Sentimenti intraducibili

di moonlightstucky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cwtch ***
Capitolo 2: *** Cafuné ***
Capitolo 3: *** Won ***



Capitolo 1
*** Cwtch ***


Cwtch, gallese: l'abbraccio in cui ci sentiamo protetti, il posto sicuro che ci dà la persona che ci ama. E’ un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti.
 

Avevano affittato un piccolo appartamento che non era nemmeno degno di tale nome. Una camera da letto grande quanto una scatola di fiammiferi, una cucina in cui ci si stava uno alla volta, un bagno cieco con una doccia che aveva visto giorni migliori. All’ingresso il proprietario aveva sistemato un divano da cui penzolavano le molle interne, l’aveva recuperato da una discarica e l’aveva fatto sterilizzare così da non avere insetti o topi in giro per casa. Non potevano permettersi un posto migliore. Bucky lavorava in cartiera dalle sei del mattino fino alle dieci di sera durante la settimana e nell’alimentare a due isolati di distanza da casa dei suoi nel weekend. I quattro spiccioli che guadagnava bastavano a malapena a pagare l’affitto e le medicine per Steve, che si ammalava un mese sì e l’altro pure. Bucky si prendeva cura del suo migliore amico da quando la madre si era ammalata ed era morta. Che si trattasse di dimezzare la propria porzione di riso e piselli per metterla nel piatto di Steve o di girare in casa in canottiera per farlo stare al caldo con i suoi maglioni, nonostante le temperature gelide e il riscaldamento fuori uso. E i suoi genitori gli avevano detto più volte di pensare a sé, di lasciare che la polmonite facesse il suo lavoro e si prendesse quel ragazzino gracile che non era nient’altro che uno scherzo della natura. Ma loro non capivano. Nonostante alcuni giorni non riuscissero a mettere sotto ai denti nemmeno un tozzo di pane, la fame era più sopportabile della distanza e della sofferenza che questa avrebbe causato. O insieme, o niente.
Qualche volta Steve si rabbuiava, gli urlava contro che non voleva la sua carità e che preferiva morire anziché essere un peso. Il volto gli diventava rosso e il mento gli tremava come a preparare le lacrime che sarebbero venute poco dopo. Allora Bucky gli mostrava i palmi delle mani e gli chiedeva il permesso di abbracciarlo, perché con le parole sapeva soltanto conquistare le ragazze e non era in grado di spiegare al suo migliore amico che non poteva lasciarlo morire perché lui l’avrebbe seguito. Steve si calmava quando sentiva le braccia dell’altro sul suo fragile corpo, appoggiava la fronte sulla sua spalla e sussurrava sciocchezze, qualcosa sul non meritarlo, sul non essere in grado di ricambiare i sacrifici a causa della sua stupida costituzione, sull’essere inutile e altri rimproveri che Bucky zittiva con le proprie labbra. Accedeva spesso, più volte di quante volessero ammettere. Steve era consapevole del fatto che il moro non l’avrebbe mai abbandonato, eppure continuava a tirare la corda per vedere fino a quando l’altro l’avrebbe sopportato. E così andavano a letto, troppo esausti per affrontare qualsiasi altro discorso, e si addormentavano nel lettino singolo con le gambe intrecciate e i cuori pesanti che battevano all’unisono.

Giunse la guerra, la terribile guerra. Steve era così cocciuto, voleva arruolarsi a qualsiasi costo per uno spirito patriottico che Bucky non comprendeva. Ad ogni rifiuto, dovuto a quel fisico che odiava così tanto, diventava ingestibile. Si serrava dietro una barriera di silenzio, immobile su quel divano che era scomodissimo e che puzzava di pizza stantia e di birra. Bucky tentava di distrarlo, portandogli dal lavoro dei fogli macchiati su cui disegnare e le sue mele preferite dall’alimentari. Non bastavano, non era così semplice, e il moro si arrabbiava così tanto che gli passava per la mente di abbandonarlo davvero al suo destino. Ritornava in sé quando sbatteva la porta di casa alle spalle e Steve correva alla finestra per guardarlo andare via, troppo orgoglioso per richiamarlo dentro, troppo spaventato che quella sarebbe stata la loro fine definitiva. Allora Bucky passeggiava per qualche ora nel vicinato, incapace di allontanarsi sul serio da quel mulo testardo che gli faceva saltare i nervi e lo feriva. Perché, nel caso in cui Steve fosse stato ritenuto idoneo, sarebbe dovuto partire per l’Europa e l’avrebbe lasciato in un appartamento che era minuscolo per due, ma era enorme per un’unica persona. Al calare della notte rientrava in casa e un paio di occhi annacquati gli davano il benvenuto, come a sussurrargli un ‘sono un idiota, ti amo’.

Ciò che nessuno dei due si aspettava, fu la chiamata alle armi che Bucky ricevette qualche mese dopo l’inizio della guerra. Diceva che avrebbe ucciso in fretta i nazisti e che sarebbe tornato a casa prima ancora che Steve potesse rendersene conto. Voleva dire in realtà: voglio creare un mondo migliore per noi, niente più guerra, niente più scarafaggi nello scarico della doccia, niente più fame. Sottintendeva: non so se sopravvivrò, ma almeno tu resterai in vita. Il saluto stazione fu straziante. C’erano soltanto loro due, dato che i signori Barnes avevano deciso di salutare Bucky il giorno prima, per non assistere alla partenza di quel figlio il cui ritorno non era garantito. Steve non si vergognava di far vedere le lacrime che scorrevano copiose sulle sue guance e si raccoglievano sull’arco di Cupido e sul mento. Era sempre stato il più sentimentale della coppia. Gli piaceva credere che le emozioni erano l’unico dono che madre natura gli avesse dato in abbondanza, dato che per il resto si era rivelata particolarmente matrigna con lui. E Bucky non sapeva come comportarsi, perché le emozioni le sigillava sempre in una cassaforte e ne buttava via la chiave. Voleva piangere, voleva perdere la coincidenza per restare con il suo piccoletto, voleva sparare una pallottola in testa ad Hitler e finirla una volta per tutte con quella sofferenza ingiustificata. Fece l’unica cosa che gli riusciva bene: prese il volto di Steve tra le mani e baciò via la scia salata che conduceva a quelle labbra che avevano il retrogusto dell’addio.

Passarono i primi sei mesi. La vita al fronte era difficile, Bucky dormiva con un occhio chiuso e uno aperto, accanto ad un compagno ferito a morte e abbracciato ad un fucile che ricordava nelle forme spigolose il suo Steve. Cominciava ad avere le allucinazioni, credeva di trovarsi sul divano di casa sua, una molla contro la schiena e delle ossa aguzze contro il fianco.
“Ti avevo detto di aspettarmi”, gli diceva il piccoletto, mentre con le dita sfumava i contorni degli zigomi sul ritratto che gli stava facendo senza nemmeno guardarlo in volto. Non ne aveva bisogno perché Bucky era impresso nella sua mente e conosceva con la memoria del cuore ogni suo dettaglio. Dalla fossetta sul mento, alla piega all’insù che le sue labbra avevano anche quando non sorrideva, alle profonda ruga che gli si disegnava sulla fronte quando era preoccupato o non comprendeva qualcosa. Quelle allucinazioni ad occhi aperti erano il massimo a cui poteva aspirare e gli andava bene così, perché quando si appisolava sognava di essere morto. Vedeva gli ufficiali consegnare l’infelice messaggio alla sua famiglia e al suo piccoletto; vedeva sua sorella singhiozzare e sua mamma accasciarsi sull’uscio di casa, un corpo senza spina dorsale che si afflosciava come un palloncino sgonfio e urlava contro il cielo perché gli aveva sottratto il figlio. E Steve, Dio, il suo piccolo grande Steve. Rimaneva in silenzio, stringeva le nocche fino a farle sbiancare e scuoteva la testa come a dire che non era possibile, che c’era stato uno sbaglio e che Bucky sarebbe saltato fuori da un cespuglio e avrebbe detto “ve l’ho fatta!”. L’avrebbe preso a pugni e poi avrebbe guarito ogni livido con un bacio.

Passò il primo anno. I nemici avevano lanciato una granata contro il reggimento e Bucky aveva perso il braccio sinistro. Sarebbe potuta andare peggio, ripetevano i dottori, avrebbe potuto perdere la vita. E che vita era quella che stava facendo e quella che avrebbe condotto senza un braccio? Come avrebbe potuto prendersi cura di Steve? Le infermiere anziane erano gentili con lui, gli cambiavano la fasciatura due volte al giorno e gli facevano trovare sul comodino un fiore di campo ogni volta che si svegliava dallo stato di dormiveglia in cui era sprofondato. Le infermiere giovani arrossivano quando dovevano passargli la spugna bagnata sulle spalle per evitare che la ferita prendesse un’infezione e gli dicevano che con il bel viso che aveva doveva fare l’attore, non il soldato. Bucky pensava che in un’altra circostanza ci avrebbe provato con un paio di loro, le avrebbe portate ad una fiera o al cinema, così da strappare loro un bacio e la promessa di un altro appuntamento. Continuava a fantasticare su realtà alternative, perché gli era rimasto solo quello. Il dolore era troppo e la morfina aveva esaurito da tempo il suo effetto.

Passò un anno e sei mesi. L’esercito lo congedò quando i medici l’assicurarono che non ci sarebbero state complicazioni e che sarebbe sopravvissuto. Trascorse il viaggio di ritorno a pensare a ciò che l’avrebbe aspettato, a come dire a Steve che anche se non aveva risposto spesso alle sue lettere, le aveva strette al petto durante le notti peggiori, quando la speranza di rivedere la luce del sole non c’era e i rumori della guerra coprivano il suono dei suoi pensieri. Una volta arrivato nell’antro della sua palazzina, un paio di condomini gli rivolsero uno sguardo compassionevole e lo ringraziarono per il servizio svolto per la patria. Avrebbe voluto rispondere che il patriottismo sembra una grande stronzata quando vedi morire al tuo fianco uomini delle più disparate nazionalità che credono in un Dio che permette che accadano simili orrori, ma sorrise semplicemente e si affrettò a salire i due piani di scale per raggiungere il suo piccoletto. Fece forza con la spalla buona per aprire la porta e fu accolto da una zaffata di whiskey che gli fece lacrimare gli occhi, tanto era forte. Rannicchiato in un angolo c’era Steve, in preda ai singhiozzi e coperto da un maglione che era più grande di lui.
«È questa l’accoglienza che un mutilato deve ricevere?», ci scherzò su Bucky con voce roca, perché aveva capito che era meno doloroso non prendersi sul serio che lasciarsi ammaliare dall’autocommiserazione. In un battito di ciglia un paio di braccia ossute gli si strinsero intorno e rilasciò un sospiro tremante, come se fosse ritornato a respirare dopo lungo tempo. Avevano affittato un piccolo appartamento che non era nemmeno degno di tale nome, ma avevano sempre saputo che casa erano le braccia dell’altro. E anche se a Bucky ne era rimasto solo uno di braccio, Steve era abbastanza sicuro che sarebbe bastato.

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Capitolo 2
*** Cafuné ***


Cafuné, portoghese: passare le dita tra i capelli della persona amata.

Mi passi le dita tra i capelli come se fosse l’unica risposta che il tuo corpo assonnato riesce a trovare per l’ennesimo incubo che ha infestato le mie notti insonni. Il tuo respiro è stabile, pesante e le palpebre sono serrate. Chissà cosa stai sognando, chissà se stai sognando. Non mi parli più di ciò che il tuo subconscio ti fa provare da quella volta in cui mi hai detto che rivivi spesso la mia caduta da quel maledetto treno. Avevi le lacrime agli occhi e temevi che ti urlassi contro di andare avanti, che quel tempo era passato da un pezzo. Ti ho solo stretto al petto e ho passato le dita tra le tue corte ciocche bionde, nella speranza che almeno tu fossi libero dalla sofferenza che ci portiamo dietro da quasi un secolo.

Chiudo di nuovo gli occhi e conto fino a dodici. Ricordo che me l’hai insegnato tu, sai? È stato il giorno in cui un gruppetto di teppisti ci ha pestato perché mi avevi stretto la mano all’uscita dal cinema. Per loro era contro natura vedere due ragazzi in atteggiamenti affettuosi, ma non avrebbero aperto bocca se avessi sbattuto una ragazza contro il muro del vicolo e l’avessi presa lì, davanti a tutti.
Se conti fino a dodici le voci spariscono, mi hai sussurrato all’orecchio mentre mi medicavi le ferite alle nocche. Ti ho chiesto che cosa intendessi dire, ma hai scosso leggermente il capo e hai accennato un sorriso che assomigliava più ad una smorfia per via del taglio al labbro inferiore. Avevo il terribile presentimento che non fosse la prima volta che qualcuno ti pestasse a causa mia, a causa di quell’amore che non ci vergognavamo di sbandierare ai quattro venti. Ma il problema è che sei sempre stato una testa calda, anche quando rischiavi di finire a tappeto con un pugno assestato nemmeno troppo bene. Quando non intervenivo a sedare lo scontro, non mi parlavi della motivazione per cui questo era scoppiato. Lasciavi soltanto che ti medicassi le ferite e che azzittissi con dei baci le urla dovute al disinfettante sui tagli freschi.

Solo che questa volta le urla delle mie vittime sono troppo rumorose per poter essere messe a tacere in modo così semplice. A malincuore, mi districo dal tuo abbraccio tentacolare e trattengo il fiato quando ti lamenti nel sonno. Affondi la testa sul mio cuscino e mentre tu riprendi a dormire, io riprendo a respirare.
Infilo la felpa che hai abbandonato sul pavimento qualche ora fa, prima di sdraiarti al mio fianco, e vago per la casa che mi sembra tanto familiare quanto estranea.
Hai detto che hai recuperato gran parte del mobilio che avevamo nel nostro appartamento a Brooklyn negli anni ‘30. Hai detto che volevi sentirti a casa anche se vivi a DC e a Brooklyn non ci torni più da tanto tempo, perché non vuoi essere sommerso dal passato.
Hai detto che posso fare degli spostamenti se mi ritornano i ricordi sulla nostra vita precedente.
Il fatto, Steve, è che non sono sicuro di voler davvero ritornare a come stavamo tempo fa.
Forse non te l’ho mai detto, ma quello che stiamo costruendo ora mi dà speranza. Non sono così illuso da credere che il casino che ho in testa possa sistemarsi in un battito di ciglia o che possa ritornare ad essere il Bucky di prima, anche perché ero una gran testa di cazzo. Ma sono convinto che, con te al mio fianco, ogni cosa tornerà ad avere un senso e forse le voci si ridurranno ad un mormorio inconsistente che sarò in grado di ignorare.

Mi fermo davanti all’ingresso, dove le nostre copie più giovani e più spensierate mi fissano con un sorriso esagerato, probabilmente il risultato di una sbronza o dell’ennesima bravata, e sento dei passi ovattati prima di vederti riflesso nel vetro trasparente.
«Ce l’ha scattata mia mamma, prima che mi trascinassi alla festa organizzata da Molly Simmons. Temevi che ti saltasse addosso, come aveva tentato di fare a scuola. Ci siamo ubriacati così tanto che abbiamo svegliato l’intero condominio quando siamo ritornati e la signora Anderson ci ha buttato un secchio di acqua gelida addosso.», un sorriso malinconico ti adorna le labbra e vorrei dirti di non continuare con il racconto se ti intristisce. Ma le labbra rimangono serrate e allungo all’indietro la mano per farti venire più vicino.
«È stata la prima volta che hai confessato di provare per me qualcosa di più di semplice amicizia.», continui e stringi la mia mano, circondandomi il busto con l’altro braccio e lasciandomi un bacio tra i capelli umidi di sudore.
«Ho sempre avuto un pessimo tempismo.»
Mi giro tra le tue braccia e appoggio l’orecchio al tuo cuore, che batte solido e costante, la mia più grande certezza. «Vorrei ricordare quel momento, la tua espressione alla mia ammissione, se ti ho baciato o se ho dato la colpa alla sbronza, vorrei –»
Mi culli dolcemente e mi accarezzi le ciocche scure, sussurrando che non importa. Comincia a diventare più facile crederti.

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Capitolo 3
*** Won ***


Note: dark oneshot, potrebbe urtare la vostra sensibilità. Bucky continua ad essere il Soldato d’Inverno, anche dopo gli avvenimenti di Civil War.

Won, coreano: la difficoltà di una persona nel rinunciare ad un’illusione per guardare in faccia la realtà.

L’avevano avvertito che non era rimasto nulla del Bucky Barnes che lui conosceva, se non il nome.
L’avevano avvertito che l’HYDRA aveva catalogato tutti i suoi ricordi, prima di azzerarne la memoria, e che si sarebbe servita dei frammenti frastagliati della sua esistenza come un’arma invisibile che avrebbe usato contro il Capitano al momento giusto, quando meno se l’aspettava.
Ma come poteva dare ascolto alle voci di coloro che gli erano stati vicini nel momento della transizione dal suo mondo al futuro, quando l’uomo che lo fissava con quello sguardo tormentato era la persona con cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita? Come poteva dare ascolto alla voce della ragione, quando quella del cuore gli urlava che il suo grande amore era ritornato per restare al suo fianco?

Ignorò i primi segnali che dimostravano che il Soldato d’inverno non era perito con gli Helicarrier e con lo SHIELD, come voleva invece far credere agli altri.
Dopo il processo che lo dichiarò innocente degli innumerevoli crimini perpetrati per oltre mezzo secolo, si dimostrò sereno, privo dei rimorsi che aveva ostentato qualche ora prima di affrontare Tony Stark in Siberia. Era persino propenso a parlarne, come se descrivere il modo in cui aveva strappato le budella ad una vittima fosse un’azione tanto banale come andare a fare la spesa.

Si mostrava accondiscendente: rideva quando era il momento di ridere, si corrucciava quando era il momento di corrucciarsi, si eccitava quando era il momento di eccitarsi.
O meglio, aveva imparato a leggere il linguaggio del corpo di Steve e reagiva come l’altro si aspettava che reagisse. Non aveva reazioni spropositate né naturali, un occhio ben allenato come quello di Natasha aveva notato che persino quando sorrideva non era sincero. Anche Steve avrebbe potuto rendersene conto, se non fosse stato troppo impegnato a recuperare il tempo perduto.

Il fatto che Bucky non fosse più Bucky fu davvero percepibile quando si assentò per due notti e una mattinata senza dare spiegazioni. Ritornò nel tardo pomeriggio e finse di non essersene mai andato, dopo aver fatto preoccupare il suo migliore amico, che aveva mobilitato una squadra di ricerca per trovarlo.
Prima e durante la guerra Bucky Barnes non aveva mai lasciato il fianco di Steve Rogers senza un preavviso di un minimo di cinque giorni e senza dire dove sarebbe andato, con chi e perché.
La sua scomparsa avrebbe dovuto far scattare qualche allarme nel cervello del Capitano, ma il sollievo di vederlo di nuovo al proprio fianco mise a tacere ogni tarlo. Ora che Bucky era tornato poteva tornare a respirare.

Sam teneva d’occhio il Soldato ogni volta che condividevano una stanza, nel lungo travaglio della latitanza. Osservava il modo in cui le labbra si muovevano per pronunciare parole mute, come se stesse ripetendo silenziosamente un copione che aveva memorizzato.
Non era inglese, forse era russo; non se l’era mai cavata bene con le lingue. Aveva segnato su un taccuino qualche termine che ricorreva più spesso, senza farsi notare beccare dallo sguardo di falco di Barnes: tsel, missiya, konets.
Se Natasha si fosse rifatta viva, avrebbe chiesto a lei il significato.

Steve continuava a vivere la sua luna di miele con Bucky. Si svegliava al suo fianco ogni mattina, condivideva con lui i pasti tra un’effusione affettuosa e l’altra, si esercitavano nella prima palestra abbandonata che trovavano e scaricavano l’adrenalina tra le lenzuola, esplorandosi liberamente e senza pudore, come non avevano potuto fare negli anni quaranta. Cercava di recuperare il tempo perso e di ingoiare il senso di colpa che lo seguiva come un’ombra dal giorno della maledetta caduta dal treno di Bucky.
Ogni tanto, con una cadenza regolare, ma di cui Steve non tenne alcun conto, accadevano degli episodi bizzarri.
Si svegliava all’improvviso, nel cuore della notte, perché qualcosa di freddo gli aveva toccato le membra. Non era il freddo che il braccio di metallo di Bucky poteva trasmettere attraverso il tessuto della maglia, era qualcosa di più gelido, sembrava privo di anima. Tuttavia, gli bastava guardare Bucky, che respirava profondamente accanto a lui, per convincersi che si trattava soltanto di un sogno.
A volte gli incubi di Bucky lo tenevano sveglio, soprattutto quando il moro urlava nel bel mezzo della notte, sfoderava il suo coltello preferito da sotto la federa del cuscino e glielo puntava contro la giugulare. Lo sguardo assente, vuoto, che l’altro gli rivolgeva sarebbe dovuto bastare a fargli comprendere che l’amore della sua vita era irrimediabilmente perduto.

Natasha non diede sue notizie per un mese intero, il tempo necessario al Soldato per compiere il suo dovere.
Gli ordini dell’HYDRA erano stati cristallini: entrare nella vita dell’uomo sul ponte e strappargliela via. Utilizzare i ricordi di qualcuno a cui il Capitano era stato legato. Assecondare i suoi desideri. Tenere gli occhi sul bersaglio. Completare la missione. Fine.
Era stato fin troppo semplice fingere di essere qualcun altro, questo Bucky per cui il Capitano – Steve – aveva rinunciato a tutto. Vivere senza fissa dimora era la prassi già da tempo prima che la missione cominciasse. Ricambiare delle effusioni o fare sesso con l’uomo non era molto differente dall’essere usato da Pierce, da Rumlow o da chiunque altro avesse potere su di lui. Ancora una volta, era ordinaria amministrazione.
Ciò che era davvero complicato, invece, era trovare il momento adatto per recidere il filo che legava Steve Rogers alla vita.
Ci aveva provato ogni secondo martedì e terzo giovedì del mese, per undici mesi, e c’era sempre stato un imprevisto, un passo falso, un tentativo andato a vuoto.
Ma era deciso a completare la sua missione quel giovedì stesso.

La giornata trascorse in modo monotono: sveglia, colazione, esercitazione in palestra, sesso nella doccia, cena, letto.
Nulla lasciava presagire ciò che alle due e trentasette sarebbe avvenuto.
Si assicurò che il target dormisse prima di agire: prese dalla rete del materasso il suo coltello preferito, quello con l’impugnatura che recava le impronte della mano in vibranio e l’incisione TWS, e si posizionò cavalcioni sull’uomo.
Come aveva già avuto modo di osservare, i suoi riflessi erano davvero invidiabili; un semplice fruscio di foglie fuori dalla finestra era in grado di svegliarlo.
Steve aprì di scatto gli occhi e tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che non si trattava di una minaccia esterna ma soltanto di Bucky. Gli poggiò le mani sui fianchi e gli rivolse quel sorriso assonnato che in un’altra vita gli avrebbe fatto provare le farfalle nello stomaco e che ora gli faceva soltanto martellare il cuore nelle orecchie a ritmo di tu sei la mia missione.
Passò l’indice sulla lama appuntita che stava nascondendo dietro la schiena e finse un gemito quando l’altro si spostò sotto di lui e fece sfiorare i loro membri, a malapena coperti da dei pantaloni di cotone. Si abbassò sulle labbra del biondo, così da custodire dentro di sé l’ultimo respiro, e affondò la lama sulla sua giugulare, in maniera così netta e precisa che in tre secondi la vita aveva abbandonato gli occhi cerulei di Steve Rogers.
Aveva portato a termine la sua ultima missione.

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