Meant to Be

di mido_ri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


 

 

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Capitolo Primo

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Mia madre dice sempre che le persone con il viso pieno di lentiggini sono nate sotto un cielo stellato. Ciò, tradotto, vuol dire che, se durante la notte della nascita tutte le stelle sono visibili, la vita del bambino sarà ricca di fortuna e serenità. Cavolo, mia madre è davvero fissata con questa roba. E volete sapere la cosa divertente? Non ho neanche l'ombra di una lentiggine in faccia ma lei, pronunciando le sue solite parole, mi guarda come se le vedesse davvero. E sorride. Quando ero piccolo ci credevo anche io e stavo ore e ore davanti allo specchio; per un periodo mi convinsi anche del bisogno di portare gli occhiali. Quando cominciai ad andare alle scuole medie non facevo altro che chiedere ai miei compagni se vedessero le lentiggini, voltando la faccia a destra e a sinistra nella speranza che almeno uno di loro riuscisse a scorgere qualcosa. Finalmente, durante il primo anno di liceo, il mio compagno di banco mi disse chiaramente che non avevo un bel niente in faccia, soltanto un'espressione da scettico annoiato e da artista senza talento. Vai a capire cosa diavolo intendesse quel ragazzo. 

In ogni caso non dissi mai a mia madre che in realtà era lei ad aver bisogno degli occhiali, se la sarebbe presa il diavolo, e poi lei era contenta così. Dunque posso affermare di non essere affatto destinato a fortuna e serenità, anzi, mi sa proprio che sono nato durante un bel temporale: non c'è altra spiegazione. Ora potreste chiedermi a cosa stia alludendo. Be', bella domanda. Neanche io ho trovato una vera e propria spiegazione, fatto sta che è successo e io devo esporre il tutto in qualche modo, ammesso che vi interessi.

Mi chiamo Aleksey Bergström, soltanto il nome è un programma. Mio padre è svedese, ma questo non è importante. Vivo in una cittadina che conta poco più di ventimila abitanti, a Est della Virginia, in America: Hopewell. Che poi non ho mai capito cosa ci sia da sperare bene, questo posto è un mortorio e non c'è null'altro da aggiungere. Ma, ancora, non è questo il punto. Mi raccomando, non prendetemi per uno svitato, vi assicuro che non è come sembra: credevo di avere un angelo custode, o di essere perseguitato da uno spirito, insomma... una cosa del genere. Tutto è cominciato con la storia delle lentiggini. Sapevo di non averne ma, perfino dopo aver cominciato il liceo, mi sono sempre comportato come se le avessi avute. Non è che un ragazzo con le lentiggini debba comportarsi in chissà quale modo, ma a volte ero davvero convinto di averle e di non ricordarmene soltanto perché erano sempre lì e io ormai non ci facevo più caso. In momenti come quello correvo in bagno e andavo a guardarmi allo specchio, come facevo quando ero piccolo, e cercavo di scovare qualche piccola macchia sul mio naso, ma non vedevo assolutamente nulla. Vi giuro, questa cosa mi faceva impazzire.
Ma non è questa la cosa più sorprendente, anzi, il fatto delle lentiggini vi sembrerà una cosa da niente a confronto. A volte sentivo che il mio corpo non mi apparteneva... sì! Proprio così. Mi capitava di avvertire un leggero formicolio alle gambe e altre strane sensazioni per ragioni inesistenti; a volte gustavo perfino sapori dolci mentre mangiavo cibi indubbiamente salati. Molto spesso diventavo estremamente triste senza un motivo apparente ed ero capace di stare giornate intere chiuso nella mia stanza a divagare con la mente. E no, ci tengo a ribadire che non sono fuori di testa. Ormai mi accadeva così spesso di provare sensazioni fisiche e mentali non appartenenti a me, che ci avevo messo una pietra sopra e avevo rinunciato a capirne il motivo, anche se a volte, a pensarci bene, mi rendevo conto di quanto quel fatto fosse in realtà inquietante.

Contrariamente a come potreste pensare, questo è soltanto l'inizio del mio racconto: il racconto di come è rinata in me la curiosità di scoprire perché mi fosse toccata una sorte così bizzarra e di come non sono riuscito a scoprire proprio un cavolo.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***



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Capitolo Secondo

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Ed eccoci al secondo capitolo di Aleksey l'Esploratore. Comprendo come questo mio atteggiamento sarcastico possa essere alquanto irritante ma, si sa, dopo un duro colpo l'unica arma che abbiamo contro la vita è la risata. 

In ogni caso cercherò di intromettermi nel racconto il meno possibile per lasciare spazio alla sola voce narrante (che, indovinate, è sempre la mia!) e mi mostrerò per quello che, al tempo, ero davvero.

* * *

Come ho già detto, Hopewell era un vero e proprio mortorio. Non c'era nulla da fare e, nel caso in cui un ragazzo volesse davvero svagarsi, poteva sempre prender parte alle attività settimanali del gruppo ecclesiastico della città. Molti entravano a farvi parte per noia, disperazione o semplicemente per prendere in giro gli educatori. Ma c'era anche chi riusciva a spassarsela in quel luogo: ogni sabato sera la piazzetta comunale era assediata da un gruppo di ragazzini delle scuole medie che si divertivano a impennare con la bicicletta e a far tintinnare ripetutamente il campanello; e come biasimarli? In fondo non c'era nulla da fare lì e io, alla loro età, facevo esattamente lo stesso. Era una sottospecie di rituale caratteristico di Hopewell: se eri un ragazzo e andavi alle medie, allora dovevi fare lo sbruffone in bicicletta. Con l'inizio del liceo abbandonai l'unico mezzo di svago che avevo, non che mi dispiacesse ululare e ridacchiare mentre impennavo sulla bicicletta; semplicemente, una volta cominciato il liceo, mi resi conto di non avere amici. Quel posto era davvero terrificante: potrebbe sembrare strano, ma a Hopewell c'erano più ragazzi che adulti ed erano tutti concentrati in quella struttura scolastica, l'unica nel raggio di molti chilometri. Infatti frequentavano il mio stesso liceo tanti studenti provenienti dalle piccole città limitrofe ed era come se ogni giorno ne arrivassero di nuovi; non vedevo quasi mai le stesse facce, eppure di solito nelle piccole città ci si stanca proprio perché si vedono sempre le stesse persone. Gli unici che ero in grado di riconoscere erano i miei compagni di classe, anche se non ricordavo alla perfezione i nomi di tutti. Be', neanche loro ricordavano il mio, effettivamente era un nome un po' inusuale da quelle parti.

Quel giorno c'era la neve. La neve ad Hopewell. E pensare che si trova al Sud, a confine con il mare. Quell'inverno era da pazzi. A scuola tutti urlavano e cercavano di lanciarsi delle palle di neve a vicenda, anche se se ne era accumulata ben poca. Dal canto mio, andai dritto in classe poiché stavo morendo di freddo. Aveva cominciato a nevicare mentre mi trovavo già nello scuolabus, per cui non avevo fatto in tempo a portare con me un giubbotto più pesante. Mi sedetti al banco, incrociai le braccia e assunsi un'espressione corrucciata. Quando quella mattina mi ero guardato allo specchio, avevo notato di avere delle occhiaie terrificanti e il tutto perché durante la notte non ero riuscito ad addormentarmi. Il fatto era che mi ero preso un bello spavento, uno di quelli che non ti fanno chiudere occhio per mesi interi. Era da un po' di tempo che non sentivo più nulla... mi riferisco a quegli strani fastidi che mi capitava spesso di percepire; ma quella notte tutt'a un tratto qualcuno aveva chiamato il mio nome, ne ero più che sicuro. Una voce triste ma curiosa. Aveva detto proprio "Al". Okay, forse non era proprio così che mi chiamavo ma, poiché mia madre era solita abbreviare il mio nome in quel modo, in un primo momento mi convinsi del fatto che fosse stata lei, tanto che le risposi. Andai avanti per un paio di minuti, dicendo soltanto "mamma!" sottovoce, come un completo idiota. In realtà sapevo benissimo che non era stata lei a chiamarmi, in primo luogo perché potevo chiaramente sentirla russare nell'altra stanza, e poi perché a dire il mio nome era stato un ragazzo, non c'era alcun dubbio. Con mia grande fortuna, però, udii quella voce soltanto una volta e, pian piano, tentai di convincermi che era la stanchezza a tirarmi brutti scherzi, anche se alla fine non riuscii ugualmente a prendere sonno. Ed ecco perché stavo lì con quell'espressione assonnata e confusa, chiedendomi quando il mio corpo avrebbe deciso di terrorizzarmi di nuovo. Ormai ero abituato a parlare di me stesso come di un'altra persona, come se la mia coscienza fosse separata da tutto il resto, ma ripeto, non sono pazzo.

I miei compagni di classe entrarono tutti insieme, alcuni schiamazzando, altri leccandosi la neve dalle mani... sì, proprio così. Io, intanto, stavo rimuginando su una previsione che aveva fatto mia madre quella mattina. Ho già detto che quella donna è ossessionata con tutto ciò che rientra nel campo degli oroscopi, dei tarocchi, della scaramanzia e così via? Bene, proprio prima che uscissi di casa per dirigermi alla fermata dello scuolabus, mi aveva afferrato le spalle con aria sconvolta, dicendomi che il mio segno zodiacale era in una posizione perfetta - o una cosa del genere - e che la cosa era successa una volta sola in tutta la mia vita, ossia quando avevo quattro anni. Le chiesi perché sembrasse così spaventata e lei mi rispose che, in seguito a un avvenimento troppo positivo, la legge di equilibrio degli eventi tende a far accadere qualcosa di estremamente negativo per controbilanciare. Feci finta di aver capito e le accarezzai la testa con apprensione, cercando di tranquillizzarla almeno in parte. Qualsiasi cosa lei ritenesse che sarebbe accaduto, a me non poteva importare di meno, perché non avevo mai creduto a quella roba, anzi, non riuscivo neanche a ricordare quale fosse il mio segno zodiacale.

Non mi capacitavo del fatto che quel giorno mi sarebbe potuto succedere qualcosa di positivo; e poi, dopo quella notte passata insonne, ne avevo abbastanza di fenomeni paranormali. In ogni caso tutti i giorni erano noiosi allo stesso modo, quindi non vedevo cosa sarebbe potuto accadere di così strabiliante.

* * *

L'anziano professore di storia era intento a declamare i pregi di Hopewell, cosa che faceva costantemente da quando mia madre aveva la mia stessa età - e forse anche prima -, per cui giudicai opportuno rinunciare a seguire la lezione e mettermi a pensare ad altro, anche se effettivamente non avevo un bel niente a cui pensare. Per giunta il mio compagno di banco era assente e le ragazze davanti a me, spinte dal loro ambizioso desiderio di primeggiare sempre e comunque, prendevano appunti senza sosta anche se ascoltavamo quella roba dal primo giorno delle superiori. Avevo così tanto sonno che la testa mi penzolava a destra e a sinistra, perciò fui costretto a mantenerla con entrambe le mani e con i gomiti appoggiati sul banco. Quando riuscii finalmente a trovare un argomento stimolante per il mio cervello - ossia chiedermi per quale motivo il professore schioccasse la lingua ogni volta che doveva cominciare una nuova frase - una voce mi distrasse, facendomi sobbalzare. Mi guardai intorno, ma erano tutti impegnati a fare altro. Poi di nuovo: "Al!". Questa volta sobbalzai davvero e una delle ragazze sedute al banco davanti si voltò con aria infastidita e mi fece cenno di far silenzio. Avrei voluto risponderle che neanche a lei sarebbe interessata quella stupida e noiosa lezione su Hopewell, se avesse avuto a che fare con un fantasma che parlava nella sua testa, ma non era il caso di gettarmi la zappa sui piedi in quel modo. Mi schiarii la voce e mi chinai con il viso contro la superficie del banco. A quel punto era chiaro che a chiamarmi era stata la stessa voce della notte precedente. Dunque non si era trattato della mia immaginazione. Affatto calmo, decisi di fare un tentativo e sussurrai coprendomi la bocca con le mani.

- Che cosa vuoi?

Nel profondo speravo forse di intimidire chiunque stesse cercando di contattarmi, anche se era assurdo soltanto pensare che ci fosse realmente qualcuno dall'altra parte. Ci furono pochi secondi di attesa, poi la risposta mi colpì con tanta violenza che potei quasi sentire il cervello vibrare.

"Grazie al cielo, ci sono riuscito."

Ero più che sicuro di non aver mai sentito un fantasma ringraziare il cielo, ammesso che fosse un fantasma. Sinceramente ci speravo, perché ulteriori opzioni mi spaventavano ancora di più. In ogni caso pensai che fosse meglio rispondere e verificare il livello di assurdità di quella situazione.

- A fare cosa?

Forse la ragione mi aveva davvero abbandonato, perché stavo letteralmente rispondendo a una voce che potevo sentire soltanto io. Per accertarmene mi guardai intorno per l'ennesima volta, ma erano tutti concentrati sulle loro cose.

"Non sono un fantasma. Tu, piuttosto, sei Al?"

Non avevo idea di come avesse fatto quella cosa a sapere che l'avevo definita fantasma, ma il timore di conoscere la risposta superava di gran lunga la curiosità.

- Credo... L'unica cosa certa è che non sono una persona sana di mente.

Mai come in quel momento desiderai chiamarmi in un altro modo. Cosa voleva da me? Perché cercava proprio me?

"Rispondimi seriamente, sei tu Al?"

Mi grattai la nuca e mi chinai ancora di più sul banco. Quella situazione era surreale. Forse stavo ancora dormendo e non avevo preso lo scuolabus, effettivamente era strano che quella mattina avesse perfino nevicato.

- Sì, sono io. E tu chi sei?

Tanto valeva dargli corda, speravo soltanto di svegliarmi a breve, anche se qualcosa mi diceva che quello, purtroppo, non era un sogno.

"Anche io mi chiamo Al."

- Grandioso. Quindi sto parlando con me stesso?

Lo speravo con tutte le mie forze: non potevo aspettarmi molto da un mio alter ego più macabro e inquietante, soltanto la passione per i film horror.

"Ti ho già chiesto di rispondermi seriamente. Si tratta di una questione importante."

- Voglio soltanto sapere chi sei e che cosa vuoi da me.

"Vivi a Hopewell, non è così?"

Ignorò completamente la mia risposta.

- Dannata Hopewell... Sì, ma te la sconsiglio per le vacanze estive.

"Anche io. Quindi frequentiamo la stessa scuola. Lo immaginavo."

Compreso che quella cosa non era affatto il mio alter ego, non mi restava altro da fare che spolverare le vecchie leggende urbane e credere di star parlando con il fantasma di un alunno che era stato ucciso in quella scuola tanti anni prima.

"Ti ho già detto che non sono un fantasma. Un'altra cosa... prova a rispondermi con la mente, non riesco a sentirti bene."

- E come faccio?

Mi aveva di nuovo letto nella mente. Era tutto così assurdo che a quel punto rinunciai a cercare una spiegazione. Scelsi di prenderla con leggerezza.

"Pensa a quello che vuoi dirmi. Devi solo pensare."

Aggrottai la fronte e trattenni il respiro. Poi pensai a qualcosa da dire.

"Broccoli bolliti."

"Bravo. Ora ti sento molto meglio."

"Questo è senza dubbio il sogno più figo che abbia mai fatto."

"Non è un sogno, purtroppo è la realtà e io ho bisogno di te... almeno credo."

"Sì, sì, tipica frase da sogno. Ma quand'è che finisce?"

"Al, smettila. Facciamo così, incontriamoci nello scuolabus dopo la fine delle lezioni."

"Perché? È così bello parlare in questo modo."

"Non se lo fai per più di cinque minuti. Mi sta scoppiando la testa. Senti... ho i capelli biondi e uno zaino blu, tienilo bene a mente. Ciao..."

"Non credo di riuscire a riconosc- hey? Ci sei?"

Nessuna risposta.

E fu così che ebbi la mia prima conversazione con la mente, cosa che realizzai essere reale non appena la voce dall'altra parte fu scomparsa. La voce del professore risuonava monotona fra le quattro mura e nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Non ebbi neanche il tempo di ripensare a ciò che era accaduto, che una terribile sensazione di nausea si impadronì del mio stomaco e mi causò le vertigini. Fui costretto a scappare in bagno; mi inginocchiai di fronte al vaso, convinto di dover rimettere, ma pian piano ricominciai a respirare normalmente e quella sensazione svanì. Era durata soltanto un paio di minuti. 
Mi sedetti con la schiena contro il muro del bagno ed emisi un sospiro profondo. Cosa mi stava succedendo? Ero chiaramente sveglio, ma com'era stato possibile parlare con un'altra persona senza averla davanti? Scossi la testa e la collocai fra le ginocchia che mi tremavano un po'. Per la prima volta nella mia vita avevo paura. E non quella paura che proviamo dinanzi a un animale aggressivo o in un luogo sconosciuto, ma quella paura che proviamo nel riconoscere di essere di fronte a qualcosa di troppo grande, che non possiamo sconfiggere con le nostre sole forze; quella paura che ci fa contorcere e annodare lo stomaco e sudare freddo. Una paura schiacciante. 
Mi ci volle un bel po' per ritrovare la calma e ritornare in classe. Durante la pausa pranzo non toccai cibo e non parlai con nessuno.

La campanella che segnava la fine delle lezioni quel giorno arrivò alle mie orecchie come un suono tetro, che portava con sé cattivi avvenimenti. Prima di mettere piede sul bus, esitai finché il ragazzo dietro di me non spinse con violenza, imprecando. Ero stato così lento a raggiungere la vettura che non c'era più nessun posto a sedere, o almeno così mi sembrò fino a quando non adocchiai un sedile vuoto accanto a un ragazzo con il capo chino. Il posto era occupato dal suo zaino. Uno zaino blu. Prima che potessi indietreggiare e far finta di non essermi mai avvicinato a lui, l'altro notò la mia presenza e mi rivolse uno sguardo languido, accompagnato da un sorriso comprensivo.

- Ti stavo aspettando, vedi? Ti ho conservato il posto. È anche quello vicino al finestrino.

Spostò lo zaino con diligenza e indicò il sedile con un gesto lento e cortese. Non fui in grado di fare altro oltre a guardarlo imbambolato, sentivo di non essere in grado di muovere un solo dito. 

- Non vuoi? D'accordo, ma qui non si siederà comunque nessuno.

Raccolse lo zaino da terra e lo rimise al suo posto. Io continuavo a guardarlo e, anche se dal mio sguardo vitreo poteva sembrare che stessi pensando a tutt'altro, stavo invece cercando di registrare ogni sua azione e lineamento. 
Era biondo, come mi aveva detto, ma si trattava di un colore più chiaro di quanto mi aspettassi. La pelle del suo viso era bianca quasi quanto la mia, ma lo sembrava molto di più per via dei capelli chiari. A fare da contrasto con quel candore, due occhi grandi e castani e, ironia della sorte, tante lentiggini sparse sul naso e su buona parte delle guance. 
Ero così confuso e incredulo che avrei potuto dire o chiedere mille cose in quel momento, ma dalle mie labbra uscirono le uniche parole che forse avrei fatto meglio a serbare per me.

- Hai la faccia piena di stelle.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


 

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Capitolo Terzo

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 Hai la faccia piena di stelle.

Ma cosa diavolo mi era saltato in mente? Eppure sentivo che in quel momento non c'era nessun'altra cosa al mondo che avrei potuto dire. 
Il ragazzo sembrò non badarvi neanche e mi rivolse un altro sorriso cortese, anche se ero più che sicuro che il suo vero modo di sorridere era ben diverso; quelli che lui mi mostrò quel giorno non erano altro che sorrisi di circostanza, di quelli che si rivolgono alle persone più grandi per sembrare educati, anche se in realtà si sta morendo di noia. In parole povere era quel tipo di sorriso che mettevo su anche io ogni giorno.

- Grazie. E tu hai la pelle molto chiara. Sei straniero?

Non mi aspettavo una risposta del genere.

- Mio padre è svedese, ma tu lo sembri molto più di me.

- Io?

Si alzò una manica del giubbotto troppo lunga e osservò la propria mano, come se avesse dimenticato com'era fatta la sua pelle.

- È perché non esco quasi mai, soltanto per venire a scuola.

- E d'estate non vai al mare? Qui non è malaccio.

- Non ho nessuno con cui andarci.

Giusto, allora eravamo sulla stessa barca: neanche io mettevo il naso fuori in estate perché non avevo amici, ma mi sarei sentito troppo sfigato a dirlo ad alta voce lì in mezzo. Che conversazione insolita, però.
Alla fine decisi di sedermi accanto a lui perché, dal momento che io stavo in piedi, doveva alzare la testa di continuo per potermi guardare. Contrariamente a come mi aspettavo, quel ragazzo non era poi così strano, anzi, se la cavava molto meglio di me e, in quanto a essere introverso, mi stracciava.

- Allora... com'è che ti chiami?

L'altro "Al" si voltò con un'espressione confusa.

- Intendo: qual è il tuo nome completo? Io mi chiamo Aleksey, Aleksey Bergström.

- Oh... va bene se continuo a chiamarti Al?

- Se vuoi. Sempre meglio che sbagliare il mio nome come fanno tutti. E il tuo?

- Alaric Clayton.

- Wow, niente male. Sei un nobile per caso?

- No, ma anche il mio nome viene sempre pronunciato male.

- Perché? Non mi sembra così complicato.

- Le persone lo pronunciano come se la prima "a" fosse accentata, invece è la seconda.

Sospirai e appoggiai la testa al finestrino.

- Brutta storia. Dovremmo andare in giro con una targhetta attaccata ai vestiti che spiega la pronuncia esatta dei nostri nomi.

Alaric rise, ma lo udii a malapena per via del chiasso. In ogni caso ipotizzai che il suo tono di voce fosse essere basso di natura.

- Hey, la mia fermata è la prossima.

Il biondo sussultò e raccolse in fretta lo zaino da sotto il sedile. Di sicuro la sua fermata non era la stessa ma, nel breve tragitto, travolti entrambi da una strana sensazione dovuta all'impatto del primo incontro, ci eravamo dimenticati di parlare del vero motivo per cui avevamo deciso di incontrarci, o meglio, per cui lui aveva deciso di incontrarmi.
Scendemmo insieme sulla stradina che proseguiva diritta e sulla quale si affacciavano, da entrambi i lati, due file parallele di villette a schiera. Io vivevo in una di quelle e non ne ero per nulla felice. Insomma, la zona era piuttosto tranquilla (un vero mortorio come l'intera città), ma era proprio quello il problema.

- Abiti molto lontano da qui?

- No, anche io abito ad Hopewell.

- E casa tua dista molto a piedi?

- No, soltanto un chilometro.

Annuii e mi misi le mani in tasca. Sapevo perfettamente di cosa avremmo dovuto parlare, ma allo stesso tempo ero terrorizzato di iniziare quel discorso e di sapere quale sarebbe stato il suo esito; inoltre sarebbe stato alquanto bizzarro parlare con uno sconosciuto di come fossimo riusciti a comunicare attraverso la mente. Che situazione... e pensare che quello doveva essere il mio giorno fortunato.

- Al, mi sento a disagio.

Il biondo spostò il peso da un piede all'altro facendo rotolare diversi sassolini. Non potevo vederlo bene in viso perché aveva il capo chino e i capelli davanti agli occhi, ma notai che si stava mordendo le labbra.

- Anche io. È difficile credere che non sia solo un sogno...

- Inizia tu.

- Mmh... d'accordo, ma non farmi parlare da solo.

L'altro scosse la testa continuando a tenere lo sguardo inchiodato al suolo.

- Dunque... ieri sera mi hai fatto prendere un bello spavento. Anche se in realtà non è la prima volta che ti sento... o almeno credo.

Alaric alzò finalmente la testa e fece del suo meglio per guardarmi negli occhi, nonostante io stessi evitando il suo sguardo di proposito.

- Ieri è stata la prima volta che ho provato a chiamarti.

- Quindi è capitato anche a te di... di sentirmi?

Cavolo, quanto mi sentivo idiota a dire quelle cose, ma almeno non ero l'unico ad avere quel problema. 
Il biondo aprì la bocca, ma la richiuse immediatamente, come se avesse deciso di ripensare a ciò che aveva da dire. In quel momento sentii la voce di mia madre che si era affacciata al cancelletto d'ingresso.

- Al! Che stai combinando? La cena è pronta!

Ma cambiò espressione quando notò che con me c'era Alaric.

- Non fare tardi!

Ridacchiai e mi voltai di nuovo verso Alaric ma, ecco, lui non c'era. Era sparito, si era volatilizzato, puff.

* * *

Non appena mi sedetti a tavola mia madre mi fulminò con lo sguardo.

- Che c'è? Dici sempre che devo trovarmi degli amici.

- Al, mi hai ascoltato questa mattina?

- Sì, oggi sarà una giornata fantastica e domani... WOOSH! Un uragano spazzerà via la casa, giusto?

Mio padre alzò la testa soltanto per rivolgermi uno sguardo complice, poi si rituffò con la faccia nel piatto e riprese a mangiare silenziosamente.

- Qualche volta dovresti provare a prendere sul serio quello che dico.

- Fosse facile... E comunque cosa c'entra quel ragazzo con questa storia?

- Lo hai conosciuto oggi?

- Sì, più o meno... e allora?

- Lo sapevo!

La donna si mise le mani nei capelli e mi rivolse un'espressione di terrore, poi si voltò verso mio padre e gli diede una pacca sulla schiena.

- E tu non dici niente?

L'unica risposta che fu in grado di dare quell'altro fu tossire perché gli era andato il cibo di traverso.

- Mamma, smett-

- Non incontrarlo più!

- Tranquilla, dopo averti visto è scappato a gambe levate.

- E se fosse lui?

Lui cosa?

- L'avvenimento positivo.

Mi sbattei il palmo sulla fronte e decisi di rinunciare a trovare un accordo con mia madre, cosa che cercavo di fare da circa diciassette anni.

Cenai in fretta e mi chiusi a chiave nella stanza da letto. Ho dimenticato di dire che la mia camera si trovava al piano superiore rispetto al salotto e alla cucina e un po' più in alto di quella dei miei genitori. Era una vera e propria mansarda con la finestra nel soffitto; infatti quando la lasciavo aperta mi capitava di trovare qualche strano uccello in giro per la stanza. Il soffitto consisteva in diverse assi di legno allineate e costruite artigianalmente. Erano stati proprio i miei nonni, i genitori di mia madre, a costruire quella piccola villa. Da lì in poi il comune aveva deciso di affiancarvi tutte le altre, costruendole in modo simile.

Mi stesi a pancia in su sul letto, avendo rinunciato in partenza a fare i compiti. E come avrei potuto? La mia testa era un manicomio.

L'avvenimento positivo...

Sospirai e mi posizionai di fianco abbracciando il cuscino. Mi chiesi se in fondo mia madre non avesse davvero ragione, in qualche modo. Avevo conosciuto Alaric proprio quel giorno, anche se non era un'affermazione esatta. Era da anni che lo portavo con me, eppure non lo avevo mai visto e non avevo idea di chi fosse. Vivevamo nella stessa città da sempre, ma non mi sembrava di averlo mai incontrato neanche a scuola. Possibile? Allo stesso modo anche lui sembrava vedermi per la prima volta. 
Chissà perché era andato via in quel modo... Doveva essere davvero spaventato, anche se era stato lui a chiedermi di parlare faccia a faccia e non mi era sembrato poi così scosso. Pensai a quello per tutta la sera e, nonostante la miriade di brutti presentimenti e strane sensazioni che convergevano dentro di me, speravo vivamente di rivederlo il giorno successivo per poter continuare il discorso.

* * *

Ma Alaric non si fece vivo né quella notte né il giorno successivo a scuola e così per tutta la settimana. Avevo perfino smesso di percepire i suoi movimenti e le sue sensazioni, come se dall'altra parte non ci fosse assolutamente nulla. Spaventato com'ero, avevo deciso di non contattarlo i primi giorni, ma poi i miei sospetti crebbero a dismisura e non potei più aspettare. Se avessi saputo quale classe frequentava avrei evitato di chiudermi nel bagno per un'ora intera nel vano tentativo di contattarlo. Mi faceva male la testa e mi sentivo un idiota mentre cercavo di raggiungere un'altra persona con il pensiero. Più il tempo passava, più cominciavo a dubitare di cosa fosse successo realmente e cosa no. Ricordavo alla perfezione di aver parlato con Alaric, ricordavo ogni parola che mi aveva rivolto. Ma riguardo alla nostra prima conversazione... avevo cominciato a pensare che non fosse esistita davvero.

Mi appoggiai con le spalle al muro e scossi la testa. Non c'era verso di rintracciare quel ragazzo, era come se fosse scomparso completamente. E se era vero che aveva bisogno di prendere il mio stesso scuolabus per tornare a casa, allora perché non lo avevo più visto?

* * *

Trascorsero altri cinque giorni e, esattamente come la mattina in cui avevo sentito la sua voce per la seconda volta, anche quel giorno aveva cominciato a nevicare. Stavo tornando a casa, ero sullo scuolabus e guardavo fuori dal finestrino con indifferenza, come al solito. Quando il primo fiocco di neve si scontrò con il vetro spesso, lo scambiai per un pezzo di carta e non vi prestai particolare attenzione. Poi arrivò il secondo e così tutti gli altri. Il mio cuore cominciò a battere più velocemente per motivi inspiegabili. Non appena la vettura si fermò, mi precipitai all'esterno e mentre il bus avanzava, lasciando sempre più spazio al paesaggio retrostante, il mio cuore prese a battere ancora più forte. Quando ebbi la visuale completamente libera, trattenni il respiro.

- Alaric... sei qui.

Il ragazzo annuì e attese che io lo raggiungessi, senza fare un passo.

- Che fine avevi fatto... Io... Oh, cavolo...

Lo abbracciai con forza, ma mi allontanai dopo pochi secondi, temendo di aver esagerato.

- E questo per che cos'era?

- Sono solo felice che tu esista, pensavo di essere diventato completamente pazzo. Che fine avevi fatto?

- Influenza.

- Oh... è per questo che non riuscivo a contattarti?

- Ti ho sentito.

- Ah... allora scusa se ti ho disturbato.

- No, mi ha fatto piacere sapere che eri preoccupato per me.

Alaric sorrise e tirò su con il naso, ma era tutto così macchinoso nelle sue parole e nelle sue azioni.

- Nevica anche oggi. Hai intenzione di ammalarti di nuovo stare a casa altre due settimane? Vieni dentro.

Ma il biondo inchiodò i piedi a terra e scosse la testa.

- Meglio di no.

- Perché?

- Tua madre mi odia.

- No, perché dici questo?

Be', in realtà mi aveva pregato di non incontrarlo più, ma non credevo ai suoi deliri sull'arte divinatoria.

- Mi ha guardato in un modo strano l'ultima volta. Non vuole che io stia con te, vero?

- Nah, avrai frainteso. Mia madre già ti adora, mi ha chiesto subito il tuo nome.

- D'accordo, ma solo finché non smetterà di nevicare.

- Okay.

Guidai Alaric dentro casa, sperando di non terrorizzare mia madre. La donna si affacciò seduta stante per segnalare la sua presenza nel soggiorno, ma la mascella le cascò e sembrò dimenticare ciò che voleva dire.

- Oh... hai portato il tuo amico. Ciao... uhm... com'è che ti chiami?

- Alaric.

Il biondo mi guardò solo per una frazione di secondo, ma potei comunque percepire il suo disappunto.

- A-Alaric... ciao, vuoi unirti a noi per cena?

Il biondo scosse la testa e ringraziò mia madre con voce così bassa che dubitai lei lo avesse sentito davvero.

- Rimarrà qui finché non smette di nevicare.

Salii in fretta le scale; osai voltarmi soltanto una volta, ma preferii non averlo fatto, perché mia madre mi fissò con sguardo omicida.

Invitai Alaric a sedersi sul letto e presi il suo giubbotto zuppo di neve.

- Mi hai detto una bugia.

- Sì, hai ragione, ma non è esattamente come credi. Mia madre non ti odia, è solo un po'... svitata.

Mi sedetti accanto a lui e provai a ritornare sulla chiacchierata che avevamo lasciato in sospeso ma, quando mi voltai, notai che aveva la testa sollevata e lo sguardo rivolto verso la finestra che spezzava il perfetto susseguirsi delle assi di legno del soffitto. Sul vetro si era accumulata molta neve, cosicché era impossibile vedere il cielo.

- Ti piace?

- Che cosa?

- La neve, intendo. Ti piace?

- Preferisco quando non c'è.

Mi rispose continuando a guardare in su. Anche se lo vedevo di profilo, potevo chiaramente distinguere le lentiggini sul suo naso e sulla sua guancia. Aveva ragione: anche io preferivo quando la neve non c'era. Copriva tutto, nascondeva ogni cosa. Era spaventosa.

- Strano, anche la prima volta che abbiamo parlato nevicava.

- Credi nelle coincidenze?

- Se non conoscessi te, ti risponderei di sì.

- Quindi credi che io sia venuto qui apposta perché nevica?

- Mi piace pensarlo.

- Allora te lo lascerò credere.

Alzai anche io la testa e rabbrividii alla sola vista di tutta la neve che si era posata sul vetro, non vi ero per nulla abituato.

- In che senso?

Questa volta fu Alaric a voltarsi e a guardarmi. Potevo vederlo soltanto con la coda dell'occhio, aveva la solita espressione di indifferenza.

- Dimmi, la realtà è oggettiva o soggettiva?

- Soggettiva, credo.

- Allora se ti fa felice credere che io abbia scelto di incontrarti questo giorno soltanto perché nevica, non ti dirò il contrario, anche se potrebbe essere andata diversamente.

Gli angoli della bocca mi si sollevarono istintivamente. Lo avevo giudicato male in precedenza: quel ragazzo ci sapeva fare con le parole.

- Perché sorridi?

- Ti facevo più silenzioso.

- Già, ho parlato troppo.

- No! Continua, se vuoi. Mi piace ascoltarti.

- L'ultima volta non ho risposto alla tua domanda.

Annuii e mi preparai a fare attenzione a ogni sua parola.

- Sì, mi è capitato di sentirti molte volte. Non la tua voce, ma... Non so spiegarlo. Ho provato a contattarti perché volevo una spiegazione, ma a quanto pare nessuno dei due sa niente.

- Come hai fatto a capire che sono una persona? Insomma... io ero convinto che si trattasse di un problema del mio corpo o della mia mente.

- L'ho capito perché ho percepito i tuoi sentimenti.

- I miei... E che cosa hai sentito di preciso?

- La tua gioia, la tua tristezza, la tua frustrazione, tutto.

- Ma non pensavo fosse qualcosa di così forte da poter essere percepito perfino da te.

- Inconsciamente lo erano, forse.

- Mh... anche io ho sentito i tuoi sentimenti a volte, ma pensavo che...

- Non dirlo.

Alaric si protese in avanti e tentò di coprirmi la bocca con una mano, ma la ritirò subito dopo, rendendosi conto di aver agito d'impulso.

- Perché?

- Non voglio che tu ti faccia una cattiva idea di me, posso ancora migliorare.

- Pensi che io possa giudicarti soltanto perché sei triste? Non è mica colpa tua.

- Sì, che lo è.

- Allora ti insegnerò io a essere felice.

- Ma tu non sai-

Questa volta fui io a coprirgli la bocca con la mano.

- Impareremo insieme.

Alaric strinse la mano premuta sul suo viso, ma non la lasciò dopo averla spostata.

- E non hai paura?

- Paura di cosa?

- Di me, di noi... di questo.

Si indicò la testa e aggrottò la fronte, stava facendo uno sforzo enorme per parlare. Cercava di nascondere il suo essere irrequieto, febbricitante, tanto che sospettai che non fosse guarito del tutto.

- Paura? Sì, tanta. Ma non di te né di me né di noi. Se c'è qualcosa di cui avere davvero paura, non siamo né io né tu, ma è qualcosa che non possiamo comprendere. Tutte le cose che non possiamo comprendere sono terrificanti, ma io posso comprendere te e tu puoi comprendere me attraverso questo legame speciale. Quindi... hai paura di me?

Alaric scosse la testa debolmente, continuando a rivolgermi uno sguardo indecifrabile, con gli occhi che sembravano fremere al posto del corpo intero.

- Perfetto, perché neanche io ho paura di te.

- Ma ci siamo appena conosciuti e non sappiamo neanche cosa sia questa cosa che ci lega. Sei sicuro di voler essere mio amico?

Non saprei dire in quale preciso istante i nostri ruoli si fossero scambiati. Fino a qualche attimo prima ero io quello indeciso di fronte alla calma spiazzante dell'altro; subito dopo eccomi lì a tranquillizzarlo con parole piene di coraggio, come se i nostri animi si fossero invertiti.

- Hai dimenticato una cosa importante, Al. Noi non ci siamo appena conosciuti, ci siamo sempre conosciuti.

Come se i nostri animi fossero uno.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


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Capitolo Quarto

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Avevo paura, una paura matta. Ora che Alaric era andato via, avevo realizzato appieno la realtà dei fatti: ormai non potevo più affidarmi alla misera giustificazione che fosse tutto frutto della mia fantasia. Ma non avevo paura di Alaric, anzi, sebbene la sua esistenza fosse la concretizzazione dell'ombra che mi aveva seguito per anni, era pur sempre qualcuno che mi capiva, che mi aveva fatto compagnia dal momento in cui avevo realizzato di essere completamente solo. Ed ero sicuro che per lui era lo stesso. Forse il peso che mi aveva schiacciato lo stomaco per ben quattro anni, non erano la paura o il dubbio o la confusione, ma l'anima di lui che aveva scelto di affidarsi a me così come la mia aveva scelto di affidarsi a lui. Ed entrambi ci saremmo presi cura delle nostre anime.

* * *

Mi alzai all'improvviso non appena sentii il trillo del campanello e raggiunsi la porta quasi correndo per precedere mia madre. Mi tolsi le briciole di dosso e aprii.

- Buongiorno, Al.

Il ragazzo mi salutò con la mano e, se non lo avessi avuto di fronte, non avrei capito che aveva ricambiato il mio buongiorno anche a voce.

- Vuoi fare colazione con noi?

Mia madre si affacciò con una tazza di caffè fumante fra le mani e un sorriso forzato stampato sul volto. Diamine, non poteva cercare di essere meno esplicita?

- No, grazie.

- Come?!

- Mamma, ha detto di no. Andiamo?

Ma non feci in tempo ad allungare il braccio verso l'appendiabiti, che la donna mi tirò per un orecchio.

- Al! Finisci di fare colazione.

- Sissignora...

Alaric si sedette a tavola accanto a me, ma non osò toccare nulla. Stava lì composto come una marionetta, senza muovere un muscolo. Mia madre aveva optato per fare colazione in piedi, appoggiata al piano da cucina, e faceva finta di bere il suo caffè mentre in realtà scrutava Alaric con attenzione.

- Sicuro di non voler mangiare? Hai fatto colazione?

Il biondo scosse la testa, i pensieri chissà dove.

Una volta pronto, trascinai Alaric fino alla porta e salutai mia madre di sfuggita.

- Cosa ti dà la forza di venire qui a piedi alle sette di mattina?

L'altro alzò le spalle e schiuse le labbra, ma non disse niente.

- Puoi rispondere, sai?

- Sì.

Mi frugai un po' nelle tasche ed estrassi una merendina confezionata che avevo sottratto da un mobile mentre mia madre era distratta.

- Tieni, non fa bene iniziare la giornata a stomaco vuoto.

- Ma...

Scartai la merendina e gliela infilai in bocca senza troppe cerimonie. Sorrisi alla vista di Alaric che tentava di mostrarsi serio anche con la bocca piena e sporca di cioccolata. Proprio in quel momento mi venne un'idea.

- Al, ho dimenticato una cosa, mi accompagni?

- Che cosa?

- È un segreto.

Cominciai a guidarlo sul viale ricco di pietruzze, sicuro che si stesse chiedendo perché lo stessi portando da tutt'altra parte, e a buon diritto: in realtà non avevo dimenticato un bel niente.

- Al, abbiamo superato casa tua da un pezzo. Dove mi stai portando?

Alaric mi raggiunse, ma si fermò di nuovo e si piegò sulle ginocchia poiché il fiato già scarseggiava.

- Abbiamo fatto a malapena venti metri, ce la fai?

- Sì, andiamo.

Si aggrappò al mio zaino e riprese a camminare.

- Vedi quello?

- È una capanna?

- Preferisco chiamarlo osservatorio.

Giunti davanti alla costruzione in legno, spiegai ad Alaric in che modo arrampicarsi. Quella baracca era piena di attrezzi per il giardino su cui, dopo la morte dei miei nonni, nessuno aveva messo più mano. Dalla finestra della mia stanza, arrampicandomi a dovere, potevo vederla benissimo. Vi potreste chiedere perché preferissi salire sul tetto della capanna in legno anziché su quello della mia casa; be', la capanna costruita dai miei nonni aveva il tetto a cupola ricoperto di soffice fieno, a differenza di quello in pendenza e pieno di escrementi di uccelli di casa mia.

Mi arrampicai per primo, poi mi chinai e allungai il braccio verso Alaric per aiutarlo a salire. Sembrava molto affaticato, evidentemente non era abituato a fare cose del genere. Ci sedemmo l'uno accanto all'altro ma, quando lo invitai a stendersi, lui rifiutò.

Da quella posizione avrei potuto vedere perfettamente il suo viso se non avesse alzato la testa per guardare in alto, come aveva fatto anche nella mia stanza il giorno precedente.

- Ti piace proprio tanto, eh?

- È un po' scomodo.

Sorrisi e gli lanciai una manciata di fieno che gli si sparpagliò sulla testa e le spalle, ma lui non batté ciglio.

- Mi riferisco al cielo, ti piace?

- È la seconda volta che me lo chiedi.

- Ieri ti ho chiesto se ti piacesse la neve.

- E quindi ora vuoi sapere se mi piace il cielo nuvoloso?

Scossi la testa anche se non poteva vedermi.

- Voglio sapere perché stai sempre con il naso all'insù.

- Soltanto perché me l'hai visto fare un paio di volte. Stavo pensando a una cosa...

- Sì?

Allungai una mano verso le sue spalle per far cadere l'erba secca che gli avevo gettato addosso, ma la ritirai con il timore di infastidirlo.

- I tuoi occhi e il cielo oggi sono dello stesso colore.

Il mio sguardo rimase inchiodato sulle sue spalle e sussultai quando si voltò. Aveva un volto inespressivo, ma chissà perché quando mi guardava in quel modo riuscivo sempre a capire che stava pensando a qualcosa di importante.

- Perché?

- È così e basta, non c'è un motivo.

Si voltò di nuovo e rivolse la testa verso il cielo.

- Al...

- Lo so: non dico mai le cose senza un motivo preciso. Ma voglio che questa volta sia tu a indovinare.

Sorrisi spontaneamente e spostai anche io lo sguardo verso il cielo.

- Come se fosse facile dirlo a parole.

- Non devi usare parole difficili.

- Stai cercando di associarmi a un cielo nuvoloso?

- Sì, esatto. Quando il cielo è nuvoloso vuol dire che sta per piovere. Le nuvole sono grigie e cariche di pioggia, eppure fino a un attimo prima che cominci a piovere è tutto così calmo. Se non lo sapessi già, non ci crederei.

- Al, non sei stato chiaro neanche questa volta.

Il ragazzo si voltò e fissò i suoi occhi nei miei con tale prepotenza che sentii dileguarsi in me ogni accenno di quell'atteggiamento sfacciato.

- Secondo te è facile capire quando un cielo pieno di stelle è triste?

- Lo è sempre.

- Perché?

La mia esitazione nel rispondere si tradusse in un leggero tremito delle labbra.

- Tutto ciò che è immortale è infelice.

Finalmente Alaric sorrise, di modo che anche i suoi occhi feroci divennero mansueti.

- E un cielo nuvoloso è immortale?

- No.

- Ma è comunque infelice?

- Questo non lo so.

- La risposta è: sì.

Mi morsi il labbro inferiore e lanciai un'occhiata inquieta al cielo sovrastante, così calmo ma minaccioso allo stesso tempo.

- Più di un cielo stellato?

- Un cielo nuvoloso è infelice perché è costretto a nascondere la sua stessa infelicità, ma un cielo stellato non può mentire.

Scossi la testa, indossando un'espressione confusa.

- Non capisco.

Alaric si protese verso di me e abbassò il tono di voce, come se non fosse già abbastanza simile a un sussurro.

- Vuoi essere la mia scusa per essere felice?

Mi sciolsi in una risata, da quanto tempo non succedeva? Riuscii a cacciar fuori un "certo" fra i sorrisi e fui ricambiato con uno sguardo ricco di gratitudine.

- Sono felice di essere diventato tuo amico, Al.

- Anche io, Al.

Mi ricomposi e chiesi ad Alaric il permesso di sistemargli i capelli. Lui annuì e piegò un po' la testa all'indietro. Proprio in quel momento mi ricordai di una cosa.

- Hey, non mi dici nulla?

- Mh?

- Abbiamo perso lo scuolabus da un bel po', te ne sei accorto, vero?

- Ho capito che l'avremmo perso nel momento in cui mi hai chiesto di accompagnarti.

- E non sei arrabbiato?

- No, tanto avrei trascurato le lezioni per parlare con te.

Quella risposta così schietta mi sorprese alquanto, tanto che la mia mano rimase sollevata a mezz'aria, con una ciocca dei suoi capelli biondi incastrata fra le dita.

- Che c'è?

- Oh... Credo che stia iniziando a piovere.

Infatti una goccia fredda aveva appena colpito il dorso della mano che avevo arrestato all'improvviso. La goccia fu seguita da innumerevoli altre, finché non si scatenò un temporale prima che potessimo accorgercene. 
Io e Alaric scendemmo in fretta dal tetto della capanna e corremmo verso l'ingresso della casa, io ridendo e urlando, lui sorridendo in silenzio.

- Aspetta!

Afferrai la sua mano e lo attirai con me sotto il portico, appena dietro l'angolo. Mia madre era davanti al portone d'ingresso e tentava di aprire un vecchio ombrello. La vidi entrare in macchina e allontanarsi senza accorgersi di nulla. Tirai un sospiro di sollievo e mi affrettai a infilare le chiavi nella serratura.

- Mia madre si sarebbe incavolata da matti.

In risposta ricevetti un'occhiata carica di disappunto, poi una frase pronunciata con diffidenza.

- Credo proprio che tornerà prima della fine delle lezioni.

- Sicuramente, ma di solito non entra nella mia stanza quando non ci sono.

Lo condussi in bagno e gli porsi un asciugamano per sistemarsi i capelli. Ora che erano bagnati fradici si mostravano con una tonalità molto più scura, che non stonava più di tanto con quegli occhi grandi e castani.

Quando fummo entrambi in una condizione migliore, Alaric mi chiese se poteva sedersi sul mio letto, poiché sentiva freddo. Gli feci togliere le scarpe e gli porsi una coperta. Quanto a me, non ero solito sentirmi così a terra dopo una corsa sotto la pioggia e pensai nuovamente che Alaric non fosse affatto abituato a stare all'aperto, soprattutto d'inverno. Forse era proprio per questo che si presentava con un fisico ben diverso dal mio: era più basso e snello e, nonostante io non fossi per niente un tipo atletico, in confronto a lui lo sembravo.

Mi sedetti accanto a lui, collocandomi volutamente a una distanza considerevole. Dopo la chiacchierata di pochi minuti prima, la mia mente aveva seguitato a chiedersi con insistenza se non ci fossimo avvicinati troppo nel giro di pochi giorni. In realtà, nonostante la possibilità di comunicare tramite il pensiero, io e Alaric ci imbattevamo in argomenti stimolanti soltanto quando eravamo fisicamente vicini; infatti, dopo la nostra prima chiacchierata, non avevamo fatto più uso di quello strano potere. Forse volevamo semplicemente sentirci più normali di quanto non fossimo. Vero è che molte persone ricercano la felicità nella diversità; noi, invece, stavamo inconsciamente cercando un po' di normalità in una schiacciante e bizzarra monotonia. 
Ripensai alle domande che Alaric mi aveva rivolto il giorno precedente con la voce animata da un chiaro sentimento di stupore e gioia, quando gli avevo espresso il mio desiderio di diventare suo amico: sebbene avessimo entrambi la sensazione di conoscerci da tempo, questa sicurezza valeva soltanto sul piano astratto. Avevo bisogno di sapere qualcosa in più su di lui, qualcosa in più oltre al suo nome e alla sua corrispondenza con il cielo.

- Al? Posso farti una domanda?

- L'hai già fatto.

Si strinse di più nella coperta e mi guardò chinando il capo e sollevando leggermente le gambe da terra, come a chiedermi silenziosamente se potesse appoggiarle sul letto. Annuii e attesi che si portasse le ginocchia al petto prima di parlare.

- Dimmi, cosa fai di solito? A parte studiare, mangiare e dormire, ovviamente.

Alaric assunse un'espressione pensosa senza però distogliere lo sguardo dalla mia faccia, che esprimeva curiosità da ogni dove.

- Uhm... solitamente mi riposo. Sai, mi sveglio presto e quando torno da scuola sono molto stanco.

- A che ora ti alzi la mattina?

- Alle sei. E tu?

- Circa dieci minuti prima che passi lo scuolabus.

Mi grattai la nuca fingendo imbarazzo, mentre in realtà ero molto fiero delle mie abitudini mattutine, visto che riuscivo a fare colazione e a vestirmi in pochi minuti.

- Scommetto che la sera vai a dormire tardi.

- Scommetti o lo sai già?

- Spesso riesco a percepire quando non dormi. Mi sveglio nel bel mezzo della notte per motivi sempre diversi.

- Già, ho notato che quando siamo entrambi molto stanchi o sul punto di addormentarci, siamo molto più sensibili a... questa cosa.

Alaric strinse le palpebre nel vano tentativo di rifilarmi un'occhiataccia.

- È per questo che la notte dovresti dormire, invece di combinare chissà cosa.

- Be', quando non riesco a prendere sonno guardo dei film.

- Vorrei sapere che genere di film...

In quel momento mi accorsi che il rossore e il disappunto impressi sul viso di lui, non erano altro che la trasposizione dei miei sentimenti. Questa volta Alaric aveva colpito nel segno.

* * *

Alla fine Alaric optò per scappare dalla finestra non appena sentì la porta di casa aprirsi verso mezzogiorno, ma lo trattenni a stento mentre cercavo di convincerlo che era un'idea folle e che non se la sarebbe cavata con un solo osso spezzato. Ancora non riuscivo a capire perché lo infastidisse così tanto vedere mia madre, ma non volevo neanche costringerlo a stare nella stessa stanza con lei, visto che lo faceva sentire estremamente a disagio. 
Chiusi la porta a chiave e intimai all'altro di fare silenzio. Lo rassicurai dicendogli che dopo pranzo mia madre sarebbe uscita di nuovo, poiché quel giorno la attendeva anche un secondo turno di lavoro verso le due. 
Il biondo si avvolse di nuovo la coperta attorno alle spalle e si chiuse nel suo solito silenzio contemplativo. Io, invece, decisi di passare il tempo giocando al cellulare, dal momento che era palese che ad Alaric era passata la voglia di chiacchierare. In quei pochi e strani giorni di conoscenza avevamo parlato tanto, ma quel tanto riguardava quasi interamente me.

Non riuscivo a vedere Alaric in faccia, cosa che mi infastidiva non poco, dal momento che non si era mosso di un millimetro nell'ultimo quarto d'ora e continuava a darmi le spalle. Mi protesi sul suo corpo rannicchiato, ma lui non si accorse di nulla. Gattonai sul materasso tentando di non fare rumore e finalmente lo guardai in faccia: aveva gli occhi chiusi e la testa china, i capelli biondi scompigliati a coprirgli la fronte e le labbra socchiuse. Sonnecchiava come un bambino. Avrei voluto ritornare al mio posto per non risultare inquietante, ma il mio corpo non accennò a muoversi poiché io stesso, inconsciamente, gli avevo ordinato di fermarsi a contemplare le lentiggini che riposavano sul visto di Alaric.

Sei un cielo che non può mentire, eh?

Sentii gli angoli della bocca sollevarsi in un sorriso amaro: Alaric non sapeva mentire, ma ci provava spudoratamente. Lo conoscevo da poco e già detestavo questo suo lato.

Trattenni il respiro quando i suoi occhi si aprirono all'improvviso, grandi e distratti. Mi spostai prima che il ragazzo cominciasse a mettere a fuoco la mia immagine e afferrai di nuovo il cellulare.

- Ti ho visto...

- Ti sei sbagliato.

- Mh... tua madre è ancora qua?

Provò ad alzarsi, ma cadde all'indietro sul materasso e rimase così, con un braccio disteso e uno sul petto.

- No, è andata via da un po'.

- Bene, allora vado...

Si mise a sedere e allungò le mani verso il pavimento per prendere le scarpe.

- Aspetta! Non hai fame?

- Mangio a casa.

- E i tuoi non ti dicono niente? Per il fatto che non sei andato a scuola...

- No, saranno più felici di sapere che sono stato con te.

Mi sentii avvampare per lo stupore.

- Gli hai parlato di me?

- Sì, gli ho anche fatto vedere una foto. Hanno detto che sei carino.

- Ma che...

Alaric si alzò e mi ringraziò, dopodiché uscì dalla porta e se la chiuse alle spalle. Ascoltai con attenzione il rumore dei suoi passi lenti sulle scale, mentre un sorriso si dipingeva inspiegabilmente sul mio volto.

È lui? È così felice di aver trovato un amico?




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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


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Capitolo Quinto

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Alla fine mia madre mi aveva scoperto e aveva cominciato a pensare che ci fosse qualcosa che mi spingeva a non voler andare a scuola: era convinta che qualcuno mi avesse fatto qualcosa e a quanto pareva era inutile ripeterle che lì in mezzo non mi considerava nessuno. Naturalmente non le avevo detto che Alaric era stato tutta la giornata con me, altrimenti sarebbe impazzita. Dopo una lunga discussione durata tutta la cena, me la cavai con la scusa che non ero riuscito a fare i compiti e non me la sentivo di fare una brutta figura con i professori. A dire la verità non li facevo quasi mai, ma non ero ancora stato beccato.

Quella sera andai a letto più presto del solito perché non volevo che Alaric si svegliasse nel bel mezzo della notte a causa mia. Non avevo mai avuto un amico, perciò non sapevo bene come avrei dovuto comportarmi, ma sentivo che quella era la cosa giusta da fare.
Purtroppo però, esattamente come mi aspettavo, non riuscivo a prendere sonno e fu alquanto difficile rinunciare più volte all'impulso di accendere il cellulare o il computer. Proprio quando il corpo stava per cedere, una voce familiare rimbombò nella mia testa.

"Sì."

"Sì... cosa?"

"Sono felice."

"Oh... quindi oggi mentre stavi andando via mi hai sentito?"

"Ti sento più spesso di quanto immagini."

Cambiai posizione e appoggiai un lato del viso sul cuscino.

"Allora devo stare più attento a quello che penso."

"Già... La prima volta che ci siamo visti hai creduto che fossi basso."

Trattenni una risata mordendomi il labbro inferiore.

"Avrai sentito i pensieri di qualcun altro..."

"Al..."

"Sarà perché eri seduto. Io invece non ho sentito un bel niente, perché?"

Ci fu una pausa.

"Semplicemente... perché non volevo che tu lo facessi."

"Mi stai dicendo che riesci a non farmi sentire i tuoi pensieri?"

"Non sempre, neanche io ho ben capito come si faccia... ci riesco e basta."

Annuii e mi rimisi di nuovo a pancia in su, con braccia aperte e gambe divaricate.

"Perché non vuoi?"

Un'altra pausa.

"Sarebbe strano, non credi?"

"Sarà."

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando di fare di preciso, ma mi stavo sforzando parecchio.

"Al, ti sei offeso?"

"Al...?"

"Hey?"

"Uhm... si sarà addormentato."

"Sono qui."

"Ah."

"Ci sono riuscito anche io, visto?"

"Non farlo mai più."

Avrei scommesso che aveva messo su il broncio, anche se non potevo vederlo.

"Perché? Anche io ho bisogno di un po' di privacy, sai?"

"Se proprio devi..."

Ridacchiai, ma un dolore improvviso alla testa segnalò che il limite era vicino; presto ci saremmo stancati entrambi.

"Vorresti sapere tutto quello che faccio?"

"Non è questo. Sai che non parlo molto con le altre persone, anzi, tu sei il mio unico amico, quindi mi fa piacere sentire la tua presenza."

"Ti fa piacere? Al, non sminuire i tuoi sentimenti."

"Che intendi?"

Percepivo un enorme peso sullo stomaco, di cui però non ero minimamente intenzionato a liberarmi. Era da un po' che rimuginavo su quel pensiero, ma non potevo prevedere le conseguenze nel caso in cui ne avessi parlato con Alaric.

"Nulla. Soltanto... non farlo. Ora vado, buonanotte."

La mia testa minacciava di scoppiare come un palloncino al limite della sua capacità, potevo davvero sentire le vene pulsare con forza.

"D'accordo. Ci vediamo domani, 'notte."

Sospirai e mi tolsi le lenzuola di dosso con un debole calcio. Di dormire non se ne parlava proprio e qualcosa mi diceva che quella notte neanche Alaric ci sarebbe riuscito. Il mio cervello era attivo e carico di pensieri, così tanto da non poter escludere una connessione con l'altro; in ogni caso sperai che fosse preso dalle sue riflessioni e che non badasse alle mie.

In tutti quegli anni avevo creduto di soffrire per il semplice fatto di non avere amici. Certo, non è cosa da poco starsene da soli a quell'età, specialmente in una città piena di adolescenti in cerca di distrazioni dalla scuola, unica colonna posta lì per sorreggere e alimentare le loro monotone vite, ma non è questo il punto. Per tanto tempo mi era sembrato di vivere come un escluso, rifiutato da quella banda di ragazzi annoiati, ma la verità era che anch'io facevo parte, pur non volendo, di quella cerchia; anch'io ero una persona tremendamente annoiata e, come tale, non mi andava affatto di unirmi ad altre persone ugualmente annoiate, in modo da dare ancora più peso alla mia interminabile noia. Insomma, non è che nessuno mi volesse, ero io a non volere nessuno. 
Più che chiedermi perché non avessi amici, però, dall'inizio del liceo avevo occupato il mio tempo chiedendomi se, una volta diventato adulto, quell'orribile periodo avrebbe visto la sua fine. Dopo essermi arrovellato il cervello per minuti infiniti, giungevo sempre alla stessa conclusione: con ogni probabilità la risposta era no, ma ci avevo già fatto l'abitudine.

Riassunto di questa strana e confusa accozzaglia di pensieri: non c'era motivo per cui essere così triste, dunque quell'opprimente, inquietante e indistruttibile tristezza non era la mia, ma apparteneva ad Alaric ed era talmente grande da far soffrire anche me. 
Il mio spirito da eroe desolato mi aveva suggerito di agire e portare un po' di luce in quell'animo abbattuto. La forza di volontà non mi mancava, ma ogni volta che ci provavo, mi sembrava di essere ai piedi di una montagna la cui cima è così lontana da non essere visibile. 
E quei fremiti che mi svegliavano la notte... da quanti, quanti anni? Ogni volta avevo ingenuamente creduto di essere irreparabilmente triste, mentre in realtà era il suo animo convulso che bussava all'ingresso del corpo che ospitava il mio, spesso distratto, a volte assopito, raramente interessato e contemplativo, animo. Eppure ero stato così ingenuo da confonderli: avevo affibbiato ad Alaric gli stessi connotati con cui, in quel momento, stavo definendo il mio animo. Chissà se anche a lui quei medesimi errori avevano fatto lo sgambetto, anche se non ritenevo la cosa molto probabile: Alaric era di gran lunga più sveglio di me.

* * *

La prima cosa che feci quella mattina fu controllare se nevicasse. Ormai, da quando avevo conosciuto Alaric, ogni giorno nutrivo dei forti dubbi sulla sua esistenza o semplicemente avevo il timore che avrebbe smesso di venire a scuola per un bel po', com'era già successo. Che esistesse o no, quell'animo minuto e silenzioso era mio amico e gli sarei stato accanto a costo di perdere di vista i miei limiti fisici. Eravamo così diversi da sembrare fratelli, due esistenze opposte nate dalla stessa sorgente, così unite da poter comunicare a labbra serrate. Eppure quando lui scompariva e bloccava tutti i cancelli che permettevano l'accesso alla mia persona, era impossibile capire dove fosse e cosa pensasse, quasi come se non fosse mai esistito. Quel vuoto mi spaventava più della consapevolezza di aver conosciuto una persona del genere.

La mia delusione si risolse in un sospiro quando constatai che non nevicava affatto, anche se in compenso delle timide gocce d'acqua bussavano debolmente alla mia finestra. 
Mi preparai in fretta, intento a precipitarmi di sotto per controllare se Alaric mi aspettasse al solito posto. Pensando a ciò, ogni volta mi fermavo e un sorriso ironico stravolgeva il mio viso ancora segnato dalla stanchezza. Io e lui avevamo parlato poco e niente e, sommando tutte le volte in cui ci eravamo incontrati, non si raggiungeva neanche la doppia cifra. Eppure tutto ciò che concerneva il nostro rapporto era divenuto improvvisamente abitudine: era abitudine sfregarmi gli occhi al mattino quando percepivo che lui si era svegliato; era abitudine ridere dell'espressione sconcertata di mia madre quando scorgeva Alaric alla fermata dello scuolabus, affacciata alla finestra; era abitudine provare a fare una chiacchierata notturna, ma ricevere in risposta soltanto il debole respiro di un corpo addormentato; era abitudine fermarmi davanti alla finestra prima di andare a dormire e cercare di unire le stelle per dar vita a un volto familiare; era abitudine lasciarmi andare con la testa sul banco di scuola o sul pavimento del bagno, coprirmi il viso con le mani e riscoprirle piene di lacrime, sorpreso e inspiegabilmente distante da me stesso; era abitudine ridere della strana piega che aveva preso la mia vita, come se, finché non avevo incontrato la concretizzazione dell'ombra che mi aveva sempre accompagnato, fossi stato normale.

Una volta pronto, salutai mia madre distrattamente e mi chiusi la porta alle spalle. Alaric non c'era. Raggiunsi la fermata e mi guardai intorno, sperando di vederlo comparire da un momento all'altro.

"Al? Hai deciso di saltare la scuola anche oggi?"

Sbuffai e guardai l'orologio, non c'era nessuna possibilità che arrivasse a quell'ora. Quando decideva di presentarsi lì, era sempre puntuale.

"Stai dormendo?"

Effettivamente quella mattina non l'avevo sentito svegliarsi, ma allo stesso tempo non potevo affermare con sicurezza che stesse ancora dormendo. Non riuscivo a percepire il suo respiro né la sua presenza in generale; era la stessa sensazione che provavo ogni volta che decideva di tagliarmi fuori dalla sua vita. Mi sentii in qualche modo offeso, ma salii comunque sullo scuolabus con l'espressione annoiata di sempre e la voglia quasi nulla di sentir parlare per l'ennesima volta della triste storia di Hopewell.

Scesi dalla vettura e protestai sottovoce contro i ragazzi che si erano ammassati davanti al cancello d'ingresso dell'edificio. Mi feci spazio fra la folla con i gomiti, intento a oltrepassare il cancello con indifferenza, ma i miei occhi mi tradirono e rivolsi uno sguardo distratto a un manifesto bianco incollato alle sbarre del cancello. Chiunque leggesse lì sopra sembrava triste, sconvolto, curioso, spaesato; le stesse espressioni che dovevo indossare io in quel momento e che facevano sì che mi confondessi con quell'enorme folla di individui sconosciuti, grigi come l'acqua del mare su cui si riflette un cielo carico di nuvole. Grigi come me.

Al era morto. Non saprei dire quale dei due, probabilmente entrambi o forse soltanto quello che era esistito davvero. Ma chi dei due era reale? Entrambi, nessuno. I nostri corpi erano soltanto delle scatole vuote per un animo diviso in due, alla ricerca dell'immensità e rinchiuso in un mondo pieno di confini. Oh... cara, sola, triste Hopewell, così piccola eppure spettatrice di una così grande e forte brama di vita. Uno slancio di vitalismo condiviso, uno slancio di vitalismo sopravvissuto a metà.


"Al, voglio vivere, anche se non sono poi così sicuro di essere ancora vivo. Forse sono semplicemente vivo a metà... o morto a metà. Ormai non m'importa."

"Al, il tuo corpo mortale ha ceduto, non è stato in grado di sostenere un tale desiderio di vivere. Sarà perché in cuor tuo eri ben consapevole che avresti abbandonato la vita molto presto e hai voluto donare a me anche la tua metà di spirito. Probabilmente ora sei dentro di me, ma percepisco soltanto un enorme vuoto che minaccia di attirarmi al suo interno per farmi scomparire."

"Al, ci sei? Non stai dormendo... lo so. Ma continuerò a chiamarti e griderò il tuo nome ancora più forte quando vorrò mostrarti la felicità... abbi cura di rispondere se non vuoi perderti nulla. Anzi, se non vuoi rispondere non importa, però apri gli occhi e guarda con me, in silenzio. Ti piace tanto il silenzio, non è così? Ti piace talmente tanto che anche tu te ne sei andato in silenzio, mentre dormivi."

"Al... ormai non so neanche se sto parlando con te o con me stesso. Mi senti? Ma che domande... ovvio che mi senti, tu sei con me ora. Ora c'è un solo Al, vero? Non potremmo più confonderci."

"Al... non cercavo un amico, ma grazie per esserlo stato lo stesso. Cercavo me stesso e ci sono riuscito: me stesso sei tu, te stesso sono io. Ma il mio compito non è finito. Ho ben altro da cercare, la strada è lunga, ma non è importante, perché tu sarai con me."

"Al, mi diranno che eri debole, sbagliato e che ti sei arreso; mi diranno che è stata una brutta malattia a portati lassù, in cielo. E sai cosa risponderò a tutti loro? Mi farò prima una bella risata e poi dirò che è impossibile che tu sia salito in cielo, perché il cielo sei tu, perché il tuo volto è la dimora delle stelle, perché un cielo stellato non può mentire. E dirò anche che non sei debole, perché hai trovato la forza di mentirmi ugualmente. Sai, non te ne faccio una colpa, anzi, grazie per non avermi detto addio, non avrei proprio saputo come risponderti e una consolazione era l'ultima cosa che avresti voluto. O forse, alla fine, nessuno mi parlerà di te."

"Al, non voglio mentire mai più a me stesso. Hai detto che sono un cielo nuvoloso e che dico la verità soltanto quando piove. Allora mi assicurerò che piova sempre dentro di me, sarà un modo per essere onesto con me stesso e per giustificare le mie lacrime. Farò tutto questo per te, però tu non lasciarmi, d'accordo? Anche se l'obiettivo appare lontano e il cammino è faticoso, tu non lasciarmi. Dobbiamo trovare l'immensità insieme. Il mio è un animo stanco, ma credimi, so riconoscere una cosa bella quando la vedo. Ti prometto che ti chiamerò quando sarà il momento."

"Al, mia madre aveva ragione. Forse ogni tanto dovrei dare retta ai suoi deliri. Tu sei l'avvenimento positivo. Il mio avvenimento positivo. E perderti è stata la tragedia che ha ristabilito l'equilibrio. Ma va bene così, perché rimarremo insieme per sempre. Perché io e te siamo un noi infinito."

"Al, per tutte le volte che hai pianto attraverso le mie lacrime, attraverso la pioggia; per tutte le volte in cui ha fatto finta di non sapere che ci saremmo riuniti; per quella volta in cui, stanco, hai continuato a correre con me; per tutte le volte in cui mi hai guardato negli occhi e gli angeli di due cieli opposti hanno pianto lacrime umane e intonato inni celesti simultaneamente; grazie."

"Al, amico mio, e Al, me stesso: a volte le nuvole oscureranno le stelle, altre volte le stelle splenderanno di verità, ma voi sarete vivi in ogni caso e continuerete ad esserlo finché ci sarà il cielo...

 mentre noi cerchiamo il sole

... e cercherete il sole."


 


Alla fine mia madre mi aveva scoperto e aveva cominciato a pensare che ci fosse qualcosa che mi spingeva a non voler andare a scuola: era convinta che qualcuno mi avesse fatto qualcosa e a quanto pareva era inutile ripeterle che lì in mezzo non mi considerava nessuno. Naturalmente non le avevo detto che Alaric era stato tutta la giornata con me, altrimenti sarebbe impazzita. Dopo una lunga discussione durata tutta la cena, me la cavai con la scusa che non ero riuscito a fare i compiti e non me la sentivo di fare una brutta figura con i professori. A dire la verità non li facevo quasi mai, ma non ero ancora stato beccato.

Quella sera andai a letto più presto del solito perché non volevo che Alaric si svegliasse nel bel mezzo della notte a causa mia. Non avevo mai avuto un amico, perciò non sapevo bene come avrei dovuto comportarmi, ma sentivo che quella era la cosa giusta da fare.
Purtroppo però, esattamente come mi aspettavo, non riuscivo a prendere sonno e fu alquanto difficile rinunciare più volte all'impulso di accendere il cellulare o il computer. Proprio quando il corpo stava per cedere, una voce familiare rimbombò nella mia testa.

"Sì."

"Sì... cosa?"

"Sono felice."

"Oh... quindi oggi mentre stavi andando via mi hai sentito?"

"Ti sento più spesso di quanto immagini."

Cambiai posizione e appoggiai un lato del viso sul cuscino.

"Allora devo stare più attento a quello che penso."

"Già... La prima volta che ci siamo visti hai creduto che fossi basso."

Trattenni una risata mordendomi il labbro inferiore.

"Avrai sentito i pensieri di qualcun altro..."

"Al..."

"Sarà perché eri seduto. Io invece non ho sentito un bel niente, perché?"

Ci fu una pausa.

"Semplicemente... perché non volevo che tu lo facessi."

"Mi stai dicendo che riesci a non farmi sentire i tuoi pensieri?"

"Non sempre, neanche io ho ben capito come si faccia... ci riesco e basta."

Annuii e mi rimisi di nuovo a pancia in su, con braccia aperte e gambe divaricate.

"Perché non vuoi?"

Un'altra pausa.

"Sarebbe strano, non credi?"

"Sarà."

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando di fare di preciso, ma mi stavo sforzando parecchio.

"Al, ti sei offeso?"

"Al...?"

"Hey?"

"Uhm... si sarà addormentato."

"Sono qui."

"Ah."

"Ci sono riuscito anche io, visto?"

"Non farlo mai più."

Avrei scommesso che aveva messo su il broncio, anche se non potevo vederlo.

"Perché? Anche io ho bisogno di un po' di privacy, sai?"

"Se proprio devi..."

Ridacchiai, ma un dolore improvviso alla testa segnalò che il limite era vicino; presto ci saremmo stancati entrambi.

"Vorresti sapere tutto quello che faccio?"

"Non è questo. Sai che non parlo molto con le altre persone, anzi, tu sei il mio unico amico, quindi mi fa piacere sentire la tua presenza."

"Ti fa piacere? Al, non sminuire i tuoi sentimenti."

"Che intendi?"

Percepivo un enorme peso sullo stomaco, di cui però non ero minimamente intenzionato a liberarmi. Era da un po' che rimuginavo su quel pensiero, ma non potevo prevedere le conseguenze nel caso in cui ne avessi parlato con Alaric.

"Nulla. Soltanto... non farlo. Ora vado, buonanotte."

La mia testa minacciava di scoppiare come un palloncino al limite della sua capacità, potevo davvero sentire le vene pulsare con forza.

"D'accordo. Ci vediamo domani, 'notte."

Sospirai e mi tolsi le lenzuola di dosso con un debole calcio. Di dormire non se ne parlava proprio e qualcosa mi diceva che quella notte neanche Alaric ci sarebbe riuscito. Il mio cervello era attivo e carico di pensieri, così tanto da non poter escludere una connessione con l'altro; in ogni caso sperai che fosse preso dalle sue riflessioni e che non badasse alle mie.

In tutti quegli anni avevo creduto di soffrire per il semplice fatto di non avere amici. Certo, non è cosa da poco starsene da soli a quell'età, specialmente in una città piena di adolescenti in cerca di distrazioni dalla scuola, unica colonna posta lì per sorreggere e alimentare le loro monotone vite, ma non è questo il punto. Per tanto tempo mi era sembrato di vivere come un escluso, rifiutato da quella banda di ragazzi annoiati, ma la verità era che anch'io facevo parte, pur non volendo, di quella cerchia; anch'io ero una persona tremendamente annoiata e, come tale, non mi andava affatto di unirmi ad altre persone ugualmente annoiate, in modo da dare ancora più peso alla mia interminabile noia. Insomma, non è che nessuno mi volesse, ero io a non volere nessuno. 
Più che chiedermi perché non avessi amici, però, dall'inizio del liceo avevo occupato il mio tempo chiedendomi se, una volta diventato adulto, quell'orribile periodo avrebbe visto la sua fine. Dopo essermi arrovellato il cervello per minuti infiniti, giungevo sempre alla stessa conclusione: con ogni probabilità la risposta era no, ma ci avevo già fatto l'abitudine.

Riassunto di questa strana e confusa accozzaglia di pensieri: non c'era motivo per cui essere così triste, dunque quell'opprimente, inquietante e indistruttibile tristezza non era la mia, ma apparteneva ad Alaric ed era talmente grande da far soffrire anche me. 
Il mio spirito da eroe desolato mi aveva suggerito di agire e portare un po' di luce in quell'animo abbattuto. La forza di volontà non mi mancava, ma ogni volta che ci provavo, mi sembrava di essere ai piedi di una montagna la cui cima è così lontana da non essere visibile. 
E quei fremiti che mi svegliavano la notte... da quanti, quanti anni? Ogni volta avevo ingenuamente creduto di essere irreparabilmente triste, mentre in realtà era il suo animo convulso che bussava all'ingresso del corpo che ospitava il mio, spesso distratto, a volte assopito, raramente interessato e contemplativo, animo. Eppure ero stato così ingenuo da confonderli: avevo affibbiato ad Alaric gli stessi connotati con cui, in quel momento, stavo definendo il mio animo. Chissà se anche a lui quei medesimi errori avevano fatto lo sgambetto, anche se non ritenevo la cosa molto probabile: Alaric era di gran lunga più sveglio di me.

* * *

La prima cosa che feci quella mattina fu controllare se nevicasse. Ormai, da quando avevo conosciuto Alaric, ogni giorno nutrivo dei forti dubbi sulla sua esistenza o semplicemente avevo il timore che avrebbe smesso di venire a scuola per un bel po', com'era già successo. Che esistesse o no, quell'animo minuto e silenzioso era mio amico e gli sarei stato accanto a costo di perdere di vista i miei limiti fisici. Eravamo così diversi da sembrare fratelli, due esistenze opposte nate dalla stessa sorgente, così unite da poter comunicare a labbra serrate. Eppure quando lui scompariva e bloccava tutti i cancelli che permettevano l'accesso alla mia persona, era impossibile capire dove fosse e cosa pensasse, quasi come se non fosse mai esistito. Quel vuoto mi spaventava più della consapevolezza di aver conosciuto una persona del genere.

La mia delusione si risolse in un sospiro quando constatai che non nevicava affatto, anche se in compenso delle timide gocce d'acqua bussavano debolmente alla mia finestra. 
Mi preparai in fretta, intento a precipitarmi di sotto per controllare se Alaric mi aspettasse al solito posto. Pensando a ciò, ogni volta mi fermavo e un sorriso ironico stravolgeva il mio viso ancora segnato dalla stanchezza. Io e lui avevamo parlato poco e niente e, sommando tutte le volte in cui ci eravamo incontrati, non si raggiungeva neanche la doppia cifra. Eppure tutto ciò che concerneva il nostro rapporto era divenuto improvvisamente abitudine: era abitudine sfregarmi gli occhi al mattino quando percepivo che lui si era svegliato; era abitudine ridere dell'espressione sconcertata di mia madre quando scorgeva Alaric alla fermata dello scuolabus, affacciata alla finestra; era abitudine provare a fare una chiacchierata notturna, ma ricevere in risposta soltanto il debole respiro di un corpo addormentato; era abitudine fermarmi davanti alla finestra prima di andare a dormire e cercare di unire le stelle per dar vita a un volto familiare; era abitudine lasciarmi andare con la testa sul banco di scuola o sul pavimento del bagno, coprirmi il viso con le mani e riscoprirle piene di lacrime, sorpreso e inspiegabilmente distante da me stesso; era abitudine ridere della strana piega che aveva preso la mia vita, come se, finché non avevo incontrato la concretizzazione dell'ombra che mi aveva sempre accompagnato, fossi stato normale.

Una volta pronto, salutai mia madre distrattamente e mi chiusi la porta alle spalle. Alaric non c'era. Raggiunsi la fermata e mi guardai intorno, sperando di vederlo comparire da un momento all'altro.

"Al? Hai deciso di saltare la scuola anche oggi?"

Sbuffai e guardai l'orologio, non c'era nessuna possibilità che arrivasse a quell'ora. Quando decideva di presentarsi lì, era sempre puntuale.

"Stai dormendo?"

Effettivamente quella mattina non l'avevo sentito svegliarsi, ma allo stesso tempo non potevo affermare con sicurezza che stesse ancora dormendo. Non riuscivo a percepire il suo respiro né la sua presenza in generale; era la stessa sensazione che provavo ogni volta che decideva di tagliarmi fuori dalla sua vita. Mi sentii in qualche modo offeso, ma salii comunque sullo scuolabus con l'espressione annoiata di sempre e la voglia quasi nulla di sentir parlare per l'ennesima volta della triste storia di Hopewell.

Scesi dalla vettura e protestai sottovoce contro i ragazzi che si erano ammassati davanti al cancello d'ingresso dell'edificio. Mi feci spazio fra la folla con i gomiti, intento a oltrepassare il cancello con indifferenza, ma i miei occhi mi tradirono e rivolsi uno sguardo distratto a un manifesto bianco incollato alle sbarre del cancello. Chiunque leggesse lì sopra sembrava triste, sconvolto, curioso, spaesato; le stesse espressioni che dovevo indossare io in quel momento e che facevano sì che mi confondessi con quell'enorme folla di individui sconosciuti, grigi come l'acqua del mare su cui si riflette un cielo carico di nuvole. Grigi come me.

Al era morto. Non saprei dire quale dei due, probabilmente entrambi o forse soltanto quello che era esistito davvero. Ma chi dei due era reale? Entrambi, nessuno. I nostri corpi erano soltanto delle scatole vuote per un animo diviso in due, alla ricerca dell'immensità e rinchiuso in un mondo pieno di confini. Oh... cara, sola, triste Hopewell, così piccola eppure spettatrice di una così grande e forte brama di vita. Uno slancio di vitalismo condiviso, uno slancio di vitalismo sopravvissuto a metà.


"Al, voglio vivere, anche se non sono poi così sicuro di essere ancora vivo. Forse sono semplicemente vivo a metà... o morto a metà. Ormai non m'importa."

"Al, il tuo corpo mortale ha ceduto, non è stato in grado di sostenere un tale desiderio di vivere. Sarà perché in cuor tuo eri ben consapevole che avresti abbandonato la vita molto presto e hai voluto donare a me anche la tua metà di spirito. Probabilmente ora sei dentro di me, ma percepisco soltanto un enorme vuoto che minaccia di attirarmi al suo interno per farmi scomparire."

"Al, ci sei? Non stai dormendo... lo so. Ma continuerò a chiamarti e griderò il tuo nome ancora più forte quando vorrò mostrarti la felicità... abbi cura di rispondere se non vuoi perderti nulla. Anzi, se non vuoi rispondere non importa, però apri gli occhi e guarda con me, in silenzio. Ti piace tanto il silenzio, non è così? Ti piace talmente tanto che anche tu te ne sei andato in silenzio, mentre dormivi."

"Al... ormai non so neanche se sto parlando con te o con me stesso. Mi senti? Ma che domande... ovvio che mi senti, tu sei con me ora. Ora c'è un solo Al, vero? Non potremmo più confonderci."

"Al... non cercavo un amico, ma grazie per esserlo stato lo stesso. Cercavo me stesso e ci sono riuscito: me stesso sei tu, te stesso sono io. Ma il mio compito non è finito. Ho ben altro da cercare, la strada è lunga, ma non è importante, perché tu sarai con me."

"Al, mi diranno che eri debole, sbagliato e che ti sei arreso; mi diranno che è stata una brutta malattia a portati lassù, in cielo. E sai cosa risponderò a tutti loro? Mi farò prima una bella risata e poi dirò che è impossibile che tu sia salito in cielo, perché il cielo sei tu, perché il tuo volto è la dimora delle stelle, perché un cielo stellato non può mentire. E dirò anche che non sei debole, perché hai trovato la forza di mentirmi ugualmente. Sai, non te ne faccio una colpa, anzi, grazie per non avermi detto addio, non avrei proprio saputo come risponderti e una consolazione era l'ultima cosa che avresti voluto. O forse, alla fine, nessuno mi parlerà di te."

"Al, non voglio mentire mai più a me stesso. Hai detto che sono un cielo nuvoloso e che dico la verità soltanto quando piove. Allora mi assicurerò che piova sempre dentro di me, sarà un modo per essere onesto con me stesso e per giustificare le mie lacrime. Farò tutto questo per te, però tu non lasciarmi, d'accordo? Anche se l'obiettivo appare lontano e il cammino è faticoso, tu non lasciarmi. Dobbiamo trovare l'immensità insieme. Il mio è un animo stanco, ma credimi, so riconoscere una cosa bella quando la vedo. Ti prometto che ti chiamerò quando sarà il momento."

"Al, mia madre aveva ragione. Forse ogni tanto dovrei dare retta ai suoi deliri. Tu sei l'avvenimento positivo. Il mio avvenimento positivo. E perderti è stata la tragedia che ha ristabilito l'equilibrio. Ma va bene così, perché rimarremo insieme per sempre. Perché io e te siamo un noi infinito."

"Al, per tutte le volte che hai pianto attraverso le mie lacrime, attraverso la pioggia; per tutte le volte che hai fatto finta di non sapere che ci saremmo riuniti; per quella volta che, stanco, hai continuato a correre con me; per tutte le volte che mi hai guardato negli occhi e gli angeli di due cieli opposti hanno pianto lacrime umane e intonato inni celesti simultaneamente; grazie."

"Al, amico mio, e Al, me stesso: a volte le nuvole oscureranno le stelle, altre volte le stelle splenderanno di verità, ma voi sarete vivi in ogni caso e continuerete ad esserlo finché ci sarà il cielo...

 mentre noi cerchiamo il sole

... mentre noi cerchiamo il sole."



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