Anno del giudizio 14-41

di G RAFFA uwetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ascesa agli inferi ***
Capitolo 2: *** Apologia di una guerra ***
Capitolo 3: *** Nel ventre della balena ***
Capitolo 4: *** Cavallo in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41: scacco matto ***



Capitolo 1
*** Ascesa agli inferi ***


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Anno del giudizio 14-41


L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John Powell)


Ascesa1 agli inferi


Un filo di fumo nero si ergeva solitario fino a fendere le spesse nuvole come una spada. Cadeva una pioggia fitta, pesante, che colorava di rosso la poca vegetazione. Da una fenditura tra la roccia, sgusciò fuori un grosso scarafaggio. Dopo avere indugiato sulle zampe, sparì tra l’erba rinsecchita.

Poco più a nord, una strada si inerpicava tra le colline aride fino a interrompersi sul ciglio di un gigantesco cratere, un tempo chiamato Bacino di Groom.

«Ci siamo,» esclamò Gordon spegnendo il motore alimentato ad acqua. «Tiriamo fuori il materiale e prepariamo il campo alla svelta. Aiutami Robert, voglio il Radieshon-ijido2 immediatamente funzionante,» disse rivolto a un uomo alto e tarchiato.

«Sei già stato qui?» chiese curioso Robert mentre con perizia univa dei sottili tubi in acciaio incastrandoli tra loro in modo da formare una griglia pentagonale. Dopo averne preparate sette le porse a Gordon che le fissò a dei gambi flessibili installati su una piattaforma in marmo sintetico.

«Sono nato da queste parti,» spiegò, «e da piccolo ci venivo spesso a giocare. Poi, dopo la Quarantesima Esplosione, tutto è cambiato. Da allora, il livello delle radiazioni è diventato insostenibile.» Nell’aria si diffuse un leggero ronzio e i sette pentagoni presero a oscillare in ogni direzione. Quando si avvertì chiaramente il primo scricchiolio, i cinque esploratori si rifugiarono sotto la tenda di un materiale altamente isolante contro le piogge acide che colpivano la zona.

«Perfetto, riposatevi perché domani all’alba scendiamo di sotto.»

Il nuovo giorno arrivò annunciato dal rollio di assestamento della terra che fece cadere vari contenitori di ferro accatastati in un angolo. La pioggia acida aveva ceduto il posto alla nebbia e l’aria irrespirabile si era incendiata di rosso. Sembrava di essere finiti dentro una tormenta di sabbia.

«Assicurate la tenda al suolo e lasciate qui tutto ciò che non serve per la spedizione. Compresa la tua arma, Sebastian. Sarà anche una vecchia miniera di carbone, ma non voglio correre il rischio di saltare per aria,» disse cupo Gordon al più anziano del gruppo.

«Certamente, capo. Poi non lamentarti quando ti troverai difronte a uno di quei mostri che popolano questa zona e non avrai modo di difenderti,» lo derise. Gordon sorrise sprezzante.

«In questo caso, ritengo sarà più utile questo!» E sfoderò un coltello seghettato dalla lama scintillante. «Gentile concessione di mio nonno, che lo trafugò a un soldato mummificato sepolto in una galleria più a ovest.»

«Smettetela, o con tutto questo testosterone sparato per aria, ogni femmina da qui a Vegas Ohuru3 fiuterà la vostra scia.»

Da dietro il furgone, spuntò Adelhaide, una bassa ragazza dagli sgargianti capelli a spazzola. Le sue forme rotonde erano strizzate dentro la tuta sintetica di un imbarazzante colore giallo.

«Forza, ragazzi, zaini in spalla. Voglio arrivare alla cascata prima che cali il buio.»

«Perché?» chiese Robert mentre si sistemava il carico.

«Lì dovrebbe esserci una struttura ancora integra, ed è l’ideale per passarci la notte. Il nostro principale obiettivo è raggiungere un’area isolata da settantasette metri cubi di cemento armato. Inoltre, su uno dei muri del perimetro, le radiazioni hanno letteralmente stampato la mappa integrale della base militare. Senza quella sarebbe impossibile muoversi nel dedalo dei suoi corridoi.» Impressionato, Robert fischiò.

«Scusa, ma come facciamo ad accedere? Se usiamo un qualsiasi tipo di detonatore saltiamo tutti in aria,» si informò mentre si grattava sovrappensiero la visiera traslucida.

«Se te lo dicessi poi dovrei ucciderti.» Adelhaide lo guardò seria, fissando gli occhi chiari in quelli più scuri dell’uomo.

«Okay, okay. Sei una tipa tosta. Ora, diamoci una mossa,» disse Gordon mettendo le mani sulle spalle della ragazza e spingendola fuori. «Philipe, se non ti decidi ti lasciamo qui!» urlò dietro a un ragazzo chino che rovistava tra la terra. Questo mise fine alla discussione.

In fila indiana, costeggiarono il precipizio per mezzo miglio, scendendo verso il basso e facendo attenzione a non sdrucciolare di sotto. Man mano si allontanavano dalla superficie, l’ossigeno si faceva più rarefatto e le radiazioni pungevano come spilli. Le tute indossate mantenevano stabile la temperatura corporea e li isolavano da quelle potenzialmente mortali. Il casco semitrasparente assorbiva le particelle acquose come una spugna e un filtro, posto davanti alla bocca, estrapolava l’ossigeno.

Rimasero in silenzio finché, dopo avere vagato per chilometri dentro e fuori i vecchi tunnel scavati per il carbone, si trovarono difronte a una porta in spesso acciaio, accartocciata in un angolo. Su di essa era ancora visibile il cartello di divieto d’accesso all’Area 51.

A lato, seguendo la striscia di licheni viola, dopo una curva a gomito, il ruggito della Cascata Rachel li investì con i suoi colori pastello. Sembrava non avere inizio e, se si aveva abbastanza fegato da sporgersi oltre il bordo, era evidente che non avesse nemmeno una fine, perdendosi fino giù nel cuore della Terra. Robert scioccato, si avvicinò tenendo davanti a sé la torcia in resina fossile.

«Stai atten...» Adelhaide non finì la frase che la sostanza oleosa, di cui era composta la cascata, prese fuoco. «Accidenti a te!» esclamò, saltando di lato per evitare una fiammata. «Ritiriamoci dietro quel masso, prima di finire tutti quanti arrosto. L’unico varco per raggiungere la struttura è lì,» indicò un sentiero che si perdeva dietro il flusso d’acqua.

«Ehi! Che diavoleria è questa? L’acqua non dovrebbe trasformarsi in un Ire oku thrower4,» esclamò sgomento Sebastian mentre sbatteva le mani sulla gamba per spegnere un principio di incendio.

«Anni fa ho elaborato una teoria,» si intromise Gordon. «Sotto il suolo dove abbiamo lasciato la tenda, passa la vecchia conduttura degli scarichi che alimentava la base. Visto il flusso, è ancora operativa ma, lungo il suo cammino attraversa aree scoperte particolarmente radioattive. Credo sia l’accumulo delle scorie che la rende infiammabile e le dona il caratteristico colore iridato.»

«Tutto questo è emozionante, ma come facciamo a superare l’ostacolo?» chiese spazientito Robert.

«Oh, è semplice. Ti buttiamo nel fuoco, magari, bruciando, la tua massa cerebrale migliora,» rispose acida Adelhaide mentre estraeva dallo zaino quello che parve un sasso viola. Con circospezione, prese la mira e lo lanciò al centro del flusso arroventato. In men che non si dica le fiamme si estinsero. «Ecco fatto. Aspettiamo ancora un attimo, nel caso sia rimasto qualche focolaio, e poi infiliamoci nel tunnel. Abbiamo ancora mezz’ora di cammino e la notte sta calando.»

Come evocato, un vento gelido iniziò a soffiare dal baratro portando con sé i misteri della notte. Il sottosuolo si risvegliò attirato dagli odori familiari che provenivano dal cielo aperto. Fruscii, mugolii, stridii fecero accapponare la pelle ai cinque esploratori.

«Per di qua,» disse con urgenza Adelhaide infilandosi tra due arbusti secchi. Una volta sbucati dall’ennesimo tunnel, piombarono in uno spiazzo colmo di detriti. Incastrata nel cemento, una piccola porta aveva resistito alla violenza dei bombardamenti che si erano concentrati in quell’area.

«Non c’è via di uscita, Ade, spero tu sappia cosa stai facendo,» bofonchiò Gordon estraendo il pugnale. Senza guardare in faccia la ragazza si mise in posizione di difesa, gli occhi fissi da dove erano arrivati. Sebastian lo affiancò.

«Sbrigati ad aprire,» l’incitò l’uomo, sussultando al ruggito affamato che si propagò intorno a loro. «Quei cosi sono dannatamente vicini.»

«Sono tre cicli5 che studio questa porta,» lo rimbeccò acida la ragazza, «mi basta trovare il pannello che l’alimentava e il gioco è fatto.» China a pochi passi dalla porta, Adelhaide, aiutata da Robert, raschiò il muro fino a disegnare un contorno quadrato. Entrambi, facendo leva con un cacciavite, spostarono il rivestimento sotto il quale si rivelò un mosaico di fili colorati di giallo, verde, blu e rosso. Lesta agguantò il coltello a scatto appeso al collo e recise l’unico filo multicolore nascosto in fondo a quel groviglio. Con uno schianto polveroso, la porta tremò appena sui cardini arrugginiti. «Bene,» disse soddisfatta, «il resto lo dovrà fare la forza bruta.» E ammiccò ai muscoli che pulsavano sotto la tuta grigia di Robert.

Troppo occupati a smuovere l’ostacolo, nessuno di loro si accorse che il più giovane si era infilato in un pertugio finché un urlo disumano non si ripercosse tra i tunnel.

«Philipe.» sussurrò agghiacciato Gordon muovendo dei passi verso destra. «Sbrigatevi ad aprire quella dannata porta e tenetevi pronti al peggio.»

In quell’istante, il corpo martoriato del giovane scivolò fuori dalla fenditura e Gordon si apprestò a soccorrerlo. L’uomo non fece in tempo a inginocchiarsi accanto a lui che due braccia scheletriche arpionarono le gambe di Philipe. «Aiutami,» balbettò. Il suo volto era talmente cinereo che, anche attraverso la visiera sporca di terra, spiccava il rossore dei brufoli. In un attimo sparì inghiottito dal buio.

Dopo un secondo di smarrimento, Gordon raggiunse gli altri. Al suo posto apparve una creatura orrenda. Era completamente scuoiata, con vene e muscoli che palpitavano a ogni movimento. Aveva due fosse nere al posto degli occhi e una bocca larga munita di denti affilati grondanti schiuma. Intorno ad essa aleggiava del fumo nero che puzzava di carne bruciata. Se ne stava acquattata sugli arti frementi, muovendo la testa tozza come quella di un gufo, osservandoli.

«Entrate,» bisbigliò ansante Sebastian. «Evitate movimenti bruschi.» Gli altri due non se lo fecero ripetere. Gordon, troppo vicino alla creatura, si mosse piano, gli occhi fissi su di lei, il grosso coltello saldo tra le dita. «Ci sei quasi, un altro passo e sei alla porta,» lo istruì Sebastian.

Da sopra le loro teste, un involucro scuro volò in un cantuccio, lontano dalla porta. La creatura mosse la testa in direzione dell’oggetto e ruggì forte balzandoci sopra. Quello fu il segnale che permise a Gordon di sgattaiolare incolume oltre l’uscio.

Una volta dentro, chiusero e sprangarono la porta usando alcune delle scansie che fiancheggiavano le pareti della stanza. Pannelli spenti e scaffali alti fino al soffitto dividevano l’ambiente in tre piccoli vani. Scartoffie e polvere erano disseminati un po’ ovunque. A parte la sensazione di abbandono che aleggiava, sembrava che la guerra non fosse mai arrivata sin lì.

«Per ora non possiamo fare altro. Trovatevi un giaciglio e cercate di dormire. Due consigli: non togliete il casco e non aprite quella porta fino a nuovo ordine!» intimò Gordon prima di dirigersi verso un basso mobile senza gambe.

«Che posto è questo?» chiese Robert ancora atterrito, mentre si sedeva in terra con la schiena contro la parete.

«Il centro operativo, il luogo da cui dipendeva il rifornimento di energia per l’intera base.» Adelhaide entrò nel vano più lontano e rovistò nei cassetti di una scrivania. Tolse dei grossi tomi ingialliti da uno scaffale, aprì e chiuse dei quadri di comando finché non si fermò difronte a una sottile lastra nera. «Ecco dove ti avevano nascosto,» bisbigliò soddisfatta. Afferrò di nuovo il cacciavite, che portava sempre con sé, e colpì con forza l’ardesia. Sotto, fece capolino una pulsantiera dove, in un angolo, tre spie rosse tremavano come la debole fiamma di una candela.

«Eureka!» esclamò. «Ragazzi fate buoni sogni, i miei di certo saranno meravigliosi.»

In quel momento, uno schianto fece tremare la porta mentre i calcinacci si staccavano dagli infissi; dei latrati fecero loro accapponare la pelle.

«Siamo al sicuro,» mormorò Gordon mentre estraeva il coltello. «Ma, per evitare spiacevoli sorprese, è meglio se ci mettiamo tutti lì dentro.» Col corpo piegato in avanti, le braccia spalancate e gli occhi fissi sulla porta, si appostò davanti al primo vano. «Entrate,» li incitò, «è l’unico con una porta munita di serratura. Per quel che ne sappiamo, nonostante siano molto forti, non sono in grado di usare una maniglia,» sorrise ferino. I tonfi andarono avanti per tutta la notte finché, con l’apprestarsi dell’alba, le radiazioni ricominciarono a diventare insopportabili.

Da tempo l’uomo aveva abbandonato le zone devastate dalla Terza Guerra Mondiale, diventate ormai invivibili. Così la Natura aveva preso possesso delle loro macerie. Dalle sue viscere aveva generato nuove specie: ibridi in grado di resistere al gelo notturno ma incapaci di sopportare il picco delle radiazioni causato dal calore del sole. Creature che, all’approssimarsi dell’alba, si ritiravano nelle loro tane a centinaia di metri sotto la superficie terrestre. Per cibarsi macinavano chilometri su chilometri, fino a spingersi ai margini delle cinte degli agglomerati umani. Nessuno, prima di allora, aveva conosciuto il loro vero aspetto perché, chiunque vi si fosse imbattuto, non era vissuto abbastanza per raccontarlo. Visto la loro natura erano stati battezzati ironicamente Abali Abali6.

La mattina dopo, i quattro esploratori uscirono dalla stanza con cautela, preoccupati di trovarsi davanti qualcuna di quelle bestie acquattate nell’ombra. Erano scesi parecchio nel sottosuolo, mantenendosi a breve distanza dall’epicentro della Prima Esplosione, il più umanamente possibile vicino alle sue radiazioni.

«Mi sembra che fin qui sia stato tutto fin troppo facile, escludendo Philipe. Pace all’anima sua,» bisbigliò Robert mentre guardava trasognato i graffi profondi sulla porta e sui muri circostanti.

«Beh, non la chiamerei fortuna. Sono settimane che dispongo esche alimentari per spostare il loro territorio di caccia. Secondo le stime, in quest’area, ci sono quasi un centinaio di esemplari, un po’ troppi per attraversare la Route 375 e sperare di restare vivi,» rivelò sbrigativamente Adelhaide. «Credo sia stato il girovagare avventato di Philipe a guidarli fino a noi.» Robert alzò le mani in segno di resa.

«È meglio avviarci,» li interruppe Gordon. «Secondo i miei calcoli, dobbiamo tornare indietro, prendere il quinto cunicolo a destra e percorrerlo fino in fondo, dove troveremo ad attenderci l’ultimo ostacolo. E qui entrerai in gioco tu, Sebastian.»

«Già,» disse ergendosi in tutta la sua altezza. «Vedrete un esperto di esplosivi all’opera.»

«Scusa, ma non si era detto che erano vietate le deflagrazioni?» chiese preoccupato Robert accodandosi al gruppo.

«In realtà si tratta più di disinnescare che far esplodere,» riprese Gordon. «Per preservare ciò che nascondevano qui, uno sparuto gruppo di militari e scienziati, dopo avere fatto evacuare l’intera base, si sono barricati all’interno. Non abbiamo idea se l’intera struttura sia rimasta integra, dopo la guerra, però sappiamo per certo che ciò per cui siamo qui è ancora intatto.»

«E come è…»

«Quante domante, Robert!» sbottò infastidita Adelhaide. «Sei una palla al piede! Se avessi letto il fascicolo che vi ho procurato prima di partire, non saresti così mortalmente noioso. Soprattutto avresti evitato di fare la figura dello zotico. Comunque, riassumendo: il generale Kippler, il valoroso tizio di cui parlava poc’anzi Gordon, è un mio lontano parente. Intuendo l’esito della guerra che stava per scatenarsi, spedì moglie e figli, e l’intera documentazione in suo possesso, in Nigeria. Di tutto il faldone, a noi interessa solo quello che riguarda il bunker numero 14. È là che siamo diretti.»



Note dell’autrice: questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.

Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono leggenda’:

Genere7: Sovrannaturale (vampiri).

Citazione: ‘Poi un giorno il cane non si presentò’.

Ambientazione: un America post-apocalittica.

Obbligo: finale negativo.

La giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a ogni prompt aggiunto.

Ulteriori note: il numero nel titolo non è lì a caso. Infatti, il 14 è il mio numero preferito e il 41 è il suo opposto. Inoltre, un giorno, durante la stesura della storia, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Inteso come conquista.

2Cattura radiazioni in Igbo lingua della Repubblica Biafra esistita fra il 1967/70

3The New Vegas in Igbo

4Lanciafiamme in Igbo

5Nel mio immaginario, il tempo viene scandito tra una Esplosione e l’altra di radiazioni, e suddiviso a sua volta in cicli.

6Stufato notturno in Igbo

7Non necessariamente il principale ma fondamentale.

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Capitolo 2
*** Apologia di una guerra ***


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Anno del giudizio 14-41


L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla. ( John Powell )


Apologia di una guerra


Non fu facile raggiungere il loro obiettivo: la galleria imboccata, oltre ad avere una forte pendenza, era invasa dai detriti. Dovettero anche aggirare un paio di mine anti-uomo, allungando ulteriormente il percorso. Poi, finalmente davanti a loro, quasi a ridosso dello strapiombo, con la cascata iridescente a fare da cornice, trovarono la porta blindata.

«Sebastian, mettiti subito al lavoro. Ho un bruttissimo presentimento,» disse preoccupato Gordon. L’uomo non si fece pregare e, dopo avere tolto dallo zaino un visore, alimentato dalle stesse radiazioni che li circondavano, prese a consultarlo.

Adelhaide si avvicinò al bordo e, voltando la schiena alla cascata, strisciò lungo la lingua di terra a ridosso della parete in cemento. Fatto un centinaio di metri, la striscia si allargò abbastanza da permettere di avere una buona visuale del muro.

«Ma che fine ha fatto l’unità operativa rimasta a custodia di questa area?» chiese Robert che, nel frattempo l’aveva raggiunta.

«Secondo i dati in nostro possesso erano centoventitré, ma di loro non rimase vivo nessuno. Dai rapporti sappiamo che, una volta usciti in perlustrazione, non fecero più ritorno.» La ragazza estrasse da una tasca dello zaino uno scanner e lo passò sulla parete.

«Cosa stai facendo?» domandò perplesso.

«Riproduco la mappa. Guarda tu stesso,» rispose spiccia, troppo impegnata per aggiungere altro. Robert alzò gli occhi e, parzialmente illuminata dalla luce incorporata nella sua visiera, apparve la pianta dell’intera base.

«Come è possibile?» chiese.

«Come sia successo non saprei spiegarlo. Posso solo dirti che, come ben sai, Kippler riuscì a tenersi in contatto con il mondo esterno. Un video, filmato da lui stesso, riporta le immagini sbiadite di questa parete dopo di ché il nulla. Quello fu l’ultimo rapporto che ricevettero dalla base. Comunque, detto tra noi, furono enormemente fortunati a restare vivi. Guarda il cratere alle tue spalle: a quei tempi era una costruzione che ospitava migliaia di unità.» Staccò in fretta lo scanner dal muro e lo ripose nello zaino. «Fatto! Ora che ho finito, è meglio raggiungere gli altri, e anche piuttosto in fretta.»

Girando su se stesso, Robert passò il fascio di luce nel punto in cui l’intonaco era sdrucciolato via.

«Caspita!» esclamò. «Questa sì che è bella! Aspetta! Devi proprio vedere questa cosa,» disse a Adelhaide che già si era persa nell’oscurità. Il muro gli regalò la visione parziale del planisfero politico terrestre suddiviso esattamente come nei tempi attuali, con l’Africa che dominava su tutte le restanti nazioni. Ma ciò che lo lasciò a bocca aperta fu constatare che, nelle zone in cui la guerra aveva fatto più danni – per citarne alcune: Stati Uniti, Italia, Cina e Russia – l’intonaco era sparito lasciando un vuoto troppo crudo per essere vero. Adelhaide rise davanti alla sua espressione sbigottita.

«Affascinante, vero? Tenendo conto che è lì appesa da quando la base è stata costruita. Anzi, ti dirò di più: fu la volontà di mantenere celato il segreto nell’Area 51 che scatenò tutta questa follia.»


Correva l’anno 1954 quando lo studioso Angelo Ferretti Torricelli, dalla Specola Astronomica Cidnea di Brescia1, osservò uno strano fenomeno avvenuto a pochi chilometri dal satellite terrestre.

Sul suo annuario pubblicò: Curioso come l’uomo alzi lo sguardo verso il cielo in cerca di conforto senza conoscere i misteri ivi celati. Eppure, quasi per caso, ho appreso che la magia del nostro satellite può essere offuscata dall’ignoto, da qualcosa di così incomprensibile da risultare, suo malgrado, affascinante[...] Un “ombra” veleggiante nella debole orbita lunare si è frammentata, colpita a tradimento da una meteore. L’impatto ha illuminato il satellite come un albero di Natale e scagliato lontano i frammenti incandescenti, alcuni dei quali si stanno dirigendo verso il nostro pianeta[...] Questa notte tutti con il naso verso il cielo: e buon desiderio a tutti.”

I giornali di tutto il mondo riportarono la sconcertante storia di una donna, Ann Elizabeth Hodges, che, il 30 novembre del 1954 alle ore 6:46 p.m., veniva colpita da un frammento di una di quelle meteorite2 citate nell’articolo di Torricelli.

La divulgazione di questa notizia servì a insabbiare velocemente l’ammaraggio in varie zone del pianeta di materiale di origine aliena, dando inizio a una delle più controverse fasi della Guerra Fredda tra Russia e Stati Uniti.

A metà degli anni ‘60, dei contadini Igbo scoprirono una caverna con all’interno una capsula aliena perfettamente conservata. Il tenente colonnello Chukwuemwka Odumegwu Ojukwu, capita l’importanza del ritrovamento, la vendette sottobanco al migliore offerente. Con il ricavato, armò le sue truppe e, dopo un colpo di stato, diede origine alla Repubblica del Biafra3.

Il nuovo governo ebbe vita breve, e il reintegro delle terre alla Nigeria portò alla nazione inaspettati benefici a lungo termine.

Alla fine degli anni ‘60, gli uomini sbarcano sulla Luna. Ciò che l’umanità ignorava era cosa ci andarono veramente a fare, sul satellite.

Dalle memorie di un appassionato di ufologia del tempo: “Nonostante tutto, il mondo vide e si entusiasmò per lo sbarco. Il vero motivo dell’allunaggio però non aveva nulla a che vedere con la conquista del satellite. Nel novembre del 1954 un oggetto volante non identificato era esploso a una distanza dalla luna che, in termini terrestri, potremmo definire di pochi chilometri, spargendo rottami sulla superficie lunare. Alcuni di questi avevano raggiunto la Terra, permettendo agli scienziati di affermare con assoluta certezza che l’esplosione a cui avevano assistito attraverso i loro telescopi e sistemi di rilevazione era stata causata veramente da un’astronave aliena. Così, usando come paravento la Guerra Fredda, le più alte cariche politiche e militari del pianeta crearono una coalizione atta all’apprendimento della tecnologia aliena. Non ci è dato sapere di preciso cosa hanno trovato – fuorviati sapientemente da molte leggende metropolitane – sta di fatto che ci fu un’impennata nella crescita economico-militare della coalizione.”

L’11 settembre del 2001, i popoli arabi, estromessi dai segreti della coalizione, diedero il via a una serie di rappresaglie che inasprirono i rapporti tra gli stati del pianeta.

La Cina e la Corea approfittarono della situazione e si impossessarono dei cimeli alieni sepolti nella profondità delle foreste dei Paesi che negli anni avevano assoggettato.

Intorno all’anno 2025, la Cina sganciò, su quella che tutto il mondo conosceva come Area 51, il primo ordigno prodotto con la tecnologia aliena, scatenando la Terza Guerra Mondiale.


«Buffo come le grandi potenze dell’epoca definirono il “resto del mondo”: popoli sottosviluppati,» disse con spregio Adelhaide. «In realtà, mentre i cosiddetti paesi civilizzati intraprendevano una spietata corsa agli armamenti, la Nigeria, in grande segreto, si specializzò in prodotti di difesa utilizzando la tecnologia aliena che Ojukwu non aveva venduto. Ogni oggetto che utilizziamo oggi viene prodotto e commercializzato dal “disprezzato” popolo del Biafra. È grazie agli Igbo se l’umanità non si è ancora estinta.»

«Ma allora, cosa ci facciamo qua?» chiese interdetto Robert, allargando le braccia. «Tutto quello di cui abbiamo bisogno è risanare il pianeta da queste stramaledette radiazioni. Non procurarci altri guai.» Adelhaide lo guardò con tenerezza, come se fosse stato un bimbo a cui bisognava indicare la strada smarrita di casa.

«Perché nel bunker 14 c’è racchiusa la panacea di tutti i mali,» rispose enigmatica. «Forza, torniamo indietro. Sebastian dovrebbe avere fatto, ormai.»

Un secondo prima di sbucare nello spiazzo dove stavano gli altri due uomini, avvertirono chiaramente i latrati degli Abali Abali.

«Accidenti, questo non era previsto!» Adelhaide smozzicò le parole tra i denti mentre estraeva dallo zaino un pugnale dalla lunga lama sottile. «Cos’è successo?» sbraitò, raggiungendo Gordon. «La notte è ancora lontana.»

«Non ne sono certo,» ansimò preoccupato Sebastian, ancora chino sul pannello. «Ma credo che siano i guardiani di questo luogo.»

«Impossibile! Non sono senzienti,» rispose quasi aggressiva la ragazza.

«Eppure, ti dico che è così,» insistette l’uomo. «Ho annullato tutti i sistemi di difesa, senza eccessiva difficoltà, a essere sincero. Ma quando ho iniziato a districare il sistema che tiene sigillata la porta, abbiamo avvertito come una vibrazione sonora. Non vi ho prestato molta attenzione, all’inizio, ma poi sono arrivate le prima urla amplificate dal tunnel e...» si interruppe terrorizzato quando una di quelle bestie con un salto atterrò a due passi da lui. Gordon, che era preparato, scattò nella sua direzione affondando il suo coltello direttamente nella gola dell’Abali, uccidendolo.

«Andate alla porta,» balbetto Sebastian, con le mani affondate tra i fili colorati. «Non ho tempo di riprogrammare il sistema,» continuò sbrigativo. «Uno di noi deve rimanere qui per richiuderla, altrimenti la Wepu Radieshon4 non potrà entrare in funzione.»

«No! No! No!» urlò Gordon, mentre Robert lo trascinava via. Dietro di loro la porta scattò e Adelhaide la spalancò infilandosi dentro un secondo prima che altri due esemplari di Abali piombassero dal tunnel.

«Addio!,» gridò Sebastian con gli occhi spiritati. Tra le mani teneva un cimelio: una bomba a mano usata nella guerra contro i Viet Cong. «Ka Chukwu chekwaa ndi Igbo!5»

Davanti agli occhi sgomenti dei tre esploratori la porta si sigillò, facendoli piombare nel buio.



Note dell’autrice: questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.

Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono leggenda’:

Genere6: Sovrannaturale (vampiri).

Citazione: ‘Poi un giorno il cane non si presentò’.

Ambientazione: un America post-apocalittica.

Obbligo: finale negativo.

La giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a ogni prompt aggiunto.

Ulteriori note: il numero nel titolo non è lì a caso. Infatti, il 14 è il mio numero preferito e il 41 è il suo opposto. Inoltre, un giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1La Specola esiste davvero cit. http://www.comune.brescia.it/servizi/arteculturaeturismo/museoscienze/Pagine/Pagina-specola.aspx

L’avvistamento e l’articolo sono di mia invenzione.

2La notizia è vera, io ci ho solo ricamato sopra. https://it.wikipedia.org/wiki/Sylacauga_(meteorite)

3Come prima, notizie vere su cui ho ricamato https://it.wikipedia.org/wiki/Biafra

4Camera togli radiazioni in Igbo – mi sono immaginata una cosa tipo la camera iperbarica.

5Che Dio preservi gli Igbo in Igbo.

6Non necessariamente il principale ma fondamentale.

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Capitolo 3
*** Nel ventre della balena ***


http://s15.imagestime.com/out.php/i1180833_AnnodelGiudizio.png


Anno del giudizio 14-41


L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John Powell)


Nel ventre della balena


Erano chiusi al buio, in un luogo sconosciuto, colmi di orrore per la fine del loro compagno e allo stesso tempo sollevati di essere ancora vivi.

Il terrore dilagava nelle loro vene rendendo i respiri affannosi mentre il cuore rombava forsennato nelle loro orecchie.

«Toglietevi la tuta,» gracchiò Adelhaide. «Sentite il fruscio? La decontaminazione è iniziata e sarebbe solo d’intralcio.»

In quel momento, una luce bianca sfavillò un paio di volte prima di assestarsi e aumentare d’intensità finché fu impossibile tenere gli occhi aperti. I tre esploratori si denudarono velocemente, i volti rivolti verso le pareti di un freddo colore grigio chiaro. Dal soffitto cominciò a cadere l’acqua trasformando la stanza in una grande doccia dal pavimento poroso. Infreddoliti e spauriti, cercarono di coprirsi come potevano dal getto violento, trattenendo i gemiti di dolore. Dopo svariati minuti, l’acqua cessò di fuoriuscire e venne sostituita da un’aria calda che sapeva di stantio e ruggine. Il calore arrossò ulteriormente la pelle e in più punti aprì loro delle piccole ferite. Il getto cessò e l’aumento improvviso della pressione li costrinse a terra, dove si rannicchiarono in posizione fetale. Si sentivano schiacciare da un peso enorme, come se volesse spremere fuori da loro la vita stessa. Il ronzio aumentò fino a diventare un rombo che scosse loro le viscere, lasciandoli tramortiti. Il ciclo si ripeté per tre volte.

Lentamente, Adelhaide si mosse stirando le membra intorpidite. Immediatamente, si immobilizzò imprecando silenziosamente dal dolore. A fatica si mise seduta sul pavimento e, sbattendo le lunghe ciglia per mettere a fuoco, diede uno sguardo intorno.

«Ma, ma… tu non sei Robert!» disse scioccamente all’uomo di colore che la stava fissando imperturbabile. «E nemmeno Gordon!» continuò allarmata deglutendo a fatica.

«No, non sono il Robert che ti aspettavi. Sono un funzionario dell’impero nigeriano e sono qui in veste ufficiale per prendere possesso della zona. Se cerchi il tuo amico è lì,» disse piatto indicando un punto alle sue spalle. Adelhaide si voltò così in fretta che ebbe un capogiro e dovette piegarsi in avanti, nel tentativo di dominare la nausea. Contro la parete c’era Gordon, il corpo raggomitolato su se stesso e un rivolo di sangue che si andava allargando sotto di lui sporcando il pavimento niveo. Sgranò gli occhi orripilata.

«Se può farti stare tranquilla, non l’ho ucciso io,» si giustificò alzando le mani in alto. «E, a dirla tutta, è stato piuttosto longevo, quindi nessuna perdita di grande rilevanza.»

«Bastardo,» soffiò tra i denti la ragazza scagliandosi nella sua direzione. Non fece che due passi barcollanti prima di cadere a terra svenuta.

Quando rinvenne era adagiata su un vecchio lettino da ospedale dalle ruote malamente bloccate. Con cautela, poggiò i piedi sul pavimento freddo e si strinse nel camice verde che quell’uomo doveva averle infilato mentre era svenuta. La stanza in cui si trovava era poco illuminata, piena di oggetti medici in disuso da moltissimi cicli. Lucine verdi e rosse si susseguivano su un pannello grande quanto una parete e, sul lato opposto, dietro una spaziosa vetrata, Robert – o come diavolo si chiamava – la osservava inespressivo. In alto a destra, un foglio nero era incastrato nella cornice di legno.

A passi lenti raggiunse la porta parzialmente nascosta da un paravento in tessuto stinto. Provò a girare la maniglia ma questa non cedette. Presa dal panico, la scosse più volte senza ottenere nulla. Così, rinvigorita dalla furia che cresceva dentro di lei, raggiunse la vetrata e picchiò con violenza i palmi aperti sul vetro.

«Fammi uscire, brutto stronzo! Fammi uscire, razza di bastardo!» gli urlò contro, sempre più agitata. Un violento scossone all’addome la fece piegare in due e rigurgitare bile. Con uno scatto rabbioso si ritrovò in posizione eretta ma un giramento la fece appoggiare malamente alla parete fredda. Con la fronte cercò un momentaneo refrigerio, mentre con il dorso della mano si ripuliva la bocca. «Fammi uscire,» ripeté flebilmente.

Per tutto il tempo, Robert era rimasto impassibile come una statua di sale. La luce al neon investiva la sua pelle scura donandogli una sfumatura violacea. Anche lui indossava un camice verde, che teneva chiuso con i laccetti sul davanti. Senza emettere fiato, alzando un sopracciglio con derisione, allungò una mano verso un punto al di fuori della sua visuale. Immediatamente nella stanza si diffuse un fastidioso ronzio proveniente da una griglia incassata nel muro lì a fianco.

«Sei incinta,» disse una voce metallica. La ragazza si pietrificò, osservando le labbra dell’uomo muoversi ma senza recepire alcuna parola. Impanicata, prese a scuotere la testa.

«È impossibile! È assolutamente impossibile!» disse flebilmente mentre sosteneva il basso ventre con un braccio e stringeva il pugno sulla bocca.

Robert le indicò il foglio nero appeso al vetro. Adelhaide quasi lo strappò nella foga di capire cosa le stesse succedendo. Poi, con occhi vitrei, rimirò l’ecografia del suo ventre che mostrava la sagoma grigia di un feto. Il suo cervello si spense e si accasciò a terra mentre il foglio planava leggero a pochi passi da lei.

«È meglio che tu ti rivesta,» disse Robert buttandole malamente addosso dei vestiti che sapevano di muffa. «Mi sono messo in contatto con l’esterno e tra due ore saranno qui.»

«Cosa?» chiese sbigottita alla schiena dell’uomo che non la degnò di uno sguardo mentre usciva dalla stanza. Adelhaide si affrettò a rendersi presentabile e, seppur ancora instabile sulle gambe, raggiunse Robert. Lo trovò affaccendato davanti a un modello obsoleto di computer.

«Mi devi stare a sentire! Non è possibile che io aspetti un bambino,» Adelhaide cercò di attirare la sua attenzione battendo entrambi i palmi sudati sul ripiano in formica della scrivania.

«Sì, sì. Come dici tu,» la liquidò distratto mentre digitava concentrato sopra una tastiera. La ragazza sbuffò, palesemente contrariata.

«Accidenti,» sibilò trattenendo un conato. Visto che con quell’energumeno non ottenne nella, frustrata girovagò a vuoto cercando di capire come potesse essere successo un evento simile, finché non si ricordò della propria missione. Trovò il suo zaino in terra fuori dalla porta della Wepu Radieshon, recuperò lo scanner e seguì le indicazioni per raggiungere il bunker 14.

Lungo il tragitto, ogni ambiente che aveva incontrato era stato fatiscente, vuoto, senza calore. Eppure si aveva la strana impressione che fosse stato abbandonato da poco, come se le unità che ci lavoravano avessero staccato per la pausa pranzo. Non c’era confusione, nemmeno un oggetto fuori posto, tutto era in ordine. Adelhaide rabbrividì davanti a quel silenzio irreale. Gli unici rumori che avvertiva erano il battere furioso del proprio cuore e il fiato accelerato da un’irrazionale paura.

Percorse altri tre corridoi e superò almeno una quindicina di stanze vuote prima di arrivare a destinazione. Si aspettava di trovare un locale ampio, con al centro una costruzione grigia in pietra, invece l’ingresso era un’anonima porta lungo la parete. La scritta rossa ‘bunker 14’, impressa su una lamiera di latta, era l’unica nota colorata.

«Vediamo un po’ cosa si cela al di là di questo muro,» disse al vuoto per farsi coraggio. Come fece per toccare il pannello per disattivare la serratura, Adelhaide si accasciò in terra urlando dal dolore. Sentiva le viscere bruciare, un formicolio lungo la pelle come se mille bisce dotate di spuntoni la percorressero in lungo e in largo. Non riusciva a controllare gli spasmi e, ben presto, si ritrovò a rigettare sugli stivali succhi gastrici verdi e appiccicosi.

Quando tutto finì, si tirò su a fatica, strisciando la schiena lungo il muro liscio. Rimase appoggiata alla parete per qualche istante, gli occhi spalancati e terrorizzati fissi nel nulla. Sapeva di donne che stavano male, che avevano crisi di vomito ma nessuna di certo versava nelle sue stesse condizioni.

«Per tutti gli dei conosciuti e non,» balbettò sgomenta, «che stregoneria è mai questa? Non ho nemmeno l’utero!» Fece un paio di grossi respiri cercando di riprendere il controllo del proprio corpo. «Le risposte sono qui! Ne sono più che certa.»

Spinta da una nuova determinazione, aprì il pannello e prese dallo zaino un cartellino in plastica e lo strisciò in una fessura a lato. Quando una spia si illuminò di verde, digitò sulla tastiera una sequenza di numeri e lettere, scritti sulla placca in oro che portava appesa al collo. Dopo un secondo si udì lo scatto della serratura.

Adelhaide mise la mano tremante sulla maniglia, chiuse gli occhi e ingoiò la paura; varcò l’uscio con il cuore in procinto di scoppiare.

Dentro, il locale era straordinariamente caldo e luminoso. Le pareti brillavano di un colore molto simile all’argento, eppure tutta quella luce, seppure molto intensa, non feriva gli occhi. Adelhaide fece qualche passo verso il centro, dove una consolle emetteva strani fruscii e svariate spie si illuminavano ad intermittenza. Passò con reverenza un dito sulla formica lucida finché un’ombra attirò la sua attenzione. Dietro una spessa lastra di vetro, stava sospeso in aria, con dei cavi infilati nel cranio tozzo, spesse catene avvolte intorno agli arti ancorate al muro, un Abali Abali vivo, grande quanto un elefante.

Adelhaide cacciò un urlo e scattò all’indietro, finendo rovinosamente a terra. Scalciando con i piedi, strisciò fino a raggiungere la parete senza mai perdere di vista la grossa creatura.

L’Abali mosse il capo di lato, osservando curioso la ragazza. Le orbite infossate erano penetranti, antiche e incutevano un timore reverenziale. Per quanto potesse sembrare illogico, era lo sguardo di una creatura cosciente e senziente, dotata di una spiccata intelligenza.

In quell’istante, per tutto il corridoio riecheggiò una sirena, le luci si spensero e si attivarono quelle di emergenza. Adelhaide sussultò presa alla sprovvista, si rialzò con fatica e marciò decisa verso la porta.

«Ade! Ade!» la voce metallica di Robert sovrastò quella dell’allarme. «Torna immediatamente qui! È sorto un problema.»

La ragazza, mossa da un presagio, voltò il capo verso la creatura. L’Abali ricambiò lo sguardo con un sorriso consapevole, le orbite accese di pura malvagità. Aprì la bocca deforme e sguainò i denti davanti, arcuati verso l’interno come sciabole. Il suo ruggito silenzioso fece tremare l’intera vetrata e il suo corpo provato.



Note dell’autrice: questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.

Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono leggenda’:

Genere1: Sovrannaturale (vampiri).

Citazione: ‘Poi un giorno il cane non si presentò’.

Ambientazione: un America post-apocalittica.

Obbligo: finale negativo.

La giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a ogni prompt aggiunto.

Ulteriori note: il numero nel titolo non è lì a caso. Infatti, il 14 è il mio numero preferito e il 41 è il suo opposto. Inoltre, un giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Non necessariamente il principale ma fondamentale.

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Capitolo 4
*** Cavallo in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41: scacco matto ***


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Anno del giudizio 14-41


L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John Powell)


Cavallo in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 411: scacco matto


Seppure con difficoltà, Adelhaide corse per i corridoi semi bui. Le luci di emergenza rendevano l’ambiente claustrofobico e alla ragazza terrorizzata pareva che, a ogni passo, si stesse stringendo su di lei. Si sentiva soffocare e non aiutava la strana pesantezza che avvertiva nelle ossa.

«Robert!» urlò sollevata quando lo raggiunse. «Robert di là…» Con il braccio tremante indicava la direzione da cui era appena sopraggiunta. «Quel coso… È orribile! Vieni con me…» balbettò.

«Adelhaide non c’è tempo per i tuoi deliri. Qualsiasi cosa sia, può aspettare,» l’interruppe seccato. «Non so come, ma sembra che alcuni strumenti di questa base siano in grado di prevedere, con un certo margine d’anticipo, la prossima Esplosione. Ho controllato la mappa dei venti, e le correnti spingeranno le radiazioni fino alla zona denominata Arata, nel vecchio stato dell’Eritrea. Una delle poche aree non ancora contaminate. Preparati perché siamo diretti lì.»

«No! Aspetta, Robert. Tu devi vedere… quella cosa… oddio!» urlò, contorcendosi dal dolore.

In quell’istante, tre uomini, con lo stemma della guardia imperiale nigeriana stampato sulle tute verdi, fecero il loro ingresso.

«Capo Oganda, a rapporto, signore,» disse il più vecchio facendo il saluto militare. Robert, impegnato a soccorrere la ragazza, fece loro un cenno distratto. «Ho il permesso di parlare?» chiese il militare. «È stato tutto predisposto. In mezz’ora raggiungeremo Vegas Ohuru dove ad attenderci ci sarà il suo velivolo, signore.»

«Robert, ti supplico. Devi vederlo. Lui è… è ovunque. Lo sento nella mia testa. Lo vedo… oddio… è ovunque,» continuò a farfugliare Adelhaide, dalla sua posizione raggomitolata.

«Oganda, procura un calmante. In queste condizioni non riusciremo a trasportarla in superficie.»

«Sì, signore!»

Robert sollevò la ragazza come fosse un fuscello e la consegnò agli altri due soldati che le fecero indossare la sua tuta gialla. Poi, affiancandola, l’aiutarono a camminare, quasi sorreggendola di peso.

Attraversarono la Wepu Radieshon, le cui porte erano state squarciate da una morsa ad aria compressa. Sembravano le fauci spalancate di un Abali.

«Cosa è successo?» chiese Robert osservando un corpo rattrappito in un angolo. Avvicinatosi, poté scorgere una bomba a mano, con ancora l’innesco inserito, racchiusa tra le dita mummificate. «Ma questo è Sebastian.» Sussultò stupito.

«Non sappiamo cose gli sia capitato, signore,» rispose uno dei militari.

«È stato lui! È stato lui! Io lo so. Io lo vedo. Io lo sento,» cantilenò Adelhaide tenendosi la testa tra le mani. «Cresce e si espande…» rise istericamente. «Non mangia, lui beve.»

«Ma cosa?»

«Non prestatele attenzione. È solo sconvolta. Piuttosto, come risaliamo?»

«Per di qua, signore.» Oganda li aveva raggiunti spuntando da dietro la cascata. «Ecco il calmante.» Con efficienza, inserì una fiala blu in uno scomparto alla base della visiera della ragazza. «Farà effetto tra dieci minuti, il tempo di issarla con la carrucola.»

Appoggiata alla lamiera gelida del velivolo, Adelhaide ascoltava distrattamente i discorsi degli altri. Si sentiva bruciare dall’interno, il suo corpo ardeva e prudeva e si contraeva sottopelle. Lame di fuoco le incendiavano le vene, spasmi sottili come spilli le scuotevano le membra. Avrebbe tanto voluto togliersi la tuta, strapparsela di dosso per tornare a respirare a pieni polmoni, come se l’epidermide avesse fame di luce. Razionalmente sapeva di non poterlo fare per via delle radiazioni, ma il desiderio aumentava dentro di lei a pari passo con la consapevolezza che qualcosa in lei stava mutando. E non era niente di buono.

«Dobbiamo portarla in un centro di cura per contagio da radiazioni, signore,» insistette uno dei soldati.

Adelhaide percepiva le parole come se giungessero da un luogo straniero, quasi prive del loro significato. La testa le doleva ed era colma di immagini sconosciute, di sensazioni crude e primitive, fatte di istinto animale. I suoi ricordi si confondevano e si fondevano in un vortice continuo, sempre più stretto, sempre più veloce.

«Qualcosa nel processo della Wepu Radieshon è andato storto. Forse per il fatto che è incinta. Non so. È una tecnologia che non avevo mai visto prima.»

«Non sono incinta, non ho l’utero,» smozzicò le parole come un ubriaco, per poi ridere istericamente. La sua voce le era diventata estranea, un’accozzaglia di suoni dal timbro troppo alto e sottile. Decisamente irritante. Scosse la testa che si mosse come un palloncino in balia del vento. «Robert, mi hanno tolto l’utero all’età di sedici anni dopo avere subito un incidente,» sciorinò le parole lentamente, quasi faticasse a comprendere ogni suono enunciato.

«Come, scusa?» domandò perplesso, l’attenzione finalmente catturata. Adelhaide si lasciò andare a un’altra risata, quasi un rantolo che le gorgogliò in gola.

«Signore.» Oganda, sull’attenti, porse un foglio a Robert. «È appena giunto questo comunicato dalla Nigeria, signore. La Quarantunesima Esplosione ha raso al suolo tutta l’America settentrionale. Ogni segnale di vita proveniente dal bunker 14 in Nevada si è spento. Secondo i nuovi calcoli verremo investiti dalle radiazioni appena sorvoleremo la Dancalia, nel Corno d’Africa, tra meno di venti minuti.»

«Quindi, ciò che nascondeva l’Area 51 è morto con essa. Ogni possibile cura per risanare il pianeta è andata perduta.»

«Lui non è morto, lui vive in ogni sua creatura, lui cresce in me,» bofonchiò Adelhaide in contemporanea all’uomo.

«Non mi importa come, ma tra dieci minuti voglio atterrare sul suolo di Arata. È un ordine!» dispose perentorio. «Cosa dicevi a proposito dell’utero?» chiese aggressivo alla ragazza mentre la scuoteva senza premura.

Adelhaide fece una smorfia che le contorse il viso in una maschera orrenda. Quell’odore, quel profumo di vita che le confondeva la mente, era davvero inebriante. Sentiva una brama ampliarsi nelle proprie vene, un canto di sirena ammaliante. Allungò un dito e sfiorò la giugulare di Robert che batteva forsennata, accattivante e colma di promesse. Il suo corpo ebbe un nuovo spasmo e si inarcò fino quasi a spezzarsi mentre venivano investiti dalle radiazioni.

«È troppo tardi,» sussurrò roca, la sua voce l’eco di un’altra. Febbrilmente si tolse la tuta, la pelle arroventata che si liquefaceva.

«Mi avete tenuto su questo pianeta incatenato come una bestia, sfruttando la mia conoscenza per i vostri scopi. Mi avete sottoposto a ogni tipo di esperimento, mi avete violato in ogni maniera possibile e immaginabile.» Robert estrasse un pugnale ma la ragazza, o ciò che ne rimaneva, fu più veloce e, afferrato il braccio, glielo torse dietro la schiena, spezzandolo. Le sue urla attirarono i soldati ma lei si fece scudo con il corpo di Robert. Adelhaide inspirò l’odore dolciastro che proveniva dall’incavo del collo dell’uomo e si leccò le labbra affamata.

«Siete così stupidi, voi umani. Così facilmente abbindolabili,» rise, un suono vuoto, inumano. «Mi prenderò tutto ciò che vi è più caro: la vostra stessa vita. Spazzerò via dall’Universo la vostra inutile esistenza,» sentenziò lapidario. Con un salto atterrò sui soldati e, dopo una breve lotta, li scaraventò contro le pareti del velivolo, tramortendoli.

«Ma… cosa sei? Come fai a parlare attraverso la ragazza?» biascicò Robert, stringendo i denti dal dolore.

«Io sono tutto e niente. Sono un popolo errante che migra ovunque ci sia cibo. Il mio gregge vive con me e dentro di me. Prendo possesso degli ospiti in cui inietto le larve, rendendoli me, attraverso quella che voi chiamate Wepu Radieshon

«Quindi gli Abali in Nevada erano…» Robert inghiottì a vuoto. «E tutti gli altri sono…» balbettò senza trovare il coraggio di concludere la frase.

Un leggero rollio fu l’unico segno che il velivolo stava atterrando. Adelhaide denudò i denti, lunghi e taglienti come rasoi.

«Ci siamo,» disse annusando l’aria avido, scrollandosi di dosso il resto dell’involucro che un tempo era la ragazza. Davanti a Robert, troppo terrorizzato per urlare, a conferma della sua tesi, apparve un Abali. «Appena io e la mia razza saremo sazi, lasceremo questo posto con la nave che mi avete gentilmente ricostruito e attende addormentata sotto questo suolo.»

Ma Robert non capì cosa diceva, con quel linguaggio fatto di latrati e mugolii che gli ricordavano tanto il suo adorato cane Adholf. «Poi un giorno, seppure mi sgolassi, non si presentò2 alla mia porta. Lo trovai rinsecchito dentro un fosso. Ora so perché,» sussurrò del tutto irrazionalmente mentre si arrendeva alla Morte che gli stava succhiando via l’anima.



Note dell’autrice: questa storia partecipa al contest ‘My favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.

Questa storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici libri’ indetto da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono leggenda’:

Genere3: Sovrannaturale (vampiri).

Citazione: ‘Poi un giorno il cane non si presentò’.

Ambientazione: un America post-apocalittica.

Obbligo: finale negativo.

La giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a ogni prompt aggiunto.

Ulteriori note: il numero nel titolo non è lì a caso. Infatti, il 14 è il mio numero preferito e il 41 è il suo opposto. Inoltre, un giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Sono le coordinate geografiche di Arata in Eritrea.

2Citazione come da pacchetto: Io sono leggenda (la parola ‘cane’ è sottintesa)

3Non necessariamente il principale ma fondamentale.

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