Cambia o muori, ricordi?

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
Cambia o muori, ricordi?
 


Prologo
 
Ad Annalucia Nobile piacevano tanto i viaggi lunghi, di quelli che attraversi tutta la Penisola e perciò richiedono soste in autogrill, dove il caffè è quasi sempre bruciato ma le sigarette hanno tutto un altro sapore. Le piaceva incontrare di sfuggita gli sguardi delle persone, fantasticare sulle loro vite.
Che lavoro facevano?
Quale indicibile segreto si trascinavano dietro?
Ma quel viaggio sarebbe stato il più terribile della sua esistenza, senza soste, senza musica, con un mozzicone di sigaretta che si consumava fuori al finestrino.
La Fiat Regata viaggiava a velocità sostenuta ma stabile. I tergicristalli tentavano di eliminare la pioggia che cadeva dal cielo scuro, senza troppo successo. Eppure non c’era tempo, non potevano aspettare che la tempesta passasse, perché vi erano dentro, fino al collo. E non ne sarebbero usciti presto. Probabilmente non ne sarebbero usciti più.
Annalucia osservò gli occhi di suo marito nello specchietto retrovisore. Erano di un castano scuro, senza riflessi, attenti alla strada e con la mente chissà dove. Aveva sopracciglia folte e tanti, tanti capelli che talvolta si acconciava all’indietro con la mano quando ricadevano sulla fronte. Giuseppe teneva entrambe le mani sul volante, di tanto in tanto quella destra correva ai baffi, come se volesse accettarsi che fossero ancora lì. Annalucia li odiava, quando la baciava o facevano l’amore erano oltremodo fastidiosi, tuttavia non riusciva più a immaginarselo senza. Era stato lui a rispondere al telefono. Si erano appena seduti a cena, il telegiornale regionale stava dando l’ennesima notizia di una baby gang che aveva derubato una salumeria la notte precedente, nel quartiere di Forcella. Quando il telefono aveva preso a trillare lui si era alzato, mentre lei aveva continuato ad ascoltare le notizie in TV, chiedendosi dove sarebbero andati a finire di quel passo: ragazzini che giocano a fare i camorristi. Suo marito era tornato poco dopo, bianco come un lenzuolo. L’aveva guardata biascicando due parole, poi aveva detto che doveva andare.
«Andare dove?» aveva chiesto Annalucia.
«Da Rosa» era stata la risposta, mentre cercava di infilarsi il piede sinistro nella scarpa destra. Mezz’ora più tardi stavano prendendo la A1 con il riscaldamento dell’auto acceso, i suoceri a bordo e le scarpe messe nel modo corretto.
Stando al racconto di Assunta, la mamma di Giuseppe, il maresciallo Pontini della caserma dei carabinieri di Vercelli, le aveva telefonato per informarla che sua figlia Rosa Iodice e il coniuge Alberto Quaglia – tra l’altro suo collega – avevano avuto un incidente. Sì, il piccolo Samuele di tre mesi era a bordo dell’autovettura. Erano tutti stabili, ma sarebbe stato il caso che qualcuno della famiglia salisse a occuparsene. Quando Assunta gli aveva fatto notare che ci avrebbero impiegato tutta la notte, il maresciallo le aveva risposto:
«Noi siamo qui signora, non andremo via.»
«Può passarmi mia figlia, gentilmente?» aveva chiesto Assunta.
«Adesso no» era stata la risposta categorica.
«Mio genero allora. Grazie.»
«Neanche.»
Adesso la donna, sposata da quarant’anni con Franco, era certa che la situazione fosse più grave di quello che il Pontini aveva voluto lasciar credere. Suo marito continuava a urlarle di smetterla di portare iella, sembrava un gufo del malaugurio.
«Certe cose le mamme se le sentono!» Fu la risposta di Assunta che passò l’intero viaggio a recitare il Rosario e invocando San Gennaro affinché assistesse la sua bambina e suo nipote. Evidentemente dimentica del povero genero.
Annalucia, seduta al suo canto sui sedili posteriori dell’auto, la osservava di sottecchi. I capelli dipinti di rosso, tendenti all’arancio, cotonati che manco Mina ai tempi migliori; le dita martoriate dall’artrite stringevano a fatica la corona, gli occhi chiusi e quel ronzio in sottofondo che usciva dalle labbra era una delle cose più fastidiose alla quali la ragazza avesse mai assistito. Considerando il fatto che insegnava in un liceo artistico di Fuori Grotta, la diceva lunga su quanto quella donna la stesse irritando. Annalucia si chiese se sua suocera avesse pregato anche per lei o solo per suo figlio in caso di incidente stradale. Temeva di conoscere la risposta. Assunta era un ex infermiera di rianimazione ormai in pensione. Più volte aveva scherzato su questa cosa con Giuseppe:
«I pazienti di tua madre preferirebbero morire piuttosto che farsi curare da lei». Annalucia rideva sempre a crepapelle a quella battuta. Giuseppe un po’ meno.
Improvvisamente un getto di aria fresca la colpì in viso come uno schiaffo. Suo suocero Franco, seduto vicino al conducente, aveva tirato giù il finestrino per fumare. Annalucia l’aveva sempre considerato un uomo frustrato, troppo inetto e debole per far fronte alle disgrazie della vita. Prima fra tutte sua moglie. Quando si erano sposati erano entrambi in età avanzata e poiché Franco racimolava qualche spicciolo ridipingendo appartamenti e Assunta era infermiera al Cardarelli, lei aveva deciso che sarebbe stato lui a occuparsi dei figli. Franco era cieco all’occhio sinistro per colpa della cataratta e vedeva sempre meno da quello destro; i capelli bianchi sembravano una nuvola soffice e la sua espressione bonaria spesso le ricordava quella di Giuseppe.
Sua moglie urlò di chiudere il finestrino, non aveva intenzione di prendersi una polmonite.
Anche Annalucia aveva voglia di fumare. Era stato il viaggio più lungo, difficile e stressante della sua vita e forse sarebbe rimasto tale. Non aveva idea di cosa aspettarsi una volta giunti a San Germano Vercellese, un piccolo paese in provincia di Vercelli, dove Rosa e Alberto vivevano da quasi due anni. Avevano comprato e ristrutturato una bella villetta con tanto di garage e Annalucia c’era stata solo una volta, quando tre mesi prima era nato Samuele. Era una zona tranquilla, ognuno si faceva i fatti propri e nessuno chiedeva a chi fossi figlio o cosa facessi nella vita per vivere. Era un paesino con pochi abitanti e alle 21:00 le strade erano già vuote, eppure non faceva paura uscire a buttare la spazzatura. Non c’erano venditori di sigarette di contrabbando agli angoli delle strade o ambulanti ai semafori, né tantomeno baby gang che sfrecciavano in tre sul motorino, rigorosamente senza casco.
«Perché non ve ne venite anche voi qui?» Le aveva proposto Rosa mentre erano in cucina e si apprestava ad allattare al seno il piccolo Samuele. Annalucia era una donna grande e vaccinata di trentatré anni, aveva visto altri seni e altre mamme allattare, ciò nonostante la visione dei capezzoli post parto le aveva sempre fatto una certa impressione. Aveva distolto lo sguardo per osservare fuori dalla finestra la strada deserta e le case tutte uguali. Rosa aveva proseguito:
«Fate domanda per l’insegnamento a Vercelli, sicuramente non avrete problemi a trovare una scuola. Sempre meglio che stare a contatto con quei guappi».
Annalucia allora aveva pensato ai suoi alunni. Solo Dio sapeva quanto fosse difficile insegnare a degli adolescenti di Napoli durante quegli anni, quando capitava di trovarsi il nome di uno di loro sui giornali di cronaca, arrestati per spaccio, rissa o rapina a mano armata. Ma erano i suoi ragazzi… fra tutti pensò ad Andrea De Simone, un ragazzo di diciannove anni che stava ripetendo il quarto superiore per la seconda volta e forse l’avrebbe ripetuto all’infinito.
«Potreste stare qui da noi fin quando non trovate una sistemazione decente.»
«Senza offesa, ma nella mia concezione di vita una città senza mare non è neppure una città». Era stata la sua risposta.

 

 
 
Il maresciallo Pontini li stava attendendo con altri due carabinieri in borghese all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale Sant’Andrea di Vercelli. Non ebbe neanche bisogno delle presentazioni ufficiali per capire che fossero i parenti meridionali di Alberto Quaglia. Avevano l’aria frastornata e un corno rosso come portachiavi.
Annalucia avrebbe ricordato per sempre il freddo che provò quella sera. Una sensazione di gelo che neanche un camino sarebbe stato in grado di sciogliere. Era come se le si fosse gelato il sangue nelle vene. Un’espressione che aveva letto e sentito più volte, ma che mai avrebbe creduto di provare personalmente.
Pontini li precedette in ascensore pigiando il tasto -1. Assunta iniziò a piangere e urlare e strapparsi i capelli, chinandosi sulle ginocchia.
«Rooosaaa… la mia bambina… noooo!».
Il maresciallo non tentò neppure di rincuorarla, illuderla ulteriormente sarebbe stato meschino.
Le porte dell’ascensore si aprirono e un’aria ancor più gelida li investì come un tir. Le grida di Assunta riecheggiarono nell’obitorio simili a bombe in un paese abbandonato. Il medico di turno provò a spiegare che non c’era stato nulla da fare. Rosa Iodice, di anni 33, era morta sul colpo, nell’impatto il collo si era spezzato. Alberto Quaglia, di anni 34, carabiniere e collega di Pontini, era arrivato in ospedale privo di sensi ma ancora vivo. Purtroppo i chirurghi non erano riusciti a fermare l’emorragia interna. Il dottore si rivolse a Giuseppe e Annalucia, gli unici che sembravano possedere ancora un briciolo di lucidità.
«E…» Giuseppe si passò una mano sul viso e tra i folti capelli. «E Samuele. Cioè, voglio dire, il loro bambino… anche lui è…?».
Annalucia non riusciva a smettere di fissare i piedi di Alberto che fuoriuscivano dal lenzuolo bianco. Erano grandi e cinerei, ma curati. Le unghie cominciavano già a scurirsi. Non aveva mai fatto caso a quanto fossero grandi i suoi piedi, ciò significava che era anche alto, sebbene non avesse mai notato quel particolare.
Era davvero così alto Alberto?
«È miracolosamente vivo» disse il medico, finalmente sollevato di poter dare una buona notizia.
In lontananza risuonarono le campane della chiesa: era appena scoccata la mezzanotte del 25 dicembre 1989.
 
 
 
Capitolo 1
 
La casa di Rosa e Alberto era ordinata, se si fa eccezione per gli asciugamani gettati nella vasca. Erano ancora umidi dopo la doccia, forse Rosa aveva intenzione di lavarli una volta tornata a casa. O magari lasciarli ad asciugare sui termosifoni. L’albero di Natale troneggiava nell’angolo a sinistra, all’ingresso della casa. Le decorazioni erano di vari colori, il puntale di un blu elettrico. Il presepe invece ricopriva l’intero ripiano del mobile in salotto. Da un mondo lontano cominciavano a riecheggiare i primi fuochi d’artificio che salutavano l’anno vecchio e si preparavano ad accogliere quello nuovo. Non sarebbe stato un anno qualunque, era l’inizio di un nuovo decennio nonché l’ultimo dell’intero secolo.
Annalucia guardò distrattamente l’orologio appeso alla parete. Tra meno di un’ora avrebbero festeggiato il 1990. Ma non loro. Loro non avrebbero mai più festeggiato il Capodanno.
«Solo neve» sospirò Franco guardando fuori dalla finestra. «Neve ovunque.»
Dopo i funerali dei coniugi Quaglia erano rimasti a San Germano Vercellese per sbrigare le ultime pratiche, mettere la casa in vendita e soprattutto per portare giù con loro il piccolo Samuele.
Dalla camera da letto i vagiti del neonato ruppero il silenzio degli adulti. Assunta fece per alzarsi dal divano, sembrava invecchiata di dieci anni. I capelli bianchi iniziavano a fare capolino fra i rossi e senza le sue creme miracolose le rughe parevano aumentate. Annalucia la precedette, dicendole di stare comoda. Raggiunse la stanza in fondo al corridoio e trovò il piccolo Samuele a dimenarsi nella carrozzina. Afferrò i manici e iniziò a cullarlo senza prenderlo in braccio. La luce soffusa dell’abat jour disegnava strane ombre sul muro, in particolare la ragnatela in ferro battuto, appesa alla parete a mo’ di quadro, pareva prendere vita. Aveva sempre odiato quell’oggetto senza significato o un’utilità apparente. Ma Rosa lo adorava, diceva che teneva lontano il malocchio. Samuele si lamentò ancora.
«Hai ragione piccolino» disse Annalucia. «Queste ombre farebbero spavento anche a me.» Continuò a guardarsi attorno. Quelle immagini indefinite e scure le ricordavano i quadri di Friedrich nel suo periodo più difficile. Di nuovo pensò al suo alunno ripetente, Andrea De Simone, e al suo feeling con quell’artista.
«Professorèss, ma quello è morto di depressione» le disse una volta, quando gli fece notare che lui era come Friedrich.
«Ti sbagli. Lui ha fatto della sua malattia la propria arte. E tu sei troppo intelligente per finire ogni due e tre in riformatorio.»
Pensò a lui e ai suoi allievi. Ora la scuola era chiusa per le vacanze natalizie, ma quando sarebbe tornata la sua vita sarebbe stata diversa. Qualcosa in lei si era spezzato in quei giorni, sebbene non avesse mai avuto un rapporto idilliaco con la cognata, troppo diverse per andare oltre l’educazione e il rispetto tipico dei parenti, la sua morte l’aveva sconvolta. Tornò in salotto con la carrozzina, Samuele pareva essersi riaddormentato.
Intanto il boato dei fuochi si faceva più intenso. Tra poco sarebbe scoccata la mezzanotte. Annalucia pensò a una Napoli in festa, le canzoni di Pino Daniele nei locali, le battute di Massimo Troisi sulle bocche di tutti, le tavole imbandite di struffoli e canditi, le case calde e le finestre del Vomero illuminate dalle luminarie. I piatti vecchi sarebbero volati dai balconi, con il sogno nel cuore di vedere il Napoli di Maradona festeggiare lo scudetto a fine campionato. I deficienti che brilli avrebbero sparato colpi di pistola, ferendo qualche mal capitato. Perché in fondo Napoli era questa: due facce di una stessa medaglia. Il bianco e il nero. Il buono e il cattivo. La legalità contro la camorra. Una bellezza mozzafiato di una città contro la bruttezza della società.
«Mi sento sollevata a pensare che quest’anima pia verrà cresciuta da voi» la frase di Assunta irruppe nei pensieri di Annalucia come una lama infilzata nell’addome. Guardò suo marito Giuseppe sprofondato nella poltrona che era stata di Alberto. Lui non si scomodò neppure a ricambiare l’occhiata, teneva la testa china e una mano a sorreggerla.
«Co-cosa? Oh no no, avete capito male.» Adesso era lei, l’insegnante di storia dell’arte, a trovarsi in evidente imbarazzo. «Noi non adotteremo Samuele. Lo farete voi. Siete i nonni. La nonna paterna è morta, il nonno è rinchiuso in una clinica privata. Dovete farlo voi.»
Assunta guardò suo marito, abbozzando un sorrisetto nervoso. Giuseppe continuò a far finta di nulla.
«Noi siamo anziani, ammesso che il giudice ce lo permettesse, non avremmo la salute necessaria per crescerlo.» Si giustificò Assunta.
«Non mi interessa. Noi non lo possiamo tenere. Per qualche giorno forse, poi dovremmo trovare una soluzione definitiva.» Senza neanche rendersene conto Annalucia si era allontanata dalla carrozzina.
«Una soluzione definitiva» finalmente Giuseppe era intervenuto nella conversazione, ma non come sua moglie aveva sperato. «Sono davvero curioso di sentire quale sia la tua soluzione definitiva, davvero. Lo mandiamo in orfanotrofio? Lasciamo che siano due estranei a crescerlo? Lo lasciamo davanti a un parrocchia? Lo soffochiamo?» Annalucia avrebbe voluto fermarlo prima che arrivasse a tanto, ma Giuseppe pareva impossessato. Poche volte lo aveva visto così infuriato e mai con lei. «No, ti prego, illuminaci. Quale sarebbe la tua soluzione definitiva? Perché per me l’unica possibile è quella che un figlio debba crescere con i propri genitori, ma ahimé! La mamma è sottoterra e io non conosco altro modo di onorare la sua memoria se non prendendomi cura di suo figlio.»
Il botto di un fuoco d’artificio annunciò l’arrivo del nuovo anno. Si susseguirono altri schianti, qualcuno più vicino, altri più lontani. Attraverso i drappeggi delle tende si potevano scorgere le luci e i colori che si accendevano a intermittenza. Annalucia dovette alzare il tono di voce per farsi sentire.
«Ne abbiamo già parlato, noi non vogliamo figli.»
«TU non vuoi figli, Luce! Io ero d’accordo solo perché volevi così e per la storia dei diritti delle donne e cazzate varie. Ma Samuele non è nostro figlio, tu non sarai mai sua madre, tranquilla, puoi tenerti il tuo ventre arido.»
«Adesso sei sleale! Non puoi obbligarmi ad adottare questo bambino, io non lo voglio!»
«La decisione è presa. Punto.» Giuseppe tornò a sorreggersi la fronte con la mano e a socchiudere gli occhi.
«Ci sono altre alternative, dovremmo solo rifletterci sopra. Io davvero non voglio avere un bambino nella mia vita. Dovrebbe stare con genitori che lo desiderino e che gli vogliano bene come a un figlio proprio.»
«Ma sei un’insegnante, hai a che fare con i bambini tutti i giorni, perché non ne vuoi?» La voce di Franco fu appena percettibile, sovrastata dal frastuono che veniva da fuori.
«Io non insegno a dei bambini. Sono tutti adolescenti i miei alunni.» Pensò ad Andrea De Simone. «Qualcuno anche maggiorenne.»
«Ribadisco: Samuele verrà con noi. La decisione è presa.» Sentenziò Giuseppe.
«E io ti ripeto che non lo voglio. Sono tua moglie, non puoi decidere da solo!».
Lui alzò di nuovo lo sguardo, il castano degli occhi sembrava ancora più scuro.
«Allora sei libera di andartene».
«Il divorzio? È questo che vuoi?» Annalucia, o Luce come la chiamava suo marito, provava un vortice di emozioni. Una vocina in fondo alla sua testa le diceva di andarsene davvero, di lasciarlo e di cercarsi un appartamentino a Fuori Grotta, adiacente all’istituto in cui insegnava. Se lo stipendio non fosse bastato, poteva sempre dare ripetizioni a pagamento di italiano. Purtroppo non aveva mai avuto dimestichezza con le materie scientifiche, in quello eccelleva suo marito che a soli trent’anni era riuscito a vincere il concorso nazionale per la cattedra di Matematica 1 alla Federico II. Sapeva anche che i matematici sono persone rigide, non aperte al cambiamento, il loro cervello è programmato per ragionare in termini di numeri e statistiche, seguono un ragionamento fatto di formule fisse. Vedono tutto solo bianco o solo nero, mentre lei scorgeva le sfumature.
Un’altra vocina le suggeriva invece di stare calma e di non fare o dire idiozie di cui si sarebbe potuta pentire una volta tornata a casa. Ecco cosa doveva fare: temporeggiare e riprendere il discorso fra mura famigliari, con il mare sullo sfondo e lontani da orecchie indiscrete.
«Sono stanco di parlarne» fu la risposta di Giuseppe che di nuovo tornò a puntellarsi la fronte, le palpebre abbassate e una crisi isterica dietro l’angolo.
 
Annalucia tornò nella camera da letto, con la penombra e i ghirigori macabri sulle pareti. Si sdraiò sul letto a fissare il soffitto. Quale razza di donna infame avrebbe avuto il coraggio di abbandonare il nipote di suo marito in mani sconosciute? Chi donna senza cuore sarebbe stata capace di dire no a un orfanello di soli tre mesi? Eppure non riusciva a desiderarlo, non riusciva a sciogliersi o emozionarsi al pensiero di portarlo a casa con sé e crescerlo e accudirlo come un figlio proprio. Aveva la possibilità di avere un bebè senza neanche soffrire le pene del parto o il sacrificio della gravidanza. Eppure non lo voleva. Non le piacevano i bambini. Non aveva mai provato il desiderio di diventare mamma. Si era sentita diversa quando era più giovane. Sbagliata. Si era chiesta se qualcosa in lei non andasse. Poi era diventata una donna e aveva scoperto di non essere la sola. Altre condividevano la sua stessa idea, il suo stesso non-richiamo alla maternità e aveva anche trovato un uomo che rispettasse il proprio volere. Fino a quel momento, certo. Fin quando la sorella non si era spiaccicata contro un tronco secolare. Decise che parlarne adesso, circondati dai ricordi di Rosa e Alberto, non avrebbe fatto ragionare Giuseppe, perciò doveva tenere duro fino al ritorno a Napoli.
I botti dei fuochi d’artificio andavano scemando, ormai non si distinguevano quasi più. Annalucia chiuse gli occhi e si addormentò.
Il 1990 era appena iniziato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
 
Nei mesi seguenti la neve si sciolse e ogni cosa tornò normale, meno che loro.
Ad Annalucia sembrava di vivere una vita che non le apparteneva, prigioniera di scelte che non dipendevano da lei e questa cosa la fece sprofondare in una crisi esistenziale. Spesso aveva la sensazione di osservare da fuori ciò che le accadeva, senza averne il controllo, spettatore non pagante della sua stessa vita. Di notte, quando Samuele piangeva, si alzava dal letto e lo prendeva in braccio, cullandolo fin quando non si riaddormentava. Oppure gli dava il biberon e poi lo rimetteva nella culla che Giuseppe aveva comprato una settimana dopo il rientro a Napoli.
Un pomeriggio Annalucia era tornata a casa dopo il lavoro e aveva trovato Giuseppe e Franco intenti a montare la culla per Samuele, mentre Assunta teneva in braccio quest’ultimo.
«Che cosa state facendo?» Aveva chiesto, ovviamente rendendosi subito conto di quanto banale e scontata risultasse quella domanda e la relativa risposta.
«Ti piace?» Era subito intervenuta sua suocera. «L’ho scelta io per il pesciolino di nonna».
Annalucia era stata scossa da un brivido e senza aggiungere altro si era chiusa in bagno, aggrappandosi al lavabo con le nocche che gradualmente erano diventate esangui, osservando la sua immagine riflessa allo specchio. Aveva 33 anni, i 34 erano alle porte, ma tutto sommato se li portava bene. Certo, il fisico esile e la carnagione chiara davano una mano, ma erano soprattutto i capelli il punto forte della sua persona. Nonostante avesse superato i 30 infatti, non aveva neanche un capello bianco, e per questo doveva ringraziare il gene di suo padre che a sessant’anni era appena brizzolato. I capelli cadevano in boccoli morbidi fino alle spalle, senza frangetta, in una tonalità fra il castano e il biondo scuro. Gli occhi tendevano al verde bottiglia quando le giornate erano soleggiate, sebbene fosse solita considerarli color caramello. Poche persone erano state in grado di notare quella sfumatura nelle iridi e suo marito era stato uno di questi il giorno che si conobbero. Una vita fa.
Il martellare incessante la portò a ridestarsi da quelle considerazioni. Uscì dal bagno e vide che Giuseppe stava montando la culla in camera da letto. La loro camera da letto. I suoceri non c’erano, poteva sentirli giocare con Samuele in cucina, pensò quindi di approfittarne per scambiare due parole con il marito.
«Amò avresti almeno potuto chiedermi dove mettere la culla.»
«E dove avresti voluto che la mettessi? Fuori al balcone?» Giuseppe diede un altro paio di martellate, con maggior vigore. Ormai conversare con lui senza ricevere una risposta stizzita era diventata una cosa più unica che rara.
«Una volta mi chiedevi anche se potevi andare a fare la doccia» Annalucia si sforzò di far sembrare il tono simpatico. «Parlavamo tanto e soprattutto lo facevamo tutti i giorni…» si chinò al suo fianco per lasciargli un bacio fugace, ma Giuseppe si scostò.
«Prima che mia sorella si rompesse il collo vuoi dire?»
Annalucia si ritirò, ferita e nauseata. Ogni volta che tentava un approccio spontaneo o di tornare – più o meno – alla vita che avevano condiviso fino a quel momento, lui tirava in ballo Rosa e la sua morte. Chiuse gli occhi, sforzandosi di non piangere e soprattutto di tenere ferma la voce tremolante.
«Ho dimenticato una cosa a scuola. Vado a riprenderla.»
«Ok».
Annalucia fece per uscire dalla stanza, poi aggiunse:
«Penso di fermarmi a prendere un caffè con Rita, se per te non è un problema.»
«Ok».
 
Ovviamente non aveva nessun appuntamento con Rita, sua collega e amica, né tantomeno doveva recuperare qualcosa all’istituto, aveva solo bisogno di schiarirsi le idee e di fuggire da quell’appartamento. S’incamminò senza neanche sapere dove fosse diretta. Per abitudine salì a bordo del tram e scese a Fuori Grotta un quarto d’ora dopo. Era la strada che faceva ogni mattina per andare al lavoro e di ritorno da Vercelli aveva scoperto che la vecchia routine le dava sollievo. Andare a scuola le trasmetteva un senso di calma, sebbene appena varcasse la soglia dell’istituto venisse trasportata in una sorta di mondo parallelo. Studenti che urlavano e si spintonavano; altri che si incontravano davanti ai cancelli seduti a cavalcioni sui propri motorini (probabilmente) privi di assicurazione; altri fumavano sigarette di contrabbando o spinelli senza preoccuparsi dei professori; ragazzine che si mettevano il rossetto e il mascara giocando a fare le donne. Poi arrivava in aula professori, dove ognuno si lagnava della giornata appena iniziata, pregando San Gennaro affinché finisse presto. Una volta anche lei desiderava che le mattinate passassero veloci, insegnare agli adolescenti non era semplice, ma farlo a Napoli lo rendeva ancora più difficile. La sua collega Rita era solita accoglierla con il caffè preparato dal bidello Mario, detto o’ zuopp: un cinquantenne claudicante che andava in giro con la mazza della scopa per colpire gli studenti che lo sfottevano. Dopo il caffè era la volta della sigaretta che serviva per riordinare le idee, darsi la carica e recitare mentalmente una preghiera prima di iniziare la giornata.
«Ultima sigaretta prima della condanna a morte?» scherzava Rita. Ma neanche tanto poi.
Adesso invece la situazione si era ribaltata. Non aveva più la sensazione di andare al patibolo recandosi al lavoro, al contrario di quando faceva la strada a ritroso. Aveva provato a confidarsi con Rita, ma quando era giunta al punto di confessarle che non voleva tenere il nipote orfano si era vergognata. Rita era una donna con tre figli maschi che adorava. Sebbene fosse moderna e di larghe vedute, aveva storto il muso quando – ad esempio – era stata varata la legge 194 sull’aborto circa un decennio prima. Non avrebbe mai compreso il suo punto di vista.
 
Erano trascorse le 18:30 solo da qualche minuto e nonostante fosse marzo inoltrato, l’aria era ancora fresca ma iniziava a profumare di primavera. Soprattutto Annalucia non poteva fare a meno di inebriarsi dell’odore di cibo che usciva dai ristoranti, mentre un venditore di contrabbando ascoltava a tutto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo. Annalucia osservò con attenzione le persone che le passavano accanto, soffermandosi sulle donne dall’aria felice, nascoste sotto i loro giubbini colorati dalle spalle larghe e i jeans a vita alta; i capelli cotonati; i grandi orecchini a cerchio e le borse a tracolla. Poi qualcosa attirò la sua attenzione. Pochi metri più in là, un uomo teneva per il braccio un ragazzo con un crocchè fumante nella mano libera. Non ebbe bisogno di avvicinarsi ulteriormente per riconoscere Andrea De Simone, il suo studente ripetente. Scattò verso di lui quando l’uomo cominciò a prenderlo a sberle.
«Ehi, ehi! Che succede?» Annalucia si intromise sperando di fermarlo.
«Questo delinquente è uscito senza pagare! Disgraziato!»
«Per un crocchè! Non l’ho ancora toccato, tieni, piagliatèll n’ atà votà» Andrea fece per porgerglielo, ma il proprietario della rosticceria gli diede un altro colpo sulla testa.
«Si fossi figlio a me… a zappàr a’ terrà ti manderei, a faticàr sotto o’sol!»
«Ok, ok. Va bene così. Glielo pago io» intervenne Annalucia prendendo il portafogli. «Quanto costa?»
«Cinquecento lire».
«Ecco.» L’uomo non ringraziò neanche, di nuovo si accinse a picchiare Andrea, ma Annalucia gli mostrò il palmo. «Ha avuto i suoi soldi. Arrivederci.» Spinse il ragazzo via con sé, mentre il proprietario continuava a inveire contro i delinquenti e il governo che prometteva, prometteva ma non faceva mai nulla di concreto per la loro situazione.
 
«Quante storie. Gli ho detto che avrei pagato domani» disse Andrea mentre Annalucia continuava a sospingerlo lungo il marciapiede tenendolo per l’avambraccio sinistro. Lo guardò male:
«Quando ti rechi in un negozio, devi pagare se vuoi acquistare. E poi davvero, saresti finito in caserma per un crocché? Un crocché
«Professorèss ne vuoi un po’?» Chiese lui ma la donna rifiutò. «Fa pure schifo! È vecchio!» Dopo il primo assaggio lo accartocciò e fece per buttarlo via, ma Annalucia gli indicò il cestino a pochi passi da loro. Lui sbuffò. «Tanto ci penseranno gli altri a fare monnèzz
«Tu devi fare le cose pensando a te, non agli altri. Te l’ho detto un centinaio di volte!» Andrea sembrava già non ascoltarla più, si guardava intorno con una mano sullo stomaco.
«Io però ho ancora fame…»
La professoressa scosse il capo, forse avevano ragione i suo colleghi: quel ragazzo era un caso perso. Irrecuperabile. Si accinse a salutarlo, a dargli appuntamento al giorno successivo in classe, eppure quando parlò disse altro:
«Vuoi cenare con me?» Lui la fissò dall’alto del suo metro e ottanta, aggrottando la fronte. «Devo mangiare e visto che anche tu hai fame… Mc Donald’s?»
«Io non mangio chelle schifèzz.» Andrea si guardò attorno. Poco più in là un gruppetto di ragazzi se ne stava seduto a fumare sulla spalliera di una vecchia panchina arrugginita. Disse ad Annalucia di aspettarlo, si avvicinò all’allegra combriccola, li salutò con una stretta di mano e un paio di bacetti sulla guancia, risero e poi salì a bordo di uno dei motorini parcheggiati lì davanti. Tornò dalla professoressa e le fece cenno di salire a bordo.
«Oddio! Non monto su uno Ciao da anni» sghignazzò lei.
«Avanti. Ti porto a mangiare in un ristorante super chic!» Annalucia si accomodò alle sue spalle. Aveva un buon odore, un misto fra tabacco e balsamo per capelli. «Professorèss, paghi tu ovviamente!»
«Ovviamente».
 
Il ristorante chic di cui aveva parlato Andrea in realtà si rivelò essere il paninaro sotto allo stadio San Paolo. L’insegna sopra al camion citava “O’panino a’ ro’ Arturo”. Annalucia rimase interdetta, l’uomo grande e grosso ai fornelli non aveva l’aria di eccellere per pulizia, così come l’intero locale ambulante. Provò a sussurrare ad Andrea di andare via, non voleva cenare lì, ma lui stava già ordinando due panini con salsiccia e broccoli, una porzione doppia di patatine fritte e due Wührer. Poi si sedette all’unico tavolino libero e attese che la donna lo raggiungesse, aveva un sorriso radioso.
«Non mi hai chiesto cosa volessi da mangiare.»
«Devi assaggiare i friariellì, neanche mia nonna li fa così!»
«Allora una famiglia ce l’hai?»
«Certo che ce l’ho! Mica sono orfano.» A quella parola Annalucia ripensò a Samuele e suo marito. Era stata così presa dalla situazione surreale che si era venuta a creare che per un attimo si era dimenticata di loro. Ed era stata bene.
Stava bene adesso…
Nel frattempo erano arrivate birre e patate. Andrea prese la sua bottiglia e la fece tintinnare contro quella di Annalucia, quindi bevve un lungo sorso.
«Non dovresti bere» disse lei addentando una patatina fritta.
«Sono maggiorenne professorèss, posso fare che voglio
«Sei un ragazzino che si crede un uomo.»
La radiolina a batterie del paninaro cominciò a intonare la canzone preferita di Annalucia fra tutte quelle di Pino Daniele: Napule è. Andrea alzò un dito come a voler indicare le note nell’aria e la canticchiò:
«Napule è nu sole amaro. Napule è addore 'e mare. Napule è 'na carta sporca
e nisciuno se ne 'mporta…
».
Annalucia sorrise bevendo un sorso di birra direttamente dal collo della bottiglia. Ascoltò la voce di Andrea intonare quei versi. Anche lui era “‘na carta sporca” di cui non importava a nessuno?
«Mi stavi dicendo che hai una famiglia. Però nessuno viene agli incontri scuola-famiglia».
«Perché sono troppo impegnati. Mamma e papà lavorano all’Upim a Mergellina».
Per Annalucia fu una versa sorpresa. Credeva che De Simone fosse uno di quei ragazzi con una famiglia sgangherata e squattrinata. Tuttavia, osservandolo bene, non aveva per nulla l’aria di quei delinquenti da strada. I capelli erano puliti e ordinati, perfettamente lisci fino alla nuca, color biondo cenere, che lui acconciava spesso dietro le orecchie. Il giubbotto nero, forse di renna, era aperto su una t-shirt bianca con fantasie astratte, il jeans sembrava di buona fattura, così come le scarpe. Nell’insieme le ricordava il tenente Tom “Iceman” Kazansky del film Top Gun. Sì, sarebbe diventato un bel pezzo d’uomo. Cercò di annacquare quel pensiero con la birra.
«Ce l’hai la fidanzata?» Finalmente erano arrivati anche i panini e doveva ammetterlo: non aveva mai mangiato dei broccoli più buoni.
«No.»
«Tutto qui?»
«Cosa vuoi sapere? Chiedi e ti sarà dato! Forse.»
Annalucia rise. Quella era la frase che usava quando era di buon umore e in classe uno studente alzava la mano.
«Solo ”no”? Niente amore incompreso o ragazza già impegnata o storia impossibile?»
Andrea ingoiò il boccone e mosse l’indice verso di lei:
«Quello, l’ultimo. Un amore impossibile».
I loro sguardi si incontrarono a metà strada, Annalucia avvertì un lieve senso di disagio e bevve un sorso di birra più che altro per interrompere il contatto visivo. D’improvviso si chiese cosa ci facesse lì, a cena con uno studente, davanti a un paninaro e con una Wührer a metà. Non era quello il suo posto. Non osò consultare l’orologio al polso, ma ad occhio e croce dovevano essere passate le 22:00. Sarebbe dovuta essere a casa, con Giuseppe, a vedere qualche stupido quiz televisivo, a leggere un buon libro o a mettere a letto il piccolo Samuele. Già, Samuele. Il bambino che non voleva e che, senza colpe, era diventato il motivo della sua infelicità.
«Adesso tocca a me» aggiunse il ragazzo.
«Vai. Di cosa vuoi parlare ?» Si sarebbe aspettata una domanda personale, era pronta – quasi – a rispondere a ogni sua curiosità, invece Andrea la stupì:
«Voglio parlare del Napoli di Maradona. Domenica abbiamo una partita fondamentale per il campionato.»
Annalucia gliene fu grata, chiedendosi se fosse così maturo da comprendere che una domanda personale rivolta alla sua professoressa sarebbe stata fuori luogo o se, invece, era tanto ottuso da voler parlare di calcio.
 
Quando Annalucia rientrò erano le 23 passate. Nonostante avesse rifiutato più volte l’invito di Andrea di riaccompagnarla fin sotto casa, alla fine aveva accettato: passeggiare di notte per le vie di Napoli non era una scelta molto intelligente.
Ad accoglierla ci fu l’assoluto silenzio. Si sfilò le scarpe e si affacciò nella camera da letto, sussurrando il nome del marito per constatare se fosse ancora sveglio. Giuseppe però dormiva e con lui il piccolo Samuele che giaceva accanto allo zio, al posto di Annalucia. Quest’ultima restò a osservarli per un po’, delusa dal fatto che suo marito non l’avesse aspettata sveglia come invece faceva quando rientrava dopo le cene di lavoro. Per chiacchierare certo, ma soprattutto per fare l’amore. Erano ormai cinque anni di matrimonio e Giuseppe non era mai stato tutto quel tempo senza sfiorarla, anche solo con una carezza. Provò a chiamarlo di nuovo e quando lui non rispose si arrese: quella sera avrebbe dormito sul divano.
Peccato che suo marito fosse più sveglio di lei.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
L’aula docenti era in subbuglio. Fuori dalla finestra i primi fiori di pero iniziavano a sbocciare, i raggi del sole erano diventati più tiepidi e le giornate si erano allungate. Annalucia si accostò a Rita per chiederle il motivo per cui il preside e il professore Izzo di matematica stessero urlando.
«Sempre per la stessa storia. Caffè?»
«Sì, grazie. Cioè?»
«De Simone. Izzo vuole bocciarlo».
«Ma non può. All’ultimo consiglio di classe eravamo tutti d’accordo a promuoverlo. Si sta impegnando quest’anno» disse Annalucia. Rita fece spallucce, non sembrava convinta.
La prima volta che aveva cenato con Andrea a “O’panino a’ ro’ Arturo” non era stata l’ultima. Si erano incontrati per caso la settimana successiva e quella dopo ancora, fin quando era diventato un appuntamento fisso. Con Giuseppe andava sempre peggio. Litigavano di continuo, soprattutto perché lui le rinfacciava di non avere nessuna cura di Samuele.
«Neanche un nazista avrebbe la tua stessa freddezza di fronte a un bambino ebreo».
Allora Annalucia sbottava, perdendo ogni controllo di sé:
«Ti avevo detto che non lo volevo! Tu non hai voluto ascoltarmi. Eri convinto che mi sarei affezionata. Ti sbagliavi.»
«Credevo di conoscerti, e invece…»
«Appunto. Credevi…».
Assunta e Franco passavano le proprie giornate a casa loro. Andavano via solo dopo cena, quando Samuele era pronto per andare a fare la nanna.
Gli incontri con Andrea erano diventati un vero toccasana. Inoltre Giuseppe non le chiedeva né con chi uscisse né dove andasse. Durante una di quelle sere Andrea le aveva confessato che dopo il diploma intendeva arruolarsi. La cartolina per partire militare gli era già arrivata, ma suo padre aveva fatto il rinvio: non si sarebbe mosso da Napoli se prima non si fosse diplomato.
«In realtà è mia madre che insiste. Lei è francese».
«Davvero? E come si sono conosciuti?»
«Che ne saccio di come si sono conosciuti i miei genitori, che non ero ancora nato?»
La professoressa Nobile ripensò a quella sera e al desiderio di Andrea di andare via da Napoli: una città che stava diventando una tomba per i giovani, i quali non riuscivano a trovare lavoro e dovevano emigrare o morire lì. Per questo motivo – e per altri – intervenne nella disputa fra il preside e il professor Izzo.
«Ci penso io.» Annalucia riuscì a richiamare la loro attenzione solo alzando la voce. «Da questo momento in poi l’alunno Andrea De Simone sarà un mio problema».
 
Andrea accettò di buon grado di restare a scuola anche oltre l’orario mattutino solo perché c’era la professoressa Nobile a fargli da tutor. Lo disse così ingenuamente davanti al preside e al professore di matematica che Annalucia arrossì, blaterando qualcosa circa la dedizione che lo studente aveva per la sua materia.
«Non puoi dire certe cose davanti agli altri, lo sai questo vero?» Lo ammonì mentre erano diretti all’aula. Lui sghignazzò.
Durante un pomeriggio Andrea la sorprese con una domanda. Era sempre così: quando Annalucia credeva di averlo capito lui la sconvolgeva con curiosità adulte. Lei si era accesa una sigaretta dopo il caffè e rimuginava sui prossimi temi da affrontare, mentre Andrea sfogliava il librone di storia dell’arte. Quando trovò le pagine riguardanti l’artista tedesco Friedrich si soffermò in particolare sul quadro “Abbazia nel querceto”.
«Posso chiederti na’ cosa?» Lei annuì distrattamente. «Perché ti piace questo pittore? È triste, parla di morte.»
Annalucia lo guardò per qualche secondo, senza sapere bene cosa rispondere. Friedrich non era mai stato il suo artista preferito, non era neanche mai andata a Berlino a vedere le sue opere dal vivo. Eppure da qualche mese a quella parte aveva speso diverse ore di lezioni ad approfondirlo. Era vero, le sue opere erano intrise di malinconia e di morte. Si sentiva così attratta da Friedrich perché Rosa e Alberto erano morti? O forse perché era morta dentro?
Le tornarono alla mente alcune frasi che aveva letto la sera prima, tratte da “La casa degli spiriti” di Isabel Allende. Le aveva annotate sulla sua agenda/diario e decise di leggerle ad Andrea sedendosi di fronte a lui:
«”Così come quando si viene al mondo, morendo abbiamo paura dell’ignoto. Ma la paura è qualcosa d’interiore che non ha nulla a che vedere con la realtà. Morire è come nascere: solo un cambiamento”».
«Ti scrivi le frasi dei libri come le mie coetanee?» La prese in giro Andrea, in modo bonario.
«A parte che le coetanee di cui parli, ossia le tue compagne di classe, sono più piccole di te…» sorrisero entrambi, poi lei aggiunse: «Vedi, la morte non è qualcosa di negativo. È solo qualcosa di cui si ha paura perché non si conosce».
«Secondo me chi ha scritto queste cose voleva dire che bisogna cambiare se non si vuole morire. Proprio il contrario di quello che ha fatto Friedrich. Non è riuscito a cambiare la sua vita e perciò è morto.»
La professoressa Nobile sentì come un macigno sprofondare nello stomaco. Improvvisamente la soluzione che aveva tanto cercato da quella disgraziata notte del 25 dicembre le si mostrava chiara e nitida. E aveva le sembianze di un diciannovenne. Come in trance Annalucia vide il volto di lui avvicinarsi, i nasi quasi si sfioravano:
«Hai gli occhi verdi? Sai che non ci avevo mai fatto caso».
La professoressa balzò in piedi, poi la porta dell’aula si aprì e il bidello affermò che c’era qualcuno per lei.
«O’zuopp tutt’apposto?» Andrea alzò il palmo con tanto di sorriso, l’uomo si allontanò imprecando.
«Torno subito». Annalucia abbandonò la classe a grandi falcate, raggiungendo l’atrio dell’istituto dove ad attenderla trovò Giuseppe, con Samuele nel passeggino.
«È successo qualcosa?» Gli chiese, meravigliandosi di vederlo lì.
«No. Siamo usciti per una passeggiata e ho pensato di passare per un saluto.»
«Sto lavorando.»
«Lo so…» Giuseppe sospirò imbarazzato. «In realtà la gelosia mi stava mangiando vivo…» si sforzò di sorridere, ma sua moglie non sembrava affatto divertita. Con la coda dell’occhio notò il bidello Mario a pochi metri da loro, quindi propose di spostarsi in giardino. Giuseppe la seguì a ruota, fermandosi quando lo fece lei, in prossimità del pero fiorito.
«Io sto lavorando, Giuseppe! Non ho tempo per le tue stupide paranoie di mezza età!»
«Si, scusami, ma non sei mai stata tutto questo tempo a scuola. Ho pensato… oddio adesso mi sento davvero stupido…». Di nuovo cercò di far sembrare la cosa divertente.
«Che avessi un amante? È questo che hai pensato?» Annalucia era davvero adirata. Per tutti quei mesi suo marito non si era neanche degnato di chiederle con chi uscisse e adesso che aveva preso un impegno con la scuola si preoccupava?
In verità da qualche settimana Giuseppe era cambiato, o meglio, cominciava a tornare quello di prima: un marito premuroso, divertente e comprensivo. Ogni mattina accompagnava Samuele dai nonni e poi passava a riprenderlo la sera, quindi avevano avuto più tempo per loro. A essere cambiata adesso era Annalucia. Lui non aveva capito le sue ragioni quando aveva cercato di spiegargliele e ora lei non intendeva sforzarsi di comprendere le sue.
Un aereo passò sopra le loro teste, Samuele cominciò a piangere per il frastuono. Lei alzò gli occhi e notò la figura di Andrea dietro l’ampia finestra della classe in cui stavano studiando. Li osservava. Serio.
«Mi manchi Luce» Giuseppe allungò una mano per sfiorarle il viso, ma lei indietreggiò.
«Devo tornare dentro. E poi Samuele piange. Ci vediamo a casa.»
«Anche a Samuele manchi».
«Non sono la sua mamma.»
 
Andrea De Simone era ancora vicino alla finestra quando rientrò.
«Scusa, continuiamo domani.» Annalucia cominciò a riordinare le sue cose.
«Problemi a casa?»
Silenzio.
«Hai un figlio. Non me lo avevi detto».
«Non è mio figlio.»
«Ma quello era tuo marito, giusto? A proposito, ha dei baffi enormi!»
«Sì, è mio marito e sì, ha dei baffi enormi. Altre domande?»
«Sì. Chi è quel bambino?»
Annalucia sbuffò, sbattendo i libri uno sull’altro mentre li raccoglieva: parlare di quell’argomento le dava noia.
«È una lunga storia. Non ti piacerebbe.»
«Tu raccontamela».
«San Gennaro, che rompipalle che sei!» Lui sorrise. «Si chiama Samuele ed è il nipote di mio marito, è orfano e vive con noi. Contento?»
«Non avete figli vostri?»
«Non ti riguarda».
«Sei una di quelle donne… aspètt come le chiamano? Aborr… aborti…»
«Abortiste. Sì, sono una di loro. Incredibile, vero? Il mostro vive in mezzo a noi!»
«Ehi, io non ti darei mai del mostro!» Andrea si avvicinò per recuperare le sue cose. «Se mia moglie non volesse dei figli lo accetterei.»
«Dite tutti così e poi… muore una cognata e ti devi prendere cura del figlio».
«Io sono figlio unico» Andrea le strizzò l’occhio strappandole un sorriso. «No, dico sul serio. Il corpo è della donna quindi è lei che deve decidere. E comunque sia se non fosse una cosa buona non avrebbero fatto tutto stu’ burdèll ppè nientè, no?» Aggiunse, riferendosi agli scioperi pro aborto. «È il cambiamento che ci tiene in vita professorèss».
 
Epilogo
 
Il 29 aprile del 1990 il Napoli del presidente Ferlaino vinse lo scudetto battendo la Lazio con un gol di Baroni. Maradona non segnò, ma quella coppa era soprattutto sua.
L’intera città si riversò per le strade, bandiere azzurre sventolavano ovunque e con i fuochi d’artificio sembrava un nuovo Capodanno. Un nuovo inizio. I clacson delle auto e dei motorini parevano un concerto, dappertutto riecheggiava l’inno della squadra campione d’Italia. Era un popolo in festa.
Anche Annalucia e Giuseppe si erano mischiati a quella baraonda, con il piccolo Samuele al sicuro fra le braccia dello zio. La situazione tra loro si era calmata, ma erano diventati due estranei. Ognuno conduceva la propria vita senza invadere quella altrui, eppure Annalucia smetteva di vivere quando varcava la soglia dell’appartamento: la quotidianità nella quale si era crogiolata per anni si era trasformata in una prigione.
Nella ressa la professoressa sentì la propria mano afferrata da altre dita e trascinata all’indietro. Fece per urlare ma Andrea De Simone la zittì con un indice sul naso, trascinandola con sé in un vicoletto senza uscita. Lì, dalla grata della cucina della rosticceria dove lui aveva rubato un crocchè e si erano incontrati una sera di marzo, fuoriuscivano gli odori pungenti del fritto. Andrea le prese il viso fra le mani e la baciò a stampo sulle labbra, intensamente.
«Ma che cazzo fai?» Annalucia lo spinse via.
«Abbiamo vinto professorèss! Siamo campioni! Stasera il mondo è sottosopra!» Gli occhi del ragazzo brillavano, i capelli cadevano perfettamente lisci ai lati del volto, i lineamenti marcati e dolci insieme. Era bellissimo. Mano nella mano la portò con sé fino a un Bravo abbandonato qualche metro più in là. Annalucia si accomodò alle sue spalle, cingendogli il ventre per non cadere quando si immise in strada. Non sapeva dove stesse andando né cosa aspettarsi, le sue gambe avevano seguito quel ragazzo in automatico. La mente era vuota, riempita solo dai canti intorno a sé. Sfrecciarono fra le auto ferme, andando sul marciapiede quando non si riusciva a proseguire, urlando a squarciagola l’inno del Napoli.
Andrea guidò senza indugi, era chiaro che già conoscesse la propria meta. Arrestò la corsa quando raggiunse Piazzale San Martino, appena sopra il Vomero. Non c’era molta gente lì, la maggior parte delle persone avevano invaso le strade principali.
Da quel punto la vista era mozzafiato. Annalucia si avvicinò al parapetto e respirò a pieni polmoni l’aria che saliva dal mare. Si poteva vedere indistintamente tutta Napoli: il lungomare, piazza Plebiscito, il porto, il Maschio Angioino, Capri. Il Vesuvio. Inoltre, abbassando lo sguardo, si notava un’immensa distesa di bandiere azzurre. Uno spettacolo surreale.
Andrea la raggiunse e per un po’ rimasero entrambi in silenzio, a godersi il panorama e l’aria buona.
«A giugno partirò per il militare».
«E la scuola?»
«Prenderò il diploma sotto le armi».
Annalucia annuì sperando che la brezza le asciugasse le lacrime.
«Vattene anche tu» disse lui all’improvviso alzandole il mento verso il proprio. «Se non sei felice, vattene. Cambia o muori, ricordi?»
Lei gli accarezzò i capelli. Erano morbidi.
«Da adulti non si scappa. Non si può fuggire. E certe cose sono sbagliate».
«Amare è una cosa sbagliata, professorèss?» Andrea le passò una mano dietro la schiena e l’altra fra i ricci. Annalucia si allontanò con garbo:
«No, non lo è. Ma bisogna essere bravi a non fraintendere i sentimenti».
«Io sono innamorato di te.» Il ragazzo chinò il capo, per la prima volta Annalucia lo vide per quello che era: un adolescente che si vergognava di dire apertamente ciò che provava. O quanto meno quello che credeva di provare.
«No, non è vero» lei sorrise con dolcezza e lui la osservò di sottecchi. «L’amore è un’altra cosa. Quello che senti è un bene profondo e sincero, ed è ricambiato, credimi. Ma non è amore».
«Allora cos’è l’amore? Quello che unisce te e baffone? Sei innamorata di lui?»
Annalucia fece un respiro profondo, scrutando il panorama che si estendeva dinnanzi a lei. Si soffermò sull’immensità del mare: un azzurro splendente che si perdeva a vista d’occhio. Lui attese la risposta senza smettere di studiarla.
Davvero ciò che provava per lei non era amore?
«Non più» ammise sincera. «L’ho amato, l’ho sposato e... niente, siamo marito e moglie» c’era una chiara punta di amarezza nella sua voce.
«Vattene, se questa non è la vita che vuoi per te allora cambiala».
«Non è facile, io non-»
«Invece lo è!» La interruppe Andrea e lei lo guardò.
Se avesse avuto dieci anni in meno si sarebbe potuta innamorare di uno come lui? «Fai quello che desideri. Se non sei felice con tuo marito e quel bambino allora va via. Ha chiesto il tuo parere quando ha deciso di portarlo a casa vostra?»
«Sì» pausa. «No» Annalucia scosse il capo. No, in realtà non l’aveva fatto, aveva deciso senza di lei e glielo aveva imposto anche, senza preoccuparsi di chiederle alcunché. Per settimane si era comportato come se lei non esistesse, come se non si fossero promessi amore eterno davanti a Dio. Anzi, sembrava che la sua sola presenza lo disturbasse. Certo, con il tempo le cose erano cambiate, ma lei era disposta a essere comprensiva adesso? Probabilmente no. E quindi, a conti fatti, cosa le rimaneva?
Solo sé stessa.
«Lui ha scelto la sua vita, perché non puoi scegliere la tua? Cambia o muori, ricordi?»
Sì, se avesse avuto dieci anni in meno si sarebbe potuta innamorare di uno come lui.
 

 

 
Il taxi si fermò davanti all’aeroporto di Capodichino. Annalucia ringraziò l’uomo al volante e oltrepassò le porte automatiche, la ventiquattrore stretta nella mano destra. Sebbene avesse fatto il biglietto di solo andata per Berlino, aveva preferito portare con sé il necessario, avrebbe preso ciò che le serviva al momento. Mancava ancora un po’ all’imbarco, perciò si accomodò vicino alle enormi vetrate. Era una bella giornata di giugno e tutto andava bene. Dopo mesi si sentiva finalmente in pace con sé stessa. Libera.
Si era dimessa da scuola il giorno precedente e aveva scritto un biglietto a Giuseppe quella mattina stessa, in cui lo informava che voleva il divorzio e non doveva preoccuparsi di grattacapi giudiziari come chi avesse tenuto la casa o la macchina. Gli lasciava tutto. Non ne aveva bisogno. Aveva deciso di viaggiare e visitare nuove realtà, fin quando non avesse trovato il suo posto nel mondo.
La speaker annunciò ai passeggeri diretti a Milano di prepararsi all’imbarco. L’ex professoressa osservò le persone mettersi in fila, i saluti strappalacrime, poi tra queste le parve di riconoscere un sorriso famigliare e smagliante. Era Andrea. Sembrava felice di vederla lì, all’aeroporto, con una valigia accanto. Annalucia alzò una mano per salutarlo e lui fece altrettanto. Teneva con sé un bagaglio a mano (un borsone color militare) e un berretto calato sulla testa con lo stemma dell’aeronautica italiana. Lo seguì con lo sguardo fino a quando poté. Quindi chiuse gli occhi, provando a immaginarlo in divisa. Cielo, le ragazze avrebbero fatto patti con il diavolo pur di accaparrarselo. In cuor suo gli augurò il meglio che la vita ha da offrire. Davvero il meglio…
Senza accorgersene si appisolò.
Sognò di trovarsi di fronte all’abbazia nel querceto, proprio come nel quadro di Friedrich gli alberi erano spogli, l’atmosfera cupa e grigia, dell’antica cattedrale era rimasto solo uno scheletro indistinto. Sentì i vagiti di un neonato. Forse Samuele. Non voleva vederlo più. Non voleva sentirsi più così, come in quegli ultimi mesi: sbagliata. Una donna indifferente e fredda che suo marito guardava con disprezzo. Osservò l’entrata dell’abbazia – o ciò che ne restava – e decise di oltrepassarla, sebbene non conoscesse quello che c’era dall’altra parte e ne avesse un gran timore. Ma qualcuno, un giorno non troppo lontano, le aveva detto che il cambiamento è vita, il cambiamento è tutto. Oltre c’è solo la morte.
Cambia o muori, ricordi?
Con passo sicuro Annalucia si incamminò all’interno di un’abbazia che non esisteva più, sparendo nella nebbia secolare del querceto.
 
Quando la voce metallica invitò i passeggeri del volo 3253 diretti a Berlino all’imbarco, Annalucia si svegliò di soprassalto. Afferrò la valigia e si mise in fila, fissando fuori dalla finestra l’aereo che l’avrebbe portata via. Prima tappa: Castello di Charlottenburg per ammirare dal vivo le opere di Friedrich. Mostrò i documenti alla hostess e imboccò il lungo corridoio immacolato alla sua sinistra, senza voltarsi indietro, senza ripensamenti, ma con un gran sorriso sulle labbra.
Alla fine, probabilmente, non sarebbe morta. 
 

fine

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