ed era dovuto alla mezza luna del sorriso di Kyoyou, scarlatta come il kimono che indossava.

“Chuuya-kun, non dovresti distrarti.”
Se glielo avesse detto chiunque altro l'executive avrebbe replicato con un insulto, ma meccanicamente drizzò le spalle ed annuì. Kunikida lo guardava con le labbra strette, gli occhi castani che scintillavano pericolosamente dietro gli occhiali come se avesse calpestato qualcosa di molto importante con la sua disattenzione: Chuuya era piuttosto sicuro di aver rovinato la sua tabella di marcia, quella che conosceva grazie ai ricordi di Dazai. Il ricordo gli strinse lo stomaco in una morsa.
“Non so neanche perché chibikko sia qui, non aiuta nemmeno~”
“Via, Dazai-kun, non essere ingenuo,” replicò Mori, le labbra incurvate in un sorriso, “È bene che impari. Dopotutto, un giorno sarà Chuuya-kun a sedere su questa sedia.”
Chuuya per poco non si era soffocato con la propria saliva, sentendo improvvisamente ogni funzione del proprio corpo bloccarsi. 
Cosa.
Sbattendo le palpebre, cercò convulsamente lo sguardo di Dazai e, un istante dopo, gli occhi di Kouyou nel tentativo di leggervi un commento, una risposta, un cenno inesistente di sorpresa. Era una dichiarazione ufficiale, quella? O’nee-San aveva lavorato tutto quel tempo a una scalata sociale per lui, così da lasciarla libera di agire nell’ombra? Dopotutto, tutti sapevano che Chuuya era già stato un leader — e com’era finita, andiamo, chi voleva prendere in giro?
Con una protesta già in gola e le mani improvvisamente sudate nonostante le dita gelide, Chuuya affondò i denti nelle labbra. Il ragazzo avrebbe voluto sotterrarsi e lavarsi di dosso gli occhi argentati di Fukuzawa, avrebbe voluto non sentirsi come se Mori gli avesse appena appiccicato un target sulla fronte perchè non era quello il momento nè il modo nè il pubblico per una dichiarazione, eppure era troppo tardi per rimangiarsi ciò che era stato detto.
Dazai gli aveva tirato un calcio da sotto il tavolo e Chuuya era rimasto zitto.

A parte quel singolo incidente, tutte le altre riunioni si erano susseguite in tranquillità. Naturalmente Dazai, essendo lo spreco di bende che era, non poteva certamente ignorare una tale possibilità di rigirare il coltello nella piaga.
Con una sola frase il boss aveva servito all'ex discepolo tutto ciò per cui Chuuya sentiva di non essere ancora pronto — leadership, la fiducia altrui, il peso dell'eredità di Mori — perchè ci giocasse a proprio piacimento, liberando la crudeltà dell'ex Demone Prodigio della mafia come avrebbe fatto con una bestia che aveva per troppo tempo annusato il sangue senza poterlo mai assaggiare, flirtando con l'idea della preda finchè non vedevano altro che rosso.
Chuuya non si era mai aspettato pietà. Non da Dazai, non quando poteva infastidirlo, non quando Chuuya l'aveva ferito così a fondo che non potevano guardarsi negli occhi senza che uno dei due fingesse di non aver notato l’altro.

 

From: Mackerel

Ah, congratulazioni Chibikko!
Come ci si sente ad essere la seconda scelta? ( ̄▽ ̄)


Visualizzato.
Non risposto.

Chuuya sperava fosse un vaffanculo abbastanza eloquente da abbattere le barriere e dall’esecuzione abbastanza nuova, nella replica perfettamente sincronizzata della loro routine, da catturare l’attenzione dell'ex partner.
Era la seconda scelta in Soukoku, quella che era rimasta? Non ne era sicuro, nonostante Mori avesse insinuato in passato la possibilità di essere assassinato da Dazai, e non gli interessava. Non era quello il vuoto che non voleva saperne di essere colmato né di sparire una volta per tutte, non era una promozione di cui sentiva la mancanza.
Yokohama aveva continuato ad essere una città migliore, una città più tranquilla. Francis aveva continuato a vegliare su di loro, le riunioni con Fukuzawa, Kunikida e Dazai si erano susseguite, Ranpo era un fastidioso aiuto alla polizia locale.
Andava tutto bene.
Naturalmente, nessuno si illudeva che 'tutto bene' sarebbe durato a lungo.

 

- - -

Quel mattino di febbraio lo scricchiolio del ghiaccio sui marciapiedi era l’unico suono in tutta Yokohama. Ango, quel quattrocchi maledetto che ancora accumulava favori con lui, li aveva avvertiti che l'evasione di Dostoevsky non era una ritirata quanto piuttosto il preludio di un tornado, di una pioggia di sangue e morte come mai si era visto in precedenza. Fukuzawa aveva assicurato che l’Agenzia aveva tutto sotto controllo.
Certo, sbottò fra sè e sè Chuuya, mordendo il tessuto morbido dei guanti per sfilarseli, punta dopo punta, rivelando la carnagione pallida sotto il velo nero, tutto sotto controllo un accidenti.
Come aveva previsto, quell’assicurazione e la disgustosa auto-convinzione dell'Agenzia aveva portato ad una bomba, a decine di civili coinvolti e all’intero squadrone di Chuuya e a buona parte delle forze di Black Lizard dispersi sotto macerie che puzzavano di gas, chissà dove in un edificio che si era accartocciato su se stesso come un modellino di cartapesta. Yokohama era un castello di carte e quel ratto bastardo portava la tempesta ma, finchè erano mafiosi quelli schiacciati da pezzi d'asfalto e ferro, andava bene.
Finchè erano mafiosi, i preziosi ideali di Kunikida Doppo erano salvi, Dazai riposava con la sicurezza che qualche pedina dal lato 'cattivo' era stata schiacciata e la sensibilità del governo rimaneva intoccata. Chuuya strinse i denti, perchè erano mafiosi ed erano suoi amici e avrebbe stilato decine di rapporti su di loro, quella sera, su ogni corpo mai trovato e su ogni cadavere da riconsegnare alle famiglie: un dossier di morte e d'onore che l'Agenzia era troppo ipocrita per riconoscere.
Così, iniziava la guerra — l’ennesima — con il rombo della gravità che piegava e crepava l'asfalto attorno alle armate della Port Mafia.
Quella mattina il freddo condensava il respiro in nuvole bianche e le ostilità erano di nuovo cessate fra le due organizzazioni.
Ranpo aveva gli occhiali calati sul naso, mentre Akutagawa vegliava il fianco di Jinko come se si stesse incaricando personalmente della sicurezza del ragazzo. Kyouka li osservava con il cellulare in mano, una bambina dal kimono sporco di sangue, defilata e impassibile con il fantasma di Demone Biancaneve che le svettava alle spalle.

"Un giorno, Chuuya-kun si siederà su questa sedia," echeggiavano le parole di Mori nella sua mente, in una riunione solo qualche settimana prima, "e sa benissimo che essere leader significa essere schiavo dell’organizzazione di cui è a capo. La sua opinione conta e voglio sapere cosa ne pensa."

Doveva davvero smetterla di gettare quell'argomento nella conversazione come se interessasse a qualcuno, ma Chuuya aveva stretto le spalle e finto di non aver sentito.
"Chuuya non saprebbe gestire una classe all’asilo," aveva replicato Dazai, stringendosi nelle spalle e, maledizione, non era nemmeno certo di potergli dare torto: non era stato il più brillante dei leader in passato e, nonostante sperasse di aver trovato un equilibrio in quegli anni, O’nee-san non poteva aver tentato di prepararlo a tornare ad essere un capo su cui poteva pesare l'intera organizzazione.
Era un’arma segreta, un ottimo executive ed un buon sottoposto; non un leader supremo.
"Se non fossi stato così gentile da reclutarlo per noi, Dazai-kun, Chuuya-kun sarebbe ancora a capo della sua fazione," aveva assicurato Mori, "e ti prego di non fraintendere, nessuno ha chiesto la tua opinione."
Ma Dazai non aveva certo smesso di dare la propria opinione (ugh) e alla fine avevano tutti finito per seguire il suo piano, come sempre.

In quel mattino di febbraio in cui l'ombra di Dostoevsky era tornata ad adombrare la città, Kunikida fissava gli executive della Port Mafia dal fianco di Dazai e del ragazzino con il cappello, con l’espressione familiare e disgustata di chi ha visto un Rashomon, una bomba limone ed un mafioso di troppo. Chuuya gli aveva rivolto un ghigno sfrontato, concentrato piuttosto nel trovare una risposta efficace per la tempesta che li avrebbe travolti.
Le rovine fumanti del palazzo, lo scheletro di cemento e ferro si sposavano in maniera bizzarra con gli occhi di Elise, gemme rosse scintillanti d'aspettativa, e con il camice bianco di Mori: con Fukuzawa accanto a lui, una silenziosa visione con la spada al fianco e le mani nascoste nel kimono, sembrava il preludio della fine del mondo, e Chuuya poteva percepire l'elettricità nell'aria. Erano centinaia di spilli che gli pungevano la pelle, scariche elettriche che gli correvano lungo la schiena.
Comincia; sta per iniziare.
Manca poco.
“Ratti,” flautò Mori, “chi l'avrebbe mai detto? Neanche il veleno di quegli incompetenti del governo li uccide.”
“Che seccatura,” era stata la risposta di Akutagawa prima di portarsi una mano al volto per coprire un colpo di tosse. Gli occhi cangianti di Jinko seguivano ogni suo movimento e Chuuya giurò di leggervi apprensione, ma doveva ammettere che Nakajima Atsushi sembrava un ragazzino che si preoccupava facilmente.
“Le cose si stanno mettendo male,” continuò Mori. Si stava massaggiando le tempie, la voce carica di preoccupazione fasulla sporcata da una punta di divertimento, “non credi anche tu, Fukuzawa-dono?”
Gli occhi di Fukuzawa li scrutarono, uno ad uno.
Chuuya sostenne lo sguardo in onore della sua squadra scomparsa, stringendo i pugni scoperti e scoprendo i denti come una bestia alla catena — non esattamente al Presidente dell'Agenzia in sè, ma a quello che rappresentava. Kunikida fece scattare il cane della pistola in un veemente invito a tenere per sè le animosità e l'executive giurò a se stesso che prima o poi gliel'avrebbe fatto ingoiare, quel suo quaderno dell'accidenti.
Fukuzawa, al contrario, non sembrava stupito quando tornò a rivolgersi a Mori.
“Non ricordo un giorno in cui scarse possibilità di vittoria ti ha impedito di tentare, Mori-sensei.”
“Giusto, giusto. Sarebbe un peccato.”
L'uomo annuì, il volto tagliato a metà dal sorriso estasiato di chi non è disposto a perdere — né la vita, né il controllo sulla città e sulla Mafia. L'attenzione del Presidente si mosse verso Ranpo, istintivamente, che rispose accennando in direzione di Dazai.
“Abbiamo un piano.”
Kunikida alzò gli occhi al cielo.
“Moriremo tutti?”
“Non se va tutto come previsto,” replicò Dazai, allegramente.
Lo spreco di bende, la metà sanguinosa di Soukoku, il Demone Prodigio: alla fine era lui, era sempre lui. Gli aveva rivolto un sorriso, il volto ammorbidito da una gentilezza che Chuuya non aveva visto dal giorno in cui le strade si erano divise per l'ennesima volta.
Idiota di uno sgombro, non c'era nulla da ridere.
“Chuuya, te la senti?”

Era andato tutto bene fino a quel giorno, ma “fino a quel giorno” non voleva dire nulla perché nulla andava mai bene per sempre, non a Yokohama.
Eppure Dazai continuava a chiedergli se se la sentisse di mettere la propria vita in prima linea ed aver fiducia in lui pur sapendo che non aveva scelta, e Chuuya continuava ad annuire.

 

- - -

Dazai Osamu non si considerava un individuo pessimista.
Non era certo colpa sua se il mondo era così palesemente marcio, se la sua mente si ostinava a vedere la deprimente immagine di un guscio vuoto dove chiunque altro sovrapponeva la menzogna di uno scrigno di colori, un dagherrotipo di un’esistenza felice.
No, Dazai Osamu era un realista. I calcoli e le previsioni erano qualcosa che conosceva così bene da poterne descrivere il sapore ogni qualvolta gli eventi si srotolavano davanti ai suoi occhi in una sequenza già vista; poteva tracciare il futuro sulle linee invisibili di un tavolo di metallo e raccontarlo in un codice morse trasmesso attraverso i battiti del suo cuore. Vedeva nella trama di Yokohama, una città di luce punteggiata d'anime troppo corrotte per essere portate in salvo.
A volte, Dazai guardava il buio e credeva di riuscire a cogliere la figura di Dostoevsky.
Quello che non aveva previsto era di trovarsi a sedere sulle poltrone che odoravano di polvere della sala d’aspetto della clinica interna alla Port Mafia. La moquette scura, la luce intrappolata fuori da pesanti tendaggi rossi e lo stagnante profumo di fiori e sigarette (Dazai l’aveva sempre imputato ad un tentativo di Mori di coprire il ricordo dell’odore chimico nella sua vecchia clinica) facevano sembrare l’ala riservata all’ospedale un obitorio, un luogo dove riposare per sempre piuttosto che riprendersi in fretta: a Dazai non era mai dispiaciuto prima.
Non vi aveva mai fatto caso prima di dover aspettare passandosi una mano fra i capelli, pentendosi ogni minuto perchè un mazzo di fiori avrebbe dovuto riposare sulle sue ginocchia e invece aveva preferito non portare niente.

‘Sia mai che Chuuya si faccia l’idea sbagliata.'

In tutta onestà si era fermato di fronte ad un negozio, sfiorandosi il mento con dita distratte nel momento in cui i suoi occhi si erano posati sulle camelie rosse, ma un brivido lungo la schiena ed un senso di vuoto, il mondo che tornava ad essere bianco e nero gli aveva ricordato che non era ancora pronto e che un gesto del genere l’avrebbe fatto sentire più vulnerabile di quanto potesse accettare.
Dazai, che si fidava dei numeri, delle previsioni, aveva sbagliato. 

Era per quello che si trovava a dover visitare una stanza d’ospedale: un minuto troppo tardi perchè lo stato Corrotto dell’abilità di Chuuya non lasciasse alcun tipo di danno fisico, un minuto prima che quegli stessi danni risultassero permanenti. Poteva andare peggio, l’aveva rassicurato Mori; il gelido disappunto di Kouyou gli aveva ricordato che un minuto troppo tardi era sufficiente.
Aveva perso il conto del tempo che aveva passato a battere il piede per terra e a cambiare posa sulla sedia perchè le sue gambe sembravano improvvisamente troppo lunghe per qualsiasi posizione comoda. Aveva lanciato più occhiate alla porta di quante fosse disposto ad ammettere, chiedendosi se non facesse ancora in tempo a correre a comprare quelle maledette camelie perchè sì, chibikko se le era meritate, ma ciò non aveva mutato il silenzio della sala d’aspetto, ammorbidito solo dal parlare che proveniva dalla stanza di Chuuya.
Yosano era uscita ormai un’ora prima, scoccando un sorriso al collega.
“Qualcuno qui è in vena di aspettare, hm?” l’aveva punzecchiato, drappeggiandosi il camice bianco sul braccio. Cerchi violacei le appesantivano gli occhi, il rossetto era scomparso e il mascara si era raggrumato sulle ciglia.
“C’è ancora molto?”
“Stanno terminando gli ultimi accertamenti,” la donna si umettò le labbra, indecisione scritta in ogni pausa, “Non è mai chiaro come il corpo umano reagisca a questo tipo di abilità e a questo tipo di danni. Mori vuole essere sicuro di non aver compromesso Nakahara.”
“Possiamo dargli torto?” flautò Dazai.
Lo stomaco non gli era crollato alle caviglie, doveva essere solo una bizzarra coincidenza.
“No, non esattamente. Dazai-kun, non credo che sarà una cosa veloce; possiamo tornare all’agenzia, verremo aggiornati quando sarà il momento.”
“Yosano-san è così diligente~ Ma credo che rimarrò, Kunikida-kun mi sotterrerebbe di documenti se dovessi tornare troppo presto~” aveva replicato, con un broncio leggero e fingendo di non notare i segni della stanchezza ovvi sul volto del medico, “e Mori-san deve aver investito in delle poltrone più comode.”
“Rubagliele. Ruba a quel bastardo di Mori tutto quello che puoi.”
A quel punto, sulle labbra di Dazai si era dipinto un ghigno gemello. Non era esattamente una minaccia, ma era anche certo che Yosano si riferisse a qualcosa che trascendeva lo stupido furto di un oggetto d’arredo.
“Con piacere,” aveva risposto, allegramente.
Ma c’era poco da stare allegri, quando un’ora era passata e nessuno si era ancora degnato di fargli sapere come stessero le cose, quanto si dovesse sentire responsabile. Akutagawa era comparso, preceduto da un leggero colpo di tosse, ma Dazai gli aveva sorriso e assicurato che Chuuya era in ottime mani. Non era certo se il giovane fosse più sorpreso dal leggero sorriso che l’ex mentore gli aveva rivolto, e che aveva tinto il suo viso di un bizzarro tono di rosso, o per il fatto che un traditore agisse indisturbato nel bel mezzo degli edifici della Port Mafia, ma Dazai aveva immaginato che la gentilezza lo allontanasse più velocemente di una minaccia.
Akutagawa non era stato l’unico, però, ad avvicinarsi. Dazai aveva avuto un gran daffare ad allontanare il viavai di amici e sottoposti, tutti con un mazzo di fiori o l’occasionale pacchetto di cioccolatini, che erano corsi a sincerarsi delle condizioni dell’executive.
Chuuya era popolare, lo era sempre stato.
La domanda era come potesse non esserlo, con quel viso e quegli occhi azzurri e la mania di uscire a bere con chiunque, di essere protettivo e gentile e disponibile ad ascoltare i problemi dei sottoposti che definiva, indiscriminatamente, scioccamente, amici: una mamma chioccia alla perenne ricerca di una famiglia.
Dazai sospirò, più frustrato di quanto avrebbe mai immaginato, quando dei passi alle sue spalle e una leggera scia di profumo costoso lo fecero sobbalzare. Tachihara aveva iniziato ad utilizzare lo stesso shampoo di Chuuya qualche mese dopo essere stato reclutato nella Port Mafia e, da allora, qualsiasi cambiamento in Chuuya aveva trovato un’azione speculare in Tachihara.
Il detective strinse le labbra.
“Bizzarro vederti qui.”
Anche senza voltarsi poteva immaginare la mascella dell’uomo irrigidirsi di fronte al tono leggero, come se tutto quel miele potesse celare il veleno di quello che Dazai avrebbe davvero voluto dire.
“Potrei dire la stessa cosa."
Tachihara sospirò, prendendo posto in una delle poltrone libere, e Dazai gli lanciò un’occhiata laterale.
“Se hai qualcosa da dire a Chuuya, puoi aspettare? Credo che solo i padroni possano vedere per primi il proprio cane quando lo portano dal veterinario~”
“Non è molto cortese riferirsi a Chuuya-san come ad un cane.”
“Oh? Tachihara, non ti ho mai sentito rispondere ad un superiore in maniera così diretta. Immagino che anche tu sia cresciuto, hm~?”
Un’occhiata affilata, Tachihara che storceva il naso.
“Con tutto il rispetto, non credo si possa più parlare di superiore a questo punto.”
Con un tch infastidio, Dazai scosse la testa. Tachihara teneva fra le mani un bouquet di fiori freschi— rose rosse, per l’amor del cielo — avvolti in carta decorata, e Dazai si impedì di sobbalzare alla vista di qualcosa di così prevedibile e volgare.

Chuuya lo apprezzerebbe.

Per un secondo, si chiese se fosse davvero la prima volta che Tachihara aspettava chibi con un mazzo di fiori.
“Comunque, ho un consiglio per te.”
Si voltò a guardare l’altro ragazzo; il verde nei suoi occhi era torbido ma le pupille si strinsero impercettibilmente quando Dazai lo fissò, un sorriso affilato come una lama tratteggiato sul volto. Se non altro, doveva ammettere che Tachihara aveva mantenuto una facciata consistente, accennando un sogghigno a propria volta.
“E sarebbe?”
“Se fossi nella posizione di Tachihara-kun, con un’abilità mediocre e senza talento nell’usarla, smetterei di puntare troppo in alto. Potresti finire per pestare i piedi sbagliati e mirare a cose che non ti appartengono.”
Quattro anni prima sarebbe stato sufficiente. Quattro anni prima, Tachihara non avrebbe lanciato uno sguardo preoccupato alla porta chiusa che li separava da Chuuya, le labbra strette in una linea intellegibile.
“Dazai-san,” uno sbuffo, “forse non sta a me dirlo, ma non ti sembra di parlare senza tenere in conto i desideri di Chuuya-san?”
“Non mi sembra~ ”
“Solo Chuuya-san ha il diritto di dirmi che non mi vuole vedere.”
Un qualcosa di ancestrale, una bestia che credeva di aver zittito quando aveva lasciato la mafia, si rivoltò nello stomaco di Dazai; in superficie si era cristallizzato in un sorriso che gli scuriva gli occhi ma il ruggito carico di odio lo scosse da capo a piedi.

Odasaku, perdonami. Vorrei davvero svuotare un caricatore su questo bastardo, in questo momento.

Immaginò per un istante di avere ancora una pistola sotto la giacca ed il mondo si tinse di bianco e di nero. Era il giorno fortunato di Tachihara, apparentemente.
“Tachihara…”
Giurò di vedere una scossa di tensione percorrere l’uomo. Persino le rose tremarono. Quelle orribili, orribili rose.
“Forse non mi sono spiegato. Esci da questa stanza finché hai ancora le gambe.”

Alla fine, la porta si era finalmente aperta.
Dazai era scattato in piedi, complice l’adrenalina ancora in circolo dallo spiacevole incontro con Tachihara; non era fiero di come aveva gestito la situazione, non era felice della facilità con cui ripercorreva le vecchie strade ed i vecchi errori, ma tutto era scivolato nell’inutilità nel momento in cui un’infermiera in kimono gli aveva fatto cenno di entrare. 

 

- - -

 

“Te la sei cavata per un pelo, Chuu~ya. Sei fortunato ad avere un partner solerte come il sottoscritto, non trovi?”
“Vattene, Dazai.”
Chuuya strinse gli occhi, il dolore alla testa che montava come un temporale, impennato dal suono dei macchinari che gli pulsava nelle orecchie. Per quanto tentasse pigramente di sfilare la mano dalla presa di Dazai lui rimase dov’era, immobile, dita bendate ancorate a quelle di Chuuya. In silenzio.
“Vattene dai tuoi amici, dal tuo partner e dal tuo allievo.”
Ora c’era qualcosa di capriccioso bel modo in cui non mollava la presa. Chuuya non era certo se fosse tutto l’antidolorifico o a causa della maschera impenetrabile davanti a lui, ma sentiva di dover vomitare.
“Vattene a rendere fiero Oda.”
Eppure.
“Vattene.”
Era una preghiera, ora. Dazai non si era mai fatto problemi a sbattergli le porte in faccia, eppure quando glielo chiedeva sembrava incapace di lasciarlo andare. Sentendo la rabbia attutita dalla debolezza fisica e con nelle orecchie il suono dell’elettrocardiogramma che si faceva più insistente e crollava a picco un istante dopo, Chuuya socchiuse le labbra per parlare— e le richiuse, interrotto da un sussurro. Un suono strozzato.
“Ci sto provando, Chuuya.”
Prendendo un ampio sospiro, l’executive chiuse gli occhi.
“No, Dazai,” un tremolio della maschera, la presa che si allentava. Chuuya sentì le proprie labbra incrinarsi in un broncio esitante, “no, ci stai riuscendo. Sembra che tu abbia preso fottutamente sul serio questa cosa di diventare una persona migliore, e lo vedo, lo vedono tutti. Ci stai riuscendo, ma continuo comunque a rimanere della mia idea.”
Due occhi nocciola lo fissarono. Negli anni della Port Mafia erano sembrati quasi scarlatti, ma l’insegnamento di Oda vi aveva trasferito una luce diversa — la propria— che li ingentiliva persino quando il vecchio Demone annaspava per tornare a galla.
“Credi che stia facendo tutto questo per tormentarti?”
“Ryūnosuke.”
Dazai arricciò il naso, come se non avesse alcuna familiarità con il nome. Chuuya sogghignò, e non era mai stato così difficile incollarsi un sorriso sul volto quando avrebbe voluto prenderlo a testate.
“Akutagawa.” precisò.
“Ah, lui.”
“Sembra che tu abbia paura del ragazzo, Dazai, e di quello che gli hai fatto.”
“Che cosa stupida da dire,” replicò, un sorriso cristallizzato sulle labbra; ma nelle pupille strette, nell’immobilità plastica del suo volto, echeggiava il fantasma di un uomo immobilizzato dal terrore. Un uomo che aveva voluto morire, e che nella scoperta di qualcosa per cui vivere si era scontrato anche con un nuovo tipo di paura.
Chuuya scosse la testa, lentamente.
“Dev’essere sfiancante sforzarsi costantemente di ignorare le persone che ti amano e credono in te, dirsi che non vali nulla, allontanare tutti; e non insultarmi credendo che non lo capisca, ho gli occhi.
“E da quando Chibi è uno psicologo?”
Il sorriso di Dazai tagliava perché era finto, un pezzo di ceramica, l’ennesima fessura nella maschera.
“Sai che ho ragione.”

Ti prego di smetterla di dire cose senza senso.”
“Sei tu quello che non ha senso. Cos’è, Oda non ti ha dato un manuale d’istruzioni? Salvare le persone non è facile come pensavi che fosse? Eppure stai facendo così tanta strada che mi domando come tu possa non accorgertene.”
Dazai sussultó. Impercettibilmente, un movimento nascosto ad un occhio inesperto, ma Chuuya sapeva di doversi aspettare esitazione ed una risposta elusiva: una risposta che non voleva dire nulla solo per infastidirlo, a che riuscì a battere sul tempo.
“Sarebbe fiero di te, Dazai.”
Quando il detective si morse le labbra un frammento della maschera che si sgretolò ancora, sostituito da un sorriso, uno stringersi nelle spalle, una voce incrinata.
“Forse dovrei andare. Chibikko sta straparlando.”
“Esci da quella porta ora ed è l’ultima volta.”
Fu sufficiente a cristallizzare Dazai nell’atto di alzarsi, e si lasciò ricadere sulla sedia senza un suono. L’executive, stancamente, si passò una mano fra i capelli.
Alle volte pensava che l’ex partner fosse una persona così egoista da non permettere a nessuno a cui teneva di essere felice, mentre altre credeva si stesse semplicemente prendendo gioco di chi voleva vivere, disgustato dalla bugia in cui Chuuya aveva invece affondato le unghie anni prima senza più lasciarla andare.
Una metà di loro era sempre stata più nera ed irraggiungibile dell’altra.
Almeno Chuuya aveva una parvenza di vita normale, Dazai aveva un ricordo piantato nello stomaco e un bagaglio emotivo senza fine.
Forse era a causa di quelle barriere, di tutte le maschere che aveva indossato, del freddo che doveva fare nella sua testa — perchè Chuuya non si era mai fatto illusioni, Dazai aveva probabilmente una landa desolata al posto dell’anima— che Dazai non rispose. Si chinò in avanti, una mano sulla guancia dell’executive e l’altra ancora ancorata alle sue dita, e premere le proprie labbra sulle sue. Con irruenza, prima, ma quando Chuuya non si era spostato Dazai aveva piegato il capo lentamente, una sensazione così familiare che, per un momento, invece dell’impermeabile e del profilo di Dazai, l’executive pensò di aver intravisto cerotti, bende e un cappotto nero.
“Non ti odio. Non odio niente di te, Chuuya.”
Non rispose, ma chiuse gli occhi e sentì il proprio corpo rilassarsi, sciogliendosi perchè Dazai era tiepido e delicato e gli stava tracciando minuscoli cerchi con il pollice sul dorso della mano e le sue labbra erano leggermente rovinate.
Sentendo il peso di cento vite sulle proprie spalle, Chuuya si chiese se fosse davvero Corruzione o se il bastardo non avesse trovato un modo per rubargli anche l’ultima stilla di forza.
Decise che non gli importava quando Dazai gli morse il labbro inferiore, spingendo Chuuya più contro di sè. Il rumore metallico della flebo che si spostava gli suggerì che dovevano aver usato un po’ troppo entusiasmo, ma sospirò e lo lasciò fare con rassegnazione.
“Mi dispiace, partner.”
“Anche a me,” ammise.
Era un uomo adulto, poteva accettare di dividere le colpe; poteva accettare di mostrarsi vulnerabile, se ciò poteva convincere Dazai a spogliarsi di alcune delle sue difese più superficiali, quelle sottili come carta e che lasciavano ferite altrettanto invisibili.
“Chuu~ya, non avevo idea fossi gentile!”
La voce dell’ex partner era leggermente roca. Labbra contro labbra, l’executive sentì il sangue andargli al viso.
“Non ti ci abituare troppo, mackerel.”
“Chuuya rimane sempre il solito teppista maleducato~”
“Vattene, idiota, fammi respirare.”
Annuendo fra sé e sè, Dazai si ritrasse. Chuuya notò con un improvviso tuffo allo stomaco che le loro mani rimanevano intrecciate, le dita rovinate ed affusolate del detective contro le sue morbide e ancora macchiate di sangue. Per il Dolore Corrotto e una vita passata a non combattere eccessivamente con i pugni avevano reso Chuuya sensibile, e sentì l’intero dorso della sua mano andare a fuoco nel momento in cui Dazai la sollevò per sfiorare le nocche con le labbra.
Il cuore sembrava volergli saltare fuori dalla cassa toracica, sfondando le ossa con la pura forza dell’imbarazzo.
“Ne parliamo a casa?”
Chuuya, istintivamente, storse il naso.
Sì, sì, sì.
“Hm; fa’ come vuoi.”

 

- - -

 

“Oi, polipo troppo cresciuto, lasciami andare cinque minuti!”
“Ma Chuu~ya!” fu il lamento che ricevette, mentre Dazai si allacciava con più entusiasmo al braccio del partner e posava il mento sulla cima del suo cappello, “Vuoi solo scappare lasciandomi qui da solo a fare queste cose noiose!”
“Te lo meriteresti, mackerel.”
Un gasp oltraggiato.
“Se non mi lasci andare, brutto imbecille, non mangiamo.”
“Hm-hm.”
“Perchè se non la smetti di nullificare la mia fottuta abilità, non arrivo allo scaffale più al—” si immobilizzò, sentendo il sangue e la vergogna scaldargli il viso nel momento in cui le parole stavano per sfuggirgli dalle labbra. Il sogghigno che si era aperto sul volto di Dazai era provocatorio, affilato come una lama.
“Sì~?”
Facendo schioccare la lingua, Chuuya si voltò con abbastanza violenza da liberarsi dall’abbraccio di Dazai — chi si abbracciava di fronte ad uno scaffare di formaggi, dopotutto? Solo quell’idiota con cui Chuuya aveva malauguratamente condiviso la casa— e da obbligarlo a barcollare in avanti. Le dita di Dazai rimasero ostinatamente ancorate al suo polso, ma ormai Chuuya era troppo occupato a nascondere il color ciliegia che gli arrivava sino alla punta delle orecchie per preoccuparsene.
“Tch. Andiamo avanti.”

 

Non è che Chuuya e Dazai avessero deciso di vivere insieme, esattamente.
Era stato un avvicinamento graduale che aveva formato quella che era la loro —precaria e a volte esplosiva, altre addirittura domestica — relazione, una forza che aveva spinto Chuuya proprio malgrado a plasmare le proprie abitudini su quelle del disastro ambulante che gli avevano assegnato come partner sin dai giorni in cui erano gli unici adolescenti nell’intera Port Mafia. Non era cambiato molto. Dazai era ancora una minaccia per la società, e Chuuya oscillava ancora tra il desiderio di prendergli il viso fra le mani e baciarlo e quello di riempirlo di schiaffi finché Dazai non si fosse reso conto di essere un disastro ambulante.
Tuttavia, Chuuya sentì il sangue gelarsi nelle vene nel momento in cui il proprio partner si era immobilizzato nel bel mezzo della corsia e il suo sorriso si era piegato all’ingiù. 
Aveva quasi paura di seguire la traiettoria dello sguardo di Dazai, puntato verso la fine del corridoio senza espressione alcuna, e tuttavia si rilassò quando la voce di Jinko gli arrivò alle orecchie. Giurò di sentire Dazai esitare, come se stesse per scattare ed andarsene.

“Dazai-san!”
Chuuya strinse con più forza la mano del proprio partner nel momento in cui la sentì tremare, dita gelide che erano state tiepide un momento prima. Quelle dita intrecciate avevano fatto sorridere fra sé e sé l’executive: l’espressione di una crisalide di semplicità, un gesto fragile che urlava piú forte di mille parole vuote e splendeva di più dei mille angoli d’ombra nella psiche di Dazai. Chuuya non avrebbe mai immaginato che fosse lui a prendergli la mano, solo un’altra coppia normale che ne aveva avuto abbastanza di cena d’asporto e si era trascinata al supermercato, ma nel momento in cui qualcuno gli ricordava chi erano, e cosa si erano lasciati alle spalle, la presa del detective esitava e tentava di scivolare via in silenzio.

Atsushi-kun, salutò, incertezza che gli incrinava la voce.
“Nakajima,” annuì Chuuya a propria volta, con un sorriso.
Dazai Osamu non si esponeva.
Dazai Osamu non assumeva rischi che non fossero meticolosamente calcolati e non mostrava niente di sè — non mostrava niente di loro. Ma Chuuya non aveva intenzione di fargli dimenticare che non era solo, che i suoi colleghi lo amavano e che, per quanto lo infastidisse e mandasse in bestia, lui stesso non aveva mai avuto molta scelta.
La tigre lo guardò, occhi sgranati che cercavano quelli del mentore nel tentativo di registrare la situazione. Aveva le labbra socchiuse in una ‘o’ di stupore, ma qualunque domanda educata stesse per porre alla coppia — alla quale Chuuya avrebbe risposto e con sincerità, perchè non era un disgraziato come Dazai — venne coperta dal ruggito di un altro dei colleghi di Dazai: Kunikida.
Quello che, con il tempo, Chuuya supponeva di poter compatire ma che non gli impedì di alzare gli occhi al cielo con una punta di fastidio.
“Allora eri a bighellonare, bastardo!”
Meccanicamente, Chuuya lo sentì stringersi al suo fianco. L’executive sollevò un sopracciglio in direzione di Kunikida, indeciso se spostarsi o fare finta di nulla. Lo scorno dipinto sul viso snello del detective e l’odio per la pigrizia del proprio partner risvegliavano in Chuuya la voglia di abbandonare Dazai nelle grinfie dei colleghi solo per fargli pagare tutte le volte in cui l’aveva lasciato solo a finire un lavoro.
“Oh no. Ci hanno scoperti, che faremo ora~”
“Arrangiati,” mormorò, facendo un passo indietro.
“Chuuyaaa~!”
“Non me ne frega niente di quello che fai nel tuo tempo libero, spreco di bende ambulante, ma non è accettabile che si ripercuota sul lavoro di tutti! Ma non hai un minimo di vergogna? Almeno presentarsi al lavoro ti sembra troppo?!”
Dazai sorrise.
Un sorriso timido, accompagnato da un ritrarsi quasi colpevole; Se Chuuya non l’avesse conosciuto per il bastardo che era avrebbe detto che stava per scusarsi, ma la vena sulla tempia di Kunikida aveva già cominciato a pulsare furiosamente in attesa della risposta.
“Ups, forse mi sono dimenticato~”
“Dazai!” ruggì, scarlatto in volto.
“Beh, che ci possiamo fare? Ormai la giornata è finita, Kunikidaaa-kun, andrà meglio domani! E non ti arrabbiare, che ti si alza la pressione~"
Incapace di registrare l’urlo oltraggiato dell'interessato — un suono dall’oltretomba che aveva fatto girare un drappello di civili che con tutta probabilità stavano cercando di fare la spesa e tornare a casa senza incappare nell’ennesimo problema — Chuuya sospirò, massaggiandosi le tempie.
Avrebbero perso l’offerta sulla carne, di nuovo. Per colpa di Dazai, di nuovo.
Ma il detective aveva ignorato Kunikida per rivolgersi ad Atsushi in quel suo tono che avrebbe potuto far nascere i fiori dall’asfalto: una voce che avrebbe sciolto ogni scheggia d’ira nell’animo di Chuuya se non fosse stato così diverso dal modo in cui parlava con Akutagawa. Ma aveva promesso che ci avrebbe provato e Chuuya voleva credergli, voleva dargli una possibilità perchè era l’unica strada che gli era rimasta dopo sette anni in cui aveva dato modo all’ex partner di piantare radici nella sua vita.
“—Così Kyouka-chan ti ha minacciato?”
“Lucy-chan mi ha minacciato,” stava replicando Atsushi, stancamente.
Chuuya aggrottò la fronte, tornando a prestare attenzione.
“Atsushi-kun di sicuro è popolare con le ragazze. Non è vero, Kuuunikiida~? Sei geloso di Atsushi, che troverà la donna perfetta senza la tua lista?”
Perplesso, l'executive lanciò uno sguardo al ragazzino.
Era pallido e magro e non dava l'idea di una tigre feroce; ciò significava anche che era delicato, che si sarebbe rafforzato col tempo e che aveva l’aria di una persona che dava valore alla gentilezza nonostante non l’avesse mai conosciuta prima. Un quadro tutto sommato tranquillo per essere un’arma di distruzione di massa e una tigre mangiauomini, ma chi era lui per giudicare?
“Hm? Jinko, credevo di aver capito che fossi con Akutagawa, perchè un ragazzina della Guild dovrebbe—”
“Stop!” lo interruppe Dazai, mostrandogli il palmo della mano, “Chibi non vuole avventurarsi in questo discorso!”
“Cosa…?” brontolò, ma Dazai sostenne il suo sguardo scrollando il capo e occhieggiando i colleghi. Alla ‘A’, Jinko era già di un’impossibile tonalità di viola, gli occhi cangianti ridotti a due fessure cariche di panico.
“Nakajima-kun?!” replicò Kunikida, in un suono strozzato a cui, onestamente Chuuya non poteva dare torto, “Cos’è questa storia?”

Ah. Almeno non era l’ultimo a sapere le cose.

“Ecco, io—”
“I miei amati discepoli stanno diventando grandi,” spiegò Dazai, lanciando un’occhiata allusiva ad Atsushi, “in-sie-me!”
Chuuya poteva quasi vedere il cuore al termine della frase, e le implicazioni che essa portava con sé, ma era più angustiato dal fumo che pareva dover uscire dalle orecchie di Jinko da un momento all’altro.
Aspetta, cosa? l’executive fissò Nakajima, e poi quell’idiota del suo mentore, In quel senso? Seriamente?
Il silenzio che si creò fra di loro era rotto solo dal sibilo dell’aria condizionata nelle corsie e dei banchi frigo, dal trillo insistente delle casse automatiche; un bambino stava stillando da qualche parte oltre gli scaffali.
Akutagawa; Akutagawa e Jinko, Jinko e Akutagawa. 
Con un sospiro, passandosi una mano sul volto, Chuuya si disse che avrebbe dovuto immaginarlo.
Kunikida fu il primo a rompere il vuoto che addensava l'aria lanciandosi verso Jinko — una sfortuna che Atsushi si fosse mosso meno velocemente del proprio superiore, davvero, e che il suo sedicente mentore si fosse limitato ad un sospiro carico di enfasi.
Un istante dopo il detective aveva iniziato a scrollare Atsushi con foga, ululando proteste sul fatto che la Port Mafia non fosse un parco giochi né un’applicazione di appuntamenti (‘Oi, quattrocchi, guarda che ti sento’, avrebbe voluto sbottare Chuuya) e che, sicuramente, non aveva pensato alle conseguenze per tutti loro.
“Con Akutagawa?!”
“Kunikida-san—”
Akutagawa, tra tutti!
Forse doveva chiamare un buon assistente sociale perchè Jinko sembrava vessato dai matti nell'Agenzia ed era abbastanza certo che non fosse compito di Kunikida intromettersi nella vita del ragazzino, ma alla fine non erano davvero affari suo. Tuttavia, in quel momento Dazai rise di cuore e il mondo si immobilizzò, costringendo Chuuya a voltare lo sguardo: gli parve l’unico suono che aveva senso nell'universo, trascinando tutto il resto nello sfondo.
Era una novità sentirlo ridere così in pubblico mentre lo afferrava per il polso un’altra volta e lo tirava a sè, ed era l’unico suono che l'executive avrebbe voluto sentire per tutta la vita. Era un pezzo dell’anima di Dazai che si staccava dalla maschera, umana e con la forza improvvisa di uno tsunami.
Chuuya si era reso conto che lo stava guardando con occhi sgranati carichi di sorpresa ma, nonostante Dazai avesse smesso di ridere e lo stesse fissando di rimando con il capo leggermente inclinato per la curiosità, riusciva a malapena a battere le palpebre.
“Chuuya?”

Oh, si disse, è difficile guardare chiunque altro. 

“Chibi?” Dazai sorrideva, ora, un sorriso provocatorio ma privo di spigoli.
Chuuya scosse la testa, obbligandosi a guardare altrove; le corsie attorno a loro, i propri piedi, Kunikida che aveva lasciato andare Atsushi, tutto andava bene pur di nascondere l’improvviso senso di leggerezza che l’aveva avvolto.
Dazai rideva.
Avevano definitivamente perso ogni tipo di offerta a tempo per quella sera, non avevano finito neanche metà della spesa, erano un detective traditore ed un membro della mafia, un suicida ed un esperimento del governo, due coltelli pronti a tagliare eppure Dazai rideva come se non avesse nessun problema al mondo. Si chiese se quella fosse l'eredità di Oda, o un percorso che l'ex partner aveva fatto da solo.
Ma Dazai rideva e tutto andava bene ed erano insieme e forse, questa volta, c’erano buone possibilità all'orizzonte.
“Comunque sia, vi dispiace?” sbottò Chuuya, con la voce arrochita dalla stanchezza e dall’improvvisa fretta di andarsene; per buona misura, gesticolò in direzione dell’uscita del supermercato in maniera abbastanza eloquente, cosicché anche l’unico neurone di Dazai non potesse ignorarlo, “vorrei non dover dormire in una corsia che puzza di formaggio, se per voi stupidi detective armati non è un problema.”
La realtà era che voleva andare a casa dopo una giornata disastrosa per chiudersi alle spalle la porta e posare le mani sulle braccia di Dazai e iniziare a srotolare le bende che nascondevano la pelle, le ferite ancora furiosamente rosse e i residui bianchi di giorni peggiori, liberarlo dal tessuto e dall’armatura strato dopo strato. Voleva vederlo rilassarsi sotto il suo tocco, arroccarsi sul divano con una bottiglia di Chianti e una coperta e gli orribili dorama che il suo partner lo obbligava a seguire.
Voleva tornare a casa e non poteva più immaginare — non aveva mai potuto immaginare — di chiamare “casa” quattro stupide mura in cui Dazai non c’era. Forse era melenso e stanco e se ne sarebbe pentito in futuro, ma voleva andare ‘a casa’ e quelle poche sillabe avevano un suono tiepido e bello nella sua mente.
Non definitivo, non perfetto, ma era qualcosa: ed era più di quanto Nakahara Chuuya avesse mai osato sperare.

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