Il circo dalle gabbie d'oro

di Iryael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** | Prologo | Il giornalista di Canale 64 ***
Capitolo 2: *** | Capitolo 01 | Vengo accontentato ***
Capitolo 3: *** | Capitolo 02 | Divento il leader del Team Darkstar ***
Capitolo 4: *** | Capitolo 03 | Ritrovo Clank e Al ***
Capitolo 5: *** | Capitolo 04 | Do la caccia a Lyra ***
Capitolo 6: *** | Capitolo 05 | Si chiama Takami e – in teoria – è una Guardiana ***
Capitolo 7: *** | Capitolo 06 | Stringo un accordo ***
Capitolo 8: *** | Capitolo 07 | Finisco nel compattatore ***
Capitolo 9: *** | Primo intermezzo | Un dettaglio da nascondere ***
Capitolo 10: *** | Secondo intermezzo | Per un buon esito ***
Capitolo 11: *** | Capitolo 08 | Tuesday's Hiring Show ***
Capitolo 12: *** | Capitolo 09 | Conosco Chaos ***
Capitolo 13: *** | Capitolo 10 | Di nuovo tra i vivi ***
Capitolo 14: *** | Capitolo 11 | Catacrom Quattro: la pista ***
Capitolo 15: *** | Capitolo 12 | Catacrom Quattro: il tempio e i Sangue Misto ***
Capitolo 16: *** | Terzo intermezzo | Balle? Magari! ***
Capitolo 17: *** | Capitolo 13 | Ripago Rop'roc e Al mi minaccia ***
Capitolo 18: *** | Capitolo 14 | Casino che va, casino che viene ***
Capitolo 19: *** | Capitolo 15 | Sarathos, la Madre dei Leviathan ***
Capitolo 20: *** | Capitolo 16 | Sarathos: per Clank ***



Capitolo 1
*** | Prologo | Il giornalista di Canale 64 ***


[ Prologo ]
Il giornalista di Canale 64
 
Febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
Il campanello gracchiò e le orecchie di Ratchet fremettero. Passava così poco tempo in quella casa che aveva scordato quanto fosse sgraziato quel rumore.
Poggiò la tazza sul tavolino e sgusciò tra i mobili del salone. Aveva atteso quell’incontro con impazienza e in quel breve tragitto sentì montare un misto di ansia ed eccitazione.
Nell’ingresso aveva un grande specchio: prima di aprire si fermò a controllare di essere convincente. Il riflesso gli rese l’immagine di una persona sicura e lo tranquillizzò.
Nell’aria si sparse un secondo gracidio e, di nuovo, le lunghe orecchie di lombax sussultarono.
Oh, per la miseria!
Aprì il portone e la persona in corridoio gli ricordò Big Al: viso tondo, ventre a fiasco, gambe corte. Non guardava né lui né l’abitazione, ma rimirava i teli di plastica che, simili a gigantesche ragnatele, infestavano il corridoio.
«Bruttini, eh? Stiamo ristrutturando.»
Il kerwaniano sobbalzò. Le guance sbiancarono e in automatico balbettò una scusa.
«Sono Jay Kroo...» disse. «Divisione editoria di Canale 64.»
Il lombax si fece da parte e accennò un sorriso. «Entri pure; la stavo aspettando.»
Dieci minuti dopo due tazze fumavano sul tavolino del salone, disperdendo l’aroma forte della kryl. I due sedevano ai lati del basso mobile, su poltrone di pelle scura. A dispetto di ciò che s’era aspettato Ratchet, era il giornalista ad essere palesemente a disagio. Parlava a scatti, come un file audio corrotto. Il lombax pensò che si fosse preparato un discorso, ma che non riuscisse a ricordarlo.
«...e per questo la ringrazio. È un onore, davvero.»
Ratchet sventolò una mano con noncuranza, nel tentativo di metterlo a suo agio. «Non è il caso di parlare di onore. Vuole ascoltare una storia...» tentennò un attimo «...direi incredibile, nel vero senso del termine.»
Il kerwaniano fece spallucce e allargò le braccia. «Beh, il processo stesso è incredibile.» replicò.
Il processo.
Erano mesi che si dibatteva sul motivo per cui gli equipaggi della USS Phoenix e della USS Ferox si fossero massacrati. Ratchet rivide il momento in cui la corte andava nel panico e si passò una mano sugli occhi, stanco del polverone che vorticava loro intorno.
Dimenticò il tentativo di mettere l’ospite a suo agio; dimenticò di ostentare compostezza e tranquillità. Mostrò esattamente quel che provava con un sorriso carico di amarezza.
«Le do pienamente ragione. » disse semplicemente. Ma il suo tono non era carico come prima; era privo di nervo combattivo. Ridacchiò. «Siamo stati attaccati, imprigionati, torturati e alcuni barbaramente uccisi, e la corte sospetta di noi. Ho visto i miei soldati combattere fino all’ultimo respiro, eppure i giudici guardano le carte, non i fatti. È incredibile, sì.»
No – considerò Jay Kroo – non era solo stanco. Era anche arrabbiato.
Intravide nella rabbia una possibilità da sfruttare e decise di giocarsela. «Con le sue dichiarazioni ha spaccato in due l’opinione pubblica.» asserì.
«Se ancora non lo sapesse: hanno richiesto una perizia psichiatrica dopo le mie dichiarazioni.»
Il giornalista annuì. «Ero in tribunale.» ammise.
«E nonostante tutto vuole sapere la mia versione dei fatti?»
«Certo! Io raccolgo le opinioni della gente per lavoro; so quanto il pubblico sia impressionabile e so, soprattutto, quanto l’opinione pubblica può contare durante un processo di questa portata.» rispose, infervorato. «E ho visto come gli avvocati sfruttano questo fattore, sa? Pregiudizi, ignoranza, scandali, rivelazioni...tutto tira l’opinione pubblica dalla propria parte.»
«E quindi cosa vorrebbe fare, sobillare la popolazione?»
Nel momento in cui pronunciò quelle parole, ne valutò l’idea insita. Si costrinse a nascondere quanto l’allettasse e domandò ancora, acido: «Per quale guadagno, poi?»
L’altro si strinse nelle spalle. «Un anonimo ha fatto una donazione esorbitante perché pubblicassimo questa storia. Se lei, poi, dovesse accettare di concederci l’esclusiva, i vantaggi economici ci sarebbero per entrambi. Senza contare l’impatto mediatico, che gioverebbe alla vostra causa.»
Ratchet sorrise e prese la sua tazza. Si diede dell’ingenuo: avrebbe dovuto ricordare che, prima di tutto, era sempre una questione di soldi.
«...Che male non farebbe.» mormorò. «Ennò, proprio no.» aggiunse a voce ancora più bassa, specchiandosi sulla superficie della kryl.
Ripensò all’ultimo interrogatorio. Era rimasto diciotto ore nello studio del Pubblico Ministero, in compagnia del magistrato e di due testimoni, a mettere in chiaro il ruolo del suo Consigliere, la legittimità della nomina e il suo peso nella faccenda.
Per un istante credette che il giornalista avrebbe potuto davvero aiutarlo. Il suo sguardo brillò, poi si riempì nuovamente di scetticismo. Kroo se ne accorse.
«Almeno dia ai cittadini l’opportunità di sapere. Se non sanno, gli avvocati avranno gioco facile nello sfruttare i pregiudizi. Anzi: lo stanno già facendo.» disse. «Il suo Consigliere non merita forse che le galassie guardino a lei con più rispetto che a una puttana?»
Seppe di aver colpito nel segno. Il lombax s’irrigidì e scattò sull’offensiva in una frazione di secondo.
«Non usi i suoi mezzucci.» ringhiò. «Takami non è la puttanella che tutti pensate.»
Il giornalista vide brillare un lampo verde attraverso le iridi e sentì un brivido risalirgli la schiena.
«Mai affermato che lo sia, signore.» balbettò.
«E pensato?»
Kroo si sentì inchiodare alla poltrona. Si costrinse ad affrontare quello sguardo fremente, ma prima si voltò verso il panorama esterno. Per Ratchet fu più che sufficiente.
«Infatti.» disse, duro e amaro. «Non la conoscete, la vedete giovane e vi viene detto che è il nostro Consigliere. Dunque cosa pensate? Che è lì dov’è perché me l’ha data. Ebbene: non avete capito un cazzo.»
 
“...ebbene: non avete capito un cazzo! Non dovreste decidere conoscendo i fatti?! E allora dovreste indagare sui fatti realmente accaduti, anziché darmi del puttaniere!”
 
Le parole tuonarono nella sua mente e si azzittì di colpo. Senza rendersene conto aveva usato le stesse parole che aveva detto in tribunale.
Si lasciò cadere contro lo schienale della poltrona e prese a massaggiarsi la tempia con la mano libera.
Si rese conto che, se avesse sfruttato l’opportunità, avrebbe potuto dare voce ai fatti. Quelli essenziali, quelli che nessuno voleva sentire perché l’idea di un caso di prostituzione e false dichiarazioni suonava più clamoroso della verità.
Forse non avrebbe scosso le masse, si disse, ma la verità sarebbe stata resa nota.
Alzò lo sguardo sul giornalista, che lo vide fremere di qualcos’altro. Non più solo rabbia, ma una cieca determinazione.
«Sembra che il suo anonimo caschi a fagiolo per tutti e due.» commentò. «Be’, ho deciso di sfruttare l’occasione. Ma ho due paletti da mettere all’accordo.»
Kroo deglutì. Ratchet lo ignorò e andò avanti. «Il primo: devo parlarne con Takami. Mi dia il tempo d’informarla; mi farò vivo io per accordare un nuovo appuntamento con lei. Il secondo: non firmerò l’esclusiva, ma se pubblicherete tutto quello che dirò, parola per parola, senza tagli né censure, avrete la mia parola che terrò lontani gli altri giornalisti. Tutti eccetto lei.»
Il giornalista sgranò gli occhi: quelle condizioni erano pesanti. La seconda, quanto meno. Rivide il suo superiore intimargli di non tornare a mani vuote e s’immaginò affrontarlo nel caso in cui avesse rifiutato la controfferta. L’anonimo aveva promesso una cifra a sei zeri solo se avessero pubblicato, e non c’era certezza che non l’avesse promessa anche ad altri. Perderla avrebbe comportato ritorsioni pesanti.
Guardandolo, Ratchet intuì di averlo messo in una situazione scomoda. Deciso ad arrivare in fondo alle sue condizioni, lanciò il suo ultimatum: «Unica possibilità: prendere o lasciare.»
Kroo sentì la cravatta stringere attorno al collo. Resistette all’impulso di allargarne il nodo mentre la sua mente lavorava a piena forza.
Alla fine emise un urlo ben poco virile: «Accetto!»
 
Quella sera, dopo aver discusso a lungo con Takami, Ratchet contattò la divisione editoria di Canale 64. Ottenne di parlare con Jay Kroo e si mise d’accordo per i primi due appuntamenti. Gli altri li avrebbero presi di volta in volta.
Due giorni dopo, puntuale, il giornalista si presentò di nuovo con l’attrezzatura per annotare tutto ciò che sarebbe uscito dalla bocca di Ratchet.
Non vi fu più un approccio timido: già nel camminare si vedeva che Kroo sprizzasse entusiasmo da ogni poro.
«Ha più o meno in mente cosa vuole raccontare?» domandò entrando in salotto.
Ratchet annuì. «L’inizio, la DreadZone. Le mie “motivazioni da pazzo visionario” sono tutte lì.»
Motivazioni da pazzo visionario. Così l’avvocato che aveva richiesto la perizia psichiatrica le aveva definite.
Kroo non commentò, ma si limitò ad un asciutto: «Molto bene.»
Dispose rapidamente l’attrezzatura, tra cui il lombax notò un estrattore mnemonico. Fu proprio quello che il giornalista gli porse un istante dopo.
«Non voglio una registrazione della sua memoria.» disse. «Per la verità non avrei nemmeno l’autorizzazione per portarmelo dietro, ma ho pensato che avrebbe potuto aiutarla. Lo metta regolato al minimo: la stimolerà a ricordare i dettagli.»
Ratchet guardò il congegno con aria torva. Era una specie di diadema collegato a un tablet, nulla di più. Eppure avrebbe potuto tradirlo in qualunque momento, se avesse voluto omettere qualche parte troppo bislacca della verità che aveva sconvolto la corte. Alla fine si rassegnò: infilò il diadema di elettrodi e accese il congegno, assicurandosi che lo schermo guardasse lui soltanto.
Kroo non si arrischiò a regolare l’estrattore, né a chiedergli di vedere i ricordi. Prese in mano la sua parte dell’attrezzatura – quella che gli avrebbe consentito di mettere per iscritto ogni parola di Ratchet – e si mise comodo sulla poltrona.
«Prego, adesso parta dal principio.»

Let's start!
Questa è, in assoluto, la storia starter della saga. E posso promettere che la DreadZone della Insomniac e la mia saranno differenti; come e quanto è da vedersi. Tanto meglio se avete giocato al videogioco (parlo di quello per la PS2, non quello rieditato per la PS3); ma, se non lo aveste fatto, o se alcuni particolari non vi tornassero, potete usufruire della Ratchet&Clank wiki. In alternativa, ho compilato un compendio. Metterò il link in ogni capitolo; tuttavia, se preferite, sono a disposizione!
 
Prima di chiudere, è d'obbligo che ringrazi tutti coloro che seguono le mie storie. E a coloro che seguono e commentano va anche un abbraccio. È il minimo che possa fare per dimostrare la gratitudine che provo!
Restate sintonizzati!
Iryael

 

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Capitolo 2
*** | Capitolo 01 | Vengo accontentato ***


[ 01 ]
Vengo accontentato
(ma forse era meglio di no)
 
Passato. 1 Ottobre 5401-PF
Incrociatore stellare USS Phoenix
 
Cominciò tutto nella maniera più banale dell’universo. Entrai sul ponte di comando, mi stravaccai sulla poltrona da capitano e cominciai la giornata attendendo che arrivasse qualche missione succulenta, giusto per rompere la noia. Negli ultimi tempi arrivavano solo missioni noiose, che consistevano nell’intercettare e impedire le malefatte dei Razziatori. Quelle preferivo passarle ai soldati e i ranger; io ambivo a qualcosa di più. Per me cercavo qualcosa di più eccitante di un attacco a sorpresa, qualcosa che mettesse alla prova ogni fibra del mio essere.
Insomma, avevo salvato le Galassie Unite tre volte, assieme a Clank, e non mi andava davvero di rimanere impantanato in qualche missione di terza categoria. Preferivo aspettare, e nell’attesa andare a smanettare su qualche navetta.
 
Quella mattina fu né più né meno come le altre. Un po’ più insipida, forse, perché non arrivarono missioni né notizie dalla gente che avevo spedito in giro. Così me ne andai nell’hangar beta, per rendermi utile: il grasso e l’odore del combustibile avevano sempre stuzzicato la mia creatività, e per rimettere a nuovo la biposto su cui stavo lavorando ne sarebbe servita davvero molta.
Dovevo ammettere che l’idea di sostituire Sasha come capitano della Phoenix si era rivelata piuttosto deludente. Durante la storia di Nefarious mi ero immaginato che dirigere un incrociatore stellare fosse una figata pazzesca, tutta azione e decisioni prese al volo; per questo, quando Sasha era stata eletta Sindaco di Kerwan, io mi ero proposto come sostituto. Però mi sono reso presto conto che le situazioni che mi aspettavo come odierne, in realtà, arrivavano una volta ogni diecimila.
Se Sasha mi avesse proposto di darle indietro il posto di capitano, glielo avrei reso al volo. La livrea viola comportava troppa burocrazia: ero un lombax d’azione, io, non un colletto bianco.
 
Arrivò il mezzogiorno, e con esso una chiamata di Sasha.
Ero appena rientrato dall’hangar beta, perché una capatina di tanto in tanto sulla plancia ce la dovevo fare, quando Clank m’informò della chiamata in arrivo. Diedi ordine di metterla sul monitor.
La prima immagine fu un bel primo piano che la prendeva dalla vita in su; in cui lei teneva le braccia incrociate. A giudicare dallo sfondo doveva essere nei giardini del Palazzo della Galassia, un posto carino per uno schianto di protagonista.
Misi il silenzio audio e cercai di figurare un discorso decente, ma Clank non mi concesse più di qualche secondo.
«Salve, capitano. Vedo che ti stai prendendo cura della mia vecchia nave.»
Sembrava entusiasta, chissà per quale motivo.
«Beh...l’ho sistemata un po’ e poi l’ho tenuta in funzione.» risposi carezzando la consolle. Clank e Al si scambiarono un’occhiata e scossero la testa.
Sasha rise nervosamente: «Naturalmente.»
Poi, scrollando la testa, mise su un’aria preoccupata che non mi piacque per nulla.
«Ad ogni modo...devo darti delle cattive notizie.»
Al ché mi accigliai anch’io: fui sul punto di invitarla a proseguire, ma fece da sola: «Come saprai, il Capitano Starshield è scomparso più di un mese fa. Mi hanno appena informata che è stato ucciso.»
«Occavoli...no!» mugolò Al, intrecciando le dita grassocce con autentico dispiacere.
Anch’io rimasi colpito dalla notizia. Conoscevo Starshield di fama e sapevo che lavorava per lo più nella Via Lattea. Avevo sentito dire che era scomparso in circostanze misteriose mentre la sua nave era attraccata all’astroporto di Twilion.
La mia coda spazzò l’aria, mentre chiedevo: «Ma...com’è successo?»
«A quanto pare è stato coinvolto in una specie di combattimento clandestino. Lo chiamano DreadZone.»
Disarmante. Ma le notizie più interessanti arrivarono dopo, quando disse: «Crediamo che sia stato organizzato da quest’uomo...» e fece comparire una foto sul monitor. Mostrava uno slademan che, già dall’immagine, prometteva di essere una vera tigna. «Gleeman Vox. È riuscito a mettere in piedi un vero impero mediatico nel Settore Ombra.»
Intervenne Clank, stupendomi con una pecca d’ignoranza non indifferente: «Il Settore Ombra?»
«È una zona che non ha leggi e si trova ai margini della galassia: molti altri eroi sono scomparsi lì ultimamente e temiamo che abbiano subito la stessa sorte.»
Al ché cominciai a pensare che fosse arrivato quello che attendevo da quasi un anno. Quell’occasione su diecimila, quella che mi avrebbe messo alla prova. Mi sentii elettrizzato.
«Ratchet, volevo solo avvertirti prima che - »
Il video si cancellò e l’intera plancia entrò nella situazione d’allarme rosso. Una nave sconosciuta si stava avvicinando e aveva agganciato le sue frequenze di teletrasporto sulle nostre.
«Oh-oh.» commentò Al, prima che la plancia venisse invasa da una serie di energumeni robotici armati. Facemmo giusto in tempo ad alzarci in piedi prima che quello più carino e coccoloso, grosso il doppio di Qwark, mi comparisse davanti e si chinasse su di me senza preamboli.
«Sei tu il lombax che chiamano Ratchet?»
«Ehm...» maledissi la pausa pranzo e il fatto che in plancia ci fossimo solo io, Al e Clank. «Non siete qua per sistemare il nostro motore interstellare, vero?»
Viste le armi che spianarono c’era da supporre una risposta negativa; ma se volevano giocare io ero pronto. Non pensai un solo istante: materializzai un RY3NO e feci fuoco prima ancora che Clank potesse obiettare qualcosa.
E tanti cari saluti alla paratia d’ingresso e agli ospiti inattesi.
L’esplosione ravvicinata ci sbalzò dietro la mia consolle, mostrandoci che i quattro che avevo appena disintegrato non erano arrivati da soli. Un aggeggio tipo taser mi centrò al petto, e tutto ciò che sentii in seguito furono una scossa elettrica e voci sfumate.
Persi conoscenza in troppo poco tempo per realizzare cosa mi fosse successo davvero.
* * * * * *
Momento ignoto
Luogo sconosciuto
 
Al momento in cui mi svegliai non avrei saputo pronunciare nemmeno il mio nome, figuriamoci articolare una frase intera. Seh!
Aprii gli occhi e mi trovai davanti due fanali marroni. Immensi, acquosi e decisamente troppo vicini.
Mi venne da urlare, ma il risultato fu infelice: io mi alzai di scatto, nell’agitazione, e fui assalito da un conato di vomito; mentre Occhi a Faro sgusciò come una scheggia sulla branda sopra la mia.
Dovetti svuotare lo stomaco sul pavimento prima di potermi concentrare di nuovo su chiunque fosse. Quando fui abbastanza abile da poter rialzare la testa la vidi sporta dalla branda, che mi guardava con aria spaventata. Dalla sponda non usciva più del necessario: la frangia, gli occhi e metà del naso.
«E tu chi diavolo sei?»
Rimase a fissarmi in silenzio. Inclinò un poco la testa, quel tanto che bastò per farmi scorgere un tatuaggio sotto l’occhio sinistro. TG. Dubitai che stesse per telegiornale.
Fossi stato dell’umore giusto magari avrei inclinato la testa anch’io, o magari avrei anche miagolato scodinzolando, ma in quel momento non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello.
La voce mi uscì più simile a un ringhio: «Non sono dell’umore per giocare.»
A quel punto si ritirò. Fu questione di secondi, poi uscì del tutto allo scoperto. Occhi a Faro era una bambina umana. Stavo troppo male per stupirmi o scandalizzarmi, ma di sicuro in un’altra occasione non avrei semplicemente pensato: ehi, qui mi prendono per il culo alla grande.
Al ché lei scese dalla branda come se stesse andando al patibolo e si esibì in un inchino profondo. Mentre era china mi mostrò il vambrace sul braccio sinistro, e da esso si generò un piccolo schermo olografico. Lettera dopo lettera, si formò una frase.
 
La prego, mi perdoni. Non volevo offenderla.
Mi...mi chiami come vuole.
 
Quando vidi quel sistema quasi mi venne da ridere. Pensai che doveva essere uno scherzo.
«Come vuoi, ti chiamerò TG.»
Decisi che avrei risolto la questione una volta rimesso, così passai oltre: «Ma non puoi parlarmi come tutti gli altri? Mica ti mangio.»
Lei incassò la testa fra le spalle e distolse lo sguardo.
La fissai per un paio di secondi netti, inebetito, poi intuii.
«Sei muta?»
Guardò un po’ altrove, e alla fine annuì.
Mi massaggiai le tempie con aria perplessa: ero in un posto che non conoscevo, avevo il fisico a pezzi ed ero in compagnia di una sconosciuta muta e senza nome. Niente male come inizio.
Sospirai. Magari ossigenare il cervello mi avrebbe fatto bene.
E in effetti fece bene al cervello, ma il mio stomaco entrò in un piena ribellione e mi fece sussultare. Portai una mano al ventre, mentre l’umana mi chiese con due gesti se riuscivo a camminare. Risposi che sì, ce l’avrei fatta se non fosse stata una maratona. Allora mi accompagnò in bagno, dove mi lasciò chino sul lavandino a imbrattarlo con quello che avevo nello stomaco. Lei uscì quasi subito con secchio e straccio in mano.
Quando alzai gli occhi sul piccolo specchio rettangolare, pensai che qualcuno mi avesse passato in centrifuga. Mi sentivo uno schifo; ero tutto indolenzito, con lo stomaco sottosopra e due borse infinite sotto gli occhi. Mal di testa no, grazie al cielo, almeno quello mi stava alla larga.
Vomitai un’altra volta e mi chiesi quanta roba avessi nello stomaco. Poi, con un gesto secco, aprii il rubinetto e feci scorrere dell’acqua per pulire alla bell’e meglio. La bambina ritornò poco dopo e mi allungò due compresse grigie. Fissai le pasticche come se potessero strozzarmi.
«No grazie.» dissi allontanando i farmaci. Lei li depose sul lavandino, mentre l’acqua ancora scorreva, poi fece comparire di nuovo lo schermo verdolino.
 
Ma le calmeranno il dolore...mi creda, se non le prende dopo sarà peggio.
 
«Non li voglio.»
La tentazione di infilarmele in gola, in realtà, era forte, ma per quel che ne sapevo potevano essere veleno. Di conseguenza volli andarci piano.
 
Non posso fare altro per aiutarla. Mi dispiace.
 
«Non è vero.»
Mi raddrizzai alla meglio e la guardai dritta negli occhi. «Dimmi dove sono.»
La scritta verdolina si resettò e, al suo posto, si compose un’altra frase.
 
Galassia Solana, Settore Ombra, Stazione spaziale DreadZone, Padiglione Sei, livello cinque, cella di contenimento 6-538.
 
Non ci capii niente, ma decisi di passare oltre anche a quello, per quieto vivere.
«Dove sono gli altri?» provai a chiedere. Lei si guardò intorno, agitata.
 
Era da solo, signore.
 
Mi venne un colpo.
Non ammisi quella risposta, anzi, mi portò sull’orlo di una crisi. Mi dissi: Sta scherzando! Ricordavo bene l’attacco. Con me c’erano anche Al e Clank: se non li avevano portati via, allora dovevano averli ammazzati e quella per me era un’alternativa impossibile. Solo immaginare quella possibilità mandò il mio cervello in tilt.
Afferrai la bambina per la tuta e le gridai che lei sapeva cos’era successo, che doveva sapere per forza. Le gridai anche un milione di altre cose, a dire il vero. Insulti, minacce e maledizioni per lo più.
Diedi letteralmente di matto, ma ottenni solo che il mio corpo impazzisse e lei scappasse di corsa, lasciandomi in preda a forti dolori lungo tutto il corpo.
Passarono diversi minuti in cui mi contorsi sul pavimento del bagno. Sentivo di avere un esercito distruttore dentro ogni fibra. Muoversi, anche solo per cercare una posizione che non provocasse dolore, era una tortura impossibile da evitare. Ci furono istanti in cui le fitte furono così intense che sperai nell’incoscienza.
Poi mi tornarono in mente le pillole sul lavandino. In quel momento mi sembrarono una salvezza. Mi insultai, finché non pensai che avrebbero potuto mandarmi direttamente alla fossa, e allora mi contorsi un altro po’ tra fitte lancinanti e indecisione.
Indecisione, che brutta bestia. Perché non mi fidai e basta? Forse perché avevo le vicende di Nefarious stampate nella memoria.
In ogni caso, riuscii a decidere di provare a prendere quelle dannate pillole. Al primo tentativo mi voltai e cercai di caricare il peso sulle braccia, ma ebbi uno spasmo e le braccia cedettero. Mi ritrovai punto e accapo.
Ci riprovai, e a quel tentativo riuscii a puntellare anche le ginocchia, prima di cedere. Battei con la fronte, ma se non altro non tornai disteso. Rimasi col culo all’aria e la coda che somigliava ad un fiore appassito.
Al terzo tentativo raggiunsi il lavandino, prima di essere stroncato dalle fitte e tornare di nuovo schiena a terra, a contorcermi tra crampi e spasmi. La nausea stava tornando alla carica: abbrancai il secchio giusto in tempo per non imbrattare il pavimento e vuotai lo stomaco.
Brutti momenti, decisamente brutti. Mi parvero infiniti.
Poi, finalmente, la buona stella si ricordò della mia esistenza. Mi accorsi della sagoma della bambina solo quando mi sovrastò. La vedevo leggermente sfuocata, ma riconobbi che si stava mordendo un labbro. Fu lei a prendere le pillole dal lavandino e ficcarmele direttamente in gola, così che non potessi sputarle. Poi percepii un sorso d’acqua fresca in bocca. Un sorso, non di più, ma fu sufficiente a stimolare un nuovo conato. Le pillole tornarono fuori praticamente integre, e allora la bambina se la risolse in un altro modo. Si rialzò, si allungò verso un pensile, e quando tornò inginocchiata reggeva in mano un hypospray.
Imparai che quella creatura non conosceva la delicatezza, visto che maneggiò la siringa come fosse un coltello. Tirò giù il colletto e PAM! Un colpo secco e poi il rumore dello stantuffo che iniettava il liquido.
E dal fuoco passai al ghiaccio: se prima avevo un esercito di soldati ubriachi che mi sconquassava le interiora, da quel momento nelle mie vene cominciò a scorrere azoto liquido. Freddo e caldo si alternarono, tremai come una foglia e cominciai a balbettare frasi sconnesse.
Infine, dopo aver sperimentato una mostruosa vertigine, caddi in una specie di mugolante dormiveglia.

 

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Capitolo 3
*** | Capitolo 02 | Divento il leader del Team Darkstar ***


[ 02 ]
Divento il leader del Team Darkstar
(Che? Un gladiatore? Figo!)
 
2 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, cella 6-538
 
Quando mi svegliai, scoprii di essere di nuovo nella mia branda.
Mi sentivo molto meglio del giorno prima, così decisi di fare qualche passo per la stanza, tanto per provare. Mi resi conto che sembravo nuovo di pacca, e tutto bello contento mi proposi di ringraziare Occhi a Faro per essere tornata ad aiutarmi.
Quando accesi la luce, vidi che la branda sopra la mia era piena. Il mio primo istinto fu quello di far tornare la stanza nella penombra, per non svegliarla, ma mi accorsi che la piccola aveva un occhio aperto e mi fissava, semi-nascosta tra il cuscino e la coperta. Non aveva senso spengere la luce se eravamo entrambi svegli, così mi appoggiai alla sua branda con un mezzo sorriso.
«Ohilà, buongiorno.»
Non l’avessi mai detto!
La bambina schizzò sotto le coperte alla velocità della luce, richiudendosi a mo’ di palla. Non avevo mai visto una reazione del genere ad un buongiorno e...beh, pensai che stesse scherzando. Però quando picchiettai un dito sulla sua spalla sentii che tremava.
Era autentica paura, quella. Mi spiazzò.
«Non ti faccio niente...» dissi, tentando di rassicurarla. «Non sapevo nemmeno che eri sveglia.»
Continuò a tremare, nascosta nel suo bozzolo, come se non mi avesse sentito. Mi venne perfino il dubbio di aver avuto una notte da sonnambulo e che, in un qualche delirio da strizzacervelli, potevo averla spaventata. Daltr’onde: se aveva paura di me qualcosa dovevo aver fatto, no?
«Andiamo...te l’ho detto: non ti faccio niente. Anzi, ti volevo ringraziare per ieri...»
Pian piano, a mo’ di tartaruga, tirò la testa fuori dalla coperta. Non del tutto, ma uscì quel tanto che bastò a lei per guardarmi e a me per vedere una specie di alone viola sulla tempia.
«Aspetta...»
Cercò di infilarsi di nuovo sotto il telo, ma glielo impedii. Allora alzò le mani davanti alla faccia, incassata tra le spalle, gli occhi chiusi come se si aspettasse che la colpissi. Qualche scintilla azzurrina passò tra le dita, ma era debole.
Mi limitai a guardare, senza toccarla. Quando capì che non sarei stato una minaccia, abbassò le braccia e si tirò a sedere.
La guancia, sotto la tempia, era tutta una nuvola. Sulla fronte c’era un cerotto sporco, da cambiare, e gli occhi avevano le borse. Capii che non aveva dormito per niente. E non era finita lì, di sicuro, ma la seconda pelle che indossava, su cui era disegnato una specie di circuito, mi impedì di vedere le sue reali condizioni.
«Cosa ti è successo?»
Il dubbio di essere stato io si fece più profondo, insistente e fastidioso. Inutile dire che sarebbe stata una bella figura di merda scusarsi per qualcosa di cui non ricordavo nulla.
Lei – giusto per complicare le cose – scosse la testa, come a dire che non era niente.
Strinsi le labbra e sospirai. Non era niente, come no. Non poteva davvero sperare che me la bevessi, non stava né in cielo né in terra.
«Senti...» tentai. «Anche se ieri non sono stato un cavaliere, non ho nessuna intenzione di esserti nemico. Anzi...vorrei scusarmi. Ma è che ho i nervi a pezzi e...»
E niente.
Spalancò gli occhi e mi fissò. Per un istante sembrò sfidarmi a proseguire; l’istante dopo era la sorpresa personificata, quello dopo ancora era mentalmente sul chi vive.
Nel mentre che tirò il vambrace fuori dalle coperte mi chiesi se fosse malata di mente. L’universo era pieno di matti, per cui avevo buone possibilità di averne uno davanti.
 
Non si scusi. Non con me. Mai.
 
Alzai un sopracciglio. Non ero famoso per il rispetto dei divieti.
«Non dovrei?» chiesi. Se era matta, era meglio assecondare la sua fantasia. Se non lo era, erano tutte informazioni che entravano nella mia zucca.
 
La puniranno.
 
«Perché?»
 
Io...io...non lo so. È una regola.
 
Mi grattai la testa. Cercavo risposte; invece arrivavano domande.
«Okay, come vuoi.» capitolai. «Però mi dispiace lo stesso per ieri. Anzi, grazie per essere tornata indietro.»
 
Ieri sembrava come tutti gli altri. Ma ho sbagliato io, è colpa mia.
Mi scusi per non aver ricordato subito come si sta coi nanobot appena iniettati.
 
«Che significa che sembravo come tutti gli altri?»
 
Io l’ho studiata in questi giorni, prima che si svegliava e anche tra ieri e oggi. Continuava a dire dei nomi e poi “lasciateli stare”. Per questo mi sono permessa di pensare che...sì, beh, lei non è cattivo. Ieri però...è stato diverso. È diventato come gli altri. Non volevo dire qualcosa di sbagliato, ho avuto paura e sono scappata.
Non dovevo, lo so, mi dispiace davvero. Però sono riuscita a tornare indietro quasi subito. Spero che non ha sentito troppo male, anche dopo che ho usato la siringa...
 
Era un po’ ingenua, ma non mi dispiaceva la sua schiettezza. Ed era strana, ma di certo non pazza (o col cavolo che mi avrebbe fatto un ragionamento del genere).
«Sì beh, puoi lavorare sulla delicatezza, comunque ho apprezzato.»
Mi arrampicai sulla scaletta e mi andai a sedere con aria confidenziale sulla sua branda. Lei si ritrasse contro il muro, scrutando attentamente ogni mia mossa. Era evidente che, nonostante le belle parole, di me non si fidasse affatto.
«Ehi, piano. Non sono cattivo, ricordi? Voglio solo stare più comodo.»
La bambina annuì, però non si mosse dalla sua posizione. Mi ricordò un po’ l’horny toad che avevo addomesticato su Veldin. Non era male...teneva davvero compagnia, solo che era goloso al propellente delle navicelle, e dopo faceva di quelle puzze che c’era da scappare.
Sperai che lei non fosse golosa al propellente, perché era la mia unica fonte di informazioni e dovevo addomesticarla.
«Ti posso parlare liberamente o ci sono altri argomenti che devo saltare?»
La bambina si torse le mani e si guardò tutt’intorno, lasciandomi capire che sì, c’erano altri argomenti che avrei dovuto evitare. Alla fine proiettò:
 
Alcuni. Però lei dica lo stesso. Io risponderò come posso.
 
Beh, se non me li voleva dire subito, ero sicuro che prima o poi sarebbero saltati fuori. Anzi: conoscendomi, potevo garantire che sarebbero arrivati al dunque piuttosto alla svelta.
«Okay. Allora, tanto per cominciare, direi che possiamo presentarci. Io sono Ratchet: meccanico, capitano della Flotta Stellare Unita e, occasionalmente, eroe.»
Mai fatta una presentazione più chiara e concisa di quella. Mi sentii intimamente orgoglioso.
 
È un onore conoscerla. Ho sentito parlare di lei.
 
«E tu sei...?»
 
Ieri ha detto che mi chiamerà TG.
 
Dovevo ammettere che come tentativo di svicolare non era male. Peccato che quel cagasotto di Qwark mi avesse donato un’esperienza impareggiabile circa i modi di scappare. Non aveva possibilità di funzionare.
«Sì, beh, ieri ero anche sfatto. Proprio non vuoi dirmelo il tuo nome?»
Lei denegò.
«C’è un motivo serio per cui non posso saperlo, almeno?»
 
Non è che non voglio; è uno dei punti tabù.
Però non mi offendo: se TG non le piace più scelga pure un altro nome.
 
Ecco il primo argomento da evitare. Se perfino il nome doveva rimanere segreto, però, non riuscivo a immaginare cosa potesse dirmi.
Feci buon viso a cattivo gioco.
«Hai ragione, TG mi sa di robot. Ti chiamerò Lyra, mi piace di più.»
Prima Clank, poi lei. Doveva essere destino che io dessi il nome alla gente. Però, a giudicare dal sorriso timido che le spuntò sulle labbra, potevo scommettere che non le dispiacesse.
 
Sei il primo che mi chiama con un nome vero, sai?
Lyra è molto, molto diverso dal mio nome, però è anche bello. Sa di zucchero.
 
«E adesso che ci siamo presentati vorrei che mi dessi del tu. Non mi piacciono troppo le formalità.»
La piccola sgranò gli occhi.
 
...Posso? Sul serio?
 
«Certo che puoi!»
Ero pronto anche a farmi insultare, pur di capire in che fogna mi trovassi. Beh, più o meno.
 
Hai altre domande?
 
«È abbastanza ovvio.» risposi, prima di indicarla. «Cosa ti è successo?»
Lei si portò immediatamente una mano alla faccia e si tastò la guancia livida.
 
Cercavo qualche informazione su te e i tuoi compagni, ma non sono ancora abbastanza brava col computer dell’ufficio. La guardia mi ha beccato e ho preso la punizione.
 
La sua risposta mi causò un lieve senso di colpa. Se me ne avesse parlato avrei provato a dissuaderla. Per esperienza potevo dire che la sorte di Clank e Al l’avrei saputa comunque, direttamente dalla bocca del nemico. Però mi colpì che si fosse esposta per un perfetto sconosciuto. Io non l’avrei fatto.
«Cosa stavi facendo?»
 
Cercavo di entrare nel database dei concorrenti. Pensavo che se ti dicevo cos’è successo a chi è stato portato qui con te, poi non saresti più impazzito...
 
Viva la sincerità!
«Ma...è così grave quello che hai fatto?»
Annuì guardando altrove, con le orecchie rosse come brace. Giocò nervosamente con una ciocca dei suoi capelli blu notte, e per la prima volta notai quanto fossero lunghi. Praticamente una cascata che ribolliva sulla branda.
Ricominciò a proiettare, ma me ne accorsi solo dopo qualche parola.
 
Però stavolta la guardia era brilla e ci è andata piano. Sono stata fortunata: di solito, quando me le danno, il mattino dopo sono incapace di muovermi.
 
E lo diceva così? Galassia, manco stesse parlando del tempo!
«Ma insomma, non ti senti male? Sei...sei piccola, non ti viene da piangere?»
 
Tanto mi picchiano lo stesso. Anzi, se piango li faccio solo divertire.
E comunque, se piango con la faccia tutta rotta mi fa più male. Ci ho fatto l’abitudine; il mio naso ormai è elastico.
 
Non seppi se quella frase mi scatenò più indignazione o più pietà. Di per certo mi mosse qualcosa dentro, tra cui la domanda Ma che razza di posto è?
 
C’era un monitor nella sala. Era esattamente nell’angolo sopra la porta e sulla schermata si vedeva un logo che girava su se stesso. Era lo stesso che il giorno prima avevo visto sulla tenuta di Lyra: rosso, triangolare, piuttosto bruttino. Senza che facessimo alcunché dalle casse partì una specie di squillo. La mia coinquilina si fece rigida come una lastra di marmo e si rimise giù come se stesse ancora dormendo. La schermata cambiò nel primo piano inquietante di uno slademan.
«Ehilà, cella 6-538. Spero che abbiate dormito bene.»
Non serviva un esperto per capire che quelle parole erano false. Ricambiai: essendo esattamente davanti al suo naso adunco non mi rimaneva che rispondere.
«Se vuoi farlo somigliare al Grand Hotel comincia a mettere i frigobar. Svegliarsi e non poter bere qualcosa di fresco è snervante.»
Lo slademan ridacchiò nervosamente: «Fammi guadagnare palate di bolt e vedrò cosa posso fare.» poi si fece tremendamente serio e alluse alla branda piena: «Tira quel ravatto giù dal letto.»
Sapevo di coprire la visuale del cuscino allo slademan, così finsi di chinarmi per svegliarla.
«È lui che ti spaventa?» sussurrai. Le scrollai una spalla per reggere il gioco. Lei annuì appena; mentre a mezza voce continuavo la recita invitandola a svegliarsi. Poi riabbassai il tono.
«Fingi di svegliarti. Non può farti niente. Andrà tutto bene.»
La vidi mordersi forte un labbro, poi annuì di nuovo. Gli occhi sembravano dire: Ti sbagli. Però si tirò a sedere con le gambe nel vuoto e si strofinò gli occhi.
«Oh, ma bene, la principessina si è svegliata...» ironizzò malevolmente lo slademan. «Todd ti ha trovato a frugare nel database dei concorrenti. Di nuovo.»
Lei denegò lentamente e scese dal letto. Mostrò il vambrace e scrisse:
 
Signore, era importante. Dovevo farlo. Dovevo sapere una cosa...
Per favore, la prego, non si arrabbi...
 
Sembrava che lo stesse pregando con gli occhi.
«No, deduco che ancora una volta tu non abbia capito il concetto. Beh, vorrà dire che sfrutterò l’occasione per spiegare al mio nuovo concorrente alcune regole del dietro le quinte.»
Concorrente? Dietro le quinte?
Smisi di farmi domande quando mi accorsi che la bambina era caduta a peso morto sul pavimento e si stava rotolando, come impazzita, tremando e battendo i pugni a terra. Si dimenava manco avesse le convulsioni: se non fosse stata muta, poco ma sicuro mi avrebbe stordito con gli urli.
Scesi a terra e cercai di fermarla, ma fu inutile. Anzi, fu peggio. Sentii i suoi muscoli tendersi e contrarsi e non potei fare a meno di rievocare com’ero stato io il giorno prima.
Non riuscii a nascondere che quella visione mi mandò nel panico. Non sapevo cosa stava succedendo, e non saperlo mi faceva sentire impotente. Odiosa situazione.
A distrarmi intervenne lo slademan, sebbene non riuscì a farmi voltare verso il video. Tenni gli occhi incollati sulla figura in contorsione, col cervello che girava a mille per cercare una soluzione.
«Mio caro concorrente, ecco le conseguenze per chi infrange le regole. Anche se la marmocchia è un caso speciale, puoi notare che siamo comunque affascinati dalle regole “vecchio stile”. Nel suo caso la cura si chiama cianoxyndaetil-18, ma posso assicurarti che la tua sarebbe quella standard. Giusto una scossetta dal tuo collare deadlock, nulla che non ti possa causare più di una paralisi temporanea.»
Quelle parole però sì che mi fecero voltare. «Cosa?»
Lui mi ignorò bellamente e proseguì: «Sei stato scelto perché questo programma ha bisogno di volti nuovi, ragazzo. Fammi guadagnare soldi a palate e riavrai la tua libertà; fammi arrabbiare sul serio e attivo l’esplosivo del collare. Chiaro e semplice, no?»
In effetti, era a prova di scemo.
«Sono felice che tu abbia accettato la collaborazione. Oggi vedrete i vostri aiutanti, poi vi inseriremo nel calendario di gioco. Tra due settimane comincerete la vostra scalata al successo: se tutto va bene tra un po’ potremo parlare di affari come si conviene. Benvenuto nel mondo dello spettacolo, capitano del Team Darkstar!»
«Aspetta!»
Lo fermai giusto in tempo, perché stava per staccare il collegamento. «Io e chi cominceremo a fare cosa, di preciso?»
Lo slademan ghignò. Mi chiesi dove avevo già visto quel muso inquietante.
«DreadZone è uno show di gladiatori. Proprio come nelle epoche più antiche c’è un imperatore che decide delle vostre vite, che sono io, un pubblico che schiamazza per voi e la vostra libertà in palio. Solo che rivive ai giorni nostri, quindi anziché quelle ridicole lame obsolete avrete a disposizione un arsenale di ottime armi targate Vox Industries, oltre che tutte le degne infrastrutture che abbiamo creato. Per un eroe del tuo calibro sarà come vivere la tua vita di tutti i giorni, credimi. Solo che non sarai da solo, ma avrai lei come spalla.» e indicò la mia coinquilina. Io sgranai gli occhi.
«Ma è una bambina!» protestai. «Non puoi aspettarti che - »
«Chissenefrega, è tutta audience che entra!»
Spense il video, e in contemporanea la bambina smise di comportarsi da pazza convulsionata. La sentii ansimare, mentre cercai di riordinare le idee.
DreadZone. Il nome mi fece tornare alla mente l’ultima conversazione con Sasha, e anche dove avevo già visto il brutto muso dello slademan in rosso. Gleeman Vox, ecco chi era.
Trattenni un’imprecazione a stento, quando sentii tirare la manica. Sullo schermo verdolino della bambina la scritta si resettò.
 
Per favore...mi aiuti a stare su?
 
«Al C-18 però non c’hai fatto l’abitudine, eh?» mi uscì mentre la giravo pancia all’aria. La tirai a sedere per le spalle; lei tossì un paio di volte e sorrise amaramente.
 
Questo fa più male delle botte. Per fortuna solo il direttore può usarlo.
 
«Ce la fai a stare in piedi?»
 
Solo...solo qualche secondo, poi penso di sì.
 
«Credo che dobbiamo ottimizzare il tempo.»
Non potevo sapere quando una cosa del genere sarebbe successa di nuovo, quindi mi passai un braccio della bambina dietro le spalle e la trascinai in piedi, trovandola perfino leggera per la sua stazza. Insomma, le arrivavo agli occhi, eppure potevo scommettere che lei non arrivasse al mio peso.
Guardandomi attorno adocchiai il tavolino. Chiamarlo tavolino era un eufemismo, tanto era piccolo, ma in quel momento non importava. L’accompagnai ad uno degli sgabelli e ce la lasciai sopra. Mentre io mi sedetti sull’altro, lei si riprese un po’.
Mi sentii un po’ in colpa per averle detto che sarebbe andato tutto bene. Non era andato bene niente, invece.
Lei sembrò non farci caso. Si passò una manica sugli occhi, per asciugarli, poi si morse un labbro e proiettò:
 
Senti, il direttore ha detto davvero che gareggio nell’arena? Non me lo sono immaginato?
 
«No, ha detto che io sono un concorrente e tu la mia spalla.»
Studiai la sua reazione: dapprima sbiancò, poi si morse nuovamente il labbro e osservò intensamente la sua mano, finché non riuscì a ricoprirla di piccole scintille elettriche. Chinò la testa e si asciugò nuovamente gli occhi.
 
Ti vogliono proprio morto, allora. Con le armi sono inutile. Con i mezzi tanto tanto, ma con le armi...
Ti sarò solo di peso.
 
Mi guardai nervosamente intorno. Detto con la sicurezza con cui l’aveva detto, quello era decisamente no buono.
E non avevo capito un granché di tutto il circo che avevo intorno.
«Ascolta, dopo questa ho bisogno davvero di capire partendo da zero. Puoi ridirmi dove sono?»
 
Galassia Solana, Settore Ombra, stazione spaziale DreadZone, Padiglione Sei, livello cinque, stanza numero 38. In altre parole: cella di contenimento 6-538.
 
Settore Ombra, bene. Proprio come aveva detto Sasha.
«E sono qui da solo?»
A quella domanda scosse la testa.
 
Due tuoi colleghi sono stati portati qui con te.
 
Mi portai una mano al petto, laddove mi aveva centrato il taser, e risposi amaramente: «Clank e Al. Quindi hanno preso anche loro.»
 
Di solito si procurano tutti i membri necessari per mettere insieme una squadra.
 
«Perché, chi serve?»
 
Due gladiatori (tre se sono due robot e un organico), un navigatore e un tecnico.
 
«E come funzionano i ruoli?»
 
I gladiatori devono combattere nell’arena, che può essere quella della stazione oppure un percorso su qualche pianeta. Il navigatore e il tecnico rimangono sempre su una nave appartata, e hanno un contatto con i gladiatori solo via radio. Il navigatore vede il percorso su una mappa e può descrivere ai gladiatori cosa li aspetta, o può indicargli strade e scorciatoie. Il tecnico invece si occupa dei dati sulle armi e le armature.
Loro due hanno a disposizione un mucchio di radar e tutti i dati inviati dalle armature.
 
«Okay, allora siamo a cavallo.»
Sapere che nessuno dei due avrebbe calcato un campo di battaglia mi rincuorò. Al non era capace, e conoscendolo da così tanto tempo...beh, mi avrebbe fatto ribollire il sangue vederlo in una situazione di fuoco incrociato. Clank, invece...non era per mancanza di fiducia, ma preferivo mille volte di più essere io a combattere, se proprio era necessario. Sapere che avrebbero fatto da supporto mi fece sentire meglio, quasi più sicuro.
«Sono i migliori, vedrai. Sono sicuro che insieme troveremo una soluzione anche al tuo problema di voce. Quei due smanettano peggio di me, magari ti faranno un collare o qualcosa di utile.»
Lei arrossì di nuovo. Decisi di passare oltre: «Piuttosto, di ieri che mi dici?»
Con la domanda sembrò riprendersi, e si affrettò a rispondere:
 
Nanobot.
Normalmente devono curare, ma qui le loro funzioni vengono cambiate. Hai dovuto adattarti, e come hai visto non è stato molto bello. Ma sei stato fortunato: a certa gente ci sono voluti tre o quattro giorni.
 
Grazie al cielo mi erano bastate ventiquattr’ore. Non esagero nel dire che era come avere l’inferno dentro.
«Quindi ora come lavorano?»
 
Quando entri nell'arena vengono fatti diventare dannosi, così che se rimani ferito continui a sanguinare come una fontana. Ritornano normali solo se arrivi alla fine del percorso.
 
«Okay, ci sono.»
Ed ecco che una fetta di dubbi si era dissipata. Per fortuna che Lyra capiva al volo quello che volevo sentire!
A quel punto non mi restava che fare luce sulle parole del direttore e sulla pargola.
«Che mi sai dire del collare?»
 
Ha una funzione punitiva e una esplosiva. Tutti i concorrenti ce l’hanno.
Se non sei un elettrocinetico la funzione punitiva rilascia una scossa paralizzante, mentre quella esplosiva viene attivata se il concorrente diventa noioso, o se prova a scappare.
 
«Suppongo che esploderebbe anche se provassi a togliermelo.»
La bambina annuì.
Era immaginabile, dal momento che quello doveva essere il modo per tenere a freno un certo numero di persone.
«Vox però con te non ha usato la scossa.» buttai lì.
 
Maneggio l’elettricità. La scossa su di me non ha effetto.
 
«Quindi ha usato quell’altro impiastro.» conclusi. Conoscevo il C-18, era un mezzo di tortura usato nella Via Lattea. Si depositava sulle terminazioni nervose e le sollecitava, inducendo il fisico ad una reazione violenta. Si poteva arrivare anche al collasso dell’organismo, o almeno, avevo sentito parlare di carcerati che erano collassati.
«Elettrocineta? Forte!»
Al ché arrossì di nuovo, più intensamente di prima. Cominciava a piacermi vedere le sue orecchie tingersi di rosso: facevano tanto “cucciolo colto in fallo”.
«Quanti anni hai?»
 
Undici.
 
’Sti cazzi!
La mia faccia dovette parlare da sola, perché anche la piccola si avvilì.
 
Troppo pochi, lo so.
È che...mi dispiace davvero, ma non posso dirti cosa ci faccio io qui. Diciamo che ci sono per punizione.
 
«Per punizione?» domandai, scettico. Lei annuì.
Certo che doveva aver fatto incazzare di brutto qualche dio, se era lì per quello. E anch’io dovevo aver irritato qualcuno, perché ero in una melma non dissimile.
 
Per favore, parliamo d’altro. Queste cose sono pericolose.
 
«Come vuoi, per ora
Sottolineai l’ultima parte perché di sicuro ci sarei tornato sopra. Per il momento passai oltre: «Hai mai sparato, almeno?»
 
Due volte, ma si può dire di no.
Per questo ho detto che con le armi sono inutile. Cioè: le conosco tutte, le so smontare, ripulire e rimontare, ma non le so usare.
 
Ed ecco anche perché si considerava un peso.
Dovevo ammettere che, con quelle premesse, io stesso non avrei puntato un solo bolt sul nostro team. Eppure mi rifiutavo di credere che non avrei potuto realizzare un colpo di scena. Che diamine, io ero un Eroe con la maiuscola! Non potevo vedere le cose solo in negativo.
«Okay, dobbiamo rimediare in qualche modo. Non si aspetteranno che io badi a te e agli avversari!»
 
Loro si aspettano solo che gli portiamo soldi con l’audience.
Più soldi una squadra porta nelle casse del programma, migliori saranno i compensi dei suoi membri e maggiori possibilità ci saranno di sopravvivere, perché è coi compensi che si comprano le munizioni e le armi.
 
Non passavano neanche le munizioni? Che tirchi!
«Quindi cominciamo a mani nude?»
 
C’è una specie di prova prima di entrare nell’arena. Se guadagni abbastanza punti, hai diritto a una o addirittura due armi. Se non ne guadagni abbastanza, o muori o cominci a mani nude.
 
Incoraggiante, davvero.
Beh, io ero pronto a farli ricredere sulle mie abilità. Quanto alla bambina...
«Okay, io so di potercela fare a ottenere delle armi, ma tu? Non credo che avresti le mie chance.» dissi. «Se non sai proprio niente, l’unica è insegnarti le basi. Poi però dovrai dimostrare da sola di essere all’altezza della situazione: le armi non perdonano da questo punto di vista.»
Mi guardò con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa, incredula.
 
Sul serio lo faresti?
 
«Tu vorresti perdere il compagno al primo turno?»
Denegò.
«Nemmeno io.» e le strizzai l’occhiolino. La piccola arrossì di nuovo: se non altro, pareva che addomesticarla sarebbe stato molto più facile del previsto.
«Vedrai, saremo la sorpresa della stagione.»

 

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Capitolo 4
*** | Capitolo 03 | Ritrovo Clank e Al ***


[ 03 ]
Ritrovo Clank e Al
(ma ho un'armatura senza coda e mi serve una tuta w.a.v.e.)
 
Sempre 2 ottobre
Stazione DreadZone, cella di contenimento 6-538
 
Nel pomeriggio vennero un paio di ceffi, identici a quelli ch’erano apparsi sulla Phoenix. Non si persero in convenevoli come bussare: entrarono, ci afferrarono e ci trascinarono fuori di peso. All’inizio provai a fare resistenza, ma lasciai perdere dopo un calcio negli stinchi e la minaccia di una scossa.
I robot ci scortarono lungo una fila di corridoi tutti asettici, tutti rettangolari, tutti in stile galeotto (perché, dovunque si vada, le prigioni si somigliano tutte). Si fermarono solo quando fummo davanti ad un anonimo portone a strisce. L’unica cosa che lo distingueva dai portoni vicini era la sigla dipinta su di esso: 4-723. Andando per assonanza con quella della nostra stanza dedussi che fossimo nel quarto padiglione, settimo piano, stanza 23.
Il portone si aprì poco dopo: l’anta, una bestia spessa venti centimetri, scomparve lentamente verso l’alto, esattamente come quella della nostra suite. Contai di nuovo i secondi che il battente impiegò a salire e scoprii che ci voleva lo stesso tempo.
Dopodiché i nostri accompagnatori ci spinsero dentro la stanza, sempre con quella grazia da criminale di vecchio stampo. Come se con la testa a rischio esplosione mi permettessi di sgarrare così, allo sbaraglio.
Dentro, ad attenderci in una sala ripartita fra dormitorio e laboratorio, c’erano Clank e Al.
Le guardie chiusero la porta, lasciandoci dentro. Non appena i battenti si furono uniti, abbandonai l’aria seria.
«He-hey, ragazzi!» esclamai, andando a battere qualche pacca sulle spalle dei miei amici. «Sono felice di vedervi in forma!»
Il momento di felicità non durò a lungo. Giusto il tempo di dirsi “tutto intero, vero?” “sì, tutto a posto”, che Clank mise il suo cipiglio drammatico e ci riportò sulla situazione.
«Quel criminale di cui parlava Sasha, Gleeman Vox.» esordì. «È lui che ci ha fatti prigionieri.»
Annuii. «Sì, lo so. Ha dato il benvenuto anche a me.»
«Non ti ha detto...» cominciò Al, titubante. «...cosa si aspetta da noi?»
Sembrava cercare conferme.
«Vuole farci combattere.» risposi. «E so che si aspetta di guadagnare un bel gruzzolo sulla nostra pelle.»
Al ché mi ricordai di Lyra. Ruotai la testa come un gufo prima di individuarla: era vicino all’ingresso, immobile, quasi cercasse di mimetizzarsi con la parete. Respirava così lievemente che non la sentivo, anche se era vicina.
«Ehi, vieni.» dissi per incoraggiarla. «Ti presento i miei amici.»
Abbandonò la parete con l’aria di uno che va al patibolo. Si avvicinò a piccoli passi e mi si fermò di fianco.
«Loro sono Clank e Al.» e li indicai. Poi indicai lei. «Lei, per ora, è Lyra.»
«Come “per ora”?»
Al aveva quella faccia inquietante da “ho trovato un’anomalia nel programma e devo assolutamente sistemarla”. Si sporse in avanti, sovrastando la piccola, e la scrutò attentamente.
La bambina si piegò all’indietro tanto quanto Al si sporse. Non scollò mai lo sguardo dal mio amico e, anzi, tenne la mani pronte a salire per una difesa.
«Ci sono cose che non può dire. Tante cose, in effetti.» spiegai, mettendomi fra i due in modo da allontanarli. «Lyra è un nome che gli ho dato io. Ma vedrete che, appena potrà, ci racconterà tutto quanto.»
Il morale alto è un successo sicuro!, mi avevano detto; quindi mi mostrai ottimista.
Clank la osservò con aria pensierosa, poi si avvicinò e tese la mano.
«È un piacere conoscerti, Lyra.»
La bambina rimase sorpresa, ma fu una frazione di secondo. S’inginocchiò e, ignorando la mano tesa del robottino, mostrò il vambrace.
 
Il piacere è mio, signore.
 
«Chiamami Clank.» rispose lui. «Hmm, vedo che hai un interessante sistema di comunicazione.»
Lyra posò lo sguardo sul pezzo di metallo e arrossì leggermente.
 
Vuole anche lei che le dia del tu?
 
«Non vedo perché dovresti darmi del lei, semmai.»
 
Il direttore dice che dare del tu è come mettermi allo stesso livello di qualcuno. Non devo dare del tu, se non lo vuole quello con cui parlo.
 
Ookay, ecco un altro paletto mentale da sradicare al più presto. Se volevo scappare, vivere con qualcuno troppo ligio ai comandamenti di Vox non era affatto d’aiuto.
Mi chinai e le posai una mano sulla spalla, attirando la sua attenzione.
«Sei tra amici.» assicurai. «Sei al sicuro. Con noi puoi dire tutto quello che vuoi.»
 
Tutto tutto?
 
«Beh, a parte gli insulti gratuiti...»
Annuì. Poi si rivolse ad Al.
 
Ho sentito parlare anche di te. Tu sei ChronoPath00.
Ti hanno preso per fare il tecnico, vero?
 
Al era chi???
Lo guardai alla ricerca di una spiegazione. Lui roteò gli occhi verso l’alto, quasi imbarazzato.
«È stato qualche anno fa.» disse. «Ho chiuso con quella roba.»
«Che roba?» Sembrava stesse parlando di droga.
«Hacking.» rispose, fin troppo diretto. «Ho smesso dopo la storia di Drek.»
«Ma no, dai!» mi uscì. «Che figata!»
Al guardò la bambina. «Ma tu come fai a conoscermi?» chiese. «Ho chiuso quattro anni fa...»
La bambina lo guardò fisso e sgranò impercettibilmente gli occhi. Sembrava allucinata.
 
Ecco...L’ho letto nel database del direttore.
Però non lo sa nessun altro che tu sei ChronoPath00!
Sono sicura che non lo saprà nessuno. I tecnici hanno paura che farai saltare il programma. Se lo sanno è un casino, per questo penso che anche il direttore terrà il segreto!
 
Ehi, cos’era la storia che Al avrebbe fatto saltare il programma?
Sembrava una di quelle profezie apocalittiche che non si avveravano mai, tipo le maledizioni dei messaggi-catena. Semplicemente assurda.
Oppure assurdamente utile, a seconda dei punti di vista.
Mi concentrai su Clank e, vedendo il suo collare esplosivo, il pensiero svaporò.
«Come siete messi qui?» domandai, cupo.
Clank studiò la mia faccia prima di rispondere.
«Questa è la sala di controllo della missione.» disse, indicandomi i due terzi della sala. Poi indicò il punto più lontano, quello davanti alla porta del bagno, dove campeggiavano due brande. «...Nonché la nostra cella di contenimento. Al si occuperà delle vostre armi e delle armature, io invece vi farò da navigatore. A tal proposito, abbiamo configurato i visori delle armature in modo da potervi offrire alcuni dati extra.»
«Magnifico! Ma...esattamente, che tipo di dati?»
Intervenne Al, che snocciolò le modifiche contandole sulle dita: «Una mappa dell’area, resistenza residua dell’armatura del bersaglio, i suoi segnali vitali. Per ora ci sono questi, ma se serve possiamo configurare altro.»
«Figo! Allora non resta che provare i gingilli!»
Li avevo già adocchiati: erano appesi ai manichini in fondo al laboratorio. Dagli spallacci, dalla schiena e dal casco partivano dei cavi che le collegavano ad un computer.
Bastò un’occhiata per capire che con quell’armatura addosso non si sarebbe visto manco un centimetro di pelliccia; però dava l’idea di essere piuttosto scomoda. Il torace era fin troppo ampio, il collo era ridotto ai minimi termini e...accidenti, no, non potevano essersela dimenticata!
Serrai il pugno. «Dov’è la coda?!»
«Spiacente, ma ci hanno assegnato queste armature. Sono state calibrate su di voi già in partenza, quindi...» tentò di spiegare Al, ma lo fermai strattonandolo di prepotenza per il bavero del camice.
«Non m’importa! Come diamine faccio, me la infilo giù per la gamba???»
Lyra, ai margini del mio campo visivo, si fece rigida. Clank la avvicinò e le picchiettò il dito sul ginocchio.
«Non ti spaventare. Sa obiettare molto peggio di così.» le disse. Io, intanto, scrollavo Al e lo infamavo.
 
...ah, mi scusi. Cioè, scusami.
Non lo sapevo.
 
«Fa niente. Comunque, tanto per confidenza: non l’ho mai visto dare di matto contro uno della squadra. Qwark escluso, ovviamente.» e ridacchiò. «Piuttosto, rilevo un’età biologica bassa perché tu sia una combattente. Quando ci hanno dato le armature pensavo che sarebbe stato qualcun altro a indossarla.»
 
Mi dispiace...
 
«Tranquilla: non avevo dati su di te, quindi potevo solo teorizzare. Suppongo che, ora che sei qui, ci adatteremo alla situazione.» e indicò l’armatura rimanente. «Vieni, provala; così la calibriamo.»
Quando la bambina fu davanti alla sua armatura, si chinò su di essa e la lisciò con una mano, mimando parole incomprensibili con le labbra. Clank la guardò con interesse e si prese il mento; perso in chissà quale calcolo.
«Hai delle abilità particolari?» domandò con un tono finto-neutro, studiando la delicatezza con cui la piccola carezzava ogni vena fresata sulle piastre dell’armatura. Lei annuì, persa nella sua analisi, e cambiò la scritta precedente sullo schermo.
 
Maneggio l’elettricità.
 
Frattanto Al mi aiutava a familiarizzare con la ferraglia. La provai sulla divisa grigio smorto: bacino, gambali, torso...quando finì di magnetizzare i lacci respiravo male, tanto ero compresso.
«Hm...Credo che la tua armatura sia un po’ troppo stretta.»
Ma no, dai?
Mi aiutò a togliere i vari pezzi e li rimise sul manichino.
«Non capisco...» mormorò, mentre ricollegava i pezzi al computer. «Ci hanno detto che erano già stati calibrati sui vostri fisici.»
«Vi hanno detto male.» replicai con ovvietà. «O forse è stato un errore solo sulla mia.»
Osservai con una punta d’invidia la bambina, la cui armatura era giusta. Era in continuo movimento nel tentativo di guardarsi la schiena, poi i guanti, le braccia, il torso. Mi resi conto che avrei potuto dirle qualsiasi cosa e lei non mi avrebbe sentito. Forse non parlava a parole, ma il suo sguardo era inequivocabile.
«La tua armatura va bene? Vuoi fare qualche prova?» domandò Clank. Lei non rispose subito. Aprì e richiuse le dita artigliate qualche volta, studiando i movimenti e gli incastri, prima di guardare il robottino e annuire. Per l’occasione si era tolta il vambrace e lo aveva posato sul tavolino. Lo schermo verdolino ammiccava nella mia direzione mostrando simboli che somigliavano ad asterischi. La mia attenzione fu distolta presto dai simboletti, perché la bambina inarcò la schiena all’indietro e si esibì in una verticale, ne scese come fosse fatta di gomma e tentò una spaccata. Anche se non le riuscì fluida come la verticale, mi fece pensare – per dirla in maniera casta – che io a fare un lavoro del genere mi sarei giocato la fertilità.
Poi però incrociò il mio sguardo che, lo giuro, era perso nel pensiero sopra citato, e arrossì violentemente. Si rialzò alla svelta e fece per rivolgersi a Clank, ma quando si rese conto che per via dell’armatura non aveva il vambrace, sembrò impazzire.
«Piano, fa’ piano.» le suggerì il mio amico, vedendo che stava per andare in apnea. Provai a risolvere la cosa porgendole il bracciale: la bambina agitò le mani come una drogata senza dose, poi mi strappò il vambrace di mano e si tranquillizzò solo dopo esserselo rimesso. Il modo in cui lo strinse a sé aveva qualcosa di anomalo.
Lanciai un’occhiata ai miei soci: non erano idioti; sicuramente si stavano facendo delle domande. Decisi di portare altrove l’attenzione, tanto per sdebitarmi della storia dei nanobot.
«E questo mi fa venire in mente che vi volevo chiedere se potevate fare qualcosa per la sua voce.» buttai lì, attirando la loro attenzione sul lato pratico della questione. Funzionò.
«Sì, beh, con un paio di sensori e una piccola cassa stereo potremmo realizzare un collare che capti le vibrazioni delle corde vocali e le traduca in segnali audio.» disse Al.
«Tutto sta a sapere se ha ancora le corde vocali o no.» aggiunse Clank. «Altrimenti ci vorrebbe un impianto neurale, e quello non possiamo proprio realizzarlo.»
«Resta fermo che, comunque, la priorità ce l’hanno le armature. Prima quelle e poi il collare audio, se la piccola è a posto.» ribadì Al.
Ci girammo tutti verso di lei. Fu inevitabile.
Lyra incassò un poco la testa nelle spalle e proiettò:
 
Le corde vocali ce le ho.
Le tonsille no...quelle non servono, vero?
 
Clank sorrise (non fu l’unico) e le rispose: «No, quelle no.»
* * * * * *
Passammo l’ora successiva a ipotizzare soluzioni per sistemare l’armatura. Alla fine decidemmo, in sostanza, di diminuire lo spessore delle maglie. In quel modo avrei avuto più spazio e meno protezione, ma Al disse di aver in mente un modo che compensasse la perdita.
«Una tuta w.a.v.e.!»
Il suo sorriso trionfante era tutto un programma.
«E che roba è?»
«Una tuta che emette alcune onde che disturbano le traiettorie dei phaser.» spiegò. Dopodiché indicò la parete e abbassò la voce. «I nostri vicini ne hanno una.»
Oh, interessante...
«Con quella sotto l’armatura saresti a posto.» rincarò Clank. «Le probabilità che tu rimanga ferito si abbassano notevolmente.»
«Va bene, allora vediamo di procurarci una di queste tute w.a.v.e. e sistemare il gingillo.» conclusi. Per me, con quello che s’era detto, il discorso era chiuso. Per i miei soci no.
«Qui non funziona come fuori, Ratchet. Se vuoi qualcosa lo paghi con i punti ottenuti nell’arena.» mi rese noto Clank. «Con quello che costa, direi che ci vorranno un paio di giri per acquistarla.»
«Ehi, ma non danno dei soldi?» mi voltai verso Lyra. «Avevi parlato di compensi; pensavo intendessi bolt!»
Lei scosse la testa.
 
Mi sono spiegata male! Chiedo scusa!
Ai concorrenti non vengono mai dati i soldi. Solo punti.
E poi durante la gara vengono mostrate le statistiche, che dicono quanti punti hai accumulato in totale, quanti ne hai spesi e come li hai spesi.
Però agli Sterminatori danno anche i soldi, su un conto a parte. Non lo so come funziona.
 
E si strinse nelle spalle.
Ero convinto che i gladiatori vedessero moneta sonante; invece no. Eppure i professionisti che avevo conosciuto nella Nebula Maktar mi avevano parlato di bei soldoni.
Quindi, facendo il punto, ero stato rapito, ero imprigionato e sarei stato anche sfruttato.
Cos’altro volevano, ancora? Una fetta di culo ben cotta?
«Clank, ti posso parlare?»
«Non ce n’è bisogno. Ho già cominciato.»
Spalancai gli occhi, sorpreso. Volevo chiedergli di frugare tra i database per cercare informazioni utili alla fuga, ma se davvero aveva già cominciato... «Da quando sei telepate, socio?»
Mostrò un sogghigno furbetto. «Da quando sussistono, in contemporanea, il “ti conosco” e “ho le tue stesse necessità”.»
Oh, la cara vecchia parlata nerd. Mi mancava, davvero.
 
Frattanto, Lyra aveva preso da parte Al. Non sapevo cosa gli avesse detto, ma il kerwaniano era compiaciuto.
«Oh, beh, robetta da nulla...non è difficile, quando sei pratico di circuiti.»
E si diede a una risata forte. Lyra aveva gli occhi che quasi brillavano.
 
No, sul serio! Non si sente la differenza!
Sei il primo che ha bypassato così bene il loro sistema.
 
Come ogni volta che era sotto i riflettori, Al giocherellò con i suoi occhiali.
«Sì, beh, te l’ho detto: non è stato così difficile...chiudi un collegamento di qua, ne apri uno di là, giochi con i dati mobili...»
 
Juspatch ci ha perso il tecnico e metà dei punti, l’anno scorso. L’hanno scoperto subito.
Tu no.
 
«Che ti avevo detto? Al è un asso.» dissi orgogliosamente. Voleva essere un complimento per il mio socio, ma aveva gli occhi che brillavano...e potevo scommettere che non era per il mio apprezzamento.
«Juspatch è qui?» domandò. «Sono un suo fan!»
Vidi la bimba sbiancare. Ahia. Potei quasi sentire il sudore sulle mani per lei.
 
È stato senza tecnico per tre mesi, ha perso punti e audience.
Al direttore non piaceva più e...ha organizzato un incidente sulla pista di Torval.
 
Al si portò una mano alla bocca e si chinò impercettibilmente in avanti. «...e cosa gli ha fatto?»
Sembrava una vecchietta davanti all’ennesima puntata di Cuori Brodosi.
 
Era quasi arrivato al goal finale, ma era sfinito. Una parete è esplosa mentre ci passava davanti. Non ho dubbi che hanno approfittato del momento per fargli esplodere la testa.
 
Oddio, che impressione!
Al si morse le punte delle dita, Clank abbassò lo sguardo e mormorò una frase di rispetto.
Almeno era stata una morte rapida...
 
La porta si aprì all’improvviso e due guardie irruppero ad armi spianate.
«Mani in vista!» gridò la prima. Nel silenzio che si era formato, lo spavento ci fece saltare come ranocchi. Dentro, la paura di fare la fine del team di Juspatch ci rese in grado solo di alzare le mani.
«Cosa sta succedendo qui?!»
«S-stavamo calibrando le armature...» balbettò Al. I monocoli rossi delle guardie ci fissarono lampeggiando. Poi una delle due puntò la sua arma sulla bambina.
«Tu. Hai fatto saltare le trasmissioni.» sentenziò. Lei scosse la testa. «Non mentire!»
 
Ma non è vero!
Parlavo e basta!
Non ho fatto niente, lo giuro!
 
«Parlavi, come no. Proprio tu.»
L’ironia umiliante del robot la fece arrossire.
«AJ4-83.» lo riprese il compagno, indicandogli un bozzolo sopra la porta. «La telecamera è vecchia. I tecnici non l’hanno sostituita.»
Quello chiamato AJ4-83 grugnì, poi allungò un braccio fino alla telecamera e gli affibbiò due colpi. A quanto pare la trasmissione tornò a posto, perché subito dopo se ne andarono.
La porta si richiuse con un tonfo e noi ci concedemmo un sospiro liberatorio.
«Oh, prego...fa nulla se ci avete puntato contro due mitraglie per un errore stupido.» borbottai velenosamente. La voglia di rivalsa già mi scalpitava tra le costole.
 
Sarebbe stato così anche il resto del mio soggiorno? L’avrei passato tra agguati delle guardie e agguati nell’arena?
Oh, col cavolo che gliel’avrei permesso.

 

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Capitolo 5
*** | Capitolo 04 | Do la caccia a Lyra ***


[ 04 ]
Do la caccia a Lyra
(Oppure, a scelta vostra: La diplomazia dell’onnichiave)
 
Il giorno dopo, 3 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, cella 6-538
 
Quella mattina scoprii che non ci era vietato girare per la stazione spaziale. Lyra mi spiegò che potevamo entrare e uscire dalle celle a nostro piacimento. Il comando per attivare le porte era perfino banale: bastava metterci la mano sopra, in un qualunque punto a caso. Qualche sensore avrebbe riconosciuto la nostra identità e avrebbe aperto la porta. Ovviamente, se avessimo provato ad entrare dove non dovevamo, il collare ci avrebbe ricordato quale fosse il nostro posto.
Da quel che avevo capito ci era concesso entrare solo nella cella di Al e Clank, nella mensa, nella palestra, nella discarica e nei poligoni di tiro. Per il bagno ce la dovevamo giocare tra quelli delle celle. Tutti i bagni pubblici, tolti quelli per gli spettatori, erano stati chiusi e convertiti in sgabuzzini. A sentir la piccola era successo perché qualcuno, tempo addietro, aveva cercato di usarli come luogo d’incontro per organizzare un’evasione.
 
Terminato il racconto, la bambina mi guardò dritto in faccia e proiettò:
 
Vuoi andare da qualche parte?
Se vuoi ti ci porto.
 
Considerato l’elenco dei posti – e visto che io conoscevo solo la mensa e la cella di Al e Clank – in effetti ero curioso.
«Vorrei vedere la palestra, tanto per cominciare. Poi i poligoni. Il compattatore passo; non me ne frega niente.»
La bambina annuì.
 
Come vuoi.
 
Fu così che mi ritrovai a passeggiare per i corridoi della stazione. Formavamo una buffa coppia: lei guardava in terra; mentre io avevo il naso all’aria. Però, anche se alzava lo sguardo solo quando le chiedevo dove portasse un certo corridoio, svoltava con una sicurezza che dava da pensare.
Non parlava un granché, se non doveva rispondermi. Io alla sua età parlavo in continuo, che mi ricordi. In casa mi dovevano ripetere un miliardo di volte di stare zitto, e poi riattaccavo lo stesso a parlare. Oddio, se avesse chiacchierato quanto me a dieci anni, forse un pensierino sulla rimozione delle corde vocali lo avrei fatto anch’io.
Uscimmo dal quinto settore e ci infilammo nel quarto. La stanza di Al e Clank era tre piani più sopra, da qualche parte che non avrei saputo identificare. La strada per arrivare da loro era diversa fin da subito: per raggiungerli si prendeva a sinistra fuori dalla nostra cella; mentre per andare alla palestra avevamo girato a destra.
«Dove stiamo andando?»
Lyra si fermò e si voltò a guardarmi con un’espressione preoccupata.
 
Alla palestra, come mi hai chiesto.
 
Grazie tante.
«Sì, ma intendevo...che strada è? Ci vuole così tanto?»
 
La palestra e i poligoni formano il settore 2.
Questa non è la strada più breve, ma era quella che dovevo prendere.
 
«Perché?»
 
Perché la strada normale passa davanti agli alloggi degli Sterminatori.
 
«E allora?»
 
Loro si divertono sempre con le nuove squadre. Se sei una faccia nuova ti fanno male. Non voglio farmi male.
 
«Nemmeno io. Ma scappare non è la soluzione.»
 
Invece sì. Se non mi vedono non se la prendono con me. O con te.
Vale anche per te.
 
«Okay, ammetto che è una strategia buona. Però scappare così non mi piace. La prossima volta facciamo il giro normale, okay?»
 
Ma ci prenderanno di mira!
 
«Voglio farlo lo stesso. Se ci troveremo di fronte a loro, gli dimostreremo che devono lasciarci stare.»
Avevo già passato situazioni dove certi gradassi idioti mi rompevano perché sono piccoletto. Nessuno di loro sapeva che sono piccoletto, sì, ma anche cattivo come veleno, se voglio. Di certo non lo sapevano questi Sterminatori; per cui avevo fiducia nelle mie possibilità.
Stessa cosa non potevo dire per la bambina, che abbassò lo sguardo con aria rassegnata.
 
...come vuoi.
 
«Grazie.»
Non sorrise, non arrossì, non rispose. Quando riprese a camminare, sembrò ancora più china di prima.
Dovevo forse interpretarlo come un “hai fatto la scelta sbagliata e dopo saranno cavoli amari”?
Mah.
Riprendemmo a camminare e preferii cambiare discorso. «Ehi, Lyra, senti...» cominciai. «Da quanto sei qui?»
Lei orientò lo schermo ologafico nella mia direzione e proiettò:
 
...tanto.
 
«Tanto quanto? Ci sei nata?»
Scosse la testa.
 
Non COSÌ tanto. Sono quattro anni. Mi ci hanno portato il giorno del mio compleanno.
 
«E quand’è il tuo compleanno?»
 
Il 5 di maggio.
 
Feci due conti. Eravamo nel 5401; quindi doveva essere approdata in questo posto nel ’97. Il 5 maggio del ’97. Beh, spiegava perché non conoscesse solo le strade principali.
Provai a spingermi di nuovo nel territorio minato.
«Chi ti ha portato qui? I tuoi genitori?»
Denegò.
 
No. Ma non ti posso dire chi è stato.
 
Un altro tabù. Ignorai il fallimento e mi strinsi nelle spalle.
«Ma tu non sei orfana...o sì?»
Se lo era, le spiegazioni su come fosse finita lì dentro aumentavano esponenzialmente. Di certo non ci era finita seguendo il mio stesso itinerario, non a sette anni e non “per punizione”, come mi aveva detto.
Attesi una risposta. Lei avvicinò le sopracciglia, perplessa, poi inclinò un poco la testa.
 
Che vuol dire “orfana”?
 
«Vuol dire “senza genitori”» spiegai. «Intendendo che sono morti.»
Un po’ mi sentii a disagio nel darle quella spiegazione. Era una domanda pesante; però volevo capire.
 
La mia mamma è scomparsa quando avevo due anni. Il mio papà non lo so se è vivo. Non lo so se sono orfana.
 
Ah, beata ingenuità.
Trattenni un sorriso a stento. Un sorriso mesto, perché da ridere c’era poco.
«E non hai più sentito nessuno della tua famiglia?»
Le sue spalle s’incurvarono. Denegò con un’aria così sconsolata che rasentava la disperazione.
Oddio, dopo quattro anni che non vedeva i suoi, magari qualche dubbio sul loro essere in vita era lecito che venisse.
La sentii respirare più pesantemente. Era uno di quei sospiri che si fanno per cercare di trattenere le lacrime.
...forse ero stato un po’ indelicato.
Lasciai perdere il discorso e mi limitai a seguirla, in silenzio, corridoio dopo corridoio. Non parlammo finché non entrammo nel famigerato settore 2.
 
Scoprii che il settore 2 non era altro che un corridoio. A sinistra c’erano i poligoni di tiro; mentre a destra c’era la palestra. Entrammo in palestra.
Non era come me l’ero immaginata.
Fino a quel momento ero convinto che la palestra dei gladiatori professionisti fosse un grande spazio con le rastrelliere delle armi vicino alle pareti; un luogo dove la gente fosse allegra e affabile. Invece mi trovai smentito dall’odore di sudore, dagli sbuffi degli sforzi e dai moccoli che volavano di frequente. L’ambiente, poi, era suddiviso in cubicoli. Non c’era nessuno che si allenasse in compagnia di qualcuno che – presunsi – non fosse la sua spalla.
Le occhiate benevole non abbondavano affatto. Anzi, come ci videro percepii l’intenzione di non farci uscire vivi da lì. Alzai istintivamente la guardia (se non per altro, perché la maggior parte dei gladiatori presenti vestiva l’armatura; mentre io avevo solo la tuta grigio smorto).
Feci bene.
Una manciata di passi dopo, un rilgarien uscì dal suo cubicolo e, al grido «La mocciosa!», ci lanciò addosso un disco da pesi. Tirai indietro Lyra in tempo perché il dischetto coperto di gomma la mancasse; ma quello fu solo l’inizio. Altra gente uscì dai cubicoli, chi con qualcosa da lanciare, chi deciso a fare a botte.
Fu una sassaiola.
Io e Lyra scattammo in avanti. Zigzagammo per il corridoio, un po’ per evitare di essere colpiti e un po’ per rendere più difficili le cose ai lanciatori. Alcuni di quelli in armatura – con il casco indosso, mica scemi – ci vennero incontro con l’intenzione di fermarci.
Ennò, bello.
Aprii il braccio e feci per richiamare la mia fida onnichiave... che non venne.
Merda.
Per schivare la carica del gigante in armatura, non avendo tempo per fare altro, saltai. Puntellai i piedi di traverso e trasformai l’energia della corsa in elevazione. Per grosso che fosse, saltai quel tale come una staccionata.
Dopodiché qualcosa di metallico mi si attorcigliò attorno alla vita e mi scaraventò in un cubicolo sulla destra, facendomi rotolare dietro un macchinario. Dal corridoio provenne l’urlo di rabbia del tipo che avevo appena saltato. Da sopra mi giunse una voce metallica.
«Tranquillo, signore. Adesso è al sicuro.»
Il mio presunto salvatore era un robot. Aveva una lunga visiera rossa e un generatore antigravità sotto la vita.
Il trambusto, fuori, si spostò più avanti.
«Che diamine succede?!» sbottai. Mi rimisi in piedi e uscii dal buco dov’ero rotolato.
«Ti abbiamo appena evitato un bel po’ di dolori.»
Un altro robot, stavolta antropomorfo, era seduto sulla panca piana, al centro della stanza. Aveva la lamina arancione e gli occhi tondi e azzurri. S’alzò e venne a tendermi la mano. «Sono Kid Nova. Non ti ho mai visto qui.»
Gliela strinsi. «Ratchet. Sono un nuovo acquisto.»
Non sembrava malintenzionato.
«Che significa che mi avete evitato dei dolori?» domandai.
«Il direttore ha una fissa per quella bambina» spiegò. «Chi la colpisce ha diritto a 20 punti extra.»
«20 punti per ogni colpo.» precisò il robot senza gambe.
Mi accigliai, non capendo. La mia faccia espresse chiaramente il concetto.
«Visto che danno 50 punti per ogni avversario ucciso nell’Arena, 20 punti per ogni colpo inferto sono un bonus davvero interessante. Basta colpirla, non importa dove o come. Basta non usare la propria abilità, se si è esper. E non c’è un numero massimo di colpi.»
Bel ragionamento di cacca. «Ma è...»
Folle. Mi venne in mente solo l’aggettivo “folle”.
«...vergognoso. Almeno, io lo trovo così» mi disse. «Se anche quelli come Spackaman si ricordassero da dove vengono, forse non saremmo ai livelli delle bestie.»
«Lyra è la mia compagna di squadra!» protestai. «Come faccio se me la sfondano?»
Il robot spalancò la bocca. Rimase così per qualche istante, incredulo.
«Parli sul serio?»
Al che ricevette l’illuminazione. «Ecco perché non ti sei scansato...»
Subito dopo, dall’alto, si diffuse la voce degli altoparlanti. Era Vox: «Gentili concorrenti, mi sono dimenticato di dirvi che oggi è l’ultimo giorno della promozione “colpisci la mocciosa e riceverai venti punti bonus”. Per questo motivo, solo per oggi, i punti bonus saliranno a cento! Dopodiché, siccome è entrata nel programma come gladiatrice, chi continuerà con il gioco riceverà la scossa punitiva. Buon divertimento a tutti!»
Riportai lo sguardo su Kid Nova. Non aveva fatto una piega.
Era chiaro che non potevo contare sul suo aiuto, così mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa di utile.
«Hai niente di utile? Devo andare a recuperarla.»
«Con i bonus così alti sarai fatto a pezzi. Nessuno vorrà rinunciarci.»
Mi salì la bile. «E tu perché sei ancora qui?» sputai.
Adocchiai qualcosa, finalmente. Distesa sotto la panca piana, forse per uso manutenzione, c’era un’onnichiave. L’afferrai senza complimenti.
«Ho dei princìpi» rispose lui, intanto.
Princìpi, certo. Come no. Princìpi comodi solo quando salvavano la propria pelle. Princìpi che, se facevano esporre per gli altri, diventavano improvvisamente più difficili da seguire. Come in quel caso: mettersi contro una calca di gladiatori era difficile; rinunciare, invece, era più facile e sicuramente più salutare.
Lo guardai male. «Anch’io. Per questo vado a darle una mano.»
Discorso chiuso.
Mi lanciai fuori dal cubicolo e ripresi a correre per il corridoio principale, sperando di arrivare prima che l’ammazzassero di botte.
 
La strada si snodava come un serpente lungo tutta la larghezza della stanza. Percorsi quasi tutto il piano quando, dopo l’ennesima curva, vidi gli ultimi tra gli inseguitori.
Accelerai.
Quando raggiunsi l’ultimo, allargai il braccio armato e gli assestai un colpo d’onnichiave sulla testa. Fuori uno. Il rilgarien che gli era davanti, che aveva rallentato per girarsi a vedere cosa fosse successo, si ritrovò con un pugno stampato sul naso e si fermò, gridando per il dolore. Fuori due.
Mi sa che non fu un’idea brillante, perché attirai l’attenzione di gladiatori ben più grossi di me. Per fortuna erano attratti dal bonus che Lyra rappresentava, per cui non considerarono più di tanto i due che avevo fermato.
Rallentarono come aveva fatto il rilgarien, ma non si fermarono né a confortarli né a difenderli. Ne approfittai e tirai dritto, veloce com’ero arrivato, sfruttando tutto ciò che il mio corpo poteva dare in quel momento. Nel tempo in cui i tre giganti ripresero velocità,  io filai ben più avanti a loro, nel mezzo della ressa.
Una volta in mezzo alla calca, mi bastò aggiungere una buona dose di spintoni per poter continuare a scalare il gruppo. Non che fossi l’unico a spingere. Altri lo facevano già, probabilmente con lo scopo di diminuire il numero degli avversari. Il risultato era che, di tanto in tanto, si vedevano persone accasciate sul pavimento.
Rimasi nel gruppo fino alla fine della stanza, dove c’era la rampa per il piano superiore. Chiunque volesse salire doveva passare da lì; ma a metà la strada era sbarrata da due colossi.
Erano le spalle di due gladiatori stimati, a quanto sentivo mormorare.
«Qui non passate» tuonò uno.
«La preda è dei gladiatori nobili! I punti spettano a loro!» ruggì l’altro.
Mi salì un altro fiotto di bile.
Stronzate! Lyra viene con me, pensai.
Continuai a spintonare. Dal davanti giungevano urla e minacce; qualcosa come «Fateci passare o ve ne pentirete!» a cui seguì immancabilmente una frase di scherno.
Nel tempo in cui arrivai davanti, un distaccamento di gladiatori partì alla carica. Non aspettai e mi confusi con loro. Quelli partiti erano una decina, ma nessuno sembrava avere l’intenzione di sfruttare gli altri come diversivo. Beh, quella era la mia idea: lasciare che coprissero la mia vera intenzione fino all’ultimo e poi sgusciare oltre. Se avanti c’era un altro gruppo e io fossi rimasto lì a tentennare, non mi sarei mai scollato dalla massa più grossa degli inseguitori.
Mi misi sulla scia di un tale largo il doppio di me. Al momento dello scontro con il kerwaniano che aveva reclamato i diritti dei gladiatori nobili, il mio aiutante spinse un collega, che a sua volta spingeva il kerwaniano che sbarrava la strada. All’ultimo mi tuffai a lato, tra il kerwaniano e la parete. Rimbalzai a quattro zampe sul muro e piombai oltre, sulla rampa libera. Dietro di me, se gli energumeni avessero mollato, sarebbe passata tutta la calca.
Buon per tutti, pensarono di trattenere la massa piuttosto che rincorrermi.
 
Al piano di sopra trovai più o meno lo stesso scenario: corridoi a serpentina e cubicoli per l’allenamento. Solo che erano vuoti.
Da un posto vicino arrivavano frasi da smargiasso. Le parole erano talmente nitide che immaginai che i cosiddetti gladiatori nobili fossero nella corsia di fianco.
Proseguii per i due terzi del corridoio; dopodiché intravidi un’altra onnichiave abbandonata sotto una panca piana. Non ci pensai due volte e deviai per raccoglierla. Due sarebbero state più convincenti di una. Tra l’altro, quella che avevo appena raccolto era carica d’energia.
 
Non ha senso. Non c’è un cazzo di senso in questo manicomio! – sbottai tra me e me, mentre mi accucciavo.
Ero all’angolo del cubicolo che, dalla curva, dava sul corridoio da cui provenivano le voci.
“Voci” era un eufemismo. Più che altro erano risate e frasi come «Ecco un altro bonus!»
Quando mi sporsi li vidi: erano tre, schierati a semicerchio davanti a un cubicolo. Contando le voci, però, dovevano essere quattro. Magari uno era all’interno. Sicuramente lo era.
Dei tre in semicerchio, il più vicino era un cazar con una specie di armatura di cuoio. Dietro c’era un reaper; dietro ancora un tremor. Entrambi indossavano un’armatura dai toni giallastri.
D’un tratto il quarto elemento, quello che non riuscivo a vedere, volò addosso al tremor. Non seppi come, o perché. Arrivò volando, come se l’avessero spintonato, e trascinò il puntaspilli a ruzzolar per terra.
Lyra uscì correndo dal cubicolo, sfruttando il varco appena aperto. Gli altri due le furono addosso in men che non si dica. Uscii dal mio nascondiglio e corsi a gettarmi anch’io nella mischia.
Il primo a fare le spese della mia incursione fu il cazar. Gli diedi una scarica con l’onnichiave e lo spedii a nanna.
Subito dopo saltai addosso al reaper, che era praticamente seduto addosso a Lyra. Da come mi guardò, lo avevo colto pienamente di sorpresa. Lo abbattei con un colpo d’onnichiave sul muso, dopodiché qualcuno mi allontanò da lui tirandomi per la coda.
Fui sbattuto contro un muro e rimasi senza fiato. Sentii le ossa scricchiolare mentre, dopo il colpo, scivolai a terra.
Subito dopo sentii qualcosa incidermi la guancia. Dolore e calore andarono di pari passo mentre la ferita veniva aperta.
Quando riuscii a mettermi seduto, mi trovai faccia a faccia con il rostro esoscheletrico del tremor.
«Stai giù, rifiuto.»
Poche parole secche, dette con tono raschiato. Non c’era bisogno di chiedere cosa sarebbe successo altrimenti. La punta dello sperone, macchiata di rosso, era a qualche centimetro dai miei occhi. Inoltre, il suo proprietario schiumava dalla rabbia.
Doveva essere stato lui a tirarmi via di peso. E, con la sua stazza, era evidente che non si fosse sforzato troppo nel farlo. Non si sarebbe fatto problemi a cavarmi un occhio, n’ero certo.
Seduto in terra, non feci movimenti bruschi, ma non mollai nemmeno la presa sulle onnichiavi. Mi limitai a fissare alternativamente lui e l’altro.
Più in là, il famigerato quarto elemento – un altro cazar, anch’egli in armatura gialla – sovrastava Lyra, che era appena riuscita a liberarsi del peso del reaper.
«Tu. Adesso mi devi davvero molti bonus» sentenziò. La voce era malferma, il tono isterico.
La bambina era bianca come un cencio. Crepitava scintille elettriche, ma non sembrava in grado di gestirle. Si trascinò all’indietro per un paio di metri, gattonando a pancia in su. Il cazar non la fermò in alcun modo, forse per non prendere la scossa.
Avrei voluto gridarle di colpirlo alle gambe. Era il punto debole di qualunque attaccante più alto del difensore.
Il punto che avrei dovuto colpire anch’io, a ben vedere. Peccato che il tremor mi tenesse a distanza con il rostro.
Anche se...
Lo sperone d’osso era lungo, ma guardava all’indietro. Per puntarmelo in faccia lui doveva stare almeno di tre quarti. E, visto che il rostro usciva dal gomito sinistro, ero quasi certo che non vedesse bene la mia mano destra; che era quella con l’onnichiave energizzata.
Mo’ ti frego io.
Misi in carica le piastre dell’onnichiave, in modo che su di esse si accumulasse energia. Contai mentalmente i secondi: milleuno, milledue, milletre...
Frattanto per Lyra si mise anche peggio. Dal momento che aveva smesso di essere ricoperta di scintille, il cazar le rifilò un calcio in pieno viso e poi un altro, non so dove.
Millecinque, millesei...
La bambina si rannicchiò a terra, coprendosi il viso con gli avambracci. Teneva i piccoli pugni chiusi, mentre quell’altro contava i calci e già faceva il conto dei punti extra che gli avrebbero assegnato.
Millenove, milledieci.
Scattai come una serpe: con un’onnichiave distolsi il rostro; con l’altra sparai la scarica energetica direttamente in mezzo alla schiena del puntaspilli. Cadde a terra come un pomo maturo.
Saltai in piedi. Nel tempo in cui tornai su due gambe, il cazar spiccò di nuovo il volo, di nuovo all’indietro, di nuovo come se lo avessero spintonato.
Raggiunsi Lyra, che era a terra, chiusa a mo’ di conchiglia. Cercai si scuoterla. Non c’era tempo per fare il carino: il cazar si stava rialzando e nell’aria si cominciavano a sentire le voci della massa dei gladiatori che avevo lasciato indietro.
«Stai su, dobbiamo andarcene!» sbottai.
Il cazar rise istericamente.
«E tu chi saresti, per prenderti la precedenza su di me?»
Era pazzo, lo avvertii a pelle.
«Il suo compagno di squadra» ringhiai. «Chi sei tu, piuttosto.»
Il cazar sembrò ricevere l’illuminazione, proprio come Kid Nova. Poi si fece sprezzante. «Carne fresca, eh? Non arriverai a domani con lei, perché non ti fai ammazzare dal grande Skìos, qui e subito? Ti risparmierei un bel po’ di sofferenza nell’Arena...»
Skìos, ne avevo sentito parlare. Aveva fatto notizia fermando un gruppo di malviventi con uno scuolabus pieno di marmocchietti.
«Come no» sputai. Flettei appena le gambe, pronto a scattare al primo segnale. Se i gladiatori stavano arrivando e Lyra non stava in piedi...
Di nuovo, Skìos fu sbalzato all’indietro. Mi voltai, per capire che accidenti gli fosse successo. Non vidi nessuno dietro, però a terra c’era Lyra che aveva le mani aperte, in avanti, con pollici e indici che si toccavano come per un’inquadratura. Fissava il punto dov’era Skìos con gli occhi sgranati.
Per sicurezza, prima di chinarmi di nuovo al suo fianco, scagliai un’ultima scarica con l’onnichiave. La sua batteria finì a terra, ma anche Skìos non si sarebbe rialzato presto.
«Dobbiamo andarcene» sussurrai alla bambina. «Ti aiuto a stare in piedi» e le afferrai un braccio. Lo passai sopra le spalle e, come il mattino precedente, la feci stare su.
«Puoi camminare?»
Annuì.
«Allora filiamo.»
* * * * * *
Nel momento in cui la porta della nostra cella si chiuse alle mie spalle, ringraziai tutte le divinità che conoscevo.
Oggalassia, che mattina.
E dire che ero partito con l’intenzione di visitare la palestra. Non osai pensare cosa sarebbe successo se fossimo entrati nei poligoni di tiro.
Non avevamo scambiato una sola parola da quando eravamo usciti dalla palestra. Anche quando entrammo nella cella, il silenzio regnò incontrastato. Lasciai la bambina sulla branda e mi lasciai cadere al suo fianco.
Per qualche secondo l’unico rumore udibile fu il nostro respiro accelerato.
«Che diamine è successo?»
La domanda cadde nel vuoto. Pensai che non avesse voglia di rispondere. Poi, qualche secondo più tardi, la vidi alzarsi con una mano premuta sulla pancia. Si trascinò fino al bagno e si chiuse dentro.
Mi sdraiai sulla branda e, fissando il materasso di sopra, mi ripetei la domanda: che diamine è successo?
Ripercorsi mentalmente la mattinata. La sveglia, il “buongiorno” che le avevo strappato, la colazione. In mensa sembrava che nessuno si fosse accorto di lei. Nessuno le aveva rivolto la parola; nessuno l’aveva nemmeno guardata. Poi eravamo tornati tranquillamente in cella, dove si era offerta di farmi fare un giro turistico. Un solo, stramaledetto, giro turistico. Ma se sapeva che sarebbe finita così, per quale motivo non mi aveva detto “guarda, vai tu che a me mi pestano come un sacco da boxe”?
Perché? Perché evitare le camere degli Sterminatori e incappare in una mandria di psicopatici?
 
Udii il rumore dell’acqua che scorreva. Di tanto in tanto arrivava anche qualche colpo di tosse.
«Lyra, tutto bene?» domandai.
Non ricevetti risposta. Ricordai dopo che era muta.
Sbuffai. Mi venne a far male la guancia, e solo allora mi ricordai anche del taglio.
Portai due dita al volto e provai a tastare lo zigomo. La pelle intorno alla ferita bruciò terribilmente quando la sfiorai. Dovevo tamponarla, in qualche modo.
Andai a bussare alla porta del bagno. «Lyra, posso? Batti un colpo per sì, due per no.»
Aspettai qualche istante, poi arrivò un colpo. Uno solo, un sì: aprii la porta senza aspettare oltre.
Trovai la bambina che stava pulendo il lavandino. Il naso era gonfio, la faccia livida. Sembrava che si reggesse in piedi solo perché era appoggiata al lavabo.
Mi guardò attraverso il riflesso dello specchio. Durò una frazione di secondo, poi abbassò lo sguardo con aria mortificata. Afferrò una pomata dal bordo del lavandino e cominciò a spalmarsela a piccole dosi sulla faccia.
«Hai qualcosa per i tagli?»
La piccola abbandonò la pomata e andò a frugare nel pensile vicino allo specchio. Dopo qualche secondo mi porse cotone, disinfettante e cerotti.
 
Se non bastano – se vuoi – ho la roba per cucire.
Se pensi che bastano, entro domattina i nanobot avranno richiuso la ferita.
 
«Penso che me li farò bastare.» borbottai. «Odio ago e filo.»
Annuì.
 
Mi dispiace che ti sei tagliato. È colpa mia.
 
«È stato il tremor, mica te. È colpa sua» e cambiai discorso: «Posso venire davanti allo specchio?»
Annuì di nuovo e si scansò in fretta.
Sembrava pronta a schizzare via, così la bloccai. «Non uscire. Vorrei scambiare due parole con te.»
Si irrigidì, ma non scappò. Incassò la testa e spostò lo sguardo sul pavimento.
Mi andai a piazzare davanti allo specchio. C’era uno sgabello tra il gabinetto e l’armadio. Lo vedevo bene nel riflesso, quindi glielo indicai. «Siediti lì.»
Quando ebbe eseguito, domandai: «Chi erano quelli di prima?»
 
...Quali?
 
Armeggiai con cotone e disinfettante prima di rispondere. «Tutti. I tre con le armature gialle, quello con l’armatura di cuoio e gli altri due che erano a mezza rampa. Hanno blaterato qualcosa sui gladiatori nobili.»
 
I tre con le armature gialle sono i gladiatori nobili. Sono i tre che vengono subito dietro gli Sterminatori, come punti in classifica.
C’è Sthenox, che è il reaper. Dei tre è il più in basso. È un comune. Il suo punto di forza è che è spietato. La sua spalla è il cazar che aveva l’armatura di cuoio. Si chiama Herenne ed è un esper guaritore.
Il tremor si chiama Oplon. È un chemiomorfo. Sfrutta la sua abilità per rendere l’armatura durissima, così che i colpi non la danneggiano. Oppure ammorbidisce quelle dei nemici prima di infilzarli. La sua spalla si fa chiamare Divar. È un kerwaniano ed è un barricatore.
Poi c’è Skìos. Lui dei tre è il più forte. È uno skiocineta. Anche la sua spalla, uno slademan di nome Jackson, è un barricatore.
 
Leggere tutto sul riflesso non fu semplice. Non avevo pensato che avrei dovuto leggere a rovescio, quindi ci impiegai tutto il tempo della medicazione.
Fu un sollievo girarmi, alla fine, e poter leggere per dritto.
«Ma tu Skìos lo hai fatto volare» obiettai. «Per quale motivo non ha mai usato la sua abilità?»
Mi tornò alla mente che Kid Nova lo aveva accennato, così corressi il tiro: «Parlo in generale. Perché per prenderti non possono usare le loro abilità?»
 
È un ordine del direttore. Per avere il bonus non devono usare le loro abilità. È troppo facile sennò.
 
Beh, in effetti...già così era ridotta a uno straccio; figurarsi se avessero usato le loro abilità.
«E tu puoi usarle?»
Annuì.
 
Anche se non riesco più a usarle bene.
Se uso bene le mie abilità posso anche uccidere. Io non voglio uccidere.
 
Sbuffai. La raggiunsi con due passi e mi accucciai di fronte a lei. La presi per le spalle, deciso a rimproverarla. Mi accorsi che aveva gli occhi lucidi e tremava.
Mi ero avvicinato per ricordarle che gli esper, senza qualche altro mezzo, non erano in grado di uccidere con la loro abilità. Però, vedendo quant’era spaventata, quello che volevo dirle mi morì in gola.
«Perché non mi hai detto della caccia all’uomo?» sussurrai dopo un istante.
 
Perché tanto doveva succedere.
Se non era oggi, era domani, ma sarebbe successo lo stesso. Non ci potevo fare niente.
 
«Ma, se me lo avessi detto, avremmo potuto metterci d’accordo per reagire insieme, come una squadra.» obiettai. «Avrei potuto fare meglio di così.»
Abbassò ancora di più lo sguardo.
Notai un grumo di pomata in un angolo della guancia e, senza pensarci, gliela stesi sulla pelle livida. Quasi automaticamente lei chiuse forte gli occhi e incassò la testa tra le spalle.
Continuai a stendere la pomata. C’erano altri grumi bianchi sulla sua pelle, segno che si era medicata pensando ad altro.
«Sono il tuo compagno di squadra, Lyra.» le ricordai dopo qualche istante. «Mi fido quando mi porti in giro. Voglio che ti fidi di me, come io mi fido di te.»
Continuai a stendere la pomata finché non decisi che andava bene. Solo quando ritirai le dita la bambina si rilassò. Riaprì gli occhi e alzò un poco la testa.
Tirò su col naso.
Oh no!
Era sull’orlo di una crisi di pianto.
No no no, galassia, ti prego, no!
Ci guardammo per un istante infinito. Poi, con un unico gesto, mi si incollò addosso. Sentii distintamente la sua curva del naso trovarsi un angolino tra il collo e la spalla, mentre con le mani chiudeva quell’abbraccio improvviso e goffo.
Mi trovai spaesato. Tremava. Ero convinto che fosse per paura; eppure mi rimase aggrappata addosso quasi con disperazione.
Chiusi l’abbraccio lentamente, come si fa con gli animaletti per avvicinarli. La sentii sciogliere un pochino i muscoli.
La crisi di pianto arrivò, silenziosa e implacabile.
Allora presi a carezzarle la chioma, sempre con cautela, per tranquillizzarla. Rimasi in silenzio per un po’, cercando le parole giuste da dire in una situazione del genere.
«Stai calma. È tutto finito.» sussurrai alla fine. «È tutto finito.»
Ovviamente non bastò a fermare le lacrime, né la fece calmare di botto. Eppure, da qualche parte in fondo alla testa, fui certo di udire una vocina che, tra un singhiozzo e l’altro, mi ringraziava e mi chiedeva aiuto.

 

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Capitolo 6
*** | Capitolo 05 | Si chiama Takami e – in teoria – è una Guardiana ***


[ 05 ]
Si chiama Takami e – in teoria – è una Guardiana
(Ripartono le stranezze. Ma almeno metto una coda all'armatura)
 
Sempre 3 ottobre, ore 17:15
Stazione DreadZone, cella 4-723
 
Dopo lo sfogo, Lyra si era addormentata. Così l’avevo lasciata nella mia branda e avevo raggiunto Al e Clank.
Avevo bisogno di un po’ di svago, così come loro avevano bisogno di una mano con le armature.
La mia giaceva a pezzi sul bancone di Al. Visto che era stretta e pesante, avevamo deciso di fresarne l’interno. Fino a quel momento avevamo elaborato tutta la parte inferiore e le piastre addominali.
Mentre lavoravamo avevo vuotato il sacco: ero partito con i fatti del mattino, poi avevo espresso i miei dubbi. Nel discorso ch’era uscito avevamo anche messo in tavola le nostre informazioni, ma erano davvero poche.
«Ma Skìos come l’ha smosso, quindi?»
Al aveva una scorta d’acqua a portata di mano. Senza chiedere, mi lanciò una bottiglietta. Ne bevvi un sorso prima di rispondere.
«Ha lavorato come una calamita. Prima l’ha caricato e poi ha rilasciato un impulso con lo stesso tipo di carica. Skìos ha preso il volo come un uccellino! Cip cip!»
Dopodiché sghignazzammo come due marmocchietti.
«Gente, non c’è niente per cui rallegrarsi.» ci riprese Clank. «Ci siamo appena inimicati i tre team più forti della zona.»
Storsi il naso, irritato dal suo tono.
«Sì, certo, parli bene.» commentai. «Ma dovevate vederli. È stato uno spettacolo da manicomio. Per fortuna me la sono cavata con un paio di graffi.»
«E lei?»
«Tanti lividi, ma niente di rotto. L’ho lasciata che dormiva.»
«Però è strano.» notò Clank. «Perché ha fatto in modo da evitare gli Sterminatori, per poi finire in quella specie di safari?»
«Lei ha detto che sarebbe successo comunque. In effetti, penso che Vox le avrebbe fatto comunque questo “regalo d’addio”, il primo giorno che fossimo andati in palestra.»
«Allora, per i poligoni, aspettate di avere le armature pronte.»
«Sicuro!» replicai, svelto. «Col cavolo che finisco in un fuoco incrociato!»
* * * * * *
Un’ora più tardi avevamo finito.
Giusto un attimo prima di provarla, avevo deciso di andare a chiamare Lyra ed ero tornato alla nostra cella.
La trovai al tavolino, che smanettava sul suo vambrace. Come mi vide, si affrettò a far sparire le varie schermate olografiche.
«Ehilà! Dormito bene?» salutai. La bambina mi squadrò e si torse le mani, agitata.
 
Sono venute le guardie. Ti cercavano.
Volevano indietro le onnichiavi.
 
Le lanciai un’occhiata veloce. C’erano di nuovo dei grumetti di pomata bianca ai bordi del viso, segno che si era medicata di nuovo pensando ad altro. Per il resto, non fui certo di non vedere lividi nuovi.
«Gliele hai ridate?»
Annuì.
 
Hanno detto che se lo rifai ti danno la scossa.
 
«Rifaccio cosa?»
 
Rubare le attrezzature.
 
Obbella, e così le avevo rubate.
Mi piantai i pugni sui fianchi, la coda modello frustino.
«Tch, rubate. Al massimo ne ho fatto buon uso.» borbottai. «Non pensi?»
Annuì di nuovo. Poi chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e, arrossendo per l’imbarazzo, proiettò:
 
Ti...ti devo ringraziare che sei venuto di sopra.
Pensavo che finivo di nuovo in infermeria, invece sei arrivato te e...
Prometto che lo trovo il modo di sdebitarmi!
 
E poi mi scuso per...per... prima. Non mi dovevo attaccare così.
Ho sbagliato, di sicuro ti ho dato fastidio e...e poi ti ho anche sporcato la tuta. Non dovevo. Lo so che non dovevo.
Scusa.
E grazie.
 
Al che mi si allargò un sorriso sghembo.
«Prima o poi ti rifarai.» dissi sbrigativamente. «Quanto alle macchie, vai tranquilla. Dovresti vedere la mia tuta da lavoro: quella sì che è lercia! Mica ‘sti quattro sgorbi di pomata!»
Senza contare che quella specie di divisa era già orribile di suo. Quel grigio topo morto non mi piaceva proprio.
Tornai al discorso per cui l’avevo raggiunta. «Abbiamo finito la mia armatura. Vuoi venire a dare le tue impressioni?»
La bambina sgranò gli occhi.
 
Io?
Ma non... non sono utile. Non so combattere, come faccio a sapere se va bene?
 
«Lyra.» la rimproverai. «Dobbiamo fare squadra alla svelta. E fare squadra significa stare insieme anche quando si è inutili.»
“Quindi vieni e non rognare” era sottinteso. Lo capì al volo.
Si alzò in piedi e mosse qualche passo. Quando fu davanti alla porta, poco prima di aprirla, mi mostrò lo schermo olografico.
 
Posso prendere una scorciatoia?
È vuota, però...
 
Non avevo voglia di bissare le scene della palestra, quindi le diedi il via libera.
Fu così che scoprii come facessero, gli addetti alle pulizie, ad essere ovunque in qualunque momento. In pratica, nei ripostigli dove tenevano i loro arnesi, c’era un sistema di piattaforme di teletrasporto. Piccolo, ovviamente, tutto interno alla stazione, però molto efficiente.
Impiegammo una manciata di secondi ad arrivare nella cella di Al e Clank.
«Rieccoci!»
Limatura di ferro e schegge di metallo erano pressoché ovunque. Un po’ per il tornio in mezzo al passo, un po’ per tutti gli attrezzi in disordine, sembrava che fosse passato un tifone.
«E ora che il team è al completo...a me l’armatura!»
Al sbuffò con aria divertita e, mentre Clank faceva sedere Lyra, mi aiutò ad entrare nella ferraglia. Gambe, braccia, poi il torso e, infine, il bacino. L’unica cosa che proprio non mi piaceva era la forma così umanoide della silhouette.
Se non altro, però, dopo averla fresata e levigata, stavo nettamente meglio dentro la corazza.
«Ecco qua, che dite?» e feci un giro su me stesso.
«Devi dircelo tu come ti senti.» fu la risposta di Clank. «Riesci a respirare? Ti muovi bene?»
Smossi un po’ tutte le giunture; saltai, scalciai, aprii e richiusi le braccia, le feci roteare, testai i gomiti, i polsi e le falangi.
«Tutto bene. Sono ufficialmente pronto a fare il culo a questa gente.» confermai.
Al mi affibbiò una pacca sulla spalla e andò a scambiare un cinque con Clank. Era visibilmente soddisfatto.
Mi presi il tempo per ammirare la mia nuova tenuta. Era lucida e rossa, ma non quel bel rosso fiammante. Era più un marrone. Sui vari pezzi erano state incise delle linee, che disegnavano una ragnatela senza senso. Le piastre che coprivano braccia, gambe e ventre erano nere e opache, mentre il resto era lucido. Non male, dovevo ammettere.
Quando alzai lo sguardo vidi che Lyra aveva la mano alzata, come a scuola.
«Sì?»
 
Ecco...mi è venuto in mente prima, ma...si può bucare il bacino per fare posto alla coda? So che quelli con la coda, quando non la possono usare, perdono stabilità...
 
«È vero, senza coda perdo in agilità.» affermai. «Però non posso lasciarla fuori così, senza protezione. È delicata.»
 
Io pensavo che, magari, si può usare una vecchia plasmafrusta. Se si toglie il dentro degli anelli, poi lì ci può andare la coda.
 
Immaginai i vari procedimenti mentre li spiegava. Era fattibile, per la miseria.
La sua era una proposta terribilmente allettante. Guardai Al.
«Si può?» domandai. Cercai di non sembrare un bimbo implorante, ma non ci riuscii benissimo.
«Anche subito, col necessario.» rispose il kerwaniano. «Però non potrò collegare alcun sistema all’armatura. Sarebbe un pezzo a sé stante.»
«Ma chissenefrega se non è elettronica! L’importante è avercela!» sbottai.
«Non abbiamo mai detto che non può essere elettronica.» mi corresse Clank. «Ma solo che sarà un pezzo a sé stante. Ora non ci conviene, ma in seguito potremmo anche caricarla con qualche trucchetto.»
Oh sì, già mi vedevo con una plasma-coda. Il nemico si avvicina da dietro e...zac! Attivo le componenti della frusta e gli faccio mangiare un po’ di plasma. Così impara a giocare con la mia coda.
«...Sarebbe fighissimo...» commentai sognante. Al che Clank si schiaffò una mano in faccia.
«Tutto sta a trovare una frusta.» obiettò Al. Lyra gli tirò la manica del camice, attirando l’attenzione.
 
Io ce l’ho.
L’ho trovata qualche giorno fa nella discarica e pensavo di ripararla, ma forse è meglio usarla così.
 
«Si può fare?» domandò Clank. «Usare armi vecchie prese nella discarica, intendo.»
La piccola annuì.
«Ce l’hai dietro?» domandò invece Al. Quando la vide annuire, si sgranchì le dita e m’indicò, parlando col mio socio. «Clank, segna sull’armatura dove dobbiamo forare. Lyra, vieni. Ti va di aiutarmi?»
Mentre il robottino mi prendeva le misure, Al e l’umana rimisero a posto il tornio e si fecero spazio sul banco. Quando la famosa plasmafrusta vi fu srotolata sopra, cominciai a smagnetizzare i vari pezzi dell’armatura e a pensare, assieme al mio amico robotico, ad un modo per congiungere la coda al bacino. Due semplici punti di saldatura non andavano bene, visto che mi avrebbe irrigidito la base. Conclusi che ci voleva un aggancio incernierato come quello dell’arma sul manico.
La fase successiva fu quella di provare gli anelli. Togliere i cavi all’interno fu semplice, ma provarli fu una rottura. Infilai la coda dentro la biscia metallica un bel po’ di volte prima di trovare la dimensione giusta, giuppersù a metà della frusta.
Di lì in poi Clank si occupò di riprodurre l’attacco, io di intervenire sul bacino dell’armatura e Lyra di aiutare Al a renderla un organo elettronico indipendente dal resto.
 
Per cena avevamo finito. Dal retro dell’armatura pendeva la copertura della coda: qua e là era annerita dalla saldatura o da bruciature pregresse, ma il solo fatto che ci fosse mi rendeva soddisfatto. Si sarebbe visto solo il batuffolo in fondo, ma non mi dispiaceva. Di sicuro era meglio che avere la coda giù per la gamba!
Ero vicino a Lyra mentre ammiravo il nostro capolavoro custom. Di punto in bianco la agganciai per il collo e la tirai fino ad avere il suo viso vicino. La piccola fremette.
Le piantai l’indice nella guancia. «Visto che non sei inutile?»
E lei, tanto per cambiare, arrossì.
* * * * * *
La cena fu una commedia. Dopo quel ch’era successo al mattino, trascinare Lyra in mensa fu un’impresa. Aveva paura che ci fosse un altro round, questa volta giocato con coltelli e forchette. Oltretutto, al momento in cui ci presentammo nel padiglione della mensa, era l’ora di punta, per cui la piccola era tutt’un fascio di nervi.
Piluccò qualcosa per farci contenti, ma quando la voce di Vox si diffuse dagli altoparlanti per poco non si strozzò.
«Il leader del Team Darkstar venga subito in direzione. E se non sei qui entro...diciamo, cinque minuti, ti faccio saltare la testa!»
Più di una faccia si voltò nella nostra direzione. Tra i tanti c’era anche Kid Nova, che mi fece gesto di sbrigarmi.
Qualsiasi cosa stesse succedendo ai piani alti, Lyra scattò in piedi e mi tirò una manica.
 
Ti faccio vedere la strada.
 
«Veniamo anche noi.» decise Al, alzandosi da tavola. Clank era già in piedi.
Uscimmo dalla mensa senza la più pallida idea del motivo della chiamata. Se fosse stato per una punizione, probabilmente, ci avrebbero fulminato in pubblico e tanti saluti. Invece no.
Lyra ci guidò silenziosamente per i corridoi, attraversando il Padiglione Tre (quello con la mensa) con una calma relativa. Quando entrammo nel Padiglione Due, però, cominciò a muoversi più speditamente, e nell’attraversare l’unico corridoio del padiglione non fece altro che accelerare. Si riscosse solo quando Al chiese perché stessimo correndo, e allora tornammo ad un passo più cadenzato. In fondo al corridoio passammo una pesante porta simile a quella delle celle e, a quel punto, entrammo in uno stanzino minuscolo, dove c’erano solo un’altra porta e un droide di guardia.
«Siamo il Team Darkstar.»
La macchina ci squadrò per un momento, poi rispose: «Solo il capitano può passare. Gli altri devono aspettare qui.»
Aprì la porta al suo fianco, lasciando vedere la piattaforma di un ascensore.
Guardai gli altri e mi forzai di mostrare un sorriso ottimista. «Andiamo, gente! Ci vediamo più tardi!» e saltai sulla piattaforma.
 
Il Padiglione Uno, scoprii, era la sede amministrativa della baracca. Dava direttamente sul Padiglione A (l’arena) ed era fatto come una torre. Ovviamente non passai per uno degli ascensori per gli impiegati, nossignore. Siccome i gladiatori erano una massa di persone pericolose a prescindere, a noi era riservato un ascensore a parte, fatto di vetro antiproiettile, che di dieci piani aveva un’unica destinazione: la direzione.
Visto da fuori, l’ufficio di Vox aveva la forma di un piccolo dirigibile. Visto da dentro, era spartano e foderato di lamiere imbullonate. Visto dal tracciato per gladiatori, invece, era pieno di droidi di guardia: uno nell’ascensore, uno appena fuori (sia al piano terra che al piano della direzione), due fuori dalla porta del suddetto ufficio e uno anche dentro, a fare da scribacchino a quel muso viscido.
 
Quando Vox mi vide, si strofinò le mani.
«Ma bene, eccolo qua...»
«Cosa vuoi?» tagliai corto.
«Mi sono reso conto che, in effetti, ti ho messo in una situazione difficile; quindi voglio appianarti qualche dubbio.» rispose mellifluamente.
Certo, come no. Ce l’aveva scritto in faccia.
Incrociai le braccia. «Ossia?»
Appoggiò i gomiti sul tavolo con aria rilassata, quasi confidenziale.
«Vedi, ragazzo, non sei qui solo per far divertire gli spettatori della galassia.» e fece combaciare le punte delle dita. «Nossignore, così fosse non ti avrei attribuito quell’impiastro, ma una doppietta di robot da combattimento. Per te e i tuoi colleghi ci sono piani leggermente diversi.»
E ti pareva!
Afferrò un telecomando e, ruotata la sedia, accese il megaschermo dietro la scrivania. Apparve il file personale di Lyra.
Guardai la foto, lessi un paio di righe e poi Vox si lasciò andare a una risata raschiante. «Queste che leggi sono tutte informazioni che dovrebbero essere riservate. All’infuori di noi e poche altre persone, nessuno ne conosce l’esistenza. Inoltre, come hai potuto notare, la marmocchia tiene la bocca chiusa.»
Ascoltai con un orecchio solo la sua premessa. I dati sullo schermo mi allettavano molto di più, dal momento che miss tabù ce l’avevo in camera.
«Prima di tutto il nome, perché non presentarsi è maleducazione.» e ridacchiò della sua stessa battuta. «Risponde al nome di Takami Kinomiya. Razza: umana, come hai visto. Nessuna abilità di combattimento; addestramenti ricevuti finora: zero. Ma.» si alzò dalla sedia e indicò una riga in particolare sul megaschermo. «Presenta una dote più unica che rara.»
Portai lo sguardo dove indicava.
«Guardiana del Fulmine.» lessi. «Che cosa significa?»
Azzeccai proprio la domanda che voleva.
Si avvicinò quasi balzellando, compiaciuto a livelli disumani. Mi superò, ma solo per afferrarmi le spalle da dietro. Avere quella chiostra di denti a un soffio dalle orecchie e rimanere immobile mi costò fatica. Era...inquietante. Era come sentire un cubetto di ghiaccio che scendeva lentamente verso lo stomaco.
Ad ogni modo, non fece altro che spazzare l’aria davanti a me con il braccio sinistro.
«Immagina di tornare indietro nel tempo; così tanto indietro che comuni ed esper ancora si rifiutavano di convivere.»
Insomma, stava parlando di qualcosa come cinquanta o sessantamila anni fa; un pezzo di storia che non studiavo da... cos’erano, le elementari?
«Niente federazione, niente comodità moderne, niente circhi come questo.» azzardai. «Andiamo avanti.»
Avevo sentito dire ch’era uno che saltava facilmente, eppure mi sorrise con aria amabile. Sì, beh, un’aria che intendeva anche che non mi avrebbe più fornito spiegazioni; dunque, se non capivo, erano affari miei.
«Come vuoi.»
Hm, un po’ troppo calmo. E un po’ troppo sardonico.
Poi, pigiando i tasti sul telecomando, fece apparire sullo schermo la foto di alcune iscrizioni scolpite sulla roccia. Lasciò le mie spalle e tornò a sedersi, rivolto allo schermo. Nel momento in cui mi tolse gli artigli di dosso, il cubetto di ghiaccio smise di scendere.
«Questo testo viene dalle rovine di Igghar, eppure è stato ritrovato anche in rovine di altre culture diverse. Il testo, che più o meno è sempre lo stesso, dice: “Il terzo dio, con l’ultima stilla d’energia, si scisse. Perduta l’immortalità, generò cinque creature mortali. I cinque avevano fattezze diverse, ma tutti avevano ereditato il potere di dominare gli elementi. Allora se li spartirono cedendoseli a vicenda, finché ciascuno ne poté controllare soltanto uno. Su quell’unico elemento che dominavano, nessuno all’infuori degli dèi poteva eguagliarli”. In altre rovine si fa riferimento al nome “Guardiani”, ed è così che si chiamano ancora oggi, quando si narrano quelle storie.»
«Quindi, stando alle tue parole e una vecchia scritta scrostata, sono in squadra con una specie di dio dei fulmini.»
Annuì. «Bravo.»
Ma per favore! Non può parlare sul serio!
Puntò nuovamente il telecomando allo schermo e fece tornare la schermata con i dati di Lyra (cioè, di Takami).
«Lei è parte di questo meraviglioso pool, che tu ci creda o no.» dopodiché partì per la tangente: «Oh, che idillio per il pubblico sarebbe mostrare un combattimento tra questi titani degli elementi!» disse con aria sognante, subito prima di sbottare: «E invece ho una marmocchia che non ne vuole sapere! Quattro anni che è qui e le saette che ha lanciato si contano sulle dita!» strillò istericamente. «Ho pagato per una macchina da guerra e mi ritrovo con uno scricciolo piagnone!»
Francamente, pensai, quelli erano affari suoi.
Poi, forse perché si rese conto di essere ridicolo, si ricompose. Rassettò il completo di sartoria e tornò a fissarmi.
«Ho tentato in tutti i modi di indurla a usare i suoi poteri. In tutti. Il gioco dei punti bonus è stata l’ultima delle strategie, ma non ha funzionato nemmeno quello.» e tornò a guardarmi. «Quindi è ora di giocare pesante. Se non si schioda neanche così, allora sarà una bocca in meno da sfamare.»
«Questo non mi risolve nessuna domanda, Vox.» gli feci presente. «E poi, non potevi trovarti qualcuno di più adatto a questa risma di scimmie ciclopi?»
«Questo risolve tutto, invece.» rimbeccò. «Ti ho detto con chi hai a che fare e qual è il tuo ruolo. Conosco lei e conosco te: dimostrerai che la mia scelta è giusta.»
O-ho-ho, non ci mettere la mano sul fuoco...
«Adesso togliti dai piedi.» ordinò ancora. «Non sei il solo a cui piace calcare la mano, qui. Ti ho graziato due volte; non farmi cambiare idea.»
* * * * * *
Mentre l’ascensore mi riportava all’ingresso del padiglione, mi domandai se fosse il caso di vuotare subito il sacco.
In mezzo al corridoio però no, è da stupidi. Se non mi becco la scossa per le informazioni riservate, come minimo quell’altra scappa.
Mi dissi che la cosa migliore sarebbe stato parlarne subito, sì, ma in cella.
 
Quando tornai all’ingresso del padiglione, trovai gli altri che ancora mi aspettavano. Vedere le loro facce ansiose mi mise a disagio.
Il morale alto è un successo sicuro! ricordai per riflesso. Però, anche con tutto l’impegno, non riuscii a montare in tempo un’espressione diversa da quella cupa che avevo. Feci semplicemente segno di andare e mi incamminai dritto verso la 6-538.
 
Grazie al cielo non trovammo seccatori per la strada. Chi non era a cena era già in camera, quindi non trovammo gente. Anche il braccio della nostra cella era quasi vuoto. C’erano quelli della 6-541 che parlavano fuori dalla porta, ma non ci riservarono più di un’occhiata.
Meglio così.
Prima di entrare mi assicurai di essere l’ultimo della fila, ed anche quando fummo dentro rimasi vicino alla porta.
Stranamente, non avevo ricevuto domande durante il tragitto. Ma magari Al e Clank avevano pensato che avrei spiegato tutto poi.
Se era così, allora era il momento di accontentarli.
«Okay gente, qui si può parlare.» dissi, poggiando le spalle allo stipite.
«Lo immaginavo.» rispose il robottino. «Cosa voleva Vox?»
«Voleva chiarirmi le idee sui suoi progetti. Sapete, il classico monologo da supercattivo svalvolato.» nel profondo mi venne da ridacchiare, ma non riuscii nemmeno a incurvare le labbra. «Ovviamente per noi ha altri piani. Per me, più che per voi, e questa è la parte buona della notizia.»
«E quella cattiva?» volle sapere Al.
«Ho calcato un po’ con le osservazioni. Credo che adesso siamo osservati speciali.»
«Siamo alle solite.» sbuffò Clank. «Hai dimenticato che Vox avrebbe potuto ritorcere la tua linguaccia contro di noi. Sei incorreggibile!»
«Comunque.» e ripresi la scena. «Ha parlato anche di battaglie grandiose e gente fuori dal comune. È convinto che esistano delle specie di dèi in terra, molto al di fuori della portata degli esper. Ha cercato di convincermi facendo riferimento a una scritta trovata nelle rovine di Igghar. Qualcosa su un dio che si spacca in cinque e che i sottoprodotti poi fanno in modo di controllare un Elemento a testa.»
La bambina fece gli occhi da gufo. Era ora di confrontare i dati di Vox.
«Ne sai qualcosa, Takami?»
Sgranò gli occhi, impaurita.
Mi aspettai che cercasse di scappare, in qualche modo; invece sembrò crollare su sé stessa.
«Takami?» domandò Al. «Ti chiami davvero così?»
La bambina strofinò la manica sugli occhi e rimase inerte per qualche secondo.
A sorpresa, mostrò il vambrace.
 
Posso toccarti la fronte?
 
Uh? Che richiesta era?
«Perché?»
 
Il mio nome è un segreto. Chi lo conosce, alla fine rimane intrappolato in un casino che lo uccide.
Non voglio che succede di nuovo.
Quindi vorrei sapere una cosa, però ti devo toccare la fronte.
Se ti piace di più, puoi chiamarla macchina della verità.
 
«E dopo non ci saranno più tabù?»
Fece segno “sì e no” con la mano.
 
Però posso promettere che saranno tanti di meno.
 
Diedi il permesso. Tanto cos’avevo da perdere?
Fu questione davvero di trenta secondi: mi mise la mano sulla fronte, chiuse gli occhi e si concentrò. Quando li riaprì, la sua unica reazione fu un sospiro rassegnato.
«Che c’è?»
 
Hai davvero il suo permesso.
 
«Te l’avevo detto, no?»
A quel punto mostrò un inchino a me e uno ai miei soci. Ingrandì l’oloschermo proiettato, in modo che tutti leggessimo bene, e scrisse:
 
Il mio nome, quello vero, è Takami Kinomiya. Sono la Guardiana del Fulmine.
Mi dispiace di avervi nascosto la verità, ma i Guardiani sono un segreto per cui tanta gente è morta.
 
Fui io a sgranare gli occhi, a quelle parole.
Vox aveva...detto la verità?
Sul serio?!
Mi rifiutai di crederlo. Doveva essere andata in un altro modo, per forza. Non era ammissibile ciò che diceva.
 
Per favore, promettete che rimarrete in vita!
 
La guardai con un sopracciglio piatto e l’altro ad archetto, così come Clank e Al.
«Credo che ti abbiano preso in giro, Takami...» tentai di farla ragionare.
 
Non mi hanno preso in giro! È tutto...tutto così schifosamente vero!
È che non voglio usare i miei poteri per uccidere! Ci si sta tanto male, e io non voglio stare ancora male!
 
...povera cucciola.
Era tutto quel che riuscivo a pensare vedendola così disperatamente convinta.
Insomma: era chiaro a tutti che non potessero esistere esper in grado di criccare qualcuno senza l’ausilio di un oggetto o una condizione. Nel suo caso, visto che era un’elettrocinetica, magari le serviva un conduttore...che ne sapevo, un po’ d’acqua ai piedi del poveraccio da spedire negli inferi.
E invece Vox e la sua banda si aspettavano davvero di avere a che fare con una specie di semidio.
Un semidio a cui io dovevo tirare fuori i poteri; che mi guardava con la faccia impomatata e le lacrime già pronte agli angoli degli occhi.
 
È sicuro: il dio delle situazioni di merda mi ama. Altrimenti come potrei, io, comune mortale, trovarmi in questi casini senza manco muovere un dito?

 

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Capitolo 7
*** | Capitolo 06 | Stringo un accordo ***


[ 06 ]
Stringo un accordo
(perché, se le cose non si complicano, non va bene. Che universo infame)
 
Il giorno dopo, 4 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, cella 6-538
 
Un’altra sfolgorante giornata stava per iniziare...e io mi sentivo uno straccio.
Erano le sei quando mi trascinai in bagno. Lo specchio mi restituì l’immagine di qualcuno sciupato dagli incubi: la prova innegabile che non avevo dormito quasi per niente.
Tante delle cose successe il giorno precedente non sapevo come prenderle. Già sapere che Vox non aveva fatto un monologo senza senso era stato uno shock, ma quello ch’era uscito dopo era stato addirittura peggio.
Repressi uno sbadiglio e massaggiai piano le tempie, disegnando piccoli cerchi coi polpastrelli. Che diamine, quello dei dati in blocco era Clank! Io dovevo sorbirli a poco a poco, altrimenti non dormivo e mi beccavo un’emicrania. Cosa che, puntualmente, era successa. E non avevo la più pallida idea di dove fossero le medicine.
Oddio, no, non proprio.
Takami si era allungata verso il pensile vicino allo specchio, quando aveva preso la roba per tamponare la ferita. Magari era lì che teneva le medicine.
Aprii il mobiletto, speranzoso, e... bingo! Sul ripiano in cima c’era una scatola che prometteva di contenere svariati medicinali.
Sì, sul ripiano più alto di un pensile appeso dal club “altezza media: due metri e una spanna”.
Potevo allungarmi fino allo sfinimento: se non mi fosse venuta la telecinesi da un momento all’altro, non avrei mai tirato giù la scatola. Alla fine azzittii l’orgoglio e posizionai lo sgabello.
Trovai le compresse che facevano al caso mio e ne trangugiai un paio.
Sollievo, dolce sollievo.
Sapere che di lì a poco i farmaci avrebbero fatto effetto mi fece sentire come se avessero cominciato subito. Soddisfatto dell’effetto in arrivo, tornai a letto: prima che me ne accorgessi, mi addormentai di nuovo.
 
Quando mi svegliai, scoprii che la branda sopra la mia era vuota.
Capii il motivo quando adocchiai l’ora. Erano quasi le nove.
Seduta al tavolino, Takami smanettava di nuovo attorno al vambrace. Quando mi vide, anziché chiudere tutto come il giorno prima, fece un timido cenno di saluto con la mano.
«’giorno...» buttai lì. «Andiamo a fare colazione?»
La bambina si guardò attorno in ogni dove prima di materializzare un’altra schermata verdolina.
 
Mi dispiace, ma...la mensa ha chiuso alle nove.
 
Grugnii un paio di accidenti agli orari e al sonno mancato.
«E perché non mi hai svegliato?»
Incassò la testa fra le spalle.
 
Non si sveglia la gente senza motivo. È una regola.
 
«Ma anche “non saltare i pasti” è una regola.» brontolai. «E viene prima di “non svegliare la gente senza motivo”.»
 
Non lo sapevo, mi dispiace. Cercherò di ricordarlo.
Quindi, se è per la colazione, posso svegliarti?
 
«Sì. O vado in crisi alle undici.» risposi. Mi accorsi che aveva sgranato gli occhi a mo’ di gufo. «Non fare così, non muoio. È che perdo di riflessi.»
 
...ah. Pensavo che ti sentivi male.
 
«Nient’affatto!» ci mancava anche quello!
Decisi di cambiare discorso e indicai le tante schermate verdoline che si erano rimpicciolite quando aveva aperto quella per rispondermi. «Che roba è?»
 
Sono ricerche sui Guardiani.
 
Ancora quel nome!
Schioccai la lingua. «Ma figurati se esistono!»
Toccai il tasto sbagliato col tono sbagliato. Per la prima volta la vidi stringere i pugni. Per la prima volta da quando l’avevo conosciuta la vidi corrugare le sopracciglia, pronta a difendere le sue idee.
 
Invece esistono!
Mio papà lo era prima di me, e mi diceva sempre che lo sono!
E mio papà non ha mai detto bugie!
I Guardiani esistono!
 
Le guance cominciarono a crepitare scintille. Sospettai che stesse per lanciarmi col suo effetto elettromagnete, invece finì col tormentarsi le mani e guardare in basso, sconsolata.
 
È solo che l’universo ci ha dimenticati, e quelli che si ricordano di noi vogliono i nostri poteri per farci quello che vogliono...
 
Mi tornarono alla mente le parole che aveva proiettato la sera prima.
 
“Tanto tempo fa (ma tantissimo) c’erano interi mondi che ci conoscevano. Alcuni ci pregavano anche come si fa con gli dèi, ma poi il tempo è passato e la gente ha cominciato a pensare che eravamo solo leggende, o esper con le doti allargate.
La gente stava smettendo di credere nelle proprie divinità, quindi tutto ciò che non si poteva dimostrare stava diventando inutile. «Se non puoi vederlo, allora non esiste». È stato così che l’universo si è dimenticato di noi. Siamo in cinque e l’universo è tanto grande...e oltretutto non è neanche detto che siamo tutti nella stessa zona! Però noi abbiamo continuato ad esistere. Vita dopo vita, epoca dopo epoca, i nostri poteri hanno continuato a passare dai genitori ai figli. E oggi siamo ancora qui, e sembra che siamo tutti nelle Galassie Unite. Almeno, Loro lo dicono. Dev’essere vero.
Per favore, non chiedete chi sono Loro: non voglio che ci avete a che fare. Ce l’hanno con noi, coi Guardiani, per qualche motivo vogliono i nostri poteri. Quando mi hanno portato qui, sapevano chi sono i Guardiani del Tuono, dell’Aria e della Terra, ma non quelli del Fuoco e dell’Acqua.
So che aspettano che i miei poteri raggiungono un certo livello, poi non lo so cosa vogliono fare. Non lo so se vogliono uccidermi e prendersi i miei poteri, o se vogliono manovrarmi come un burattino.
Finché non raggiungo quel livello, però, non mi verranno a cercare, ed è per questo che ho smesso di usarli. Ma degli altri non so niente, e ora Vox vi ha tirato in mezzo. Forse Loro lo hanno minacciato. Non lo dice, ma fanno paura anche a lui”.
 
Era stato un dialogo fuori dal mondo. Tante cose non le avevo nemmeno capite.
Ero convinto che il suo pensiero fosse frutto di un condizionamento, ma nelle sue parole (e nella sequela di espressioni con cui le aveva proiettate) c’erano stati una franchezza e un dolore che mi avevano spinto a riflettere, a chiedermi se fosse stata davvero la verità, quella.
Poi, fatti due conti col mio vissuto, avevo concluso che non fosse possibile una cosa del genere. Anche Clank, con le sue obiezioni, aveva avvallato le mie idee. Ero sicuro che ci sarebbe rimasta male quando la realtà l’avrebbe smentita col suo brusco savoir-faire.
 
La bambina dovette scuotermi per le spalle perché tornassi presente. Non mi ero accorto di essere rimasto in silenzio a lungo: la mia mente aveva preso la strada da sola (cosa strana), e la piccola si era preoccupata.
 
Stai bene?
 
Mi affrettai a tranquillizzarla, prima che entrasse in iperventilazione, e cambiai di nuovo discorso. «Che dici, cominciamo l’addestramento?»
S’illuminò, manco le avessi fatto il regalo più bello del mondo. Lungo i corridoi, se non avessi visto i suoi piedi saldamente attaccati al suolo, avrei detto che saltellava.
* * * * * *
Ore 11 e qualcosa
Padiglione 2, palestre
 
Era frustrante.
No, cazzo, che c’era di difficile nell’assestare un pugno? Piedi larghi, spalle in avanti e Pow!, morta lì.
Invece no!!!
Ma non l’aveva un po’ di rabbia in corpo? Picchiava come una formica, mondo schifo!
E io cominciavo ad avere fame.
E non ero propenso a vedere ancora quei pugnetti da neonato. Nossignore.
 
Idea!
Ci voleva qualcosa da colpire. Che ne sapevo, magari un saccone di quelli da boxe, pieno di sabbia.
Sì, ecco, quello. Proprio quello.
Osservai la sua serie molliccia di pugni al vento, maledicendo l’idea di insegnarle qualcosa che manco un miracolo le avrebbe fatto apprendere. Più la guardavo e più mi convincevo che era un caso disperato.
Alla fine, quando evidentemente il conteggio arrivò a zero, prese a massaggiarsi i muscoli.
«Ti serve un sacco da boxe, così ti renderai conto di quanto sei debole.» sputai. «Come ce lo procuriamo?»
 
Ce ne sono alcuni in giro per le palestre. Posso cercare una stanza che ce l’ha, se vuoi.
 
«Sai quali sono?»
Denegò.
 
Ma è attrezzatura extra. Di sicuro sono su di sopra.
 
Al che qualcuno bussò al muro. Non era qualcuno delle stanze di fianco volato contro la parete, no, è che mancando la porta ci si presentava così. O col classico raschietto da laringite.
Nella fattispecie c’era un rilgarien in armatura gialla. Doveva essere di mezz’età, ma una ragnatela di rughe in faccia lo faceva sembrare più vecchio. Lo squadrai con l’aria abbastanza truce. «Che vuoi?»
Il rilgarien tirò fuori un sorriso sghembo. «Amico, ti devo ringraziare.»
Davvero? «E per cosa?»
«Hai scartavetrato il culo a Skìos. Solo per questo hai la riconoscenza di parecchi.» Si avvicinò e tese la mano. «Sono Basher, è un piacere conoscerti.»
Aveva qualcosa, nel modo di parlare, che compensava gli anni dati dalle rughe. La voce, forse. Oppure il modo confidenziale da ventenne. Fatto stava che avevo l’impressione di trattare con un mio pari. Per questo ricambiare la stretta mi venne spontaneo. «Piacere, Ratchet.»
«L’avevo sentito.» disse. Poi, con una strana naturalezza, lanciò qualche occhiata alla stanza. «Perché non venite nel mio buco?»
«Qui non va bene?»
Sorrise, sornione. «Potrebbe. Ma di là ho il saccone che vi serve.»
Scambiai un’occhiata con Takami. Beh, ci provai, perché aveva gli occhi incollati al rilgarien. Però non lo studiava come una preda pronta a scappare, nient’affatto. Era quasi in adorazione.
Qualcosa doveva pur significare, no?
Feci cenno a Basher di precederci. «Dopo di te, amico.»
 
Il suo cubicolo era quello a cui avevo fregato l’onnichiave energizzata. Dentro c’era un altro umano. Come ci vide smise di usare la panca piana e scattò in un saluto militare.
«Lui è Nokki, la mia spalla.» spiegò il rilgarien. «Era un soldato, non dateci troppo peso.»
Gli assestò un colpetto col dorso della mano. «Andiamo, non c’è bisogno d’essere formali.»
Nokki aveva la faccia di uno appena uscito dall’Accademia e quel tipo di fisico forte ma che nasconde i muscoli; quello che io, nell’ignoranza, chiamavo strincoso. Non tese la mano, e io feci altrettanto. In compenso, però, salutò apertamente Takami.
La sensazione che non fosse nuova a quella squadra si solidificò un secondo dopo, quando Basher la prese da parte e lei non sobbalzò per nulla. «Okay, Ninnola, ti rubo l’eroe per un minuto. Tu intanto prova a picchiare contro quello.» e indicò il saccone appeso in un angolo. Takami annuì volenterosamente.
«Nokki, stalle dietro.»
Vidi il ragazzo gesticolare brevemente. Non sembrava il linguaggio dei muti, ma a quanto pare fu sufficiente a farsi capire. Qualsiasi cosa stesse dicendo, a Basher piacque.
«Sì, è così. Deve imparare le basi. Spiegale qualcosa.»
L’umano annuì, poi il rilgarien mi abbrancò per le spalle e mi portò a fare un giro. La sua stretta era quella di una morsa idraulica: l’unico modo per fuggire sarebbe stato lasciargli un pezzo di braccio. Per fortuna era un amico.
«Tranquillo, voglio solo parlare. E quei due si conoscono da un bel po’.»
Quindi non rompere era sottinteso.
Fuori dal suo cubicolo prendemmo verso il resto del piano.
«Non torniamo giù?»
Mi squadrò come fossi un povero idiota. «E a che pro?»
«Bah, che ne so. Per parlare un po’ più in privato, magari.»
«Fidati amico, se vuoi la privacy devi stare in mezzo alla gente. Oppure il grande capo può diventare un grande problema.»
«Intendi Vox?»
«Lui e i suoi Sterminatori. Se non vuoi problemi tieni il profilo basso e di’ le cose importanti come fossero chiacchiere. Magari in un posto piuttosto affollato. Sai, le telecamere non sono proprio l’ultimo modello, e l’audio lascia un po’ a desiderare.»
Mi tornò in mente il raid nel nostro alloggio. Le guardie avevano accusato Takami, ma il guasto era di natura puramente tecnica. Facendo due conti, Basher aveva ragione. Il miglior posto dove nascondere una parola era il chiacchiericcio.
«Bene, veniamo a noi.» riprese, mentre mi guidava lungo il corridoio a serpentina. «Se ancora non lo sai, qui è tutto un gioco di classifica. Quando sei nell’arena, combatti per i punti. Quando giochi delle sfide extra, lo fai per i punti. Quando sconfiggi gli avatar degli Sterminatori, becchi un tot di punti e sali di grado. Gli Sterminatori sono la top-four, ma subito dietro vengono i Gladiatori Nobili. Ora concentrati su di loro: numeri cinque, sei e sette di DreadZone. In condizioni normali non ti calcolerebbero, per lo meno finché non minacci la loro posizione, ma lo spettacolo di ieri non ti ha garantito la loro simpatia.»
Non riuscii a trattenere uno stupidissimo sorrisetto soddisfatto. «Lo credo anch’io.»
Il mio sorrisetto si rivelò contagioso, perché se ne dipinse uno anche in faccia a Basher.
«Però ti sei beccato la nostra, di simpatia.» disse. «Io e Hydro Girl siamo in coda ai nobili, ma vorremmo buttarli giù dai troni.»
Quindi stavo parlando con il numero otto o nove di DreadZone. Figo!
Basher proseguì: «Tu puoi aiutarci. E noi possiamo aiutare te.»
Interessante. «Come?»
«Contiamo di sorpassare Sthenox al prossimo giro di giostra. Possiamo farcela; i punti di differenza sono pochi. Però, vedi, ci vorrebbe un certo margine di certezza che i nobili non diano sostanziosi aiuti extra al loro socio. Se lo facessero, noi verremmo sbalzati di nuovo a distanza di sicurezza.»
«Immagino che questo sarebbe compito mio.»
«Esatto.»
«E... supponiamo che riesca a distrarli per il tempo che vi serve. Nel mentre voi scalzate Sthenox e vi prendete le vostre posizioni e tutto quel che viene insieme. Che ci guadagno io, alla fine?»
Basher contò sulle dita: «Uno: protezione. Perché quei tre sono sotto il favore di Vox. Due: punteggi gonfiati del trenta percento finché non arriverete a combattere contro l’avatar di Skleroshock.»
Era tanto per quello che chiedeva. Dov’era la fregatura?
«Tutto pulito.» disse, come se avesse sentito il mio dubbio. «La tua parte sembra semplice, ma ti assicuro che non lo è affatto.»
Ecco spiegato perché il mio premio era così grosso.
«Allora, ci stai?»
Siglammo l’accordo con una stretta di mano e riprendemmo a camminare. Arrivammo più o meno a metà del piano, poi Basher mi fece fare dietrofront. Oltre si allenavano i Gladiatori Nobili e la loro corte di leccapiedi, disse, e concordai con lui quando aggiunse che non era il caso di farsi vedere.
Pensare a loro (soprattutto a Oplon e la sua forza) mi diede il prurito alla faccia. Presi a massaggiare il cerotto e, nel frattempo, ripresi il discorso. «Di preciso: quanto tempo ho a disposizione?»
«Bah, tre settimane buone. Prima di allora i nostri punteggi non saranno abbastanza vicini. Anche un mese, forse. Dipende da quanti punti fa Sthenox nel frattempo.»
Implicitamente, quindi, dipendeva da quanto riuscivo a inimicarmi Skìos e Oplon. Nessun problema: se mi fossi messo d’impegno sarebbe bastata anche una settimana. Il punto era che avrei dovuto passare il mio tempo a insegnare a Takami anche le basi delle basi...altrimenti cos’avrei fatto al momento del test pre-arena?
Glissai. Di sicuro una soluzione sarebbe venuta fuori.
 
Tornammo nel cubicolo di Basher. Quant’era passato: quindici minuti, venti?
Takami aveva le mani gonfie, segno che si era data da fare fin troppo contro il saccone. Aveva gli occhi lucidi, che dicevano “dolore dolore dolore”, ma quando mi vide allargò un lieve sorriso.
«A mani nude?» mi uscì, abbastanza scettico.
Basher portò le mani ai fianchi e si rivolse a Nokki con disapprovazione: «Oh, andiamo! Come t’è venuta in mente ‘sta cazzata?»
L’altro gesticolò per qualche istante, in silenzio.
«E tu dovevi rifiutare! Stragalassia, non ci dovevano essere problemi!»
Il ragazzo (anche se chiamarlo ragazzo era un eufemismo) ripeté alcuni gesti.
«Ennò, cazzo! Sono biglie di ferro quelle nel saccone, lo sai! È dura anche coi guanti!»
 
Per favore...ti prego, non te la prendere con lui.
Me lo aveva detto, ma ho insistito per fare senza.
 
L’oloschermo attirò l’attenzione del rilgarien, ma non ne mitigò affatto l’umore. «Allora sei un’incosciente! Una masochista, ti piace proprio farti del male!»
Takami incassò la testa fra le spalle.
«Ninnola, se vuoi continuare a usare il mio saccone, stai alle mie regole e usi le protezioni. Intesi? Non voglio mandare a monte gli accordi perché vuoi romperti qualche osso.»
Lei annuì.
 
Chiedo scusa...
 
«Non!!!» in un accesso d’irritazione alzò le mani, pronto a colpire. Poi, però, si fermò.
Si prese il tempo di respirare profondamente e riportare le mani sui fianchi, poi tirò fuori un insospettabile tono paziente: «Te l’ho detto un milione di volte: non è che devi fare e poi chiedere scusa. Non fare e basta!»
La bambina nascose le mani dietro la schiena. Se possibile, incassò ancora di più la testa.
 
Scusa. Cercherò di ricordarmelo.
 
Il rilgarien alzò gli occhi al cielo, imprecò in dialetto e incrociò le braccia.
«Amico, avrai parecchio da fare. In bocca al lupo.» brontolò a mezza voce.
«Lo so. Crepi.»
* * * * * *
Ore 12 e qualcosa
Padiglione 6, cella 6-538
 
Appena entrammo in cella, ordinai a Takami di aspettarmi al tavolino. E lei, da brava bambina, si sedette ad aspettare.
M’infilai in bagno e tornai indietro con la scatola dei medicinali. Dopo la rimproverata di Basher si era infilata i guantoni, ma le nocche e le falangi erano livide e gonfie, quasi in concorrenza con la faccia. Le feci poggiare le mani sul tavolino. Non ero un medico, ma sentivo di poter fare qualcosa. Così ne afferrai una e presi a muoverle le articolazioni, per vedere se ci fosse qualcosa di più oltre ai lividi.
 
Ho paura di aver messo Nokki nei guai.
 
«Ma no, figurati. Mica l’hai costretto a rubare.»
 
Però Basher era arrabbiato.
 
«No che non era arrabbiato. Era preoccupato.»
 
...Ah. Preoccupato.
Non lo sapevo che si era preoccupati anche così.
 
«Sì, a volte succede. Quando un amico si fa male in modo stupido, alle volte si esprime la propria preoccupazione prendendosela con lui.»
Mentre le muovevo le dita, mi venne in mente un flash: due mattine prima aveva rifiutato che mi avvicinassi alla branda, diffidente come un animaletto selvatico. In quel momento, invece, era tranquilla. Me ne compiacqui.
 
Quindi non ho rotto l’accordo che hai fatto con lui...
 
Mi accorsi della schermata con un po’ di ritardo. Mi appuntai di chiedere a Clank e Al di fare qualcosa al più presto.
«No. Ma non l’avrei rotto nemmeno se ti fossi troncata due dita.»
La bambina chinò di colpo lo sguardo e io le presi l’altra mano per esaminarla.
«Non me lo sarei potuto permettere.» spiegai. «Gli Sterminatori ce li ho contro a prescindere, e ai Gladiatori Nobili gli sto sul culo. Se mi gioco anche gli ultimi due ho contro tutta la top ten. Capisci che avrei rotto l’accordo solo in un caso estremo.»
 
Quindi hai fatto un accordo di salva...guardia?
Si dice salvaguardia, vero?
 
«Sì sì, si dice.» ridacchiai. «È proprio così: io aiuto loro e loro aiutano noi.»
 
Come? Me lo puoi dire?
 
«Potrei.» Dopotutto Basher mica m’aveva vietato di parlarne. «Ma non è il caso. Devi concentrarti e imparare a difenderti, ora.»
 
Nokki dice che non imparerò mai.
Secondo lui sono troppo buona.
Quando lo dice ride, ma secondo me ci crede davvero.
 
E probabilmente era vero. Per quello che avevo visto, non avrebbe ammazzato un ragno; figuriamoci un essere pensante!
«Beh, se dice il vero, allora siamo nei guai. Tu cosa credi?»
 
Io...forse sì, non lo so.
Però so che picchiare il saccone fa male.
 
Finii la mia ispezione anche all’altra mano e constatai che non aveva nulla di rotto. Presi una pomata dalla scatola e le porsi il barattolo aperto. La osservai intingere le dita e poi ungere le zone livide.
 
Perché picchiare il saccone fa così male?
 
La domanda mi colse di sorpresa. Non era evidente la risposta?
«Perché è pieno di ferro. Hai sentito Basher.»
 
Anche le persone sono così dure?
 
«Non così. Però fa male lo stesso, quando sei a mani nude. Diciamo che, se smuovi il saccone, a maggior ragione smuovi anche una persona.»
 
Pensavo che a picchiare una persona si faceva male solo chi le prendeva.
 
«È per questo che non hai voluto i guanti?»
Lei fece vibrare una mano. “Più o meno.”
 
È che poi non ci sono guanti protettivi nell’armatura.
È meglio che comincio a mani nude fin da subito, no?
 
«Ma ci si può fasciare le mani prima di indossare la corazza. Non è come avere i guantoni, ma fa meno male lo stesso.»
 
...ah.
E com’è sparare? Fa male anche quello?
 
«Solo se ti becchi il phaser. In realtà si sente solo un lieve contraccolpo.» replicai ridacchiando. Poi, vista l’ora, decisi che era tempo di andare a mangiare. «Vieni, andiamo in mensa. Ho una fame che ci vedo doppio.»
Okay, scelsi male le parole. La piccola si mise subito in allarme.
 
Non stai male, vero?
 
Mi schiaffai una mano in faccia.
* * * * * *
Ore 18 e qualcosa
Padiglione 6, cella 6-538
 
La lezione di tiro del pomeriggio non andò bene, anzi. Avevo sperato che fosse messa un po’ meglio (dopotutto era lì dentro da quattro anni), invece era uno zero assoluto.
Non solo mancò tutti i bersagli, ma si fece mettere sotto dalle parole di scherno degli altri gladiatori. Le dissi di ignorarle, che doveva concentrarsi, che nessuno nasce imparato. Continuai a ripeterglielo per quasi tre ore, ma non ci fu niente da fare. La vidi provare, all’inizio, a darmi retta, ma per qualche motivo le parole degli altri erano più importanti delle mie. L’ignorare stoico divenne un moto di testardaggine, un debole rifiuto e infine sfociò nell’avvilimento.
Oh, che incazzatura!
E non solo per la sua mollezza, ma anche per l’accanirsi degli altri. Cos’era, un gioco a chi vanificava meglio i miei sforzi?!
Ma che andassero tutti al diavolo!
Takami non voleva ascoltarmi? Benissimo. Visto che le mie parole non contavano mi feci da parte, in silenzio. Guardavo lei, ascoltavo quelle carogne in armatura e maledicevo l’universo.
La piccola non resse più di un’ora; poi, con la scusa di cercare un nuovo caricatore, sparì. Mi limitai a prendere il suo posto. Se lei non faceva un centro, io ero talmente irritato che non ne mancavo uno. Mi prefiggevo la gamba? Centro. La spalla? Centro. La testa? Doppio centro, dritto negli occhi.
E poi, ciliegina sulla torta, ecco spuntare Skìos col suo risolino arrogante.
«Arrabbiato?»
La tentazione di corcarlo e usare i proiettili come tante supposte fu davvero forte.
«Pericoloso.» risposi a denti stretti.
«Certo, come no.»
Si accomodò senza permesso, lanciò un’occhiata al bersaglio e materializzò una vipera. Dieci secondi dopo, il bersaglio segnava di essere stato colpito con precisione in ogni punto vitale. Come avesse fatto, con i capelli che gli coprivano totalmente un occhio, lo sapeva solo lui.
Al ché si voltò verso di me e fece ruotare l’arma fra le dita.
«Ho sentito che Basher è venuto a cercarti.»
«È un vecchio amico.» mentii.
«So cosa ti ha chiesto. E non lo farai.»
La voce si riempì di sarcasmo. «Tu dici?»
Sogghignò. «Non se hai a cuore la tua vita.»
E indicò il bersaglio con un cenno di testa.
Il testosterone raggiunse il pianeta più vicino. Chiamai un nuovo bersaglio e sparai, crivellandolo con la stessa precisione e la stessa velocità dimostrata dal cazar. Dopodiché sbattei la vipera sul pianale della linea di tiro.
«T’ho già preso a calci.» sputai. «Apri pure il secondo round. Vederti piagnucolare mi darà soddisfazione.»
La mia reazione, evidentemente, non fu quella desiderata. Il ghigno di Skìos virò verso il basso.
«Vedremo.»
Lo guardai sparire a passo sostenuto, orgoglioso e soddisfatto del mio operato.
Avrebbe fatto meglio a prepararsi, se voleva lo scontro; perché era per quello che mi ero impegnato e, favore di Vox o meno, avrei imparato a sputare fuoco, se si fosse reso necessario.

 

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Capitolo 8
*** | Capitolo 07 | Finisco nel compattatore ***


[ 07 ]
Finisco nel compattatore
(uccido Skìos. Rivedo ciò che penso di Basher)
 
Il giorno dopo, 5 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, cella 6-538
 
Al mio risveglio trovai la branda di sopra vuota. L’orologio sull’olovisore segnava le otto e qualcosa.
Grugnii. Il risveglio non era mai piacevole, o reso tale dal profumo del caffè. C’era qualcosa di intrinsecamente sbagliato.
Però c’era una sorpresa che mi aspettava, sul tavolo. Una divisa nuova, piegata in quattro. Sopra c’era un foglietto scritto con uno stampatello piuttosto malfermo:
 
Spero di non aver sbagliato taglia.
Scusa se non ti ho svegliato.
 
Non era propriamente un caffè, però era un pensiero carino. O, guardandola da un altro punto di vista, un’offerta di pace.
La sera prima non ero stato un galantuomo. Tra il testosterone a manetta e il nervoso accumulato, ero stato piuttosto mordace. E lei si era convinta che fosse colpa sua. In parte lo era – inutile negarlo – ma pensavo di aver chiarito dove finissero le sue responsabilità e cominciassero quelle degli altri gladiatori.
Evidentemente non era così.
 
Dopo essermi dato una pulita andai a fare colazione, convinto che la bambina fosse in mensa.
Sbagliavo di nuovo. Però c’era Al.
«’giorno.» smozzicai, sedendomi davanti a lui.
«Ciao...» biascicò lui, prima di coprire uno sbadiglio con la mano.
Uno schermo olografico mi chiese se ero appena arrivato. Cliccai sul sì e una seconda finestra m’invitò gentilmente a sottopormi al test biometrico. Tzé! Come se mi fosse concesso di rifiutare!
Infilai di malavoglia il dito nella fessura, in attesa che mi spillassero qualche cellula. Pochi secondi dopo ricevetti una scodella piena, a conferma che non stavo cercando di fregare una razione extra.
La pappa era grigia e grumosa. Ne tirai su un cucchiaio. Galassia, poteva essere nutriente e tutto quel che volevano, ma l’aspetto e il modo in cui si attaccava al palato erano rivoltanti.
«Dov’è finito il mio caffè annacquato?» gemetti.
Al ridacchiò sommessamente. «Adesso lo rimpiangi, eh?»
«Tu no?» borbottai.
Sbadigliò e si passò una mano fra i capelli: se avesse esploso una scatola di miccette avrebbe ottenuto lo stesso risultato.
«Ah, ho finito i lavori al collare.» aggiunse con noncuranza. «Takami l’ha già indossato. Dovresti sentirla parlare, sembra che non l’abbia mai fatto.»
Registrai l’informazione senza commentare e Al andò avanti col discorso.
«E poi ho messo a punto le armature. In particolare, la tua coda mi ha dato grandi soddisfazioni.»
Giocherellò un pochino col cucchiaio prima di tuffarlo nella pappetta. Solo in quel momento, guardando come il cucchiaio cadde nella ciotola, mi resi conto di quanto fosse a pezzi. Sembrava che non dormisse da giorni, e d’un tratto l’ipotesi non mi sembrò inverosimile.
«...i bersagli.»
Caddi dalle nuvole. Mi ero perso dietro la sua salute e non avevo ascoltato una parola.
«Eh?»
Sorrise.
«Clank.» ripeté. «Ti aspetta nella nostra cella. Ha piazzato un bersaglio per l’esercitazione.»
Abbozzai, in qualche modo, e tornai alla mia colazione.
Esercitazione? Che esagerato... proprio a me fa fare pratica?
* * * * * *
Padiglione 4, cella 4-723
 
Entrai nella cella dei miei amici e mi annunciai con un sonoro «Ehi, Clank! Sei in casa?»
Poco dopo comparve da sotto il banco. Aveva estratto l’elica superiore e si era sollevato sopra il pianale, alzando una folata d’aria.
«Oh, buongiorno.» asserì con un cenno di mano. «Ti manda Al?»
«Già.»
«Allora saprai già delle modifiche.»
La coda ebbe un leggero fremito. «Err...diciamo di nì.»
Guadagnai un’occhiata dubbiosa.
«Ma non vedo l’ora di provarle!» aggiunsi di corsa, alzando le mani per schermirmi.
«Hmm...» e, infine, annuì. «Vieni con me.»
Mi fece strada fino alle armature, che sembravano ammiccare dai manichini. Una caterva di cavi le collegavano alla postazione del Tecnico. Sullo schermo del grosso computer alcune stringhe di dati andavano e venivano senza sosta, ad una velocità che rendeva difficile leggerle.
Mi persi a rimirare la mia corazza: il pettorale ampio, il bacino, i gambali. E dietro c’era la coda. Ci avevamo lavorato sodo; potevamo esserne fieri.
Clank mi lasciò fare.
«Ho assimilato il regolamento integrale.» disse. «Usare vecchie armi per personalizzare la corazza non è vietato, purché le modifiche non entrino in conflitto con i chip di controllo impiantati dai tecnici DreadZone.»
Afferrò la coda metallica e la fece scorrere fra le mani finché non raggiunse il “batuffolo”. Erano due coni attaccati per la base: quello più interno era nero; quello più esterno metallizzato.
Alzai le sopracciglia, stupito. Non ci potevo credere, mi avevano corazzato anche l’ultimo ciuffo di peli!
«E...e questo non interferisce, giusto?» domandai.
«Ti dirò di più: non solo non interferisce, ma abbiamo trovato il modo di collegarlo ai sistemi dell’armatura.»
Porca miseria galattica...
«In...che modo?» chiesi ancora, mezzo assente per la meraviglia.
«Il sistema di fuoco è vocale. Punti la coda, dici “shot” e parte il phaser.» disse.
Mi cadde la mascella.
«La mia coda spara?»
Clank annuì e la mia mente partì in quarta: già mi vedevo sul campo di battaglia, i proiettili vorticanti come gocce di pioggia, col nemico che si avvicinava a tradimento alle mie spalle...
«Però ci sono dei limiti.»
...fine della visione. Tirai un accidente. «Sarebbero?»
«Diciamo che sono un pro e un contro.» spiegò. «Il pro è che avrai la potenza di fuoco di un fucile di precisione. Il contro è che avrai solo tre colpi.»
«Solo tre?»
Clank annuì. «Abbiamo riutilizzato le batterie della plasmafrusta, che però non si ricaricano da sole. Finché sei qui, con la corazza collegata al computer, non c’è problema; ma nell’arena dovrai stare attento al consumo. Più in là potremmo impiantare qualche sistema generatore sull’armatura, ma ora non abbiamo i mezzi per farlo.»
«Senza contare che la indebolirebbe.» notai. «Vabbé, mi farò bastare i tre colpi.»
«Mi raccomando: se non hai il casco, non potrai usare il comando vocale. Cerca di non romperlo, d’accordo?»
«...ci proverò.»
Era una promessa vana. Sapevamo entrambi che l’avrei sbriciolato.
 
Indossai la corazza e premetti il tasto che materializzava il casco. Nel campo visivo, in basso a sinistra, c’era una barra divisa in tre spezzoni. Sopra c’era la scritta CODA.
Si vedeva che era un’aggiunta artigianale, ma ispirava. Ricordava i parametri degli sparatutto con cui giocavo da bambino.
Tutto ciò non fece che caricarmi ulteriormente. Galassia, un altro po’ e avrei cominciato a fare scintille. Clank se ne accorse.
«Là ho disegnato due bersagli che, credo, ti piaceranno.»
Mi voltai verso dove aveva indicato e scoppiai a ridere. Nefarious e Nurse Shannon facevano bella mostra di loro su una caterva di lastre saldate, disegnati con un gessetto in un casquè da tanguéri professionisti.
Erano semplicemente irresistibili. Puntare la coda ed esclamare «Shot!» fu naturale.
Un’ondata di calore viaggiò dal bacino fino al batuffolo, poi il phaser partì. Una frazione di secondo dopo un buco profondo venti centimetri aveva scalfito la super lastra a poca distanza dal bordo.
«Ops!»
Clank mi guardò male.
Antifona ricevuta.
 
I primi colpi furono rocamboleschi. Per la prima volta dopo tanto mi trovai nella condizione di non riuscire a centrare un bersaglio che fosse uno. Mi ci volle un po’ a capire come funzionasse, poi però cominciai a colpire entro i limiti del disegno.
Nefarious venne perforato al girovita. Bel centro, sì, peccato che avessi mirato al cuore (se mai ne avesse avuto uno).
«Shot!»
Qwark si ritrovò senza naso.
Il giochino nuovo era meglio di quel che pensavo. Dovevo solo stare un pochino attento: se perdevo l’inclinazione, anche di pochissimo, mancavo il bersaglio.
«Shot!»
Come volevasi dimostrare; ebbi troppa fretta e mancai Neffy di brutto. Ennò, cavoli, non ora che avevo cominciato a centrarli!
Concentrazione Ratchet, concentrazione.
«Shot!»
Successe di nuovo.
«Shot!»
E di nuovo.
«Shot!»
E di nuovo.
Sentii l’irritazione fare capolino.
«Shot!»
Idem. L’irritazione aumentò esponenzialmente.
«Ma cazzo! Shot!»
Beccai Shannon dritta al cavallo.
Fissai il buco con l’aria confusa, come un cretino, con l’irritazione svaporata del tutto. Nella mia mente si fece strada l’immagine in cui Qwark fosse stato veramente lì: allargai un sorriso malsano e cominciai a sghignazzare.
Memo: alla prima occasione castrare Qwark col giochino nuovo. Motivo: prevenzione contro la riproduzione di una specie pericolosa.
Ma perché non ci avevo pensato prima?
Mentre sghignazzavo, immaginando di aver centrato davvero l’inguine di Qwark, feci una piroetta e sparai. Successero due cose:
Uno – mi annodai i cavi attorno alle gambe e caddi a terra in modo ridicolo;
Due – centrai l’immagine dell’eroe dritta fra gli occhi. Per la prima volta, dove desideravo colpire.
Mi venne un’idea.
«Clank, mi stacchi l’alimentazione?»
Lui, che fino a quel momento aveva seguito i miei progressi a braccia conserte, non si mosse.
«Cosa vuoi provare?»
«Mah, solo una verifica. Una cosetta.»
La definizione non gli piacque. Ebbe un attimo di profonda indecisione, ma alla fine decise di darmi corda.
Due «shot» dopo, con la barra sul visore che segnava una tacca sola, sulla super lastra erano comparsi due fori, esattamente dove avrebbe dovuto battere il cuore.
Ghignai.
Era fatta. Avevo capito.
* * * * * *
Avevo appena finito di rimettere a posto l’armatura quando rientrò Al.
«Ehilà!» salutò. «Come se la cava?» domandò a Clank.
Il robottino gli indicò la lastra d’allenamento e commentò con un asciutto «Raccomandiamoci a qualcuno. Sparerà secondo l’istinto.»
«Figo!» esclamò Al, oltrepassando il bancone. «Niente pensieri, niente preoccupazioni!»
«Sparare senza pensare è stupido, non figo.» lo corresse Clank.
«Che te ne frega, se alla fine ci salva la pelle?» domandai. Subito dopo mi venne in mente che di pelle a cui badare ne avevo un’altra. «Piuttosto: sapete dov’è la piccola?»
«Parlava di andare al deposito e poi in palestra.» rispose Al, afferrando uno scatolone in terra. Mi sporsi per guardare e notai che era piano di telecamere a bozzolo (proprio come quelle che avevamo in cella).
Le ignorai. Anche se ero curioso di sapere cosa ci volesse fare, quello non era il posto giusto per chiedere.
Mi rivolsi a Clank: «Vieni con me? Vado a ripescarla prima che l’ammazzino.»
Davo le spalle alla telecamera, quindi mormorai qualche parola in modo che leggesse il labiale.
Pochi istanti dopo uscimmo dalla 4-723. Per facilitare la chiacchierata Clank mi era saltato in spalla a mo’ di zainetto, così che potessi tenere un tono di voce anche più basso del necessario.
Attesi lo stesso di svoltare l’angolo prima di cominciare. «Vorrei che fossi tu a prepararla. Io non ho il tempo di starle dietro.»
Pensai di coglierlo in contropiede; per cui mi aspettavo una domanda tipo “perché?”, ma ciò che arrivò fu una sferzata pungente. «Sicuro che non manchi la voglia?»
Feci lo gnorri e replicai all’ironia con l’ironia. «Che c’è, non ti fidi più?»
«Mi stai chiedendo di fare il tuo lavoro. Di solito succede quando non ne hai voglia.»
Touché.
Allora gli spiegai di Basher, dell’accordo, di Skìos e della sfida, calcando sul fatto che non avrei rinunciato all’accordo con il rilgarien né, allo stesso tempo, avrei potuto portarmi dietro la bambina.
«Quindi entro in gioco io, che dovrei insegnarle quello che ho appreso dall’Agenzia. Dico bene?»
«Sì, beh, io pensavo a quella specie di addestramento della Megacorp; magari togliendo il ballo e gli origami. A te la scelta.»
«Pensi che possa farcela?»
«Onestamente? No, se non tira fuori i suoi tanto osannati poteri.» risposi. «Ma è quello che abbiamo a disposizione, quindi dobbiamo farcelo andare bene.»
Non rispose subito. Si prese il tempo per ponderare e, quando parlò, il suo tono fu grave.
«Ho capito. Mi occuperò io di lei, ma tu cerca di non farti ammazzare.»
«Non succederà.» assicurai.
Era matematicamente impossibile. La sola idea di mettere a struscio il culo di quell’arrogante bastardo mi sovreccitava. Perdere non era proprio tra le opzioni.
 
La nostra conversazione cambiò all’ingresso al Padiglione Due.
«Dove pensi che possa essere?» domandò Clank.
Feci spallucce. «Forse nell’ultimo buco che abbiamo usato.» buttai lì.
Lo raggiunsi alla svelta. Dentro c’era un grosso blarg tutto muscoli intento a sollevare pesi. Tirai dritto e puntai al cubicolo dove ci aveva portato Basher.
Quando lo raggiungemmo Clank scese a terra, ma non si addentrò.
Takami era davanti al sacco da boxe, sudata fradicia. Di fianco, Nokki la stava istruendo a gesti sui movimenti corretti. Ancora non riuscivo a capire se fosse muto davvero o lo facesse per lei. A tratti le faceva degli esempi, a tratti le correggeva la postura.
Rimasi sulla porta per un po’. La piccola aveva i guantoni e picchiava al meglio delle sue forze. Non aveva nulla a che vedere con un diretto vero e proprio, ma era già molto meglio del giorno prima.
Fu Nokki ad accorgersi di noi. Ci rivolse un saluto discreto, che ricambiai, mentre Takami scosse una mano guantata. Tanto valeva entrare.
«Ehilà. Come va oggi?» domandai.
La piccola strusciò i guantoni tra loro. «Le mani fanno meno male. Nokki mi ha insegnato a fasciarle.»
La sua voce mi fece un effetto strano. Non tanto per il timbro artificiale, ma perché mi ero abituato agli schermi verdolini. Sentirla smozzicare le parole mi fece provare qualcosa simile a un moto di tenerezza.
«È un’ottima notizia!» esclamai. «E – hey! – finalmente sento una voce...»
Le guance e le orecchie della bambina si fecero rosse. «È bellissima!» esclamò con gli occhi che brillavano.
Provai ad imbastire una conversazione, ma la vidi farsi sempre più rossa. Alla fine ricevetti un’occhiata truce da Nokki.
Dannato lui!
Quel cuscino di riccioli mi metteva a disagio. M’incuriosiva, ma non sapevo come prenderlo. Era un soldato, ma com’era finito nel circo? E come mai lui e Basher non davano addosso a Takami? Cioè, era un bene che non lo facessero (un paio di alleati in più non erano male), ma perché?
 
Fortunatamente Clank decise di darsi alla conversazione con Nokki, così che io potessi prendere da parte la piccola.
La bambina mi guardò con aria interrogativa.
«Voglio che ti alleni con Clank.» spiegai. «Voglio che resti sempre con lui e che segui le sue indicazioni alla lettera, okay?»
La bambina si allarmò. Lo sguardo passò da me al robottino.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» domandò.
«No; è che lui è più paziente di me, quindi sono sicuro che saprà insegnarti meglio. E poi stare con lui ti aiuterà ad apprendere un po’ di più il gioco di squadra.»
L’ultima era una bugia, ma se la bevve. Anzi, la tranquillizzò.
«Ho capito.» disse. «Resto sempre con lui.»
«Brava piccola.» e le battei una pacca sulla spalla. «Allora io vado. Ci vediamo a pranzo.»
Annuì.
Mentre uscivo sentii lo sguardo affilato di Nokki puntato sulla mia schiena. Mi ripromisi di darci un taglio al più presto. Al momento mi dovevo concentrare su Skìos.
 
Incrociai Basher al piano di sotto. Sembrava rilassato.
«Yo.»
«Ehilà.»
Si fermò. Mi fermai. Ci scambiammo un cenno di saluto.
«Ho sentito della disfida con Skìos.» disse. «Hai una tattica in mente?»
«Attaccherò la sua reputazione, per ora. Quello funziona sempre.»
Il rilgarien sogghignò. «Magnifico. È un po’ che non si fa della sana comicità in questo posto.»
«Avrai di che divertirti.» tagliai corto. «Però voglio che richiami la tua spalla. Il suo atteggiamento mi dà sui nervi.»
Lo vidi aggrottare la fronte. Di sicuro la mia richiesta l’aveva colto di sorpresa. «Chi, Nokki?»
«Sì, lui.»
L’espressione di Basher perse lo stupore e si scurì lentamente. In capo a pochi secondi, dopo aver rimuginato tra sé, lo vidi passarsi una mano sugli occhi.
«Lascialo perdere, ti garantisco che è innocuo.» disse. «È che, quando c’è di mezzo quella bambina, si comporta come un’autentica testa di cazzo.»
«Perché?»
Mostrò i suoi denti lucidi in un sorriso amaro.
«Mi crederesti se ti dicessi che è stato maledetto?»
Eh?
Pensai che fosse uno scherzo – era ovvio che lo fosse – ma la sua faccia diceva che no, non era una burla. Il che si aggiungeva alla fraccagnata di cose senza senso che mi stavano circondando da quando avevo messo piede lì dentro.
Preso dalle mie considerazioni, non mi accorsi della cosa alle mie spalle finché non mi girò di peso con una stretta gelida.
Sgranai gli occhi quando mi trovai davanti la mia ombra. E, come se trovarsi improvvisamente davanti la propria copia traslucida non fosse abbastanza strano, quell’affare mi tirò una testata sul naso.
Chiusi gli occhi e reagii d’istinto, affondando una ginocchiata nel suo bassoventre. Con altri avversari aveva sempre funzionato, ma con quella cosa fu totalmente inutile. Il mio ginocchio attraversò la sua figura come se non esistesse. E, nel tempo in cui riaprii le ciglia, quella mi prese e mi sbatté contro il muro.
Mi trovai la sua faccia a pochi millimetri dalla mia, e avvertii un brivido. Non aveva lineamenti; il suo volto era delineato a malapena dalla forma prominente del naso.
Scivolai lungo il muro e sgusciai a lato. Poco oltre, l’ombra di Basher picchiava il rilgarien con foga, come se avesse commesso il crimine peggiore ai suoi danni. E Basher si riparava alla meglio, proprio come avrei dovuto fare io. Ma come si poteva combattere ad armi pari contro un’ombra?
L’istante dopo fui placcato. La mia ombra mi colpì fra le scapole e mi spinse a terra. Mi girai sulla schiena e l’abbrancai per un orecchio...o quanto meno ci provai. Le mie mani strinsero nuovamente il vuoto.
Le sue, invece, trovarono carne solida. Gelide come il ghiaccio, le sue dita si chiusero attorno al mio colletto. Tentai di afferrargli le braccia, poi i polsi; scalciai e mi dimenai. Fu del tutto inutile.
Apparvero puntini rossi e blu davanti agli occhi. I polmoni bruciarono, gli arti si fecero pesanti.
Ebbi l’impressione che Clank urlasse, l’ultimo istante prima che le forze mi abbandonassero del tutto.
* * * * * *
Mi risvegliai con la sensazione del sangue alla testa. Davanti a me, molto distante, c’era una scacchiera di bocchette da cui, di tanto in tanto, piovevano degli oggetti.
Avevo un braccio piegato attorno alla testa, e l’avambraccio era intorpidito. Le dita non le sentivo proprio. Capii il perché subito dopo, quando avvicinai le gambe al tronco e per poco non avviai una capriola all’indietro. Ero steso su un pendio molto ripido, con la testa che puntava al pavimento. Mi faceva male il collo, ma almeno ero vivo.
Quando mi tirai in piedi, passato il momento opprimente in cui il sangue tornò al suo posto, mi guardai intorno. La stanza, enorme, aveva le pareti lisce e nessuna porta. C’erano cumuli di spazzatura ovunque, e alcuni erano alti almeno il doppio di me. L’odore era nauseabondo.
Ero... – oh, che roba – ero nella discarica della stazione spaziale!
Ma come diavolo ci ero finito? Poco prima stavo lottando per non essere strangolato da...
Oh.
...la mia ombra.
Realizzai che doveva esserci Skìos dietro lo scherzo e il sangue tornò alla testa per la rabbia.
Tirai un calcio ad un cumulo di spazzatura, che volò in ogni dove.
«Figlio d’un Qwark!» ringhiai. La voce rimbombò più e più volte fino a diventare un’eco confusa, ma ero troppo preso dalla rabbia per accorgermene.
«Punto numero uno: esco. Punto numero due: lo uccido.»
Tutto sommato era un piano semplice. Certo, con Skìos spalleggiato dalla Top Four, la mia pensata aveva anche tendenze suicide, ma non avevo pretese che fosse perfetta. Mi bastava che quel sacco di pulci finisse male.
«Passo zero punto cinque: troviamo un’uscita. Passo uno punto cinque: ci facciamo una doccia.»
Basher uscì da dietro un cumulo di frigoriferi. Arrancava sciancato, tenendo una mano sui reni come i vecchi. Non sapevo cosa la sua ombra gli avesse combinato, ma non c’era andata leggera.
Eppure, nonostante le sue condizioni, mi lanciò un’occhiata complice.
«Che dici, matricola, facciamo una cosa alla volta?»
Non era tanto distante, e – anche se ogni passo comportava affondare fino ai polpacci nei rifiuti – mi avvicinai.
«Okay allora.» dissi. «Dove si esce?»
Non avevo scorto porte da nessuna parte.
«Heh» sghignazzò lui «Magari lo sapessi.»
Mi accorsi che armeggiava con qualcosa. Riconobbi un cercapersone e, prima che domandassi, spiegò: «Solo due persone finiscono qui con regolarità. Una è il tecnico della manutenzione, l’altra è la ninnola. Ci aiuterà lei. Nel frattempo...»
Si chinò in avanti, piegò le gambe e si sedette sbuffando sopra un frigo alla base del cumulo. Lo sportello, dietro, non resse alla pressione e si aprì stridendo come una bestia in procinto della sventratura. E dalla sua pancia uscirono pezzi elettronici, tubi e cavi colorati.
Fregandosene altamente, Basher fece pat pat sul frigo, invitandomi a sedere. Lo feci. Tanto: cos’altro potevo fare?
«Prima ti ho detto che Nokki è stato maledetto.» disse. «Hai sicuramente pensato che fosse una balla, ma no, non è così.»
Intuii che stava per arrivare l’ennesima storia strampalata e mi preparai mentalmente. «E allora com’è?»
Basher si carezzò il dorso del guanto destro.
«È...» pausa di ricerca del termine adatto «...complicato. Perché non è proprio una maledizione, o meglio: la è in pratica ma nella teoria è un giuramento.»
Ullallà, che premessona impressionante.
«Sì, è decisamente complicato.» convenne da solo. Poi mi rivolse un’occhiata penetrante. «Tu cosa sai della ninnola?»
Com’è che dal comportamento balzano di Nokki si passa a quel che so io di Takami?, pensai con sarcasmo. Risposi di malavoglia: «Qualcosa. Il nome, l’età, poco di più.»
E al diavolo che Vox le avesse definite “informazioni riservate”.
Basher si raddrizzò e mi rivolse uno sguardo sorpreso.
«Sai il suo nome? Quello d’anagrafe?»
Lo vidi irrigidirsi: non era semplicemente sorpreso, era...qualcos’altro. Spaventato, forse. Ma perché mai il suo nome doveva essere fonte di tanta preoccupazione?
 
Il mio nome è un segreto. Chi lo conosce, alla fine rimane in un casino che lo uccide.
 
Testuali parole della piccola. Cominciai a temere che non fosse solo una sua paranoia.
«È così grave?» domandai, cauto.
«No, finché non vedi la Donna di Fumo non lo è.» disse. «Ma da lei devi girare al largo.»
Corrucciai le sopracciglia, stranito. «Da chi?»
«Sembra una versione adulta di Takami. È fatta di fumo e appare in sogno.»
Ammutolii.
E la mia mente si rifiutò di considerarla una storia seria.
Perfetto, la visione mi mancava proprio. Qualche altro elemento fantasy non c’è? Spade magiche, vampiri, mantelli dell’invisibilità... niente di niente?
«Aspetta a prendermi per pazzo. Te l’ho detto che è complicato.» disse, quasi mi avesse letto nel pensiero. «Pensi che sia innocua proprio perché appare in sogno. Viene naturale sottovalutarla. Ma quando ti accorgi che non è solo un sogno, di solito, è troppo tardi. Sei legato tramite giuramento.»
Mentre parlava, un dito alla volta, si sfilò il guanto destro. Al centro del palmo c’era una spirale di simboli perlacei. Non ne avevo mai visti di simili, ma sembravano le rune usate nei film fantasy. E poi c’erano due cicatrici inquietanti sul dito medio. Una sembrava un anello; l’altra tagliava il dito in lunghezza.
E non solo!
Girò la mano: sul dorso c’era un’altra spirale di glifi, e sul dito medio un’altra cicatrice che andava dall’unghia alla nocca.
«Ecco, guarda.» e passò il dito sul dorso, seguendo le rune. «Questa recita il mio impegno; quella sul palmo il mio compenso.»
In effetti, le rune erano diverse. Poteva essere un banalissimo tatuaggio – a rigor di logica non avrebbe avuto altra spiegazione – ma il tono con cui parlò non aveva niente che tradisse una bugia. Era convinto di quello che diceva, così come Takami la era quando parlava dei Guardiani. La cosa m’inquietò e mi spinse verso una posizione ancora più polemica.
Basher continuò a raccontare: «Ero un soldato della Flotta quand’ho giurato alla Donna di Fumo che mi sarei preso cura della piccola. Poi i miei superiori l’hanno sbattuta qui e io ho dovuto seguirla.»
Ridacchiò amaramente. «Non si rescinde un contratto con la Donna di Fumo.»
Non chiesi perché. Vederlo massaggiarsi nervosamente il pomo d’adamo suggerì una risposta abbastanza completa.
«E a Nokki è successo lo stesso.» disse ancora. «Solo che lui se l’è giocata peggio. Ha denunciato i nostri superiori e quelli gli hanno mozzato la lingua prima di venderci a Vox.»
Deglutii. Improvvisamente tutta la faccenda s’era fatta molto più solida di una candid camera.
«Venduti?» domandai.
«Oh, sì. È una prassi comune da queste parti.» disse cupamente. «Prendi Kid Nova, per esempio. Lui l’hanno venduto. Mica tutti vengono rapiti dallo staff.»
«Su che nave eravate?» domandai. «Chi erano i vostri superiori? E perché denunciarli?»
Un altro sorriso amaro.
«Ecco, amico, questo è un altro punto interessante. Perché loro sono più simili alla Donna di Fumo di quanto non si creda. Sembrano umani, ma non lo sono. Non hanno sangue nelle vene, puoi crivellarli di proiettili ma niente, quelli non muoiono. E quando usano la loro lingua...ecco, lì si capisce la loro similitudine con la Donna di Fumo. Stesso dialetto, stesso dramma. Se ti dessi una risposta completa morirei all’istante, così come succederebbe se mi rifiutassi di prendermi cura della ninnola.»
«E lo stesso vale per Nokki, suppongo.»
Annuì.
«Spero che tu adesso comprenda meglio il suo comportamento.» concluse. «Non ti guarda male con cattiva intenzione. È che, se tu fossi una minaccia per Takami, lo saresti anche per la nostra vita. Dagli il tempo di inquadrarti.»
Alzai un sopracciglio, scettico.
«E tu com’è che sei così ottimista?» domandai.
«Oh, non è ottimismo. È rassegnazione.» mi corresse. «Io, a differenza di Nokki, mi sono rassegnato a fidarmi della Donna di Fumo e del cammino che ha tracciato per me.»
Non seppi cosa rispondere, ma non fu necessario.
«Non è un caso che tu sia stato affiancato alla ninnola. Certamente c’è lo zampino della Donna di Fumo, e se ti ha scelto ci dev’essere una motivazione.»
Si rimise il guanto con calma. Poi, con un’aria insospettabilmente ostile, concluse: «Dammi retta e non ti fidare. Takami non è quello che sembra. Non pensi che possa portare un tale carico di guai solo perché è una bambina ma, dietro quella faccia innocente, ruotano potenze che non possiamo immaginare. Il suo stesso potere è al di là di ciò che possiamo comprendere. Starle intorno porta a rimettere in gioco tutte le nostre conoscenze, tutte le nostre credenze, tutti i princìpi sui quali crediamo che si basi l’universo. E lei non è che la punta dell’iceberg.»
 
La punta dell’iceberg...quando mai mi ficcavo in guai che non partivano con una punta d’iceberg?
 
Mi chiusi a riflettere.
Quello che stava succedendo dentro la stazione spaziale era già fuori dagli schemi, ma quello che emergeva dal racconto era fuori da ogni grazia.
In ogni caso, il marchio sulla mano di Basher era reale. Il modo in cui aveva narrato poteva essere un trucco per convincermi, ma anche quello che aveva detto Takami lo era?
Bah, lei era quadrata. Potevano benissimo averla istruita.
Sì, ma allora perché Vox era così infervorato nei suoi confronti? Suonava strano che anche lui parlasse di poteri soprannaturali, se era tutto uno scherzo. Oltretutto: che ne avrebbe guadagnato a prendermi per il naso?
Che lo avessero raggirato?
 
Avevo bisogno di saperne di più.
* * * * * *
Quindici minuti dopo, in alto sulla parete davanti a noi, si aprì un oblò da cui fece capolino la chioma scura di Takami.
«Yo, ninnola!» salutò allegramente Basher. «È un piacere vederti!»
La bambina si guardò alle spalle con circospezione. Aveva un raggio trattore in mano, ma lo smaterializzò in un guanto.
«Che fai?!» sbottai.
Si portò le mani ai lati della bocca.
«Non c’è tempo! Aggrappati a Basher!» gridò.
L’eco ne distorse la voce, ma il messaggio arrivò chiaro. Non capii il perché; e capii ancora meno quando il rilgarien mi abbracciò.
«Tienti, lombax.» suggerì mentre la piccola, in alto, stendeva le mani in avanti, i pollici e gl’indici nel gesto dell'inquadratura.
Quella posa l’ho già vista...
L’istante dopo mi sentii trascinare verso l’alto, assieme al rilgarien. Allora capii.
...la calamita!
 
Mi godetti tranquillamente quel mezzo insolito, ignorando l’agguato in arrivo.
Eravamo a mezza strada quando una specie di pala nera di ruspa spinse la bambina nel dirupo, facendola strillare. L’effetto calamita cessò e, per un breve tratto, cademmo tutti e tre in compagnia. Ma fu solo un breve tratto, perché poi lei fu trattenuta a mezz’aria dalla luce ambrata di un raggio trattore, mentre per me e Basher arrivò la culata apocalittica sui rifiuti.
«Guarda guarda...»
Skìos si sporse dall’oblò, tronfio come la sera prima, e ci riservò uno dei suoi sorrisetti bianchissimi. «Il numero nove e la matricola.»
Mi rimisi in piedi all’istante, incurante della fitta arrivata dai quarti posteriori.
Lurido figlio di...
Basher, dietro di me, mi prese per una spalla e mi fece segno di stare buono. Poi, con la sua flemma da ragazzo, rispose al cazar: «Già, ci siamo permessi di venire a vedere la tua suite. Fratello, è un vero porcaio. Dovresti assumere una ditta di pulizie.»
«Un derattizzatore, vorrai dire.»
Non ci guardò mentre snocciolava la frase. Tenne l’attenzione su qualcosa alla sua destra, fuori dalla nostra portata. Immaginai si trattasse di un pannello di comando e la cosa non mi piacque.
Quando riportò lo sguardo su di noi e sfoderò il suo ghigno folle, poi, bramai di essere lassù, dall’oblò, per prenderlo a schiaffoni.
Il bastardo, bello tranquillo, cominciò a ritirare il raggio trattore. Takami sgranò gli occhi e cominciò ad emettere piccole scariche elettriche attorno a tutto il corpo, scalciando.
«Lasciami!» trillò, forzando il collare al suo limite. «LasciamiLasciamiLasciami!»
Incrociammo lo sguardo per una frazione di secondo. Che diavolo potevo fare?
«NINNOLA! TIRAMI SU!»
Basher aveva allungato le braccia verso la bambina, che nella sua disperazione le allungò a sua volta verso il rilgarien.
Spiccò il volo come poco prima, ma più rapidamente. Schizzò verso Takami che, di nuovo in fase magnete, ruotò le braccia e lo indirizzò dritto addosso a Skìos.
Il bastardo se lo vide arrivare in faccia e non poté farci niente.
Il raggio trattore cessò di esistere e Takami riprese la sua caduta libera, strillando a pieni polmoni. In qualche modo riuscì a girarsi a mezz’aria e si tuffò di piedi nella spazzatura (che, grazie al cielo, era composta per lo più da cartacce in quel punto). Mi affrettai a raggiungerla e rimetterla in piedi. Aveva i lucciconi.
«Ci ha seguiti!» gridò istericamente. «Clank e Nokki dovevano fermarlo, ma lui aveva Jackson ed è arrivato alle mie spalle e... - »
Merda.
«Dobbiamo raggiungere quell’oblò!» intimai. «Ce la fai a fare il giochino di prima?»
«Non hai l’armatura, non posso!»
Un botto allucinante ci fece voltare col naso all’insù. Basher aveva appena atterrato Skìos ad un soffio dalla soglia. Aveva il pugno alto, era pronto a scaricarlo sul naso di quello psicopatico, ma qualcosa o qualcuno lo tirò indietro.
La piccola si lanciò in direzione del muro e io la seguii, sprofondando fino al polpaccio ad ogni passo. Se solo ci fosse stato Clank...
Mi morsi il labbro mentre rincorrevo i suoi passi. I rumori che provenivano dall’oblò erano tremendi: colpi e clangori metallici e insulti volavano indistintamente e lasciavano intuire una rissa da bar.
Takami mise una mano sul muro, su una piastrella che evidentemente era un interruttore. Le sue scintille penetrarono nel muro e si aprì un pannello nascosto. Al di là c’era un vano molto stretto, buono per contenere giusto una scala di servizio. Ci lanciammo in quel terrore claustrofobico, su per una selva di pioli illuminata d’azzurro.
Sulla cima la piccola aprì una porta identica a quella in basso. Sgusciammo fuori e feci appena in tempo a vedere Skìos e Basher che ruzzolavano. Poi ricevetti il benvenuto direttamente dall’ombra di quel bastardo: un diretto in pieno volto che mi fece rientrare nel buco della scala. Per fortuna era tanto stretto che cadere era impossibile, o sarei tornato in discarica.
A pochi passi da me, l’ombra di Skìos era immobile, come pietrificata. Poco più in là Takami si era gettata addosso a Skìos, avvolta dalle sue scariche elettriche. Basher, che era a carponi per qualche colpo cui non avevo assistito, vide la scena e sfoderò il sorriso tronfio che imperava in faccia al cazar.
«Mordi, Takami.»
La piccola smise di gridare. Smise di avere qualunque espressione, si fece rigida e impersonale come una bambola.
Le scintille che le avevano crepitato intorno fino a quel momento crebbero di intensità e divennero veri e propri fulmini. Skìos gridò e si dimenò, ma non riuscì a staccarsi da Takami. Non durò a lungo: alla fine stramazzò al suolo, trascinandosi dietro l’umana, che solo in quel momento smise di crepitare fulmini. Si rimise in piedi e ritrovò la personalità.
Basher, che si era rimesso in piedi, le batté una pacca sulla spalla. «Bel lavoro ninnola.»
Lei si portò le mani alla bocca, sconcertata. «L’ho ucciso? Non l’ho ucciso, vero?» pigolò, passando lo sguardo da lui a me con l’aria nervosa e i lucciconi agli occhi.
«No, tranquilla. L’hai solo messo a nanna.» replicò Basher, prima di rivolgersi a me. «Che dici, matricola, volgiamo la situazione a nostro vantaggio?»
La domanda era pregna di cattive intenzioni. Un sorriso perfido mi si allargò in faccia.
«...Ci puoi scommettere.»
 
Basher aveva nei guanti un cavo elettrico che doveva consegnare al suo Tecnico. Era un cavo comune, e mi assicurò che avrebbe potuto rimpiazzarlo facilmente. Ne approfittammo per legare il bastardo con le mani dietro la schiena; poi lo gettammo oltre la porta, dritto tra i rifiuti. Lo guardammo cadere con lo stesso sorriso cattivo dipinto in faccia, soddisfatti di avergli reso la vita più complicata. Dopodiché Basher armeggiò con la consolle a destra della porta. Pochi secondi e ce ne andammo, i battenti chiusi ermeticamente alle nostre spalle.
 
Svoltammo per due corridoi prima che, in lontananza, arrivasse il suono basso e gracchiante di una sirena.
Drizzai le orecchie. «Che rumore è?»
Takami, che mi camminava vicino, sobbalzò e sbiancò.
«Il compattatore...» pigolò, gli occhi sgranati. «Ha cominciato a lavorare...? Perché...?»
Mi si drizzarono i peli sulla coda. Avevamo lasciato Skìos là dentro!
Feci dietro front e presi a correre. Detestavo il suo brutto muso, ma non potevo lasciarlo morire così! Non...non era leale!
Raggiunsi la consolle della porta e la guardai freneticamente, alla ricerca del comando che fermasse la distruzione del pattume. Non mi aspettavo un pulsante grosso con scritto “pigiami”, ma un blocco d’emergenza doveva pur esserci!
Invece no. Chiunque avesse progettato quella consolle confidava che gli utilizzatori avessero letto il manuale d’istruzioni. Non c’erano pulsanti; ma una tastiera e uno schermo sul quale lampeggiava la scritta COMPRESSIONE IN CORSO. E sotto, beffardo, un counter che segnava trentadue secondi.
Dall’altra parte della porta arrivava un rumore inquietante...qualcosa mugnava incessantemente, lamentandosi come un coyote alla luna. Potei solo immaginare cosa succedesse al di là.
Tentai di accedere ai comandi. Premetti le combinazioni di tasti più comuni, ma non funzionarono. Provai le funzioni: accedetti a diversi menu, ma nessuno che comprendesse una voce utile in quel momento.
Venti secondi.
Dove sei, dannato comando?!
Valutai l’idea di sfondare la porta e trarre il bastardo in salvo con il raggio trattore, ma ricordai che non avevo né armi né gadget.
Sedici secondi.
Al margine del mio campo visivo comparve la figura sagomata di Basher. Rimasi concentrato sul monitor e i comandi inutili che mi mostrava.
«Dove si trova?»
Quasi ringhiai per l’urgenza, certo che lui capisse a cosa mi riferivo.
«Te l’ho detto: solo due persone hanno a che fare con il compattatore.»
Nove secondi.
Mi fermai di colpo. Takami! Takami poteva aiutarmi...
...ma Basher era da solo. Perché era da solo?
Sei secondi.
Sorrise con aria compassionevole. «La piccola era provata. L’ho mandata nell’alloggio.»
Tre secondi.
Qualsiasi cosa stesse ululando, si azzittì. Sul monitor apparve la scritta PREPARO ESPULSIONE.
Il tono quieto con cui Basher aveva parlato mi gelò il sangue nelle vene.
Il counter arrivò a zero. La scritta si resettò in favore di un definitivo ESPULSIONE IN CORSO.
 
Mi voltai a fronteggiarlo. Stava lì, indolente, con quel sorriso da teppa stampato in faccia. Avevamo appena ucciso una persona in modo atroce e lui era tranquillo.
«Ammirevoli intenzioni, le tue, amico. Così buone. Così altruiste.» disse. «Totalmente eroiche, sì. Si vede che sei nuovo.»
Abbassai le orecchie, sconcertato.
«Immagino che tu ti senta un verme adesso, ma ascolta: la sua dipartita è un favore a tutti. E tutto sommato è una fortuna che tu non abbia avuto un vero scontro con lui, perché la definizione pazzo scatenato non gli ha mai reso giustizia.»
Parole vuote, false più di Qwark.
«Avrei preferito ammazzarmi di fatica e affrontarlo nell’arena, lealmente.» rimbeccai.
«Lealmente è una parola che non è mai esistita nel suo vocabolario.» replicò.
«Chissenefrega!» ringhiai. «Avresti potuto sfregiargli l’ego a vita, piuttosto che farlo morire come un insetto!»
«Chi credi che avesse programmato l’avvio del compattatore? Io?» e scosse la testa schioccando la lingua. «No, amico, è stato lui. Lui avrebbe ucciso noi, e di sicuro non si sarebbe fatto i tuoi problemi.»
«Cazzate!»
«Chiedi a Takami di sondarmi i ricordi.» disse in tono di sfida. «Ti dirà che ho trovato il pannello impostato per l’attivazione dopo la chiusura della porta. Io ho solo colto l’opportunità: gli ho fatto bere la sua medicina, e se non gli è piaciuta...be’, cazzi suoi.»
Bramai di avere di nuovo un’onnichiave. Non importava che fosse energizzata. Mi bastava averne una, poi gli avrei sfondato la faccia col metodo classico.
Dovette intuirlo dalla mia faccia. O forse perché ero in procinto di saltargli addosso.
«Adesso non fare così. Dobbiamo pensare a come gestire la situazione.»
«È presto detto: te la gestisci da solo.» ringhiai. «Io con te non voglio più avere niente a che fare.» aggiunsi, spazzando l’aria con la mano.
Di nuovo, Basher scosse la testa schioccando la lingua.
«Oh, no, non te la caverai così.» disse. Poi assottigliò lo sguardo. «Dopotutto, nel compattatore ce lo abbiamo buttato insieme. Sei mio complice. E abbiamo ancora un patto.»
«BASTA!»
Mi avvicinai fino a piantargli un dito sul petto. «Ho detto che te la gestisci te.» e picchiai di nuovo il dito su di lui. «Non c’è più alcun patto. E non riuscirai a farmi cambiare idea.»
Lo scartai e proseguii lungo il corridoio. Svoltai una, due volte, e mi trovai davanti Takami. Ferma in mezzo al corridoio, aspettava.
Fu sufficiente scambiarsi uno sguardo. Mi diede le spalle e s’incamminò, diretta ad uno dei contel delle pulizie.
 
Raggiungemmo la cella così: in silenzio.
Non dissi niente vedendola uscire, e lei non disse niente a sua volta.
Mi sdraiai sulla mia branda e riflettei. Pensai a Basher, a quanto si fosse dimostrato buono con me e privo di scrupoli con Skìos. Pensai che un domani avrei potuto essere io lo Skìos di turno.
Pensai a quello che mi aveva raccontato di lui, di Nokki e di Takami.
Pensai a cos’avrei fatto, dato che avevo appena rotto l’accordo.
Pensai tanto finché mi addormentai.
Ma in fondo, tutto quel pensare servì solo a coprire la voce della coscienza. Mi ero comportato male, mi sentivo un verme e quella morte me la sarei portata dietro ogni singolo giorno, in quel luogo.

 

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Capitolo 9
*** | Primo intermezzo | Un dettaglio da nascondere ***


[ Primo intermezzo ]
Un dettaglio da nascondere
 
Presente. 11 Febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
Erano passati otto giorni dal fatidico primo appuntamento. L’idea di vendere il racconto a capitoli giornalieri era stata un successo, e quella settimana si erano registrati incassi record. Vip64 era in vetta ad ogni classifica e Jay Kroo era diventato una specie di eroe per la divisione editoria.
Ogni giorno il kerwaniano aveva raccolto appunti su appunti, li aveva rifilati secondo i gusti del lombax e li aveva dati alla stampa senza ulteriori modifiche, come pattuito. Ma quel giorno c’era qualcosa che non andava. Ratchet lo aveva ricevuto come al solito, lo aveva fatto accomodare nel salone e poi si era rivolto al panorama esterno, senza dire una parola.
Kroo cercò di attendere con pazienza, ma dopo un po’ non riuscì a impedirsi di aggrottare le sopracciglia con aria preoccupata. Non riusciva a spiegarsi cosa si annidasse dietro quell’atteggiamento chiuso, ma allo stesso tempo aveva paura di chiedere, perché se dalle labbra dell’eroe fosse uscita la frase «non voglio più continuare» la sua vita sarebbe caduta dalle stelle alle stalle nel giro di cinque minuti.
Nel mentre che aspettava, soffriggendo nell’inquietudine, riordinò per l’ennesima volta l’attrezzatura sul tavolino.
«Non ho intenzione di venir meno ai patti, se è questo che pensa.»
La voce di Ratchet, bassa e cupa, fece sobbalzare il kerwaniano, che si ritrovò involontariamente col cavo dell’estrattore mnemonico aggrovigliato attorno ai polsi.
«No, no, è solo che...» tentò di giustificarsi, ma l’altro lo interruppe.
«C’è qualcosa che ieri non le ho raccontato. Qualcosa che le devo dire per forza di cose, ma che non voglio che venga pubblicato. Non così com’è successo.»
La mente di Kroo resettò i pensieri. La preoccupazione di poco prima si tramutò completamente in curiosità.
«Mi sta chiedendo di manipolare il racconto?»
Ratchet denegò e indicò il tavolino, su cui spiccava la copia giornaliera di Vip64.
«In un certo senso l’ho già fatto io.» disse. «Ho saltato a piè pari una parte, che quindi oggi non è stata pubblicata.»
Il giornalista iniziò ad afferrare il concetto dietro le parole del lombax.
«Però è qualcosa che è importante per il racconto, non è così?»
Ratchet sentì montare l’indecisione. Le domande che l’avevano tormentato fino a quel momento echeggiarono ancora una volta nella sua mente: è davvero necessario dirglielo? O lo posso mascherare io, in qualche modo?
«Forse non è così... importantissimo.» rispose, incerto. «Però è un elemento che non posso ignorare.»
Le orecchie fremettero, la voce si fece poco più di un sussurro. «È qualcosa che mi ha segnato. E Takami, da piccola frignona qual era, ne uscì particolarmente devastata.»
Kroo mise da parte la sua attrezzatura.
«Perché l’ha saltato?» domandò, prevedendo una scocciatura. Poi, recepita l’occhiata fosca dell’eroe, si affrettò a correggere il tiro: «Voglio dire...è qualcosa di così doloroso?»
«Ho interesse a spiegare cosa mi ha portato a promuovere Takami come Consigliere; ma – anche se ora è cresciuta e va all’Accademia – non reagirebbe bene se le venisse sputato in faccia qualcosa che le ha strappato un pezzo di cuore.» spiegò. «Non vorrei che facesse danni, dopo.»
Il giornalista non poté fare a meno di allargare un tenue sorriso.
Si preoccupa per lei... E dire che sul Knocker è un duro da quattro diamanti. – pensò, divertito. – Oddio, non sarà sempre stato così, immagino.
Ratchet, ignaro dei pensieri del kerwaniano, andò avanti.
«Vede, anche se Basher e Nokki sotto sotto la detestavano, per lei erano gli unici alleati. Quel po’ d’affetto che provava era tutto per loro. Soprattutto per Nokki. Quel cuscino di riccioli era... come dire... era un po’ il suo mondo. Per questo ricordarle il modo in cui è morto potrebbe farla dare di matto.»
Kroo alzò le sopracciglia, gli occhi sgranati per lo stupore.
«È morto?»
Ratchet annuì. «È questa la parte che ho omesso.»
Il giornalista intravide tutto il potenziale buttato via il giorno precedente e si sentì quasi mancare. La morte, soprattutto quella ingiusta e tragica, era un incasso sicuro. E lui l’aveva perso!
Si passò una mano sugli occhi e borbottò qualcosa con aria sconsolata.
«Come?» domandò l’altro, credendo che nel brusio fosse stato fatto il suo nome.
Il kerwaniano tirò giù la mano e tutto, dalla postura al tono, indicava a chiare lettere un rimprovero.
«Lei è un pazzo.» disse. «Non si rende conto di ciò che ha fatto.»
«Invece lo so benissimo.» rimbeccò, contrariato. «Mi creda: ho visto guerrieri grandi e grossi darsela a gambe davanti a Takami col culo girato. E intendo molto girato
«No che non lo sa, dannazione! Mi ha fatto perdere l’incasso del secolo!»
«ME NE SBATTO DELL’INCASSO!»
 
Per un istante Kroo temette che avrebbe materializzato un blastatore e gli avrebbe sparato. Si figurò ogni movimento: il braccio che saliva, l’arma che compariva. Represse il finale con un brivido lungo la schiena.
«O-okay, basta che non mi spari.» capitolò, alzando le mani.
Ratchet si bloccò. Per un istante si sentì spaventoso. Poi si costrinse a rimettersi composto: si svaccò sulla poltrona e incrociò le braccia.
«Spararti?­­» borbottò, non capendo.
Kroo preferì glissare.
«Err... il racconto... vediamo cosa si può fare, ora. Ma mi deve raccontare cos’è successo, stavolta per intero.»
Il lombax annuì.
Dopodiché abbassò gli occhi e le parole uscirono da sole.
* * * * * *
Passato. 5 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, corridoio esterno al compattatore
 
Avevo appena gridato in faccia a Basher di andarsene al diavolo. Non volevo più avere a che fare con lui, ero incazzatissimo per la vigliaccata in cui mi aveva coinvolto.
E poi udii un suono nuovo provenire dal corridoio alle mie spalle. Era un rumore simile al fischio del microfono davanti all’amplificatore. Scemò quasi subito in qualcosa di più comprensibile: un urlo, la voce arrochita di qualcuno che stava gridando con disperazione.
Il tono e il timbro erano inconfondibili. Erano troppo giovani per chiunque abitasse quel serraglio.
Basher passò automaticamente in secondo piano. Presi a correre come se ne andasse della mia vita. Una, due, tre, presi le svolte e i bivi seguendo la voce di Takami quasi per puro istinto.
Quando la trovai, rabbrividii. Era inginocchiata a lato del corridoio, abbracciata a Nokki.
La prima cosa che mi arrivò di lui fu l’odore, quello acre del sangue. Poi Takami si scostò un pochino e riuscii anche a vederlo. La divisa grigia era diventata nera, tanto si era inzuppata.
Lo stomaco non poteva farmi una capriola. Era qualcosa a cui avevo assistito troppe volte perché mi facesse ancora quell’effetto devastante, ma rimasi comunque paralizzato dalla scena.
«Ratchet...»
Mi voltai di scatto: Clank era seduto contro il corpo di Jackson. Gli mancava un pezzo di gamba e con un braccio si reggeva l’altro, che penzolava malamente giù. Lo raggiunsi e lo raccolsi.
«Che è successo qui?»
«I suoi segnali vitali sono deboli. Bisogna portarlo subito in infermeria.»
Ci raggiunse anche Basher, la cui prima reazione fu quella di afferrare Takami per una spalla e scaraventarla via, lontano dal suo compagno. La piccola ruzzolò e si rialzò subito, per riavvicinarsi, ma lui non glielo permise. Le ringhiò di stare ferma dov’era e lei si fermò, la faccia arrossata e le lacrime che scendevano giù.
Mi avvicinai a lei e le misi Clank in mano. Non chiesi nulla, ma lei capì. Si strofinò gli occhi con la manica e lo strinse con cura.
«È vivo. Possiamo ancora salvarlo.» dissi. Volevo consolare la piccola, ma la mia frase ebbe effetto anche su Basher.
«Non stai mentendo.»
Era il ringhio diffidente e minaccioso della belva cui avevano toccato il branco. Era una domanda e un’affermazione insieme allo stesso tempo.
«Dobbiamo sbrigarci.» decise subito dopo. Takami fece in modo di reggere Clank solo col braccio destro, così che dal guanto sinistro potesse materializzare il raggio trattore che aveva rinfoderato nel compattatore.
Me lo porse con una preghiera negli occhi. Basher s’intromise e glielo strappò di mano, prima di usarlo per far levitare Nokki.
 
Lo portammo in infermeria più veloci che potemmo.
Il padiglione medico era una cosa a sé stante, da raggiungere con un percorso assurdamente lungo. O forse mi sembrò assurdamente lungo perché ero in una situazione d’emergenza.
Appena davanti all’ingresso, mentre aspettavamo che ci aprissero, mi voltai verso Takami. Stringeva Clank stretto stretto a sé e fissava Nokki con una maschera d’ansia. Non me la sentii di chiederle di rimanere fuori.
Due striker e un paio d’infermiere della stazza di Helga – una blarg e una blå hud – ci accolsero con una barella. Quando Basher ci depositò sopra il suo compagno, le due si guardarono negli occhi. Fu un’occhiata fugace, non ci badai. Avrei dovuto capire, ma non avevo la testa per farlo. Gli occhi erano incollati a quel poveretto.
Aveva tagli ovunque. La bocca allargata, il naso mozzato, una palpebra tagliata via. E gli arti... erano lì i tagli più profondi, agli arti. In alto, ai tendini. E poi tutti quelli che s’intravedevano solo perché la divisa, incollata alla pelle, era tagliata.
Era uno spettacolo orribile. Ma, nonostante non lo avessi mai visto sotto una luce particolarmente buona, non potei non ammirarlo per la sua tenacia. In quel momento, oltre alla pena e all’ansia, provavo rispetto per quella persona che, nonostante le condizioni disperate, continuava a vivere.
 
Non era cosciente, Nokki, ma se lo fosse stato forse ci avrebbe maledetto tutti.
Perché le infermiere lo portarono in una saletta adiacente, vuota, piastrellata dal pavimento al soffitto. Quando chiusero la porta, sopra lo stipite si accese la targa rossa delle operazioni in corso. Doveva essere rassicurante; farci credere che lo stavano curando. E invece lo lasciarono lì e uscirono attraverso la seconda porta della stanza. E poi... pochi istanti dopo la sua testa esplose. Davanti ai nostri occhi, perché la parete che ci divideva era di vetro.
Non fece un rumore particolare. Fu a malapena percettibile. Splat. Un attimo prima era attaccata al collo, l’attimo dopo era spalmata sulle pareti in tanti piccoli grumi.
Dalla nostra parte calò il silenzio. Lungo. Attonito.
Rimanemmo gelati, gli occhi incollati a quella striscia rossa e grigia dipinta dall’altra parte del vetro. Finché le guardie, intelligenti quanto i Ranger, si sentirono in dovere di commentare.
«Oh, non si è oscurato il vetro.»
«Bah, chissene. È sempre uno spettacolo la faccia di chi assiste, non è vero Jace?»
«Oh, verissimo. Non mi stancherei mai di guardarli, gli organici.»
«Dieci bolt che il primo a ripigliarsi è il lombax.»
«Ci sto. Ma secondo me è il rilga-»
Bam!
Una specie di meteora bianca lo colpì in pieno, facendolo crepitare scintille. Le ginocchia cedettero e cadde in terra. Capii che Basher aveva usato una scarica elettrica solo quando riportò il braccio lungo il fianco. La mano, quella su cui recava il marchio, crepitava scintille come il robot a terra.
«Jace vince la scommessa.» ringhiò in direzione dello striker rimasto in piedi. Quello sulle prime non reagì, dopodiché gli materializzò contro la sua arma.
«Fermo dove sei!»
Se avesse potuto, Basher lo avrebbe incenerito con gli occhi.
«Dimmi che cos’è successo, se non vuoi che resetti anche te.» intimò a sua volta.
Lo striker non abbassò l’arma né si mosse.
«We we we, buoni con gli ormoni!» sentenziò una voce femminile all’interfono. «Si chiama protocollo di terminazione, belli. Se ci arriva qualcuno troppo costoso da rimettere in piedi, dobbiamo eliminarlo.»
«Che cosa?!» gridai.
«È la prassi, tesoro.»
«Prassi un beneamato cazzo!» gridò Basher. «Non era così malmesso!»
Potei immaginarmi la tipa fare spallucce mentre aggiungeva: «Per le lamentele vai da Vox.»
«Non è vero!» gridò Takami, coi lacrimoni agli occhi, guardando oltre il vetro sporco. Trattenne un singhiozzo, ma la sua voce si fece più incerta. «Potevi guarirlo! Nokki è ancora... tu potevi...»
«Non piangere; era più morto che vivo.»
«SEI UNA GUARITRICE, LEISHA! E ANCHE SURIA! IO RIVOGLIO NOKKI! È IL MIO TATO, LO RIVOGLIO INDIETRO!!!»
«Non dire cazzate, è morto!» sbottò lei, seccamente. «Morto stecchito come Garganthas!»
La vidi irrigidirsi, come se le avessero affibbiato un ceffone.
«NON È VERO! GUARISCILO!» gridò. Poi la voce si fece rotta: «Guariscilo... sigh... tu puoi guari-sigh...»
Non era un ordine, era una supplica.
Le sue spalle singhiozzarono impercettibilmente. Si portò il braccio davanti al volto e ci nascose dietro gli occhi, e infine arrivarono le lacrime.
I gemiti si susseguirono uno all’altro, inframezzati da brevi respiri smozzicati.
L’afferrai per le spalle in un mezzo abbraccio. Non sapevo cosa dire, ma alle parole ci stava già pensando Clank. In braccio a lei, tenuto come un peluche, le diceva frasi di circostanza, ma delicate.
Alzai lo sguardo su Basher perché temevo che stesse per commettere qualche idiozia. Aveva lo sguardo furente e i lucciconi agli occhi. E al margine del mio campo visivo, nella saletta adiacente, un’ombra blu (la blå hud?) trasportò via la barella.
Leisha riprese a parlare.
«Gritt, riportala nel suo buco. E trascina qui il tecnico dell’oscuramento vetri; che ha fatto un lavoro di merda.»
Il robot mosse un passo, ma Basher s’intromise.
«Provaci e ti rendo un fermaporte.» ringhiò, prima di rivolgersi a me e indicarmela con un cenno di mento.
Gesto inutile, visto che stavo già per fare qualcosa... più o meno.
 
L’accompagnai fuori dal padiglione medico. Basher rimase dentro e non so cosa successe quando le porte si chiusero dietro di noi. Casino di sicuro (i rumori erano inconfondibili), ma di preciso non lo seppi mai.
Mentre ci allontanavamo da quel bordello Takami si calmò un poco. Smise di urlare, ma non di piangere, e la cosa mi mise a disagio in un modo che non avevo mai sperimentato prima. Continuava a chiamare Nokki, a dire che era il suo tato, che non era giusto.
Non era giusto, no, per niente.
Ma non sapevo cosa dire. Non sapevo cosa fare. Mi sentivo... sospeso. Come se quello splat non fosse altro che un’allucinazione.
Quando arrivammo al Padiglione Quattro, Takami spense il collare e continuò il suo pianto in silenzio, finché non rientrammo nella 6-538. E una volta dentro non lo riaccese finché non ebbe la testa ben ben affondata nel cuscino. Non lasciò Clank, che continuò a dirle frasi rassicuranti finché non si fu addormentata. Solo allora mi azzardai a sfilarle il mio amico dalle braccia, per portarlo ad Al affinché lo rimettesse in sesto.
Quando mi chinai su di lei, nel sonno, mugolò: «Tato...»
Quella parola mi pungolò in maniera terribile. Il suo mondo era crollato, si era aggrappata a Clank e io glielo stavo portando via.
Mi morsi un labbro e mi sbrigai a lasciare la cella.
Mi sentivo un infame.
* * * * * *
Presente. 11 Febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
«...mi spiegarono in seguito che Nokki non era il primo che Takami vedeva morire. Era il primo al quale veniva fatta saltare la testa davanti ai suoi occhi, ma non era il primo in senso assoluto. Il precedente si chiamava Garganthas the Gigantic, era un nabla e Takami era convinta che fosse morto per colpa sua.»
Kroo seguiva il racconto di Ratchet con la bocca semi aperta, pendendo totalmente dalle sue labbra.
«Perché?» domandò, desideroso di sapere.
«Vede, io non fui il primo eroe con cui lei fece squadra. Sei mesi prima di me fu assegnata a questo Garganthas, ma non come spalla. Al primo tentativo il suo ruolo fu il navigatore... in pratica aveva il posto di Clank.» aggiunse, notando che il kerwaniano non lo riusciva a seguire sui ruoli. «Questo Garganthas morì in diretta, durante un’imboscata sulla Cintura di Valix. Dissero che Takami lo aveva condotto dritto alla morte nel tentativo di fargli prendere una scorciatoia, e lei si convinse che fosse così. Invece scoprimmo (dopo, molto dopo) che era stato sabotato per questioni di share. Takami non vide i nemici sulla mappa perché la sua consolle era stata hackerata, ma ovviamente nessuno glielo disse. Ad amplificare il tutto, poi, fu che della squadra rimase solo lei: Garganthas e le sue spalle robot morirono in diretta, e una settimana dopo lo smantellamento della squadra il tecnico sparì nel nulla.»
«Porca miseria ladra...» biascicò Kroo.
«Può dirlo forte.» concordò Ratchet. «E nello scherzetto di Skìos era stata lei a guidare Clank e Nokki per i corridoi che portavano al compattatore. Erano stati raggiunti dal nemico, ma dal suo punto di vista era come se li avesse condotti lei, come con Garganthas.»
«E quindi è stato in quel momento che si è creata la sinergia di squadra?» domandò il kerwaniano. «Dopo la morte di Nokki, per un comune desiderio di vendetta?»
L’altro ridacchiò. «Oh, no, nient’affatto. Niente di più lontano. Ma, indubbiamente, la morte di Nokki comportò un enorme passo in avanti. Perché, anche se diffidava, poco prima di perdere conoscenza disse a Takami di fidarsi di me. Non sapeva nulla del sottoscritto, ma le disse lo stesso di fidarsi.»
«E lei si fidò? Così, in automatico?» domandò, scettico, il giornalista, prima che gli sorgesse un dubbio. «Ma se era muto e aveva i tendini recisi, come poteva comunicare?»
«Bella domanda.» ammise Ratchet. «Me lo sono chiesto anch’io.»
«E..?»
«E interviene la caratteristica propria del Guardiano del Fulmine, che è quella di percepire e interpretare i flussi di corrente. All’epoca Takami lo faceva del tutto inconsapevolmente: con la stazione spaziale viveva praticamente in simbiosi, e quando aveva le emozioni sballate riusciva a percepire i pensieri delle persone con cui aveva un contatto fisico.»
«Quindi, poiché era altamente stressata dalla situazione, riuscì ad emulare un telepate?»
Il lombax sorrise. «Qualcosa del genere, sì.»
Kroo emise un fischio ammirato. «Però, che abilità convenienti. Crea i fulmini, li manipola, gioca a fare la calamita, sente i flussi di corrente... non crede che sia un tantino overpower?»
«Potrei citarle le abilità della Guardiana della Terra, se vuole. E quelle sì che sono overpower
«Tipo?»
«Tipo la guarigione e il poter cambiare aspetto a proprio piacimento, per non parlare dell’evocazione di piante o rocce e della comunicazione con qualunque essere vivente.»
Kroo storse la bocca.
«Onestamente non mi sembrano un granché...»
«Riparliamone quando le metterà contro un gigantosauro fischiando tre note.» replicò l’altro, asciutto. «Comunque, per tornare alla sua domanda originale: no, non si fidò in automatico. Non di me, almeno. Non le avevo dato molti elementi concreti per farlo.»
«E allora chi..-»
«Clank.» lo prevenne lui, con un sorriso tenue. Accavallò le gambe e aggiunse: «All’inizio fu lui il suo punto di riferimento.»
«E ciò non la fece sentire a disagio? Voglio dire, la sua spalla “assegnata” non si fidava di lei, ma della sua spalla “canonica”...»
«Punto uno: Clank non è la mia spalla. L’ho già detto in passato e ci tengo che non sia visto come tale. Punto due: no, non mi sentii così terribilmente a disagio. Semplicemente: continuai a pedalare. Arrivai più tardi, ma non posso lamentarmi: con i bambini sono una schiappa galattica.»
«Quindi non si vedrebbe mai come padre?»
La coda di Ratchet guizzò e le sue orecchie si abbassarono impercettibilmente. «We we, stiamo buoni. È un argomento fuori del seminato.»
La sua difensiva piacque a Kroo, che si trovò di nuovo a sorridere.
«Ne è sicuro? Dopotutto stiamo parlando di bambini e della sua capacità di trattare con loro.»
«Ma da qui a interessarsi alla mia idea di famiglia si fa un bel salto tematico che non c’entra un accidente con lo scopo dell’intervista.» rimbeccò.
«Giusto, giusto. Mi perdoni, si è trattato di deformazione professionale.»
Il kerwaniano decise di non insistere oltre, ma prese un appunto mentale: girare la domanda al capitano Phyronix. Tanto, di lì a una settimana sarebbe stata intervistata da qualche suo collega.
Si schiarì la voce per dissimulare una risatina e disse: «Quindi il fatto che vogliamo infilare manipolato è la morte dell’umano di nome Nokki.»
«Esatto.»
«Ed è proprio necessario inserirlo? La squadra di Basher interviene ancora nel racconto?»
Ratchet storse la bocca.
«Basher fu accoppiato a Jackson. Da quel momento gareggiarono insieme... e sì, intervennero ancora.»
«Pesantemente?» volle sapere Kroo.
«Abbastanza.»
Il giornalista arricciò le labbra.
«Hnn...» mormorò, pensieroso. «Facciamo un piccolo salto temporale, se si può. Mi parli dell’esame iniziale: forse riusciamo a infilare l’omicidio come una notizia di second’ordine.»
Ratchet annuì.
«D’accordo.»
Afferrò gli ormai familiari elettrodi dell’estrattore mnemonico e li indossò. Lo schermo, ancora sul tavolino, s’illuminò quasi all’istante, mostrando un’immagine sbiadita, quasi fumo. Kroo non poté fare a meno di guardarla e chiedersi cosa stesse formando la mente del lombax, ma quello – come al solito – si allungò e portò il tablet fuori dalla sua portata.
Dopodiché, rassicurato dalla promessa del tentativo, riprese a raccontare. E Kroo si dovette sbrigare ad attivare l’attrezzatura che gli permettesse di registrare e trascrivere le sue parole.

 

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Capitolo 10
*** | Secondo intermezzo | Per un buon esito ***


[ Secondo intermezzo ]
Per un buon esito
Presente. Tre giorni dopo, 14 Febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
Era primo pomeriggio. Il sole entrava dalle grandi vetrate, intiepidendo il salone. Jay Kroo non era ancora arrivato e Ratchet, approfittando della sua assenza, aveva proiettato la videochiamata di Takami direttamente sull’oloschermo. La ragazza, avvolta dalla luce calda di Marcadia, sfoggiava con orgoglio la divisa dell’Accademia e gesticolava con una grinta tale che ricondurla alla remissiva Occhi a Faro sembrava impossibile.
«Ti giuro, ovunque vada c’è un imbecille che grida “ruggisci!”» stava dicendo, esasperata. «Ma aspetta che esca la parte su Chaos, e allora sì che mi diverto! Oh, se mi diverto! Li zittisco tutti in un colpo solo, guarda! Magari ce li spedisco davvero nella Dread! Magari proprio quando Vox ci uccideva per zittire le moine della top four! E poi voglio vedere quanta curiosità gli rimane, a quelle teste di–»
«No!» Ratchet si allungò verso lo schermo, le orecchie dritte e l’espressione allarmata. Non era fantascienza: se diceva che l’avrebbe fatto, allora l’avrebbe fatto. E lui sentiva prudere le rune solo a immaginare la scena. Doveva fermarla quanto prima.
 
«Promettimi che non userai l’Idioma.»
La giovane accennò ad una smorfia di disappunto. «Perché no? Se ci tengono così ta-»
«Promettilo!» incalzò, terribilmente serio. «Non. Una sola. Parola.»
Viceversa, la situazione sarebbe degenerata in modo esponenziale. Ma questo, a lei, non importava. Importava invece che Ratchet avesse appena dimostrato paura. E, quella volta, non per lei.
«Non prometto qualcosa che non posso mantenere.» rispose, secca. «E soprattutto non voglio farlo per quattro stronzi come loro! Che non è giusto mandarli a fanculo quando invece potrei togliermi una soddisfazione.»
«Non mi frega se non lo puoi promettere: tu l’Idioma non lo gestisci bene, non interrompermi perché a momenti spedivi Sasha in un’altra dimensione per un errore di sintassi, quindi non cacci magie a cazzo, punto e basta.»
 
Takami strinse le labbra. Ecco il nocciolo della questione: lei non era capace di usare bene la lingua delle divinità. E l’episodio con Sasha fu un vergognoso rinforzo: era vero, tempo addietro avevano seriamente rischiato, ma da allora aveva fatto i suoi passi ed era certa che non sarebbe caduta ancora in un simile errore. Però a Ratchet non importava.
Guardò il lombax con aria torva, offesa in pari misura sia dalla sua scarsa fiducia nei progressi con l’Idioma, sia dalla sua posizione difensiva nei confronti dei cadetti.
«Se quegli stronzi fossero stati al mio posto all’Hiring Show, con un aggeggio che pesava un quintale e quindici giorni d’esperienza, e il terrore di dover fare qualcosa che l’anima si rifiuta di fare, allora non riderebbero.» Dopodiché assottigliò lo sguardo con aria pericolosa. «Io voglio solo che la provino quella paura, anche solo per un minuto, perché è l’unico modo in cui capirebbero appieno.»
«Ma spedirli indietro nel tempo non funzionerebbe.» cercò di spiegare lui. «La loro unica certezza sarebbe quella di essere finiti all’inferno perché tu ce li hai spediti, non perché se la sono cercata. Alla fine avrebbero paura di te, non della vita vissuta con un collare esplosivo sempre innescato.»
«E quindi cosa dovrei fare, eh?»
«Mah... io ci passerei sopra, ma dalla tua faccia direi che non è un’opzione.»
Takami gli scoccò un’occhiata truce. Porgere l’altra guancia non era mai stata un’opzione.
«Perché non ne parli con la Direttrice, allora?» propose lui, correggendo il tiro. «Mi sembra il tipo che li metterebbe in riga senza farti diventare la cattiva di turno.»
 
La Direttrice.
Per tutto il secondo che seguì la mente di Takami andò in blackout.
La Direttrice. Come aveva fatto a non pensarci? Lei era esattamente il tipo che avrebbe esaudito il suo desiderio! E l’avrebbe fatto con gioia sadica, con gli occhi luminosi per la prospettiva di mettere i suoi studenti nei pasticci. E l’idea di collaborare come ‘elemento di pericolo’ era allettante come un’oasi nel deserto.
«Oh sì...» disse, prima di borbottare qualcosa come “gli faccio il culo a strisce, a quegli stronzi”.
«Tu. Sei. Un genio.» dichiarò, elettrostatica. «Devo solo trovare il modo giusto per dirglielo, poi sono a posto!»
«Brava cucciola!»
Niente bordello alla Back to the Future in vista, niente bronci nel presente, niente tizi extra da salvare nel passato. Era una prospettiva così rosea da rallegrarlo di riflesso.
Sul viso di Takami comparve un sorriso molto tirato. I complimenti di Ratchet le provocavano sempre un sorriso d’orgoglio, ma quel cucciola, l’orgoglio, glielo faceva a pezzetti.
«Ricordi che fra tre mesi faccio 18 anni, vero?»
«Sì, ma per me sei sempre la piccoletta con gli occhi a faro.»
«Grazie, va’ a fanculo anche te.»
* * * * * *
La discussione proseguì su toni ben più leggeri rispetto quelli con cui era cominciata, finché Ratchet – dopo aver guardato l’orologio – constatò che Kroo fosse in ritardo. A quel punto un’ombra passò sul viso di Takami.
«Che c’è?» domandò il lombax, vedendola incupire all’improvviso. La ragazza strinse debolmente le labbra e decise che non poteva rimandare oltre il motivo per cui aveva chiamato.
«È a proposito del racconto...» cominciò, incerta. «Vorrei sapere una cosa, e vorrei una risposta onesta.»
Fissò Ratchet negli occhi. Non c’era più quella vitalità che l’aveva caratterizzata fino a poco prima; la sua espressione era tornata seria e, ad una prima impressione, contrita.
«L’altra volta ti ho dato l’okay sull’onda della tua stessa incazzatura–»
«Frustrazione.» la corresse lui.
«Quello che è. Però ora che vedo le reazioni dei miei colleghi mi chiedo: sputtanarci serve davvero, alla fine, oppure ci stiamo solo facendo del male? Non è che ho sbagliato a dirti di procedere?»
 
«Oh, assolutamente sì
 
La voce, calda e vibrante, fece scattare sull’attenti il lombax. Scattò in piedi e si voltò, così da avere tutto il salone sott’occhio.
«Chi è là!?»
Takami, dallo schermo, riusciva a vedere solo fino al divano. Tutta la sua inquadratura si riassumeva nella schiena svasata di Ratchet, con la coda che si agitava per la tensione improvvisa.
Poi, d’improvviso, la coda tornò rilassata.
«Riklis?» lo sentì domandare, stranito, guardando il muro a lato.
L’umana immaginò che stesse puntando la porta della cucina. In effetti era proprio lì che Ratchet guardava: attraverso la prospettiva stretta della bucatura, dritto al tavolo da pranzo, dove c’era una macchia d’un tono di blu che aveva visto addosso a una sola persona.
«È lei, avvocato?» domandò ancora.
Alle sue orecchie giunse una sorsata rumorosa. Poi, dopo un tempo che parve lunghissimo, dalla porta spuntò uno xarthar ittioforme, che si appoggiò contro lo stipite. La prima cosa che attirò l’attenzione di Ratchet fu il suo completo blu elettrico. La seconda furono le pinne, che tagliavano le maniche per tutta la lunghezza degli avambracci. La terza fu la tazzina che aveva in mano. Vedendola, e la bocca si aprì in una O muta.
Quella era parte del servizio ghish che Clank aveva nascosto, il cielo solo sapeva dove.
 
Riklis rivelò un sorriso. Denti da squalo fecero la loro comparsa sotto uno sguardo ridente e smaliziato.
«È curioso come tutti i servizi migliori siano conservati nei ripiani più alti. Però una soija di qualità merita una tazza degna. Uno di voi sa dirmi che tostatura è?»
Calò un breve silenzio. Vedendo che nessuno dei suoi interlocutori era interessato a rispondergli, lo xarthar fece spallucce. «Pazienza.»
Poi, rivolgendosi allo schermo, aggiunse con naturalezza: «Buon pomeriggio, signorina.»
Takami si schiarì appena la voce. Ratchet intuì il messaggio e si spostò, permettendole di incrociare lo sguardo col nuovo arrivato.
«Era una conversazione privata.» ammonì, gelida.
«Mia cara, non c’è nulla di veramente privato.» la corresse, abbandonando la tazzina su una vetrinetta bassa e lunga. Con la stessa noncuranza con cui aveva parlato, poi, aggirò il divano e si sedette. Ignorando apertamente il padrone di casa, accavallò le gambe e guardò nello schermo. «Se conta le telecamere, i microfoni e tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione, può convenire che la privacy è una merce molto rara.»
«Ha scordato chi sono, avvocato?» provocò per tutta risposta. «Ho curato personalmente la sicurezza dell’impianto. Nessuno che non sia lì o qui può sentirci, per cui le ripeto: era una conversazione privata. Lei non solo ha violato la nostra privacy e ci ha interrotto, ma ci deve spiegare com’è entrato in casa.»
«Ehi ehi, signorina, si cheti. Se sta insinuando che io abbia adoperato mezzi illeciti per entrare...» roteò la mano come un prestigiatore, e quando la fermò c’era un moschettone appeso al suo indice. «...la prego di ricredersi.»
Takami, in video, sgranò gli occhi per la sorpresa.
«Le mie chiavi!»
«Precisamente.» rispose, divertito, prima di sfilare il mazzo dal dito e depositarlo sul tavolino. «Le ho recuperate nel mio studio dopo la vostra ultima visita. Per favore, non mi faccia colpevole della sua sbadataggine.»
L’umana si fece scura. Sbadataggine? Non esisteva.
«Sta mentendo.»
«Però le sue chiavi sono qui.»
La ragazza controllò. Accedette all’inventario di materializzazione del braccio bionico, e l’attimo dopo si fece livida. Il segnale che l’inventario mandava al cervello era chiaro: le chiavi non c’erano. Non poteva contestarlo, ma era certa di non averle mai scordate.
Ratchet, invece, era sicuro della versione della ragazza. Lo ricordava bene, dato che ci avevano scambiato un paio di battute sopra.
«Lei sta mentendo.» rincarò. «Non so come, ma quel mazzo lei l’ha ottenuto in un altro modo.»
«È un’affermazione interessante, ma alquanto discutibile.» rispose l’avvocato, facendo spallucce. «Potremmo parlarne per tutto il giorno, in effetti, senza che l’indagine abbia una soluzione. Che ne direste, invece, di conoscere il motivo dietro la mia visita?»
Seguì un attimo di silenzio. L’irritazione era palpabile, ma alla verdesca non fece né caldo né freddo.
«L’altro giorno ero nel mio studio, sapete.» asserì con calma. «Ero oberato di lavoro più del solito, e ho deciso di farmi due passi nel parco del tribunale. Solo che, mentre faccio i miei due passi, finisco davanti all’edicola, e Vip64 attira la mia attenzione con l’oblò che titola “Esclusivo! Il nuovo capitolo dell’appassionante racconto di Ratchet!”»
Passò si nuovo lo sguardo dal video al lombax, che nel frattempo lo guardava con aria contrariata dall’altro capo del divano.
«Sì, ho ricevuto un’offerta che mi pareva buona.»
«Ed ecco perché sono qui. Quell’offerta non era per niente buona: Jeetwak si liscia le penne ad ogni capitolo che esce.»
Takami si dovette concentrare per ricordare chi fosse Jeetwak. Poi, in un lampo, le venne in mente: era l’avvocato di punta dell’equipe che rappresentava la USS Ferox. In pratica era la controparte di Riklis, che però parlava a nome degli ufficiali nemici ancora in vita.
Ratchet non ebbe alcun problema a ricollegare il nome all’immagine arcigna dello xarthar gufo. L’eco della sua voce stridula gli ricordò il momento in cui aveva preteso di farlo passare per pazzo, e immediatamente si rabbuiò.
«Non capite?» domandò Riklis. «Su di voi pende una perizia psichiatrica. Parlare di eventi soprannaturali con tanta leggerezza non fa che avallare le tesi dei nostri avversari.»
«Allora perché non mi ha fermato non appena ha scoperto il racconto?» domandò Ratchet. «Poteva telefonarmi.»
La verdesca ridacchiò.
«Scherza? Prima dovevo sapere cos’aveva già raccontato. E poi dovevo controllare un paio di tecnicismi inerenti al caso. Senza contare che sono davvero interessato a questa vicenda.»
«Quindi?» tagliò corto Takami.
«Quindi ho contattato la divisione editoria di Canale 64. Ho stabilito che d’ora in avanti le uscite saranno settimanali–»
«Continueremo la pubblicazione?» Le sopracciglia di Ratchet si avvicinarono. Non se lo spiegava: l’azione più logica sarebbe stata rescindere il contratto.
«Continueremo.» confermò l’avvocato. «Però sarò io a raccogliere la sua testimonianza e consegnarla all’editore. E posso anticiparvi che i fatti saranno resi... come dire, inoffensivi
«Perché, esistono persone morse da giornali?» obiettò Takami, con un sopracciglio alzato.
«Li vuole ritoccare.» spiegò Ratchet, prima di rivolgere un’occhiata torva all’avvocato. «Spiacente, ma i fatti restano quelli che sono. Pura e semplice verità.»
«Se i fatti rimanessero invariati, la perizia psichiatrica non ve la leverebbe nessuno. E allora nemmeno un miracolo potrebbe far pendere la giuria a vostro favore.»
Un miracolo. Che pessima scelta di parole – si disse Ratchet, prima di obiettare vivacemente.
 
Sullo schermo, Takami si fece pensierosa. Valutò l’ipotesi di provare a farlo, il miracolo, ma le parole aspre del lombax riemersero per frenarla. Era vero che lei aveva difficoltà con la lingua delle divinità, ma se non poteva nemmeno provarci... se non poteva provarci, la gente non avrebbe creduto a tutta la parte che seguiva. No di certo. Non in un luogo dove le religioni erano considerate poco più che mode.
Ed era altrettanto vero che lei aveva bisogno che il culto dei toksâme si diffondesse (o quanto meno che si diffondesse la conoscenza che tale culto esistesse) e che da qualche parte doveva pur cominciare... ma doveva comunque far fronte al fatto che lì, nelle sue Galassie Unite, le religioni non erano prese sul serio.
Quindi come avrebbe potuto, lui, parlare di Chaos e di tutto il resto senza essere preso per pazzo? Già solo al giuramento si sarebbe mangiato faccia e carriera!
 
Sgranò gli occhi.
Il giuramento. – si disse. – Ecco la causa!
Guardò la discussione che avveniva nel salone di Ratchet, vide il lombax difendere alacremente la sua linea di pensiero e strinse i denti, arrabbiandosi con lui e con se stessa.
Oh, col cazzo che te lo lascio fare.
 
«Ritocchiamoli.»
La parola, uscita di getto, cadde in un attimo di silenzio tra Ratchet e Riklis. Fu un caso fortuito, ma scatenò due reazioni completamente differenti. La verdesca si sfregò le mani, compiaciuta che almeno uno dei due volesse dargli retta. Il lombax, invece, la dardeggiò con lo sguardo.
«Ma sei impazzita?! Guarda che lo faccio per te!»
«Lo so!» esclamò lei, risentita, prima di abbassare i toni. «È da quando hai stretto quel giuramento che lo fai per me! Però oggi lo farai anche per te!»
«Perché tu hai deciso così?» rintuzzò lui, stizzito. «Tu, da sola, su due piedi ed emotivamente compromessa?»
Takami aprì la bocca, ma la richiuse subito con aria offesa. Fissò Ratchet con espressione bruciante. Non ce la faceva a dirgli apertamente che , l’avrebbe fatto perché volente o nolente era ancora suo schiavo.
«Li ritoccheremo.» ripeté, dura. «La gente avrà una versione che li accontenti, tu non finirai in manicomio e io potrò spezzare quella clausola prima che ti trasformi in un reietto.»
«Non è di me che ti devi preoccupare! La gente ci crede prostituta e protettore! Serve la verità, non un altro mucchio di balle!»
«Lo vedo da giorni l’effetto della verità! Hai sentito che idee mi fa venire, no? Quindi è meglio che credano che mi hai fatto Consigliere perché nella Dread hai visto qualche abilità, piuttosto che per il giuramento con Chaos.»
Riklis alzò un sopracciglio, sinceramente interessato. Da quand’era entrato nella conversazione quella parola era emersa già due volte e, nonostante i pochi elementi che portava con sé, sembrava riempire l’aria di sottintesi e problemi.
«Senti: non vuoi che usi l’Idioma e ti prometto che non–...in questo caso non lo userò. Però stiamo per parlare di dèi e magie. Ricordi che hai accettato l’offerta perché volevi dare un’immagine positiva di noi? Ecco: senza fatti che ci diano ragione, non abbiamo speranza di sopravvivere alla perizia psichiatrica, e nemmeno al giudizio del grande pubblico. E io ti ho appena promesso che non farò quei fatti.»
Ratchet si rabbuiò, intuendo le conseguenze. «Siamo alle corde» ammise.
Takami annuì. «E tutti gli altri hanno concordato con la nostra versione. Se ‘sta cazzo di perizia dicesse che abbiamo dei problemi, allora tutti gli ufficiali superiori della Phoenix avrebbero supportato sotto giuramento due pazzi. Sarebbe un vero casino.»
«Non avrei saputo dirlo meglio.» concordò Riklis. «Nessuno dei vertici, a meno che sia corrotto o minacciato, darebbe i posti più importanti del blasone della Flotta a un manipolo di persone mentalmente instabili, temo. Nemmeno io potrei salvarvi, e io sono oggettivamente il meglio del meglio.»
 
Ratchet chiuse gli occhi e sospirò a denti stretti. Oh, galassia. Era passato da cazziatore a cazziato. Da Takami, per di più.
Da Takami che, a ben vedere, ragionava sempre di più come una certa persona.
Squadrò la ragazza sull’oloschermo. «Ogni quanto ti senti col damerino?» domandò a bruciapelo.
Takami batté le ciglia due volte, sinceramente sorpresa. «Due o tre giorni. Perché?»
Ratchet alzò gli occhi al cielo con aria insofferente. «Dacci un taglio. Parli esattamente come lui.»
«Io non parlo come lui!»
Ratchet alzò un sopracciglio. L’umana, capito che l’argomentazione non avrebbe funzionato, dovette capitolare.
«Okay, forse m’influenza un po’. Ma allora? Mi sta aiutando ad affrontare il processo meglio di quanto faccia l’analista.»
«Col dovuto rispetto, signorina» s’intromise la verdesca «Ma se il suo consenso al racconto è frutto di questi colloqui..–»
«Era contrario.» tagliò corto lei, rifilandogli un’occhiataccia. «E aveva ragione a dire che avrei messo nei guai tutti gli ufficiali superiori, solo che ero troppo arrabbiata per ascoltarlo. Perciò, adesso, se per rimediare c’è da mentire, noi lo faremo spudoratamente.»
 
Ratchet serrò le labbra. Se quelli erano i desideri di Takami, non gli rimaneva altra scelta.
Lanciò un’occhiata a Riklis, che aspettava dondolando il piede. Solo il cielo sapeva quanto gli pesassero le parole che stavano per uscire dalla sua bocca; poi prese il fiato e... «Va bene: se questo è l’unico modo, facciamolo. MA.»
Il sorriso che aveva cominciato a delinearsi sul volto dell’avvocato si trasformò in una smorfia quando il lombax finì la frase: «Niente più compromessi. Io le racconto la verità e lei la elaborerà qui, con me. E le modifiche saranno pubblicate solo dietro mio consenso. Se un dettaglio deve rimanere in originale, ci rimarrà. Abbiamo un accordo?»
Takami passò lo sguardo da Ratchet a Riklis. Lo xarthar non pareva particolarmente turbato, anzi: gli porse la mano da stringere.
«Lo siglo dinanzi a un testimone.» asserì, lanciando una breve occhiata all’olovisore. Takami annuì con aria solenne.
«Bene.» replicò Ratchet, asciutto, riconquistando l’attenzione dell’avvocato. «Ha sentito la signorina, no? Si rimbocchi le maniche: lei e i lettori state per conoscere Chaos.»

 

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Capitolo 11
*** | Capitolo 08 | Tuesday's Hiring Show ***


[ 08 ]
Tuesday's Hiring Show
(Quando la cucciola ruggisce)
 
Non avevo mai sofferto d’incubi dopo aver ammazzato qualcuno. Mai, neanche all’epoca in cui schiantai la navetta su Novalis. Tuttavia, nelle notti che seguirono, ebbi sonni agitati.
Pensai che fossero i sensi di colpa verso la faccenda di Skìos; eppure, per quanto fosse la ragione più plausibile, sentivo che non era proprio così.
Provavo sentimenti contrastanti: da una parte c’erano i miei princìpi, che mi facevano un bel predicozzo, e dall’altra c’erano le parole di Basher. Era vero che avevo rivalutato il rilgarien, però non potevo non dare peso a ciò che aveva detto fuori dal compattatore. Anche perché, dovevo ammetterlo, quello che avevo sentito su Skìos prima di finire lì lo classificava già come pazzo scatenato.
Per non uscirne scemo m’informai sull’ex numero 5 di DreadZone.
Dopo la sua morte, accolta come un fulmine a ciel sereno, ci fu un bizzarro sistema di commemorazione basato su aneddoti. Ne ascoltai letteralmente di ogni genere, e – anche se per molti ero diventato “quello da tenere d’occhio” – ebbi modo di farmi un’idea più precisa sul cazar.
Skìos non era un cattivo propriamente detto. Cioè, sì, era un bastardo con la faccia come il culo, ma fondamentalmente era un personaggio.
La base era quella dell’esper dotato. La sua bravura gli era valsa una fama spropositata nella Via Lattea, ma le metanfetamine gli avevano mangiato il cervello. Era un dipendente cronico, e ciò me lo aveva confermato più di un gladiatore. E lo spacciatore – stando alle fonti – era nientemeno che l’agente di Skleroshock.
Ovviamente per confermarlo avrei dovuto chiedere direttamente al numero 4, ma altrettanto ovviamente non lo feci. La presi semplicemente per buona: dopotutto spiegava con efficacia perché la classifica fosse immutata da tempo.
 
Purtroppo, insieme agli aneddoti entrò in circolo anche la voce antipatica che a farlo secco ero stato io.
Scoprii così che Basher mi aveva fatto pubblicità (anche se ovviamente lui disse che l’aveva fatto perché di me non passasse l’immagine dell’eroina dal cuore tenero). Ciò mi mise in una posizione parecchio scomoda: non potevo negare il mio coinvolgimento, e allo stesso tempo non potevo confermarlo, altrimenti Vox m’avrebbe fatto saltare la testa in tempo zero.
 
Narrando col senno di poi posso dire che, alla fine, quei dieci giorni non furono così male come credevo. Sì, ebbi qualche incubo in più del solito e sì, gli altri gladiatori presero male il mio essere vago su Skìos, ma alla fine non mi ritrovai a fare a botte con nessuno (né fui fulminato né sgridato. La passai totalmente liscia).
E poi Takami, stando alle cure di Clank, migliorò. Non tantissimo, ma passò dall’essere un budino totale a qualcosa di un po’ meno terribile da vedere.
Ma vabbé.
Arrivò il 16 ottobre e quella mattina a buttarci giù dal letto ci pensò il direttore in persona.
Alle cinque spaccate partì una cacofonia di trombe e si accesero tutte le luci. Il casino fu tale che saltai in piedi con la convinzione che la Phoenix fosse sotto attacco. Poi vidi il faccione di Vox sul monitor sopra la porta e mi riebbi di colpo.
«Buongiorno Team Darkstar! Pronti per il grande giorno?»
«See see...» risposi, prima di mugugnare al suo indirizzo una via di mezzo tra una bestemmia e un insulto.
«Bene, perché stasera sarete in onda al Tuesday’s Hiring Show. La gente vuole farsi delle risate, e voi gliele assicurerete!»
«Non credo che far ridere rientri nelle mie priorità.»
«Allora datti da fare.» e cambiò bersaglio. «Takami, mia piccola bambola rara, mi hanno riferito di averti vista più agguerrita.»
La bambina, saltata giù dal letto pochi istanti prima, aveva gli occhi cerchiati e le mani nascoste dietro la schiena.
«Faccio del mio meglio, signor Vox...»
La sua voce, con la nota metallica resa dal collare, aveva un ché d’infantile che avrebbe sciolto il cuore di chiunque. Tranne quello di Vox, ovviamente. Lui (evidentemente) l’aveva sostituito con un pos[1], perché si sfregò le mani con un gran sorriso.
«Quindi lancerai finalmente i tuoi fulmini?»
Takami abbassò lo sguardo e mormorò: «Non lo so se ci riesco, signore. Ci provo.»
«FALLO!» ringhiò lui, facendole incassare la testa tra le spalle. «Perché dopo la gara verrai di filato nel mio ufficio e parleremo della tua prestazione!»
Poi, con gli occhi socchiusi per l’irritazione, aggiunse con finta calma: «Vedi di farmi felice, stavolta. Non ti devo ricordare cos’è successo a Green Gelatin, vero?»
Lei scosse nervosamente la testa e ciò sembrò compiacere abbastanza lo slademan, che tornò comodo sulla sua sedia.
«Mi aspetto grandi cose da voi.» disse, prima di chiudere il collegamento.
Guardai l’orologio sotto il logo girevole e grugnii.
Il nostro test era fissato per le dieci. Avevo tre ore per dormire e non le avrei mai e poi mai buttate per fare un favore a quello stramaledetto malato di denaro.
«Torna a letto, Takami.» sbuffai, sedendomi sulla branda. «Meglio non perdere altro tempo per lui.»
Rassettai il cuscino e mi resi conto che la piccola era rimasta in piedi davanti allo schermo, totalmente scollegata dal mondo.
«Ehi.» chiamai, prendendole il braccio.
Si girò meccanicamente. La pelle sulle guance aveva assunto una sfumatura verdognola.
«Non ci riuscirò mai» piagnucolò.
«Non sarai da manuale, d’accordo, ma ci riuscirai.» dissi per tamponare.
Scosse la testa.
«No...» pigolò ancora, gli occhi lucidi. «Non è vero.»
Roteai gli occhi.
«Ti sei spaccata di lavoro, no? E poi so dove sei arrivata. Lui non sa un bel niente, per cui se ti dico che ce la puoi fare tu ce la puoi fare
«Ma..–»
«Ma niente. Fila a dormire.» e mi rinfilai sotto le coperte. «Non ti voglio vedere fino alle sette e mezza.»
 
E non la rividi davvero fino alle sette e mezza, quando l’incrociai in bagno. Sedeva ricurva sullo sgabello, con la faccia tra le mani e i capelli scarmigliati a mo’ di siepe.
«Non hai dormito.» indovinai.
Scosse la testa in silenzio.
«E scommetto che non vuoi nemmeno avvicinarti alla mensa.»
Denegò di nuovo.
«O forse, più in generale... non vuoi nemmeno mettere il naso fuori dal bagno.»
Ruotò leggermente la testa, ma si fermò quasi subito.
«Io...» piagnucolò. «...ma devo uscire. E devo mangiare. E devo ottenere una vipera. E devo... devo...» la sua voce calò di tono fino a diventare un sussurro. «...devo usare i fulmini.»
Non che mi andasse particolarmente, ma mi avvicinai e mi sedetti sul pavimento, proprio davanti a lei, di modo che se avesse tolto le mani avrei potuto guardarla in faccia.
«Lo so che per te è difficile usare i fulmini.» esordii. «Ti ho visto, lo so che vai in palla. Ma se non li sa usare la Guardiana del Fulmine, chi dovrebbe saperlo fare?»
«Conundrum Dynamo li usa molto meglio di me. Ci dà tutte le forme che vuole.»
«Allora possiamo chiedergli di aiutarti.»
Scoprì il volto e scosse la testa con energia, arrossendo all’improvviso.
«No! Lui no!» esclamò. «Che poi è capace di chiederti cose strane!»
Però, che cambiamento!
«Io non voglio che ti chiede cose strane!» andò avanti, sempre con quella foga.
Ebbi un presentimento.
«Che tipo di “cose strane”?» domandai.
«Ecco...» distolse lo sguardo, le labbra arricciate in una smorfia tanto indecisa quanto infantile. «Una volta mi ha chiesto di aspettarlo davanti al Padiglione Quattro, ma non si è fatto vedere perché ha litigato con Basher. Una volta ha voluto un sacco di colpi bonus in cambio. E una volta... una volta...»
I suoi occhi si fecero più sgranati mano a mano che il tono calava. Quando raggiunse il silenzio, la sua faccia passò dal rosso al purpureo.
«Una volta cosa ti ha chiesto?» incalzai.
Si morse il labbro inferiore e si abbracciò il torso.
«Non voglio andare da Conundrum Dynamo.» sussurrò. «È strano cattivo.»
Strano cattivo. La definizione lasciava a desiderare, ma conteneva l’essenziale. Mi costrinsi a credere che i perché e i percome li avrei scoperti in seguito.
«Okay, allora lo lasciamo perdere.» dissi. «Adesso pensiamo ad altro. Tipo a una bella colazione energizzante.»
«Ma non posso! Se non uso i fulmini il direttore si arrabbia! E io non li so usare! E lui si arrabbierà, e farà come a Green Gelatin!»
Si mise le mani fra i capelli, respirando irregolarmente. Stava letteralmente annegando nella paura. Non potevo permetterle di continuare così: c’era la gara iniziale da fronteggiare! Dovevo tenerla calma, o la sua carriera di gladiatrice sarebbe finita prima d’iniziare.
«No che non si arrabbierà. Guardami.» replicai, prendendo le sue mani e levandogliele da quel cespuglio blu notte.
Lei però strappò le mani dalla mia presa e tornò ad abbracciarsi il petto, scuotendo la testa con decisione.
«“No” cosa?» domandai, cercando di essere gentile.
«È una bugia.» sussurrò. «Come dopo che ti sei ripreso dai nanobot.»
Ci fu un istante di silenzio. E in quell’istante mi sentii a disagio, e mi sentii offeso. Uno sputo in faccia mi avrebbe destabilizzato nella stessa maniera.
Poi l’istante passò. Incrociai le braccia e indurii il tono.
«Non è una balla.» scandii. «Ho un piano, so come superare la prova. Ho previsto tutto, e ho anche un’idea per farti usare i fulmini.»
Alla parola “piano” mi fissò, con quegli occhi grandi e marroni che, da lucidi, sbrilluccicavano. Spalancati com’erano in quel momento, poi, sembravano due fari. A metà della fronte c’era una ruga dritta, che rincarava esponenzialmente il barlume di speranza nello sguardo.
«Dici davvero?»
Mostrai un sorriso rassicurante.
«Ma certo.»
* * * * * *
Era bastata la parola “piano” perché Takami si calmasse, ma il punto era che io un piano non ce l’avevo.
Però, durante la colazione, mi era venuto in mente che Basher l’aveva convinta a usare delle scariche straordinarie. Era stato nel corridoio sopra il compattatore, durante la zuffa con Skìos: aveva detto qualcosa e lei era diventato un taser deambulante. Se avessi usato quel trucco avrei salvato capra e cavoli; perciò, dopo il rito masochistico della sbobba grumosa, andai a cercarlo.
Per quel che pensavo di lui avrei preferito ingoiare il mio vecchio horny toad, piuttosto che andare a cercarlo. Ma avevo poco più di mezz’ora per risolvere il mio piccolo enorme problema.
 
Lo trovai in palestra, nel suo cubicolo al primo piano, con una faccia cupa che non gli apparteneva. Con lui, silenzioso come un fantasma, c’era Jackson, la spalla dell’ormai defunto numero cinque.
Lo slademan sbuffava come un mantice mentre si piegava sulle ginocchia e ritornava in piedi, portando su e giù un bilanciere con sopra un numero assurdo di chili. Basher, invece, sedeva ricurvo sulla panca, coi gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate davanti alla bocca. Quando mi vide gli passò un lampo di sollievo negli occhi. Poi mi riconobbe e il suo sguardo si spense. Capii che aspettava Nokki.
Mi dispiaceva, ma Nokki non sarebbe più arrivato per lui. Infatti, dopo il numero del compattatore, la squadra era stata ricostruita e Jackson era diventato la nuova spalla di Basher. Il quale (c’era da capirlo) l’aveva presa male.
«Che vuoi?» domandò, arido.
«Takami. Tra venti minuti c’è il ritrovo e io devo avere un modo per farle sparare fulmini.»
Si strinse nelle spalle. «Allora hai un grosso problema.»
«Ma tu ci sei riuscito.» replicai con convinzione. «Dimmi come.»
Mi lanciò un’occhiata di fuoco. La sua voce, tuttavia, non tradì nessuna emozione.
«Non posso.»
«Potrebbe essere l’unico modo per farla uscire viva.» feci presente.
«Ho unto a sufficienza perché la difficoltà della sua prova sia minima. Se la caverà anche senza le sue doti.»
Non capivo il motivo della sua zucconaggine, ma non avevo tempo per indagare. La lancetta dell’orologio, sulla parete, era già avanzata di un paio di tacche. Me ne restavano un altro paio, se prima della prova volevo riuscire a infilare l’armatura. Sperando che la sua confidenza nel compattatore fosse vera, decisi di giocare l’ultima carta.
«Invece deve. Vox ha promesso di farle fare la fine di Green Gelatin, se non le usa.»
 
Funzionò.
Qualunque fosse stata la fine di Green Gelatin, a quelle parole il rilgarien cambiò totalmente atteggiamento. Scoccò un’occhiata fugace all’orologio e scattò in piedi.
«Mancino o destrimano?» domandò con urgenza, fissandomi.
«Eh?»
«La tua mano dominante. Dimmi qual è.»
«La destra...» risposi, disorientato.
Basher me l’afferrò e strappò via il guanto. Fissò la pelle alla ricerca delle rune e, subito dopo, mi guardò con aria stravolta.
«Non hai stretto il giuramento.»
Lanciai un’occhiata storta a Jackson. Con lui presente non potevo certo nominare impunemente la Donna di Fumo.
«Non l’ho nemmeno mai vista.» dissi, sapendo che avrebbe inteso.
Lui non solo capì perfettamente, ma intuì anche qualcos’altro che – a giudicare dalla sua espressione – era assolutamente no buono.
Mi sbatté il guanto in mano e, preso da una verve rinnovata, diede l’ordine come un generale: «Vieni con me, svelto.»
 
Uscimmo dal suo cubicolo, lui avanti e io dietro, quasi correndo. Mentre tagliavamo l’andirivieni dei gladiatori lo sentii dire: «Se anche ti dicessi il mio segreto, con te non funzionerebbe perché non hai il marchio. Devo essere in contatto radio con la ninnola.»
«Non puoi entrare nella stanza dei miei tecnici; il collare salterebbe.» feci notare, dribblando un blå hud grosso come un carro armato.
Passammo in mezzo ad un manipolo di gladiatori e, solo quando furono alle nostre spalle, Basher rispose: «Ecco perché sto ricorrendo al piano B.»
Lo guardai stralunato.
«E sarebbe?»
In faccia gli si stese un sorrisetto sornione. «A quanto pare, amico, dovrai fidarti ancora di me.»
* * * * * *
«Ma dov’eri finito?»
Al, col faccione tirato dall’ansia, mi raggiunse non appena entrai nella loro cella.
«Lascia perdere.» grugnii. «Takami?»
«È già pronta.» e indicò un punto alle sue spalle.
Oltre, in un angolo, la piccola stava accucciata di fronte a Clank e ascoltava con attenzione quello che le stava dicendo. Approfittai della loro distrazione e presi Al per un braccio.
«Ascolta.» iniziai, serio, parlando a voce bassa perché le telecamere non ricevessero perfettamente. Misi una mano in tasca ed estrassi una micro SD. «Qui troverai una patch per il circuito audio delle armature. L’ha scritta il tecnico di Basher–»
«La controllo e gliela rimando, tranquillo.» replicò con un sorrisone.
«No!»
Il sorriso si smorzò di colpo e, di fronte alla sua confusione, mi affrettai ad aggiungere: «Devi installarla.»
Passarono diverse espressioni sul suo volto: stupore, offesa, diffidenza.
«Potrebbe essere una trappola...»
«Vero. Ma è l’unico modo per risolvere un altro problema.»
Accennai alla bambina e sperai che Al capisse. Lui la fissò e si fece pensieroso. Quando parlò, la sua voce era cupa.
«Lo farò. Ma prima voglio controllare, per sicurezza. Se non rischia di crashare il sistema, allora considerala installata.»
«E quanto ti ci vuole?»
«Tre minuti, forse cinque. Dipende da alcuni fattori.»
Non volli sapere quali. Però... «Wow. Pensavo che ci volesse di più.»
Al sorrise senza sentimento. «Sono ChronoPath00, il meglio del meglio. E adesso vediamo di infilare quell’armatura.»
 
Sistemai l’ultima piastra appena in tempo. L’istante dopo, infatti, il monitor si accese e ci mostrò la faccia tonda di un robot monoculare.
«Team Darkstar, abbiamo sbloccato i vostri codici di accesso al livello A0. I tecnici rimangano nella cella contrassegnata col numero 4-723. La cella sarà trasportata in blocco fino alla postazione di gara. I gladiatori, invece, raggiungano il percorso di qualifica assegnato. Avete quattro minuti da adesso; dopodiché sarete considerati disertori e attiveremo i collari.»
Sgranai gli occhi.
«Eh?»
Takami fece capolino al mio fianco.
«Sarà brutto.» disse con un filo di voce. «Ti daranno la scossa finché non sarai oltre la soglia del Padiglione A0. Oppure finché... finché...»
«Ho capito, tranquilla.» risposi, dandole una pacca sulla schiena. «Fai strada, dai. E prendi la scorciatoia!»
* * * * * *
Due minuti e diciassette secondi dopo mettemmo piede oltre il cancello del Padiglione A0, ch’era (scoprii) il piano sotto l’arena della stazione. La stanza era piccola e spoglia. L’unico accenno a quel che ci aspettava era appeso alla parete di lato: quattro poster di stoffa, alti quanto il muro, su cui gli Sterminatori campeggiavano in pose cazzutissime. Sembravano dire “ehi, caccole, scordatevi di arrivare alla nostra altezza perché vi facciamo fuori prima”.
In realtà, però, più li guardavo e più l’idea di essere io a farli secchi mi affascinava.
Non potevo dire lo stesso di Takami, che invece era una corda di violino. Aveva i pugni raccolti sul petto e cercava di regolare il respiro, riuscendoci a malapena.
Le diedi una pacca sulla schiena e mormorai: «Andrà tutto bene, fidati.»
Mi lanciò di nuovo quell’occhiata in bilico fra la speranza e la rassegnazione. Aprì anche la bocca per rispondere, ma il discorso fu brutalmente smorzato dalla voce del robot monoculare.
«Potente CPU! Ci siete davvero...»
Il maxi schermo sulla parete di fronte si accese e ci mostrò il busto dell’automa, che si sporse in avanti e bofonchiò qualcosa su dei bolt, prima che una seconda voce metallica lo richiamasse all’ordine.
Si schiarì la voce e riprese: «Ascoltate attentamente; il messaggio sarà espresso una sola volta. Il percorso si articola in due fasi. La prima, valevole per il giudizio tecnico, la dovete eseguire in solitaria; mentre la seconda, che darà luogo al giudizio del pubblico, la svolgerete come squadra. In occasione della prova vi sono assegnate una coppia di vipere. Dopo il giudizio complessivo riceverete istruzioni in merito alle armi da restituire.»
Chiaro e limpido.
«Il vostro nome ufficiale è Team Darkstar. Eroe: Ratchet. Spalla...» si rivolse a qualcuno fuori dall’inquadratura. «Chi è che ha scritto ‘sta roba? Zed? Ah, ecco perché è incompleta.»
Si rivolse direttamente a lei.
«Nome?»
La piccola fece per rispondere, ma la voce uscì talmente bassa che non si sentì niente. M’intromisi e risposi al posto suo.
«Takami. Ricevuto e aggiornato.»
Per tutta gratitudine mi beccai una faccia che diceva “ma sei impazzito?”
No, non ero impazzito. Era normale che fosse chiamata col suo nome, ed era anche parte del piano B di Basher.
La porta vicino al maxi schermo scorse automaticamente sulle guide, mentre il robot ci diede le ultime spiegazioni: «Il primo ad affrontare il percorso di qualifica è l’eroe. Quando avrà raggiunto il termine del tracciato, oppure dopo la sua morte, sarà fatta concorrere la spalla. Nel caso in cui sopravviviate entrambi, allora accederete insieme alla seconda fase.»
«E nel caso improbabile in cui uno morisse?» domandai. Forse fu un errore, perché Takami sbiancò ancora di più. Monocolo, però, non si fece tanti problemi.
«Riorganizzeremmo la squadra e il superstite avrebbe modo lo stesso di gareggiare.»
Avrei dovuto aspettarmelo.
«Adesso “eroe” facci divertire.»
Il maxi schermo si oscurò e, al posto dell’androide, comparve un timer. Trenta secondi, ventinove, ventotto...
Scambiai un’occhiata con Takami e l’abbracciai. Risultò un gesto goffo, impacciato dalle armature abbastanza ingombranti, ma fu il mio tentativo di infonderle un po’ di sicurezza.
«Ricorda che non sei da sola, perché siamo in contatto radio. E ricorda che questa sfida è alla tua portata, perché sei stata allenata dai più grandi eroi che Solana abbia mai visto. Intesi?»
Mi staccai e la guardai fissa negli occhi. Lei annuì a ripetizione e io le diedi un’ultima pacca sulle spalle.
«Brava piccola. Ci vediamo di là.»
E m’incamminai oltre la soglia.
 
La “fase valevole per il giudizio tecnico” non fu per nulla entusiasmante. Fu come giocare una partita di soft air contro una squadra di statue: spazio grande ma chiuso, compariva un ologramma, puntavo e sparavo. Ruzzolavo dietro un muro, fingendo di essere nell’arena, e aspettavo che comparisse un nuovo nemico.
Penai un po’ con gli ultimi due perché non riuscivo a stanarli, nascosti com’erano dietro un paio di asperità del terreno. Poi, una volta abbattuto l’ultimo, fui teletrasportato in una stanza simile a quella coi poster. C’era un ingresso e un maxi schermo, proprio come nell’altra, solo che sul monitor, sotto il logo DreadZone, c’era un orologio.
Sembrava una sala d’aspetto, ma non aveva sedie. Così mi sedetti in terra e aspettai che Takami arrivasse – cosa che fece dopo quasi un quarto d’ora. Quando il bagliore iridescente del teletrasporto l’abbandonò, la prima cosa che fece fu cercarmi con gli occhi. Era evidentemente tesa, ma ciò non le impedì di aprire la bocca per chiedere scusa.
«Non capivo cosa dovevo fare.» tentò di spiegare, arrossendo. «Mi dispiace.»
Sorrisi e alzai le spalle come per dire “non fa nulla”.
Indicai la porta e mi accorsi con la coda dell’occhio che l’orologio sullo schermo si era di nuovo trasformato in un conto alla rovescia.
«Vogliamo andare?» domandai con leggerezza. Lei guardò la porta come se fosse un mostro terrificante, ma non rifiutò. Come si poteva, con una bomba innescata intorno al collo?
Varcammo l’uscio quando il timer segnava due secondi e spiccioli. Quella volta, però, non ci fu nessuna stanza grossa, grigia e silenziosa, ma solo la luce e il calore del teletrasporto.
* * * * * *
Quando l’universo si ricostruì intorno a noi, era tutto buio. Buio e piuttosto stretto. Non dovevo neanche distendere le braccia per intero prima di toccare qualcosa, a parte per il soffitto.
L’unica traccia che non fossimo nello sgabuzzino sbagliato erano alcune sbarre di luce che brillavano poco più in alto dei miei occhi. Da esse proveniva il rumore di migliaia e migliaia di persone che parlavano tutte insieme, più (al di sopra di tutte le altre) due voci distinte, una maschile ed una femminile, che parlavano di un combattimento in corso.
«Dallas e Juanita...» sussurrò Takami, riconoscendoli.
«Li conosci?»
«Sono i presentatori del programma. Commentano tutto e tutti. E non sono mai gentili. Mai.»
«Ooohh... ed è finita per The Stone, signore e signori!» tuonò Dallas in quel momento. Un boato di urla sembrò indicare che la gente fosse felice di ciò.
«E con lui siamo a tre vittime su tre concorrenti! E ne mancano solo due al termine della puntata di oggi; ricordatevi di puntare su qualcuno che possa realmente farcela, amici! Lo dico per le vostre tasche!»
«Bugiardo.» sussurrò Takami.
«E adesso abbiamo... – ah, vediamo un po’ – ...il Team Darkstar, capitanato da...Ratchet? Mai sentito nominare. Beh, restate a guardare lo stesso: forse si tratta di un intermezzo.»
Ammetto che mi sentii parecchio punto: da quando ero un intermezzo?
«Ma non preoccupatevi, perché fra poco avremo il Team Galacticon guidato da Bold Logan gente, perciò restate con noi, al Tuesday’s Hiring Show!»
Le sbarre di luce del buco in cui eravamo cominciarono ad abbassarsi, e un profilo bianco e rettangolare si disegnò nella parete davanti a noi. Mentre la porta si abbassava dovetti chiudere gli occhi per non rimanere abbagliato dalla luce che entrava.
Tenendo gli occhi socchiusi mossi qualche passo verso l’esterno, con Takami dietro di me che fece capolino molto timidamente.
«Bene, eccolo qui... hehe, è proprio un nanerottolo!» ghignò Dallas. «Beh, non lasciateci nemmeno per bervi una birra. Questi qui non arriveranno al secondo round.»
Ero già carico di conto mio, e sentirmi pungolare da un tizio seduto a una cattedra volante non fece altro che attizzare la mia parte bellicosa.
«Lo vedremo.» sussurrai tra me e me, parecchio incarognito. Premetti il pulsante che materializzava il casco e richiamai le vipere. Ero pronto.
 
Al primo sguardo analizzai i fattori principali dell’arena: era tonda ed era circondata da un bellissimo fiume di plasma incandescente.
Elementi secondari: una serie di barriere che sembravano posizionate a caso e suolo metallico. Avrei preferito la cara vecchia terra battuta: le lastre di metallo non andavano molto d’accordo col piano di Basher. O forse era calcolato, pensai. In ogni caso mi dovevo augurare buona fortuna.
 
Mossi un passo e, prima di battere le ciglia, un nugolo di bladeballs arrivarono da ore nove. Sembravano grossi hamburger infarciti di rasoi rotanti, che sciamavano come calabroni infuriati. Erano troppi per abbatterli uno ad uno con le armi da fuoco. Allungai la mano per richiamare l’onnichiave e...
No, merda!
Non ce l’avevo più, l’avevo dimenticato di nuovo!
Scattai in avanti e mi gettai dietro una barriera appena in tempo. Con una serie di clangori raccapriccianti contai che almeno quattro bladeballs si conficcarono nelle lastre di metallo, tagliandole come fossero di cartone. La punta di una di esse fece capolino dalla mia parte, appena qualche centimetro sopra il casco.
Il resto dello sciame lo vidi sfrecciare oltre la paratia di metallo, come una formazione aeronautica. Si sarebbero raccolte e avrebbero attaccato nuovamente da un’angolazione migliore. Non avevo proprio voglia di dar loro il tempo di recuperare il vantaggio.
Saltai in piedi e abbandonai il rifugio sicuro. Mentre correvo verso una seconda barriera puntai una vipera e feci fuoco. Ne abbattei tre. Ne rimasero altre tre.
E in tutto ciò Takami era rimasta immobile.
«TAKAMI!» gridai, risentito. Ma cavoli, non poteva rimanere lì impalata!
Intanto le ultime tre bladeballs si erano rimesse in formazione di battaglia. Una mi puntò alle ginocchia e le altre due al torso. Mi ci volle un’altra scarica di phaser prima di liberarmi di loro. E Takami non si mosse di un singolo millimetro.
«Sto riavviando i sistemi della sua armatura.» mi rese noto Al, prima che cacciassi un altro urlo. «A quanto pare non l’abbiamo calibrata bene. L’ha fritta.»
Magnifico. Meraviglioso!
«Tempo di riavvio?»
«Pochi secondi. Occhio alla dropship.»
La navetta cui faceva riferimento stava entrando in quel momento. Era piccola, squadrata e massiccia. Classe cargo, rossa, su cui spiccava il logo di DreadZone. Non aveva alcuna fretta.
«...meno potenza, Takami.» stava dicendo Clank.
La bambina ricominciò a muoversi. Scavalcò qualcosa con delcatezza, e fu allora che mi accorsi delle bladeballs ancora sfrigolanti ai suoi piedi. Riportai uno sguardo allibito su di lei, che fece un paio di passi nella mia direzione e poi, come me, si mise di fronte alla navetta.
Materializzò una vipera. La mano le tremava.
«Stammi dietro.» dissi semplicemente, pregando tra me che non mi friggesse l’armatura come aveva fatto con i robot.
La navetta, intanto, raggiunse il bordo dell’arena e si fermò a mezz’aria, a diversi metri da terra. I portelli sul retro si aprirono di scatto e due corde piovvero al suolo.
Le corde si agitarono un po’, poi da esse cominciarono a scendere dei...thugs? Mercenari DreadZone? Poco importava: erano nemici ed erano armati fino ai denti.
Cominciarono a volare phaser. Io presi a correre per il campo di battaglia, dando fondo ai caricatori delle vipere. Takami si era riparata dietro la barriera piena di bladeballs e – grazie al cielo – dalla sua posizione fioccavano raggi rossastri. Incerti, pochi, lenti...si potevano trovare mille difetti, ma l’importante era che rispondesse al fuoco. Che non fosse bloccata dalla paura.
 
In un primo momento sembrò che riuscissimo a gestire la situazione. Per ogni mercenario che toccava terra avevamo pronto il fuoco di risposta. Il problema, però, sorse presto: dalla navetta continuavano a scendere soldati, come se quel piccolo cargo non avesse un fondo. Le corde si agitavano in continuo mentre i soldati scendevano, e chi poteva permetterselo saltava direttamente giù. In breve ci trovammo sottodimensionati di dieci a uno.
Eravamo nei guai.
«Le dropship sono fatte per teletrasportare gruppi di soldati sul campo.» annunciò Clank, come se mi avesse letto nel pensiero. «Devi distruggerla, Ratchet!»
«La fai facile tu!»
Mi gettai dietro un’altra barriera e analizzai la situazione in un battito di ciglia. I soldati erano semplicemente troppi. Aveva ragione lui: per quanti ne potessimo abbattere, era ovvio che il problema l’avremmo risolto solo eliminando la dropship.
Mi guardai le mani, le pistole che stringevo. Erano deboli.
Pensai rapidamente a una soluzione, frustando l’aria con la coda. Quando me ne resi conto sgranai gli occhi. La coda!
«Takami!» chiamai. «Continua a sparare; io mi occupo di mamma navetta!»
La radio rimase muta, ma assunsi che avesse ricevuto. Sgusciai a schiena china verso la paratia che avevo qualche metro davanti. La tattica era semplice: muoversi in continuo. Sporgermi, sparare, e poi avvicinarmi di quanto potevo alla navetta. E una volta sotto...bum! Far saltare il condotto giusto.
Mi attenni alla tattica con una concentrazione tale che anche le parole di Clank e Al, che peraltro erano rivolte a Takami, mi arrivarono marginalmente. A dire il vero erano poche le cose che mi arrivavano direttamente in quel momento, ed erano tutti istinti personali: pericolo, schiva, colpisci. Avevo brevi scorci del campo di battaglia quando mi sporgevo dalla barriera per sparare, ma nulla più. Mi sporgevo, sparavo, adocchiavo le armi dei mercenari e mi rimettevo al coperto finché non potevo avanzare.
Arrivai in posizione dopo quella che parve un’eternità. L’ultima paratia, contro la quale mi gettai di peso, era vicina al punto che, da accucciato, potevo vedere il telaio della vettura. Ai quattro angoli c’erano i propulsori per il decollo e l’atterraggio, e nel mezzo c’era una serie di tubazioni a Y che disegnava una geometria a me nota. Un cargo era sempre un cargo, non importava cos’avesse nella stiva. E io, da meccanico, avevo riparato un numero sufficiente di quei chassis da sapere con esattezza dove colpire.
Controllai il fiato, così da ridurre al minimo le possibilità di sbagliare, puntai la coda e scandii: «Shot!»
Il familiare tepore dell’energia s’incanalò dalla schiena fino al batuffolo – ora trasformato nella bocca di un fucile di precisione – e un proiettile ambrato si scagliò contro la metà posteriore del telaio, dove aprì un buco grande quanto un pugno. La navetta, incapace di muoversi a dovere, sfrigolò e crepitò scintille, prima di precipitare dritta nell’anello di plasma incandescente.
«Evvai!» gridai. Poi mi voltai, e...
Che dire. Credo che nessuno mai avesse allontanato un nemico facendolo rimbalzare via. Takami stava facendo esattamente così: aveva le mani aperte davanti a sé, con i pollici e gli indici uniti a mo’ d’inquadratura, e teneva i thugs alla larga con un muro invisibile.
E nessuno di loro sparava. Questo forse era la cosa più incredibile. Cercavano tutti di sfondare la sua barriera con la forza bruta.
«Non ti avvicinare.» disse Clank. «Quello è un campo magnetico: se ci finisci dentro la tua armatura crasherà e non potremmo riavviare i sistemi in remoto.»
«Ricevuto. Dimmi dei thugs.»
«DZ Striker, robot. Loro e le loro armi mal funzionano a causa del megnetismo. È la tua occasione.»
Non me lo feci dire due volte. Alzai le vipere e li mitragliai tutti.
 
«Però! Per essere un intermezzo questo nanerottolo se la cava benino! Juanita, cosa sappiamo di lui?»
«Le agenzie dicono che sia un pazzo evaso dalla prigione volante di Aranos, e che abbia vagabondato derubando e uccidendo prima che le autorità ce lo affidassero per lo sterminio.»
«Credo che si dica “lavori socialmente utili”, Juanita.»
«Quello che è, Dallas.»
 
Mi avvicinai a Takami, che era china su uno dei soldati morti. Fissava il suo volto metallico, con la striscia oculare spenta. Puntò un dito contro il suo mento e provò a smuoverlo.
Clank ci aggiornò in quel momento.
«Okay, ragazzi, a ore undici avete una chiatta sul plasma. Usatela per raggiungere il corridoio per l’arena principale.»
Tesi la mano a Takami e l’aiutai a mettersi in piedi. «Nemici?» domandai a Clank.
«Nessuno. Avete trenta metri di tunnel sicuro.»
«D’accordo, andiamo.»
 
Il tunnel ci offrì qualche secondo di pace. Ma poi l’arena principale...accidenti, cosa non era! Era grande il doppio...no, almeno tre volte quella da cui provenivamo! E la folla che ruggiva, le luci quasi accecanti, e tutti quegli occhi puntati addosso...galassia! Era adrenalina sparata nel cuore!
E io, semplicemente, non capii più nulla.
Finalmente, dopo un anno di noia e frustrazione, mi sentii vivo. All’inferno la costrizione, i patti e tutto il resto. In quel momento c’erano solo la folla che scandiva Darkstar e i miei nemici, tre striker, che mi attendevano a metà di quello spiazzo immenso circondato dal plasma.
Mi lanciai in un attacco frontale e il primo, prima che agisse, lo disattivai con due proiettili nel visore. Il secondo e il terzo non la presero bene: imbracciarono i loro fucili e frenarono la mia corsa con una potenza di fuoco degna di una torretta stalker.
I proiettili grandinarono contro la mia armatura mentre Al sbraitava dati («Resistenza armatura al novanta percento! Ottanta! Settanta! Porca miseria Ratchet: smetti di farti colpire!»).
Il campo di gara era diviso in tre settori da due file di piastre lanciafiamme. Mi rifugiai oltre una di esse quando le bocche dei bruciatori erano già bianche. L’attimo dopo il terreno eruttò una cortina di fuoco incandescente.
Takami sfruttò quel momento. Gli striker non se l’erano minimamente filata, e lei si fece notare. Quando il bruciatore mi liberò lo scenario, aveva in mano una vipera e faceva fuoco coi piedi piantati a terra e le braccia rigide.
Accidenti, no!
Si stava rendendo un bersaglio.
Scattai in avanti e feci fuoco mirando a entrambi gli striker. E al diavolo che quello era uno spreco di munizioni.
Quello cui mirava Takami cadde quasi subito. L’altro fu più ostico, ma nulla di preoccupante: alla fine si piegò sulle ginocchia e cadde disteso in avanti, mentre Al ci rendeva noto – sbraitando, ovviamente – che le nostre armature erano al 40 percento. Però in quel momento la folla esplose in un boato e l’ondata d’energia che mi attraversò mi fece dimenticare delle urla del mio amico.
E, sempre grazie alla folla, mi accorsi di una dropship in arrivo da sopra gli spalti.
«Okay piccola, pronta per il prossimo round?» domandai, gasatissimo, indicandogliela con un cenno. Scosse la testa, un po’ come dire “non proprio...”
«Facciamo come prima, ci riesci?» le chiesi. Lei annuì di nuovo. «Perfetto, tienti pronta.»
Mi chinai a raccattare le armi degli striker, un modello di lanciarazzi che la Vox Industries vendeva col nome di Arbiter. Li soppesai brevemente e decisi che fossero esattamente quello che mi serviva. Non avevo certo intenzione di far scendere un’intera armata prima di abbattere la navetta!
 
I portelli si aprirono, le corde calarono. Takami allargò i piedi e mise le mani in posizione, coi pollici e gl’indici uniti, mentre io sgusciai a lato per raggiungere il telaio della dropship.
I soldati cominciarono a scendere, copiosi come prima. Ma stavolta non potevano fregarci più di tanto. Ai primi due staccai la testa coi lanciarazzi. I secondi furono gettati tra le fiamme dal campo magnetico della piccola e la terza coppia non toccò neanche terra, perché mentr’erano a mezz’aria io puntai la coda e mi giocai il secondo proiettile. La navetta rollò pericolosamente, ringhiò in tono cupo e poi esplose, aprendosi in una miriade di schegge di metallo luminose come fiammelle.
Feci a malapena in tempo a coprirmi la faccia con un braccio, prima che un tot di schegge mi grandinasse addosso come una selva di armi ninja.
Persino la folla si azzittì. Per una manciata di secondi l’Arena DreadZone rimase nel più assoluto silenzio. Io e Takami guardammo il punto dov’era sparita la dropship e ci scambiammo un’occhiata, increduli.
Era successo proprio come nei film...e non era normale. Neanche se avessi centrato il generatore primario la navetta si sarebbe dovuta comportare così.
Poi gli spettatori ruggirono il loro gradimento, e l’arena vibrò.
 
«Un numero davvero notevole, Juanita. Che ne pensi?»
«Penso che sia ora di sottoporli al test finale, Dallas. Un piccolo fuori programma voluto e progettato dal nostro amato direttore, Gleeman Vox!»
«Giusto, Juanita. Sono sicuro che la consolle del loro navigatore stia impazzendo, in questo momento...»
 
«Ragazzi, guai grossi!» gemette Clank. «La consolle mi segnala solo ora che avete nemici su nemici alle vostre spalle!»
Io e Takami ci voltammo in sincrono verso il tunnel. Guardai la sua bocca esagonale e sentii il bisogno di deglutire. Solo in prima fila c’erano una dozzina di striker, tutti armati di mazza chiodata.
«Oh mamma.» sussurrai.
* * * * * *
Il numero esatto ce l’avrebbero dato solo alla fine della battaglia, ma in quel momento – guardando l’imbocco del tunnel – mi parvero almeno il doppio. E la parola “tanti” non era sufficiente a rendere l’idea.
Di riflesso strinsi il calcio degli arbiter, mentre Takami materializzò le sue vipere.
La prima fila puntò le sue armi verso di noi, a mo’ di sentenza.
«Okay cucciola, adesso fa’ come ti dico.» ordinai. «Per prima cosa resta sempre con la faccia rivolta verso di loro.»
Annuì e si girò con tutto il corpo, come per fronteggiarli. Poi voltò la testa verso di me, come a dire “e adesso?”.
Proseguii: «Metti via le vipere e tienti pronta.»
Istintivamente richiuse la stretta sopra le impugnature. Il messaggio era chiaro: col cavolo che faccio una roba simile!
«Quelle non servono. Non bastano.» spiegai. «Ci vogliono i tuoi fulmini, ecco perché devi avere le mani libere. Ti copro io con questi.»
Scossi leggermente gli arbiter sotto il suo sguardo vigile. Non sapevo se stesse guardando me, le armi o il vuoto: non potevo vedere oltre il suo visore.
All’improvviso l’arena si riempì dell’urlo di una sirena.
Dalle fila degli striker si alzò un ruggito, mentre – con le loro armi alzate – si riversarono nella piattaforma.
«Fallo, Takami! Smaterializza le armi!» gridò Clank, mentre il terreno sotto i nostri piedi cominciava a vibrare.
Takami strinse convulsamente il calcio delle vipere, prima di smaterializzarle.
L’orda di avversari aveva divorato più della metà dello spazio che ci separava. Ad ogni metro che guadagnavano il terreno vibrava sempre più forte, le urla diventavano più nitide e il desiderio di scappare si faceva sempre più urgente.
Facevo fatica a controllarmi. Takami, di fianco a me, aveva le gambe che tremavano leggermente.
«Calmo, aspetta...» ricordai, più a me che a lei.
Poi, quando gli striker furono abbastanza vicini, gridai: «RUGGISCI, TAKAMI!»
E scatenai un pandemonio.
* * * * * *
Prima della prova
Padiglione Sei, corridoio davanti la cella di Basher
 
«Ecco il piano B.»
Passai lo sguardo dalla SD che mi tendeva alla sua faccia.
«Mi prendi in giro.» dissi.
«Amico, c’è la mia vita in ballo. Non sono tanto idiota.»
Presi la scheda di memoria e me la rigirai tra le dita. Mi soffermai un istante sui dentelli dorati, poi chiesi: «Che c’è dentro?»
«Una patch particolare. Con quella, quando tu dirai la parola di comando, la ninnola sentirà la mia voce anziché la tua. Sarà come se fossi io a darle l’ordine, esattamente com’è successo fuori dal compattatore. In teoria dovrebbe funzionare.»
Ci ragionai un attimo. Sembrava un buon piano.
«Così salverei capra e cavoli.» convenni, infilando la SD in tasca.
Lui annuì e andò avanti: «Il comando si struttura in parola d’ordine e nome della ninnola. Ricordatelo, che sennò la patch non si attiva. Poi hai a disposizione due parole d’ordine: Ruggisci per la lunga distanza, Mordi per il corpo a corpo. Mordi l’hai già vista.»
«E l’altra?»
Basher mi fissò per un istante, prima di alzare un angolo della bocca e ghignare: «Oh, vedrai. Uno zodiac fa molti meno danni.»
* * * * * *
Uno zodiac. Pensavo che Basher avesse detto il nome di un’arma a caso, invece no.
Fasci di scariche elettriche avvolsero Takami che, ferma in mezzo all’arena, alzò le braccia al cielo. Le scariche le risalirono, raggiunsero le mani e si diramarono nell’aria, tracciando una cupola di forma irregolare. E poi cominciarono a cadere i fulmini.
I fasci di saette schioccarono al suolo con un ritmo del tutto casuale, seminando morte e riempiendo l’arena con un forte odore di circuiti bruciati. Attraverso il mio visore ogni scarica era un filo azzurrino. Una frazione di secondo brillava, quella dopo abbandonava il corpo ormai disattivato di uno striker.
Ovunque dirigessi lo sguardo, era pieno di fili azzurrini.
Capii che non esisteva un posto sicuro, sotto quella cupola luminosa, e in quello stesso istante un fulmine mi colpì.

[1|⇑] Il pos è la macchina per i pagamenti con carte di credito.

 

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Capitolo 12
*** | Capitolo 09 | Conosco Chaos ***


[ 09 ]
Conosco Chaos
(un nome che è tutto un programma)
 
Presente. Il giorno dopo, 15 febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
Ho cambiato serratura al portone (poi ti spiego perché). L’ho già calibrato, quando torni basta che t’interfacci. E ricordami di scrivere all'Ordine degli Avvocati.
 
Ratchet inviò il messaggio a Clank e cacciò un’occhiataccia a Riklis. Per colpa sua aveva passato l’intera mattina in compagnia di un fabbro che puzzava d’acqua di colonia, ma almeno aveva eliminato un punto debole della casa. La nuova serratura bio-meccatronica era il meglio offerto dal mercato, tutto un altro genere rispetto a quella vinta dall’avvocato. Non sarebbe accaduto mai più un episodio come quello del giorno precedente.
Lo xarthar, ignaro dei pensieri del suo cliente, frugava nella cartella alla ricerca dei cavi dell’estrattore mnemonico. Aveva un’aria profondamente concentrata, ma ad assorbire la sua attenzione era un furioso brainstorming sui suoi assistiti.
D’un tratto si fermò e alzò la testa di scatto. «Signor Ratchet, lei mi fa sorgere un dubbio.»
Il lombax si sentì cogliere a tradimento. «E quale?» domandò, cauto.
«Nel testo narra che la signorina Kinomiya dapprima parlasse tramite proiezione di testi e, in seguito, tramite un collare artigianale. Ma dal vero a me non pare avesse né l’uno né l’altro.»
Oh, è solo questo! – si disse, sollevato. Per un istante aveva temuto che sarebbe ritornato sul discorso del giuramento.
«Ha smesso di usare anche quello.» rispose «Nel 5403, mi pare.»
Fece rapidamente i conti: erano sfuggiti a Vox nell’aprile 5402, erano passati mesi di ricerche varie, e nei primi periodi dell’anno seguente avevano raggiunto la Guardiana della Terra. La voce era tornata poco dopo. Sì, era il 5403.
L’avvocato riprese a frugare nella borsa. «Le avete fatto un impianto artificiale?»
Ratchet scosse la testa. «Ha ripreso a parlare di suo.»
A dire il vero aveva il sospetto che la Guardiana della Terra ci avesse messo lo zampino. Però non aveva mai avuto uno straccio di prova.
Riklis si decise a mettere la cartella in piedi sulle ginocchia, in modo da guardarci dentro. Vide i cavi e li arraffò senza cerimonie. «Piuttosto: è proprio sicuro di voler lavorare qui?» domandò tendendoli all’altro.
«Qui va benissimo.» rispose, secco. Poi, come concordato con Clank, aggiunse con aria innocente: «Mi fa sentire più tranquillo.»
La verdesca odorò la bugia e capì che il motivo era un altro.
«È per il giuramento?» tirò a indovinare. Ratchet fece una smorfia insofferente. Grave errore, ma se ne rese conto in ritardo. Anche l’altro si era reso conto dell’affermazione insita nella sua smorfia.
«Tanto ci dovrà arrivare a quel punto. Perché non me lo anticipa?»
Il lombax fece spallucce. «Perché c’è poco da anticipare. È un insieme di patti dare/avere che ho stretto nel corso del tempo. Adesso è un enorme groviglio di clausole da aggirare con attenzione. Una scocciatura e basta.»
Riklis sfoderò il suo sorriso più entusiasta. «Me ne parli, la prego. Sono un avvocato, questo è pane per i miei denti.»
Ratchet sentì i peli alzarsi sulla coda. Era certo che, in futuro, lo xarthar avrebbe usato quelle parole contro di lui. E voleva tenersene alla larga. Per questo si affrettò a posizionare i sensori dell’estrattore mnemonico.
«Prima conosca il soggetto con cui li ho stretti. Poi vedremo se le interessa ancora.»
E cominciò a raccontare.
* * * * * *
I muri esterni della mia casa di Kyzil Plateau erano perfetti per giocare a squash. Un rimbalzo, un altro, un altro ancora. Io e Clank prendevamo in giro Qwark.
Dietro di noi una piscina era piena d’acqua cristallina. Col caldo che faceva, la massa liquida era una tentazione, e in quel momento era resa ancor più attraente dalla fatica del gioco.
All’improvviso Clank smise di rispondere ai colpi. La pallina gli rimbalzò addosso e lui rimase in piedi, inerte, a guardare il muro. Pensai che si fosse surriscaldato, così mi ci inginocchiai davanti e lo presi per una spalla.
«Clank?» chiamai, scuotendolo appena. Ero pronto ad aprire lo sportellino e rufolare al suo interno, se fosse stato necessario.
Lui lasciò cadere la racchetta e mosse a malapena la testa. Se fosse stato un organico, di sicuro, avrebbe avuto una faccia allucinata.
«Non ricordo la 286esima cifra del pi greco.» disse, atono. «Ho un problema al circuito di raffreddamento.»
Scostò con noncuranza la mia mano e io rimasi a guardarlo, sbigottito, mentre andava a gettarsi in piscina. Da quando problemi del genere si risolvevano con un tuffo???
Passarono diversi secondi, in cui tenni gli occhi incollati alla vasca. Attendevo di vederlo riemergere coi circuiti di nuovo a posto, ma non successe. Allora raggiunsi la piscina e mi sporsi oltre il bordo.
Era calma e vuota. Stragalassia, dov’era finito?
 
«Perché non ti tuffi?»
Mi voltai di scatto. Takami era in piedi, a qualche metro dalla piscina, e guardava l’acqua con desiderio.
«Dico davvero. Sembra fresca.» disse ancora con quella faccia da cucciolo. «E tu hai caldo.» fece notare, spostando i suoi occhi grandi su di me. Fu come se mi avesse indicato a tutto braccio.
«Quando sei arrivata?» le chiesi, sulla difensiva. Lei abbassò lo sguardo e arrossì.
«Sono stata sempre qui.» disse a voce bassa. «Mi hai detto di guardare che la piscina non si riempiva troppo e sei andato a giocare.»
...Ah. Me l’ero completamente scordato.
«Quindi sei stata sotto il sole finora?» domandai, un po’ meno caustico.
Annuì.
«Senza cappello?»
Annuì di nuovo.
«Stragalassia, fila a coprirti! Ti beccherai un’insolazione!» sbottai, indicando perentoriamente casa mia. La piccola s’irrigidì e presentò il saluto.
«Sissignore! Corro!»
E scappò verso l’abitazione.
La seguii con lo sguardo finché non fu entrata nel grande loft. A quel punto mi grattai la testa, sinceramente perplesso. Non ricordavo proprio quando mai l’avessi portata su Veldin.
Poi, alle mie spalle, la voce cavernosa di Qwark mi fece sobbalzare.
«Allievo, tu mi deludi!»
Mi girai di scatto, di nuovo, e mi trovai di fronte al presunto eroe. Emergeva per metà dalla piscina e scuoteva un dito con aria di disapprovazione.
«Non ti ho insegnato ad avere un cuore di pietra con i cuccioli! Devi essere carino con loro! Devi dimostrargli il tuo affetto!»
A dimostrazione di ciò mi chiuse in un abbraccio spaccaossa e mi sbatacchiò neanche fossi una bambola di pezza. In qualche modo, prima che mi venisse un attacco di nausea, trovai la maniera di puntellarmi con le braccia, così da aprire la sua morsa.
«E tu da dove sbuchi??!» sbottai.
Qwark smise di agitarmi. Si fermò di colpo e mi riservò un’occhiata incredula, prima di rinforzare il cosiddetto abbraccio.
«Oh, povero mio allievo! Ti sei dimenticato del tuo eroe!» piagnucolò «È evidente che sei tu che hai preso un’insolazione!»
«No Qwark, sen-mpf!»
A peggiorare la situazione, mi ritrovai con la testa schiacciata contro il suo deltoide.
«Tappati il naso: adesso ci facciamo un bel bagno per cacciare l’insolazione cattiva!»
Si lasciò cadere all’indietro e un attimo dopo eravamo sotto il pelo dell’acqua.
 
Un battito di ciglia dopo fui sputato fuori da qualcosa bianco e filaccioso e mi ritrovai in caduta libera, giù da una nuvola. Di Qwark non c’era più traccia.
L’istante dopo ancora una corrente d’aria frenò la mia discesa. Mi avvolse, mi fece ruotare a mezz’aria e si trasformò in uno scivolo invisibile, che mi guidò fino a una macchia d’erba.
Mi guardai intorno e scoprii di essere nel mezzo di un grosso parco cittadino. Storsi la bocca. Era Metropolis, forse? Avevo la sensazione di conoscere il posto.
E poi lo vidi. Qwark mi fissava da sotto un gazebo di tela bianca. Aveva un sorrisetto strano, molto più astuto di quelli infantili che mostrava di solito. Però una cosa era tutta made in Qwark: la soddisfazione di essere riuscito a farmi un dispetto.
«Si può sapere che è ‘sta storia?» domandai, secco. «Che posto è? E da dove sei uscito?»
Quel sorrisetto assunse sfumature di pietà. Mi salì il crimine.
«Non sono “uscita” da nessuna parte, mortale. Sono sempre stata lì.»
Il gigante verde si sciolse in una nuvola di fumo, e un istante dopo assunse le sembianze di Clank. Poi lo rifece e diventò Takami, e poi di nuovo se stesso.
«Sono sempre stata in contatto con te. Dovevo solo farti varcare la soglia – e onestamente cominciavo a credere di dover usare i mezzi pesanti.»
Okay – pensai – quello non era Qwark. Dovevo alzare la guardia.
«Che soglia?» domandai. «Chi sei in realtà?»
Lo vidi darsi un’occhiata alle mani, ai piedi, alla schiena. Alla fine alzò gli occhi al cielo e sbuffò una frase che suonava come “tutte le volte, maledizione”.
Piantò i suoi occhi nei miei e, per qualche ragione, mi sentii minuscolo. E non perché lui occupasse quattro volte il mio volume. Era diverso. Era come essere al cospetto di una montagna ed essere consapevoli che avrebbe potuto scatenarmi qualcosa di terribile addosso.
Quella persona, chiunque fosse, era pericolosa.
 
«Oh, mortale. Kâcfe ë zê-kse pîffo nîmki ï dîpe[1]
I miei occhi. Sentii spingere, come se qualcuno me li premesse da dentro la testa. Me li coprii con le mani, forte, pensando che se fossero stati spinti ancora un po’ sarebbero usciti dalle orbite. Fu disgustoso.
Per alcuni istanti i miei sensi si concentrarono tutti sul tremendo fastidio che mi procurava, poi, com’era arrivata, la sensazione svanì. Tolsi le mani, riaprii piano le palpebre e... rimasi a bocca aperta.
 
Al posto di Qwark c’era una donna. Umana. Topa.
Fatta completamente di fumo.
 
Il mio cervello andò in loop su tre parole: porca – miseria – ladra. Quella non era una macchina sputanebbia sagomata. Tutto era fumo: la pelle, i capelli, il vestito... tutto. Scuro e denso, avrei detto che fosse solido, se non ci fossero state quelle sottili colonne che salivano al cielo dai suoi avambracci e dalle spalle.
Rimasi lì, a bocca aperta come un cretino. Ma del resto, cosa si può pensare di una gnoccolona che si presenta così?
«Chaos. Il mio nome è Chaos.» rispose a una domanda nemmeno concepita. «Però credo che “la tua migliore alleata” sia la risposta più adatta al momento.»
La guardai, incuriosito. «Alleata per cosa?»
«Per la DreadZone, mi sembra ovvio.»
DreadZone. Il nome agì come un cartone in pieno volto. Mi schiaffai una mano in faccia, mentre i pezzi andavano tutti al loro posto.
«Non me lo dire. Sei un telepate, sei anche tu dentro il circo di Vox e questo è il tuo modo di contattarmi.»
Il suo sorriso si smorzò. Credendolo un buon segno incalzai: «Non puoi tornare domattina? In carne e ossa, magari? Qwark non è proprio sinonimo di “riposo sereno” per me.»
«È questo il momento giusto, che ti piaccia o meno.»
«No, il momento giusto è domattina. Possiamo fare a mensa, se ti va, oppure nel Padiglione Due. Ma la mia testa è off-limits.»
 
Seguì un secondo di puro silenzio. Credei di averla impressionata, invece la linea delle sue labbra s’incrinò verso l’alto e si ruppe in una risata divertita.
«Mortale, sono secoli che non odo una tale barzelletta!» Poi ruotò il busto e accennò un invito al tavolino che, fino a quel momento, era rimasto nascosto dalla sua gonna. «Avanti, siedi.»
E io, per pronta risposta, voltai le spalle e mi allontanai.
Feci due passi, il terzo non lo finii. Qualcosa mi avvolse la caviglia e, dopo uno strattone, mi ritrovai a penzolare a testa in giù.
Era una liana? Una corda? Un fascio di particelle? Guardai, ma intorno alla mia caviglia non c’era assolutamente nulla. Nada. Niente. Solo aria. Mi lasciai di nuovo cadere a penzoloni, sbalestrato, mentre la stessa forza invisibile che mi aveva capovolto mi trascinava dalla donna di fumo. Lei mi guardava con quel ghigno divertito.
«Mi permetto di insistere.» disse, amabile. «Però ti offro una scelta: o sosteniamo la discussione a tavolino, oppure la portiamo avanti così.»
Piegai il collo e mi guardai la caviglia intrappolata. Era pazzesco: non c’era proprio niente a tenermi a mezz’aria! Manco un filo di fumo!
Lasciai che le braccia penzolassero liberamente e mi rivolsi di nuovo a lei con un sorriso tirato. «Vada per il tavolino. Il mondo sottosopra non è affascinante come credevo.»
 
Una volta seduti, col gazebo che ci riparava da un sole che non c’era, Chaos mi scrutò con occhi senza pupille.
«L’idea di parlarmi ti mette così a disagio?»
Non era proprio così: quella tipa mi dava l’impressione di pattinare su nitroglicerina; mi intimoriva e mi eccitava allo stesso tempo. Decisi di evitare la domanda.
«Vuoi discutere di una strategia per l’arena?»
«Non subito. Sono più interessata alla tua salute, attualmente.»
Aveva senso: nessuno avrebbe mai stretto un’alleanza svantaggiosa. Ma perché con me, che ero l’ultimo arrivato? La scelta di Basher potevo capirla perché era legato per vie traverse a Takami, ma la sua...
«Perché?»
«Sono parzialmente responsabile di quanto ti è accaduto. Voglio accertarmi che certi incidenti non succedano più.»
Incidenti? «Di quali incidenti stai parlando?»
Mi beccai un’occhiata sospettosa. «Francamente: qual è l’ultima cosa che ricordi dell’arena?»
Heh, bella domanda. Ci dovetti pensare con attenzione.
«I nemici che ci hanno sorpreso alle spalle. La loro carica.»
Chaos affinò lo sguardo. «Nient’altro?»
Ci pensai ancora un po’, poi scossi la testa. Lei mi fissò ancora per un istante, poi passò gli occhi sul paesaggio.
«Una negazione coercitiva, dunque. Adesso capisco perché l’âdyton è così integro.» borbottò. Poi, a voce più bassa: «Se da solo ha la forza per fare ciò, mi domando dove arriverebbe se lo addestrassi.»
«Che cosa è successo dopo?» domandai. Ricevetti un’altra occhiata di squadratura, poi Chaos schioccò la lingua e accavallò le gambe.
«In breve: sei morto.»
Strabuzzai gli occhi. «Morto!?»
Lei annuì. «Folgorato, per la precisione.»
«Ma...» ma se ero lì a chiacchierare con lei! Come faceva a dire certe cose? «Non è possibile!»
«Oh, invece sì. Hai invocato la tecnica che hai richiesto a Basher di Bantouin, ignorandone l’effetto collaterale.»
Mi tornò alla mente la scheda di memoria. Ricordai le istruzioni del rilgarien. «“Ruggisci” aveva un effetto collaterale?»
Chaos annuì di nuovo. «Quella tecnica non è a lungo raggio. In realtà scarica una tempesta di fulmini all’interno di una certa area, e purtroppo per te lo fa senza distinguere fra amici e nemici.»
Mi ero suicidato per un errore di valutazione, quindi. Anzi, no: le mie informazioni erano sbagliate fin dal principio.
«La prima scarica l’ha assorbita l’armatura, che è andata in corto.» proseguì. «La seconda ha fermato il tuo cuore e il tuo diaframma. La terza, però, ti ha rianimato quasi subito.»
Istante di silenzio.
Che significava “quasi”?
«Oh, non guardarmi in quel modo, mortale! Ho dovuto aspettare che il cosiddetto “ruggito” fosse quasi al termine. E comunque, in questo preciso istante il tuo corpo giace nella cella 6-538, perfettamente funzionante.»
Altro istante di silenzio.
Quindi ero lì con lei ma ero anche nella 6-538. Ero in due posti diversi nello stesso momento. La mia fronte prese a pulsare: stavo andando in panne.
«Perché sei sgomento? In realtà sei in entrambi i luoghi. Non c’è nulla di complicato.»
La mia faccia stralunata parlava da sola. A peggiorare la situazione c’era che lei parlava come se leggesse i miei pensieri. Dovetti sembrare proprio sperduto, perché Chaos mi parlò come ad uno scolaretto. «Vedila così: ciò che riconosci come “te” è la somma di due entità. Ed essendoci due entità, è possibile che esse esistano contemporaneamente in due luoghi diversi.»
Due entità. Immaginai che parlasse di corpo e mente. Ma se era davvero così... «Sei telepate, quindi. È questa la grande spiegazione: il corpo è in un posto e la mente qui. E io che ci andavo in confusione...»
«No, mortale, sei in errore. Quello che chiami “mente” non è che l’anello di congiunzione di due dimensioni distinte. Da una parte il corpo, simulacro materiale che opera nel Teoma Linivé; dall’altra l’âdyton, che nella sostanza è una tasca dimensionale col beneficio di essere unica e differente per ogni creatura mortale. Noi adesso siamo nel tuo âdyton.»
He he, certo, come no. La tipa si era fatta troppi Final Fantasy.
Ci scambiammo un’occhiata ed entrambi capimmo che nessuno sarebbe sceso dalle sue convinzioni. Chaos allungò un sorriso da “lo immaginavo”.
«Non importa se ora non mi credi.» asserì facendo spallucce. «Se starai al fianco della mia protetta capirai.»
«Ah, beh, allora...»
 
«Che mi dici della tua prima giornata da gladiatore?»
Il cambio di discorso mi fece immaginare che le succedesse spesso di non essere creduta. E la sua tranquillità era indice che la cosa non l’avesse smossa nemmeno un po’. Però tornare su binari più realistici mi fece piacere.
«Che dire... come voto di media ci darei un sette. Dieci per il bordello combinato e quattro per la legnosità della squadra. Takami ha rischiato un collasso nervoso già all’inizio, io mi sono tirato addosso un colpo di zodiac. Dobbiamo aggiustare un po’ di cose.»
«Hm. Capisco.» Invertì l’accavallatura delle gambe nel tempo in cui si appoggiò con aria confidenziale al tavolino. «E avresti mai usato la cupola se Basher di Bantouin ti avesse descritto con precisione cosa sarebbe successo?»
«Ora che l’ho vista ti dico “forse sì”. Ma magari mi sarei fatto prestare una tuta w.a.v.e, prima.»
La donna di fumo mi scrutò per qualche secondo, con le labbra piegate in un’espressione poco convinta. Non avevo idea di cosa pensasse. Poi allungò la mano libera verso l’esterno e fece un gesto svogliato. A lato del gazebo una montagnola spuntò dal pavimento. Chaos continuò a muovere la mano come un direttore d’orchestra e la montagnola si allungò, si fece ovoidale, si modellò. Alla fine si colorò anche: era un manichino con una tuta w.a.v.e addosso.
«Uhm...»
Non contenta, rimodellò ancora il fantoccio. Lo abbassò, ne ricavò due lunghe orecchie triangolari e una coda, lo rivestì di un’armatura DreadZone. Al termine dell’intervento il manichino era la mia copia sputata. Era fatto così bene che credetti di vederlo muoversi.
«Sì, in effetti è un simulacro identico a te.» disse, il tono lontano e svogliato. «Adesso verifico una cosa...»
Puntò la mia copia con un dito e impartì un ordine nel suo dialetto sconosciuto. Ci furono due flash in rapida successione, poi il simulacro si accasciò a terra. Un terzo flash illuminò l’area, ma avendo gli occhi semichiusi per via dei primi due riuscii a vedere qualcosa di più: una linea di collegamento fra il fantoccio e la mano della donna di fumo.
«...no, non sarebbe cambiato nulla.» decretò alla fine, prima di tornare a guardarmi. Io avevo gli occhi incollati al mio sosia, ancora immobile a terra. «È morto e resuscitato, proprio come te nell’arena.»
Istante di silenzio.
«Questa era..-»
«La riproduzione di quanto accaduto negli ultimi istanti del Tuesday’s Hiring Show.» disse. «Solo che ho applicato una tuta w.a.v.e al tuo simulacro per vedere se, davvero, saresti rimasto vivo.»
«Mi sa che sbagliavo.» risposi, distante.
Quello a terra ero...ero io. Ed ero...immobile. Fulminato. Morto. Resuscitato.
 
Avrei mai usato la cupola se Basher mi avesse descritto con precisione cosa sarebbe successo?
* * * * * *
«Lei cos’avrebbe risposto?» domandò Ratchet, rivolgendo all’avvocato un’occhiata incuriosita.
«Francamente?» il tono di Riklis tradì che non si aspettava l’interruzione. «Credo che le chiederò il numero del pusher. Se questo è il trip, certa roba va assolutamente provata.»
Niente di sorprendente, eppure Ratchet non riuscì a trattenersi dal ridacchiare. «Si aspettava davvero una verità comoda da falsificare?»
«Mi aspetto una verità, tanto per cominciare.»
«Ah, ma io non le ho mentito.»
«Oh, andiamo... Già il fatto che richiami con tanta precisione un sogno è sintomo di menzogna.»
Il lombax si appoggiò più comodamente al divano e fece spallucce. «Che ci vuole fare, è un regalino di quella pazza scatenata. E poi può sempre inventare che Chaos sia una gladiatrice molto abile.» propose. «Un’esper, magari. Con almeno venti abilità diverse.»
Lo xarthar scosse la testa. Venti abilità, come no. Però l’idea della gladiatrice suonava buona.
«In ogni caso non mi ha risposto.» incalzò Ratchet. «Finga di aver appena visto se stesso che muore. Cos’avrebbe risposto a Chaos, se dopo lo spettacolo le avesse detto “avresti usato lo stesso il Ruggito, sapendo a cosa andavi incontro?”»
La verdesca, seppur controvoglia, si prese il mento e ci rifletté seriamente per qualche istante.
«Suppongo che... beh, oddio, che scelta antipatica: morire folgorati o morire crivellati di phaser.» borbottò. «Però credo che avrei risposto di sì. Data la sproporzione numerica tra amici e nemici era l’alternativa preferibile. Quanto meno sarebbe stata un’uscita di scena epica.»
Ratchet affondò il gomito sul bracciolo della poltrona e poggiò la guancia sul pugno chiuso.
«È stato il mio stesso ragionamento.» confermò. «Solo che, quando lo dissi a Chaos, scoppiò a ridere.»
Riklis aggrottò le sopracciglia. «Come sarebbe a dire?»
«Mi rise in faccia, né più né meno.»
* * * * * *
La sua risata cristallina rimbombava nell’âdyton. La guardai storto, non capendo cosa ci fosse di divertente nelle mie parole.
«Oh, Antichi! Millenni che i mortali sguazzano nel degrado morale e io incappo in un eroe puro!»
«Ma quale eroe!» la ripresi, piccato da quella risata totalmente ingiusta. «Se uso il ruggito crepo e se non lo uso crepo lo stesso, dimmi te dov’è l’eroismo...»
«È collaterale, Ratchet di Veldin.» sogghignò. Poi allungò una mano. «Mi daresti la tua mano sinistra, per favore?»
Alzai un sopracciglio, dubbioso. Lo sguardo rimbalzò tra la sua mano, aperta sul tavolino, e la sua faccia caliginosa.
«Voglio farti un piccolo dono, in nome di una collaborazione onorevole e proficua.»
«Se è come quello di Basher ne faccio a meno, grazie.»
«Non paragonarmi a lui, mortale, io sono di un’altra grandezza. E poi sono certa che ne apprezzerai l’utilità.»
Valutai rapidamente le alternative. La sua mano non sarebbe rimasta aperta in eterno sul tavolino, per cui non mi soffermai sui dettagli. Alla fine mi dissi: ehi, al massimo è un qualcosa che rimane qui nel sogno, per cui...perché no? – e tesi la mano, aspettandomi che la stringesse. Invece lei mi prese per il polso e mi costrinse a mostrarle il palmo.
«Sai perché la sinistra?» domandò, poggiando un dito davanti al pollice.
«Perché sei mancina?» tirai a indovinare. Scosse la testa.
«Perché tu sei destrimano.» replicò, prima di tracciare una spirale mormorando qualcosa a fior di labbra. Dopo quel bizzarro rituale lasciò andare la mia mano. La pelle ora pizzicava, mentre sopra c’era un piccolo gorgo bianco.
«Che roba è?»
«Un incantesimo di protezione – i glifi saranno leggibili quando uscirai da qui. Ora non avrai più da temere le scariche elettriche, non importa quanto siano forti. Così non ti troverai più al bivio che ti ho posto prima.»
«Ah, beh, sembra davvero utile...» finsi.
«Puoi scommetterci l’anima, che lo è. Però ha una restrizione.»
«E sarebbe?»
«Se ne parlerai con qualcuno, il suo effetto cesserà e tu tornerai ad essere un qualunque mortale suscettibile di folgorazione.»
Certo. Ovvio, lo sapevano tutti i giocatori di Final Fantasy 10k: se il protagonista parla di un incantesimo con qualunque PNG, dopo non può usarlo mai più. La tipa probabilmente era impazzita giocando non-stop alla VG...
 
L’incontro, per fortuna, finì dopo pochi convenevoli. La donna di fumo si guardò intorno, poi indicò il portone di un palazzo e mi consigliò di attraversarlo per tornare nel Teoma Linivé. Io, comunque, aspettai che se ne fosse andata prima di attraversarlo. E prima di attraversarlo a mia volta mi svaccai sotto il gazebo a riflettere un po’.
Il mio mondo si stava riempiendo di matti a un ritmo troppo elevato.
* * * * * *
«...e così me ne tornai in questa dimensione, convinto che Chaos fosse una gladiatrice telepate un po’ tocca che mi aveva preso in simpatia. Ovviamente sbagliavo di grosso, ma non ero assolutamente in grado di intuire le conseguenze di quello ch’era appena accaduto.»
Riklis osservò il suo assistito con aria vagamente smarrita. Si era aspettato uno scambio di termini, clausole ferree, una stretta di mano. La mancanza di tutto ciò lo faceva sentire truffato.
«Mi perdoni, ma non ho scorto nulla di lontanamente paragonabile ad un patto.» fece notare, secco nel tono.
Ratchet ridacchiò. «Perché quella volta non ci fu. In teoria mi fece un “regalo”» e mimò le virgolette con le dita. «Però la invito a tenere a mente tre particolari: Chaos guidò la conversazione in modo da mettermi una grossa pulce nell’orecchio, mi impose il silenzio su questo suo regalo e marchiò la mano sinistra perché sono destro.»
Riklis sentì la ruota dei pensieri incespicare. Nonostante il racconto avesse sfiorato l’assurdo in diversi momenti, la sua logica era stabile. E due dei tre punti appena elencati gli erano già saltati all’occhio durante il racconto stesso. Solo l’ultimo era rimasto fuori dai suoi radar interiori, e gli suonava tanto strano da far letteralmente inciampare il percorso logico.
«Che c’entra la mano?»
«Vede, un patto ha valore se è marchiato su un arto dominante. Non importa quale, ma dev’essere dominante.»
«Quindi, se l’ha impresso sulla sua mano non dominante...» intuì l’avvocato.
«Già, è più labile del coraggio di Qwark quando arriva la battaglia.» confermò Ratchet.
«Gran bel regalo.»
«Una vera chicca, avrei scoperto. E non sarebbe passato nemmeno tanto tempo!»

[1|⇑] Togli i filtri della mente e vedi.

 

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Capitolo 13
*** | Capitolo 10 | Di nuovo tra i vivi ***


[ 10 ]
Di nuovo tra i vivi
(Ed ecco da quando Al mal sopporta Takami)
 
Il giorno dopo, 17 ottobre 5401-PF
Stazione spaziale DreadZone, cella 6-538
 
C’era odore di aria stantia. Non è proprio polvere, ma non è nemmeno il non odore dell’aria pulita.
Filtro da cambiare.
Fu pensando quello che aprii gli occhi. Mi tirai a sedere e vidi Al al tavolino, intento a schiacciare tasti su un pc. Sembrava intento a liquefare il monitor con lo sguardo, ma era solo molto concentrato.
Che ci fa qui?
Mi resi conto che in realtà lo sapevo. E che forse la domanda giusta era “che ci faccio io qui”. L’ultimo luogo che avevo visto era l’arena...
«Ratchet!»
La voce di Al era acuita dalla sorpresa, e l’istante dopo vomitò una fila di parole su com’erano passate le ultime dodici ore.
Dodici ore. Quindi il mio sogno era durato mezza giornata. Quindi...
Gasp.
Sogno. Chaos. Morto. Risorto. Regalo.
Al passò completamente in secondo piano. Cercai con lo sguardo la mia mano sinistra: il dorso era pulito. E il palmo...
Una bella spirale di glifi perlacei stazionava dal polso alle nocche. Li fissai, imbambolato, dicendomi che avevano una spiegazione alternativa. Non avevo intenzione di credere che il sogno non fosse un sogno. Non avevo intenzione di credere alla teoria di morte e ritorno. Rifiuto totale. Dovevano avere una spiegazione alternativa.
«Quelli credo che siano gli appunti della dottoressa» disse Al. «So che a un certo punto ha smatteggiato perché non riusciva a segnare qualcosa.»
Drizzai le orecchie: ecco il mio appiglio!
«Appunti su cosa?»
Un malore, magari... forse avevo subìto troppe onde elettromagnetiche da Takami e i nanobot erano semplicemente impazziti...
Fissai Al, fiducioso che mi avrebbe dato una risposta chiara e logica. Lui mi fissò di rimando, ma la sua espressione scivolò sempre di più nella difficoltà. Dopo qualche istante riprese fiato.
«Sei morto, laggiù. Folgorato due volte. Poi, dopo cinque minuti, ti ha centrato ancora e sei tornato indietro.»
Abbassai le spalle. Folgorato. Proprio come aveva detto la donna di fumo.
«…È incredibile» sussurrai. Lui annuì.
«La dottoressa parla di miracolo. Io credo che ci sia stata un’interferenza della tua armatura nell’azione di quei fulmini, o non mi spiego come mai non hai manco un pelo bruciato.»
Feci finta di ascoltare le teorie che seguirono, ma in realtà la testa era in panne. Per essere una spiegazione alternativa coincideva davvero troppo con quella di Chaos.
* * * * * *
Ovviamente il mio risveglio divenne dominio pubblico entro mezz’ora. E al minuto trentuno il naso adunco di Vox riempì lo schermo sopra la porta.
«Ma bene, eroe, bentornato» la sua voce allisciante era l’ultima cosa che volevo sentire. «Perché non vieni a farti quattro chiacchiere con me? Una cosina veloce veloce, vedrai.»
«Se è per i bonus la discussione è breve: mi servono una tuta w.a.v.e e cibo decente.»
Vox scoppiò a ridere. Rise a lungo, arrivò anche vicino alle lacrime! Poi però mi guardò attraverso lo schermo e gracchiò in tono estremamente serio: «Muovi il culo, Aurora. Ti voglio qui entro dieci minuti.»
E così mi trasferii in direzione, seguito nel frattempo da occhiatine di sottecchi e sussurri vari. Al aveva insistito per accompagnarmi, e (a onor suo) condivise con gran dignità quel misto di ammirazione e invidia.
 
Come la volta prima, dovetti abbandonarlo fuori dal Padiglione Uno. Un po’ mi dispiacque, ma Vox non voleva ospiti alla discussione. Le guardie armate furono chiare a riguardo.
Salii da solo. Per la seconda volta mi ritrovai a vedere dal vivo la faccia da pesce di Gleeman Vox. E per la seconda volta mi accolse col più smagliante dei sorrisi. Un paio di complimenti, un paio di commenti sullo share della serata e poi – pam! – dritto al punto.
«Dunque, voglio che tu mi spieghi come hai fatto.»
«Fatto cosa?»
«Come l’hai convinta a tirare fuori una luminaria del genere.»
Sull’oloschermo dietro di lui partirono le immagini della cupola di fulmini. Per un istante tornai con la mente alla rappresentazione di Chaos. Sentii la gola seccarsi.
«Ah, quello. Credo che sia stato lo shock dell’arena» mentii.
«E allora come spieghi questo?»
Pigiò un altro pulsante e si aprì una finestra equalizzatore.
«– Ti copro io con questi» disse la mia voce. Per diversi secondi si udirono rumori a casaccio, poi una sirena e una specie di ruggito.
«Fallo, Takami! Smaterializza le armi!» strillò la voce di Clank. Galassia, doveva essere davvero spaventato.
«Calmo, aspetta...» rumori a casaccio per qualche secondo «RUGGISCI TAKAMI!»
La registrazione s’interruppe. Gli occhi di Vox mi arpionarono, in attesa di una spiegazione plausibile.
«Beh, in effetti ha stupito anche me. Eravamo in difficoltà; l’ho incoraggiata perché emettesse qualche scintilla così, per bluffare, e lei mi ha fornito l’intera centrale elettrica.»
«Incoraggiata? Intimandole di ruggire?»
Feci spallucce. «Avevo un esercito davanti. Non ho fatto caso alle parole.»
Vox mi scrutò a lungo, in silenzio, pensando chissà cosa. Mi venne in mente solo in quel momento che poteva aver già avuto una chiacchierata con Takami. Se sapeva che quella era una parola d’ordine ero fregato.
«...diciamo che ti credo, lombax.»
Non lo sapeva! Stragalassia, che botta di culo!
Si rivolse poi a uno dei robot a guardia dell’ufficio: «Dategli una tuta w.a.v.e. Non sia mai che quella mostriciattola frigga il suo interruttore.»
* * * * * *
Riferii ad Al mentre tornavamo alla cella.
«È chiaro che sa che si tratta di una parola d’ordine» concordò. «Abbiamo qualche speranza che pensi che tu l’abbia imbroccata per caso?»
«Se lo pensa, al prossimo giro capirà che non è così.»
«Sicuro.»
«Quand’è il prossimo scontro?» dovevo sapere quanto tempo avevo per montare una bugia credibile.
«Cinque giorni.»
Erano sufficienti.
«E sarà nell’Arena?»
Scosse la testa. «Mai sentito di Catacrom Quattro?»
Agitai di scatto la coda. Ne avevo sentito parlare, sì. Non l’avrei mai scelto per una vacanza.
* * * * * *
Quella sera andai a dormire presto, confidando che Takami – qualunque cosa stesse facendo – sarebbe rientrata. Ma, quando la mattina dopo mi accorsi che la branda era intonsa, la preoccupazione schizzò.
Erano le otto passate da poco quando uscii dalla cella. Il primo posto dove la cercai fu in mensa, ma non c’era. Non era nemmeno nel Padiglione Due. Sperai che fosse dagli altri.
Bussai piuttosto frettolosamente alla loro cella. Aspettai qualche secondo, poi alzai il pugno per bussare di nuovo. La porta si alzò, quindi lasciai perdere. Al, in mutande, aveva la faccia sconvolta dal sonno. Galassia, ma non dormiva mai?
«Che vuoi..?» e sbadigliò.
«È qui Takami?»
Scosse appena la testa.
«Sai dov’è?»
Alzò le spalle. «Come potrei..? Non la vedo da martedì.»
Drizzai le orecchie. Da martedì. Dalla gara. Da... – feci il conto – miseria ladra! Poteva essere successo di tutto nel frattempo!
«È qui Clank?»
«Ratchet...»
«Mi serve il suo localizzatore bios. Dobbiamo trovarla.»
Al mi scoccò uno sguardo risentito. «Quella è pericolosa; non dobbiamo affatto trovarla.»
«Ha undici anni, Al! Non è pericolosa manco per le mosche!»
«T’HA UCCISO, PORCA PUTTANA!»
Yikes!
«Ci è mancato un soffio che finissimo tutti nel tritacarne per colpa di quel piccolo mostro! TU più di tutti dovresti volerla lontana da te! E invece cosa? Guardati, le corri dietro scodinzolando!»
Rimasi immobile, impietrito. Realizzai solo in quel momento che aveva pienamente ragione; che mi stavo comportando in maniera insensata. E mi sentii piccato.
«È comunque parte della squadra. Ho un dovere, come capitano.»
Al strinse le labbra: le vidi riempirsi di grinze fino a sbiancare. Mi preparai per una nuova esplosione, ma tutto ciò che fece fu pigiare un pugno sul quadro per la chiusura della porta.
«Se la metti così allora cercati anche Clank. Quella mostriciattola gli ha fuso i circuiti.»
* * * * * *
Molecole impazzite, avete presente? Mi sentivo fatto di molecole impazzite. Che significava che Takami aveva fuso i circuiti a Clank? Era letterale? Se era letterale perché Al m’aveva detto di cercare anche lui?
Erano queste le domande che mi pungevano mentre attraversavo la stazione spaziale. Era ovvio che la risposta l’avrei avuta trovando gli scomparsi... peccato che l’illuminazione arrivò due ore più tardi, quando mancavano pochi corridoi alla fine del giro completo.
Ero nel Padiglione Cinque, fra le suite di quelli alti in classifica. Extra-lusso, se confrontate con la 6-538: acquari, moquette, hostess in abitini attillati... sembrava uno di quegli alberghi pluristellati di Metropolis. E gli alloggi avevano i nomi degli abitanti incisi in oro sulla porta.
Lessi qualche nome: Squidzor, Nightingale, Battle-Hawk, El Mustachio, Agent Zero... La stragrande maggioranza di loro non li conoscevo, ma quello che trovai alla fine del corridoio sì.
Skìos.
Di riflesso mi ricordai del compattatore, e mi morsi il labbro per non cominciare uno sproloquio ai danni di Basher. (Rassegnato al suo destino, come no. Figlio di un Qwark...)
Se non altro, fra i ricordi ce ne fu uno utile. Ironicamente, erano proprio le parole del rilgarien: Solo due persone finiscono qui con regolarità. Una è il tecnico della manutenzione, l’altra è la ninnola.
L’intuizione mi stordì al punto che portai una mano sulla fronte. Era tanto ovvio! Un luogo tranquillo, dove aspettare che la caciara dopo l’Hiring Show si spegnesse... Takami doveva essere andata al compattatore. E, se avessi trovato lei, avrei risolto anche la frase su Clank.
A me uno degli sgabuzzini. Anzi no, so la strada. Si passa dal Padiglione Tre.
* * * * * *
La via per il compattatore era deserta; lo raggiunsi in tempo zero. Clank e Takami erano lì, seduti sull’oblò che dava sulla discarica, a guardare allarmati nella mia direzione. Ci fu un istante di silenzio. Takami portò le mani alle guance e io mostrai loro un ghigno. «Beccati!»
 
Mi sedetti con loro sul bordo dell’oblò, con le gambe a penzoloni sopra la montagna di rifiuti. L’odore era aspro, ma tollerabile. Le loro espressioni erano lo specchio della sorpresa, ma una era felice e l’altra terrificata. «Che ci fate qui?» domandai.
«Ci serviva un posto tranquillo» rispose Clank dopo un attimo.
«Per fare cosa? Se non ho capito male siete spariti dalla fine della gara.»
La piccola si strinse nelle braccia e incassò la testa. Clank scambiò un’occhiata veloce con lei, prima di voltarsi verso di me. «Al ci ha chiuso fuori, non te l’ha detto?»
Lo fissai con tanto d’occhi.
«Considera Takami una minaccia, dunque non ha voluto che si avvicinasse a te. Abbiamo discusso, e temo che prendere le sue parti lo abbia convinto che lei mi abbia manipolato.»
All’improvviso afferrai l’intera situazione. E imprecai. Tanto. Tra i denti.
Al era andato di testa. Partito completamente. Altrimenti come sarebbe potuto uscire con una trovata simile?!?
Mi accorsi tardi dello schermo verdolino che usciva dal bracciale dell’umana. Il messaggio era già mezzo cancellato, così come la tenuta dei miei nervi. «Perché sei tornata a quel coso?»
Rispose Clank: «Il collare si è rotto nell’arena, assieme alla tua armatura.»
«Tsk» bofonchiai a denti stretti. «Riscrivilo. Non ho letto.»
Lei continuò a guardare i rifiuti con aria bastonata. Lo schermo stavolta comparve leggermente ruotato verso di me, sempre con le sue scritte verdoline.
 
Ho detto che il signor Al ha ragione.
 
Clank le posò la mano sul braccio. «No. Non ha ragione.»
 
Ma è vero che ho ucciso il signor Ratchet. Non è stato un fotomontaggio per gli ascolti. Anche Suriah l’ha detto. La verità è che è morto perché non sono capace di usare i miei poteri, e se è rivivuto è per un colpo di fortuna.
Non mi consolare. Non me lo merito.
 
Alla parola ucciso mi tornò in mente Chaos che fulminava il mio manichino. Mi tornò in mente Al che teorizzava su possibili interferenze chimico-fisiche dell’armatura. Il palmo marchiato prese a prudere. Le mie orecchie sobbalzarono.
La piccola non scrisse altro. Continuò a guardare i rifiuti ed ebbi la netta impressione che lo facesse per non guardare me.
Clank, forse per la miliardesima volta, le posò una mano sul braccio. «Come ti ho detto: alla fine tutto il problema è che sei andata fuori controllo. Questo si può superare; si tratta di trovare il tuo limite e rispettarlo.» si girò verso di me. «Tu cosa ne pensi?»
«Ho chiamato io quella cosa. Me la sono tirata.» borbottai. «Comunque ho già parlato con Vox. Sa che era un interruttore e per questo mi ha dato una tuta w.a.v.e. Non c’è pericolo che mi mandi in corto un’altra volta.»
Mi beccai un’occhiata silenziosa ma espressiva. Le iridi – quelle stesse che mi avevano guardato con curiosità poco più di due settimane prima – adesso gridavano un messaggio semplice quanto caustico.
Bugiardo.
* * * * * *
Cinque giorni dopo, 22 ottobre 5401-PF
 
Niente era a posto nella mia squadra. Al era di uno scontroso insopportabile, Takami era piombata nel mutismo e Clank la seguiva ovunque e in qualunque momento. E io non ero il benvenuto da nessuna parte.
Anche apparire come una squadra integra era stata un’impresa. C’era voluta tutta affinché il nostro Tecnico rimuovesse l’hacking alle porte delle celle, dato che si era intestardito sulla pericolosità di Takami. Sull’altro fronte la bambina non fece nulla per smentirlo. Ancora peggio: si fece schiva. Niente messaggi, niente motivazioni: usciva al mattino e rientrava solo per andare a letto.
La prima parola che le cavai la ottenni la mattina della partenza. Quando mi svegliai era seduta al tavolino, scarmigliata e pallida, che mi fissava. Davanti a lei c’era una massa di stoffa nera.
«Pensi di parlarmi oggi?»
Non ci speravo molto. Però lei appoggiò l’avambraccio sul tavolino e fece apparire uno schermo verdolino.
 
Oggi sì.
 
Quella semplice frase mi scosse. Mi sedetti sulla branda con l’impressione di essere più reattivo.
«E perché gli altri giorni no? Non ero dalla parte di Al, te l’ho detto.»
 
Dovevo fare una cosa... era importante. Spero che non ti sei arrabbiato troppo.
 
Arrabbiato? Ero frustrato a livelli stellari, altroché!
«Perché non parlarmene?»
 
Non me la facevi fare sennò.
 
Il buon giorno si vede dal mattino. Con una risposta del genere, poco ma sicuro, mi aspettava una giornata terrificante.
«Okay.» mi passai le mani sulle orecchie, deciso a non saltare a conclusioni affrettate. «Okay» ripetei, per ribadirmi il concetto. Mi avvicinai al tavolino a passi lenti, tenendole gli occhi incollati addosso col timore che di punto in bianco scappasse.
Invece rimase lì. Immobile. Attenta.
Mi sedetti di fronte a lei e lei spinse la massa di stoffa nera davanti a me.
 
Questa è per te.
 
Guardai il groppo scuro con sospetto. «Cos’è?»
 
La cosa importante. Una tuta w.a.v.e.
 
Non capivo. «Ne ho già una.»
 
Quella standard è debole. Rop’roc me ne ha data una migliore.
 
Rop’roc, Rop’roc... non mi era nuovo.
D’improvviso ricordai di aver letto quel nome su una delle porte del Padiglione Cinque.
«È uno in alto? In classifica, intendo.»
 
È nella metà di sopra. È la spalla di Conundrum Dynamo.
 
Il tizio strano cattivo. Quello che “non voglio andare da lui perché poi chiede cose strane”.
«Sei andata da lui? Sul serio?»
 
Sono andata da Rop’roc. È un po’ meglio di Conundrum Dynamo.
Ha chiesto dei punti in cambio della tuta. Punti dall’arena.
 
«Quanti?»
 
Finché la teniamo il trenta percento dei nostri guadagni.
 
Mancò poco che mi strozzassi con l’aria che respiravo. «Ma sei impazzita?! È usura!!!»
Lei incassò la testa nelle spalle.
 
Lo so che sono tanti. Per questo non ci volevo andare. E non volevo neanche fare tutto senza dirti niente, ma non volevo non fare niente perché ho visto i video di martedì e una w.a.v.e standard non basta.
Lo so che chiamerai di nuovo il ruggito, anche se a me non piace. Anche Clank lo sa. È stato lui che ha detto che ci vuole qualcosa che funziona e ci vuole subito.
Se avevamo un po’ più di fortuna forse potevo trovarne una nella discarica e portarvela come modello, ma non ne ho trovate. Quindi era rimasto solo di andare da Rop’roc.
 
Quindi, a me, non rimaneva altro che vedere l’oggetto che ci sarebbe costato così tanti punti.
Spiegai la massa scura, mettendo in mostra una serie di elettrodi grandi come tappi di bottiglia. A collegarli, come fili di ragno, c’erano dei cavi parzialmente cuciti nella tela.
 
Rop’roc non è elettrocineta come il suo Eroe. All’inizio ha usato anche lui una w.a.v.e stadard... però con Conundrum Dynamo le consumava subito. Ne ha buttate via un mucchio prima di inventarsi questo upgrade. Non è perfetto, ma l’ha salvato da un generatore P28 in override.
 
Un P28? Garan P28?
Come i quattro che la Phoenix monta per i sistemi vitali di emergenza?
 
Dopo quello la tuta l’ha buttata, ma è rimasto vivo.
Clank pensa che potete copiare il progetto sulla w.a.v.e che hai avuto dal direttore. Però, se glielo diciamo io o lui ad Al, lui ci scaccia senza manco guardare la tuta di Rop’roc.
 
Capii dove volesse andare a parare.
«Non so se Al mi darà retta. Lo sai che aria tira.»
 
Ma Clank ha fatto i conti e ha detto che non possiamo permetterci di tenerla più di un turno.
Se non la restituiamo dopo Catacrom Quattro sarà un casino stare dietro a... a...
...com’è che si chiamano i soldi da dare oltre il prestito?
 
«Interessi.» Rimisi sul tavolo la tuta. «Si chiamano interessi.»
 
Quindi, per riepilogare: avevo una settimana per testare l’upgrade artigianale e decidere se era valso o no un terzo della nostra paga, da cui dipendeva la scelta (o meno) di proporre ad un Al parecchio intrattabile di riprodurre un upgrade di concezione altrui sulla tuta che Vox mi aveva concesso nel nostro ultimo incontro. Il tutto dopo avergli chiesto un favore simile che mi aveva quasi portato alla tomba.
È proprio vero: i vecchi detti raramente sbagliano.
* * * * * *
«Gladiatori della cella 6-538!»
La nostra attenzione corse immediatamente allo schermo sopra la porta. La faccia tonda di un robot monoculare ci fissò per qualche istante, poi si chinò a leggere su di un foglio. «Acciderbolina, ho dimenticato cosa dirvi.»
«Ci rilasciano per il boom di share dell’altra sera?»
«Ti piacerebbe...» e rialzò la testa, rivolto da qualche parte a destra della telecamera. «Zed! Questi sono i fogli della 6-540. Passami quelli giusti!»
Quando ebbe in mano i fogli che voleva, si schiarì la voce con due colpi di tosse e ricominciò: «Gladiatori della cella 6-538!»
Controllò che lo stessimo guardando. «Oggi gareggerete per la prima volta su una pista al di fuori della stazione spaziale. Mentre parliamo un braccio meccanico sta prelevando la vostra cella per caricarla sulla nave trasporto. Destinazione: Catacrom Quattro. Il pianeta è–» la voce scomparve sotto le urla del metallo che strideva. Muri, pavimento e soffitto: tutto emise il rumore delle unghie sulla lavagna, amplificato di decine di decibel. Ci tappammo le orecchie nel tentativo (inutile) di non diventare sordi, mentre il robot continuò imperterrito a leggere i suoi stramaledetti fogli. Alzò lo sguardo solo dopo che il bordello fu terminato, trovandoci stravolti. Ebbe pure il coraggio di alzare il monocolo e sbuffare con aria offesa!
«...e questo conclude la presentazione della pista.» annunciò, sdegnato. «Non tentate di comunicare coi tecnici: siete isolati. E non mettetevi in pose verticali o scomode, poiché quando il conto alla rovescia raggiungerà lo zero si attiverà il criosonno. Mica vogliamo che vi rompiate il collo in modo cretino!»
Chiuse il collegamento, lasciandoci con un countdown che segnava poco più di sessanta secondi. Ne persi qualcuno in silenzio, a fissare la bambina.
«Appena avremo un po’ più di tempo dovremo parlare di come ci si comporta.»
Abbassò la testa, mortificata.
 
Sei tanto arrabbiato con me, vero?
 
«Sì. E no.» mi lanciò un’occhiata di sottecchi, evidentemente confusa. «Sono contento che t’importi di me, ma avevi ragione a pensare che non ti avrei fatto andare da Rop’roc. Te ne direi quattro se ci fosse tempo.» Ma non ce n’era, come ci ricordava il conto alla rovescia. «Spera solo che alla fine del criosonno mi sia dimenticato di sgridarti per come sei sparita in questi giorni.»
Annuì con aria mesta.
«Molto bene. E adesso torniamo in branda.»

 

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Capitolo 14
*** | Capitolo 11 | Catacrom Quattro: la pista ***


[ 11 ]
Catacrom Quattro: la pista
(Hiring Show atto secondo)
 
Ancora Kyzil Plateau, ancora un caldo pazzesco, ancora la fantomatica piscina. Stavolta, però, eravamo solo io e Takami. Io ero in acqua, appoggiato di spalle al bordo. Lei aveva un costume pieno di fronzoli, che se non fosse stato nero forse sarebbe stato anche normale per una bambina. Sedeva sulla punta del trampolino, le gambe ciondoloni, e mi fissava con aria divertita.
«“Criosonno”, eh?» domandò con una voce decisamente adulta. «Sai, a volte fatico nel capire voi mortali. Solo qualche millennio fa vi sarebbe bastato un sacerdote per indurlo. Adesso vi affidate a cosa? Polvere?»
La guardai con aria incuriosita. La voce era chiaramente quella di Chaos, ma perché quella svitata era lì?
«Vai su qualche pista anche te?»
«Non hai risposto.»
Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. «È gas. E adesso sta a te rispondere.»
«Oh. Gas.» pronunciò quella parola con delusione. Chissà, magari si aspettava una risposta più “maGGica”. Poi appoggiò un tallone sul trampolino e premette una guancia contro il ginocchio. Da quella posizione apparentemente comoda borbottò: «Tecnicamente è la mia protetta che mi sta portando su una pista esterna alla stazione spaziale. L’unico posto dove IO mi sono recata, al momento, è qui. Mi accompagneresti nell’âdyton, Ratchet di Veldin?»
Âdyton, vabbé. Tacqui la polemica. «Perché cambiare scenario? Qui è rinfrescante.»
L’umana si guardò intorno. «Qui siamo nella mente. E la mente è debole, come dimostra che voi mortali riusciate a forzarvela un con l’altro. L’âdyton è molto più sicuro.»
«Nessuno forza la mente di chi porta un congegno tachys. Perché vuoi tornare là?»
L’umana inspirò a lungo e sospirò. «Ma perché devono avere sempre una vena recalcitrante? Odômke, lombâx, ojjantô-mone âf-si fô lâcfeö pîf kuä âdyton.[1]»
Le parole entrarono dalle orecchie, si trasferirono ai centri decisionali e – ping! – quando ripresi pieno controllo di me stesso ero di nuovo sotto il gazebo di quella città nota e sconosciuta. Takami non c’era più: al suo posto era tornata la donna di fumo, stavolta col bikini tutto balze della bambina. Allarmato, la prima reazione fu lanciare brevi occhiate tutt’intorno.
Ero pronto a mettere in chiaro tutto quel che pensavo sugli esper manipolatori, ma lei mi precedette con un sorriso cortese e un pacato: «Grazie per la cavalleria, Ratchet di Veldin.»
«Sai dove te lo devi mettere.» ringhiai. «Vedi di tenere ‘sto giochetto per te, in futuro.»
«Ma questo dipende solo da te.» rispose, sorniona. «Tè con pasticcini? Avremo da discutere un po’.»
«Non ho voglia di discutere con te.»
Lei materializzò vettovaglie e cibarie. Si limitò ad allargare un altro sorriso; poi, semplicemente, cominciò.
 
All’inizio mi parlò un po’ di Catacrom Quattro. Mi raccontò della sua geografia, di come fosse in origine e di quanto fiorente fosse la civiltà che l’aveva abitata. Poi mi parlò dei suoi templi, di quanto fossero antichi e di come il circuito magico d’interconnes­sione si fosse guastato nel tempo.
«Circuito magico?» domandai, scettico.
«Formato dai templi stessi, sì. Serviva a tener buone le anime dei caduti.» confermò lei. «Vedi: eoni fa esisté un gruppo di sacerdoti noti come la Confraternita del Sangue Misto. Erano i tempi delle prime ibridazioni fra specie senzienti: momenti difficili, dato che spesso gli ibridi erano malvisti da entrambe le specie genitoriali. La Confraternita del Sangue Misto fu la prima associazione di questi reietti. I loro fondatori incapparono quasi subito nel culto dei toksâme e lo elessero a loro culto ufficiale. I toksâme li ascoltarono, li aiutarono, insegnarono loro l’Idioma – la loro lingua, che oggi chiamate panskâra. Soprattutto, però, insegnarono loro ad invocare la magia.»
Ah, ecco. Fantasy puro. Presi un pasticcino anch’io.
«La Confraternita si fece più grande.» continuò «E, nei giorni in cui Catacrom Quattro era un florido pezzo di terra, stabilì qui la sua sede. Prese accordi con molte organizzazioni, ottenne che gli ibridi venissero portati su questo suolo piuttosto che cacciati a vista. E con le migrazioni crebbe di decine, centinaia di volte. Arrivarono al punto di acquistare il pianeta ed eleggerlo a casa felice... finché qualcuno decise che sarebbe stato il terreno ideale per un conflitto. La storia ufficiale riporta solo quattordici grandi conflitti, ma Catacrom ne vide più del doppio, e nessuno di questi involse schieramenti della Confraternita.»
Udii echi di lezioni scolastiche. Le Veertien Slag, le Quattordici Stragi. Ma si erano concluse con un trattato, se non ricordavo male.
«Il trattato fu scritto solo dopo che gli ibridi, sfiancati e snobbati da tutti, optarono per la soluzione drastica. Misero a punto una magia tanto potente quanto ingenua, che invocarono durante il terzultimo conflitto. Da allora chiunque muoia su quel pianeta non se ne va come tutti gli altri mortali: la sua anima continua ad esistere perché si lega al terreno, facendo del pianeta il suo âdyton e della protezione il suo scopo eterno.»
La interruppi: «Stai dicendo che laggiù ci sono fantasmi veri?»
«Finti semôke, per la verità. Hanno troppa poca energia per rendersi visibili, ma sono capaci di muovere ciò che è inanimato.»
«Semôke?» domandai ancora, incerto.
«Fantasmi, tanto per capirsi, ma approvati dai toksâme. Il fatto che siano scelti dagli dèi conferisce loro qualche bonus.»
Quindi sì, dannazione, c’erano i fantasmi.
Seguì un attimo di silenzio. Mi piacevano i filmacci di serie Z e il succo del discorso era terribilmente vicino a una di quelle trame. La coda tradì tutto l’interesse che provavo e lei se ne accorse.
«Dopo la magia gli ibridi sfruttarono la tecnologia, costruendo corpi robot che le anime dei soldati potessero usare. Nacque così l’esercito invincibile che mise fine alle stragi. A quel punto fu firmato il trattato che vietava di usare Catacrom Quattro come campo di battaglia e tutto sembrò tornare alla normalità. Peccato che nessuno rimise a posto il suolo, che così non perse la magia invocata dai confratelli.»
Mangiò un altro pasticcino e riprese: «Tutti i morti, civili e militari, presero a divenire anime legate al suolo. Allora i reggenti del culto si rivolsero di nuovo ai toksâme, che imposero la costruzione di templi in posizioni specifiche. Tutti i templi vennero muniti di un certo nucleo, così i finti semôke smisero di circolare liberamente e la Storia fece il suo corso.»
«Ora che ci penso le prime leggi a favore degli ibridi vennero scritte dopo le Veertien Slag.»
«Fu solo per il timore che il loro esercito si muovesse contro coloro che avevano usato il pianeta come un tabellone di Risiko. In realtà i finti semôke non potevano combattere fuori da Catacrom Quattro, ma questo era noto solo agli alti sacerdoti della Confraternita.»
«Wow.» Che dire: vista così la storia aveva tutt’altre sfumature rispetto a quelle viste a scuola.
«Interessante, eh?» si compiacque. «Ma saltiamo all’epoca attuale. La Confraternita del Sangue Misto non esiste più, ma il suo lascito è tutto lì. Il circuito dei templi è tutt’ora in piedi e ha funzionato fino a pochi anni fa, quando Gleeman Vox è divenuto proprietario del pianeta.»
Dal tono era facile intuire che proprio con lui qualcosa fosse andato storto.
«Che ha fatto?»
«Al proprietario precedente non è piaciuta la sua manovra d’acquisto, così ha trafugato i nuclei d’âsa dei templi. Come risultato la magia della Confraternita si è riattivata e Gleeman Vox sfrutta i finti semôke per il suo spettacolo.»
«Gli... zombie?»
Annuì. «Saranno piuttosto imprevedibili, temo. L’anima dinanzi a te potrebbe essere quella di un antico soldato come di un gladiatore moderno, un contadino o un tassista.»
«Immagino che dovrò distruggerli e basta, allora.»
Chaos riempì l’aria con una risata civettuola. La sua mano sorvolò con uno svolazzo il piatto di pasticcini. «Questa era così buona che meriti un consiglio diretto, Ratchet di Veldin: non sottovalutare i Confratelli. Mai. O la loro fede ti ucciderà.»
* * * * * *
Il criosonno terminò con un gas al disinfettante e un biiip così perforante che “stragalassia qualcuno spari all’olovisore”.
Aprii gli occhi con un senso di caldo sulla pelle, come sentendomi ancora sotto il gazebo, ma il grigio asettico della cella lo smorzò quasi subito. Mi rimase solo la pesantezza lasciata dal gas e l’odore chimico nelle narici.
Sbuffai.
Poi, all’improvviso, la chioma blu-nera di Takami rotolò fuori dalla sponda e piovve quasi fino in terra. I suoi occhi fecero capolino dall’intelaiatura della branda e mi studiarono con espressione assorbita.
«Che c’è?» domandai. Comparve uno dei suoi schermi verdolini.
 
Chaos dice che ti ha conosciuto.
È vero che pensi che è pazza?
 
«Sì, certo.»
Compresi l’attimo dopo che Takami era in relazione con lei, e allora mi tirai a sedere di scatto. «Aspetta: conosci quella donna?»
Annuì.
La invitai a scendere facendo pat pat sul materasso di gel. Dopo un attimo lei si accoccolò nell’angolo in fondo. Le chiesi: «Quando l’hai conosciuta?»
Lei si raggrinzì in un’espressione pensierosa per qualche istante, e alla fine fece spallucce.
 
Non ricordo. La conosco da sempre, credo.
 
«Ah. Da sempre.»
Annuì.
Questo fallava la mia teoria della gladiatrice. A meno che non si conoscessero da prima e fossero entrate insieme nella DreadZone: questo la teneva in piedi, invece.
«E... me la puoi descrivere? Com’è nella realtà, intendo.»
 
Chaos mi ha detto che una toksâma può darsi tutte le forme che vuole. Però nell’âdyton sembra sempre un’umana.
 
Toksâma. Toksâme. Di nuovo quella parola.
Dovevo ricordarmi di chiedere a Clank.
 
Una volta ho chiesto perché il fumo se può mostrarsi come vuole. L’unica cosa che ha fatto è stata dirmi “spoiler”. Ma non lo so cosa vuol dire.
 
«E... parlate spesso?»
Annuì.
«In sogno?»
Scosse la testa.
 
Non è proprio un sogno. Comincia lì ma poi andiamo nell’âdyton e il sogno diventa parte della realtà.
 
«Come fai a dirlo?»
 
Perché è diverso. Quello che faccio sento come che lo faccio davvero, da sveglia.
E poi me l’ha spiegato lei, e mi ha sempre detto cose vere.
 
Mi presi il mento. Forse su Chaos ero partito da un punto sbagliato. Avevo dato per scontato che fosse di una specie fra le più diffuse, ma pareva proprio di no.
 
BIIIIIIP!!!
Di nuovo il fischio dall’olovisore. Odioso lunghissimo fischio trapanante. Takami schizzò sulla sua branda, poi lo schermo si accese e comparve la faccia a bersaglio di Monocolo.
«Vi do il benvenuto su Catacrom Quattro, gladiatori. La sezione di contenimento è stata sganciata dalla nave trasporto e a breve atterrerà nell’alloggiamento al campo base. La temperatura al suolo è confortevole e il clima non presenta anomalie. Dopo la procedura di radicamento siete attesi dai vostri tecnici per la vestizione.»
Temetti che la cella si sarebbe rimessa a stridere come prima del criosonno, ma la procedura fu molto silenziosa. Evidentemente era un problema di manutenzione della stazione spaziale, conclusi quando la porta cominciò ad aprirsi.
L’aria si riempì subito di un odore misto di muschio e ruggine. Guardai in alto, sulla branda di Takami. Si stava legando i capelli.
«Vieni, andiamo. Ma guai a te se ti perdo di vista.»
Sobbalzo, e al contempo le sue orecchie si fecero porpora. Faceva bene a sentirsi colpevole, coi giorni che mi aveva fatto passare.
Armeggiò freneticamente con l’elastico per un ultimo attimo, prima di mostrarmi il vambrace.
 
Scusa. Prometto che non mi allontano.
* * * * * *
Il campo base era una tendopoli militare, ma al posto delle tende c’erano dei container. I corridoi, trasparenti, erano oblò ininterrotti sul panorama desolato del pianeta. Qui e là alberi spogli rinsecchivano su rocce scure, tendendosi al cielo come mani livide. Le nuvole, spesse, brillavano di una luce lattiginosa, malaticcia.
Capii meglio perché il pianeta era fra i cento più quotati fra i turisti dell’orrore: quello era senza dubbio il genere di panorama in cui aspettarsi fantasmi e non morti.
Finti semôke, mi corressi in automatico. Risi della mia correzione: di sicuro i fantasmi avevano una spiegazione alternativa e scientificamente valida. Erano robot, dopotutto.
 
Sentii tirare il gomito. Takami mi indicò un container sulla sinistra: sulla sua porta c’era scritto 4-723. Ci piazzai subito una mano contro, avviando il meccanismo di apertura.
La cella era incasinata e l’odore di saldatura era pungente. Al centro, chino sul banco da lavoro, Al stava togliendo dallo stomaco di Clank un avvitatore dalla punta minuscola. Era concentratissimo. Dato il paziente, però, sentii subito la tensione salire.
«Che succede?» domandai.
Al afferrò un saldatore di precisione. Dalla punta curva emerse una scintilla bianco-azzurra. La infilò nel ventre di Clank e dopo un attimo si sentì odore di metallo bruciato.
Aspettò di finire prima di rispondere: «Hardware usurato, roba di routine.»
Alzò la testa e il monocolo ingrandente finì in automatico fra i capelli. Individuò me e rimase rilassato. Poi individuò Takami, ferma sulla soglia, e la sua espressione si fece più dura.
«Credevo di essere stato chiaro con te.»
La bambina sobbalzò. Abbassò lo sguardo, incassò la testa nelle spalle e subito dopo si ritirò dietro lo stipite, fuori dalla vista di Al. Lui, contento del risultato, riportò il monocolo sul naso e si chinò nuovamente su Clank.
«Tutto bene durante il viaggio?» il suo tono era calmo, come se non fosse successo nulla.
«Se parli del criosonno sì, non poteva andare meglio.»
Mi guadagnai un’occhiata dubbiosa. La domanda, quindi, mi venne istantanea: «Perché, tu non sei stato..?»
«Niente criosonno, no.»
Ah. Quindi addormentavano solo metà della squadra. Supposi che fosse per tenere sotto minaccia l’altra metà.
«E voi che avete fatto per queste..–» mi resi conto di non avere la più pallida idea di quanto avessi dormito. «...ore? Intendo durante il viaggio.»
Attimo di silenzio.
«Ore? Oh, sì, puoi dirlo forte. Abbiamo viaggiato a sub luce per più di un giorno.» spiegò. «E abbiamo avuto un po’ di tempo per prepararci alla pista.»
«Vi hanno dato dettagli?»
«Qualcosina. Ho migliorato il sistema di tiro della coda, poi Clank è andato in corto.»
Portai lo sguardo sul mio amico. «Cosa si è guastato?»
«Oh, minuteria. Un cordone irkassiano, ma era in un posto infame da raggiungere.»
«E il software?»
«È tutto a posto; ho controllato. Sono il migliore, ricordi?»
Richiuse il soffietto e allontanò le mani. L’attimo dopo il lume dell’antennino prese a lampeggiare. Il sistema di Clank si stava riavviando.
Al lo tenne d’occhio ancora per qualche istante, poi fissò me e indicò le armature appese ai manichini dietro di lui. «Vieni che ti aiuto. Fra quindici minuti verranno a prendervi.» e poi, inasprendo la voce: «Ehi, lì fuori! Vieni a sistemarti, cammina!»
Takami, in silenzio, entrò nella cella e camminò raso al muro fino alla sua armatura. Riservò uno sguardo a Clank, ma Al le abbaiò qualcosa e allora lo inchiodò al suolo.
Fu così che ci preparammo per la nostra prima performance su un pianeta esterno.
* * * * * *
Quindici minuti più tardi, appena dopo aver dato il bentornato a Clank, fummo teletrasportati senza preavvisi. Dalla cella ben illuminata di Al e Clank passammo ad una scatola buia dove l’odore del marciume prendeva alla gola. Istintivamente materializzai il casco. I filtri purificarono l’aria e la visiera mi mostrò un luogo stretto, poco più grande di un armadietto.
Mi accorsi che Takami stava spalmata sulla parete di fondo come una persona in trappola. Respirava pesantemente e guardava fisso avanti a sé con la faccia terrorizzata, mormorando parole che non sentivo.
Pensai che stesse avendo un’allucinazione. Che l’aria marcia nascondesse qualche gas tossico.
Le schiacciai il pulsante sulla pettorina. Il casco si materializzò sulla sua pelle e lei rimase immobile. Lì per lì pensai che il pericolo fosse scampato: tutt’al più ci sarebbe voluto qualche altro secondo. Poi però mi accorsi che stava pigolando a nastro la stessa parola: paura.
Scelsero quel momento per aprire la gabbia. I chiavistelli si fecero indietro e la parete davanti a noi si ribaltò.
La prima immagine che ricordo di Catacrom Quattro comprende un sentiero sconnesso fra due scarpate piuttosto ripide. E alberi morti (o morenti) che accompagnavano la strada. E una leggera foschia attorno ai dettagli sullo sfondo.
 
«Ooohh! È il Team Darkstar, gente!» trillò la voce di Dallas.
«Questo sì che potrebbe essere un problema per gli zombie robot!» gli fece eco Juanita.
«Vi ricordiamo che le Vox Industries hanno superato se stesse nel trasformare quello che un tempo era un terreno sacro di sepoltura dei robot in un letale percorso di guerra di DreadZone!»
«Peccato che le defunte Truppe Grunt non abbiano gradito l’ammodernamento! E adesso il loro sonno sarà minacciato dalle capacità elettrocinetiche di questi due! Posso già sentire la tensione che sale!»
«Il team Darkstar dovrà dare tutto se stesso per raggiungere il tempio oltre il percorso! Ci riusciranno?»
«O forse... sarà la rabbia dei robot a mietere le vite di questi disgraziati?»
«Sono concorrenti, Juanita. Volontari pagati per gettarsi nelle gare.»
 
Ci fu un attimo di silenzio, poi i due presentatori scoppiarono a ridere. Alcune telecamere volteggiarono attorno a noi, inquadrandoci da vicino. E intanto Takami continuava a ripetere quella parola, “paura”. E intanto Clank le prometteva che, una volta fatti i primi passi, non avrebbe più avuto paura. E Al mi dava dritte sulla pista.
Dubito che nella storia di tutti i giochi gladiatori si sia mai vista una squadra tanto scalcinata. Comunque: eravamo lì per giocare no?
«Vieni Takami, andiamo.»
Pistole in pugno, feci qualche passo.
Un phaser volò sopra le rocce. Mi sfiorò lo zigomo e quasi centrò in petto Takami. Quasi, perché il segmento d’energia rimbalzò sull’armatura e si schiantò sulla scarpata poco distante.
Mi gettai dietro una roccia, mentre Clank esclamava «Cecchino!». Takami mi raggiunse l’istante dopo. Aveva smesso di pigolare a nastro.
«Dove?»
«Ore due, sopra la scarpata. Dev’essere un tiratore volante.»
Mi sporsi oltre il nascondiglio. Eccolo, sopra una lunghissima radice morta. «Lo vedo.»
Aveva in mano un fucile dalla canna lunga e vestiva un’armatura spessa. Con le vipere non avevo molte possibilità, a meno di sprecare il caricatore. Rimaneva solo la mia opzione customizzata.
«Sorridi all’uccellino...» mormorai posizionando la coda. «Shot!»
La vampa di calore corse dalla schiena alla punta della coda e... wham! L’attimo dopo il tiratore cadde sul sentiero e non si mosse più.
«Ce ne saranno altri. Devo recuperare quel coso per tirarli giù.»
«Hai le vipere.» ricordò Al.
«Scherzi? Gli faccio il solletico con quelle!»
«Po-Posso f-fare uno scudo.»
Mi voltai verso Takami. Guardava i miei piedi. Ed era chiaro che dire quelle parole aveva richiesto tutto il suo coraggio.
«Sul serio?»
«Se-Se non lo faccio e vai, muori.»
«Fra voi e quel fucile ci sono almeno una decina di striker» fece presente Clank. «Takami, deve essere uno scudo molto resistente.»
«Pr-prima ha funzionato.»
Attimo di silenzio.
Quindi ha deflesso il phaser da sola? Non era l’armatura?
Ero meravigliato. E in quel frangente quella era una notizia meravigliosa, intendiamoci: mi serviva letteralmente tutto. Però non toglieva che così tremante non potevo portarla con me sotto fuoco incrociato. «Puoi farlo rimanendo qui?» domandai, spiccio. «Io apro la pista e tu mi segui quando la via è libera. Stai al sicuro e mi fai da scudo.»
Scosse violentemente la testa.
«No?»
«No-non so se ci riesco. Però non rischiare! Ve-vengo con te.»
Scorsi lo sguardo su di lei, testa-piedi e ritorno. Tremava. Avrei preferito lasciarla lì, ma... «Usciamo al tre.»
* * * * * *
Oggalassia!
Mai provate le armi a pallini di gomma? Mai provato il dolore simil-pizzicotto che provocano? Ecco, quello è lo stesso che provoca un phaser che s’infrange su uno scudo. Fa male, ma invece di un buco uno guadagna un livido. Con quello scudo invece... niente! Neanche quello! Deflessione totale!
Gli striker praticamente si erano uccisi con le proprie mani, e noi in quel momento avevamo guadagnato il fucile da cecchino e un lanciagranate EMP. I phaser, a nostro discapito, provenivano tutti da armi integrate nei robot.
 
«Ma è regolamentare una cosa del genere?!» sbottò Juanita.
«Io non credo proprio!» le fece eco un Dallas parecchio indignato.
«Qualcuno si degni di uccidere questi imbroglioni!»
 
Hah! Idioti.
«Beh, il bottino è povero ma interessante.» commentai, ispezionando il lanciagranate. Aveva dieci colpi a disposizione. Il fucile da cecchino invece ne aveva otto. «Come va Takami? Stai bene?»
Non mi rispose. Quando alzai lo sguardo la trovai che sparava a bruciapelo nelle ginocchia degli striker disattivati.
«Ci sono i f-finti semôke.» spiegò. «Chaos ha detto di non lasciargli corpi.»
«Finti semôke?» domandò Clank. «E chi è Chaos?»
Spiegare a Clank che una tipa in sogno mi aveva detto che c’erano i fantasmi sarebbe stato imbarazzante, quindi glissai alla grande. «Ti spiego a fine gara. Takami, ti prego, non abbiamo colpi da sprecare.»
«Ma..–»
«Niente ma. Andiamo.»
Obbediente, smaterializzò la vipera e si rimise in piedi.
«Come ti senti?» le chiesi di nuovo. Desideravo solo che tutti si dimenticassero delle domande di Clank.
«Ho male alla pancia.»
Le scoccai un’occhiata veloce. «Sei nervosa. Passerà, vedrai.»
«La mappa segnala una postazione fissa poco più avanti.» interruppe Clank. Istintivamente mi levai d’in mezzo al sentiero e feci cenno a Takami di fare altrettanto. E lei, com’era immaginabile, non capì.
«Vuol dire togliti di mezzo.» tradusse Al, con un tono che... beh, gelido non rende abbastanza ma non ho altri termini. Efficace, perché Takami mi imitò, ma assolutamente in contrasto con la personalità del mio amico.
 
Il sentiero continuava a snodarsi fra due scarpate e ci obbligava a seguirlo con tutta una serie di paturnie. In cima alla lista io temevo i cecchini, un po’ perché erano una categoria che negli FPS odiavo e un po’ perché non mi fidavo troppo dello scudo offerto da Takami: utilissimo, per carità, ma non potevo sapere quando mi avrebbe mollato. Quindi tenevo lo sguardo più sulla cima delle scarpate che sul sentiero.
Proprio mentre mi dicevo che era strano che non ci fossero cecchini, arrivammo a una curva che girava intorno ad una guglia di roccia. I “presentatori” smisero di sparare cattiverie (e questo avrei dovuto vederlo come un segno), ma li ignorai. Ed eccola! Appena dopo la curva!
WHAM! WHAM!
Una specie di bolla d’energia che sparava phaser larghi come il mio pugno. Tornai sui miei passi alla velocità della luce. Dallas e Juanita risero. Risero a crepapelle.
WHAM! WHA--CLASH!
Takami ruzzolò alla meno peggio dietro lo spuntone roccioso, nascondendosi al mio fianco. Quando si rimise in ginocchio notai che l’armatura attorno al braccio destro era consumata.
«Il fantastico scudo ha fatto cilecca, pare» malignò Al.
Takami non rispose. Non ce n’era bisogno.
Quindi regge benissimo i phaser base e malissimo quelli più intensi, annotai. Sbuffai, pensando al nostro magro arsenale e al mostro che avevamo sulla strada.
«Gli scudi su quella torretta sono impenetrabili.»
Grazie Clank. Proprio utile!
Ci pensò Al a risollevare l’umore: «Però sono sempre parte di un sistema aprossiano integrato. Sai cosa vuol dire, vero Ratchet?»
Ho bisogno di risposte, non di domande! – pensai esasperato. Poi, però, il meccanico in me capì. E sorrisi assieme a lui, mentre dal mio guanto si materializzava il lanciagranate EMP rubato agli striker.
«Okay Takami: io esco e attiro la loro attenzione. Tu concentrati sull’operatore della torretta. Tiralo giù prima che riformi lo scudo e prendi possesso del mezzo. Tutto chiaro?»
«Sì.»
«Avrai poco tempo.»
«Farò del mio meglio.»
«Brava.»
 
Il bello dei lanciagranate è che non serve una mira accurata. Non mi scoprii neanche: lo puntai al cielo, più o meno nella direzione, e feci fuoco. Tre secondi esatti più tardi arrivò lo scoppio, segnato da un’interferenza nelle nostre radiotrasmittenti. Approfittando della confusione uscii allo scoperto. Due striker corsero verso di me, le armi spianate e pronte al fuoco. Peccato per loro che anch’io avessi già cambiato il lanciagranate con le vipere, e aprii un fuoco selvaggio. Fuoco al quale, però, la torretta non prese parte.
Subito dopo Takami uscì dalla curva. Corse a ridosso della scarpata, approfittando del mio diversivo. L’operatore della torretta doveva aspettare lei, perché come comparve attivò i cannoni.
La bambina impresse un’accelerazione che non dimenticherò mai. Potere della fifa! Però, in questo modo, riuscì ad evitare di essere bucata entro i primi dieci passi. Poi la persi di vista, impegnato com’ero con gli striker.
A furia di saltare qui e là mi misi con le spalle contro la scarpata. Errore madornale. E allora, a denti stretti, scambiai una delle vipere con il fucile a fusione. Colsi di sorpresa lo striker alla mia sinistra: era un’arma a lunga gittata, inadatta alla nostra situazione.
BANG!
La sua testa si dimezzò. Perse tutta la metà di sopra, strappata via dal phaser uscito dal fucile a fusione. E il suo collega mi tempestò di phaser con la mitraglia integrata.
 
«Mossa particolare, Juanita. Che ne pensi?»
«Ho visto robot grandi e grossi perdere le braccia per un rinculo come quello. Sicuramente un organico non ha speranze.»
 
Doloroso, sì. C’è un motivo se certe armi si maneggiano a due mani e in situazioni di calma. Ma non avevo il tempo di pensarci: come stava ricordando Al, l’integrità dei miei scudi stava scendendo a rotta di collo, quindi smaterializzai la seconda vipera e mi concentrai sul secondo.
BANG!
Una fitta mi attraversò la spalla. Doloroso, sì. Poi un phaser di torretta mi fischiò a un nanometro dalla testa.
«Takami!» Doveva solo tirarlo giù, porca miseria! Possibile che non riuscisse a fare neanche quello?!
«Mordi, Takami!»
 
«Oooh! Guarda Dallas! Un’altra dimostrazione delle capacità della spalla!»
Dallas rispose in tono schifato: «Lo ha... abbracciato? Mi rifiuto di crederlo! Voglio il replay!»
«Whoa, la regia ti ha accontentato! Ecco il momento... e quella è chiaramente una reverse bear hug!»
«Hai ragione... hai decisamente ragione, Juanita! Per un attimo ho temuto il peggio, ma quella è decisamente una presa da dietro! E che scarica che ha rilasciato subito dopo! Impossibile sopravvivere!»
«Ma sarà stata una mossa furba? Se l’ho avvertita io, qui in quota, gli zombie robot devono aver pensato ad un lauto pasto!»
 
La torretta smise di illuminare a giorno le scarpate attorno al sentiero. Per qualche istante sembrò persino disattivata. Silenzio in pista. Silenzio alla radio.
Oh no!
Mi precipitai alla postazione. «Takami stai bene?!» gridai, aggirandola.
La trovai in ginocchio, con le mani ancora sul corpo dello striker. Il robot emetteva qualche scintilla qua e là. Siccome era immobile, per un attimo temetti che avesse nuovamente fritto l’armatura.
«È in riavvio d’emergenza?»
«È operativa.» replicò Al.
E allora perché non si muoveva? – mi chiesi afferrandola per la spalla bruciacchiata. Lei fece un debole tentativo di togliere l’arto dalla mia presa.
«Juanita ha ragione. Mi hanno sentito. Ora arrivano.» mormorò, piatta.
«Chi?»
«Un’armata.» concluse Clank. «Arrivano dal vostro punto di partenza.»
Di riflesso guardai in quella direzione. La guglia, dietro la quale ci eravamo nascosti poco prima, non sembrava nascondere nulla.
«Che vengano. Li aspetto su una Stalker da 70 millimetri.»
«Ma sei fuori? Dovete andarvene!» strillò Al, parecchio indignato.
«Anche gli striker vi aspettavano su quella torretta.» infierì Clank, alludendo col tono alla fine che avevano fatto. «Al ha ragione. Impantanarvi lì vi renderà più difficile arrivare all’obiettivo dopo.»
«Ma scappare ci farà proseguire con un nemico davanti e uno dietro.»
«Andiamo via.»
Guardai Takami. «Ti prego.» aggiunse, con quel tono piatto.
Nell’attimo che seguì da dietro la guglia spuntò metà dello striker cui avevo fregato il fucile da cecchino. Attivai la torretta e lo aprii all’altezza della vita, poi tornai a guardare la bambina. Il visore a tre punte era girato verso di me, in attesa.
«Va bene, andiamo.»
 
Il sentiero continuò, sempre incavato fra le due scarpate. La roccia continuò ad essere coperta qui e là da macchie di muschio e a fare da base per le lunghissime radici nerastre degli alberi. Incontrammo altre quattro squadre di nemici, che ripeterono tutte lo schema cecchino-fanteria-torretta-fanteria. Parlare di questi scontri sarebbe inutile perché furono fotocopie del primo. Però occorre sapere che l’ultimo avvenne ai piedi di un enorme muro. E con enorme intendo un grattacielo di pietra.
 
«Oh sì gente! Il Muro delle Formiche!» trillò Dallas, entusiasta all’ennesima potenza.
«Un grande classico di Catacrom!» rincarò Juanita, anche lei bella carica. «I concorrenti dovranno scalare la parete di roccia sotto il fuoco incrociato degli zombie e degli striker!»
 
Lo sapevo io che dovevamo farli fuori prima, gli zombie. Ma gli altri “no, dai, proseguite che lì vi impantanate”! Perché qui no, vero?
 
«Proprio come bambini dispettosi i nostri aspetteranno che il team Darkstar abbia cominciato la sua bella fatica nello scalare prima di arrivare con i loro letali ditini a schiacciare i concorrenti!»
«Puntate bene i vostri bolt, perché per la loro performance questi non ne usciranno vivi!»
 
Grandioso.
«Come se la sono cavata gli altri?» domandai.
«Quelli come noi o hanno scalato con gli scudi forti o hanno combattuto prima di salire.» riassunse Takami, con voce affaticata.
«Perfetto, l’ultima opzione è la nostra.» dichiarai, materializzando per l’ennesima volta le vipere.
«Ma è quella con più fallimenti!» protestò Al. «Oltretutto non avrete altri proiettili per dopo!»
Imprecai mentalmente.
Era vero, ma allo stesso tempo se avessimo tentato la scalata saremmo diventati oggetto di un feroce tiro al bersaglio.
Mi voltai a guardare l’umana. Realizzai solo in quel momento che il respiro affannato che tremolava nell’intercom doveva essere il suo.
La presi per le spalle. «Non è vero che non abbiamo armi. Anzi, abbiamo un test da fare, ricordi?»
Qualsiasi cosa rispose, la voce di Juanita la coprì. «Sembra che il team Darkstar voglia combattere prima di scalare!»
«Una scelta audace. Ci vogliono le palle per affrontare a viso aperto le truppe di Catacrom!»
«Non credevo che quel nanerottolo le avesse!»
«Beh, Juanita cara, vedi, in realtà ogni organico maschio le ha...»
 
Clank si fece sentire alla radio, e per fortuna fece in modo di isolare quello scempio di discussione. «È strano che non vi abbiano ancora sparato. Sono schierati da un pezzo.»
«Sono cecchini. Vivono per nascondersi e sparare alla bastarda.»
«Aspettano che ci sono tutti.» mormorò Takami.
«Giusto, così ci logoriamo un po’.» rifletté Al.
«...Alza gli ascolti...»
 
Feci rimbalzare lo sguardo tutt’intorno. Loro erano lì, anche se non riuscivo a vederli. Strinsi i pugni e li riaprii e continuai a farlo a nastro, pensando rapidamente.
La soluzione arrivò all’improvviso e bruciò tutti gli altri pensieri. Galassia, era tanto semplice! Erano tutti lì, fermi, in attesa intorno a noi...
«Ratchet, ma stai davvero ghignando?»
Sì, ghignavo. Ghignavo dei tattici DreadZone, pensando che fossero dei cretini.
Perché noi, pur a corto di risorse, un attacco ad area ce l’avevamo.
«Ruggisci Takami.»
* * * * * *
«Ladrare! Questo è la-dra-re!»
Dallas si sgolava mentre io guidavo Takami nella scalata del Muro delle Formiche. «Brava. Adesso la mano destra l’appoggi su quella roccia lì – no, non quella, quella di fianco. Quella, sì – E adesso...»
Inutile dire che di sotto avevamo combinato un casino magistrale. Il ruggito stavolta era stato più veloce nel manifestarsi, e secondo me era stato anche più denso di saette. Alla fine, però, stesso risultato: dovunque avesse colpito c’erano solo lattine fumanti. I finti semôke erano tornati al terreno e, con ogni probabilità, sarebbero respawnati più avanti. Gli striker si erano fusi e basta. Noi, salvo un riavvio in remoto delle armature, ce l’eravamo cavata egregiamente. E Al – informato nel mentre da Clank – aveva pure deciso di riprodurre la tuta di Rop’roc. Definirmi soddisfatto era riduttivo. Ero ben oltre l’euforico. Avrebbero potuto chiedermi di espugnare Fort Sprocket e l’avrei fatto senza battere ciglio.
Almeno finché non arrivammo in cima.
Lassù, ad attenderci, c’era una piana di muschio a macchie rugginose. Era grossa come una piazza di Metropolis e gremita come un centro commerciale ai saldi. Solo che i presenti erano tutti armati fino ai denti... e l’unico divisorio fra noi e loro era una barriera olografica su cui si leggeva un conto alla rovescia. Segnava quasi quattro minuti. Avevamo tempo di riprendere un po’ di fiato.
 
«Ah, il tempio di Rad’uhr-kaa! Molto, molto antico! Pensa, Juanita, che nelle sue mura hanno trovato scheletri delle Vertieen Slag!»
«Bei tempi quelli! Sangue e morte nello stile preferito dai nostri spettatori: brutale e non stop!»
 
Il tempio stava sullo sfondo della piazza. Era una piramide a gradoni mezza mangiata dai licheni. Dalla punta partiva la colonna azzurrina del goal, mentre al centro aveva un buco quadrato: guardarlo mi riportò in mente stralci della chiacchierata con Chaos.
 
«L’obiettivo di questi criminali è espugnare il tempio e guadagnarsi il trofeo che dà accesso alla prossima gara! In che modo? Beh, dovevo dirglielo, ma siccome sono dei bari credo lo terrò per me!»
 
Maturo. Indubbiamente maturo.
«Non vi gettate a capofitto. Un crepaccio taglia tutta la piana; se ci cadeste sarebbe la fine.» informò Clank.
«E quel ponte a ore undici?» chiesi, riferendomi a una gobba di roccia nuda che sicuramente era vecchia come il posto.
«Temo sia minato. L’alternativa è un ponte allungabile di cui, però, dovrete attivare i nodi.»
«Quanti?»
«Due. Dopo il ponte, poi, troverete un landstalker. È con quello che dovrete espugnare il tempio.»
Perfetto.
Studiai velocemente il nemico. L’esercito era disposto in tanti piccoli gruppi sparsi e qua e là. Non c’era possibilità di passare non visti. E ingaggiare il fuoco sarebbe stato a dir poco stupido.
«Ehm... ragazzi, dovete muovervi.» intervenne Al. «Lo schermo ausiliario indica che qualcuno sta scalando il muro.»
Sgranai gli occhi. Com’era possibile?, pensai andando a controllare. Eppure eccoli lì, gli zombie. Un braccio avanti all’altro salivano, e quelli che non avevano le braccia si erano ammassati ai piedi della parete.
«Ma perché diamine ce l’hanno con noi?!» sbottai.
«Eseguiranno degli ordini.» buttò lì il nostro Tecnico.
Ordini. Da quando uno zombie prende ordini?
«O magari seguono quanto rimasto della programmazione degli striker.» ipotizzò Clank. «Comunque adesso cercate un nascondiglio.»
Programmazione. Come se un’anima potesse essere programm–oh, merda. Sì che può.
...IDEA!
«Takami.» chiamai. «Adesso ascoltami. Metti via la tua pistola. Quando la barriera calerà scapperemo in direzioni diverse in mezzo a loro» e indicai la folla di robot e mercenari. «Corri e basta, più veloce che puoi. Porta gli zombie in mezzo a loro. Ci rivediamo al ponte di pietra. Pensi di riuscirci?»
«Penso di sì.»
«Bravissima.»
In una manciata di secondi il conto scese a zero. Successero tre cose:
La barriera calò.
I primi zombie emersero dallo strapiombo alle nostre spalle.
Io e Takami cominciammo a correre.
* * * * * *
Quando, dopo mesi, ho rivisto una registrazione della puntata, mi sono sbellicato dalle risate. Eravamo così malmessi che, tra la performance e il commento tecnico di Dallas e Juanita, neanche io da fuori avrei puntato un bolt sulla mia squadra. Eppure sulla pista mi era sembrato tutto così incredibilmente diverso..!
Soprattutto la parte in cui avevamo portato gli zombie fra i mercenari di Vox. Io ricordavo solo di aver corso zigzagando a casaccio fino a far scoppiare gambe e polmoni, ma dalle riprese capii che io e Takami avevamo dato letteralmente inizio ad una rivolta.
Avevo messo insieme tutte le informazioni che avevo, comprese quelle fornitemi da Chaos. Paradossale, dato che la credevo una pazza. Però avevano funzionato, perché l’immortale esercito che aveva fermato le Vertieen Slag intervenne ancora per eliminare i soldati che osavano trattare il loro suolo come un campo di battaglia. I morti, nei loro corpi metallici, si avventarono su tutti coloro che brandivano un’arma, organici o robot che fossero.
Perché era questo che rendeva bellicosi i finti semôke, non la prospettiva di mangiare (cara Juanita).
Quindi, com’è immaginabile, quando sparammo il primo colpo rientrammo a pieno titolo fra gli invasori da abbattere.
* * * * * *
Tutt’intorno a noi era un vorticare di phaser rossi, verdi e blu; di cigolii di lamiere piegate e di tonfi di cose che cadono. Ci arrischiammo ad attraversare il ponte di pietra, che non saltò perché l’addetto alle mine – chiunque fosse – era alle prese con gli zombie.
Fu un colpo di culo. E, siccome i colpi di culo danno tanto l’idea di vincere barando, la situazione peggiorò subito dopo.
Mi guardai alle spalle e decisi di lasciare la carneficina al di là del crepaccio. Il baratro era così profondo che nessuno l’avrebbe passato senza allungare il ponte di DreadZone, il che – con i nodi infognati chissà dove – in quel momento era parecchio difficile. Dunque l’unico ostacolo era l’esistenza del ponte minato.
Pensai di avere la soluzione ideale al momento ideale. Purtroppo avevo già dimenticato che gli zombie se la prendessero con chiunque fosse armato...
Semplicemente: materializzai le vipere e sparai alle mine sull’intradosso. Quelle esplosero disegnando fiori di scintille gialle e arancioni, che a loro volta emanarono piccole nuvole di fumo scuro. La roccia s’incrinò, si spezzò e cadde nel vuoto, portando con sé fumo e schegge.
All’istante dal terreno emersero braccia semi arrugginite, dita adunche e lamiere taglienti. Ci avevo gettato dritti dalla padella nella brace.
«Via! Via di qui!» sbraitai all’intercom.
 
Raggiungemmo il landstalker correndo come forsennati. La piazzola di ricarica era stata montata in un’insenatura a lato del percorso. Il gigantesco ragno carro armato giaceva accoccolato sulle sue zampe, del tutto indifferente alla bolgia. Mi dovetti appoggiare ad esso per riprendere fiato.
«Hoverboot... –pant– servono gli... –puff– hoverboot...»
«Dovrebbero essere integrati. Ne vedo i circuiti.» rispose Al.
«Cos..?!»
«Magari andranno sbloccati.»
Aveva ragione lui, ma l’avrei scoperto solo al rientro. In quel momento pensai solo una fila di insulti. Non avevo il fiato per esternarli.
Poi captai i passi aritmici delle macchine possedute. Non avevo neanche il tempo per esternarli, così mi girai verso Takami e battei due pacche sulla zampa del landstalker.
«Come hai detto... –puff– che te la cavi... –pant– coi mezzi?»
«Uh... Così così...»
Piegai leggermente le ginocchia e intrecciai le mani a mo’ di pedalina. Non colse subito l’invito, così specificai: «Salta su. E no... –uuuff!– non toccare nulla!»
 
Mai stati dentro un landstalker? Beh, lo spazio è così poco che si rischia di fare a botte. Ci sono due sedili – o forse dovrei dire due piatti di metallo – mignon. Quello dietro è più alto di quello davanti perché sopra ci va il tiratore. E ovviamente gli ammortizzatori nei sedili sono inesistenti, con tutto ciò che ne consegue.
La prima cosa che feci, una volta che la calotta di vetro adamantino si fu richiusa sopra di noi, fu disabilitare i comandi di Takami. Decisi che sarei stato l’unico manovratore del mezzo. C’era da ballare parecchio e non potevo affidare i cannoni al plasma a un’undicenne dalla lacrima facile.
 
THUD! THUD! THUD!
Manate e colpi vari grandinarono lungo tutta la carrozzeria. Gli zombie erano venuti a farci la corte. Feci piegare le zampe al nostro amico e... hop! Un bel salto laterale per uscire dal gruppo. All’atterraggio ne schiacciai qualcuno; me ne accorsi dal rumore di lattine che arrivò tramite le lamiere.
«Il percorso è rettilineo. Pendenza lieve e regolare. Suolo non sconnesso. Assicuratevi di abbattere le sfere quasar con i mortai e passerete le barricate in men che non si dica.» asserì Clank.
«Barricate?»
Fu una domanda cretina. Quando rientrammo sul percorso e vidi gli enormi shanghai piantati a casaccio capii: poco ma sicuro non li avremmo passati né di lato né saltandoli.
Strinsi meglio i comandi.
«E allora distruggiamoli.»

[1|⇑] Avanti, lombax, accompagnami oltre la soglia del tuo âdyton.

 

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Capitolo 15
*** | Capitolo 12 | Catacrom Quattro: il tempio e i Sangue Misto ***


[ 12 ]
Catacrom Quattro: il tempio e i Sangue Misto
(Robot, zombie e magie. No, non vi perculo)
 
La prima barricata andò giù come un castello di carte.
La seconda era protetta da una torretta stalker, ma gli zombie avevano già tolto di mezzo i suoi piloti. Torretta e barricata fecero kaput.
La terza aveva due torrette e qualche uomo a difesa. Stessa storia.
La quarta era controllata direttamente dagli zombie.
 
Fermai il landstalker. Questi erano diversi: erano chiaramente più vivaci di quelli che avevamo seminato alle varie barricate. Erano allineati davanti alla barricata e gesticolavano tutti insieme, battendo i piedi e le mani come se stessero danzando.
«Sono dei Sangue Misto.» disse Takami, che guardava nella loro direzione. Sembrava sapere qualcosa.
«Cioè? Cos’hanno?»
«Chaos ha detto solo di ricordartelo.»
Lasciai perdere e tornai a guardare la plancia. L’indicatore sulla consolle segnava che i mortai avevano energia sufficiente. Misi a caricare i colpi. Passarono alcuni istanti di silenzio, poi li rilasciai.
Otto scie di plasma azzurrino divorarono l’aria fra noi e loro. Quattro esplosero sulle sfere quasar, le altre su tutto ciò ch’era nel mezzo: metallo, muschio, robot. Per un po’ tutto fu un’indistinta nuvola di polvere, poi emerse la realtà: nessuno degli zombie era rimasto ferito.
Piedi ben piantati, una mano davanti alle spalle e una verso il cielo, ci fissarono per un ultimo istante, poi con la mano più alta tracciarono un arco verso il basso. Una serie di strisce d’energia si fece ben visibile là dov’erano passate le dita.
«E questo?»
Ad un cenno dell’altra mano le lame partirono tutte insieme a gran velocità.
«Caz–!» Arraffai i comandi e feci fare un salto indietro al landstalker: la macchina arretrò di una ventina di metri, ma fu lo stesso investita da alcuni scossoni. Quando rimise le zampe per terra ci fu uno schiocco terribile e la cabina crollò sul fianco sinistro. Mi misi subito al lavoro sulla consolle, provando a rimetterci in piedi. La macchina non rispose.
«Oh andiamo!»
«L-le gambe...» il braccio destro di Takami sbucò dalle mie spalle per indicare un punto oltre il vetro. Guardai fuori. I monconi giacevano a qualche metro di distanza, tagliati di netto. E quei pazzi avevano già caricato altre lame.
Attivai l’espulsione d’emergenza. Il vetro si staccò e noi venimmo sparati fuori, paralleli al suolo. Le lame d’energia si abbatterono sulla macchina: fu tutto ciò che vidi, poi mi schiantai contro qualcosa e i miei pensieri vennero annebbiati da un dolore atroce.
 
Non li vidi arrivare, ma gli zombie ci raggiunsero. Li sentii camminare; udii i loro passi pesanti che si avvicinavano. Provai a girarmi ma non ci riuscii. Rimasi in posizione fetale, così com’ero. Il mio corpo non rispondeva e non sapevo se era l’effetto della botta o se avevo l’armatura guasta.
Uno di loro mi prese per le caviglie e mi girò sulla schiena. Continuai a rimanere in quella posizione seduta, inchiodato nelle articolazioni e incapace di muovere alcunché. Dovevo sembrargli curioso, perché il robot si sporse davanti al mio visore. Aveva la faccia lunga, di forma cilindrica, con la bocca coperta da una grata.
«Ehi...»
Testa Lunga scomparve dalla mia vista. In compenso, pochi attimi dopo, mi afferrò le caviglie e mi trascinò via. Era forte, a giudicare dalla velocità con cui procedemmo.
Il suolo sotto la mia schiena scricchiolava ad ogni centimetro. C’era della ghiaia. Chissà se mi rovinerà l’armatura.
 
L’intercom scelse quel momento per gracchiare. Crr, crr-crr... Poi, da lontano, arrivò la voce di Clank.
«–et! Ratchet! Mi senti? Takami! Qualcuno risponda!»
«Presente...» biascicai, sentendo la bocca secca e la lingua di piombo.
«Santa radio! Come stai? Non riceviamo più dati dall’armatura!»
«Vuoi dire che è spenta..? È per questo che muovermi è un casino..?»
Breve silenzio.
«...il colpo deve aver messo fuori uso i sensori. Ma lo schianto è stato violento; c’è una possibilità che la tua spina dorsale sia danneggiata.»
Avvertii un brivido. Paralizzato? Io? No. Nossignore, no. Istintivamente cercai di muovere le dita. E quelle risposero (a scatti, ma lo fecero).
«No, è l’armatura che non va. Mi sembra di avere dei supermagneti a inchiodare le articolazioni.»
Intervenne Al: «Allora potresti aver bisogno di metterti in modalità autonoma.»
Perché, non ero già autonomo?
«Diciamo che passerai dalla guida assistita al pilota manuale. Taglieremo qualsiasi collegamento che non sia la radio – tanto i sensori sono già andati. Smetterai di aspettare responsi dal computer centrale: questo farà sì che i microblocchi delle celle z-troniche-»
La punta del tempio comparve all’improvviso sopra la testa del robot che mi trascinava.
«Fantastico Al. Sarà lunga? No, sai, mi stanno portando nel tempio. Lì la radio non prenderà di certo.»
Questo concluse la spiegazione.
«Ripeti i codici che ti dico adesso.»
* * * * * *
Seguii l’istruzione di Al alla lettera, senza chiedermi perché cavolo un comando tanto utile si traducesse in una fila di suoni disarticolati da quarto ceppo.
Intanto il tempio aveva coperto la mia visuale quasi del tutto. Del cielo rimaneva solo un pezzettino visibile ruotando gli occhi al limite estremo. Testa Lunga continuava a marciare spedito, e io continuavo a ripetere i codici.
Quando pronunciai l’ultimo “esegui” era da un po’ che il cielo era stato sostituito dal corridoio tappezzato di muschio. Fu anche l’ultima cosa che udii dall’intercom: la voce di Al, già affievolita dalla scarsità di segnale, sparì del tutto. Ma lo ringraziai lo stesso, casomai il segnale in uscita fosse stato un pelo più forte.
La visiera si sgombrò di tutti gli indicatori e le articolazioni riacquisirono la loro scioltezza. Anche le ginocchia, già. Slittarono in avanti all’improvviso, cogliendo di sorpresa sia me che il robot. Questo si fermò di colpo.
Oh-oh. Sgamato.
Sentii lo stomaco chiudersi. Temetti una reazione violenta – temetti soprattutto che mi affettasse con quella loro lama d’energia – ma non ci fu nulla di tutto ciò. Continuò a tenermi per le caviglie e l’unico movimento che fece fu ruotare la testa di centottanta gradi. Istintivamente lo puntai con la coda.
«Lasciami andare. Subito.» scandii cupamente. Se non avesse obbedito gli avrei staccato la testa.
Lui mi fissò per un istante ancora, senza rendersi conto della minaccia. Poi, con la voce distorta dagli altoparlanti decrepiti, dichiarò: «Non ora. Non qui.»
«Allora shot.»
Avvertii la carica lungo la coda, poi la faccia di Testa Lunga esplose con una vampata bianca e rossa. L’urto ne sbilanciò il corpo, che cadde con il rumore di ferri ovattato dal muschio.
Mi tirai sbrigativamente in piedi, tenendo d’occhio a tratti il corridoio e a tratti il moncone facciale di Testa Lunga. I cavi rotti emettevano un lieve bagliore giallastro. Mi venne in mente Takami, che all’inizio del percorso aveva sparato nelle ginocchia agli avversari sconfitti.
Che fine avrà fatto? – mi domandai, adocchiando la direzione dalla quale ero arrivato. Nessuno in arrivo. Ci avevano divisi, non era buon segno.
Mi incamminai nella direzione dalla quale il robot mi aveva trascinato, sperando nella fortuna di trovare il bivio dove eravamo stati separati. Quel posto era un tempio, no? Era ragionevole credere che non fosse un labirinto.
Ebbi anche la fortuna in cui speravo: c’era una sola biforcazione ed era a pochi metri dall’ingresso. M’infilai alla svelta nell’altro corridoio.
C’era meno muschio per terra, e quel poco che c’era era appiattito dal continuo calpestio. Era il corridoio principale.
«Takami! Mi senti? Se mi senti rispondi.»
Era un tentativo destinato a fallire, lo sapevo ancora prima di aprire la bocca. Ma lo feci lo stesso, e intanto mi inoltrai lungo il corridoio.
«Di’ qualcosa. Fammi capire dove sei.»
Più proseguivo e più la strada si stringeva. E saliva in maniera piuttosto brusca.
«Vengo a prenderti e ce ne andiamo.»
Ma l’intercom rimase in silenzio.
Bizzarramente non mi accorsi per nulla che stavo salendo lungo una spirale. Mi accorsi a malapena che i corridoi si facevano sempre più corti, ma non feci assolutamente caso che le curve (rigorosamente a novanta gradi) erano tutte nella stessa direzione.
Finché sbucai sulla sommità.
La piazzola quadrata aveva quattro pilastrini agli angoli e il gigantesco campo di forza chiamato goal al centro. La parete blu svettava come un faro verso il cielo, ma al suo interno non c’era nessuno. Anche la piazzola era deserta, se si escludevano le telecamere. I loro occhi elettronici zumarono subito su di me, che intanto sbottavo: «Ma come... ero sicuro che fosse venuto su per di qui!»
«Di cosa parli?»
«Che cosa succede?»
Clank e Al, di nuovo in collegamento radio, furono una presenza confortante. «Ci hanno diviso. Non trovo Takami.»
«Non abbiamo mappe del tempio. In teoria avreste dovuto puntare al foro centrale e poi alla cima, rimanendo sempre in vista.» disse Al.
«Ma se risale alle Vertieen Slag come ha indicato Dallas, allora la struttura interna potrebbe essere duplice. Nella maggior parte delle rovine di quel tempo hanno rinvenuto due vie: una che sale e una che scende.»
«Capito, grazie Clank.»
Non persi altro tempo: mi lanciai a ritroso lungo la spirale e imboccai di nuovo il corridoio in cui avevo scoppiato la faccia a Testa Lunga. Raggiunsi i suoi resti e stavolta proseguii lungo la strada.
Arrivai in fondo. Come aveva detto Clank c’era un corridoio simmetrico a quello che saliva, solo che questo scendeva. Mi venne spontaneo un moto d’orgoglio. «Ne sa una più dell’enciclope­dia, eh!»
Imboccai il nuovo corridoio, ma stavolta lo affrontai con più cautela. Avevo un solo colpo nella coda, una manciata d’energia per il fucile a fusione e le vipere. Non potevo caricare eventuali robot a testa bassa.
Procedetti a margine del corridoio, dove il muschio attutiva meglio il rumore dei miei passi. Non c’era luce, ma il casco mi consentiva lo stesso di vedere. E intanto provavo con l’intercom: «Takami, se riesci a sentirmi...»
 
Non so di quanto scesi, ma sono abbastanza sicuro che fosse un dislivello più grande di quello che portava in cima alla piramide. Speculare in tutto e per tutto, la spirale verso il fondo era un imbuto i cui corridoi si accorciavano mano a mano che svoltavo. Finché l’intercom diede segni di vita.
«...so... iamo uc... so i vos... pagni...»
Takami. Quella era la sua voce, non c’era dubbio!
Scattai in avanti, e pace a tutti i buoni propositi.
«... però voi... avete attaccato.»
Curva. Attaccato? Vista la fine del landstalker “attaccato” era parecchio riduttivo.
«Non lo sapevamo! Glielo giuro!»
Altra curva. Cos’era quel terrore nella voce?
«No, di nuovo no, la prego!»
Altra curva. Un sospetto cominciò a formarsi.
Takami urlò di dolore e allora il sospetto si cristallizzò. E fece male.
Resisti piccola. Resisti!
Accelerai. Ma non feci che una sola curva, poi, con un brivido di paura, pestai i piedi per rallentare. Mi fermai in così pochi passi che rischiai di capitombolare in avanti. Il corridoio era bloccato da due colossi meccatronici. E, se loro non fossero stati sufficienti a farmi perdere un battito, davanti al mio naso c’era una bocca da fuoco da ottanta millimetri.
«Fermo dove sei.» recitò il primo, in un quinto ceppo dai suoni antichi.
L’altro gli fece eco: «Mani in vista, miscredente.»
Alzai le mani molto lentamente, e con esse alzai anche lo sguardo dalla mitraglia. Erano a dir poco immensi. Larghi come una navicella, di metallo opaco, uno con occhi di pixel rossi e l’altro di pixel blu. Curiosamente, a lato, avevano delle specie di corna da montone. A cosa gli servivano? Avevano già la contraerea impiantata negli avambracci!
«Chi è il tuo capoguerra?»
Spostai lo sguardo in faccia a Occhi Rossi, che aveva parlato. «Capoguerra?»
Era un titolo abbastanza eloquente, ma il mio cervello per qualche motivo si rifiutava di processarlo. Ovviamente i robot scambiarono il mio tono per ironia, così Occhi Blu decise di rincarare la minaccia appoggiando il cannone direttamente sulla mia armatura.
«Capoguerra, sì. Dicci chi è.»
«Sul serio ragazzi: non so neanche cosa sia.» Passai velocemente lo sguardo da Occhi Rossi al cannone e viceversa. Potevo sentire il cuore rimbombare nelle orecchie.
Furono un paio di secondi lunghissimi, in cui i robot mi studiarono per capire se dicevo la verità. Poi Occhi Blu mi sparò a bruciapelo.
* * * * * *
Mi diedi dell’idiota.
Galleggiando a mezz’aria, immobilizzato da un doppio campo di forza – uno di Occhi Rossi e uno di Occhi Blu – mi diedi due volte dell’idiota. Ci ero cascato con tutte le scarpe: mi avevano fatto intendere che quella fosse un’arma e io non avevo minimamente preso in considerazione che potesse essere un gadget. E invece il cannone da ottanta millimetri era un misto fra un raggio trattore e un campo di contenimento.
Maledetta la fabbrica che li aveva sfornati.
 
Camminavano a passo sincronizzato, scendendo lungo la spirale. Io e la mia prigione eravamo niente più di un palloncino: trascinati senza essere più considerati.
«Il venerabile Udhunn sta conferendo con il sommo Ran’jio. Pare che del venerabile Mitak non ci siano più notizie.»
«Dove l’hanno avvistato l’ultima volta?»
«Fuori. Stava portando nel tempio il contenuto del ragno meccanico.»
Le orecchie tentennarono. Ragno? Il landstalker! Quindi parlavano di me e Testa Lunga: non poteva essere altrimenti, dato che Takami era già in compagnia di vecchi mangia-olio. Mi chiesi come avrebbero reagito scoprendo che avevo staccato la testa al loro venerabile Mitak, e mi risposi che non era il caso di scoprirlo.
«Magari i miscredenti gli hanno teso una trappola. Vedrai che sono interferenze magiche.»
«Uhm. Se è così provo pena per loro. La sua abilità con gli incanti è seconda solo a quella del sommo Ran’jio. Li annullerà.»
Magie, eh? Credici. Sai, io nel grimorio ne ho una chiamata phaser. È potentissima sui robot.
«Non hai ragione di struggerti per dei miscredenti. I nemici dei Sangue Misto devono essere puniti.»
 
Sangue Misto – ecco che il termine spuntava un’altra volta. Quindi Chaos non era solo un’allucinata che sparava balle in grande. Dovevo concedere che aveva delle basi storiche.
Intanto scendevamo, scendevamo, scendevamo... (ma per avere segnale radio non dovevo essere vicino a Takami?). Ogni tanto passavamo in mezzo a delle guardie robotiche, e allora mi beccavo sguardi straniti, arrabbiati o arroganti. Borbottavano velocemente qualcosa, che in vari modi aveva sempre a che fare con la parola “miscredente”. Capii che fosse l’insulto più in voga. Tutto sommato era tollerabile.
 
Alla fine giungemmo davanti ad un portone tutto inciso con ghirigori fosforescenti. A farci la guardia c’era un battaglione di quattro robot. L’unica cosa che li accomunava erano i drappi logori che coprivano i fianchi, poi erano tutti diversi per forme e dimensioni. Quando ci avvicinammo i due più vicini alla porta fecero un passo in avanti. Occhi Rossi e Occhi Blu, fermi, abbassarono la testa.
«Identificatevi.» disse quello di destra.
«Sono Rab Liuk, o Venerabile.» rispose Occhi Rossi. «Costui è Rab Frejir, mio fratello. Abbiamo catturato una spia.»
Il venerabile che aveva parlato mi studiò coi suoi occhi da Wall-E. Assistetti anche alla versione live del gioco di zoom col binocolo. Poi chiese: «Dove lo avete catturato?»
«Alla Stazione della Terza Espiazione. Cercava di raggiungere questo luogo.»
«Potrebbe essere il mortale che Mitak è uscito a prendere? La descrizione del Sommo combacia.» disse il suo vicino, che per la maschera antigas e il numero di cavi che uscivano dalle giunture sembrava uscito da uno di quei vecchi film distopici. Binocolo ponderò l’ipotesi, e alla fine optò per l’approccio diretto.
«Rispondi tu al nome di Ratchet di Veldin?» domandò.
Quella fu una sorpresa.
«Ci conosciamo?»
Mascherina si rivolse ai due che mi tenevano nel palloncino: «Liberatelo. Egli è un fratello mandato dalla Divina in persona.»
Fu una notiziona per i fratelli Rab. Tutti i sistemi di raffreddamento gli si accesero di colpo, facendogli sbuffare aria nella più grottesca imitazione di puzzetta mai vista.
Fu in mezzo a quel bizzarro spettacolo che abbassarono il palloncino-prigione e mi rimisero coi piedi per terra. Sono sicuro che, se fossero stati organici, sarebbero arrossiti fino alle punte dei capelli.
* * * * * *
«Salute e rispetto, Araldo di Chaos.» esordì Mascherina una volta congedati i due. Nel dire quelle parole portò una mano sul petto e fece un piccolo inchino. «Ti preghiamo umilmente di perdonare il loro comportamento.»
Araldo di Chaos?
«Comprendiamo che tu sia confuso; ma adesso sei al sicuro. Siamo alleati, nessuno qui ti farà del male.» asserì Binocolo, alla sua sinistra.
Eh?
Mascherina evidentemente si accorse che cadevo dalle nuvole, quindi ebbe la decenza di indagare un minimo: no, non sapevo dell’alleanza; no, Chaos non mi aveva detto nulla; no, non sapevo della loro guerra. E no, il venerabile Mitak (alias Testa Lunga) non mi aveva ragguagliato sul fatto che fingeva di essermi nemico.
E allora, tra Mascherina e Binocolo, partirono con uno spiegone tremendo. Mi dissero che erano in guerra coi soldati di Vox sin da quando Vox aveva comprato il pianeta. All’inizio avevano provato a parlamentare, ma non era andata troppo bene, per cui erano passati all’approccio killer con chiunque si avvicinasse troppo. Tuttavia qualche mese prima quei porci miscredenti erano riusciti a conquistare la metà superiore della piramide e ci avevano fatto i loro comodi. Loro si erano incazzati parecchio, si erano fatti aggressivi, ma Chaos li aveva fermati dicendo di sigillare la parte inferiore del tempio, fingere di portare avanti la guerra e aspettare l’Araldo.
Chaos, la stessa Chaos che conoscevo, proprio lei.
Loro la chiamavano la Divina. Per me era una pazza indecifrabile ma, siccome la sua era la parola di un essere superiore, loro avevano eseguito. Fino a quel momento. Da lì in poi, secondo Mascherina e Binocolo, io avrei preso in mano le redini della faccenda e cacciato i porci miscredenti.
Decisi di fingere, di stare al gioco. Mi dissi d’accordo. E loro mi fecero entrare nella sala che più gelosamente custodivano.
 
È...wow, non ho parole!, mi dissi facendo un paio di passi al suo interno.
Era tutta ricoperta di simboli perlescenti. Al soffitto galleggiavano delle sfere di fuoco, che si spostavano qua e là tipo fuochi fatui. Faceva caldo. E la luce di quelle strane candele era amplificata dagli specchi ovali che tappezzavano le pareti. Tolsi il casco per non rimanere abbagliato.
«Oh, nobile Araldo, infine sei giunto!»
La voce calamitò lo sguardo al centro della stanza. E mi prese male.
Davanti a me c’era un’armatura DreadZone. Una nera, quindi del grado più alto. Subito pensai che fosse l’ora della boss fight. Il luogo era anche adatto. Poi, però, mi resi conto dello scettro nella sua mano e della stoffa avvoltolata ai fianchi a mo’ del plotone fuori dalla porta. Nessuno dei due era parte dell’armatura.
«Ratchet?»
La voce timida di Takami arrivò a sorpresa dalle mie spalle. Era senza casco e gli occhi erano spalancati in un’espressione incredula. Il sudore le aveva appiccicato i capelli alle guance.
Era... libera. E in apparente buona salute. Mi spiazzò: da come aveva urlato avevo creduto che la stessero torturando.
«Stai bene?»
Lei annuì. Si avvicinò zoppicando leggermente, mi raggiunse, fece per dire qualcosa ma all’ultimo si morse il labbro inferiore e ripiegò. «Il sommo Ran’jio mi ha guarito. Non è cattivo come sembra.»
Guarito? Ma se zoppicava!
Il robot decise di intervenire. «Ci sono danni per cui la mia magia richiede tempo. Non molto, comunque: la giovane Guardiana sarà di nuovo in forma entro la fine della nostra chiacchierata.»
«Chiacchierata?»
«Sono il sommo Ran’jio.» disse, mostrando quell’inchino con la mano sul cuore. «E vorrei perfezionare l’alleanza stabilita per noi dalla Divina.»
 
Oh, questa poi!
«Senta, io la ringrazio davvero, ma le assicuro che non sono stato mandato qui da nessuno. O meglio, l’unico motivo per cui sono qui è perché devo prendere una certa cosa e raggiungere il cerchio blu che avete in cima alla piramide. E se non lo faccio – se non lo facciamo, perché anche la qui presente “guardiana” è coinvolta – il porco miscredente più cattivo del cosmo farà saltare queste belle collane esplosive.»
«La Guardiana mi ha aggiornato.» replicò lui. «Infatti, ciò di cui vorrei discutessimo si può dire un allargamento della missione assegnatavi da quello spregevole individuo. Ovviamente il tutto in cambio di aiuto e supporto. Per citare il mio maestro: una mano lava l’altra ed entrambe lavano la faccia.»
Tacqui.
«Ciò che dovete recuperare si trova nella spirale ascendente.» disse. «Precisamente nella Camera delle Preghiere. Si tratta di un manufatto a forma di scudo.»
«E lei come lo sa?»
«Ho divinato il nemico.» rispose con noncuranza. «Non che ne facesse molto mistero, in ogni caso. Quello è il vostro obiettivo e posso darvi tutte le informazioni utili a raggiungerlo. La mia richiesta – l’allargamento di cui parlavo prima – è che voi distruggiate il cerchio azzurro installato sulla sommità del tempio.»
«Cosa? Ma il goal ci serve! Non lo possiamo distruggere!»
Ran’jio alzò una mano a mo’ di stop.
«Non intendo che lo distruggiate prima di andarvene. Vi chiedo solo di piazzare un piccolo ordigno in un certo posto. Una passeggiata.»
«Mi scusi, ma perché non lo fate voi?»
«Perché il cerchio azzurro è hardware di ultima generazione. Non so in che modo, ma interferisce con il funzionamento dei nostri corpi. Anche di questo, che ha appena quattro anni. Non ci possiamo avvicinare.»
«E con la magia?» domandò timidamente Takami.
Il sacerdote si voltò verso di lei. Mi aspettai una risposta piccata (e anche lei, considerando l’espressione), invece Ran’jio replicò con pazienza paterna: «L’ultimo individuo ad aver posseduto una tale raffinatezza nell’arte magica è stato il mio maestro. Io non sarei abbastanza preciso e non ho avuto l’onore di incontrare la sua reincarnazione. No, l’operazione va svolta manualmente.» Poi si voltò di nuovo verso di me, e al tono paterno si sostituì uno ben più deciso. «Avrete molto tempo per andarvene, prima che avvenga l’esplosione, così nessuno potrà incolparvi. Dopodiché al resto dei miscredenti penseranno i nostri soldati.»
In pratica era una piccola deviazione, no? E io avevo già verificato che la piramide, all’interno, fosse pressoché sgombra. Sarebbe stata una passeggiata, come aveva detto il Sommo.
Il finto semôke lasciò che il discorso sedimentasse per qualche secondo, dopodiché riprese: «Inoltre la Divina ha disposto che vi dotiamo con qualcosa a voi consono. Alla Guardiana ho già provveduto, ma a te... cosa ti farebbe comodo, nobile Araldo?»
«Armi.» risposi di getto. L’armatura si prese il mento, assumendo un’aria da power ranger pensieroso.
«...credo di avere qualcosa per te.»
Dopodiché aprì la mano e cominciò a dire cose in una lingua che non capii. Più tardi – molto più tardi – l’avrei chiamato Idioma. Ma all’epoca mi parve assolutamente incomprensibile. Gli effetti però li vidi: sul palmo della sua mano si formò una pallina luminosa, che cominciò a girare su se stessa, e poi ad allungarsi, allargarsi, prendere forma. In breve la pallina divenne un foglio e poi una busta, la quale volò sopra la mia spalla e dritta attraverso la porta.
«Però. Comodo.» commentai.
«Magimessaggi di millenni fa. Sono sicuro che ad oggi siano molto più evoluti.»
Pensai ai nostri mezzi e non ebbi il coraggio di rispondere.
* * * * * *
Dopo un paio di minuti la porta alle mie spalle si aprì. Ne entrò un robot con un levitatore al posto delle gambe. Fra le braccia stringeva un involto lungo e svasato, che lasciò fra le mani di Ran’jio. L’armatura nera gli fece cenno di andare, e questo s’inchinò e lasciò la stanza a marcia indietro, rapido e silenzioso.
«Vediamo se questa si confà alle tue abilità.» disse Ran’jio, poggiando l’involto sull’unico tavolo presente nella stanza, che fino a quel momento era rimasto sempre dietro di lui. Poi si fece da parte e con un gesto delle mani m’invitò a scartare il regalo.
Io fui molto meno cerimonioso di lui. Presi un angolo dello straccio e lo srotolai rapidamente, finché non scoprii il contenuto. Allora sulla mia faccia arrivò lo stupore. «Un’onnichiave?»
Quella non era una scelta casuale. Non poteva esserla.
E non la era. «La Divina mi ha avvisato anche della tua propensione all’utilizzo di queste.» confessò Ran’jio, senza nascondere la soddisfazione. «Comunque non è l’oggetto che conosci. È una chtanna. Risponderà a te e te soltanto.»
«Chtanna?» domandai, facendo scorrere la mano sul bordo curvilineo della pinza. Notai il meccanismo di energizzazione e le rune incise con una certa maestria su di esso. E sull’asta. E sul manico.
«È tua, che tu accetti di aiutarci o meno.»
Alzai lo sguardo fino ad incontrare il visore oscurato del Sommo. Missione facile e doni. Se non li avessi aiutati, a quel punto, mi sarei sentito una cacca.
Ran’jio ridacchiò, e per la cadenza mi parve di sentir ridere un vecchio. «Aspetta, nobile Araldo. Prima di decidere devi sapere come si usa la chtanna.»
«È un’onnichiave, no? Mica ci vuole una laurea.»
«Non è “una chiave”. È un’arma concepita specificamente per combattere i robot. Ma per vederne il pieno potenziale devi prima farle assaggiare il tuo sangue, così che conosca e riconosca l’energia magica che scorre in te.»
Prego?
«Allora e solo allora compariranno le achta, le “sfere di difesa”. Esse sono le batterie della chtanna, e quando tu identificherai un robot come nemico esse lo penetreranno e gli risucchieranno istantaneamente l’energia, neutralizzandolo e fornendo al contempo energia alla chtanna. Con un po’ di maestria potrai rendere autonome le sfere, e quindi combattere cinque nemici in contemporanea. Quattro saranno debilitati dalle achta, e il quinto sarà preda della chtanna nelle tue mani, sia che tu voglia usarla per sferrare un attacco energetico, sia che tu voglia impiegarla come una banale mazza.»
Galassia, che tentazione. Se avesse funzionato davvero così sarebbe stata decisamente overpower. SE. Ma ero fedele alla scienza, e tutta la questione della magia mi suonava terribilmente discordante.
Però era vero che l’esercito di Catacrom Quattro era passato alla storia come un’incredibile esplosione di violenza anti-robotica. Non ricordavo in quale delle Stragi, ma ero sicuro dell’informazione. Ed ero sicuro che nessuno studioso avesse mai capito come avessero fatto a cavarsela in situazioni di svantaggio numerico quasi intollerabile. Se davvero era merito di quelle chiavi, perché non procurarmene una? Fino a quel momento non avevo trovato neanche un organico!
Cercai lo sguardo di Takami. La bambina, ancora col casco abbassato, mi fissò di rimando senza espressioni particolari. Che mi potevo aspettare, del resto? Mica poteva decidere lei per me.
Poi mi dissi: ehi, hai già stretto un patto con una donna di fumo no? La pazzia l’hai già fatta e la prova sono quelle rune perlescenti che hai sulla mano. E poi ti serve un’arma, fosse anche solo la cara vecchia onnichiave. Accettala e falla finita.
Scelta fatta. Non c’era altro da aspettare.
«Come si attiva questa cosa?» domandai.
«Svita il tappo sotto l’impugnatura.» spiegò subito l’armatura nera. «E versa al suo interno due gocce di sangue. Sarà sufficiente perché la chtanna si attivi e ti riconosca come padrone.»
In pratica era un’arma a riconoscimento biometrico, mi dissi. Questo mi fece sentire un po’ meglio.
Racimolare due gocce di sangue non fu difficile. Quando rimisi il tappo a posto, una dopo l’altra, le rune incise si accesero di rosso e poi di bianco. Impugnai la chiave con un misto di curiosità e diffidenza. Ed eccole! Le achta comparvero sotto l’impugnatura come luminose bolle di sapone. Erano quattro, proprio come aveva detto Ran’jio. Galleggiarono pigramente a mezz’aria, seguendo gli spostamenti che feci fare alla chiave. Allora, incuriosito, impugnai la chtanna sottosopra e provai a toccarne una. Fu come attraversare un ologramma tiepido.
«Adesso nessuno oltre te potrà andare oltre l’uso contundente.» sancì il Sommo. «Tuttavia devi ricordare che le achta non attaccheranno nulla che possegga un’anima. Solo i robot puri saranno affetti da loro.»
«Armature e arti biomeccanici no?» domandai distrattamente.
Ran’jio scosse il casco. «Altrimenti il nemico avrebbe potuto usarle contro di noi.»
«Oh be’, è onesto.» commentai. Menai due colpi contro nemici inesistenti. La chtanna era leggera per la sua lunghezza, eppure non avrei scommesso contro la sua robustezza. Menai un ultimo colpo, poi la puntai delicatamente contro la piastra pettorale di Ran’jio. «Mi hai detto di una bomba. Dov’è che va piazzata?»
* * * * * *
Tornammo al livello del suolo accompagnati dai fratelli Rab e (in via del tutto eccezionale) da Ran’jio.
«...avete capito?» stava dicendo il Sommo. «Adesso accompagnateli alla Sala delle Preghiere e attendete il loro ritorno. Dopodiché fingete una zuffa. Ci saranno le telecamere; deve sembrare che l’Araldo combatta contro di voi.»
«Non temere, o Sommo.» rispose Rab Liuk.
«Gliela faremo bere, a quei miscredenti.» rincarò Rab Frejir.
«Sarà meglio. Altrimenti spiegherete voi alla Divina come mai il suo Araldo e la Guardiana del Fulmine sono entrati fra le nostre schiere.»
Silenzio. All’improvviso i due persero la spavalderia.
«Andate ora.» concluse il robot tutto nero. «E che la Divina vegli su di voi.»
* * * * * *
Ci dividemmo due volte. La prima al pian terreno, poco prima di ritornare nel corridoio in cui avevo disattivato Testa Lunga. Ran’jio ci spiegò di non poter andare oltre, ché se fosse caduto in mano nemica sarebbe stata una disgrazia. La seconda volta, invece, il gruppo si sfaldò più o meno a metà della rampa ascendente. Unico riferimento era una porta murata che al primo giro non avevo notato. Lasciai lì i fratelli Rab e proseguii con Takami.
Come promesso dal Sommo si era ripresa: della zoppìa non c’era più traccia. E questo mi lasciava con un dubbio.
«Hai detto che Ran’jio ti ha guarito.» cominciai appena fummo fuori tiro delle orecchie dei Rab. «Ma guarito da cosa?»
«Male alla schiena. E alle gambe.»
E quando se li era procurati? Con l’eiezione dal landstalker?
«È stato doloroso. Ha detto che se non lo faceva perdevo le gambe.»
«... ti chiedo scusa.» soffiai. «È stata una manovra azzardata. Non avrei dovuto.»
Tacque per una serie di secondi che mi fece pensare ad una sclerata imminente. Invece tutto ciò che disse fu un triste: «Non ti scusare con me. È una regola.»
Almeno non mi diede del lei.
 
Arrivammo in cima alla rampa senza incontrare nessuno. Come aveva spiegato Ran’jio tornammo indietro di tre corridoi e a metà circa cercammo un glifo a forma di rombo. Siccome nella piramide ascendente era buio pesto, per vederlo sfruttammo i filtri del visore del casco.
«Eccolo!» esclamò Takami, rompendo il silenzio.
Mi voltai di scatto. La piccola puntava il dito in alto, contro un glifo aggraziato ma discordante fra i suoi vicini.
«Perfetto. Adesso aspettiamo.»
Annuì.
 
“Quando troverete il glifo premete quelli circostanti che formano la parola “nascosto” ed avrete accesso”.
“Non conoscete i glifi? Ah, poco male. Ve li invierò per magimessaggio. Limitatevi a cercare il primo verso l’alto e premere gli altri in senso orario”.
 
Non aspettammo molto. Una busta d’energia attraversò il pavimento e si fermò davanti alla mia bocca, fluttuando leggiadra. Solo allora mi venne il dubbio di come si aprisse.
Comando vocale? Parola chiave? Tocco?
Rimasi a guardare la posta con aria stranita mentre cercavo di decidere. Poi, dopo qualche istante di puro smarrimento, provai con quest’ultimo. Misi un dito sul sigillo centrale e mi andò di culo, perché la busta si trasformò in un foglio con cinque glifi tondeggianti.
Contento di essermela cavata al primo tentativo, mi avvicinai a Takami per farle vedere il contenuto.
«Okay, guarda, il primo è fatto così...»
 
Li individuammo con un po’ di fatica (quei cosi erano tutti uguali!) e facemmo come ci aveva detto Ran’jio. Uno dopo l’altro i simboli entrarono nel muro come chiavi nelle toppe. Alla fine un meccanismo nascosto tracciò una linea verticale proprio sotto il rombo. I blocchi scricchiolarono per il lungo riposo e poi, ruotando e traslando, si ritirarono ognuno dentro il vicino, allargando uno spazio sufficiente al passaggio di una persona.
Il filtro mi permise di vedere il contenuto della stanza. Armadi. L’intero insieme delle pareti era tappezzato di armadi (ovviamente chiusi).
Sinceramente non avevo intenzione di scoprire se nascondessero qualche scheletro, quindi mi limitai a raggiungere il centro della stanza. Il soffitto era basso, ma io da solo non ero comunque in grado di raggiungerlo. Chiamai Takami.
«Dobbiamo agganciare la bomba lassù.» e le indicai un punto sul soffitto. «Qualche idea su come fare?»
«Posso provare con la calamita.» disse, mimando un’inquadratura per meglio spiegare cosa intendesse. «Solo se vuoi, è ovvio.»
Giusto, la calamita!
«Brava! Bell’idea! Vai, tirami su. Piano però, eh!»
La vidi puntare le mani, pollici e indici uniti. Fu come se una mano invisibile mi spingesse verso l’alto e mi tenesse anche a mezz’aria, a pochi centimetri dal soffitto. Materializzai la bomba datami da Ran’jio. Sembrava un ragno: aveva un corpo semisferico e, intorno, otto zampe per ancorarla. L’agganciai al soffitto e premetti la semisfera. Comparvero dei numeri – numeri che sapevo leggere anch’io, a sorpresa – e vidi con piacere che marcava tre ore. Ran’jio stava mantenendo le parole date.
«Mettimi giù, ora. Dobbiamo finire la nostra gara.»
 
“Quando avrete finito uscite dalla stanza e premete i glifi al contrario. Tornerà tutto come prima. A quel punto non vi resterà che attuare lo spettacolo programmato alla Stanza delle Preghiere”.
 
Tornammo rapidamente indietro. Rab Liuk e Rab Frejir ci aspettavano dove li avevamo lasciati.
«Pronti per lo spettacolo?» ci domandò Occhi Rossi.
Con la coda dell’occhio vidi Takami che annuiva. «Cominciamo.» risposi anche per lei.
I due fratelli dopo un cenno si spostarono davanti alla porta murata. Poi, in sincronia, sembrarono alzare un arco. Un braccio lo alzarono piegato, col gomito all’altezza dell’orecchio. L’altro lo tennero steso, dritto, parallelo al terreno per un istante, poi lo alzarono al soffitto. Borbottarono parole incomprensibili mentre lo riabbassavano, creando ciascuno un arco d’energia del tutto identico a quelli che avevano distrutto il landstalker.
Provai un brivido.
Li vidi ruotare il polso più alto, e le lame partirono. Dritte per dritte, veloci, potenti. Si schiantarono contro il muro ricostruito. Lo penetrarono, lo fecero implodere e frantumare, ma non furono sufficienti a farlo crollare. E allora Occhi Blu mi diede una dimostrazione di ciò a cui servissero quelle corna ridicolmente enormi, caricando a testa bassa ciò che restava del cemento che chiudeva la porta.
Poi Occhi Rossi, dietro di lui, caricò a sua volta con un grido. Abbrancò me e Takami e ci trascinò oltre la soglia sfondata fra polvere, detriti e telecamere.
 
«Wow! Ci chiedevamo dove fossero finiti, ed eccoli qua!»
 
Mi ritrovai con duecento chili di metallo sull’armatura, a strusciare sulla schiena con il muso oblungo di Rab Liuk che gridava come un pazzo a pochi centimetri dal mio naso. Takami, in qualche modo, era ruzzolata ai margini del mio campo visivo, ed ebbi una fugace visione di Rab Frejir che caricava il pugno.
Poi Occhi Rossi decise che non ero uno struscino abbastanza divertente, così mi sollevò per le ascelle e, con una rotazione attorno alla sfera addominale mi lanciò a mo’ di peso atletico contro uno striker.
«Miscredenti bastardi!» tuonò. «Avete profanato il nostro tempio!»
E si lanciò su uno striker che, incautamente, era rimasto troppo vicino.
A quel punto io ero praticamente in braccio al soldato di Vox (che di certo non era lì per farmi supporto!). Con un movimento rapido del braccio materializzai la chtanna e gliela conficcai alla base del collo, nella fessura tra le piastre del collo e il torso. Le achta gli entrarono nell’armatura come fantasmi e nel momento in cui mi lasciò, forse per portare le mani là dove la pinza stringeva, lo vidi spegnersi in modo strano, quasi come se le batterie gli si fossero scaricate.
 
«Oh no! Questa è una pessima notizia per coloro che hanno scommesso sulla loro morte!»
«Sembravano soldi facili, eh? Invece pare proprio che dovrete pregare un po’ di più.»
 
Takami sfruttò la calamita per allontanare Rab/Occhi Blu e sgattaiolare via. Una scarica di phaser mi piombò addosso. I colpi venivano da uno striker a ore tre, sfuggito all’ira dei fratelli robotici. Scattai in avanti. Corsi radente il muro, lasciando che lo striker incidesse sulla pietra una scia di fori appena dietro la mia coda.
Avevo l’adrenalina a mille. Saltai di lato, contro il muro, e rimbalzai dritto verso quel robot maledetto, chtanna in pugno, desideroso di frantumargli qualcosa. Braccia, gambe, non importava cosa. Doveva smettere di spararmi addosso, solo quello contava.
Gli arrivai addosso e calai la chtanna come fosse un’accetta, caricandola di tutto il mio peso. Contemporaneamente una della achta gli entrò nello stomaco, e quello – esattamente come il suo collega – si spense.
La protezione offerta dall’armatura doveva essere a livelli bassi. Al mi avrebbe dovuto urlare di tutto e di più, ma non si sentiva. Un guasto dell’intercom? Un’interferenza voluta? Non lo so. Lì per lì non ci badai.
«L’ho preso!»
La voce artificiale di Takami, sdoppiata da un guasto, si fece largo attraverso l’intercom. Vidi che teneva in mano una specie di grosso distintivo verde. Fu un attimo, perché quello svanì nel guanto della bambina. E l’attimo dopo il Rab dagli occhi blu, accortosi che non lo teneva più al largo con la calamita, la caricò a testa bassa.
Agii prima di pensare. Lo puntai con la coda e gridai il comando. Il phaser saettò da un capo all’altro della stanza e lo penetrò all’altezza dei reni, centrando il circuito primario di movimento.
L’altro Rab, unico rimasto oltre a noi del Team Darkstar, interruppe lo smembramento degli ultimi striker. Si alzò urlando – un urlo roco, quasi organico – e si avventò su di me.
Non avevo il tempo per materializzare niente. La chtanna non avrebbe funzionato su di lui. E il corpo a corpo... dai, siamo realisti. Avevo in fronte l’etichetta “fottuto”.
Occhi Rossi mi abbrancò come una bestia inferocita e mi spinse a terra. Istintivamente portai le ginocchia in alto e lo allontanai piantandogli i talloni nel ventre. Ma non avevo considerato la stazza enorme del robot, che mi raggiunse lo stesso con un pugno (o un maglio?) che ammaccò indelebilmente il casco.
Lo guardai caricare il secondo e alzai le braccia. Quando calò il colpo mi ritrovai con gli avambracci schiacciati contro il casco. Un orrendo crack mi annunciò che alcune piastre erano saltate.
Se avesse continuato per quella strada, accordi o no, chissà come mi avrebbe ridotto. Ma, con mia sorpresa, intervenne proprio quel budino di Takami. Usò la sua ormai famigerata capacità di magnete per sbalzarci via, lontani uno dall’altro.
«Via, via!» esclamò; la voce incrinata dall’intercom guasto.
Mi indicò l’esterno della piramide, prima di sgattaiolare fuori dall’enorme buco-finestra.
«Aspetta!» Mi rialzai a fatica. Le cosce dolevano e le braccia erano pesantissime. Non sarei riuscito a scappare a lungo in quello stato. Cercai il robot con gli occhi. Era già in piedi, appoggiato alle macerie. Sembrò alzare un arco...
Gelai.
Abbassò il braccio, generando la lama d’energia.
Materializzai la prima arma rimasta a disposizione nel guanto. Non la guardai neanche. La riconobbi al tocco e stavolta la imbracciai a due mani.
Torse il polso. Premetti il grilletto.
La lama mi raggiunse in tempo zero. Si schiantò contro le fibre rinforzate delle piastre, le scalfì, le penetrò, le frantumò da dentro. Avvertii una lunga striscia bruciare dalla spalla alla coscia. Caddi in ginocchio. Il fucile a fusione mi scivolò dalle mani e stridette picchiando al suolo, un binario integro e l’altro in pezzi, un po’ come la testa di Occhi Rossi, accasciato dall’altra parte della stanza.
 
“Gliela faremo bere bene, a quei miscredenti.”
“Sarà meglio. Altrimenti spiegherete voi alla Divina come mai il suo Araldo e la Guardiana del Fulmine sono entrati fra le nostre schiere.”
 
...seh, come no. Miseria, che male... anche respirare...
 
«Oooohhh!!! Che ci siano riusciti? Che gli zombie siano riusciti laddove i nostri striker hanno fallito?»
«Dovremmo pagare loro anziché questa ferraglia importata!»
 
Heh! Nei denti che crepo qui!
Strinsi il pugno e feci appello a tutte le energie rimaste. Fu un tormento: pareva di avere il fuoco nei muscoli. Ci misi tempo, ma mi rialzai. E in qualche modo – barcollando, incespicando, costringendomi a muovere le gambe – arrivai al buco quadrato, con una nuvola di telecamere che mi inquadravano da tutte le angolazioni.
Sperai che la radio funzionasse ancora. «Taka-ugh...»
Non finii nemmeno il nome per il male che quella ferita faceva. Ma Takami, che aveva sentito lo sparo, era già vicina alla finestra. Sbracciava, ma non sentivo niente. Sicuramente avevo la radio rotta.
Mi fece un cenno che non capii, poi la vidi unire pollici e indici. Allora annuii: qualunque cosa avesse in mente andava bene, pur di arrivare al goal.
Non fu delicata. Non lo fu per nulla. Fece passare un mio braccio sopra le spalle e mi tirò all’esterno, dritto sull’orlo del gradone. Sentii l’armatura sfrigolare leggermente, poi cominciammo a levitare. Ma non per gli hoverboot (e tanto meno per capacità esper): la piccola sfruttò l’elettromagnetismo per muoversi a zigzag, parallela ai lati dei gradoni, salendoli pur rimanendo a un palmo di distanza dalla pietra.
 
«Non ci credo! Stanno salendo in santa pace! Hanno una fortuna sfacciata!»
«Eh, Juanita, lo dovresti sapere che i bari sono maestri nel manipolare la fortuna! Ma DreadZone è anche questo! Fortuna!»
«Proprio adesso si sta sviluppando una battaglia alla base del tempio. Gli zombie si sono gettati in massa sui nostri combattenti e questa pare essere proprio un’occasione ghiotta per il Team Darkstar, che se la svigna alla chetichella!»
«Buuu! Codardi! Bar–ouch! Perché mi hai colpito?»
«Datti un contegno, Dallas!»
 
Chetichella? Svignarmela? Io avrei combattuto se fossi stato in altre condizioni. Ma in quelle... be’, in quelle era onorevole anche finire così.
Salimmo piano piano, un gradone alla volta. Una volta in cima Takami levitò fino al limitare del goal, poi ci rimise coi piedi per terra. Caricare nuovamente il peso sulle gambe mi portò un violento capogiro, ma in qualche modo riuscii a compiere quell’ultimo passo.
Entrare nel goal fu magnifico. Non tanto per l’effetto scenico (che fu solamente un passo), quanto piuttosto a livello mentale. Mi sentii soddisfatto. Mi sentii al sicuro. Mi sentii di essere arrivato in fondo a una maratona pazzesca.
Ero sopravvissuto.
A strozzare quell’infame di Dallas Wanamaker ci avrei pensato un altro giorno.

È il 21 dicembre, cari lettori. Non credo che aggiornerò altro entro l’anno nuovo, dunque ne approfitto per farvi gli auguri di buone feste e buon anno!
Alla prossima!
Iryael

 

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Capitolo 16
*** | Terzo intermezzo | Balle? Magari! ***


[ Terzo intermezzo ]
Balle? Magari!
 
Presente. 17 febbraio 5408-PF
Metropolis, 93esimo settore, attico del Khelith Building
 
«Mi prendi per il culo?!»
La voce dell’avvocato echeggiò nel salone. «Come faccio a difendervi se la tua verità è la parafrasi di una sessione di DnD???»
Ratchet, seduto sul divano, si lasciò andare a una risata. “Una sessione di DnD”: il paragone era perfetto.
Si limitò a fare spallucce e guardare lo xarthar con una luce di sincera comprensione. «Mi piacerebbe, sa? Sapere che questa cosa è frutto della fantasia... sarebbe una liberazione. Potrei tornare alla routine comune, così “moderna” e “scientifica”. Potrei smettere di considerare il lato magico di ogni singola disavventura che mi capita. Sarebbe un ritorno all’universo nel quale sono nato. Tornerei a fare il meccanico e a sistemare le cazzate di Qwark.» disse con sincero entusiasmo. «Sarebbe una vita onesta, no? Un giusto mix di adrenalina e pace.»
Incrociò lo sguardo di Riklis. Lo xarthar ascoltava con attenzione, ma non sembrava affatto intenzionato a scendere dalla sua posizione.
«E allora sono giorni che parliamo di cosa?» domandò in tono ostile.
«Parliamo di una faccia della realtà che ci torna scomoda.» replicò Ratchet. «Perché vede: se io l’accompagnassi su Catacrom Quattro, al tempio di Rad’uhr-kaa, potrei effettivamente farla parlare con qualcuno dei finti semôke. Ovviamente non posso perché col processo in corso non posso lasciare il pianeta, ma mi piacerebbe. Almeno le fornirei una prova inconfutabile di questa parafrasi, come l’ha chiamata lei. Invece ci dobbiamo accontentare di questa.»
Allungò una mano in avanti e materializzò la chtanna. Le achta comparvero l’istante dopo e subito si dispersero per la stanza, come se qualcuno avesse soffiato nello sparabolle. Una di esse volò vicino all’avvocato, che per riflesso si ritrasse.
«Ho imparato a controllarle. E poi lei, in quanto organico, possiede un’anima.» Non era certo che ciò valesse anche per la professione scelta; dopotutto si diceva che gli avvocati fossero creature senz’anima. Tuttavia decise di non giocarsi i rapporti con una battuta cretina e concluse con un più sobrio: «Non ha nulla da temere.»
Si chinò e, con un gesto fluido, appoggiò la chiave sul tavolino. Riklis passò uno sguardo veloce da lui all’oggetto.
«La prenda. Non morde mica.» invitò allora il padrone di casa.
L’avvocato considerò l’idea di rifiutare, ma si fermò. Il fatto che il lombax l’avesse definita una prova lo rendeva curioso, poiché implicava che lui per primo credesse nelle sue parole, sebbene astruse oltre ogni livello. Così, riacquisito il savoir-faire professionale, seguì l’invito.
Non appena la chtanna fu nelle sue mani le achta svanirono senza lasciare traccia. Allo stesso modo le rune incise sulla sua superficie, fino a quel momento perlescenti, persero la loro luminosità e tornarono ad essere semplici intarsi.
Riklis osservò il fenomeno con occhio critico. Poi, adocchiato il grilletto per l’utilizzo della pinza, decise di continuare la sua analisi in quella direzione. Attivò i meccanismi con le sue lunghe dita curate; osservò la pinza aprirsi, ma sul metallo non vide riverberare alcuna luce.
Allora appoggiò la chtanna sulle ginocchia, inclinandola in modo da adocchiare l’interno senza rischiare di spararsi una scarica energetica in faccia. Premette di nuovo il grilletto nascosto nell’impugnatura e osservò con attenzione.
Di nuovo: non successe nulla. La piastra fra i rebbi non emise bagliori e non fece rumore.
Deluso, abbandonò l’analisi e rimise l’attrezzo sul tavolino.
Ratchet, allora, se ne impossessò nuovamente, ed ecco che le cose cambiarono all’istante: le rune tornarono bianche, le bolle di energia ricomparirono, e quando infine tirò il grilletto per l’utilizzo della pinza lo xarthar poté notare la carica energetica che brillava fra le piastre.
Lo xarthar si sentì pungere dalla selettività dell’oggetto. «Be’, alla fine è un’arma ad accensione biologica. È chiaro che a me non risponda.» concluse, risentito. «Non mi è chiaro invece perché lei la consideri una prova.»
«Perché sto cercando di farla avvicinare a quel lato magico che lei crede una palla colossale.»
«Certo che è una palla! Sono un avvocato; non posso dare per buono l’argomento “magia”.» replicò in tono esasperato.
«Magari però può prendere in considerazione che non esiste uno straccio di legge fisica che spieghi l’approvvigionamento energetico della chtanna. O il comportamento di queste
Gli bastò un minimo di concentrazione perché le achta si radunassero tutte intorno allo xarthar. Chiudere le dita, trasformando la mano in un ipotetico prisma, fu solo un tocco di platealità per dimostrare che le sfere rispondevano al suo comando. Peccato che Riklis non apprezzò.
Si vide arrivare addosso quelle specie di palle da tennis e la prima reazione fu alzare il braccio e deviarle. Quelle, però, si fermarono a quaranta centimetri dalla sua linea delle spalle. Lo xarthar si ritrovò a guardare da vicino come l’arcobaleno di colori pastello sembrasse liquido sulla superficie luminosa. Lo trovò inquietante e, storcendo il naso, cercò di scacciarle. Fu come attraversare un ologramma tiepido, esattamente come aveva descritto il lombax. Come una beffa, le biglie luminose rimasero dov’erano.
«Una volta un cane ha provato a inseguirle mentre mi esercitavo.» raccontò il lombax, allontanandole un po’ dal suo ospite. «Avrebbe dovuto vederlo: è stato uno spasso!»
«Jeetwak troverà una spiegazione plausibile.» lo freddò l’avvocato. «È solo questione di tempo, signor Ratchet.»
«Jeetwak è indietro di sette anni rispetto a noi della Phoenix.» replicò facendo spallucce. «E mi creda che in questo periodo abbiamo visto davvero molte cose “impossibili”.» aggiunse mimando le virgolette. «Se quel gufo riuscirà a spiegarne esaustivamente anche una sola gli offrirò una cena.»
«Gliela offrirà dal manicomio se non mi darà qualcosa con cui ribattere.»
Ratchet si zittì di colpo. Era conscio che credere al suo racconto richiedeva una grande apertura mentale, ma quella reticenza era fastidiosa.
«Va bene. Allora sentiamo la voce della scienza, le va?»
E materializzò il chatter.
L’avvocato gli fece cenno di procedere, e l’immagine di Clank riempì l’olovisore al secondo squillo. «Ciao Ratchet. Oh, vedo che sei in compagnia. Buon pomeriggio signor Riklis.»
«Anche a lei.» salutò lo xarthar, affettato.
Il robottino si rese conto dell’espressione funerea dello xarthar e dedusse che fosse accaduto qualcosa di negativo. «Ci sono novità?» domandò, cauto.
«Ho raccontato al signor Riklis il finale di Catacrom Quattro.» lo informò il lombax. «Sostiene che il signor Jeetwak troverà una spiegazione plausibile a tutto l’ambaradan magico uscito dalla mia bocca.»
Clank adocchiò l’arma sulle ginocchia dell’amico, poi mostrò all’avvocato un’espressione perplessa. «Ha già esaminato la chtanna?»
Lo xarthar annuì. «È un oggetto interessante, ma verrà presa come un’arma ad accensione biologica.»
«La capisco; lo credemmo anche noi all’inizio. Tuttavia tenga in considerazione che se il discorso andasse ad approfondirsi saremmo in svantaggio. Essa infatti non risponde in maniera canonica alle leggi che governano questa tipologia di armi.»
«Abbiamo prove di ciò?»
«Un hard disk pieno, se le interessano. Sette anni di ricerche e teorie che non coprono solo la chtanna, ma gran parte delle anomalie che Chaos ci ha mostrato nel corso del tempo.»
Lo sguardo dello xarthar si fece bramoso. Certo che gli interessavano. Era sempre buono dimostrare l’incompetenza dei suoi avversari, Jeetwak per primo. Non poteva e non voleva restare indietro.
«L’unico inconveniente è che sarebbe imprudente inviarne il contenuto con mezzi convenzionali. Temo di doverla invitare a Capital City.»
«E io accetto volentieri il suo invito.»
* * * * * *
Quella sera,
appena Riklis andò via
 
Ratchet accompagnò la porta d’ingresso. Il clack! che produsse nel chiudersi ebbe un ché di definitivo che gli permise di rilassarsi.
Sasha poteva dire tutto quello che voleva sulla bravura dello xarthar; ma lui sentiva qualcosa, a pelle, che lo teneva con la guardia alta tutto il tempo.
Tornò nel salone e guardò il chatter con cui aveva contattato Clank. Fu istintivo: lo prese e fece partire una seconda chiamata. E Clank, come prima, comparve sull’oloschermo al secondo squillo.
«Ciao.» salutò pacatamente. «Vedo che l’avvocato è andato via.»
«Sì, per oggi abbiamo finito...»
Lasciare la frase in sospeso insospettì il robottino. «...Ma?»
«Sono dubbioso. Sarà stata una buona idea insistere sulla natura della chtanna?»
«Dipende. Gli hai detto di averla usata anche sulla Ferox?»
Ratchet si ritrovò a guardare altrove. «Avrei dovuto? Sono abbastanza sicuro che non ci siano più testimoni.»
«Allora insistere non è stata una buona idea.»
«Volevo evitare di portare l’ennesima difficoltà in tribunale.»
«Nobile intento, ma pessima esecuzione. Appena chiudiamo il collegamento parlerò con Takami. Vedrai che c’inventeremo qualcosa.»
«Hn. Vi ringrazio.»
Passò qualche istante di silenzio in cui Ratchet, sovrappensiero, si lisciò la coda. Poi mise da parte i propri pensieri e domandò: «Tutto bene a Marcadia?»
«Sì, Takami è abbastanza tranquilla. Segue le lezioni senza mettersi eccessivamente in mostra e, anche quando il gap esperienziale è drammaticamente visibile, riesce quasi sempre ad ignorare i coetanei più molesti.»
«Continua a tenerla d’occhio, per favore.» ricordò Ratchet. «È quel quasi che mi preoccupa. Se si sfogasse su qualcuno...»
«Sarei qui per fermarla, lo so.» anticipò il robottino, nel tono annoiato di chi una frase l’ha sentita decine di volte. «Ma ritengo improbabile uno sviluppo simile. E poi ha imparato a chiedere consiglio anche agli altri Araldi.»
Sulle orecchie di Ratchet si rizzò il pelo.
«Se consideriamo che prima reagiva senza dire niente a nessuno, e invece adesso chiede consiglio a ben tre persone...»
«Tienila. Lontana. Da loro.» sillabò piccato. «Me li immagino i loro consigli! Quei due portano guai anche dormendo!»
Seguì un attimo di silenzio. Clank alzò una mano davanti alla bocca, poi scoppiò in una delle sue risate.
Passato il primo momento di stordimento, il lombax capì.
L’aveva punzecchiato.
E allora gli venne spontanea una mezza risata. Il suo tono, dopo, fu molto più tranquillo. «Sono di nuovo iperprotettivo, eh?»
«Già. Un simpatico papà chioccia.»
«Ehi! È abitudine!»
«Come no!»
«Li conosci i termini del mio patto!»
«Ah ah ah!»
* * * * * *
Il giorno dopo, 18 febbraio 5408-PF
Galassia Solana, Marcadia, Capital City
 
Il volo atterrò con puntualità impeccabile allo spazioporto intitolato ad Orjon Uruho, il primo cosmonauta cazar.
A fare ritardo sulla tabella di marcia del signor Riklis fu tutto ciò che seguì: il viaggio dalla pista alla struttura principale, il taxi da fermare, il traffico nel tragitto fino all’Accademia e la perquisizione ai cancelli di quest’ultima.
Quando mise piede all’interno del campus era ora di pranzo e desiderava fermamente qualcuno su cui sfogare i nervi. Tuttavia optò per sfogarsi su un pasto veloce. Aveva un nome, dopotutto: mica poteva mandarlo agli inferi davanti a centinaia di potenziali clienti!
Perciò seguì il viale fino all’enorme piazza centrale. Una caffetteria faceva bella mostra di sé, con l’insegna olografica e i tavolini di polimero color ferro. Era prevedibilmente gremita di cadetti e l’aria era piena di un brusio allegro. Nessuno faceva caso alla statua bronzea che, poco distante, commemorava l’attacco subìto otto anni prima. Lo stesso Riklis non gli dedicò più di un’occhiata, trovandola particolarmente insignificante. Era rimasto più impressionato dal muro di cinta, che con la sua pietra nera e le incisioni dorate ricordava i nomi di tutti gli allievi periti nel medesimo attacco.
A tradimento il chatter vibrò all’interno della giacca. L’avvocato si distolse dalle considerazioni artistiche e rispose senza guardare chi fosse.
«Buongiorno.» esordì la voce pacata di Clank. «Circumnavighi la piazza in senso orario: ho riservato un tavolino sotto la statua commemorativa.»
«Grazie per l’avviso. La raggiungo immediatamente.»
Chiuse la chiamata e seguì le indicazioni. Trovò Clank seduto al tavolino più vicino alla scultura. Avvertì subito una certa freddezza rispetto al resto della piazza, come se quell’angolo fosse in una bolla.
«Immagino che abbia scelto questo punto per una questione di intimità.» affermò dopo i saluti.
«Ho solo considerato la facilità d’incontro. Non avrei saputo come condurla se fossi stato là in mezzo.» replicò il robottino, accennando alla folla chiassosa e famelica.
«Una mossa intelligente. Tiene fede alla sua fama.»
Clank studiò il sorriso aperto dello xarthar. In quanto di sottospecie verdesca, due file di denti triangolari riempivano lo spazio con un candore quasi accecante; tuttavia l’atteggiamento con cui l’avvocato sorrideva suggeriva anche qualcosa di losco. Il robottino comprese una volta di più cosa intendesse l’amico quando – dopo la sessione di racconto con l’avvocato – discutevano delle sue impressioni a pelle.
«E io trovo intelligente il modo in cui distorce ciò che Ratchet le racconta. Anche se, immagino, tacere di Chaos le costerà un bel po’ di fatica.»
«Indubbiamente.» confermò con noncuranza. «Ma ne va dell’immagine del mio cliente. Non posso tollerare che la gente creda che l’eroe che ci ha salvato tre volte sia un pazzo senza speranza.»
O non puoi tollerare il danno che questa nomea arrecherebbe alla tua immagine? – pensò Clank, senza mostrare espressioni.
«Appena scopro chi ha pagato Vip64 per queste interviste deposito una querela a suo carico.» borbottò l’avvocato in modo poco professionale, forse, ma molto in tono con il suo umore.
«Io e Takami abbiamo un’idea a riguardo, ma nulla più di una speculazione.»
«Oh.» la verdesca si ricordò solo in quel momento dell’umana. «La signorina come sta? Il signor Ratchet ieri sembrava in apprensione.»
«Guardi lei stesso.» ed indicò un tavolo non troppo distante, dove la lunga coda di cavallo di Takami dondolava mentre la ragazza parlava gesticolando con altri tre allievi, ciascuno proveniente da un corso diverso. Dopo alcuni istanti il robottino aggiunse: «È vero che la storia del ruggito le ha causato qualche problema, ma la direttrice Donno è stata molto pratica nel distogliere l’attenzione di tutti.»
«In che modo?»
«Coinvolgendola nelle esercitazioni dei cadetti più anziani; utilizzandola come elemento di difficoltà aggiuntiva. Scene come questa sono prassi da qualche giorno: i suoi compagni di corso sono più curiosi riguardo all’esercitazione che verso il racconto a puntate.»
«Dunque la sua immagine qui non ha ricevuto gravi danni.»
«No, non particolarmente.»
Ignara di essere al centro dell’attenzione, al suo tavolino, la ragazza mimò un’esplosione e la tavolata si aprì in una serie di esclamazioni eccitate. L’avvocato si ripromise di scambiare due parole anche con lei, poi riportò l’attenzione su Clank.
«Sul serio i dati contenuti nel suo hard disk sono così confidenziali?» domandò.
«Forse no.» concesse l’altro. «Però la prudenza non è mai troppa, soprattutto quando si è nel bel mezzo di una causa.»
«Suvvia, sono dati che non concernono il dibattimento in corso. Se non sono sensibili potevamo essere anche meno discreti.»
Clank si limitò a materializzare l’hard disk ed appoggiarlo sul tavolino. «Gli dia un’occhiata e mi dica cosa ne pensa, per favore.»
* * * * * *
Passò l’ora di pranzo, poi il mezzo pomeriggio e finalmente i soli si avviarono al tramonto. Riklis non si era mosso dal tavolino e Clank era rimasto con lui nella coscienza che, per quanto fosse un bravo avvocato, non fosse un tuttologo. Perciò trascorse il giorno con l’imponente figura dello xarthar, a tratti in silenzio e a tratti spiegando ciò che – per errore o per ignoranza – l’altro chiedeva.
A fine giornata, con il tavolino coperto dal computer e da un certo numero di vettovaglie vuote, Riklis aveva le idee più confuse di quella mattina, quando era partito. Se possibile la chtanna era diventata un mistero ancora più fitto per chi, come lui, voleva trovarle una spiegazione scientifica. Non c’era una legge che fosse una in grado di spiegare il comportamento dell’oggetto. Combinandone un certo numero, invece, si poteva imbastire una spiegazione decente, ma bisognava chiudere gli occhi su condizioni fondamentali per l’applicazione delle suddette. Questo gli stava piantando un chiodo nel cranio.
«Non posso inserirla nel racconto per Vip64, non posso...» continuava a borbottare. «Se non parlo di Chaos non posso citare neanche quell’affare...»
«Buonasera!» la voce di Takami interruppe il mormorio dello xarthar, che alzò lo sguardo in tempo per vedere l’umana sedersi di fianco al robottino.
«Bah. Buonasera.» bofonchiò.
«Non si sforzi, la prego. La vedo preso dal computer.» replicò la giovane. Poi si rivolse a Clank: «Puoi dirmi per cosa ha attraversato mezza galassia? Abbiamo guai?»
Il robottino l’accontentò e, al termine della spiegazione, strappò alla ragazza un «Accidenti!» e il commento: «Gran gingillo. Ci credo che ha dei problemi.»
«Credevo che qui avrei trovato soluzioni...» mormorò l’avvocato. «Invece ci sono solo domande.»
«Ma la risposta che cerca esiste.» asserì lei, sicura delle sue parole. «Una, unica e completa. Solo che accettarla comporterebbe ribaltare la sua visione delle cose.»
«No, grazie, niente magia.» tagliò corto Riklis. «Ci vuole la scienza e ci vuole quanto prima. Dobbiamo battere sul tempo Jeetwak, che ha a disposizione tecnici migliori dei nostri.»
«Jeetwak?» domandò, inacidita dal ricordo dell’altro avvocato. «Ha davvero intenzione di parlare della chtanna in tribunale? Perché allora dovremmo introdurre anche Rakta, la spada che non perde mai il filo, e poi l’arma mutaforma Amsu, e poi Alakdan col suo veleno inestinguibil–»
«No!» la interruppe la verdesca, gridando tutta la sua esasperazione in quell’unica sillaba. «Quello che intendo è che anche quella canaglia segue Vip64. Se noi scriviamo della chtanna lui cercherà di capire di cosa stiamo parlando e, se vogliamo evitare che questa storia arrivi in tribunale, dobbiamo evitare di offrirgli punti a cui aggrapparsi.»
«Be’, avvocato, onestamente non capisco per cosa si preoccupa. Se la chtanna non va in aula allora va bene inventarsi una storia qualunque. Perché non confeziona bene la loro spiegazione migliore anziché sbattere la testa cercandone un’altra?»
«Perché la vostra spiegazione più plausibile – cito il file letto un’ora fa – fu smontata tre anni addietro da miss Chaos.»
Takami si ritrovò a battere le ciglia più e più volte. Non ricordava che la toksâma avesse fatto una cosa simile. «Sì, ma tre anni fa non eravamo più nella DreadZone. Non è necessario raccontarlo.» obiettò.
Clank, poi, rincarò: «Senza contare che è vero che Chaos ci smontò la teoria, ma al quartier generale della Flotta ci sono alcuni ingegneri che hanno studiato la chtanna e che la teoria l’hanno confermata. Potremmo far leva sulle loro conoscenze.»
Riklis inspirò a lungo ed espirò lentamente, valutando la situazione. Se anche a dei tecnici specializzati era parsa una teoria verosimile, cosa gli impediva di accorparla al racconto fasullo da portare alla redazione? Forse il fatto che era una spiegazione semplice? Ma che fosse semplice tornava comodo: la rendeva più facile da manipolare. E allora cosa?
La risposta lo raggiunse con una parola a lui molto familiare: testimoni.
Ma porca di quella–!
Si era talmente immerso sulla natura della chtanna che aveva dimenticato il contesto da cui l’aveva estratta!
Un errore grossolano per uno che si definiva il meglio del meglio. Doveva rimediare subito. Doveva tornare a pensare oltre. E questo portava ad una domanda. «Crede che potrebbero saltare fuori degli ex gladiatori a guastare il racconto?»
«Non credo che altri oltre a Vox e Ace Hardlight sapessero davvero con cos’avevano a che fare, e oggi non possono più parlare. Oltretutto quei burloni di Dallas e Juanita, col loro sensazionalismo, misero in circolo ogni genere di voci, rendendo difficile a chiunque capire cosa fosse vero e cosa no. Ritengo perciò improbabile che qualcuno degli eroi superstiti esca fuori gridando alla menzogna: se lo smentissimo e a nostra volta lo accusassimo di diffamazione la sua carriera sarebbe finita.»
Seguì una pausa di silenzio. Riklis metabolizzò il discorso lentamente, valutando ogni parola. Quando però il quadro fu completo non poté fare a meno di sorridere con orgoglio.
Una contro-querela per diffamazione, eh? Mi piace come ragiona.
Era deciso, quindi: nel capitolo successivo avrebbe descritto la chtanna come l’ava delle armi moderne, dotata di un primitivo sistema di riconoscimento biologico e di un rudimentale circuito per gli impulsi emp.
E se Jeetwak obietta gli sigillo il becco con gli studi degli ingegneri della Flotta. Comunque vada sarà un successo.
* * * * * *
Due giorni più tardi, 20 Febbraio 5408-PF
Pianeta Kerwan, Metropolis, 93esimo settore
 
DING!
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono sull’attico del Khelith Building. Lo sguardo cadde per inerzia sul corridoio e Riklis, come al solito, si disse che quei teli di plastica facevano proprio schifo. Davano un senso di incuria e abbandono, mentre invece erano lì per assicurare una buona manutenzione.
Attraversò l’ambiente a passi misurati e si fermò davanti all’ultima delle due porte. Si concesse un attimo per ammirare la serratura che il suo cliente aveva fatto installare dopo il suo passaggio e le labbra accennarono un sorriso. Chapeau al lombax: contro quella lì avrebbe dovuto inventarsi ben altro che sgraffignare le chiavi per sorprendere il suo cliente.
Suonò il campanello e Ratchet venne ad aprire quasi subito. Lo fece accomodare nel salone con poche parole e sedette sul divano di fronte al suo senza fare commenti. Lì per lì lo xarthar non fece caso al suo comportamento, ma dal colpo di coda con cui il padrone di casa allontanò il chatter dal cuscino lo xarthar fiutò aria di maretta.
«Posso chiederle cosa non va?» azzardò.
«Cazzate di condominio.» fu la risposta, carica di una consistente dose di rabbia. «C’è una legge che mi permetta di rinsavire l’amministratore a mazzate?»
Un cupo senso di divertimento si annidò nel petto dell’avvocato, che mostrò un sorriso. Le questioni di condominio erano la telenovela del circolo forense. Quando qualcosa sembrava andare bene ecco spuntare l’imprevisto, un po’ come fra Lance e Janice.
«Già, suppongo di no.» continuò il lombax. «Torniamo a noi. Ha ottenuto le risposte che voleva dal viaggio a Marcadia?»
Riklis scambiò un’occhiata con il suo cliente, per capire se faceva del sarcasmo in tono asciutto. Tutto ciò che vide, però, fu lo sguardo limpido di chi aspetta solo una risposta, senza pregiudizi di sorta.
«Ho ottenuto più domande che risposte.» ammise. «Tuttavia ho trovato anche un modo per implementare la chtanna senza dover citare dettagli magici o presunti tali.»
«Sarebbe?»
«Scrivendo di riconoscimento biologico e sostenendo che integri impulsi emp.»
Ratchet fece spallucce. «Suona onesto. Lo pensarono anche Al e Clank, sulle prime.»
«Ben più che sulle prime. Da quant’ho letto la teoria resse fino a tre anni fa.»
Questo gli fece guadagnare un altro genere di attenzione da parte di Ratchet, sul cui volto comparve una chiara sfumatura di allarme.
«Sul rapporto non era specificato cosa successe, ma so che c’entra miss Chaos.» si affrettò a dire l’avvocato. «Magari potrebbe parlarmene lei.»
«Magari è meglio di no.»
Si rese conto di essere stato troppo secco nel rispondere; così a mo’ di scusa aggiunse: «Fu una complicazione di una missione su Torval. Una missione secretata. Non posso dirle di più.»
Riklis si limitò a stringere le labbra e annuire con aria condiscendente. «Capisco. Allora non chiederò oltre.»
Sì, non avrebbe chiesto oltre a lui. Ma il suo istinto gli suggeriva che valesse la pena di farsi restituire un favore e leggere il fascicolo. Dopotutto si trattava di una missione assegnata tre anni prima alla USS Phoenix, ambientata su Torval e successivamente secretata. Quante mai ce ne potevano essere?
Annotò mentalmente chi contattare e subito dopo, in tono cheto e professionale, tenne fede alle ultime parole scambiate con Ratchet. «Cosa successe dopo la vostra prima vittoria nella DreadZone?»
Il lombax lo squadrò per qualche istante, studiando i suoi lineamenti con la stessa nota di allarme con cui gli aveva risposto di no. Lo sentiva a pelle: lo xarthar aveva mentito. Tuttavia, considerando la situazione generale, decise lo stesso di concedergli il beneficio del dubbio.
«Eravamo destinati a rimanere una settimana intera in quel buco marcio. La gara era fatta, quindi non ci rimaneva che guadagnare qualche punto extra e cercare di spiegare di Chaos agli altri.» cominciò a raccontare. Lo xarthar, però, avvertì che qualcosa del racconto non gli tornava.
«Aspetti.» Lo xarthar, con le sopracciglia ravvicinate, lo fermò alzando un dito. Poi, non convinto, materializzò dai guanti un plico di fogli rilegati con una spiralina. Lo aprì ad una pagina contrassegnata da un post-it rosso e, dopo un paio di secondi, distese i lineamenti. «...Ecco qui: lei aveva detto che Chaos le aveva esplicitamente vietato di parlare della sua esistenza. Perché parlarne?»
«No, sta sbagliando. Chaos mi aveva vietato di parlare del regalo che mi aveva fatto.»
«Parla di–»
«Della capacità di scampare alla folgorazione.» chiarì Ratchet. «Non mi aveva mai vietato di parlare della sua esistenza. E poi ero convinto che Chaos fosse solo apparenza: una mortale qualunque, come me e lei, avvocato. Di conseguenza, ero convinto che parlarne con Al e Clank non avrebbe portato niente di male.»
«E si sbagliava?»
La domanda strappò un sorriso ironico al lombax.
«Perché, lo mette anche in dubbio?»

 

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Capitolo 17
*** | Capitolo 13 | Ripago Rop'roc e Al mi minaccia ***


[ 13 ]
Ripago Rop'roc e Al mi minaccia
(Io ODIO i lunedì)
 
Presente. Sempre 20 Febbraio 5408-PF
Metropolis, attico del Khelith Building
 
«Le dicevo: ci volle una settimana perché mi riprendessi.» disse Ratchet. «A quel punto, però, eravamo già rientrati alla stazione spaziale.»
Riklis fece una smorfia contrariata. «Ma aveva parlato di punti extra! Su Catacrom!»
La coda ondeggiò nervosamente contro l’ecopelle del divano mentre il lombax, dopo aver chiuso di scatto la bocca, si rese conto di aver confuso due settimane ben distinte.
«Allora?» incalzò lo xarthar.
«Ho sbagliato.» ammise. «I punti extra su Catacrom li abbiamo presi, ma in un altro momento.»
«Piuttosto comodo dire così, adesso. In aula sarebbe stato un passo falso parecchio brutto.»
«Ma non siamo in aula. Sono passati otto anni e per di più non sto manco usando l’estrattore mnemonico.» rimbeccò. «Si rilassi; adesso le spiego. Si ricorda della bomba che piazzammo su richiesta di Ran’jio?»
Lo xarthar annuì. Il fatto che una richiesta simile fosse uscita dalla bocca di un sacerdote l’aveva intrigato da subito.
«Per noi non ebbe conseguenze perché esplose molto dopo la fine della nostra gara...» andò avanti Ratchet «Ma non ho dubbi che il “circuito che sminchia il controllo delle armature” fosse una scusa per manipolarci.»
«In che senso?»
«Il goal, a un primo impatto, era una colonna di luce fra terra e cielo. Saltato il meccanismo, secondo lei, quale fu la prima cosa che cambiò?»
Quella era facile. «Niente più colonna di luce, suppongo.»
«Bling! Risposta esatta!» la coda batté due volte contro il divano. Il tono si fece più serio. «Dopodiché, un battaglione alla volta, un esercito di finti semôke arrivò dalle colline vicine e trascinò i miscredenti di Vox in una bolgia.»
Lo xarthar avvicinò appena le sopracciglia, insicuro di aver capito.
«Era un segnale? È questo che vuole dire?»
«Io e gli altri crediamo di sì. Pensiamo anche che fosse premeditato. Non era possibile, altrimenti, che così tanti combattenti arrivassero in così poco tempo. Erano organizzati ed erano abituati alla guerra coi soldati DreadZone. Per di più ogni caduto robotico aveva una possibilità di diventare un corpo per i finti semôke, e quindi portare armi di ultima generazione alla loro causa. Mi creda quando dico che hanno ridefinito il concetto di massacro.» Attimo di silenzio. «Infatti nei giorni dopo nessuno poté accedere alle gare accessorie perché bisognava stabilizzare la pista. Vox fece spedire il suo esercito, le squadre di tutti i Rivendicatori e addirittura gli Sterminatori – quelli veri, non i cloni per lo spettacolo – e nonostante tutto ci volle tempo per riportare l’area sotto controllo. Ecco perché, al di là che Takami era un budino e io ero k.o., non cercammo punti extra in quel momento.»
 
Ci sono momenti in cui il discorso si spegne naturalmente. Quello ne fu un esempio. La voce si spense nel silenzio del salone e in quello dei pensieri dell’avvocato, che non rispose. Rimase seduto, immobile, con le gambe incrociate e una mano attorno al mento, immerso nella valutazione di quanto aveva sentito.
Era deluso, non poteva negarlo. E si chiedeva – dato il modo in cui l’altro aveva ritrattato – se piuttosto avesse mentito per nascondere qualcos’altro.
Alla fine schioccò la lingua e fissò Ratchet dritto negli occhi. «C’è un modo per verificarlo?»
Il lombax scrollò le spalle. «Non ne sono sicuro... ma Vox vendeva tutto ciò che poteva vendere. Provi a controllare se ne fece uno show.»
«E se non ci fosse nulla?»
Le orecchie di Ratchet si abbassarono. Lo sguardo assunse un ché di minaccioso e la coda batté nervosamente contro il divano. «Allora la porterò su Catacrom e la farò maledire da Ran’jio in persona.»
Lo xarthar alzò un sopracciglio, rendendo in qualche modo il suo volto ancora più affilato.
«Però.» commentò, ammirando la prontezza del suo interlocutore. «Drastico ma efficace. Quasi quasi ci conto.» E sorrise; i denti affilati in mostra come quando, in aula, aveva appena guadagnato qualcosa dall’avversario.
* * * * * *
Passato. 2 Novembre 5401-PF
Stazione spaziale DreadZone
 
Il primo ricordo di dopo che mi ripresi è una seduta di gruppo. Non dal medico, ovviamente: l’infermeria era pericolosa quasi quanto l’arena. Eravamo noi del team DarkStar, sparpagliati nella mia cella, a parlare di Chaos. Proprio della donna di fumo, già.
Clank non si era dimenticato delle parole che Takami aveva pronunciato all’inizio della gara e aveva chiesto spiegazioni. Big Al disse che aveva motivi suoi per volere spiegazioni. A me tornava bene perché non volevo segreti fra noi. E quindi eccoci lì.
Certo, Al aveva il muso e Takami stava asserragliata sulla branda più alta, ma almeno erano disposti a parlarsi. Anzi, fu proprio lui a cominciare.
«Tagliamo corto. Chi è Chaos?»
Dal tono si capiva che non avrebbe tollerato risposte evasive. Takami, però, non era intenzionata a dargliene. «È un4 t0ksâm4.» disse, suonando a tratti acutissima e a tratti cupissima. Il collare, che dalla gara non era stato riparato, era peggiorato.
Le sopracciglia di Al si avvicinarono, disegnando una ruga verticale. «È la sua specie?»
«Sì.»
Clank emise una specie di “hm” a bocca chiusa. Al non gli badò. «Mai sentita. Cos’altro sai di lei?»
«N0n h4 un4 f0rm4 pr3c1s4... È fum0.»
«Fumo?» s’intromise Clank, disorientato. «Vuoi dire che non ha una massa corporea ben definita?»
«C0s’è un4 m4ss4 c0rp0r34?»
«È l’insieme delle membra di una persona. In un organico sono l’apparato muscolo-scheletrico, quello cardiovascolare, quello respiratorio–»
«Clank.» lo interruppi, notando una bolla di confusione sulla faccia della bambina. «Falla semplice.»
«Oh.» la testa dell’antenna lampeggiò un paio di volte. «Parlo del corpo, Takami. Come può non averlo di una forma precisa?»
Le guance le si fecero più rosse. «N0n... N0n v0l3v0 d1r3 qu3st0. È ch3 può pr3nd3r3 l4 f0rm4 ch3 vuol3, sol0 ch3 ult1m4m3nt3 pr3f3r1sc3 f4r3 l’um4n4. P3rò d1 fum0». Notando che la spiegazione non aveva sortito l’effetto sperato, la piccola si giocò l’ultima carta. «Anch3 R4tch3t e 1l s1gn0r Al l’h4nn0 v1st4, p0ss0n0 d1rt3l0 4nch3 l0r0.»
Io e Al ci scambiammo un’occhiata sorpresa. Probabilmente pensammo anche la stessa frase: sul serio?
Clank ci studiò attentamente. E pose la domanda che avevo appena pensato.
Io e Al confermammo.
«E anche per voi era un’umana di fumo?» insisté Clank.
Ripensai al gazebo, al tavolino e alla mano affusolata con cui aveva creato e fulminato il mio simulacro. «Sì.» mormorai semplicemente.
«Vero. Inquietante». Il tono di Al era schifato.
«Quindi figura slanciata, due braccia, due gambe... quante dita per mano?»
Al scosse la testa. «Non ho guardato.»
«Cinque.» risposi con sicurezza.
«E 0gn1 t4nt0 s1 f4 cr3sc3r3 l3 4l1. Du3 4l1 gr4nd1, c0m3 qu3ll3 d1 B4ttl3-H4wk. P3rò l3 0di4.» aggiunse Takami. «D1c3 ch3 p3r 1 t0ksâm3 s0n0 un s3gn0 d1 d3b0l3zz4.»
Momento di silenzio. Che diavolo significavano le ali? Le odiava perché modellarle era difficile? Erano un modo per depistare i sospetti sulla sua identità? O le odiava perché era la forma umana ad essere il depistaggio e quindi erano indizi rivelatori?
«Che altro sai di lei?» domandò Clank.
Takami fece segno di pensarci su. Poi, col suo sintetizzatore impazzito, rivelò: «Ch3 vi3n3 d4l T3öm4 Lôjs3.»
Passarono altri secondi di silenzio. Io mi feci più attento. Dove diavolo era quel posto? Al invece si fece scettico, mentre Clank si fece assente. Immaginai che avesse lanciato una ricerca nei database. Immaginai bene.
«Strano, non ho toponimi corrispondenti nelle mie mappe.» disse, tornato presente. «Sai dirmi in quale galassia si trova?»
«N0n cr3d0 ch3 è 1n qu4lch3 g4l4ss14.»
«Questo non è possibile.» intervenne Al. «Se è un pianeta, allora è per forza in una galassia. E non credo proprio che Vox abbia esplorato galassie esterne.»
Altro secondo di silenzio.
«...D1r3 p14n0 è ugu4l3 a d1r3 p14n3t4?»
Non c’era retorica nella sua domanda. E neppure ironia. Stava davvero chiedendo se fossero sinonimi.
Il lumino sull’antenna del mio amico prese a lampeggiare di colpo più intensamente.
«Sono due cose diverse. Perché lo chiedi?»
«N0n l’h0 c4p1t0 t4nt0 b3n3 qu4nd0 m3 l’h4 sp13g4t0, m4 s0 ch3 c’3ntr4 c0l n0m3. T3öm4 Lôjs3 1n P4nskâr4 Vu0l D1r3 P14n0 S4cr0.»
«Panskâra? Sei sicura?»
Lei annuì. «Tutt1 1 t0ksâm3 p4rl4n0 p4nskâr4.»
«Ma il panskâra è un dialetto morto da moltissimo tempo. Non può conoscerlo.»
Il petto le si gonfiò d’aria e la sentimmo espirare a lungo, quasi come se sbuffasse. Poi, con voce decisa ma segnata dal guasto, ripeté: «Tutt1 1 t0ksâm3 p4rl4n0 p4nskâr4 . È l4 l0r0 l1ngu4.»
Il tono era quello di chi non torna indietro, ma tutto il resto del corpo trasmetteva disagio: le mani nascoste, lo sguardo basso, la schiena curva. Le costava fatica contraddire Clank; tanto più che quando tornò a guardarlo il tono si fece più tremolante.
«S0n0 st4t1 l0ro 4 1ns3gn4rc3l0 4ll’1n1z10 d31 t3mp1. È l4 l1ngu4 p1ù 4nt1c4. È l4 m4mm4 d1 tutt3 qu3ll3 ch3 c0n0sc14m0. È p3r qu3st0 ch3 l4 c4p1sc0n0 tutt1.»
A ben pensarci non avevo avuto alcuna difficoltà a capire i discorsi di Ran’jio o dei fratelli Rab. Be’, per Ran’jio potevo ipotizzare che fosse per via della gioventù dell’armatura... ma che dire della congrega che avevo trovato in fondo alla spirale discendente? Mascherina e quell’altro erano pezzi da museo.
«Ho alcune iscrizioni nel database. Non si direbbero così comprensibili.» insisté Clank.
«È p3rché l’3ff3tt0 v4l3 s0l0 c0n l3 p4r0l3 p4rl4t3. Lo scr1tt0 è d1ff1c1l3: l3 l3tt3r3 s1 s0m1gl14n0 tutt3. P3rò tutt1 1 f1nt1 s3môk3 p4rl4v4n0 p4nskâr4.»
«Puoi provarlo?» sfidò Al. In contemporanea Clank domandò: «Cos’è un finto semôke?»
Takami fissò prima uno e poi l’altro. L’espressione di Al s’indurì. Senza dubbio aspettava che lei ammettesse di non poter rispondere alla sua provocazione.
La piccola incassò la testa nelle spalle e spostò lo sguardo su di me. Si morse il labbro: prima indecisa, poi mesta. E ci stupì con gli effetti speciali.
«Qu1 4 Dr34dZ0n3 l1 ch14m4n0 z0mb13 r0b0t. M4 n0n s0n0 v3r1 z0mb13! Ch40s m1 h4 sp13g4t0 ch3 1n r34ltà...»
* * * * * *
La conversazione, dopo quel momento, diventò un labirinto di domande. La spiegazione in panskâra – perché fu in quel dialetto che parlò per tutta la pappardella sull’incantesimo sbagliato e i templi sigilli – ci destabilizzò su più livelli.
Il primo: come diavolo faceva Takami a parlare un dialetto morto? Chi era Chaos per poterglielo insegnare, se (a detta di Clank) neanche gli archeolinguisti erano riusciti a ricostruirlo?
Il secondo: anche ammettendo che il suo panskâra fosse un falso, com’era possibile che una lingua sconosciuta fosse comprensibile al primo ascolto?
Il terzo: che razza di specie erano i toksâme, che secondo Clank non esistevano su nessun database?
Il quarto: magia e incantesimi. Sul serio nel 5401 Post Federazione si poteva parlare di magia e incantesimi? Era blasfemia scientifica. Eppure il magimessaggio di Ran’jio l’avevo visto e pure toccato. E non era per certo un ologramma.
Infine il quinto, che però era un indovinello solo mio: il marchio sulla mano sinistra. Il “dono” di Chaos; quello che, secondo lei, mi avrebbe impedito di schiattare folgorato. Di quello non avevo parlato con gli altri. C’era già confusione a sufficienza per aggiungere altri argomenti; tanto più che tutti (io compreso) ritenevamo il problema superato con la w.a.v.e di Rop’roc. La stessa che, in quel momento, pesava nella mia mano.
Non mi vergogno ad ammettere che ad un certo punto la usai come via di fuga. All’epoca ero di vedute più strette e la 6-538, per il mio raziocinio, si era fatta intollerabilmente piena di argomentazioni assurde. Così avevo lasciato la cella con due idee in testa: schiarire i pensieri e saldare il debito contratto con la spalla di Conundrum Dynamo.
Prima di Catacrom l’idea di un debito mi aveva fatto storcere la bocca. L’avevo accettato perché c’era un conto alla rovescia e perché di mezzo c’era Clank, che ha giudizio da vendere. Però un terzo dei punti era un prezzo decisamente salato. Per questo avevo fatto il possibile, con la mia squadra, per poter dare indietro quella w.a.v.e quanto prima.
E quanto prima era giunto.
Raggiunsi il Padiglione 5 – quello dei VIPs – e camminai guardandomi intorno. C’ero passato qualche volta, ma non mi ero mai preso il tempo di scuriosare. Quella volta lo feci. C’erano poche telecamere, c’era la moquette e le porte erano di una fattura ben più civile dei nostri portelloni da hangar. Agli angoli dei corridoi c’erano anche dei vasi di fiori! Che dire: sembrava un albergo.
Rop’roc viveva lì. La porta della cella aveva il suo nome serigrafato in oro, come il caravan di Clank agli studios. Bussai.
Non avevo un’idea precisa di chi mi avrebbe aperto, ma vedere un blarg mi prese in contropiede. Dalla rovina di Drek non ne avevo incrociati molti.
Il tipo alzò un sopracciglio. Mi squadrò testa-piedi e ritorno. Eravamo alti uguali e vestivamo la stessa tuta grigia, ma gli inserti sulle sue spalle erano blu. Significava che era un livello Crociato, ossia che aveva sconfitto gli avatar di due Sterminatori. Credo che fu vedermi spalline color ruggine a fargli brillare una luce di compiacimento negli occhi.
«Shì?» domandò, il tono indolente di chi sapeva già la risposta.
«Devo parlare con Rop’roc.»
Un sorriso calcolatore gli comparve sul volto. Si fece da parte con un movimento fluido e con un gesto del braccio accennò alla stanza. «Entra pure.»
Quando cominciai il passo mi ricordai – come un flash improvviso – che non era una cosa furba. Avevo già un piede in aria a quel punto. Anche se sembrai un cretino, lo ripoggiai al di qua dell’uscio.
Rop’roc alzò di nuovo il sopracciglio. «Allora, entri o no?»
Presi il collare fra pollice e indice e lo sollevai leggermente. «E prendermi la punizione? Grazie, facciamo un’altra volta.»
Il blarg sembrò irritarsi per la mia reazione. La mano che indicava l’interno cadde lungo il fianco e il tono si fece stizzito. «Entra e non farmi perdere tempo, nevezh! Non c’è shcossha qui!»
* * * * * *
La cella era un salotto decente. Niente divani o poltrone, ma un tavolo di vetro con sedie in pelle. Ma soprattutto: niente scossa, niente avvisi, niente di niente.
Sul tavolo c’erano un’arma smontata, pezzi di ricambio e olio per la pulizia. Rop’roc e io sedemmo e lasciai la w.a.v.e ai margini di quella piccola nebulosa di pezzi sparsi.
«Ho shentito parlare di te, asshasshino di Shkìosh. Con ciò che dicono è facile dimenticare che shei un novellino.»
Ah! Ma allora la dislalìa non l’avevo immaginata! E quella di Kau Silvestro, nientemeno! [1]
«Spero che siano voci interessanti.» affermai, complice; la smorfia resa genuina dal paragone con quel vecchio personaggio che tanto apprezzavo. Quanto all’argomento: avevo già raccontato la mia versione a tutti quelli che si erano degnati di ascoltarmi, e avevo capito che comunque non sarebbe cambiato nulla nelle balle che mormoravano. Tanto valeva ascoltare cosa dicevano e riderne.
«Molto interesshanti. Come shei riushito a inculcare una parola d’ordine che accendesshe le abilità della tua shpalla?»
Sul serio era così evidente che quella fosse una parola d’ordine?
Feci spallucce. «Ho avuto fortuna.»
Anche perché non gliele avevo inculcate io. Che lei le avesse già: quella era stata la nostra fortuna.
«Veramente io intendevo il metodo ushato.»
A quel punto allungai un sorriso un po’ sbruffone. «Vuoi mettere le briglie al tuo Eroe?»
Rop’roc ridacchiò. «Chisshà, magari a Dynamo piacerebbe anche.» e lasciò cadere l’argomento. «Piuttoshto, per prima: mi ha shtupito che la tua umana non ti abbia detto della “flesshibilità” della shcossa.»
«Colpa mia. Le ho dato altro su cui concentrarsi.»
Lui annuì come se avesse capito tutto, poi mise su un tono condiscendente. «Comunque nel padiglione cinque shono gli inquilini che shelgono a chi applicare la regola della shcossha. Shai che shfiga per i miei affari she nesshuno potesshe entrare qui.»
Fui io a fare una smorfia simile alla sua. «È un vantaggio che viene con l’armatura blu?»
«Viene perché ho firmato un contratto con Vox. Shono un gladiatore professhionishta adessho. Ma shono anche filantropo. Come possho aiutarti?»
«Già fatto.» e accennai alla massa informe di stoffa scura. «Sono venuto a pagare il debito.»
Il blarg spostò la w.a.v.e con cura, stando attento a non farla scontrare coi pezzi dell’arma sventrata, e l’aprì davanti a sé. Per alcuni istanti ci fu silenzio, mentre coi polpastrelli saggiava il tessuto come un sarto esperto.
«Di shicuro l’hai ushata.» Allontanò la mano e osservò un residuo scuro sulle punte delle dita. «Fino al shuo ultimo briciolo di potenziale, anche: gli elettrodi shono bruciati.»
La mia prima reazione fu di sorpresa. Non me n’ero accorto affatto... e pareva proprio che neanche i miei amici se ne fossero accorti. Ma quando si era bruciata? Nel combattimento coi fratelli Rab? Con la schienata tremenda post landstalker? Sotto il Muro delle Formiche?
Rividi in un istante le scariche piovute dalla cupola di Takami. Se avessi scommesso, avrei detto di averla bruciata lì. «È stata molto utile.» commentai semplicemente.
Dopo poco smise di rimirare la circuiteria e posò la tuta. «E me la vuoi rendere?»
Lo lasciai aspettare la risposta. Gentile o meno, ero certo di non dover fornire spiegazioni a riguardo. Lui, però, mangiò la foglia e rilanciò: «Shono certo che potremmo trovare un accordo per la manutenzione che non shia troppo onerosho, she lo deshideri. Non shono lo shtrozzino che gli invidioshi dicono.»
Mi rimbalzò in mente il costo del nostro nolo e ammirai la sua faccia tosta.
«È un’offerta generosa, ma ora non posso permettermela. Dopo che avrò pagato il nolo mi resteranno punti giusto per un carico completo di munizioni.»
L’arma più abbordabile era il decimator, ma volevano 15.000 punti. Noi non arrivavamo a 14.000. E avrei dovuto darne un terzo alla sanguisuga con cui parlavo.
Alzò un sopracciglio. «Eppure shapevo di una maggiorazione degli introiti...»
Intendeva quella promessa da Basher? Era sfumata dopo la morte di Skìos, quando l’avevo mandato a cagare. Mi strinsi nelle spalle. «Ti hanno detto male. Al momento siamo io, la mia squadra e le nostre forze.»
Come previsto Rop’roc non ribatté. Non subito. Strinse le labbra e si chiuse a pensare la mossa successiva, ma non ci mise molto. Capii dalla sua smorfia di aver vinto quella battaglia verbale. Subito dopo, a darmi conferma materializzò un tablet e me lo mise davanti. «Mettici una mano shopra... shenza guanto, per favore.» disse, asciutto. «Computer, avvia procedura di pagamento.»
L’attrezzo riconobbe la sua voce e si attivò. Si collegò alla Sala Classifiche, poi mi scannerizzò la mano e arrivò al mio conto. Poche istruzioni dopo vidi la cifra calare sotto i 10.000.
«Perfetto, direi che rimane sholo una cosha da fare.»
Non mi risultava. Fu la mia diffidenza che chiese un cauto: «Sarebbe?»
Rop’roc alzò una mano e mi fece ciao ciao. «È shtato un piacere fare affari con voi. Shpero di rishentirvi.»
«Sì, è stato un piacere.» risposi alzandomi. Ma spero di non ripetere.
Lo guardai riprendere in mano un pezzo d’arma e un panno macchiato d’olio, poi mi decisi a voltargli le spalle. Quella era fatta, mi dissi mentre mi avvicinavo alla porta.
«T’vara dai
Il mio collare fece click – il click metallico della spoletta rimossa dalla granata.
Sgranai gli occhi.
Oh mer–!!
* * * * * *
Eh?
Il collare ticchettava come un cronografo. Avevo la pelle d’oca, il cuore in gola e il dorso della mano sinistra che pizzicava.
Avevo pensato... – no, “pensato” no, era stata una specie di intuizione istintiva. Avevo “intuito” che il collare stesse per esplodere. Mi ero gettato a terra. E probabilmente avevo anche urlato, a giudicare da come Rop’roc mi stava guardando. Le sopracciglia tirate su, gli occhi sgranati, la bocca mezza aperta. Era allibito.
La sua reazione però arrivò prima della mia.
«T’vara shek!» il suo tono era scandalizzato. In quel momento la pelle d’oca sparì e il collare smise di fare rumore. «Ma shei impazzito?»
Non riuscii a rispondere subito. Dovetti tirare il fiato due o tre volte prima di riuscire a mettere insieme una frase.
«Cos’era... quello?»
«Ma quello cosha?»
«Quel click...»
Scosse la testa. «Non c’è shtato nesshun click.»
Lo fissai, stralunato.
«Forshe dovreshti andare in infermeria. I nanobot mal calibrati a volte danno allucinazioni.»
* * * * * *
Dopo quella magra figura lasciai la cella di Rop’roc. Mi tuffai nei corridoi e li percorsi a passi svelti senza badare a niente e a nessuno. Però non seguii il suo consiglio; non mi diressi all’infermeria. Io ero certo di aver sentito quel click, solo che non sapevo ancora come spiegarlo.
Forse, se ne parlo con gli altri...
Mi venne in mente quale fosse l’argomento al momento della mia uscita. Avranno finito con quella pazza, no?
Lo speravo, ma allo stesso tempo non ci credevo troppo. Per questo, quando rientrai nella 6-538 e li trovai ancora lì a parlare, non mi stupii più di tanto. Più che altro, vedendo Takami contro l’angolo in fondo, Clank sulla branda con lei e Al che puntava minacciosamente un dito contro di loro, intuii che il tono si fosse scaldato di nuovo.
«Allora, hai fatto?» mi fece, brusco.
Fu il tono, credo. Isterico, velenoso e irritante. Mi indispose con efficacia chirurgica.
«In effetti no. Secondo la lista devo ancora tirarti la testa fuori dal culo.»
Le porte della cella ricominciarono a muoversi, stavolta per chiudersi. Fronteggiai lo sguardo di Al per tutto il tempo che servì ai battenti per tornare a essere una parete. Guardai in faccia la sua sorpresa, il suo sconcerto, le sfumature della rabbia tingergli la faccia...
«Io avrei la testa nel culo?»
Spalancai le braccia. «Guardaci. Siamo noi, siamo soli e non siamo i favoriti del torneo. E tu cosa fai? Smonti la squadra!»
«Lei!» e indicò la branda alta a tutto braccio. «Guardala bene, Ratchet! Non ha fatto altro che metterti in pericolo e confonderci! E tu parli così a me?»
«Takami ha i suoi limiti–»
«TI HA UCCISO, te lo ricordi?!»
«ERA SUICIDIO, GENIO!»
Forse esagerai, ma ero sinceramente stufo di vederlo con quell’atteggiamento. Così, stufo di mio e innervosito dal suo tono, infierii: «IO ti ho dato la patch e IO ho chiamato quel pandemonio! E lo SAI! Sai benissimo che in quel momento rispondeva a un ordine preciso, ecco perché ti dico che hai la testa nel culo!»
Calò il silenzio. Un silenzio duro, reso ancor più ostile dalla rabbia.
«Se vuoi dare la colpa a qualcuno» insistei ancora «allora dalla a me, che mi sono fidato di Basher, o dalla al grande ChronoPath, che nonostante la sua grandezza non ha visto la trappola dentro cui mi sono ficcato!»
«Ero contrario a quella patch, infatti!»
«Ma l’hai installata! Mettila come vuoi, ma questo ti fa colpevole quanto me e Basher! E prendertela con Takami, che è stata un mezzo e non una causa, è un insulto all’intelligenza!»
«Sei TU che insulti l’intelligenza! E lo fai con la sua difesa ostinata!» digrignò i denti, la faccia ormai completamente rossa. «Non solo è totalmente incapace, ma sente le voci! Delira! E ti ostini a seguirla come fosse l’oracolo!»
«Nient’affatto!»
«Lei NON È un cucciolo da salvare! È una trappola mortale da cui guardarsi COSTANTEMENTE! E dopo oggi sono ancora più convinto che due robot sarebbero più sicuri e meglio gestibili di lei!»
Mi sembrava di urlare contro un estraneo. Quello non era Al... non era neanche l’ombra della sua persona gentile. «Ma ti senti parlare?!»
«Sono due settimane che mi sento dire, pensare e preoccupare! E tutto quel che ne ricavo è sentirmi dire che sragiono!»
Abbassai le orecchie. Lui mi puntò il dito contro.
«Serve una squadra più sicura, Ratchet. E se non ci vuoi pensare tu, lo farò io.»
* * * * * *
Quando Al lasciò la cella – e non ci volle molto – finii per fissare la porta mulinando la coda. Diamine.
«Non proprio la vostra massima espressione, devo dire.» commentò Clank. Le orecchie, sentendolo, sobbalzarono.
Mi ero dimenticato che nella stanza fossimo in quattro. Mi voltai immediatamente verso la branda più alta. Clank era amareggiato; Takami invece aveva la stessa espressione scossa di quando avevo raggiunto lei e Clank nel compattatore. Un attimo dopo saltò giù dalla branda e si avvicinò alla porta. Credendo che volesse seguire Al la fermai con una mano sul braccio. «Lascialo perdere. È meglio farlo sbollire.»
Lei scosse la testa e mi mostrò il braccio sinistro, dov’era tornato a campeggiare il bracciale tecnologico.
 
Non voglio seguirlo.
 
«E allora dove vai?»
 
Non lo so. Ma non riesco a stare qui.
 
La capii. Per alcuni non è facile mostrare noncuranza dopo aver assistito a una litigata. E io e Al non avevamo certo mostrato la nostra faccia migliore!
«Mi dispiace per la scenata. Siamo molto meglio di così.» dissi, punto dalla vergogna.
Lei annuì, poi abbassò lo sguardo.
 
Non ti scusare con me. È una regola, ricordi?
 
Storsi il naso, insofferente alla fedeltà verso quella cavolata.
 
E poi sono io che ho sbagliato tutto. Ho chiesto a Chaos di parlare a tutti perché non volevo che ti prendevano per matto, ma alla fine vi ho fatto litigare. Lei me l’aveva detto che non serviva, ma ho insistito! E poi ho usato il panskâra anche se lei non vuole e anche se sapevo che ti faceva paura sentirlo ancora!
 
Ah, ecco perché mi aveva fissato così a lungo prima di rispondere ad Al.
 
Pensavo che usandolo la situazione si calmava... ma è finita malissimo.
La squadra è rotta, Chaos è arrabbiata e io lo so che è colpa mia. Devo fare qualcosa. Devo pensare a qualcosa. Ma qui non ci riesco, qui mi sento solo in colpa!
 
Il tonfo ci colse alla sprovvista. Secco, come due pugni picchiati sul muro. Io e Takami ci girammo verso il tavolino e scoprimmo che Clank vi era atterrato sopra.
Saltando direttamente dalla branda.
Non che la distanza fosse immensa, ma non era da lui. Ecco perché si guadagnò due domande inespresse (che notò ed evitò con molta noncuranza).
«La squadra non è rotta.» disse invece. «Lo sarebbe se andassimo ognuno in una direzione diversa.»
«Che – per carità – è l’ultima cosa che ci serve.» e tornai a rivolgermi alla bambina. «Sì, quel dialetto mi dà i brividi, e col collare guasto era davvero tremendo.»
 
Scusami.
 
«Però capisco che era l’unico modo per uscire dal discorso in maniera pulita. Solo: non parlarlo mai più. O almeno avvisami prima di farlo.»
«Che facciamo con Al?» domandò Clank. «Non vorrei che commettesse una sciocchezza.»
Scossi la testa. «Lasciamolo sbollire.» ripetei. «Andargli dietro lo convincerebbe d’aver ragione.»
E poi cos’avrebbe potuto fare? L’ufficio del personale rispondeva a Vox e lui aveva già messo in chiaro che Takami sarebbe stato affar nostro.
Lei mi tirò appena la manica, ottenendo in risposta la mia attenzione.
 
Però il signor Al ha ragione su una cosa. Se continui a usare le parole di Basher finirò per ucciderti.
Ti ho dato la tuta di Rop’Roc perché credevo che bastava, ma sbagliavo. Non sei al sicuro neanche con quella.
 
Clank inclinò la testa, l’antenna lampeggiante. «Che vuoi dire?»
Sentii un brivido correre per la schiena mentre il giudizio del blarg mi tornava in mente. Le indicai il tavolino.
«Siediti, per favore. Questa me la devi spiegare.»
Ci ritrovammo così al punto di partenza: seduti ai due fronti del tavolino, con Clank in mezzo. Solo che stavolta feci io la domanda iniziale. «Come lo sai?»
«Ma di cosa parlate?» ci riprese Clank. Lo ragguagliai sul verdetto di Rop’Roc, e la sua reazione fu simile alla mia. «Ma non è possibile! Al ha collegato la w.a.v.e alla consolle... se si fosse bruciata l’avremmo saputo seduta stante!» protestò.
«Eppure gli elettrodi erano bruciacchiati; l’ho visto anch’io. Com’è che l’unica che se n’è accorta è Takami?»
Ci voltammo verso di lei, che incassò la testa nelle spalle.
 
Io... sento la presenza dei circuiti. Quando sono agitata la sento più chiara, anche se non ho l’intenzione. Quando ho sentito che la w.a.v.e non rispondeva più ho capito che l’avevo bruciata.
 
«E quand’è che hai smesso di percepire la tuta?»
Era stato nel combattimento coi fratelli Rab? Sotto il Muro delle Formiche? Con la schienata tremenda post landstalker?
 
A inizio gara funzionava... e anche quando ti ho fatto lo scudo...
Però... credo dal Muro delle Formiche.
 
«Ah! Quando hai fritto la zona!»
Avrei dovuto saperlo. Era il momento più logico dato che avevo chiamato il ruggito. Quella cosa era una roulette – fichissima, ma pur sempre un azzardo – col Tristo Mietitore.
 
No, è stato prima.
È stato prima del ruggito.
 
Clank e io sgranammo gli occhi.
«Prima? Sei sicura?» domandò lui. Takami fece per annuire, e il mio cuore prese a galoppare. Non era vero. Non poteva essere vero. Non poteva essere che tutta la mia protezione dai fulmini scaturisse dal giro di glifi sulla mia mano!
Poi, nonostante il mento già alto e l’azione impostata, Takami si fermò a metà gesto. Fu come se avesse realizzato qualcosa; tornò sui suoi passi e arrossì.
 
Ecco... ero molto agitata. Ricordo di aver sentito i nemici prima del ruggito, ma magari mi sbaglio sulla w.a.v.e. Sicuramente mi sbaglio, altrimenti eri morto come nell’Hiring Show.
 
Ci adocchiò rapida, quasi furtiva.
 
Vi chiedo scusa.
 
E il mio cuore riprese a viaggiare a una velocità normale. Quanto a Clank, lui aveva ancora una tonnellata di domande da farle. Io non avevo voglia di affrontare di nuovo il discorso su Chaos, così mi persi in altre riflessioni. Pensieri sulla w.a.v.e rotta, che se davvero si era rotta prima che chiamassi il ruggito allora mi avrebbe obbligato a ragionare su cosa mi avesse salvato la vita sotto il Muro delle Formiche.
Pensieri sulla sclerata di Al, sulla sua minaccia. Lui era una persona buona, per questo non credevo che avrebbe portato avanti quell’idea assurda. Allo stesso tempo, però, quella sua aggressività lasciava l’amaro.
Pensieri su come la squadra fosse divisa. Non era propriamente vero, ma di sicuro eravamo senza collante. Non andavamo ognun per sé, come aveva detto Clank, ma l’unico motivo per cui non era così era che io, Clank e Al avevamo passato abbastanza cose insieme da non poterci più definire estranei.
Di sicuro urlare non era stato il modo migliore per affrontarlo. Avevo sbagliato e non avevo scuse. Ma sul modo con cui si era comportato ultimamente era lui a non avere scuse.
E che si credeva, che non avrei fatto cambio di Spalla se avessi potuto? Due robot mi avrebbero reso la vita più facile, poco ma sicuro! Per Takami poi avrebbero eliminato tutti i rischi, dato che il gioco dei punti extra era concluso. Sarebbe stato vantaggioso per entrambi, ma c’era stato l’incontro con Vox – quello che secondo lui avrebbe dovuto illuminarmi sull’identità e il potenziale della bambina. Il bastardo era stato chiaro: combattere con me era la sua ultima possibilità. Dopodiché, se non avesse cominciato a usare le sue doti, sarebbe diventata una bocca in meno da sfamare. Non potevo appiedarla... semplicemente non potevo! E se solo Al avesse ricordato quel piccolissimo dettaglio...
 
Spalancai gli occhi, illuminato all’improvviso da un altro “piccolissimo dettaglio”. Gomito sul tavolo, mi coprii la bocca con la mano e cominciai a sentirmi a disagio. Frugai fra i ricordi con una foga che manco alle interrogazioni di Lettere; ma alla fine dovetti arrendermi all’evidenza.
Io agli altri quella cosa non gliel’avevo detta.

[1|⇑] Si tratta nello specifico di sigmatismo (S moscia). Ne esistono diverse forme, ma per Rop'roc immaginate un Gatto Silvestro meno spernacchiante. Per i più curiosi linko la pagina di Wikipedia che contiene un esempio audio: S laterale fricativa alveolare sorda.

 

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Capitolo 18
*** | Capitolo 14 | Casino che va, casino che viene ***


[ 14 ]
Casino che va, casino che viene
(Un angolo segreto, una possibile alleata e un colpo al cuore)
 
Quella notte dormii male. Mi svegliai spesso, scappando da un incubo per saltare in un altro. Come se gli incubi non fossero sufficientemente sgradevoli, poi, non appena tornavo cosciente i pensieri si focalizzavano sul problema con Al. Fu proprio una notte da dimenticare.
Se non altro, però, quelle veglie ansiogene mi consentirono di pensare un piano per risolvere il nostro casino interno. Non una cosa ultra dettagliata, eh! Però arrivai a un’imbastitura decente per qualcosa di pratico.
A quel punto, finalmente, riuscii a schiacciare un pisolino senza sogni.
* * * * * *
Subito dopo colazione io e Takami ci dividemmo. Lei andò con Clank alle palestre per il suo addestramento; mentre io andai a cercare Al. Ero ottimista sulla mia pensata notturna ed ero convinto che ci avrebbe portato a una tregua. Dovevo solo interpellarlo nelle vesti di ChronoPath.
Prima di dividerci Clank – santo Clank – mi diede una dritta. Mi disse di un posto nel Padiglione 4 dove Al s’era procurato una cassa di telecamere per farne circuiteria. Nel parlargliene Al l’aveva chiamato “il Magazzino”, ma non aveva rivelato dove fosse.
Per fortuna lo sapeva Takami, che mi diede istruzioni molto precise su come raggiungerlo. Poi, arrossendo davanti ai nostri sguardi incuriositi, si era giustificata proiettando che lei ci era andata di nascosto, qualche volta.
In sostanza: il Padiglione 4 era costruito attorno ai generatori degli scudi stellari della stazione, quindi aveva una planimetria incasinata. Mettendoci una sistemistica al risparmio, ecco che al suo interno si era creato un percorso che si snodava completamente negli angoli ciechi delle telecamere.
Non era certo un percorso lineare, anzi: fu lungo e snervante, un po’ perché avevo l’impressione di girare in tondo e un po’ perché Takami aveva scritto e ribadito che quel posto era un luogo di cui tutti i Tecnici erano parecchio gelosi; per cui non dovevo assolutamente uscire dal percorso.
Uno sbuffo alla volta arrivai al livello più basso. C’erano una manciata di porte a scorrimento, e da una di esse stava uscendo un akva. Mi vide e trattenne un sussulto; poi, dopo il primo attimo, lo sentii mormorare che per fortuna non ero una guardia.
«Ehi. È il Magazzino?» lo apostrofai alludendo con lo sguardo alla porta, che in quel momento si richiuse in silenzio.
Lui mi squadrò meglio. «Hai... come sei arrivato qui?»
Che domanda idiota. «Fuori dai radar, se è questo che intendi.»
L’akva ci pensò un attimo, poi annuì. «Vai pure.»
Dentro, in una stanza quadrata, c’era una mezza dozzina di persone di varie specie. Al mio ingresso qualcuna si girò a guardarmi, ma tornò quasi subito a farsi gli affari suoi. Solo una xarthar, che sedeva su una grossa cassa con un pc in grembo, chiuse il portatile e mi venne incontro. Aveva il pelo rugginoso, una disordinata coda di capelli biondi e indossava la divisa grigia e blu dei Crociati.
«Ehi, sembri perso. Prima visita o ci sei finito per caso?»
«Prima visita. A dire il vero cerco il mio tecnico. È un kerwaniano alto così...» e gli descrissi Al.
Gli occhi, di un verde vivido, le si illuminarono. «Ah! Sì, so chi è. Viene spesso. È passato più o meno un’ora fa.»
Un’ora?
Ero allibito. E preoccupato. Un’ora prima noialtri facevamo colazione! «E... ha detto dove sarebbe andato?»
Scosse la testa. «Ha detto solo che sarebbe tornato prima di pranzo.»
Tornare indietro e ritentare in seguito mi avrebbe preso più tempo che rimanere ad aspettarlo. Sospirai e mi guardai intorno. «Posso sedermi da qualche parte o ci sono postazioni riservate?»
La xarthar allungò un sorriso. «Abbiamo sedie, brandine e qualcosa di meglio. Preferenze?»
Nel suo tono c’era una lievissima nota di divertimento, che mi catturò al volo. «Cosa intendi con “di meglio”?»
«Siamo specializzati in più di trenta branche scientifiche; qui ognuno ha il suo “di meglio”. Sono sicura che ci sia qualcosa anche per te.»
Intrigante. Un sorriso gemello al suo mi salì alle labbra. «Allora è deciso.»
«Ottimo.»
E, materializzato un contel, ci portò altrove.
* * * * * *
Quando arrivammo rimasi a bocca aperta.
Dietro i banchi, gli attrezzi, i pezzi, il casino, l’odore di officina e di ferro bruciato c’era una vetrata. E, al di là, un piccolo sole chiuso in una stanza.
«Quello è il nucleo radiante degli scudi della stazione.» mi disse la xarthar, orgogliosa come se quell’affare ce l’avesse messo lei. «Ci fornisce luce e ci scherma dagli occhi e dalle orecchie di Vox.»
Fischiai l’ammirazione. «Non mi stupisce che teniate segreto questo posto...»
«È una manna dal cielo scambiarsi le idee senza temere la scossa punitiva. Comunque.» Mi tese la mano. «Cocobìt O’Can-do, per tutti Coco. Benvenuto al Magazzino, assassino di Skìos.»
Le strinsi la mano. A dispetto del piglio aveva una stretta delicata. «Chiamami Ratchet. Quel titolo mi va stretto.»
Coco allargò il braccio indicando lo stanzone. «Allora, come possiamo tenerti impegnato? Là ci sono le rastrelliere con le armi riparabili; di là ci sono vecchi robot per i ricambi; di là invece...»
La mia attenzione, però, se l’era già guadagnata qualcos’altro. Coco lo notò. «Quello è il mio progetto a tempo perso.»
«Posso dargli un’occhiata? Ti dispiace?»
Mi accompagnò al suo bancone. A sinistra, puliti e ben mantenuti, c’erano due carrelli con un tornio e una fresatrice; mentre a destra, sul tavolo, c’era un blocco motore molto compatto. Era parzialmente smontato, con parti sparse sul piano di lavoro. Leggermente più lontani – come se fossero più importanti – c’erano i pezzi di un cambio manuale disposti su due file. Sembrava di vedere un esploso: su una fila c’erano gli ingranaggi, i perni e tutti i pezzi dell’albero primario e sull’altra fila tutte le componenti di quello secondario.
Prima, seconda, terza... sei marce. – contai. Poi, nel girarmi verso il blocco motore, urtai qualcosa col piede. Controllai di non aver fatto danni e, vedendo cos’avevo toccato, la domanda sorse spontanea.
«Pneumatici?»
Guardai la xarthar, sottintendendo una domanda che lei colse perfettamente.
«Avevo un kart, a casa. Roba d’epoca, però ogni tanto lo facevo andare. Mi ha insegnato che una derapata su gomma è più coinvolgente come sensazioni.»
«Sul serio?»
«Serissima!» aggiunse, gli occhi che brillavano per l’entusiasmo. Poi quella luce si smorzò di colpo. «Quand’ho capito che da qui non si esce ho scaricato i progetti e ho cominciato a costruirne uno mio... ovviamente con trazione su gomma.»
“Ovviamente”. Io già avrei optato per il moto levitato.
Questione di gusti, mi dissi.
* * * * * *
Passai l’attesa chiacchierando con Coco del suo progetto. Me lo illustrò volentieri e quando mi disse che i pezzi sul bancone erano tutti fatti a mano con gli strumenti del Magazzino il mio cervello esplose. Poi, mentre discutevamo della trasmissione, Al ci raggiunse. Mi accorsi del suo arrivo con la coda dell’occhio e, alla seconda occhiata, capii che la mia presenza lì non gli era gradita.
«Che ci fai tu qui?» fu il suo saluto, asciutto.
«Devo parlarti.» ricambiai, ancora vivace per la chiacchierata meccanica. «E finalmente ho capito dove passi il tempo libero.»
«Non credevo mi monitorassi.»
«Non lo faccio, infatti.»
«Non si arriva qui per caso.» fece, duro. «E non credo che tu abbia pedinato il tecnico di qualche altra squadra.»
Aggrottai le sopracciglia. Pedinato?
Sul serio pensava che l’avrei pedinato per arrivare lì?!
«Ma perché avrei dovuto spiarti?»
«Oh, e chi può saperlo.» fece, stizzito. «Ultimamente neanche ti comporti da te stesso.»
Quell’uscita – quell’accusa – mi deluse parecchio. Mi morsi la lingua per non inveirlo; mi aggrappai al motivo per cui avevo passato quaranta minuti a sgattaiolare nei corridoi; mi imposi di tornare ai binari che la mia mente aveva tracciato fra un incubo e l’altro.
Il braccio di Cocobìt sbandierò fra me e Al. Aveva fatto il giro del tavolo e non me n’ero neanche accorto.
«Ehi, sentite, questo è il mio bancone. Se dovete lanciarvi piatti fatelo lontano da qui.» intervenne, piuttosto bellicosa.
Al le rivolse un’espressione sgarbata, poi mi indicò un angolo vuoto fra alcuni banchi inutilizzati. Ci spostammo là.
«Senti: non sono qui per fare scena.» cominciai subito, prima che mi trascinasse al punto di non ritorno con le sue cazzate. «Voglio reclutare ChronoPath.»
Al s’irrigidì. Si guardò intorno con aria circospetta, poi soffiò: «Non ci mettere in relazione! Sei demente?»
Gli lasciai il tempo per sfogare l’agitazione con tutti quei gesti assolutamente antisgamo come riguardarsi intorno, mordere l’interno della guancia, nascondere le mani e controllare i dintorni per la terza volta in pochi secondi. Poi anch’io parlai sottovoce.
«Mi servono dei filmati della sorveglianza.» dissi. «E non te li chiedo da amico, ma da cliente.»
Forse fu il tono, forse fu la parola in sé, ma quando dissi “cliente” Al sembrò bloccarsi; come se gli avessi tirato un gavettone.
In quell’attimo si trasformò: si fece più freddo nei modi e nel tono. Mise le distanze. Ma andava bene, era quello che volevo: io ero un cliente; non il suo capitano e nemmeno un amico.
«Dipende dai filmati.» disse, pragmatico.
«Ufficio di Vox, la sera che abbiamo saputo il nome di Takami.»
La sua espressione si fece corrucciata. Gli lessi in faccia la domanda “e che te ne fai?!”, ma scelsi di ignorarla apertamente.
«Non hai idea di quanto sia protetta la videosorveglianza, vero?»
Domanda retorica. «Neanche un po’.»
«Be’, lo è parecchio.»
«E tu sei il peggior incubo dello staff di Vox. Sono sicuro che saprai superare i loro blocchi.»
Attimo di silenzio.
«Di certo non li vuoi per ricordo.» concluse. «A chi devi darli?»
«Importa poco.» mentii. «Chi me li ha chiesti non è il destinatario finale.»
«E non sai chi è?»
«No.» ed ebbi un improvviso lampo di genio. «Ma voglio stanarlo. Vorrei che criptassi il video, e se lo vorrà vedere dovrà scendere a patti direttamente con me.»
Capii di aver detto una schifezza nel momento in cui Al storse il naso. «Criptarlo non è un problema. Il problema è che questo tipo potrebbe giocare sporco se gli forzi la mano.»
«...e tirarvi in mezzo. Hai ragione, non si può fare.» mormorai, deluso. Altro che lampo di genio; era stata un’idea ingenua. Allora gli chiesi consiglio.
«Potrei fare in modo di tracciare su quali computer viene visualizzato. Se non altro restringerà il cerchio dei visualizzatori.»
Finsi di pensarci su, poi gli diedi l’okay. Rimanemmo d’accordo che m’avrebbe consegnato la microcard una volta pronta e mi fece cenno di levarmi dai piedi.
«Non abbiamo discusso il prezzo.» gli feci notare.
«Sono anni che non do fondo alle mie conoscenze; sono arrugginito. E non faccio pagare un servizio scadente.»
«Ma se l’anno scorso hai impegnato la griglia di difesa di Capital City per un videofumetto di Qwark!» protestai. «Dove saresti scadente?»
«Quello!» Fece roteare gli occhi, quasi oltraggiato da quello che voleva essere un complimento. «Quello era un gioco. Ed ero fisicamente dentro la centrale.»
«Bah!» alzai le mani. «Come vuoi. Grazie del regalo allora.»
Lui mi scoccò un’altra delle sue occhiate professionalmente fredde.
«Io, fossi in te, aspetterei a cantare vittoria.»
* * * * * *
«Sta’ all’occhio. Le probabilità sono tutte contro.»
Fu l’ultima frase che Al mi disse prima di riportarmi via contel nel bugigattolo dove avevo incontrato Coco.
Quelle parole mi tormentarono più del lecito mentre tornai indietro. Era per il tono? Era per il fatto che non riuscissi ad associare l’Al del Giorno Uno a quello dell’ultimo periodo?
È andata come pensavo. – mi dissi, cercando per l’ultima volta di zittire il disagio – Anzi: non ha urlato istericamente, quindi è andata pure nel modo migliore. Ora devo coinvolgere Clank.
Fu per quello che, una volta tornato nel corridoio della cella 4-723, puntai dritto al Padiglione 2 e alle palestre.
Clank era al pian terreno, in un buchetto abbastanza vicino alla porta. Quando arrivai stava chiedendo a Takami di alzare un ginocchio. Lei, dritta come un palo, dopo aver preso la posizione si ritrovò a fare mille movimenti per non perderla.
«Le braccia; apri le braccia.» la corresse ancora Clank, mostrandole la posizione da tenere. Quando lei riuscì a stare ferma, in equilibrio, allora lui indicò l’angolo tra la gamba alzata e il torso e cominciò un’altra spiegazione. Galassia, che pazienza. Io avrei sbottato almeno un paio di volte.
Takami non fece che annuire fino all’ultimo, e quando tornò con entrambi i piedi per terra mimò una porta e mi indicò. Clank si girò all’istante.
«...Ratchet. Non ci aspettavamo di vederti arrivare.» fece, stupito. «Sei riuscito a parlare con Al?»
«Yep. Incredibile ma vero.»
Mi squadrò. Non era una risposta completa, e lui aspettava il resto. Così gli raccontai del mio incontro, tralasciando Coco e tutti gli sbuffi che avevo esalato lungo il percorso.
«Quello che Al non sa è che il destinatario del video in realtà è lui.» confessai alla fine. «Be’, in effetti anche te.» mi corressi. «Pensi di riuscire a controllarlo?»
«Perché proprio l’incontro con Vox?» chiese lui di rimando.
«Tcì!» Takami, forse per la polvere, starnutì all’improvviso. La guardai di riflesso, mentre si strofinava il naso contro il dorso della mano fasciata, e mi resi conto che la risposta nuda e cruda le avrebbe fatto un sacco male.
«Perché ci sono cose che ho dimenticato di dirvi.» tamponai. «Cose importanti, che Al non ascolterebbe manco se gliele dicessi in ginocchio.»
«E in che modo con me sarebbe diverso?»
Aprii la bocca e la richiusi subito, senza sapere cosa rispondere. Lui era quello paziente dei tre, mi aspettavo che sarebbe riuscito a far funzionare l’operazione in modo liscio. Perché faceva il difficile?
«Sai, pensavo che la fase irresponsabile fosse finita assieme all’addestramento Megacorp.» disse. Era deluso, forse anche arrabbiato. «Invece, da quando ti hanno nominato capitano della Phoenix, continui a rifilarmi gli incarichi a te sgraditi. E peggio! Da quando siamo qui mi metti anche in una posizione in cui, se rifiuto, accade qualcosa di brutto. E la cosa più sgradevole è che, mentre io tappo una falla, tu vai in giro ad aprirne un’altra.» avvertii i miei lineamenti cambiare disposizione. Clank appoggiò un dito sul mio sterno. «No, non hai diritto di protesta. È così, e devi capire che non posso continuare a tappare buchi; ma soprattutto che non posso essere contemporaneamente dappertutto. Nel caso attuale: se sto con Al non posso stare con Takami, e questo mi impone di scegliere.»
Allungò una mano col palmo verso l’alto. «O scelgo di conoscere fatti rilevanti per l’integrità della squadra,» portò l’altra mano in posizione speculare «O scelgo d’insegnare a Takami delle tecniche che domani potrebbero salvarle la vita.»
Mosse le mani come fossero due piatti da bilancia. Le guardai fare su e giù per qualche istante, poi tornai a guardarlo in faccia. Che melodrammatico. «Potresti lasciarmi Takami per un giorno o due e seguire Al. Sistemerebbe tutto.»
Mi scoccò un’occhiata scontenta. «Come la prima volta che siete andati al poligono?» ironizzò. La memoria di quel pomeriggio riemerse portando con sé l’eco della rabbia e dell’impazienza. Non riuscii a nascondere la mia reazione, ma Clank fu abbastanza magnanimo da non caricarci sopra.
«Sai cosa? Resterò con Takami.» concluse, secco. «Se proprio vuoi controllare Al puoi impegnare te stesso. Almeno non aprirai falle altrove.»
* * * * * *
 Portai il mio ego maltrattato nella cella che dividevo con Takami. Mi lasciai cadere a peso morto sulla branda e rivissi il dialogo con Clank. Galassia, era davvero esasperato per farmi una parte simile.
Comunque era stato chiaro: ad Al ci dovevo pensare io. E lo avrei fatto. Oh, se l’avrei fatto! Tutta la mia pensata notturna dipendeva dal fatto che Al guardasse quel video di straforo!
Comunque: era improbabile che lavorasse come Chronopath dalla sua cella. Quasi sicuramente avrebbe scelto un altro luogo... e se avessi dovuto puntare il dito sulla mappa avrei scelto il Magazzino. Era riparato, era segreto, e gli permetteva di lavorare in mezzo a un po’ di gente senza che qualcuno si immischiasse nei suoi affari.
Dovevo controllare, ma in modo antisgamo. Mi ci voleva una scusa, e pure una buona, per andare in quel posto.
Dovevo pensarmela bene.
* * * * * *
Quel pomeriggio tornai nel Magazzino. Passai la prima stanza con la cortesia del Tecnico di Kid Nova e andai al bancone di Cocobìt. Lei non c’era, ma era una possibilità che avevo messo in conto. Così presi un rotolo di nastro carta e ne stesi una striscia vicino al motore sventrato. Il lapis con la punta sbozzata fece il resto.
 
Il tuo progetto è una figata! Mi piacerebbe aiutarti, se due mani in più ti fanno comodo.
Fammi sapere. – Ratchet
 
Poggiai la matita, ma dopo un attimo ci ripensai e la ripresi per aggiungere il nome della squadra. Non so quanto sia comune il mio nome, ma non volevo dubbi.
Non restava che incrociare le dita.
* * * * * *
Il mattino dopo, 4 novembre 5401-PF
 
Dopo una notte senza sogni e una doccia non volutamente gelata, uscimmo per andare a colazione. Avviammo la saracinesca e aspettammo tutti gli otto secondi che ci volevano perché si aprisse completamente.
Lì per lì percepii qualcosa di strano, ma non capii cosa. Poi misi a fuoco il muro di fronte alla porta della cella. Affissa all’altezza delle anche c’era una striscia di nastro carta.
 
Sicuro! Quando vuoi!
 
Mi avvicinai. Non era firmata, ma non avevo dubbi che fosse per me. Il nastro e il lapis erano i mezzi che avevo usato nel Magazzino.
Strappai il messaggio e lo appallottolai. Poi sentii tirare la tuta.
 
Che cos’è?
 
«Niente.» risposi in automatico. Takami abbassò la mano e non chiese altro.
Ci avviammo al Padiglione 3, quello con la mensa, e una volta là ci riunimmo con Clank. Era già seduto e ci aspettava con in mano quello che sembrava un bicchiere pieno d’olio.
«Al è ancora intrattabile?» chiesi, mentre ordinavo la pappa grumosa. Lui fece spallucce.
«Non proprio, ma è uscito presto. Ha detto di avere da fare.»
Non servirono commenti. Una risposta vaga di solito nascondeva (male) qualche misfatto. Al era troppo onesto. Sinceramente, non mi spiegavo come avesse fatto a uscire indenne dalla faccenda dell’hacker.
Arrivò la pappa grumosa. La fissai per qualche secondo, arricciando il naso per il disgusto. Nello stesso tempo Takami riempì il cucchiaio e se lo infilò in bocca. La guardai masticare e ancora una volta pensai che io quel coraggio non ce l’avevo. Galassia. Era viscosa e dentro c’era roba sabbiosa che si attaccava al palato. E i grumi erano grigio-rossicci e sembravano calcoli renali.
«Farò come mi hai detto.» dissi di getto, attaccando gli occhi su Clank.
«Mi fa piacere.» replicò lui. «Quindi tornerai là oggi? Perché ho l’impressione che anche Al si sia rintanato in quel posto.»
«Lo credo; ricorda il RoboShack.»
 
Cos’è un RoboShack?
 
«Il negozio di Al, dove ci costruisce e ci ripara i robot. Si trova a Metropolis.»
Lei, di risposta, annuì. Presa nota dell’informazione, riprese a mangiare coi pensieri persi altrove.
* * * * * *
Cocobìt  – che pretese di essere chiamata Coco – mi mise subito all’opera, e così nei due giorni che seguirono potei intravedere Al che lavorava in un angolo.
Credevo che le cose stessero andando bene; che stessero prendendo la via della riconciliazione. Ero abbastanza sicuro che Al avesse visto il video quella mattina, quando aveva armeggiato per un po’ con le cuffie appoggiate ad un orecchio. Da quel momento aveva continuato a lanciarmi occhiatine di sottecchi, ma non mi aveva ancora allungato la microcard e io non avevo intenzione di finire prima la sceneggiata. Dunque aspettavo, e intanto mi ero fatto anticipare qualcosina su Sarathos da Coco. Lei lo chiamava “la madre dei leviathan”, e da quello che mi raccontò sulla pista desiderai ardentemente di possedere ancora il mio arsenale.
«Già. Sarathos è un bel fattore scremante.» confermò Coco, ricomponendo abilmente l’albero del cambio. «Però non sei messo così male, dai.»
«No. Non sono messo così male.» ripetei per convincermi di quelle parole.
Una breve luce vicino all’ingresso segnò l’arrivo di qualcuno, ma non ci diedi peso. Però poco dopo udii dei passi irregolari avvicinarsi, e allora m’incuriosii.
Era Takami.
Teneva una manica sotto il naso, e con l’altra mano portava in braccio Clank. La faccia di lei era una crosta di sangue; gli occhi di lui erano spenti. La chiave che avevo in mano scivolò a terra.
«TG!» chiamò Coco, sconvolta, accorrendo con me. La xarthar le spostò i capelli dagli occhi e le poggiò le mani sulle guance, controllando come stava. Io le sfilai Clank dalla mano sinistra, e fu di male in peggio. Il braccio di Takami, privato del peso, ciondolò contro il fianco e dalla mano gonfia scivolarono le gambe di Clank. Le raccolsi; erano piegate in maniera deforme.
«Cos’è successo?» sussurrai, conoscendo la robustezza di quella lega.
Takami guardò Coco e guardò me, lo sguardo stordito, poi tolse la manica da sotto il naso. Una scia di sangue corse giù dalle narici sulle labbra e sul mento, ma lei lo ignorò. Si toccò il vambrace, scosse la testa e per poco non si afflosciò come un sacco.
«I madh Aku!» bofonchiò la xarthar, costringendo Takami a guardarla negli occhi. «Vieni piccola, siediti.»
La accompagnò al banco e la mise a sedere contro la parete. Per maggiore privacy spostò anche il carrello del tornio di modo che fosse più nascosta alla vista. Takami evocò uno schermo verdolino, ma dal proiettore emerse un quadro sfrangiato e sfrigolante. Rimaneva funzionante solo un angolo; lo spazio era appena sufficiente per una lettera.
 
S
 
«Dopo.» le disse Coco in tono fermo, coprendo il proiettore con la mano. «Ora pensiamo al tuo naso. China un pochino la testa e stringi così.»
Il banco accanto quello col kart era vuoto. Ci poggiai le gambe deformi e poi, con tutta la cura che possedevo, posai Clank.
Fu quel gesto a far scoppiare la mia bolla di stordimento interiore. Realizzai che metà squadra era stata pestata e che il mio migliore amico era disattivato, danneggiato oltre ogni mio conto più tetro e forse irreparabile.
Strinsi i pugni, i denti visibili e una rabbia che non provavo da tempo. «AL! VIENI SUBITO QUI!»
Si girò più di una persona. Si girò anche Al, che piantò lì le cuffie e corse al banco. La sua espressione mutò di passo in passo: timore, sorpresa, sconcerto, preoccupazione. Quando vide le gambe staccate farfugliò un’esclamazione, e quando vide i fili strappati che uscivano dalle anche impallidì.
Materializzò un avvitatore e aprì lo sportello sul ventre di Clank. Poi materializzò uno strumento per la diagnostica, quello che sfoderava nei casi seri.
Mormorò tra sé per minuti interi. Io lo fissai, in silenzio, cercando di estrapolare informazioni. Un attimo erano pezzi funzionanti, e allora prevaleva la preoccupazione; quello dopo erano pezzi rotti, e allora la rabbia mi gridava di trovare il bastardo e staccargli la testa.
Avvertii un tocco sulla spalla. Era Coco. «Ho fermato il sangue, per ora.»
Registrai a malapena l’informazione e tornai a fissare Al. Mi concentrai sulle sue mani, sul modo con cui sceglieva ed esaminava i pezzi. Emanava un’aura di competenza assoluta.
Coco strinse leggermente la presa sulla spalla. Il suo tono perse la gentilezza. «Guarda che hai due persone di cui occuparti.» Continuai a fissare Al. La sua voce, poco dopo, era risentita: «Ehi, lo conosci o no il codice del primo soccorso? Gli organici hanno la precedenza.»
Mi girai di scatto, allontanando la sua mano con un gesto brusco. «Nessuno viene prima di Clank. Nessuno!»
Lei si massaggiò il polso, nel punto dove l’avevo colpita. «Comprendo la vostra relazione, ma non sarà il robot a darti spiegazioni.» fece, asciutta.
«Non sarà manco quella là!» Indicai Takami, che sedeva inerte dove l’avevamo lasciata. «Guardala! Guardala bene: è inutile! Scommetto che Clank è ridotto così per colpa sua, ma lei non ci dirà nulla perché non ne è in grado!»  
Lo sguardo frastornato di Takami si fece più lucido, ma ero troppo preso dalla mia rabbia per notarlo. Continuai a fissare Coco in cagnesco. «E adesso lasciaci stare; ché una maestrina è l’ultima cosa che voglio tra i piedi!»
* * * * * *
Non mi curai che di Clank per tutto il tempo che ci rimase a disposizione. Tutto quanto, fino all’ultimo minuto, anche a rischio di beccarmi la scossa perché non ero presente all’ora prevista per il criosonno. Alla fine, però, tutto ciò che avevo potuto fare era stato trasportarlo a pezzi fino alla cella di Al. Non eravamo riusciti a riavviarlo, ma lui era certo che ce l’avrebbe fatta entro l’inizio della gara.
Quando rientrai nella 6-538 Takami era già in branda. Ne dedussi che Coco l’avesse riaccompagnata lì quando, alcuni minuti dopo che le avevo dato della maestrina,  si erano teletrasportate fuori dal Magazzino.
«Ohi. Sei sveglia?»
Nessuna risposta. Schioccai la lingua, e per l’ennesima volta mi dissi che dovevo sapere cos’era successo, e per l’ennesima volta mi pentii di non averla interrogata mentr’era seduta contro quel muro.
Mi lasciai cadere sullo sgabello, e notai con la coda dell’occhio un’ombra sul tavolo. Un accendino nero, lucido, con un fiore disegnato su un lato. Avevo visto spesso quel fiore negli ultimi due giorni: Coco lo disegnava su qualsiasi cosa le appartenesse.
Storsi il naso e lo presi per metterlo sul tavolo, ma mi resi conto che dell’accendino aveva solo il guscio esterno. Al posto della pietra focaia c’era un altoparlante e su una delle facce laterali erano stati ricavati una serie di piccoli tasti. Rec, avanti, indietro... quell’affare era un registratore. Schiacciai play.
«Un ultimo messaggio, “capitano”. Punto primo: ribadisco che la tua gestione della squadra è prettamente idiota. Mettere un robot prima di un organico vìola ogni buonsenso! Senza contare che la chiave del mistero era TG e l’hai abbandonata contro il muro.»
«Ma vaffanculo!»
«Punto secondo – finiscila con le ingiurie e stura le orecchie, nabbo. – Buon per il tuo androide TG sa stare al mondo. E dato che tu m’hai anche aiutato in questi giorni il patto che abbiamo stretto è questo: portatemi dell’akelite di qualità e vi ricostruirò le parti che Dynamo ha distrutto.»
Il ronzio dell’irritazione si placò di colpo. Drizzai le orecchie, focalizzato sull’aggeggio nero fra le mie mani. Dynamo?
«...Oh!, e punto terzo: eccoti un ultimo consiglio non richiesto. Togli la testa dal sacco e rivedi le priorità, o la madre dei leviathan si ciberà di te e di tutti quelli con te.»
La registrazione si concluse così, lasciandomi con quel nome piantato in mezzo alla fronte come un chiodo. Certo, l’irritazione ruggiva in sottofondo, ma quel nome ebbe il potere di farla passare in secondo piano.
Io l’avevo già sentito; solo che in quel momento non ricordavo né dove né il contesto.
Dynamo.
Sapevo solo una cosa: se l’avessi trovato... no, non “se”, quando. Quando l’avessi trovato l’avrei fatto a pezzi un osso alla volta. E trovarlo mi riportava all’altra questione, quella delle informazioni.
Mi voltai verso la branda di Takami. La coperta era tirata sopra la testa e l’unica cosa intuibile era la posizione, fetale, tenuta proprio sul limitare della branda. Che poi per quell’ora era una stranezza: dormiva davvero o mi stava deliberatamente ignorando?
Andai a scuoterla per la spalla. Se era sveglia di sicuro avrebbe reagito, e se si fosse svegliata avrei comunque colto l’occasione per farmi spiegare le cose.
Takami si girò. Proprio sulla schiena, proprio verso il vuoto.
«No!»
Spostai le braccia appena in tempo per afferrarla. Fu istintivo. La presi al volo, ma caddi in avanti e franammo sulla branda bassa. Da qualche parte, ticchettando, qualcosa rimbalzò sul pavimento.
«Ottimo...» borbottai a denti stretti, rialzandomi con un dolorino al retro del collo.
Lo steward monoculare comparve sul monitor in quel momento. «Gladiatori della 6-538! Sarathos, che meraviglia! Eravate così emozionati che non avete manco cenato, eh?»
Fu tutto ciò che riuscii a sentire, perché la cella cominciò a produrre quel casino di stridii, sbuffi e colpi che prima di Catacrom ci aveva tormentato. Disperato, presi il cuscino di Takami e me lo calcai sulle orecchie. Con quello, stavolta, l’esperienza fu meno drammatica.
Monocolo, imperterrito, continuò a tenere i sensori sui fogli e non si accorse di nulla. Quando il casino infernale cessò – e mi parve un’eternità dopo – feci persino in tempo a rimettere il cuscino a posto, tanto Monocolo era preso dalla sua roba, e comunque non si accorse di nulla.
Alla fine, quando rialzò la testa fu evidente che si aspettasse una risposta. Non sapendo la domanda, abbozzai: alzai il pollice e sorrisi a metà. Fu sufficiente. Tutto contento, chiuse il video mentre chiamava il collega. Sullo schermo, di nuovo, rimase solo un conto alla rovescia poco sopra il minuto.
A me, tutto scontento, rimase solo da sdraiarmi sulla branda alta e aspettare il gas del criosonno. Galassia, che situazione schifosa.

 

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Capitolo 19
*** | Capitolo 15 | Sarathos, la Madre dei Leviathan ***


[ 15 ]
Sarathos, la Madre dei Leviathan
(Dove la gara principale è l’ultima delle cose da raccontare)
 
«BIIIP!!!»
Mi tirai a sedere ed ebbi un attimo di disorientamento. L’odore chimico e la visuale dall’alto mi mandarono in confusione, poi la mente ricollegò i fatti. Ero nella branda di Takami, ero su Sarathos e Galassia quel fischio ha rotto le palle.
«E basta!» sbottai all’olovisore. Il fischio cessò.
«To’, ho scoperto una cosa nuova...» mormorai, buttando le gambe fuori dalla branda per saltare a terra.
CRACK!
Qualcosa si ruppe sotto il tallone. Tirai su il piede: il pelo era imbiancato e per terra, fra la polvere di ciò che rimaneva, c’era un gessetto.
E questo?
Lo raccolsi. Era lungo una falange e aveva un’estremità smussata. Mi resi conto dopo un istante che non era un gessetto, ma una pillola spezzata.
Spazzai l’aria con la coda; un gesto nervoso. Un medicinale così fuori posto non prometteva bene. Me l’infilai in tasca con l’intento di farla analizzare a Clank... salvo poi ricordare che Clank era fuori uso.
Guardai Takami, che dormiva ancora. Il suo respiro aveva la cadenza lenta del sonno profondo. La cosa mi fece strano: gli effetti del criosonno sarebbero dovuti sparire con la sveglia audio-chimica. Ripensai a Catacrom e mi dissi che sì, quella volta si era svegliata con me. Ma stavolta...
Che sia sonnifero?
Rivolsi un’occhiata interrogativa alla bambina. Perché prendere il sonnifero prima del criosonno? Non aveva senso!
In ogni caso dovevo svegliarla. Mi chinai su di lei e la scrollai per una spalla. Non successe nulla. Non cambiò ritmo di respiro né profondità, niente. Ci sarebbe voluto ancora del tempo.
Avrei dovuto esplorare i dintorni, ma la testa rispondeva col ritardo di chi dorme male. Scelsi di buttarmi sotto la doccia, sperando di riuscire almeno a riallineare le capacità di risposta. Avevamo l’impianto più vecchio delle galassie, ma funzionò: quando uscii, asciutto e pulito, ero pienamente operativo.
Al tavolino c’era Al. Wow, l’acqua nei tubi faceva tanto casino che non avevo sentito muovere la saracinesca. Ci scambiammo un cenno.
Appoggiato davanti a lui c’era il collare audio di Takami. Cos’era, un’offerta di pace?
Si accorse della mia espressione. «Ci serviranno spiegazioni, no? Se non parla e non scrive siamo fregati.»
Il fatto che le volesse da lei mi fece accelerare il battito. «E Clank?»
Al si girò a guardare l’ora sull’olovisore sopra la saracinesca. Lo imitai, scoprendo che erano le nove appena passate. Abbastanza presto, tutto sommato.
«Vieni; ti racconto strada facendo.» disse, alzandosi. «E porta l’onnichiave; ci sarà utile.»
Oh be’. Quelle non erano richieste.
Andai con lui.
* * * * * *
«È in carica.»
Mi voltai di scatto verso Al.
«Clank, intendo. Ora è in carica. Ho fatto del mio meglio, ma... sarò onesto, coi mezzi che ho in cella non posso ripararlo. I giunti iliaci sono spezzati, e le gambe... le hai viste. Andrebbe rifatto tutto da capo. Per ora ho modificato la sua sedia e rappezzato l’hardware. Io...» mi lanciò un’occhiata per indagare l’umore. «Mi dispiace, non posso fare altro.»
Gli assestai due pacche sulla schiena incurvata. Non avevo parole per confortarlo, ma gli ero grato – profondamente grato – per lo sforzo.
«Spero che alla stazione spaziale si riesca ad ottenere qualcosa di meglio.» aggiunse sottovoce.
Ripensai di riflesso al messaggio registrato di Coco. Le parole per Al mi vennero in bocca da sole, ma mi morsi la lingua. Il corridoio era troppo esposto per parlare. «Ce l’avremo.» risposi soltanto, guadagnandomi uno sguardo incuriosito.
Al mi guidò senza chiedere attraverso i corridoi, e io lo seguii senza curarmi di dove andassimo. L’aria filtrata era dolciastra e dalle vetrate si notava una recinzione militare di prim’ordine davanti a una piana d’erba e melma.
Sarathos era selvaggio. O almeno così immaginai, non vedendo alcun segno di civiltà oltre la base.
«Vieni, di qua.» fece all’improvviso il mio tecnico, svoltando in un corridoio leggermente più stretto del nostro. I muri, dopo la prima curva, si fecero di cemento grezzo e l’aria divenne sensibilmente più umida. Solo allora mi resi conto che non stavamo andando alla cella con Clank.
«Dove andiamo?» chiesi, accigliato.
«A cercare armi.» rispose lui. «Non possiamo comprarle, ma non vuol dire che non possiamo averle.»
«Cioè stiamo andando a noleggiarle?»
Dopo l’esperienza con la tuta w.a.v.e non ero certo entusiasta di quell’opzione. Non lo ero per nulla.
Al fece schioccare la lingua sul palato. «Io direi più “acquisizione di seconda mano”. Vedrai.»
Aggirammo una serie di curve a gomito e raggiungemmo una porta solitaria, diversa dalle altre per una grata all’altezza delle caviglie. Al alzò il pugno e bussò con cortesia, prima di abbassare la maniglia ed entrare.
Dietro quella porta c’era un’anticamera. Un buco stretto e lungo, col pavimento unto e un odore simile a quello del Magazzino. A far capire la sua funzione, su un lato, c’erano una scrivania e un assistente robotico. Dietro di lui c’era la cosa tenuta meglio di tutto il posto: un consolle a parete. Solo guardarla mi dava uno sgradevolissimo senso di deja-vu.
Il robot – evidente riciclo di un combattente DreadZone – ci riservò uno sguardo incuriosito. «E voi sareste...?»
«Team Darkstar.» ci presentò Al. «Vorremmo il permesso di rovistare nel compattatore.»
Che COSA?!
Bastò quell’ultima parola per farmi leggere la stanza in modo totalmente diverso. La morchia che punteggiava il pavimento assunse un perché, e così anche l’odore dell’aria – filtrata, sempre, ma più pesante. E poi, in ultimo, la consolle dietro la scrivania. Certo che aveva un’aria familiare! Era lo stesso modello che Basher aveva manipolato per ammazzare Skìos!
 
Spazzai l’aria con la coda. Riciclo cominciò a rifilarci un pezzo del regolamento e io lo seguii attentissimo, anche se fu un pippone di “questo non potete prenderlo, quello nemmeno e quell’altro materiale grezzo neppure”. Potete immaginare quanto me ne fregasse, ma ogni cosa andava bene per coprire i sensi di colpa. Dovevo solo concentrarmi sul discorso. Sul discorso e nient’altro.
«...E, se avete compreso quanto ho detto, ho appena ricevuto il permesso di farvi entrare.» asserì in ultimo il robot, accennando alla seconda porta, unta di morchia come il pavimento tutt’intorno. «Se accettate un consiglio, io comincerei a guardare dall’angolo sudovest. Negli ultimi giorni li scaricano lì i cadaveri.»
Vidi Al deglutire a vuoto. Ringraziai per lui e ci avviammo oltre la porta, sotto lo sguardo perplesso di Riciclo che, facendo il suo dovere, chiuse il portello dietro di noi.
La prima zaffata fu un pugno allo stomaco. Dolce, ferro, alcol, metano, piscio, grasso, vomito, benzina e decomposizione. Mi coprii il volto e trattenni un conato a stento. Al non fu così bravo, o forte, o fortunato – dite come volete. Si piegò in due e vomitò la colazione.
Mi guardai intorno, prima al mio livello e poi in alto lungo le pareti, cercando freneticamente i fori di ventilazione. L’aria bruciava le narici ogni volta che inspiravo, ma non avevo il coraggio di respirare dalla bocca.
Al mi diede una pacca sulla spalla e, gesticolando a scatti, m’indicò qualcosa in alto. Ed eccoli lassù, i fori: una lunga striscia di grate grigie a quindici metri dal suolo.
Mi crollarono le spalle. Se la porta era stagna e le bocchette d’areazione erano così in alto...
Cazzo, è una camera a gas!
Mi lanciai contro la porta da cui provenivamo, chiusa da Riciclo e mimetizzata dal lerciume che copriva tutto il muro. Presi il portello a pugni, facendo più casino che riuscii.
Galassia, mi mancava l’aria. Dietro di me Al vomitò di nuovo. Sentii un conato salirmi l’esofago e inghiottii saliva.
Andiamo, apri! APRI CAZZO!
Mi sembrò di battere pugni per un’eternità quando, all’improvviso, il battente si mosse e l’anticamera tornò raggiungibile. Balzai dentro e mi appoggiai al muro con entrambe le mani, inspirando a pieni polmoni per disintossicarmi. L’aria filtrata non fece il miracolo che speravo: a metà del primo respiro fui assalito da un conato e vomitai una chiazza di schiuma gialla.
«Eewww.» fu il commento schifato di Riciclo. «Ora dovrò pulirlo.»
Strofinai il dorso della mano contro le labbra, pulendole alla meglio, e mi drizzai. Se il robot aspettava le mie scuse lo lasciai deluso. «Sì, be’, vedi: ci hai spedito in una camera a gas. Non potevi aspettarti altro, credo.»
«Camera a gas?» replicò il robot, perplesso. «Non saprei; non ho l’olfatto. Ma i contatori sono tutti nella norma.»
Ci indicò un punto preciso della parete. Lì, dentro un quadro, si vedevano alcuni manometri; tutti con la lancetta che puntava lo spicchio verde. Al si avvicinò per controllare meglio.
«Le lancette sono inchiodate!» rantolò, sdegnato.
Riciclo non si scompose. Raggiunse il suo tavolo e dopo aver rovistato in un cassetto ci fece vedere due maschere O2.
«Sentite: il punto non è se gli indicatori funzionano. Il punto è l’evidenza che senza queste non potete entrare.» e batté il dito sulla visiera di una. «Potete noleggiarle da me o rinunciare al compattatore; la scelta è vostra. In nessun caso, però, io sono responsabile delle conseguenze.»
Giuro: se avessi pensato alle achta l’avrei devitalizzato all’istante.
* * * * * *
Dieci minuti dopo
 
Con le opzioni lasciate da Riciclo avevamo dovuto piegarci. Indispettiti (e alleggeriti di duecento punti) eravamo rientrati nella discarica. L’obiettivo: trovare armi, o parti di armi, da aggiustare e utilizzare nell’arena.
«Secondo te ci sono cimici nelle maschere?» domandai. Le prime parole dopo una fila di lamentele.
«Ah, ne sono convinto.» Al infilò le mani nei rottami e spostò pezzi di ferraglia senza valore. Tutto ciò che estrasse fu il braccio strappato di un droide ausiliario. Cominciò a rigirarselo fra le mani, studiandone la forma e soffermandosi sui cavi strappati alla piega del gomito. «Ma non credo che siano cimici» bofonchiò lentamente, prima di riprendere la solita velocità. «C’è troppa lega metallica perché il segnale passi il muro. Avrebbe più senso se fossero registratori.»
«E il nostro amico qua fuori analizzerà la chiacchierata quando gli renderemo le maschere.» conclusi.
«Credo.»
«Che schifo...» Non vedevo l’ora di parlargli, e invece guarda lì.
Al mi fece segno di aspettare. Si rovistò nel camice e ne tirò fuori un taccuino e una matita. Scribacchiò velocemente e mi mostrò il foglio.
 
Se troviamo una bladeball posso neutralizzare i registratori.
 
Annuii.
Sganciai la chtanna dalla cintura e, nel momento in cui la impugnai, apparvero le achta. Fluttuarono via, ma non guardai dove andassero. Mi concentrai sulla chiave, sullo spostare un po’ di roba col magnete. Qui c’erano ferri deformi, lì cavi a casaccio, là – ugh – due gambe mozze...
Strinsi i denti. Le ossa che sporgevano dalla carne a brandelli stimolarono un conato, ma non venne su nulla. Merito dell’incursione senza maschera: non mi era rimasto nulla da rimettere.
«Gah!»
Alzai immediatamente lo sguardo. Al lasciò cadere quello che aveva appena raccolto: un torso di armatura...e di gladiatore. Come toccò il cumulo perse una manciata di vermi. Il simbolo di DreadZone rimase voltato verso il soffitto, a brillare come un cerino contro la livrea corrosa. Sembrava un fuoco fatuo.
Un brivido mi accarezzò contropelo. In risposta, le achta schizzarono dentro il moncone di torso. Il simbolo si spense definitivamente.
«Pessima idea, venire qui è stata una pessima idea...»
Sempre più verde in faccia, armeggiò goffamente coi lacci della maschera O2. Quando riuscì a slacciarli si piegò in due e vomitò di nuovo.
Povero Al.
La sua idea era più che valida; solo che... be’, avevamo fatto i conti senza l’oste. Ci eravamo illusi che i cadaveri sarebbero stati interi; che sarebbero stati facilmente evitabili.
Illusi, in ogni senso.
* * * * * *
Dopo che Al si fu rimesso la maschera girai la chtanna e gli offrii il manico. Lui prima guardò la chiave e poi me, con la faccia di chi non capisce.
«Faccio io a mani nude. Prendi qua.» gli dissi.
Lui fece un cenno che non so se fosse un sì o un grazie. Comunque, quando afferrò l’impugnatura, le rune che brillavano sulla chtanna si spensero. Ciliegina sulla torta, quando provò a tirare il grilletto della magnetizzazione non ottenne nulla.
Bofonchiò qualcosa sulla sfiga e si strinse nelle spalle. Certo, magnetizzando i pezzi sarebbe stato meglio, ma andava bene lo stesso anche da bastone. Bastava non trovarsi in mano un altro pezzo di cadavere.
Scavai io a mani nude, almeno finché portai alla luce (si fa per dire) un pezzo di ferro che sembrava una forcella. Con quello in mano mi rimisi di buona lena, stavolta spostando le cose con un movimento a ventaglio.
E sventaglia di qua, sventaglia di là, dopo mezz’ora passata a scartar cadaveri e ferraglia...
«Eccola!»
Parola magica. Ecco l’aggeggio malefico; ritorto, puntuto e mezzo sciolto dall’acido! Che poi in gara se ne trovavano a bizzeffe; non mi sono mai spiegato perché lì faticammo tanto.
Al la tirò su con aria trionfante, subito prima di togliere pinza e cacciavite dalla cintura porta attrezzi. Aprì la bladeball e ne estrasse le lame, i cavi, una batteria... insomma, la smontò per bene. Dopodiché rimise mano alla cintura e tirò fuori dei componenti elettronici. Guardandoli, immaginai che avesse sventrato qualcuna delle telecamere a bozzolo che teneva sotto il bancone.
A differenza mia Al non si perse in considerazioni ma cominciò a mettere insieme i pezzi. All’inizio rimasi a guardarlo; poi – non comprendendo lo schema che aveva in mente – mi rimisi a sventagliare rottami alla ricerca di qualche arma buttata via.
Cambiai montagnola di rifiuti per lasciare ad Al il suo spazio e mi portai su quella di sud-est, dove trovai per lo più pezzi di doppie vipere e qualcosa che credetti appartenesse a un cannone al magma. (Forse una ghiera di supporto alla canna?)
La gettai alle mie spalle, trovandola inutile. In quel momento, però, mi cadde l’occhio su un’elsa ben nota. «Aspetta, quella è una plasmafrusta?»
Clank aveva detto che i colpi della mia coda armata dipendevano dalle batterie della plasmafrusta che avevamo modificato... doppia batteria poteva significare doppio dei colpi! E data l’indiscussa utilità della modifica... «Tu vieni con me, punto.»
La raggiunsi a passi larghi, affondando ogni volta fino alla caviglia, e la tirai fuori con uno strattone. L’elsa era intera, ma di tutto il resto era rimasto solo il primo metro.
Oh be’, poco male. Non era un decimator, ma era comunque un elemento utile. La buttai alla base della montagnola e proseguii rovistando finché Al mi chiamò di nuovo. Allora mollai tutto e tornai sul cumulo di nord-ovest.
Davanti a lui non c’erano più pezzi sparsi. O meglio, da una parte c’erano ancora componenti scollegate, ma ad attirare l’attenzione era l’aggeggio che giaceva davanti alle sue ginocchia. Mi si alzò un sopracciglio che nemmeno me ne accorsi. «Uno stickman?»
E pure uno brutto, fatto di cavi a nastro e... gomma da masticare? Sul serio???
Al mi indicò il suo blocchetto.
 
Dammi la maschera. Ci vorrà un minuto.
 
Storsi il naso. Non volevo tornare a respirare l’aria fetida di quel posto. Non volevo nemmeno che il mio naso tornasse a contatto con quella miscela nauseante di gas. Eppure, contro tutto quello che provavo, portai una mano al laccio e aprii la chiusura. Presi un bel po’ d’aria prima di staccare la maschera dal volto e fissai Al con un messaggio chiaro scritto in faccia: meglio per te se ti sbrighi.
Fu di parola.
Infilò la lama della bladeball fra l’involucro esterno e il rivestimento interno della maschera, fece leva e discostò le due parti, mettendo a nudo il filtro e tutto ciò che ci stava intorno. Finsi di non vedere che il filtro era color muschio (di norma un filtro sporco è grigio; verde significa che sta per prendere vita). Mi concentrai sui movimenti di Al, che puntò uno scatolino fissato nella guancia destra. Lo aprì, rivelando un circuito audio, e lo richiuse borbottando qualcosa come “sì, è lui...”
Appiccicò con la gomma da masticare le estremità dello stickman su due lati dello scatolino e lasciò lunga una delle propaggini di filo, piegata in due in modo che, quando richiuse il tutto, dalla maschera uscisse un occhiello.
Indossai la maschera modificata in un baleno, soffiando l’aria nel momento stesso in cui la guarnizione mi sfiorò il volto. Filtro verde? Chissenefrega, avevo bisogno di aria.
«Adesso siamo al sicuro. Vedrai che scherzetto gli combineremo, al nostro amico.» fece Al, porgendomi indietro anche la chtanna. «Trovato niente, prima?»
«Solo un pezzo di plasmafrusta.» Ripresi la chtanna e le achta si accesero intorno alla mia mano. Al le guardò storto.
«Dannato affare, con me non ha funzionato...»
Ridacchiai nervosamente.
A quel punto lui si ricordò di qualcosa e, dopo aver rovistato nelle tasche del camice, mi passò una micro card.
«Dato che possiamo: ecco la tua richiesta.»
Non capii. Lo guardai come se gli si fosse gonfiata la testa. «Ehm...»
«Il filmato.»
E a quella parola, in ritardo, ebbi l’illuminazione.
«Ah! Giusto, il filmato!» Calai lo sguardo sugli intagli del chip e li studiai con attenzione. Il tono tornò basso in un lampo. «Lo hai visto?»
Lui infilò le mani in tasca e grugnì una sillaba frustrata. «Te l’ho detto che sono arrugginito... e non consegno lavori meno che decenti.» disse a denti stretti. «Chiamalo effetto collaterale.»
«Ah, ma in realtà è perfetto. Ha già raggiunto il destinatario.» Guardai il circuito sulla micro card per l’ultima volta, prima di gettarla su una lamiera e friggerla con una scarica della chtanna.
A quel punto gli spiegai perché avessi scelto di farglielo vedere anziché dirglielo.
Gettare le carte in tavola fu liberatorio. E credo che, per quanto gli avessi raccontato delle balle, alla fine la sceneggiata fu la scelta giusta.
«Senti...» Al si prese un attimo per cercare le parole giuste. «Sarò onesto, quindi non prendertela. Capisco perché non la vuoi cambiare, e credo sinceramente che sia nobile. Però ci fai poco, da morto, con la nobiltà d’animo. Takami... la sua cupola è un pericolo, e tu ci sei invariabilmente sotto.»
«È per questo che ho preso la tuta di Rop’Roc.»
«Ma per favore! È un miracolo che non si sia bruciata!»
Mi morsi l’interno della guancia cercando di non tradire emozioni. Non era il caso di dirgli che si era bruciata senza che i suoi sensori lo segnalassero.
«Quella roba è troppo rischiosa. T’ha già ucciso una volta, e sappiamo entrambi che la botta di culo numero due non verrà mai.»
«Però non ho scelta. Non ho le armi giuste per i leviathan, e non ho manco i soldi per comprarle. Il Ruggito mi serve, qui più che su Catacrom.»
«E a noi servi tu.» rimbeccò, fulmineo quanto inflessibile. «Sai cos’ho davvero compreso all’Hiring Show? Il fatto che quando tirerai il calzino io e Clank perderemo la migliore – e forse l’unica – possibilità di andarcene. Poco ma sicuro verremmo divisi, e chissà se le persone con cui lavoreremo avranno voglia di andarsene di qui.»
Fece una pausa. Si guardò intorno, e quando tornò a parlare calò il tono. «Non è che “ce l’ho con lei”. Non voglio nemmeno importi scelte. Però vederti crepare per nobiltà d’animo non è un’opzione, e Clank è troppo influenzato per metterti del sale in zucca. Tocca a me, e puoi stare certo che farò tutti i passi necessari a tirarci fuori da qui.»
«E allora dimmi: supponendo di eliminare dall’arsenale anche il Ruggito, una volta nell’arena cosa dovrei fare? Ballare la macarena?»
«Ho tutti gli schemi per costruire le armi partendo dai resti gettati via. Troviamo i rifiuti giusti e avrai le tue armi.»
...Ah.
Mi guardai intorno. Intossicazione a parte quel piano era semplice. Efficace, pure. Mi piaceva.
«...E dimmi: di cos’è che hai bisogno, di preciso?»
* * * * * *
Due ore dopo avevamo i pezzi essenziali per un decimator B-6 e qualche materiale extra. Stanchi, soddisfatti e sporchi oltre ogni aspettativa, ci avviammo all’uscita. Provai a immaginare in che modo Al avrebbe tirato fuori un’arma da quelle cianfrusaglie, e mi ricordai dell’accendino-registratore fra un ponte mentale e l’altro.
Gasp! «Aspetta!»
Troppa foga. Allarmai ancora di più un già oppresso Big Al. «No, scusa, non è così grigia.»
 Sguardo confuso di risposta. Continuai: «Hai presente quando prima hai detto di Clank? Del fatto che andrebbe ricostruito da capo?»
«...E quindi?»
«Ieri sera, quando sono tornato in cella, c’era questo.»
Gli mostrai l’aggeggio di Coco e gli feci ascoltare il messaggio: la voce saccente della xarthar mi rimproverò di nuovo e riassunse l’accordo “buono per il mio androide”: akelite in cambio della ricostruzione degli arti.
«Akelite? Diamine, mica ci cresce in tasca!»
«Chissenefrega di quella roba! Dovremmo cercare di capire chi è Dynamo!»
«Basta fare una ricerca nel database; non è certo un problema!» mi rimbeccò. «Ma l’akelite... cazzo, quella sì!»
Mi prese in contropiede tutta quella veemenza. Per cosa, poi? «Sul serio è una roba così difficile da trovare? Anche sottobanco?»
«È rara... dannatamente rara già fuori da qui, figuriamoci in questo schifo di buco.» Ci pensò su nel tempo di un respiro profondo. «E poi è rognosa da lavorare. Ma rognosa tipo “se vuoi un lavoro con quella roba me lo paghi dieci volte tanto”.»
«Oh.»
Non avevo mai avuto il sentore che Cocobìt volesse tirarmi una fregatura, ma in quel momento fu esattamente ciò che pensai. Se era così rara e così rognosa che senso aveva chiederla?
Mi persi a riflettere su questa prospettiva, quando Al mi poggiò una mano sulla spalla.
«Penseremo a qualcos’altro per Clank. Ci sono tante leghe che possiamo riutilizzare.»
Alzai lo sguardo e mi trovai di fronte un’espressione amara, ma non incarognita quanto prima.
«Vogliamo andare?»
Annuii. Di sicuro non volevo restare.
«Dai, che è ora dello scherzetto.»
Lo guardai infilare un dito nell’anello di cavo che penzolava dalla maschera. Tirò con delicatezza, sfilando pochi centimetri alla volta, finché dalla fessura non uscirono gli estremi e la gomma masticata.
Provai ad imitarlo, ma non feci più che infilare il dito nell’anello. Mi prese l’avambraccio con una mano e con l’altra si batté il petto due volte. Ci penso io. Allargai le braccia con una smorfia. Prego, fai pure.
Ci pensò lui a sfilare il cablaggio abusivo. Prima udii un Toc arrivare dalla curva della mascella; poi ci fu un Clack quando, dopo aver estratto tutto, pizzicò i due versanti della maschera per richiuderla. Dopodiché rimosse la gomma dai cavi con cura certosina e se ne disfece fra la spazzatura. I cablaggi, invece, li infilò nella carcassa mezza sciolta del decimator di recupero.
A quel punto bussammo contro il portone bisunto. Riciclo ci aprì con quella sua faccia da schiaffi e individuò subito il nostro bottino. Be’, non che il camice usato come un sacco fosse esattamente antisgamo. Così ci indicò la scrivania. «Posatelo là per il controllo. E dovete ridarmi le maschere.»
Eseguimmo. Poggiai il camice sul suo tavolo, poi procedetti a slacciare le fibbie che tenevano la maschera O2 sulla mia testa. L’appoggiai accanto a quella di Al con più forza del dovuto. «Per quanto le abbiamo pagate dovrebbero essere nostre.»
«Potevate contrattare.» rispose senza manco guardarmi. Continuò a disfare il sacco improvvisato, e quando arrivò al contenuto emise un fischio. «Un decimator, interessante. E... una plasmafrusta?»
Sollevò il moncherino che avevo trovato all’inizio e lo fece dondolare mollemente. «L’articolo 75, sezione K, comma 29 del regolamento stabilisce che non si possano fondere armi tra loro.»
«Lo sappiamo.» replicò Al. «Ma il giunto basale è l’unica cosa utilizzabile. Ci verrà utile.»
«Hm...»
Non c’era un granché da obiettare. Non avevamo preso nulla che fosse vietato, ragion per cui Riciclo fu costretto a lasciarci andare.
Abbandonammo i corridoi di cemento grezzo e tornammo fra i tubi di vetro. Prendemmo la direzione da cui eravamo venuti e immaginai che stessimo tornando alla mia cella. Invece, a un certo punto, i corridoi cominciarono ad avere dei tratteggi gialli in terra.
«Dove andiamo?»
«Da Clank.»
Non servì altro.
* * * * * *
Lo seguii fino alla loro cella. L’aria, dentro, odorava di metallo bruciato. Clank era là, steso sul bancone. Un grosso cavo arancione, derivato dal soffitto, si infilava dentro la sua pancia. Mi domandai se fosse già sveglio.
«Oh, eddai.»
Il tono scontento di Al, fermo davanti allo schermo, conteneva tutti gli avvertimenti necessari. «Solo il trenta percento? Dev’esserci una dispersione da qualche parte.»
 Aggirai il bancone per avvicinarmi senza stare fra i piedi. Al mollò a terra il camice coi pezzi e scollegò il cavo arancione.
«Posso aiutare?» gli chiesi.
«Passami il tester, è là dietro.»
Feci come detto, poi Al si zittì. Lo guardai armeggiare per un po’, mentre mugugnava tra sé di calcoli, impedenza (credo) e altre cose che non riuscii a distinguere.
Rimasi in attesa a lungo, passando strumenti di tanto in tanto. Al era un vulcano di borbottii: ragionava in continuo a bassa voce, e nel frattempo saltava dal tester a qualsiasi attrezzo gli servisse. Sembrava schizofrenico, ma col suo modo di fare trovò l’origine della dispersione.
Riparammo il guasto, dopodiché ricollegai il cavo arancione alla batteria di Clank. Non rimaneva che attendere, così noi due andammo a pranzo.
* * * * * *
Dopo che avevamo cominciato a mangiare il discorso non aveva impiegato molto a tornare sul contenuto dell’accendino-registratore.
«...Più che altro Cocobìt fa un nome preciso.» obiettò Al. «Mi chiedo come faccia a puntare il dito. Ha dei video, o qualche testimone?»
Alzai le spalle. «Parla anche di un accordo con Takami. Se consideriamo com’era messa quand’è arrivata, come diamine hanno fatto a stringerlo?»
Al arricciò il naso. «L’ennesima cosa che la tua Spalla ci dovrebbe dire...»
Vero. «Menomale che hai riparato il collare.»
Sbuffo sarcastico. «Riparato? L’ho ricostruito da zero. La circuiteria era completamente fusa. Inservibile.» e infilzò la sbobba con la forchetta.
La sua espressione si corrucciò e, con la mente chiaramente altrove, portò il cibo alla bocca.
«Pensiamo a quello che possiamo sistemare.» dissi. «Aggiustiamo Clank e cerchiamo di costruire qualcosa dai rottami. Il resto verrà dopo.»
Al annuì, ma la sua mente rimase altrove.
* * * * * *
Passai tutto il pomeriggio con lui. Mentre Clank si ricaricava mi mostrò il database con le cianografie delle armi. I progetti a disposizione non erano completi (come avrebbero potuto lucrarci sennò?); però in quel che si poteva vedere, come aveva detto Al, c’erano tutti i dettagli per mettere insieme un’arma partendo dai rottami.
Il lanciagranate in nostro possesso non aveva più il rivestimento di colore sgargiante che definiva la bocca e il dorso, ma le barre di controllo e i loro alloggiamenti erano intatti. L’impugnatura principale era a posto; mentre quella ausiliaria la ricostruimmo con un tondino da venti che Al aveva in un cassone sotto al banco. Al momento dei cablaggi, invece, lasciai lavorare l’esperto. Io mi misi a una consolle e cercai nel database il volto del famigerato Dynamo.
Non sapevo come fosse scritto, quindi mi ci volle qualche tentativo, ma alla fine eccolo lì. Conundrum Dynamo: umano, mezz’età, elettrocineta. Studiai a fondo la sua fisionomia, imprimendo nella memoria i suoi occhi scuri, il naso aquilino e gli zigomi alti. Il cranio era ricoperto da un intricato tribale, e agli angoli della bocca si era fatto tatuare due zanne all’insù.
Nella foto si intravedeva un’armatura blu, il colore dei terzi livelli, i cosiddetti Crociati. E quando lessi il nome della sua Spalla, ricordai perché mi sembrava di averlo già sentito.
Dopotutto, lui era l’Eroe di Rop’roc.
* * * * * *
«E così hai scoperto chi è Dynamo. Interessante.»
La sensazione di smarrimento, quella volta, era giustificata. Era sicuramente il pianeta su cui avevo incontrato Chaos, ma... be’, non ci somigliava.
Non ricordo come avessi passato la soglia dell’âdytôn. Ricordo però che nell’âdytôn ero molto in alto; sulla terrazza di una scala antincendio. Unica vista: una zona distrutta. Guardando a destra e a sinistra si vedeva un margine circolare: all’esterno c’era la città; all’interno ciò che resta dopo un bombardamento. Niente palazzi fighi, niente viali alberati, niente rumori. Solo calcinacci, ferri torti e polvere. E quello fu sufficiente a mettere da parte Conundrum Dynamo.
Cos’era successo?
Chi era stato?
E che ne era stato della gente che vi abitava? Era per quello che non si vedeva mai nessuno? Erano migrati dopo il bombardamento?
 
Chaos, che era in piedi con me sulla terrazzina, si appoggiò con gli avambracci alla ringhiera.
«Un posto singolare, Ratchet di Veldin. Non credevo che ci avresti portati ai confini della negazione coercitiva.»
Tenni lo sguardo al suolo cercando di scorgere qualcuno, o un segno che qualcuno fosse là sotto. Risposi solo quando fui certo che non c’era nessuno. «È così che chiamate i bombardamenti voi?»
La donna di fumo arricciò il naso.
«Non mi esprimo con nomi impropri, mortale. Questo è un âdytôn, e come tale ha i suoi meccanismi. Primo fra tutti: esso rispecchia ciò che succede nel piano materiale. Se vivi felice l’âdytôn fiorisce; se vivi nelle difficoltà, invece, si crepa. E se vivi tragedie più grandi di quanto tu possa sopportare, ecco che s’innesca il collasso. Da qui si sviluppano due scenari.» contò uno «Il primo, in cui il collasso non viene fermato e il risultato è ciò che voi mortali chiamate “crepacuore”; oppure» contò due «il secondo, in cui l’anima reagisce bruciando parte della sua energia – che poi è la vita residua sul piano materiale – per distruggere il ricordo e tutte le sensazioni che stanno facendo collassare l’âdytôn. Una negazione del trauma che forza il collasso a fermarsi. Una negazione coercitiva, per l’appunto.»
Si girò a controllare la mia reazione, ma non avevo granché da offrirle. Era uno spiegone non richiesto, ero già educato a non sbottare di tagliare corto.
Poi Chaos si rivolse di nuovo all’orizzonte. «Non fraintendermi: anche se praticare la negazione coercitiva sembra ovvio, in realtà è un azzardo tremendo. Non è affatto scontato che vada in porto, ma quando lo fa...» Allungò le braccia, indicando il panorama davanti a noi. «...lo vedi anche tu, è una cicatrice indelebile. Però l’anima e il suo corpo mortale sopravvivono.»
Aggrottai le sopracciglia. «Woooww...»
Esagerai apposta l’apertura della bocca per massimizzare il sarcasmo. Chaos sbuffò una risatina.
«Mi piace il tuo temperamento, Ratchet di Veldin. Mi diverte. Con te forgerò un Araldo degno di questo nome, una volta sistemata la tua ignoranza.»
Seh, come no. Alzai le spalle. «Sono uno studente tremendo; lascia perdere.»
«Hai solo bisogno di sperimentare. Non c’è nulla di male in questo.» Mi accennò al ground zero ai piedi del grattacielo. «Vogliamo scendere? Sarathos merita un discorso dettagliato, ho un lavoro da fare e non ho voglia di stare scomoda.»
Adocchiai la porta, unico divisorio fra noi e l’interno del palazzo. Era tagliafuoco: non c’era maniglia e si apriva verso di noi. Alzai gli occhi al cielo e mi preparai al milione di scalini da scendere.
* * * * * *
In realtà scendemmo solo due rampe. Alla terza piattaforma non c’erano più gradini.
Mi sporsi appena e vidi che il resto della scala era accartocciato al suolo. Doveva essersi rotto nel disastro.
«Strada bloccata.» dissi, adocchiando la porta tagliafuoco sul pianerottolo. Anche questa era senza maniglia.
Chaos mi sgusciò di lato, si appoggiò all’ultimo moncone di ringhiera e mise il naso oltre il limite dei ferri strappati. Quando si tirò indietro mi rivolse un sorriso materno. «Molto bene, è ora della prima lezione.»
Alzai un sopracciglio. «”Aprire le porte con la forza del pensiero”?»
«Lôfko.» [1]
* * * * * *
DING!
Quando ripresi controllo di me ero in caduta libera. L’aria mi sferzava il corpo, le finestre scorrevano come la mezzeria di un’autostrada e il cumulo degli scalini caduti si avvicinava. Di fianco, testa avanti, Chaos mi accompagnava spandendo fumo come un missile in avaria. Mi disse qualcosa, ma il sibilo della caduta lo coprì.
Poi, di colpo, aprì un paracadute e sparì dalla mia visuale.
Quell’infame! Quella figlia d’un Qwark!
La mia mente annaspò alla ricerca di un’idea per uscire da lì, ma il pensiero che mi venne più spesso fu “È un sogno!”. Mi ci aggrappai con tutto me stesso. E quando fui a un soffio dal verificarlo... fui respinto. Come quando ci si tuffa, quando in immersione l’acqua ti rallenta, ti ferma e ti respinge verso l’alto. Provai la stessa sensazione, ma a differenza del tuffo non tornai a galla. Al contrario, dopo il punto di massima decelerazione una forza invisibile mi poggiò delicatamente al suolo. Solo allora la gravità tornò a posto.
Col peso tornato sulle gambe sentii le ginocchia tremare. Oh galassia..! Mi venne istintivo alzare lo sguardo al cielo, verso il terrazzino. Non ci arrivai. Vidi prima Chaos, e del balcone me ne scordai totalmente.
Altro che paracadute! Quelle erano ali!
La guardai con gli occhi a palla mentre atterrava; la osservai mentre sbatteva per l’ultima volta le lunghe penne da rapace, per poi ripiegarle contro la schiena come un qualunque xarthar.
«Come...» borbottai spaesato, ma ci rinunciai. A quel punto era ovvio che fosse un sogno.
«Prima lezione, Ratchet di Veldin. La lingua dei toksâme plasma ogni cosa, volontà compresa.»
* * * * * *
Dopo che ci fummo sistemati sotto un gazebo come la volta prima (Chaos era davvero patita!), la donna di fumo riprese la conversazione con la solita verve.
«Sai perché Sarathos non è mai stato terraformato?»
Alzai le mani in segno di resa. Dopo il salto non avevo voglia manco del sarcasmo.
«Il motivo è uno soltanto: akelite.» Drizzai le orecchie, e lei allungò le labbra in un mezzo sorriso. «Si estrae dalla coda dei leviathan, che sono la specie dominante del pianeta. Terraformarlo avrebbe distrutto il loro habitat naturale, e dunque danneggiato la miniera.»
Mi ritornarono alla mente le parole di Al su quanto quell’affare fosse raro. Ma se le cose stavano come diceva Chaos...
«Certo che stanno come dico io, mortale. O forse Catacrom non ti è bastato?»
Ullallà, qualcuno aveva i nervi scoperti...
«Cocobìt O’Can-do ti ha certamente riferito che i leviathan di Sarathos spruzzano acido dal pungiglione. L’acido matura lungo la coda, in alcune sacche in cui l’akelite fa da rivestimento e da catalizzatore. Sono quelle pepite e quegli strati di minerale a renderlo uno degli acidi più forti presenti in natura, e tuttavia, nell’arte metallurgica, quelle stesse pepite originano leghe anticorrosione di qualità suprema.»
Intuii che fosse un materiale di valore.
«Oh, sì, il valore pecuniario è altissimo. Però, sull’altro piatto della bilancia, bisogna mettere le difficoltà del gestire quelle bestie.»
«...Che suppongo non perdano akelite come i cervi di Palavar perdono le corna.»
Chaos allungò un sorriso sghembo. «Sei perspicace.» E si mangiò un pasticcino. «No, i leviathan non espellono akelite. Bisogna allevarli fino alla prima età adulta, poi ucciderli e infine scalcargli la coda.»
«Ugh.» Arricciai il naso, schifato.
«Guarda il lato positivo» rispose, divertita «Gleeman Vox ha delegato le operazioni di macello ai gladiatori. Il tuo unico scopo è abbatterli. È un compito semplice, soprattutto sapendo che il loro punto debole è la bocca.»
Cocobìt mi aveva parlato delle loro dimensioni e delle loro corazze. Tutto ciò che potevo concludere, considerando il mio arsenale, era “semplice proprio per nulla”.
«Dopo ogni gara gli inservienti portano le carcasse al centro per lo smaltimento. Padiglione Z, è lì che si trovano i minerali. Ci sono quattro magazzini, ma i nomi sulle porte sono ingannevoli. Entra nel penultimo. L’akelite più performante è in una vecchia scatola senza etichetta.»
All’improvviso, in lontananza, si spanse il richiamo di un corno da caccia. Chaos si girò verso est.
«Ah, è già ora.» cinguettò. «Sai, la Protetta ha deciso di ricorrere al lascito di Nokki di Mirion. Mi dispiacerebbe se tu glielo impedissi.»
Caddi dalle nuvole. Il cuscino di riccioli? «Quale lascito?»
La sua espressione si addolcì, le labbra si allungarono di nuovo in un rassicurante sorriso materno. «Vedrai.»
Oh no.
«Sîlko quê omjâso ûm tâ’, Ratchet pê Veldin. Ilt-âso fô micô-eämi jaïs-ekêdo. Fôljeö d’jî êf kûä jâsta setâle ve-d’jî mâm kâjjo ôffo Tsakîkko. Tâë, fô tsâlleno dâfko, nê pesôë.» [2]

[1|⇑] Salta.
[2|⇑] Resta qui ancora un po’, Ratchet di Veldin. Esplora la negazione coercitiva. Lascia che il tuo corpo riposi finché non tocca alla Protetta. Poi, la prossima volta, mi dirai.

 

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Capitolo 20
*** | Capitolo 16 | Sarathos: per Clank ***


[ 16 ]
Sarathos: per Clank
(Punti extra e akelite, ecco dove sta il sugo!)
 
Passato. Giorno dopo l’arrivo: 6 Novembre 5401-PF
 
Aprii gli occhi cullato dalla voce gracchiante dell’oloschermo. Il cuscino era bagnato; il pelo sul mio volto era umido. Mi tastai lo zigomo. Avevo pianto?
Nella cella con me c’era Al, che fissava l’olovisore con una faccia indecifrabile. Spostai lo sguardo sopra la porta, sul rettangolo luminoso: c’era un’armatura su un’hovermoto, che passava di anello in anello sotto il fuoco incrociato degli striker di Vox. Da come i phaser gli rimbalzavano addosso doveva essere un barricatore.
 
«Ooohhh! Ecco che infila il nuovo giro con molta grazia! Quest’umana non sarà veloce, ma non spreca neanche un’occasione! È come un colpo di cannone al magma col radiocomando!»
 
Nella mia rintronaggine fissai lo schermo per quasi un minuto. Il commentatore aveva ragione: quell’umana faceva una gara pulita. Con qualche svista, okay, ma senza strafare. Era quasi noiosa.
 
«Al, mi senti?»
Le mie orecchie si mossero appena. Quella era la voce di Clank. Si era ripreso!
Tornai a guardare il tavolino, o quello che rimaneva perché Al copriva quasi tutta la visuale. La voce di Clank non era la solita; sembrava uscire da un altoparlante... ma da quando ne avevamo uno?
Anche il kerwaniano smise di considerare l’olovisore. Lo vidi appoggiare un cacciavite e pensai: ah, ecco, se n’è costruito uno. Poi si rivolse all’altoparlante – o qualunque cosa fosse – e rispose: «Forte e chiaro. Sei online?»
«No, siamo fuori. Si è iscritta escludendo il supporto.»
«Be’, finora se l’è cavata benino.»
«Al! Sai anche tu che quello scudo è fragile. Dovremmo fare qualcosa.»
«Clank, no. Non infrangeremo tutte le regole.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Perché dovremmo infrangere le regole?» domandai; la voce arrochita che grattò fastidiosamente in gola. Al sussultò sullo sgabello e si girò di scatto.
«Ratchet!»
Misi i piedi giù dalla branda.
«Quella delinquente deve averti dato del sonnifero. Stai bene? Per Keplero, prima sembravi un cadavere.»
Mi appoggiai al tavolino. Come immaginavo c’era un altoparlante, ma non mi aspettavo che fosse il collare di Takami.
«Ratchet?»
«Proprio io. Come stai? Che ti è successo?»
«... Diciamo che non sono fiero del mio stato attuale. Quanto alla seconda domanda: non lo so.»
«In che senso?»
«Le mie banche dati sono danneggiate. L’ultimo backup risale a tre ore prima dell’aggressione. Neanch’io so cos’è successo.»
«Cazzo. Ci speravo.» Mi lasciai cadere sullo sgabello libero e fissai Al. «In che senso “sembravo un cadavere”?»
«Credevamo di trovarti sveglio più di un’ora fa. Non solo dormivi–»
«Kaput in toto. Non davi risposta a nessuno stimolo.»
«Ti abbiamo pure rovesciato dell’acqua in testa, ma non ha funzionato.»
Ah, ecco perché mi ero risvegliato su una spugna. «E perché parlate di infrangere le regole?»
Al mi riservò un’occhiata incerta. Clank invece esclamò: «Si tratta di Takami. Sta gareggiando sull’hovermoto e ci ha tagliati fuori!»
Ci misi un attimo a digerire il concetto. Takami su un’hovermoto? Quel budino che stava male al pensiero di mettere piede su una pista? E in che senso “ci aveva tagliati fuori”?
Al poggiò una delle sue mani grassocce sul mio braccio. Con l’altra mi indicò l’olovisore. «Guarda tu stesso.»
Seguii l’invito e mi soffermai di nuovo sull’armatura in gara. Era rossastra – come tutte quelle dei gladiatori di livello più basso – e della tipologia umana, ossia senza coda, orecchie, ali o forme particolari del casco. Fin qui nulla di strano. Poi una ripresa da destra mostrò un’abrasione da phaser sulla parte alta del braccio, proprio nello stesso punto in cui la torretta aveva quasi bucato le piastre sul braccio di Takami.
 
Come hai detto... -puff- che te la cavi... -pant- coi mezzi?
Uh... Così così...
 
La guardai infilare gli anelli e... no, dai, mi perculano. Poi però guardai i phaser rimbalzarle addosso. Erano troppo addosso perché fosse un barricatore. E la barriera di Takami era davvero raso-armatura, quindi...
 
Non appena realizzai che l’umana dalla gara pulita era la stessa che stava in squadra con noi sgranai gli occhi.
«Che diamine ci fa lì?!» esplosi, le braccia contro l’olovisore a mo’ d’insulto da stadio.
Silenzio.
Notai che l’hovermoto aveva i phaser montati sullo scudo. «E perché non spara?!»
«Ah saperlo.» fu la replica di Al. «Non l’ha mai fatto.»
«Forse non ha accesso alle armi.» ipotizzò Clank.
Sì; oppure non le sa usare, o sono malfunzionanti. C’erano un milione di spiegazioni possibili. Tra la sua incapacità e il sadismo dello staff ci stava di tutto.
 
«Ecco che la spalla del Team Darkstar completa metà dei giri in assoluta tranquillità! Che gara assurda gente! Sembra che gli striker non possano nulla! Ah, se solo avessi ancora il mio adorato cannone al magma... quand’ero in pista io sì che il pubblico si divertiva...»
 
L’inquadratura si spostò su un crinale. Alcuni robot di Dreadzone stavano avvicinando qualcosa con dei muletti. L’inquadratura si strinse su uno di quei cosi e, istintivamente, drizzai le orecchie.
 
«Oh, ecco il pepe per l’altra metà gara! I cari vecchi death biker! Ora sì che cominciamo a ragionare!»
 
«Dobbiamo fare qualcosa.» dissi a denti stretti, fissando i robo-centauri accendersi. «Dobbiamo aiutarla in qualche modo.»
«Non possiamo.» Clank fu categorico. «Ha scelto l’iscrizione senza supporto. Significa che ci ha esclusi anche dalla radio. E il collare ce l’avete lì, per cui la comunicazione è del tutto impossibile. Non c’è niente che possiamo fare, a parte scegliere se guardare la gara in cella o in infermeria.»
«Infermeria?» Istintivamente guardai Al, alla ricerca di una spiegazione. Lui alzò le spalle.
«Be’, sì. È il posto a cui è collegato il goal...»
Dovevo avere una faccia da cretino, in quel momento, eppure ero convinto che il goal ci riportasse nella nostra cella. L’infermeria era una sorpresa, ma spiegava anche perché entrambe le volte mi fossi risvegliato pulito e incerottato.
«Okay, allora andiamo là. Voglio esserci quando tornerà indietro.»
«Se tornerà indietro.» puntualizzò Al. Gli scoccai un’occhiataccia e lui fece di nuovo spallucce. «Andiamo, non li chiameranno death biker solo perché fa fico.»
 
«Woo-hoo! Che cannonata gente!»
 
Partì un replay. Quei cosi non erano arrivati ai primi cento metri che quello davanti aveva attivato un lanciamissili. La scocca sulla destra fumò di bianco; poi il proiettile lasciò la fiancata e si sparò avanti a tutta velocità. Divorò la distanza lasciando una scia lattiginosa e si schiantò appena alle spalle di Takami. Il replay finì lì e l’attimo dopo mostrarono l’hovermoto della nostra umana, che aveva accelerato. Potevo immaginarmela, la sua espressione. Era talmente rigida in sella al mezzo che doveva avere dei muscoli di pietra.
La voce di Clank si sovrappose a quella del commentatore.
«Mi spiace dirlo, ma Al potrebbe avere ragione. Statisticamente parlando–»
Chiusi le orecchie. Avevo davvero bisogno di quella statistica per sapere quali fossero le probabilità? No. E non volevo sentirla neanche perché dopo essere usciti vivi dalle prime due gare non volevo sentirmi ribadire la situazione tremenda.
Big Al scrutò a fondo la mia reazione. Incrociai il suo sguardo, e tutto ciò che lessi era biasimo.
«Te l’ho detto ieri. È una posizione nobile, la tua, ma dovresti smetterla.»
«Me l’hai detto, sì. Ma finché saremo una squadra ci dobbiamo comportare da tale.»
Mentre parlavo mi resi conto che stavo dicendo una fesseria. Quando mai ci eravamo comportati da squadra? Cioè, io e loro sì, ma quando mai avevo considerato Takami come un pezzo della squadra? Il cazziatone di Clank aveva senso: io per primo l’avevo esclusa, sbolognandola a lui perché la rendesse meno budino.
Sovrappensiero, poggiai il gomito sul tavolino e mi coprii la bocca con una mano.
E ora che ci pensavo: lei era stata il navigatore di Garganthas the Gigantic, che era morto ben più avanti di Sarathos. Conosceva meglio di noi il terreno e la difficoltà della sfida. Eppure si era iscritta alla gara con una formula che la obbligava a contare solo sulle sue forze. Per qualche ragione si era messa in mostra. Quale momento migliore per osservarla?
E difatti, siccome l’universo ha un senso dell’umorismo tutto suo, l’immagine si concentrò su un ibuâr che, microfono alla mano, sparava commenti pretenziosi.
«Ma chi è ‘sto qui?» sbottai, indispettito.
«Lepton Leroy. Un ex gladiatore.»
Ah, ecco. Spiegava il celolunghismo. «Sentite, voi avete visto la prima parte della gara. Come se l’è cavata?»
«Così, né più né meno.» grugnì Al.
Lo schermo mostrò di nuovo l’immagine di Takami e il conto dei giri segnava che ne mancavano solo due alla conclusione della gara. L’umana prese piuttosto bruscamente una curva a gomito, tanto che perse la traiettoria tenuta fino a quel momento. I death biker non si lasciarono sfuggire l’occasione e arrivarono a due lunghezze. Non solo: il terzo di quelle latte da sfasciacarrozze cominciò una manovra strana. Alzò il retrotreno, assomigliando tremendamente ad una gigantesca scarpa col tacco; poi fece mutare la scocca sopra il propulsore in una specie di frombola. E intanto il primo sganciò un altro missile.
L’inquadratura si spostò ovviamente su di questo e sulla sua traiettoria. Takami, per non farsi colpire, si gettò fuori strada.
 
«Oooohh! Dovrà fare un anello per rientrare nel prossimo checkpoint! Perderà un mucchio di secondi e di punti con questa manovra scellerata!»
 
Il tizio aveva ragione: era troppo vicina, troppo veloce e troppo fuori traiettoria per entrare nell’anello luminoso senza tornare indietro. Ma Takami era di un altro avviso. Scansata l’esplosione cercò di riassestarsi in pista dando di sterzo e controsterzo. La ripresero dall’alto: allo sterzo accelerò sensibilmente, poi – pressoché al pari del segnapista – si mise in piedi, diede di controsterzo e frenò di colpo.
 
«Che cosa?! Un ballet-loop?! Così vicino al checkpoint è una manovra disperata!»
 
L’hovermoto compì un giro su se stessa, piroettando sull’avantreno come una ballerina. L’inquadratura si chiuse sulla scena. L’immagine divenne al rallentatore e...
Ping! Il checkpoint cambiò colore.
Sgranai gli occhi.
Takami spinse il sedere contro la sella. Il propulsore posteriore si abbassò e l’hovermoto sfrecciò verso l’anello successivo.
«Una manovra notevole.»
Notevole? Era da pro. Non da “così così”. Cosa diamine pensava quando mi aveva dato quella risposta?
Ma torniamo al terzo death biker, quello con la frombola. Lo inquadrarono subito dopo. La lattina aveva azionato quella specie di propaggine, che aveva cominciato a ruotare come una pala d’elica, rilasciando di tanto in tanto delle sfere scure. Le rilasciava un po’ in ogni direzione, senza curarsi troppo della mira. Fece più o meno un quarto di giro rilasciando quella roba, poi tornò all’assetto normale. Il propulsore si illuminò d’azzurro e Frombola filò avanti, seguendo la pista fino a mettersi in coda a Lanciamissili.
 
«Ed ecco che siamo ufficialmente all’ultimo giro, gente! E siamo ancora sotto i quattro minuti! L’umana potrebbe portarsi a casa un bonus bello sostanzioso!»
 
Ping! Ping! Ping!.. Takami proseguì la sua gara attraversando un checkpoint dopo l’altro. I phaser degli striker cadevano fitti come la grandine, e guardandoli infrangersi contro Takami mi ritrovai a sperare che la barriera raso-armatura non venisse meno proprio in quei momenti. Lanciamissili si fece strategico e cominciò a sparare le sue bordate in occasione dei colli di bottiglia e delle curve più strette. In un’occasione costrinse pure Takami a ripetere il ballet-loop. E poi...
BOOOM!
Una colonna di fumo riempì lo schermo. Si aprì un riquadro per il rallenty: un pallone nero gravitò sotto al telaio della moto e, al tocco, esplose. Il mezzo fece un doppio carpiato avanti, piombò male al suolo e strusciò sulla fiancata per svariati metri, accendendo piccole scintille arancioni contro la ghiaia.
 
«Ha-ha! Che botta, gente! Con questa addio punteggio alto!»
 
Scrutai ogni pixel sullo schermo con la massima attenzione.
Andiamo, dai.
L’hovermoto rallentò la corsa. Il propulsore gravitronico si spense.
Andiamo!
Takami rimase giù, la testa reclinata e la gamba schiacciata fra la moto e il terreno. Inquadrarono l’ibuâr, che sul volto da lucertola aveva una faccia piuttosto imbronciata. O forse delusa, a giudicare dal tono.
«Fine della gara, signori. Credo che possiamo chiamare i Death Biker a finire il loro lavoro. O magari recuperare il metallo e lasciare il resto ai leviathan – una dieta bio è ciò che serve per crescere sani e forti, no? Peccato però, la gara non era così male...»
Qualcuno lo chiamò da destra. Lo vedemmo girarsi, poi zittirsi, sgranare gli occhi e boccheggiare. «Santo magma, non ci credo. Guardate!»
 La telecamera si spostò di nuovo sul luogo dove la moto si era fermata.
Era ancora a terra, ferma sotto il checkpoint olografico... che aveva cambiato colore.
Strinsero lo zoom sulla parte bassa dell’anello. Un pugno, il piccolo pugno alzato di quel budino che chiamavo Spalla, attraversava il checkpoint.
Non avevo parole.
La guardai tirare giù il pugno, appoggiarsi sul fianco e sforzarsi di uscire da sotto il mezzo. Provò a sfilare la gamba una, due volte. Alla terza provò a spingere via la sella con le mani. Spinse con tutta la sua forza, ma la moto si mosse a malapena.
La guardai battere un colpo al suolo, e anche se non potevo sentirla, potevo percepire tutta la sua frustrazione.
«Respira Takami. Respira.» sussurrò Clank, come se ce l’avesse lì davanti. «Respira.»
E lei, sullo schermo, fu come se l’avesse sentito. Ci fu un momento di blocco, come se stesse raccogliendo le idee, poi infilò il braccio sotto la moto. Fu un movimento brusco, incurante. Ma perché? Cosa voleva fare?
E poi la moto – due quintali di ferro e componenti – cominciò a sollevarsi. Piano piano, come se una persona invisibile l’avesse presa per la sella e il manubrio e la stesse raddrizzando.
Mi tornò alla mente il finale di Catacrom, il modo con cui mi aveva trascinato fino in cima alla ziqqurat, e quando la vidi infilare sotto anche l’altro braccio intuii cosa avesse fatto.
La guardai raddrizzare il mezzo, sfilare la gamba e rimettersi malamente in piedi, affidando la moto a un equilibrio precario dato dal campo magnetico. E poi ci montò in sella.
 
«Ma siamo seri?»
 
Il propulsore si accese di rosso e di giallo. La guida iperbolica sfarfallò di azzurro quattro o cinque volte prima di rimanere stabile.
 
«Con una botta del genere non dovrebbe manco accendersi!»
 
Dal buco sul telaio piovvero scintille come da un fuoco d’artificio. La moto fece un rumore grattato, orribile. Lepton Leroy aveva ragione.
 
«Cosa cazzo stai facendo, Spalla! Resta giù! Fa’ spettacolo!»
 
Takami fece un rapido controllo dei comandi a manubrio, poi avviò il levitore. La guida iperbolica s’illuminò di indaco (pessimo colore, parola mia), i due quintali di ferraglia si sollevarono dal suolo… e si sollevarono… e si sollevarono…
Ottanta centimetri buoni. Un metro, forse, e col levitore di quel colore era semplicemente impossibile.
La guardai riprendere il tragitto. Le altre mine che Frombola aveva lanciato in giro si attivarono, com’era prevedibile, ma non riuscendo a levitare così in alto finirono per formare un trenino dietro al retrotreno.
Oddio no.
Tenni gli occhi sullo schermo contando alla rovescia gli anelli mancanti: 10… 9… 8…
Se una sola mina aveva fatto il botto di prima, tutte insieme...
7… 6… 5…
Sarebbe stato qualcosa di maestoso e stra-potente. Un’onda d’urto che potevo immaginarmela bruciarmi il pelo.
4… 3… 2…
C’era una curva a gomito. Takami lasciò il manubrio con una mano per allungarla verso il fulcro della curva, come se si volesse ancorare a qualcosa.
1…
Uscì dalla curva e fece un colpo di frusta all’indietro col braccio. La moto accelerò e poi lo schermo si riempì di rosso, giallo, bianco, fuoco e fumo. Ma cosa cazzo...?
 
«Kaa-Boom Baby!!! Ha ha ha!»
 
La gara si spostò in un riquadro piccolo; mentre lo schermo fu riempito dal rallenty: Takami fece quel gesto col braccio e in concomitanza una palla, un sasso o qualcosa di tondo passò rasente la moto per schiantarsi contro la mina di coda.
 
«Questo! Questo è un modo bello per disfarsi di certi inseguitori! Questa Spalla è come un cannone al magma auto-costruito: rozzo ma col potenziale! Merita una scommessa su di lei!»
 
Vedemmo l’esplosione cominciare, poi il riquadro della diretta tornò a campeggiare a tutto schermo. Il goal era attivo; il suo campo olografico che teneva a bada i rimasugli dell’esplosione. La moto era dentro, sbragata sulla carena, e Takami era in piedi lì vicino, coi pugni tremolanti rivolti al cielo.
«Vado a prenderla.»
«Riuniamoci in una delle celle e cerchiamo di mettere insieme i pezzi. E...Ratchet? Non aggredirla appena la vedi—»
Il resto della frase fu soppresso da Al, che spense il collare con malagrazia. «Vediamoci nella nostra cella.» borbottò. «Io raggiungo Clank e vi aspettiamo là.»
Gli feci un okay e lui mi allungò il collare-comunicatore. «Per favore.» mugugnò a denti stretti. Il resto della richiesta lo intuii.
«Vado.»
* * * * * *
Venti minuti più tardi
Base DreadZone di Sarathos, infermeria
 
L’ambiente era la fotocopia di quello sulla stazione spaziale: pareti bianche, piastrelle ovunque, arredi cromati. L’unica differenza era lo spettacolo fuori dagli oblò: terra putrescente al posto del vuoto cosmico.
L’unico rumore era quello dell’olovisore, immancabilmente collegato sul canale di Vox. Non c’era nessuno: il bancone era incustodito; tutte le sedie vuote. Gli unici sorveglianti erano due telecamere col lumino rosso acceso.
La porta di fianco al bancone sbuffò e si aprì. Takami fece due passi nella stanza. Aveva gli occhi lucidi, le pupille dilatate e il volto arrossato, tonalità che metteva in evidenza il grosso cerotto sulla sua guancia.
«Hey.»
Takami spostò lo sguardo su di me. Era sempre così nervosa, e ora quello sguardo era così placido. Mi puzzò.
«Abbiamo visto la gara.» Attimo di silenzio. Nessuna reazione particolare. Mi domandai se fosse drogata. «Come stai?»
Fece “così così” con la mano.
«Ti hanno dato – ehm – delle medicine?»
Annuì. A gesti mi fece capire che le avevano messo dei cerotti e dato delle gocce. Poi prese a gesticolare in un modo che non riuscii a comprendere.
«Aspetta, vai più piano. Okay... qualcosa di basso... corre... con un fiore in testa? No. Okay, senti, prova con questo.» E le allungai il collare.
Lei se lo mise e non fece nemmeno le prove audio. «Come sta Clank?»
Glielo descrissi. Non lesinai sugli aggettivi né sui termini tecnici, e guardare la sua testolina incassarsi pian piano fra le spalle mi diede soddisfazione. Volevo che si sentisse in colpa perché ero certo che, qualsiasi cosa fosse successa, Clank si era messo in mezzo per salvarle il culo.
«Però è ancora vivo...»
«Non grazie a te.»
«Sì che è grazie a me.»
Scettico, alzai un sopracciglio.
«Non te l’ha detto Clank quello che è successo?»
Le dissi di no e spiegai anche quella parte lì. Lei abbassò gli occhi.
«Allora te lo dico io—»
«Ma non ora. Vieni con me.»
Come d’accordo con Al, andammo alla loro cella. Takami mi seguì camminando mezzo passo indietro, sempre con quell’aria trasognata. Quando entrammo, individuò subito Clank e andò ad abbracciarlo, ignorando i miei richiami e girando bene al largo da Big Al.
«Volevi ammazzarti, per caso?» cominciò il kerwaniano. La bambina sollevò Clank sopra la testa e ne studiò il bacino mezzo deformato.
«Servono punti. Taaanti punti.» Rimise Clank sulla sua sedia. «Davvero non ti ricordi?»
Lui scosse la testa. «Puoi raccontarci tu però. Vieni, siediti.» E fece pat-pat sulla sua sedia. Lei però preferì spostare qualcosa e sedersi sul banco da lavoro, in modo da guardarci tutti.
«Eravamo nel Padiglione Tre; guardavamo le armi nel negozio perché Clank era curioso di vedere una cosa. Dopo un po’ è entrato Conundrum Dynamo arrabbiatissimo e ci ha urlato di tutto» e cominciò a contare: «che siamo ladri... luridi... merdosi... idioti... e che non sappiamo contro chi ci siamo messi. Ha detto che è colpa nostra se lui ha perso ventimila punti, che su Catacrom dovevamo morire e basta. Ha detto che quei ventimila punti glieli dobbiamo restituire, e quando Clank ha provato a dirgli di no lo ha tirato su per l’antenna e gli ha strappato una gamba.»
Immaginai la scena. L’umano grosso che arriva, sbraita e tira su Clank come si tira su una carota dal campo.
«Clank ha fatto un suono, e Conundrum Dynamo gli ha strappato l’altra gamba. Credo che è stato lì che Clank si è spento, perché ha smesso di fare quel suono. Comunque lui non si è fermato. Quando ho visto che stava per strappargli un braccio mi sono messa in mezzo e gli ho detto che va bene, che glieli diamo i suoi punti e che non volevamo derubarlo. Gli ho detto che gli facevo anche un favore se non rompeva Clank, e allora mi ha picchiato con i suoi pezzi, poi mi ha tirato su per la maglia e mi ha detto che oltre ai suoi punti vuole che gli porto dell’akelite. Dieci chili già raffinata, ha detto, o la prossima volta ci stacca la testa a tutti quanti. Poi ci ha buttato nel compattatore, dove ho battuto la testa contro uno striker rotto. Quando mi sono ripresa ho preso i suoi pezzi e sono venuta da voi, ma mi faceva male dappertutto e ci ho messo tantissimo tempo.» Si girò verso Clank e fece un’espressione dispiaciuta. «Forse la tua memoria è rimasta danneggiata perché ci ho messo troppo tempo...»
Clank avvicinò la sedia e le fece pat-pat sulla mano, rassicurandola. Io mi ritirai in religioso silenzio.
«Quando sono arrivata da voi vi siete arrabbiati tantissimo, o preoccupati tantissimo, e per fortuna avete cominciato a curare Clank, e quando Coco mi ha aiutato a tornare qui, che le ho raccontato cos’era successo, mi ha chiesto se davvero volevo rubare l’akelite per Dynamo. Le ho detto di sì, e allora mi ha proposto un patto: se rubo per lei un pochino di akelite in più, tipo mezzo chilo, di buona qualità, lei riforgia le gambe a Clank, buone come nuove. Ho accettato. Così mi ha dato un pezzettino di sonnifero per aiutarmi a calmarmi, ché ero agitatissima, e quando mi sono svegliata qui, che non c’era nessuno, mi sono andata a iscrivere alla gara con l’hovermoto. Le gare a cronometro sono le meno pericolose, e io coi mezzi me la cavo, quindi ho pensato che potevo cominciare a prendere qualche punto per Conundrum Dynamo in questo modo.»
«Ma perché iscriverti senza supporto?» domandò Clank. «Potevamo—»
«Tu eri rotto e il signor Al non mi aiutava di sicuro.»
«C’era Ratchet.»
«Che mi credeva colpevole della tua rottura. No, non mi aiutava neanche lui.»
E quello, più o meno, chiuse la conversazione. Non che non dicemmo più nulla, ma lei – vuoi per i farmaci vuoi per il calo d’adrenalina – cominciò a seguire sempre meno e a chiudere gli occhi sempre più spesso. Dieci minuti dopo dormiva con Clank in braccio.
E noi tre rimanemmo a discutere il da farsi.
«Non daremo un solo punto a quello stronzo di Dynamo.» borbottai. «E non gli daremo nemmeno un grammo di quella dannata roccia.»
«Ma ce lo ritroveremo contro dappertutto!» obiettò Al. «Se lui è medio-alto in classifica può comprare favori.»
«Appunto: ventimila punti non significano nulla per lui. Ma per noi fanno una differenza enorme: se chiniamo la testa ora dovremo chinarla con chiunque verrà dopo di lui. No, non lo faremo.»
«A questo proposito mi trovo d’accordo con Ratchet.» dichiarò Clank. «Però se vogliamo perseguire questa linea dobbiamo essere uniti, compatti e accorti.» Mi fissò: «Niente più sbolognarmi Takami,» fissò Al: «niente più azioni alle spalle degli altri,» fissò il suo piccolo pugno chiuso: «niente più rancori di sorta. La mano destra deve sapere cosa fa la sinistra, o ci mangeranno vivi.»
«Perché voi credete che cominciare una faida del genere adesso ci lascerà illesi?» obiettò ancora Al. «Non abbiamo abbastanza forza per reggerci sulle gambe e già vuoi fare il figo. Per favore, non fatevi prendere dal sentimento di pancia. Prima ci serve una squadra forte.» e mi scoccò un’occhiata torva.
«È ancora per la storia di Takami? Pensavo di essere stato chiaro.»
L’antennina di Clank baluginò di rosso. «Che storia?»
Continuai a guardare Al. «Io non la mollo nello sterco.»
«Due robot sarebbero nettamente più efficienti.»
«Takami conosce le piste a menadito.»
«Ma ha il terrore ogniqualvolta indossa l’armatura. Ti rallenta, e la sua abilità è incontrollabile.»
«Però la indossa, quell’armatura. Si sforza di proseguire, anche quando trema. Vuoi dirmi che tu faresti altrettanto?»
«Di sicuro non ti ho ucciso!»
«Tu a Silver City hai sminchiato la griglia di protezione durante l’attacco dei tirannoidi per giocare un olofumetto di Qwark! Potevo creparci con migliaia di altre persone! Eppure non ti ho criminalizzato a questa maniera!»
«NON OSARE!!!» Paonazzo, mi puntò il dito contro. La sua espressione baluginava come una tempesta. «Non osare paragonarmi a lei. Non osare cambiare discorso. Non osare sfidare quell’umano. Ingoia quel cazzo di orgoglio, per una volta, e pagalo
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Presente. 21 Febbraio 5408-PF
Metropolis, attico del Khelith Building
 
«...E lei non sa che vaffanculo avrei voluto tirargli. Lo so che Al parlava per paura, che il suo discorso aveva una logica e che l’istinto di autoconservazione non è il mio forte, ma... be’, quel modo di fare mi rodeva il fegato.»
Ratchet incrociò le mani dietro la testa e si lasciò cadere contro lo schienale del divano, il mento in alto e lo sguardo apparentemente sul soffitto.
«Perché le ha impartito un ordine?» pungolò Riklis, aggiustandosi una grinza inesistente sulla camicia.
Il lombax storse la bocca. «Perché Al è uno di quelli che se trova un randagio per strada come minimo gli dà da mangiare. Là dentro era diventato una carogna.»
Ah, eccoci di nuovo. – Tutto quel patema col kerwaniano ormai gli pareva uno di quei polpettoni infiniti in cui Lance e Janice si narravano le loro disgrazie in tono pieno di pathos.
«Ma poi, al netto delle vostre discrepanze, il furto è avvenuto oppure no?»
Ratchet non gli rispose subito. Lasciò vagare lo sguardo ancora per qualche istante, come se i pensieri fossero scritti sul soffitto, dopodiché allungò un mezzo sorriso.
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Passato. 6 Novembre 5401-PF, svariate ore dopo la riunione
Base DreadZone di Sarathos
 
Il padiglione Z si sviluppava ai piedi della scarpata dove gli addetti gettavano le carcasse dei leviathan morti. Era più in basso rispetto al resto della struttura e sulle planimetrie non risultava.
«Quindi come lo raggiungiamo?» domandai a Takami, che mi faceva strada attraverso i corridoi.
«Come i robot delle pulizie.» rispose, guardando avanti. «Il teletrasporto pizzica un sacco, ma i loro tracciati non interessano a nessuno.»
«E sei sicura che i collari non si attiveranno?»
«Se non hanno messo adesso gli allarmi no, non lo fanno.»
Così ci avvicinammo a uno sportello contrassegnato da un triangolo azzurro. Piccole scintille brillarono attorno alla mano destra di Takami quando l’appoggiò al lettore di tessere, poi la porta slittò verso sinistra. Entrammo in un bugigattolo pieno di spazzoloni, spugnette e detergenti. Poco oltre c’era una piattaforma ottagonale grande abbastanza per un inserviente col suo carrello. Takami si concentrò sui comandi, mentre a me cadde l’occhio su due camici che pendevano dalla parete.
«Potremmo prenderli in prestito...» ragionai sottovoce.
«È meglio che li prendiamo dall’altra parte.» mi fece eco la bambina. «Il teletrasporto è più pizzicoso sennò.»
«Com’è possibile?»
Lei fece spallucce e mi fece un cenno frettoloso di raggiungerla. L’attimo prima di smaterializzarci mi strinse forte la mano.
Arrivammo dopo qualche istante in uno sgabuzzino pressoché identico a quello appena lasciato. Mossi un passo avanti e provai un pizzicotto tremendo al tendine d’achille; poi dai talloni salì un’ondata di crampi che arrivò allo sterno e tornò indietro. Mi ficcai un pugno alla bocca dello stomaco, morsi il labbro a sangue e soffocai un urlo. Takami mi strinse la mano ancor più forte e si morse l’altro guanto per resistere. Poi, con gli occhi lucidi, quando l’onda si fu placata mi disse: «Stai bene?»
Arricciai il naso e storsi la bocca. «Diciamo che stavo meglio prima...» La studiai. «Tu stai bene?»
Si accorse di starmi tenendo ancora la mano e si affrettò a lasciarmela. «Sì. Ora sì.»
Saltò giù dalla pedana e sparì nell’anticamera. Io ci pensai bene prima di muovere di nuovo il piede, temendo altri... diciamo “sintomi”. Provai solo un leggero formicolio ai polpacci, del tutto rassicurante, così la raggiunsi. Stava rovistando fra i camici: li apriva, guardava il taschino e li lasciava andare.
«Cosa dobbiamo cercare?»
«Ci serve una forma tipo questa» e tornò indietro per farmi vedere un cartellino con un tetraedro in prospettiva. «Solo che deve avere dodici lati.»
Immaginai che intendesse dodici facce. Un dodecaedro, quindi. «Va bene.» e mi misi a guardare la fila di camici appesi di fronte.
Ce n’era uno solo. Takami mi fece segno di prenderlo. «Con questo possiamo entrare dappertutto. Mettilo tu.»
«E tu?»
Sopra i camici c’era una mensola piena di maschere O2. La bambina si allungò sulle punte dei piedi, con le braccia tese e le dita aperte verso quella fila di visiere oscurate. Ne puntò due con i lacci in vista, ma non riuscì ad afferrarle nemmeno stando sulle punte. Così cominciò a saltare, pendolando le braccia sempre di più per darsi lo slancio. Quando tornò a terra col suo bottino rispose: «Sono la Spalla; va bene uno a caso.»
Con le visiere oscurate sulla faccia e i camici a coprire le tute, ci lasciammo alle spalle lo sgabuzzino e ci inoltrammo fra i corridoi di linoleum del Padiglione Z.
Chaos era stata abbastanza precisa. Sulla parete sinistra si alternavano porte vetrate a lunghe finestre, e dietro di esse il panorama era sempre il medesimo: lunghi banchi, alambicchi, fuochi da banco e piccole forge portatili. Sulla parete destra, a venti metri una dall’altra, quattro porte recitavano “Laboratori di produzione” con altrettanti numeri. Dato che la donna di fumo aveva parlato di magazzini puntai subito le porte di destra e accennai a Takami la penultima. Lei annuì.
Strisciai sul pad la tessera appuntata sul mio camice e la porta sparì verso l’alto con un leggero sbuffo.
«Ah...»
Il disappunto nella sua voce fece eco al mio. Laboratorio un cazzo, proprio! Era un archivio, quello, con tanto di maniglioni a ruota per spostare gli scaffali!
«Dimmi che hai indicazioni precise...»
«So solo che è una vecchia scatola senza etichetta.»
Il che, in centinaia di metri di scaffalature piene di casse, era come cercare un ago in un pagliaio.
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Presente. 21 Febbraio 5408-PF
Metropolis, attico del Khelith Building
 
«...Però, a parte l’immensa rottura di palle del tempo perso a controllare ogni singola scatola senza etichetta, non incontrammo altri problemi. Quando trovammo la scatola che ci interessava, la svuotammo di tutto il suo contenuto e la riempimmo con altre pietre prese un po’ qui e un po’ là.»
Riklis guardò il lombax con faccia da poker. Sul serio stava ammettendo la dinamica di un furto così candidamente?
Nascose il desiderio di prendersi la faccia fra le mani e scoppiare a ridere. Invece prese il blocco degli appunti e fece finta di osservarlo. Un nome risaltò fra gli altri. Ah già.
«E per quanto riguarda la parte di Conundrum Dynamo?»
«Non gli volevo prendere neanche una pietra, ma Takami protestò così tanto che gli presi qualcosa. Sembrava akelite di buona qualità, così tanto che ingannò anche lei che ne aveva appena viste delle casse, ma la scatola diceva altro.»
Pausa tattica. Ratchet guardò lo xarthar e fu contento di vedere che, alla fine, aveva catturato la sua curiosità.
«E cosa?»
Mimò le virgolette con le dita. «”Sinto-akelite. Esperimento fallito. Resistenza infima”.»

 

 

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