Ever in your favor

di iron_spider
(/viewuser.php?uid=1104690)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una lunga fila d'ombre ***
Capitolo 2: *** Spazio vuoto ***
Capitolo 3: *** Spider-Man ***
Capitolo 4: *** Fai una capriola ***
Capitolo 5: *** Un volto per la ribellione ***
Capitolo 6: *** Attraverso i tunnel ***
Capitolo 7: *** Marcire ***
Capitolo 8: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 9: *** Conto alla rovescia ***
Capitolo 10: *** Muori in pace ***
Capitolo 11: *** E adesso ***
Capitolo 12: *** La fenice risorge ***
Capitolo 13: *** I Parker possono fare qualsiasi cosa ***
Capitolo 14: *** Giochi peggiori a cui giocare (parte 1) ***
Capitolo 15: *** Giochi peggiori a cui giocare (parte 2) ***



Capitolo 1
*** Una lunga fila d'ombre ***


Ever in your favor
 



Capitolo 1: Una lunga fila d’ombre
 
 




Peter Parker sta sognando.

Vede dei volti che ricorda a malapena; lo prendono in braccio, lo fanno girare su se stesso, lo riempiono di baci. Ci sono tracce di colori e luce, matite che grattano sulla carta, e la voce di una donna che dice “prendi loro due”. E poi scompaiono – c’è del grigio e May, e l’eco di grida. Schermi di televisori. Lacrime, capelli scuri. È un eroe, piccolo. È un eroe. La paura gli striscia sulle braccia come ragni. La morte punteggia la sua vita con la precisione di un orologio. Boom, boom, boom, in un technicolor sgargiante e spietato. E lui è il prossimo.

Si è sempre chiesto cosa ne facciano dei corpi…

Si sveglia di soprassalto quando qualcuno lo riscuote.

“Scusa, tesoro,” dice May. Peter batte un paio di volte le palpebre e la mette a fuoco, vede i suoi capelli tirati all'indietro. Lei cerca di non comportarsi in modo anomalo, mai suoi occhi la tradiscono. Si schiarisce la voce, continuando a parlare. “Ma oggi è…” Distoglie lo sguardo, si umetta le labbra. “Devi prepararti.”

Peter si ricorda che giorno è, e il cuore gli batte come il tamburo prima di un’esecuzione. Ma cerca di indossare una maschera, di fingere che vada tutto bene. Non è affatto così, nonostante abbia avuto a che fare con la Mietitura da quando è nato, insieme a Ben e May. Con il terrore che uno di loro venisse portato via. Spedito al macello, a colpo sicuro. Ma Ben non c’è più, lui l’hanno portato via anche se il suo nome non è mai stato pescato da un’urna; e May è finalmente al sicuro. Adesso il nome di Peter è lì dentro, da solo. L’ultimo dei Parker sul patibolo. Non sa come dovrebbe comportarsi. Non sa più cosa sia normale, quando gli Hunger Games incombono all’orizzonte.

Ma deve provarci. Deve provare a far finta che andrà tutto bene, per lei.

“Ho dormito troppo,” dice, sorridendo appena.

Lei annuisce e si raddrizza, incrociando le braccia sul petto. “È strano,” dice. “È il primo anno che non sono nell’urna, ma tu… vorrei poter…”

Le donne non possono comunque offrirsi volontarie per gli uomini, quindi le sue preghiere sono inutili. Come la maggior parte di quelle pronunciate quella notte nel Distretto 12.

“Andrà tutto bene,” dice Peter, alzandosi. Le dà un bacio sulla guancia, sorride di nuovo, cerca di dare vita a quella frase. Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. E una parte di lui ci crede, perché che razza di universo strapperebbe via qualcun altro a May Parker? Dopo tutto ciò che ha già perso? Le corroderebbe il cuore fino ad annientarla.

Getta un’occhiata alla foto di lei e Ben sullo scaffale, racchiusa nella cornice dorata che lui aveva trovato al Forno [1]. Distoglie lo sguardo altrettanto rapidamente. A volte è difficile guardarla. È difficile non sentire la sua voce. Era la loro bussola, il fulcro della loro unità. L’ottimista. Lui e May si equilibravano a vicenda, si miglioravano. A volte, Peter crede ancora che lui sia nell’altra stanza. Che possa svoltare l’angolo da un momento all’altro.

“Ti lascio preparare,” dice May, con gli occhi che indugiano qualche istante sul suo volto, come se potesse non rivederlo mai più. Poi si gira ed esce dalla porta, chiudendola delicatamente dietro di lei.

Peter trova i suoi vestiti nell’armadio, quelli che indossava all’ultima Mietitura, quelli che iniziano ad andargli stretti. Ma non hanno i soldi per comprare altra stoffa, né qualunque altra cosa, in effetti, quindi dovrà farseli andare bene. L’ultima volta che hanno avuto l’opportunità di ottenere altri vestiti è stato prima che i Pacificatori cominciassero a inasprire i controlli sui finanziamenti Stark, e Peter si chiede se Tony Stark riuscirà a trovare un modo per aggirare le nuove regole, così da continuare a supportare il Distretto coi suoi soldi. Non lo vedono da un po’, ma è raro vederlo in generale.

Peter si dice che gli parlerà, la prossima volta che lo vedrà di persona. Gli dirà qualcosa. Qualunque cosa.

Si veste, cercando di non pensare troppo, ed esce in salotto. L’aria è stantia e opprimente, più del solito, e probabilmente è così in tutto il Distretto 12, con l’intera popolazione stordita per l’attesa e la paura non poi così nascosta di vedere se i propri nomi saranno nell’urna della Mietitura o meno.

È come sapere che qualcuno ha deciso di ucciderti, ma non ancora.

May è seduta lì, coi resti della colazione ancora sul tavolo, e si alza in piedi rapida non appena lo vede.

“Stai uscendo?” gli chiede, come se fosse un giorno qualunque e non questo giorno.

“Sì,” risponde Peter. “Vado a piedi con Ned. Lo sai che vogliono i ragazzi in prima fila. E stavolta non devi schierarti anche tu, fortunella. Puoi riposarti e goderti lo spettacolo.”

May gli riserva un’occhiataccia.

“Scherzavo,” dice lui. Si avvicina a lei, avvolgendola in un abbraccio. “Lo sai che scherzo. Non ti ho mai vista riposare un giorno in tutta la mia vita.”

Lei ride, ma senza emozione. Lo stringe forte, con le mani che disegnano il profilo delle sue spalle. E lui si concede di preoccuparsi, solo per un momento, mentre lei non può vedere la sua faccia. Chiude gli occhi, si aggrappa a lei e cerca di ancorarsi lì.

“Andrà bene,” le dice. “Ci… ci vediamo lì. Ci vediamo dopo.”

 
§

 
Intravede Ned nei pressi del Forno, esattamente dove non si sarebbe aspettato di trovarlo. Ha qualcosa in mano, e sgrana gli occhi quando lo vede.

“Che stai facendo?” gli chiede Peter.

“Volevo prenderci dei portafortuna,” risponde Ned, agitando il pugno in aria.

Peter attraversa di corsa la strada per raggiungerlo, e si trattiene dal caricarlo in un abbraccio spaccaossa che avrebbe rischiato di mandarlo a gambe all’aria. Hanno affrontato assieme molte Mietiture, dieci anni adesso, e a volte Peter realizza che ha più paura di veder pescare dall’urna il nome di Ned che il proprio.

Ma si ricompone, cerca di comportarsi come se fosse un giorno qualsiasi, e orbita attorno a Ned più vicino di quanto farebbe di solito.

Abbassano entrambi lo sguardo quando Ned apre la mano.

“Ho pensato di prendere Wasp, e tu Iron Man,” rivela.

Sono delle spillette d’acciaio, una per ogni Vincitore del Distretto 12. A Peter non piace molto partecipare alla goliardia generale, considerando che Capitol sta letteralmente torturando e uccidendo delle persone rendendo la loro vita un inferno; ma, in segreto, ha un Vincitore preferito. È stato Tony Stark sin da quando ha memoria. Sa quello che ha fatto Tony, il modo in cui ha manipolato l’arena creando qualcosa che nessuno aveva mai visto prima, né avrebbe visto di nuovo. È stato fortunato a non venire ucciso. Ma è stato… sfortunato per tutto ciò che gli hanno portato via in seguito.

Peter vorrebbe avere la metà del coraggio che ha Tony Stark.

È un eroe. È un eroe.

Prende la spilla di Iron Man con reverenza, e la maschera è quasi identica al poster illegale che ha sotto al letto. Capitol non ama parlare del “lato Iron Man” di Tony, perché li ha umiliati; ma il nomignolo ha preso piede, e la gente non dimentica. Dell’armatura costruita da Tony è rimasta solo qualche immagine, e Peter ci si fionda ogni volta che le vede, avendo cura di tenerle nascoste.

“Il Collezionista le vendeva a metà prezzo,” dice Ned. “Ho pensato che potevamo appuntarle sull’interno del bavero, nascoste, ma… ma noi sapremmo che sono lì.”

Peter gli rivolge un sorriso. “Grazie,” dice. “Sono fantastiche.”

Le indossano rapidamente, guardandosi attorno per assicurarsi che nessuno li osservi. Ned annuisce un paio di volte, dando una pacca sul punto in cui l’ha assicurata.

“Mi sento un po’ più forte, se ho Janet con me,” dice, stentando un sorriso nervoso. “È una grande.”

“Già,” dice Peter, pensando a ciò che anche Janet Van Dyne ha perso.

A volte tutto ciò lo stordisce: tutte quelle morti, quelle uccisioni, l’orrore, e non riesce a respirare. Vorrebbe solo, intensamente, poter fare qualcosa. Poter fermare tutto questo, tranciare quei binari, far saltare tutto in aria. Lui non c’era, all’epoca, ma sa che un tempo il mondo era normale. Senza Capitol, senza gli Hunger Games, senza la paura ad accompagnare ogni loro passo.

“Un giorno dovremmo, non so, provare ad andare laggiù,” dice Ned. “Al Villaggio dei Vincitori, per conoscerli. Non so, potremmo tipo… fingere di dover consegnare qualcosa, una roba del genere. E non dovremmo fare chissà che, solo… conoscerli. Conoscerli, ringraziarli, dire loro che… che ci dispiace.”

Peter si sente stringere la gola e annuisce. “Sì, insomma… sì. Dovremmo farlo.” Incontra gli occhi di Ned. “Dopo questi Hunger Games. Quando loro torneranno lo… lo faremo.” Peter sa che quel piano sfumerà nel nulla. Le cose si fanno solo più difficili per i mentori quando tornano. Il Distretto 12 non ha avuto un Vincitore sin da Tony. Ogni anno, sono costretti a veder morire altre due persone che hanno appena conosciuto. Altre due che non sono riusciti a salvare.

Ma Ned sembra rallegrarsi un poco, e basta questo.

Peter abbassa lo sguardo nel sentire qualcosa che gli struscia contro la gamba.

“Oh, guarda chi c’è,” dice Ned.

Peter sorride tra sé e si accuccia, prende in braccio il gatto rosso e bianco e se lo posa sulla spalla. “Ehi, Goose,” la saluta. “Ehi, piccolina.”

Ned le accarezza la testa, schioccando le labbra per richiamarla.

“Non è il giorno migliore per andarsene in giro negli altri distretti,” osserva Peter. Pensa tra sé che piacere al gatto di un Vincitore sia comunque una bella cosa. Non ha mai incontrato Carol Danvers, ma Goose lo conosce.

Peter incontra gli occhi di Ned mentre culla il gatto su e giù, ascoltandolo fare le fusa. “È un buon segno,” dice. “Goose si fa sempre viva quando sta per succedere qualcosa di bello.”

“Giusto,” dice Ned, annuendo. “L’ultima volta che è stata qui, hanno raddoppiato le razioni per un mese. Capitol che fa il generoso non è… beh, non è la normalità.” Si schiarisce la gola.

“Giusto,” ripete Peter. Dà un bacio sulla testa a Goose. “Giusto, giusto. Staremo bene.”

 
§

 
Non appena entrano nella piazza principale, l’ottimismo di Peter va a farsi benedire mentre osserva tutti coloro che sono eleggibili per la Mietitura allinearsi di fronte al Municipio. È un mare grigio di schiene rigide e mormorii soffusi in attesa che tutto questo finisca.

Il sindaco e qualche esponente di Capitol sono seduti sul palco, e Peter si guarda intorno, cercando di individuare May. Ci sono dei cordoni a separare chi è nominabile per la Mietitura e chi no. La vede in lontananza, vicino alla seconda entrata coi due alberi più alti. Si alza sulle punte e lo saluta, e lui ricambia, cercando di placare l’angoscia che ha nel cuore.

Si volta verso Ned. Lui si dà una rapida pacca sul petto, dove Peter sa che si nasconde la spilla di Wasp. Fa lo stesso sulla propria spilla, e sente il cuore che trema come un uccellino in gabbia.

Sii come Iron Man. Sii forte come Tony Stark.

Tutti ondeggiano sul posto, dando l’impressione di poter cadere a terra al primo colpo di vento, e il sole picchia sulla sua testa. Riesce già a sentire la faccia che scotta, e si scherma gli occhi dal riverbero non appena Justin Hammer fa il suo ingresso sul palco. È l’Accompagnatore del Distretto 12, e probabilmente il peggiore di tutti. Alcuni degli Accompagnatori finiscono con l’interessarsi, si distaccano sempre più dalle loro radici di Capitol, ma Hammer sembra sempre egoista, come se… come se si divertisse. Peter ricorda di averlo sentito pronunciare la frase “qui per fare festa” un paio d’anni fa. Allora si era sentito riempire di rabbia, la stessa che ribolle dentro adesso, appena sotto la superficie.

Il completo viola di Hammer riflette la luce, ed è accecante. Peter sospira, si accosta a Ned così da far toccare le loro braccia, e vorrebbe essere anche accanto a May. Qualcuno allunga un microfono ad Hammer, e si sente il fischio del feedback. Lui fa una smorfia, sorride, agita la mano in aria per salutare, e lo accosta alla bocca.

“Bene,” annuncia. “Diamo inizio allo spettacolo.”

Peter cerca di mantenere la calma. Punta lo sguardo a terra mentre avviano lo stesso maledetto video che proiettano ogni anno, riguardo a una guerra terribile, a quei giochi trionfanti, a un uomo e una donna da ogni Distretto che lottano per essere i migliori. Peter crede che, all’inizio, Capitol volesse che i Tributi si uccidessero da soli tra loro, ma quando hanno realizzato che solo i Distretti a loro più vicini erano inclini a farlo, hanno aumentato la posta in gioco con le arene e con tutto ciò che vi spediscono dentro per far soffrire i Tributi. Sono stati loro a ucciderne la maggior parte, negli ultimi sessant’anni.

Quel video è contraffatto, e Peter non lo guarda nemmeno. Sa che le cose sono andate diversamente da quello che mostrano, sa che nessuno dei Distretti dal 4 al 12 combatte tra di loro: combattono solo per sopravvivere.

Non alza lo sguardo, ma sa che alla fine c’è quella sequenza modificata di Tony. Modificata in modo da far credere che lui abbia ucciso il suo migliore amico, James Rhodes, quando Peter, e tutti gli altri, sanno che Rhodes è stato ucciso da Aldrich Killian. L’unica uccisione di Tony, per vendetta. E poi Rhodes gli è morto tra le braccia.

Ma loro mostrano un coltello tra le mani di Tony, che affonda nel ventre di Rhodes, e Peter non vuole guardare.

Ne ha abbastanza delle loro menzogne.

Il video termina e c’è un applauso stentato, promosso unicamente dai Pacificatori e dalle autorità sul palco, e il cuore di Peter prende a battere più rapido.

Ben non è mai sopravvissuto oltre l’età massima di nomina, perché è morto quando aveva 32 anni. Peter ricorda ciò che sussurrava, quelle poche volte in cui sono stati lì in piedi insieme. Qualunque cosa farai, non essere una pedina nel loro gioco. Sii sempre te stesso, figliolo. A tutti i costi. Che tu sia qui sotto, o là sopra. Sii sempre te stesso.

“Bene, Dodici,” dice Hammer, ancheggiando un poco sul palco. “Sono qui per scegliere il nostro prossimo Vincitore, okay? La nostra dama, il nostro gentiluomo, uno di voi… e questo sarà il nostro anno! Chi sarà il prossimo Tony Stark, eh?”

Peter deglutisce a fatica, scuote la testa. È quasi finita, è quasi finita. Stasera tornerà a casa. Cenerà con May e Ned. Magari per una volta mangeranno addirittura il dolce. Andrà bene. Andrà tutto bene.

“Prima le signore,” annuncia Hammer. Si avvicina alla prima urna di vetro, riempita fino all’orlo di piccole buste ripiegate.

Peter trattiene il respiro, rammentandosi che non deve più preoccuparsi per May. Hammer rimescola le buste nell’urna, ne sceglie una dal centro e la apre con rapidità. La solleva con una mano e parla nel microfono.

“Il nostro tributo femmina per il Distretto 12 è… Michelle Jones.”

I mormorii riprendono, come sempre quando viene chiamato un nome, e Peter sente freddo. Non conosce davvero Michelle, ma dopotutto va a scuola con lei, la vede sempre nei corridoi. È silenziosa, sa che è intelligente perché ha dei voti abbastanza alti da far parlare di sé e… non si merita questo. Nessuno se lo merita, soprattutto chi vive nel Dodici, ma lei… non riesce a immaginarla là dentro. Non riesce a immaginarla… non qui.

La folla si dirada e si apre in due ali alla sua sinistra; Peter si volta a guardarla, in piedi con un cerchio vuoto attorno a lei, dove fino a pochi istanti prima era ammassata la gente. Non nasconde le proprie emozioni e vede la rabbia sul suo volto, nei suoi pugni serrati, e non si guarda intorno, non guarda nessuno, neanche la sua famiglia. Avanza semplicemente tra la folla e percorre la corsia centrale verso il palco.

“Era con me a storia di Panem,” sussurra Ned. “Era… era carina.”

“Lo è ancora,” dice Peter, senza pensare. Osserva la linea rigida delle spalle di lei mentre prende posto accanto ad Hammer, e il suo stomaco fa una capriola.

“Ma ciao, Michelle,” dice Justin, ma lei non lo guarda nemmeno. Scuote appena la testa, col disgusto negli occhi, e Peter pensa che forse, forse hanno una Vincitrice tra le mani.

“Molto bene, allora,” dice Hammer, sollevando le sopracciglia quando non ottiene alcuna risposta dalla folla.

Peter non riesce a respirare. Deglutisce a forza, non guarda Ned, perché se guardasse Ned darebbe di matto.

Hammer si avvicina all’altra urna. Un fischio acuto e prolungato risuona nelle orecchie di Peter: in questo momento si sente sempre come se stesse per svenire, perché si riempie di un tale terrore che il suo intero corpo viene colto da spasmi, e ogni pensiero nella sua testa urla ti prego non io, ti prego non io, ti prego non io.

Ed è per questo che il momento successivo è dieci volte peggio.

Hammer solleva la busta prescelta, socchiudendo gli occhi mentre legge. “E il nostro tributo maschio per il Distretto 12 è… Ned Leeds.”

Gli sembra che l’aria venga risucchiata dallo spazio che li circonda, come se qualcosa di brutale e crudele gli stesse strappando le costole, cavandogli via i polmoni. Non c’è alcun suono, solo un silenzio pesante, di morte. Gli occhi di Peter si colmano all’istante di lacrime e si volta verso Ned, che ha lo shock dipinto sul viso.

Ha passato quasi ogni momento di veglia con Ned da quando si sono conosciuti. Le battute di caccia nella foresta, o almeno quella che loro consideravano caccia, ovvero avvicinarsi abbastanza a un cervo da riuscire a toccarlo. Le lezioni di cucina in cui bruciavano sempre il pane. I fortini nel cortile di Peter. Ned era lì quando avevano perso Ben, a sorreggere Peter quando May non ce l’aveva più fatta. Ned sa tutto di lui e gli vuole bene comunque, e l’idea, la sola… idea di vederselo strappare via, di essere obbligato a guardarlo morire su quegli schermi, gli– gli fa ribollire il sangue.

Ned fa un passo e Peter parla prima che il suo cervello possa formulare una decisione logica.

“Mi offro volontario,” dice, con la voce che risuona anomala ed estranea. “Mi offro volontario come Tributo.”

I suoni tornano a riempire l’aria e la gente riprende a parlare. Peter sente un singhiozzo straziato in sottofondo, che sa appartenere a May.

“No,” dice Ned, afferrandogli le braccia. “No, no, Peter, non puoi, non puoi–”

E poi Peter sente delle mani addosso, che lo strappano via da lui e lo strattonano lungo la corsia principale. Incespica, ma si raddrizza, rivolgendo un ultimo sguardo a Ned mentre lo fanno marciare verso il palco. Guarda in avanti verso i propri piedi, con gli occhi che bruciano e faticano a restare aperti.

La portata di ciò che ha fatto lo colpisce mentre sale le scale, quando si trova di fronte al suo intero Distretto. È stato parte di quel pubblico così tante volte, a fissare due persone che non sarebbero mai più tornate. E adesso è uno di loro. Quel suono riecheggia di nuovo nelle sue orecchie, e vede la bocca di Hammer che si muove senza riuscire a sentire le parole. Vede May tra la folla, e il signor Delmar [2] la sta sostenendo, mantenendola in piedi. Ma il suo volto è deformato dal dolore, ed è stato lui a causarlo… Peter sa che è colpa sua. Quello sguardo.

Ha firmato la propria condanna a morte.

Hammer gli si avvicina, e Peter finalmente si risintonizza, fissandolo stravolto.

“Ti ho chiesto: come ti chiami, ragazzo?” chiede Hammer, e il suo sorriso è più viscido, da vicino.

“Peter,” risponde lui. Deglutisce a fatica, cerca di non guardare May. “Peter Parker.”

“Peter Parker, wow,” dice Hammer. “Il nostro primo volontario nel Dodici. Il nostro primo volontario in assoluto è… è notevole. Tu sei notevole, signor Parker, decisamente… attiri già l’attenzione. Chi è quello là? Chi è per te Ned Leeds?”

Peter intercetta gli occhi di Ned, vede la sofferenza sul suo volto, e sente le lacrime che ricominciano a formarsi. “Uh… è il mio migliore amico,” dice. “È il mio migliore amico.”

“Devi volergli molto bene,” dice Hammer.

“Sì,” gracchia Peter. “Sì, è… è così.”

Ned lo guarda come se fosse già morto. Forse è solo una sua impressione, perché è come lo stanno guardando tutti. Sia lui che Michelle. Ned si dà una pacca sul petto, dove Peter sa che si nasconde la spilla di Wasp, e Peter tocca il punto in cui dove c’è il suo Iron Man.

“Beh, eccoli qua, Dodici,” dice Hammer, allargando le braccia. “I vostri Tributi. Michelle Jones e Peter Parker.”

Peter si rivolge verso Michelle, ma lei non lo guarda. Il silenzio è assordante, come se tutti coloro che conosce, tutti coloro con cui ha vissuto, fossero già in lutto per loro.

Si sente come se stesse precipitando in un abisso profondo, privo d’aria. Il Pacificatore alla sua destra si avvicina, lo afferra per il braccio in una presa salda, e lo sospinge verso la porta dietro di loro. Non ha mai oltrepassato questa porta, ma ha già visto tanti Tributi entrarvi per non tornare mai più a casa.

Il Pacificatore afferra la maniglia, la spalanca con uno strattone, e spintona Peter all’interno.

 
§

 
“Tony. Tony.”

Tony è bloccato da qualche parte tra il sonno e la veglia, e la vodka della notte scorsa impedisce ai ricordi di prendere forma. Ma qualche volta gli sembra di sentire la voce di Pepper, invece di quella di Janet. Gli sembra passato un secolo, dall’ultima volta che l’ha vista. Più tempo di quanto sia effettivamente trascorso. A volte si chiede se sia mai stata reale.

Si gira sul fianco, ripiegando il cuscino dietro la testa. Serra gli occhi. “Non oggi,” dice. “Non oggi, Jan.” Non ora. Non lui. Non più.

Sente i suoi stivali che calpestano il pavimento. “Mi dispiace, ma non è negoziabile, a meno che tu non te la voglia vedere coi Pacificatori.”

Quelle parole lo svegliano, inviano una scarica elettrica attraverso il suo corpo, perché sa cosa vuol dire. Non negoziabile vuol dire che è il giorno della Mietitura. È ubriaco la maggior parte del tempo, ma Janet si preoccupa di fargli tenere il passo con la tabella di marcia.

Le dà le spalle, ma si copre comunque il volto. Se la concede ogni volta, quella fugace ondata di tristezza per coloro che sta per incontrare, per le persone che non sarà in grado di salvare. Non lascia più il Villaggio così spesso, ormai, perché non vuole vedere le loro dannate facce. Non vuole incontrare nessuno di loro, perché alla fine Capitol gliene piazzerà due tra le mani. Due dai quali proverà a tenersi alla larga, due ai quali si affezionerà inevitabilmente, come fa ogni maledetta volta, due che sarà costretto a veder soffrire. Due che dovrà veder morire.

È la croce che deve sopportare, visto che non gli permettono di uccidersi.

“È già successo?” chiede, con voce roca.

“Sì,” risponde Janet.

Si avvicina, si siede sulla sponda del letto, senza toccarlo. “Uh, sono entrambi giovani, stavolta. Michelle Jones, sedici anni, e… Peter Parker, anche lui sedici anni. Lui… si è offerto volontario, Tony. Per il suo migliore amico. È stato… doloroso da guardare. Ha… ha coraggio, potrebbe… potrebbe essere troppo, per te.”

Sa quello che sta cercando di dire. Lascia che me ne occupi io, così non ti spezzerà il cuore. Si prende sempre cura di lui, a dispetto del dolore che prova anche lei, delle sue perdite, e a volte lo fa sentire più stronzo di quanto non sappia già di essere. Tony si schiarisce la gola, cercando di immaginarsi la faccia di Peter. Grandioso. Un altro che rosicchierà via ciò che è rimasto della sua anima.

Ma una parte di lui… una parte di lui pensa di meritarselo.

“Dio, no,” dice. “Io faccio da mentore al maschio, e tu alla femmina. Non sconvolgere il programma, Jan.” Si gira per guardarla. È già vestita di tutto punto. “Mi occupo io di lui.”

Janet sospira, puntando lo sguardo verso la luce che trapela dalla porta. “Va bene,” risponde. Gli dà una pacca sulla coscia. “Datti una mossa. Dobbiamo essere al Municipio.”

“Hai di nuovo scassinato la porta?” chiede lui, osservandola mentre si alza.

“No,” risponde lei. “Hai dimenticato di chiuderla a chiave.”

Tony vede una lunga fila d’ombre nella sua mente, e l’ultima ha appena preso forma.



 
*
 
 


Tradotto da: ever in your favor: a long line of shadows, di iron_spider da _Lightning_



Note al testo:

[1] Forno: il mercato nero del Distretto 12.
[2] Signor Delmar: in Homecoming, è il proprietario del negozio di panini che Peter fa accidentalmente esplodere.


Note della traduttrice:

Cari Lettori,
torno col secondo progetto di traduzione per una storia di iron_spider! Questa volta è una storia un po' più impegnativa, trattandosi di una long ancora in fieri (che dovrebbe concludersi entro 14 capitoli, di cui 6 disponibili in inglese ai link a piè di testo), ma visto quanto mi ha catturata sin dal primo istante, non potevo esimermi dal portarla anche sul fandom italiano. Spero che possa risultare altrettanto gradevole e avvincente anche in traduzione, e vi prego di farmi notare qualsiasi cosa non dovesse tornarvi o suonarvi strana, così da poterla rendere più scorrevole e fruibile ove necessario :)

La traduzione dei termini del romanzo segue quella canonica della pubblicazione italiana. In tutta onestà, non amo né approvo molte di queste scelte di traduzione, ma ho evitato di arrogarmi il diritto di modificarle, mantenendo quindi quelle originali. Riporto le parole dell'autrice dicendo che tutte le discrepanze di terminologia, dettagli o eventi sono volute e spiegate via via col procedere della storia. Quella più evidente nel capitolo è la diversa età di Mietitura, (12-18 anni nel romanzo) specificata in seguito. 
Come nella storia precedentemente tradotta, ho tentato di mantenere intatto lo stile originale dell'autrice, operando solo le interpolazioni strettamente indispensabili per rendere la lettura più gradevole in italiano – la più evidente è la traduzione variabile del "says", che non traduco sempre come un "dice" per questioni di eufonia.

Con questo, chiudo, sperando che abbiate gradito e che vogliate lasciare un commento, che riferirò ovviamente all'autrice originale <3
Grazie alle mie carissime _Atlas_ e Miryel che si sono prese la briga di farmi da beta-reader e si sono sorbite le mie solite fisime <3
Alla prossima (trovate sotto il link alla mia pagina come autrice),

-Light-







 



Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, l'autorizzazione a ripubblicare queste traduzioni altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP.

©iron_spider 
©_Lightning_

©Marvel
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Spazio vuoto ***


Capitolo 2: Spazio vuoto





 
 
“Guarda dove vai.” Le foglie scricchiolano sotto gli stivali di Janet.

“So camminare, Jan.”

“Mi sorprende che le tue gambe funzionino ancora; sei rimasto nella stessa posizione per gli ultimi tre giorni.”

“Non sono il tipo che corre, non… faccio jogging. Non diventerò mai il tuo compagno di corse.”

Tony sa che Janet vorrebbe per lui una vita migliore. Lei sa benissimo che sono in trappola, eppure ci prova ancora. Prova ancora ad avere una vita, prova ancora a trascinarlo fuori, alla luce del sole. Non sa come faccia ad andare avanti, dopo quel che è successo a Hope e Hank. Dopo l’inferno che loro due sono costretti ad affrontare, ogni singolo anno. Lei si alza ogni mattina e va a correre. Corre nel pomeriggio e dopo cena. La spia attraverso le persiane all’una di notte e la vede in salotto, a correre.

Stanno cercando entrambi di scappare, ma in modi molto diversi.

Tony abbassa lo sguardo sul suo palmare mentre camminano, cercando di non prestare orecchio ai camion e ai Pacificatori che monitorano ogni loro dannata mossa. Fissa la foto ormai vecchia di Peter Parker, guarda il filmato di lui che si offre volontario per il proprio amico. Li vede abbracciarsi, vede la presa di coscienza che attraversa il volto del ragazzo mentre viene condotto sul palco.

Tony si sente sul punto di vomitare. Risucchia un respiro e spegne il congegno. Vorrebbe romperlo. Spaccare lo schermo, graffiarlo, spezzarlo in due. Ma ogni volta che rompe un palmare, gliene forniscono un altro. Ogni volta che hackera il mainframe di Capitol, lo scoprono e lo punzecchiano un po’ con un bastone elettrico come punizione.

Magari un giorno si deciderà a nascondere un po’ meglio le proprie tracce online. Cioè quando le scosse elettriche smetteranno di sembrare un castigo meritato.

“Michelle ha un’aria combattiva,” dice Janet, scostandosi i capelli dal viso. “Credo che potrebbe dar filo da torcere a quelli dell’Uno e del Due.”

“Lo spero,” risponde Tony, cercando di non pensarci. Di non pensare a niente di tutto ciò.

Ha bisogno di bere.

Entrano nel Municipio attraverso la porta sul retro, ed è qui che Tony vede May Parker. Le rivolge una seconda occhiata, perché in effetti gli risulta familiare – qualche ricordo sbiadito, uno di quelli che deve aver rinchiuso nei recessi della propria mente – ma non distoglie lo sguardo in tempo e lei lo nota.

È l’ultima cosa di cui ha bisogno. Non ha neanche avuto il tempo di incontrare il ragazzo. Cerca sempre di evitare i familiari.

“Tony,” dice Janet, toccandogli la spalla e presagendo la tempesta in arrivo.

Ma May Parker è più veloce.

Schizza attraverso lo stretto corridoio, verso di lui. Invade il suo spazio personale, e l’unica ad essergli stata vicina ultimamente è Janet. E prima di lei, quasi un anno fa… ma a quello cerca di non pensare. I ricordi sono oscuri, fangosi, perché ha voluto renderli tali.

Gli occhi di May sono arrossati, scie delle lacrime le solcano le guance, ma la presa sul braccio di Tony è salda. C’è qualcosa nel suo modo di fare, una tesa determinazione, e non abbassa lo sguardo. Un Pacificatore sta di guardia alla fine del corridoio, ma non muove un dito.

“Non so se ti ricordi di me,” dice May, con voce bassa e tagliente. “Ma te lo farò ricordare.”

“Signora…” comincia Janet.

“Tony,” dice May, impassibile. “Hai la vita del mio ragazzo tra le mani. Mio nipote. Il mio Peter. E lo so, lo so… so cos’hai passato, so che questi volti, ogni anno, che non… che magari vorresti dimenticarli, che magari credi di… di non poter fare niente per loro, per questi ragazzi, ma Peter… sei stato un eroe per lui dal giorno in cui sei tornato.”

Tony risucchia un respiro, e punta lo sguardo per terra. Si sente una figurina ritagliata nella carta, come se un’altra sua parola potesse spazzarlo via.

“Signora, mi dispiace moltissimo,” dice Janet. “Ma noi…”

“Devo dirglielo,” ribatte May, avvicinandosi ancora. “Peter aveva quattro anni, quando hai vinto i Giochi. Non gli ho permesso di guardarli, ma sai che ci… che ci obbligano a uscire per guardare quella maledetta parata, l’Homecoming, e tu eri… eri il nostro secondo Vincitore nella storia di questo maledetto evento ed è stato… sono sicura che te lo ricordi. Era troppo. Era troppo.”

Lui annuisce, con la gola costretta. “Già,” riesce a dire. “L’ho pensato anch’io.” Quelli sono ricordi di sangue. Pieni di fori di proiettili e unghie e agonia. Sono seghettati, distorti.

“Siamo arrivati presto, praticamente prima di chiunque altro, e i bambini di quattro anni… corrono, corrono ovunque, e Peter… beh, ti ha visto. Prima della cerimonia di presentazione. Li ha visti, dietro al palco, mentre ti picchiavano. Ha visto il sangue, ha visto… in che stato fossi. Sapevo ciò che avevi perso, quello che… che avevano fatto… la voce si era sparsa…”

Tony libera un sospiro e sostiene il suo sguardo. Gli sembra che qualcuno gli stia spaccando il cranio dall’interno. I ricordi vorticano nella sua testa, si riassemblano. Cercano di risalire a galla.

“… ma Peter non lo sapeva. Ha solo… provato empatia. Capisci cosa sto dicendo? Riesci a ricordare?”

Tony batte le palpebre. “Ricordare?”

“Quando la folla è arrivata e tu sei dovuto uscire, avevi l’aria di chi sta per collassare. Come se non fossi nelle condizioni di farcela. E Peter, lui…”

Il ricordo lo colpisce, strisciando fuori da dove l’aveva sepolto.

Avevano ucciso i suoi genitori e Pepper il giorno in cui era tornato nel Distretto Dodici, e in seguito si era sentito un morto vivente. Come se respirare fosse troppo, come se vivere fosse troppo. Dopo ciò che aveva passato, dopo ciò che avevano fatto. Ma era il loro testimonial, e avevano delle aspettative. L’Homecoming era importante, e il suo comportamento non era all’altezza. Non aveva più quel sarcasmo alla Tony Stark, non faceva abbastanza battute, non era abbastanza sicuro di sé… ma lui non aveva più la minima idea di cosa diavolo significasse tutto ciò. Non era più se stesso. La sua vita era a brandelli.

Provavano gusto a pestarlo, e lui glielo lasciava fare.

Ma vedere quella folla, quel giorno, due giorni dopo aver perso tutto… allora era troppo giovane per avere un infarto, ventotto anni, ma aveva pensato di poterne avere uno. Tutto gli era sembrato ovattato, il suo intero corpo lo era, e sapeva che sarebbe stato così per tutta la vita. Il loro scherno, la sua vergogna, il proprio mondo alla deriva.

Poi, quel bambino.

Si era tenuto vicino alla prima fila, nella folla, e si era fatto avanti sgomitando. I Pacificatori non avevano visto alcun pericolo, in un bambino, e questi aveva afferrato la mano di Tony. L’aveva strattonata fino ad ottenere la sua attenzione, e lui si era inginocchiato di riflesso. Il bambino gli aveva toccato la guancia con una manina, e l’aveva guardato come se avesse saputo qualcosa che non avrebbe dovuto sapere, o qualcosa che persino Tony non sapeva ancora. E poi l’aveva circondato con le braccia, stringendolo forte a sé. Abbastanza forte da riportare Tony sulla terra, e da liberare tutto ciò che aveva tentato di sopprimere. Avevano pianto entrambi, e i Pacificatori non avevano fatto nulla per fermarlo. Avevano solo spento le telecamere.

“Ti ricordi,” dice May.

Tony si sente la testa leggera. “Cristo,” esala, serrando gli occhi. “Sì, uh…”

“Sembrava un momento importante,” dice May.

“Signora Parker,” dice una voce, dietro di loro.

“Da allora sei il suo eroe,” continua May, adesso più concitata. “Ogni giorno, tu, Tony Stark, Iron Man. Peter è… è buono, è gentile, ha un cuore più grande di chiunque io abbia mai conosciuto…”

“Signora Parker–”

“Prometti che non lo deluderai,” dice May, e i suoi occhi mandano lampi.

Tony non ama fare promesse, specialmente se non le può mantenere. Delude tutti, delude Janet ogni singolo giorno. Ma quel bambino – se era davvero Peter, se lei non sta mentendo – gli ha dato qualcosa che la maggior parte delle persone non gli danno, che sia per paura, o perché supportano quel maledetto sistema. Gli ha dato un momento.

“Non lo farò,” risponde Tony.

May lo fissa, come se non si aspettasse davvero una risposta.

“Signora Parker,” dice l’uomo, incombendo alle sue spalle. “Ha cinque minuti per salutare suo nipote.”

Lei annuisce, ancora senza girarsi. “Okay,” dice, squadrando Tony da capo a piedi, come se stesse cercando di decidere cosa pensare di lui. Tony sa che ha dei pregiudizi, notizie diffuse dalla gente, voci create da Capitol. Ma adesso, per lei, è qualcun altro. È l’uomo che deve salvare suo nipote.

Sente le spalle incurvarsi sotto il peso delle sue aspettative.

“Okay,” ripete lei, e finalmente si volta, seguendo l’uomo verso la porta in fondo al corridoio. Tony la guarda andarsene e si sente instabile, mentre cerca di ricacciare indietro i ricordi, per evitare che prendano fuoco riducendolo in cenere.

Riesce a intravedere il ragazzo seduto lì quando la porta si apre. È seduto con la testa tra le mani.

“Prossima mossa?” chiede Janet, con voce morbida e una mano sulla sua spalla. “Andiamo al treno?”

A volte li incontrano lì, altre sul treno. Non c’è un protocollo da seguire, non c’è un modo giusto per farlo, perché sono tutti morti. Ogni singolo ragazzo è morto.

Lui ha incontrato Janet sul treno.

“Andiamo,” dice Tony. “Li incontriamo là.”
 
§
 

Peter sa che è lei dal suono dei suoi passi.

“May,” gracchia, troppo spaventato per alzare lo sguardo, troppo spaventato dalla sua rabbia. Ancor più spaventato dalla sua tristezza. Sente la porta chiudersi, sente lei che prende un respiro. “May, mi dispiace.”

“No, no, tesoro,” dice lei, accarezzandogli la schiena non appena si avvicina. “No, non… va tutto bene–”

“Non va tutto bene,” geme Peter, con la testa che gli pulsa per quanto ha pianto da quando l’hanno portato lì. “Io– io non– non potevo permettere che succedesse a lui– non potevo pensarci, volevo solo… sapevo che c’era un solo modo per impedirlo e l’ho– l’ho fatto, non ho pensato, ho solo… parlato, è successo così in fretta–”

“Va tutto bene,” ripete May, posandogli un bacio sulla testa, uno, due, tre volte. Gli stringe le spalle, gli tira indietro i capelli, e lui si scioglie di nuovo in lacrime, perché è finita. È l’ultima volta.

Balza in piedi e la ingloba in un abbraccio. Si sente di nuovo piccolo, anche se è più alto di lei. Si sente come quel bambino orfano che fissava una fotografia sbiadita dei propri genitori, si sente come quel ragazzino delle medie idiota con troppo sporco sulla faccia che pregava di sapere cosa fosse successo a suo zio. La sua vita è stravolta – questa è una prospettiva del tutto nuova, una su cui ha avuto incubi, una per cui ha pregato attivamente affinché non succedesse mai a lui, eppure eccolo qui, a prepararsi per la marcia della morte. È nelle loro grinfie, adesso.

Sarà uno di quei corpi su cui si è sempre fatto troppe domande.

Quasi collassa sotto il peso della sua stessa paura, ma May lo stringe forte.

“Ti voglio bene,” dice lui, con voce tremante. Si avvinghia a lei. “Ti voglio tanto bene.”

Lei si scosta da lui, prendendogli il viso tra le mani. Lo guarda con fermezza. “Ti voglio bene, tesoro. Ma non morirai. Non morirai.”

Peter si sente sprofondare il cuore. “May–”

“Tony Stark. Non ti lascerà morire.”

Peter comprime le labbra e la fissa.

“Non lo permetterà. Non lo farà. Lo so, è stato… un periodo difficile. Per lui, per noi, per il Dodici, e… e per tutta Panem, ma tu… tu sei tu. E non può accadere.”

Peter non sa cosa dire. Sa che si sbaglia, sa che ci vorrebbe un miracolo per sopravvivere a ciò che lo aspetta. Ma non può spezzarle ancor di più il cuore.

Annuisce, posando la fronte contro la sua.

Passano alcuni secondi, poi la porta si apre. È terrorizzato all’idea che stiano venendo a prenderlo, ma il suo cuore si contrae quando vede Ned entrare nella stanza.

“Peter,” singhiozza.

“Ned,” esala lui, e si abbandona contro di lui quando gli si avvicina.

“Non dovevi farlo,” piange Ned, sulla sua spalla. “Non dovevi, non dovevi.”

“Sì, dovevo,” dice Peter, con gli occhi pieni di lacrime, e non sa come sarà in grado di staccarsi da lui.

Ned si scosta, scambia uno sguardo con May. È come se ci fosse una sorta di comunicazione silenziosa tra loro, che Peter non può decifrare, poi lo guardano di nuovo entrambi. May gli prende una mano, racchiudendola dolcemente tra le proprie. Ned gli stringe la spalla.

“Devi vincere,” dice Ned. “Tutto qui.”

Peter scuote la testa, guardandosi le punte dei piedi.

“Gli ho detto che Tony lo aiuterà,” dice May. “E vincerà. Vincerà.”

Peter deglutisce a fatica, e sta sudando, sta entrando nel panico, con la paura gli formicola ovunque. Poi c’è un forte colpo alla porta, e suoi occhi si dilatano. Sente il cuore sul punto di fermarsi, e incontra lo sguardo di Ned. “Ned, devi prenderti cura di lei.”

“Lo farò,” risponde Ned, annuendo rapido.

“Sai quello che succede dopo,” dice Peter, e si avvicina ancor di più a loro quando bussano di nuovo bruscamente alla porta. “Quando, mentre è… è in corso … Ned, sai cos’è successo alla famiglia di Tony. Lo sai.”

“La proteggerò,” dice Ned, stringendo a sé May.

“E io proteggerò lui,” ribatte May, prendendo Ned per mano. “E Tony proteggerà te.”

Peter trema, cercando di tenere a bada il panico, cercando di non pensare all’arena, al momento, il momento che tutti vedranno; lo vedranno rantolare, lottare per un respiro, tossire sangue, lo vedranno, lo vedranno, Tony lo vedrà, sarà un altro dei fallimenti di Tony, un altro tributo morto, un altro spazio vuoto…

La porta si spalanca, e un Pacificatore fa il suo ingresso. Peter risucchia un respiro, con la vista che gli si appanna, e May lo stringe tra lei e Ned.

“Ti voglio bene,” gli dice. “Ti voglio bene, ti voglio bene.”

“Ti voglio bene, Peter,” dice Ned. “Ti voglio bene, amico. Ce la farai, tornerai. Tornerai.”

“Vi voglio bene,” sussurra Peter, serrando con forza gli occhi. “Vi voglio bene, vi voglio bene.”

“È ora di andare,” dice il Pacificatore.

Peter mantiene la presa finché non lo strappano via, trascinandolo lungo il corridoio. Guarda disperatamente oltre la propria spalla, sapendo che questa è l’ultima volta che li vede. “Vi voglio bene,” grida. “Ned, May… vi voglio bene.”

Fanno per rispondere, ma le loro voci vengono soffocate da un altro Pacificatore che chiude la porta.

Due lacrime scorrono sulle guance di Peter, e si affretta ad asciugarle. Solleva lo sguardo e vede Michelle uscire da un’altra stanza, lasciandosi alle spalle una donna e una ragazzina. C’è un’aria spiritata negli occhi di Michelle, che lei maschera all’istante, spingendola da parte quando vede Peter.

“Hammer,” dice il Pacificatore. “Ci pensi tu?”

Peter alza gli occhi, e vede Justin Hammer in piedi accanto alla porta sul retro. Si volta, sollevando le sopracciglia.

“Sono vent’anni che lo faccio, bello, credo di essere in grado di fare due passi per accompagnare i miei nuovi ragazzi alla stazione.”

Il Pacificatore non aggiunge altro, si limita a spingerli bruscamente in avanti, abbastanza forte da farli incespicare entrambi.

“Cristo,” dice Hammer. “Non credono che vi maltratteranno già abbastanza? Eh?” Sfoggia un sorriso, con gli occhi che guizzano tra loro due. “Speriamo che voi due diventiate davvero famosi, poi nessuno potrà toccarvi senza che Capitol si infuri. E quando Capitol si infuria… Non sottovalutate il fatto di diventare i favoriti.”

Nessuno di loro due dice nulla, ma nella testa di Peter balenano talmente tante cose che non riesce a focalizzarne una. Non riesce ancora a credere che stia accadendo. Si sente come se potesse svegliarsi dall’incubo da un momento all’altro.

Hammer schiocca la lingua. “Bene, dovremo lavorare sui tempi di risposta, dovete… ragazzi, dovete fare di meglio.” Si muove verso la porta a vetri. “Andiamo. Seguite moi. Il treno è più bello della maggior parte delle vostre case.”

Volta loro le spalle prima che Peter possa lanciargli un’occhiataccia.

Lo seguono, e Peter pensa di fuggire. Si chiede quanto potrebbe arrivare lontano… è andato nell’Undici in passato, ha girato in lungo e in largo per il distretto senza essere notato, con Ned. Ma le persone conoscono la sua faccia, adesso, visto che quelle maledette Mietiture vengono trasmesse live in ogni distretto e in ogni casa di Capitol. Potrebbe dirigersi verso l’Oceano Atlantico, scoprire cosa ci sia dall’altra parte. Non gliel’hanno mai insegnato, non qui, non in queste scuole, ma Peter sa che Panem non può essere l’unica terra emersa nel mondo. Deve esserci qualcos’altro, un posto dove trattano le persone come… persone.

Pensa di fuggire, ma rimane comunque sui propri passi.

Oltrepassano la porta sul retro, iniziando a scendere le scale, e Michelle si schiarisce la voce.

“Avrei fatto la stessa cosa,” gli dice. “Quello… che hai fatto tu. Offrirti volontario per il tuo migliore amico. Se fosse toccato, uh… a mia sorella.”

Peter la guarda, con la bocca secca. “Quanti anni ha?”

“Tredici,” dice Michelle, con un sorriso piccolo e triste che fa capolino sul suo volto. “Questo era il suo primo anno.”

Peter deglutisce a forza, e solleva lo sguardo per guardare Hammer che cammina con andatura ondeggiante sul marciapiede. La stazione ferroviaria è proprio davanti a loro, e ci sono più Pacificatori di quanti Peter ne abbia mai visti in un posto solo, inclusa la Mietitura.

“Puoi chiamarmi MJ,” dice Michelle. Intreccia le mani di fronte a sé, e lo guarda di sfuggita prima di abbassare di nuovo gli occhi. “E non, uh… non ho intenzione di ucciderti.”

Peter sente un sobbalzo al cuore, ed esala una risata innaturale. “Bene,” risponde. “Perché hai… l’aria di chi potrebbe riuscirci.”

“Che bello vedervi fare amicizia!” esclama Hammer da sopra la propria spalla, fissandoli con un sorrisetto rivoltante. “L’anno scorso, Cristo… non la smettevano un attimo di litigare.”

Peter scuote la testa.

“Carino sentirlo parlare così di due persone morte,” sussurra MJ, e si accosta un poco a Peter mentre camminano.

Mentre salgono sul treno Peter lascia passare per prima MJ, e si volta sulla soglia per lanciare un ultimo sguardo al Dodici. Riesce a sentire i walkie-talkie dei Pacificatori, ma a parte quello c’è silenzio, il vento soffia leggero, gli alberi ondeggiano contro il cielo azzurro e terso.

Si chiede se si ricorderanno di lui.

“Ehi,” lo richiama Hammer, dandogli un colpetto sulla spalla. “Andiamo, stiamo per partire e non è il caso che tu cada. Inoltre, devi incontrare Janet e Tony.”

Peter un po’ si odia per l’ondata di entusiasmo che gli sboccia nel petto, e lascia che Hammer chiuda la porta scorrevole. Poi arriva un Pacificatore, che la sbarra e si posiziona di fronte ad essa. Come se lui potesse anche solo pensare di fare qualcosa.

Sospira e si volta per seguire Hammer.

Ammira Tony Stark da sempre e odia doverlo incontrare così. Come qualcuno marchiato a morte, come un fardello, un obbligo. Qualcuno che non vorrebbe neppure conoscere.

“Il viaggio durerà circa dodici ore, quindi mettetevi comodi, abbiamo tutto il necessario per tenervi occupati.” Hammer dà una pacca sulla spalla a Michelle e li supera, facendo loro strada.

Entrano in quello che sembra un salotto, e Peter non può fare a meno di rimanere a bocca aperta, perché sono nel vagone di un treno, eppure deve valere più della sua intera casa. Candelabri, soffitti di vetro, sedie di velluto. Tappeti egiziani che ha visto solo nei libri illustrati, fiori e decorazioni elaborate su ogni superficie.

Vorrebbe che May potesse vedere tutto ciò. In un contesto che non la spedisse a tutta velocità verso Capitol.

Il treno si mette in moto e sia Peter che MJ perdono l’equilibrio; Hammer ride appena, sostenendosi contro il muro con una mano.

“Già, la prima volta ti prende sempre di sorpresa,” commenta. “Su, i vostri mentori sono nel prossimo vagone. Assieme a… un sacco di cibo.”

Il cuore di Peter riprende a tambureggiare quando Hammer preme il pulsante per aprire la porta. Non riesce a prepararsi come dovrebbe, oggi sono successe troppe cose, queste circostanze sono assolutamente sbagliate, e sente la tentazione di darsi alla fuga e nascondersi dietro una delle sedie di velluto, magari dopo essersi scolato una di quelle panciute bottiglie d’alcool tanto per vedere che succede.

Ma i suoi piedi lo fanno avanzare, e Hammer si fa da parte quando entrano nel nuovo vagone.

Anche questo è stracolmo, e c’è un tavolo da buffet lungo almeno tre metri e mezzo, ma Peter è paralizzato.

Tony Stark e Janet Van Dyne si alzano in piedi, e Peter vede gli occhi di Tony che si concentrano su di lui. Peter l’ha visto solo in foto, e da lontano un paio d’anni fa, ma adesso è qui, di fronte a lui.

È un eroe, piccolo.
Bimbo, non… non sono–

Peter scuote la testa, con il ricordo che sparisce in uno sfrigolio prima che riesca a formarsi del tutto. Qualcosa che non riesce a richiamare alla memoria.

“Jan, signor Stark,” dice Hammer, indirizzando loro un sorriso, che Tony non ricambia. “Questi sono i vostri tributi, uh… Michelle Jones, Peter Parker. Non so se avete visto, ma Peter si è offerto volontario. Quindi abbiamo già una storia. Non è fantastico?”

“Già,” dice Tony. “Davvero fantastico.”

Peter si sente sprofondare.

“Michelle,” dice Janet, facendosi avanti e prendendole le mani. “È bello conoscerti, ma mi dispiace che tu sia qui.”

MJ si limita ad annuire, lanciando una rapida occhiata a Peter. Poi Janet si avvicina a lui, e Peter nota quanto siano dolci i suoi occhi. Gli posa una mano sulla guancia, inclina un poco la testa nel guardarlo.

“Sei stato molto coraggioso,” dice lei. “A fare quello che hai fatto.”

“Gr- grazie,” dice Peter, annuendo. Non si sente affatto coraggioso.

“Piacere di conoscervi entrambi,” dice Tony, sbrigativo, con le mani sui fianchi. Non è una presentazione individuale, ma continua a fissare lui, e Peter non riesce a capire cosa stia pensando. Non ne ha idea. Si sente solo stranamente piccolo di fronte a lui. Come se si trovasse davanti a una creatura mitica la cui presenza occupa metà della stanza.

Tony continua a parlare, gesticolando agitato. “Uh, Hammer, puoi… andartene? Da un’altra parte? Da qualunque altra parte? Questo cibo non è per te, è per loro–”

“Sei esilarante, Tony–”

“Non chiamarmi così,” scatta Tony, trasalendo con una smorfia. “I tuoi amichetti sono un paio di vagoni più giù, forse con loro c’è Wilson, potresti… andare loro incontro? Lasciarci in pace?”

Hammer si volta verso Peter, come se sperasse di trovare sostegno, ma lui distoglie lo sguardo.

“Va bene, Anthony,” risponde quindi. “Mi faccio vivo con voi quattro più tardi.”

Aggira Janet, afferrando qualcosa dal buffet prima di spostarsi nel vagone successivo.

La porta si chiude dietro di lui e torna il silenzio, col treno che sferraglia sui binari.

“Okay,” dice Janet, sfregando le mani tra loro. “Uh, mangiamo qualcosa, va bene?” Posa le mani sulle spalle di MJ, sospingendola. Tony rimane fermo per qualche istante, fissando Peter finché lui non si muove, per poi seguirlo verso il tavolo.

Si riempiono i patti in relativo silenzio, rotto solo da Janet che dice qualcosa di tanto in tanto, e Peter pensa che, anche se ha perso una figlia, si comporta ancora come una madre.

Si trasferiscono al tavolo da pranzo, e quando Peter si guarda alle spalle, sorprende Tony a fissarlo. O meglio, a fissare il suo piatto.

“Sai che puoi prenderne di più, vero?” gli chiede, e nella sua voce non c’è traccia di giudizio, ma una strana delicatezza, come non volesse esporsi. “So che… beh, diciamo che mi ricordo com’è il cibo nel Dodici. Il cibo normale, non quella merda gourmet che spediscono a me e Janet ogni settimana da Capitol.”

Peter solleva appena un angolo della bocca. “Mi ricordo, uh, quando offrivi a tutti, quando non – insomma, prima che ti facessero smettere. Io e May abbiamo mangiato questa specie di… carré di maiale arrosto, o qualcosa del genere, con un sacco di verdure e salse e patate, ed è stato… era… beh, lei ha pianto, questo è certo.”

Tony sorride appena, poi rivolge un’occhiata a Janet. “Sì, stiamo cercando un modo per aggirare le loro restrizioni del cavolo.” Batte la forchetta sul bordo del piatto. “E penso che uh… ci sia effettivamente del carré di maiale arrosto, tra le altre cose là sopra.”

Peter annuisce, e lo segue di nuovo fin là.
 
§
 

Il cervello di Tony sta lavorando in sovraccarico, e il silenzio è un invito a iper-analizzare tutto. Il modo in cui Peter impugna la forchetta, quello in cui la sua palpebra di contrae di tanto in tanto, quello in cui cerca di asciugarsi le lacrime non appena gli si formano agli angoli degli occhi. Mangia come se non avesse mai mangiato in vita sua, e Tony non lo biasima. Gli sembra abbastanza in forma, potrebbe cavarsela in una lotta, ma scaccia via quei pensieri, perché sono dannatamente invadenti. Sono in ballo, ma non del tutto, non ancora. Questo è il limbo. Se mai esiste una pausa, in questo inferno, è il viaggio in treno.

Non riesce a togliersi dalla testa l’espressione di May Parker. Guarda Peter, e pensa a quel bambino, così tanti anni fa. Sei un eroe, aveva detto, vicino al suo orecchio. Peter. Non il bambino. Era Peter.

“Quindi cosa dobbiamo fare?” chiede la ragazza, dopo aver ripulito il piatto. Si poggia al tavolo coi gomiti. “Quando arriveremo nell’arena?”

Il petto di Tony si costringe e i suoi occhi scattano verso Janet.

Lei si inclina in avanti, cercando di imitare la postura di Michelle, ma con una nota di tensione in meno nelle spalle. È brava a fare il suo lavoro, e Tony ritiene che sarebbe anche più brava se non dovesse anche fare da baby-sitter a lui. Non capisce come riesca a separarsi internamente, come riesca a imparare dei dettagli riguardo a queste persone senza che le si conficchino sottopelle, come riesca a non scottarsi sotto la bollente pressione di doverli seguire, con tutte le loro speranze e sogni e peculiarità, ancora sani e salvi e vivi. Tutto ciò lo divora. Non ha fatto a Peter una singola domanda personale e sa già troppo di lui: ricorderà per sempre il modo in cui sbatte le palpebre. Quello in cui si stuzzica le unghie. Quello in cui si scrocchia le nocche, in cui si sfrega l’angolo dell’occhio.

Ha la testa piena di loro ritratti, e cerca di rinchiuderli in una camera oscura. Ma vede ancora i loro occhi. Che lo implorano. Che si appannano, vitrei. Fissi. Morti.

“Beh,” dice Janet. “Abbiamo un mese intero di, uh, allenamenti e attività e… interviste–”

“Lo so,” la interrompe Michelle. “So che faremo tutte quelle stupidaggini, lo so… ma l’arena: è questo di cui voglio parlare.”

“Sì, ne discuteremo,” dice Janet.

“Quando?” chiede Michelle. C’è una breve pausa, e rivolge lo sguardo anche a Tony. “Quando?” chiede di nuovo, dilatando gli occhi, scuotendo la testa. “Non dovremmo passare ogni minuto a parlarne? Perché l’anno scorso, Bucky – era quello con le quote più alte. Sin dall’inizio. Era migliore di chiunque dell’Uno e del Due, e pensavamo… pensavamo che avremmo avuto un nuovo Vincitore nel Dodici, finalmente. Come ha fatto a perdere? Come è potuto succedere?”

Tony si sente raggelare nell’udire quel nome, e si morde il labbro inferiore. Lancia uno sguardo a Peter, e lo vede rigirarsi un acino d’uva tra le dita. “Avremo tutto il tempo che ci serve per prepararvi,” si sente dire. “Riguardo a quello, uh–”

“Adesso, vogliamo che vi riposiate,” interviene Janet. “Sappiamo… che la Mietitura è pesante. Siamo appena partiti, e non vogliamo… sovraccaricarvi di informazioni adesso, perché potreste non ricordarle.”

Michelle sospira, reclinandosi all’indietro sulla sedia, e Tony intuisce che vorrebbe insistere, metterli sotto torchio, urlare e scaraventare oggetti a caso, come ha fatto lui quando è stato mietuto. Ma si rivede anche in Peter, nel suo silenzio, nella sua malinconia, nello shock che trasuda da ogni poro.

Proprio allora, mentre Tony lo sta analizzando, Peter scosta la sedia dal tavolo e si alza.

“Tutto bene?” chiede Tony, rapido, prima di poterci pensare.

Peter poggia delicatamente le dita sul bordo del tavolo, e anche quello sembra un altro tic nervoso. “Qui c’è… insomma, probabilmente sì, è un treno di lusso… uh, c’è un posto dove sdraiarsi? Per dormire, magari.”

“Avete entrambi i vostri vagoni, se volete stare soli,” dice Janet. Incontra lo sguardo di Tony e inclina appena la testa. “Può prendere quello in coda, ma dovrà… passare dove sono Hammer e gli altri–”

“Non fa niente,” dice Peter, e si avvia velocemente verso la porta scorrevole sul retro, premendo il pulsante un paio di volte in modo frenetico per aprirla.

C’è qualche istante di silenzio dopo che se n’è andato, e Tony si sente un fallimento completo. Una parte di lui gli impone di seguirlo, di provare a confortarlo e scoprire di più su di lui. E l’altra parte lo inchioda sul posto, perché si sente già sull’orlo del baratro e sono passate solo alcune ore.

“Conosci… personalmente Peter?” chiede Janet a Michelle, mentre Tony sprofonda di nuovo al suo posto.

“Andiamo alla stessa scuola,” dice Michelle. “Non siamo amici, ma, uh, lo vedo in giro. È carino, è… è un idiota, è un grandissimo idiota.” Scuote la testa, nella direzione in cui è sparito. “Non se lo merita.”

“Nessuno se lo merita,” dice Tony, con un retrogusto amaro in bocca.

 
§

 
“Tony,” lo chiama Janet. “Abbiamo circa dieci minuti. Dovresti andare a svegliarlo prima che lo faccia Hammer.”

Tony si pizzica la radice del naso. Non vuole stare vicino ad Hammer, mai, e una delle piaghe nella sua vita è doverlo vedere per un mese di fila ogni singolo anno. Ma lui è abituato, e il ragazzo no, e trovarsi Hammer davanti non è esattamente un bel risveglio.

Annuisce, si mette in piedi e guarda verso Michelle, raggomitolata su una delle poltrone. “Ci pensi tu a lei?” chiede, già diretto alla porta.

“Ci penso io,” risponde Janet.

Tony si fa largo attraverso quel lusso opulento, prende un paio di sorsi dalla bottiglia di whiskey nel vagone successivo, e afferra una rivista con la faccia di Sue Storm [1] per schermarsi il volto quando varca la soglia del vagone degli stilisti.

Stanno chiacchierando a tutto spiano dei loro piani sbrilluccicanti, ma non sente la voce di Wilson nel coro. Sam non è al loro livello, e Tony ritiene che sia meglio che Peter incontri il suo stilista a Capitol. È dove lui ha incontrato Quill, molti anni fa. Quill, che all’apparenza non sembrava avere alcuna verve creativa. Quill, che era riuscito a sorprenderlo più di una volta.

Tony si chiede ancora se abbiano ucciso anche lui.

“Non pensare che non ti vediamo,” lo canzona Hammer.

“Non so di che parli,” dice Tony, da dietro la sua rivista. Sente Hammer che sbuffa, ma continua a camminare, preme il bottone e getta via la rivista non appena entra nel salotto successivo. Non ha idea del perché abbiano così tanti posti dove sedersi, e sospira tra sé attraversandolo a passo di marcia, dando un colpetto alla bottiglia di champagne vicino alla porta. Supera quello che dovrebbe essere il vagone di Michelle, che evidentemente non ha alcuna intenzione di usarlo, e raggiunge quello di Peter.

Si frena dal fare rumore e si ferma davanti alla porta, premendo il pulsante più piano di quanto abbia fatto finora.

Quando entra, Peter sta avendo un incubo.

Tony ne ha abbastanza da rendersene conto, e osserva il ragazzo stringere la mano attorno al lenzuolo. Gli incubi di Tony lo azzannano, lo triturano e lo sputano via, ed è sempre peggio quando deve svegliarsi da solo. Janet riesce a riscuoterlo: si porta sopra di lui e gli stringe la spalla. Gli ricorda quasi sua madre, quando si concentra abbastanza.

Di solito cerca di non parlare così tanto coi suoi tributi, sul treno. Beve, e sprofonda in poltrone troppo morbide. Janet si occupa di tutto, e lui si sbronza. Cerca di proiettarsi altrove, così da non vederli nei loro momenti più vulnerabili. Quando tutto è ancora nuovo, e terrificante, e hanno ancora un briciolo di speranza.

Si avvicina alla cuccetta e si siede sull’orlo. Janet ha meno incubi di lui, e dei pochi che ha non è quasi mai testimone, quindi si sente fuori posto, a stare dall’altra parte. Sa che i tributi degli scorsi anni hanno avuto degli incubi, ma di solito si tiene a distanza. Ci prova.

Si schiarisce la gola. Non funziona, e il ragazzo continua ad agitarsi. Sembra quasi peggiorare, e Tony allunga una mano, toccandogli la spalla.

“Peter,” lo chiama. Le palpebre di Peter sfarfallano, ma non si sveglia. “Peter, ehi.”

Il ragazzo sussulta, e i suoi occhi si spalancano. Lo mette a fuoco, corrugando la fronte, e la realizzazione di dove sia lo investe a ondate.

Tony sa cosa sta pensando.

“Già,” dice, conciso e pungente. “È ancora tutto vero.”

Peter chiude gli occhi, prende un respiro dal naso e lo rilascia dalla bocca. Tony ritrae la mano, ma continua a starsene seduto lì come un idiota.

“Uh, arriveremo nei prossimi cinque minuti, più o meno,” dice Tony. “Ci sarà un casino alla stazione, con la gente che sbraita e canta, come al solito. È abbastanza difficile da gestire, ma non faremo altro che… farci largo e andare direttamente al Centro Tributi,”

Peter deglutisce a forza e si solleva a sedere. Tony vede qualcosa cadere dalla sua giacca, e fermarsi rotolando di fianco al tappeto.

“Oh, merda,” mormora Peter.

“Faccio io,” dice Tony. Si china in avanti, raccoglie l’oggetto, e si ritrova a fissare il proprio volto. O meglio, il volto che ha costruito, quello che ha creato nel bel mezzo della foresta, mentre una sinfonia di morte risuonava attorno a lui.

Non vede la maschera di Iron Man da molto tempo, e si raddrizza di nuovo sulla sponda del letto, continuando a tenerla in mano.

“Uh, Ned – il mio migliore amico – l’ha presa per me,” dice Peter. “Questa mattina. Lui ne ha una di Wasp.”

Tony la fissa ancora per qualche istante, sentendosi lontano da lì. “Uh, è quasi identica,” commenta, restituendogliela. “C’era un po’ più di rosso, però.”

“Già,” dice Peter, sorridendo tra sé. “Ehm, ho… ho un paio di poster.”

“Ah, merce di contrabbando,” dice Tony, e la sua espressione si intenerisce suo malgrado. “Hai coraggio, ragazzo. C’è gente che li strappa per non finire nei guai.”

“Sì, li strappa e io raccolgo i pezzi e dico che li porterò alla discarica. Solo che la discarica è a casa mia.”

Tony fa un verso nasale e divertito, guardandosi le mani. Il treno si ferma senza scossoni, e solleva gli occhi giusto in tempo per vedere il lampo di paura in quelli di Peter.

“Ricorda, nessuno si aspetta niente da te, stasera,” dice Tony. “Praticamente, andrai dritto filato a letto.”

Peter annuisce, con la leggerezza del momento che svanisce all’istante. Apre rapidamente la sua giacca, e appunta di nuovo la spilla all’interno. Incontra i suoi occhi, e nei suoi c’è così tanta fiducia che Tony si sente quasi svenire. Si schiarisce la gola, alzandosi in piedi.

“Andiamo.”
 
§
 

A Tony non manca mai Capitol. Non si sente a casa nella residenza che gli hanno costruito al Villaggio dei Vincitori nel Dodici, ma qui si sente un reietto, anche se tutti lo amano. Lo amano come si amerebbe un animaletto domestico, e sa che un gran numero di persone non si lascerebbe scappare l’occasione di portarselo a casa e chiuderlo a chiave nelle loro ville.

Stanno guardando Peter nello stesso modo, adesso.

I Pacificatori creano un varco nella folla festante quando scendono dal treno, e Tony abbassa la testa per non vedere i colori sgargianti, i vestiti di satin, i completi glitterati che lo circondano non appena mettono piede a Capitol. Fanno andare avanti Michelle e Janet, e si ritrova a mettere un braccio sulle spalle di Peter, guidandolo. Sa che prima o poi dovrà incoraggiare il ragazzo ad essere più socievole, ma è il primo, maledetto giorno. Può permettersi di ignorarli, se vuole.

Si stanno dirigendo verso la limousine che Capitol ha assegnato al Dodici, e Tony sente qualcuno che strattona Peter via da lui. Alza lo sguardo, e vede un Pacificatore con una mano serrata attorno al polso del ragazzo; Tony scatta, irato, e si frappone a forza tra loro scansando la mano di quello stronzo.

“Ci penso io,” dice, piantandosi di fronte alla maschera scura, ed è molto più basso di quella testa di cazzo, ma ciò non lo fa sentire piccolo. Sa di avere dei problemi, sa che sarebbe a un passo dal lasciarsi morire per strada, se non ci fosse Janet a prendersi cura di lui, ma è dieci volte migliore di questi imbecilli. “Ce la faccio a far salire il mio ragazzino in macchina.”

Aveva appena detto il “mio ragazzino”?

Tony sa di essere una testa calda, e il Pacificatore potrebbe innescare una rissa, se volesse, ma non si pente di essersi fatto avanti. Solleva le sopracciglia nella sua direzione, inclina il capo e lo osserva indietreggiare.

“Due di voi ci hanno già fatto da scorta fin qui. Chi altro vuole unirsi alla festa, eh? Potete venire, ma non avrete un goccio del mio alcool.”

“Tony,” lo chiama Janet, dall’altro lato della limousine.

“Nessun volontario?” chiede Tony, squadrando la moltitudine di Pacificatori che li circondano e li fissano, davanti alla ressa urlante dei fan di Capitol appena oltre le transenne. “Benissimo. Grazie per la chiacchierata, Gonzo.”

Si volta infine verso Peter, e vede che lo fissa ad occhi sbarrati.

“In macchina, signor Stark,” lo incita Janet, con la testa che scompare mentre entra.

“Va bene,” sospira Tony. “Uh, dopo di lei, signor Parker.”

Peter annuisce alla svelta, come se si fosse dimenticato ciò che stava facendo, e Tony apre un po’ di più la portiera per farlo salire. Scivola accanto a lui, e il Pacificatore sbatte la portiera prima che Tony possa afferrarla. Assottiglia gli occhi, incontra lo sguardo di Janet, e la vede scuotere la testa nella sua direzione mentre Hammer e il suo team si fanno largo all’interno, spostandosi al centro della limousine mentre parlottano tra loro.

“Che c’è?” chiede Tony, quando la macchina si mette in moto. Alza lo sguardo verso il divisorio, vedendo le due sagome corpulente oltre il vetro. “Ne ho abbastanza, di loro. Ne ho abbastanza.”

“Non trasciniamoli in una rissa il primo giorno,” dice Janet.

“Che ne dite del terzo?” chiede Michelle. “O il quarto?”

Peter e Tony trattengono entrambi una risatina, e Janet scuote la testa.

“Va bene,” sospira Janet. “Va bene. Due settimane, è il massimo che posso concedervi.”

“Andata,” concorda Tony.

“Se ti butti in una rissa coi Pacificatori,” dice Hammer, “fammelo sapere, così mi prendo un posto in prima fila. Adoro guardarli mentre fanno il loro lavoro.”

“Non di fronte a te,” ribatte Tony, indicandolo a distanza.

C’è un breve silenzio.

“Non devi farlo per me,” dice Peter, piano.

“Tutto ciò che sto facendo è per te,” dice Tony, prima di poter davvero pensare a ciò che sta dicendo.

Janet gli rivolge un’occhiata acuta. Un’occhiata acuta che evita altrettanto acutamente.

In seguito, loro quattro non parlano molto, eccetto per Janet che fa allontanare Michelle dal vino del minibar. Tony osserva Peter che guarda fuori dal finestrino, e l'opulenza di Capitol è sempre spiazzante, agli occhi di chi non l’ha mai vista prima. Lo vede accadere ogni anno, ma per qualche motivo stavolta è peggio.

Parcheggiano fuori dal Centro Tributi, e i finestrini si oscurano mentre aspettano. Peter si agita sul posto, strusciando il pollice sul bordo del vetro, poi si si volta interrogativamente verso Tony.

“Cercano di impedirti di vedere i tuoi avversari prima di domani,” dice Tony. “Dobbiamo sempre andare per ultimi, perché siamo il distretto col numero più alto–”

“Il che significa che avrete l’appartamento col numero più alto,” s’intromette Hammer, con un drink in mano. “Il che significa che vi prendete l’attico.”

Tony si chiede a che diavolo stia pensando il ragazzo, e cerca di ricordare cosa stesse passando per la testa a lui quando il suo accompagnatore gli ha detto lo stesso. Sono successe talmente tante cose, da allora, con un orrore dopo l’altro che s’impilava di fronte a lui, e non riesce a mettersi nei suoi stessi panni di allora. La versione di sé che era arrivata qui è morta quando Rhodey ha esalato il suo ultimo respiro. E quella nuova è stata mutilata in modo irreparabile quando gli hanno mostrato il corpo di Pepper.
 
§

 
Peter suppone che l’attico voglia dire l’ultimo piano. Non ha mai visto dal vivo un grattacielo, solo nei libri su Capitol, o alla televisione quando trasmettono i servizi per il mese degli Hunger Games.

Si sente lontano mille miglia da lì. Come se qualcun altro stesse impugnando le redini e lui fosse soltanto un passeggero, intento ad osservare una successione di eventi impossibile che non potrebbe mai accadere.

Continua a fissare Tony come se fosse un miraggio. Un’illusione di Capitol. E lui non può davvero essersi offerto volontario per gli Hunger Games. Non può davvero stare… interagendo con Tony Stark.

Solo che si dà un pizzicotto sull’interno del braccio, e si ritrova ancora lì.

I Pacificatori aprono le portiere quando arriva il loro turno. Peter quasi inciampa nei suoi stessi piedi mentre inclina all’indietro la testa per guardare a bocca aperta l’edificio, così alto che la cima è avvolta dalle nuvole. Il cielo sta virando verso il violetto; l’arancio e il rosa iniziano a tingerlo a ovest, dove il sole sta tramontando. Tony lo sospinge attraverso le porte girevoli con una mano gentile sulla spalla.

L’interno ha un ampio spazio aperto al centro che risale senza fine verso l’alto, con blu metallici e oro lucido e troppi Pacificatori. Riesce a sentire il clamore lontano del tifo e dei cori, e si chiede se ci sarà altra gente di Capitol ossessionata dai Giochi ad aspettarli.

È come se fossero in attesa di raccogliere piccoli frammenti di lui. Frammenti che non esiteranno a scalfire via, come se stessero scavando in cerca d’oro.

Ma si sente a pezzi anche solo a stare qui.

“Andiamo direttamente all’ascensore,” dice Tony, e Peter annuisce. Sente Janet che parla con Michelle qualche passo più in là, spiegandole tutto ciò che faranno qui. L’allenamento, alcune interviste.

Peter entra nell’ascensore e cerca di scacciare la paura. Si volta a guardare i piani che scorrono oltre la finestra di vetro, e sente un fiotto acido nello stomaco.

“Credo che Sam si farà vivo domani,” dice Janet. “È il tuo stilista.”

“Uno di quelli bravi,” dice Tony.

Peter annuisce e chiude gli occhi, premendo la fronte contro il vetro.

 
§

 
Il loro attico è una delle cose più sfarzose che abbia mai visto in vita sua, e quasi gli dà la nausea. Il soggiorno è più grande del suo intero isolato. Il tavolino da caffè sembra d’oro massiccio.

Avanza spaesato fino a un corridoio sul retro, e Tony apre una porta per lui.

“Questa è la tua stanza,” dice. “Uh, hanno i tuoi dati di gennaio, quindi hai un armadio con dei vestiti su misura, per farti sembrare un vero abitante di Capitol. Niente di troppo kitsch, come quel branco di idioti che hai visto oggi. È più… raffinato, adatto ai tuoi gusti. Si spera.”

Le finestre occupano la metà dei muri e non… non mostrano l’esterno. Si vede uno scenario sottomarino, con pesci che si lasciano dietro scie di bollicine, poi muta in un paesaggio montano, con la neve che fiocca nell’aria. Poi si apre su una foresta immersa nella quiete, con le cicale che cantano e il vento che fa stormire le foglie. Gli ricorda il Distretto Dodici. Gli ricorda May e Ned.

C’è un camino che scoppietta nell’angolo, e un letto enorme grande quanto due di casa sua. Si avvicina all’armadio aperto, facendo scorrere il pollice sulla manica di una giacca rossa. Ci sono più vestiti di quanti ne abbia mai avuti.

Gli pulsa la testa. Si gira, fissando Tony ancora là in piedi.

“È tutto così strano,” commenta, scuotendo la testa.

L’ultimo letto in cui dormirà. Gli ultimi vestiti che indosserà. Tony è una delle ultime persone con cui parlerà, eccetto per coloro che decideranno di morire accanto a lui.

“Sì, uh, è–”

“No, intendo… incontrarti in questo modo,” lo corregge Peter.

Tony reclina di lato la testa e assottiglia gli occhi.

Peter si sente sovraccarico, un po’ fuori di sé, mentre tutto gli si riversa addosso in un sol colpo. “Sei da sempre il mio eroe. Da quando riesco a ricordare. Ho dei ricordi che ti riguardano e che sono sicuro di aver inventato, ma da quando ero piccolo tu… tu ci sei stato. Mia zia May ti rispetta, ed è difficile che lei rispetti qualcuno, e mio zio Ben, lui… beh, posso dirti che giocavamo a Iron Man contro Capitol in giardino, prima che ci ordinassero di smettere.”

Peter sente la propria vista annebbiarsi, e non sa se sta piangendo o se stia per avere un infarto. Un sedicenne può avere un infarto? Forse sì, se lo spediscono agli Hunger Games. Forse in quel caso sì.

“E Ben diceva sempre ‘oh, un giorno lo incontreremo’,” continua. “’Lo incontreremo davvero’, diceva. Ci avremmo provato… e sapevamo che sarebbe stato difficile, sapevamo che… che avevi sofferto molto, e non volevamo infastidirti più di quanto già non facessero. Ma poi lui, uh. Poi, lui–”

Peter fa un passo indietro, coprendosi gli occhi con una mano tremante. Ricorda le ustioni su tutto il corpo di Ben. Quanto aveva sofferto, il modo in cui il suo respiro era diventato un rantolo. Quanto ci aveva messo a morire.

“–e poi, uh, dopo… dopo che se n’è andato, è stato come se ci fosse questo vuoto enorme e rumoroso che mi seguiva ovunque. Uno spazio vuoto nel punto in cui ci sarebbe dovuto essere lui. C’erano domande per cui lui avrebbe avuto delle risposte. Delle abitudini di cui faceva parte. Ma se n’è semplicemente… andato. E ti vedevo di sfuggita ogni anno durante i servizi sugli Hunger Games e odiavo vederti così, odiavo pensare a quello che ti obbligavano a subire, ma più di tutto odiavo il fatto che, se davvero ti avessi incontrato, non ci sarebbe stato lui con me. Non potrà mai, mai…” Si schiarisce la gola e strofina il dorso di una mano sulle guance per asciugarsi le lacrime. “È solo un ricordo, adesso. Uno spazio vuoto.”

Peter sente Tony fare un passo avanti. “Ragazzo–”

“Non voglio essere uno spazio vuoto,” dice Peter, alzando lo sguardo verso di lui e strizzando gli occhi. “Non voglio che… May giri per casa con questo… vuoto assordante dove c’ero io. Non voglio che Ned si sieda accanto a un banco vuoto. E adesso, tu, tu che sei stato il mio eroe sin da quando ero piccolo, non– non voglio essere un vuoto anche per te,” dice Peter, respirando a fatica. “So che ne hai già abbastanza. Dappertutto, intorno a te, tutta quella gente, e non voglio– non voglio essere un’altra ombra. Non voglio essere un altro ragazzino morto.”

Si sente talmente in imbarazzo, ora che l’ha detto, ora che le parole sono appese nell’aria. “So che è egoista,” dice, più piano, chinando il capo. “Per Michelle e tutti gli altri che non se lo meritano…”

Tony si avvicina, allunga una mano e la stringe attorno al suo polso. “Non è egoista,” dice, con fermezza. “Non lo è. Neanche lontanamente.”

Peter si fa silenzioso, e tutto ciò che riesce a sentire è la voce di May.

Tony Stark. Non ti lascerà morire.
È un eroe, piccolo. È un eroe.

Un ricordo che non è sicuro sia reale. E ritorna a galla come un fatto.

“Tu non morirai,” dice Tony. “Non morirai.”

Peter lo fissa e basta. “Io… non ho neanche visto gli altri, ma so di non essere migliore di loro. So che non sono–”

“Non mi importa,” dice Tony, stringendogli ancora il braccio. È stranamente rassicurante. “Tu vincerai.”

Peter fa un verso scettico, e Tony scuote la testa. “Mi dispiace, ragazzo. Mi dispiace che tu non mi creda. Ma è quello che succederà.” Stringe appena il polso di Peter, lo guarda dritto negli occhi, come se stesse cercando di convincerlo del tutto. Poi lo lascia andare, gira i tacchi ed esce dalla stanza, lasciando la porta aperta dietro di sé.
 
§
 

Circa un’ora dopo, Tony sta premendo la fronte contro il muro accanto alla porta della veranda, che non si può aprire, giusto in caso a qualcuno venisse qualche brillante idea. Tutti gli altri sono andati a dormire, ma lui non ci riesce. Nella sua mente ci sono fuoco e fiamme, tuoni e fulmini e vecchie ossa. Lui stesso, che si fa largo tra le ombre.

“Che stai facendo?” chiede Janet, vicino a lui.

Lascia andare un respiro secco attraverso il naso.

“Di nuovo mal di testa da Capitol?” gli chiede. “Troppo Hammer? C’è sempre troppo Hammer. Sam sarà qui domani, sistemerà un po’ di cose.”

“Non è Hammer,” dice Tony. “Me ne sbatto di lui e dei suoi completini rosa shocking.”

“Già, poteva evitare di farci vedere cosa indosserà domani,” dice Janet. “Saremo… saremo comunque con lui.”

Tony scuote la testa, premendola con più forza contro il muro. Ci sono fantasmi ovunque in questo maledetto attico, e Peter ha ragione. Ci sono così tanti vuoti, così tanti spazi vuoti che lo circondano che riesce a malapena a respirare.

Non ne avrà un altro. Non questo.

“Cosa c’è?” chiede Janet, in tono più dolce.

“Lui lo devo salvare, Jan,” dice Tony, senza guardarla, perché ha paura di vedere la sua espressione. “Non posso… non posso lasciar morire Peter Parker.”

Ogni anno, si è tenuto a distanza. Si è dissociato, ha cercato di non conoscerli, li ha trattati come parte del proprio lavoro. Non ha permesso loro di avvicinarsi, o almeno ci ha provato. Ognuno di loro ha inflitto una crepa nel muro che si è costruito, ma ha sempre saputo che non sarebbe mai stato in grado di salvarli. Si è ripetuto che stava semplicemente cercando di essere realista, che erano bloccati in una ruota che avrebbe continuato a girare a dispetto di tutti i suoi sforzi.

Ma adesso vuole rompere la ruota. Perché Peter… Peter è stato dall’altra parte del muro sin dal giorno in cui Tony è tornato a casa anni fa. Il ragazzo non se lo ricorda nemmeno con chiarezza. È lì, dietro lo sguardo di un bambino di quattro anni, come un ricordo diafano che potrebbe essere inventato. May Parker l’ha dissepolto, l’ha illuminato a giorno. Gli ha ricordato della sua importanza. La faccia del ragazzo, adesso e allora, gli fa capire che non può più scappare.

Peter Parker non è come gli altri. Ha avuto un posto nel cuore di Tony per molto più tempo, e l’atrocità di questa situazione gli è più che evidente. Dal modo in cui parla. Da ogni passo che compie. Non è questo il suo posto.

E Tony deve salvarlo.




 
*



Tradotto da: ever in your favor: empty space, di iron_spider da _Lightning_


Note:

[1] Sue Storm: la Donna Invisibile, membro dei Fantastici 4.



Note della traduttrice:

Cari Lettori, 
ringrazio tutti voi che avete letto e che avete mostrato apprezzamento per la traduzione, mi avete davvero resa felicissima <3 Scusate il ritardo delle risposte singole (arriveranno, giuro), ma è un periodo in cui il tempo scarseggia :')
Grazie ancora, e spero che questo capitolo vi piaccia quanto il primo!

-Light-

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Spider-Man ***


Capitolo 3: Spider-Man



 
 
Peter viene svegliato dalla voce di Obadiah Stane. All’inizio crede che sia parte dell’incubo, e serra più forte gli occhi per oscurarlo. Ma sembra solo aumentare d’intensità, riportandolo a forza nel mondo in cui vive adesso.

Si gira sul fianco e vede lo schermo che proietta la faccia del loro Presidente. Stane sogghigna. I suoi discorsi sono obbligatori per tutti, a casa, al lavoro, a scuola, per strada, ma Peter non l’ha mai visto così in grande. Occupa metà del muro, e quella nuova posizione nella sua vita è insopportabilmente vicina, fin troppo pericolosa.

A Peter ricorda uno scheletro, fin troppo gioviale considerato l’argomento di cui sta parlando.

“–il programma degli eventi sarà inviato in ogni casa, così che nessuno si perda nulla,” dice Stane. “Oggi ci saranno un paio di sorprese, quindi non preoccupatevi, potrete conoscere i vostri Tributi molto presto. E stasera ci riuniremo in un’ondata di splendore per rivelarli al mondo con la parata dei cocchi. Non perdetevela! Rimanete sintonizzati, e Felici Hunger Games!”

Sogghigna coi suoi denti giallastri, e la trasmissione si interrompe. Peter si copre gli occhi con la mano e cerca di sprofondare nel pavimento. Di sprofondare nell’etere, fino al centro della Terra, in un posto dove la propria morte sarà una scelta sua e non loro. La paura è ustionante, crea un bozzolo di calore attorno a lui dentro la stanza gelida. La tristezza gli cala addosso come un sudario, o un cappio attorno al collo. Ma la sua rabbia supera le altre due emozioni. Continua a crescere, premendo contro le pareti del suo cuore e dandogli fuoco dall’interno.

Questa è la prima mattina della sua vita in cui non vedrà May, e li odia per questo.

“Buongiorno,” sussurra, cercando di immaginarsela. “’Giorno. Ti voglio bene.”

Sospira, consapevole di non potersi cullare in quelle fantasie per sempre. Chi avrebbe mai pensato che la sua vita normale sarebbe diventata così – un ricordo lontano, tanto fuori portata da riuscire a trovarlo solo sul retro delle sue palpebre? È su una strada senza uscita, adesso. Una che molti prima di lui hanno imboccato, per essere seppelliti nella terra alla fine di essa.

Scansa via le coperte e va a tentoni fino all’armadio, cercando di scegliere qualcosa da mettersi. I suoi colori sono solitamente pacati, ma c’è molto rosso, qui, molto blu, e non gli riesce di immaginarsi in nessuno di quei vestiti. Sceglie finalmente qualcosa, si sciacqua il viso in bagno e si fissa nello specchio per un tempo infinito.

Cerca di immaginarsi mentre si imbarca in quest’impresa, e non ci riesce. Deve diventare qualcun altro. Deve essere più simile a Tony.

Un lieve bussare trapela dalla porta.

Peter si sostiene con le braccia sul lavandino, scuotendo la testa. Vorrebbe che la finestra fosse aperta. Vorrebbe scalare l’edificio fino a terra senza essere visto. Vorrebbe scomparire.

“Peter,” dice la voce di Tony. “Ragazzo?”

Peter serra la mandibola, facendo un cenno al suo riflesso. Ieri sera si è comportato da idiota di fronte a Tony, ed è certo che non sarà l’ultima volta. Cerca di rammentarsi che probabilmente lui ha dovuto affrontare cose ben peggiori.

Esce dal bagno e si dirige verso la porta, aprendola rapidamente. Tony è lì, poggiato contro il muro, e sente Janet e MJ che parlano da qualche parte in soggiorno. Realizza che quell’emozione schiacciante che Tony sembra irradiare costantemente è senso di colpa, e lo trova nei suoi occhi anche adesso. Non sa perché mai dovrebbe sentirsi in colpa. Anche lui è una vittima.

“Ehi,” dice Tony. “Hai dormito bene? Non volevo svegliarti.”

Peter si schiarisce la gola, e annuisce. Gli incubi l’hanno tormentato, e ha creduto di annegare. Dubita che migliorerà.

“Dobbiamo andare un paio di piani più sotto e toglierci dai piedi la… parte estetica. Tagliarti i capelli e tutto il resto. È fastidioso, perché non ci provano neanche a farti sentire a tuo agio, vogliono solo cambiarti e plasmarti secondo gli standard di Capitol.”

Peter annuisce di nuovo. “Okay,” risponde. “Me… me l’aspettavo.”

“Senti,” dice Tony, raddrizzandosi un poco. “Sarà tremendo. Ma io sarò là fuori. Se c’è qualcosa che non ti piace, o che ti mette a disagio, chiamami e arrivo.”

“Okay,” concorda.

“O inizia a urlare come un pazzo,” aggiunge Tony. “Anche quello funziona.”

Peter sbuffa. “Sì, sono certo che sarebbe una tattica vincente.”

Tony scrolla le spalle. “Io l’ho fatto. Janet è entrata come una furia. Io farei lo stesso.”

Quelle parole gli mandano una scossa di calore nel petto, e annuisce di nuovo.

 
§

 
Non è semplicemente un taglio di capelli. Gli spruzzano addosso uno spray abbronzante finché non è “baciato dal sole”, gli aggiustano le unghie delle mani e dei piedi, gli rifanno le sopracciglia, gli arricciano le ciglia. Rimuovono alcuni nei, sbiadiscono i lividi, nascondono i tagli. Rimuovono ogni singolo pelo che non sia sulla sua testa, ed è quasi sul punto di chiamare Tony, se non fosse per il timore di farsi vedere da lui in questo stato. I tizi con i volti alterati chirurgicamente sono terribili, ed è sicuro che gli dislocherebbero qualche arto, se li lasciasse fare. Infine, passano a tagliargli i capelli. Si chiede come se la stia passando MJ, se siano più gentili con le ragazze o se strapazzino anche loro come delle bambole di pezza. Si sente sempre meno umano, e la sua rabbia cresce.

Ma subito dopo lo portano a una vasca dietro una tenda sottile, e si immerge nel bagno più bello che abbia mai fatto in vita sua. È caldo, profuma come lui non ha mai profumato, ed è pieno di schiuma e bolle. Quasi si dimentica dove sia, ovvero nel bel mezzo di un posto che non lascerà mai. È ipnotizzato mentre si lascia sprofondare nell’acqua, chiudendo gli occhi.

“Ehi, signor Parker,” dice una voce sconosciuta.

Il cuore di Peter manca un colpo e cerca di coprirsi con l’acqua, guardandosi attorno ad occhi spalancati. C’è qualcuno in piedi dietro la tenda, che gli volta rapidamente le spalle.

“Ah, mi hanno detto che avevi finito,” dice l’uomo, ridendo un po’. “I bagni sono una nuova aggiunta, li stanno ancora integrando nel programma. Scusami per l’intrusione.”

“Ho quasi finito,” dice Peter, fissandolo dal basso. Era troppo distratto dal bagno per ricordarsi che qui dentro ci sono almeno altre venti persone. È lieto che ci siano così tante bolle, perché dubita che la tenda serva a molto.

“Sono Sam,” dice l’uomo. “Sam Wilson, il tuo stilista. Mi dispiace che tu sia qui, ragazzo. Ma ho visto ciò che hai fatto per il tuo amico. Non abbiamo molti volontari dai distretti più alti. La gente già parla di te; si sentono un sacco di chiacchiere.”

Peter risucchia un respiro. “Bene,” riesce a dire.

“Ti lascio finire,” dice Sam. “Vengo da te e Michelle quando sarete coi vostri mentori.”

Peter annuisce e lo guarda andare via, poi libera il sospiro che gli stava gonfiando il petto. Ne prende un altro e si immerge del tutto nell’acqua, lasciandosi consumare dal calore. Per un minuto, finge di non essere qui. Per un minuto, finge che la sua vita sia diversa.

Finge finché non riesce più a trattenere il respiro.

 
§

 
“Vi hanno fatto fare un bagno?” chiede Tony, scambiando un’occhiata incredula con Janet. “Cavolo, che bello. Immagino che l’usanza di lavarti con un getto d’acqua come un criminale si sia estinta. Ricordo ancora quanto fosse forte. Non pensavo che l’acqua potesse lasciare dei lividi.”

Janet ha un’aria sospettosa. “È strano,” osserva. “Chissà perché hanno cambiato metodo.”

“È stato bello,” dice Peter. Continua a guardare MJ: i suoi capelli sono un po’ più corti, acconciati in morbidi ricci attorno al suo volto, e ha molto trucco sugli occhi. Sprazzi di viola e verde, come un’onda al tramonto, se ne avesse mai vista una. Si schiarisce la voce e riporta lo sguardo a Tony. “Ho conosciuto Sam.”

“Oh, è qui?” chiede Janet. “Non l’ho ancora visto.”

Qualcuno entra, posa un vassoio di strani, piccoli sandwich sul tavolino da caffè di fronte a loro, e Tony si accosta immediatamente a Peter. La porta si chiude di nuovo, e Peter si chiede cosa diavolo stiano aspettando.

“Sì,” risponde poi. “È arrivato mentre ero nella vasca.”

Tony sospira.

“Meno male che non l’ha fatto con me,” commenta MJ, agitandosi sul posto.

“Sarà meglio che si muova a venire qui,” dice Tony. “Interrompere la gente mentre fa il bagno, cavolo, mi deve qualche–”

“Ehi!” esclama una voce dietro di loro. “Qualcuno sparla di me?”

Si girano tutti e Tony si alza mentre Sam fa il suo ingresso; i due si salutano a qualche passo dal divano con un abbraccio. Peter non ha ancora sentito Tony ridere, nel breve periodo in cui l’ha conosciuto, ed è un suono rinvigorente, che lo coglie di sorpresa, come uno scorcio sulla vita che avrebbero potuto avere.

“Quelle teste di cazzo mi hanno mandato da lui,” dice Sam. “Pensavo che gli stessero sistemando i capelli, o qualcosa del genere.”

“L’hanno fatto dopo,” dice Peter, alzandosi a sua volta. “Prima li hanno tagliati, poi… sistemati.”

“Già, stai benissimo,” dice Sam.

Peter pensa di apparire come una versione strana e alternativa di se stesso. Guarda subito verso Tony per ricevere conferma dell’opinione di Sam, e distoglie altrettanto rapidamente lo sguardo nel realizzare ciò che ha fatto. Subito dopo guarda MJ, poi i propri piedi. Chiude gli occhi, sentendo il proprio viso scaldarsi.

“Sam, questa è Michelle,” dice Janet, alzandosi con lei.

“Piacere di conoscerti, Michelle,” dice Sam, offrendole la mano. Peter cerca di leggere la sua espressione, per vedere se ci sia un qualche segno di fiducia. Ma il trucco è così pesante che riesce a malapena a vederle gli occhi. “Mi scuso per la tua situazione.” Sam guarda Tony, e questi scivola più vicino a lui. “Lavorerò con voi quattro nel corso di questa esperienza infernale. Farò in modo di mettervi in risalto.”

“A me, ecco, è piaciuto il modo in cui hai trattato il braccio di Bucky, l’anno scorso,” dice MJ, a voce abbastanza bassa. Fa una pausa, e Peter vede il volto di Sam mutare. I ricordi plasmano la sua espressione. “Ho l’impressione che gli stilisti dell’Uno e del Due avrebbero cercato di nasconderlo, ma tu ci hai sempre… attirato l’attenzione.”

Un piccolo, triste sorriso grazia il volto di Sam. “Buck,” dice, con reverenza. “Lui era… era speciale. Lui e Nebula, l’anno scorso… l’anno scorso è stato duro, sì.”

Cala il silenzio, e Peter riesce a vederli tra un anno, con due nuovi tributi, mentre parlano così di lui e MJ. Gli manda dei brividi lungo la schiena, e si morde il labbro inferiore.

“Allora,” si riscuote Sam. “Ragazzi, avete qualche idea riguardo al vostro tema? Quello di default per il Dodici è sempre il carbone, o le miniere, ma sapete che non mi piace seguire il copione.”

Peter guarda MJ, e la sua mente diventa una tabula rasa. Come se non gli fosse mai piaciuto nulla in vita sua. Come se non avesse mai avuto una singola opinione o preferenza.

“Uh,” interviene Tony, allungando una mano per posarla sulla spalla di Peter. “Dobbiamo pensarci un attimo.”

“Spero che quell’attimo sia tra adesso e il nostro appuntamento, più tardi,” dice Sam, sollevando le sopracciglia. “Sai che cerco sempre di portarmi in vantaggio, e la parata è stasera. Sono bravo, ma dovete darmi almeno qualcosa su cui lavorare.”

“Sì, non ci abbiamo pensato,” dice Janet, incrociando le braccia. “Mantengono lo stesso programma per chissà quanti decenni, e quest’anno decidono di rivoluzionare le cose. Abbiamo la sala dei Vincitori e delle Arene tra dieci minuti…”

“Che stronzata,” commenta Sam.

“Di solito la conservano per dopo, e stanno affrettando la parata più che mai…” continua Janet, alzando la voce.

Peter si sta innervosendo. Prima gli hanno dato un programma su carta e a malapena l’ha guardato, perché è troppo strano e disturbante vedere il resto della propria vita pianificata in quel modo.

“Non è un problema,” dice Tony, guardandolo. “Ci inventeremo qualcosa mentre ci sorbiamo le loro cazzate.”

“A proposito,” dice Janet, guardando l’orologio, “mangiate in fretta, dobbiamo avviarci.”

“Inizierò a buttar giù qualche idea,” dice Sam, con un cenno a Peter e a MJ. “C’è qualche colore che preferireste?”

“Rosso?” chiede Peter, senza pensare. Gli ricorda quei poster sotto il letto, a casa sua. I video che ha guardato all’infinito, accoccolato sotto la vecchia tovaglia da pic-nic di May, in giardino con Ned. Rosso, come Iron Man. È una scelta semplice.

Si rimedia un’occhiata d’approvazione da parte di Tony.

“Okay,” conclude Sam. “Voi pensateci su, e sistemeremo tutto dopo.”

“D’accordo,” dice Tony. “Bene, adesso cerchiamo di seminare Hammer mentre andiamo lì.”

 
§

 
Peter è convinto che li tengano tutti nello stesso edificio in modo da non far loro vedere l’esterno. Così non subiranno la tentazione di evadere in un posto troppo ampio, pieno di troppe strade e possibilità. Potrebbero anche tenerli qui per sempre, se non avessero già deciso di ucciderli. Scendono un paio di piani, e intravede alcune finestre aperte. Solo uno spiraglio, ma c’è una traccia d’aria fresca.

Quando escono dall’ascensore, vengono condotti in una piccola stanza buia da tre Pacificatori, e tutti gli altri sono già là.

Gli si blocca il respiro in gola.

Vede Carol Danvers dall’altra parte della stanza, mentre parla con una giovane ragazza e con un uomo più alto. Vede Thor, Sue Storm, tutti i Vincitori che ha imparato a conoscere nel corso della sua vita. E vede tutti gli altri, i ragazzi e le ragazze di ogni distretto… i suoi avversari, in teoria. Tutti stanno in piedi in dei piccoli quadrati bianchi sul pavimento, etichettati coi rispettivi numeri, e Peter nota che alcuni dei distretti mediani hanno un solo mentore.

Ha la nausea e rimane al contempo a bocca aperta.

Si sposta all’indietro, più vicino a Tony e Janet. Non vuole guardare nessuno, non vuole vederli, né conoscerli, ma ha l’impressione di cogliere sempre uno scorcio dei loro volti, e memorizza all’istante ogni dettaglio. Ed è convinto che anche loro lo stiano guardando. Hammer si discosta, superandoli e salutando un altro accompagnatore.

“Stai bene?” chiede Tony, con una mano sulla sua spalla.

Peter annuisce, cercando di concentrarsi su di lui e non su tutti gli altri. Ma non riesce a trattenersi, e lancia un’occhiata verso i tributi del Distretto Sette: sono accanto a Thor. Il Sette non vince spesso, né mai, in effetti. Thor è l’unico Vincitore ancora in vita, considerando che Xavier [1] è morto circa dieci anni fa. Ma i due che accompagna sembrano… determinati. Un uomo alto e biondo, con le spalle larghe, e una donna più bassa, con capelli rossi e occhi scuri. Parlottano tra loro, con l’aria di chi ha qualcosa da nascondere.

Peter realizza che probabilmente è così per tutti.

“Non preoccuparti,” dice Tony, guidandolo verso il loro quadrato. “Jan e io conosciamo tutti gli altri mentori qui. Siamo tutti… dalla parte di tutti.”

“È solo strano vederli,” ammette Peter, mentre si muovono.

“Già,” dice Tony, esaminando rapido la stanza. “Stanno probabilmente pensando la stessa cosa.”

Peter sa che Tony non gli sta dicendo tutto, per esempio le alleanze che dovrà stringere se vuole sopravvivere. Ha delle visioni di ciò che potrebbe accadere, dei lampi pieni di troppo sangue, di troppe urla, dei boati ogni volta che qualcuno esala l’ultimo respiro. Nomi che avrà imparato a conoscere che brillano nel cielo. Il suo stesso nome, quando non sarà più in grado di leggerlo. Se pensa troppo in avanti, si sente paralizzato, con le spalle che si irrigidiscono e la mascella che si serra. Non vuole pensarci, non vuole pensarci.

Presto sarà morto.

Si fermano nel quadrato del Distretto Dodici accanto a Janet e MJ, e subito Peter sente Tony che richiama l’attenzione di Carol con un sibilo a fior di labbra. Lei si gira, alzando le sopracciglia con un sorriso.

“Beh, guarda chi c’è,” lo saluta.

“Ehi, donna spaziale,” dice Tony, allungandosi per stringerle la mano.

“Testa di latta.”

Peter adora Tony, ma si sente insignificante sotto lo sguardo di Carol. Lei gli sorride in modo dolce, e dà di gomito alla ragazza accanto a lei.

“Shuri,” la chiama. “Eccolo qui.”

La ragazza di nome Shuri si volta, e i suoi occhi si dilatano nel vederlo. “Oh, Peter!” esclama. “Non vedevo l’ora di conoscerti.”

Lui la fissa interdetto. “Uh,” gracida, “perché?”

Lei sorride, un po’ tristemente. “Beh,” comincia, “avevo l’impressione che avremmo potuto essere amici.”

Peter si sente molto stupido per un secondo, poi riesce a ricambiare il sorriso, prima che le luci lampeggino due volte per poi attenuarsi. Coglie MJ che scuote la testa rivolta a lui. Diventa così buio che riesce a malapena a vedere qualcosa, se non le sagome di chi gli sta intorno. Si lascia trascinare in un breve sogno ad occhi aperti, nel quale tutti loro fanno squadra insieme, aiutandosi a vicenda nell’arena. Scappano via. Tornano liberi. Rimangono in vita.

Un’ondata di musica risuona, e gli ricorda il video che mostrano alla Mietitura.

“Questo tizio è nuovo,” sussurra Tony. “Quello di cui stiamo per sentire la voce. Octavius [2] … è andato in pensione.”

“In pensione?” chiede Peter, fissandolo e vedendo solo i suoi occhi nel buio. “Gli Strateghi vanno in pensione?”

“Beh, sì, quando danno di matto,” dice Tony, e Peter sente qualcuno, probabilmente Janet, che gli dà un colpo sul braccio. “Il pavimento sta per muoversi,” aggiunge poi.

“Smetti di fare spoiler,” lo riprende Carol. “Lo sai che investono tutto nel valore di produzione.”

Il basso della musica si fa più intenso e Peter lo sente nel petto, poi dei piccoli divisori sbucano dal pavimento su ogni lato del loro gruppo, fino ad arrivare all’altezza della sua coscia. Poi, proprio come ha detto Tony, il pavimento inizia a muoversi. Peter sospira, guardando in lontananza nel buio, e si mordicchia il labbro inferiore fino a sentire il sapore del sangue.

Gli sembra che si muovano all’infinito, lentamente, inesorabili, senza alcuna meta, e a questo punto sono sicuramente fuori dalla stanza di partenza. Poi sente una voce, più gentile di quanto si sarebbe aspettato, che proviene da tutto intorno a loro.

“Per andare avanti,” dice la voce, “si deve cominciare dal passato.”

“Sempre lo stesso, maledetto copione,” dice Tony, schioccando la lingua.

“Condannano a morte tutti i bravi sceneggiatori,” replica Carol.

Un’area si illumina alla loro sinistra, ed è l’arena desertica che ha dato inizio a tutto. I primi Hunger Games. Peter vede James Howlett là fuori da solo, e Marko che lo insegue inesorabile. Peter ha visto questa scena centinaia di volte, ma sembra sempre che possano entrarvi dentro e diventarne parte, sprofondare nella sabbia calda per morire assieme a loro. Sa cosa succede dopo, e intravede Howlett schivare un colpo e girarsi per caricare Marko, molto più alto di lui, coi secondi che li separano dall’essere vittima e tributo che stanno per scadere. [3]

Un’altra scena appare sulla destra, ed è dell’anno di Carol. Peter la nota chinare la testa di fronte a lui per non vedersi marciare attraverso delle strade devastate, sostenendo Maria Rambeau per tenerla in piedi. Peter si schiarisce la gola troppo forte: sa che l’altra donna è morta poco dopo.

Il successivo è Thor, e Peter lo sa anche prima di vederlo apparire, per via dei fulmini. Thor è più giovane, con le lacrime che gli rigano le guance, e crolla in ginocchio sull’orlo del burrone. Hanno usato quell’immagine sui poster per anni. L’hanno modificata per rimuovere i corpi.

Peter vede Tony accostarsi a Janet, la vede asciugarsi gli occhi, e la scena successiva è di quando ha vinto Luke Cage. Lo mostrano con la sua alleanza, e Peter deglutisce a fatica, con la bocca secca. Non riesce a immaginare come possa sentirsi Janet, a vedere tutto ciò ogni anno: suo marito Hank è in coda al gruppo, con la figlia Hope accanto, alla sua destra. Peter ricorda come Luke avesse tentato di tenerli in vita. Quanto fosse stato brutale Capitol, per il fatto che tutti stavano facendo gruppo. Era stato un bagno di sangue.

Hope era così giovane, e quell’anno Janet ha perso tutto. Peter chiude gli occhi, con la gola stretta, e sente le tempeste, sente le urla, e si chiede per quanto ne avranno ancora.

“È dura,” dice Tony. “Cerca… cerca solo di dare un’occhiata alle arene. Ti mostrano delle immagini leggermente differenti da quelle pubbliche. Non si può mai sapere se decideranno di copiare qualcosa dagli anni passati.”

Peter annuisce, e si sforza di riaprire gli occhi. Vede l’anno di Janet, col mondo acquatico, e l’anno in cui ha vinto Sue Storm, sull’isola. Karen Page, nel labirinto. Emma Frost, nei magazzini. Kamala Khan, nel castello. Bolivar Trask, nei cimiteri. Eddie Brock, con i grattacieli. [4]

Poi c’è Tony, con la foresta sterminata. Il tempo cambiava ogni giorno, da un estremo all’altro. La pioggia aveva mostrato chiaramente a Tony dove fosse attivo il campo di forza e dove no. Poi, il vibranio che aveva estratto dall’arena stessa per costruire la sua armatura. A quel punto fanno vedere come avesse eliminato ogni ostacolo, inarrestabile, in testa fino al momento in cui avevano inviato l’alluvione. Mostrano anche quello, e Rhodey che lo salva. Rhodey che gli toglie delicatamente l’elmo, aggrappandosi ancora all’ultimo pacco che Pepper aveva inviato nell’arena.

Peter guarda Tony, col volto illuminato dalla scena.

“Era il migliore,” si trova a sussurrare Peter.

“Già,” dice Tony, con voce roca. “Lo era.”

L’ultimo filmato che vedono è direttamente di fronte a loro, e il pavimento smette di muoversi, coi divisori che si ritraggono. È il Vincitore dell’anno scorso, Jessica Jones, in mezzo al campo di granturco in cui è finito tutto. E invece di rimanere di fronte a loro, un portale sul passato, la scena si ingrandisce estendendosi tutt’intorno a loro, come se stavolta vi fossero dentro. Peter vede ai suoi piedi gli steli che ondeggiano nel vento, vede il modo in cui l’ologramma traballa impercettibilmente quando sfiora le sue gambe. Si vede appena, ma lo nota.

Jessica sorregge Danny Rand [5] tra le braccia, ormai morto. Gli elivelivoli calano dall’alto su di loro, e Peter strizza gli occhi, schermandoli dal sole accecante. Questo non l’hanno visto in tv, anche se Peter ricorda a malapena gli eventi finali, perché era troppo abbattuto per quello che era successo a Bucky.

Ma adesso guarda Jessica. I suoi occhi appannati, il respiro spezzato e ansimante, quel lungo taglio sul collo che sanguinava più del dovuto. Era quasi morta. Avevano quasi perso il loro Vincitore, proprio alla fine.

Gli ultimi Giochi si erano protratti per quattro mesi. I più lunghi di sempre.

“Lei non è qui, vero?” chiede Peter, inclinandosi verso Tony.

“Il Cinque ha sei Vincitori,” risponde Tony. “Quindi ha rinunciato. Luke voleva che si riposasse.”

Peter ricorda i filmati sul loro fidanzamento, e di essersi sentito contento per loro. Sa che la maggior parte delle notizie sui Vincitori sono artefatte, distorte, ma ciò che c’è tra loro sembra sincero.

L’ologramma diminuisce d’intensità e si dissolve rapidamente; sono in un’altra stanza, simile a quella da cui sono partiti, se non per i muri dipinti di rosso e per il palco coperto di velluto di fronte a loro, con un uomo al centro di esso, in piedi. È basso, ha occhi stranamente gentili e sorride, guardandoli.

“Sono Bruce Banner,” dice, e Peter realizza che è la stessa voce che hanno sentito all’inizio. “Il vostro nuovo Stratega. Otto ha lasciato un’eredità che nessuno di noi potrà mai dimenticare, ma è sempre importante puntare al futuro. Sono un uomo di scienza, e conto di creare qualcosa che nessuno abbia mai visto prima. Ho un paio di assi nella manica, e vorrei ringraziare tutti i nostri Tributi, Mentori e Accompagnatori per aver preso parte a questo evento.”

Come se avessimo scelta, pensa Peter.

“Riflettete su chi siete voi,” dice Bruce, con gli occhi che li esaminano uno ad uno. “Riflettete su cosa potete fare. Su cosa potete creare. Sulle vostre capacità. Su cosa siete in grado di vedere. Su cosa potete essere. E questo è ciò che diventerete nell’arena.”

Peter vede Tony alzare gli occhi al cielo, scuotendo la testa.

“Non vedo l’ora di conoscervi tutti,” dice Bruce, e sembra ancora troppo… gentile, per essere un maledetto Stratega. “E che la fortuna possa sempre essere a vostro favore.”

Una mezza dozzina di porte si apre tutt’intorno a loro, e i Pacificatori marciano all’interno. Bruce sparisce rapido com’è apparso, e Peter fissa il punto in cui era in piedi.

“Cercano di impedirci di socializzare,” dice Carol, girandosi. Si inclina verso Tony e gli dà un bacio sulla guancia prima che qualcuno possa dire qualcosa, poi allunga una mano per stringere quella di Janet.

“Parleremo di più quando sarà il momento,” dice Tony, facendole l’occhiolino.

Iniziano a muoversi, quando un’altra porta si spalanca. Si girano in direzione del rumore, e c’è un Pacificatore di fronte a loro con una fascia rossa in vita, invece della solita grigia.

“Stark,” lo chiama. “Everhart vuole scambiare due parole con Parker.”

“Oh, no,” dice Hammer, scuotendo il capo. “Scusa, amico, ma non è in programma.”

“Ha scambiato una chiave per tre domande, sono già pronti. Ci serve Parker,” ripete il Pacificatore, impassibile.

Hammer si volta a guardarli e, per una volta, sembra colto di sorpresa. Di solito è bravo a mascherare le proprie emozioni, e Peter si sente ancor più nervoso nel vederlo così. Guarda Tony in cerca di una spiegazione, perché il nome Everhart gli suona familiare, anche se non saprebbe dire perché.

“Ha già deciso su chi puntare, se spreca una chiave il primo giorno,” commenta Janet.

Tony scuote la testa. “Cerca di ottenere uno scoop.”

“Un’intervista?” chiede Peter.

“Già,” dice Tony, incrociando il suo sguardo. “Tre domande, in realtà.” Sospira, puntando lo sguardo a terra. “Everhart. È tenace. Non mi sta simpatica, ho avuto qualche… uh, scontro con lei, in passato.”

“Adesso,” insiste il Pacificatore con la fascia rossa, mentre la stanza si svuota del tutto.

Peter sente il cuore battergli forte tra le orecchie, e cerca di continuare a respirare normalmente.

“Ci vediamo dopo con Sam,” dice Janet, rivolgendo loro un cenno del capo.

Peter intercetta lo sguardo di MJ, e lei ricambia in modo strano, mentre tenta chiaramente di comunicargli qualcosa che lui non è pronto a decifrare. Spera di riuscire a leggerla meglio col passare del tempo, perché, a dispetto di ciò che accadrà, vuole rimanerle accanto il più a lungo possibile.

Si separano, con Janet e MJ che si avviano in una direzione, e Peter e Tony che seguono Hammer verso la porta aperta. Peter risucchia un respiro, cercando di placare i tremiti che gli attraversano il cuore. Non sa cosa siano le “chiavi”, ma sembrano chiaramente una sorta di valuta per i giornalisti, che usano a loro discrezione. Si sente trattato come una merce, un qualcosa di loro proprietà, ancor più di prima. Sono da sempre schiacciati sotto lo stivale di Capitol, ma adesso può essere spostato, spinto via, ferito, toccato.

Si sente girare la testa, impotente. Gli ribolle il sangue.

Hammer si fa pensieroso per un momento, per poi serrare la mascella. “È un bene!” esclama. “È un buon segno. Sono interessati a lui, è un bene. È un buon segno, bello, stiamo andando nella direzione giusta. La Everhart è una stronza, ma è sulla loro lunghezza d’onda.”

“Va bene,” concorda Tony, e fa strada a Peter con una mano sulla sua spalla.

Peter non crede che sarebbe in grado di gestire la situazione se non ci fosse Tony a guidarlo.

 
§

 
Tony osserva Peter che si siede di fronte alle telecamere della Everhart – al plurale, perché ce ne sono ben quattro puntate contro di lui – e si sono insolitamente piazzati al primo piano, circondati da finestre che li inondano di luce. Di solito i tributi vengono tenuti lontani dal primo piano, a meno che non escano per un evento, ma la Everhart è la nipote di uno dei Fondatori, quindi riesce quasi sempre a ottenere ciò che vuole. Ha ridotto i Pacificatori nella stanza a due, quando normalmente ce ne sono cinque o sei.

Tony si ritrova a preoccuparsi per il ragazzo. Si preoccupa per quello che dirà, visto che non hanno avuto l’occasione di pianificare un bel nulla, ma anche per il suo stato mentale. E per come se la stia passando in generale. Ha la mente offuscata, che rivanga cose a cui non vorrebbe pensare e che non vorrebbe affrontare.

“Uh, non è che potresti, uh… non so, prepararmi un po’?” gli chiede Peter, agitandosi sullo sgabello su cui l’hanno fatto sedere.

“Andrai benissimo,” dice la Everhart, sorridendogli seccamente. Oggi è particolarmente in ghingheri: ha una gorgiera attorno al collo e rose viola tra i capelli. L’ultimo grido di Capitol, che la ricopre dalla testa ai piedi.

“Andiamo, Christine,” dice Tony, inclinando il capo verso di lei. Ma lei si limita a sorridergli, ed è chiaro che non è disposta a concedergli alcun favore, nonostante lo abbia definito più volte il suo Vincitore preferito.

“Siamo in onda,” dice lei, e la luce rossa si accende. Tony non si preoccupa minimamente di uscire dall’inquadratura, il che probabilmente le dà sui nervi, ma vuole rimanere a portata di mano nel caso dovesse passare il segno. Sente di aver davvero bisogno di bere, ma sta cercando di limitarsi per il momento, se ci riesce. Si chiede dove stiano trasmettendo al momento, se sia un broadcast nazionale o riservato ai più ricchi cittadini di Capitol. Il tono di Christine cambia, e si siede con la schiena diritta, impersonando del tutto l’immagine pubblica che mette su per le telecamere.

Tony la detesta. Detesta tutta questa falsità.

“Signore e Signori, è qui con noi il Tributo del Distretto Dodici, Peter Parker,” annuncia.

Tony sposta lo sguardo, e vede Peter forzare un piccolo sorriso.

“A cosa stavi pensando quando ti sei offerto volontario per Ned Leeds?” gli chiede. “Ci siamo tutti commossi molto per la tua decisione.”

Peter si schiarisce la gola, e Tony si sente spezzare il cuore quando il ragazzo lo guarda, con occhi che dicono chiaramente quanto sia stanco di parlare sempre e comunque di quell’episodio. Il dolore che nasconde, il modo in cui l’ha portato qui. Tony gli fa soltanto un cenno, cerca di trasmettergli quello di cui non hanno ancora parlato, non davvero. L’idea di creare un qualcuno per gli occhi del mondo, così da proteggere lui e ciò che è veramente. Qualcuno che risulti gradevole e per cui loro faranno il tifo, senza per questo dover tradire se stesso.

Peter sospira e riporta lo sguardo alla telecamera. “Uh, stranamente, non stavo… pensando a nulla,” risponde, muovendosi a disagio.

Everhart ha contrattato per tre sole domande, e spera palesemente in un continuo.

“Non… non potevo semplicemente lasciarlo andare,” riprende Peter. “Dovevo proteggerlo, lui… lui mi ha sempre protetto, è sempre stato il mio migliore amico da quando siamo bambini, e l’ho… l’ho fatto semplicemente senza pensare, davvero. Non poteva andare diversamente.”

Lei annuisce, e Tony si chiede se quella sua testa vuota riesca davvero a comprendere ciò che ha appena sentito. “Sei appena stato nella stessa stanza degli altri Tributi per la prima volta,” continua lei. “Come pensi che te la caverai contro i tuoi avversari?”

Tony alza gli occhi al cielo. “È il primo giorno, Christine,” si ritrova a dire.

Gli occhi di lei si assottigliano. “È lo stesso,” replica. “Prime impressioni.”

Peter guarda di nuovo Tony, e lui scuote la testa. Peter ride debolmente, fissandosi le mai in grembo e, Dio, Tony vorrebbe solo portarlo fuori da qui.

“Uh, beh, la maggior parte è più alta di me,” dice Peter. “Insomma… anche MJ… cioè, anche Michelle è più alta di me. Quindi…” Si schiarisce di nuovo la voce.

Tony trattiene un lamento, coprendosi il volto. Perfetto.

“Bene,” dice la Everhart, “ora, per l’ultima domanda, mi stavo chiedendo cosa ne pensi dei tuoi genitori che– oh mio Dio!”

Tony guarda di scatto in alto, mancando un colpo, e la Everhart scivola bruscamente indietro con la sedia, andando a sbattere contro una delle telecamere. “Che c’è?” chiede Tony, con un velo di sudore sulla fronte. Guarda nella direzione della sua mano, visto che lei non è in grado di parlare, e vede che sta indicando un ragno abbastanza grosso che zampetta sul pavimento. Ha le zampe lunghe e sottili, ma il corpo è tozzo, e ha l’aria di essere velenoso.

“Ehi, ciao,” dice Peter. “Guarda un po’ chi c’è.”

Le telecamere seguono i suoi movimenti mentre si inginocchia, bloccando la strada al ragno per poi mettere le mani a coppa attorno a lui, sospingendolo nel proprio palmo. Tony guarda esterrefatto il ragno che sale in mano al ragazzo, e Peter si alza, dirigendosi rapidamente verso la porta più vicina.

I due Pacificatori scattano in azione, puntandolo, e Tony si affretta a raggiungerlo prima che si avvicinino troppo, allargando le mani.

“Sta solo mettendo fuori un ragno,” esclama, fermandoli. “Tutto qui. Tutto qui.” Sente il ronzio delle telecamere che si muovono e oscillano per riprendere il tutto.

I Pacificatori tengono la mano sulle loro pistole, senza però estrarle. Tony si volta, cercando di mantenere il sangue freddo, e vede Peter che apre velocemente la porta con una mano, prima di riportarla sopra il ragno. Poi si inginocchia sulla soglia e deposita delicatamente il ragno all’esterno, indirizzandolo verso la più vicina zona erbosa. Si rialza, chiude la porta e rivolge lo sguardo a Tony, ai Pacificatori e alle telecamere con un pizzico d’incredulità negli occhi, prima di tornare indietro e riprendere il suo posto di fronte alla Everhart.

“Spero che nessuno lo schiacci,” commenta, strofinando i palmi sui pantaloni.

“Come hai fatto a… prendere quel coso?” chiede la Everhart, guardandolo come se gli fosse spuntata una seconda testa.

Peter inarca le sopracciglia, scrollando le spalle. “Il Dodici è pieno di ragni,” risponde. “Non mi fanno paura. Di solito, se sei gentile con qualcosa, non ti fa del male. Di solito.”

“E questa era la tua terza domanda,” interviene Tony, mettendosi in mezzo e dando una pacca sulla spalla a Peter.

“Sì,” risponde lei, cercando di ricomporsi. Sa di aver perso l’opportunità di porre qualunque domanda avesse intenzione di fare prima dell’arrivo del ragno, ma non può protestare, o perderebbe un’altra chiave. Tony è felice di andarsene.

“Grazie mille,” dice, incitando Peter ad alzarsi.

Peter tende la mano alla Everhart, quella con cui prima ha preso il ragno. Tony può vederla combattuta: è lieta per la sua galanteria, per averla salvata da ciò che lei considera una bestia immonda. E disgustata, perché ha osato toccarla.

Tony riconosce un momento topico quando ne vede uno. E la guarda stringere la mano di Peter.

Voltano loro le spalle, si dirigono verso la porta, e Peter sembra ansioso.

“Chissà com’è arrivato qui dentro,” dice uno dei Pacificatori.

“Forse da una finestra,” dice la Everhart. “O… sui vestiti di qualcuno.”

Tony alza gli occhi al cielo, ma cerca di non offendersi per conto di Peter. Sono comunque i loro maledetti vestiti.

“Cosa pensi che volesse chiedermi riguardo ai miei genitori?” chiede Peter, battendo rapidamente le palpebre.

“Non so,” risponde lui, sforzandosi di non suonare troppo preoccupato, anche se lo è. “Cercherò di scoprirlo.”

Quando escono nell’atrio, Hammer li sta aspettando, e Tony vede la fine dell’”intervista” appena compiuta che scorre su un maxischermo accanto agli ascensori. Peter che sorride, stringe la mano alla Everhart, e gli ascolti s’impennano. Arrivano alle stelle.

“Beh, è stato impressionante, Petey,” lo accoglie Hammer, sollevando le sopracciglia. “Ti stai facendo conoscere. Andiamo, dobbiamo incontrarci con Sam.”

Hammer si avvia di corsa, e lo tallonano. La mente di Tony lavora al triplo della velocità, e vede ancora dei puntini impressi sulla sua retina, per quei pochi istanti in cui la porta si è aperta.

“Ehm, ehi,” lo richiama Peter. “Aspetta. Aspetta un attimo. Che è successo? È successo qualcosa?”

“Penso che tu abbia attirato ancora l’attenzione,” risponde Tony, chiedendosi se sia un bene o un male. Si ricorda Miles [6], circa quattro o cinque anni fa. Quel ragazzino, il più giovane a venire estratto nel Dodici, si era subito fatto un nome. Tony si ricorda ancora la sua faccia, il suo sorriso. Come il suo ottimismo gli aveva disegnato un bersaglio sulla schiena – non da parte di quelli dell’Uno e del Due, che erano troppo occupati tra di loro, ma da Capitol stesso. Sapevano che troppo amore per una persona, specialmente qualcuno proveniente dal basso, dal Dodici, avrebbe innescato qualcosa per cui non erano preparati.

Si dirigono di nuovo da Sam, e non appena Tony vede la sua faccia, sa che ciò che pensa è vero. Peter ha creato un momento memorabile, e, proprio come il suo offrirsi volontario, tutti l’hanno visto. Tony può sentire come qualcosa sia cambiato, un tipo di cambiamento che conosce bene, in quanto Tributo e in quanto Mentore. Anche Michelle guarda Peter in modo diverso. È in piedi su una pedana nel laboratorio di Sam, intento a creare il suo vestito per la parata.

“Beh, niente male,” commenta Sam, indicando Peter con un paio di spilli in mano. La sua equipe fa cenno ad Hammer di unirsi a loro, e Sam non lo degna di un’occhiata quando lo supera. “Niente male, ragazzo. Davvero. Quanto era grossa quella bestia, Tony? Sembrava uno di quegli affari che si vedono nell’arena.”

“Uh, già,” dice Tony, piantando le mani sui fianchi mentre sposta lo sguardo su Peter. “Era decisamente un, uh… un ragno notevole.”

Peter scuote la testa, corrugando le sopracciglia, come se temesse di aver fatto qualcosa di sbagliato. “MJ, insomma… hai visto ragni simili. Ovunque, insomma, sono– il Centro Città ne è infestato. Sono dappertutto, li ho presi in mano… tantissime volte.”

“La gente non li prende in mano, Peter,” dice Michelle. “Almeno, non come hai fatto tu, come se fosse… un gattino, o qualcosa del genere.”

“E qui non funziona così,” dice Janet. “Questo posto è… immacolato, e vedere quella cosa qui… vederti prenderlo in mano così–”

“Sembra quasi fatto apposta,” commenta Sam, sollevando un sopracciglio.

“Beh, se è così, gli hanno fatto un favore,” replica Janet.

Tony non riesce neanche a contemplare quell’ipotesi. Chi diavolo lo farebbe mai? E perché? Si passa una mano sul volto, e sa che dovrebbe farsi la barba, prima che qualcuno cominci a rompergli le scatole al riguardo. Ci sono troppe cose a cui pensare. “Dove l’hanno trasmesso?” chiede infine.

“Ovunque,” risponde Sam. “Ovunque a Capitol, e in tutti i Distretti. Ed è stato un ottimo input. Un input su cui sto lavorando. Spero che non ti sia venuto in mente nulla che ti piaccia per il costume. Hai visto la faccia di Christine? È quella di ogni cittadino di Capitol. Cavolo, questa gente ha paura se gli cade una caramella per terra. E adesso abbiamo Peter Parker: galante, coraggioso, intrepido… Spider-Man.”

“Spider-Man?” chiedono Tony e Peter all’unisono. Tony sente ogni rumore svanire, se non per un fruscio di fondo e per il respiro di Peter.

“Spider-Man,” ripete Sam, rompendo il silenzio. “Ci basiamo sul soprannome del suo mentore… quelli dell’Uno e del Due fanno i duri, ma sono gli animaletti domestici di Capitol e hanno paura delle stesse cose perché vivono appena uno scalino più in basso del loro giardino felice. Gli mostreremo di chi dovranno avere paura. Lui ha un’aria innocua, ma sa fare cose che loro non possono capire. Ecco la nostra storia.”

Gli schermi sparsi ovunque riproducono di nuovo il video, mentre Peter, accanto a lui, fissa Sam a bocca aperta. Tony vede un ragazzo coraggioso, certo, ma vede anche ciò che gli ha detto May, ciò che ha scoperto finora, ciò che gli è stato offerto in quei brevi istanti molti anni fa. Vede una persona buona, gentile. Priva di qualsivoglia cattiveria.

“Andrà benissimo,” dice Tony, quando Peter si volta a guardarlo con mille domande negli occhi. Non ne è del tutto certo, ma lo dice comunque.

“Non stavo pensando a niente di tutto ciò,” protesta Peter. “Volevo… volevo solo evitare che lo uccidessero.”

“Lo so,” sospira Tony. “Ma loro amano le storie.”

 
§

 
Sam fabbrica per Michelle un vestito di dalie nere, che richiama quello indossato da Janet alla sfilata di presentazione, prima di ottenere il titolo di Wasp. Le dà un ciondolo a forma di ragno per creare un collegamento tra lei e Peter, perché Peter… beh, Peter è Spider-Man. Un piccolo exploit, un istante minuscolo e insignificante che ha attraversato Panem arrivando ai cuori di Capitol, ed eccolo qua. Il suo costume è rosso e blu, con dei motivi a forma di ragnatela e una corona di zampe di ragno che spunta dalla sua schiena.

È in piedi di fronte a Tony, a qualche passo di distanza dal cocchio che porterà lui e Michelle in piazza. Peter si muove a disagio, continua a deglutire nervoso, e per Tony è evidente che sia sull’orlo delle lacrime. Tutti gli altri gironzolano qua e là, e i tributi di Thor continuano a fissarli. Sono entrambi vestiti da soldati, lui con una stella in mezzo al petto, lei con una sorta di divisa aderente. Tony intercetta lo sguardo di Thor, gli fa l’occhiolino e ottiene in risposta un ampio sorriso, un breve saluto.

Riporta la sua attenzione su Peter, e lo vede intento a tormentarsi il labbro inferiore. Si sente stringere il cuore, e posa un braccio attorno alle sue spalle, avendo cura di evitare le zampe di ragno. Lo conduce lontano dal clamore e dall’ansia dell’evento incombente e di tutto ciò che li aspetta. Tony ha un breve flash di come fosse un tempo la propria vita, prima di tutto questo. Ricorda ciò che costruiva. La severità di suo padre. I baci affettuosi di sua madre. Il profumo di Pepper, un misto di vaniglia e caffè. La mano di Rhodey tesa attraverso la recinzione tra l’Undici e il Dodici.

Anche Peter aveva questo genere di cose. E adesso è incastrato nei loro Giochi, proprio come Tony. È un ingranaggio nella loro macchina, e vederlo qui, strappato via alla sua vita… Tony si sente vigile, per la prima volta dopo molto tempo. Peter è diverso. Peter è parte di lui.

“Non ce la faccio,” dice Peter, prima ancora che Tony riesca ad assemblare una qualche parola d’incoraggiamento. “Non ce la faccio, non so come essere… così. Ho solo preso un ragno e l’ho portato fuori e adesso pensano tutti che io sia… non so, qualcosa? Qualcosa che non sono? Non so cosa fare, non so come essere chi vogliono che io sia.”

All’inizio, Tony pensava che Peter avesse bisogno di creare qualcuno per proteggere se stesso. Che dovesse diventare qualcun altro, come un muro da frapporre tra lui e tutti i fanatici di Capitol, tutti coloro che lo guardavano e lo aspettavano nei Distretti. Ma adesso ha cambiato idea.

“Pete,” lo richiama. “Sii te stesso. Sii te stesso. So che non se lo meritano. Non si meritano di vedere te, di incontrare te e capire chi sei, e non importa quello che vedono alla TV: si costruiranno le loro storie, ma per merito tuo. Hai dato inizio a qualcosa, semplicemente… rimanendo te stesso. È stato un momento spontaneo, e l’hanno visto, e distorto, e Sam ha fatto leva su quanto loro siano dei maledetti idioti. Ma tu sei più furbo di loro.” Tony lo prende per le spalle, si china leggermente per sostenere il suo sguardo. “Ce la puoi fare. Mi hai visto, all’epoca? Alla mia parata dei cocchi?”

“Credo di sì,” risponde Peter.

Una lacrima gli sfugge dall’angolo dell’occhio, e Tony gliela asciuga senza pensare. Cerca di non tremare, anche se ci è molto vicino.

“Ero un idiota,” dice Tony. “Non ero Iron Man, allora, avevo quasi trent’anni e mi comportavo come un adolescente, e neanch’io avevo idea di chi dovessi essere. Mi hanno ficcato in un’uniforme da minatore, e io ho strappato via le maniche; il mio stilista mi ha quasi strangolato. Non so se volessi morire o meno… non ero abbastanza amabile per essere me stesso davanti a questi folli, neanche lontanamente, ma l’ho fatto lo stesso. Ho ripreso il controllo. E ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta e tu… tu sei già migliore di me, Peter. Tu sii te stesso, io ti aiuto con la mia esperienza… possiamo farcela. Capito?”

Peter lo fissa e annuisce impercettibilmente.

“Siamo una squadra,” continua Tony. “Noi quattro, certo, ma… io e te. Siamo una squadra.”

Tony vuole disperatamente essere il supporto di cui Peter ha bisogno. Forse, se lo ripete abbastanza volte ad alta voce, lo sarà per davvero.

Hammer sbuca ai margini della visuale di Tony. “Bene,” si annuncia. “È ora di mettersi in moto, Spider-Man. La tua Dalia ti aspetta.”

Peter non lo guarda e tiene gli occhi puntati su Tony.

“Ce la farai,” dice lui. “Sii semplicemente te stesso, e ti ameranno.”

“Okay,” annuisce Peter. Sembra voler dire qualcos’altro, ma Hammer lo trascina via.

Tony rimane a guardare mentre fanno salire Peter e Michelle sul cocchio, chiudendo la grata posteriore. Li fanno allineare tutti, e Tony vede i Tributi del Distretto Uno: un giovane uomo con capelli castano chiaro, barba e baffi, e un sorriso subdolo. E una ragazza con una tuta aderente nera e lunghi capelli argentati. Quelli del Due sono altrettanto terrificanti: una donna alta, con capelli scuri, affilata come una lama, e un ragazzo dai capelli rossi vestito di verde.

Tony odia pensare a Stane che li sta aspettando alla fine della strada mentre orchestra il tutto, osservandoli con occhi colmi di veleno e pianificando come farli soffrire al meglio. Odia il fatto che poserà il suo sguardo su Peter, e ricorda com’è stato rimanere da solo con lui nella stanza bianca, così tanti anni fa. Le cose che gli aveva detto, il modo in cui aveva riso, le minacce velate. Vorrebbe portare Peter il più lontano possibile da lui. Sta avendo pensieri che ha sempre avuto troppa paura di avere. Troppo morto, troppo spezzato, troppo paralizzato e imprigionato nella gabbia che gli avevano costruito attorno. Lo sguardo di Peter è infuocato, ha fuso tutto ciò. Tony ha perso la possibilità di avere dei figli, e mai ne avrà. Ma questo ragazzo…

“Stark,” la voce di Thor rimbomba accanto a lui.

Tony sussulta, realizzando di essersi perso nei suoi pensieri. Rilascia un respiro e si rivolge nella sua direzione, vedendolo torreggiare su di lui. “Che c’è, Scintilla?”

“Vorrei proporti un’alleanza,” annuncia Thor. “Tra i miei due tributi e il tuo ragnetto.”

“Oh, non sono il mentore del ragno,” risponde Tony, mentre dei vaghi annunci risuonano nella piazza. “Il ragno ormai è andato, è più libero di noi due.”

“Il tuo Peter Parker,” insiste Thor, per niente impressionato. “Un’alleanza tra Peter Parker e i miei tributi.”

Tony si schiarisce la voce, osservando i cocchi che iniziano a partire. Peter e Michelle sono in coda alla processione, e vede Peter guardarsi sopra la spalla, con gli occhi che scattano qua e là. Tony gli fa un cenno di saluto, e Michelle prende con fare esitante la sua mano.

“Ha fegato,” dice Thor.

“Indubbiamente,” replica Tony, col cuore che batte più veloce nel petto.

“Ma sarà più al sicuro con Natasha Romanov e Steve Rogers accanto,” continua l’altro.

Tony ricorda che Janet ha menzionato quei nomi, entrambi nella colonna dei “volontari”. Vuole tenere d’occhio il suo ragazzo, vede Janet che si avvicina, ma guarda Thor senza alcuna esitazione negli occhi. “Non è un po’ presto per chiedermelo?”

Thor gli rivolge un’occhiata strana e indecifrabile, e un sorriso che sembra nascondere molte cose. “Ricordati chi è il vero nemico, Stark,” afferma. Gli dà un colpetto sul braccio. “Te lo chiederò di nuovo.” Detto questo si allontana, proprio mentre la fila di cocchi arriva in piazza per farsi ammirare dalla folla.

“E quello cos’era?” chiede Janet, la voce che quasi si perde tra gli applausi scroscianti.

“Non ne sono sicuro,” risponde Tony. “Ti informo se ci sono novità.”

Il cocchio del Distretto Dodici fa il suo ingresso nella piazza, dulcis in fundo, e a Tony si mozza il respiro quando sente il coro della folla:

SPIDER-MAN! SPIDER-MAN! SPIDER-MAN!


 

*
 


Tradotto da: ever in your favor: spider-man, di iron_spider da _Lightning_

 
Note:
[1] Xavier: Charles Xavier degli X-Men, loro fondatore.
[2] Otto Octavius aka Dr. Octopus o Doc Ock, nemesi di Spider-Man.
[3] James Howlett, aka Wolverine, e Cain Marko aka Fenomeno (Juggernaut), fratellastro di Xavier e di conseguenza in conflitto con gli X-Men. Grazie a T612 per la delucidazione al riguardo <3
[4] Sue Storm aka la Donna Invisibile; Karen Page aka la ragazza e alleata di DareDevil; Emma Frost aka White Queen, membro degli X-Men; Kamala Khan aka Miss Marvel; Bolivar Trask aka villain creatore delle Sentinelle, nemici degli X-Men; Eddie Brock aka Venom.
[5] Danny Rand aka Iron Fist.
[6] Miles Morales, lo Spider-Man dell’universo Ultimate.



Note della traduttrice:

Cari Lettori,
eccoci al momento tanto atteso, ovvero la rivelazione del nostro Spider-Man versione Panem. Personalmente, questo è uno dei capitoli che più ho amato tradurre, e spero che anche voi lo apprezziate allo stesso modo.
Ringrazio tantissimo Eevaa, Miryel e T612 per aver letto e commentato gli scorsi capitoli, e _Atlas_ per il feedback in privato <3 Grazie anche a tutti voi che avete aggiunto la storia alle preferite, seguite e/o ricordate, e invito tutti voi a lasciare dei kudos sulla storia originale dell'autrice [
qui], così da farle arrivare direttamente il vostro apprezzamento <3
Gli aggiornamenti, come avrete notato, saranno ogni 4-5 giorni, in quanto ho pronti tutti i capitoli fino all'ottavo, dopodiché diverranno probabilmente settimanali, adeguandosi al ritmo dell'autrice.
Alla prossima!

-Light-

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Fai una capriola ***


Capitolo 4: Fai una capriola

 
 


Peter marcia avanti e indietro di fronte alla palestra privata del Dodici, stropicciandosi gli occhi. Sa che la notte scorsa ha dormito forse due ore al massimo, e ha avuto un costante ronzio nelle orecchie. Tutte quelle grida, tutti quei cori, la voce di Stane. Spider-Man. Spider-Man. Peter non sa cosa ci vedano in lui, come lo considerino dopo ciò che hanno visto, e questo lo innervosisce. Sta cercando di essere se stesso, come ha detto Tony, ma non pensa che lo conosceranno mai per quello che è davvero. Lo stanno trasformando in ciò che vogliono che lui sia.

Ha cercato di pensare a May quando ha fissato le telecamere. Ha pensato a May, a Ned, se li è immaginati mentre lo guardavano insieme. Si è augurato che lo stessero guardando colmi di speranza, e non di tristezza o paura. Sa che lo conoscono, che sanno ciò che non è… e non è il tipo di persona che vince gli Hunger Games. Ma vuole essere qualcuno per cui possano fare il tifo. Qualcuno per cui possano davvero fare il tifo. Qualcuno che possano sperare di veder tornare a casa, se non altro per farli dormire meglio la notte.

Tutti hanno bisogno di dormire.

La porta si apre, e MJ e Janet escono fuori. Sono state intente ad allenarsi da prima che Peter si svegliasse. Janet sorride nel vederlo. I suoi lunghi capelli sono raccolti in uno chignon sulla nuca, ed entrambe indossano delle uniformi nere con un 12 sulla schiena. Peter si chiede dove le abbiano prese.

“Buongiorno, caro,” dice Janet, tamponandosi la fronte con un panno. “Puoi entrare adesso, vado a recuperare Tony per farmi dare il cambio.”

“Dov’è?” chiede Peter.

“Sta parlando con potenziali sponsor in città,” risponde Janet. “Ma tornerà presto. Intanto entra e aspettalo.” Tende una mano verso MJ, le stringe la spalla e si dirige verso la porta.

MJ si volta verso di lui quando sono soli, spostando il peso da un piede all’altro. Peter si schiarisce la gola, ricordando quanto si è messo in mostra ieri sera, e come lei abbia continuato a stringergli la mano. Come se stesse cercando di tenerlo coi piedi per terra per impedirgli di prendere il volo.

“Mi dispiace,” sbotta d’un tratto.

“Per cosa?” chiede lei.

Peter deglutisce a fatica, fissando la porta della palestra. “Uh, non so–”

“Non è colpa tua, il modo in cui si comporta la gente,” dice MJ. “Soprattutto la gente di Capitol. È solo un… circolo di cretini che cerca sempre di fiondarsi su quelli più carini per inventare le loro storielle.”

Peter si concentra sulla parola “carini” e il suo volto diventa caldo; quando la guarda, sta evitando i suoi occhi.

“Odio il fatto che siamo proprio noi,” commenta lei.

“Anch’io.” Si stuzzica il bordo regolare di un’unghia appena limata.

C’è un breve silenzio, e lei ha l’aria di chi sta pensando a qualcosa a cui non dovrebbe pensare.

“Se potessi fare qualcosa…” dice poi, ora fissandolo intentamente.

“Tipo cosa?” chiede lui.

Lei gira appena la testa. “Tutto questo non dovrebbe accadere,” continua. “Gli Hunger Games, il nostro governo, la lunghezza del mandato di Stane…”

Peter fissa la porta da cui è uscita Janet, perché sa che fuori ci sono almeno due Pacificatori di guardia. Teme che possano sentirla.

“… il modo in cui hanno distrutto il Tredici,” conclude lei. Segue la direzione del suo sguardo, con una rapida occhiata alla porta. Poi lo fissa di nuovo, avvicinandosi di un passo. “Se potessi fare qualcosa…”

Peter la guarda: le sue parole sono intrise di pericolo. La gente ha provato a fare “qualcosa” in passato, e nessuno l’ha più vista. Nessuno è abbastanza potente, nessun piano può davvero prevedere ciò di cui è capace Capitol. “Io sono una persona sola,” sussurra, mentre in testa gli si formano delle ipotesi, delle possibilità. Muore, in ognuna di esse. In ognuna di esse, si ritrova a soffrire.

“Hai me,” dice lei.

Quello lo spaventa ancor di più. Deglutisce a fatica, passandosi una mano tra i capelli. “MJ…”

“Lo so,” dice lei, tirandosi indietro. “Lo so. Ci tengono d’occhio ancor più di quanto facessero nel Dodici. Solo che… non lo so. Non riesco a smettere di pensarci, tutto qui. Alle persone che sono venute prima di noi. E a quelle che verranno dopo.”

A Peter fa male il cuore. Non ha smesso di fargli male dalla Mietitura. Da quando Ben è morto. Da quando i suoi genitori sono scomparsi. Da… da un ricordo che non è sicuro sia vero. Ha ammirato Tony così a lungo che ha finito per inventarsi dei fatti mai davvero accaduti. Ha sempre voluto essere importante per lui, essere qualcuno che conosceva. Ma se l’è inventato. Per forza.

È un eroe, piccolo. È un eroe.
Sei un eroe, Iron Man.
Bimbo, non sono…

“Un giorno ci sarà qualcuno che neanche Capitol potrà fermare,” dice MJ, alzando le spalle. “E tu ti sottovaluti.”

“No,” ribatte Peter. “No, ho solo…”

“Vedi?” dice lei, sorridendogli in modo dolce. Si scosta una ciocca di capelli dagli occhi. “Vado a iniziare la ricerca sui tributi, tu… tu divertiti, là dentro.”

Gli volta le spalle, allontanandosi.

Peter sospira, pizzicandosi il ponte del naso. Sa quello che vuole dire MJ, e lo affligge allo stesso modo. Gli divora le viscere, sapere che le persone che ama vivono in un mondo come questo. Nessuno si merita tutto ciò. Vorrebbe semplicemente una vita normale, ma non sa neanche come sia.

Apre la porta della palestra, pensando a tutte quelle impossibili possibilità.

La stanza è ampia, col soffitto alto come la vecchia cattedrale vicino al Centro Città. Le pareti sono scure, rivestite di quella che sembra spugna o gomma, e due reti di corda pendono dal soffitto. Individua lo spogliatoio proprio di fronte a lui, e trova un’uniforme della sua taglia, identica a quella che indossava MJ.

Chiude la porta e si cambia in fretta, appendendo i vestiti nell’angolo. Scivola lungo il muro, ripensando a ciò che ha detto MJ, e cerca di immaginare tutte le lotte in cui è stato coinvolto in vita sua. La maggior parte erano per difendere Ned, e lui si ritrovava con occhi neri, tagli e lividi, e mal di testa per giorni. Ricorda quell’episodio coi minatori, quando era ancora troppo piccolo per fare a pugni, quando Ben non tossiva ancora così forte come verso la fine.

Peter cercava di evitare le risse ma, in qualche modo, loro trovavano lui.

“Ragazzo,” dice la voce di Tony, fuori dalla porta. “Sei lì?”

“Ehi,” dice Peter, sfregandosi gli occhi. “Ehi, sì.” Si rimette in piedi, aprendo subito la porta.

Tony è lì fuori, con la divisa da allenamento già indosso. “Ehilò,” lo saluta. “Scusa il ritardo, ero fuori a fare il giro degli sponsor per farti pubblicità.”

“Com’è andata?” chiede Peter, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle. “Insomma, tu non… insomma, sai qualcosa di me, ma non– Dio, cosa gli hai detto? Cosa vogliono sentirsi dire?”

“Per fortuna,” esordisce Tony, mentre si avviano al centro della stanza, “la gente è già saltata sul, uh, carro di Spider-Man. Non è difficile ottenere favori. E ti conosco meglio di quanto credi.” Tony gli dà una pacca sul braccio per poi sedersi per terra senza tante cerimonie, a gambe incrociate. Alza lo sguardo su di lui, con le mani sulle ginocchia. “Perché credi che ti abbia detto di essere te stesso?”

Peter scrolla le spalle. “Pensavo solo che stessi, non so, cercando di essere gentile.”

Tony scuote la testa. “Non sono gentile.”

Peter sbuffa, sedendosi accanto a lui. “Lo sei. Hai sfamato il Distretto per anni. Hai pagato per i miei vestiti da sempre.”

“Davo solo alla gente ciò che si merita quanto me,” replica Tony.

“È quello che farebbe una persona buona, gentile,” insiste Peter. “Non riesco neanche a elencare tutte le cose che hai fatto per il Dodici. E non eri obbligato.”

Tony scuote la testa, guardandolo lateralmente. “Tutto questo… non c’entra, non ti ho detto di essere te stesso per sembrare gentile, ma perché… perché ti conosco davvero. Sei un libro aperto, piaci facilmente, Pete. Lo so e lo stai anche dimostrando a loro.”

L’idea che Tony Stark lo conosca anche minimamente è così bizzarra, folle, fuori dal mondo, che Peter si sente come se si fosse inceppato. Punta lo sguardo all’altro capo della stanza. “Mi piace costruire cose,” dice, rapido. “Sono molto bravo alle lezioni di scienze, e in teoria… non mi posso ricordare, ma in teoria anche i miei genitori erano bravi a costruire cose. A inventare cose, e io ho, uh, inventato questa sostanza super appiccicosa a lezione; era molto potente, poteva attaccarsi ai muri, al soffitto, ma tutti ci cono rimasti intrappolati e il professor Harrington mi ha messo una nota e mi ha proibito di sintetizzarla di nuovo.”

Tony fa un verso divertito, guardandolo attentamente.

“Scusa,” realizza Peter, sentendosi accaldato. “Non so perché te ne ho parlato.” In realtà lo sa, ma non vuole dirlo ad alta voce. Vuole essere conosciuto per come era prima, non per come è adesso. Non come un ragazzino spaventato, che lotta per la vita, costantemente sulle spine in attesa di ciò che accadrà. “Insomma, dovremmo allenarci, dovrei imparare a combattere–”

“Qual è il tuo cibo preferito?” chiede Tony, indicandolo con un cenno del mento. “So che a May piace il carré di maiale, ma cosa piace a Peter?

Peter sorride appena.

“Cibo vero, non lo schifo del Distretto,” dice Tony. “L’unica cosa buona che viene da Capitol è il cibo.”

Peter sa la risposta. Non deve neanche pensarci. “Stufato di mais [1].” Ne sente quasi il sapore.

“Davvero?” chiede Tony, sorridendo.

“Sì,” risponde lui. “Decisamente.”

“Dimmi qualcos’altro,” lo incita poi.

“Riguardo al cibo?”

“Qualunque cosa,” replica Tony. “So che il nostro caro Distretto non è esattamente vivace, ma…”

“Ho suonato il flauto per, tipo, cinque minuti,” comincia Peter. “Ero nell’orchestra per la cerimonia commemorativa dell’anno scorso, ma non credo tu fossi lì.”

Tony si guarda le mani, annuendo.

“Non ero bravo, quindi ho smesso,” continua Peter. “Ho provato a fare tre note col bassotuba, e ho rinunciato. Mi sono piazzato in un paio di gare di corsa.” Cerca di riflettere. “Ah, ho anche contribuito al murales in piazza.”

“Sul serio?” chiede Tony, guardandolo di nuovo.

“Sì,” annuisce Peter. La sua intera classe aveva partecipato; era un murales per i loro due Vincitori, ma i Pacificatori avevano rigidamente imposto la regola di non fare alcun riferimento all’armatura di Iron Man o a Wasp, l’alter ego di Janet. Peter sorride tra sé “Ci ho infilato una piccola maschera di Iron Man dove non potessero vederla, vicino alla tua spalla.”

Tony trattiene una risata. “Che ribelle.”

“Solo se si tratta di Iron Man,” replica Peter, e si sente subito un idiota. Bofonchia tra sé, cercando di annegare i propri pensieri. “Uh, mi piace dipingere, e disegnare. Ho una vecchia macchinetta fotografica che usavo sempre, mi piace fare foto. Beh, non ne ho fatte molte da quando è morto Ben, lui… mi aiutava a svilupparle, ed è strano farlo da solo. Ne ho fatte un paio per il compleanno di May, l’anno scorso, ma… niente di che.”

Tony lo fissa, con occhi empatici. E un qualcos’altro a cui Peter non riesce a dare un nome.

“Non sono tutto… questo granché;” conclude Peter, stuzzicandosi le unghie.

“Non dirlo. Non è vero.”

Peter si mordicchia il labbro. “Ho guardato i filmati di te nell’arena milioni di volte,” dice infine. “E non so se sarò in grado… di fare ciò che hai fatto tu.”

Tony inarca le sopracciglia. “Beh, nessuno potrà mai fare ciò che ho fatto io, perché si sono assicurati che nessuno fosse più in grado di farlo,” replica. “Ho avuto fortuna.”

Ruota il polso, e preme un paio di tasti su un palmare che Peter non aveva notato. Poi, proprio come ieri nella sala dei Vincitori e delle Arene, l’intera stanza cambia, come se venissero trasportai altrove. Una vasta foresta si erge attorno a loro, e il sole splende luminoso e intenso, a picco nel cielo. Sono seduti in una radura circondata da alti alberi, troppo alti e rigidi per essere cresciuti naturalmente. C’è una macchia di piccoli fiori bianchi nel verde, troppe erbacce, e dei denti di leone che dondolano al vento.

Peter riconosce il luogo, e sente un brivido lungo la schiena.

“Seguimi un attimo,” dice Tony.

Si alzano entrambi in piedi, e Tony lo guida verso l’estremità destra della radura, dove ci sono due alberi caduti incrociati l’uno sopra l’altro. Gli prende la mano, la solleva e gli fa indicare un punto al di sopra di alcuni rami spezzati.

“Vedi il modo in cui la luce li colpisce?” chiede Tony. “Nel punto in cui stai indicando?”

Peter strizza gli occhi, oltre le proprie dita. Vede un lieve riflesso, e l’aria che tremola. “Sì,” risponde. “Quello è…”

“È dove finisce l’illusione,” conferma Tony. Lascia andare la sua mano, e adesso Peter lo nota anche senza il suo aiuto. “All’epoca, quando toccavi il campo di forza, ti inviava una brutta scossa, abbastanza potente da mandarti K.O. se il colpo era forte. Ma nei punti in cui ci sono quei riflessi, il campo di forza era debole, così debole da poter essere superato e sconfinare nell’area esterna all’arena. Non abbastanza per fuggire, ma abbastanza per… costruire un’armatura.”

“Hai preso la scossa per farlo,” realizza Peter.

“Già,” afferma Tony. “Ne è valsa la pena, però. E non hanno potuto fermarmi. Beh, ci hanno provato, ma non mi hanno preso se non molto dopo aver completato l’armatura.” Si morde l’interno della guancia, si guarda intorno, e per un istante sembra sopraffatto dai ricordi. “Killian era uno stronzo. Aveva una ragazza dalla sua parte, anche se lei non sembrava voler supportare i suoi piani, e aveva quei fratelli idioti del Due, è persino riuscito a reclutare Creed [2], del Tre, per darmi la caccia. Ma l’armatura mi dava un vantaggio.”

“Era fantastica,” dice Peter. È così strano essere lì con lui, nel luogo dove tutto è accaduto. Sembra impossibile. “Nessuno ragionava come te.”

“E immagino di averne tolto l’opportunità a tutti quelli venuti dopo,” replica Tony, evitando brevemente il suo sguardo, con la delusione e la rabbia che gli offuscano gli occhi. Preme un altro paio di tasti sul polso, e la scena attorno a loro cambia, mutando nelle aree coltivate in cui è stata spedita Jessica. “Ora, è molto più complesso,” annuncia. “Lo riconosci?”

“È l’anno scorso,” risponde Peter.

“Qui siamo proprio ai margini,” continua Tony. “Ma hanno sistemato le cose, quindi non ci saranno altri Iron Man a gironzolare nel perimetro esterno. Ma l’ho studiato. Ho parlato con Jess, e anche lei ha notato i punti deboli. È sempre bene tenere gli occhi aperti.”

Prende di nuovo la mano di Peter, indicando un punto in lontananza. Gli steli del mais frusciano e si muovono al vento. Peter non vede nulla.

“Devi guardare bene,” lo incoraggia Tony. Gli lascia andare la mano, fissandolo in volto.

Peter flette un poco le dita, concentrandosi al massimo. Guarda il cielo, e crede di vedere una piccola increspatura, un’area sfocata appena percettibile. “È... è un po’ verde?”

“Esatto,” dice Tony, strizzandogli la spalla. “Perfetto, ragazzo. È molto fioco, ma sarà sempre leggermente verde, perché questi idioti non riescono a fare nulla come si deve. Vieni qui.”

Peter lo segue, più vicino al punto che stanno analizzando.

“Quest’area può ancora essere manipolata,” dice Tony, e preme fisicamente le dita sulla zona verdastra nel cielo. “Potrebbe darti una piccola scossa, ma non come succedeva ai miei tempi, perché non riuscirai comunque a oltrepassarla del tutto. Ma guarda, posso toccare qui, e se i miei piedi fossero abbastanza adesivi, potrei camminarci sopra. Non so in che diavolo di arena vi getteranno, ma è sempre buono a sapersi.”

Peter annuisce, e prende nota di quell’informazione. “Mi insegnerai a combattere?” gli chiede.

Tony inclina di lato la testa, assottigliando appena gli occhi. “Potrei insegnarti come schivare determinati tipi di armi. Più avanti, verso la fine, potremmo fare un po’ di boxe. Ma per la maggior parte del tempo, ti insegnerò a nasconderti. Dove nasconderti. Cosa cercare. Perché questi stronzi,” punta l’indice verso l’alto, riferendosi chiaramente a Capitol, “sono quelli da cui devi davvero stare in guardia. Sì, ci sono un paio di tizi dall’aria problematica dall’Uno e dal Due. Ma quello che invia Capitol… è sempre stato quello, il vero problema. Il vero male.”

Peter si avvicina di un passo, guardandosi intorno e cercando di non cedere alla paranoia e ai suoi sospetti. “Possono… possono sentirci, qua dentro?”

“No,” dice Tony, sorridendogli. “Ho armeggiato con la telecamera impostando un audio falso. Non preoccuparti, adesso stiamo parlando della rappresentazione messa su dal Dodici riguardo ai primi giorni del Presidente Stane.”

Peter lo fissa con occhi colmi di ammirazione. “Wow.”

“Ti insegnerò anche a fare questo genere di cose,” dice Tony. “E, stranamente, alcune sono permesse nell’arena. Gli piace nascondere palmari dove meno te lo aspetti.”

Peter sospira, e l’ologramma si dissolve rapidamente, riportandoli alla palestra.

“L’Uno e il Due saranno gli unici ad essere veramente aggressivi,” spiega Tony. “Forse un lupo solitario del Tre, ma è raro. Avrai molti alleati, molte persone attorno a te. E voglio che tu diventi un esperto nel capire dove trovare cosa nell’arena. Dove andare, come sopravvivere. E, uh, nel peggiore dei casi,” aggiunge, schiarendosi la gola, “quando defilarti. Come evitare che anche i tuoi alleati ti trovino. A volte, rimanere nascosto può farti arrivare primo.”

Peter pensa a MJ e sente un dolore pungerlo nel petto. Un altro, quando ricorda la faccia di Shuri. Il peggiore dei casi arriva sempre, negli Hunger Games. Non ha idea di come riuscirà a farlo.

“Dove vuoi andare?” chiede Tony. “Ti mostrerò tutto ciò che posso, ma la prima scelta spetta a te.”

“Non, uh… non dobbiamo vedere i vecchi tributi, vero?” chiede Peter. “Intendo nel… nell’ologramma.”

“No,” risponde Tony. “Solo l’arena.”

“Okay,” conclude Peter, risucchiando un respiro e incontrando i suoi occhi. “L’anno di Janet.”

Tony annuisce, un po’ solennemente. “Ottima scelta.”

 
§

 
Peter studia dieci differenti arene, apprende come sono costruite, dove sono situate, come Capitol vi porta e recupera i tributi. Impara come trovare riparo, cibo, cosa evitare, come muoversi in un’arena cittadina o in una di campagna. Tony gli insegna le entrate e le uscite delle zone meteo usate finora, e come evitare le aree dei fulmini. Gli mostra come trovare armi nascoste, e si allenano a correre su terreni differenti. Alla fine, Peter è così a corto di fiato che quasi cade in un attacco di panico quando immagina cosa accadrà nei veri Giochi.

“Sicuro di stare bene?” chiede Tony, osservandolo preoccupato.

“Certo,” risponde lui, inalando un altro respiro spezzato e tentando di scacciare le sue visioni catastrofiche.

“Okay,” gli concede esitante Tony, mentre si dirigono all’esterno coi loro vestiti normali. “La prossima volta lavoriamo con le armi. Dobbiamo inventarci qualcosa da presentare nelle tue sessioni private.”

“Sessioni private?” chiede Peter, prendendo la terza bottiglietta d’acqua che gli porge Tony.

“Sfortunatamente, amano giudicare i tributi in privato per dare loro un punteggio pubblico.” Tony schiocca la lingua.

“Oh, giusto,” ricorda Peter. “Ho visto le classifiche.” Il solo pensiero gli fa sentire freddo, perché ricorda come i tributi sembrassero spezzati e privi di valore quando i loro punteggi erano bassi, anche se chiaramente avrebbero meritato di meglio. Si chiede se gli sponsor possano ritirarsi e scegliere di pubblicizzare qualcun altro, e deglutisce a fatica. “Non so cosa voglio mostrare loro. Cosa sarebbe… cosa dovrei fare, per essere abbastanza?”

“Abbiamo tempo,” dice Tony. “Scoprirò cosa avranno nella stanza, poi proveremo a fare pratica.”

Peter annuisce, ma nel mentre cerca di immaginare qualunque cosa da mostrare loro, e non gli viene in mente nulla.

“Ti sei mai intrufolato in un altro distretto?” chiede Tony, spegnendo le luci.

Peter sorride. “Forse.”

“È facile entrare nell’Undici,” commenta Tony, afferrando la maniglia. “Non sorvegliano quasi per nulla il confine, e la recinzione non è elettrificata da anni.”

“Là le torte di grano sono più buone,” aggiunge Peter, mentre Tony apre la porta.

“Questo è sicuro,” concorda lui.

Peter smette di camminare quando sbucano nella sala d’attesa, perché sente del clamore. La stanza è vuota, ma quando guarda verso le doppie porte vede delle ombre in corridoio.

“Ma che cazzo…” mormora Tony, seguendo lo sguardo di Peter. Estrae un palmare dalla tasca, e scorre quello che sembra il loro programma. “Non so cosa sia,” annuncia. “Potrebbero essere semplicemente… ammiratori.”

Peter esala un respiro. “Ammiratori? Seriamente? Vogliono vedermi adesso? Faccio schifo, sono tutto sudato.” Sa che non possono rientrare nei loro appartamenti senza varcare quelle porte. Osserva Tony che preme un paio di bottoni, e lo schermo del palmare si aggiorna.

Tony sospira, scuotendo la testa. “Sì, stanno facendo ora un tour. Un’aggiunta dell’ultimo minuto. Maledizione.” Stringe i denti, cercando gli occhi di Peter. “Va bene, allora… passiamo dritti in mezzo, senza filarceli.”

Peter osserva lo scalpiccio di piedi al di sotto della porta. “So che hai detto che piaccio alla gente, ma… se non ce li filiamo non piacerò a lungo.”

“No, sembrerai impegnato,” replica Tony, puntando le mani suoi fianchi.

Peter scuote la testa.

Tony sospira di nuovo, questa volta più pesantemente. “Ce la prenderemo… comoda. Beh, magari non proprio così comoda, almeno spero.”

“Senza ignorarli,” aggiunge Peter.

“Senza ignorarli,” ripete Tony, annuendo senza troppo entusiasmo. “Magari camminiamo velocemente.”

Peter ride appena, prendendo un paio di respiri profondi. Tony lo osserva e non si muove finché non lo fa lui; quando fa un passo, gli si affianca, riponendo il palmare.

“Se serve, posso tirare qualche pugno,” propone, guardando fisso davanti a sé.

“Non so se… beh, chissà,” replica Peter, col petto costretto.

“È una proposta.”

“Non piacerà ai Pacificatori,” commenta Peter.

Tony sbuffa. “Alla gente piaceremo ancor di più se ci attaccano. Lasciali fare! I voti di compassione acchiappano molto.”

Allunga la mano, afferra la maniglia, e incontra di nuovo gli occhi di Peter. Lui si sente distaccato da se stesso: si guarda, guarda Tony dall’esterno, ed è come uno di quegli strani sogni che fa di tanto in tanto. Metà sogno, metà incubo, perché avrebbe dato qualunque cosa per incontrare Tony Stark, ma sapeva in fondo al cuore che l’unico modo sarebbe stato questo. Lui come Tributo. Tony come suo Mentore. Ma gli sembra ancora folle, prova esaltazione e orrore e paura e conforto allo stesso tempo. Non si riconosce. Non riconosce Tony – lo conosceva, ma non davvero. Non sapeva che espressione avesse quando diceva una battuta. Quando condivideva un fatto personale. Peter l’aveva visto a distanza, ma adesso il suo eroe è qui. Pronto ad aprirgli la porta.

Peter fa un cenno, e Tony esegue.

Le persone all’esterno trattengono il respiro senza saltargli addosso, anche se hanno l’aria di volerlo fare. Sono tutti vestiti a festa, con cappelli oblunghi e maglie con maniche appuntite, i capelli rosa e viola e blu piastrati, le unghie lunghe e piene di brillantini. Si allungano per toccarlo, con mani esitanti, parlando tutti contemporaneamente. Quasi tutti stanno filmando, nei modi più svariati, e dietro la folla c’è una di quelle onnipresenti telecamere.

“Salve,” dice Peter, sorridendo. “Ciao, ciao, è… è bello incontrarvi.”

“Bene, gente,” interviene Tony, e sembra cercare di farsi più alto alla destra di Peter, fungendo da barriera quando iniziano a toccare anche lui. “Bene, sì, piacere di vedervi. Il ragazzo ha degli impegni prestabiliti, grazie…”

Iniziano a offrirgli cose: una bottiglia di vino, un mazzo di rose bianche, un piccolo ragno di peluche. Qualcuno gli allunga quella che sembra una cavolo di spada in un fodero di pelle, e Tony gliela sottrae immediatamente, scambiando un’occhiata coi Pacificatori lì vicino.

“Grazie,” dice Peter, cercando di fare contatto visivo con più gente possibile. “Grazie mille, grazie, grazie per il… supporto.”

Tutti sussurrano, mormorano auguri, intonano in coro il suo nome e Spider-Man all’infinito. Peter ha una strana, spiacevole impressione che aumenta ad ogni secondo, e adesso ha le braccia praticamente piene, con metà della roba che nemmeno è riuscito a identificare. Tony lo aiuta a muoversi e sono quasi usciti dalla folla, finché una ragazza bionda alla fine gli porge un poster, che lui riesce a prendere con sole due dita.

Tony lo trascina con sé prima che possa guardare cosa gli abbia dato, e Peter le fa un rapido cenno, sorridendo.

“Grazie!” esclama, col cuore che gli esplode nelle orecchie.

Si affrettano verso l’ascensore, e quando le porte si chiudono Tony prende un po’ di roba dalle sue mani.

“Cristo,” commenta, osservando il tutto. “Qualcuno ti ha dato una cazzo di spada.”

“Una spada,” ripete Peter, ascoltando a malapena, perché è concentrato sul poster.

È lui, ieri sera, in piedi e in posa in quel dannato costume da Spider-Man. E Tony, quello di tanti anni fa, nell’armatura di Iron Man. Lo sfondo è di un giallo acceso e in basso, a caratteri grandi e spessi, spicca la scritta “SPIDER-MAN E IRON MAN COMBATTONO PER VOI.”

“Questa è roba vecchio stampo,” dice Tony, sbirciando da sopra la sua spalla. “È… è un po’ preoccupante.”

“Ah,” esala Peter, col cuore che sprofonda nel ricordare che è vietato riprodurre immagini di Iron Man, a meno che non sia Capitol a farlo. Era troppo distratto dal fatto di essere… su un poster. Con Tony. Con quel nome.

“Va tutto bene, non preoccuparti,” aggiunge Tony. “Probabilmente l’ha fatto esclusivamente per te.”

 
§

 
Peter si fa una doccia, cerca di sistemarsi i capelli come ha fatto il parrucchiere e fallisce miseramente. Torna in soggiorno e trova Tony, Janet, MJ e Hammer radunati attorno alla TV, che è muta ma, ovviamente, trasmette servizi sugli Hunger Games. C’è un reporter piazzato fuori dal Centro Tributi, e Peter crede di riconoscere la finestra della sua camera.

Tutti i fiori che ha ricevuto sono in un vaso sul tavolino da caffè, e Tony sta ancora analizzando la montagna di doni, catalogandoli e dividendoli.

“Peter, mi hanno dato un tirapugni,” annuncia MJ, sollevandolo.

“Oh, figo,” replica Peter, avvicinandosi per sedersi tra lei e Tony. “A me una spada.”

“Ci informeremo se vi sarà possibile portarli nell’arena,” dice Janet. “A volte danno il permesso di introdurvi dei regali, ma non sempre.”

“Forse la spada è un po’ grande,” dice Tony, accigliandosi in direzione di Peter. “Ma hai ricevuto quello che sembra una… torcia speciale. Un nuovo prototipo.” La solleva, puntandola verso di lui. “La testeremo nella prossima sessione d’allenamento.”

“Va bene,” annuisce Peter.

“E ho chiesto in giro per quel poster,” aggiunge Hammer, lanciandogli un cenno del capo. “Non è saltato fuori nulla, per fortuna, quindi sei al sicuro.”

“Grazie,” dice lui, con riluttanza.

“Non gettarlo via,” sussurra MJ, accostandosi a lui. “È troppo figo.”

Peter fa un piccolo sbuffo, socchiudendo gli occhi verso di lei. “Non lo getterò mai via,” ribatte. Il suo cuore manca un paio di colpi nel realizzare che non lo avrà così a lungo, e che non si unirà mai al resto della collezione. Medita di farlo spedire a May. Così almeno lei lo avrà.

“Sono venuti a frotte, oggi,” osserva Janet.

“L’ho notato,” replica Tony. “Spero che sia l’ultimo tour. Quella gente non dovrebbe essere qui.”

Peter sospira, guardando la TV. Vede dei video di sé, alla presentazione sui cocchi di ieri sera, e avverte l’imbarazzo salirgli alle guance. Si sente come se stesse giocando una partita che non comprende, sembrando un idiota mentre cerca di capirci qualcosa. Aveva sempre avuto l’impressione che i tributi che guardava negli anni scorsi sapessero quel che facevano, e non capiva, non capiva come riuscissero a cambiare a quel modo, come fossero in grado di tenere su l’intero show mentre i Giochi si avvicinavano sempre più. Anche ora che è lui stesso ad essere in questa posizione, non lo capisce.

Si guarda mentre viene colpito in faccia da un girasole, e sta per coprirsi gli occhi quando la scena cambia. E lui si congela. Folgorato, nel panico, sul punto di vomitare, scosso da tremiti.

“Alza il volume,” esala, col sudore freddo che già gli inonda la fronte. “Alza… alza il volume.”

Ned. Ned è in TV, mentre parla a una giornalista, nel Dodici.

Peter si sente la gola stretta e si artiglia il collo, con le lacrime che gli offuscano la vista. “Perché ha un occhio nero?” chiede, con voce disperata. “Che gli hanno fatto? Che hanno…”

L’audio si riattiva.

“… ed è sempre stato così, sapete, buono con le persone, buono con gli animali,” dice Ned, annuendo, con quel suo tic nervoso all’occhio screziato di nero e blu. “Non farebbe del male a una mosca. Beh, insomma…”

“Potrebbe trovarsi costretto a farlo,” dice la giornalista.

“Sì, sì, certo,” replica Ned. Guarda dritto nell’obbiettivo, con l’angolo della bocca che si solleva appena. “Voglio dire, è forte. Ma è buono, è… è la persona per cui dovremmo tutti fare il tifo.” Si schiarisce la voce, e la sua aura d’ansia trapela dallo schermo.

“Perché ha un occhio nero?” chiede di nuovo Peter, con la voce che s’incrina. Guarda Tony, e lo vede accigliato, ma cerca di nascondere alla svelta la sua espressione quando incontra i suoi occhi.

“Pete, io non lo prenderei per vero,” dice poi.

“Io lo vedo,” replica lui, gesticolando verso Ned mentre la giornalista gli fa un’altra domanda. “Lo vedo, proprio lì–”

“Manipolano i filmati, Peter,” interviene Janet. Il suo tono è grave e solenne. “L’hanno fatto apposta.”

MJ si sporge verso di lui, mettendo una mano sulla sua. Peter si sente male, ha la nausea, e persino Hammer ha l’aria di essere dispiaciuto per lui, mentre guarda alternatamente lui e lo schermo.

Poi l’inquadratura si sposta su May, e a Peter si mozza il respiro. Non ha alcuna ferita o livido, ma ci sono circa sei Pacificatori a casa sua – a casa loro – e sembra nervosa. Spaventata. Stanca ed esaurita.

Peter si copre la bocca con una mano.

“È un angelo,” dice May, stavolta a un giornalista. “È… è la persona migliore che ci sia. Il ragazzo più puro che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Sì, sì, la gente dovrebbe… dovrebbe supportarlo – dovrebbe fare il tifo per lui. Lui non li deluderà, è–” Annuisce, sorridendo rigidamente, e Peter non ce la fa: balza in piedi e si avvia verso la sua stanza. Si sente cadere a pezzi.

“Ragazzo,” sente Tony che lo chiama.

Peter aveva intenzione di continuare a camminare, buttarsi sul letto e urlare nel cuscino, ma barcolla a metà del corridoio, coprendosi gli occhi con una mano ed esalando un singulto, con un suono acuto nelle orecchie. Le lacrime gli bagnano il palmo, gli scivolano lungo il naso e le guance, e non riesce a muoversi, né a pensare. Vede quel livido scuro e violaceo. Sente il tremito nella voce di May. Vede la sua casa infestata di Pacificatori armati.

Singhiozza di nuovo, col respiro che gli si blocca in gola. Sta soffocando. Non respira. Non respira. Non li vedrà mai più e li stanno torturando già adesso. Li perseguiteranno per il resto delle loro vite, anche dopo che sarà morto. Anche dopo che l’intero paese l’avrà visto morire. Anche dopo che il suo corpo sarà portato ovunque portino i corpi di chi muore nell’arena. Sarà una specie di discarica, dove li lasciano a decomporsi? Con vermi ovunque? È dov’è finito anche Bucky? Hank? Hope? È dove finirà lui?

Sente delle mani sulle sue spalle.

“Cerca di respirare,” dice la voce di Tony. “Inspira dal naso, espira dalla bocca. Ci sono io, sono qui, Pete.”

Peter fa come dice, un paio di volte per sicurezza. Altre lacrime gli sfuggono via, e lascia la testa ciondoloni, lasciando ricadere mollemente le braccia.

“Lo fanno spesso,” dice Tony, a bassa voce. “Lo stanno facendo anche a un altro paio, proprio adesso. Mi sembra… quella ragazza, Shuri, dell’Undici. A suo fratello. Ma l’occhio nero, Peter… io non ci crederei. È quello che sono: sono falsi, e sanno che ci sei tu a guardare. Stanno cercando di turbarti.”

“Ci stanno riuscendo,” replica Peter.

“Non permetterglielo,” ribatte Tony, ancora pacato. “So che è difficile. Credimi.”

Peter risucchia un altro paio di respiri, e cerca di figurarsi Ned come l’ha sempre conosciuto. May, nei suoi giorni migliori. La loro casa, calda e piena d’amore, completa, con anche Ben.

Si sente piccolo, come un bambino, e non riesce a frenarsi quando si volta e avvolge le braccia attorno al busto di Tony. Strizza con forza gli occhi, sente Tony esitare per un istante prima di abbracciarlo a sua volta, stringendolo a sé. Peter nasconde il volto nella sua spalla, cercando di respirare.

“Stanno bene,” sussurra Tony. “Stanno bene, stanno bene, te lo prometto.”

Peter vuole credergli. Vuole farlo con tutto se stesso, e sa che loro mentono e alterano la realtà. Il video che li costringono a guardare nel Dodici ogni singolo anno è uno degli esempi più squallidi, ma adesso lo stanno facendo a lui. Cosa verrà dopo? May col naso sanguinante? Ned in un letto d’ospedale? Peter non è affatto sicuro di riuscire a sopportarlo.

Tony gli passa una mano sulla schiena. “Andiamo,” gli dice. “Sediamoci. Devi mangiare qualcosa.”

Peter annuisce, staccandosi lentamente da lui, ma Tony mantiene un braccio sulle sue spalle mentre si avviano entrambi verso la cucina.

Peter si siede su una delle alte sedie alla penisola, e sente la TV che chiacchiera in sottofondo nell’altra stanza, con Hammer e Janet che discutono serratamente.

“Non sono molto bravo,” esordisce Tony. “Col cibo. Con qualunque cosa abbia a che fare col cibo, ma per te farò uno sforzo.”

Peter soffoca una risata, sfregandosi gli occhi. “Non devi–”

“Un panino,” lo interrompe Tony, recuperando un filone di pane, un po’ di formaggio e del tacchino. Scrolla le spalle, posando il tutto sul bancone. “Posso farcela a fare un panino. Non un’omelette, le omelettes… quelle per me sono più difficili dell’arena, credo.”

Peter riesce a sorridere, poggiandosi sul pugno chiuso.

“Io, uh– all’epoca, nella vita che facevo prima, provavo sempre… provavo sempre a fare delle omelettes per Pepper. Amava le uova, amava fare colazione, diceva di amare me, quindi provavo a… combinare le tre cose.”

Peter si siede in modo più composto, concentrandosi al massimo. Tony, che parla della sua famiglia. Con lui.

“Ma ero un disastro completo e ogni volta… facevo qualche cazzata. Le bruciavo, diventavano completamente informi, e lei rideva sempre di me. Finivamo per cucinare insieme perché si stufava di vedermi in difficoltà e poi… andava meglio. Era bello.” Sorride, mentre spalma la maionese su una fetta di pane.

“La sua foto è ancora appesa negli uffici del censo,” si ritrova a dire Peter. “Abbiamo… abbiamo fatto una gita lì, per l’orientamento lavorativo. Ed è più grande di tutte le altre.”

“Gestiva tutto, là dentro,” dice Tony, inclinando la testa senza però alzare lo sguardo da ciò che sta facendo. “Non so come abbiano fatto ad andare avanti, uh, senza– senza di lei.”

C’è un silenzio carico di significati, e Peter vede che Tony sta cercando di non lasciarsi andare.

“So che non sono… l’esempio migliore, quando si tratta di tenere al sicuro le persone che ami,” dice Tony, intento a posizionare del formaggio Muenster, che Peter non ha mai mangiato in vita sua.

“No,” ribatte lui. “Sono stati loro. Loro... tu non hai fatto nulla di male.”

Tony allora alza lo sguardo su di lui, sollevando le sopracciglia.

“No,” ripete Peter. “No, non m’importa, non era scritto nelle regole che tu non potessi sabotare i muri dell’arena e– e costruire un’armatura.”

“Immagino che fosse sottinteso,” replica Tony. “E adesso c’è scritto a chiare lettere, poco ma sicuro. Tu dici di essere bravo a costruire cose, beh, non… non fare come me.”

“Fanculo le loro regole,” dice Peter, troppo forte, in una voce che fa trasalire anche lui. Ma crede in ciò che sta dicendo. “Sono serio. Ci stanno ammazzando. Ci mettono... in una bolla e fanno vedere alla gente come moriamo, si aspettano che combattiamo tra noi e creano cose orribili e sadiche che renderanno le nostre morti ancora peggiori.”

“Tu lo sai,” dice Tony. “E io lo so. Ma sto solo dicendo che… tu non commetterai i miei stessi errori. I tuoi– May e Ned, saranno al sicuro, perché non sei… sconsiderato, come me.”

“Non sei sconsiderato,” ribatte Peter, sentendosi sconfitto e reclinandosi sulla sua sedia. “Tu volevi… volevi solo vivere.”

“Già,” replica Tony, secco. “Ma è troppo, per loro.” Si schiarisce la gola, finisce il panino tagliandolo in due, lo poggia sul bancone e lo spinge verso di lui. “Senti, ho promesso a tua zia…”

Il cervello di Peter ha un calo di tensione. “Hai parlato con lei?”

“Sì, l’ho–”

“Hai parlato con May?” chiede ancora, con la bocca secca.

Tony sorride appena. “Sì, ci… ci ho parlato. Al Municipio, prima di salire sul treno. Ha, uh, fatto in modo di intercettarmi.”

Peter sente una piccola scossa dolorosa, e annuisce, ricordando la sua tenacia, specialmente quando si trattava di lui. “Già, sarebbe proprio da lei.”

“Ho promesso che ti avrei riportato indietro,” dice Tony, poggiandosi su una mano. “E adesso l’ho promesso anche a me stesso. Ti riporterò indietro, e sia lei che Ned saranno tutti interi. Proprio come te.”

Peter sente le altre voci nella stanza adiacente, e sente la pelle d’oca sulle braccia. “E MJ? Michelle?”

Tony distoglie lo sguardo nel sentire il suo nome. Si volta, apre di nuovo il frigo, fissando i due scaffali inferiori stipati di birra. “Io devo pensare a te,” dice, pacatamente. “Questa… sono a fine partita. Non devo pensare a nient’altro.”

Peter guarda fisso davanti a sé, serrando la mascella. Prende il panino, gli dà un morso e nel frattempo non riesce a frenare il cervello dal ripetersi all’infinito tutto ciò, ancora e ancora e ancora finché non gli vengono le vertigini e la nausea per i suoi stessi pensieri. Tutte quelle persone, e tutte che vogliono essere quell’unico e solo. L’unico che rimarrà. Peter vuole salvarli tutti, e anche se stesso. Ripensa a ciò che ha detto poco prima MJ. Se solo potesse fare qualcosa. Se solo fosse migliore di quanto non sia. Se solo somigliasse lontanamente a quel tipo sul poster, in piedi al fianco di Iron Man.

“Non so come fossero le tue omelettes,” dice dopo un po’, tra un boccone e l’altro. “Ma il panino è buono.”

Tony gli rivolge un sorriso. “Bene,” replica. “Ci ho messo tutto me stesso.”

 
§

 
Quella sera è la prima volta che vanno da qualche parte senza i loro mentori, e Peter si sente come se lo stessero di nuovo portando via dal Dodici. Indossano una versione alternativa delle divise da allenamento, solo che Peter ha un piccolo ragno ricamato sulla manica. Omaggio di Sam.

“Per ora rimanete insieme,” dice Tony, mentre esitano sulla porta d’ingresso, con Hammer che batte impaziente la punta del piede. “La gente potrebbe avvicinarvi per parlare di alleanze, ma non prendete ancora alcuna decisione.”

“Qual è il senso, in ogni caso?” chiede MJ. “Delle alleanze. Sappiamo tutti cosa accadrà alla fine.”

Peter deglutisce a forza, e vede un’ombra scura aleggiare sui volti di Janet e Tony.

“Sono importanti,” risponde Janet. “Ne parleremo meglio nella prossima sessione d’allenamento. Da soli.”

“Limitatevi a girare tutte le stazioni e a vedere cosa potete imparare,” aggiunge Tony, facendo un cenno a Peter. “Ti potrai fare un’idea di cosa ci sarà nella sessione privata da quello che avrete a disposizione. Tenetelo a mente, e fateci sapere.”

“Forza, voi due,” dice Hammer. “Muovetevi, non vogliamo fare tardi.”

“Ceneremo qui, dopo,” dice Janet. “Faremo una cosa carina.”

Si avviano nella sua scia, e Peter rivolge uno sguardo a Tony da sopra la spalla: per ricevere un qualche tipo di rassicurazione, per qualche ultimo consiglio. Qualunque cosa. Ma Tony sorride, ricordandogli che ce la può fare. Almeno per ora. Tony Stark, come mentore. Tony Stark, come amico. Non è più solo un’idea, o il sogno lontano di qualcuno che non conosce.

 
§

 
Questo centro d’allenamento è posto al primo piano, sul retro della struttura, e c’è una lunga fila di finestre dal pavimento al soffitto sulla parete di fondo, con tre o quattro droni-telecamera che svolazzano all’esterno, filmando ogni loro mossa.

Peter si tiene vicino all’ingresso principale, osservando lo svolgersi degli eventi. Lancia un’occhiata a MJ, e vede il suo sguardo determinato.

“Non vuoi davvero stringere alcuna alleanza?” le chiede.

“Solo con te,” replica MJ, e la sua espressione si addolcisce nel guardarlo.

“E se altre persone vogliono stare con noi?” chiede ancora. “Insomma, non so perché dovrebbero– perché dovrebbero volere me, ma tu, tu sei… insomma, che facciamo se qualcuno vuole noi? Tutto qua.”

“Vedremo,” replica MJ.

Peter sospira, e iniziano a vagare per la stanza. C’è ogni genere di persona, qui, dagli adolescenti agli adulti ormai al limite dell’età di mietitura, e ciò ricorda a Peter quell’anno in cui i tributi sono si dividevano solo tra più giovani, dodici anni, e più vecchi, trentacinque. Dodici per ciascuno, e gli era sembrato un orrendo scherzo del destino, una tortura aggiuntiva per gli adulti costretti a competere contro dei bambini. Questa volta la divisione gli sembra piuttosto equilibrata, con persone di ogni età in gara. Quelli dell’Uno e del Due sembrano esperti, come si era aspettato, e stanno combattendo tra loro nell’angolo, brandendo armi e utilizzando congegni.

“Che sai fare?” chiede MJ. “Dobbiamo far vedere loro qualcosa.”

Superano una stazione per imparare a fare nodi, e Peter pensa a tutte quelle conoscenze che ha sempre ritenuto inutili. Cose che ha imparato da bambino crescendo nel Dodici. Non ricorda quasi per niente il tempo trascorso coi suoi genitori, ma ricorda bene quello con Ben. Passavano metà delle giornate fuori in giardino, correndo, gridando e facendo finta di sparare, e Ben… Ben gli ha insegnato un po’ di ginnastica.

“So fare le capriole,” annuncia Peter, fissandola. “O almeno, sapevo farle. Non ci ho provato per un po’, ma penso… penso di ricordarmi come si fa.”

“Okay, è già qualcosa,” commenta MJ. Lo prende per il braccio e lo guida verso una stazione nell’angolo piena di tappetini e muri morbidi. Lo sospinge nel mezzo, e lui barcolla un po’, fissandola.

“La… la faccio e basta?” chiede.

“Sì,” replica lei. “Non cadere di culo.”

Prega di no, perché è esattamente ciò che non deve fare di fronte agli altri. Al momento, lo sta guardando solo MJ, ma è sicuro che tutti siano coscienti di ciò che sta succedendo intorno a loro. Sicuramente le telecamere lo sono.

Sospira, girandosi e guardando lo spazio davanti a sé. Cerca di immaginarsi Ben lì, a bordocampo, che lo guida come faceva un tempo. Cerca di immaginare l’erba sotto i piedi, e il vecchio materasso alla fine della linea proprio come lo mettevano sempre, contro il recinto di fondo.

Scioglie i muscoli, cercando di seguire i ricordi. Risucchia un respiro, lo libera, e spicca in una corsa. Salta in alto, tiene diritta la testa, si rannicchia come Ben gli diceva di fare, e ruota nell’aria, tendendosi e piantando i piedi al suolo. Traballa, ma non cade, e sente MJ trattenere il respiro dietro di lui.

“Wow,” esclama.

Si gira a guardarla, con uno stupido sorriso in faccia. “Davvero?”

“Davvero,” conferma lei, con occhi grandi. “È stato meglio di quanto pensassi.”

“Sul serio? Io avevo paura,” replica Peter, col fiato grosso.

“Non dirlo,” sibila lei, guardandolo storto. “Fallo di nuovo.”

“Di nuovo?” chiede, accigliandosi.

“Sì!”

Quindi lo fa di nuovo. Due volte. Tre volte. Avanti, indietro. Poi osa un po’ di più, e ne fa tre di fila come faceva un tempo, barcollando solo un po’ alla fine. Sente MJ che ride e batte le mani, e si gira, vedendo che non è più l’unica ad assistere. Ci sono altre due persone accanto a lei.

Sono il ragazzo alto e biondo e la donna coi capelli rossi. Entrambi sembrano vagamente divertiti, con le braccia incrociate in modo quasi identico. La donna si inclina verso l’altro, schermandosi la bocca con la mano e sussurrandogli qualcosa, e lui annuisce. MJ si gira vedendo l’espressione di Peter, assottigliando gli occhi nel guardare i due.

“Sì, sarà davvero utile… ovunque ci metteranno,” dice la donna, facendo un gesto verso Peter. “E sa anche arrampicarsi.”

Peter la fissa a bocca aperta. Certo, sa arrampicarsi, ma lei come fa a saperlo?

“Non tutti sanno muoversi così,” commenta l’uomo, con un’aria stranamente orgogliosa. “Peter Parker, giusto?”

“Sì,” risponde lui, esitante.

“Io sono Steve Rogers, Distretto Sette,” si presenta l’uomo.

“Natasha Romanov,” aggiunge la donna, con un cenno del mento verso di lui.

“Questa è M– Michelle,” dice Peter, avvicinandosi a loro.

“Già, piacere di conoscervi,” replica lei, affatto impressionata.

“Volete allenarvi un po’ con le armi?” chiede Steve, con un modo di fare aperto che Peter non si sarebbe aspettato di vedere.

Non può dire lo stesso di Natasha, anche se sembra incline a interagire. “Hanno un’ampia scelta,” aggiunge. “Dei buoni schemi e simulazioni.”

Peter guarda MJ e, di nuovo, non riesce a leggere la sua espressione. Ma non sembra esattamente contenta.

“Non sono il massimo con le armi,” dice Peter. “Io e Tony progettavamo di… lavorarci su.”

“Anch’io sono più un tipo difensivo,” ribatte Steve, guardandolo da sopra la spalla. “Ma Tasha, lei è… praticamente un’esperta.”

Lei scrolla le spalle, ma non lo nega.

Peter sa che questi sono i tributi di Thor, e Thor è uno dei Vincitori più bravi. È stato sulla difensiva per tutti i suoi Giochi, e si è rifiutato di uccidere. Si è finto morto, verso la fine, in mezzo a tutti gli altri corpi, e poi era arrivata la tempesta. Peter lo rispetta, e questi due – non riesce ancora a leggerli, ma ha l’impressione che siano ben intenzionati. Per ora.

“Va bene,” dice Peter, rivolgendo un cenno a loro e a MJ. “Va bene, andiamo… a dare un’occhiata a qualche coltello.”

Realizza quanto ciò suoni stupido non appena lo dice, ma lo invitano comunque a seguirli verso la stazione delle armi.

 
§

 
Tony si siede, con tutti i dossier aperti di fronte a lui. Guarda quello di Steve Rogers e Natasha Romanov e si chiede perché diavolo si siano offerti volontari. Rispettivamente ventotto e venticinque anni, finora avevano scampato la Mietitura. Non avevano alcuna connessione con le persone per le quali si sono offerti, al contrario della situazione di Peter e Ned. Non sono in un Distretto favorito, dove i Giochi sono un qualcosa per cui tutti vengono addestrati, a cui aspirano per tutta la vita, dove si saltano addosso nel tentativo di diventare i Tributi del loro Distretto. Tony non riesce a venirne a capo.

Il file personale di Peter spicca rispetto agli altri, e Tony sospira, aspettando che torni.

“Devo mettermi in contatto con la mia gente nel Dodici,” dice, richiamando l’attenzione di Janet. “Capire cosa stia succedendo davvero a Ned e May.”

“Possiamo provarci,” dice Janet, scartabellando a sua volta tra i documenti.

Tony sposta lo sguardo sull’Uno e sul Due. Quentin Beck, Felicia Hardy, Harry Osborn [3] e una donna che si fa chiamare Hela. Hanno tutti una quantità esorbitante di crediti per allenarsi e ovviamente si sono tutti offerti volontari. Sembrano pericolosi, e a Tony non piace pensare che Peter si troverà faccia a faccia con loro. In effetti, più pensa a Peter nell’arena, più sente un peso al centro delle spalle. Come se parte di lui stesse marcendo. Come se lo stessero seppellendo vivo.

“Pensi che si possa, uh,” comincia, picchiettando la penna sulla foto di Beck. “Pensi che potrei… non so, infilarmi nel tubo al posto di Peter? Andare nell’arena al posto suo?”

Janet lo fissa come se avesse visto un fantasma. “Tony,” lo riprende.

“Insomma, nessuno ci ha mai provato,” dice Tony, scrollando le spalle. “Non che io sappia, almeno.”

“Il tubo scannerizza il Tributo per accertarsi che sia quello giusto,” dice Janet. “Se lo facessi, ti scoprirebbero dopo pochi secondi con lo scanner, e probabilmente ti gaseranno a morte proprio di fronte a Peter.” Fa un verso incredulo, chiaramente delusa da lui. “È questo che vuoi?”

Lui si reclina sulla sedia, fissando la parete di fondo e tutte le opere d’arte orrende con cui l’hanno decorata. Non dice nulla.

“Stai perdendo il controllo stavolta, Tony,” dice lei. “E non è passata nemmeno una settimana. Che succederà poi, eh? Peggiorerà e basta.”

Sente sempre la sua indole testarda riattivarsi quando qualcuno lo contrasta. “Quello che ha detto prima Michelle mi preoccupa,” ribatte. “Riguardo alle alleanze. Credi che lo abbandonerà?”

“Deve pensare anche a se stessa,” replica Janet.

Tony lo sa. Si stropiccia gli occhi, e si sente come se stesse facendo tutto ciò da sempre. Come se fosse ogni giorno e non una volta l’anno, permeando ogni suo passo, respiro, parola.

“È perché lui è quel bambino?” chiede allora Janet. “Dell’Homecoming?”

Tony continua a non guardarla. “Tu sai cosa sarebbe successo quel giorno, se non fosse stato per quel bambino,” mormora. Aveva avuto un piano. Un’opportunità. Aveva bramato quel buio con tutto se stesso, finché… finché delle braccia sottili non si erano aggrappate a lui, e la voce di un bambino gli era risuonata nell’orecchio. Sei un eroe, sei un eroe, Iron Man.

“Quasi vorrei che lei non te l’avesse detto,” commenta Janet.

“Mi sarei sentito così anche se non l’avessi saputo,” ribatte lui, voltandosi finalmente verso di lei. “Sai, avevi ragione.” La gola gli si stringe, e riesce a malapena a formare delle parole non distorte dalle lacrime. “È come se fosse collegato direttamente al mio cuore. Come se l’avessi conosciuto in un’altra vita.” Si stropiccia di nuovo gli occhi ora appannati, e ricorda come Peter l’ha abbracciato poco fa. Senza esitare, pieno di fiducia. Tony si odia.

“Devi concentrarti, okay?” lo incita Janet, anche lei con voce rotta. “Non posso– non posso perdere anche te.”

Tony esala un respiro, facendole un cenno d’assenso, anche se non fa alcuna promessa ad alta voce.

“Adesso andiamo,” continua lei. “Facciamo arrivare qualcosa di buono per cena. Sai che non sapremmo cucinare per nulla al mondo.”

“Hai perfettamente ragione,” concorda Tony.

Lei si alza, posandogli un bacio sul capo, e si dirige verso il menù posato accanto al telefono. La mente di Tony straripa di pensieri impossibili, e spinge il dossier di Rogers sopra quello di Quentin Beck.


 

*

 
 


Note:

[1] In originale: cornbread casserole. Non è esattamente uno stufato, somiglia più a un pasticcio o alla nostra pasta al forno. Non essendoci un corrispettivo esatto, ho preferito questa traduzione.
[2] Victor Creed aka Sabretooth, un mutante fratellastro di Wolverine e con poteri affini ai suoi. 
[3] Felicia Hardy, assistente personale di Norman Osborn e successivamente del figlio Harry Osborn aka Green Goblin.



Note Della Traduttrice:

Cari Lettori, 
con questo capitolo in poi si entra nel vivo della storia, e spero che la stiate apprezzando quanto la sto apprezzando io <3 Come sempre, vi invito a lasciare kudos sulla storia originale!
Ringrazio tantissimo T612 ed Eevaa per aver recensito lo scorso capitolo, e _Atlas_ per aver fatto ancora una volta da beta-reader.
A martedì, col prossimo aggiornamento,

-Light-






 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Un volto per la ribellione ***


Capitolo 5: Un volto per la ribellione
 




“È un tipo da tenere d’occhio,” dice Tony, cercando di non tormentarsi le mani e di non farsi distrarre dal flautista vicino all’acquario. Ho suonato il flauto per, tipo, cinque minuti. “È… è notevole, Sif. Dimmi tu.”

Tony ha l’impressione che tutti, nel ristorante, stiano guardando lui. Non si sorprenderebbe. Tutti vogliono essere parte degli Hunger Games, mentre tutti quelli che vivono nei Distretti cercano di allontanarsene il più possibile.

Sif non si mette in ghingheri come fanno tutte, e c’è una naturale eleganza nel modo in cui si muove e si atteggia. Il suo sguardo è intenso ma privo di pregiudizi, e Tony sa che lo sta ascoltando davvero. È una dei pochi che non sembra appartenere a questo luogo, semplicemente perché si comporta come un normale essere umano e non come un manifesto ambulante che sottolinea i motivi per cui la classe agiata dovrebbe essere annichilita. È il sesto potenziale sponsor con cui parla oggi, e l’ha tenuta appositamente per ultima. In un luogo dove è apparentemente impossibile, lei riesce a metterlo a proprio agio.

“Sembra diverso,” dice lei, prendendo un sorso di champagne. “E anche tu. Sei diverso dall’anno scorso, e Bucky ti aveva fatto impegnare parecchio.”

Tony ha un leggero sussulto. Ogni anno cerca di non cascarci, cerca di non affezionarsi, e ogni anno riesce a fallire, in un modo o nell’altro. Ma quest’anno ha fallito più che mai. Ha avuto tre confronti individuali con Peter e ormai conosce tutto di lui, o almeno tutto ciò che lui vuole dirgli. Di solito Tony si oppone alle confidenze personali, cerca di nasconderle, di tenerle a bada, ma ha iniziato a mettere da parte ogni piccola informazione che il ragazzo decide di condividere. Sa dell’incendio al Centro Città quando Peter era ancora nuovo, lì, il fatto che in seguito i ragazzi sono rimasti nella stessa aula danneggiata per sei mesi. Sa del salice che Ned e Peter hanno piantato nell’Undici. Sa tutto riguardo a Ben Parker e a quanto doloroso sia stato perderlo così presto, il fatto che abbia portato con sé gran parte dell’anima di May. Peter gli dice cose riguardo al Dodici che lui dovrebbe sapere, considerando che ci vive anche lui, e ha realizzato quanto davvero si sia isolato, ai margini della città nella sua villa privata.

Ha insegnato al ragazzo a usare ogni arma fornita da Capitol per i Giochi e, nonostante non sia perfetto, impara in fretta. Tony ha la sensazione che Peter stia celando la vera portata della sua intelligenza, visto che ha sedici anni ed è stato obbligato a reprimersi per gran parte del tempo. Qui fiorirebbe, a Capitol, dove la tecnologia è quindici anni più evoluta di quella disponibile nei Distretti, dove sono possibili cose che non sono possibili altrove. Peter potrebbe rivedere suo zio, grazie agli ologrammi che fabbricano qui. Tony ci è andato molto vicino, più volte, a creare un posto dove tutti quelli che ha perso fossero ancora vivi: i suoi genitori, Pepper, ogni singolo tributo. Ma anche in qualcosa di fasullo, creato con le sue stesse mani, sa che i loro occhi sarebbero ostili. Accusatori.

Tony guarda Sif e, considerando che lo vede raramente, si sorprende di come riesca a leggerlo così bene. “Le cose sono cambiate,” replica. “Credo… credo che non siano cambiate solo per me.”

“Questo è sicuro,” risponde lei. “Tutti parlano solo di lui. Credo che sia per quel suo bel visetto.”

“È davvero un bravo ragazzo,” dice Tony, con una puntura di spillo al cuore. “È... è bravo ad adattarsi, anche se non crede abbastanza in se stesso. Sarà in grado di affrontare qualunque cosa gli manderanno contro.” Tony si schiarisce la voce. Lo spera. Sa che non c’è bisogno di dire cose del tipo sarà in grado di dare spettacolo, o è merce di lusso, come ha dovuto fare con alcuni degli altri sponsor. Lei vede la parte umana, non lo show.

“Sai che sono con te,” dice lei, sporgendosi in avanti e prendendogli la mano.

Lui annuisce, e detesta che ultimamente sia così spesso sull’orlo delle lacrime. È un disastro completo. “So che tu e Thor siete in confidenza,” aggiunge.

“Sì,” conferma lei. “Ma voglio dare il mio supporto a qualcuno che ne ha bisogno. La maggior parte di esso, almeno. E comunque, a volte lui collabora.”

“Già,” replica Tony, ricordando la domanda di Thor.

“Mi hai convinta,” conclude Sif. “Mettimi sulla tua lista.”

“Grazie,” dice Tony, stringendole la mano. “Grazie, davvero.”

 
§
 

Si incontra di nuovo con Janet dall’altra parte della strada, di fronte all’edificio del tesoro, e schiocca la lingua perché qui tutti guidano come dei cazzo di folli. Janet lo guarda attraversare, e gli porge la mano per aiutarlo a salire sul marciapiede.

“È raro vedere auto nel Dodici,” commenta lei. “E mai così veloci.”

“Solo quei cazzo di furgoni dei Pacificatori,” borbotta Tony, mentre si incamminano e uno dei suddetti furgoni arranca sulla strada est-ovest.

“Voglio dirtelo prima che tu lo sappia da altri,” esordisce Janet. “Quest’anno faranno di nuovo quel viaggio di scambio. Come quello di tre anni fa.”

Tony si volta a guardarla, con una vena del collo che già minaccia di scoppiargli. “Ma che cazz– tre ragazzi da ogni–”

“Non so se ne prenderanno lo stesso numero da ogni distretto, e neanche se tutti i distretti sono inclusi, ma sono già qui, sono arrivati stamattina.”

Attraversano la strada al semaforo e Tony digrigna i denti, con lo sguardo fisso di fronte a sé. L’hanno già fatto tre anni fa: avevano selezionato determinati ragazzi dai distretti, come se avessero vinto un concorso, e li avevano mandati a Capitol per un paio di giorni per assistere agli eventi degli Hunger Games. Tony l’aveva considerata una cosa malata: dei ragazzi, i cui nomi sarebbero sicuramente finiti nelle urne, se già non c’erano, mandati a guardare quelli destinati a morire ora. Era stata chiaramente una distrazione per i tributi, perché i ragazzi selezionati avevano mantenuto i vestiti informi e sporchi dei loro distretti, così da farli spiccare. Li avevano piazzati in luoghi dove i tributi potessero vederli, ed era stato come avere attorno degli occhi del passato che guardavano verso quello che sarebbe potuto diventare il loro futuro. Avevano permesso loro di girare per Capitol, vietando però loro di indulgere nel lusso dei cittadini. Avevano dato loro cibo dei distretti, e li avevano ammassati nel Centro Civico, in delle brandine dure come cartone. Li avevano sballottati qua e là come animali, con circa sei Pacificatori a fare loro da baby-sitter. Tony li detestava.

“Non voglio che Peter lo sappia,” dice. “Neanche Michelle, sinceramente. Oggi hanno la loro prima sessione privata e non– vorrei evitare, d’accordo? È già abbastanza difficile.”

“Sono sicura che già lo sappiano,” replica Janet, guardandolo tristemente. “L’hanno detto alla TV per tutta la mattina.”

Tony si pizzica la radice del naso, sentendo un principio d’emicrania. Sente qualcosa che svolazza al vento, e alza lo sguardo incontrando gli stendardi dei tributi appesi ad ogni lampione. Peter, nella tenuta da Spider-Man.

“È in testa in tutti i distretti,” dice Janet, sistemandosi la borsa sulla spalla. “Non solo il Dodici. Tutti quanti. Il video del ragno è stato visto più di un milione di volte. Pagano per vederlo.”

L’accesso a internet è molto limitato nei distretti più alti, e la maggior parte di esso è soggetto a censura. Ma stanno pagando per vedere Peter che salva un ragno.

“Molta più gente della stampa sarà probabilmente disposta a spendere chiavi per parlare con lui,” continua Janet. “Quindi… tieniti pronto.”

Tony si stropiccia gli occhi. “Sì, ho parlato ieri con Gary [1],” risponde. “Ma Gary mi piace. Insomma, per quanto possa piacermi uno di Capitol.”

“Almeno è rispettoso.”

“Già. Un vero tesoro.”

Tornano al Circolo Cittadino e Tony si sente sempre peggio, ma non vuole che Janet lo noti. Non le sfugge molto, quindi cerca di non guardarla, continuando a incontrare gli occhi dei passanti. Gli sorridono, con l’aria di volersi avvicinare, e Tony pensa alla vittoria di Peter. Il migliore dei casi: vincere, diventare un Vincitore. Ma essere un Vincitore vuol dire diventare un Mentore. Diventare uno dei loro animaletti domestici, qualcuno che possano spremere e usare come vogliono. Tony si ricorda le storie su Remy LeBeau [2], quello che ha passato, il modo in cui l’hanno fatto prostituire a chiunque volesse un assaggio di lui. E Peter dovrebbe convivere con tutta quella morte, coi ricordi, con le ombre delle persone con cui è sceso nell’arena… soprattutto Michelle.

Tony si appoggia al muro con una mano, sfregandosi il petto.

“Che hai?” chiede Janet, afferrandogli il braccio.

Tony chiude con forza gli occhi. “Niente.”

Lei gli si accosta quasi a forza. “Tony.”

“Niente, niente,” ripete lui, massaggiandosi il centro del petto per alleviare la costrizione. “Penso troppo, come al solito.”

Lei lo fissa con insistenza, e le sorride. “Sei sicuro?” gli chiede.

“Sì,” risponde lui. “Sicuro al cento per cento.”

Se perdono, Peter è morto. Se vincono, diventa di loro proprietà. Come lui.

Tony vuole un’altra cazzo di opzione.

 
§

 
Peter, MJ, Tony e Janet si avvicinano all’ingresso principale, con due Pacificatori piazzati su ciascun lato. La TV sul muro sta trasmettendo dei filmati della Gita di Gruppo, e Peter li fissa, notando il modo in cui li stanno radunando quasi fossero bestiame. Il modo in cui quelli di Capitol li guardano, come se temessero di avvicinarsi troppo. Vengono caricati e scaricati da quel pullman, sballottati da un posto all’altro. Peter sa che tutti guarderebbero così anche lui, se non indossasse i loro vestiti, se non facesse parte del loro gioco deviato.

Fissa Tony e prova a concentrarsi. “Sei sicuro che non ci siano mentori, là dentro?” gli chiede.

Tony gli rivolge un mezzo sorriso. “Sono sicuro,” replica. “Non siamo ammessi, punto. Sai, potrei… potrei fare un tentativo, credo di potermi accaparrare qualche favore, ma poi mi metterei nei guai…”

Peter scuote la testa. Sospira, cercando di non guardare la TV e di non ascoltare la conversazione privata tra MJ e Janet. “Quanto pensi che durerà?” chiede ancora.

“Non troppo, non dovrebbe,” risponde Tony. “Sfortunatamente siamo gli ultimi, sempre e per sempre, quindi devono sorbirsi tutti gli altri prima di arrivare a voi. Ma il lato positivo è che potrete andarvene non appena avrete finito. E ci avviseranno, quindi saremo qui per riportarvi indietro.”

Peter gli rivolge un cenno del capo. Si stuzzica le unghie, cercando di non tremare.

Tony lo prende per la spalla, accostandolo un poco a sé. “Là dentro ci saranno i materiali per costruire i repulsori, quelli con cui ci siamo esercitati l’altro giorno. Costruiscili, so che non avrai problemi perché l’hai già fatto mille volte senza di me, poi inserisci la settima simulazione d’aggiramento nella macchina e completala È tutto ciò che devi fare. Sarai perfetto.”

“E se qualcuno costruisce i repulsori prima di me?” chiede Peter.

“Ripristinano tutto ogni volta,” risponde Tony. “Stessi materiali per ognuno di voi.”

Peter si sente sul punto di perdere il controllo. Vuole afferrare Tony, MJ e Janet e iniziare a correre. Si chiede quanto lontano arriverebbero. Probabilmente non così lontano, considerando che sono a pochi passi dai loro fucili ad ogni angolo. Si chiede se lo ucciderebbero, nel caso si ribellasse, perché lui in teoria serve per i loro preziosi Giochi. Si chiede se mieterebbero qualcun altro, se lui venisse ucciso. Probabilmente trascinerebbero qui Ned.

Raddrizza la schiena, cercando di raccogliere le forze, e annuisce di nuovo. Tony lo attira in un abbraccio, e Peter si irrigidisce per lo shock, considerando che l’unica volta che si sono abbracciati è stato quando lui stava piangendo ed era vicino al collasso.

“Volevo dirtelo,” esordisce Tony. “L’ho scoperto mentre ero in città con gli sponsor. L’occhio nero era una cazzata. E c’è un solo Pacificatore fuori da casa tua, soltanto di notte.” Gli dà una pacca sulla spalla e si fa indietro, sorridendogli. “Okay?”

Peter sente un carico di pressione scivolargli via dalle spalle, e ride, sfregandosi gli occhi. “Grazie,” dice, sentendosi subito meglio, più in forze di quanto si sentisse un momento fa. Grazie a Dio.

“Siete pronti?” chiede Janet, guardandoli.

“Credo di sì,” dice Peter, fissando MJ.

“Buona fortuna, ragazzi,” augura loro Tony, con un cenno a entrambi. “Ci vediamo dopo.”

“Andrete benissimo,” li incoraggia Janet.

Ogni volta che devono separarsi il pericolo sembra acuirsi, e Peter non sa mai cosa aspettarsi quando non ha Tony intorno. Ma si avviano comunque verso la porta, entrando quando i Pacificatori la aprono.

Ci sono altri due Pacificatori dall’altra parte, e vi sono dodici panche, undici delle quali già occupate. Tutti sono nelle loro divise da allenamento, e Peter pensa che è l’unico ad avere un qualcosa di speciale cucito addosso, il che lo preoccupa e lo conforta al contempo. Non tutti si girano quando fanno il loro ingresso, ma Steve e Natasha sì, e anche Shuri e l’uomo corpulento con cui è appaiata. Lei sembra contenta di vederli, e li saluta con un cenno, ma l’uomo si limita a fare un sogghigno.

Natasha alza le sopracciglia rivolta a loro, e Steve solleva un angolo delle labbra.

La porta si chiude e si siedono. Peter sente una bolla nel petto che risucchia via tutta l’aria. Pensa a Ben, e vorrebbe così tanto che avesse potuto incontrare Tony. Se li immagina insieme, e sa che andrebbero d’accordo. Chiude gli occhi e vede una vita in cui ha i suoi genitori, Ben e May, Tony. Ci sono anche MJ e Janet – è un posto caldo e sicuro, un posto dove è protetto dal dolore, dove non ci sono né gli Hunger Gamer né Capitol, né oppressione. Sicuro. Sicuro.

“Quello del Quattro,” sussurra MJ, accostandosi a lui. “Sai come si chiama?”

Peter sposta gli occhi su di lui. “È quello che cercava di fare il simpatico, vero?” chiede. “Quello che… riusciva a far camminare le formiche in fila.”

“Sì,” conferma MJ.

“Credo si chiami Scott,” risponde lui. “Scott Lang, o qualcosa del genere.”

“Penso che sia il più carino, qua dentro,” commenta MJ. Poi si volta a guardarlo, con quell’espressione dolce che ha a volte e che gli fa svolazzare le farfalle nello stomaco. “Beh, a parte te.”

 
§

 
Iniziano a chiamarli uno ad uno, Distretto dopo Distretto. Peter e MJ confabulano tra loro, parlano di strategie, fanno qualche commento su questo tributo o quel mentore. Steve e Natasha continuano a fissare lui, insistentemente… sono stati gentili nel primo allenamento di gruppo, ma Peter ha una strana sensazione, come se stessero complottando qualcosa contro di lui. Spera che non lo stiano prendendo di mira, o nulla di simile, perché non saprebbe davvero come affrontare persone come loro. Li vorrebbe come alleati, se MJ fosse d’accordo.

Alla fine, rimangono gli unici due nella stanza. MJ incrocia le braccia sul petto, e sembra a un passo dall’esplodere e dal fare a pezzi tutto e tutti. Non la biasima. La osserva mentre guarda i Pacificatori vicino alla porta, poi chiamano il suo nome dall’altoparlante.

“MICHELLE JONES, DISTRETTO DODICI.”

“Buona fortuna,” le augura Peter, stringendole la mano.

“Grazie, Spider-Man,” risponde lei, stringendogliela di rimando.

La guarda uscire, e poi è solo. Solo nella stanza che prima ospitava ventiquattro tributi, e prova a immaginare come sarà alla fine dei Giochi, quando tutti saranno morti e verrà nominato un Vincitore. Ha visto i filmati di Tony, di Janet, di Thor, di Strange, di tutti gli altri, e non è mai glorioso come Capitol vorrebbe far credere. È sempre un momento devastante, di panico, di volti rigati dalle lacrime, di mani che si dibattono nella polvere. Sangue, ferite, dolore lancinante, il tipo di orrore che non dovrebbe mai esistere, che quelle persone non si meritano. Peter sa che anche lui non se lo merita. Non si vincono gli Hunger Games, non ci sono Vincitori, anche se sbandierano quel titolo ogni volta che possono. Ci sono solo sopravvissuti.

Passa un po’ di tempo, e si chiede come se la stia cavando MJ. Sa che farà una di quelle simulazioni col coltello, ed è certo che otterrà uno dei punteggi più alti.

“PETER PARKER, DISTRETTO DODICI.”

Peter butta fuori un respiro e si alza in piedi. Non si volta verso i Pacificatori, percorre semplicemente il corridoio, che si illumina man mano che avanza.

La sessione privata non è esattamente privata. È in una stanza simile a quella in cui si è allenato con Tony e dove hanno raccolto l’intero gruppo, ma stavolta c’è una saletta sopraelevata, con dentro circa quindici membri del governo e metà del Consiglio dei Giochi. Peter vede Bruce Banner, di fronte a tutti, in pratica l’unico che non sia seduto a un tavolo straripante di cibo, o intento a giocare a biliardo nelle retrovie.

Peter si schiarisce la gola, cercando di mantenersi saldo e di non ascoltare il battito rapido del proprio cuore. Vede il tavolo preparato, e la macchina delle simulazioni.

Ricordati di presentarti, gli dice la voce di Tony, nella sua testa.

Peter si ferma sui tappetini dietro al tavolo, e si afferra le mani di fronte a sé per impedir loro di tremare. “Uh, Peter Parker, dal Distretto Dodici,” annuncia.

Vede Bruce fare un cenno. Poi una voce che non riconosce dice “comincia” tramite l’altoparlante.

Peter tentenna, solo per un istante, colpito da un’altra di quelle brutali realizzazioni che gli ricordano che lui è qui, nell’incubo, che tutto questo sta ancora accadendo. Ma è in grado di ricomporsi prima di cadere completamente a pezzi, e fa ciò che deve fare.
Assembla il repulsore in meno di un minuto, che finora era il suo record. Seleziona rapidamente la simulazione d’aggiramento che lui e Tony hanno scelto, e si mette in posizione al centro del tappetino. L’ologramma si attiva, non del tutto solido, in modo da poter ancora vedere la stanza, e Peter sconfigge i suoi avversari, schivando e sparando, facendoli a pezzi col repulsore. Non pensa, non finge che siano persone reali, si limita a nascondersi, a tenersi basso, a coglierli di sorpresa ed eliminarli. Si scherma gli occhi con la mano libera ogni volta che usa il repulsore così da non macchiarsi le retine di lampi luminosi, e fa una capriola in corsa oltre l’ultimo avversario, abbattendolo alle spalle.

Ha il fiato grosso quando il tutto si dissolve, ma una stilla di soddisfazione lo pervade, facendolo sorridere. Sa di aver fatto tutto alla perfezione, meglio di quanto abbia fatto durante gli allenamenti, e vorrebbe che Tony fosse qui per vederlo; si chiede se potrà guardare una registrazione in seguito. Cerca di non distrarsi dal presente, di non pensare troppo, e si avvicina al tavolo posandovi il repulsore e alzando lo sguardo su di loro.

Lo stanno guardando. Alcuni sembrano vagamente impressionati, altri alzano le sopracciglia parlando fra loro, e Bruce lo onora con un applauso iniziato da lui. Peter fa un cenno col capo, cercando di riprendere fiato, e socchiude gli occhi quando lui distoglie lo sguardo. Non sa cosa diavolo si fosse aspettato, ma è contento che sia finita. Il tutto è durato circa dieci minuti, meglio di quanto pensasse. Butta fuori un respiro, vede il Pacificatore indirizzarlo verso una porta nel muro a sinistra, e lo segue oltre essa.

Si blocca, perché è in una stanza non illuminata ed è buio pesto. La porta dietro di lui si chiude.

“Ehi?” chiama, col cuore che accelera di nuovo i battiti. “Ho… ho sbagliato strada?”

Qualcuno lo afferra da dietro, lo fa voltare e gli dà un forte pugno in faccia. Peter si accascia con un lamento e prima che possa muoversi lo sollevano, dandogli un altro pugno. Ondeggia, con le mani premute contro il pavimento freddo e il dolore dei colpi che pulsa. Lo tirano su di peso, lo fanno voltare e gli puntano un coltello alla gola, affilato, che gli incide la pelle.

Si puntella contro l’aggressore, col sangue che gli cola nell’occhio, e percepisce la corazza di un Pacificatore. Si chiede se sia la fine. Cerca di ripercorrere tutto, di capire se ha fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che avrebbero potuto sentire, o vedere. Poi la stanza si illumina e un ologramma si attiva, come quelli con cui lui e Tony hanno fatto pratica.

È un comune campo di fiori, solo che c’è anche lui. Lui, MJ, Steve, il tipo col pizzetto dal Distretto Uno. Stanno combattendo, si tirano pugni e calci, e MJ trafigge Peter con una freccia.

“Le cose andranno così,” sibila il Pacificatore, strattonandogli all’indietro la testa e premendo più a fondo il coltello.

Peter si vede reagire, strapparsi via la freccia, impugnarla e caricare MJ a testa bassa.

“Dovrai ucciderli tutti, se vuoi vincere,” dice ancora il Pacificatore.

Peter si vede mentre la pugnala nel petto con la freccia insanguinata, e il suo corpo si divincola convulsamente. Alza una mano, afferrando il braccio del Pacificatore nel tentativo di scrollarselo di dosso. La sua faccia pulsa violentemente nel punto in cui è stato colpito, e vede il tizio dell’Uno che sferra un fendente verso il braccio di Steve.

“Ti spaventa? Il fatto che morirai il primo giorno dei Giochi?” chiede il Pacificatore. “Hai paura?”

Peter sa che il fatto di stare tremando lo tradisce, assieme al cuore che gli percuote la gabbia toracica. Batte le palpebre, ha un singulto, si dimena quando il tizio dell’Uno lo abbatte a terra nell’ologramma, ora brandendo il coltello contro di lui.

“Ti spaventa?” chiede ancora il Pacificatore, stavolta più forte, e il coltello intacca il suo collo. “Il fatto che presto sarai morto?”

“No,” sussurra Peter.

“Hai paura?” urla lui.

“No!” urla di rimando Peter, tentando di respirare.

Il Pacificatore lo lascia andare, gli dà uno spintone e l’ologramma si dissolve. Peter respira a fatica, malfermo sui piedi, e si gira verso la guardia senza volto responsabile di tutto ciò. È come tutte le altre, se non per il suo sangue che gli imbratta le nocche.

“Sei passato,” dice, da dietro la sua maschera nera. “Congratulazioni.” Porge a Peter un piccolo cartoncino. “Un permesso per l’ospedale. Il tuo mentore saprà dove andare.”

Peter glielo strappa via, col petto che si alza e si abbassa rapidamente. Gli fa male tutto, cazzo, è furioso, e sono da soli. Si è allenato coi coltelli insieme a Tony. Potrebbe disarmarlo, se davvero volesse, vista la posizione in cui sono adesso. L’ha colto di sorpresa, prima. L’ha assalito al buio.

Ma il Pacificatore ha anche una pistola.

Peter si volta, individua la porta e la supera. Sbuca in un lungo corridoio e lo imbocca a passo di marcia, senza la minima idea di dove stia andando. Contrae la mano in un pugno, e spera, contro ogni aspettativa, che non abbiano fatto nulla del genere a MJ. Vede un’altra porta alla fine del corridoio, con due Pacificatori di guardia, e Peter vorrebbe caricarli e pestarli fino a farli svenire. Invece, si asciuga il sangue dall’occhio e supera anche quella.

Tony è lì fuori quando esce, con MJ e Janet, e tutti assumono un’espressione sbigottita quando lo vedono.

“Ma che cazzo…” esala Tony, avvicinandosi rapido. “Che cazzo è successo?”

La rabbia di Peter supera qualunque altra cosa, al momento, ed è sul punto di urlare, afferrare il vaso di fiori lì accanto e scaraventarlo dall’altro capo della stanza. Ma poi Tony gli si fa incontro, lo prende delicatamente per le spalle e si china appena per guardarlo in volto. Peter si affloscia, con tutto il desiderio di combattere che evapora, perché Tony è qui, è davanti a lui, e MJ non è coperta di sangue, sembra stare bene. Cade in avanti, contro la spalla di Tony, e solleva il cartoncino che gli ha dato il Pacificatore.

“Un permesso per l’ospedale…” osserva Tony, assicurando un braccio attorno alla sua vita e prendendo la carta con l’altra mano. “Che diavolo gli avete fatto, bastardi?” grida poi, con la voce che rimbomba, forte e chiara. “Eh? Che cazzo– lui è un favorito di Capitol, uno che va a salvare ragni in giro, e voi lo pestate di botte? Che cazzo significa?”

“Tony,” lo riprende Janet, e la sua voce suona più vicina.

“Peter,” dice MJ, con la mano sulla sua spalla.

Peter si raddrizza, con le lacrime che gli pizzicano gli occhi. “Andiamo in questo ospedale,” dice, tirando su col naso. “Vi dirò tutto lì.”

 
§

 
Ha solo un taglio sopra l’occhio, che il dottore gli chiude con dei punti. Ce n’è anche uno sulla sua gola, ma non è abbastanza profondo da richiedere dei punti, solo un’ampia, ridicola garza. Gli è scoppiato un capillare nell’occhio, e continua a fissarlo nello specchio. Una stilla rossa in una pozza bianca.

“E non ha fatto altro che chiedermi se fossi spaventato, se avessi paura, e io ho detto di no, poi mi ha lasciato andare e l’ologramma è sparito, e ha detto che ero passato,” dice Peter, sussultando mentre il medico continua a fare il suo lavoro.

Tony si reclina sullo schienale, e s’intravede la rabbia che ribolle sul suo volto, la mascella contratta. Ha una mano chiusa attorno al polso di Peter, mentre MJ è seduta alla sua sinistra, in silenzio. Ma Peter sa che sta riflettendo intensamente, perché è quello che fa sempre.

“Non è successo a nessun altro,” dice Janet. “Neanche uno, li abbiamo visti uscire.”

“La sessione è andata bene,” aggiunge Peter, con la voce che si spezza, e alza gli occhi in quelli di Tony. “Sono… sono andato davvero bene. Sono stato perfetto.”

“Certo che sì,” gracchia Tony. Rivolge uno sguardo a Janet, un po’ titubante, e i suoi movimenti sono rigidi e robotici. “Voglio sporgere reclamo.”

“È stato chiaramente ordinato,” replica Janet. “Da… dall’alto.”

“Non me ne frega un cazzo,” insiste Tony.

“Un reclamo non cambierà le cose, se è stato orchestrato da tu sai chi,” ribatte Janet.

Peter solleva le sopracciglia, e sussulta di nuovo. “Uh, chi?”

Janet sospira e abbassa lo sguardo sulle sue mani.

“Ecco fatto,” dice il medico. Recupera qualcosa dal bancone e lo mette nella mano libera di Peter. Un flacone di pillole – sei, per la precisione. “Prendi queste, da adesso a mezzanotte. Ho applicato un po’ delle nostre pomate, i tagli scompariranno prima di domani e i punti verranno assorbiti. Sarà come se non fosse mai accaduto.” Sorride, si volta ed esce dalla stanza.

Peter si morde il labbro inferiore. “Andiamo,” dice, saltando giù dal lettino bianco e trasalendo per la fitta al punto in cui è caduto sull’anca. Tony gli prende il braccio, aiutandolo verso la porta.

 
§

 
Tornano nell’attico, e trovano un biglietto sul tavolino da caffè, posizionato con sei spillette a forma di ragno intorno.

“Cristo,” esala Tony, avvicinandosi. “Lo stanno prendendo di mira, Jan.”

“Penso di sì,” dice lei, guardando Peter.

MJ lo aiuta ad arrivare al divano, e lui si accascia con uno sbuffo.

“Non ho nemmeno fatto nulla,” osserva.

“Sfortunatamente,” annuncia Hammer, uscendo dalla cucina con una bottiglia di vino, “i poster sono stati visti nei distretti. Se ne stanno occupando, ma la cosa non è più così… contenuta.”

Peter risucchia un grosso respiro, ma non dice nulla. Pensa alle persone che li hanno fabbricati, e sa che anche loro sono in pericolo. Forse persino più di lui.

“Cosa dice il biglietto?” chiede MJ.

“Uh, a quanto pare stasera ci permettono di portarvi a un ristorante per festeggiare i punteggi, che saranno resi noti tra circa cinque minuti, e tutti sono stati appaiati con un altro distretto. Noi stiamo col… Sette. Thor, Steve Rogers, Natasha Romanov. E vogliono che usciamo dal retro, probabilmente per evitare che le telecamere vedano la tua… faccia.” Tony accartoccia il biglietto nel palmo.

Peter si agita sul posto, e MJ gli lancia un’occhiata.

“Okay,” esordisce poi Tony, gettando via la pallina di carta. “Okay. Jan, posso parlarti? Da sola?”

“Sì, certo,” replica lei, rapida.

Tony fa un passo, poi si volta a guardare Peter. “Pete, tu stai bene?” gli chiede.

Peter fa cenno di sì, stringendo ancora convulsamente il flacone di pillole in mano. Tutti e due sanno che non sta affatto bene, ma non c’è modo di guarire le sue ferite emotive, né per aggiustare la sua faccia più di quanto non abbia già fatto il dottore. Non c’è modo di contenere i danni, né il crescente dissenso.

“Hammer,” dice Tony. “Puoi portare loro un bicchier d’acqua? Te lo chiedo per favore.”

Hammer sospira, fermandosi a mezz’aria mentre si versa il vino, e si rialza, diretto in cucina.

Tony si allunga verso Peter, strizzandogli la spalla. “Torno subito.”

Non appena si chiude la porta della camera di Tony, Peter li sente gridare. È attutito, e non riesce a cogliere tutte le parole, ma sa che Tony è furibondo per ciò che è accaduto, abbastanza da non lasciar cadere la questione. Anche Peter lo è, ma sa di non poterci fare molto. Non l’hanno esplicitato in ospedale, ma ha avuto l’impressione che stessero parlando di ordini venuti direttamente dal Presidente Stane. Il che, agli occhi di Peter, è folle. Non ha fatto nulla di troppo fuori dell’ordinario. Non ha creato lui i poster. Che diavolo sta succedendo?

Hammer porta loro l’acqua, e Peter prende un paio di pillole.

“Non mi piace per niente quello… quello che ti hanno fatto,” dice Hammer, gesticolando in direzione di Peter. “Non è giusto. Dovrai… dovrai già sopportare abbastanza, questo è sicuro. Non c’è bisogno che ti riducano così adesso.”

Peter lo guarda fisso, un po’ scioccato. “Grazie,” replica, esitante.

“Mi dispiace tanto,” mormora MJ, mentre Hammer riprende a bere il suo vino. “Tutto questo è… sono dei maledetti. È solo perché hai attirato l’attenzione.”

“Non è quello che vogliono?” chiede Peter, incontrando i suoi occhi.

“Magari è un’attenzione troppo grande,” ragiona MJ. “Più grande dei Giochi. Più di tutto il carosello di sfarzo e lusso che vorrebbero che fosse. Magari… stai facendo capire alla gente che anche noi siamo persone. Persone a cui faranno tutto ciò. E a Capitol non piace.”

“E perché non lo sanno e basta?” chiede Peter con l’ira che monta di nuovo, e stringe i pugni. “Dovrebbero sempre essere capaci di guardare noi e le persone – le persone che sono qui e realizzare che vengono condotte al macello, trascinate qua e là in pompa magna come– come– come–” Non vuole dire “animali”, perché qui gli animali vengono trattati meglio dei tributi.

“Non tutti sono come te,” sussurra MJ. “Dovrebbero, è vero. Alcune persone si desensibilizzano. La gente, qui… non vedono mai le cose come dovrebbero. Ma forse il fatto che tu sia rimasto… te stesso… è arrivato fino a queste persone. Nessuno vuole vederti morire, Peter.”

Gli occhi di Peter scattano verso Hammer, e lui distoglie rapido lo sguardo. Peter non sa perché dovrebbero voler vedere qualcuno morire. Odia il pensiero, ne ha il terrore per tutto l’anno, e adesso… accadrà proprio attorno a lui. E non può perdere lei. La sta appena conoscendo, sta ancora cercando la lunghezza d’onda su cui possono viaggiare entrambi, e non può– non può perderla. Che lui vinca, o che perda subito.

La TV prende vita all’improvviso, e appare il Gran Maestro [3], in piedi con delle vesti di un blu e verde acceso. La conversazione tra Tony e Janet viene soffocata dall’inno di Capitol, troppo forte e impossibile da abbassare.

“Bene, carissimi,” dice il Gran Maestro. “Oggi il nostro meraviglioso gruppo di Tributi ha terminato la sua prima sessione di allenamenti privata con giudizio, e abbiamo qui, ora, i risultati in diretta.”

Poi li presentano uno ad uno, con quelle grafiche orrende e le foto in posa della parata dei cocchi. Valutano i Tributi su una scala da uno a tredici, e i voti vengono registrati all’inizio e alla fine della sequela di eventi che culmina con gli Hunger Games. È quasi impossibile ottenere un tredici in entrambe le sessioni, e l’unica persona ad esserci riuscita è il suo mentore. L’unico ancora in vita, almeno. Nessuno ha mai potuto negare la bravura di Tony.

Tutti e quattro i tributi dell’Uno e del Due ottengono dei dodici. Steve ottiene un undici, Natasha un dodici. Il tizio di nome Scott ottiene un otto. Shuri ottiene un dieci.

La foto di MJ appare sullo schermo, e Peter si sposta così da premere la gamba contro la sua.

“Michelle Jones,” annuncia il Gran Maestro. “Distretto Dodici. Ha ricevuto un punteggio di… undici.”

“È grandioso,” dice Peter, abbracciandola velocemente. Lei ride appena, con le mani aggrappate alla stoffa della sua camicia.

“Sei stata davvero brava, Michelle,” dice Hammer.

“Non m’importa che voto mi danno,” replica MJ, ritraendosi. “Ma grazie.”

“E infine,” dice il Gran Maestro, “Peter Parker. Distretto Dodici. Il nostro fantastico Spider-Man [4].”

Peter emette un verso, alzando gli occhi al cielo quando vede la sua foto che viene trasmessa.

“Ha ottenuto un punteggio di… tredici.”

Hammer trattiene rumorosamente il fiato e quasi rovescia il suo bicchiere, e a Peter cade la mandibola. Gli fa ancora male la faccia, ma adesso si sente stranamente intorpidito, anche se è come se qualcuno gli avesse appena tirato uno schiaffo. La porta della stanza di Tony si apre, e lui e Janet escono a passo di marcia, abbastanza velocemente da vedere tutti i Tributi allineati col rispettivo punteggio sotto.

Peter è l’unico a ricevere un tredici. Sa di essere stato bravo, ma finora è riuscito a pensare soltanto a ciò che era avvenuto dopo. È stato quello a guadagnargli il punteggio? Hanno testato solo lui di proposito? Non è possibile che abbia fatto meglio di alcuni di loro. Di Rogers? Di Romanov? Lui contro quelli? Non crede sia possibile.

“Okay,” esala Peter, guardando tutti loro attorno a lui, con Tony e Janet che incombono lì accanto. “Uh…”

“Ben fatto, Michelle,” dice Tony, guardando di sottecchi Janet.

“Sì, tesoro, è–”

“Quanto Rogers del Sette, e lui è un tipo affatto–” 

“È un ottimo punteggio.”

MJ non dice nulla, si limita a fissarsi le mani in grembo, rigirandosi l’anello sul dito. Sia Tony che Janet si avvicinano per sedersi, e attorno a loro c’è un’aura di densa tensione.

“Pete, un tredici è fenomenale,” comincia Tony, sedendosi accanto a lui. “Ma è anche… un bersaglio. Dovremo… tenere gli occhi aperti.”

“Per l’Uno e il Due,” dice Peter, sfiorandosi il bendaggio sul collo.

“Già,” conferma Tony, rapido. “E… chiunque altro voglia vederti perdere.”

“Voglio allenarmi di più,” annuncia Peter, contraendo la mascella. “A partire da ora.” Ripensa al Pacificatore, e vuole essere in grado di difendersi in situazioni simili. Ripensa a ciò che ha detto Sam. Non vuole dimenticare chi è, ma vuole anche che la gente abbia paura di ciò che può fare.

Tony gli rivolge un’occhiata. “Ne discuteremo.” Sospira profondamente, chinandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. “Così, non possiamo fare molto per lo schifo di scherzetto che ti hanno fatto dopo il giudizio. Visto che ti hanno pure dato il permesso per l’ospedale, stanno tagliando tutte le strade legali che avremmo potuto intraprendere.”

“Tony era… molto disposto a intraprendere alcune delle opzioni illegali, ma ciò avrebbe solo causato ripercussioni su tutti noi,” dice Janet.

“Non voglio che qualcuno finisca nei guai,” replica Peter, toccando di nuovo la benda sul collo senza pensare. “Quel che è successo… le cose ormai stanno così.”

“No, andremo a cena fuori dalla porta principale, dannazione,” dice Tony, incontrando i suoi occhi. “Così tutti vedranno. E se te lo chiedono, dirai loro ciò che è davvero accaduto.”

“Posso farlo?” chiede Peter.

“Non è illegale,” interviene Hammer. “E credo sia un’ottima idea. Ti attirerà molte simpatie.”

“Non darò l’impressione di non saper badare a me stesso?” chiede ancora Peter.

“La gente è cretina,” dice Tony. “Ma sa quali sono le regole, qui. E se diciamo che sono stati i Pacificatori… capiranno. Merda, lo capiranno comunque, anche se non lo diciamo noi. E in più, quel tredici che ti sei preso? Qui gioca a tuo favore. Ti fa sembrare forte.”

Peter non ne è così sicuro, ma ormai non è più sicuro di nulla. Se vogliono seguire questa linea d’azione dovranno farlo subito, visto che qualunque farmaco gli abbia dato il medico farà sparire i tagli e i lividi come se non fossero mai esistiti. Tony gli fa un cenno, che lui ricambia, e ottiene una conferma aggiuntiva da uno sguardo che gli rivolge MJ, uno che stavolta riesce a decifrare. Uno sguardo ribelle, leale.

“Andiamo a prepararci,” dice Tony. “Ci incontriamo col Sette nell’atrio.”

 
§

 
Peter riceve un messaggio da Sam sull’apparecchio delle comunicazioni nella sua stanza, riguardo la prossima partita di vestiti per lui su cui sta lavorando, incluso il suo outfit per le imminenti interviste del Gran Maestro. Peter vorrebbe averli già da ora, perché le produzioni di Sam sono di qualità molto superiore alla roba generica che gli hanno fornito. Sceglie a caso qualcosa, la indossa di corsa, e si sposta in bagno.

Si guarda di nuovo allo specchio, passando le dita sui punti sopra l’occhio. Bruciano, e sussulta, richiamando alla mente con un moto d’orrore ciò che ha visto mentre il Pacificatore gli puntava un coltello alla gola. Gli ha fatto più paura vedere se stesso in quello stato, mentre feriva MJ, con tutta quella rabbia negli occhi. Sa che non diventerà così. Sa che non succederà. Ma vederlo– vederlo…

Avverte un reflusso di bile e si precipita verso il water per vomitare.

Presto sarai morto. Sarai morto entro il primo giorno degli Hunger Games.

Vomita di nuovo, rigettando colazione e pranzo, e singhiozza, coprendosi gli occhi. Presto sarà morto, morirà presto, lo uccideranno, lo faranno a pezzi.

Sente bussare alla porta del bagno,

“Sto bene,” tossisce Peter, con la gola che gli brucia e un sapore acido in bocca. “Sto bene.”

“Ragazzo,” lo chiama Tony.

“Sto bene, va tutto bene,” dice di nuovo Peter, sostenendosi sul bordo del water e pregando di non vomitare ancora. Non riesce a smorzare il singhiozzo successivo e si forza in piedi a fatica, avviandosi al lavandino.

“Non mi sembra che tu stia bene,” ribatte Tony.

Peter fa scorrere l’acqua, ficcando la bocca sotto il rubinetto e trasalendo di nuovo quando il taglio sul collo si tende. Si sciacqua la faccia, strofinandosi gli occhi. “Sono… sono solo molto pronto per la cena.”

Peter sa che è più o meno la cosa più stupida che potesse dire, e sospira, chiudendo l’acqua.

“Va bene, ragazzo,” replica Tony. “Ti aspetto qui.”

 
§

 
Thor, Steve e Natasha li stanno già aspettando nell’atrio, quando escono dall’ascensore. Le sopracciglia di Steve si corrugano quando vede Peter, e un lampo di preoccupazione attraversa il volto di Natasha prima di sparire altrettanto rapidamente. Immagina che Thor li abbia informati di quanto accaduto, da quel che ha detto Tony, ma che non sapessero cosa aspettarsi.

“Mi piace la posizione che stiamo per prendere,” dice Thor, dando di gomito a Peter tra le costole e offrendo un ampio sorriso a Tony. “Come osano cercare di farci passare dalla porta sul retro per nascondere le loro stesse imprudenze?”

“Codardi,” commenta Tony.

“A me hanno fatto una cosa simile,” dice Thor, più piano di quanto Peter si aspettasse di sentirlo mai parlare.

“Cosa?” gli chiede, guardandolo.

“Mi sono cacciato in una scaramuccia con quei cosiddetti Pacificatori la sera prima della mia intervista finale,” risponde Thor, continuando a camminare verso la porta. “Hanno preteso che il mio stilista mi impiastrasse di trucco per celare le ferite…”

“… ma non l’ha fatto,” realizza Peter, sbarrando gli occhi. “Mi ricordo. Ricordo quell’intervista! E mi sono chiesto cosa ti fosse successo!”

Thor gli sorride. “Non prenderla troppo sul serio. Nessuno qui amerà mai il governo quanto amano te.”

Peter gli rivolge un sorriso smagliante, che si allarga ancor di più quando vede Tony tenere aperta la porta per loro.

“Prima stavo dicendo che sapevo che voi due sareste arrivati alti in classifica,” dice Natasha a MJ. “Ma lui non ne era così sicuro.”

“Non sono abituato a vedere gente che ottiene ciò che si merita,” replica Steve. Escono fuori, e si affianca a Peter. Ha l’aria di chi ne ha passate di cotte e di crude, e Peter si fida istintivamente di lui, a dispetto di ogni buonsenso. Spera di poterlo ancora fare quando saranno nell’arena. Almeno all’inizio. “Congratulazioni per il tuo meritato tredici,” continua Steve. “Fai onore all’eredità di Tony, ne stai creando una tua. E mi dispiace per quello che ti hanno fatto.”

“Grazie,” risponde Peter. Rivolge lo sguardo alla strada oltre le porte d’ingresso: ci sono telecamere ovunque che vagano a mezz’aria, orde di persone stipate oltre corde di velluto, macchine di passaggio. Peter esce alla luce del sole, così che tutti possano vederlo. “Ma non fa niente. Credo che abbiano paura dei ragni.”

Steve si lascia sfuggire un sogghigno; anche Tony lo sente, e strozza una risata scuotendo la testa.

“Buona questa, Pete,” commenta. “Bene… dov’è il nostro passaggio…”

Peter scruta la strada, e nota il parcheggio dei pullman, al museo di fronte al Centro Tributi. Gli si ferma il respiro in gola. Fa un paio di passi avanti, con le telecamere che seguono ogni sua mossa, e afferra il braccio di Tony.

“Sono quei ragazzini,” dice. “Dai Distretti.”

“Oh,” esala Tony. Si irrigidisce appena, dando una pacca sulla mano di Peter. “Uh, non credo che faranno un… tour del Centro–”

Peter vede i successivi eventi accadere al rallentatore, con il chiacchiericcio della folla che si spegne nonostante le loro bocche continuino a muoversi, le telecamere congelate a mezz’aria. L’ultimo ragazzino scende dal pullman, alto, dinoccolato, dal volto giovane. Si ritrova già in mezzo alla strada per via di come è parcheggiato il pullman, e ammira a bocca aperta il Centro Tributi, esattamente come ha fatto Peter quando è arrivato qui. Solo che Peter l’ha fatto a notte fonda, con la città praticamente in isolamento per via dell’arrivo dei Tributi. La città adesso è piena di vita, fervente di attività ed eventi e aspettativa, ma il ragazzino non lo sa: vede semplicemente la cosa più grande che abbia mai visto in vita sua che scompare oltre la linea delle nubi come uno spettro nella notte.
Peter vede il ragazzino fare un paio di passi esitanti in mezzo alla strada, lontano dal pullman, lo sguardo ancora rivolto al Centro, ed è in quel momento che Peter sente la macchina. I motori qui sono rumorosi, snervanti, compensano per qualcosa che al conducente manca nella vita reale, ma il ragazzino in mezzo alla strada è ancora ipnotizzato e non abituato a quei suoni e a quanto tutto si muova in fretta, qui.

Peter supera di corsa Tony mentre il mondo riprende a girare, con le possibilità in bilico sulla punta di uno spillo, tenute in equilibrio da quanto velocemente ha corso negli allenamenti; si fionda in mezzo alla strada, spingendo via il ragazzino al sicuro dietro il pullman, proprio quando la macchina gli sfreccia accanto. Quella sbanda e prosegue con uno stridio di freni, e Peter arresta il proprio slancio per non far impattare lui e il ragazzino contro le statue dei Vincitori fuori dal museo.

“Oddio,” esclama il ragazzino. “Oddio.”

“Ehi, scusa,” replica Peter, riprendendo solo ora a sintonizzarsi sulle voci e sul panico che si è scatenato dietro di loro. “Scusa, solo che– eri in mezzo alla strada, e guidano come folli qui, e pensavo non avessi sentito arrivare la macchina…”

“Non… non l’ho sentita,” replica lui, e ride, spalancando gli occhi. “Wow. Wow, mi hai salvato. Mi hai salvato la vita.”

“No, no,” ribatte Peter, facendo un passo indietro e incrociando le braccia sul petto. “No, ho solo–”

“Pete!” lo chiama Tony. Peter si gira, e lo vede attraversare la strada a passo sostenuto.

“Attento,” lo avverte Peter, e lo vede socchiudere gli occhi. “Non hai visto cosa–”

“Sì, sì, certo; stai bene?” gli chiede lui, fermandosi al suo fianco. Guarda l’altro ragazzo. “Tu stai bene?”

“Uh, sto per sentirmi male perché voi siete Tony Stark e Peter Parker… ma sì, sto bene,” risponde lui. “Insomma. Potrei non stare bene. Se avessi… se lui non avesse–”

“Cristo,” esala Tony, passandosi una mano sul volto e guardando da sopra la spalla il putiferio dietro di loro.

“Io sono Harley Keener,” dice il ragazzino, mentre i Pacificatori che gli fanno da baby-sitter sbucano da dietro il pullman per cercarlo. “Distretto Quattro, e tu– Peter Parker, tu… mi hai appena salvato la vita. Grazie, grazie.”

Il Pacificatore lo agguanta per un braccio, fa un cenno a Tony e Peter come se stesse facendo loro un favore, e Peter allunga una mano, afferrando quella di Harley per stringerla.

“Stai attento, okay?” gli dice, cercando di non suonare implorante, e Harley sorride di nuovo, rivolgendogli un cenno. Il Pacificatore lo strattona via, riunendolo al resto del gruppo. Peter si gira, fissando Tony.

Lui sbuffa dal naso, inclinando la testa. “Come diavolo hai fatto… a vederlo, a sentire l’auto… ad essere così veloce da spingerlo via?”

“Tu non l’hai sentita?” chiede Peter, inarcando le sopracciglia.

“No,” replica Tony, sincero. “Nessuno l’ha sentita. Solo tu.”

Pete sospira, con le spalle che avvizziscono un poco. Non pensava che oggi avrebbe salvato qualcuno. Continua a sentire il proprio nome pronunciato dalla voce di Harley, appaiato a quello di Tony come se loro due fossero allo stesso livello. Gli fa ancora male la faccia, e vorrebbe prendere un altro paio di pillole, mentre non riesce a togliersi dalla testa quello che gli hanno mostrato nella stanza buia. Sarai morto entro il primo giorno. Si sente sepolto da una tonnellata di sabbia, e sta soffocando.

Tutto questo non avrà mai fine. Non può cambiare rotta. Ma vorrebbe. Vorrebbe con tutto se stesso.

“Possiamo cenare nell’attico?” chiede, cercando di impedire alla propria voce di spezzarsi. “Per favore? Mi va di uscire, ma non adesso, perché… per tutto quello che è successo, e mi dispiace, perché così chiederei anche a loro di rimanere qui… uh, magari voi potete lasciarmi qui, credo che, non so, Hammer possa rimanere con me o–”

“Rimango io con te,” dice Tony, posandogli un braccio sulle spalle. “Andiamo. E attento. Cazzo, la gente qui non sa proprio guidare.”

Peter emette una mezza risata, e attraversano in sicurezza. Vede le telecamere che lo seguono, con le loro lucine rosse che lampeggiano.

 
§

 
Tony propone di rimanere solo lui con Peter, perché sa che a Thor piace andare a cena al ristorante quando ne ha l’occasione; ma, stranamente, lui, Steve e Natasha decidono di rimanere tutti lì e cenare con loro nell’attico. Tony si dice che non dovrebbe sorprendersi, considerando la questione della possibile alleanza, che Thor vuole palesemente ancora discutere.

Michelle non deve farsi convincere troppo per rimanere a cena lì, quasi per niente, e Tony è preoccupato dal fatto che lei e Peter finiscano per sentirsi più che semplici amici. Non rende mai le cose più semplici nell’arena, e per il ragazzo sarà già abbastanza difficile.

Il video di Peter che salva quel ragazzino, Harley, diventa virale nel giro di pochi istanti. Tony sa che è buona pubblicità, che pompa ancor di più la sua immagine di qualcuno che si prende cura dei più deboli, uno competente e premuroso, ma Peter sembra quasi troppo reale. La gente di Capitol potrebbe guardarlo e chiedersi se tutti, nei Distretti, siano come lui… e se lo sono, perché li stanno torturando? I loro processi mentali sono talmente limitati che solo determinate cose fanno scattare la lampadina, e il tipo di gentilezza che ha Peter è così viscerale che apparentemente trascende ciò che conoscono e ciò che solitamente amano. Potrebbero combattere per lui. Cosa che il governo, il buon vecchio Presidente Stane, non sarebbe felice di vedere. Peter è già un favorito in tutti i distretti, particolarmente il Dodici e il Quattro, il che potrebbe anche essere vantaggioso, se controllato, o diventare un pericolo se sfugge di mano. L’amore equivale a dissenso, e Capitol risponde al dissenso con fucili ed esplosioni. Capitol spazza via il dissenso con alluvioni fulminee.

Lo stesso Tony era un simbolo, per via di quanto aveva resistito, ma hanno stroncato tutto ciò che c’era in lui quando gli hanno portato via i suoi genitori e Pepper. Alcuni in passato hanno intrapreso qualche esile tentativo, ma nessuno ha mai dato inizio a niente di significativo. Nessuno ha mai rotto qualcosa che non potesse essere riparato.

Tony fissa Peter all’altro capo del tavolo, preoccupato.

Mantengono la conversazione su argomenti leggeri, per quanto possibile, mentre mangiano dello shawarma da asporto dal suo chiosco preferito. E “leggeri”, qui, non è in senso stretto: stili di combattimento, consigli sull’arena, notizie dai rispettivi Distretti. Il Sette se la passa meglio del Dodici, ma non poi così tanto. Peter racconta di nuovo cosa gli è successo dopo la sessione privata, e Tony ha la nausea solo a sentirlo, sapendo che l’arena stessa sarà mille volte peggio.

Il telegiornale li interrompe più volte, mostrando ciò che è successo fuori dal Centro Tributi con quel ragazzino. La gente sta vedendo il suo cuore, adesso. I Tributi vengono spediti negli Hunger Games dando l’impressione che uccideranno delle persone. Peter, finora, è stato visto solo come qualcuno che le salva. Facendo di tutto per riuscirci.

Tony si allontana durante il dolce per fare delle ricerche sul suo palmare, e vede quante volte il nome di Peter è stato digitato. Capitol controlla le conversazioni da determinati punti nei Distretti, e Peter è nella top-three ovunque, a parte nel Quattro, nel Sette e nel Dodici, nei quali è primo. Una menzione al minuto, e l’argomento numero uno su internet. La presenza online di Capitol è molto più ampia di quella di tutti i Distretti, e stanno già combinando le varie clip disponibili di Peter per postarle su ogni piattaforma possibile.

Tony guarda di nuovo quella di Peter e Harley. Harley, vestito di stracci che sembrano vecchi di un decennio, con dello sporco che ancora gli segna le guance. Tony sa che Capitol vuole che appaiano così. Per sottolineare la differenza tra loro, in colori accesi e seta su misura, e tutti gli altri, vestiti di squallore.

Il video mostra chiaramente che Peter non aderirà mai a quel pensiero. Peter… è l’eroe.

“Stark,” dice Thor, dietro di lui.

Tony quasi sobbalza, ma si frena, voltandosi lentamente. “Perché ti avvicini sempre di soppiatto, eh? Sei un gigante, amico, non è così facile per te.”

“Ti perdi troppo nei tuoi pensieri,” dice Thor. “Così è facile.”

Tony scrolla le spalle; sa che è vero.

Thor si avvicina un poco, guardandosi più volte intorno. “Hai… messo a frutto le tue abilità, qua dentro?” chiede poi. “Come fai di solito.”

Tony sorride: sa che si riferisce al congegno per le interferenze che devono ancora individuare. “Oh, sì, non sentono un cavolo di ciò che diciamo. Ci ho sovrapposto una conversazione molto articolata su canto lirico e architettura. Non preoccuparti, tu te ne intendi.”

“Lavori in fretta,” replica Tony, con un ampio sorriso. “Hai così tante registrazioni delle nostre voci per elaborarle?”

“Oh, sono sempre all’opera,” replica vago, senza aggiungere altro.

“Quindi possiamo parlare liberamente,” dice Thor, lanciando un’occhiata alla sala da pranzo.

“Sì,” risponde Tony, spegnendo il palmare e facendolo scivolare di nuovo in tasca. “Perché, hai dei segreti? Qualcosa d’interessante?”

Thor si piazza di fronte a lui, più serio di quanto Tony lo abbia visto di solito a questo punto dei Giochi, specialmente con due Tributi così solidi. “Quello che abbiamo pianificato è più grande di me e te, e loro, e di tutto il resto. È l’inizio di qualcosa di cui questo posto ha avuto bisogno per troppo tempo.”

Tony ha un fremito all’occhio, e scrolla la testa. “Di che stai parlando?”

“Di una via di fuga,” replica Thor.

Tony lo fissa. È sicuro di aver sentito male. “Una cosa, scusa?”

“Steve e Natasha ne fanno parte, è per questo che si sono offerti volontari. Anche Bruce–”

“Bruce– Bruce… lo Stratega?” chiede Tony, a voce troppo alta.

“Si è sentito ispirato dal tuo atto di ribellione,” replica Thor, con un cenno verso di lui. “Ha lavorato per anni per questo momento. Ci sono infiltrati ovunque, Tony, in tutta Panem, e parte tutto da noi. Dalla distruzione degli Hunger Games. Un gruppo di noi ne fa parte. Li faremo uscire dall’arena. Inclusa Carol ed entrambi i suoi Tributi.”

Tony batte le palpebre, con la bocca secca. “Cosa?”

“Ma sai che è un piano labile–”

“Uh, tu credi?

–senza un volto,” completa Thor.

“Un volto?”

“Per la ribellione,” continua Thor. “All’inizio, pensavamo che Steve fosse il candidato perfetto per il ruolo. Ma il cuore delle persone è stato catturato da qualcun altro, e la successione degli eventi gioca in suo favore. Il tuo Peter Parker. Ruota tutto attorno a lui. Tutto nasce e muore con la sua partecipazione. L’abbiamo saputo fin dalla reazione alla sua Mietitura, ma oggi ne abbiamo avuto la prova definitiva.”

“Peter,” ripete Tony, sentendosi folle.

“I Distretti lo amano,” dice Thor. “E Capitol lo ama. Farli stare dalla nostra parte è un’impresa quasi impossibile, considerando quanto sono indottrinati. Ma Parker, lui– lo vedono. Lo vedono davvero. Tutti quanti.”

Tony sente dei brividi corrergli su e giù sulle braccia, e si copre gli occhi con una mano.

“Non vogliamo costringerlo: deve essere attivamente coinvolto, così che tutti potranno rendersene conto quando vinceremo.”

Quando–”

“Cercheremo di portare tutti fuori, eccetto l’Uno e il Due,” continua Thor. “Non possiamo nemmeno informarli, il rischio è troppo grosso. Ma è fondamentale che Parker sia parte del piano. È il futuro, Tony. Il nome del suo amico pescato dall’urna è stato destino. Doveva essere lui.”

“Cristo santo,” mormora Tony. “Cristo.”

“Senza di lui collasserà tutto,” dice Thor. “E senza di te. Non vogliamo procedere se non abbiamo Peter con noi.”

“Potrebbe collassare lo stesso,” ribatte Tony, rialzando lo sguardo su di lui. “Come succede sempre, no?”

“Tony.”

“Come fai a sapere che Bruce non ti sta raggirando?” sibila Tony, cercando di tenere bassa la voce. “Qualcuno di così invischiato all’interno di Capitol… che dice che l’ho ispirato? Ecco qua il tuo campanello d’allarme, perché nessuno si sente ispirato da me.”

“Abbiamo controllato tramite ogni canale disponibile per avere conferma che sia dalla nostra parte,” replica Thor. “Non hai idea di quanto a fondo siamo preparati per agire.”

Tony emette un verso derisorio, con la testa che pulsa. “Anche se fosse dalla vostra parte, non c’è un solo cazzo di modo in cui possa informarvi dell’arena senza che loro lo scoprano,” dice. “È il loro più grande segreto, e non sarà mai in grado di rivelarvelo.”

“Hai ragione,” concorda Thor. “Ma sapremo abbastanza. E la nostra gente, all’esterno, tirerà le fila. Ma abbiamo bisogno di Spider-Man, Tony. Prenderemo anche la ragazza, se dici che sei con noi, ma abbiamo bisogno Spider-Man. Ha creato un’ispirazione, e la gente si solleverà per lui.”

“Un Pacificatore l’ha massacrato di botte, oggi,” ribatte Tony. “Quindi c’è qualcuno che ci sta mettendo alle strette.”

“Bruce non prende tutte le decisioni,” continua Thor. “Non può tradirsi. A Stane piace muovere le sue pedine come gli pare e piace, così da ribadire il suo potere ad ogni turno.”

Tony si sente sul punto di esplodere, e la sua gola è così costretta che riesce a malapena a respirare. “Non era tutto già abbastanza pericoloso, senza che ti ci mettessi tu con le tue stronzate a peggiorare le cose? E così farai–”

“Non sei stanco di tutto questo?” chiede Thor, pacato. “Delle morti? Non ti tiene sveglio la notte, sapere che dovrai mandarlo nell’arena? In un luogo dove gli daranno attivamente la caccia?

Tony abbandona in avanti il capo; non era pronto per questa discussione, cazzo, e se fosse stato per quella macchina, prima, si sarebbe fatto investire in pieno, con o senza Spider-Man a spingerlo via. Non si era mai aspettato questo.

“Per quanto ancora continuerai, dopo che Parker sarà morto?” chiede Thor. “Per quanto ancora permetterai loro di farti questo? Di farlo agli altri? Mentre questo ragazzino marcisce, Tony. Perché per quanto tu possa pregare che vinca, ci vorrà un miracolo. Con questo, con noi… ha una possibilità. Senza di noi non ce l’ha, e neanche noi. Perché se portiamo avanti il nostro piano senza Spider-Man… la gente non ci seguirà. Ci sarà un nuovo ‘bombardamento del Distretto Tredici’. Abbiamo bisogno di lui, e lui di noi.”

“Non posso…” Tony si interrompe, con la testa che gli fa sempre più male ad ogni secondo che passa. “Non posso pensarci… adesso… in questo preciso momento. Non riesco neanche più a parlare. Non ricordo nemmeno dove cazzo sono.”

Thor si sporge verso di lui, chiudendo la mano sulla sua spalla. “Abbiamo bisogno di te. E di lui. C’è un solo modo per far ottenere a tutti ciò che vogliono, ed è questo piano, con lui al comando. Spider-Man, leader della ribellione. Avrebbe tutto il supporto che gli serve.”

“Okay,” dice Tony, trasalendo.

“Okay?”

“No, no, non– dammi un po’ di tempo, va bene?” chiede Tony, guardandolo di nuovo. “Ora mi è rimasto il tiramisù sullo stomaco.”

“Non abbiamo così tanto tempo,” replica Thor. “Dobbiamo saperlo non appena puoi. Dillo a Janet, per favore, quando avrai un momento per spiegarle tutto.”

“Dire cosa a Janet?” chiede Janet, in piedi sotto l’arco del soggiorno.

“Che ci serve più vino!” esclama Thor, senza perdere un colpo. Fa oscillare Tony avanti e indietro un paio di volte prima di lasciarlo andare. “Non sono molto bravo con le pratiche per ordinare, non è che potresti…”

“Certo,” replica lei, esitante e occhieggiando Tony. “Tu stai bene?” gli chiede.

“Sì,” risponde lui, laconico. “Sto solo… guardando le statistiche e controllando, uh, come va il video.”

“Va bene, ma torna con noi,” dice lei, facendogli un cenno del capo. “Non mi piace che tu te ne stia qui al buio.”

Tony annuisce, si schiarisce la gola e li segue nella sala da pranzo. Vede Peter che sorride per qualcosa che ha detto Steve, e si sente girare la testa, vicino a collassare in un mucchietto di pezzi rotti. Non gli è mai, mai stata presentata un’opzione del genere. Non si è mai sentito così sopraffatto da un obbiettivo, dall’orrore, da un orologio ticchettante che gli risuona nelle orecchie. Non sa cosa fare, di cosa fidarsi, e si accartoccia nella sua sedia.

“Tony,” lo chiama Peter, riportandolo in sé. “Tutto bene?”

Tony fissa il capillare rotto nell’occhio del ragazzo. Il taglio chiuso dai punti, che sta scomparendo, ma che è impresso a fuoco nei suoi occhi come quando l’ha visto la prima volta.

Non ti tiene sveglio la notte, sapere che dovrai mandarlo nell’arena? In un luogo dove gli daranno attivamente la caccia?

“Uh,” esala Tony, con voce traballante. “Forse. Sì, forse. Staremo a vedere.”



*

 
 Tradotto da: ever in your favor: a face for the rebellion, di iron_spider da _Lightning_



Note:
[1] Gary: il tecnico fan di Iron Man che Tony incontra in Iron Man 3.
[2] Remy LeBeau: Gambit, membro degli X-Men.
[3] Gran Maestro: l’organizzatore degli scontri nell’arena di Sakaar, in Thor: Ragnarok.
[4] In originale è definito letteralmente “amazing Spider-Man”. Tradotto non ha ovviamente lo stesso impatto, ma nelle primissime edizione italiane dei fumetti l’appellativo venne reso appunto con “fantastico”.


Note della traduttrice:

Cari Lettori,
come anticipato, da questo capitolo in poi le cose si fanno più movimentate, anche se manca ancora un po' ai Giochi veri e propri ;)
Ringrazio tantissimo Eevaa, che ha commentato tutti i capitoli finora, e tutti coloro che leggono e hanno aggiunto la storia alle ricordate/preferite/seguite <3 Come sempre, un grazie speciale alla mia beta _Atlas_ *abbraccio hulkoso*
Alla prossima, ovvero venerdì,

-Light-

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Attraverso i tunnel ***


Capitolo 6: Attraverso i tunnel
 


 
Peter è in piedi dietro alla tenda ondulata sul palco del Gran Maestro, con le fioche luci rosse che brillano su di lui e tutti gli altri. Il Dodici è ultimo, come sempre, e MJ sta venendo intervistata proprio adesso. Il resto dei Tributi si è radunato dietro le quinte, preparandosi per le foto di gruppo finali dopo l’intervista di Peter. Sam gli ha fabbricato un’altra versione del costume di Spider-Man, questa volta più metallica, con dei blu e dei rossi più profondi, le parti in oro più lucenti.

“Vorrei che ti facessero indossare questa roba nell’arena,” dice Sam, spazzando via qualcosa dalla sua spalla e squadrandolo da capo a piedi. “Nessuno riuscirebbe a farti fuori.”

Peter sorride, mentre il pubblico trattiene il fiato per qualcosa che ha detto MJ. “È fantastica,” commenta.

“Tu sei fantastico, ragazzo,” replica Sam, sollevando le sopracciglia come sfidandolo a contraddirlo.

Peter rilascia un respiro, fissando la rampa di scale che dovrà salire per raggiungere il Gran Maestro sul palco. Finora ha cercato di ascoltare le domande e le risposte, ma l’acustica qui non è molto buona, e non crede sia un caso. Si schiarisce la gola, lancia un’altra occhiata a Sam, e non riesce a trattenersi dall’affrontare l’argomento che ha occupato i suoi pensieri sin dalla cena col Sette tre sere fa.

“Uh, ieri eri con Tony a parlare con gli sponsor, giusto?” chiede a Sam.

“Sì, ed è andata davvero bene, in caso non te l’avesse detto,” risponde lui, in piedi lì accanto a braccia incrociate. “Ne stai raccogliendo parecchi, amico, hai conquistato cuori e anime. È bello vederlo.”

“Bene,” replica Peter, sfregando tra loro le mani e cercando di non tormentarsele. “Ehm, non pensi che magari Tony si stia… comportando in modo strano?”

“E non è normale?” chiede lui. Fissa Peter, ridendo un poco. “Magari è un po’ silenzioso, ma tende a concentrarsi al massimo in questo periodo dell’anno, si perde nei suoi pensieri. Dubita di ogni mossa che fa, ma crede davvero in te, e anch’io. Io non mi preoccuperei troppo. Non è utile, rende solo tutto più difficile.”

“Okay,” dice Peter, spostando ancora il peso da un piede all’altro e preoccupandosi comunque.

“Sei pronto?” chiede Sam. “Ricordi di cosa abbiamo parlato?”

“Sì,” replica Peter, inspirando dal naso ed espirando dalla bocca. “Sì, devo solo… essere me stesso.” Se l’è sentito dire più volte in questi giorni che in una vita intera, e comincia a non sapere più cosa significhi. Rimugina troppo su ogni parola che pronuncia, su ogni espressione sul proprio volto, e ad ogni passo si sente come se si stesse muovendo nella direzione sbagliata.

Sente un applauso tonante, e Sam gli dà una pacca sulla spalla.

“Ok, mi hanno dato il segnale,” dice Sam. “Sali le scale e il sipario si aprirà: esci là fuori, stringi la mano al Gran Maestro, siediti, rispondi alle sue domande.”

“Conquista il pubblico,” sussurra Peter, ricordando tutto ciò che gli ha detto Tony.

“Giusto,” approva Sam. Tamburella le mani sulle sue spalle. “Ce la puoi fare, Spider-Man. Adesso vai.”

Peter annuisce tra sé, non si guarda alle spalle e sale le scale. Il pubblico sta applaudendo, e Peter riesce a sentire il Gran Maestro che parla, ancora ovattato, ma crede di sentire il proprio nome. Quando si avvicina il sipario si solleva, rivelando riflettori accecanti e un palco che sembra estendersi per miglia intere. Esita per un singolo istante, schermandosi gli occhi dal bagliore, poi il pubblico esplode in un coro di urla esultanti, balzando in piedi.

“Eccolo là, eccolo, eccolo,” dice la voce del Maestro. “Il nostro fantastico Spider-Man!”

Il frastuono è– è assordante, e Peter quasi dimentica come si cammina e respira. Sa che la sua bocca è rimasta aperta e compie qualche titubante passo in avanti, sentendo il coro di Spider-Man e il suo nome che viene chiamato a gran voce.

“Bene, amico mio,” lo accoglie il Maestro, e Peter lo vede avvicinarsi. Gli tende rapidamente la mano, stringendogli quella che aveva proteso per schermarsi dalla luce, e lo strattona appena. “Eccoci, eccoci.” Lo guida verso una poltrona di un viola acceso, dandogli pacche sul braccio, e Peter si siede cercando di controllare il tremito delle proprie mani.

Le luci cambiano un poco, si inclinano verso l’alto attenuandosi, e Peter distingue finalmente i volti del pubblico. C’è molta, molta gente. Tutti sono in piedi, in visibilio, e i suoi occhi sfrecciano qua e là, scrutando la folla. Sente un forte fischio e ne cerca la fonte, individuando Tony in terza fila, accanto a Thor e Janet. Tony gli fa un cenno di saluto, annuendo nella sua direzione, e Peter lascia andare un respiro tremolante, ricambiando il gesto. È più a suo agio sapendolo lì, e cerca di concentrarsi su di lui e non su tutte le altre facce sorridenti della folla.

“Bene,” annuncia il Maestro, alzando in aria le braccia e scrollando le dita. “Bene, sedetevi tutti, andiamo, farete montare la testa al ragazzo! Intendo, se uno come lui potesse montarsi la testa… comunque, sedetevi, sedetevi, parliamo col ragnetto, mh?”

Tutti si siedono in un’ampia onda, e Peter coglie Tony che sussurra qualcosa a Janet. Le telecamere gli volano attorno come mosche, catturando il suo sguardo, e si ricorda di quando guardava le interviste con May, con Ned, così tante volte. Gli fa male il cuore, sapendo che adesso le stanno guardando senza di lui, consci che è qui, bloccato nell’incubo che li ha sempre spaventati così tanto. Non smetterà mai di pensarci. Non ci riuscirà finché non sarà morto. Finché non l’avranno ucciso, fermando del tutto ogni suo pensiero.

“Peter,” lo chiama il Maestro, catturando di nuovo la sua attenzione. “L’adorabile Peter Parker. Come stai, caro?”

“Bene,” replica Peter, rapido, con un gracidio. “Uh, bene, bene.”

“Bene, bene,” ripete il Maestro, sorridendo, e da vicino sembra ancora più gioviale che in TV, con dei glitter verdi che gli incorniciano gli occhi e pagliuzze dorate fra i capelli. “Quindi, come ti sembra Capitol? Molto diversa dal Distretto Dodici, suppongo.”

“Uh, decisamente,” dice Peter, lanciando un’occhiata alla folla e trovando di nuovo il volto di Tony. “È tutto… molto… è tutto molto più pulito, qui. Gli edifici sono più grandi, uh… il cibo è davvero buono.”

“Già, il cibo,” ripete il Maestro, incrociando le mani sul ventre. “Mi sorprendo che i Tributi non ingrassino di una decina di chili mentre sono qui, a dispetto degli allenamenti.”

Peter annuisce, sorridendo appena. “Ho mangiato più qui che in tutta la mia vita.”

“E cosa mangia esattamente uno Spider-Man?” chiede l’altro, inclinando la testa di lato. Guarda il pubblico, e loro ridono a comando.

Peter cerca di unirsi a loro, anche se crede che si stiano prendendo gioco di lui. “Beh, io ho un debole per lo stufato di mais, per il carré di maiale… e quelle tortine al limone che ci mandano? Squisite. Non pensavo che il cibo potesse essere così buono.”

“Un ragno molto in forma, quindi,” osserva il Maestro. “Vediamo… sembra che tu abbia conquistato la scena, con lo stile distinto di Sam Wilson…”

Ciò provoca uno scroscio d’applausi, a cui Peter si unisce a sua volta.

“… sì, sì, un uomo meraviglioso… ma cosa ne pensi del tuo nuovo soprannome, Spider-Man? Tutti noi lo amiamo, ma tu?

Peter corruga le sopracciglia, mordicchiandosi l’interno della guancia. “Beh, uh… non è un qualcosa che mi aspettavo, certo, uh– quel ragno non… non mi faceva paura, ho solo… insomma, volevo assicurarmi che uscisse, che nessuno lo schiacciasse, e, uh… non volevo neanche che la signorina Everhart si spaventasse. Il fatto di Spider-Man è semplicemente… accaduto in seguito, ma, ecco…” Ha l’impressione che si stia mettendo i bastoni fra le ruote da solo, perché sta dicendo l’opposto del significato che Sam ha voluto dare alla cosa. Sa che deve rimediare. O almeno provarci. “Ma, ecco… i ragni sono feroci, possono nascondersi, e… non sai mai cosa aspettarti da loro.” Deglutisce a forza, e stavolta evita il contatto visivo con Tony, perché quello non è stato certamente un buon recupero.

“Vero,” replica il Maestro, asciutto. “E questo look, stasera, è un po’ diverso dal costume originale alla parata dei cocchi… e mi ricorda qualcosa,” dice, picchiettandosi un dito sul mento. Scambia uno sguardo di sottecchi col pubblico, con un sorriso misurato che fa capolino sul suo volto. “Che dite… a voi ricorda qualcosa?”

Tutti esultano in coro, urlano, scoppiano in un’altra sequela di applausi. Peter guarda Tony, e lui gli fa l’occhiolino.

“Spero che non mi sparino in testa per questo… ma che dico, posso dire tutto quello che voglio! Stasera somigli ad Iron Man, Peter,” conclude il Maestro, sporgendosi per dargli una pacca sul braccio. “Quasi un… Iron Spider, mi sbaglio?”

“È stato un omaggio a lui,” risponde Peter, facendo un cenno verso Tony. “Da parte mia e di Sam.” E dice la frase successiva senza neanche pensarci: “Iron Man e Spider-Man sono uniti.”

Tony fa una faccia sorpresa, e un sudore freddo inonda la fronte di Peter, col poster che gli balena in mente. Merda.

Ma il Gran Maestro non batte ciglio. “Com’è avere il grande Tony Stark come Mentore?” gli chiede. “So che abbiamo già fatto questa domanda in passato, gli anni scorsi, ma voi due sembrate andare particolarmente d’accordo.”

Peter si schiarisce la voce, cercando di riprendersi dal precedente passo falso. “Ho, uh, ammirato Tony per tutta la vita. È sempre… stato il mio Vincitore preferito, è sempre stato… il mio eroe.”

Il pubblico comincia a mormorare, in un melenso coro di sospiri sognanti.

Peter non guarda Tony. “E, uh, essere qui con lui, imparare da lui, poterlo conoscere… è un sogno che si avvera.” Un sogno dentro l’incubo.

“È fantastico,” commenta il Maestro, poggiandosi su un pugno. “Meraviglioso. Ho ancora un’altra domanda, riguardo a un altro abitante del Distretto Dodici… Ned Leeds.”

Pete deglutisce a forza, annuendo rapido. Cerca di mantenersi saldo.

“Ora, ci siamo tutti commossi nel vedere come ti sei offerto volontario per lui,” continua il Maestro, e il pubblico manifesta il proprio consenso. “L’abbiamo visto tutti, ci ha toccato il cuore, e abbiamo sentito la tua versione, e la sua, ma vorrei approfondire un po’ la cosa, se posso.”

“Certamente,” replica Peter, conciso.

“Credevi che Ned non ce l’avrebbe fatta?” gli chiede quindi. “È per questo che ti sei offerto volontario? Hai pensato che il tuo migliore amico fosse… troppo debole, per i Giochi? Incapace?”

“No,” replica Peter, probabilmente troppo forte. “No. No, Ned… Ned è una delle persone più forti che conosca,” afferma. Trova una delle telecamere che fluttuano attorno a lui, con un brivido che gli corre lungo la schiena. “Ned… forse sono stato egoista, nel prendere questa decisione. Perché non avrei potuto guardarlo in questa situazione, non… non avrei potuto vederlo affrontare qualcosa di così crudele, costretto a… combattere per sopravvivere, a fare del male agli altri, ad essere ferito–” Sta di nuovo andando fuori strada, dicendo cose che non dovrebbe. “Io, uh, voglio bene a Ned, e so che– che avrebbe fatto del suo meglio, che ne sarebbe stato in grado, ma, semplicemente… non volevo che lo facesse. Non si sa mai… per quanto qualcuno possa essere forte, non si sa mai… quanto gli rimane.” Vede dei volti cambiare nel pubblico. “Io non so quanto mi rimane.”

Le espressioni gentili si sgretolano, avvolte dalla tristezza, e tutti iniziano a bisbigliare tra loro.

Peter continua. “Quindi… volevo solo dargli più tempo possibile. Mi sono offerto volontario così che potesse vivere.”

“Wow,” dice il Maestro. “Wow, ci… ci hai toccati nel vivo, Peter, mio Dio. Beh, sono sicuro che ti è molto grato, e che farà il tifo per te con ogni suo respiro, visto che li deve tutti a te.”

Peter sussulta; non gli piace come suona quella frase.

“Vorrei anche chiederti della tua compagna,” riprende il Maestro. “La signorina Michelle Jones, che ci ha… allietati con la sua regale presenza, prima di te.”

Peter annuisce, guardando Janet. Vorrebbe davvero sapere com’è andata MJ. O cosa le hanno chiesto. Spera che sia quasi finita, perché le luci lo stanno uccidendo. Così come il suo cuore, che batte in sovraccarico.

“È molto focosa,” dice il Maestro. “Piena di idee. Non posso fare a meno di pensare, tornando al momento in cui vi siete stretti la mani sul cocchio, che sareste una coppia stupenda. In circostanze diverse, ovviamente. Ma per ora, per il tempo che vi rimane… che ne pensi di lei? Andavate a scuola insieme? Ti piace?

Peter si sente subito incendiare la faccia, con le orecchie che scottano, e apre e chiude la bocca un paio di volte. Il pubblico reagisce coerentemente, emettendo versetti svenevoli e applaudendo, e Peter vorrebbe aver chiesto a Tony o Sam cosa diavolo dire in una circostanza come questa. Perché non sa cosa ne pensa, non lo sa, sa solo che è impossibile, perché entrambi verranno scaraventati in un’arena dalla quale può uscire solo uno. Quindi anche se– anche se– anche se ci fosse qualcosa, non importerebbe, perché verranno separati in ogni caso. Che uno di loro vinca o meno.

Cerca di ricomporsi. “Uh, noi… andavamo a scuola insieme, sì,” risponde. “Sfortunatamente non– non ho avuto modo di conoscerla davvero prima di tutto questo. Quindi, riguardo all’altra domanda… è triste, ma... abbiamo molti lussi, qui, ma non il lusso di essere in circostanze diverse. Non voglio– è già abbastanza difficile, quindi non posso– non–” Come se non fosse già abbastanza terrificante, sente le lacrime pizzicargli gli occhi e cerca di scacciarle via con un battito di palpebre. Alla faccia del ricomporsi.

“Va bene, va bene,” dice il Maestro, e si sporge, stavolta stringendogli la mano, col palmo umidiccio. “Mi dispiace. Ti chiedo scusa.”

“Non fa niente,” minimizza Peter, deglutendo a forza.

Il Gran Maestro ritrae la mano, schioccando la lingua un paio di volte. “Ho solo un’altra domanda, poi dovrai lasciarci fino all’intervista finale, due giorni prima dei Giochi.”

Peter annuisce. Grazie a Dio.

“Ti abbiamo visto salvare quel ragno. E poi, giusto l’altro giorno, ti abbiamo visto salvare quel povero ragazzo del Distretto Quattro, che è stato quasi investito da un’auto in corsa. E a proposito… pensavo che fossimo migliori di così, qua a Capitol, ma non posso giudicare. Comunque, quel che voglio dire è: stai dando l’impressione di uno che salva la gente, qui, Spider-Man. Difendi i più deboli, impedisci la morte. La mia domanda è questa: come pensi di fare nell’arena, quando ti potresti dover difendere? Togliere la vita a qualcuno, invece di salvarla? Come farai i conti con tutto ciò, considerando la tua indole, e come ti vedono tutti adesso?”

Peter comprime le labbra in una linea sottile, focalizzandosi su un punto sul fondo della sala, al di sopra del pubblico. “Farò tutto ciò che serve per rendere fiero il mio Distretto,” risponde. Guarda direttamente nella telecamera. “Per rendere fiera la mia famiglia, May… Ned, mio– Zio, che non è più con noi, così come i miei… genitori, voglio che tutti loro siano fieri di me, e delle mie scelte. E Tony. Voglio rendere fiero il mio Mentore. Quindi… farò tutto ciò che posso per rimanere fedele a me stesso. E per rimanere vivo.”

Si ricorda ciò che ha detto Tony, e anche se si sente un idiota, comincia a fissare diverse facce nel pubblico, cercando di conquistarli.

“Non voglio lasciarvi,” dice, con voce incrinata. “E non… non penso che vogliate che me ne vada. Col vostro aiuto, potrei… rimanere qui ancora a lungo.”

“Teniamolo qui!” dichiara il Gran Maestro balzando in piedi, afferrando la mano di Peter e tirando su anche lui. “Fatevi sentire per Peter Parker, Distretto Dodici, il nostro fantastico Spider-Man!”

Urlano più forte di quanto abbiano fatto finora, con un’altra standing ovation, e Peter vede Tony che fischia, applaudendo con forza. Ma Thor si china verso di lui, gli sussurra qualcosa, e una strana espressione si forma sul suo volto, un qualcosa che Peter ha visto più di una volta, dalla cena col Distretto Sette.

 
§

 
Non li fanno mettere in posa coi loro compagni di distretto per la foto di gruppo, così Peter si ritrova tra Shuri e Quentin Beck. Shuri gli bisbiglia un complimento all’orecchio, visto che metà del pubblico è ancora in lacrime quando escono allo scoperto, e Beck lo fissa senza dire una parola. Peter percepisce una strana tensione emanata da questo tipo, e sa che dovrà guardarsi da lui nell’arena.

Li guidano tutti giù dal palco quando le luci si affievoliscono, e MJ lo vede nella folla di tributi, intrecciando le dita con le sue e dandogli un colpetto spalla contro spalla.

“Ciao,” gli dice, piano.

“Ciao,” risponde lui, col cuore che accelera.

“Peter!” lo chiama la voce di Hammer, quando entrano nell’area tecnica. “Michelle! Di qua! Cristo Santo.”

È buio pesto, e vede solo lo scintillio della sua giacca di satin color senape. Peter si mette in testa, dirigendosi verso di lui e stringendo ancora la mano di MJ. Riesce a sentire il fruscio della stoffa del suo vestito mentre camminano.

“Ma perché cazzo cercano sempre di mettervi fuori gioco prima del tempo?” sbotta Hammer, afferrando Peter per il braccio. “Potreste essere travolti dalla folla, qua dentro. Bel lavoro a tutti e due, comunque. Ci sono state reazioni davvero, davvero positive per entrambi.”

“Grazie,” replica Peter, osservando Hammer che si fa largo a gomitate tra la gente fino a raggiungere il corridoio più vicino.

“Sì, grazie,” aggiunge MJ.

Raggiungono la luce e Peter finalmente la vede: il suo vestito è lungo, come un abito da ballo, rosso e viola e ricoperto di stelle che brillano e rilucono come non ha mai visto prima. Le maniche sono lunghe, le stelle abbondanti e luminose vicino alle sue clavicole, dove la stoffa si fa quasi trasparente. Ci sono dei brillantini anche attorno ai suoi occhi. Gli sorride quando lo sorprende a guardarla.

“Fai una foto,” lo prende in giro. “Almeno durerebbe di più.”

“Lo farei, se potessi,” replica lui, e le sta ancora tenendo la mano. “Sei… sei davvero carina.”

“Anche tu sei carino,” replica lei, col sorriso che si allarga. “Spider-Man. Iron Spider.”

“Smettila.”

“Ragnetto.”

Peter alza gli occhi al cielo, ma si ritrova a sua volta a sorridere.

“Anthony Stark…” bofonchia Hammer, lungo il corridoio. “Dove diavolo– oh, eccoci. Finalmente.” Si ferma davanti a una porta etichettata come “accoglienza” e si volta, allargando le braccia. “Entrate, rilassatevi, mangiate qualcosa, guardate i sondaggi. Vi farò uno squillo quando arriveranno le macchine per riportarvi a casa.”

Spinge la porta per aprirla e Peter fa entrare per prima MJ, lasciandole finalmente la mano e sentendosi stranamente freddo senza. Hammer lo blocca proprio quando sta per seguirla.

“Sul serio,” comincia. Abbassa brevemente gli occhi, si schiarisce la gola, per poi incontrare di nuovo i suoi. “Sul serio, ripete, “li stai… conquistando. Tutti loro.” Dà a Peter un piccolo pugno sul braccio. “Faccio il tifo per te, ragazzo.”

“Quello era… sei davvero sincero?” chiede Peter, sorridendo.

Hammer inclina di lato la testa. “Mi capita, di tanto in tanto,” risponde. “Anche Tony lo sa. Solo che non vuole ammetterlo.”

Svicola oltre la soglia e Peter lo segue nella stanza. È piccola, accogliente, ovviamente con un buffet nell’angolo, e Tony è sul divano con Sam, Janet e MJ, un palmare in mano.

Peter si avvicina, sedendosi tra Tony e Sam. Sospira, strofinandosi i palmi sul viso. “So di aver fatto un casino, un paio di volte,” dice subito.

“Sei stato bravo,” replica Tony, poggiandogli una mano sulla schiena. “Ti adorano tutti, Peter.”

“Alcuni dei tecnici dietro le quinte mi hanno chiesto come inviarti dei regali,” aggiunge Sam.

Peter teme di essere risultato debole. Non riesce a smettere di pensare al Pacificatore che l’ha picchiato, e non vuole essere qualcuno che non è, ma vuole nemmeno essere qualcuno di cui possono approfittarsi.

“Sei in testa a tutti i sondaggi,” mormora Tony, ma ha di nuovo quello strano sguardo riguardo al quale Peter ha paura a chiedere. “Ho ricevuto sei richieste per scambiare chiavi, stasera, quindi… dovrai fare un paio di apparizioni. Farò in modo che siano brevi.”

“E ho un intero armadio di vestiti pronto per te,” interviene Sam. “E forse anche una specie di cotta di maglia, se la approvano per l’arena.


“Fantastico,” commenta Peter. Rivolge gli occhi a Tony. “Continueremo ad allenarci molto?” gli chiede.

“Se vuoi, sì,” replica lui.

“Sì,” conferma Peter. “Voglio farlo.”

 
§

 
Tony non glielo dice. Non lo dice nemmeno a Janet, non gli passa neanche per la testa di dirlo a Michelle. Addestra Peter, e si crogiola nel proprio panico crescente. Hanno delle sessioni private ogni giorno, e Tony diventa esigente, facendogli affrontare ogni simulazione disponibile, creando alcuni dei suoi ricordi fin troppo vividi. Fanno boxe, e Tony scopre di essere dannatamente inutile perché non gli riesce di colpire il ragazzo neanche coi guantoni, quindi recluta qualcuno che è sicuro sarà corretto ma fermo. Sam. Sam non è spesso al centro dell’azione, considerando le sue abilità e dove l’hanno assegnato, ma è in grado di mostrare a Peter qualche mossa che Tony non conosce, ed è in grado di ingaggiare una vera e propria lotta con lui, mentre Tony ne è incapace.

Peter fabbrica quella sostanza appiccicosa che ha inventato a scuola, ne fabbrica chilometri e chilometri; Sam non perde tempo e la battezza “fluido per ragnatele”. Tony dubita che riusciranno a farlo entrare nell’arena, ma ritiene che i materiali per sintetizzarlo potrebbero essere già lì, o venire inviati da uno sponsor. Lui e Sam assemblano quello che viene nominato “spara-ragnatele”, uno per ciascun polso, e Tony progetta di renderlo uno dei primi regali, se Peter riuscirà a fare il fluido durante i Giochi. Fa pratica e, dopo un paio di brutte cadute, si sposta ondeggiando da un muro all’altro. Sembra quasi di vederlo volare.

Peter fa interviste, firma autografi, partecipa a dei servizi fotografici, e il terrore di Tony cresce. Si incontrano con Thor, Steve e Natasha in più di un’occasione e Thor gli rivolge sempre quello sguardo, intenso e impaziente. Tony è sveglio a letto ogni notte, fissa il soffitto slavato, pieno di bozzi e riflessi insoliti, e ripensa al loro piano. Capitol è una fortezza, una prigione, fatta di regole su regole e fucili su fucili. Nessuno è mai scappato dalle arene, ma se quel che dicono è vero – che hanno uno Stratega dalla loro parte – allora potrebbe essere possibile. Oppure Stane lo sa, e sta progettando di fregarli in diretta, di fronte a tutta Panem. Tutti quelli coinvolti.

Una settimana passa, e Tony ha la percezione di ogni minuto affilato come un coltello. I Giochi stanno arrivando, stanno arrivando, stanno arrivando per portargli via qualcos’altro.

Di notte, continua a fissare il soffitto con la nausea, disperato, impotente, incatenato e spezzato e destinato a morire. Vincere non è nemmeno sopravvivere, è peggio, e gli sembra un inferno in terra, pensare di lasciar andare Peter in un luogo in cui verrà ferito, ucciso, martirizzato per la causa di Thor, o come un terribile piano di riserva, se avranno un briciolo di fortuna.

Non ha più molta fiducia, dentro di sé. Solo per Janet, che è ignara. Solo per Rhodey, che ha esalato l’ultimo respiro tra le sue braccia inutili. Solo per Pepper, che è ormai racchiusa nelle pieghe del tempo, col volto eternamente congelato per gli errori commessi da lui. Le parlava così spesso che, all’inizio, il suo silenzio era stato intenso, schiacciante, pesava nei suoi polmoni e gli rubava il respiro. Ma la conosceva, la conosceva in ogni dettaglio, cuore e anima, e a volte la sente anche adesso. Sente ciò che gli direbbe.

Ti ricordi quelle voci riguardo ai tunnel? gli dice adesso, col suo fantasma seduto sulla sponda del letto e le sue dita affusolate che gli sfiorano la pelle sensibile al centro del petto. Quegli uomini costretti a stare là sotto tutto il tempo, per la manutenzione? E chissà cos’è successo a Coulson, mh? È scappato di lì? L’hanno fatto uscire? Ho sentito che arrivano fino all’Oceano Atlantico. Ci sono altri posti, amore. Posti migliori di questo.

Sposta lo sguardo verso la finestra illuminata dal chiaro di luna, e quasi riesce a vederla. I suoi capelli rossi, con quelle ciocche che le si arricciavano sulle guance. La linea della mandibola, la curva del collo. Riesce quasi a vederla, e allunga una mano nell’aria vuota, desiderando che la sua la trovi come faceva sempre.

“Pep,” sussurra, alla sua stanza vuota.

Amalo come se fosse tuo, Tony, gli dice. Salvalo. Salva Peter Parker.

Smette di fissare il soffitto. Si mette a sedere, porta le gambe oltre la sponda del letto, e fissa invece la porta. Aspetta che lei dica qualcos’altro, ma è di nuovo svanita nel silenzio profondo.

 
§

 
Venti minuti dopo è seduto in soggiorno, e Janet lo trova. Non la vede spesso in disordine o in pigiama, ma adesso lo è, e lo fissa come se fosse un intruso. Tony ha il palmare in mano, con le statistiche di Peter in una finestra e la ricerca sui tunnel in un’altra.

“Tony,” lo chiama, come se potesse leggergli la mente, come se già sapesse che è a un passo dal cadere nell’abisso. Si chiede se riesca a vederlo sul suo volto, perché lui riesce a sentirlo, là. E dappertutto. Il panico più puro e totale, l’indecisione. Crede di aver perso almeno dieci chili nell’ultima settimana perché mangia appena. Pensa troppo a ciò che accadrà. Cosa potrebbe accadere. Cosa potrebbe aiutarli. Cosa no.

“Jan?”

“Lo so che stai passando un brutto periodo,” dice lei, avanzando nella stanza.

“Oh, sì,” risponde lui, sfogliando la pagina successiva sul palmare. “Un brutto periodo, tutto qua.”

“Ricorda cosa ti ho detto: concentrati. Dobbiamo solo provare a… distaccarci da–”

“Per quello è troppo tardi,” la interrompe Tony. Si sente inferocito, ferale, e cerca di arginare quella parte di sé. “Iron Man e Spider-Man sono uniti; più di una persona l’ha detto, Jan, incluso Spider-Man stesso…”

“Tony,” ripete lei, posizionandosi in modo da fronteggiarlo. “Ricordo quello che hai detto, e devi… devi calmarti, so come diventi a volte.”

“Lo sono diventato,” dice lui, alzandosi in piedi e mandando quasi il tavolino a gambe all’aria. “Lo ero. Sono– ci sono dentro. Ci sono dentro.” Scuote la testa, tremando. “Non so come hai fatto. A fare da Mentore a Hope e Hank, loro erano la tua– la tua famiglia, e te li hanno portati via e tu sei– lo so che lo dico sempre, in continuazione, come un mantra, ma tu sei un milione di volte più forte di me, Jan.”

Janet sembra ferita. “Tesoro,” dice, avvicinandosi. “So che vuoi salvare Peter, e ci stai provando con tutto te–”

“No, ci riuscirò,” ribatte Tony. “Non morirà, è– siamo oltre il confine delle loro regole, delle loro stronzate. Ho due opzioni molto stupide, e ne sceglierò una, e farò in modo che funzioni.”

Lei lo guarda come quando lui aveva proposto di saltare nel tubo al posto di Peter. “Cosa?” gli chiede. “Di che stai parlando?”

“Ho chiuso, con tutto,” dice lui, alzando le mani al cielo. “Questo è l’ultimo anno che lo faccio. L’ultimo anno in cui sarò una loro marionetta. Non mi porteranno di nuovo via qualcosa.”

“Quali due stupide opzioni–

“Devi tornare a letto,” la interrompe Tony, frapponendosi tra lei e il palmare, perché non vuole dirle nessuna delle due opzioni, non adesso, perché a dispetto del fatto di averne già scelta ufficialmente una, non è ancora in grado di parlarne ad alta voce, e si sta a malapena abituando a pensare a entrambe. “È tardi, tu oggi hai tre interviste, e sarà il gran momento di Michelle–”

Janet invade il suo spazio e gli prende il volto tra le mani, in una stretta salda. Delle lacrime le brillano negli occhi. “Che cosa ti ho detto?” sussurra. “Cosa ho detto?”

Lui le stringe i polsi. “Jan.”

“Ti ho detto che non posso perdere anche te,” dice Janet, sciogliendosi nel pianto. “Te l’ho detto, non mi hai ascoltata?” Lo scuote e lo spinge via. “Parli di Hank e Hope, e sai cosa ho perso, cosa ho dovuto sopportare, e tu sei tutto ciò che mi rimane. Tu. Tu, e basta. E io non ce la faccio, non posso guardarti mentre ti impiccano, non posso farlo, Tony.”

“Non mi impiccheranno,” replica Tony. “Non mi faranno nulla.”

Lei si scosta, scuotendo la testa. “Hai perso la testa, dannazione,” conclude. “Ho cercato di riportarti indietro, quest’anno, perché sentivo che stavi crollando. Sapevo dal momento in cui l’ho visto che ti avrebbe fatto a pezzi. So che hai iniziato a voler bene al ragazzo e so che è diverso da tutti gli altri, so che l’hai detto, so chi è, cos’è per te, te lo leggo negli occhi. Avrei fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per salvare Hank e Hope, ma è… è troppo pericoloso, Tony. Uccidono per così poco.” Si porta una mano al volto, asciugandosi gli occhi. “Non posso– non posso–”

“Funzionerà,” ribatte Tony, disperato.

Lei scuote la testa, indietreggiando. “Non costringermi a guardarti morire,” dice, e con ciò esce dalla stanza.

Tony si abbandona sul divano e affonda la testa tra le mani.

 
§

 
Janet e Michelle escono presto per incontrare i giornalisti, e Tony e Peter fanno tre interviste da soli. Pranzano e Tony si fa rilasciare un permesso di guida, facendo credere che porterà Peter ai resti dell’arena più vicina, quella di sette anni fa, proprio alla periferia di Capitol.

Ma non è dove progetta di dirigersi.

“È strano vederti guidare,” osserva Peter, dal sedile del passeggero. “Sono così abituato a quegli stronzi che ci scarrozzano in giro.”

“Niente stronzi, oggi,” dice Tony. Sta stringendo il volante con così tanta forza che gli fanno male le mani. Il suo cuore batte così forte da spaventarlo, ed è abituato ad avere un battito irregolare. Il piano si accanisce contro i suoi denti.

“Tony,” lo chiama Peter. “Sei– ti sei comportato– stai bene?”

Tony ride, scoccandogli un’occhiata. “No,” risponde. “Ma non importa. Importi tu, ragazzo.”

Peter sbuffa appena, agitandosi sul sedile. “Anche… anche tu, ma sei– so che tutto questo… le cose sono quel che sono, ma mi sei sembrato… distante, da quando abbiamo cenato con Thor e gli altri.”

“Pete, io… ti ricordi Coulson?” chiede di getto. “Era un Accompagnatore del Dodici, anni fa.”

“Sì,” risponde Peter, esitante.

“Ti porterò fuori di qui,” afferma Tony, risoluto. “Ci sono sempre state delle voci sul fatto che Coulson fosse scomparso e fuggito attraverso i tunnel. La gente dice che ci sono sempre degli operai là sotto, che sanno come farti uscire da Panem. È questo, quello che gli è successo, ragazzo. L’hanno fatto uscire di nascosto. So che c’è una dannata resistenza, so che ci aiuteranno. Nessuno potrebbe dirti di no. È dove stiamo andando, andiamo al vecchio quartier generale, ti farò scendere là sotto. Andiamo nei tunnel finché non troviamo qualcuno che può aiutarci.” Batte le palpebre, cercando di mettere a fuoco gli occhi, e non guarda Peter. Deve funzionare. Deve farlo.

“Tony,” comincia Peter. “Loro– Coulson… hanno ucciso Coulson. L’hanno ucciso nel Dodici, dopo– dopo i giochi vinti da Emma [1]. Era lì, era– non tutti lo sanno, ma la maggior parte del Dodici sì, perché… era tornato, perché c’era una donna che si spostava con l’orchestra che viveva lì, e… la gente pensa che stesse cercando di portarla a Capitol. Ma lui… non ce l’ha fatta.”

Tony strizza gli occhi, fermandosi a una rotonda. Ha l’impressione che il mondo gli stia crollando addosso. Sente dei suoni striduli. “No, no, lo avrei– lo avrei saputo. Janet avrebbe– me l’avrebbe detto…”

“Magari l’ha fatto,” dice Peter, con dolcezza. “Tu… so che hai passato un brutto periodo, nel frattempo… so quanto sia difficile… reinserirsi, e tenere a mente tutte le cose orrende che fanno di continuo. Non… non ti biasimo per averlo rimosso.”

Tony sente freddo, con gli occhi che si tendono, e continua a guidare quando tocca a lui. Cerca di riprendersi. Cerca di respirare, ma continua a immaginare Coulson, morto. Non è l’immagine che vedeva prima, di lui che correva libero attraverso i tunnel. Si schiarisce la gola. “Lo faremo… dobbiamo comunque provarci,” dice, col dubbio che si insinua nella sua voce e la quantità di falle nel piano via via più evidente. “Dobbiamo, dobbiamo… Cristo, Pete, dobbiamo e basta.”

“Tony,” replica Peter. “Sono… non sappiamo se funzionerà.”

Tony inala un respiro. “Potrebbe.”

“O forse no,” continua lui. “Si metterebbero quasi subito sulle nostre tracce. E non voglio… non voglio–” la sua voce si incrina. “Saresti in pericolo. MJ. Janet. Sam. Ned, May… tutti quelli rimasti a casa.”

Tony continua a guidare, con gli occhi colmi di lacrime. “Non posso permettere che accada a te,” sussurra, perché scoppierebbe in un pianto incontrollabile se parlasse più forte. “Non posso, ragazzo. Non posso. Devo provare a fare… qualcosa.”

Peter si slaccia la cintura. Si sporge, gli prende gentilmente il braccio e si accosta a lui, poggiando la fronte sulla sua spalla. “Va bene così,” mormora poi. “Non possiamo fare niente, ma… va bene così.”

Questo piano è idiota. Ridicolo. Si era isolato così tanto, si era affogato talmente tanto nel proprio torpore, che non sapeva nemmeno che avessero ucciso Coulson nel suo dannato Distretto. Era completamente ubriaco, quasi ogni giorno. Qui ha iniziato a intravedere una logica: molte delle cose menzionate da Peter non le ricordava. Ed era sicuramente presente al momento. Ma adesso ha dato adito a quest’idea dei tunnel nella sua testa: un ultimo, disperato tentativo di prendere in mano la situazione, di mettersi al comando, di escogitare qualcosa da solo, per una volta. Di rendersi responsabile per tenere in vita Peter, perché non può fidarsi di nessun altro. Ma chiaramente, non può fidarsi neanche di se stesso. Ha sprecato troppi anni della sua vita nell'alcool.

Accosta al ciglio della strada, spegne la macchina e abbraccia Peter come se ne andasse delle loro vite. “Mi dispiace,” mormora.

“Non devi.”

“Devo,” ribatte lui, prendendogli la nuca nel palmo. “Mi dispiace per me, mi dispiace per tutto.” Indugia nell’abbraccio ancora per un paio di secondi, e prende una decisione. “E ho… mi sono comportato in modo strano dalla– dalla cena. Più strano del solito. La nostra situazione attuale ne è un ottimo esempio, ma devo– devo–” Preme sulle spalle di Peter, scostandosi da lui per guardarlo negli occhi. “Devo dirti una cosa.”

E gli spiega tutto, ripesca ogni minuscolo dettaglio dalla sua mente annebbiata, dai ricordi tinti di rosso di quella notte, mentre lui e Thor parlavano nel buio. Si concentra sul volto di Peter e gli espone i fatti, tutto ciò che ha detto Thor sul fatto che lui diventerebbe il volto della ribellione, la fuga dall’arena, tutto quanto.

“E mi dispiace, di nuovo,” conclude Tony. “Per… per– avertelo tenuto nascosto. Avrei dovuto dirtelo non appena l’ho saputo, ma… ho perso completamente la testa. Mi sono immerso nell’addestramento perché, in ogni caso, volevo che tu fossi in grado di difenderti. Che tu ne faccia parte o meno. Quindi, sì, questo… questo è tutto.”

C’è un silenzio denso. Tony rimane in attesa che Peter dica qualcosa, e dopo un lungo momento un maledetto Pacificatore bussa al finestrino del guidatore.

Tony emette un lamento, abbassando il vetro. “Che c’è?” sbotta.

“Non può parcheggiare qui, signor Stark,” dice l’uomo con la maschera nera, chinandosi per parlargli.

“Va bene,” replica lui, velenoso. “Stiamo tornando indietro.”

“Non utilizza il permesso?” chiede il Pacificatore.

“Nah,” risponde lui, togliendo il permesso dal cruscotto. “Ho un bel po’ di aria alla pancia, adesso, non sono decisamente nelle condizioni di un duro allenamento.” Gli rivolge un ampio sorriso, sperando che quello stronzo si tolga dalle palle.

“Va bene, allora,” gli accorda il Pacificatore, raddrizzandosi. “Potete andare.”

“Sì, e tu puoi andare,” lo rimbecca Tony, rialzando il finestrino. Si schiarisce la gola, ingrana la prima e si reimmette in strada. Lancia un’occhiata a Peter, e vede che se ne sta seduto lì accanto immobile, senza cintura. Sembra impallidito ancora, e ha la mascella irrigidita. “Uh, ragazzo?”

Peter non dice nulla.

Tony guida volutamente piano, facendo inversione a U. “Peter, so che ti ho appena lanciato addosso… una bomba atomica, ma voglio che ti metta la cintura. Promemoria: il nostro amico Harley.”

Peter annuisce lentamente, tende una mano tremante e si riallaccia la cintura. “Uh,” gracchia, e la sua voce sembra troppo forte e troppo bassa al contempo. Si schiarisce la gola, mentre finalmente echeggia lo scatto della cintura di sicurezza. Tony si ferma per far attraversare un gruppo di pedoni. Si rivolge verso Peter.

“Uh,” ripete Peter. “Mi serve… so che sono troppo giovane, lo so– so che sono un Tributo, e tutto il resto, e so che tu hai– avuto problemi, ma… quando torniamo all’attico, posso… posso bere qualcosa?”

Tony lascia andare un respiro, rimettendosi in marcia quando le strisce pedonali si liberano. “Sì,” risponde. “Sì, puoi– puoi assolutamente bere qualcosa.”

 
§

 
Tony realizza di aver fatto una cazzata dopo circa sei bicchieri. Sei… sette… forse dieci. O dodici. Con ventisei in mezzo? Troppi. La maggior parte sono suoi. Spera. Hanno la roba migliore, qua. Fin troppa roba. Alluvioni di vodka, come l’alluvione dalla quale l’ha salvato Rhodey. Oh, no. Non quello. Non adesso.

Tony sa perfettamente di aver fatto una cazzata quando il ragazzo cade quasi di testa attraverso il tavolino da caffè.

“Ehi,” lo riprende, agguantandolo per il braccio prima che si schianti contro il vetro, e il mondo ondeggia attorno a lui come una nave in tempesta. “Ehi, ehi, no… non rompere le cose. Non si rompono le cose.” Batte le palpebre, impedendosi di inciampare a sua volta, Cristo – Cristo – e Peter sta ridendo. Ride e basta. In modo isterico.

“Voglio rompere le cose,” farfuglia, mentre Tony lo adagia sul divano. “Voglio… rompere tutto. Rompere il vetro. Il tavolino di vetro, la finestra… di vetro…”

“L’alcool di vetro,” bofonchia Tony, collassando accanto a lui. Si nasconde il volto tra le mani, le strofina e vede stelle e stelle e stelle. “Dobbiamo solo. Rompere tutto. Perché sono una brutta persona.”

Peter si aggrappa al braccio di Tony e lo scuote. “No, no. Non sei una brutta persona, tu sei la persona migliore di tutte, okay? Okay? Devi… devi darmi ragione o continuo a romperti.”

Tony ha ancora le mani sulla faccia, e adesso vede le stelle cadenti, e acque agitate – l’alluvione, Rhodey, l’alluvione, le mani di Rhodey – e scuote la testa. Così è peggio, ma lo fa lo stesso. “Sto per vomitarti addosso,” bofonchia, con la voce tinta di verde.

“Non vomitare! Non vomitare! Altro whiskey!”

Peter ha smesso di scuoterlo.

Tony scosta le mani e la stanza è accecante e rumorosa quanto lo era prima. “Basta whiskey per te. Basta, ragazzo, dai. Dai, maledizione.”

“L’ho già bevuto,” replica lui, sedendosi di nuovo e inclinandosi lentamente verso sinistra.

Tony sospira, rumoroso, e gli fa male tutto. Sprofonda all’indietro nel divano pregando che lo assorba. “Errore,” commenta, fissando il muro sfocato e ondeggiante. “Maledizione. Non voglio che tu sia come me.”

“Io voglio essere come te,” dice Peter, e si appoggia contro la sua spalla. “Lo so… lo so, lo so, non vuoi che… beva come te, e non lo farò, okay? Okay. Okay. Solo per questa… insomma. Tra poco potrei essere morto, quindi… questa è la prima e l’ultima volta. Ma è tutta… esperienza. Un’esperienza.”

Morto tra poco. Morto tra poco. Le parole lampeggiano in caratteri corsivi al neon davanti ai suoi occhi. Peter Parker morto tra poco. Peter Parker morto tra poco.

“Perché vogliono me?” chiede Peter, poggiandosi di peso contro la sua spalla. “Thor, Nat, Steve. Il mio volto? Il mio volto, il volto della… ribellione. Folle.”

“No,” replica Tony, fissando le parole e il soffitto e le linee impeccabili del loro appartamento. “No, loro. Hanno perfettamente… perfettamente ragione, su di te. Sei, insomma… troppo prezioso.”

Peter gli dà uno spintone, quasi fosse un ariete.

“Merce preziosa,” si ritrova a dire Tony, e Peter lo spintona di nuovo. Si accascia come un pesce morto. Un pesce fuor d’acqua. Alluvione istantanea. Rhodey, che gli tende il biglietto di Pepper. Pepper. Pepper è un fantasma. “Maledizione,” sbotta Tony, strizzando forte gli occhi. Deve chiudere quei battenti per non rivedere tutti quegli orrori. “No. Sul serio. Sei davvero una persona buona, sei– punti sempre a fare del bene, alle cose positive e sei– cazzo, tutti sanno che ti meriti di meglio.”

“Tutti sono stupidi,” conclude Peter, scivolando ora a terra. Gattona sotto il tavolino, col vetro sopra di lui. Come una bara trasparente. “Tutti quanti,” ripete. “Lasciano che questo… schifo, accada. Continuamente. Per sempre. Uccidere, assassinare– sono tutti stupidi. Sono stupidi. Tutti tranne… Janet. Tu. Thor, Steve, Nat, anche se il loro– i loro piano, sono… le loro tattiche fanno troppo affidamento su di me. Uh, Hammer. A volte. È meglio di quanto… mi aspettassi. E MJ.” Sospira. Sembra malinconico.

“Dici Michelle, vero?” chiede Tony. “Hai iniziato… a chiamarla così da quel giorno.”

“Me l’ha chiesto lei,” risponde Peter. “È la migliore.” Sospira di nuovo, e stavolta sembra sconfitto. Tony sente la testa pesante una tonnellata.

“Va bene se ti piace,” dice Tony. “Se ci uniamo al loro piano… la– la tireranno fuori.”

“Piano,” ripete Peter. “Piano, piano, piano.” Cerca di alzarsi e dà una testata al tavolino. “Ahia. Ahia, oddio.”

Tony scatta in piedi come un giocattolo a molla, senza pensarci, e il mondo intero gira, solo che gira da sempre, no? Continua a girare, ma loro continuano a morire. Pepper, Rhodey, i suoi genitori. Continuano ad essere morti. Ben, lo zio di Peter. Anche i genitori di Peter. Tony si alza, aggira la mano del ragazzo e si sposta dall’altro lato del tavolino, ancorando le mani sotto le sue braccia per trascinarlo fuori. Lo adagia delicatamente sull’altro divano e si siede accanto a lui. Preme un palmo sulla sua fronte, dove adesso c’è una chiazza rossa, e Peter vi posa sopra la sua.

“Te l’ho già detto, prima,” dice, con gli occhi che si riempiono di lacrime, e Tony li vede più grandi e ingigantiti che mai. “Ma non voglio morire. Non voglio. Non voglio andarmene, ho– ho tanta paura. Ho–” Si interrompe bruscamente, chiudendo gli occhi.

“A volte bere aiuta,” dice Tony. “A volte ti ricopre di fiori e il mondo non puzza così tanto di merda, ma altre volte riporta allo scoperto tutto ciò che tieni a bada ai margini, tutto ciò che ti… terrorizza. Tutto ciò che non vuoi vedere e a cui non vuoi pensare.” Accarezza i capelli di Peter, per poi ritrarsi. “Ho fatto una cazzata a… farci ubriacare così tanto. Un errore enorme, e te ne devo una.”

Peter scuote la testa.

“Te l’ho già detto, quella volta,” riprende Tony, cercando di essere vagamente sobrio per quei due secondi. “Non morirai. Non succederà. Non è permesso. Ancor di più adesso, perché ci tengo troppo, ragazzo, sono coinvolto nella tua vita e in cosa deciderai di farne. Quindi peccato, morte, levati dalle palle.”

“Il piano…” comincia Peter.

“Non è un discorso da ubriachi,” lo ferma Tony, scuotendo la testa nonostante così facendo gli si rimescoli il cervello. Batte le palpebre: concentrati, concentrati. Niente più nebbia. Niente più nebbia sbronza. “Hai ancora fame?” gli chiede. “Abbiamo davvero mangiato tutta la cheesecake in frigo o è stata un’allucinazione?”

“No… l’abbiamo fatto.”

“Fame?”

“Pienissimo. Lampone.” Peter si accascia, spalmandosi sul divano.

“Okay,” conclude Tony. Si alza, cammina in precario equilibrio fino all’altro divano e recupera tre cuscini e il copriletto viola. Cammina come se ogni gamba pesasse una tonnellata; e comunque, quanto diavolo è pesante una tonnellata? Sistema due cuscini sotto la testa di Peter, ne incastra uno sotto al suo braccio e allarga la coperta, rimboccandola su di lui. “Dormi qui,” gli dice. “Dirò agli altri di stare zitti quando tornano.”

“MJ non deve mai stare zitta,” dice Peter, con occhi enormi. “Deve parlare di più. La sua voce è come… uccellini che cantano… o cinguettano… o qualunque cosa facciano gli uccellini…”

Tony emette una risata dal naso, sorridendogli apertamente, e vede del rosso che si fa largo davanti ai suoi occhi. Esplosioni d’affetto che prendono il volo. “Tu non berrai mai più.”

“No.”

“Ma non perché morirai presto,” dice Tony, puntandogli contro il dito. “Tu fuggirai. Andrai a un appuntamento con Mich– con MJ. Avrai dei figli. Una vita vera, lontana da tutto questo. E vivrai fino a tremila anni, capito?”

“Bel numero.”

“Lo so,” replica Tony. Rivolge un sorriso a Peter, e il bambino di tutti quegli anni fa salta fuori dalla propria mente, si fonde con quello che conosce ora. Qualcosa, dentro di lui, forse quel pezzo di cervello che ancora si aggrappa alla sobrietà, gli impone di non parlare di quel ricordo, non ora, non con loro due in questo stato. Deve essere migliore di così, è tutto ciò che sa. Quel bambino, questo ragazzo – lo stesso – Tony deve essere migliore per lui. Adesso ha lui. Ma la parte di cervello che si aggrappa alla sobrietà è troppo occupata a tener chiusa quella porta per frenare ciò che dice dopo:

“Ti voglio bene, ragazzo.” [2]

È come se l’avesse detto qualcun altro, un qualcuno che c’è in ogni universo in cui si incontrano – uno in cui muore bruciato dall
acido, uno in cui il ragazzo è cenere e uno in cui non lo è; uno in cui Tony vive, ma è per metà di metallo, una macchina; uno in cui sono al sicuro, illesi, liberi, e Pepper è lì, Rhodey è lì, e anche una bambina. Uno in cui Peter è ricco, e Tony è povero. Uno in cui sono intrappolati in un inferno ghiacciato dove ruotano e ruotano e ruotano. Uno in cui Peter vola tra i grattacieli, e anche Tony vola, in quell’armatura di ferro. Tutti e due proteggono il più debole. Libertà, pace. Niente Capitol, niente Hunger Games. In ciascuno di essi, Tony lo pensa, lo sente, vede il ragazzo come il figlio che gli è stato rubato, il figlio che non ha mai potuto avere. In alcuni ha troppa paura per dirlo, è troppo chiuso, troppo arrogante, troppo Tony Stark. Ma in altri lo dice costantemente ed echeggia per ogni universo, espandendosi attraverso i sottili portali di ragnatele che li collegano. Là, là, e anche là. Peter Parker lo trova sempre, e Tony vuole sempre dargli il mondo. Vuole essere la sua famiglia.

Tony non sa se crede in altri universi, né se crede davvero in questo. Le immagini si illuminano e si dissolvono come sogni.

Si risintonizza. Il suo volto si scalda, se pensa che l’ultima persona a cui ha detto quella frase è Janet, ma Peter gli rivolge un gran sorriso, ancora ubriaco, ancora adorante, ancora la persona migliore sulla faccia della Terra. Troppo puro.

“Ti voglio bene anch’io,” risponde, e chiude gli occhi, dando inizio a uno di quei sonni sbronzi che durano circa quattro ore prima di farti risvegliare con un brutto mal di testa.

Tony si dirige barcollando all’altro divano, col mondo che si inclina, e si inclina, una nave che affonda. Una nave che li porta in un altro continente. Dove c’è libertà. Sicurezza. Pace. Non qui. Non qui. Pensa alle parole amore, affetto, [2] si chiede cosa diavolo vogliano dire, se siano troppo forti, se sia troppo presto, ma è brillo e ha le vertigini e guarda il ragazzo, che già sta russando, e lo sa. Si sente come… un padre. È folle, è follia, ma è così, il sentimento è quello. È impossibile non amare Peter Parker. Specialmente se si è qualcuno che deve pensare alla possibilità che muoia in ogni cazzo di momento. Quello gli dà la carica, se possibile. Non può più tirarsi indietro. Non da questo ragazzo. Non da questo ragazzo che l’ha salvato.

Tony se ne sta seduto lì, sentendosi un gigante, e non si sente invadere da un profondo sonno alcoolico: no, gli sono state donate ore di veglia e una mente in subbuglio; e hanno bevuto davvero troppo, cazzo, quindi sarà uno stato duraturo.

Prima di rendersene conto si ritrova il palmare in mano, e sta forzando una delle backdoor di internet che Capitol non ha mai capito come chiudere. È una delle persone più intelligenti ad aver mai messo piede in questa maledetta città, anche se non lo direbbe mai ad alta voce se non di fronte a Janet, e solo per punzecchiarla. Ma anche da sbronzo riesce ad hackerare i loro sistemi, il loro deep web, le cose che non vogliono far vedere a nessuno, e magari Tony da sbronzo ha più determinazione, più ambizione, più memoria.

Trova i certificati di morte dei propri genitori, fissa la frase resistenza all’arresto e si sente strangolare, e non cerca volutamente Pepper perché non può sopportare di vedere di nuovo quella bugia lampante stampata su un qualcosa che nessuno vedrà mai. Mentono a tutti, mentono persino a loro stessi. Trova un articolo che Christine Everhart aveva iniziato a scrivere sulla “perdita” di Pepper, prima che lo silurassero. E lo fa pensare, mette freneticamente in moto gli ingranaggi nella sua mente sbronza.

Everhart.

Aveva detto qualcosa di strano, il giorno del ragno, quello in cui il ragazzo si era costruito il proprio nome. Tony aveva avuto intenzione di indagare, ma le cose qui sono in continua crescita, costruiscono fragili castelli pronti a crollare, e gli è passato di mente. Ma adesso ricorda, mentre il mondo ancora trema attorno a lui, mentre la sua vista vibra e ondeggia come se fosse in uno di quei ologrammi che creano loro stessi con le loro tecnologie.

Adesso le sue parole gli risuonano nelle orecchie, ripescate da sotto tutto il resto.

Mi stavo chiedendo cosa ne pensi dei tuoi genitori che

Cosa ne pensi di cosa? Del fatto che non li ha conosciuti? Howard era freddo, calcolatore, abbastanza fortunato da avere un lavoro che gli permetteva di viaggiare, e Tony, per lui, era superfluo. Maria era lieve, fatta di abbracci troppo stretti e segni di baci che non riusciva a cancellare. Non erano adatti al Dodici, ed era come se il mondo lo avesse capito, offrendo loro un mare di opportunità ogni volta che Capitol li chiamava. Ma a dispetto delle carenze di Howard, Tony è lieto di averlo conosciuto, e sua madre… gli manca ogni momento, ogni singolo secondo, e non riuscirà mai a bruciare via quell’immagine dalle proprie retine. Loro due, impiccati. Come si fa a sopportare una cosa del genere?

Ma non è quello che Christine stava chiedendo. Non era quella, la frase completa, poi era entrato in scena quel ragno a rubare i riflettori.

I loro nomi erano nel dossier di Peter, in quel ricordo in bianco e nero che balena nell’occhio mentale di Tony.

Ricerca nei loro database i nomi di Richard e Mary Parker.

Invece della sfilza di file che ha trovato riguardo ai propri genitori, qui trova… appena cinque risultati. Legge i loro certificati di nascita, li guarda negli occhi e vede loro figlio. C’è un certificato di morte per entrambi, ma non vi è la causa, e tutte le informazioni sono oscurate se non per la data.

Hanno mentito senza pudore sui certificati di morte dei suoi genitori, ma qui stanno tenendo nascoste delle informazioni? Ma che cazzo?

Si sente più lucido, adesso, e tiene il palmare di fronte al volto sforzandosi di rimanere concentrato.

Trova un documento scritto per loro due, come team, e sembra una lista di dipendenti.

Gli si ghiaccia il sangue, e si sente sul punto di vomitare. Il liquore non c’entra nulla.

Mutanti. Esperimenti. Veleni. Radioattività. Ibridi. Robot. Aghi inseguitori. Mostri. Nebbia acida. Pioggia di sangue. Ipnoattività. Aghi paralizzanti. Copia-voci. Ghiandaie chiacchierone.

E ancora, e ancora e ancora e ancora. Una lista lunga quanto il suo braccio.

Qualunque cosa gli venga in mente, fino all’anno della loro morte, l’hanno creata loro. Tutto, ogni cosa deviata e orripilante che Capitol avesse spedito nelle arene: loro erano gli scienziati responsabili, i creatori. Dal Distretto Dodici, impiegati presso Capitol fin da quando avevano appena vent’anni.

E i loro esperimenti sono ancora in uso. Lo sono stati, ogni anno, da quando sono morti.

Tony lascia cadere il palmare in grembo e barcolla, col labbro inferiore che gli trema.

Lancia un’altra occhiata ai dati. Peter aveva sette anni, quando sono morti.

Sono morti nello stesso giorno.

Tony si sente come un nervo scoperto e si alza, ondeggiando in cucina. Prende rapidamente un bicchier d’acqua, come se potesse sciacquar via tutto. E forse lo rompe, non ne è certo, ma d’un tratto le sue dita sanguinano, e mette sotto l’acqua anch’esse.

Scienziati responsabili. Per Capitol. Creatori di tutto ciò che è stato usato per cacciare, torturare e uccidere i Tributi degli Hunger Games. E adesso il figlio è uno di loro.

Richard e Mary Parker.

Peter russa nell’altra stanza, ignaro.





 
*


Tradotto da: ever in your favor: through the tunnels, di iron_spider da _Lightning_


Note:

[1] Emma Frost, membro degli X-Men.
[2] In originale Tony pensa al solo concetto di love, amore. Avendo dovuto tradurre quel I love you come un ti voglio bene, poiché chiaramente inteso in modo filiale, ho preferito aggiungere anche la distinzione tra affetto e amore per evitare ambiguità non tanto rispetto a Peter, quanto a Janet, che è una figura materna e non romantica.

Note della traduttrice:

Cari Lettori,
come preannunciato, adesso le cose si fanno davvero movimentate, almeno dal punto di vista emotivo (non so voi, ma quando lessi la storia la prima volta ci sono quasi rimasta secca con quell'ultima rivelazione). Spero di aver reso tutto al meglio, come sempre ditemi nei commenti se non vi suona/torna qualcosa :)
Grazie mille a Eevaa e T612 per aver commentato gli scorsi capitoli, e a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle seguite! E non siate timidi nel commentare (o, se lo siete, correte almeno a lasciare kudos sulla pagina dell'autrice originale, che se li merita tutti <3)
Al prossimo capitolo, in arrivo lunedì!

-Light-



 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Marcire ***


Capitolo 7: Marcire


 
 
Peter sta sognando.

Tutto sembra pesante, come se stesse affondando sotto una coperta legata a dei pesi, inseguendo la coda di un sonno profondo. Vede Tony e qualcun altro seduti su una panchina nel parco, in un posto che sembra il Memoriale nel Distretto Dodici. Si avvicina, facendosi largo tra la nebbia, e vede che Tony sta parlando con… Ben. Ben, prima che si ammalasse, prima che le miniere lo portassero a una fine prematura. Li vede ridere, vede Tony che dà una pacca sulla schiena a Ben. Peter trattiene il respiro, coi brividi che gli scuotono le braccia, e sfreccia in avanti, cercando di raggiungerli. Corre e corre finché non impatta contro un muro invisibile… duro, come una finestra.

Lo schermo di un televisore.

Grida, ma non ha voce. Non lo sentono.

No, Peter! implora la voce di May, dappertutto. No, Peter, ti prego!

“May?” chiama Peter, ruotando su se stesso, e la scena attorno a lui rimpicciolisce, diventa distante. Tony e Ben sono due capocchie di spillo adesso, e per quanto Peter corra non può raggiungerli, non può trovare May.

Abbatte i pugni sullo schermo e vede tutti i volti di Capitol che ridono, additandolo.

“Fatemi uscire!” urla. “Fatemi uscire, fatemi uscire!”

 
§

 
Si sveglia di soprassalto, e sussulta per il dolore pulsante alla testa.

“Cristo Santo,” dice la voce di Tony, da qualche parte dietro di lui. “Iniziavo a pensare che non ti saresti mai svegliato. Mi hai spaventato a morte, ero pronto a lanciarti addosso un secchio d’acqua.”

“Oddio,” si lamenta Peter, coprendosi il volto con le mani. “Troppa luce. Troppo… tutto.

“Sì, mi sento già uno schifo,” replica Tony. “E Janet mi odia. Michelle ti ha vegliato per un po’, questo dovrebbe farti sentire meglio.”

“Oddio,” gracchia di nuovo Peter, perché tutta la sua testa sembra avviluppata in una morsa viziosa. “Loro dove sono?”

“Si stanno allenando,” risponde Tony. “Janet l’ha trascinata via da qui.”

“Che ora è?” chiede ancora.

“Le undici di mattina,” risponde lui, e Peter lo sente avvicinarsi. “Abbiamo mancato un’intervista e l’ho rimandata, ma questo pomeriggio c’è quella dannata festa in giardino, quindi dobbiamo liberarci della sbornia prima di subito.”

“Merda,” impreca Peter, ricordando vagamente di averla letta sul programma. Ad essere sincero, gli aveva dato solo un’occhiata, perché lo turbava terribilmente. “È oggi?”

“Già,” conferma Tony, e adesso è proprio accanto a lui, mentre posa quelli che suonano come un piatto e dei bicchieri sul tavolino da caffè. È bizzarro, ma dormire qui sul divano è quanto di più simile ci sia stato a dormire a casa. Tony si sporge verso di lui, gli dà una pacca sul polso e Peter scosta le mani dal volto, fissandolo. “Scusa, scusa,” dice Tony, inclinando la testa con evidente preoccupazione negli occhi. “Sono uno stronzo. Mai più. Niente più alcool per i ragnetti.”

“Non è colpa tua,” replica Peter, emettendo un lamento mentre cerca di alzarsi a sedere. Tony lo aiuta e lui sussulta, sentendosi sul punto di rimettere. “È stato bello.”

“No.”

“È andata bene.”

“No.”

“La vodka è la mia preferita.”

Peter osserva Tony raddrizzarsi e alzare gli occhi al cielo. Ricorda la maggior parte del suo torpore alcolico, e sa che l’ha reso dieci volte più fastidioso, e dieci volte più emotivo. Ha un’ondata di senso di colpa, sapendo quanto sia dura la lotta di Tony contro l’alcool, e sapendo che ha fatto sentire in colpa lui per aver ceduto alla sua richiesta. Il cervello di Peter è in sovraccarico per mille motivi, al punto che non vuole più sapere nulla, e si asciuga gli occhi cercando di rimanere lucido. Tony gli ha portato il piatto della colazione: due muffin ai mirtilli, una banana, e un ottimo tentativo di omelette. Un grosso bicchier d’acqua e due antidolorifici sul bordo del piatto.

“Ehi,” lo chiama Peter, da sopra la spalla. “Smetto di bere se tu smetti di bere.”

Tony si volta, socchiudendo gli occhi.

Peter cambia tattica. Una in cui magari non crede, una a cui il suo mal di testa si oppone, ma la mette comunque in atto. “E intendo dopo i Giochi,” continua. “Quando sarà tutto finito. Non berrò più e… e anche tu non berrai più.”

Tony lo fissa, con gli occhi un po’ lucidi e un sorriso triste e sbilenco che gli affiora sul volto. Torna verso di lui e gli tende la mano. “Affare fatto?” chiede.

Peter gli stringe la mano senza esitare, e l’affare è fatto. Non ha alcun piano per Dopo i Giochi, non si è immaginato il filo della propria vita che continua dopo l’arena, ma ora ha un piano. Il che gli fa pensare al piano.

“Mangia tutto,” lo incita Tony. “Quella mi è venuta piuttosto bene.” Se ne va di nuovo, e Peter lo sente schiarirsi la gola. “Quindi… uh, hai pensato a quel che ti ho detto?” chiede, dando conferma che sono ancora sulla stessa lunghezza d’onda. “Cosa, uh… la cosa. Con Thor.”

Il suo cervello ubriaco si era immerso in quel mondo. Dove aveva detto di sì al piano… e poi aveva riprodotto tutti gli scenari possibili. È morto, in molti di essi. E in alcuni – molto pochi – le cose avevano funzionato. Per quanto possano funzionare delle ribellioni di rinnegati.

Il suo cervello sobrio, però, è inceppato e paralizzato dalla paura. Il mal di testa non aiuta. Tutto gli sembra troppo grande, troppo fuori dal mondo per essere reale. Chi mai potrebbe volere lui come volto di una ribellione? Una ribellione mirata a rovesciare un governo incredibilmente potente, sadico e disposto a fare di tutto per rimanere al comando? Tutti sanno cosa hanno fatto agli albori, come hanno cancellato dall’esistenza il Tredici con le loro stesse armi, e nessuno vuole che accada di nuovo.

Peter capisce la necessità, la volontà di sfuggire allo stivale di Capitol. Vuole farlo, con tutto se stesso – vuole mettere fine a questo, salvare tutti coloro che sono imprigionati nel ruolo di Tributi, vuole rimettere in libertà tutti i Vincitori, vuole dare ai Distretti la pace che meritano. Vuole vivere. Ma diventare il volto della ribellione? Non sa se sarà abbastanza forte. Non vuole deludere nessuno, in nessuno dei numerosi modi in cui potrebbe farlo. E se sarà in quella posizione, se sarà quella persona… May e Ned sarebbero in pericolo. E non può permetterlo. Non loro, non Tony, non MJ o Janet o Sam. Deve essere certo che siano al sicuro.

“Pete.”

“Sì,” risponde lui, riscuotendosi dal panico. “Uh. Non riesco… il mio cervello non riesce a comprenderlo. Non lo so. Non lo so.”

“Sei tu a decidere,” dice Tony, rientrando nella stanza e sedendosi sull’altro divano.

Peter sospira, spostandosi sul pavimento e mettendosi più vicino al tavolino da caffè. Prende un morso di uno dei muffin. “Non mi sembra proprio,” risponde poi. “Se voglio vivere devo… devo stare con loro. Diventare… ciò che vogliono che sia.”

“Potresti… fare le cose normalmente,” propone Tony, senza guardarlo.

Peter scuote la testa. “Non– non ucciderò nessuno. Non di proposito. E non– anche se non fossi coinvolto, non… non li fermerei.”

“Ti recluterebbero comunque,” ribatte Tony. “O ci proverebbero. Ti immagini le ripercussioni, se non lo facessero? Nessuno si schiererebbe con loro.”

“Non riesco a immaginarlo, perché non lo capisco, e non lo capirò mai,” dice Peter, con la bocca piena di muffin.

Tony gli sorride, scuotendo la testa. Si guarda le mani, sembra voler dire qualcosa e poi ci ripensa.

“So che dovremmo dirglielo presto,” riprende Peter, e prende un sorso d’acqua, preparandosi a prendere gli antidolorifici. “Voglio solo… voglio pensare… voglio mettere ordine nella mia testa, oggi. Se… se posso.”

“Certo,” gli accorda Tony.

Peter sospira. Manda giù gli antidolorifici e, anche se c’è silenzio, si perde nel frastuono dei propri pensieri. Prende un boccone dell’omelette e ripensa a come è finito qui – qui, in un posto che non si era mai immaginato ma che era sempre stato in agguato, alla soglia di ogni giorno.

Ripensa a tutto il tempo con Ben, a tutto quello senza di lui, a quanto May fosse sempre sembrata persa, dopo. Si chiede come stia ora, cosa stia facendo, se stia passando del tempo con Ned. Gli manca, gli mancano i suoi abbracci, la forza che gli trasmette anche solo standogli vicino. Cerca di immaginarsela senza di lui, per il resto della sua vita. Sola, sola in quella casa, sola nei suoi pensieri e nei suoi discorsi. E lui verrebbe messo da parte: si dimenticherebbero di lui, delle dichiarazioni d’amore nei suoi confronti, e solo May ricorderebbe. May, Ned, Tony e Janet.

Il cuore gli batte contro le costole, e alza lo sguardo su Tony. “Una volta hai detto che… che hai parlato con May,” comincia. “Al… al Municipio.”

Tony annuisce, sempre senza incontrare i suoi occhi.

“Cosa ti ha, uh– posso immaginarlo, ma, uh… cosa ti ha detto?” chiede Peter, desiderando di poter di nuovo sentire la sua voce. Di poter vedere loro due insieme.

Tony sembra riflettere tra sé, con gli occhi fissi su cose che Peter non può vedere, e poi finalmente lo guarda. “Mi ha detto qualcosa d’importante,” dice. “Mi ha… ricordato qualcosa che è successo molto… molto tempo fa, qualcosa… beh, qualcosa d’importante.”

“Cosa?” chiede Peter, inclinando la testa. “Cosa potrebbe sapere May di te che…”

“Credo che potresti ricordartelo,” dice Tony, congiungendo le mani. “È lì, da qualche parte.”

Peter scuote il capo, senza capire.

Tony sorride appena. “Uh, May… May mi ha ricordato del momento del, uh, del mio Homecoming. Tempo fa. Quando hanno trascinato fuori tutto il Distretto per il Vincitore, per accoglierlo e festeggiare il ritorno a casa del Tributo. Non ne avevamo avuto uno da Janet, e il Distretto era… comprensibilmente, uh, euforico. Ma è stato subito dopo che avevano ucciso i miei genitori, ucciso Pepper, mi avevano fatto vedere– i corpi e io, uh… non ero chi volevano che fossi. Non ero pieno di vita e non mi sbracciavo per festeggiare la vittoria e… e…”

Gli torna in mente. È sgranato, come una vecchia pellicola. “Ero–” trattiene un respiro. “Ero… ero lì. Ero piccolo.”

“Avevi quattro anni,” dice Tony, e il suo sorriso si allarga.

Peter si ricorda. Era lì di fronte alla folla. Vedeva l’uomo – Tony – che chiamavano Iron Man. Non capiva molto, ma aveva capito che gli stavano facendo del male. Aveva capito che l’uomo era triste. Aveva capito che rimaneva in piedi, quando volevano chiaramente gettarlo a terra.

“Ti ricordi?” chiede Tony, sollevando le sopracciglia. “Non ero sicuro che ci saresti riuscito, insomma, io non ricordo nulla di quando avevo quattro anni…”

“Ti ho chiamato eroe,” dice Peter. “Hai detto che non lo eri.”

“Ho sempre pensato che si dovesse essere sinceri coi bambini.”

Peter scuote la testa. “Lo eri. Lo sei.”

Tony distoglie lo sguardo, come se sapesse che contraddirlo non porterebbe da nessuna parte. “Sei stato la prima persona ad abbracciarmi da… da, uh, Rhodey,” rivela Tony. “Hanno tenuto Janet lontana da me fino al treno, e lei sapeva già cosa avessero fatto, quindi ha… si è tenuta a distanza, mi ha dato solo un bacio sulla fronte, ma tu… quel bambino di quattro anni, che non mi conosceva… cavolo, ragazzo, tu… sei tu l’eroe. Mi hai salvato la vita e non lo sapevi nemmeno. Perché se non ci fossi stato tu, se non avessi… creato quel momento, non… non penso che sarei ancora qui. Non penso davvero.”

Peter deglutisce a fatica, con occhi tirati.

“Quindi, May me l’ha ricordato,” dice Tony, alzandosi in piedi come se stesse per uscire dalla stanza. “Perché è una donna intelligente. Tu mi hai riscosso dal torpore allora, e sapeva che… rispolverare quel ricordo avrebbe sortito lo stesso effetto, di nuovo.”

“Sei un eroe, Iron Man.” Peter lo strinse forte, perché forse, se l’avesse fatto, non l’avrebbero ferito di nuovo. Forse, se l’avesse fatto, sarebbe stato al sicuro. Tony. May aveva detto che il suo nome era Tony.
“Bimbo, non sono–”
“Sei un eroe,” ripeté Peter, strizzando con forza gli occhi. Poteva sentire May dietro di lui, vicina, sentiva la voce di Ben, e sapeva che l’avrebbero detto a Mamma e Papà quando sarebbero tornati a casa. Gli salirono le lacrime, e strinse più forte.
Iron Man lo abbracciò.

Si mette di corsa in piedi, facendo tintinnare la forchetta sul tavolino. Raggiunge Tony prima che possa fare un altro passo e si lancia in un abbraccio spaccaossa, uno specchio di quello che hanno condiviso così tanti anni fa. Quel ricordo aleggiava da tempo nei recessi della sua mente, un qualcosa che credeva di aver inventato, e che non riesce a credere sia vero. È vero. È accaduto. Anche Tony lo ricorda. E Peter non sta elaborando con chiarezza tutto ciò che sta succedendo adesso, né quello che ha sottinteso Tony riguardo a ciò che sarebbe successo se lui non fosse stato lì: lo abbraccia e basta, senza lasciarlo andare.

“Sono stato parte di questo orrore fin troppo a lungo,” dice Tony, stringendolo a sua volta. “May… mi ha detto di non deluderti, e non ho intenzione di farlo. Quindi, se non ci piace il piano, ci inventeremo qualcos’altro. Qualcosa che funzionerà.”

“Okay,” esala Peter, aggrappandosi a lui con forza. Per la prima volta, il futuro non lo schiaccia, e il passato non gli strattona il cuore. È nel presente, e sente speranza.

La porta d’ingresso si apre, ma Peter non si stacca.

“Oh, Cristo,” dice la voce di Janet. “Non ditemi che voi due state bevendo di nuovo. Non ditemelo. Svuotare il minibar non vi bastava?”

“No, non stiamo bevendo, questo è… è il doposbornia,” dice Tony, dando delle pacche sulla schiena di Peter. “Abbiamo, uh… abbiamo finito di bere, vero Pete?”

“Vero,” replica Peter. Si scosta da lui, asciugandosi il volto. Vede con la coda dell’occhio Michelle, con la divisa da allenamento addosso, i riccioli che le cadono sugli occhi, e forse pensa un po’ troppo in là nel futuro. Forse ha troppa speranza.

“Venite qui,” dice Tony, facendo loro cenno. “Abbraccio di gruppo. Hammer, anche tu.”

“Oh, wow, davvero?” replica lui, lasciando cadere la sua borsa nell’ingresso. “Non me lo faccio ripetere.”

I tre si avvicinano, e Peter sorride quando MJ assottiglia gli occhi nella sua direzione.

“Questo mi sembra decisamente un comportamento da sbronzi,” osserva, scambiando un’occhiata con Janet.

“Non lo è,” dice Tony, attirando di nuovo a sé Peter e sbuffando quando Hammer gli si appiccica addosso. “A volte gli abbracci di gruppo sono terapeutici.”

“Non sapevo neanche che conoscessi quella parola,” commenta Janet, unendosi a loro.

“Merda, se c’è qualcuno che ha bisogno di terapia, siamo noi,” ribatte Tony. “Capitol dovrebbe provvedere. Renderla accessibile.”

“Come no,” risponde Janet, sporgendosi per posargli un bacio sulla guancia. “Lo è solo per le casalinghe coi capelli blu che sono insoddisfatte per il colore delle loro vesti.”

Peter allunga la mano verso MJ, e lei la prende, cercando chiaramente di non sorridere. Si avvicinano l’uno all’altro; Hammer dà una pacca sulla schiena a Peter, e MJ nasconde il volto nel suo collo, facendo fare capriole al suo stomaco.

“Qualunque cosa succeda, siamo una squadra,” afferma Tony, con un sospiro. “È questo che siamo. Siamo una squadra, dannazione.”

 
§

 
Sam fornisce loro dei vestiti formali, non più così simili a dei costumi come gli outfit degli altri eventi, anche se Peter sfoggia ancora un gilet rosso sotto la giacca. All’inizio quel colore gli aveva fatto paura, gli sembrava un rischio, era l’opposto di come si immaginava in passato, ma adesso gli garantisce una sorta di potenza, un tipo di fiducia in sé che non credeva di poter sentire.

Hammer guida il loro gruppo lungo una strada di ciottoli verso la villa del Presidente. Peter non l’ha mai vista prima: hanno mostrato solo determinate stanza per i tanti appelli di Stane alla nazione, e si sente molto come quando ha visto per la prima volta il Centro Tributi, solo che questa volta la sua rabbia è più viscerale. La villa di Stane è probabilmente più grande dell’intero Distretto Dodici. Ci sono dei diamanti appesi agli alberi di ciliegi in fiore, come addobbi natalizi. Non sono neanche entrati, e tutto è già più che sfarzoso.

Peter scrolla il capo, lanciando un’occhiata a MJ.

“Dovremmo intascarci un paio di quei diamanti,” dice lei, allungando una mano per farne ondeggiare uno col dito. “Scommetto che cinque potrebbero sistemare a vita entrambe le nostre famiglie.”

“Io non proverei a rubare nulla,” dice Hammer, rivolgendo loro uno sguardo. “Un accompagnatore del Quattro l’ha fatto un paio d’anni fa. Gli hanno quasi staccato la schiena a frustate.”

Peter sente la pelle d’oca lungo la spina dorsale, e scuote la testa.

“Raggrupperanno i fan al cancello sul retro, vicino al centro della festa,” continua Hammer. “Chiunque si avvicini per salutare farà bella figura. E ovviamente, voglio che voi due facciate bella figura.”

“Ricordacelo,” dice Peter. Lancia uno sguardo a Tony e Janet, e si chiede se lui l'abbia già informata. La sua ansia si sta amplificando solo a stare così vicino a MJ senza condividere con lei il piano. Se deciderà di metterlo in atto, dovrà essere a bordo anche lei. Non se ne andrà senza di lei.

“Non preoccuparti,” replica Hammer. “Lo farò.”

 
§

 
Quando iniziano a distribuire le bevande, Peter si assicura di prendere qualcosa di analcolico.

Gli interni sono più sontuosi di quanto avesse mai immaginato, più di quanto abbiano mai mostrato loro in TV, e Peter sa, più che mai, che sono in territorio nemico. Questa è la casa di Stane, è a una festa in giardino nella casa del Presidente, e si ferma ogni pochi passi per fare una foto con qualcuno, per essere presentato al figlio di qualcun altro, per ricevere regali che potrebbe o meno avere il permesso di usare per difendersi quando dovrà andare nell’arena a fine mese. È pura follia.

Cerca di estraniarsi da se stesso. Cerca di essere qualcun altro. Cerca di essere il Peter che vedono. Il Peter in cui la gente potrebbe credere. Una versione diversa di se stesso.

Si avvicina a Carol Danvers e dice qualcosa di stupido.

“Conosco il tuo gatto.”

Lei ha in mano una piccola brioche agli spinaci e si ferma a metà morso, sorridendogli. “Credo che la maggior parte della gente lo conosca,” dice, mettendo in bocca il resto della brioche. “Insomma. Parlo di lei abbastanza spesso.”

“No, voglio dire… ho incontrato– sono andato in giro col tuo gatto.” Si schiarisce la gola, guarda fuori dalla finestra, nel roseto. Fuori vede Janet, intenta a parlare con Scott Lang.

“Ah, sì?” chiede Carol. “Mi chiedo sempre dove si vada a cacciare. Va molto in giro.”

“Non avevo mai pensato di poterti incontrare davvero,” dice Peter. “Ma pensavo che fosse buffo che, uh, insomma– mi sentivo forte, se piacevo al gatto di un Vincitore.”

Lei alza un sopracciglio verso di lui. “E guardati ora.”

“Anche a mio fratello piacciono i gatti,” dice Shuri, facendo la sua comparsa accanto alla spalla di Peter. “Anche troppo, mi sa.”

Peter la guarda, e si sente scaldare vicino alla sua indole solare. “Vorrei che fossimo alleati,” dice, senza pensare. “Tu, io, MJ– Michelle.”

Shuri ha un’aria sorpresa, e scambia un’occhiata con Carol.

“Hai… parlato con Tony?”

Peter non sa cosa dire, e deglutisce a forza. Deve imparare a tenere a bada le proprie emozioni, specialmente quando lo spingono a dire cose prima di averle ponderate. “Uh… non ho– non gliel’ho ancora chiesto, ci stavo solo pensando.”

“Certo,” risponde Shuri. “M’Baku e io saremmo lieti di allearci con voi due. Beh, lui non vuole allearsi con nessuno, ma può essere convinto.”

Peter annuisce, lanciando di nuovo uno sguardo all’esterno.

“Io parlo con Tony, va bene?” gli chiede Carol, con occhi gentili.

Peter sa che anche lei ne fa parte. Il suo intero gruppo. Le fa un cenno di rimando, col cuore che gli batte troppo forte nelle orecchie.

Parla con qualche altro ammiratore di Capitol, discute con uno sponsor di nome Mordo riguardo a quello che potrebbe inviargli nell’arena alla prima occasione utile. Mangia troppo, vaga qua e là come un idiota, temendo ogni secondo di trovarsi nel campo visivo di Stane. È nella sua casa, è nella sua casa, deve essere pronto a vederlo dal vivo. Ma il solo pensiero lo riempie di terrore, abbastanza da paralizzarlo, e continua a guardarsi intorno in cerca di Tony o MJ.

“Sembri un po’ perso,” dice Natasha, arrivandogli alle spalle mentre gironzola nella biblioteca. Tiene il bicchiere come fosse un’arma, ma Peter conclude che qualunque cosa, nelle sue mani, potrebbe essere utilizzata come tale.

“Questo posto è così grande e c’è… così tanta gente,” dice Peter. Realizza di avere ancora un uovo ripieno in mano e se lo ficca in bocca, sospirando.

“Oh, non sei mai stato nella villa di un Presidente prima d’ora?” chiede lei, sorridendo. “Clint – mio marito – una volta è stato qui. Per delle ristrutturazioni nell’ala ovest.”

Peter non nasconde la sua sorpresa. “Non… non sapevo che fossi sposata.”

“E perché avresti dovuto?” dice lei, ma non c’è durezza nella sua voce. Si avvicina, si ferma accanto a lui e lascia scorrere brevemente la mano libera sulle rilegature di pelle dei volumi, che sembrano dizionari. “Faceva tiro con l’arco, nelle gare che organizzavano. Aveva un’amica con cui lavorava, si chiamava Kate… è stata mietuta un paio d’anni fa. Non so se ti ricordi.”

“Kate Bishop?” [1]

Natasha annuisce. “L’anno di Kamala.” Punta lo sguardo sulla parete opposta. “Clint non l’ha presa bene, si è fatto del male, non riusciva più a gareggiare. Non è più riuscito neanche a fare ristrutturazioni.” Incontra gli occhi di Peter. “Più di ogni altra cosa, voleva venire con me.”

Peter sa che lei si è offerta volontaria. Sia lei che Steve. Per il piano. Si chiede se suo marito abbia un altro ruolo al suo interno, visto che non ha potuto partecipare ai Giochi. Si chiede se lei sappia che lui sa, se sappia che Tony gliel’ha già detto. Se voglia una risposta. Non possono parlarne qui, non esiste posto più pericoloso in cui parlarne, ma c’è qualcosa nei suoi occhi. Come se fosse abituata a vivere sul filo del rasoio. È sicuro che qua dentro saprebbe cavarsela.

“Mi dispiace,” dice invece.

“Di che stiamo parlando, là all’angoletto?” dice una voce, e Peter alza lo sguardo per vedere Quentin Beck che si avvicina a loro, tenendo un calice di champagne per mano. “Facciamo un po’ di letture leggere? C’è un’ampia scelta. Un’ampia scelta che sono sicuro voi due non abbiate, nei vostri rispettivi distretti.”

“Quentin,” dice Natasha, e adesso c’è una tagliente acutezza nella sua voce, prima assente.

“Natasha,” replica lui, con un ampio ghigno. Guarda Peter da sopra di bordo dei calici, come se lo stesse analizzando. “E il nostro fantastico Spider-Man. Eccolo qui, in tutta la sua ragnesca gloria.”

“Non sono molto ragnesco, al momento,” replica Peter. Non si sente per niente al sicuro, vicino a questo tizio.

“Hai messo su un bello spettacolo,” dice Beck, sempre sorridendo a quel modo. “Fantastico, ti… ti descrive davvero bene, signor Parker. Wow. Non vedo l’ora di vederti in azione nell’arena. Magari ci capiterà qualche distrazione di mezzo, ma credo di poter… credo di poterla ignorare.”

Peter abbassa lo sguardo a terra, sollevando le sopracciglia.

“E lasciamelo dire, ho seguito la carriera di Tony, e tu… beh, tu sei decisamente il tributo degno per lui,” continua Beck. “Non ero così sicuro riguardo a Bucky–”

“Bucky ha quasi vinto,” lo interrompe Natasha, prendendo un sorso dal suo bicchiere.

“Quasi,” sottolinea Beck, alzando entrambi i calici verso di lei. “Ci ho pensato, molto, da quando mi hanno mietuto, ma soprattutto oggi… non è strano, che siamo qui tutti agghindati – a una dannata festa in giardino, tra tutto il possibile – e a fine mese staremo tutti tentando di ammazzarci a vicenda? Perché io lo trovo strano.”

Peter sente una mano sul gomito.

“Già,” dice la voce di Tony, tirandolo via. “Che strano, eh?”

Peter guarda oltre di lui, e nota Steve lì accanto. Li vede scambiarsi un’occhiata, poi Steve prende il suo posto al fianco di Natasha.

“Grazie,” dice Peter, fissando Tony mentre si allontanano. “Quel tipo mi mette a disagio.”

“È uno che dovremo sicuramente tenere d’occhio,” gli accorda Tony. “Steve proverà a capire cosa sta architettando, se lo sta facendo. Spera di portarsi un passo avanti a lui.”

La ragazza dai capelli argentati gli fa un sorriso sardonico da uno dei triclini, e Peter deglutisce a fatica. La gente ride, i bicchieri tintinnano, e lui continua ad avere un terribile presentimento, come se stesse per rovesciarsi qualcosa, come se ci fosse un prurito che non può grattare, qualcosa che lo strattona. Qualcosa che sta per andare storto.

“Scusa se ti ho lasciato da solo,” dice Tony. “Questo evento è sempre una buona occasione per mettersi in mostra e sapere cosa dicono gli altri. Sto cercando di elaborare i dettagli di ciò che abbiamo discusso.”

“Ho chiesto a Shuri di allearsi con me e MJ,” dice Peter, girandosi verso di lui mentre fanno slalom attorno al tavolo del buffet, dove la donna dall’aria terrificante del Due sta dominando la scena con alcuni sponsor.

“Va benissimo,” dice Tony, con un cenno. “Sarebbe probabilmente successo in ogni caso.” Si schiarisce la gola, e due uomini in completo nero aprono per loro le porte a vetri che li condurranno al cancello sul retro.

“È ora di andare a, uh, incontrare i…” Non ama la parola ammiratori, perché gli sembra fasulla, perché non lo conoscono, non per davvero.

“Sì, Hammer stava pure bussando alla finestra per farmi andare a recuperarti, maledizione,” dice Tony, scuotendo la testa mentre avanzano sul prato. “Gli concediamo solo un paio di minuti, puoi autografare qualcosa, rispondere a un paio di – speriamo – innocue domande, e poi rientriamo per mangiare. Ci butteranno tutti fuori di qui tra un’ora, poi hai la giornata libera.”

“Okay,” dice Peter. Guarda alla sua destra, dove si erge una lunga cancellata, e vede una folla di gente premuta contro di essa, tutti nei loro colori festosi, più brillanti del sole nel cielo. Il centro della recinzione è aperto, con solo un cordone di velluto rosso a trattenerli dal fare irruzione all’interno. E due Pacificatori, ovviamente. Per mantenere la pace. Ci sono tre o quattro telecamere sospese a mezz’aria a poca distanza, posizionate in modo da catturare un altro momento degno di Spider-Man.

Quando lo vede, la folla inizia a urlare, a salutarlo, a festeggiare, a gridare domande, e tutto ciò gli causa ancora un buco allo stomaco. Vede che Hammer è già lì, intento a sorridere fiero e a sbracciarsi, presentando l’imminente arrivo di Peter.

Sente di nuovo quel prurito, e lancia uno sguardo verso Tony, assottigliando gli occhi.

“Solo un paio di minuti,” lo rassicura lui, annuendo. “Promesso.”

Peter annuisce di rimando, lasciando andare un respiro, e cammina rapido giù dalla collinetta, presentandosi alla folla festante.

Va tutto bene per circa dieci secondi, poi il mondo rallenta di nuovo, proprio come pochi istanti prima di incontrare Harley Keener. Dita che si agitano, capelli viola mossi dal vento, bocche curvate attorno al suo nome; Peter guarda alla sua destra quando vede il poster ergersi in aria. Questo è più piccolo di quello originale che gli avevano dato, chiaramente introdotto di nascosto oltre i controlli all’interno di una giacca o un cappotto, ma abbastanza grande da far vedere il suo messaggio.

SPIDER-MAN E IRON MAN COMBATTONO PER VOI.

Subito dopo che Peter l’ha visto, lo vede anche il Pacificatore più vicino.

La donna che lo tiene in mano è a ridosso del cordone di velluto, e il Pacificatore è più vicino di Peter. Abbastanza vicino da allungarsi e assestarle un manrovescio, spedendola all’indietro nella folla.

Il mondo riprende a girare e il Pacificatore le dà un pugno quando lei non cade a terra, facendola accasciare ai suoi piedi.

“No!” grida Peter, svicolando dalla presa di Tony. Vedo rosso, sente il cuore che precipita.

Hammer è proprio lì accanto, e si fa avanti scuotendo la testa. “Ehi, suvvia, non–”

Il Pacificatore si volta e colpisce anche lui, e Peter non frena il proprio slancio in avanti, non pensa, non respira, vede solo la ragazza a terra, gli altri che indietreggiano impauriti, Hammer che si tiene la faccia. Peter si scaglia contro il Pacificatore, allontanandolo di peso e sferrandogli un pugno sulla gola.

L’uomo barcolla all’indietro, chiaramente colto di sorpresa, e Peter coglie l’attimo per assestargli anche un pugno nello stomaco, sapendo che mirare al casco non sortirà alcun effetto, se non sbucciarsi le nocche. Il volto di May gli balena in testa, di Ned, di Ben, le baracche del Dodici e l’opulenza di Capitol. Morte, i Giochi, e tutte le loro bugie. Non respira, non respira. Il suo udito va e viene, strilla, singhiozza, si interrompe e riprende come con delle interferenze, e sta caricando la mano per un altro pugno quando sente Tony che grida il suo nome.

“Peter!” grida di nuovo, e Peter si gira di scatto, vede il secondo Pacificatore col fucile puntato contro la schiena di Tony. Lui ha le mani in alto, gli chiede scusa con gli occhi, e Peter sente il calcio di un altro fucile in mezzo alla schiena.

“Muovetevi, voi due,” dice il Pacificatore che tiene sotto tiro Tony. “Dentro.”

Tutta la furia e la forza che Peter ha sentito fino a un istante fa scemano, e una scossa di paura lo attraversa.

 
§

 
Li portano al piano superiore, li spingono in un ufficio e chiudono a chiave la porta. Non appena sono soli, Tony si volta verso il ragazzo per provare a confortarlo e farlo calmare, ma Peter inizia a balbettare prima ancora che lui riesca a muoversi.

“Mi d– dispiace,” dice, tremando, contorcendosi sulla sua sedia per fissarlo in volto. “Mi dispiace tantissimo,” continua. “Non– non stavo pensando, ho– perso il controllo, ho– ho perso–”

“È tutto a posto,” lo ferma Tony, mettendogli un braccio sulle spalle. “Va tutto bene, va tutto bene–”

“Non va bene, non va bene,” replica Peter, torcendosi in grembo le mani. “Ho preso a pugni un Pacificatore, due volte, due volte–”

“Io l’ho fatto,” dice Tony, strizzandogli la spalla e passandogli più volte la mano sul braccio, un tentativo di fare quello che faceva sua madre quando lui era più giovane. “Thor l’ha fatto, Carol l’ha fatto di certo…”

Peter si copre gli occhi, risucchiando un respiro. “Non mentre erano Tributi,” ribatte.

“Carol l’ha sicuramente fatto quando era un Tributo,” dice Tony, senza sapere se sia vero o meno. In realtà, dentro di sé, sta andando nel panico anche lui, e se il ragazzo non fosse qui avrebbe probabilmente già vomitato. Ma il ragazzo è qui, ed è la priorità. Non vuole fargli dare di matto più di quanto non stia già facendo. “Rilassati, e basta. Probabilmente ci daranno solo… un avvertimento. Magari cancelleranno la prossima cena pubblica, o qualcosa del genere.” Passa di nuovo la mano sul braccio di Peter, stringendolo un po’ di più a sé. “Non credo che apprezzeranno l’immagine dei Pacificatori che vanno in giro a picchiare un cittadino di Capitol… anzi, due cittadini di Capitol, contando Hammer. Quindi probabilmente è il tipo di situazione in cui… una cosa compensa l’altra.”

Peter ha ancora la faccia affondata tra le mani, e scuote la testa.

“Sono fiero di te,” mormora Tony, arruffandogli i capelli. “Davvero.” Tony è stato a un passo così dall’unirsi a lui, solo che aveva sentito nelle orecchie la voce di Janet quando aveva menzionato il tubo. Quello che aveva detto, riguardo a Peter che avrebbe dovuto guardarlo morire. Non potrebbe mai permettere che accada.

Ricorda quella volta in cui lui stesso si è trovato al piano superiore di questa casa, dopo i Giochi. I suoi discorsi coi superiori, il tempo trascorso con Stane in persona. Era stato dopo Pepper, dopo i suoi genitori, e la sua rabbia, la sua disperazione l’avevano reso folle.

Si chiede se credano di averlo reso docile, dopo tutti questi anni.

Riesce ancora a sentire la risata di Stane.

“Mi chiedo se MJ lo sappia,” dice Peter, alzando la testa per incontrare i suoi occhi. “Tu che dici? Lei e Janet lo sanno?”

“Janet sta probabilmente facendo il diavolo a quattro là sotto proprio in questo momento, sì,” dice Tony. “Andrà bene. Andrà bene, vogliono solo dare spettacolo, spaventarci, rimetterci in riga. Andrà tutto bene. Non ci succederà nulla. Gli servi, ragazzino, ricordatelo. Per le loro cazzate, e non possono rimpiazzarti. Soprattutto visto quanto tutti ti amano. È una questione di faccia, di consenso.”

Il volto di Peter cambia, ed è come se vi si insinui altra paura. “E tu?” chiede. “Non– non possono farti niente, vero? Vero?”

Tony non lo sa. Non può esattamente dire che la sua posizione sia salda e protetta, ma di sicuro non uccidono Vincitori come se nulla fosse. È una soluzione estrema.

“No,” risponde, cercando di non lasciar incrinare la propria voce. “No, staremo… staremo entrambi bene, ragazzino. Cerca solo… di rilassarti.”

 
§

 
Li fanno aspettare. Aspettano e aspettano e aspettano per quella che sembra un’infinità. Non ci sono finestre in questa stanza, quindi non possono stimare che ora sia, né se gli altri siano ancora qui. Tony non può fare a meno di innervosirsi, ma mantiene la propria attenzione su Peter e il suo benessere. Riflette su quale potrebbe essere lo scenario peggiore: una schiera di fucili, un plotone d’esecuzione, qualunque cosa possa mettere Peter in immediato pericolo. Cerca di formulare un piano per farli uscire di lì, in caso. In caso si arrivi a quel punto.

Mentre lo sta architettando, la porta di fronte a loro si apre da sola.

Se ne stanno seduti lì, a fissarla, finché Tony non sente una voce familiare.

“Beh, entrate!” dice Obadiah Stane.

Oh, cazzo.

Tony cerca di mantenersi saldo, di mostrarsi forte, perché stanno evidentemente mettendo in atto la tattica di intimidazione suprema facendoli apparire di fronte al cazzo di Presidente in persona.

“Okay,” sussurra Tony, tirando in piedi Peter. “Fammi… fa’ parlare me, chiaro? Va tutto bene. Andrà tutto bene.”

Peter lo fissa per pochi, agonizzanti secondi, poi contrae la mascella, annuendo, ancora tremante. Tony si mette in testa, posizionando Peter dietro di sé, ed entrano nella stanza adiacente.

Non è la normale sala riunioni di Stane, dove Tony l’ha incontrato anni fa. Ma è egualmente bianca, egualmente asettica, con una scrivania nera in fondo alla stanza, e l’uomo in persona vi siede dietro. C’è una finestra su ogni parete, e delle sfumature rosa filtrano all’interno preannunciando il tramonto. È più tardi di quanto si aspettasse.

Cerca di non immaginarsi mentre si lancia dalla finestra insieme a Peter. Cerca di non pensare a quel modo. Sarà solo un rapido rimprovero intimidatorio. Niente di più. Tutto qua. Dentro e fuori.

“Tony Stark e Peter Parker,“ dice Stane, ghignando. “Una sorta di mitici Butch e Sundance [2]. Oh, dubito che voi due sappiate chi siano. Un altro mondo, un’altra vita, ma sono i privilegi di essere al comando, no? Io posso ricordare. Come fosse il mondo prima di tutto questo. Prima della nostra meravigliosa Panem. La nostra macchina ben oliata!”

Tony vuole disperatamente farla finita con questa sceneggiata. Peter è quasi direttamente dietro di lui, ma vede gli occhi di Stane che lo cercano. “Signore–” comincia.

Stane si schiarisce la gola rumorosamente, troncandolo, e si alza in piedi. “Non c’è bisogno, Tony,” dice, aggirando il lato sinistro della scrivania e avvicinandosi. “Ho visto cosa è successo là fuori, Peter. Che momento, che bella dimostrazione.” Sogghigna, scoprendo quei suoi denti gialli, e quasi si distorce in un ringhio. “So che ci offrirai davvero un bello spettacolo, ragazzo. Ma, non cominciare prima di cominciare, eh? Il mondo dello spettacolo funziona così. Non mettere in mostra ciò che hai, o gli altri ne sapranno troppo. Conosceranno te, e avranno tempo di prevedere le tue mosse. Va a tuo svantaggio.” Pronuncia l’ultima frase come se quella fosse una lezione, e ha anche il coraggio di schioccare due volte la lingua con fare di sufficienza.

“Presidente Stane,” prova di nuovo Tony. “È stato un errore spontaneo. Peter… beh, Peter è un gentiluomo, e vedere quel Pacificatore che picchiava una donna, l’ha– l’ha preso per il verso sbagliato.”

Stane annuisce, e incombe più vicino. “Sì, è stato di cattivo gusto, a prescindere da qualunque merce di contrabbando avesse in mano. Ogni tanto hanno il grilletto facile. Diventano troppo risoluti, si… lasciano trascinare. Giusto, Peter? È corretto?”

Tony sbircia sopra la propria spalla, vede il ragazzo che deglutisce a fatica, annuendo.

“Sì, signore,” risponde.

Stane lo fissa, sorridendo di nuovo. L’aria nella stanza sembra rarefatta, e Tony detesta il fatto che Stane sia più alto di entrambi. “Peter,” riprende Stane. “Sai che conoscevo i tuoi genitori?”

Tony sente il respiro che gli si ferma in gola.

“Uh,” replica Peter, con voce tremante. “Li… conosceva?”

“Esatto,” dice Stane, facendo scattare brevemente gli occhi in direzione di Tony per assicurarsi che stia ascoltando. Riprende a camminare avanti e indietro. “Li abbiamo reclutati subito dopo il liceo, prima che tu fossi anche solo un pensiero nelle loro teste. Beh, non molto prima. Ma quei due non si lasciavano fermare. Erano intelligenti, come te. Mi è evidente da chi tu abbia preso.” Incontra di nuovo gli occhi di Peter, e Tony sente salire la nausea. “Riuscivano a fare di tutto, Peter. Erano… pionieri del loro tempo. Hai visto le loro creazioni e non lo sai nemmeno! Quel cane mutante che ha fatto a pezzi la signorina Darcy? Quello è stata un’idea di tua madre. E le api che paralizzano con una puntura? Quello è stato il tuo caro vecchio papà. Oh, e la pioggia acida, che ha asfissiato Danny Rand fino all’ultimo respiro? Loro due, insieme. Buon Dio, erano una bella squadra. Mai una cattiva idea, Mai una cattiva esecuzione.”

Tony sente il respiro di Peter, ma ha troppa paura di voltarsi a guardarlo. Però si avvicina a lui di un passo. Qualunque cosa possa offrirgli supporto, con questo maledetto stronzo del cazzo che gli scarica addosso le notizie peggiori che possano esistere.

“Cosa?” esala Peter, suonando piccolo, un bambino.

“Oh, sì,” replica Stane. “Erano i miei scienziati di punta e, mio Dio, se non hanno inventato cose macabre per i Giochi. È stato sempre peggio, sempre più, di anno in anno. Non mi hanno mai deluso. Erano speciali, Peter. I Giochi non sarebbero quello che sono, senza di loro. Ma sai qual è la parte migliore?”

Aspetta, anche se non ottiene risposta. Tony vede delle macchie davanti agli occhi e sente che le sue gambe stanno per cedere.

“La parte migliore,” si risponde Stane, “è che hanno odiato farlo, ogni singolo momento. No, non erano loro i cattivi, come stai pensando tu. Dovevamo ricattarli costantemente, sempre, sempre. Sapevamo della tua esistenza, ovviamente, ma ti hanno tenuto nascosto, a distanza. Cavoli, non ho pensato a te per anni… finché non ho ricevuto una piacevole sorpresa alla Mietitura. Tornavano a casa solo di rado, il che giustifica, ne sono sicuro, il fatto che tu ne abbia ricordi molto vaghi. Pochi e distanziati. Il che è piuttosto triste, mi scuso per aver monopolizzato così tanto il loro tempo.”

“Signore,” dice di nuovo Tony, con la voce che traballa.

“Ma immagino che tutto ciò abbia influito su di loro,” lo ignora Stane, fermandosi di nuovo e guardandosi i piedi. “Perché hanno partorito un piano idiota, un… ridicolo tentato assassinio del mio Vicepresidente dell’epoca. Ti ricordi Schmidt [3], Tony? Non era tra i miei preferiti, quindi mi avrebbero fatto un favore, se avessero saputo nascondere meglio le loro mosse. Ricordi l’ultimo bacio che ti diede tua madre, Peter? Prima che uccidessimo lei e tuo padre?”

Tony si porta avanti di fronte a Peter, allunga un braccio all’indietro e trova la sua mano. Cerca di farla smettere di tremare.

Stane schiocca di nuovo la lingua con sufficienza. “Che peccato,” dice. “Un vero peccato. Vorrei poter dire che è stato rapido ma… beh, sembrava poetico ritorcergli contro il loro stesso lavoro. E sai cos’è meraviglioso?” chiede, alzando lo sguardo, in cerca di un’altra risposta che non arriverà. “Che ancora usiamo le loro creazioni, i loro progetti, tutto ciò che hanno abbozzato. Ci ricamiamo sopra, certo, ma la base è tutta loro. E, insomma, tutta questa faccenda di Spider-Man. È stupenda, perché abbiamo qualche mostruosità molto, molto letale che ha a che fare coi ragni, e che muore dalla voglia di conoscerti, Peter. Omaggio di Mamma e Papà. A proposito di poetico.”

Tony è a tanto così dallo scagliarsi addosso a lui. È a tanto così dallo strappargli la faccia da quella sua testa scheletrica. Stai calmo, si rammenta. Per Peter.

“Mi accerterò che le vostre strade si incrocino,” dice Stane con un cenno del capo, come se fosse a un incontro d’affari. Ghigna verso Peter, inclinando la testa. “Mi accerterò che sia lento, drammatico, doloroso. Come essere scorticato vivo. Sarà un ottimo spettacolo per la televisione, non credi, Tony? Tu lo sai meglio di chiunque altro, vero? Perdere lui sarà dura, e farà male. Mi assicurerò che faccia molto male, a entrambi.”

Ed è a quel punto che la parete dietro la sua scrivania si apre, rivelando degli scaffali e delle cose che Tony non riesce subito a collocare, da dietro il suo orrore e la sua rabbia.

Ma poi–

L’orologio da tasca di Hank.

La giacca e le forcine di Hope.

Il tutore di Rhodey.

Tony vede vestiti sporchi, armi. Gioielli, regali degli sponsor. Nei barattoli dita, bulbi oculari, piedi, capelli, denti. Una lingua.

Vede il braccio meccanico di Bucky.

Tony fa un paio di passi indietro non per sua volontà, stritolando la mano di Peter e sentendolo trattenere il fiato, smorzando un singhiozzo. Tony sente il proprio cuore precipitare, saltare dei battiti, e, cazzo, devono uscire di qui, devono uscire, devono uscire.

“Oh, amo conservare i miei piccoli souvenir,” dice Stane, ancora sorridente, avvicinandosi, e Tony continua a spingere Peter dietro di sé. “Per quei Tributi che… si sono distinti particolarmente. Penso che tu veda qualche oggetto familiare, giusto, Tony? Bucky era fra i migliori, vero? Non era forse speciale?” Stane è fin troppo vicino adesso, e Tony non vuole schiacciare Peter contro il muro, ma allo stesso tempo vuole tenerlo a distanza, vuole fuggire. Stane continua a fissarlo, e si rivolge verso di lui. “Anche tu sei molto speciale, Peter.”

“Stane,” dice Tony, tra i denti digrignati, sputando veleno. “Sta’ lontano da lui.”

Stane torna a incontrare i suoi occhi. “Quando sarà morto, avrò la sua testa, Tony. La taglierò personalmente dal suo corpo. La terrò qui, con tutto il resto. Avrai il permesso di venire a farle visita, Tony. Avrai il permesso di guardarla marcire.”

Tony sta tremando. Non riesce a sentire chiaramente, è straripante di furia violenta, fuori controllo, e sente la mano di Peter che torce il retro della sua giacca, sente la paura che si irradia da lui.

“Potete andare,” dice Stane. “C’è un’auto che vi aspetta al Circolo per riportarvi al Centro Tributi. Felici Hunger Games, signor Parker. Li aspetterò con molta impazienza.”

Tony gira sui tacchi, mantenendo la presa sulla mano di Peter e trascinandolo fuori più rapidamente che può. Quando escono dalla stanza Peter quasi si accascia su se stesso, con passi irregolari, il respiro spezzato, e Tony lo fa affrettare giù per le scale, oltre i Pacificatori, oltre opere d’arte senza prezzo e antichi arazzi. Ha l’urgente bisogno di vomitare, ma deve portare Peter fuori di qui, cazzo, e si rimangia le sue stesse lacrime, il suo stesso terrore mentre escono di corsa dalla porta principale.

“Tony,” singhiozza Peter, soffocando un singulto una volta scesi dalla scalinata, percorrendo velocemente un viale alberato. “Tony, non– oddio, non puoi lasciarglielo fare. Tony, Dio, ti prego, no, non farglielo fare, ti prego, ti prego–”

“Non lo farà,” dice Tony, con la vista che si appanna mentre stringe il ragazzo, tentando di non pensare a cosa abbia detto Stane, a tutte quelle cazzo di cose orripilanti che ha detto…

Ma Peter sta avendo un collasso, si aggrappa alla sua giacca, coi piedi che quasi si accartocciano sotto di lui. “Non puoi lasciarglielo fare,” piange, gettandogli le braccia attorno al busto e facendoli fermare sull’acciottolato. “Ti prego, ti prego, ti prego–”

“Non glielo permetterò,” risponde Tony, stringendolo forte, col cuore che perde troppi colpi. “Mai e poi mai, okay? Mai, Peter.” Lo culla avanti e indietro, cogliendo la sagoma dell’auto in lontananza, sulla strada, che li aspetta. “Sono qui. Shh. Non ti farà nulla, ragazzo, non ti farà nulla.”

Tony aspetta che si tranquillizzi, si concede anche lui di piangere, perché questa è disperazione, questo è il fondo, questo è essere in trappola. Non si è mai sentito così prima, non così. L’avevano colto di sorpresa con Pepper, ma adesso Stane sta pianificando tutto attivamente. Ha fatto in modo che lui lo sapesse. Gli ha detto tutto, gli ha fatto vedere– la follia malata dell’uomo che li governa, tutte quelle cose, quelle cose, e Tony pensa al posto vuoto sullo scaffale, in cima, e sa che Stane l’ha lasciato vuoto apposta, così che potesse immaginarselo, potesse vederlo, l’orrore futuro che ha descritto in ogni macabro dettaglio, e abbraccia Peter più forte.

Non può permetterlo. Non può accadere.

“Andiamo,” sussurra Tony, ritraendosi e scostando le ciocche dalla fronte sudata di Peter. Gli asciuga anche le lacrime, lascia un braccio rassicurante sulle sue spalle. “Su, andiamocene da questo cazzo di posto.”

 
§

 
Peter non è se stesso durante il viaggio di ritorno, e Tony non lo biasima. Se ne sta seduto lì, con lo sguardo fisso, spalmato contro il suo fianco come se avesse paura di stare troppo lontano da lui, ed è questo che voleva Stane. Spezzarlo, infondergli paura, renderlo docile e riempirlo d’orrore. Peter sa tutto sui suoi genitori, adesso. Tutto, più di quanto Tony abbia trovato quella notte. Tony non sa se sia meglio o peggio.

Si sente come se stesse cercando di proteggere qualcuno che già se n’è andato. Cerca di schiacciare quel pensiero non appena fa il suo ingresso nella sua testa. Peter non appartiene a loro. Non appartiene a nessuno. Appartiene a se stesso, e riuscirà a fuggire. Riuscirà a vivere, vivrà, se la cosa dipende da Tony. E sì, la cosa dipende da lui.

Accostano lungo il Centro Tributi, e la portiera posteriore si sblocca.

Tony scivola di lato per uscire, ma Peter non si muove, fissa un punto di fronte a lui. “Su, ragazzo,” lo riscuote Tony.

Peter ritorna in sé, mettendolo a fuoco, e fa un cenno col capo, seguendolo rapido.

Camminano a passi veloci verso l’ascensore, e quando le porte si chiudono Peter si schiarisce la gola. Sembra che stia cercando di mantenersi diritto. Di essere forte.

“Se succederà,” dice, suonando come un estraneo. “Vorrei solo… spero solo… spero che sia rapido.”

Tony scuote la testa, con veemenza. “Non accadrà,” dice. “Che ti ho detto?”

Gli occhi di Peter sono cerchiati di rosso, e lo guarda come se fosse un idiota. “È Stane, Tony. Se mi vuole morto, sono morto.”

“Non m’importa cosa vuole,” ribatte Tony. “Non accadrà. Non ha il diritto di vincere. Non ha il diritto di continuare ad essere uno stronzo sadico, non– non ha il diritto di–” Gli si costringe la gola e non riesce a completare la frase mentre lo immagina di nuovo, immagina ciò che gli ha detto, quello che ha già, quello che ha detto che si prenderà.

L’ascensore si ferma e le porte si aprono, e Tony si asciuga gli occhi. “Andiamo,” dice.

Coprono i pochi passi fino alla loro porta d’ingresso, e Tony la sblocca. Si sente a un soffio da un completo collasso, come quelli che aveva all’inizio, quando c’erano solo lui e Janet, quando riusciva a malapena a respirare senza cadere a pezzi.

Chiude la porta dietro Peter e alza lo sguardo, vedendo Thor, Steve e Natasha seduto al tavolo in soggiorno con Janet e Michelle.

Ha ancora la voce di Stane nelle orecchie.

Avrai il permesso di guardarla marcire.

Avverte l’ultimo brandello di sanità mentale triturarsi in polvere sottile e rimane in piedi, più determinato di quanto non sia mai stato in vita sua.

“Tony,” lo chiama Janet, alzandosi in piedi.

Michelle ha già attraversato di corsa la stanza, lanciandosi tra le braccia di Peter.

“Thor,” dice Tony, con voce tremante. “Gliel’hai detto?”

“Sì,” annuisce Thor. “Cosa è–”

“Ci stiamo,” replica Tony. “Lo facciamo. Siamo parte del piano.” Risucchia un respiro, guardandosi attorno, annuendo. “Stane ha chiuso. Non ci riuscirà di nuovo, non mi porterà via nessun altro.” Gli gira la testa, ma taglia l’aria con la mano in un gesto secco, scuotendola. “Quello stronzo ci ha parlato in privato. Già. Aveva delle cose molto particolari da dirci, delle– cose molto particolari da mostrarci e – io– non ci sto più. Non un’altra volta, non un altro anno. Lo dico sempre, ma ci siamo, questa è l’ultima goccia, quello stronzo malato… ce l’ha fatta. Se possibile, ha varcato una sorta di… linea invisibile. Ci stiamo, e loro fuggiranno. Saranno liberi, e basta. Deve funzionare, punto e basta.” Gli traballa l’occhio e se lo sfrega, cercando di farlo smettere.

“Va bene,” dice Thor, guardando Natasha con le sopracciglia aggrottate. “Uh–”

“Tony,” dice Steve, alzandosi dal suo posto. “Stai bene?”

“No,” risponde Janet, coprendo la distanza che la separa da lui. “No, non sta bene.”

“Già, no,” dice Tony, lanciando un’occhiata a Peter, che si stacca da Michelle fissandolo preoccupato. Avrai il permesso di farle visita, Tony. Avrai il permesso di guardarla marcire. “No, non sto bene.”

“Tony?” chiede Peter, avvicinandosi a lui.

Tony fa un passo esitante, ondeggiando, e tutto si fa buio mentre crolla a terra.



 
*

 
 Tradotto da: ever in your favor: watch it rot, di iron_spider da _Lightning_

 
Note:

[1] La nuova Occhio di Falco nei Giovani Vendicatori.
[2] Butch Cassidy e The Sundance Kid, storica coppia di rapinatori del Far West resa iconica dai western di Hollywood.
[3] Johann Schmidt, ovvero Teschio Rosso.
NB. Il titolo originale era watch it rot, letteralmente "guardalo-a marcire", ma in italiano suonava piuttosto male, tanto che ho rielaborato anche le sezioni in cui la frase viene pronunciata da Stane.

Note della traduttrice:

Cari Lettori,
questo è uno dei capitoli per i quali la traduzione mi ha richiesto più tempo in assoluto, non tanto per la difficoltà in sé, quanto per il voler rendere al meglio quella scena... che spero abbia sconvolto voi quanto ha sconvolto me la prima volta che l'ho letta ;)

Ringrazio tantissimo Eevaa e Paola Malfoy per aver recensito lo scorso capitolo, e T612 per aver commentato quelli precedenti, oltre a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3
A presto col prossimo capitolo,

-Light-
 

 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'inizio della fine ***


Capitolo 8: L’inizio della fine
 
 



“Là in fondo al prato, c’è un salice ombroso, un manto d’erba che culla il riposo. Poggia il tuo capo e chiudi gli occhi, al tuo risveglio, il sole…” [1]

Tony si sveglia sentendo un canto. Non ricorda quali immagini lo abbiano afferrato nell’incoscienza, ma può supporlo, e non vuol provare a richiamarle. Emette un lamento, realizza di essere nel proprio letto e si gira, vedendo Peter seduto a gambe incrociate accanto a lui.

“Qui è dove…” Peter continua a cantare, ma si ferma, spalancando gli occhi. “Tony, stai bene? Sei sveglio… Dio sei… caduto di schianto.”

“Scusa,” dice Tony, sollevando una mano per pizzicarsi la radice del naso. “Ho solo… avuto un momento melodrammatico. Fa parte del lavoro. Cos’era, uh… cos’era quella canzone?”

“Oh,” dice Peter, col palmo premuto sulla nuca. “Uh, una canzone che mi cantava May. Quando stavo male.”

Tony si sente scaldare il cuore e al contempo orribile, perché il ragazzo è… semplicemente, lui. Con tutto quello che ha passato, e che passerà, con tutto quello che quel maledetto di Stane gli ha detto, abbastanza da contaminare i suoi incubi per sempre, Peter è qui. Seduto al suo fianco dopo un suo imbarazzante svenimento coi fiocchi. Peter è seduto qui e si preoccupa di confortarlo. Peter è seduto qui e canta.

Tony allunga una mano verso di lui, stringendogli il braccio con silenziosa gratitudine.

“È sveglio?” chiede la voce di Janet, dall’altra stanza, e Tony sente anche il trambusto degli altri.

“Sì,” esclama Peter, guardando la porta. Incontra di nuovo gli occhi di Tony. “Sono passati solo dieci minuti.”

“Oh, bene,” dice Tony. “Meglio dell’ultima volta.”

“Ancora due minuti e avremmo dovuto chiamare qualcuno,” dice Janet, mentre l’intero gruppo entra nella stanza. “Non avrei saputo come ficcare questi tre in un armadio, perché non dovrebbero essere qui.”

Tony si alza a sedere, sentendosi un invalido, e Peter lo aiuta a poggiarsi contro i cuscini.

“Li abbiamo visti mentre vi trascinavano via,” dice Steve, prendendo una sedia e accomodandosi accanto a lui, chinandosi poi con gli avambracci sulle gambe. “Abbiamo cercato di seguirvi, ma ci hanno sbarrato la strada…”

“Ho ancora mal di gola per quanto ho gridato,” dice Janet. “Non ci avete sentiti?”

“Non abbiamo sentito proprio nulla,” dice Tony, osservando Michelle che si sposta per sedersi accanto a Peter, dall’altro lato del letto. “Sono abbastanza sicuro che i piani superiori di quel posto siano completamente insonorizzati. Non c’erano neanche delle finestre, nella stanza in cui ci hanno portati.”

“Gliel’ho raccontato,” dice Peter, piano. “Tutto, uh. Tutto quello che ha detto.”

Tony sente la pelle d’oca risalirgli le braccia e lo guarda, con l’occhio che si contrae appena. “Tutto quanto?” chiede.

Peter annuisce gravemente.

A Tony non piace l’idea del ragazzo che ripete quella minaccia finale ad alta voce, e non vuole che ci rimugini su neanche per un secondo, non vuole che abbia quella paura nei recessi della sua mente. A lui ha fatto effetto, e ne è consapevole. Lo perseguita già ora, ha piantato radici nella sua mente, ma non vuole che a Peter accada lo stesso. Devono già preoccuparsi dei ragni, ora. E dell’intera faccenda dei suoi genitori. Ma quel commento finale… Tony non vuole che ci pensi. Non vuole che nessuno di loro ne faccia di nuovo menzione in sua presenza.

“Rogers,” dice, cercando un contatto visivo con Steve. “Adesso capisci perché ci stiamo.” Deglutisce con forza, rivolgendo un’altra occhiata a Peter. “E non te l’ho chiesto, Pete, prima di… fare irruzione qui sbandierando dichiarazioni per poi svenire sul momento così che nessuno potesse chiedermi nulla, e mi dispiace, ma…”

“No, voglio farlo,” dice Peter. “Soprattutto ora. Ne… ne ho bisogno.”

Tony fa un cenno tra sé, guardando di nuovo Steve. Natasha e Thor sono in piedi dietro di lui, e Steve sospira.

“Quindi, i dettagli,” dice Tony. “Fornitemi tutti i dettagli che avete. Chi gestirà le cose nell’arena? Voi due? Uno dei due? Uno si occupa di Peter e uno di Michelle? Chi altri, chi–”

“Lasciali parlare, Tony,” dice Janet. Sospira, sedendosi sulla sponda del letto, accanto ai suoi piedi. “Avevano appena iniziato, quando sei arrivato tu.”

“Sfortunatamente,” comincia Steve, rivolgendo uno sguardo a Thor, “non ci sono così tanti dettagli, specialmente da parte nostra.”

“Meraviglioso,” commenta Tony, passandosi una mano tra i capelli. “Andiamo alla cieca, come al solito.”

“Tony,” lo richiama Janet, dandogli uno scappellotto sul ginocchio. “Suvvia.”

“Okay, andate avanti, prima che svenga di nuovo,” concede Tony.

“Come ha detto lui, abbiamo solo un paio di dettagli scelti riguardo all’arena,” dice Thor, cominciando a camminare avanti e indietro. “Come osservavi l’altra volta, Bruce non è in grado di condividere quel tipo di informazioni senza mettere a rischio noi e l’intera ribellione. Non puoi comportarti come se già sapessi cosa aspettarti, o ti fanno semplicemente fuori e tanti saluti. Stane ha dato di nuovo prova di essere spietato. E una volta nell’arena non avranno alcun interesse a risparmiarti. È il solo motivo per cui ti hanno preservato finora.”

Tony sospira, cercando di non guardare Peter.

“Non c’è nessuno di specifico al comando,” dice Thor. “Lavoreranno tutti insieme. Saranno loro quattro, qui dentro, poi Shuri, M’Baku e i Tributi di Strange: Scott Lang e Sharon Carter. Luke sta ancora cercando di convincere i propri Tributi, ma agiremo come se dovessimo portarli fuori. Gli unici di cui non possiamo fidarci sono l’Uno e il Due. Tutti gli altri sono a conoscenza di quale sia la posta in gioco finale. E tutti sanno di dover proteggere Peter.”

Adesso Tony sta decisamente guardando Peter, e sa che il ragazzo si sente tremendamente in colpa, soprattutto là seduto vicino a Michelle.

“Quali sono questi vostri dettagli scelti riguardo all’arena?” chiede Janet.

“Principalmente, sappiamo che ci sarà una via d’uscita molto ovvia,” dice Thor.

Tony non riesce a trattenere uno sbuffo. Lo fissano tutti e lui scuote la testa, senza un briciolo di vergogna. “Una via d’uscita?” chiede. “E da quando fanno una cosa del genere? Da mai. Ci sono tre Vincitori in questa stanza, e quante via d’uscita abbiamo visto?”

“Non è una via d’uscita ordinaria,” dice Thor. “Non sarà una porta, o un corridoio. Ma quando la vedranno, capiranno.”

“Come faremo a…” comincia Peter, e cerca lo sguardo di Steve.

“Bruce dice che sarà ovvio,” dice lui. “Chiaro come il sole, la riconosceremo a prima vista.”

“Ci hai parlato?” chiede Tony. “Faccia a faccia.”

“Beh,” comincia Steve, “non faccia a faccia.”

“Quindi come fai a–”

“Ci ho parlato io,” dice Thor, e smette di camminare ai piedi del letto. “È con noi, Tony. Lo è stato per quattro anni. Sei l’unico che dubita di te stesso, sei l’unico che non crede che qualcuno potrebbe mai sentirsi ispirato da te.”

Tony serra la mascella, distogliendo lo sguardo.

“Non dico spesso di sentirmi ispirata dalla gente,” dice Natasha. “Ma se proprio fossi costretta, tu potresti essere su quella lista.”

“Oh, ehi,” dice Tony, rivolgendole un cenno. “È una dichiarazione forte, per i miei standard.”

“Bruce è stato ispirato dal tuo turno nell’arena,” dice Thor. “E anche prima di lui, la resistenza cresceva. Ci sono società segrete ad ogni angolo, a Capitol. Ci sono degli infiltrati nel governo, in posizioni di rilievo che non riusciresti mai a indovinare. Sono lì da anni. Ci sono dei quartier generali sotterranei in ogni Distretto. Sì, anche nel Dodici.”

Tony socchiude gli occhi, scuotendo la testa, e guarda Janet. Lei solleva le sopracciglia, chiaramente scioccata quanto lui.

“Abbiamo già degli elivelivoli pronti,” dice Thor. “Abbiamo armi, siamo attrezzati per un’altra guerra nucleare…”

Cosa?” chiede Tony, guardando alternatamente loro tre. “Come diavolo è possibile?”

“Il Tredici è vivo e vegeto.,” rivela Natasha. “Ci siamo stati tutti e tre.”

Il cervello di Tony si inceppa. L’intera stanza cambia colore. “Sono… ci sono troppe cose in una frase sola. Che cosa… che cosa stracazzo–”

“Hanno spazzato via il Tredici dalla faccia della Terra,” dice MJ, con un verso scettico.

“Abbiamo visto i filmati…” Peter si interrompe. Incontra gli occhi di Tony. “Ma loro alterano i fatti, no?” chiede.

“Sganciarono effettivamente delle bombe,” dice Thor. “Ma non fu il massacro che descrivono. Il Tredici era pronto a rifugiarsi sottoterra, ed è esattamente quello che hanno fatto.”

Tony sbatte le palpebre, frastornato.

“Come ci siete arrivati?” chiede Janet. “So che avete detto di avere degli elivelivoli, ma non possiamo esattamente volare come ci pare in giro senza che qualcuno di sgradito ci noti.”

“Tunnel,” dice Tony, di getto. “Dei tunnel, vero? Vero?”

Natasha assottiglia gli occhi, guardando brevemente Steve. “Te l’ha già detto qualcuno?” chiede.

“No,” dice Tony, ridendo, sentendosi folle e nel giusto. “No, ho solo… andate avanti.”

“Ci sono alcuni tunnel che arrivano fin lì, ma solo poche occasioni durante l’anno in cui possiamo utilizzarli,” spiega Steve. “I treni sotterranei si spostano molto più spesso durante il periodo degli Hunger Games, quindi non siamo mai riusciti a portare avanti un tentativo quando ce n’era bisogno.”

“In più, è troppo scoperto,” dice Natasha. “Non va bene per gruppi numerosi.”

Tony annuisce, e una parte di lui vorrebbe aver portato fino in fondo il proprio piano, capendo quali tunnel usare e gli orari dei treni. Ma avrebbe precipitato tutto nel caos, e il ragazzo non l’avrebbe mai perdonato per aver lasciato indietro Michelle. Adesso lo capisce, vedendoli insieme. Lo sa, dal modo in cui parla di lei. Gli ricorda il modo in cui lui straparlava di Pepper, all’inizio.

Si schiarisce la gola.

“Quando ci vedranno uscire, sarà il segnale d’azione per gli infiltrati,” continua Steve. “Basterà per riprendersi i Distretti, se agiamo correttamente. La gente è pronta.”

“E… mia zia?” chiede Peter. “E… e Ned. E la famiglia di MJ. Dobbiamo… sappiamo che non saranno al sicuro, dopo la nostra mossa. Soprattutto se funziona.”

“Le nostre famiglie sono protette,” dice Natasha. “Saranno al sicuro.”

“Come?” chiede Peter, a voce più alta del solito. “Perché se… se sono il volto che cercate, come ha detto Tony, se… se fuggo io, voglio che fuggano anche loro.”

“Non preoccuparti,” dice Steve. “Te lo prometto, saranno al sicuro.”

Tony si morde l’interno della guancia, e sente che c’è qualcosa di implicitamente affidabile nel volto di Steve.

“Poi andremo al Tredici,” dice Thor. “Dove tu sarai il volto della rivoluzione, come hai detto.” Fa un cenno verso Peter. “Da lì comincerà la lotta per riprenderci il nostro paese. Per fermare tutto questo.”

Sembra tutto troppo. Troppo, da piazzare sulle spalle di Peter, soprattutto dopo essere stato nei Giochi. Sopravvivere ed evadere. Essere il volto della rivoluzione… gli darebbero costantemente la caccia. Tony deve evadere a sua volta, almeno per proteggerlo, tenerlo al sicuro. Si alza dal letto, ancora un po’ incerto sui piedi, e si avvicina al muro più lontano, alla finestra. Ora c’è solo una spruzzata di rosa ad attraversare il cielo, col sole quasi scomparso. Non sa cosa dire di tutto questo.

“Quindi stiamo… basando il tutto su–  sull’idea che ci sarà una via d’uscita molto ovvia?” chiede, voltandosi di nuovo verso il gruppo. “È tutto… fondamentalmente pianificato, dopo quello, se non per il fatto che è imprevedibile, poiché legato al dettaglio che voi riusciate a evadere dall’arena? Vivi? Con Peter intero, visto che vi fa da testimonial?”

“Sì,” risponde Thor.

Tony guarda Janet, e vede il dubbio anche nei suoi occhi.

“E se ci fosse più di una via d’uscita ovvia?” chiede lei.

“Bruce ha detto che ce ne sarà solo una,” replica Thor. “E che la riconosceranno non appena apparirà.”

“E se non la riconosciamo?”

“Lo sapremo e basta,” taglia corto Natasha.

Tony scuote la testa, stropicciandosi gli occhi. Gli gira ancora troppo la testa, e non riesce a smettere di sentire Stane, di pensare alle cose che ha detto. Vorrebbe non averle mai sentite, cazzo. Nessuna di esse.

“Sentite,” dice Thor, avvicinandosi a Tony, “lo so che è difficile entrare nell’ottica, non sapere cosa dovranno affrontare per dare il via a tutto. Ma io ho fiducia nel fatto che sapranno cavarsela. Noi ce l’abbiamo fatta.”

“Già,” ribatte Tony, con la bocca secca. “Per il rotto della cuffia.”

“Ci assicureremo che voi usciate,” dice Natasha, rivolgendo lo sguardo a MJ e Peter. “E poi sarete al sicuro. Saremo tutti al sicuro, saremo… vivi. Esattamente quel che non vuole Capitol.”

“Peter,” dice Steve. “Tu li ispiri. Tu… tu sei il migliore fra noi. Ti vedranno fuggire, vivere, opporti ai loro Giochi, alle loro regole. Vedranno quanto tu sia umano. Ti seguiranno.”

Tony guarda Peter, lo vede deglutire a fatica. Può immaginare cosa gli stia passando per la testa, perché il ragazzo pensa a tutti gli altri prima che a se stesso.

“In che modo siamo coinvolti Tony ed io?” chiede Janet. “E tu, Thor? E Carol?”

“Siamo tutti dei pezzi essenziali,” dice Thor. “Una volta che l’arena sarà resa pubblica sapremo di più da Bruce riguardo a come funzionerà il tutto. Ma li aiuteremo ad evadere. Poi ci aiuteremo a vicenda per raggiungere il Tredici.”

Tony scuote la testa. “Bene,” dice, agitando in aria le mani. “Bene. Comunque sia, in qualunque cazzo di modo, basta… che li fare uscire. Fateli vivere. Mi interessa solo questo.”

“Possiamo farcela,” dice Steve. “Ce la faremo.”

 
§
 

“Non possiamo farcela,” dice Peter più tardi, quella notte, quando la squadra del Sette se n’è andata. MJ e Janet sono andate a letto, e Peter è sulla soglia della stanza di Tony, cercando di trovare un senso a quello che la sua vita è diventata. Detesta il modo in cui il loro piano, se così si può chiamare, sia incentrato su di lui. Evadere, proteggere Parker. È stato circondato da affetto in vita sua, con May, e Ben, e Ned, e i fantasmi di due persone che non conosceva davvero… ma l’amore del paese, un amore sufficiente a fare di lui un’icona, lo spaventa fino al midollo. Lo spaventa ancor di più nel pensare che il tutto sia già in movimento. Che la gente si sente già così. Come ha fatto il mondo a non cadere a pezzi ai piedi di Tony? È molto più carismatico di lui. Molto più interessante.

Non sapranno come sarà l’arena. Peter non sa come qualcuno potrebbe proteggerlo lì dentro. Non sa come diavolo riuscirà a proteggersi lui stesso, e sa che è progredito tantissimo da quello che era prima. Non sarà mai abbastanza.

Tony è seduto sulla sponda del letto, con un palmare tra le mani. “Già, lo so come deve sembrarti,” dice. “Ma funzionerà, perché Thor dice che funzionerà, e se non possiamo fidarci di Thor, di chi altri? Non voglio vivere in un mondo in cui non posso fidarmi di Thor. Sarebbe semplicemente sbagliato.”

Peter sbuffa appena, abbassando lo sguardo a terra.

“Oggi è stato uno schifo,” dice Tony. “E voglio solo che… insomma, non voglio che ci pensi adesso, perché abbiamo pensato abbastanza a quello e a tutte quelle altre cose terribili, nelle ultime otto ore circa.”

Peter deglutisce a forza, sentendosi apatico e perso. Si poggia allo stipite e già si sente morto a metà, mentre cerca di non pensare alla villa di Stane. Di non pensare ai suoi genitori. Di non pensare ai ragni. O alla propria testa mozzata. “Dovrò pensarci presto,” dice, piano. Non resta loro molto tempo.

“Sì, e lo faremo,” dice Tony, con quell'atteggiamento che spinge Peter a pensare che non può fare a meno di fidarsi di lui. Da quando l’ha incontrato sul treno è come se l’avesse conosciuto per dieci anni, e per metà di quel tempo gli è sembrato che Tony sapesse leggergli nel pensiero. “Ci prepareremo ad ogni eventualità, okay? Ma ognuna di esse si risolverà con te sano e salvo a miglia di distanza dalle loro stronzate. Ma per ora sono riuscito a fare una cosa, e penso che… beh, penso che potrebbe piacerti.”

“È quello a cui stai lavorando da quando se ne sono andati?” chiede Peter.

“Sì,” conferma Tony. “Eccomi qua, un bravo e diligente lavoratore. Dai, entra, e chiudi la porta.”

Peter obbedisce, trascinando i piedi e fermandosi di fianco alla poltrona di Tony. Lo osserva mentre preme un paio di tasti sul suo palmare, per poi proiettare un fascio di luce sul muro accanto allo schermo TV.

“Okay, dovrebbe funzionare,” dice Tony. “Con un po’ di buona volontà.”

Peter assottiglia gli occhi fissando l’immagine proiettata, e sembra… no, non può essere. Si paralizza, colmo d’aspettativa.

“Ehi!” grida Tony, e Peter lo vede agitare una mano verso il nuovo schermo, scrutandolo. “C’è nessuno?”

E poi – con qualche battito mancato da parte di Peter – May e Ned entrano nell’inquadratura. Si chinano, poi avvicinano le sedie del tavolo da pranzo e Peter trattiene il fiato, tenendo gli occhi puntati su di loro mentre si allontana un poco, sedendosi accanto a Tony.

“Oh, mio Dio,” dice May, coprendosi la bocca. “Oh, mio Dio.”

“Sto trasmettendo attraverso il loro televisore,” spiega Tony. “Così se qualcuno vuole dare un’occhiata penseranno che stiano semplicemente guardando un’intervista. Possono vederti, è una videochiamata.”

“Wow,” dice Peter. “Wow! Wow.” Non sapeva fosse possibile. Nel modo più assoluto.

“Vi lascio soli,” dice Tony, dandogli una pacca sul ginocchio.

“No,” dice Peter, di scatto, afferrandogli il polso mentre lui si alza in piedi. “No, no, rimani.”

“Sì,” dice May. “Vogliamo parlare anche con te.”

Tony sorride appena, e si siede con un cenno del capo.

Peter si copre la bocca, con le lacrime che gli sgorgano dagli occhi. Loro due sono semplicemente seduti lì, sorridenti, entrambi illesi, al sicuro. In diretta, proprio di fronte a lui, proprio lì, proprio lì. Sono così vicini.

“Ehi, tesoro,” dice May, colma di troppe emozioni imbottigliate e pronte a riversarsi fuori.

“Ehi, Peter,” dice Ned, con un gran sorriso.

“Ehi, ragazzi,” risponde lui, inclinandosi un poco e spingendo appena Tony con la spalla. Si sente sul punto di esplodere.

“Tony,” lo chiama May. “Io… grazie, davvero. Per questo, per tutto, sei stato– sei stato tutto ciò che tutti hanno sempre pensato che fossi. Tutto ciò che lui pensava che fossi.”

Tony scrolla le spalle, lanciando un’occhiata a Peter. “Beh, hai un ragazzino davvero importante, qui. Non posso fare a meno di dare del mio meglio, suppongo.”

“Peter,” dice Ned. “Sei amico di Tony Stark, sul serio. Voglio tornare indietro nel tempo, a quando eri bambino, e dirtelo. Non ci crederesti mai. Mi immagino la tua faccia.”

Peter soffoca una risata nel naso, arrossendo un poco. Non riesce a crederci, il suo cuore sta facendo le capriole. Si strofina gli occhi, cercando di memorizzare i loro volti. Pensava che non li avrebbe più rivisti. Non ne era certo. Non ha neanche davvero pensato a quella possibilità da quando è a conoscenza del piano. “Mi siete mancati tantissimo,” dice.

“Ci manchi anche tu, piccolo,” dice May. “Vorrei solo abbracciarti.”

“Anch’io,” replica Peter.

“Tutti non fanno che parlare di te, qui,” interviene Ned. “Tutti fanno il tifo per te, la gente si è messa d’accordo per creare degli sponsor di gruppo. Insomma, tutti hanno visto cosa è successo oggi, e li ha esaltati ancor di più–”

“Voi state bene, vero?” chiede May, inclinandosi in avanti sulla sedia. “Hanno tagliato il servizio non appena ti sei girato, ho visto le pistole puntate addosso a Tony…”

“Mi scuso per quello,” dice Tony. “Normalmente mi piace essere più, uh, utile di così–”

“Smettila,” dice Peter con un sospiro nella sua direzione. Tony fa un sorrisetto e Peter sorride di rimando, scuotendo la testa. “Uh, sì, stiamo bene.”

“Sei sicuro?” insiste May.

“Sì,” replica Peter, e non ci sta pensando, non ci sta pensando. “Sì, stiamo bene.”

“È stato fighissimo, Peter,” dice Ned. “Insomma, wow. Wow, l’hai colpito in pieno. E quel poster che aveva la ragazza, quello che ha dato inizio a tutto, qui sono ovunque–”

“Stai attento con quella roba, Ned,” dice Peter, con un vuoto allo stomaco. “Hai visto come danno di matto se li vedono…”

“Sì, fanno lo stesso anche qui,” dice Ned, scambiando un’occhiata con May. “Ma noi ne abbiamo ancora un paio, sai. Per i posteri.” [2]

Peter non riesce a trattenersi e sorride, scuotendo la testa. Sa che non possono dire loro nulla riguardo al piano, a dispetto di quanto sicura possa essere la connessione di Tony, ma muore dalla voglia di dirglielo, vuole disperatamente instillare una sorta di speranza in loro, sul fatto che non dovrà diventare un assassino per riuscire a tornare da loro, che non dovrà guardar morire altre persone per non morire lui stesso.

“Volevo dirvi che mi sento molto ottimista,” dice Tony, a voce più alta. “E non lo dico per dire. Peter è, uh, è un vincitore e, come potete vedere, tutti lo amano.”

“Sapevo che l’avrebbero fatto,” dice May, con l’orgoglio negli occhi. “Non poteva essere altrimenti.”

“Ce la farà,” dice Tony. “Sono sicuro al cento per cento.”

“Al cento per cento?” chiede May.

“Al cento per cento,” ripete Tony.

Sia May che Ned hanno l’aria di sgonfiarsi per il sollievo, sorridendo mentre mormorano tra loro.

“E, uh, Michelle?” chiede Ned, a bassa voce.

Peter risucchia un respiro, perché sa di non poter dire nulla. Sa che non può. Lo fa impazzire, perché anche prima di tutto questo sapeva che non le avrebbe mai fatto del male, le avrebbe permesso di ucciderlo prima di arrivare a guardarla nel modo sbagliato. Ma adesso la conosce, adesso… adesso è diverso, e detesta mentire anche solo per omissione quando si tratta di lei e di quello che accadrà nell’arena.

Tony gli lancia un’occhiata e si schiarisce la voce. “Uh, Janet, come sapete bene, è una dei migliori Vincitori che abbiamo mai avuto. Michelle è in buone mani.”

Peter annuisce, incerto su cosa dire, ma delle parole disperate gli artigliano la gola. Lei fuggirà. Io fuggirò. Fuggiremo tutti.

“Peter… grazie per, uh, aver detto quel che hai detto durante l’intervista,” dice Ned, piano.

Peter gli sorride, sentendosi sopraffare da un’ondata d’affetto. “Di niente,” risponde. “Ma non mi devi nulla, solo non– non mi piaceva quello che ha detto, come suonava.”

“Sappiamo che è fuori di testa,” dice May, dando una pacca sul ginocchio di Ned. “Insomma, lo sono tutti. Non so come fate voi due, o gli altri Vincitori, gli altri Tributi. Essere lì, è come… una tortura prima della tortura.” Si asciuga gli occhi, scuotendo la testa. “Mi dispiace, vorrei solo… vorrei che fossi a casa.”

“May,” dice Tony. “Il tuo ragazzo tornerà a casa da te. Te lo prometto.”

May annuisce, e sembra credergli davvero. Lo schermo s’increspa un poco, traballa, e Tony abbassa lo sguardo sul palmare.

“Merda,” bofonchia.

“Cosa?” chiede Peter, col cuore che gli cede.

“Uh, stiamo perdendo il collegamento, ragazzo, mi dispiace.” Preme un paio di tasti, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Non ero sicuro di quanto sarebbe durato.”

May e Ned si accostano allo schermo, come se potesse servire a qualcosa, e Peter deglutisce a forza. Si sente nel panico, come se ci fosse troppo da dire e non abbastanza tempo per farlo.

“May,” la chiama. “Io, uh. I miei genitori. Volevo– volevo sapere quanto ne sapessi. Riguardo a loro, a quello che facevano, a come– come sono morti.”

“Peter,” replica lei, e sembra sorpresa. “Questo… è un discorso lungo, non– non saprei nemmeno da dove iniziare.” Lo schermo sfarfalla ancora, e Peter non sa cosa spera di ottenere, cosa ha bisogno di sentire. “Ci vorrebbero giorni per dirti tutto quello che so, tutto quello che non–”

“Lo so,” dice lui, rapido. “Lo so, va… va bene, e qualunque cosa pensi, qualunque– qualunque cosa tu abbia sentito, o non sentito, loro erano– erano eroi, okay? Hanno fatto ciò che potevano, erano anche loro in trappola, ma hanno fatto ciò che potevano. E so che devono… che devono avermi amato.” La sua voce si incrina, e desidera una vita che non ha mai avuto, quella che Capitol gli ha rubato.

“Ti amavano più di ogni altra cosa,” dice May, fissandolo negli occhi come faceva quando cercava di mettere in chiaro un concetto. “Di ogni cosa, tesoro, capito? Avrebbero fatto di tutto per impedire che ti accadesse qualcosa. Eri la luce della loro vita.”

Peter annuisce, con le orecchie bollenti. Lo schermo trema in modo preoccupante, e Tony continua a borbottare tra sé, cercando di mantenere la connessione.

“Ti voglio bene, Peter!” grida Ned. “Faccio il tifo per te, amico. Lo facciamo tutti. Ogni singolo giorno.”

“Ti voglio bene, Ned,” risponde Peter, mentre lo schermo diventa in bianco e nero. “May–”

“Ti voglio bene, tesoro,” dice lei, e si avvicina, premendo una mano sullo schermo. “Ti voglio tanto bene.”

Peter scatta giù dal letto e si sposta, premendo le mani sul muro dove si proietta lo schermo. Palmo contro palmo. “Ti voglio bene,” sussurra. “Ti voglio bene, ti voglio bene. Ci vedremo di nuovo.”

“Ci vedremo–” E poi lo schermo si oscura, riempendosi di statico.

“Merda,” esclama Tony. “Maledizione.”

Peter fissa il muro dove c’erano loro, con dei brividi lungo la schiena. Stacca lentamente la mano, e sogna il momento in cui potrà davvero stringere quella di May.

“Che cazzo,” impreca ancora Tony, e Peter lo sente pestare le dita sul palmare, sempre più forte. Si gira a guardarlo, e non ha idea di quale espressione abbia in faccia, perché Tony sussulta nel guardarlo. “Mi dispiace, ragazzo,” dice, e Peter vede che gli tremano le dita. “Volevo… volevo davvero che durasse di più, dopo tutte le schifezze che hai passato–”

“Tony,” lo ferma Peter. “Io… so che stiamo cercando di essere ottimisti, adesso – ma avevo ancora questa… paura molto reale che non li avrei visti mai più, e anche solo… un secondo sarebbe andato bene, ma– ma– questo–” Risucchia un respiro e si siede di nuovo accanto a lui. “Grazie. Grazie, davvero, grazie mille. Anche solo… vederli, per un istante, sentire le loro voci, è stato… mi ha aiutato tantissimo.”

“Bene,” dice Tony, rilasciando un respiro. “Ecco qui, uh… la seconda parte del 'Peter-Tiramisù'.” [3] Chiude una finestra sul palmare, apre una cartella e digita alcuni codici e una password finale. Poi fa apparire un breve filmato, chiaro e nitido come se Peter stesse guardando un’altra diretta. Deduce che sia da qualche parte nel Dodici, e poi il suo cuore sussulta quando vede Ben che passa davanti a lui. Ben, con un bambino piccolo sulle spalle – un bambino che deve essere lui. Poi c’è May, un po’ più giovane, e un’altra coppia, solo vagamente familiare. “Ecco la famiglia Parker,” dice Tony, mentre camminano davanti a loro e fuori dall’inquadratura. Lo riavvolge, rallentandolo, e li superano di nuovo. “Stavo facendo delle ricerche per trovare qualcosa su Ben, qualcosa da ricordare, e poi ho trovato questo. Ho pensato fosse bello vedere… vedervi tutti insieme.”

Peter deve avere circa sei anni nel filmato, e sta sorridendo, mentre si aggrappa forte alle spalle di Ben. Sua madre ha il collo reclinato per guardarlo, e suo padre e May sembrano intenti a chiacchierare. Sembra che siano sulla strada di casa, da May. Peter fissa il tutto e si sente stranamente fuori posto, perché sembrano così reali, e sono qui, sono con lui. È felice. È così felice.

“E adesso, credo di avere dei ripensamenti su quanto sia stato furbo farti vedere questo–”

“No,” dice Peter, fissando ancora il filmato. Lo mette dall’inizio, e guarda tutti i dettagli: la divisa di Ben, le pieghe sulla maglietta di sua madre, il modo in cui May portava i capelli. Suo padre che sta chiaramente dicendo la parola Peter. “No, io–” Lo guarda. Continua a guardarlo. “Vorrei solo… ricordarli meglio.” Si schiarisce la gola, e continua a crogiolarsi in ogni singolo dettaglio. “Tu… ce l’hai qui vero? Non scomparirà?”

“No,” dice Tony. “L’ho salvato. È nostro per sempre.”

“Bene,” dice Peter, sapendo che non potrebbe mai guardarlo abbastanza a lungo.

“Fanculo Stane,” dice Tony, avvicinandosi un poco. “E tu hai ragione. Erano eroi. E ti volevano bene, perché eri loro, e non è possibile non volerti bene, ragazzo.”

Peter ripensa a ciò che ha detto Stane. Non le minacce, ma riguardo ai suoi genitori. Quello che avevano cercato di fare, come erano finiti. Stacca finalmente gli occhi dallo schermo per guardare Tony. “Riuscirò a scappare,” dice. “Farò in modo di riuscirci. Per loro. Perché so che se fossero qui sarebbe… quello che vorrebbero.”

“Lo è,” dice Tony. “Al cento per cento.”

A Peter non sono mai successe così tante cose in vita sua, e la sua testa galleggia in tutte quelle emozioni, nella paranoia, nella paura, e nel barlume di speranza che Tony sta alimentando. Risucchia un respiro, guardando di nuovo il filmato. Allunga un dito e lo blocca, con tutti e quattro nell’inquadratura, e vederlo è un qualcosa di prezioso. Qualcosa che merita di vedere.

Guarda di nuovo Tony, e sa che non riuscirà mai ad esprimere cosa significhi tutto questo per lui. “Grazie,” dice, quasi in un sussurro, con voce incrinata.

Tony scuote la testa, e anche lui ha gli occhi lucidi. “Non c’è bisogno, Pete,” dice. “Sono qua. Dall’inizio alla fine.”

Peter sospira, poggiando la fronte sulla sua spalla. Chiude gli occhi, e vede ancora la propria famiglia sul retro delle palpebre.

Anche Tony ne fa parte, adesso.
 
§
 

Ogni giorno è una bomba a orologeria, ma scorrono tutti via senza esplosioni. Non ancora, non ancora. Il tempo va avanti, continuano a lavorare, e le minacce di Stane si adagiano in fondo alla mente di Tony. Sono rancide, acide, scavano un buco attraverso ogni momento di veglia. E di notte prendono vita, al punto che si ritrova a svegliarsi trattenendo il fiato, con lo stesso incubo che lo perseguita, ancora e ancora. Intrappolato in quella stanza, con quelle cose. In trappola, con ciò che Stane ha detto che si prenderà. Guardala marcire. L’eventualità peggiore, che si rifiuta di fare largo a scenari più speranzosi.

Tony esce dal cafè preferito di Selvig con uno sponsor in più in tasca e la lista di regali che potrebbero servire a Peter in continuo aumento. Cammina lungo il marciapiede ed è perso nella sua stessa testa, cercando di immaginare come potrebbe essere quella maledetta arena. Saperlo renderebbe più semplice il piano, semplificherebbe loro la vita, e continua a immaginarsi un buco gigantesco sul limitare di una foresta: la loro ovvia via d’uscita. Ma non potrebbe essere così ovvia, no? Non è possibile. Non sono così stupidi. Dev’essere ovvia in modo diverso, e Tony detesta non essere in grado di trovare un riscontro nella propria fantasia, non riuscire a risolvere uno dei loro dannati indovinelli.

A dispetto di quanto li stiano prendendo di mira, di quanti problemi stia causando, Capitol non si tira indietro dall’usare l’icona di Peter, e Tony supera un intero muro dedicato alla prima intervista di Peter. Ma, ovviamente, tagliano la frase Iron Man e Spider-Man sono uniti.

Tony scrolla la testa, attraversando la strada.

“Tony!” grida qualcuno, da qualche parte alla sua sinistra. Si volta, socchiudendo gli occhi, e vede Christine Everhart lì nel vicolo, con qualcosa stretto tra le mani. Rimane immobile al suo posto, facendogli cenno di avvicinarsi, e per un lungo istante Tony crede di avere le allucinazioni.

“Dolcezza,” comincia, imboccando lentamente il vicolo, “so che magari ti piaccio, ma questo non è il posto adatto per una proposta. Insomma, ci sono telecamere ovunque, no? Non dovresti saperlo meglio di tutti?”

“Conosco anche molti punti ciechi,” dice lei, quando è più vicino. “Oltre a molte cose che avrebbero bisogno di una sistemata.”

Lui inclina la testa nella sua direzione, fermandosi e incrociando le braccia sul petto. Abbassa gli occhi su ciò che tiene in mano, e vede che è una cartella rigonfia, con una piccola scatola nera assicurata in cima.

“Non possono sentirci,” dice lei. “Non in questo punto.”

Tony mugugna tra sé, fissando la telecamera sopra la propria testa. Non vuole pronunciare una singola parola, perché non si fida di lei.

“Ho cercato di chiedere a Peter Parker qualcosa riguardo ai suoi genitori, in quella prima intervista,” inizia lei, spostando il peso da un tacco all’altro. “Sono certa che te lo ricordi.”

“E come potrei dimenticare?” ribatte lui.

“Insomma, non ci permettono di scambiare chiavi per lo stesso Tributo più di una volta,” dice lei. Abbassa lo sguardo sul fascio di documenti che ha tra le braccia e lo tende verso di lui. “Ci ho lavorato a lungo. Da prima di sapere chi fosse.”

Tony non accetta l’offerta. Non ancora.

Ciò sembra irritarla, perché scuote la testa, avvicinandosi di un passo. “So che non ti fidi di me. So che credi che io sia semplicemente… una di loro.”

“Già,” dice Tony. “Lo sei, letteralmente, sul serio. Ce l’hai nel sangue.”

“Tutto ciò che voglio è la verità,” dice lei. “Questa faccenda è più grande dei confini con cui ci hanno diviso.” Insiste nell’offrirgli la cartella con la scatola. “Gran parte di questo parla da sé, ma ci sono dei punti che… non riesco a decifrare. E so che tu puoi.”

“Questa è una bomba,” replica lui. “Stai cercando di ammazzarmi, per poi scrivere della mia morte.”

“Tony.”

Lui ride appena, gettandosi un’occhiata alle spalle. “Sono occupato al momento, cara. Nel caso non sapessi che periodo dell’anno sia.”

“Tony, prendilo e basta,” dice lei. “Non m’importa quando gli darai un’occhiata. Adesso, quando sarà finito tutto, non mi interessa. Voglio solo che lo guardi, e poi contattami. Potrebbe essere importante per te.”

Lui si volta a guardarla, e lei spinge l’incartamento così vicino che incontra in suo braccio. “Non è una bomba?” chiede. “O… un gas velenoso?”

“No, imbecille,” dice lei, guardandolo storto. Alza gli occhi al cielo, perché l’insulto le è sfuggito e in teoria gli sta chiedendo qualcosa. Lo sta quasi implorando. “Per favore?”

Lui sospira, e glielo toglie di mano. “Se mi uccidi con qualunque cosa ci sia qua dentro, ti perseguiterò per sempre.”

“Non correrei mai quel rischio,” replica lei, e si gira incamminandosi nella direzione opposta.

Lui sospira di nuovo, e abbassa lo sguardo. La cartella è riempita fino all’orlo, coi fogli che spuntano fuori da ogni parte. Solleva la scatola, scuotendola. Non è pesante, e non sembra che ci sia molto all’interno.

“E va bene,” dice, ripromettendosi di darci un’occhiata quando avrà un momento libero. Christine in effetti ha menzionato i genitori di Peter, e deduce che siano probabilmente delle prove di ciò che ha detto Stane. Ma al momento, quei maledetti Hunger Games sono la priorità.
 
§
 

Mette il pacco della Everhart in camera sua quando torna all’attico, e sente Peter e Sam che discutono nel suo corridoio.

“Ehi,” li chiama Tony, dirigendosi lì. “Scusate se ci ho messo un po’ di più, mi sono scontrato con una non-amica…”

“Tutto a posto?” grida di rimando Peter.

“Sì,” replica lui, svoltando l’angolo e attraversando la porta aperta.

Vede Peter in piedi davanti allo specchio, con Sam accanto a lui. Indossa un costume di Spider-Man simile al primo, ma questo è più slanciato, con delle tonalità nere e non blu. Sembra l’eroe che i Distretti si meritano. Un qualcosa di cui Capitol dovrebbe avere paura. Tony non ha mai dubitato del suo ruolo come volto della rivoluzione: l’ha spaventato, certo, ma non ne ha mai dubitato. Ma adesso, con questo costume… riesce a vederlo per davvero.

“Ti piace?” chiede Sam. “Il ragazzo mi ha aiutato a disegnarla. Penso che potrebbe avere un futuro nel campo.”

“È magnifica,” dice Tony, puntando le mani sui fianchi. “Non, uh, non ti sei voluto tirare indietro da tutto il concetto del ragno? Dopo–”

“Quello che ha detto?” chiede Peter, voltandosi. “No,” risponde. “Non voglio che pensi che mi abbia influenzato, o che abbia cambiato qualcosa.”

“È roba da matti, quella,” commenta Sam, scuotendo la testa. “Che pazzoide.”

Quindi Peter l’ha detto anche a lui. Entra nella stanza annuendo tra sé, lieto che Peter non stia cedendo sotto la pressione che Stane sta chiaramente cercando di mettergli addosso. “Perché diavolo vivi qui, Wilson?” chiede poi, sedendosi sulla sedia accanto alla finestra. “Seriamente. Non sei come loro, non sei affatto un esemplare di Capitol.”

“Pensi che mi lascerebbero andare via?” chiede Sam, ridendo e cucendo qualcosa sul braccio di Peter. “Assolutamente no, e ci ho già provato. Ci ho provato finché non hanno minacciato di tagliarmi qualcosa che preferirei molto tenere.”

Tony incrocia lo sguardo di Peter, e sa che vorrebbe mettere Sam a parte al piano. Sa che vorrebbe far fuggire anche lui, semplicemente guardandolo in faccia. Peter si affeziona facilmente, e si fa fregare dalla propria bontà, e ciò preoccupa Tony, per paura che qualcuno possa approfittarne. Ha l’impressione che Quentin Beck, nello specifico, avrebbe la capacità di distrarre il ragazzo con un semplice discorso del tipo non voglio morire, e spera che Peter sappia distinguere la vera bontà d’animo, come quella di Sam, da qualcosa di deviato, fatto per puro tornaconto personale.

Comprende il suo attaccamento a Sam, però, e lo sente anche lui. Cerca di pianificare come introdurre l’argomento a Thor, perché sa che Peter potrebbe farlo di testa sua, se non lo anticipa.

“Penso che siamo pronti per l’intervista di venerdì,” dice Sam, e ciò ricorda a Tony di quanto tempo sia passato. Rimane loro domani, con i giudizi finali. Venerdì, con le ultime interviste. E sabato tutto avrà inizio. La fine, e, se prega e ci spera abbastanza, un nuovo inizio.
 
§
 

Peter richiede tutte le sessioni di combattimento a due che può prima dei giudizi finali, perché vuole essere pronto nel caso architettino qualcosa. Tony gli insegna tutti i pro e i contro dei palmari che potrebbe trovare nell’arena, e Peter spera ardentemente di trovarne uno, perché hanno delle potenzialità che potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte. Peter alza il livello di difficoltà delle simulazioni, e si spinge fino al limite. Sfrutta mosse evasive, e anche se non hanno dei tipi specifici delle creazioni di Capitol per le simulazioni, hanno dei mostri generici che si muovono in modo simile a, per esempio, un qualche tipo di ragno killer.

Rotola via dalla zona di pericolo esattamente al momento giusto, e il cronometro si azzera.

“Bel lavoro, ragazzo,” dice Tony, un paio di passi più in là col palmare in mano. “Era perfetto.”

“Riproviamoci,” dice Peter, col fiato grosso mentre si rimette in piedi.

“Uh, non mi hai sentito? Era effettivamente perfetto. E intendo con pieni voti per gli standard della simulazione, non i miei. So che sono di parte.”

“Lo so, ma…” Si sente folle, come se si stesse preparando a entrare nella sua stessa tomba, e continua a ripetersi che il piano funzionerà. Il piano funzionerà. Si sta prendendo in giro. I Giochi sono troppo vicini. Sono tra pochi giorni, ed è terrorizzato.

“Prenditi una pausa,” dice Tony, avvicinandosi e dandogli una pacca sulla spalla. “L’esame è stasera, sarà rapido, sai esattamente ciò che devi fare. Sei pronto. Non ti giocheranno un altro scherzetto, è… è troppo a ridosso dell’ultima intervista, troppo a ridosso dei Giochi. Sì, l’ultima volta si sono sbarazzati delle prove con le pillole e la pomata, quasi del tutto, ma ti conoscono abbastanza da sapere che non rimarrai nascosto tra oggi e domani, soprattutto se ti lasciano addosso dei segni.”

Peter sospira, annuendo. Il suo cuore ha preso a battere più rapidamente nell’ultimo paio di giorni, gli fa più spesso male la testa e, per quanto voglia, gli riesce difficile mantenere la presa sulla speranza che dovrebbe dargli il piano. Vuole disperatamente che funzioni, vuole coinvolgere tutti, vuole una rivoluzione, vuole rovesciare Capitol. Vuole salvare la gente e vuole vivere. Ma tutte quelle possibilità sembrano intrappolate dietro una parte di vetro… può vederle, ma non toccarle. Non sembrano reali. Non pensa che saranno reali finché non scapperà dall’arena.

“Io, uh,” comincia Peter, guardandosi i piedi. “Voglio solo essere certo che– che, uh, se le cose nell’arena non vanno come devono andare–”

“Peter–”

“Voglio solo essere certo che May e Ned siano al sicuro,” dice, alzando lo sguardo su di lui. “May ne ha passate… tante, tante, e non– non voglio che lei… si arrenda.” Deglutisce a fatica.

Tony si avvicina di un passo. “Niente pessimismo,” dice. “Non adesso. Peter, se qualcosa va storto, faccio irruzione là dentro di persona, maledizione, e ti porto fuori io.”

Peter riesce a sorridere, perché quell’immagine lo scalda un poco. Annuisce, guardando da sopra la spalla l’arena di fortuna che hanno allestito, così come la seconda serie di spara-ragnatele che è riuscito a costruire con i nuovi materiali. “Scusa se– scusa se continuo a pensarci. Scusa. Scusa.”

“Niente scuse,” dice Tony. “Okay? Merda, parla con Janet, io ho avuto un milione di esaurimenti nervosi nei giorni prima dei Giochi. Sempre, in continuazione, urlavo, perdevo il controllo, lanciavo oggetti… non so come diavolo ha fatto a sopportarmi. Ma, morale della favola, ti stai comportando in modo assolutamente normale. Non c’è un modo sbagliato per comportarsi, qui, okay?”

Peter annuisce, mordicchiandosi il labbro. L’immagine che ha in testa si trasforma, e si volta verso Tony. “Se fai irruzione là dentro, dovresti farlo come Iron Man.”

“Cavolo,” ride Tony, camminandogli accanto mentre si avviano alla porta. “Non potrei fare altrimenti, no? Amo le entrate in scena ad effetto.”
 
§

 
Tutto è come la prima volta.

Stanno seduti nella stanzetta sulle loro panche numerate, divisi, esattamente come vuole Capitol. Solo che stavolta Peter guarda gli altri, quelli che sanno del piano, e cerca di aggrapparsi alla speranza che sembra decisa ad abbandonarlo. Rimane a guardare mentre ciascuno si avvia alla propria sessione, uno ad uno, e coglie un cenno esplicito da parte di Steve quando tocca a lui.

Chiamano MJ, e lei sospira, sporgendosi per prendergli la mano. “Ti aspetto subito dopo la porta,” gli dice. “Nel corridoio. Non m’importa cosa dicono.”

Peter apprezza l’intenzione, ma quest’idea gli strizza lo stomaco. “Non… non farti male,” si raccomanda.

“No,” gli assicura lei, sorridendo dolcemente. I suoi occhi indugiano sul suo volto per dei lunghi secondi, e lui sente, per un momento, che potrebbe arrivare qualcos’altro. Ma lei rilascia solo un piccolo respiro, gli stringe la mano e si alza, avviandosi alla stanza dei giudizi.

Si aggrappa più forte alla propria speranza. Pensa a cose a cui non dovrebbe pensare, in cui potrebbe perdersi. Momenti di pace, in un posto lontano da qui. Cosa potrebbe guadagnare, se vivesse. Se diventasse il volto che vogliono. Può diventare un simbolo di speranza? Non lo sa, non ne ha idea, ma per qualche ragione loro pensano di sì. Sa che ci sono molte cose più grandi di lui. Così tante cose che sono più importanti, e forse, solo forse, potrebbe esserne parte. Può contribuire, può… fare qualcosa, qualunque cosa, per rendere migliore il mondo. Le loro vite. Smontare pezzo a pezzo ciò che Capitol ha costruito per fare del male a tutti gli altri.

Sta seduto e pensa in silenzio, nella stanza quasi vuota. Lui, e un Pacificatore. La loro perenne oppressione.

“PETER PARKER, DISTRETTO DODICI.”

Peter rilascia un respiro e si alza in piedi.

Quando entra la stanza è la stessa, eccetto per un dettaglio: il gruppo di spettatori nella zona d’osservazione è molto più numeroso, e non prestano la minima attenzione a lui. Bruce è l’unico a non parlare ad alta voce, l’unico rivolto verso la stanza, ma il resto di loro… mangiano, parlano, giocano a biliardo, a freccette, se ne stanno spaparanzati negli angoli e ridono sguaiatamente. Peter fa il suo ingresso, le sopracciglia corrugate, e anche quando si arresta nel punto indicato nessuno si volta a guardarlo. Nessuno sembra avere intenzione di interessarsi a lui.

Cerca gli occhi di Bruce, e lui sorride appena, con un cenno del capo. Peter non sa cosa diavolo voglia dire… e non c’è neanche una voce sopra di lui che gli dica di iniziare. È intenzionale? Bruce è l’unico che sia incaricato di osservarlo? È questo quello che hanno visto tutti gli altri, quello che hanno dovuto sopportare? Hanno davvero ignorato Natasha allo stesso modo? MJ? Tutti coloro che stanno spedendo a morire tra due giorni?

Peter rimane fermo, fumante, stringendo i pugni. Sente la voce di Stane nelle orecchie, le sue provocazioni, le minacce, tutto ciò che ha detto sui suoi genitori. Ci sono degli uomini dell’età di Stane, lassù, che chiacchierano, muovendosi qua e là con calici di vino in mano. Peter si chiede quanti di loro abbiano contribuito a quello che è successo ai suoi genitori. Quanti di loro l’abbiano visto, quanti di loro abbiano riso.

Non guarda di nuovo Bruce. La sua mente si annebbia, come se fosse bloccato in una palude profonda con un singolo raggio di luce a guidarlo, e rompe gli schemi. Vede lì i materiali per assemblare dei rozzi spara-ragnatele, come si è allenato a fare con Tony. Non sono neanche lontanamente all’altezza di quelli che gli ha procurato Sam, ma serviranno allo scopo e si mette al lavoro. Li assembla, lanciando occhiate al tavolo e al resto dei materiali forniti, e per fortuna può fabbricare anche il fluido. Ignora il palmare, non pensa neanche alle simulazioni, e impiega la maggior parte del tempo concessogli a rifinire gli spara-ragnatele e a srotolare i fili.

Estrae il materiale appiccicoso, testandone la resistenza, e si allunga e si torce esattamente come vuole lui. Ne ha fabbricato abbastanza nelle scorse due settimane da sentirsi esperto, ed è suo, è qualcosa che ha creato lui, qualcosa che conosce e di cui di fida.

Tutti stanno ancora ridendo. Nessuno a parte Bruce lo sta guardando, e si sente bloccato tra una rabbia bruciante e l’accasciarsi in ginocchio per vomitare.

Concentrati, concentrati.

Carica il fluido dentro gli spara-ragnatele, e si assicura che la traiettoria sia diritta. Una voce in fondo alla sua testa gli dice di non farlo, un misto della sua voce, di quella di May, un pizzico di quella di Tony. Ma quella di Ben no, e ciò lo fa osare ancor di più, quasi ebbro all’idea di ottenere la loro attenzione.

Assicura gli spara-ragnatele ai polsi quando è pronto, e mira a uno degli uomini più anziani nell’angolo, che continua a tener sollevato il bicchiere in un eterno brindisi. Peter spara e la ragnatela decolla, inchiodando la mano dell’uomo al muro. Peter si sente il cuore in gola, perché adesso lo stanno guardando tutti, e spara di nuovo, staccando la decorazione in cima alla fontana e appiccicandola al petto di un uomo. Riempie di ragnatele il bersaglio delle freccette, e appiccica l’estremità di una stecca da biliardo alla mano di un altro.

C’è silenzio, adesso. Lo sgomento li avvolge come fosse tangibile, e Peter cerca di impedirsi di tremare. Si toglie gli spara-ragnatele, sapendo che questa potrebbe essere l’ultima volta che gli è permesso di usarli, e li posa sul tavolo. Si fa indietro di qualche passo e allarga le braccia, inchinandosi.

“Grazie per la vostra attenzione,” dice, deglutendo a fatica.

Intercetta l’ombra di un sorriso sul volto di Bruce.

Peter si volta per abbandonare la stanza, lasciandosi dietro un silenzio nuovo e denso, e cerca di rimanere impettito mentre si avvicina alla porta, cerca di tenersi alto e fiero, senza vacillare. Il Pacificatore la apre, e stavolta quando la attraversa c’è luce, tutte le lampade sono accese, e c’è un altro Pacificatore in piedi di fronte alla porta successiva.

Peter contrae la mascella, fissandolo. Fa qualche passo avanti, a mento alto, e non esita. Sii come Iron Man. Sii come Iron Man. No… sii come Spider-Man. Sii la persona che pensano che tu sia. Sii colui che ammirano.

Si avvicina, abbastanza da trovarsi faccia a faccia con quel tizio, se non si nascondesse dietro a una maschera. Continua a fissarlo e, finalmente, il Pacificatore si fa da parte. Peter afferra la maniglia e cerca di non muoversi troppo in fretta, dando l’impressione di scappare, e la spinge oltrepassandola.

MJ lo sta aspettando, con un altro Pacificatore accanto. I suoi occhi si illuminano nel vederlo e gli si fa incontro; entrambi si avviano immediatamente all’uscita alla fine del corridoio.

“Stai bene?” chiede lei. “È successo qualcosa?”

“Uh, ho fatto qualcosa di stupido,” dice lui, tornando in sé e riavvolgendo in testa la pellicola propria sessione.

“Cosa?” chiede lei, brusca.

“Te lo dico fuori,” dice lui, con un sospiro.

Non sa dire se lo stia fissando mentre camminano, ma non si guarda indietro per paura di ciò che potrebbe dire. “Qualunque cosa tu abbia fatto,” dice lei, “sono fiera di te.”

Stavolta la guarda, proprio prima di raggiungere la porta, e la vede sorridere, fissandolo intentamente. Sorride di rimando, godendosi il momento prima di dover affrontare le conseguenze delle proprie azioni, che, innegabilmente, sono state stupide. Prega che non risulteranno in nulla di troppo serio.

Attraversano la porta e Peter vede Tony e Janet là di fronte, con Hammer a un paio di passi di distanza, chinato su un palmare. Tony gli si fa incontro all’istante, e quando è abbastanza vicino lo prende per il mento, girando e rigirando il suo volto per esaminarlo.

“Io sono andata bene,” dice MJ a Janet.

“Davvero?” chiede lei di rimando.

“E non hanno fatto come l’altra volta,” dice Peter, con un cenno a Tony.

“Quindi cosa è successo?” chiede lui, assottigliando gli occhi. “È andata bene?”

“Porca troia,” esclama Hammer. Si gira, riunendosi al gruppo, tenendo stretto il suo palmare. “Non l’hai fatto davvero,” dice, guardando Peter.

“Invece sì,” dice Peter, sentendo freddo.

“Aspetta,” interviene Tony, e prende il palmare dalle mani di Hammer. I suoi occhi scorrono qualunque messaggio ci sia là dentro, e Peter aspetta con ansia, con troppe cose che gli passano per la testa. Non li ha feriti, questo è certo. Li ha solo… immobilizzati. E le ragnatele si possono tagliare con dei coltelli… con dei coltelli molto affilati, quindi dovrebbero liberarsene senza problemi.

Da una parte vorrebbe non averlo fatto, perché è stato rischioso e ha corso troppi rischi, ultimamente. Ma si è infuriato, è entrato in quello stato d’animo in cui si trova spesso qui, quando la loro insensibilità e palese disgusto per tutti quelli dei Distretti lo fa sentire come se non potesse fare altro che combattere. Deve controllarsi. Mancano solo due giorni.

Ma quelle persone non saranno nell’arena. E la sua rabbia si riversa su di loro, erompe a tutta forza quando ci sono loro di mezzo. Il governo, i Pacificatori. Stane.

“Cristo,” dice Janet, leggendo da sopra la spalla di Tony.

“Va tutto bene?” chiede Peter. “Sono… sono nei guai, oppure sta arrivando qualcuno a prendermi, o qualcosa del genere? Dio, non se la prenderanno con May o Ned per questo, vero? Posso scusarmi, posso rientrare là dentro proprio–”

“No,” dice Tony, alzando lo sguardo su di lui. Un piccolo sorriso si sta facendo strada sul suo volto. “No, questo… avviene a porte chiuse, quindi non renderanno niente pubblico.” Trattiene una risata nasale, coprendosi la faccia col palmo, e non c’è rabbia né preoccupazione nei suoi occhi. “Per la miseria,” dice, scostando la mano. “Le ragnatele, erano… erano così forti?”

“Sì,” replica Peter, timidamente. “Non l’avevo pianificato, stavo… stavo per fare quello che avevamo concordato, ma poi tutti stavano… parlando e facendo casino e giocando e bevendo e… e mi sono arrabbiato.”

“Wow, Peter,” esclama MJ, alzando anche lei lo sguardo dal palmare.

Si sente scaldare le guance, e abbassa gli occhi.

“Dio, avrei dato di tutto per vederlo,” dice Tony, schioccando la lingua.

“Sei sicuro che sia tutto a posto?” chiede Peter, alzando le sopracciglia verso di lui.

“Oh, sì,” dice Tony, dandogli una pacca sulla spalla. “Più che a posto. Potresti aver messo a rischio il tuo secondo tredici, ma chi se ne frega dei loro voti. Le scommesse sono già avviate.”

“Torniamo a casa,” dice Janet. “In teoria stanno preparando qualcosa di speciale da mangiare per quando guarderemo i punteggi.”

Si dirigono insieme all’uscita e Peter prende il palmare di Tony, dando un’occhiata ai commenti sulla sua sessione prima di restituirlo ad Hammer. Hammer gli fa un cenno del capo, facendolo scivolare nella borsa.

“Hai le palle, ragazzo,” commenta poi.

“È solo che non penso prima di fare le cose,” dice Peter, liberando un respiro mentre si accodano agli altri. “Io, uh, avevo intenzione di ringraziarti, qualche tempo fa.”

“Ringraziarmi?” chiede Hammer. “Per cosa?”

“Per quello che è successo alla festa in giardino,” risponde Peter. “Hai cercato di aiutarmi, ti hanno ferito per questo e, insomma… grazie.” Abbassa lo sguardo sulle proprie mani, per poi rialzarlo su Hammer. “Sei migliore di loro, sai.”

“Certo che lo so,” ribatte Hammer. “Sono migliore della maggior parte della gente che incontro. E prego. Quelle teste di cazzo devono darsi una calmata.”

Nonostante molte delle mancanze di Hammer, nonostante sia uno di Capitol dalla testa ai piedi, Peter vede in lui qualcosa di più, dopo averci passato un po’ di tempo insieme. Pensa con la sua testa, non li segue ciecamente in ogni decisione e scelta. Vorrebbe far evadere anche lui, ma non sa come. Non sa come apparirebbe, a un occhio esterno. E non sa come reagirebbe Hammer di fronte a una cosa del genere.

Continuano a camminare, e cerca di non pensare troppo.
 
§
 

Si siedono davanti alla TV con piatti colmi di aragosta e zampe di granchio direttamente dal Distretto Quattro, e guardano i punteggi man mano che vengono trasmessi. La maggior parte non cambia molto, solo uno o due punti in meno o in più, e molti rimangono gli stessi. Steve arriva a un dodici, Natasha rimane dov’è. Ancora nessun tredici, e Peter conclude che non ve ne saranno affatto, perché si è sicuramente giocato il suo. Sorprendentemente, si mette il cuore in pace. Non pensa che ne soffrirà molto in ogni caso.

“Michelle Jones, Distretto Dodici, la nostra bellissima Dalia Nera,” annuncia il Gran Maestro. “Ha ottenuto un punteggio di… dodici.”

La stanza si colma di respiri trattenuti e di un piccolo applauso da parte di Tony.

“Michelle, è meraviglioso,” dice Janet.

“Ben fatto, ragazza,” dice Tony, rivolgendole un gran sorriso.

“Sei salita,” commenta Peter, e avrebbe la tentazione di abbracciarla, come ha già fatto, di stringerle la mano, qualunque cosa, ma si limita a un sorriso.

Lei scrolla le spalle. “Di nuovo, non me ne frega nulla di quello che dicono. E neanche a te dovrebbe,” dice, spaccando una zampa di granchio.

“Ha ragione, Pete,” dice Tony. “Qualunque cosa dicano, non ha importanza.”

“E dulcis in fundo, il nostro fantastico Spider-Man,” dice il Gran Maestro.

Peter trattiene il fiato, preparandosi.

“Ha ottenuto un punteggio di… wow, tredici. L’unico tredici di oggi e l’unico doppio tredici sul tabellone. Spero che tutti abbiano scommesso di conseguenza!”

Peter guarda fisso di fronte a sé, a bocca aperta ma con tutte le parole bloccate da qualche parte in gola. Sente un altro assurdo fischio nelle orecchie.

“Woha,” esclama MJ.

“Ma che cazzo…” esala Peter, interrompendosi, e si gira verso Tony.

Lui sta ancora guardando la TV, con lo shock che trapela anche dalla sua espressione. “Quindi, uh. Insomma.”

“È un… è un bersaglio, vero?” chiede Peter, con la pelle d’oca sulle braccia.

“Credo di sì,” replica Janet, picchiettando delicatamente la forchetta sul bordo del piatto. Scambia un’occhiata fugace con Tony, per poi continuare: “L’Uno e il Due faranno probabilmente gruppo per darti la caccia.”

Peter annuisce, mordicchiandosi l’interno della guancia, e ripensa a Beck.

“Ma lo sapevamo,” dice Tony, rapido. “Lo avevamo previsto.”

Peter si chiede se gli avrebbero dato un tredici a prescindere dalla sua performance, ed è lieto che, almeno, è stato in grado di mostrare loro qualcosa. Qualcosa che li ha colti di sorpresa.

“È andata come è andata, e va bene, è tutto a posto,” dice Tony, stringendogli la spalla. “Finisci di mangiare, su. Questo è uno dei pasti migliori che faremo per un po’ di tempo, se tutto va come deve andare.”

Peter irrigidisce la mascella e annuisce, pensando di nuovo al Dopo. Si chiede come sia il cibo nel Tredici. Riesce a malapena a immaginarlo, perché il Tredici fino a poche settimane fa non era neanche reale nella sua testa. “Andrà tutto come deve andare,” dice poi. “Tutto… tutto andrà come vogliamo noi.” Cerca di costringersi a crederci. Sarà il loro testimonial, se significherà l’inizio della fine per Capitol e ciò che hanno fatto a Panem. Lo sarà per tutto il tempo necessario.

“Giusto,” dice Tony. “Andrà tutto bene.”
 
§
 

Gli Hunger Games sono domani. Peter continua a pensarci, ancora e ancora, come i versi di una canzone che non vuole conoscere. Fa colazione, gli Hunger Games sono domani. Ha un incontro con i fan, gli Hunger Games sono domani. Un uomo di nome Sinclair gli fa delle domande, gli Hunger Games sono domani. Una bambina gli sussurra all’orecchio che spera che vinca lui, gli Hunger Games sono domani. Ogni minuto gli sembra rubato, ed è furioso che passi, e cerca di ripetersi che è fortunato se l’intervista del Gran Maestro è nel pomeriggio, così avranno la sera e la notte libere.

La sua ultima notte. Vorrebbe pensare che sia la sua ultima notte da persona libera, ma non è mai stato libero da quando è arrivato qui. In realtà, non sono mai stati liberi. Peter pensa a tutti gli infiltrati di cui gli hanno parlato Thor e gli altri. Si aggira sul territorio di Capitol e pensa alla rivoluzione che cova. Pensa che presto tutto sarà diverso. Presto, se le cose andranno per il verso giusto, ne farà parte. Combatterà come hanno fatto i suoi genitori, contro coloro che li hanno oppressi, costretti in situazioni di cui non volevano far parte.

Peter vuole una vita vera.

E prega e prega e prega. Soffoca gli Hunger Games sono domani con le preghiere. Con pensieri di come potrebbe essere la vita, se riusciranno a raggiungere la vera libertà. Una vera vita, senza tutto questo. Riesce a malapena a immaginarselo, e allo stesso tempo se lo immagina troppo.

È dietro le quinte con indosso il nuovo costume di Spider-Man, spalla a spalla con Sam, e c’è troppo silenzio quaggiù. Scocca un’occhiata laterale e vede Steve, affiancato a Natasha; lui è vestito di rosso, bianco e blu, lei completamente di nero. Shuri intercetta il suo sguardo e gli fa un cenno di saluto, che lui ricambia, prendendo nota del sogghigno che M’Baku invia nella sua direzione.

“Tony mi ha mandato un messaggio, dice che Beck ha parlato di te nella sua intervista,” dice Sam.

“Cosa?” chiede Peter, stringendo gli occhi e preso alla sprovvista dalla notizia.

“Niente di troppo strano, ha detto solo che ti terrà d’occhio nell’arena,” dice Sam. “È stato piuttosto ambiguo, nel senso… tenerti d’occhio o… tenerti d’occhio, non so se mi spiego.”

Peter sospira.

“Sarai perfetto,” dice Sam, dandogli una pacca sulla spalla. “Questa è l’occasione per giocare sul senso di colpa. Fa’ capire loro che tutto questo non va bene, che non vuoi morire. Conquistali a suon di umanità. Le domande si concentreranno più sui Giochi, sulle famiglie e la possibilità di vincere, o di, uh, non vincere, e te la cavi molto bene con gli occhi dolci.”

Peter sorride, scuotendo la testa. “Non lo faccio apposta,” ribatte.

“Già, è per questo che funzionano,” dice lui. “Ehi.”

Peter si gira per guardarlo.

“Uh, quello a cui stai pensando, che hai in testa, riguardo ad ora, a quando sarai lì, al dopo, riguardo a– a ciò che dovrai fare, quello che avete pianificato… so tutto,” dice, e i suoi occhi sono acuti, le sue intenzioni chiare. “E non mi è permesso scommettere, ma se potessi, scommetterei su di te. Capisci quello che intendo? Sto con te. Okay?”

Peter ha un brivido e annuisce, perché sa ciò che intende.

“Tutti gli stilisti sono con te,” dice Sam. “E la maggior parte degli accompagnatori. Incluso Hammer. Siamo con te.”

“Oh,” esala Peter, sentendosi girare la testa. “Wow, uh.”

“Già,” replica Sam. “Tutti sanno cosa dire e cosa fare. Okay?”

“Okay,” mormora Peter. Gli fa venire i brividi. C’è così tanta gente che conosce. Molta di più che non conosce.

Sam gli fa un cenno, rivolgendogli un sorrisetto storto, poi abbassa lo sguardo sul bracciale che ha al polso. “Mi hanno dato il segnale,” annuncia. Gli dà un’altra pacca sulla spalla, accompagnata da un ultimo sguardo eloquente. “Ce la puoi fare, Peter. Fai come abbiamo detto, sii sincero, scioccali. Butta giù quel palco, cazzo. Non preoccuparti di sembrare tenero. Va bene così, fai come ci siamo allenati a fare. Ti amano già. Ricorda loro perché.”

Peter annuisce, per poi abbracciarlo con slancio, stringendolo forte. Sam ride, dandogli una pacca sulla schiena e cingendogli la nuca.

“Sei un bravo ragazzo,” dice Sam, con la voce che gli si incrina un po’. Si ritrae, con un ultimo cenno d’assenso per rassicurarlo. “Vai, prima che il Gran Maestro invii una squadra di ricerca.”

“Va bene,” mormora lui. “Va bene, va bene.” Si volta e sale gli scalini, preparandosi alle luci accecanti. E lo accecano, facendo scomparire ogni cosa, ma cerca di non trasalire e avanza con più sicurezza dell’ultima volta.

Il pubblico è impazzito.

“Eccolo qui, eccolo qui, eccolo qui, signore e signori!” esclama il Gran Maestro, e le luci si inclinano verso l’alto, permettendogli infine di vedere. Sembra esserci molta più gente rispetto alla prima intervista: il pubblico straborda nei corridoi tra i sedili, altri sono quasi uno sopra l’altro, e Peter individua subito Tony, Janet, Thor e Carol proprio in mezzo alla folla, mentre lo applaudono e lo salutano.

“Fatti avanti, fantastico Spider-Man,” lo esorta il Gran Maestro, facendogli strada verso la nuova poltrona sul palco, più alta dell’ultima e di un bianco candido. “Siedi, siedi, siedi, mettiti comodo.”

“Grazie,” dice Peter, sorridendogli e accomodandosi nella poltrona dallo schienale rigido mentre gli applausi si smorzano. “È, uh, bello vederti di nuovo.”

“È bello vedere te, con un bel completo nuovo, vedo,” dice il Gran Maestro, e la gente riprende a esultare. “Sam Wilson è semplicemente… insomma, non potrei lodarlo abbastanza, ad essere sinceri.”

“Vorremmo davvero poter indossare i suoi lavori nell’arena,” tenta Peter.

“Oh, sì, quello sarebbe meraviglioso,” dice l’altro. “Sfortunatamente nell’arena preferiamo il pendant, ma magari un giorno potremo offrire più scelta in questo ambito. Presidente Stane, ha sentito?” guarda in alto, ridendo, e qualcuno applaude.

“Già,” replica Peter. “Magari un giorno.”

“Sì, sì,” concorda il Gran Maestro, chiaramente pensando a molti altri Hunger Games futuri. “Adesso, Peter, tu sei l’unico Tributo quest’anno ad aver ricevuto un punteggio di tredici, e in entrambi i giudizi, inoltre. Come diavolo ci sei riuscito?”

“Non so se me lo merito,” dice Peter, abbassando lo sguardo sulle proprie mani in grembo. “Non sono sicuramente meglio della maggior parte degli altri Tributi, soprattutto non di Michelle.”

“Beh, il consiglio non sembra pensarla così,” dice il Gran Maestro. “Anche se lei c’è andata vicina.”

“Non so come ho fatto,” ripete Peter, chiedendosi che impressione stia dando. “Ho solo… fatto del mio meglio.”

“Ma guardatelo, signore e signori, il nostro ragazzo è così umile.”

Una serie di applausi tonanti segue quell’affermazione, e Peter sorride appena tra sé.

“È tutto merito di Tony,” dice Peter, cercandolo con lo sguardo nel pubblico. “Mi ha insegnato tutto ciò che so, e… e sta facendo del suo meglio per tenermi vivo. Non vuole perdere qualcun altro. Vuole salvarmi, aiutarmi a salvare me stesso.”

Il pubblico reagisce alle sue parole, e all’increspatura nella sua voce.

“Lo vogliamo tutti,” dice il Gran Maestro. “Tutti, tutti quanti. Dio benedica Tony Stark.”

Peter annuisce mentre il pubblico grida il proprio consenso, e vede Tony ricambiare, indicando però lui sul palco.

“Quanto ti senti preparato per l’arena?” chiede il Gran Maestro. “Sappiamo tutti che è spaventoso, pensare di andarci, soprattutto considerando che non sappiamo nulla di ciò che vi aspetta. La sorpresa è sempre incredibile, ogni anno.”

“Non so se qualcuno possa sentirsi pronto, anche se dice di esserlo,” dice Peter, cercando di inghiottire la paura. “Non possiamo fare piani in anticipo, possiamo solo allenarci, cercare di migliorare, ma è… impossibile essere davvero preparati, considerando che andiamo alla cieca. Riesco solo a pensare a cosa potrebbe succedere se… se, beh, accadesse il peggio.”

“Il peggio.”

“Mia zia ha già perso suo marito,” dice Peter, e le lacrime che arrivano sono vere, per fortuna. “Mio zio. E io… Dio, non voglio… non voglio lasciarla sola. Non voglio che si trovi costretta a seppellirmi.” Non sa nemmeno se alle famiglie sia concesso seppellire i corpi. Pensa proprio di no. Scommette che non glieli fanno neanche vedere.

La gente inizia a mormorare, alcuni gridano cose che Peter non riesce a sentire chiaramente, e c’è molto movimento. Il Gran Maestro sembra scioccato, e si sporge in avanti, prendendogli la mano.

“L’ultima volta ho detto che non voglio lasciarvi,” continua Peter, “e non voglio, ma… ma non so se i regali degli sponsor saranno abbastanza. Con quello che ci manda contro Capitol, quello che ho visto negli scorsi Giochi…”

Sente qualcuno che urla NIENTE PIÙ MUTANTI, e ci sono altri mormorii, più agitazione.

“… insomma… non mi sento preparato,” dice infine. “Non credo ci sia modo per nessuno di noi di esserlo. È come un incubo. Non sai mai quello che faranno.” È sul bordo, in equilibrio sull’orlo del precipizio. Ogni parola è un’arma.

Il Gran Maestro sembra preso alla sprovvista, il che è raro da vedere, e Peter cerca di sfruttarlo a proprio vantaggio.

“Se ci ripensate, in tutti gli anni passati, ci sono stati… così tanti morti,” dice Peter, rivolgendo lo sguardo al pubblico. “Ventitré, ogni anno, per sessant’anni. Non voglio essere fra loro. È questo che continuo a pensare. Morto, andato.”

“No, no, Peter,” dice il Gran Maestro, stringendo la mano di Peter. “Hai ottenuto quei tredici per una ragione.”

“Temo che qualcuno potrebbe considerarli una ragione per prendermi di mira,” dice Peter, e c’è ancora qualche richiamo da parte del pubblico. Vede dei palmari che spuntano fuori, e si chiede cosa stiano facendo. “E lo capisco. Anche loro vogliono vivere.”

“Ma tu sei forte,” dice il Gran Maestro. “Sei in grado di farcela.”

“Siamo solo persone,” replica Peter. “Persone che vogliono rimanere in vita. Non voglio uccidere nessuno. Penso che potrei, penso davvero, adesso, di… come hai detto tu, di essere in grado, ma semplicemente… non voglio farlo. Come si può? Riuscite a immaginarlo?”

Altri mormorii, altri palmari, e Tony lo sta guardando fisso.

“È molto difficile,” dice il Gran Maestro. “È per questo che tutti i Tributi vengono addestrati ad essere così… così forti, così abili, i cittadini di Capitol potrebbero… insomma, non potrebbero… neanche provarci, ne sono sicuro…”

“Come ho detto in precedenza,” riprende Peter, “farò tutto ciò che posso per… per sopravvivere. Ma so che tutti gli altri faranno esattamente la stessa cosa, non li biasimo, è solo che… quanta morte possiamo sopportare? Prima che il suo fetore rimanga con noi, per sempre?” Scuote la testa in direzione del pubblico, e alcuni di loro sembrano orripilati, alcuni digitano sulle tastiere. Peter vede Tony controllare il proprio palmare e scorrere qualcosa. “Tutti vogliamo soltanto vivere. È ciò che ci motiva. Vogliamo uscire dall’altra parte.”

“È molto difficile, questo è certo,” dice di nuovo il Gran Maestro, chiaramente impaziente di dirottare il discorso. “Ma io so – riesco a vederlo – che tu riceverai tutto ciò che ti servirà.”

“Lo spero,” dice Peter, e abbassa di nuovo lo sguardo non appena il Gran Maestro gli lascia la mano. “Vi ho detto che Tony è stato il mio eroe sin da quando ero bambino e… e non voglio che mi veda morire. Voglio vivere la mia vita e riuscire a conoscerlo al di fuori di tutto questo… voglio che sappia chi sono veramente, senza che debba farmi da mentore. Vorrei… vorrei averne la possibilità.”

Il pubblico mormora, alcuni si asciugano gli occhi, e Carol si sporge per sussurrare all’orecchio di Tony.

“E la avrai,” afferma il Gran Maestro. “Ho in te la più assoluta fiducia, Peter Parker. Ti immagini come sarà, vincere? Uscirne vivo, come vuoi fare così disperatamente?”

“Sarebbe molto... silenzioso,” dice Peter, con una lacrima che gli riga il volto. “Mi chiedo quanti di voi abbiano perso delle persone. Quanti le abbiano viste andarsene. È una… cosa difficile da accettare. Essere la persona che sopravvive agli altri.”

“Certamente,” concorda il Gran Maestro. “Certamente, è così.”

Peter non sa se stia dando l’impressione che dovrebbe dare, e si sente in trance, spezzato e abbandonato ai propri pensieri, dando loro forma nel posto sbagliato. Non sa se l’impatto che sta avendo sia giusto. Sta parlando in codice, raccontando metà della storia. Perché sa che, anche a questo punto, non può spingersi troppo oltre. Non può spingersi oltre.

“Voglio solo… essere al sicuro,” dice. “Voglio che le persone siano al sicuro.”

“Assolutamente,” replica il gran Maestro.

“Ma quello che voglio dire,” continua Peter, “è che non importa cosa accadrà, come andranno le cose, voglio essere qualcuno che… qualcuno che potrà essere ricordato.” Sente qualcuno che piange, alcuni stanno scattando delle foto, anche se non è permesso. “Voglio essere qualcuno che possa… dare l’esempio. Non– non ho mai voluto essere qui, mi sono offerto volontario senza pensare perché voglio bene al mio migliore amico e non volevo vederlo morire, ma non– non voglio essere perduto, come tanti altri.”

“Non potremmo mai dimenticarti, Peter,” dice il Gran Maestro. “Non potremmo mai.”

Sente qualche coro di mai! Mai! e hanno un seguito, diventando più sonori.

“Vorrei solo che le cose fossero diverse,” dice Peter. “Ma adesso sono qui.”

“Adesso sei qui.”

“Se vinco…” comincia, interrompendosi. “Beh, se vinco, spero che… vinceremo tutti. Perché sarò qui per voi, e per tutti coloro che mi hanno aiutato a sopravvivere.”

Qualche fischio, qualche esclamazione.

“Vorrei solo che le cose fossero diverse,” ripete Peter. Vuole che quel concetto sia chiaro. Diverso. Perché se il piano funziona, tutto sarà diverso.

ANCHE NOI! ANCHE NOI! LO VOGLIAMO!

“Stai pensando a Michelle?” chiede il Gran Maestro.

“Sì,” dice Peter, senza fiato. “Ci penso ogni giorno. Ogni volta che mi tiene la mano o mi guarda. Penso a tutti loro, a tutti i loro volti, tutti quelli di quest’anno. E degli anni passati… James Rhodes, Maria Rambeau. Danny Rand. Hank Pym. Hope Van Dyne. Ci sono così tanti nomi. Non voglio… non voglio che nessuno di noi finisca su quella lista.” Sta ondeggiando sull’abisso. Pericoloso. “Voglio solo… che ci sia una luce in fondo al tunnel.” Una vita diversa, per tutti. Niente più Hunger Games. Vuole dirlo. Vuole che lo sentano tutti.

“Ma ti difenderai, vero?” chiede il Gran Maestro. “Ti ho già chiesto una cosa simile, in precedenza, e sei stato… intrigantemente vago.”

“Sarò sincero con voi, non riesco ad accettarlo,” dice Peter. E poi cambia la sua linea di pensiero – fa un’inversione a U rispetto al destinatario del messaggio, di chi immagina, e spera che gli infiltrati là fuori stiano guardando, quegli influenzabili cittadini di Capitol che potrebbero essere dalla loro parte se spinti nel modo giusto. Pensa al governo, al Consiglio dei Giochi, ai Pacificatori. Stane. Le persone che vuole combattere. “Ma mi difenderò. Sì. Farò tutto ciò che posso per difendermi. Cosa non faremmo, per essere liberi? Di tutto. Non se lo aspetteranno mai, da me.”

“Wow,” esclama il Gran Maestro. “Eccolo qua.”

Peter annuisce, deglutendo a fatica.

“So che c’è molta emozione al momento,” continua poi. “Comprensibilmente–”

E poi il clamore del pubblico diventa troppo forte, e cominciano tutti a dire la stessa cosa. In coro, ripetendola all’infinito:

“SALVATE PETER PARKER! SALVATE PETER PARKER! SALVATE PETER PARKER!”

A Peter cade la mandibola, e li fissa ad occhi sgranati. Gli si secca la bocca e sente i brividi attraversagli tutto il corpo, sotto il costume.

“Li senti?” chiede il Gran Maestro, cercando di farsi sentire. “Stai tranquillo, signor Parker. Penso proprio che siano dalla tua parte.”

Il Gran Maestro gli prende la mano e lo fa alzare in piedi, presentandolo a tutti, e loro continuano a urlare in coro, non si fermano, non si fermano, e le parole quasi non sembrano più parole.

Anche Tony, Carol, Thor e Janet si uniscono al coro.

 
§
 

Salgono in macchina subito dopo le foto di gruppo dei Tributi, e fuori c’è ancora il sole. Ancora qualche ora di luce.

“Sei andato bene,” dice Tony, dandogli una pacca sul ginocchio. “Sei andato davvero bene.”

“Stavo dicendo quello che volevo dire, ma non stavo comunque dicendo quello che volevo dire,” dice Peter. “Sembravo per metà egoista, per metà spaventato, e il resto era… a un passo così da cose che non avrei il permesso di dire. Cose per cui ti uccidono e torturano. Avevo già un bersaglio sulla schiena e adesso è ancora più grande.”

“Invece no,” ribatte Tony. “Andava bene, okay? Hai guadagnato simpatie. Sei qualcuno in cui tutti si possono rispecchiare. Vuoi sapere cosa stavano facendo coi palmari mentre parlavi? Eh?”

“Cosa?” chiede Peter. “Parlavano di me sulle chat?”

“No,” replica Tony. “Anche se sono certo che lo stiano facendo adesso. No, si stavano iscrivendo per diventare sponsor. Alcuni di quelli che ho ricevuto non si schierano mai coi distretti minori. Mai. E ho ricevuto ventisei sponsor in quei dieci minuti, ragazzo. Sei vero, sei schietto, dai loro speranza, li stai facendo pensare a cose che probabilmente non hanno mai considerato. A volte devi aggirare le regole del loro gioco per ottenere qualcosa. Alcuni ci hanno provato prima, ma… tu lo fai e basta. Non fai finta.”

Peter si asciuga gli occhi, annuendo. Dà un’occhiata a Janet e MJ, e MJ lo sta guardando. Ha sempre paura che gli volti le spalle per via di tutta la stupida attenzione che attira, ma lei non lo fa mai. Sorride e basta, rispondendo con un cenno a qualcosa che le ha detto Janet.

“Fai finta che non sia domani,” dice Tony, mentre la macchina fa una curva. “Fai finta che non esista. Stanotte è la nostra notte, della nostra squadra. Non accadrà nient’altro.”

“Non so se ne sono in grado,” replica Peter.

“Certo che lo sei,” dice Tony. “Ci sono tre tipi di stufato di mais che ci aspettano nell’attico, ragazzo. Tre.”

Peter sorride tra sé. “Okay,” cede. “Insomma, è… è un inizio.”
 
§
 

“E se ne stava là di fronte al Pacificatore,” dice Peter, ridendo così forte da riuscire a malapena a respirare, “e gli fa: ‘scusi, è solo… che è finita oltre il confine. E so che noi non possiamo andarla a prendere…
’ 

“E ci è andato lui?” chiede MJ, sogghignando.

“Sì,” ride Peter, prendendo un’altra cucchiaiata di stufato. “Ben è rimasto lì, si è… radicato sul posto, e May era sul retro a riparare la sedia del portico cercando di non ridere…”

“Quello stronzo,” dice Tony, interrotto da una risata nasale, “pensava che tuo zio avesse lanciato un pallone da calcio a centocinquanta metri da là? Come minimo?”

“Sono scemi come polli,” sorride Janet.

“Oh, questo qua sì,” dice Peter, ridendo ancora nel ricordare la faccia di Ben. “Quindi se n’è… andato via marciando nella foresta, e ha lasciato aperta la porta del bar, così i proprietari sono riusciti a dare a noi tutto quello che voleva far loro buttare.”

“Bravi,” conviene MJ. “Che idiota.”

“Già, e poi abbiamo distribuito tutto,” continua Peter, sorridendo a tutto spiano. “A quel tipo ci sono voluti cento anni per andare là fuori e trovare la palla. Ben era così felice.”

“Lo adoro,” dice Tony, ridacchiando tra sé. “Jan, tutto questo mi ricorda quello che hai fatto al Giorno di Festa…”

“Il Giorno di Festa,” sbuffa Janet. “Ovvero il giorno del ‘date a tutti una patata extra’”

“Aspetta,” dice MJ, chinandosi sui gomiti. “Aspetta, aspetta, sei stata tu? Quella volta?”

“È stata lei,” dice Tony, con orgoglio. “Era la nostra Janet.”

Janet prende un sorso di sidro e solleva le sopracciglia. “Ho dovuto solo distrarne tre, scalare un recinto, prendere tre sacchi pieni di patate dal loro posto e ammassarli…”

“Me ne ha tirati addosso quattro, da sopra il recinto,” interviene Tony. “Mi ha quasi steso, cazzo.”

Peter quasi si piega in due dalle risate, immaginandosi la scena. Si ricorda quell’episodio delle patate, circa tre anni fa. Avevano avuto la pancia piena per davvero, quel giorno di festa, a differenza di tutti gli altri.

“Ehi, prendi,” recita Janet, e lancia una pagnotta a Tony.

“Ehi, ehi,” protesta lui, deviando il colpo, e tutti e quattro guardano il pane rotolare e fermarsi al centro del tavolo.

MJ chiude gli occhi, sorridendo tra sé. “Sto pensando al piano che funziona,” dice. “A tutti quelli del Dodici che si trasferiscono nel Tredici. O in qualche posto migliore. Un posto dove nessuno dovrà più avere fame.”

“Un posto dove non dobbiamo rubare patate,” dice Janet.

“Un posto senza Pacificatori,” esala Peter.

“Funzionerà,” dice Tony. “Immaginate una vita senza le loro regole. Potersene stare seduti al sole nei campi quanto ti pare. Indossare ciò che vuoi, quando vuoi. Non doversi preoccupare di ogni parola che dici. Niente polizia di stato. Solo… solo…”

“Libertà,” completa Peter. “Pace.”

“Tutto lo stufato di mais che vuoi,” dice Tony, dandogli una spinta sulla spalla.

Peter sorride al solo pensiero.

“Potrei avere un giardino,” dice MJ. “Potrei leggere quello che voglio.”

“Potreste studiare quello che volete,” dice Janet. “Non solo quello che vi impongono.”

“May non dovrebbe preoccuparsi così tanto,” dice Peter. “Ned potrebbe essere felice.”

“Mia sorella non sarebbe in pericolo,” continua MJ.

“Potremmo scoprire com’era prima il mondo,” dice Peter. “Prima di tutto questo. Prima che arrivassero loro a prenderselo.”

“Niente più uccisioni,” dice Tony. “Niente morti.”

“Niente più Tributi,” aggiunge Janet. “Niente più Giochi.”

È come se un peso fosse scomparso dalle spalle di Peter, e per un lungo momento gli sembra possibile. Si sente in grado di respirare, riesce a immaginarsi il tutto, possono farcela, possono vivere.

La TV si accende rumorosamente sul muro opposto.

“ATTENZIONE, CITTADINI. QUESTO È UN MESSAGGIO RIVOLTO A TUTTA PANEM. LA VISIONE DEGLI HUNGER GAMES È UN EVENTO OBBLIGATORIO. SARANNO TRASMESSI IN TUTTI I DISTRETTI E IN TUTTA CAPITOL. I GIOCHI COMINCERANNO DOMANI ALLE 15 IN PUNTO. FELICI HUNGER GAMES, E POSSA LA FORTUNA ESSERE SEMPRE A VOSTRO FAVORE.”

Il frastuono si dissolve e nessuno di loro parla, col loro discorso, le speranze e i sogni che si spengono in uno sfrigolio come se non fossero mai neanche stati espressi.

Gli Hunger Games sono domani.

Domani, Peter potrebbe essere morto.



*


 
   Tradotto da: ever in your favor: the beginning of the end, di iron_spider da _Lightning_


Note:

[1] Ho utilizzato la traduzione del film poiché la preferisco, in quanto quella del libro, almeno dal punto di vista metrico, non coincide affatto con quella inglese.
[2] Il gioco di parole poster-posteri è voluto, in linea con l'inglese poster-posterity.

[3] Questa frase è stata un incubo di traduzione; l'originale era "Peter-Pick-me-up", letteralmente "consolazione di Peter/tirare su Peter". Pick-me-up è anche un modo informale per chiamare il tiramisù in inglese, quindi ho optato per renderlo così, mantenendo il significato letterale del dolce anche nell'espressione italiana.

Note della traduttrice:

Cari Lettori,
Eccomi qua, sebbene un po' in ritardo, ma è stata una settimana piuttosto piena e ci sono un paio di passaggi che mi hanno fatto leggermente uscire di testa nel tradurli. Spero che il capitolo vi sia piaciuto <3
Un grazie enorme a Eevaa e Paola Malfoy per aver commentato gli scorsi capitoli, e a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste!
Alla prossima (stavolta spero puntualmente),

-Light-

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Conto alla rovescia ***


Capitolo 9: Conto alla rovescia



 
 
Peter è seduto nella doccia con l’acqua bollente che gli scivola sulla schiena, e pensa a dove sarà stasera, tra solo poche ore. In un qualche luogo solitario, remoto, come un ratto in una teca di vetro. L’intero paese seguirà ogni sua mossa – lo vedrà correre per salvarsi la vita, lo vedrà commettere errori, lo vedrà dormire. Sempre se riuscirà a farcela fino alla prima notte. May e Ned lo guarderanno. Tutto il Dodici. Tony e Janet. Tutti loro, colmi di paura.

Questa è l’ultima doccia che si farà per un bel pezzo. Forse per sempre.

No. Non pensarci.

Rivolge la testa verso l’alto e chiude gli occhi contro l’acqua.

Non si ripulirà mai abbastanza da tutto questo.

 
§
 
 

Non deve ancora mettersi qualunque abito vorranno che indossi nell’arena, e fissa il suo armadio straripante di vestiti per un tempo che sembra infinito. Non sono davvero i suoi vestiti. Non sa perché gliene abbiano dati così tanti, non sarebbe mai stato in grado di indossarli tutti. Si chiede cosa ne faranno, se dovesse morire nell’arena. Si chiede se sarebbe Tony ad occuparsene.

No, no. Non pensarci. Sa che non tornerà qui, comunque andrà. Piano o non piano.

Fa scivolare le dita sulla stoffa come sulle pagine di un libro.

Sceglie qualcosa di comodo, si veste e attraversa la stanza, lasciandosi cadere di faccia sul letto. Si sente così strano, come se il tempo non stesse scorrendo a dovere, e niente gli è mai sembrato più reale e più finto al contempo. Ha avuto cose da fare, ogni singolo giorno, e adesso non c’è nulla. Adesso c’è l’attesa.

Se pensa troppo intensamente, il panico finirà per farsi strada dentro il suo cuore. Diventerà isterico. E non è quello di cui ha bisogno ora. Deve tenerlo a bada, deve tenersi al sicuro, pensare razionalmente. Ma non ha idea di come riuscirà a guardare chiunque di loro in faccia senza scoppiare in lacrime. È l'ultimo, l'ultimo, l'ultimo. Non c'è ritorno. È la fine. C’è un bussare alla porta, e persino quello gli fa spuntare le lacrime agli occhi. Non è di buon auspicio per dopo. 

“Ehi, Pete,” dice la voce di Tony. “Ho la colazione. L’abbiamo preparata io e Janet, il che vuol dire che… è meglio del solito.”

Peter si tira su a sedere stropicciandosi gli occhi, tirando su col naso e sforzandosi di darsi una calmata, di trovare un senso di normalità. “Uh, entra,” dice, con una voce stridula e imbarazzante.

La porta si apre e Tony entra indietreggiando con un vassoio in mano; le sue sopracciglia si aggrottano quando si volta. “Oh, ehi, potevi rimanere in pigiama per un po’, non, uh… non dobbiamo essere pronti prima di un’oretta.”

“Oh,” dice Peter, guardandolo entrare. Ha già affrontato le cinque fasi del lutto del suo pigiama, sapendo che non l’avrebbe più rivisto. Sono quelle cose piccole, stupide.

“Avrei dovuto dirtelo,” mormora tra sé Tony, quasi imprecando.

“Non fa niente,” dice Peter. “Sto… sto comunque comodo.”

“Bene,” replica lui. Si avvicina, poggiando il vassoio tra le lenzuola e il piumino, e gli dà una pacca sulla spalla. “Avevo pensato di farti un margarita, poi mi sono ricordato del nostro patto.”

Peter ride, spostando lo sguardo sul vassoio. Pancake, toast alla francese, fragole, bacon e uova strapazzate. Ha fame, ma gli si sta comunque rivoltando lo stomaco. Ripensa a quando Tony gli ha detto come trovare cibo nell’arena, e che a volte lo mettono negli zaini sparsi in giro, se riesce a trovarli. Si sporge, addentando una fragola. “Grazie,” dice. “Sembra tutto buonissimo.”

“C’è altra roba, se vuoi,” dice Tony, là in piedi con le braccia incrociate sul petto. Sposta il peso da un piede all’altro per qualche istante, e Peter intuisce che deve dirgli qualcosa che non vuole dirgli.

“Cosa c’è che non va?” gli chiede. “A parte… l’ovvio.”

Tony schiocca la lingua, fissandolo. “Uh, hanno detto che nessuno dei regali che hai ricevuto sono permessi nell’arena. Niente spada, nessun vestito, niente ascia. Ti è concesso un portafortuna e, adesso, non voglio sembrare egocentrico, ma ho immaginato che volessi portare la spilla che ti ha dato Ned.”

“Oh, sì, sicuramente,” dice Peter, tra un boccone e l’altro, cercando di ricordare dove l’ha lasciata quando l’ha tolta, appena arrivato. Lancia un’occhiata al comodino, e vede che non è lì. “Neanche gli spara-ragnatele?”

“No,” risponde Tony, guardandosi i piedi. “Ma non per il loro giudizio. Possiamo inviarteli dopo che sarà cominciata, e puoi farne una versione più rozza nell’arena, quei materiali sono sempre disponibili. Spero solo che troverai quello che ti serve per il fluido.”

Peter annuisce, cercando di immaginarsi lì. Solo che non riesce a vedere nulla, perché non sa come sarà l’arena. Al momento, vede solo il vuoto. Si vede galleggiare, cadere, strozzarsi col suo stesso respiro. Inchiodato da mille frecce. Appeso a un cappio.

“Comunque, cerca… goditi la colazione, rilassati, per ora, io vado ad assicurarmi che tutto… proceda senza intoppi.” Tony lo guarda per un secondo, inclinando di lato la testa, e gli fa un cenno, uscendo dalla stanza.

Peter non è abbastanza forte per richiamarlo, dirgli che vuole passare più tempo possibile con lui finché può. Così rimane seduto lì, e dà un morso al suo toast.

 
§
 
 

Peter pensava che se la stesse cavando bene. Abbastanza bene, considerando che sta per scendere in un’arena mortale nel giro di poche ore. Ma bastano pochi tentativi infruttuosi nel cercare la sua spilla di Iron Man per farlo esplodere. Non è appuntata sui vestiti della Mietitura, non è sotto al letto, non è in nessuno dei cassetti, e lui precipita nel panico più totale. Sente il mondo che si chiude su di lui, si sente come quando era ubriaco, solo che adesso non è più divertente, cazzo, e riesce a malapena a respirare, lancia cose a destra e a manca con una sola e unica intenzione: trovare quella dannata spilla.

Non riesce a smettere di tremare.

Non sa quanto tempo passa a cercarla. Gli sembra un’eternità, e sa – lo sa – che sta per scadere. Il suo tempo qui, la sua vita al di fuori dell’arena, e continua a ripetersi che questo è importante, si ripete che ce la farà, che vivrà, in ogni caso. Avrà altri anni, avrà altri momenti. Ma è troppo cosciente del tempo che passa, così cosciente di stare mettendo a soqquadro la sua stanza quando potrebbe rilassarsi, passare quel tempo con gli altri.

“Dove diavolo è?” borbotta, ispezionando tutti i prodotti e le cavolate che gli hanno messo in bagno, la metà delle quali inutilizzata. “Non può essere sparita.”
Fa qualche passo indietro nella sua stanza, guardandosi attorno nel caos che ha creato, e prende finalmente nota dell’orario: gli rimane mezz’ora prima di dover andare.

Si sente sul punto di vomitare.

Esce in soggiorno, con le lacrime agli occhi, e vede Tony che parla con Hammer. Al primo muoiono le parole in bocca nel momento in cui vede la sua faccia, e gli si fa incontro prendendogli il braccio.

“Cosa–”

“Non trovo la mia spilla da nessuna parte,” sbotta Peter, scuotendo la testa. “Ho cercato davvero dappertutto, e devo– devo trovarla prima di andare, devo– devo trovarla, devo–”

“Va tutto bene,” dice Tony, gentilmente, con calma, esattamente quello di cui lui ha bisogno adesso. “Va tutto bene, la troveremo, d’accordo? La troviamo–”

“Aspetta, una spilla di Iron Man?” chiede Hammer, sollevando le sopracciglia.

“L’hai vista?” chiede Peter, con un balzo al cuore. Suona dannatamente patetico.

“Sì, era qui sul tappeto,” dice Hammer, dirigendosi verso la TV. “L’ho messa sul mobiletto della TV, perché so che a volte cenate sul tavolino da caffè.” Peter segue ogni sua mossa, e vede la spilla là sopra prima che Hammer la prenda, in un brillio di luce che filtra dalla finestra. Lo osserva mentre la solleva, passando il pollice sopra la maschera. Torna verso di lui, camminando più rapidamente di quanto faccia di solito, e lascia cadere la spilla nel suo palmo teso.

Il suo sollievo è palpabile, la fissa come se non fosse realmente lì, e ha un flash di Ned, in quell’istante prima che tutto cambiasse, nel Dodici. Le sue spalle si incurvano, e il dolore al petto si smorza appena.

“Ecco fatto, hai visto?” dice Tony, strizzandogli la spalla. “Eccola qua.”

“Grazie,” dice Peter, risucchiando un respiro stentato, e fa un passo avanti abbracciando Hammer. Chiude con forza gli occhi, cercando di calmarsi, di respirare.

“Ehi, ehi, ragazzo, va bene,” dice Hammer, dandogli delle impacciate pacche sulla schiena. “Va tutto bene, è tutto a posto. Hai la tua spilla, sei a posto, siamo a posto.”

Peter annuisce, ritraendosi e asciugandosi gli occhi, la spilla ancora stretta nel pugno.

“Che succede?” chiede Janet, sbucando dal corridoio adiacente con MJ. “Beh, a parte…”

“Stiamo bene,” dice Tony, avvicinandosi un poco a Peter. “Non è successo niente.”

Peter libera un respiro, alzando lo sguardo e incontrando gli occhi di MJ. Vede sul suo volto lo stesso dolore che sente lui ovunque, e adesso il piano sembra precario, a dir poco. Riesce a malapena a pensare lucidamente, figurarsi credere che riuscirà a evadere da quella maledetta arena.

“Mh, le partenze… scaglionate stanno cominciando,” dice Janet, abbassando lo sguardo.

“Vi hanno chiamate?” chiede Tony, a voce un po’ alta. “Vi fanno andare adesso?”

Janet annuisce, grave.

Peter si sente girare la testa. “Aspetta, aspetta,” dice. “Pensavo che saremmo andati insieme. Pensavo che andassimo tutti insieme, che tutti… tutti i Tributi e i Mentori, pensavo– pensavo–”

“Tutti separati, tesoro,” dice Janet, gentilmente. “Cercano di… separare tutti sin dall’inizio, cercano di alienarvi, ma non… non permetterglielo, va bene?”

Peter non riesce a smettere di tremare, a tenersi in equilibrio, e il mondo si inclina. Si pianta un palmo sulla nuca, e cerca di ripetersi: il piano, il piano. C’è un piano.

“Dammi un abbraccio, Peter,” dice Janet, entrando nel suo spazio. Lui annuisce, con la gola costretta, e si scioglie contro di lei quando le sue braccia lo avvolgono. L’abbraccio gli ricorda quelli di May, e quelli di quando era piccolo, caldi e amorevoli, che dovevano essere stati di sua madre. Janet è stata un pilastro di forza per tutto questo tempo, perfettamente in sintonia con qualcuno come MJ, e Peter sa che deve farcela per lei. Per lei, e per ciò che le hanno sottratto, per suo marito e sua figlia. Peter deve far crollare tutto questo.

Gli dà un bacio sulla guancia subito prima di lasciarlo, e si schiarisce la gola, guardandolo da capo a piedi un’ultima volta.

“Posso,” comincia MJ, con occhi agitati, “uh, posso… posso parlarti per… per un minuto, Peter?” chiede. “Di là, uh, in– in corridoio?”

“Certo,” gracida Peter, troppo terrorizzato e preso dal panico per imbarazzarsi, e la segue nel corridoio centrale, lo sguardo fisso sui loro passi che si sincronizzano con così tanta naturalezza.

Una volta nella penombra del corridoio si volta verso di lei, cercando di inventarsi qualcosa di giusto da dire, ma lei lo carica in un abbraccio che quasi lo fa cadere a terra. Si aggrappa a lei, coi suoi capelli ovunque, e chiude gli occhi inalando il suo profumo.

“Non dare di matto,” gli dice, vicino all’orecchio.

“Non sto dando di matto.”

“Invece sì, assolutamente.”

Lui sospira, facendo scorrere una mano sulla sua scapola. “Sì, ok, è vero.”

“Andrà tutto bene,” dice lei, stringendolo ancora. “Funzionerà. Deve. Non devi pensare che siano Giochi normali, so che… so che stai pensando a tutti gli altri, a quelli che sono venuti prima di noi, ma… non farlo, adesso è diverso. È diverso, noi siamo diversi.”

Peter annuisce, riuscendo a malapena a registrare quello che sta dicendo al di là della propria paura.

Lei si ritrae, poggiandogli le mani sulle spalle. “Niente grandi addii, perché ti… ti vedrò più tardi,” dice lei, annuendo, e i suoi occhi tentennano in basso prima di incontrare di nuovo i suoi.

“Va bene,” replica lui. Suona come un idiota, come un macchinario rotto.

“Dimmi qualcosa che faremo dopo,” dice lei, sorridendo. “Dopo, hai capito. Dopo.”

“Oh,” replica Peter, sorpreso, e riesce finalmente ad afferrare quel concetto. “Uhm. Uhm.” Riesce a malapena a pensare, perché è rimasto bloccato in un bizzarro limbo per tutta la mattina, ma lei è proprio qui di fronte a lui, ed è così vicina e sta parlando del Dopo. Qualcosa che faranno dopo. Suona come qualcosa che dovrebbero fare insieme, non ognuno per sé.

Vuole conoscere ogni singola cosa riguardo a lei.

“Voglio farti conoscere May,” dice. “Penso che le piaceresti, un sacco.”

Il suo sorriso si allarga. “Bene,” replica, alzando un po’ il mento. “Bene, voglio… voglio conoscerla.”

“E magari,” dice Peter, con uno sprazzo di speranza che si fa strada dentro di lui, “magari, uh, magari possiamo… andare a cena insieme, un giorno. Solo noi due.” Dovunque saranno. Qualunque cosa staranno facendo.

Lei lo fissa, abbastanza a lungo da fargli chiedere se quella fosse la cosa sbagliata da dire, nonostante gli stia ancora sorridendo. “È… un appuntamento,” conclude, con un cenno.

“Michelle,” la chiama Janet, mentre Peter cerca di comprendere quell’ultima frase. “Ci hanno appena chiamate, tesoro.”

“Okay,” dice MJ, e Peter la guarda, un’ultima volta tra l’Ora e il Poi.

Lei lo lascia andare.

Saluta Hammer, Tony, e ne giro di un minuto sia lei che Janet sono sparite. Peter si sente come se qualcuno gli avesse perforato un polmone. MJ è sempre stata qui, per tutto il tempo. Anche Janet. Parte di questo…di questo inferno. Parte della squadra. E adesso se ne sono andate. Adesso si stanno avviando verso i Giochi, esattamente come dovrà fare lui. Tra poco.

“Ottimo,” dice Hammer, battendo le mani con chiaro sconforto. “È tempo di terminare ufficialmente il mio compito di accompagnatore. Ci riuniscono tutti per la prima notte.”

Peter ripensa a ciò che gli ha detto Sam. Che Hammer è con loro. Peter è bloccato tra l’orrore di non aver detto addio a Sam, e l’urgenza di dover dire qualcosa ad Hammer. Ma non c’è abbastanza tempo.

“Fai quel che devi, ragazzo,” dice Hammer, abbracciandolo di nuovo. Gli dà una pacca sulla schiena. “Facciamo tutti il tifo per te.”

“Ci… ci proverò,” replica Peter, mentre si separano.

“Possiamo fare qualcosa di speciale, qui, stavolta,” dice Hammer, con uno sguardo intento verso Tony.

“Il mondo è pieno di sorprese,” replica lui.

Hammer solleva le sopracciglia nella sua direzione, sporgendosi per dargli un colpetto sul braccio. “Stai in gamba, Anthony,” dice.

Poi se ne va anche lui.

Peter stringe la spilla nel pugno fino a intaccarsi il palmo. Tutto ciò che sente è il battito del proprio cuore e il silenzio assordante della stanza, e Tony che gli prende di nuovo il braccio.

“Mi sento ubriaco,” dice, e la sua voce risuona in modo terribile, come se fosse sott’acqua.

“Prendi un paio di respiri profondi,” dice Tony, guidandolo verso il divano e facendolo mettere seduto.

Si siede proprio accanto a lui e Peter si ritrova a tremare, coi pensieri ridotti a una poltiglia di bene e male, orrore e speranza, e respira a stento. Ha di nuovo sei anni di fronte a sua zia e suo zio, con una nuova vita davanti. Ha tredici anni ed è sporco di fuliggine, aggrappato alla mano inerte di Ben. Ha sedici anni un mese fa, e vede Ned che viene mietuto. Una frase pericolosa che esce dalla sua stessa bocca.

“Prova solo a rilassarti,” dice Tony, stringendogli il polso. “So che è difficile. Mi dispiace, Pete.”

“Va tutto bene,” dice lui, anche se non è vero.

“Vorrei spiegarti cosa succederà dopo,” dice Tony.

Peter annuisce con un brivido. Ma non fa freddo, qui dentro.

“Mi manderanno un segnale,” dice Tony, chinandosi leggermente in avanti, “poi dovremo scendere. Non ci saranno fan, né niente, quindi non devi preoccuparti. C’è una pista d’atterraggio per l’elivelivolo sul retro, passeremo per il corridoio sud. Ci porteranno loro – ovunque ci porteranno–”

“Non lo sa nessuno?” chiede Peter, alzando lo sguardo su di lui. “Neanche la posizione geografica?”

“No,” risponde Tony. “Non finché non comincia.”

“Quindi come faranno a trovarmi?” chiede Peter, affannato. “Anche se scappiamo, e funziona tutto, come– come mi troverete?” Non sa neanche se sarà Tony ad arrivare, ma spera di sì. Lo spera. Ma arriverà qualcuno, in generale? Dovranno uscire dall’arena a piedi da soli, spostarsi in chissà quale area del paese a loro sconosciuta? Ondeggia appena, chiudendo con forza gli occhi. “Non solo me,” esala. “Tutti noi, tutti–”

“Hai il diritto di pensare prima a te stesso,” dice Tony. “D’accordo? Ne hai il diritto.”

Peter annuisce, mordicchiandosi il labbro inferiore.

“Avrai un localizzatore nel braccio,” spiega Tony. “Te lo inietteranno nell’elivelivolo. Quindi lo hackeriamo e lo seguiamo. E quando vi recupereremo qualcuno lo rimuoverà.”

“Mi apriranno il braccio per toglierlo,” dice Peter. “Capito.” Se mai avrà ancora un braccio.

“Thor mi ha detto che a bordo ci sono anche dei dottori,” dice Tony. “Non sarà un’operazione chirurgica arrangiata, andrà tutto bene.”

Peter annuisce, e tutto gli sembra buio, e ci sono troppe voci nella sua testa.

“Quindi, l’elivelivolo ci porterà lì,” dice Tony. “Niente finestrini, così non potremo vedere nulla. E il complesso dell’arena avrà una pista d’atterraggio sotterranea, saremo proprio là sotto. Usciremo, ci scorteranno all’interno, ci spediranno nella nostra stanza. Poi dovrai cambiarti, e avremo un paio di minuti prima di farti entrare nel tubo.”

“Tubo?” chiede Peter, incontrando di nuovo i suoi occhi e respirando forte dalla bocca. “Cos’è, cosa–”

“Ti fa salire nell’arena,” risponde Tony. Peter riesce a cogliere un guizzo di paura sul suo volto, e ciò quasi lo porta al punto di rottura. Poi, però, gli cinge le spalle col braccio, sfregandogli la schiena. “Cerca solo di rilassarti. Respira e basta.”

“Va bene,” dice Peter, cercando di ricordarsi come respirare correttamente. “Okay, okay, ci– ci sto provando.”
 

 
§
 

Peter si guarda intorno, prendendo le misure di questo posto, di tutto ciò che è accaduto mentre ci ha vissuto, di tutte le parole che sono state pronunciate tra queste mura. Gli sembra più di un mese, ha l’impressione di aver vissuto cinque vite in attesa del giorno che sta finalmente vivendo. Attesa, terrore, il panico che gli scuote le ossa proprio ora. Il suo stomaco è un groviglio di nodi.

Si rifà il letto. Fissa gli ologrammi nelle finestre e pensa di poter entrare in quel mondo e vivere lì come un fantasma, in mezzo al fruscio degli alberi.

“Peter,” lo chiama Tony, dalla soglia. “Ho, uh, ricevuto il segnale.”

Peter ha l’impulso di rompere i vetri, di saltare fuori. Ma non vorrebbe che Tony lo vedesse.

Speranza. Abbi speranza. Pensa al Dopo.

“Okay,” risponde, deglutendo a forza, col cuore che sfarfalla. Si guarda intorno, si sente sprofondare e deglutisce di nuovo. Addio, stanza. Fa scorrere la mano sulla parete mentre si dirige verso la porta, e preme l’interruttore della luce, senza guardarsi indietro.

“Hai la tua spilla, giusto?” chiede Tony, affiancandolo.

“In tasca,” risponde Peter, tastandola per assicurarsi che sia ancora lì. Alza lo sguardo ancora una volta quando sono nel soggiorno; pensa a come, solo ieri sera, stessero ridendo e condividendo storie, immaginandosi quello che potrebbe accadere se tutto funzionerà a dovere. Adesso c’è silenzio, adesso si sta lasciando tutto alle spalle. Non lo vedrà mai più.

Si figura Tony qui, l’anno prossimo, con dei nuovi Tributi. Ma poi ricorda il discorso di Tony, prima che svenisse, dopo la Festa in Giardino. Non un’altra volta, non un altro anno. Lo dico sempre, ma ci siamo, questa è l’ultima goccia.

Peter prega, e prega, e prega.

“Continua a respirare,” gli ricorda Tony, mentre spengono le luci in corridoio.

Escono fuori e Peter pensa ai vestiti della Mietitura: gli sembra strano aver lasciato indietro qualcosa che gli ha dato May. Il suo cuore batte più velocemente mentre si avviano all’ascensore e si accosta di più a Tony, con la mascella contratta. Si sente a pochi minuti da un collasso, a pochi secondi, ma viene ritardato quando le porte dell’ascensore si aprono e dentro c’è Sam, in attesa.

Peter rilascia un respiro tremante.

“Grazie a Dio,” dice Tony, tenendo aperte le porte.

“Vieni qua, ragazzo,” dice Sam.

Non deve ripeterlo, e Peter corre verso di lui, abbracciandolo. Lo stringe forte, ha avuto una paura folle di non riuscire a dirgli addio. Sam è una buona metà del motivo per cui è riuscito a formare un qualche tipo d’identità qui, e gli trasmette fiducia.

“So che hai una tabella di marcia,” dice Sam. “Ma dovevo essere certo di salutarti.”

“Vorrei poter indossare una delle tue tute di Spider-Man,” dice Peter, tra i denti serrati.

“Tu sei Spider-Man, Pete,” replica lui, e si scosta, sfiorandogli la guancia e sorridendogli tristemente. “Sei quello che vede la gente, capito? So che dubiti di te stesso tutto il tempo, ma sei tu l’eroe, non il costume. Sei tu. Capito?”

Peter deglutisce a forza, sforzandosi di credergli.

“Muovetevi,” dice una voce meccanica, e Peter guarda da sopra la propria spalla, vedendo il Pacificatore accanto a Tony.

“Sta dicendo addio al suo stilista,” scatta Tony, mentre Peter si volta di nuovo.

“Ce la puoi fare,” dice Sam, intercettando di nuovo lo sguardo di Peter. “Okay?”

“Sì,” risponde Peter, e ha la gola così costretta che riesce a malapena a forzar fuori le parole.

“Ti rivedrò,” dice ancora Sam. “D’accordo?”

“Sì,” ripete Peter, stolidamente, e ci spera, ci spera, ci spera.

Sam annuisce, con molta più sicurezza di quanta senta Peter, e gli prende la mano, passandogli qualcosa. “Non è molto, ma pensavo che ti sarebbe piaciuto per far compagnia a quella tua spilletta di Iron Man.”

Peter abbassa lo sguardo, si fissa il palmo e vede una nuova spilla: un piccolo ragno nero su uno sfondo di ragnatele rosse.

“Non premerla a meno che tu non ne abbia bisogno,” dice Sam, facendogli l’occhiolino quando lo guarda di nuovo.

Peter trattiene un respiro, chiedendosi che diavolo voglia dire. La fa scivolare rapidamente in tasca assieme a quella di Iron Man, sperando che il Pacificatore non stia prestando troppa attenzione. “Grazie,” sussurra Peter.

“È ora di andare,” dice il Pacificatore, come se sapesse che Peter stava pensando a lui.

“Mi faccio sentire, Sam,” dice Tony, e prende gentilmente Peter per il braccio, frapponendosi tra lui e il Pacificatore.

“Ci vediamo dopo,” replica Sam. Punta l’indice contro Peter. “Faccio il tifo per te, Spider-Man.”

Peter sorride, sull’orlo delle lacrime, e si volta quando Tony lo sospinge oltre il Pacificatore e verso l’uscita sul retro. “Sono… sono contento di averlo visto,” dice, di nuovo spalla a spalla con Tony. “Mi ero preoccupato.”

“Non ti avrebbe lasciato andare senza salutarti,” replica Tony.

Peter si sente dissociato per metà mentre camminano, rotto per metà, sta cadendo a pezzi ma tiene su la sua facciata: che sta bene, che questo è normale, che incamminarsi verso una probabile morte è la cosa più naturale del mondo. Non fanno vedere in TV i crolli emotivi, se qualcuno li ha, e Peter si chiede se può arginare quello che sente in arrivo. Si sente ogni secondo sul punto di vomitare, di svenire, è come se stesse perdendo tempo, gli sembra di mancare un gradino ad ogni passo, ad ogni secondo.

Tony gli tiene aperta la porta, e vede l’elivelivolo.

Si ferma incespicando, e una forte ondata di nausea lo investe. Non è mai salito su niente del genere. È salito solo sul treno. È stato in macchina dieci volte in vita sua, e sette sono state qui. Non è mai salito su un elivelivolo.

“Pete.”

Peter è paralizzato. Lo sguardo fisso. Quell’affare lo sta per portare nell’arena. Quell’affare lo sta per portare lì. Non può tornare indietro adesso, non può più fuggire, sta andando, lo stanno portando lì. Morte, tutto intorno a lui, ultimi respiri, orrore, sangue, violenza, teste che marciscono. Teste che marciscono, marciscono, la sua stessa testa, mozzata dal suo corpo. Che si decompone nell’ufficio di Stane.

Tony gli prende la mano, riportandolo sulla Terra. “Ehi, sono qui,” gli dice, piano. “È tutto a posto, è tutto a posto, vengo con te.”

Peter fa un cenno, sentendolo a malapena.

Sente la voce di un Pacificatore. “Dobbiamo–”

“Dammi un cazzo di secondo,” sibila Tony.

Peter sente a fatica e non riesce a muoversi, non riesce a costringersi. Sente l’impulso di ritrarsi, di rannicchiarsi in un bozzolo e cercare di nascondersi. Non sa più chi diavolo sia. Non vuole appartenere a loro. Non vuole. Non vuole che lo portino via. Non ce la fa, non ce la fa.

“Pete, non ti dirò che va tutto bene, perché non va tutto bene,” dice ancora Tony, tenendogli una mano e allungando quella libera a stringergli la spalla opposta. “Ma vengo con te, okay? Lo facciamo insieme. Capito? Segui i miei passi.”

Peter guarda la pista davanti a loro. Le ali lunghe, affilate. I Pacificatori ovunque.

“Uno alla volta, okay?” chiede Tony. “Sono qua. Siamo io e te. Non pensare a dove stiamo andando, stiamo solo facendo un giro, va bene?”

“Va bene,” esala Peter, senza pensare.

“Ho un panino in borsa, e non l’ho fatto io. L’ha fatto Janet, quindi è più buono di quanto pensi.”

“Va bene,” ripete Peter, con gli occhi che bruciano.

“D’accordo,” dice Tony. “Pronto a muoverti? Piano e con calma.”

“Va bene,” dice ancora Peter. Inspirare, espirare. Dentro e fuori. Non vanno da nessuna parte in particolare. Stanno solo facendo un giro. Si mangerà un panino. “Va bene,” ripete, aggrappandosi alla mano di Tony.

Il primo passo è esitante, ma lo compie. Il secondo è un po’ più normale, e poi prendono il ritmo. Tony gli lascia la mano, ma mantiene la presa sulla sua spalla mentre salgono le scalette. Sono dodici gradini, Peter li conta. Poi la porta si chiude alle sue spalle.

Ci sono due uomini dentro il velivolo e sono vestiti come Pacificatori, anche se può vedere i loro volti. Non c’è alcuna compassione nei loro occhi. Tony guida Peter verso due sedili al centro del lato destro; ce ne sono circa dodici per lato, e Peter si chiede perché li portino due alla volta. Forse per un effetto drammatico. Tony gli allaccia la cintura perché lui è troppo distratto per pensarci. Deglutisce a fatica, reclinandosi sul sedile.

Il battito del suo cuore. Boom. Boom boom. Boom boom. Rimbomba come il cannone nell’arena quando cade un Tributo.

Le due guardie li raggiungono e si sorreggono alle maniglie appese al soffitto, e Peter respira con più sforzo. Non vede i piloti, da qui, ma c’è rumore, e serra le mani in grembo.

“Puoi contare,” dice Tony. “Ci sarà un suono simile a un fruscio, lo sentiremo: sono le ali che si allargano–”

“Ancora di più?” chiede Peter, guardandolo.

“Solo un pochino,” replica Tony, mentre il rumore si fa più forte. “Sentirai quel suono, poi possiamo contare fino a dieci. Molto piano. E poi c’è il decollo.”

Peter annuisce, mordicchiando il punto dolorante all’interno della guancia. Poi sente quello che dovrebbe essere il fruscio, che sembra più una grande cascata, ma più impetuosa. Peter guarda Tony, e lui solleva una mano.

“Possiamo contare?” chiede Peter.

“Certo,” replica Tony. “Inizia.”

Contano fino a dieci, il che non sembra preannunciare un’esplosione come farebbe un conto alla rovescia, e Peter si adegua al ritmo di Tony, ripetendo piano i numeri, aggrappandosi a ognuno di essi prima di trovare il successivo.

“Nove…”

“Nove.”

“Dieci…”

“Dieci.”

Peter trattiene comunque il respiro quando il motore brontola e l’aria cambia, e si sente schiacciare contro il sedile mentre il velivolo si alza, decolla. Il suo stomaco sprofonda, e per un momento sembra che quella manovra stia per appiattirlo.

“Poi migliora,” dice Tony. “Stappati le orecchie.”

Peter apre la bocca, distendendo la mandibola. Non pensa, non si concentra, esce di nuovo da se stesso. Una forma di autoconservazione di cui adesso ha disperatamente bisogno, perché non può essere qui, non può respirare così. Si scollega a tratti dall’esistenza, dentro e fuori dalla propria coscienza, non pensa, non pensa. Affonda le unghie nei palmi.

Da qualche parte a metà del volo Tony gli porge un panino, e mentre lo mangia i pensieri riprendono. Ricorda le statistiche. Il 22% dei Tributi negli Hunger Games muore d’inedia. Il 37% muore assiderata. Vorrebbe poter fare una scorta di panini. Non gli importerebbe neanche se fosse stato Tony a farli.

È un sasso che affonda nel fondale di un lago. È coperto di detriti, di sabbia e piedi palmati. È coperto da ere, da millenni, e ha freddo. È dimenticato. Si sta decomponendo.

“Ehi,” lo riscuote Tony, e quando lo guarda, Peter si accorge che sta tremando. “Sono qui con te, va bene?”

Peter annuisce, ma riesce solo a pensare non per molto.

Uno degli uomini si muove, non più rigido come una statua, si avvicina a un pannello sul muro aprendolo con uno scatto e ne estrae qualcosa.

“Okay,” dice Tony, mentre si avvicina a loro. “Come ti ho detto–”

“Dammi il braccio,” dice l’uomo.

Peter deglutisce a forza.

“Il tuo localizzatore,” dice Tony, fissando l’altro con sguardo aguzzo.

Peter fa un cenno scattoso del capo e si tira su la manica, porgendo il braccio. L’uomo lo afferra, brusco, e lo gira col palmo verso l’alto. Rivela quello che ha in mano, che sembra una versione gigante della siringa che ha visto nello studio del dottore. Chiude gli occhi, sente la mano di Tony sulla spalla, e poi c’è un forte pizzico accompagnato da uno schiocco sonoro quando l’uomo gli inietta il localizzatore. Peter sobbalza, col braccio che pulsa, e quando riapre gli occhi l’uomo è di nuovo accostato al muro e sta riponendo il grosso ago.

“Hanno fatto un macello nel mio anno e me ne hanno messi due,” dice Tony, dandogli una stretta alla spalla prima di ritrarsi.

“Davvero?” chiede Peter, strofinando il punto in cui l’hanno punto, ancora sensibile.

“Già, mi hanno permesso di cavarmelo fuori dal braccio perché stava facendo impazzire tutto,” replica Tony.

Peter si chiede come diavolo gliel’hanno detta, una cosa del genere, e rilascia un respiro. Continua a passare le dita sul nuovo bozzo che ha sul braccio.

Sente che stanno atterrando circa dieci minuti dopo, e si odia per non aver prestato più attenzione per tutto il tempo, per aver ceduto all’isteria: avrebbe potuto tener traccia di quanto c’è voluto per arrivare qui, in quale direzione stessero volando… conosce la geografia di Panem, avrebbe potuto arrivarci. È arrabbiato, e si sfrega gli occhi, col sudore che già gli incolla la schiena.

L’elivelivolo si ferma, e Peter sta congelando.

“La cintura,” gli ricorda Tony, e quando lui lo guarda si è già tolto la sua ed è chinato verso di lui, controllando se è in grado di muoversi. È come se stesse perdendo un anno alla volta, uno dopo l’altro, regredendo all’infanzia, e le sue mani continuano a tremare mentre si slaccia. Si mette in piedi, ed è come se avesse qualcosa incastrato in gola che lo soffoca.

Tony gli rimane vicino, ed è l’unica consolazione. La rampa si riabbassa e si allunga, e tutto ciò che vede sono delle luci fluorescenti.

Non sente più il battito del proprio cuore. Si chiede se non sia morto durante il tragitto, se non sia ancora seduto là. Si chiede cosa farebbe Tony, se fosse davvero così. Sarebbe come fare il dito medio a Stane. Non potrebbe prendersi la sua testa, allora. Tony non glielo permetterebbe.

“Giù la testa,” ordina uno degli uomini dietro di loro. “C’è un Pacificatore che vi aspetta.”

“Proprio quello che volevamo,” commenta Tony. Guarda Peter, non fa un passo finché non lo fa lui, e il collasso sta arrivando, è imminente, tira Peter per le caviglie e minaccia di trascinarlo sul fondo.

“Non so cosa fare,” sussurra, timoroso di muoversi ancora. “Non so cosa fare.”

Potrebbe essere frainteso, ovvero che non sa come procedere, come continuare, anche se Tony gliel’ha spiegato, anche se il percorso è chiaro.

“Andiamo,” lo incoraggia Tony, di nuovo con una mano sulla sua spalla.

Peter deglutisce, lasciandosi guidare.

“So cosa stai passando,” mormora Tony, mentre scendono dalla rampa e dovunque cazzo siano finiti. “Lo so benissimo. E sei fin troppo bravo.”

“Ci sto provando,” esala Peter. “Ci– ci sto provando–”

“Peter Parker?” chiede una voce, da qualche parte sopra di loro. Peter continua a strofinarsi il braccio, e tutto ciò che voleva dire gli si disintegra in bocca, e continuano a camminare lungo il corridoio finché non vedono il Pacificatore di fronte a loro. Peter scatta, entra in modalità difensiva, e alla rabbia si somma la sua completa e totale disperazione, il suo terrore, il modo in cui l’idea di morire gli sta avviluppando la gola. Vorrebbe solo farsi largo tra loro, ma la sua vista è ancora distorta, la sua testa ancora confusa.

Vede rosso. Liquido.

“Sì,” risponde per lui Tony.

“Seguitemi,” risponde il Pacificatore, la mano sulla pistola.

Tutto è fatto d’acciaio, e i loro passi riecheggiano. Sembra una prigione, e… ed è esattamente ciò che è. Le porte si susseguono una dietro l’altra e Peter si chiede dove sia MJ, dove siano Steve e Natasha. Si chiede chi di loro due sia rimasto da solo, considerando che il loro Distretto ha un solo mentore. Peter continua a camminare, e se li immagina mentre costruiscono questo posto, immagina le persone costrette a costruirlo, ed è in quel momento che lo colpisce.

Lo colpisce, come un treno in corsa, e il mondo si inclina.

Sono sotto l’arena proprio ora. Ci stanno camminando sotto. Il posto in cui verrà intrappolato, dove combatterà per sopravvivere, ci sono proprio sotto. Sono così vicini, così vicini, e mancano pochi minuti. Minuti, solo minuti.

Gli sembra di camminare all’infinito, poi si fermano, e il Pacificatore apre una delle tante porte. Il corridoio continua a perdita d’occhio e Peter guarda fino in fondo, in cerca di qualcun altro.

“Non toccarlo,” sente ringhiare Tony, e lo vede fra lui e il Pacificatore. Tony incontra il suo sguardo e gli fa cenno di entrare nella stanza.

Peter obbedisce, Tony lo segue, e la porta si chiude dietro di loro.

La stanza è fredda e umida, con muri piastrellati, le tenui luci sul soffitto che ronzano e traballano. C’è una porta aperta nell’angolo, e Peter vede un completo appeso all’attaccapanni interno. Uno spogliatoio.

Tony sbircia da sopra la sua spalla, e lo osservano entrambi.

Una maglietta nera a maniche corte, con bande rosse che vanno dal colletto alle maniche. Pantaloni neri che sembrano troppo stretti per lui, un giacchetto con due strisce rosse lungo le spalle, e stivali marroni.

“Bene, direi che possiamo escludere l’acqua,” dice Tony. “Probabilmente è un’area urbana, o una foresta.”

Peter sente il cuore eruttare come un vulcano. Brucia. Si scheggia. Guarda Tony, cercando di mantenersi saldo sulle gambe, di non accasciarsi, di smettere di sudare, di tirare un respiro. “Ci stanno ascoltando, vero?”

Tony annuisce.

Peter manda giù un groppo, lieto di aver avuto la prontezza di chiedere, prima di dire qualcosa di stupido, tipo vorrei che fossimo scappati nei tunnel. Vorrei che fossimo scappati quando ne avevamo l’opportunità.

“Abbiamo dieci minuti buoni–”

“Dieci minuti?” dice Peter, troppo forte, col respiro che sputacchia.

L’espressione di Tony è mesta, e annuisce. “Cambiati più in fretta che puoi, okay?”

Peter trasalisce, e sente la bocca secca mentre si volta, entra nello spogliatoio e chiude la porta dietro di lui. Si vede allo specchio e rimane lì in piedi, si fissa, perché questo non può essere lui, non può essere lui, qui, non può stargli succedendo questo. Deve svegliarsi, e si pizzica con forza il braccio. Niente. Svegliati, svegliati. Lo fa di nuovo, e non succede nulla, e i suoi occhi si riempiono di lacrime frustrate. Svegliati, svegliati, scappa, scappa. Vuole ricominciare da capo. Vuole risvegliarsi a quattro anni, quando i suoi genitori erano ancora vivi. Anche Ben. Prima che Tony venisse mietuto, prima che prendessero Tony. Ha sbagliato tutto, ha fatto casino, ha fatto un casino terribile.

Si afferra i capelli e cade silenziosamente nel panico, premendo la fronte contro lo specchio. Si sente sul punto di svenire, con la vista chiazzata che si inclina, si inclina, ha continuato a inclinarsi per tutto il giorno, e cerca di dirsi che sta perdendo tempo a farsi sopraffare dal panico qui, da solo, quando potrebbe passare i suoi ultimi istanti con Tony. Sarà già abbastanza solo per tutto il tempo che passerà nell’arena finché non troverà gli altri. Finché il piano non funzionerà ed evaderanno. O finché non morirà di qualche morte atroce architettata dal Presidente in persona. La paura nel suo cuore è così spessa da aver costruito un muro gigantesco attorno a lui, ed è in trappola anche nella sua testa.

Non vuole morire. Ha sedici anni, ci sono così tante cose che deve ancora fare, e non ha alcuna fiducia nella sua capacità di guidare una nazione, un gruppo di ribelli, tutti coloro nei Distretti che sono stati oppressi così a lungo da non riuscire neanche a deviare dalla loro routine quotidiana senza esitare troppo. Come faranno a seguirlo? Come farà ad arrivare lì, prima di tutto? Non ci riuscirà, se muore. Non ne avrà mai la possibilità.

Non può morire, non può. Non può perché non può affrontare qualcosa del genere, qualcosa che lo terrorizza così tanto. Come può l’universo spingerlo in quella direzione? Come?

Peter prende un paio di respiri profondi, e guarda da sopra la spalla i vestiti che gli hanno fornito. Quelli che indosseranno tutti, tutti insieme.

Quelli in cui potrebbe morire.

 
§
 

Tony rimane fermo nella stanza in penombra e aspetta. Ha la testa leggera, e non si sta comportando nel modo giusto, niente di tutto questo è giusto, si stanno muovendo nella direzione sbagliata. Non sa come essere forte per Peter adesso, qui, alla fine, e non riesce a venire a patti col fatto di doverlo abbandonare. Mandarlo nell’arena. Tony non può fare affidamento sul piano, ma è la sua sola speranza di rivedere vivo il ragazzo.

La sua testa è in guerra con se stessa, e risulta distaccato. Risulta come una parte di tutto questo, una parte della loro “macchina ben oliata”. Esci dal Centro Tributi, Peter; sali sull’elivelivolo, Peter; preparati al decollo, Peter. È complice. Non è abbastanza intelligente. Avrebbe dovuto fare qualcosa, cazzo, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa, ma adesso ha l’ha trascinato qui. Sono qui. L’arena è qui.

Vede, con la coda dell’occhio, la scatoletta che aveva attirato la sua attenzione. Sospira, la raggiunge e ne estrae un braccialetto, passando un pollice sull’acciaio liscio. PETER PARKER, vi è inciso a chiare lettere, e Tony fa scivolare il bracciale sul polso, chiudendolo con uno scatto.

Si guarda alle spalle. Vede la pedana circolare. Vede l’apertura sul soffitto, ancora chiusa, ancora per poco. Non sa quanto tempo rimane. Il conto alla rovescia è imminente. Sente il suo intero corpo rattrappirsi e risucchia un grosso respiro, rilasciandolo lentamente. Non gli è permesso di cedere. Non adesso, non ancora. Non di fronte a Peter. Non quando il ragazzo ha bisogno di lui più che mai.

La porta dello spogliatoio si apre, e Peter esce fuori. I suoi capelli sono in disordine e tiene mollemente il giacchetto in mano, alzando subito lo sguardo come se avesse avuto paura di non vederlo ancora lì.

Amalo come se fosse tuo dice la voce di Pepper, di nuovo, ed è come la cosa più importante che abbia mai sentito, le parole sono impresse nel suo cuore. Tony si chiede perché debba essere proprio lui, proprio il bambino che ha cambiato tutto così tanto tempo fa, perché si è dovuto offrire volontario per una morte quasi certa. Ma, a dispetto di tutto, Tony lo fa. Lo ama come se fosse suo. Non può farne a meno. Non c’è posto per nient’altro.

Si avvicina a lui e gli toglie il giacchetto di mano, appendendolo allo schienale della sedia di legno più vicina.

“Tony, ho– ho paura,” dice Peter, con le labbra che formano una linea sottile mentre cerca di combattere le lacrime. “Non so perché, ma avevo continuato a pensare che non sarebbe mai arrivato, che lo avremmo evitato in qualche modo, ma adesso siamo qui e io– io non– non respiro–”

Tony sente il cuore spezzarsi. Si sta spezzando da tempo, perché Peter è buono, è gentile, è la persona più pura che abbia mai incontrato ed è così pieno di dolore, di sofferenza e sfortuna e destini inevitabili e, comunque, continua ad andare avanti. Pensa agli altri. Ogni pensiero per se stesso lo considera egoista, anche quando si tratta del suo benessere. Tony glielo legge negli occhi anche ora.

Si avvicina e gli prende entrambe le mani nelle proprie. “Non sono stato abbastanza bravo– no, non contraddirmi, intendo oggi. Avrei dovuto fare di meglio, avrei dovuto dire a tutti di levarsi di torno. So che siamo in trappola, ma dovrei fare di tutto per proteggerti, per starti accanto. Qualunque cosa.”

“Anche il solo fatto di averti qui aiuta,” dice Peter, stringendogli con forza le mani.

Tony si sforza di non piangere. “Sai come funziona,” dice, con voce incrinata. “Stai sulla pedana finché non finisce il conto alla rovescia. Ci saranno zaini ovunque, prendi il primo che vedi. Evita gli scontri, evita i gruppi numerosi. Trova un palmare, se puoi, con quello puoi creare illusioni, sai quanto sono potenti e sei bravo ad usarle. Non appena ti riunisci coi tuoi alleati, fate gruppo e trovate un punto di vantaggio. Sai come nasconderti, sai come sopravvivere. Trova quello che ti serve per fare il fluido e ti farò arrivare gli spara-ragnatele. Stanotte o domani.”

Peter annuisce e, anche se è così abbattuto, i suoi occhi sono ancora colmi di fiducia. Si aggrappa a ogni parola che dice.

“Vedi questo bracciale che ho?” chiede Tony, alzando appena il polso. Peter annuisce. “Sarà connesso a te non appena i Giochi cominceranno, così sarò in grado di monitorare la tua pressione sanguigna, le variazioni dei tuoi battiti. Saprò sempre cosa sta succedendo.”

“Mi guarderai, vero?” chiede Peter.

“Ma certo,” dice Tony. “Non dormirò nemmeno.”

“Devi dormire.”

“Dormirò quando dormirai tu,” replica Tony, tirando appena su col naso. “E questo affare mi sveglia se qualcosa sveglia te. Non mi perderò nulla.”

“Va bene,” dice Peter, con voce piccola, come se fosse riuscito a spingere fuori le parole a fatica.

“Ascolta,” sussurra Tony, incontrando i suoi occhi. “Ascoltami. Tornerai. Va bene? Non esiste che tu non torni. Attieniti al piano.”

“Il piano.”

Il piano,” ripete Tony, e gli fa dannatamente male la gola mentre tenta di sopprimere il panico. “Va bene? Tu tornerai. Faremo tutte le cose di cui abbiamo parlato.”

Una lacrima scivola lungo la guancia di Peter, e Tony lascia andare la sua mano per asciugarla.

C’è un annuncio crepitante. “CINQUE MINUTI AL LANCIO.”

“Oddio,” esala Peter, col volto che si deforma.

“Ehi, ehi,” lo richiama Tony, sfiorandogli il viso, cercando di catturare la sua attenzione. Sente il proprio cuore cedere, sa che è sul punto di farlo, e se non avrà un infarto alla fine di tutto questo si considererà fortunato. “Ehi, vieni qui,” dice, attirandolo a sé. “Vieni qui, vieni qui.”

Peter crolla contro di lui, e sta tremando così violentemente che riesce a malapena a tenerlo.

“Sarò con te per tutto il tempo,” dice Tony, stringendo con forza gli occhi perché il dolore è inimmaginabile, gli invia scosse ovunque. “Se vedi una telecamera, se la senti, guarda dritto nell’obiettivo e guarderai me, capito?”

“Capito,” balbetta Peter. “Tony, io– credi davvero… credi davvero che possa farcela? Fare tutto? Farcela– sopravvivere a tutto questo?” Nasconde il volto nella sua spalla.

“Ci credo,” risponde Tony. “Sei così coraggioso, ragazzo–”

“Non sono–”

“Lo sei,” ribatte lui, sfregandogli la schiena. “Sei dannatamente forte, reagisci alla svelta, e sei intelligente, se assurdamente intelligente, Pete, va bene? Ricordatelo. Non dimenticarlo, puoi usare tutto quello che c’è lì dentro–”

“Oddio,” esala Peter. “Oddio. Ricordi– ricordi cosa ha detto– cosa ci ha detto–”

“No,” lo interrompe Tony. Si scosta da lui, stringendogli le braccia. “Non pensare a quel cazzo di stronzo, intesi? Non è nulla. È fango sulle tue scarpe. E vedrà tutto, capito? Gliela faremo vedere.”

Peter risucchia un respiro tremante, e ha gli occhi iniettati di sangue, la paura dipinta ovunque.

Tony scuote la testa, e deve dire la cosa giusta. “Non ho mai– insomma, lo sai, ma io... ho sempre voluto un figlio. Pepper e io ne avevamo parlato a lungo, avevamo dei progetti, e loro… loro hanno distrutto quei progetti, e non ho mai– non ho più pensato di averne uno perché non… non troverò mai nessun’altra. Lei era l’amore della mia vita. Ma tu… Peter, tu per me sei come un figlio. So che lo sei. Ti amo come amerei un figlio, ragazzo, davvero, e mi dispiace. Mi dispiace così tanto.” Le lacrime lo sopraffanno e scuote di nuovo la testa, guardando a terra.

“Tony,” riesce a dire Peter, prima di tornare ad abbracciarlo.

Tony posa un lungo bacio sulla sua tempia, e prega. Prega di avere la forza, prega di avere fortuna, prega per la salvezza di Peter. Prega per il momento in cui lo vedrà di nuovo. Dopo. Non prega da tanto tempo, non davvero, mai così. Ma adesso deve. Qualcosa deve pur funzionare.

“Rimani con Steve,” dice Tony, con le lacrime che adesso scorrono libere. “Stagli dietro, sempre. Sei troppo importante, capito?”

“Capito,” dice Peter, con voce smorzata.

“DUE MINUTI AL LANCIO.”

Peter torce la mano nella giacca di Tony, stringendosi di più a lui.

“Shh, shh, sono qui,” lo calma, e ondeggia sul posto, tirandogli indietro i capelli.

“Puoi… tenerti in contatto… con May?” chiede Peter.

“Lo farò, non m’importa delle regole,” dice Tony, già progettando un’altra chiamata. Deve fare così tante cose, per tenerlo al sicuro. Deve rimanere in contatto con tutti i suoi sponsor. Deve osservarlo da vicino, vedere di cosa avrà bisogno.

Questa è l’ultima volta che stringe il ragazzo. No, dannazione. Questa è l’ultima volta che lo vede di persona. No, no. Questa è l’ultima volta che sente la sua voce non attraverso uno schermo. Ti prego, no. Ti prego, no. Non può morire. Non può. Non come tutti gli altri. Non posso guardarlo morire.

“Voglio solo… dirti grazie,” sussurra Peter. “Per tutto.”

“Ehi, no… grazie a te,” replica Tony. “Per essere te. Mi sono ubriacato con molte persone e tu sei stato la più divertente.”

Peter ride, affondando la fronte nella sua spalla, e a Tony sentire quel suono sembra una vittoria.

“UN MINUTO AL LANCIO.”

“Maledizione,” dice Tony, e vuole fermare il tempo, congelare tutto, e farebbe saltare in aria tutto il dannato paese per far uscire Peter da tutto questo. Vuole entrare là dentro di persona, vuole andarci con lui, perché è difficile trovare abbastanza fiducia in qualcun altro perché lo tenga al sicuro.

Peter si scosta da lui, con occhi enormi. “Le mie spille,” dice, tremando. “Le ho qui, devo, devo–”

“Okay, mettiamole,” dice Tony, ed è terrorizzato, con gli occhi che scattano all’orologio sul muro. Ogni secondo. Ogni secondo. Un altro sprecato.

Peter infila una mano tremante nella tasca e ne estrae entrambe le spille, quella di Iron Man di da parte di Ned, e quella di Spider-Man da parte di Sam. Tony gliele appunta vicino al colletto, assicurandole strettamente, così non dovrà preoccuparsi di poterle perderle, poi allunga una mano per recuperare il giacchetto dalla sedia, aiutandolo a indossarlo.

Tony percepisce una morsa stringente attorno al petto, e riesce a malapena a respirare.

Il tubo emerge da sotto il pavimento, connettendosi rapido all’apertura sul soffitto. Peter allunga una mano verso di lui e Tony la stringe. La porta di vetro si apre finché non è abbastanza alta per permettere a una persona di entrarvi. Rimane in attesa.

Tony strizza la mano di Peter, un ultimo istante, l’ultima connessione con questo ragazzo. Peter la strizza di rimando, e poi si separano.

“TRENTA SECONDI AL LANCIO.”

“Rimani sulla pedana finché non termina il conto alla rovescia,” ripete Tony, col respiro che lascia in brevi sbuffi la sua bocca.

Non vuole dire ad alta voce perché. Perché lo ridurranno a brandelli se prova a partire in anticipo. E verranno qui alla svelta se non entra per tempo nel tubo.

Tony vuole fermarlo di nuovo, vuole abbracciarlo di nuovo, non lasciarlo andare, vuole trascinarlo via attraverso i condotti d'aerazione e portarlo al sicuro, ma il loro tempo è scaduto, niente è più sicuro, è finita, e il suo stomaco è un abisso, ha l’orrore in gola, e rimane a guardare mentre il ragazzo lo fissa con così tante domande negli occhi. Così tanto dolore, così tanta confusione, e Tony non può aggiustare niente di tutto questo.

“Va bene,” dice Peter, con un cenno, e suona comunque come una domanda.

“Va bene,” ripete Tony.

Non ti meriti questo. Non te lo meriti. Mi dispiace. Mi dispiace.

Peter è a un passo dall’iperventilare, e si muove più vicino, più vicino – lontano, così lontano – finché non entra nel tubo. Si volta e la porta si chiude, con l’ultima occasione che sfuma via. Poi si sigilla.

Tony quasi perde il controllo nel vederlo lì, il suo incubo, il suo maledetto incubo, e si copre la bocca per impedirsi di implorare, di urlare che accada tutto, ma non questo.

Peter sembra quasi rassegnato, col labbro inferiore che freme, e Tony vede la luce che lo scansiona e conferma che stanno portando via proprio la persona che vogliono portare via. Peter preme la mano contro il vetro, vi poggia la fronte, e Tony scatta in avanti, congiungendo le loro mani e posando la fronte contro quella di Peter.

Non è questo che fanno i padri. Non lasciano che i loro figli vadano incontro al pericolo. Richard Parker lo pesterebbe a sangue. Anche Ben Parker.

“DIECI SECONDI AL LANCIO.”

“Ti voglio bene, ragazzo,” dice Tony, e non sa se può sentirlo, non lo saprà mai, perché Janet non aveva detto nulla mentre lui era nel tubo. Era rimasta solo lì, incrollabile. “Dio, torna da me. Ti prego.”

Alza lo sguardo e vede Peter sillabare qualcosa che sembra un ti voglio bene anch’io.

Tony conta, e fa male, ad ogni battito del suo cuore. Poi Peter inizia a muoversi, col tubo che lo solleva in alto, in alto, in alto. Lui si piega verso il basso, con lo sconcerto e l’agitazione che distorcono il suo volto, e sembra più spaventato di quanto Tony l’abbia mai visto.

“Sono qui,” dice Tony, premendo con forza la mano contro il vetro. “Sono con te, ragazzo, sono con te.”

Peter mima la parola Tony e poi il tubo lo spinge del tutto verso l’alto.

È andato.

Tony barcolla all’indietro sotto il peso del proprio fallimento, si copre la bocca con entrambe le mani. Fissa il tubo e spera, spera che sia un incubo, spera che torni, ti prego, Dio ti prego, riportalo indietro, ma ormai è iniziata, e indietreggia finché non urta con la schiena contro il muro accanto alla porta.

“Oddio,” singhiozza, con la gola che brucia, le gambe che tremano, un dolore atroce che lo squarcia in ogni direzione. “Oddio,” ripete, artigliandosi il collo, perché è andato, è andato, è andato, Peter è andato.

Il braccialetto si anima con una vibrazione, e Tony sente il battito del cuore di Peter. Una raffica. Tony strizza gli occhi, premendo il polso contro il centro del petto.

“Dio, Pete, mi dispiace,” sussurra, una preghiera, una promessa. “Mi dispiace.”

 
§
 

“Tony!” grida Peter, piegandosi sulle ginocchia molli mentre il tubo lo trasporta fuori, e l’ultima immagine che ha di lui è la sua mano compressa contro il vetro mentre pronuncia parole che Peter non riesce a leggere. È andato, sono divisi, il momento su cui ha avuto incubi sin dalla Mietitura è qui: è solo, è solo.

Sta per svenire. Sta per svenire, sta per svenire.

La luce lo colpisce mentre emerge dal tubo nell’aria aperta, e non riesce a vedere, è troppo luminoso, strizza gli occhi contro questo nuovo mondo con troppi contrasti e troppa luce. Si scherma il volto dal sole, o la versione fasulla del sole, perché adesso è nella loro gabbia per criceti. Tutti stanno guardando.

Molto lentamente, riesce a mettere a fuoco i dintorni.

È in mezzo a una strada che sembra esplosa, ci sono macerie ovunque, macchine rovesciate, scarpe abbandonate, pezzi di edifici sparpagliati ovunque. Delle porzioni del terreno sono fratturate, sprofondate, c’è qualche piccolo incendio e molti pennacchi di fumo che si levano nel cielo, ed è circondato da alti palazzi. Un’area urbana, proprio come pensava Tony.

In tutti gli altri anni c’è sempre stato un piccolo cerchio con tutti i Tributi a fronteggiarsi, una Cornucopia nel mezzo colma di oggetti per adescarli, trappole per ucciderli. Ma quest’anno è diverso. Peter è praticamente solo. Scorge un unico altro Tributo, ad almeno un paio di isolati lungo la strada, e non riesce neanche a capire chi sia.

Respira a fondo, guardandosi attorno, e vede il conto alla rovescia su un tabellone di fronte a lui. Cinquanta secondi.

Peter si prepara. Il suo cuore batte troppo forte. Deve farlo. Non c’è una via d’uscita. È terrorizzato, ha più paura di quanta ne abbia mai avuta, ma adesso non può più fuggire. Non c’è modo di salvarsi, se non il piano. Deve smetterla di tremare, e l’orologio continua a ticchettare.

Guarda alla sua sinistra, e vede che la strada dove è posizionato si trasforma in un ponte, poi passa sopra un’altra strada orizzontale che va ad abbracciare un edificio largo e squadrato, con lunghe finestre e un orologio decorato con statue sul tetto. Dietro di esso c’è un altro edificio, un grattacielo, più grande del Centro Tributi, che si erge nel cielo come un faro. Ha una forma bizzarra, dissimile da qualunque cosa abbia mai visto, e si curva formando quella che sembra una pista d’atterraggio per elicotteri prima di continuare a slanciarsi al di sopra di essa.

Trova un punto di vantaggio, gli dice la voce di Tony, e sa che deve entrare in quella torre.

Ha le mani sudate, e le sfrega sui pantaloni. Cerca di respirare, cerca di respirare. Lancia un’altra occhiata lungo la strada, socchiudendo gli occhi verso il Tributo più vicino, e potrebbe essere la ragazza del Tre. Non ne è certo. Non vede l’ora di incontrare un volto familiare.

Respira. Respira.
Avrò la sua testa, Tony.
Guardala marcire.
A fine mese staremo tutti tentando di ammazzarci a vicenda.
Mi accerterò che le vostre strade si incrocino.
Guardala marcire.
Guardala marcire.

Peter barcolla sul posto e quasi cade dalla pedana, ma recupera rapidamente l’equilibrio mentre il conto alla rovescia arriva a quindici.

“BENVENUTI AI SESSANTESIMI HUNGER GAMES!” annuncia una voce dall’alto, echeggiando ovunque. “I GIOCHI STANNO PER COMINCIARE. CHE LA FORTUNA SIA SEMPRE A VOSTRO FAVORE.”

Peter si passa una mano sul volto, cercando di smettere di sudare. Ci siamo, ci siamo, ora o mai più, e sposta di nuovo lo sguardo verso la torre, con gli occhi che perlustrano il terreno per trovare uno zaino, un palmare, qualunque cosa. C’è roba ovunque, non riesce a vedere chiaramente, ma sa che deve andare in quella direzione, e basta. Deve esserci un altro Tributo nei paraggi, da quella parte. Spera che non sia Beck, o qualcuno dell’Uno o del Due.

“DIECI. NOVE. OTTO.”

“Oddio,” sussurra Peter, e ha davvero l’impressione che morirà qui, proprio qui, proprio qui, cazzo, ma deve rivederli, deve rivederli, deve sopravvivere, per loro. Deve trovare MJ. Deve trovare gli altri.

“SETTE. SEI. CINQUE.”

I suoi occhi scattano qua e là, e vede un uccello che si libra sopra di lui, planando basso prima di riprendere quota. Peter lo segue e per un momento è di nuovo nel Dodici, prima di tutto questo. Ma solo per un momento.

“QUATTRO. TRE.”

“Okay,” esala. “Okay, ce la puoi fare. Ce la puoi fare. Forza, Spider-Man. Forza, Spider-Man.”

“DUE. UNO.”

Sente un gong e senza un solo altro pensiero scatta con un balzo giù dalla pedana e aggira una macchina gialla rovesciata, cercando di non inciampare nei suoi stessi piedi. Non si guarda indietro e si dirige verso la torre.




 
*




 Tradotto da: ever in your favor: countdown, di iron_spider da _Lightning_



Note della traduttrice:

Cari Lettori,
se avete avuto il patema d'animo o la tachicardia nel corso di questo capitolo, sappiate che vi capisco e che lo considero come un successo di traduzione, perché alla prima lettura mi sono sentita esattamente così :')
Vi informo che gli avvertimenti Contenuti forti e Violenza valgono, com'è prevedibile, soprattutto per il prossimo capitolo e ancor più per quello successivo.

Ringrazio infinitamente Eeva, Paola Malfoy, T612 e ericaron per aver commentato lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Grazie davvero, aumentate a vista d'occhio e come sempre vi invito a lasciare kudos e commenti sulla storia originale <3

Al prossimo capitolo,

-Light-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Muori in pace ***


Capitolo 10: Muori in pace



 
 
Tony percorre a passo di marcia il corridoio col palmare in mano, ansioso di uscire da quel cazzo di posto e tornare al Centro Tributi. Fissa l’immagine sullo schermo, e Peter sta ancora avanzando lentamente verso la torre, cercando ovunque uno zaino. Il suo cuore batte a tempo con quello di Tony, entrambi in uno stato di fibrillazione decisamente non salutare.

Prende un respiro profondo, asciugandosi gli occhi.

Apre una schermata con riprese degli altri Tributi, e vede che Steve, Natasha e MJ sono sparpagliati, il più lontano possibile gli uni dagli altri, maledizione. Sembra intenzionale. Clicca sul nome di Beck, vedendo che è il più vicino a Peter.

“Dannazione,” esala in un sospiro. Apre la mappa e vede che si stanno muovendo entrambi nella stessa direzione. Felicia Hardy è con Beck, e Tony si chiede se anche la loro alleanza sia stata concordata.

“Tony!” lo chiama Janet, davanti a lui.

Qualcosa gli si spezza in testa, nel sentirla, e non alza nemmeno lo sguardo. Continua a osservare Peter che si muove tra le macerie, fermandosi ad esaminare una macchina abbandonata. Furbo. Troverà uno zaino prima di subito. Starà bene, starà bene.

“Ehi,” risponde Tony, cogliendo a malapena la sagoma di Janet con la coda dell’occhio, e continua a camminare. Al momento a mantenerlo integro ci sono solo pochi fili sottili. “Allora. Sembra una città devastata, o qualcosa del genere. Il ragazzo ha avuto una buona idea, sta andando alla torre, ma dovrà stare attento là dentro, sono sicuro che sia piena di trappole.”

“Tony–”

“Sta anche perquisendo le macchine da cima a fondo, sono fiero di lui,” continua, osservando Peter che controlla un vicolo. Il bracciale che ha al polso batte e batte e batte, troppo rapido per un ragazzo di sedici anni.

“Tony, stai–” 

Lui continua a camminare, con passi rumorosi. “Speriamo che Michelle riesca a trovarlo, quei due pensano in modo simile e probabilmente si starà dirigendo anche lei alla torre. Steve e Natasha devono mettersi in pari col loro–”

Janet lo aggira rapidamente, piazzandosi di fronte a lui e tagliandogli la strada. Gli sottrae il palmare di mano proprio mentre Peter esamina un’altra macchina.

Tony percepisce uno scatto nervoso all’occhio.

“Ehi!” esclama, tendendo una mano col cuore che barcolla. “Jan, andiamo–”

“Stai bene?” chiede lei, testarda.

“Starei meglio se mi restituissi il palmare,” ribatte Tony, teso, disperato per riaverlo. “Janet.”

“Evidentemente, non la stai gestendo bene,” dichiara lei.

Lui si asciuga di nuovo gli occhi prima che ne sfugga una lacrima, e fa un passo verso di lei. Sta tremando. “Il palmare, per favore. Per favore.”

“Solo se parli con me,” replica lei. “Non chiudermi fuori. Lo affrontiamo insieme.”

Gli occhi di Tony si abbassano di scatto sul bracciale, e grazie a Dio il cuore di Peter sta ancora battendo. Troppo veloce, ma batte. È ancora vivo. Ricorda tutti quelli prima di lui, quando ha sentito il momento in cui... quel silenzio terribile, improvviso, dopo troppi battiti accelerati. “Non ce la faccio, a gestirla,” sbotta, e flette le dita prima di contrarle in un pugno.

“Ma devi parlare con me–”

“Va bene,” scatta Tony. “Va bene, va bene.”

Janet glielo restituisce, con riluttanza. “Probabilmente Michelle sta per incrociare Steve: lui sta andando dalla sua parte, a meno che non venga dirottato. Quelli del Sei sono diretti verso l’area periferica, ma non so se ce la faranno.”

“Beck e Hardy sono già insieme,” dice Tony, riportando gli occhi allo schermo e guardando con un clic la loro avanzata, come se fossero in una battuta di caccia. “Non ne sono entusiasta.”

“Sono contenta che quella Hela sia da sola,” dice Janet. “Pensa se fosse stata anche lei con loro.”

Tony scuote la testa, sentendosi in trappola. Alza lo sguardo al soffitto e gli si torce lo stomaco, a sapere che l’arena è proprio sopra di loro. Il suo ragazzo. “Sembra abbastanza basilare, come arena, ma non lo è mai davvero, quando lo sembra,” ragiona, cercando di non lasciarsi sopraffare dall’impotenza.

“Spero di non scoprirlo presto,” ribatte Janet. “Probabilmente hanno attivato delle trappole. Mine.”

Tony fissa ancora lo schermo, vedendo Peter che si guarda intorno, e l’idea che potrebbe star cercando una telecamera gli stringe il cuore. Lo guarda e vuole riavvolgere il tempo, plasmarlo con le proprie mani in modo che questo non sia mai uno dei futuri possibili. “Jan,” dice, con voce spezzata. “Io non–” Pensa a Hope e serra la bocca, deglutendo a fatica.

“Lo so, caro,” dice lei, passandogli una mano sulla schiena. “Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo.”

Tony annuisce, mentre vede finalmente l'uscita del tunnel. Vuole uscire da questo cazzo di posto, vuole mettersi al lavoro, ma ha la sensazione che lasciare questo luogo voglia dire abbandonare del tutto Peter. Alza di nuovo lo sguardo, scuotendo la testa, poi torna al suo palmare. Osserva Peter che corre.

Apre una veduta aerea dell’intera arena, quelle riprese che fanno trattenere il fiato ai cittadini di Capitol, e gli sembra un ambiente uscito fuori da un libro di storia. Ha qualcosa di familiare. Sa che devono averci lavorato da quando l’ultimo corpo si è abbattuto a terra l’anno scorso… la torre in particolare è un exploit piuttosto raro anche per loro. È probabilmente straripante di cose necessarie ai Tributi, e di altre che non lo sono affatto.

Sul lato, in alto vicino alla pista d’atterraggio, spicca la scritta STANE a caratteri cubitali.

 
§

 
Ogni passo che Peter fa è rumoroso, ma non vuole smettere di muoversi. Guarda all’interno di ogni singola macchina, perché Capitol nasconderebbe di sicuro qualcosa in modo che nessuno riesca a trovarla. Continua a stupirsi dei dettagli in cui si imbatte, come chiavi abbandonate, cestini della spesa, orsacchiotti sui sedili posteriori. È come se ci fosse stato un intero popolo che è semplicemente scomparso all’improvviso. È inquietante, un ulteriore tassello nel loro gioco perverso.

Si acquatta dietro un albero, correndo basso, e teme di subire un’imboscata da un momento all’altro. È tutto molto diverso da come cominciano solitamente i Giochi, e si chiede se abbia a che fare con la nomina di Bruce.

Alza di nuovo lo sguardo verso la torre, e spera di essere più vicino di chiunque altro. Deve trovare MJ e gli altri, e vorrebbe che questa fosse una situazione normale, in cui potrebbe semplicemente chiamarli per individuarli… lanciare un razzo di segnalazione, accendere un fuoco, ma quello è un modo per attirare attenzioni indesiderate. Non rivelare mai la tua posizione, a meno che tu non sia preparato a uno scontro.

C’è una macchina rossa rovesciata e Peter si inginocchia, intrufolandosi all’interno attraverso la portiera posteriore spalancata. Ha un tuffo al cuore quando lo vede: uno zaino. Striscia più vicino, stringendo i denti e facendo scricchiolare i vetri, e allunga una mano, afferrandolo e trascinandolo verso di lui. È mezzo schiacciato contro il sedile posteriore, ma è ben nascosto, e quando apre la zip quasi ha un mancamento per il sollievo.

Due bottiglie d’acqua, crema solare, una corda, carne essiccata, una torcia e un coltello seghettato. Un buon inizio.

“Grazie a Dio,” esala, richiudendo la cerniera. Si ritrae in punta di piedi da quello spazio ristretto, facendo attenzione a non tagliarsi, e tira a sé lo zaino. Si raddrizza, infila le braccia nelle spalline e riprende a dirigersi verso nord. O quello che ritiene sia il nord.

Gli si ghiaccia il sangue quando sente un cannone. E poi un altro, in rapida sequenza. Corre, appiattendosi dietro un’altra macchina, e il suo cervello grida MJ! MJ! Ma non può essere lei. Non è possibile, assolutamente, non può accadere. Non mostrano in cielo i Tributi caduti fino al calar della notte, e Peter non può impedire a quella sensazione strisciante di riversarsi nelle sue vene come acido. Non può essere lei. Non può essere. Non possono neanche essere Steve o Natasha, perché poi cosa diavolo farebbe lui? Non può far funzionare il loro piano raffazzonato senza di loro. E di certo non ha notato nessuna ovvia via di fuga.

Rimane in attesa per un lungo momento, temendo nuovi cannoni, ma non vi sono altri spari, e alla fine si sente abbastanza al sicuro per muoversi. Vede un ponte davanti a sé e deve compiere una scelta, se passarvi sopra o sotto, e infine opta per passare sotto, giusto nel caso qualcuno abbia già una posizione di vantaggio e volesse provare a farlo fuori dall’alto. Il ponte è una buona copertura, e ripensa a tutte le simulazioni che ha fatto, cercando di tenersi basso.

Ha visto Tony pochi minuti fa, ma vuole già disperatamente tornare da lui. La paura occupa quasi tutto lo spazio della sua mente, ma è stranamente settata su un volume basso, come se la stesse respingendo perché adesso deve sopravvivere. Aggira altre macchine fuori uso e vede una fila di porte sotto il ponte, che probabilmente conducono all’interno dell’edificio squadrato con le finestre allungate [1]. Non sa quanto sia furbo entrare là dentro, perché è sicuro che si imbatterà presto in qualcosa che Capitol ha preparato apposta per lui.

Non pensa ai ragni.

Crede che potrebbe essere più al sicuro, se si muovesse entro il perimetro di quel posto, con un occhio sempre all’erta verso l’esterno, ma poi potrebbe non essere in grado di trovare una via d’uscita. Peter sa che tutti lo stanno guardando, che l’intero paese lo osserva mentre pondera le sue scelte e se ne sta fermo lì. E si chiede se non stia accadendo qualcosa di più interessante da qualche altra parte.

Sobbalza per come ha formulato quel pensiero. Nulla di tutto questo è interessante, cazzo, è tutto maledettamente terrificante, è malato e sadico e brutale e–

Peter sente delle voci.

Non quelle nella sua testa, non Tony che lo incoraggia, non la voce rassicurante si May o le parole sagge di Ben, ma reali, assolutamente reali, e urlano da qualche parte alla sua destra. Si copre la bocca e si affretta a cercare riparo dietro un furgone, mentre le urla continuano. Sente il sangue addensarsi nelle vene.

“Ti prego, ti prego, no!” implora la voce. Sembrerebbe la voce del maschio del Nove, e Peter non si sporge per verificare.

“Oh, mi dispiace, bello,” dice una voce molto familiare. “Eri solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, okay?”

Ovviamente doveva capitare così vicino a Beck.

“Ti prego, ti prego, non–”

“Dolcezza,” dice una donna. “Si basa tutto su questo.”

Il suo cuore sta battendo così forte che è sicuro possano sentirlo, e striscia lungo il veicolo, verso il retro, perché vuole capire quanto sono vicini. Si tiene basso, muovendosi lentamente, e sbircia oltre il portabagagli. Riesce a vederli sul lato destro del ponte, un po’ più giù lungo la strada, e sono troppo, troppo vicini. Sono Felicia Hardy e Beck, quello che lo guarda sin dall’inizio in modo strano, ed è il tizio del Nove, accasciato a terra di fronte a loro. O almeno lo era, perché Beck si avventa su di lui, sbattendogli la testa a terra ancora, e ancora e ancora. Ci sono degli schizzi di sangue.

Il cannone tuona, e loro ridono.

Peter si accovaccia, strizzando con forza gli occhi, e deve andarsene, deve andarsene prima che lo vedano. Non c’è più Tony a proteggerlo. Deve andarsene, deve andare.

“Sono piuttosto bravo,” dice Beck. “L’ho sempre pensato, ma non credevo sarebbe stato così facile. Così divertente.”

“Non darti troppo credito,” dice Hardy.

“Lo so, lo so, lo so. Ma non provare ancora ad ammazzarmi, ce la stiamo cavando bene.”

Peter scarta del tutto l’idea di entrare nell’edificio, sapendo che là Beck potrebbe facilmente metterlo all’angolo, soprattutto con Hardy dalla sua parte. Non sa se si stiano dirigendo verso di lui e si gira, strisciando alla sua sinistra nel modo più rapido e silenzioso che gli riesce, e procede in fretta finché non supera il lato dell’edificio. E poi corre. E corre e corre e corre.

Qui ci sono fin troppi dettagli, ma non li vede, perché tutto gli schizza accanto in un lampo sfocato. Non guarda, non vede, è ridotto ai suoi istinti più ancestrali, e tutti gli urlano di allontanarsi il più possibile da Beck. Qua sono solo in pochi quelli che vogliono davvero uccidere, e sta scappando a rotta di collo da due di loro: conclude che se si dovesse imbattere in qualcun altro, ha delle buone probabilità che siano persone che vuole incontrare, qualcuno che fa parte del piano o che vuole semplicemente vivere, come lui. Tutto è una massa confusa. Deve solo continuare a respirare.

Tutto in quest’arena sembra troppo semplice. Peter si aspetta di posare il piede su una mina, si aspetta di trovarsi dei cani killer alle calcagna, si aspetta una pioggia di sangue, pozze acide, qualcosa. Di solito non c’è mai una calma prima della tempesta nei Giochi, perché si basa tutto sui punteggi, ruota tutto attorno a momenti e morti spettacolari. Quindi che diavolo sta succedendo?

Si sente solo, con un profondo buco nel cuore che cerca di cavarglielo fuori, che diventerà sempre più ampio fino a inghiottire tutto. Niente amore, niente sentimenti. Si sente come se stesse perdendo la propria voce, i propri pensieri, e deve trovare MJ.

Peter smette di correre solo quando si rende conto che si sta allontanando dalla torre.

“Merda,” esala, sfiancato. Il cielo si sta già scurendo, e sa che il tempo scorre diversamente qua dentro rispetto a là fuori, perché se vogliono possono oscurare il sole, possono creare una notte chiara e stellata o mandare sei giorni di pioggia di fila. Ma al buio è più pericoloso, e questa è già una città fantasma in rovina; non riesce a immaginare in quanti guai potrebbe cacciarsi dopo il tramonto. Ha una torcia, ma è come un faro di segnalazione che grida venite a prendermi. Si chiede se non stiano aspettando. Se non stiano aspettando il buio per scatenare i loro ibridi.

Pensa ai propri genitori, incatenati al loro lavoro, agonizzanti, consci di quanto dolore stessero causando, di quante morti. È lieto che non debbano vederlo qui, vedere il pericolo in cui lo stanno mettendo le loro stesse creazioni.

Si volta a guardare la torre. Sa che deve arrivare là, lo sente dentro di sé, ma non può farlo stanotte. Non vuole farsi sorprendere dal buio.

Si imbatte in un altro zaino che penzola da un albero: dentro ci sono una coperta termica, qualche fiammifero, tre mele e delle garze; trasferisce tutto nel proprio zaino e riprende ad avanzare. Deve assolutamente trovare un palmare, e gli ingredienti per il fluido, e magari qualche componente per un repulsore. È certo che quella roba, la roba d’alto livello, sia nella torre, e digrigna i denti forzandosi a non tornare sui propri passi. Ma non vuole allontanarsi troppo.

Sente un altro cannone.

Lo sente nel petto, che lo schiaccia. Serra gli occhi e alza il volto al cielo, striato di rosa e viola troppo belli per essere qui, e prega che non sia MJ. Non sa cosa farebbe se dovesse perderla, e in quel momento realizza davvero cosa significhi per lui. Adesso che è qui, qui, e anche lei è qui. Spera lì vicino. Adesso sembra tutto così chiaro, e ripensa a ciò che hanno detto riguardo al Dopo. Riusciranno a farcela fino al Dopo.

C’è un grande edificio con almeno un milione di scale, due grossi leoni di pietra e colonne che affiancano l’ingresso [2]. Gli sembra il posto ideale per fermarsi. Si guarda intorno, tendendo le orecchie: Tony ha detto che ci sono dei segnali, se sta per accadere qualcosa. Un piccolo click, un basso ronzio. Perché a volte inseriscono le loro mostruosità, quelle camere di tortura, direttamente nell’arena dalla stanza di controllo. Con mani allegre e gioiose, che selezionano il Tributo da fare a pezzi.

Peter si chiede se Bruce abbia una qualche influenza rispetto a tenerlo al sicuro, se possa fare qualcosa del genere senza farsi scoprire, soprattutto considerando l’attenzione che Peter si è attirato addosso finora. Probabilmente sarebbe più sicuro ferirlo leggermente, per non mostrare favoritismi. Può sopportarlo. Può stringere i denti, superarlo, combattere la paura. Versare un po’ di sangue. A patto di non morire.

Non pensa ai ragni.

Le scale sono invase da macerie, come tutto il resto; le sale con una corsetta, diretto all’ingresso. Non sa perché abbia meno paura di entrare qui dentro rispetto all’edificio di poco fa. Forse perché questo è più lontano da Beck. È decisamente per quello.

L’interno è bellissimo, ampio e spazioso, costruito in pietra liscia, e Peter si aggira qua e là a bocca aperta, per poi tornare in sé con un sussulto perché dovrebbe guardarsi le spalle, assicurarsi che non ci sia nessuno in agguato dietro l’angolo. Sale qualche rampa di scale, si muove silenzioso lungo i corridoi, e tutto tace in modo inquietante, come se questo fosse davvero stato un mondo a sé, dove tutti sono morti in qualunque cataclisma si sia abbattuto qui. Tutti. Ogni singola anima. Loro sono qui a rinfoltire il cimitero. Sono qui per scavare nuove tombe.

Si ferma in un’ampia stanza, con soffitti meravigliosi, dipinti di nuvole, e una miriade di lampadari di cristalli. Ci sono file e file di tavoli, e finestre che si rincorrono a perdita d’occhio. Questo posto sembra immacolato, come se qualunque cosa sia successa all’esterno non sia arrivata fin qui, e Peter si chiede se non ci sia una qualche storia dietro, una qualche narrazione in corso alla quale lui non è messo a parte.

Non gli importa. Non gli importa delle loro stronzate, del loro spettacolo. Vuole solo uscire, vuole solo tornare dalla sua famiglia. Vuole portare queste persone fuori di qui. Vuole scioccare Capitol, per una volta. E vuole anche evitare le loro ripicche crudeli.

Procede lungo il corridoio centrale, e lancia un’occhiata alle pareti: sono delimitate da scaffalature, con più libri di quanti abbia mai visto in vita sua. Ma, stranamente, più li guarda, più è convinto che davanti vi sia… un campo di forza. Vede delle sfumature verdi. Inclina di lato la testa, e ricorda tutto ciò che gli ha detto Tony riguardo ai campi di forza, come appaiono. E qui ce n’è decisamente uno a protezione dei libri.

Non lo dice ad alta voce, anche se ne è tentato, ma pensa sono davvero così stupidi da mettere qui dei libri che non dovremmo leggere?

Si avvicina, col cuore in gola, e punta una delle sfumature verdi, esitando davanti a un libro la cui costa recita IL RE DI CARCOSA [3]. Si fa largo tra due tavoli e allunga una mano, premendola tremante contro il libro.

La scossa è abbastanza forza da sbalzarlo all’indietro di qualche passo, ma non ha effetti deleteri, e non lascia alcun marchio fisico. Peter sospira, scuotendo la testa, e conclude che questo è un posto come un altro dove accamparsi per la notte, che si fa sempre più buia oltre le finestre. Sceglie una delle sedie di legno, tira fuori la coperta, la carne essiccata e una bottiglia d’acqua, e si posiziona in modo da poter vedere all’esterno.

Dopo circa due minuti da quando ha iniziato a mangiare, l’inno di Capitol inizia a risuonare, e vede il loro simbolo nel cielo. Guarda i volti dei caduti proiettati là in alto, con foto prese dai servizi precedenti a tutto questo. Trattiene il fiato, cercando di non entrare nel panico. Lei non ci sarà. Lei non ci sarà.

RICHARD RIDER, DISTRETTO TRE.
TRISH WALKER, DISTRETTO SEI.
ROBBIE BALDWIN, DISTRETTO NOVE.
NOH-VARR, DISTRETTO DIECI. [4]


Peter si odia per il fatto di provare sollievo, perché MJ sta bene, MJ è viva, e il respiro che emette trema.

Poi realizza. Quattro morti, di già. Lo sa perché ha sentito i cannoni, ma vedere i loro volti… gli si riempiono gli occhi di lacrime e scuote la testa, distogliendo lo sguardo. Gli fa male ogni anno, vedere questo bagno di sangue, e non ha conosciuto questi Tributi, non di persona. Ma tutto questo è molto più reale: sta succedendo qui, dove è lui, ed ha continuato a girare in tondo con quelle persone sin dall’inizio di tutto. Adesso sono andate, perse nel tempo, e lui aveva sperato che sarebbero riusciti a salvarli tutti, se il piano avesse funzionato. Si sente avvilito, e continua a oscillare tra il voler pensare che andrà tutto bene e il piangere la propria morte. Non sa chi sia, adesso.

Li fanno a pezzi fino a farli diventare meno umani. Sono degli animaletti trattati come celebrità. Sono pezzi su una scacchiera. Sono morti. Sono nomi nel cielo. E poi non sono niente. Sono perduti.

Peter si sfrega gli occhi e gli fa male la testa, un cerchio pulsante nel suo cranio. Sente incombere un attacco di panico, lo attraversa come un uragano, e ora non è nel suo privato, anche se così sembra. Non c’è nessuno a rassicurarlo, nessuno a cui aggrapparsi, e preme la fronte sul tavolo, strizzando con forza gli occhi, e quasi si strappa i capelli.

Calmati, calmati, calmati.

Emette un singulto, in iperventilazione, e scuote la testa, premendo così forte la fronte da farsi male, col legno che incide linee nella sua pelle.

“Là in fondo al prato,” comincia, con voce tremante. “C’è un salice ombroso… un manto d’erba… che culla il riposo…”

Continua a cantare, perso in ricordi passati; e a dispetto di tutto, il mese passato a Capitol è stato meglio di tutto questo.

 
§

 
Peter si sveglia di soprassalto al suono di un cannone.

Scatta sulla sua sedia, guardandosi attorno, ed è ancora qui, ancora in questa splendida biblioteca piazzata nel mezzo di un abisso infernale. Adesso il sole filtra attraverso la finestra, e si chiede per quanto abbia dormito. Si chiede se anche Tony abbia dormito con lui. Sussulta, perché ogni cannone, quando è solo, è un colpo al cuore, una potenziale perdita devastante. Si inclina in avanti, posando il mento sul tavolo e stringendo con forza la coperta termica al petto.

Sa che deve andare.

Ha lasciato fuori la carne essiccata per tutta la notte, ma per fortuna non sarà quello a farla andare a male, e mangia un altro paio di bocconi prima di metterla via assieme alla bottiglia d’acqua. Ripiega la coperta e ripone anche quella, per poi scegliere una delle mele e prenderne un rapido morso. Non vuole farsi distrarre da nulla, non vuole morire perché era troppo concentrato a mangiare una mela, e non lascia la sala finché non l’ha finita.

Non appena mette piede all’esterno, sente un’esplosione.

Rivolge lo sguardo alla direzione da cui proviene, deglutendo a fatica. Deve essere ad almeno cinque o sei isolati da là. Troppo vicino. Si chiede se qualcuno sappia che lui è qui. Non sa cosa diavolo dovrebbe fare… sa che laggiù deve esserci qualcuno, o in punto di morte o un nuovo bersaglio per via del rumore. Peter ha un coltello, sa che dovrebbe probabilmente estrarlo in caso quello sia Beck che crea scompiglio, o uno degli altri Favoriti che cerca di aggiungere un nome alla sua lista di uccisioni. Ma sa che… non vuole uccidere nessuno. Ha detto al Gran Maestro che ne era in grado, ma non pensa di esserlo, a meno che non lo stiano letteralmente strangolando a morte. Lui, o MJ.

Conclude che dovrebbe almeno tirarlo fuori, per dare l’impressione di essere in grado di usarlo. Rimane in ascolto, ma non ci sono altri rumori e sospira, facendo scivolare lo zaino su una spalla per frugare all’interno ed estrarre il coltello.

Rimane all’erta, e inizia a dirigersi verso la torre.

È paradossalmente difficile tenere sott’occhio qualcosa di così alto quando si è così vicini ad esso, e Peter pensa che gli verrà il torcicollo a forza di inclinare all’indietro la testa e girarla di qua e di là. Si chiede se questa sia tra le arene più grandi mai erette, e sa che, in qualunque Distretto si trovino, gli abitanti devono aver notato un qualcosa di così immenso. O magari Capitol l’ha schermata? Non ne ha idea, ma solitamente non sta mai per così tanto tempo da solo, e si sente sempre più folle.

Abbastanza folle, che quando vede MJ sul marciapiede davanti a lui crede che sia un’allucinazione.

Molte delle facciate dei negozi attorno a lui sono esplose, e la maggior parte di quelle che sembrano contenere oggetti utili sono sbarrate da campi di forza. MJ è in piedi di fronte a uno di essi, con quella sua personalissima espressione disgustata in faccia, e nei dintorni non c’è nessun altro. Solo lei. Sembra troppo bello per essere vero, come sentire un coro angelico. La fissa, col sole a picco, e si dà un pizzicotto sul braccio, aspettandosi di risvegliarsi nella biblioteca, ma è ancora lì, in piedi. E anche lei.

Rinfodera il coltello, perché non vuole brandirlo nel momento in cui lo vedrà per la prima volta.

Cerca di dire il suo nome, ma esce fuori in un gracidio, non sembra neanche una parola. Inizia ad affrettarsi verso di lei, con passi rumorosi, il respiro troppo accelerato, e lei si volta rapida: i suoi occhi si sbarrano quando lo vede, e protende le mani nella sua direzione.

“Peter!” grida. “Peter, fermo!”

“Perché?” chiede, ancora in movimento, sospinto da pura euforia.

“Fermo, fermati!”

“Okay, okay,” dice Peter, arrestandosi con piedi esitanti, vicino a un paio di cassette delle lettere appiattite e cartelli stradali divelti. “Perché? Che succede, cosa–”

“C’è una trappola,” dice lei, indicando frenetica un’area a pochi passi da lui. “Proprio lì, quindi… ti aiuto a superarla.”

“Una trappola?” chiede lui, abbassando lo sguardo. “Non vedo nulla, non–”

“Vedi quella fessura per terra?” chiede lei, indicando il bordo della ruota di una macchina. “Si vede appena, ma ho… ho tenuto gli occhi aperti per individuarle.”

Peter socchiude gli occhi, e quando guarda più attentamente può quasi vederla – ma adesso non gli importa, anche se dovrebbe.

“Qui, qui, è… sono large circa due metri, quindi… qui…” La aggira, radente al muro, e si protende verso di lui con entrambe le mani. “Fai… fai un piccolo passo verso di me.”

Lui obbedisce. Fa dei passetti piccoli e ridicoli, e quando è abbastanza vicino lei si sporge e gli afferra le mani. Lo sospinge verso il negozio che stava esaminando prima, lentamente, e mentre lei guarda la strada, lui guarda lei. La fissa come se non l’avesse mai vista prima, e forse non l’ha mai fatto, non così. Continua a tirarlo camminando all’indietro, e i suoi occhi scorrono sul suo volto, sulle sue ciglia e sopracciglia, sulla curva del naso, sulle sue poche lentiggini.

“Ecco, ci siamo,” annuncia lei, guidandolo verso le scalette del negozio con le vetrine rotte. “Eccoci.”

“Siamo a posto?” chiede lui. “Fuori dalla… trappola?”

“Fuori dalla trappola,” conferma lei, sorridendo.

Lui si slancia in avanti, abbracciandola come voleva fare pochi istanti prima. La stringe forte, e sa di non aver mai stretto nessuno così prima d’ora, ma nessuno è mai stato come lei. Non sa quando sia cominciato, non sa neanche cosa diavolo stia provando, o perché lei sia diversa. Lo è e basta.

“Ogni volta che ho sentito il cannone ho perso un battito,” confessa, nei suoi capelli.

“Anch’io, mi sono sentita male–”

“Anch’io, ho pregato che non fossi tu–”

“Ho visto i loro volti nel cielo ed è stato terribile…”

“… ma sono stato così contento di non vederti lassù,” completa lui. MJ ride, ed è forse il suono più bello del mondo, e si sente in dovere di scostarsi per guardarla in viso. Lei sospira, sorridendogli ancora, e non si sente più così solo. “Sei stata tu, un paio di minuti fa, con… con l’esplosione?” le chiede.

“Sì,” conferma lei. “Sto cercando di sbarazzarmi di questi cosi, insomma… giusto in caso.”

“Bella pensata,” concorda Peter. “Solo… non ho idea di cosa stessi facendo io. Non so cosa sto facendo, per niente. È tutto fuori di testa.”

“Lo so,” dice lei. “Ho pensato che ci dovessimo dirigere verso la torre.”

“Anch’io”, dice Peter, in fretta. “Insomma, potrebbe essere pericoloso…”

“Probabilmente lo è…”

“Ma altrettanto probabilmente là dentro ci saranno cose utili,” continua Peter.

“Tipo la roba per creare le tue ragnatele,” dice MJ. “E un punto di vantaggio.”

“Giusto,” dice Peter. Dio, è bello parlare con lei. È così felice che non sia morta che non riesce neanche ad esprimerlo come si deve, ha la vista sfocata, il respiro confuso. Vorrebbe essere ovunque ma non qui, ma sente un barlume di speranza solo a guardarla.

“Non hai ancora visto gli altri?” gli chiede.

“Non ancora,” risponde Peter. “Ma... oh! Oh! Ho trovato un paio di zaini–”

“Sì, lo vedo,” dice lei, torcendo il collo.

“Vuoi una mela?” le chiede. Porta in avanti lo zaino su una spalla sola con mani maldestre, cercando e incespicando con la zip come se non avesse mai toccato un singolo oggetto in vita sua. “Ho una mela, ho– ho due mele…”

Lei ride, e il suo sorriso si allarga. “Ne prendo una, conserviamo l’altra,” conclude.

“Va bene,” risponde lui, posandola nel suo palmo.

Lei la prende, conscia di quanto sia prezioso il cibo qui. È come se le avesse dato un milione di dollari. “Grazie,” gli dice.

“Di nulla,” dice lui, con un cenno, mettendosi di nuovo lo zaino in spalla.

Lei la addenta, schiudendo gli occhi verso un punto dietro di lui. “Sbarazziamoci di questa robaccia prima di andare,” dice. “Stavo cercando qualcosa da tirarci sopra prima che arrivassi tu…”

“Non tirare la mela,” la avverte lui.

Lei soffoca una risata, scuotendo la testa. “Che ne dici di aiutarmi ad alzare una di quelle cassette?”

“Ottimo piano,” concorda Peter, spostando lo sguardo verso di esse. Si posizionano uno per lato, la sollevano e la fanno oscillare avanti e indietro più in alto che possono, contando fino a tre. La lasciano andare e MJ lo trascina via prima che tocchi terra, e scappano inciampando dalla potente esplosione, con fuoco e rocce che sfrecciano ovunque attorno a loro. La cassetta delle lettere atterra con uno schianto su un tetto dall’altra parte della strada.

“E adesso corriamo,” dice MJ, prendendo un altro morso della mela. “Nel caso qua attorno ci sia qualche pazzoide.”

“Okay,” dice Peter. “A ovest, verso la torre.”

Si muovono in fretta e, dopo qualche secondo, lei gli prende la mano. Sembra rendere tutto più facile.

Si arrestano pochi minuti dopo, e Peter si guarda alle spalle per accertarsi che nessuno li abbia seguiti. Si sente più padrone della situazione, adesso che è con lei, meno incline a lasciarsi sprofondare nella depressione, o a dubitare di se stesso. Non può permetterselo, perché deve essere nel pieno delle proprie facoltà quando è con lei, in caso accada qualcosa.

Gli lascia andare la mano, e ammette a se stesso che avrebbe voluto continuare a stringerla.

“Allora, hai visto niente di… ovvio?” chiede lei, sollevando le sopracciglia

Peter si assicura che stiano procedendo nella direzione giusta, cercando di prendere nota delle strade e della posizione della torre. “Non ancora,” risponde, sapendo perfettamente ciò che intende. “Spero che Steve e Nat siano in una posizione migliore per, uh… vedere qualcosa.”

“Mi chiedo se non siano già lassù,” dice MJ, prendendo gli ultimi morsi della mela. Sospira, con gli occhi che scrutano il terreno, probabilmente ancora alla ricerca di trappole. “So che magari è stupido far esplodere le mine, perché fanno così tanto rumore, ma penso che, se possiamo impedire che qualcun altro muoia così, insomma…”

“No, ho capito,” dice Peter. “In effetti, è una cosa davvero altruista da fare…”

“È solo che… mi sembrano un colpo basso,” riflette lei. “Quasi non si vedono, io lo so solo perché ho visto quello che è successo a Richard.”

Peter la guarda. “Ha… ci ha messo un piede sopra–”

“Già,” conferma lei, scuotendo la testa. “È per quello che ho capito come sono fatte. Le linee per terra.”

Peter si sente il petto costretto, e anche lui scuote la testa. “Ho visto Beck e Felicia Hardy che uccidevano Robbie Baldwin,” dice, piano. “Sono… sono scappato.”

“Sono contenta che tu l’abbia fatto,” replica lei.

C’è un brontolio premonitore sopra di loro, e alzano entrambi la testa. Peter vede nuove nuvole che vorticano nel cielo, e sembrano quasi uscite da un fumetto per quanto sono esageratamente sinistre, mentre oscurano tutto.

“Pensi che sia pioggia normale?” chiede MJ, un po’ ansiosamente. Finisce la sua mela e getta il torsolo in un cestino.

Hanno visto molte cose orrende nei Giochi passati, per quanto riguarda la pioggia, e Peter non ha intenzione di scoprirlo. “Non saprei,” replica. “Ma tu dovresti andare sotto quella tettoia mentre io–”

“Ah, no,” ribatte lei, negando col capo.

Lui sospira, lanciando un’altra occhiata verso l’alto. “MJ…”

“No, no, se tu rimani qua fuori sotto la pioggia, io rimango con te.”

Non vuole che si ferisca, e sta per controbattere, quando la pioggia inizia a cadere a secchiate. Non brucia, non è sangue, è solo… pioggia.

“Beh, adesso lo sappiamo,” conclude MJ, già zuppa.

Peter la sospinge comunque sotto la tettoia. “Sembra che si stiano trattenendo,” osserva, quando sono entrambi al riparo dal diluvio. Gli si torce lo stomaco, perché sta pensando troppo. “Sembra quasi… troppo facile. Come se stesse per accadere qualcosa di brutto.”

“Vorrei dire che spero che ti sbagli, ma so che hai quasi sicuramente ragione, quindi…”

Sospira, e anche lui sospira mentre si rimettono in cammino, cercando di tenersi al riparo dalla pioggia. Peter continua a ritornare di scatto al presente, in vita, al fatto che sono davvero qui. Questa non è una vita reale, non è un posto reale, è quello di cui ha avuto paura per tutti questi anni. È l’inferno.

Guarda MJ per smettere di pensare.

“È strano,” dice lei, mentre svoltano in una nuova strada. “Non… non averli qui con noi. Janet e Tony.”

Peter si avvicina a un’auto lì accanto, sbirciando all’interno. Niente zaini, niente provviste, e, in un certo senso, gli sembra quasi un affronto personale. “Lo so,” dice. Non è passato molto tempo, ma Tony gli manca più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, e già sapeva che sarebbe stata dura.

Non c’è più riparo ora, quindi camminano semplicemente sotto la pioggia, mentre i tuoni brontolano sopra di loro. È preoccupato, teme di essere colpito da un fulmine. Si preoccupa, si preoccupa, non riesce a smettere di preoccuparsi. È una sensazione che ha sottopelle, dove ha piantato radici. Deve rimanere concentrato. Deve tenerla al sicuro.

“Ci stanno guardando proprio ora,” dice MJ, nel chiaro tentativo di confortarlo.

Lo fa quasi sentire peggio, e non riesce a decidere se essere speranzoso o pessimista, non gli riesce di trovare un equilibrio, nulla di tutto questo ha senso, nulla…

“Ehi,” lo richiama lei, toccandogli la spalla, e smettono di camminare. Gli va la pioggia negli occhi, e continua a sbattere le palpebre. Si sente in bilico… alla faccia dell’essere meno incline a sprofondare nella depressione. Avrebbe dovuto saperlo: una singola menzione di Tony e già si sente precipitare. Chissà cosa diavolo accadrebbe se qualcuno menzionasse May.

“Scusa,” le dice, scuotendo la testa.” Scusa, è solo che…”

“No, no, lo so…”

“Sono a pezzi,” dice Peter, sentendosi accaldato e terribilmente imbarazzato, e distoglie lo sguardo. “Scusa, devo solo… fare di meglio e…”

Lei gli si accosta, posandogli un rapido bacio sulla guancia. Lui si irrigidisce di colpo per lo shock, e la segue con lo sguardo mentre si allontana, con ciocche di capelli bagnati a schermarle gli occhi. “Devi solo… essere te stesso,” dice, con un cenno convinto. E poi riprende a camminare senza di lui.

Rimane lì impalato a fissarla. Prima il suo cervello funzionava, ma adesso è definitivamente fuori uso. Si sente al centro di una corrente elettrica.

Viene strappato dalle sue fantasticherie da un cannone. Deglutisce a forza, e vede MJ che si volta, come a controllare che lui sia ancora là. Sente il rimbombo nelle ossa, e devono davvero trovare gli altri.

“Peter,” lo chiama, e ha una strana espressione in faccia.

“Andiamo,” risponde, mettendosi in marcia per raggiungerla. “Dobbiamo assolutamente incontrarci con Steve e Nat, odio sentire i cannoni e sapere che sono–”

“Peter,” dice un’altra voce. E gli si gela il sangue.

Peter si volta, lentamente, più lentamente di quanto si sia mai mosso in vita sua, persino alla Mietitura. E pensa che, magari, non vedrà ciò che si aspetta di vedere. Questo posto è un incubo, ma non è davvero un incubo.

Invece lo è.

Tony è qui. Tony, in ginocchio, con un cappio attorno al collo. Un cappio legato a un lampione, le mani dietro la schiena. Ha un occhio nero e sangue attorno alla bocca, e sta rantolando, come se non riuscisse a respirare. Peter non l’ha mai visto così spaventato.

“Tony,” esala, tremante, orripilato. “Tony, come–”

“Peter, non può essere reale,” dice MJ, dietro di lui.

Lui la sente appena. Non sente la pioggia. Sente solo la propria paura che gli ulula nelle orecchie. I brividi lo scuotono e il mondo si inclina. Minaccia di sbalzarlo a terra.

“Pete, aiutami, ragazzo,” dice Tony con le lacrime agli occhi, e si dibatte, ma non riesce a liberare le mani. “Fammi uscire di qui, ragazzo, dannazione, mi uccideranno…”

“Peter–” comincia MJ.

Ma Peter ha un unico pensiero, perché si sono abbassati a questo, l’hanno fatto, cazzo, hanno messo anche Tony qui, di nuovo, per torturarlo…

“Arrivo,” gracchia, affrettandosi verso di lui senza sapere cosa cazzo fare, perché adesso è tutto diverso. Stanno cambiando le regole. La sua speranza si tramuta in cenere nella sua bocca.

Non appena lo raggiunge, Tony si dissolve. Nel nulla. Come se non fosse mai stato lì. Peter gira sul posto, col cuore che gli batte nelle orecchie, e non c’è più alcuna corda, non c’è Tony, non ci sono più i suoi rantoli.

La pioggia smette di cadere a comando, e si sente sul punto di vomitare.

“Che succede?” implora Peter. “MJ…”

“Qualcuno ha un palmare,” replica lei, affiancandosi a lui e stringendogli un braccio. “Per forza.”

Peter si guarda attorno, mentre la pioggia residua scivola ancora dai tetti, in un concerto gocciolante. Il cielo non si schiarisce, è ancora nuvolo e cupo, e Peter si sente instabile sui piedi. Pronto a cadere a terra. Afferra l’aria nel punto in cui c’era Tony fino a un istante prima. Potrebbero averlo nascosto. Vogliono metterlo in difficoltà. “Sei– sei qui–”

Peter, aiutami!” chiama la voce di Tony, amplificata ovunque, densa di terrore.

“Tony?” risponde Peter, e fa per avanzare quando MJ lo trattiene fermamente per il braccio. La guarda, sentendosi isterico. “MJ, lo stanno–”

“Non è qui,” ribatte lei. “Te lo stavo dicendo, no? Qualcuno ha un palmare, Peter, qualcuno sta creando tutto questo–”

Peter batte le palpebre, col suo senso dell’equilibrio che sembra mal tarato, e sente ancora l’eco della voce di Tony nelle orecchie. “Ma non posso… devo– devo esserne certo, non posso– non posso rischiare di perdere–”

E poi scende l’oscurità, come un sudario che li avvolge, e tutto cambia. Non c’è più la strada, né la città, solo un corridoio freddo, umido e gocciolante, stretto e di un nero minaccioso, pieno di… cadaveri.

Adesso capisce. Adesso ne è sicuro.

“Merda,” sussurra. Ruota sul posto, cercando di capire se può muoversi all’indietro, ma ci sono cadaveri anche lì, cumuli su cumuli di corpi ammuffiti, mutilati, mezzi scheletrici, pieni di larve e mosche e Peter sente l’urgenza di dare di stomaco.

“Non è reale, Peter,” dice MJ, ma si avvicina comunque a lui di un passo. “Niente lo è. Non sono qui. Non sono qui.”

“Lo so,” esala lui, prendendosi mentalmente a calci per esserci cascato, per averli intrappolati qui dentro. “Ora lo so.”

“Dobbiamo stare attenti,” dice MJ, muovendo un esitante passo all’indietro. “Siamo ancora dov’eravamo prima, e ci sono trappole che non abbiamo ancora individuato–”

SAPETE, MI SONO SEMPRE CHIESTO COSA NE FACESSERO DEI CORPI,” dice la voce di Beck, echeggiando il terrificante interrogativo che Peter ha sempre avuto. Non sembra essere vicino, ma nemmeno così lontano, e Peter deduce che l’illusione gli permetta di distorcere anche la propria voce. Così da non rivelare la propria posizione. “INSOMMA, QUEGLI IMBECILLI SE NE STANNO ANCORA LÀ DOVE SONO MORTI. VE LI IMMAGINATE, GLI ADDETTI ALLA PULIZIA CHE ARRIVANO E PORTANO TUTTI FUORI? NO, HO SEMPRE PENSATO CHE QUELLO SAREBBE STATO IL LORO LUOGO DI ETERNO RIPOSO. CAPITOL NE SAREBBE CAPACE, NO?

“Beck,” esclama Peter, schiarendosi la voce. “Non sei costretto a farlo.”

PETER CARO, TU SEI IL CAVALLO VINCENTE, LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO, CERTO CHE SONO COSTRETTO. MA HO DECISO DI FARLO CON UN PIZZICO DI TEATRALITÀ.

“Andiamo,” sussurra Peter, strattonando la mano di MJ. “Andiamo, corri.”

Gira sui tacchi, tenendola stretta, e iniziano a correre verso la direzione da cui sono venuti. Chiude gli occhi mentre avanzano spediti in mezzo ai corpi, perché sa che non sono qui, non per davvero, non per davvero, e cerca di ricordare dove diavolo fossero le macchine che erano per strada. Tende in avanti una mano, incontra un ostacolo e si sposta a destra, sente una porta aprirsi e si scansa di nuovo. Può quasi percepire dove sono le cose, può quasi aggirarle come se stesse facendo una corsa a ostacoli bendato.

Poi qualcosa di duro si piazza tra i suoi piedi e inciampa, abbattendosi a terra. La mano di MJ gli sfugge e lei scompare di colpo.

Lo scenario di fronte a lui si rimescola come un mazzo di carte, formando una visione nuova. Peter si rimette freneticamente in piedi, con nuovo panico nelle ossa.

“MJ?” grida, guardandosi intorno, ovunque, ma lei non c’è, non c’è. “MJ, dove sei?”

MA GUARDA CHE OCCHIONI DA CUCCIOLO,” dice Beck. “COSÌ DOLCI. COSÌ TRISTI. SU, PORTIAMO VIA QUALCUN ALTRO A PETER PARKER.

È in un cimitero. Si stende in lungo e in largo, con una chiesa gotica che si slancia verso il cielo privo di stelle e pace. Il cimitero in sé non è ben curato, è abbandonato alla furia degli elementi, con rampicanti che si contorcono ovunque a loro piacimento, e chiazze di erba secca che affondano nella terra.

“MJ, di’ qualcosa,” chiama Peter, osservando le tombe che emergono dal suolo, umido e mobile come se fosse un’entità senziente. Sa che lei è nei paraggi, sa che Beck deve averla intrappolata in un’altra illusione, o averla scacciata da questa, ma lei dovrebbe essere in grado di vederlo, dovrebbe poter–

È pronto a vedere la tomba di Tony, di May, di Ben, dei suoi genitori… ma quella che gli appare davanti è… la sua. Ricoperta di muffa, sul punto di sgretolarsi, senza epitaffi né parole d’amore, nessun verso o citazione. La fissa, con la data di oggi incisa nella pietra, e la terra di fronte ad essa è aperta, vuota.

In attesa.

Qualcosa lo spinge dentro, e prende a rovesciargli addosso palate di terra.

Tossisce, facendo scattare in alto le braccia, e non dovrebbe funzionare così, non può funzionare così, le illusioni non possono toccarlo, non possono–

Sta affondando come nelle sabbie mobili, con la terra che lo invade, gli entra in bocca, soffocandolo…

Una mano lo afferra e lo tira all’indietro, fuori dalla tomba. È pronto a sferrare un pugno, ma si blocca appena in tempo, perché è MJ, che lo attira a sé.

“Oddio,” esclama lei. “Oddio.”

“Grazie al cielo,” replica lui, stringendola forte.

La tomba occhieggia nella sua direzione, come delle fauci spalancate pronte a inghiottirlo.

Lo scenario cambia e li sprofonda in un’oscurità nuova e, d’un tratto, sono di nuovo nell’attico. Esattamente come l’hanno lasciato, con tutti i bei ricordi incastonati lì dentro a dispetto della loro terribile situazione. Ma… accanto al tavolino da caffè, con una nuova ondata d’orrore, Peter li vede. Tony e Janet, morti, sul pavimento. Li hanno picchiati a sangue, hanno i vestiti stracciati, gli arti piegati in angoli innaturali, e Peter distoglie lo sguardo con un sussulto. Non riesce a guardare, non ci riesce, non può vederlo. Tutta la sua determinazione sfuma nel nulla.

MJ fa un paio di passi verso di loro.

Deve risparmiarglielo, neanche lei può vederli, non se lo merita. “MJ…”

“Lo so,” dice lei, suonando distante, e Peter sta uscendo di testa al pensiero di essere di nuovo qui, anche se non è esattamente qui. “È solo che… dio Peter, mi sento male, sembrano così reali…”

“Quei palmari sanno tutto su di noi,” dice Peter, e non vuole guardare, non vuole vedere Tony così, non può. Ha paura di cos’altro possano offrire i palmari… una foto di May? Informazioni su Ned? La sua stessa, contorta storia con Capitol, fino ai suoi genitori?

Le luci si fulminano, e sono ancora nell’attico, ma è come se ci fosse un blackout. Peter si avvicina, prende la mano di MJ e si rifiuta di guardare in basso.

Sente qualcuno che respira.

Peter,” dice la voce di May, come se la paura che aveva lui di sentirla l’avesse portata in vita. È distorta, lontana. “Ti… ti voglio bene, piccolo mio. Mi dispiace. Non so come vivrò senza di te. Non so se posso. Non hanno… Dio, non mi hanno neanche fatto vedere il tuo corpo…

“Basta,” dice Peter, chiudendo gli occhi. “Basta.”

Non sei mai stato abbastanza bravo, Peter,” dice la voce di Tony. “Sei una delusione. Non puoi salvarti. Sei già perduto. Sei già morto.

“Non puoi ingannarmi, Beck!” grida Peter, sentendo montare la rabbia. “Non puoi più ingannarmi! So cosa stai facendo, e so che non è reale!”

Sei sempre rimasta nella sua ombra, Michelle,” dice la voce di Janet. “Nessuno ti ha mai notata quando eri vicina a–

“Stai zitto, idiota, Janet non lo direbbe mai!” grida MJ.

Peter sente ancora qualcuno che respira. Vicino, sulla sua nuca. Un respiro caldo.

Ha un brivido. È troppo buio, e lancia un’occhiata ai corpi, con lo stomaco che si ribalta. Non può vedere May così. Non può. Deve fermare Beck prima che gliela mostri. Attira vicino a sé MJ, si voltano assieme e ricominciano a correre, lui con la mano tesa in avanti come prima. Si muove verso il corridoio sul retro, e sale quello che crede sia il marciapiede al di fuori dell’illusione. Si muove più in fretta.

Poi sente dei passi striscianti.

Fanno irruzione nella sua stanza in nugoli densi e terrificanti, e Peter incespica all’indietro: ragni, ragni ovunque. Grandi, piccoli, mutanti, e trattiene un singulto mentre gli si avventano addosso, pronti a risalirgli le caviglie.

MJ lo afferra e gli pianta una mano davanti agli occhi.

“Non guardare,” gli dice. “Non guardare, non farlo… non sono qui. Non sono qui.”

“Okay,” mormora Peter, anche se li sente ancora muoversi. “Okay, okay.”

Lo fa voltare e lui le afferra il polso, scostandole lentamente la mano. Li sente ancora, ma non guarda. Li vede, con la coda dell’occhio, che si muovono ai suoi piedi. Ma non sono reali, non sono reali.

Sei morto, Peter,” dice la voce di Tony. “Sei già morto.

L’illusione trema di nuovo, comincia a mutare, e per un momento, solo per un istante, Peter riesce a scorgere l’esterno. La strada, la città, le macerie… e Beck. Beck, in piedi alla fine della strada, che orchestra il tutto.

Poi si ritrovano sulla cima di un’altura imponente. Il tetto del Centro Tributi.

Sono proprio sul cornicione, e il vento frusta i capelli di MJ, portando con sé un’ondata gelida che manda brividi lungo il corpo di Peter. Si guarda alle spalle, e vede un plotone d’esecuzione di Pacificatori che avanza verso di loro, sempre più vicini. Coi fucili puntati.

Peter si volta, guardando in basso, verso la strada, verso le persone che da qua sembrano formiche. Tutto è così piccolo, così lontano, e una caduta del genere li ucciderebbe.

Ma tutto questo non è reale.

Respira come Tony gli ha detto di fare quando gli attacchi di panico sono troppo intensi, inspira dal naso ed espira dalla bocca, e si rammenta che tutto ciò è questione di vita o di morte. Non c’è spazio per gli errori. Beck sta giocando con loro, li sta rendendo vulnerabili, li sta distraendo così da poterli uccidere.

Tony sta guardando. Anche May e Ned. E farà in modo che non lo vedano morire. Non manderà a monte il piano per colpa di Beck.

Inspira dal naso, espira dalla bocca, e cerca di ripulirsi la testa di tutti gli ostacoli che vi si affastellano, cerca di scacciale la paura e i dubbi, anche solo per un istante.

Lascia la mano di MJ.

“Che stai facendo?” chiede lei, ondeggiando appena.

“Fidati e basta,” dice lui. “E forse… avrò bisogno di un piccolo aiuto, ma penso che capirai quando, altrimenti… resta al sicuro.”

“Resta al sicuro, cosa… Peter–”

Peter scatta in avanti e spicca un enorme salto. Per un momento sente di cadere, e il vento cerca anch’esso di simulare una caduta, ma poi prende a camminare in aria, corre, sfreccia, ricordando il momento in cui l’illusione si è dissipata, e punta nella direzione in cui ha visto Beck, più veloce, sempre più veloce.

Gli si schianta proprio addosso e lo abbatte a terra.

L’illusione si disgrega all’istante, e atterrano entrambi malamente in una buca colma d’acqua. Il palmare di Beck rimbalza sull’asfalto e Peter mette a segno un pugno prima che lui lo disarcioni, cercando di recuperare il palmare. Ma Peter gli afferra la caviglia, strattonandolo all’indietro e facendolo cadere di nuovo.

“Non puoi morire in pace, Parker?” abbaia Beck, e striscia verso di lui, agguantandolo per la maglietta e sbattendogli la testa a terra.

Peter vede le stelle e sussulta mentre Beck lo fa di nuovo, poi scalcia, colpendolo proprio in mezzo alle gambe. Beck si accartoccia su se stesso e Peter si rimette in piedi a fatica, facendo cenno a MJ di seguirlo. Lei aggira Beck, colpendolo sul lato della testa per sicurezza e facendolo accasciare. Entrambi scattano in una corsa.

“Non ci lascerà mai stare,” dice MJ.

E subito, Peter sente dei passi pesanti che li inseguono. Spinge MJ da parte appena in tempo e Beck lo afferra, scaraventandolo nella direzione opposta. Lo fa indietreggiare finché non incontra con la schiena l’edificio in mattoni al limite della strada, e lo inchioda lì. Prende a colpirlo, ancora, e ancora, e ancora. Peter sente la testa che sbatacchia contro il muro, con fiotti di dolore che gli esplodono nel cranio.

“Maledizione, ragazzino, non sei un vincitore, capito?” dice Beck, assestandogli un pugno dritto sul naso, e Peter ha un singulto, respira a malapena. Sente in bocca il sapore del sangue, metallico. “Non sei… non sei il tipo, tutto qua, sei davvero bravo a fare il carino, ma non sei in grado di fare nulla, quando arriva il momento.” Lo colpisce di nuovo, e la vista di Peter si sfoca. “Diamo una sistemata a questo tuo bel faccino. Poi non piacerai più così tanto alla gente, no? Quelli di Capitol sono davvero superficiali. Diamo loro un po’ di sangue.”

MJ gli arriva alle spalle, ma Beck sembra intuirlo e allunga la mano libera all’indietro, afferrandola per la gola. Lei lo graffia a sangue, facendolo urlare e aumentare di riflesso la stretta su di lei.

Peter vede rosso.

“Lasciala stare!” ringhia, scostando a forza il braccio di Beck e mollandogli un pugno nello stomaco. Beck si piega in due e allenta la presa, ma riesce comunque a fargli lo sgambetto, spedendolo a terra.

MJ tossisce e solleva da terra un cartello stradale divelto, abbattendolo sulla testa di Beck due volte di fila. Lui barcolla, subendo l’impatto, e si volta scagliando a terra anche lei. Peter si rimette in piedi, col suo intero corpo che urla di dolore, e afferra Beck per le spalle, spingendolo una, due volte, quanto basta per allontanarlo da MJ. Sente dei campanelli d’allarme che gli squillano in testa. Panico, orrore, e cerca di scacciarli via tutti. Non sa come fermare Beck.

“Dio, siete davvero una spina nel culo,” impreca Beck, cercando di mantenersi in piedi, ma Peter rimane all’erta, sapendo di non dover mai cedere. Beck si tasta la giacca, con mani tremanti. “Smettila– cazzo–”

“Non voglio ucciderti,” dice Peter, continuando a spingerlo. Ha un brutto presentimento che non riesce a scrollarsi di dosso, ma è probabilmente perché questa è la cosa più orribile che gli sia mai capitata. Cerca di superare il proprio dolore. “Okay? Non voglio–”

Beck agguanta la sua mano, tirandolo vicino. “Ruota tutto attorno alle uccisioni, piccoletto, è tutta una questione spettacolo. Non uscirai mai di qui se non riesci a uccidere la gente. Beh, non ne uscirai in ogni caso. Ciao ciao, carino.”

Sirene d’allarme. Sirene d’allarme. Il tempo rallenta.

“Peter, ha un coltello!” grida MJ, e Peter la vede scattare verso di loro. Al rallentatore.

Peter la vede, la mano che non lo sta tenendo, la mano che stava frugando nel giacchetto alla ricerca di una tasca. Peter balza via dalla sua traiettoria, ma il coltello scorre sul suo braccio: grida di dolore, e ricorda l’addestramento con Tony. Ricorda i combattimenti corpo a corpo con Sam. Il modo in cui Sam prendeva a pugni i sacchi da boxe finché non si staccavano dalla catena.

Peter lo respinge all’indietro, poi lo carica e gli dà un calcio nello stomaco, più forte che può. Beck scivola, inciampa, cercando di tenersi in piedi, la mano ancora serrata sul coltello.

Si ferma, annaspando, guardando Peter con una sorta di ammirazione.

E poi esplode.

L’onda d’urto spedisce Peter all’indietro di qualche metro, col fuoco che attraversa l’aria, e vede Beck che atterra sul tettuccio dell’ennesima macchina abbandonata.

Un suono acuto. Dolore pulsante. Paura gelida.

Peter scatta in avanti senza pensare, e gli fa male il petto, la testa, tutto quanto, il braccio gli pulsa violentemente nel punto in cui l’ha tagliato. Si affianca a Beck e lo vede carbonizzato, metà volto distrutta, la gamba mozzata. Si limita a fissarlo sotto shock, scuotendo la testa. Non trova parole. Non ci sono parole giuste.

Beck gli rivolge un sogghigno agghiacciante, rantolando. “Ecco… è così che si fa spettacolo.”

I suoi occhi si appannano e ha uno spasmo, poi rimane immobile.

C’è un cannone, e appartiene a Beck.

Peter continua a fissarlo. E a fissarlo. E precipita in un abisso profondo che è simile a un’altra illusione, solo che stavolta è reale, ed è tutto attorno a lui. Beck è morto, e Peter l’ha ucciso. È morto, è morto, proprio qui, davanti ai suoi occhi, ed è stato lui. È stato lui. L’ha massacrato. L’hanno visto tutti.

“Peter!” lo chiama MJ, ad alta voce, vicino a lui, e pronuncia il suo nome come se l’avesse ripetuto più di una volta. Sente un forte ronzio nelle orecchie e aghi dappertutto; il suo respiro è tossico.

Non sarebbe mai diventato un assassino se non fosse stato coinvolto in tutto questo.

“Peter, dobbiamo andare,” dice MJ. “Ho preso il suo palmare. Adesso abbiamo un palmare.”

Peter annuisce, a malapena presente a se stesso. Lei gli prende la mano, tirandolo via, ma lo vede ancora. Lo vede, sul retro delle palpebre. Fatto a pezzi. Morto, morto, morto.

MJ rompe il silenzio dopo pochi minuti.

“Peter, voleva ucciderci,” dice, esitante.

“Lo so,” replica lui, senza emozione. Non riesce a pensare lucidamente. Non riesce a smettere di vederlo, come si è mosso, come è successo. Come lui l’ha fatto succedere.

“Abbiamo appena eliminato una delle minacce più grandi,” dice lui. “Qualcuno che avrebbe potuto… mettere a repentaglio tutto. Tutto quanto.”

“L’ho ucciso,” dice Peter, con gli occhi che si gonfiano di lacrime che cerca di reprimere. Il suo cuore non può sopportarlo. Questo non è lui. Cerca di ripulirsi un po’ di sangue dal volto, ma sente che continua a macchiarlo.

“È finito su una mina,” ribatte MJ.

“Perché l’ho spinto,” puntualizza Peter.

“Guarda cosa ti ha fatto,” dice MJ, e gli inclina il volto verso di lei. Gli fa male, guardarla, visto cosa è diventato ora: qualcuno in grado di togliere la vita, qualcuno che l’ha appena fatto. Proprio di fronte a lei. Sì, Beck era un bastardo, sì, li avrebbe uccisi. Ma Peter avrebbe preferito… avrebbe preferito che non fosse andata così. Che niente avesse portato a questo. Ma è proprio quello il nocciolo del problema.

Lei gli si accosta, premendo la fronte contro la sua, e per un momento si sente quasi in grado di respirare.

“Non è che hai degli antibiotici, nel tuo zaino?” chiede, passandogli una mano sulla spalla.

“Delle bende,” risponde lui. “E basta.”

Lei annuisce, indugiando ancora per un momento, poi si porta dietro a lui. La sente aprire la cerniera della borsa, prendere qualcosa, posare qualcos’altro, e chiuderla di nuovo. Gli arrotola la manica del giacchetto, bendando rapidamente la nuova ferita. Peter sospira, alzando lo sguardo verso la torre, e sono vicini. Forse a una strada di distanza. Gli sembra che non ce la faranno mai.

“Sono sicura che in questo momento Tony si stia preparando a mandarti delle medicine,” dice MJ. “Ho messo il palmare nel tuo zaino, okay?”

Tony l’ha visto uccidere qualcuno. Tony l’ha visto uccidere qualcuno.

“Senti, ti capisco,” dice MJ. “Davvero. So come sei fatto. So quanto… sia dura per te.”

Peter deglutisce a fatica. Non può parlarne. È il tipo di colpa che vivrà per sempre dentro di lui. A prescindere da quanto gli resta da vivere. “Muoviamoci,” dice. “Siamo quasi arrivati.”

“Stai bene?” chiede lei.

“Per niente,” replica Peter. Fisicamente, emotivamente, non va affatto bene su nessuno dei due fronti, al momento. “Ma è quello che vogliono, giusto? È esattamente quello che vogliono.”

“Non dargli quello che vogliono,” dice lei, fermamente. “Okay? Non appartieni a loro.”

Deglutisce di nuovo, rivolgendole un’occhiata, e annuisce. Ha bisogno che lei continui a ricordarglielo. Gli sembra che lo stiano risucchiando, chiudendolo in gabbia. Ha bisogno di essere libero.

Devono attraversare altre due strade prima di vederla. Ma non prova la sensazione che si era immaginato, quando finalmente raggiungono la torre. Tutte le porte principali sono spalancate, in modo quasi accogliente, ma dentro vi divampa un violento incendio.

“Dannazione,” commenta Peter, lasciando ciondolare la testa. Gli fa male il braccio, il viso, non ne può già più di tutto questo.

“Forse c’è un altro modo per entrare?” si chiede MJ. “Forse dovremmo aggirare l’edificio, uno per lato–”

“No,” dice Peter. “Non ti lascio sola.”

“Va bene,” gli accorda. “Andiamo insieme.”

E così fanno. Il fuoco crepita mentre lo superano, e c’è un complesso di uffici sopraelevato collegato alla torre sul lato destro, con tavoli ribaltati, sedie contorte, ma nessun avanzo di cibo. Completano il giro e trovano una sola altra porta, del tutto sbarrata. Ovviamente.

Il posto è enorme, e impiegano un’infinità per tornare al punto da cui sono partiti. Quando lo raggiungono, l’incendio divampa ancora.

“Deve esserci un modo per superarlo,” dice MJ.

Peter sta per replicare quando sente dei colpi: sembrano piuttosto lontani, ma direttamente sopra di loro. Si guarda intorno e ne individua infine l’origine, con un colpo al cuore.

Shuri e Steve. In alto, oltre la finestra della torre, almeno al terzo piano.

“Guarda!” indica Peter.

“Dio,” esala MJ. “Beh, meno male.”

“Sono arrivati lì, in qualche modo,” ragiona Peter.

“Forse l’incendio è scoppiato dopo?”

Peter li fissa, sopra di lui. Entrambi stanno facendo dei gesti, formano cerchi con le dita. Shuri tende una mano, piatta, muovendo un dito attorno ad essa.

“No, non credo…” dice Peter, osservandoli. Stanno entrambi sillabando delle parole, e Peter strizza gli occhi, cercando di concentrarsi.

GIRATE…
INTORNO…
 
“Girate intorno?” chiede Peter. Fissa le porte d’ingresso, il fuoco, e torna a fissare Steve e Shuri. Stanno mimando quelle che sembrano gambe con due dita, che svicolano lungo il bordo delle loro mani. “Girate intorno. Girate… okay. Sembra che vogliano dire che possiamo… rimanere accostati ai muri, forse c’è una porta che possiamo usare per non bruciarci.”

MJ rilascia un respiro. Peter fa un pollice in su verso Steve e Shuri, che annuiscono in sincrono. Deglutisce a stento: sono finalmente qui, hanno raggiunto quella dannata torre, ha dovuto uccidere qualcuno per riuscirsi e ovviamente non è finita qui. Non sa nemmeno se essere qui sia la cosa giusta, ma almeno ci sono Steve e Shuri che li aspettano, spera anche con Natasha e M’Baku. Possono raggrupparsi. Cercare di capirci qualcosa.

Si avvicinano all’entrata, dove il fuoco è più rumoroso. Ci sono cinque porte d'ingresso, quelle centrali completamente avvolte dalle fiamme, ma individuano un piccolo passaggio nella porta più a destra. Si avvicinano, e vedono che c’è una stretta
 cornice rialzata lungo il muro dell'atrio, che che conduce ad altre cinque porte che si aprono sul resto dell’edificio. Non c’è molto spazio, e dovranno stare attenti.

“Va bene,” dice Peter, sfilandosi lo zaino così da assicurarlo sotto il braccio. “Vado per primo, dobbiamo solo… uh, solo–”

“Dobbiamo solo aggirarlo,” completa MJ.

“Già,” replica Peter, con la gola costretta. Annuisce. “Già, proprio… proprio così.”

Il calore dell’incendio richiama quello dell’esplosione che ha ucciso Beck, e cerca di non affondare nella propria testa, cerca di rimanere lucido. Va per primo, avanzando cautamente nella stanza e sopra la cornice. Lo zaino è ingombrante, è difficile tenerlo sottobraccio senza sbilanciarsi in avanti, e cerca di comprimerlo un po’ senza pugnalarsi in qualche modo col suo stesso coltello.

Osserva MJ che lo segue, e le fiamme guizzano nell’aria, pericolosamente vicine a loro. Non c’è molto in questa stanza, solo tre tavoli malmessi, un mucchio di scartoffie; non c’è alcuna assurda ragione per cui ci debba essere un incendio qui e solo qui. È un’altra delle stronzate di Capitol.

Peter tossisce, facendo una smorfia, e cerca di muoversi più veloce che può. Il fumo inizia a infastidirlo. La stanza è piuttosto piccola, e sono già a metà strada, ma il passaggio è stretto, ed è difficile rimanere in equilibrio con gli stivali che indossano. Ha troppa paura di voltarsi a guardare MJ. Ha troppa paura, punto. Il fuoco ruggisce, raggiungendo il soffitto, e Peter stringe i denti.

“Ci siamo quasi,” mormora, tossendo di nuovo.

È a soli pochi centimetri dalla porta quando mette un piede in fallo, inclinandosi pericolosamente, e lo zaino gli scivola dal braccio, trascinandolo ancor di più nella direzione sbagliata. Si tira indietro, appiattito contro il muro, ma il fuoco emette una fiammata al momento sbagliato, avvolgendo il suo braccio già ferito.

“Merda,” esala, contro il dolore acuto e pungente.

“Peter–”

“Sto bene,” dice lui aggrappandosi allo zaino, col sudore che gli cola dalla fronte.

Ancora tre passi e riesce a saltare attraverso l'entrata più vicina, lontano dalle fiamme, e allunga un braccio all’indietro afferrando MJ e traendo anche lei in salvo. Una volta al sicuro tira su la manica del giacchetto, sibilando tra i denti: quel dannato fuoco l’ha attraversata, e c’è una nuova ustione piena di vesciche sul suo avambraccio, proprio sotto al taglio del coltello.

Emette un lamento, girando sul posto, e sta chiaramente dimostrando a tutti che non possono prenderlo come modello, perché è fallibile e spezzato e totalmente idiota. Guarda MJ, forzando un sorriso stentato. “Ovviamente, dovrei essere già morto.”

“No che non dovresti,” ribatte lei. “Non dirlo.”

Lui sospira, girandosi per osservare i dintorni e cercando di ignorare il dolore molle e pulsante che lo avvolge.

Ci sono delle finestre scure, che chiaramente non si aprono sul muro esterno lungo il quale hanno appena oltrepassato il fuoco. Piante, sedie imbottite, piastrelle lisce e lucide a terra. Due rampe di scale, una simile alle scale mobili del Centro Tributi. Lampadari pendenti. Alte porte di legno. Una lunga scrivania sormontata da diversi computer.

“Ehi!” esclama una voce familiare, sopra di loro.

Peter alza lo sguardo, e vede Natasha che scende dalle scale mobili, ora ferme. Il sollievo nel vederla è palpabile.

“Stiamo tutti bene?” chiede loro. “Maledetti imbecilli, coi loro maledetti incendi. Steve si è ustionato.”

“Oh, bene,” replica Peter. “Mi consola un po’.”

“Anche tu?” chiede lei, guardandoli da sopra il corrimano.

“Solo un pochino,” risponde Peter. MJ gli lancia un’occhiata, e il quel momento il dolore si intensifica a dirgli che, no, non è solo un pochino. Ma si sente già abbastanza inutile, e non vuole lagnarsi e piagnucolare per le molte ferite che ha riportato nelle ultime due ore. Come se potesse servire a qualcosa.

“Beck è andato,” annuncia MJ, e Natasha finalmente emerge del tutto davanti a loro, affrettandosi lungo gli scalini immobili. Si avvicinano a lei, e Peter si sente peggio alla menzione di Beck. È una connessione profonda e guasta con la sua anima che avrà per sempre, per quanto sarà lungo questo per sempre. Con un uomo morto. Un uomo morto che ha ucciso.

“È stato un incidente,” dice MJ.

“Voi c’entrate qualcosa?” chiede Natasha, quando si fermano di fronte a lei.

“Ci ha attaccato,” dice MJ. “Ci ha scaraventati in un’illusione–”

“E l’ho spinto su una mina,” completa Peter, deglutendo a forza.

Natasha aggrotta le sopracciglia, e Peter teme, per un istante, che lo stia giudicando. “Bene,” dice invece. “Sarebbe stato uno degli ostacoli più problematici.” Lo fissa intensamente, sottintendendo per il piano. Proprio quello che ha detto MJ. “Era ancora con Hardy?”

“No,” risponde Peter, scambiando uno sguardo con MJ. “Non l’abbiamo vista.”

“Forse si è unita a Osborn o Hela,” ragiona Natasha. “Siamo sfuggiti una volta a Hela, ma abbiamo rischiato. Walker non ce l’ha fatta. Ce la siamo uh… vista brutta. Lei ha combattuto fino alla fine.”

“L’ho vista, nel cielo,” dice Peter.

“Voi siete piuttosto acciaccati,” dice Natasha. “Andiamo. Sono sicura che stia per arrivare un drone.” Si volta, dirigendosi di nuovo per le scale.

Peter batte le palpebre, guardando MJ prima di rivolgersi a Natasha. “Uh, un drone?” balbetta, seguendola. “Che intendi?”

“I regali degli sponsor,” risponde lei, già salendo. “Quest’anno li mandano con dei droni. Scommetto che arriveranno nella torre dall’ingresso principale, sicuramente il fuoco si scanserà per loro.”

“È un bene, però,” commenta Peter, sussultando nell’aggrapparsi al corrimano.

“È ipocrita,” replica MJ. “Ma che ti aspetti, da loro.”

Peter solleva le sopracciglia. Seguono Natasha, su, sempre più su, e Peter sente le cosce che implorano per un momento di pausa. Credeva di essere fisicamente preparato a sostenere tutto questo, considerando l’allenamento che ha intrapreso, ma il solo essere qui dev’essere uno shock per il suo corpo, il fatto di provarlo per davvero e non solo tramite una simulazione. E dopo ciò che è accaduto con Beck… non riesce neanche a pensarci, in realtà. Lo vede, mentre carica i pugni. Mentre gli sbatte il cervello nel cranio. Mentre strangola MJ. E poi… a pezzi.

Peter si sporge dal corrimano e guarda in alto: da qui riesce a vedere la maggior parte dell’edificio, con le scale che si avvicendano per tutta la sua altezza. Gli si accappona la pelle, pensando a cosa potrebbe aspettarli lassù. C’è troppo silenzio, e c’è un rumore d’acqua, come sparute gocce di pioggia, e più salgono, più si fa buio.

“Avete dovuto, uh… affrontare qualcosa, qui dentro?” chiede Peter. “Nel senso… roba di Capitol… roba mutante…”

“Non ancora,” replica Nat. “Ma abbiamo sentito del frastuono che veniva da sopra. Siamo solo al terzo piano, non volevamo spingerci troppo in alto senza di voi.”

“Magari non dobbiamo andare più in alto,” dice MJ. “Magari basta al terzo piano.”

“Staremo a vedere,” sospira Natasha, e da come parla Peter è abbastanza certo che neanche loro abbiano ancora incrociato un’ovvia via d’uscita. “Il lato positivo è che c’è un laboratorio iper-attrezzato al terzo piano. Quindi, Peter, puoi creare le tue ragnatele. Quelle più resistenti, non gli scherzetti da cinque minuti.”

Questo gli risolleva un po’ il morale. “Oh, grande,” dice, lieto per quel pizzico di speranza. Si sente sempre più utile, se può mettersi al lavoro.

Arrivano al pianerottolo del terzo piano, ed è allora che Peter avverte il ronzio. Sta riprendendo fiato, e scocca un’occhiata a Natasha.

“È un drone, o qualcosa di cui dovremmo preoccuparci?”

“Un drone,” dice lei, sbirciando da sopra la spalla. “Non sai che rumore fanno?”

“Non avvistiamo molti droni, nel Dodici,” replica Peter.

“Nessuno, ad essere precisi,” rincara MJ.

Il ronzio si intensifica finché l’aggeggio non è proprio sopra di loro. Sembra quasi un elivelivolo in miniatura, se non per il fatto che ha quattro ali che ruotano, creando quel suono. Trasporta un pacchetto piuttosto voluminoso, e passa sopra le loro teste depositandolo ai piedi di Peter. Poi decolla di nuovo, più rapido, schizzando via come un lampo.

Peter si china, aprendo il pacco. C’è un biglietto di Tony in cima.

Che ne dici di smetterla di farmi venire infarti, eh? Qui c’è tutto ciò che dovrebbe servirti al momento, e del cibo per la squadra. È il meglio che Capitol mi ha permesso di mandare.
Stai al sicuro, respira. Sono fiero di te.
- T

Per lui vuol dire tantissimo vederlo lì, per iscritto.

“Antibiotici, bende,” elenca poi, esaminando le bottiglie e le scatolette. “Crema per le ustioni, e i miei spara-ragnatele! E della zuppa! Pane! Bottiglie d’acqua!” Ride, stringendo al petto un filone di pane, con le lacrime agli occhi.

“Ehi, ragazzi!” chiama Natasha. “Sembra che abbiamo un pasto, offre Stark!”

Peter rialza lo sguardo, cercando una telecamera. Vede un flebile luccichio nel punto più basso del soffitto e lo fissa, sperando che sia davvero una telecamera e non qualcos’altro. “Grazie, grazie,” sussurra, con un cenno.

“Oh, eccovi qui,” dice Shuri. “Grazie a Dio. Vedi, te l’ho detto che ce l’avrebbero fatta.”

“Avevo dei dubbi considerevoli,” replica M’Baku, e Peter lancia loro un’occhiata, vedendoli fianco a fianco.

“Beh, smetti di dubitare di Peter Parker!” dice Shuri. “Lo sai chi è, e cosa fa.”

M’Baku sbuffa, e Peter arrossisce.

“Tony ce l’ha fatta sul serio,” dice MJ, inginocchiandosi accanto a lui. “Ti ha trovato dei buoni sponsor.”

Peter rilascia un respiro, annuendo.

“Sembra che io e te siamo messi più o meno allo stesso modo,” dice Steve. Peter si volta verso di lui, là in piedi: ha un’ustione sul braccio, all’incirca nello stesso punto, dei nuovi, preoccupanti lividi sullo zigomo e un taglio che gli attraversa il sopracciglio.

“Possiamo dividerceli,” dice Peter, con un gesto verso la scatola. “Qui ho… abbastanza antibiotici per entrambi.”

Steve tende la mano, aiutandolo a rimettersi in piedi. “Prima rimettiamo in sesto te,” dice. “Altrimenti non credo che Tony sarebbe così felice.”

Peter ride un poco, e sa che è assolutamente vero.

 
§

 
MJ insiste nel medicare di persona Peter, e compie un lavoro sorprendentemente buono, ma non ne avrebbe mai dubitato. La crema per le ustioni sembra avere effetto immediato ed è quasi sopraffatto dal sollievo, come se finalmente riuscisse a respirare.

Si sistemano nel laboratorio, che è più piccolo di quanto si aspettasse Peter, ma abbastanza fornito per ciò che gli serve, considerando come ha dovuto fabbricarsi il fluido finora. Ci sono cinque banchi da lavoro, armadietti strapieni di scorte, e tutti gli ingredienti che gli servono. L’illuminazione è pietosa: non ci sono finestre, solo una lampadina in mezzo al soffitto che minaccia di fulminarsi, ma sa di doversi accontentare. Non si sarebbe mai aspettato un vero laboratorio. Gli fa venire una nostalgia tremenda delle lezioni di scienze con Ned.

Steve serve la zuppa mentre Peter lavora, aggiungendo l’attivatore alla miscela e sfregandosi gli occhi. Si sente esausto, e scivola contro il bancone principale fino a sedersi per terra. Si chiede che diavolo di ore siano, e si rammenta che qui non c’è un vero e proprio tempo. Solo il tempo che decidono loro.

Steve si avvicina, offrendogli una delle ciotole di plastica. Peter la prende, godendosi il calore tra le mani, e si sorprende quando Steve scivola accanto a lui, sedendosi.

Peter prende piccoli sorsi dalla ciotola, occhieggiandolo.

“Come va?” chiede Steve, con un cenno al suo volto.

Peter annuisce, deglutendo. “Uh, bene,” risponde. “Molto meglio.”

“Michelle ci ha detto cosa è successo,” esordisce Steve. Gli dà l’impressione di entrare a malapena qua dentro, con le ginocchia ripiegate contro il petto e le braccia a cingerle. “È difficile scenderci a patti. A prescindere da che tipo di persona fosse, e quello che stava cercando di fare.”

Peter prende un altro sorso di zuppa, per distrarsi. Sente il timer che ha impostato per il fluido che ticchetta, e mancano circa venti minuti prima di doverlo riscaldare. Non pensa a Beck. Non pensa a Beck.

“Sei molto più forte di quanto pensi,” dice ancora Steve. “Avrebbe potuto uccidervi facilmente, entrambi.” Sospira, portando lo sguardo a terra. “Ti ricordi Dugan [5], l’anno scorso?”

“Sì,” risponde Peter, quasi troppo in fretta. Cerca di ricordarsi tutti i Tributi, per quanto più a lungo possibile.

Steve sorride con affetto. “Era… uno dei miei migliori amici. Abbiamo passato un bel periodo quando lavoravamo insieme al porto, a lui piaceva bere molto più di quanto piaccia a me, ma era… era assurdo, sentire le storie che raccontava.”

Peter ricorda che gli piaceva. Ricorda che lui e Bucky erano stati alleati, prima che Dugan fosse ucciso.

Steve incontra i suoi occhi. “Sono certo che ricordi cosa è successo tra lui e Vanko,” continua.

“Sì,” dice ancora Peter, memore del corpo carbonizzato di Vanko, in seguito. “Ma lui stava… si stava difendendo.”

“Anche tu,” dice Steve. “Quando MJ ci ha detto cos’è successo ho pensato a Dugan, a quello, alla sua faccia subito dopo. E sai, non… non ho più avuto modo di parlargli, ma se avessi potuto, gli avrei detto la stessa cosa. Alcuni si addestrano per una vita intera per tutto questo, sono pronti a uccidere, mentre la maggior parte di noi vuole solo sopravvivere. Vanko era una di quelle persone che non si sarebbe fermata. Anche Beck lo era.”

Peter rilascia un respiro, annuendo. Non avrebbe mai pensato a confrontare la propria situazione con quella di Dugan. Però la ricorda.

“Non mi piacciono i bulli,” dice Steve. “E in fondo, è di questo che stiamo parlando. Oppressione. Tenere a bada i Distretti.”

“Loro ne erano parte,” realizza Peter. “Quelli che… sfruttano i Giochi.”

“Esatto,” annuisce Steve. “A volte, non ti permettono di salvarli. Anche se vorresti.” Peter intuisce che vuole dirgli molte altre cose che non può dirgli, perché sono qui, perché tutti sono in ascolto. “Sei il tipo di persona che finisce sui libri di storia, ragazzo. Il tipo che pensa di non farcela ma che ci riesce comunque.”

Peter scuote la testa, distogliendo lo sguardo.

“Visto?” chiede Steve. “Ecco, è proprio questo che intendevo.”

A Peter non piace molto essere al centro dell’attenzione. “Lavori ancora al porto?” chiede, a bassa voce.

“Beh, al momento ho questo lavoretto da Tributo,” dice Steve, con un sorriso leggero. “Non è così buono. Ma sto incontrando molta bella gente.”

“Oh, bene,” ride Peter.

“Guarda un po’ come se la ridono quei due laggiù,” dice M’Baku, con un gesto verso di loro. “Tengono tutti all’oscuro, coi loro segreti.”

“Ti prego, zitto,” dice Shuri, scuotendo la testa.

“Nessun segreto, nessun segreto,” dice Peter. Prende un altro sorso di zuppa e si mette in piedi con un lamento, controllando il fluido.

C’è un forte crepitio all’esterno che Peter avrebbe subito classificato come un fulmine, solo che diventa sempre più forte, e una scarica di corrente attraversa la stanza.

“Quello,” dice Natasha, muovendosi verso la porta, “era qualcosa.”

Peter ha di nuovo il cuore in gola mentre posa la sua zuppa, e tutti si rimettono rumorosamente in piedi. Si spostano sul pianerottolo, dove ci sono abbastanza finestre da permettere loro di capire cosa sta succedendo.

“Non vedo nulla,” dice Steve. “Uno di noi dovrebbe andare di sotto e–”

Peter si dirige a passo svelto verso le scale senza proferir parola.

“Peter!” grida Steve. “Non tu!”

“Mettete il fluido per ragnatele sulla piastra riscaldata quando scatta il timer!” grida lui di rimando.

“Ci penso io!” risponde Shuri.

Corre giù per le scale, tutte e tre le rampe, e si stava preparando a vedersela col fuoco, ma quando sbuca nell’atrio è già estinto, come se non ci fosse neanche mai stato. Stringe i denti per la rabbia e si affretta all’esterno, guardandosi intorno. Non è ancora del tutto buio. Non c’è tempesta, né nuvole, e continua a scrutare il terreno, gli occhi attenti ad assicurarsi di non farsi saltare in aria. Si guarda intorno, e comincia a credere che sia stata una qualche sorta di trucco, quando…

“Peter,” dice MJ, fermandosi accanto a lui col fiatone. “Potresti non fare così–”

Ma Peter nemmeno la sente.

C’è uno squarcio nel cielo, circondato da volute di nero e blu, ed è proprio sopra la torre. E ci sono… degli esseri… che ne volano fuori.

“Oh, mio Dio,” sussurra MJ, seguendo il suo sguardo.

“Torniamo dentro,” dice Peter, prendendola per la spalla. “Prima che riaccendano il fuoco e ci intrappolino qua fuori.”

Attraversano di nuovo l’atrio, di corsa, e quando rientrano c’è Natasha ad attenderli.

“Non farlo mai più Parker,” dice, scuotendo la testa. “Sai che sei–”

“C’è qualcosa di molto ovvio, là fuori,” dice Peter, rapido. “Proprio sopra la torre. Un buco. Nel cielo. E ci sono degli esseri che ne escono fuori volando che, ne sono certo, non sono buoni.”

Lei lo fissa. “Un buco nel cielo,” ripete. “Proprio sopra la torre.”

“Già,” dice lui, risucchiando un respiro. “Proprio così.”

Lei reprime un sorriso, e annuisce. “Okay,” dice. “Okay.” Si volta e corre su per le scale, muovendosi in modo molto diverso da come ha fatto finora, con molta meno compostezza ma, in un certo senso, più determinazione.

Peter guarda MJ, e si mordicchia il labbro inferiore. “Sarà dura,” dice. “Quegli esseri, qualunque cosa siano, sono sicuro che… che non siano un bene.”

“Già,” concorda lei, e sembra un po’ preoccupata.

“Ma quello–”

“Lo so,” risponde lei.

È là.” Annuisce, col petto che si gonfia di nuova speranza. Una che riesce a vedere, proprio davanti a lui: niente più vuoto, niente più asfissiarsi su false vie d’uscita. Potenzialmente è un inferno sceso in terra, ma riesce a vedersi al di fuori di esso. Riesce a vedere il Dopo.

Fa un passo avanti, stringendola tra le braccia. “Possiamo farcela,” sussurra. “Possiamo farcela.”

 
§

 
In TV la ripresa si sposta per inquadrare lo squarcio nel cielo, e il lieve singulto di sollievo di Tony gli viene quasi strappato via quando vede cosa ne sta uscendo. Alieni volanti, con denti affilati e artigli che vengono mostrati con dei primi piani da voltastomaco, alcuni armati, altri grossi come palazzi, con gusci che sembrano impenetrabili. Guarda Peter e MJ che si abbracciano, Natasha che corre di sopra ad avvertire gli altri. Hela, Osborn e Hardy vedono il tutto da circa dieci isolati di distanza, e Sharon abbandona il suo rifugio nella chiesa per alzare lo sguardo ai nuovi arrivati. Non ha ancora trovato Scott.

Thor e Carol prendono a fare baccano, e Tony affonda la testa tra le mani.

“Non riusciranno a dormire, stanotte,” dice a Janet, o a chiunque lo stia ascoltando. “Quegli affari inizieranno a dare loro la caccia… Peter deve dormire, ieri notte ha dormito a malapena, ha avuto una giornata di merda–”

“Forse riusciranno a chiuderla in tempi brevi,” dice Janet.

“Come diavolo ci arrivano, là sopra?” chiede Carol. “Rubano uno di quegli aggeggi su cui volano gli alieni?”

“Forse così,” replica Thor.

Tony alza lo sguardo, e osserva Thor che manda messaggi in codice a destra e a manca. “Adesso scateneranno l’inferno,” dice, col cuore che gli trema nel petto. È stato sulle spine da quando ha lasciato là Peter, ha mangiato appena, non ha dormito, si è solo aggrappato al bracciale come se ne andasse della propria vita, come se fosse il suo unico appiglio al mondo reale. Il battito cardiaco di Peter non è stato normale neanche una volta. Nemmeno una.

Tony rigira la mano sul bracciale, sentendo ora il battito forte e regolare.

“Devono solo attraversare la torre,” dice Thor. “Arrivare proprio in cima.”

“E poi?” lo incalza Tony, cominciando a irritarsi. “Fanno una capriola per aria, si buttano in un buco nel cielo? Cristo, Thor…” Smette di parlare quando l’inquadratura si sposta su una ripresa dello squarcio aereo, mostrandola da ogni angolazione. Gli alieni ne escono in una processione ordinata, e Tony si alza, avvicinandosi alla TV.

“Che hai visto, testa di latta?” chiede Carol, vicina dietro di lui.

Tony inclina la testa. Coglie quel lieve brillio. Quella sfumatura verde, in un paio di punti. “Attraversano un campo di forza,” dice Tony. “Lo vedo. Lo vedete? Proprio qui.” Ci passa sopra l’indice per evidenziarlo. “Le ragnatele di Peter ci si possono attaccare.”

“Non prenderebbe la scossa?” chiede Carol.

“Bruce se ne sarebbe occupato,” replica Thor. “Lo so. Ci siamo. Possono usare le ragnatele, Peter può tirarli fuori, uno alla volta. Siamo a fine partita, ci siamo.”

Tony ha lo sguardo fisso, e l’immagine si sposta su Peter che si riunisce agli altri, riprendendo a lavorare sulle sue ragnatele. Lui e Shuri sono fianco a fianco, e capisce che il ragazzo sta cercando di reprimere un sorriso. Non dovrebbero sembrare felici in una situazione del genere, e lo sanno.

Ma c’è speranza. È lì, è evidente.

“Attivo gli infiltrati,” annuncia Thor. “Do il via a tutto.”

Il primo istinto di Tony è quello di frenarlo, giusto in caso vada storto qualcosa, ma vuole credere che funzionerà. Una volta per tutte, una fine. Peter salvo. Peter vivo.

Torna da Janet, adesso in piedi con le mani sui fianchi. “Devo procurargli un qualche tipo di protezione, qualcosa del genere,” le dice. “Potrei provare a intercedere anche per Michelle, se tu non hai gli agganci.”

“Va bene,” risponde lei. Lo prende per le spalle, e quando lui alza lo sguardo vede che ha le lacrime agli occhi, e un sorriso triste in volto. “Ci siamo,” dice. “Finalmente avremo… avremo una sorta di giustizia. Per tutti loro. E i nostri ragazzi… riusciranno a scappare.”

Tony annuisce, stringendola in un abbraccio.

Beck ha quasi ucciso Peter. E le minacce di Stane non si sono ancora materializzate, ma Tony sa quanto ami essere teatrale. C’è un'opportunità, una via d’uscita, ma Stane non renderà tutto così semplice. E ha piazzato un bersaglio sulla schiena di Peter.

Tony ha paura. Ha una paura terribile.



*
 
 

Note:

[1] Dalla descrizione, si identifica la
Stazione Centrale di New York.
[2] La
New York Public Library [interno].
[3] Il Re di Carcosa: vi sono dei libri reali i cui titoli sono rispettivamente The King in Yellow, e An Inhabitant of Carcosa, due opere che influenzarono Lovecraft e i suoi Miti di Chtuhluh (per farvi capire il genere). Carcosa è una città immaginaria, maledetta e descritta solo dopo la sua improvvisa distruzione, e Il Re in Giallo è un dramma anch’esso fittizio e maledetto che conduce alla follia chi lo guarda. È un riferimento peculiare, da inserire in questo contesto. (Chi ha visto la prima serie di True Detective potrebbe avere più chiaro qualche dettaglio sia su Carcosa che sul Re in Giallo).
[4] Richard Rider aka Nova; Trish Walker, sorella adottiva di Jessica Jones; Robbie Baldwin aka Speedball/Penance; Noh-Varr, membro dei Kree.
[5] Dum Dum Dugan: uno dei membri storici dell’Howling Commando.



Note della Traduttrice:

Cari Lettori,
finalmente i Giochi sono iniziati e, com'era prevedibile, le cose si fanno molto, molto movimentate... e non è finita qui, fidatevi ;)
Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ovvero
Manulalala, Paola Malfoy, Eevaa (che ci aveva azzeccato con la previsione sul portale :D) ed ericaron; non mi aspettavo un riscontro così ampio e vi ringrazio tantissimo per i complimenti sulla traduzione <3
Come sempre, vi reindirizzo all'autrice originale, la vera mente dietro a tutta la storia <3


Il prossimo capitolo potrebbe arrivare con un po' di distacco rispetto ai soliti tempi di aggiornamento: siamo quasi in pari con l'originale e voglio tradurre il capitolo che uscirà lunedì prima di pubblicare il successivo, visto che c'è al momento un cliffhanger pazzesco, peggio di questo, e vorrei evitare di farvi stare col patema d'animo come lo sono stata io in questa settimana :') 
A presto!


-Light-

P.S. Ho passato un pomeriggio a cercare di capire come diavolo fosse stato tradotto "pods", ovvero le trappole di Capitol, in italiano, senza successo (ho solo i libri in inglese e il primo film, nel quale non compaiono). Ho rispettato la differenziazione tra "pods" e "mines" con "capsule" e "mine", ma non ho idea di quella ufficiale; se qualcuno lo sa, mi illumini <3
EDIT: alla fine l'ho reso come "trappole", fregandomene della traduzione letterale che era BACCELLI *facepalm*  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** E adesso ***


Capitolo 11: E adesso




 
Con gli alieni, la situazione si complica. Come se non fosse già abbastanza complicata. Ma questo è Capitol in tutto e per tutto. Votato allo spettacolo.

Si rifugiano in laboratorio così che Peter possa finire le sue ragnatele, e sentono gli alieni che entrano nella torre, frantumando le finestre e distruggendo ogni cosa. Peter non sa se sappiano dove siano loro, o se siano privi d’intelligenza e semplicemente votati ad annichilire tutto ciò che incontrano. Sa che alla fine dovrà esserci un Vincitore, quindi loro non possono morire tutti insieme. Cerca di visualizzare chi altri ci sia là fuori, e come se la stia cavando.

Il gruppo si fa silenzioso. Rimangono in ascolto di quella follia mentre le ragnatele di Peter si raffreddano, in attesa di essere depurate. Lui si sta in parte pentendo di aver scelto il processo più lungo, ma sa che così saranno più resistenti, più versatili, e potrà farne un uso migliore. Non vuole rimanere senza al momento del bisogno.

Sentono altri due cannoni nell’arco di due ore, e a Peter fa male il cuore. Nessuno è al sicuro, là fuori, e questo fatto lo uccide.
MJ parla, anticipandolo.

“Non dovremmo andare là fuori?” chiede, guardandosi attorno. “So che probabilmente tre quarti dell’Uno e del Due sono ancora in giro, ma ci sono anche gli altri, non dovremmo provare a… coinvolgerli nella nostra alleanza? C’è l’inferno, là fuori.”

“Dobbiamo,” dice Natasha, con un’occhiata fugace a Steve. “O almeno proviamo a inventarci qualcosa per farli arrivare qui da noi.”

“Questo potrebbe attirare da noi anche l’Uno e il Due,” dice M’Baku. “Oppure gli alieni.”

“Quelli sono già qui,” replica Shuri, con un gesto verso la porta.

“Non con noi,” ribatte M’Baku.

“Lo saranno presto,” dice Steve, alzandosi in piedi. Si scrocchia il collo, lanciandosi un’occhiata in giro. “Vado a cercare chiunque sia rimasto. Si meritano tutti una possibilità.”

Peter guarda fisso nella sua direzione.

“Steve,” lo chiama Natasha, avanzando per piazzarsi di fronte a lui. “È già buio. So cosa succede quando è buio, qua dentro, soprattutto con tutto il casino che…”

“Vengo con te,” dice Shuri, alzandosi a sua volta.

“Col cavolo,” replica M’Baku, imitandola. Sono tutti in piedi tranne MJ, e lei guarda Peter come se avesse involontariamente innescato la cosa.

Peter replica sbarrando appena gli occhi, e torna a lavorare sulle sue ragnatele. Non vuole che nessuno di loro vada là fuori, ma ne comprende la necessità. Vorrebbe farlo lui, ma sa che causerebbe scompiglio, e dovrebbe letteralmente sgattaiolare via per riuscire a combinare qualcosa. Hanno tutti dato di matto quando è uscito, poco prima, e non stava nemmeno succedendo nulla.

Sospira tra sé. Ci sono ancora delle persone innocenti, là fuori, forse prive di un rifugio. Qualcuno deve andare, se lui non può. A patto che quel qualcuno non sia MJ.

“Sai che so difendermi,” dice Shuri, fissando M’Baku.” Sai che sono sempre stata in grado di farlo.”

“Non sono un grande fan di tuo fratello, ma gli ho promesso di tenerti al sicuro fino al mio ultimo respiro–”

“La proteggo io–” comincia Steve.

“Mi proteggo da sola,” ribatte Shuri.

“Non ci saranno ultimi respiri,” dice Natasha, scuotendo la testa. “Da parte… di nessuno.”

“Prendi il mio coltello,” dice Peter, indicando il proprio zaino. Sa che non è molto, ma è qualcosa.

“Staremo via solo per un paio d’ore,” dice Steve, mentre Shuri recupera l’arma. “Torniamo subito.”

“Steve, quegli esseri sono troppi,” dice Natasha. “Sono ovunque, si muovono in gruppo, sono armati e voi siete due tizi con un coltello.”

“Staremo bene,” dice Steve, sorridendole. “Torneremo con gli altri, quindi rimanete nei dintorni. Se doveste andarvene, non allontanatevi troppo.”

Non permettono alla discussione di protrarsi troppo a lungo, e poco dopo si dirigono all’esterno, spostando da parte l’armadietto d’acciaio con cui hanno barricato la porta. C’è una strana atmosfera in loro assenza, dopo che Natasha ha rimesso a posto l’armadietto. Peter non riesce a focalizzarla, ma sente una forte tensione nel petto e cerca di non farci caso. Da sopra di loro proviene ogni sorta di rumore, e sono tutti consapevoli che dovranno spostarsi verso l’alto. Non possono parlarne ad alta voce. Possono solo comunicare con gli sguardi, con i gesti, ed è dannatamente difficile mettere in atto un piano senza poter discutere del piano stesso. Sarebbe un buon momento per avere il potere di leggere nel pensiero.

Peter si concentra sulle sue ragnatele. Sono quasi pronte.

“Parker, perché ti ci vuole così tanto?” chiede M’Baku, camminando avanti e indietro alle sue spalle. È molto più attivo adesso che Shuri non c’è, e si muove ansiosamente qua e là. “A cosa servono? Come ti sono venute in mente?”

“Uh,” replica Peter, iniziando il processo di filtrazione. “Beh, questo è il processo più lungo. Mi servono forti e appiccicose, così possiamo usare le ragnatele per immobilizzare la gente, per inchiodarla ai muri, uh, intrappolarla in un ragnatela–” [1]

“Ragnatele, ragnatele, ragnatele,” ripete M’Baku. “Sei proprio un ragno.”

“Con quelle può anche spostarsi in aria,” dice MJ, poggiandosi al bancone col mento sulla mano.

M’Baku sbuffa.

“Le ho inventate durante una lezione di scienze,” spiega Peter. “Stavo solo… giocando un po'.”

“Beh, spero che servano a qualcosa,” conclude M’Baku.

“Dovremmo riposarci un po’, qua,” interviene Natasha. “Rimango sveglia io, sto di guardia.”

“Sto sveglio con te,” dice M’Baku, avvicinandosi a lei con un’occhiata verso la porta. “Lascia fare un po’ di nanna ai bambini. Se ce ne andiamo all’alba, dovranno essere al massimo delle forze.”

Peter non pensa che riuscirà a dormire, sapendo ciò che c’è là fuori, sapendo che c’è un’uscita da raggiungere in mezzo al cielo, se solo riuscissero a capire come. Ma il sonno della notte scorsa è stato effimero, e la giornata è stata… intensa. Adesso Steve e Shuri non ci sono, e chissà cosa diavolo dovranno affrontare. Chissà se torneranno con gente nuova, da soli, o se non torneranno affatto.

Il pericolo in cui si trovano gli fa tremare le mani.

“Fatemi finire queste,” chiede loro.

Gli ci vogliono altri venti minuti, ma alla fine ha abbastanza ragnatele per un paio di giorni, più di quante ne abbia mai fatte in una volta. Le carica negli spara-ragnatele e li indossa per sicurezza. Sente qualcosa tremare da qualche parte sopra di loro. Degli schianti. Sembra che il mondo stia cadendo a pezzi, e non ha idea di come riusciranno a sopravvivere.

Stende a terra la coperta termica e lui e MJ si sdraiano affiancati, il che lo spaventa a morte. Sono entrambi rivolti verso il muro, lei di fronte a lui, e i suoi occhi seguono ogni ricciolo dei suoi capelli. Il modo in cui le sue spalle si muovono a ritmo col suo respiro.

Chiude gli occhi perché si sente un maniaco, e Natasha spegne la luce.

“Ha trovato qualcun altro, prima di trovare me?” sussurra MJ. “A parte Beck e Hardy?”

“No,” risponde Peter. “Tu?”

“Solo Richard,” dice lei. La sente soffocare un singulto. “Lo stavo seguendo, più o meno, non sapevo se… se noi, uh, l’avessimo coinvolto nella nostra… alleanza o meno–”

“Non lo so,” dice Peter. “Non credo.” Sbircia oltre la propria spalla e vede che Natasha e M’Baku stanno parlottando tra di loro. Non li ascoltano.

“Credo di aver sentito un clic, prima che mettesse il piede su quella mina,” dice, con voce brusca e, con un moto d’orrore, realizza che forse sta piangendo. “Non lo so, ma penso di sì. Ho solo– insomma, in ogni caso, avrei potuto dire qualcosa, no?”

Peter si accosta a lei, avvolgendole le spalle con un braccio. “Me l’avresti detto subito, se fossi stata sicura di aver sentito un clic. Adesso ci stai solo… pensando troppo. Pensi a come avresti potuto evitarlo.”

“Forse sì,” dice lei, tirando su col naso.

“Non avresti potuto,” dice Peter, con la gola che gli fa male. Se lo ripete anche lui, riferito a Beck. Ripensa a ciò che ha detto Steve. Beck non gli avrebbe mai permesso di salvarlo. Avrebbe sabotato il piano. Li avrebbe uccisi tutti cercando di farcela da solo. E addio icona per la rivoluzione.

“Peter,” sussurra MJ. “Io… puoi– mi dispiace, è così stupido, odio essere così–”

“No, no, va bene,” dice Peter, con l’impressione di star rovinando tutto. “Cosa c’è?”

“Pensi di poter… puoi abbracciarmi? Solo per... per ora? Solo mentre dormiamo?”

A Peter svolazza il cuore nel petto e mette in dubbio che abbia davvero detto ciò che ha detto, se l’abbia chiesto davvero, e gli si ferma il respiro in gola. “Certo,” risponde, come se gli avessero sferrato un pugno nello stomaco, e si muove più vicino così da far toccare i loro corpi, cingendole la vita con le braccia. Lei mette subito le mani sulle sue, liberando un profondo sospiro.

Adesso non sa davvero come riuscirà ad addormentarsi, ma chiude comunque gli occhi.

Nei suoi sogni vede il volto di Beck, vede il bagliore e le fiamme delle esplosioni. Vede il cadavere di Tony, lo vede con quel cappio al collo. Peter corre nell’oscurità ed è intrappolato in un’altra illusione, una dalla quale non può scappare. Rimarrà qui per sempre. Rimarrà in questo luogo come un fantasma.

Si sveglia con un suono ronzante fuori dalla loro porta. Non si muove, perché MJ sta ancora dormendo profondamente, e sente Natasha e M’Baku che spingono da parte l’armadietto, cercando di non far rumore. Sente ancora dei rimbombi ai piani superiori, tutt’intorno a loro, e si chiede se adesso non ci siano in giro più alieni rispetto a quando si è addormentato. Si chiede cosa ne sia di Steve e Shuri. Pensa che avrebbe sentito un altro cannone. Tendono a svegliarlo.

“È per Peter,” sussurra Natasha.

“Stark si è accaparrato tutti gli sponsor,” commenta M’Baku.

Natasha sbuffa divertita.

“Lo apriamo?” chiede M’Baku.

“Aspettiamo,” replica lei. “Li svegliamo tra un’oretta. Dovremmo muoverci, c’è troppo trambusto qua fuori.”

Peter sente il cuore che si dibatte nel petto e chiude di nuovo gli occhi, stringendo forte MJ.

Si assopisce. Oscilla nel dormiveglia, quel tipo di riposo che non è davvero riposante, con le ore che sembrano secondi.

C’è uno schianto, e Peter apre di scatto gli occhi. Si tira su puntellandosi sul gomito, guardandosi alle spalle, e lo sente di nuovo. Sia M’Baku che Natasha spingono con forza l’armadietto contro la porta che trema sotto la forza di un altro colpo. Natasha intercetta il suo sguardo.

“Oh, bene,” dice, senza fiato. “Già, è ora. Scusate per la sveglia.”

“Stanno cercando di entrare?” chiede Peter, coi brividi lungo la schiena. MJ si muove nel sonno accanto a lui.

“Proprio così,” replica Natasha. “Dobbiamo darci una mossa.”

“Apri il tuo regalo,” dice M’Baku, facendo un cenno verso di esso col mento. “Speriamo che il signor Stark ci abbia spedito delle mitragliatrici.”

MJ emette un lamento e si alza a sedere stropicciandosi gli occhi.

“Hai sentito?” sussurra Peter, guardandola.

“Sì,” replica lei. “Perfetto. Proprio quello di cui abbiamo bisogno.”

Peter scaccia via il sonno dagli occhi e si mette in piedi, avvicinandosi al pacco. Gli fa male tutto, e il panico che sente nelle ossa per gli schianti alla porta lo rallenta. Si chiede dove diavolo siano le telecamere, qua dentro, e cerca di immaginarsi Tony che lo guarda. Che lo guida.

Apre il pacchetto. Ci sono quelli che sembrano dei gilet, rigidi al tatto, un paio di tirapugni appuntiti, un altro coltello e un biglietto.

Mantieni il sangue freddo. So che sai come sono fatti i campi di forza. Pensi di poterne vedere uno in un posto molto ovvio? Sono davvero orgoglioso di quelle ragnatele. Sembrano molto appiccicose. Magari si possono attaccare in posti sorprendenti.
Tirapugni per Natasha. Coltello per M’Baku. Stai vicino a loro, usa le ragnatele. Carol e Thor stanno lavorando con gli sponsor per avere altro. Giubbotti protettivi per te e MJ, dovrebbero difendervi dagli alieni.
Sam dice che un gruppo di alieni potrebbe essere un’occasione perfetta per fare sfoggio della spilla che ti ha dato.
Rimani al sicuro. Vai sempre più in alto. Ci vediamo presto.
-T

“Ok, sembra che quelli ci aiuteranno un po’,” dice M’Baku. “Un po’.”

Peter si raddrizza, porgendo il biglietto a Natahsa. Si chiede se Capitol legga questi messaggi prima di inoltrarli a lui… per forza, devono farlo, sono loro che assemblano le scatole, vista la rapidità con cui arrivano a volte.

Peter si lascia quasi sfuggire qualcosa di stupido, e prima o poi non si fermerà per tempo. Tende semplicemente il foglietto verso di lei, insistente, e lei lo prende. Lo guarda dopo averlo scorso, e lui le fa un cenno, sperando di essere sulla stessa lunghezza d’onda.

C’è un altro schianto alla porta, che scuote l’armadietto. M’Baku emette un basso ringhio.

“Okay,” dichiara Natasha, restituendo a Peter la lettera. “Ho capito. Ho capito quel che vuole dirci.”

“Okay,” dice Peter. Ha un’immagine di se stesso mentre tesse reti di ragnatele fino al campo di forza dello squarcio nel cielo, in una sorta di scala. Si chiede se dall’altra parte sia come un tubo, o se ci sia un bordo. Dovrà capire come scendere una volta là.

“Mettetevi quegli affari,” dice Natasha. “Dobbiamo uscire subito da qui.”

Peter si affretta. Gli schianti all’esterno diventano più forti e più frequenti, e la paura sembra una sacca d’aria nel suo petto. Indossa il giubbotto sotto la maglietta e porge a MJ il suo, poi si assicura di avere tutto mentre lei lo indossa. Prende con sé ciò che gli serve per altre ragnatele, per sicurezza, sperando di poter accendere un fuoco ovunque sarà. Il suo zaino si sta riempiendo.

Si dispongono di fronte alla porta. È strano muoversi senza Steve e Shuri, e Peter prega che siano ancora nei paraggi. Sani e salvi. Non ci sono ancora stati cannoni.

Sgancia la spilla di Spider-Man, rigirandola tra le dita. Davanti agli occhi ha un’istantanea del momento in cui Sam gliel’ha data, mentre stava partendo per venire qui. Gli viene la nausea.

“A cosa pensi che serva?” chiede Natasha, stringendo gli occhi per osservarla.

Gli schianti sono fin troppo forti adesso, ripetuti, con intervalli inferiori a pochi secondi.

“Non ne ho idea,” gracida Peter.

“Un gruppo di alieni…” Natasha si interrompe.

“Beh, quello ce l’abbiamo di sicuro,” dice M’Baku.

“Allora quando usciamo puntagliela contro e speriamo che faccia meglio di quanto penso,” conclude Natasha.

“Qual è il piano?” chiede MJ, vicino alla spalla di Peter. “Corriamo e basta?”

“Andiamo verso le scale,” replica Natasha. “Voglio salire di almeno tre piani. Provate solo a rimanere uniti. Speriamo di trovare un luogo migliore da usare come rifugio. Con accesso a una finestra per vedere l’esterno, così teniamo d’occhio gli altri.”

“Correte e non fermatevi,” dice M’Baku, respingendo all’indietro l’armadietto con un grugnito. “Non fatevi prendere.”

“Ma davvero,” sbuffa Natasha.

“Va bene, va bene.”

Entrambi si scambiano un cenno mentre iniziano a spostare l’armadietto dalla porta. Peter ha il cuore in gola, e non appena la porta si apre gli alieni la sfondano. Quasi li sopraffanno sul posto, rabbiosi, mulinando gli artigli verso tutto ciò che vedono, ma riescono a farsi largo tra loro, imboccando di corsa il corridoio.

“Via!” grida Natasha, non appena sbucano sul pianerottolo.

Corrono, tutto è sfocato, e Peter sente gli alieni che li inseguono in una cacofonia di schianti. Uno di essi spara quello che sembra un raggio laser, e Peter scarta a sinistra per schivarlo. Stringe i denti, torcendosi all’indietro e sollevando la spilla verso di loro. Sono ripugnanti, e fa una smorfia nel vederli, ricoperti di gusci duri, con occhi da insetto e angoli aguzzi ovunque, e preme la spilla più forte che può.

Esplode, ma non in una fiammata: una scarica di ragnatele si sprigiona all’esterno, avvolgendoli e fermandoli direttamente.

“Porca troia,” esclama Peter, quasi inciampando nei suoi stessi piedi mentre li vede dimenarsi.

“Bel colpo, Parker”, si complimenta M’Baku.

“Ne arrivano altri,” grida MJ, correndo accanto a loro.

Peter si gira: sono molto più indietro, ma stanno arrivando, una massa di sibili e armi pronte a colpire. Natasha lo tira oltre l’angolo e lui afferra il polso di MJ mentre sfrecciano sulle scale, saltando i gradini.

Ce ne sono altri sul pianerottolo del quarto piano, e si scagliano contro di loro, fendendo gli artigli verso Natasha. Lei sferra due colpi ben piazzati, i tirapugni fanno il loro dovere e l’alieno emette un orribile rumore viscido quando lo colpisce, ribaltandosi all’indietro contro il resto del gruppo. Peter ne calcia uno, ne immobilizza un altro con le ragnatele e MJ ne carica uno a terra, scaraventandolo contro il muro. Poi fa la cosa migliore che potesse venirle in mente: afferra una delle loro armi e gliela strappa di mano.

“Oh, mio Dio,” esala lei.

“Sparagli con quella!” grida M’Baku, pugnalandole uno in faccia.

MJ esegue, mentre li aggirano diretti alla rampa successiva. Peter continua a guardarsi alle spalle, sparando ragnatele, e quelle che ha fatto sono resistenti e inchiodano gli alieni a terra, alle colonne, gli uni agli altri. Salgono di corsa le scale e quando arrivano al quinto piano c’è… silenzio.

È quasi più spaventoso.

Peter guarda in basso, e gli alieni hanno formato un’enorme folla rabbiosa ai piedi delle scale, e adesso non c’è modo di tornare indietro. Però non stanno salendo. Volontariamente.

“Perché diamine se ne stanno là sotto?” chiede MJ, col fiatone accanto a lui.

“Chi se ne frega,” replica M’Baku. “I mutanti di Capitol non hanno alcun senso. Sono qui per ferirci, confonderci, per spaventarci.”

Peter pensa di nuovo ai suoi genitori. Li immagina rinchiusi in un laboratorio, sotto minaccia di morte, che creano cose come queste. Paura e sensi di colpa costanti, rimorso. Gli fa male, lo spinge a voler disperatamente fare a pezzi tutto quanto, più di quanto già non volesse fare. Sarebbe come salvarli, anche da morti.

Ha uno di quegli orribili presentimenti, quelli che lo divorano, lo fanno sudare e gli mandano brividi freddi al contempo. È come se ogni particella del suo corpo urlasse, avvisandolo di andarsene di qui prima che sia troppo tardi. Ma hanno un’unica opzione, e c’è troppo ad ostacolarli. Peter non ha neanche idea di come diavolo faranno Steve e Shuri a salire fin quassù, superando ciò che hanno appena attraversato.

Tutto gli sembra insormontabile. C’è una via d’uscita, ma è fuori portata. È lì per stuzzicarli. Troppo ovvia. Troppo lontana.

Peter guarda indietro, fuori dalla finestra, e gli alieni stanno sciamando in ogni dove. Ne vede uno di quelli più grandi che passa lì accanto, eclissando l’intera lunghezza del loro piano.

Si sente torcere lo stomaco.

“Va bene,” esordisce Natasha, mentre Peter cerca di uscire dalla propria testa. “Non stiamocene qua impalati, dobbiamo–”

Si interrompe e, nel silenzio, Peter lo sente. Sembra un qualcosa che si sta accendendo, e Peter getta un’occhiata in basso oltre il corrimano, verso la direzione da cui proviene il suono.

“Non mi piace,” commenta M’Baku.

Prima che qualcuno possa rispondere, la fonte del suono sbuca fuori volando da uno dei corridoi di fondo, e Peter quasi sviene sul posto.

Un’intera flottiglia di armature volanti di Iron Man, con fiamme che si sprigionano da mani e piedi. Sono di ogni forma, colore e dimensione, e si stanno dirigendo a rotta di collo verso lui e il resto del gruppo. Peter sente il cuore che inciampa, il terrore che gli riempie la bocca, e si oppone leggermente quando gli altri prendono a spingerlo, cercando di farlo indietreggiare.

La sua esitazione gli costa caro.

Una delle armature più piccole, rossa e oro come quella originale di Tony, si abbatte a tutta forza contro di lui. Sfrecciano in aria sotto la forza dell’impatto, poi sfondano la finestra.
Peter lancia un grido quando l’armatura lo lascia, precipitandolo verso la strada devastata sotto di loro.

 
§

 
“Cristo, Cristo,” impreca Tony, in piedi di fronte alla TV, una mano a stringersi il petto e l’altra il bracciale. “Maledizione, questo è il peggio... ci prendono in giro, usano me contro di lui. Janet, se lo ammazzano così– se lo…” Guarda Peter cadere, circondato dai vetri, l’armatura di Iron Man che si libra nell’aria in mezzo agli alieni. Si sente male, vede delle macchie. “Dio, Janet, il suo cuore–”

“Guarda, guarda,” dice Janet, accanto a lui.

Vedono Peter mirare verso il palazzo e sparare una ragnatela che fa presa sul muro. La cima si tende e lui ondeggia a mezz’aria come ha fatto nella palestra, con grazia, sparandone un'altra per tuffarsi in un vicolo.

“Thor,” grida Tony, ancora con gli occhi sullo schermo. “Peggiora sempre di più.”

“Sono gli Hunger Games…”

“Sì, ma adesso ci sono io a svolazzare là fuori,” scatta lui, girandosi e indicandolo con furia. “Stanno usando qualcosa che rassicura il ragazzo per spaventarlo, stanno prendendo qualcosa di importante per lui–”

“Possono sfruttarle,” dice Thor, avvicinandosi. “Possono usarle per arrivare al portale.”

“Portale?”

“Sì,” replica Thor. “Lo chiamiamo così.”

Tony sente un paio di esplosioni e si volta di nuovo, vedendo l’armatura di Iron Man che insegue Peter, sparandogli contro, col terreno che salta in aria dove corre. Tony deve tendere una mano e aggrapparsi al braccio di Janet per non collassare a terra. È un incubo senza fine. Stanno dando del loro peggio.

La ripresa si sposta su Steve e Shuri e sull’unico Tributo che sono riusciti a trovare, Misty Knight [2]. Sono ad appena un paio di isolati dalla torre, bloccati in un corpo a corpo contro un gruppo di alieni.

Hela e Osborn si stanno avvicinando alla posizione di Peter. Hardy sta cercando di scalare la torre dall’esterno. Le altre armature sparano raggi di energia al gruppo ancora dentro la torre, e MJ ha un attacco isterico per Peter. Sembra quasi sul punto di gettarsi lei stessa dalla finestra per seguirlo.

Tony rivolge lo sguardo a terra, respirando a fondo dal naso. “Devo andare in città,” annuncia. “Devo– devo procurargli qualcosa di utile. Non lo so. Potrei, in teoria… far aprire un rifugio da qualche parte, per quando starà tornando alla torre… Carol è ancora fuori, vero?”

“Sì,” conferma Thor.

Tony annuisce e guarda le armature che si riversano per tutta la città, seminando distruzione. Scuote la testa, sentendo montare la rabbia. “Mi stupisco che abbiano aspettato così tanto, per farlo,” commenta. “Si vede che Peter era la scusa perfetta.”

Quella rosso-oro incombe sul ragazzo, spedendogli il cuore in gola, e lo vede spararle contro una ragnatela dopo l’altra. Poi una mano lo afferra e lo trascina via, fuori dall’inquadratura.

“Cos’era?” sbotta Tony, con voce incrinata. “Dove diavolo è la mappa?”

 
§

 
Peter spintona la persona che l’ha agguantato, ma l’uomo alza immediatamente le braccia in aria. Sono in un vicoletto buio, ma Peter riesce a vedergli gli occhi, e lo riconosce subito.

“Ehi, piccoletto,” dice Scott Lang. “È un macello là fuori, eh? O meglio, qua fuori. Tecnicamente siamo ancora… qua fuori.”

“Oddio,” sospira Peter, allungando una mano per toccare Scott sulla spalla e assicurarsi che sia reale. “Dio, mi hai spaventato.”

“Scusa,” replica Scott, dandogli una pacca sulla mano. “Mi piace un sacco agire nell’ombra, sai, farmi piccolo, e alcuni di questi muri hanno dei passaggi… strano, eh? Dei minuscoli corridoi, è facile nascondersi.”

Peter getta un’occhiata all’esterno, dove uno squadrone di alieni passa volando, assieme a qualche armatura. Nessuno di loro si volta verso il loro nascondiglio.

“Visto?” dice Scott. “Sono uscito allo scoperto solo sporadicamente… tentavo di trovare Sharon. L’hai vista? So che Cassie si incazzerà, se non la trovo.”

“Non l’ho vista… chi è Cassie?”

“Oh, mia figlia,” risponde Scott. È sempre parso molto brillante, nelle poche occasioni in cui Peter ci ha parlato, ma la sua espressione si incrina un poco nel menzionare quel nome. “Uh, Sharon era la sua maestra di karate. La Mietitura… è stato un brutto giorno per Cassie.”

“Mi dispiace,” dice Peter, mordicchiandosi il labbro inferiore. Altre famiglie lacerate. Altri figli abbandonati.

“Ehi, non è colpa tua,” dice lui, dandogli delle pacche sulla spalla. Si sentono un paio di esplosioni vicine, degli alieni che sibilano, e Peter sa di dover tornare alla torre. “Ma sono con te, Spider-Man, capito? Capisci che intendo?” Gli fa un occhiolino talmente esagerato che Peter non potrebbe mai non capire cosa intende.

“Bene,” dice Peter, sorridendo. “Allora stai con me.”

“Sì, certo, ti sto addosso come un ragno sulla ragnatela,” dice lui, con un sogghigno. “È molto… appropriato– comunque, sei davvero bravo, sai volare sul serio, ragazzino.”

“Non sono ancora così bravo,” ribatte Peter, scrocchiandosi i polsi e passando una mano sullo spara-ragnatele destro. “Non mi sono allenato abbastanza.” Vorrebbe davvero essere stato in grado di volteggiare in modo da dirigersi di nuovo verso la torre. Però poi non avrebbe trovato Scott.

“A me sembrava perfetto,” replica Scott.

Alzano entrambi lo sguardo quando altre armature li superano, e Peter pensa che forse stanno cercando lui. Porta gli occhi a terra, provando a non pensarci. Tocca la sua spilla di Iron Man, ricordandosi di quando era piccolo e aveva visto i filmati. Ricorda la forza di Tony, la sua resilienza. L’ingegnosità. È quello l’Iron Man che Peter conosce. Non quello che stanno cercando di presentargli.

“Non farti influenzare dalle loro stronzate,” dice Scott. “Lo fanno per destabilizzarti. Si vede che ce l’hanno fatta. È fin troppo ovvio.”

“Già,” dice Peter, sapendo che ha ragione.

“Iniziamo ad andare verso la torre, ok?” propone Scott. “Speravo di trovare uno di voi, ma non, uh, scaraventato da una finestra e durante un inseguimento… ma ora sei qui. Scordiamoci il come.”

“E ho un palmare,” ricorda Peter, allungando una mano all’indietro e tastando lo zaino, lieto che sia ancora intero dopo la caduta. “Magari possiamo… sfruttarlo per nasconderci o qualcosa del genere. O proiettarci mentre andiamo là per distrarli.”

“Perfetto,” dice Scott. “So che l’Uno e il Due sono qui da qualche parte.”

Si avvia lungo il passaggio in ombra, e a Peter si blocca il respiro in gola. “Li hai visti?” chiede, seguendolo.

“No,” dice Scott, guardandolo da sopra la spalla. “Ma ho un brutto presentimento. O magari è solo… tutto. Tutto mi fa venire un brutto presentimento.”

“Uh, uno di loro è fuori gioco, da quanto ne so,” dice Peter, facendo scorrere la mano sul muro di mattoni mentre camminano. “Beck.”

Bene,” commenta Scott. “Lui era un casino. Una minaccia. Aveva quegli occhi da folle.”

Peter non vuole pensare a Beck o ai suoi occhi e al modo in cui si sono appannati subito dopo quelle ultime parole mordaci. A volte si dimentica di essere in uno spettacolo televisivo. Un evento. E Beck lo sapeva, è stato al gioco, ha cercato di rendere tutto divertente. Morte e distruzione. Divertenti. Un muro a separare Loro e Tutti Gli Altri. Stanno allo zoo. Sono leoni che saltano nei cerchi.

Peter si chiede se anche Beck non stesse semplicemente cercando di sopravvivere. A modo suo.

Vuole smettere di pensare.

Raggiungono la fine di quel passaggio buio e Scott fa capolino all’esterno, guardando da entrambe le parti. Là fuori sembra una zona di guerra, e non ci sono neanche lontanamente abbastanza Tributi per così tanti alieni. Peter si chiede che diavolo stiano facendo, se stiano mettendo a soqquadro la città più di quanto non sia già devastata.

Una delle armature sfreccia lì accanto e Scott si ritrae, rapido. Si vede che è un padre dal modo in cui tende un braccio per spingerlo all’indietro, come se avesse un istinto automatico per tenerlo fuori pericolo.

Sbircia da sopra la sua spalla, osservando l’armatura che si impenna e rilascia dei missili contro uno degli edifici più vasti. Volano così in alto, quasi all’altezza dello squarcio nel cielo, e Peter si chiede se sia possibile hackerarne una col palmare. O più di una. Potrebbe essere un buon piano di riserva, in caso le ragnatele non siano infallibili. Potrebbero volare fin lassù.

Sono ancora molto vicini alla torre. Peter la vede, due strade più in là. Potrebbero raggiungerla, se si muovono in fretta. Chissà se in giro ci sono altre nicchie e nascondigli, e se Scott riesce a trovarli facilmente, anche sotto pressione.

“Che ti avevo detto?” sussurra lui, facendoli indietreggiare ancora un po’.

Peter sbircia oltre l’angolo e vede Osborn ed Hela poco più avanti, impegnati ad avanzare lungo la strada. L’alleanza gli sembra fragile, a dir poco, e Peter conclude che Hela non sia il tipo di donna che fa gioco di squadra.

C’è un cannone in lontananza e i due si fermano, guardandosi intorno.

“Grandioso,” mormora Scott.

Peter sente la medesima paura ribollirgli nelle viscere, perché è di nuovo lontano da MJ e non sa se lei sia al sicuro. Il cannone è un coltello che gli strappa via la pelle. Deve tornare da lei e dagli altri.

“Aspettiamo finché non vanno via, poi proviamo a correre,” sussurra Peter.

Si tengono bassi, sperando di essere coperti dal buio, e Osborn ed Hela li superano, entrambi correndo, perché un gruppo di alieni li insegue. Peter si chiede se tenterebbero comunque di ucciderli nel vederli, a dispetto di quello che accade.

“Bene,” dice Scott, cercando ancora di tenerlo al riparo. “Credo che ora ci sia una distanza di sicurezza tra gli assassini e noi, potenziali… assassinati?” borbotta tra sé.

Peter ha un brutto presentimento e si sfrega lo sterno. Porta in avanti lo zaino e ne pesca fuori il palmare, per poi richiuderlo. Accende il congegno e vede la schermata del menu principale che mostra il loro quadrante. È esattamente come i palmari con i quali si è esercitato durante l’addestramento, e cerca di non prestare attenzione alla lista di comandi che Beck ha impartito contro lui e MJ.

Crea un’illusione che mostri la strada così com’è ora, in modo che nessuno li veda passare, e ne vede i contorni acquosi quando si attiva.

“Promette bene, ragazzino,” commenta Scott.

“Grazie,” dice Peter, sorridendogli. Ripone rapidamente il palmare e spera che l’illusione regga per un po’.

Mettono piede in strada e quando Peter lancia un’occhiata nella direzione dalla quale sono venuti Osborn ed Hela, la vede. Una densa nuvola di nebbia sta avanzando, corrodendo tutto sul suo cammino. Gli alieni fuggono e non cercano neanche di sparare o attaccare loro due mentre volano via.

“Non è quello che speravo di vedere,” commenta Scott, con un pesante sospiro.

“Ho della corda,” dice Peter, prendendo di nuovo lo zaino, mentre la nebbia continua ad avvicinarsi. “Possiamo usarla per rimanere uniti–”

Prima che riesca a completare la frase la nebbia li avvolge, e non respira. Gli sale in gola, offuscandogli la vista fino a non vedere nulla, e tossisce cercando di immettere aria nei polmoni. Ma c’è solo nebbia, adesso, ed è come se fosse anche nei suoi pori, con ogni voluta che pesa un quintale e lo trascina verso il basso. Non riesce a respirare. Non riesce a respirare.

Sente Scott che si allunga verso di lui, afferrandogli il polso. Stanno entrambi tossendo, spaccandosi i polmoni, ma adesso corrono, cercando di seminarla, poi c’è un cannone, e subito un altro. Peter sente la gola che si restringe, il respiro rotto, e quasi cade, rimane in piedi solo perché lo sta tenendo Scott.

La nebbia è di un bianco intenso, ma è circondato da oscurità. Non riesce neanche più a tossire, ha solo dei conati ed emette dei suoni disumani mentre cerca di artigliarsi agli ultimi spasmi di vita. C’è un cannone col suo nome sopra che si prepara in lontananza. May, May… Tony…

Del vetro si rompe, percepisce un salto e poi inghiotte un respiro ansimante. Aria pulita.

Apre gli occhi e vede Scott piegato in due accanto a lui, scosso dai conati.

“Porca puttana,” tossisce, dandosi da solo delle pacche sulla schiena. “Dio, li odio… li odio tutti.”

Peter respira a fatica, con una mano sulla gola, mentre la sua vista si fa più nitida. Si guarda intorno. Sono in un negozietto che sembra essere stato saccheggiato, con la maggior parte degli scaffali rotti e vuoti, dei poster strappati sulle pareti, il registratore di cassa fatto a pezzi. Getta uno sguardo all’esterno, oltre la finestra appena rotta, e vede la nebbia che continua ad avanzare. Non entra qui dentro. La gola gli brucia.

“A volte penso che stiano cercando di ammazzarci tutti quanti,” commenta Scott. “Vorrei… farli fuori, levarli tutti di mezzo.”

“Mi hai salvato la vita,” dice Peter, ancora impegnato a riprendere fiato. “G-grazie.”

“Di nulla,” dice Scott. “Ci servi, sai.”

Peter scuote la testa e si siede sul posto. Non sa quanto ci metteranno a rimettersi in marcia, e gli sembra che la terra stia tremando sotto di loro. “Non servo a nessuno per davvero,” replica. “Non… non per davvero.” Altri significati impliciti, ma spera che Scott capisca. Il volto della rivoluzione… potrebbe essere chiunque. Capitol massacra così tante persone, e Peter è solo uno tra i tanti.

“Nah,” ribatte Scott, negando col capo. Si siede anche lui. “Servi più di quanto credi, okay? Diciamo solo che, uh, la tua alleanza è molto esclusiva. Tutti volevano farne parte.”

“A parte l’Uno e il Due,” osserva Peter.

Scott fa un gesto noncurante. “Ma loro sono pazzi. Insomma, chi dedicherebbe la propria vita a questo? Chi si sognerebbe di volersi offrire volontario, Peter? I pazzi, Peter. I pazzi.”

Peter annuisce. Vuole sentirsi normale. Vuole cercare di capire cosa significhi, nel bel mezzo di tutto ciò. Non l’ha mai saputo, e ora teme che sia troppo tardi. “Raccontami di Cassie,” dice.

Un sorriso triste e orgoglioso attraversa il volto di Scott. “È la leprotta migliore e più furba che ci sia,” comincia. “Cintura rossa di karate, l’hanno quasi esclusa dal corso perché stava diventando troppo brava. Ho dovuto fingere di essermi rotto una caviglia per tenerla a bada. Ama scrivere storie, ama piantare fiori… vicino a casa nostra c’è questo prato enorme, e lei pianta delle margherite lungo il bordo, poi corre fingendo che sia un percorso a ostacoli.” Ride tra sé.

“Sembra fantastica,” dice Peter, col cuore che si contorce mentre pensa alla famiglia che ha lasciato indietro.

“Le piaceresti,” dice Scott. “Probabilmente si prenderebbe una cotta per te. Si invaghisce sempre dei suoi istruttori di nuoto, è troppo da sopportare per il suo povero, vecchio papà. Le piace mettermi sotto torchio. Ha solo sette anni! Non sono pronto.”

Peter soffoca una risata dal naso. “Beh, i bambini sono lì per quello,” dice. Sembra che la terra tremi di nuovo e Peter abbassa lo sguardo, preoccupato.

“Sì, lo sento anch’io,” dice Scott. “Insomma, sapevo che ci avrebbero tenuti in bilico, sulle spine, ma se avessi saputo che sarebbe stato così, merda… avrei preso lezioni di balletto. [3] Già, Cassie ha fatto anche quello. È una tuttofare.”

Peter sorride. Si guarda alle spalle e vede la nebbia che si dissolve a poco a poco. Si volatilizza e all’improvviso tutto è di nuovo visibile, col sole che splende. Si ricorda dei due cannoni che hanno sparato mentre soffocava a morte e sospira, con lo stomaco aggrovigliato.

“Quindi, come pensi che sarà?” chiede Scott, quando Peter si volta di nuovo verso di lui. “Vincere?”

Peter lo fissa, perché quella domanda l’ha colto alla sprovvista. Scott ovviamente sa del piano, e immagina che stia cercando di depistarli. Ma non sa comunque cosa dire.

“Non lo so,” risponde, stupidamente. “Ma Cassie sarà contenta di vederti quando tornerai a casa.”

C’è sorpresa negli occhi di Scott, come se Peter avesse rivelato qualcosa, e sembra che stia cercando di stare al gioco. “Ah, mi spezzi il cuore,” dice Scott. Si rimette in piedi e tende la mano verso di lui per stringergliela. “Sei tu il Vincitore, signor Doppio Tredici.”

“Non si sa mai,” ribatte Peter, ed è così contento di averlo trovato. Scott deve scappare, deve tornare da Cassie.

Scott gli rivolge uno sguardo eloquente. “Bene,” dice. “Usciamo e vediamo quali altre meraviglie hanno in serbo per noi.”

Peter annuisce e si dirigono all’esterno, scavalcando la finestra rotta.

Non appena sono fuori, un’ascia vola sopra la sua testa. Ha un sussulto al cuore mentre scorge Hela e Osborn, appaiati.

“Dovevi lasciar fare a me,” dice Hela, guardando storto Osborn.

“Vai!” grida Peter. “Corri!”

Fanno per correre verso il vicolo più vicino, verso la torre, ma Hela è più veloce e li manda al tappeto come se fossero incorporei. Peter atterra di schiena e prima di potersi muovere si ritrova addosso Harry Osborn. Da vicino sembra più magro, quasi malaticcio, e il suo sorriso è distorto.

“Ecco il ragazzo d’oro,” dice, e fa per stringere le mani attorno alla gola di Peter, ma lui lo spintona via e si affretta a rialzarsi.

Vede Hela avventarsi su Scott e la carica, sbalzandola via da lui. Si abbattono a qualche metro di distanza e lei gli rivolge un ampio sorriso.

“Oh, Peter, non preoccuparti,” dice, spazzandosi via le ciocche scure dagli occhi. “Tu sei il prossimo.”

Peter sente una mano che lo strattona lontano da lei: per fortuna è Scott, e Peter svicola via prima che lei riesca a chiudere le dita attorno alla sua caviglia.

Non riescono a fare un altro passo, che la terra si apre. Peter ha già visto dei crepacci, prima, ed è l’unica cosa a cui riesce a pensare mentre scivola in basso verso la frattura spalancata. Erano questi i rimbombi, la tempesta in arrivo. Il loro prossimo trucco.

“No, no,” esclama Hela, bloccata in una posizione più svantaggiosa.

Peter lotta per aggrapparsi a qualcosa, cerca di mantenere la presa su Scott mentre l’intera strada continua a creparsi e sprofondare, proprio dov’era situato il negozio nel quale si erano rifugiati. Sul fondo c’è una voragine buia, e una cassetta delle lettere vi cade dentro, sparendo nel nulla.

Peter si guarda intorno e vede un camion rovesciato che rotola nella voragine ribaltandosi per due volte, diretto contro Hela.

“No, dannazione–!”

Si abbatte proprio su di lei. E, quasi all’istante, si sente un cannone.

Peter si tende mentre sprofonda più in basso, e Scott scivola sull’asfalto, più vicino all’abisso.

“No!” grida Peter, e si allunga afferrandolo per l’avambraccio.

Il camion precipita sottoterra, portando con sé il corpo smembrato di Hela. Peter si tiene aggrappato con tutte le proprie forze, poi ha un’idea. Lascia la presa sullo spuntone irregolare da cui sono appesi e, non appena riprendono a scivolare, spara una ragnatela. Si appiccica a un lampione, abbastanza lontano da non venire trascinato nel vuoto, e sembra un appiglio solido.

“Reggiti a me,” dice Peter, serrando i denti. “Ci tiro fuori.”

“Okay,” dice Scott, obbedendo e aggrappandosi strettamente alla sua spalla e al suo zaino. “Mi scuso in anticipo, non sono esattamente un peso forma…”

Peter stringe la ragnatela con entrambe le mani e tira. Si muovono appena e gli sembra che i suoi denti stiano per spaccarsi per quanto sono digrignati, ma continua a provare, con le vene delle sue braccia che si gonfiano. Ha di nuovo quel terribile presentimento, quello che ferma il tempo e gli stringe il cuore con una molla, e ha finito per odiarlo, è come un allarme che scatta in ritardo. Ma si sforza e si sforza, escoriandosi la coscia sulla strada attraverso i pantaloni, e alla fine li trascina sulla terraferma.

Si gira, afferrando il braccio di Scott, e fa leva per rimettersi entrambi in piedi, col cuore che gli batte nelle orecchie. Fanno qualche passo esitante lontano dal crepaccio, e Peter lo lascia andare.

“Cristo,” dice Scott, scuotendo la testa. “Sulle spine, eh?”

“Già,” sbuffa Peter. “E ora dobbiamo trovare–”

Scott sbarra gli occhi e lo spinge via con forza. Peter barcolla, quasi cade, e quando si gira vede Osborn. Con un coltello piantato nel ventre di Scott.

Peter è paralizzato. Non riesce neanche a lanciare un grido di rabbia come vorrebbe fare, e Osborn sembra disgustato mentre ritira il coltello con una torsione maligna e spinge da parte Scott. Lui crolla di schianto, scompostamente.

“Non ce l’avevo con te,” dice Osborn, voltandosi a fronteggiare Peter.

Peter vede rosso. Non gli permette di fare la prima mossa. Lo afferra per le spalle e lo sbatte contro il muro. Il coltello tintinna a terra e Peter spara tutte le ragnatele che può contro di lui. Lo immobilizzano lì, si accumulano finché non sembra imbozzolato e lui si dibatte, con occhi enormi di rabbia.

“No, no!” grida. “Non doveva finire così!”

Peter afferra il coltello e trema, trema, brandendolo in alto, vicino al suo orecchio.

“Dovevo rendere fiero mio padre,” piagnucola Harry, e ha le lacrime agli occhi. “Questo– questo era tutto ciò che voleva, voleva solo che vincessi–”

Peter lo fissa, orripilato, il coltello che trema nella sua mano. Lo lascia cadere, respirando pesantemente, col petto ridotto a un unico punto dolorante.

“Uccidimi e basta,” insiste Harry. “Uccidimi.”

Peter si avvicina di un passo e gli sferra un pugno. La sua testa sbatte contro il muro, poi ricade ciondoloni. Abbastanza da metterlo fuori gioco.

Peter si affretta verso Scott. Respira ancora.

“Ehi, ehi, ehi,” dice, sedendosi accanto a lui. “Ehi, guardami.”

Gli occhi di Scott sono già vitrei, ma cercano i suoi, forzando un piccolo sorriso. “Ehi, piccoletto,” sussurra.

“Ehi,” ripete Peter. Quasi scaglia via il suo zaino mentre cerca di aprire la zip, e tira fuori la coperta termica. La appallottola e la spinge delicatamente sotto la testa di Scott.

“Grazie,” esala lui, e un rivolo di sangue gli cola dall’angolo della bocca. Peter lo asciuga, rapido. “Che ti ho detto, eh?” gli chiede lui. “Sei… sei tu. Devi… devi essere tu.”

“No, no,” gracchia Peter, scuotendo la testa. “No, va tutto bene. Andrà tutto bene.”

Deve fare qualcosa. Deve fare qualcosa. Deve trasportarlo fino alla torre, possono perlustrarla, devono esserci altre provviste, là dentro, e sembra che per ora gli alieni la stiano lasciando in pace, magari hanno liberato i piani inferiori… deve fare qualcosa, deve fare qualcosa–

Il respiro di Scott diventa un rantolo, e Peter realizza. In un’ondata opprimente. Non può fare nulla. Non può fare nulla, se non cercare di alleviare il suo dolore.

Prende il palmare e prega di avere abbastanza tempo.

“Scott,” sussurra, digitando velocemente, selezionando ciò che gli serve. “Scott, ehi.”

“Peter…”

“Scott, guarda,” dice Peter, attivando l’illusione.

Il prato cresce attorno a loro fino a inglobare la strada, il crepaccio, la morte. Le margherite dondolano nella brezza leggera e Cassie trotterella lì accanto, con una veste da karate indosso. Un’immagine di Scott stesso la segue e la solleva, facendola roteare in aria. La risata di lei risuona, come se fosse davvero lì. Come se fossero davvero lì. Insieme. Al sicuro.

“Guarda,” sussurra Peter, con voce spezzata. Stringe la mano di Scott. “Lo vedi?”

Lui guarda padre e figlia che ridono, e Cassie rigira una margherita tra le dita. Un piccolo sorriso aleggia sul volto di Scott mentre guarda intentamente, con un brillio negli occhi. Poi, dopo un istante, si dissolve, e il suo viso si rilassa di colpo.

C’è un cannone.

“Scott,” lo chiama Peter, con un fiotto di paura che lo attraversa. La sua mano è inerte. “Scott,” ripete, con voce rotta, e le lacrime gli annebbiano gli occhi mentre scuote la testa. “No,” singhiozza stridulo, e ha sei anni, non sedici. “No, no, no, no.” Ha un singulto, risucchia un respiro e si china in avanti, premendo la fronte contro il petto di Scott.

Sente ancora l’erba. I loro passi, le loro risa, la loro felicità. Scott non vedrà più sua figlia. Perché Peter non è riuscito a salvarlo. Perché Scott ha intercettato un pugnale diretto a lui. Lui, che indossa una veste protettiva. La indossa, la indossa. Scott non lo sapeva. Non lo sapeva.

Peter singhiozza, aggrappandosi a lui. “Mi– mi dispiace tanto,” sussurra. “Mi dispiace tanto.”

 
§

 
Peter sposta il corpo di Scott in una delle alcove buie situate nei muri, e cerca di posizionarlo in modo che sembri in pace. Non vuole che lo trovino così facilmente, non vuole che Stane arrivi qui a depredare il suo corpo, selezionando e scegliendo qualcosa da mettere nella sua libreria degli orrori nascosta. Scott si merita di meglio. Sua figlia – Cassie – lei… si merita di–

Peter si inginocchia lì, accanto a Scott, e non riesce a costringersi ad abbandonarlo. Gli alieni sono tornati, volano qua e là allo scoperto e sparano a tutto ciò che vedono, e Scott… Scott non dovrebbe essere morto. A Peter non serviva la sua protezione, non– il giubbotto avrebbe probabilmente fermato il coltello, sarebbe– sarebbe stato protetto, ma Scott… non ha esitato, si è… semplicemente piazzato di fronte a lui, senza neanche pensare… e non è giusto, non è giusto, ora, perché Cassie non ha più un padre. Il padre di Cassie è morto.

Peter si schiarisce la gola, gli lancia un ultimo sguardo con le lacrime che gli offuscano la vista. Si è scusato un centinaio di volte, ma non è abbastanza. Prende la mano di Scott e la stringe, deglutendo a forza.

“Scusa,” sussurra, spezzato, un’ultima volta.

Si rialza, asciugandosi gli occhi, e ci vuole tutta la sua forza di volontà per non girarsi, per non trascinare con sé il corpo di Scott, perché anche a lui dovrebbe essere concesso di tornare a casa. Ciò che rimane di lui. Peter si chiede se Sharon sia ancora qui, da qualche parte. Se lo sta ancora cercando.

L’illusione in strada è ancora attiva e gli alieni la attraversano. Il ricordo, l’illusione di qualcosa che non accadrà mai più.

Peter risucchia un respiro e la supera correndo. La rabbia gli dà la carica, e la tristezza più totale e completa guida ogni suo passo. Gli alieni lo individuano, e non è la paura a farlo correre più veloce, è una necessità: deve tornare dagli altri, di nuovo, deve assicurarsi che non muoia una singola altra persona. Tornerà indietro anche per Osborn, se sarà ancora lì. Scapperanno tutti.

Spara due ragnatele sopra la propria spalla, e il gruppo di alieni capitombola a terra come birilli. Alcuni fanno fuoco nella sua direzione e lui schiva appena in tempo, correndo nella strada della torre, dal lato opposto da quello da cui è arrivato la prima volta. È più vicino al complesso di uffici rialzati, con tavoli ovunque, e la porta che prima era sbarrata è ora spalancata, invitante.

Peter si guarda di nuovo alle spalle e vede un altro gruppo di esseri in avvicinamento, incluso uno di quelli giganteschi e vermiformi, più grande degli edifici che sta superando. Respira forte, gettando un’occhiata lungo la strada, verso la svolta che conduce all’ingresso principale della torre. Vede altri alieni, uno sopra l’altro, e quattro armature di Iron Man dirette verso di lui. Sembrano annerite, con dei pezzi che si staccano, ma non si fermano, e guizzano nell’aria minacciose.

Vada per la porta aperta. Ha la sensazione che sia una trappola, ma dovrà farsene una ragione, considerando quello che gli sta arrivando addosso da ogni parte. Deve tornare, in qualunque modo, per qualunque strada sia più sensata, e corre, con il terreno irto di vetri che scricchiola sotto i suoi piedi.

Si sente il cuore che va a fuoco, come se stesse scavando un buco dentro di lui. Non pensa a Beck, o Scott, od Osborn, o nessun altro. Non pensa a casa sua, ai ricordi, o a com’era il sole che gli scaldava la faccia quando si sedeva sul portico con Ben. Non pensa a Ned che si pulisce gli occhiali. Non pensa a come si muovono i capelli di MJ al vento. Non pensa a quanto sembri spensierato Tony quando sorride, quanto sia raro vederlo così, come sembri ogni volta un regalo. Peter non pensa al modo in cui May lo abbraccerebbe se lo vedesse di nuovo, non pensa alla risata nelle sue orecchie, ai suoi baci soffocanti o a quanto si senta al sicuro tra le sue braccia.

Non pensa a niente. Non agli artigli e al trambusto dietro di lui, alle fiamme di quelle armature da incubo, agli alieni rabbiosi che sparano. Pensa al qui ed ora, e a quella porta.

Corre su per i gradini, cercando di non perdere l’equilibrio, e scatta, sentendoli alle calcagna. Si slancia verso la maniglia, con una sola preghiera negli occhi, e la afferra, gettandosi all’interno. Chiude la porta dietro di sé, ed è immerso nell’oscurità.

Si appoggia alla porta, riprendendo fiato, e li sente scagliarsi qua e là di fuori, nel tentativo di inseguirlo. Si sfrega le mani sul volto, poi si tocca la schiena per assicurarsi che non abbiano squarciato lo zaino. Sembra intatto e sospira, annuendo tra sé.

“Bene,” sussurra, sbattendo le palpebre. Buio. Può farcela. Gli ricorda un po’ quando è stato assalito da quel Pacificatore, dopo i giudizi, e si chiede se anche stavolta sarà qualcosa del genere, così da acuire quei sentimenti di paura e rabbia. Dà del suo meglio quando si concentra sul fatto di essere contro di loro, quindi spera di sì.

Le luci si accendono, di colpo, come se fosse stato pianificato così, e non innescato da un suo movimento.

E c’è la paura.

C’è quella paura gelida e sfrenata che stava cercando di inghiottire finora, perché… ragni. Ragni. Montagne; montagne di ragni, per tutta– per tutta la stanza, ai margini– troppi ragni piccoli, rossi, neri, verdi, fosforescenti, altri grandi come cani, altri grandi come auto e Peter li sente alle sue spalle, che zampettano, e deve– deve muoversi, deve muoversi, ci siamo, ci siamo, questo è Stane–

La stanza è oblunga, da quel che vede, e stanno arrivando, si muovono rapidi, e lui scatta a sinistra, non sa neanche se quella sia la strada giusta, ma sono ovunque, sono ovunque, lo circondano–

Inciampa, cade di schiena, no, no, ce li ha addosso–

E non può accadere, non può, li respinge a calci, ne calcia via uno più grande e lo guarda volare lontano, sente la peluria delle sue zampe, e si ritrae strisciando, cercando di rialzarsi, di rimettersi in piedi–

Si guarda alle spalle e vede una porta, una porta, e potrebbero sbarrarla se è troppo lento–

Ce li ha addosso, ce li ha addosso, e spara ragnatele, respinge altri gruppi, ma ce ne sono così tanti, e quelli piccoli si muovono tutti insieme, rilucono e brillano di riflessi, e il suo cuore sta urlando di far cessare tutto ciò– si rimette in piedi affannosamente, quasi cade di nuovo, ma riesce a evitarlo– i ragni sibilano, fanno versi orrendi, e la porta, la porta, deve arrivare alla porta–

La testa gli pulsa violentemente e non riesce a scollare gli occhi da loro, continuano ad arrivargli addosso e non può permetterlo, non può, e prende qualche enorme passo all’indietro mentre si chiudono su di lui, e si muovono così velocemente, sono così veloci, e spara altre ragnatele, spedendone altri all’indietro, con la mano tremante che tasta dietro di sé per trovare la maniglia–

Deve solo arrivare nell’altra stanza– sono sulle pareti, quelli enormi stanno arrivando, stanno arrivando– sono sulle pareti–

Gira la maniglia e cade all’indietro nella nuova stanza, calciando la porta per chiuderla.

Respira affannosamente, guardandosi freneticamente intorno, ma qui non li vede. Si allontana rapidamente dalla porta, e rovescia un’alta scaffalatura di fronte ad essa. Spera che non riescano a passare sotto la soglia.

Si volta, con ondate di sollievo che gli si abbattono addosso. Stane gli ha scatenato contro tutto, e Peter è sopravvissuto. Per un soffio, ma ce l’ha fatta, ce l’ha fatta. Ride appena, guardandosi attorno in cerca di un’uscita. Tony adesso deve essere così fiero di lui. Peter vorrebbe vedere la sua faccia.

Sto andando a casa, pensa. Deve solo andare avanti.

Poi lo sente. Un dolore acuto.

Barcolla leggermente sul posto e abbassa lo sguardo. Arrotola la manica del giacchetto, e lo vede. Un piccolo ragno rosso. Peter lo scaccia via, rapido, e non vede dove va a finire. Vede solo il marchio sul suo braccio, con venature nere che si diramano dal morso.

Un brivido lo attraversa. Freddo. Barcolla di nuovo, incespicando all’indietro, cerca– cerca di tenersi in piedi. Si toglie lo zaino dalle spalle, perché si sente la schiena inondata di sudore. Stilettate di dolore, ovun– ovunque. Dappertutto. Prova a– prova a prendere fiato, ma la sua gola è infiammata, scorticata.

Non ha mai sentito il suo cuore battere così.

Terrore.

Guarda in alto. Lo vede, sul muro. Un luccichio.

Una telecamera.

 
§

 
Tony è in città.

Si è impegnato a negoziare con Lensher [4] per un qualche tipo di rifugio di fortuna da far costruire a Peter, almeno per il momento. Poi c’è stato Scott.

E adesso. E adesso.

C’è almeno un centinaio di persone qui, forse più, e hanno disattivato la fontana così da far sentire meglio i Giochi proiettati sul maxischermo.

E adesso.

E adesso, il volto di Peter.

Tony è rimasto in piedi per dieci minuti, avvicinandosi sempre di più. Ha avuto il cuore in gola, a vedere Peter soffrire in quel modo. E adesso.

Peter sta tremando violentemente, impallidisce a vista d’occhio, diventa cereo. Il suo battito cardiaco è fuori controllo. Gli trema il labbro inferiore, e fa due passi stentati verso la telecamera. Perché l’ha notata. Continua a guardarsi il braccio, e un’altra inquadratura mostra il morso. È rosso, infiammato, con le venature nere che gli si arrampicano sulla pelle. Preannunciano morte.

La piazza è una tomba, e Tony non riesce a respirare.

Non sta accadendo.

Peter rialza lo sguardo, con occhi più limpidi, come se fosse deciso a rimanere vigile, e due lacrime gli scivolano lungo le guance. Scuote la testa, aggrottando le sopracciglia, apre e chiude la bocca, e sembra così piccolo. Confuso. Spaventato.

“Tony,” dice, con la voce che riecheggia.

Tony si fa largo verso lo schermo, e la folla si fa da parte per lui.

Tony,” implora Peter, e si accascia a terra. La telecamera lo segue e Tony si aggrappa al bracciale. Al suo cuore. Peter torce all’indietro il collo ed emette un lamento agonizzante che gli artiglia lo stomaco. Respira affannato dalla bocca e cerca di nuovo la telecamera. Quella si abbassa al suo livello. Lo segue.

“Tony, aiutami,” prega Peter, con la voce rotta dalle lacrime. “Tony, ti prego, sto– oddio, sto– non posso, no... no, no, non posso...”

Tony si copre la bocca con una mano tremante. “Ragazzo,” sussurra.

Peter urla di nuovo, ed è straziante, quel suono squarcia Tony a metà, cerca di farlo a pezzi. Non sa cosa fare, non sa cosa fare. Non c’è abbastanza tempo. Deve arrivare qualcuno, uno di loro… poi vede le altre riprese, allineate su alcuni schermi più piccoli. Michelle è intrappolata sotto i detriti col corpo di Hardy, impossibilitata a liberarsi, M’Baku è ancora svenuto. Natasha è appesa per il polso, ora sicuramente rotto, mentre cerca di rientrare nella torre. Shuri, Steve, Misty e l’altra ragazza stanno ancora combattendo, e sono bloccati.

Nessuno può aiutarlo.

Peter si contorce, grida di nuovo per la sofferenza e il terrore, e Tony non sa cosa fare. Non può succedere, non può, non può. Finirà presto, starà bene. Starà bene, solo… farà male, ma perderà solo conoscenza. Starà bene, starà bene.

“Tony, aiutami,” piange Peter, allungando una mano verso la telecamera, con le dita scosse da tremiti. “Ti prego, ti prego, aiutami, ti prego, non voglio morire, non voglio andarmene, ti prego, ti prego, aiutami, aiuto– aiuto– Dio, Dio...”

“Oddio,” esala Tony. “Oddio, no.”

Qualcosa cambia negli occhi di Peter, e il suo intero viso si fa rosso, come se gli stessero strizzando via la vita. Le lacrime scivolano sulle sue guance e scuote la testa, artigliandosi il collo. “Fermalo,” rantola. “Ti prego, no... fermalo, ti prego, ti prego– fermalo– non fargli– prendere...” I suoi occhi si serrano a una nuova ondata di dolore e Tony si sente sul punto di svenire.

“Tony,” dice Peter, ancora aggrappato alla propria gola. “Non posso... non posso...”

Il suo battito impazzisce. Poi rallenta. Poi si ferma.

Silenzio.

Non si muove. Non si muove.

È repentino, e Tony rimane lì in piedi, fissandosi il polso. Guarda di nuovo lo schermo. Gli occhi del ragazzo sono aperti, e lui è immobile. È silenzioso. Non c’è più battito. Tony si era talmente abituato a sentirlo, intrappolato lì dentro, mentre premeva contro il suo stesso polso. Troppo rapido, ma un memento del fatto che Peter era ancora vivo. E adesso. E adesso è immobile, esattamente come ogni altro anno prima di questo. Neanche tutto quell’amore è riuscito a farlo continuare a battere.

C’è un cannone.

Il nome di Peter viene cancellato dal tabellone.

Lo spostano nella sezione sbiadita, coi Tributi caduti, privi di puntate.

Tony inizia ad avvicinarsi allo schermo, sentendo il proprio corpo farsi inerte. “No,” sussurra, mentre l’inquadratura non cambia. “No, non– no, no, c’è– c’è un errore, no, lui non può– non può, lui–” Gli si spezza la voce e scuote la testa, fermandosi, la bocca che trema con emozioni che non può trovare, perché Peter è morto. È morto.

Ha gli occhi così sbarrati ed enormi che li sente quasi uscire dalle orbite, e tutto è sfocato, la sua faccia è calda, va a fuoco per l’orrore e il dolore causati dalla cosa peggiore che abbia mai visto in vita sua, e ne ha viste, di cose, ha visto cose orribili, tremende, e questo – questo– questo

L’inquadratura non cambia. Non cambia.

“No, non può,” balbetta Tony. “Non è vero. No.”

Sente la gente che piange, attorno a lui. Gli fa male il petto, come se fosse legato strettamente a qualcosa, come se qualcuno lo stesse percuotendo. Torturando. Cerca di inghiottire un respiro, ma non ci riesce.

Peter è morto. È morto. L’hanno ucciso. Stane l’ha ucciso. Dopo tutto. Dopo tutto questo. Tutte le promesse che Tony si era fatto. Tutte quelle che ha fatto a Peter.

È successo così in fretta.

Tony sprofonda in ginocchio senza volerlo, sul mattonato duro che gli invia una piccola scossa di dolore. Ma non c’è dolore comparabile a quello che Peter ha appena provato, e Tony ne ha sentita ogni singola goccia addosso. È stato lui. È colpa sua. L’ha deluso. L’ha deluso e ha dovuto guardarlo morire. Quella è stata la sua punizione. Adesso ce l’ha dietro le palpebre. Sarà sempre lì.

L’inquadratura si sposta su Steve e gli altri, ed è in quel momento che Tony si spezza.

“No, no,” geme, stringendosi la testa con le mani scosse dai tremiti. “No, no, no, non può– non possono– oddio, non è vero. Non è vero, non possono... non possono portarmelo via, non possono, non possono…”

Respira a fondo e non vede più nulla, non lo vede. Non è lì, non è lì. Il suo corpo, il suo– Stane, no, lo farà, lo farà– non può, non può– Tony l’ha promesso, Tony l’ha promesso, ha detto a Peter mai e poi mai e non può fermarlo, non può fermare lui, non può, non può…

Non può proteggere Peter. Non può proteggerlo. Neanche da morto. Non può tenerlo al sicuro. Non può tenerlo al sicuro. Quella stanza, quelle cose, i suoi souvenir, e adesso Stane lo avrà, lo avrà, e a Tony si rivolta lo stomaco…

Un singhiozzo gli risale il petto, lo apre in due, e di lui non è rimasto più nulla ormai, niente, solo cenere e polvere, un dolore straziante, nessuna speranza o felicità o futuro. Si affonda le unghie nella fronte e un altro singhiozzo gli viene strappato dalla gola, scuotendo il suo corpo in preda ai tremiti.

“No, gli– gli volevo bene,” piange, scuotendo la testa. “Gli volevo bene, lui– lui– non può… non può andarsene, non può…”

Sente delle mani su di lui, e non gli importa. Possono portarlo via, possono ucciderlo, non gli importa, non importa. Ci sono più di due mani, più di quattro, di sei, delle braccia lo cingono, e quando solleva lo sguardo vede… la gente di Capitol, stanno… si stanno raggruppando attorno a lui in… in un abbraccio, tutti si stringono l’uno all’altro, tutti piangono, e quel gesto si diffonde, continua a montare e altri ancora si uniscono, con quella disperazione assoluta che oltrepassa le mura attorno a loro, affondandole.

Peter è morto.

Peter è morto, e Tony crolla. Continua a tremargli il labbro e scuote la testa, lasciando cadere ondate di lacrime, piange come non fa da anni. Da Pepper.

Amalo come se fosse tuo.

Non ha il diritto di amare niente. E non dovrebbe mai farlo. Li mette in pericolo, quando li ama. Erano troppo buoni, troppo importanti per essere amati da lui. Basta pensare a dove sono adesso. I suoi genitori, Pepper, Rhodey, Peter. Sono tutti morti. Per causa sua. Come diavolo guarderà in faccia May? Lo ucciderà. Ne ha ogni diritto.

Non avrebbe mai dovuto immaginare altro che questo. Questo è sempre stato l’unico esito possibile, perché Capitol vince sempre. Si è preso in giro: hanno avuto troppa speranza. E adesso fa più male… fa molto più male, perché avevano dei progetti. Peter merita – meritava – meritava di andare avanti. Di vivere. Doveva avere una vita, essere felice.

La sua vita era preziosa.

Ci sono delle grida. Degli schianti. Vetri in frantumi. Alza lo sguardo sulla folla di gente ancora annichilita dal dolore e vede un’orda che si gonfia. Altra gente di Capitol, e stanno… stanno devastando la piazza. Rovesciano tavoli, rompono finestre, abbattono statue. Gettano cibo contro gli schermi. Emettono grida e lamenti e sembrano ribelli in costume. Come se non fossero chi sono davvero. Lanciano dei cori su Spider-Man.

Tony cerca di rimettersi in piedi e si sottrae dal gruppo di persone in lutto che lo circonda. Non lo conoscevano, non hanno conosciuto Peter, lo pensavano e basta: non lo conoscevano, non sapevano quanto fosse buono e gentile, quanto coraggioso, e altruista, quanto... fosse vivace, pieno di vita… e Tony si dirige a passo di marcia verso il Centro Tributi, col dolore che si evolve in qualcosa di bruciante, qualcosa di tagliente e doloroso. Il suo Peter. Il suo ragazzo.

Tony non riesce a concepirlo.

È andato. Un’ombra. Uno spazio vuoto. Proprio come temeva lui. Questo spazio vuoto è così grande, più grande di quanto Tony avesse mai potuto immaginare. Un vuoto mostruoso che gli oscura per metà la vista, il suo intero mondo, risucchiandolo, e non può conviverci. Non può aggirarlo. La sua vita è a brandelli, colma di oscurità, ed è arrivato. L’incubo che Tony ha avuto sin dall’inizio, da quando ha aperto il proprio cuore, da quando un brillante raggio di speranza dal passato gli era stato messo tra quelle sue mani incapaci: l’ha sprecato. Ha sprecato la possibilità di salvarlo. E ha dovuto guardare Peter che moriva. In quel modo. Agonia. Come essere scorticati vivi. Proprio come aveva detto Stane. Proprio come voleva Stane.

Tony lo sente ridere.

Lui non era lì. Peter stava guardando la telecamera, lo cercava, lo implorava, terrorizzato, nei suoi ultimi istanti di vita. E Tony non era lì. È stato inutile, lì impalato, inutile. Come sempre. May non avrebbe mai dovuto fidarsi di lui. Peter era l’eroe. Non Tony.

Adesso Stane… farà ciò che ha promesso. Tony non riesce a pensare quelle parole, non può permettere loro di formarsi, ma le immagini crescono per conto loro nella sua mente frastornata, diventano più terrificanti con ogni battito agonizzante del suo cuore. Si figura in quell’ufficio, legato a una sedia. Ubriaco di dolore. Che cerca di non guardare, ma guarda lo stesso. Che implora il perdono di Peter. Che prega il tempo di riavvolgersi. Di tornare a quando erano insieme. Erano spaventati, ma erano vivi. Peter era vivo.

Guardala marcire.

Adesso è reale.

Non può fermarlo. Tony non può fermare Stane. E Peter aveva così tanta paura, proprio di quello, e adesso… e adesso.

Ci sono rivolte ovunque. La gente dà fuoco alle macchine, distrugge i negozi, e ci sono degli spari. Dei maledetti Pacificatori. Tony intravede qualcuno con un palmare, accovacciato in un angolo mentre guarda delle riprese da uno dei Distretti. Tony non capisce quale sia. Ma anche là regna il caos.

Sta cominciando. Ad ogni modo, Peter ce l’ha fatta. È stato dall’inizio il loro salvatore. E adesso è il loro martire.

Tony inizia a correre. Deve tornare al Centro Tributi. Niente di tutto questo ha importanza, e non gli importa se lo uccidono.

Vedrà Janet un’ultima volta. E poi si getterà dalla finestra.


 

 
 
 
Note:
 
[1] Qui purtroppo c’è un lost in translation, in quanto Peter dice “web people up, web ‘em to walls, web ‘em together” e M'Baku per prenderlo in giro ripete “web, web, web”. Purtroppo in italiano non esiste il verbo “*ragnatelare”, quindi ho dovuto trovare un’altra soluzione ripetendo il più possibile "ragnatela".
[2] Mercedes “Misty” Knight, ex-agente della NYPD con un braccio prostetico. Collabora con Iron Fist e Luke Cage.
[3] In inglese l’espressione è on our toes, letteralmente sulle punte.
[4] Erik Lensher aka Magneto.

Note della traduttrice:

Cari Lettori,
esordisco subito col dire che l'aggiornamento sarà al massimo entro dopodomani, quindi non disperate... non troppo, almeno, ché mi rendo conto che qua c'è poco da stare allegri, in effetti. Per i danni causati da infarti, crepacuore, tachicardia e simili, rivolgersi direttamente all'autrice, che io ancora sto pagando un buon cardiologo per riprendermi da lettura e traduzione, che mi hanno procurato uno stress post-traumatico :')
Ringrazio infinitamente Eevaa, Paola Malfoy, ericaron Manulalala per aver commentato gli scorsi capitoli, e un grazie speciale a T612 che sta recuperando la storia recensendone i capitoli <3
A prestissimo (giuro),

-Light-

  

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La fenice risorge ***


Capitolo 12: La fenice risorge




 
Tony vede Peter ovunque. È come se qualcuno avesse hackerato ogni schermo che non sia occupato dai Giochi, perché tutti trasmettono il volto di Peter. Alcune delle immagini sono le loro robacce prefabbricate, ritoccate, con lui in piedi di fronte a un qualche campo di battaglia e con un’espressione che gli hanno appiccicato addosso, affatto naturale. Ma altre… sembrano spontanee. Mentre è in giro per Capitol. Spalla a spalla con Tony stesso. Sorridente. Foto che nessuno dei due sapeva fossero state scattate. Foto di Peter dietro le quinte con MJ, mentre le stringe la mano. Che ammira la ragazza che non vedrà mai più.

Tony riesce a malapena a guardarle. Percepisce ogni parte di sé come una ferita aperta. Continua a toccare il bracciale, per accertarsene. Magari è stato tutto… un trucco.

Ma non c’è più battito. Solo quiete, e silenzio. Quello più rumoroso che esista.

Non ha mai visto Capitol in questo stato. Il sole sta tramontando, brucia come fuoco nel cielo, e non c’è nessuno seduto all’aperto, a bere champagne. Nessuno è chino sui tavoli da scommessa, nessuno esulta, nessuno è più su di giri per i Giochi. Tony non ha davvero preso in considerazione questo esito… non ha preso in considerazione la morte di Peter, non davvero, e di certo non ha pensato alle effettive conseguenze di quel fatto: la gente, questa gente, che si comporta così. Di solito buttano via i loro Tributi morti come uova marce e passano subito a quelli successivi e migliori, al prossimo potenziale Vincitore, ma questo… cazzo, Tony non ha mai visto niente del genere.

Non vuole davvero credere che l’abbiano amato. Non pensa che la maggior parte di loro sia in grado di provare vero amore, ma di sicuro stanno dimostrando… qualcosa, adesso. Tony si chiede quanto di tutto ciò sia il risultato degli infiltrati ribelli di cui parlava Thor. Se abbiano alimentato loro il fuoco per primi. Tony non ha mai saputo nulla di eventuali piani di riserva, nel caso avessero perso Peter prima che riuscisse a scappare. Non ha voluto conoscerli, perché non voleva vivere in quel mondo. Quel mondo non aveva alcun senso.

Passa rasente attorno a un gruppo di gente di Capitol intenta a intonare cori, e si copre la faccia quando sembrano riconoscerlo. Ci sono ancora degli spari in lontananza, ma solo pochi fuggono spaventati. Sono tutti presi dalla foga della folla, determinati, e Tony si chiede quali siano gli ordini dei Pacificatori. Se stiano sparando per uccidere gli stessi cittadini di Capitol, di Stane. Ricorda quella donna, fuori dalla sua residenza. Non si sono fatti problemi a pestarla a sangue, ma qui si tratta di più di una persona. È la quasi totalità della popolazione. È un effetto domino scatenato dall’odio sopito, una cupola di vetro che finalmente va in frantumi. Non sa cosa pensarne. Non sa fino a che punto riusciranno ad arrivare, se tutto ciò porterà all’obbiettivo a cui miravano Thor e gli altri. Rivoluzione. O se verrà soffocata entro l’alba di domani. Tornando tutti al solito programma.

È a circa un chilometro dal Centro Tributi quando sente delle mani tremanti che si aggrappano a lui.

Si volta, pronto a reagire, e si ritrova tra le braccia Justin Hammer. E sta piangendo.

“Tony,” singhiozza, attaccandosi a lui come a un’ancora di salvezza.

“Okay, okay,” bofonchia Tony, assolutamente impreparato.

“Dio, mi dispiace tantissimo,” piange Justin, stringendolo più forte. Si ritrae, e Tony sa di non averlo mai visto piangere prima d’ora. Cerca di decidere se credergli o meno, ma niente di tutto ciò sembra reale, a questo punto. La sua emicrania minaccia di spaccargli in due il cranio, e una parte di lui vorrebbe che ci riuscisse. Justin continua a parlare: “Il ragazzo, era– era così buono, era un bravo ragazzo, era– insomma, lo vedi cosa sta succedendo– tutti sono andati fuori di testa…”

“Già,” dice Tony, con la gola costretta mentre abbassa lo sguardo. “Giusto in tempo, eh?”

Justin gli rivolge un’occhiata guardinga. “Non avrei mai pensato di vedere questo posto… così,” dice.

Tony scuote la testa. “Hammer, devo– devo sbrigarmi, okay?” Deve andare via di lì. Vuole solo vedere Janet, e solo per un momento. Solo per un addio. Le sue ossa anticipano il momento in cui si romperanno. Ha bisogno di farla finita. Potrebbe finalmente guadagnarsi un momento per sé. A loro non importa più nulla di lui. Probabilmente lo vogliono comunque far fuori.

“Tony,” dice Justin, troppo serio. “So che… che volevi bene al ragazzo–”

“Sì,” scatta Tony, riportando lo sguardo su di lui. “Sì, proprio così. E, cazzo, non sono affatto pronto per parlarne.”

Justin annuisce, e sembra sentirsi in colpa, un’emozione che a Tony è sin troppo familiare. “Sai cosa stia succedendo? Con… tutto? Con quello che– insomma, lui non c’è più, ma in un certo senso, intendo, è qualcosa di più grande, non saprei, guarda cosa–”

“Non lo so,” replica Tony. “Non… non ne ho idea.” Non sa cosa diavolo pensare, e si odia, perché non gli interessa. Panem si merita di sfuggire allo stivale di Capitol, ma lui non si sente più in grado di provare nulla. E non è più utile a nessuno. Peter è morto. Era tutto ciò a cui lui poteva servire: tenerlo in vita. E non è riuscito a farlo. Non ci è riuscito. “Hammer, devo…”

Hammer gli si accosta di nuovo e tira su col naso, ancora in lacrime. “Non vorrebbe che ti arrendessi, Tony,” gli dice. “Peter non vorrebbe che–”

“Peter non vuole più niente,” ribatte Tony, spingendolo lontano da sé. “Capito? Non vuole proprio nulla. Non c’è più. Peter non c’è più.” I suoi occhi si fanno di nuovo lucidi e si volta, perché quello stronzo di Hammer l’ha visto piangere anche troppe volte in vita sua.

“Tony,” lo chiama ancora mentre si allontana, in mezzo a una folla di idioti di Capitol che lo assalirebbero, se solo lo riconoscessero, specialmente in una situazione del genere. “Tony, ti prego, non… non fare niente di avventato… lui ti vorrebbe al sicuro…”

Tony deglutisce a forza, senza girarsi a guardarlo.

 
§

 
Non pensa a cosa avrebbe voluto Peter. Perché Peter voleva che lui smettesse di bere. Peter voleva che fosse lucido, felice, sano e salvo. L’ammirazione di Peter proiettava sempre un’aura positiva, così tanto che Tony aveva ritrovato la speranza.

Il che rende la delusione ancor più cocente.

Deve arrivare a piedi fino all’attico, perché gli ascensori sono fuori uso, e quando finalmente ci riesce ha le gambe di gelatina. Ma, in qualche modo, il dolore gli dà forza, smuove la sua rabbia. Non c’è più nessuno qui, e si chiede dove cazzo siano finiti tutti, cosa stiano facendo, e cerca di ricordare quale sia l’ultima cosa che gli hanno detto.

Non ricorda. Tutto quello che riesce a sentire è Tony, aiutami. Tony, ti prego.

Voleva dire addio a Janet, ma lei non è qui. L’unica persona che gli sia rimasta, e non è qui.

I Giochi scorrono ancora in TV, e sa che non può spegnerla. Cerca di romperla, ma riesce solo a distorcere un po’ le immagini che continuano a susseguirsi. Sanno perfettamente quello che stanno facendo. Vede il volto insanguinato di Steve, lo vede mentre cerca di tenere al sicuro le donne. Sembra che a loro non serva molto la sua cavalleria: Shuri decapita di netto un alieno.

Tony crolla di nuovo. Si spacca a metà e si trasforma. Va fuori di sé.

Strappa la carta da parati. Perde il controllo, non riesce quasi a pensare, non riesce a fermarsi. La sua vista si oscura. Spacca il tavolino da caffè. Distrugge i cuscini, fa a pezzi il divano, sbatte le sedie del soggiorno contro le pareti fino a far staccare le gambe. Sradica il frigo dal muro e lo rovescia a terra, smonta tutte le credenze della cucina. Tutto si frantuma, si rompe, si macchia. Ci sono vetri ovunque. Getta a terra tutto ciò che è sul piano del bagno di Peter, perché hanno sempre cercato di cambiarlo, di farlo loro, quando avrebbe dovuto esserlo sin dall’inizio, e non lo era.

La stanza di Peter è ancora sottosopra da quando è partito, quando stava cercando ovunque la sua spilla di Iron Man, e Tony vede il vestito della Mietitura per terra di fianco al letto. Se lo ricorda, quel giorno. Ricorda quanto fosse spaventato. Era diversa dalla paura che ha visto oggi. Era nuova, incerta. Tony si era comportato in modo orribile con lui, aveva cercato di essere distante. Non ci era riuscito a lungo.

Raccoglie la maglietta e la torce tra le mani, sentendo arrivare nuove lacrime.

Non può distruggere nulla qua dentro, il suo cuore non reggerebbe, quindi si sposta nella propria camera da letto e prende a fare a pezzi anche quella. I Giochi vengono trasmessi anche qui, proiettati sul muro, non c’è modo di fuggire. Spacca il proprio armadio, gettando fuori la roba, stracciando i propri vestiti, tira pugni contro lo specchio finché non si scheggia, pieno di sangue e del simulacro distrutto che è un riflesso della sua anima.

Indietreggia, inciampa su qualcosa e la prende a calci, qualunque cosa sia, finché non sia accascia a terra. Si aggrappa ai piedi del letto, chiudendo gli occhi contro il dolore, contro l’eco della morte di Peter che gli rimbomba nelle orecchie, al centro del petto. Cerca di ricordare gli anni passati, e di sicuro c’era di mezzo più alcol, ogni volta. Crede di aver distrutto la maggior parte delle loro scorte, lì, durante la sua frenesia. Sa di essersi scollegato un paio di volte nel mentre, e forse sta finalmente morendo di crepacuore. Forse questo è il suo ultimo crollo, quello definitivo.

Singhiozza, immaginandosi di vederli di nuovo, tutti quanti. Chiude gli occhi e affonda la fronte nell’orlo del piumino, e vuole soffocarsi.

Può quasi sentire le mani di Pepper su di sé. Gli accarezza le spalle.

Va tutto bene,” gli dice. “Sei qui, adesso. Dio, amore, mi sei mancato.

Non riesce a sentire suo padre. Non sa se lo accoglierebbe con orgoglio o con delusione. Anche nell’aldilà, Howard sarebbe Howard. Un enigma. Sua madre no, è buona da far male e impaziente di dare sollievo alla sua mente corrosa. Lo stringerebbe e gli ricorderebbe cosa si prova a non essere responsabili di nulla. Quando la vita era semplice. O il loro concetto di semplice.

Rhodey. Affettuoso. Accogliente, forte e deciso. Lui sarebbe felice di vederlo. Il suo sorriso sarebbe ancora lo stesso di tutti quegli anni fa, attraverso la recinzione tra Undici e Dodici.

Ma Peter. Peter sta marcendo. Peter è pieno di fori, si decompone. Peter è per sempre in agonia.

Aiutami,” piange, anche se non può più essere aiutato.

Tony si riscuote da quell’incubo a occhi aperti, con gli occhi che ancora gli bruciano di lacrime. Non ne può più di tutto questo. Janet è l’unica a cui mancherebbe. L’unica. E sa che le farà male, lo sa, le farà perdere qualcun altro. Ha già perso così tanto. Ma lui è debole. C’è un limite a quello che può sopportare, e gli hanno rubato tutto. Ricorda il corpo di Pepper, impiccata. I suoi genitori, disposti ai suoi piedi. Rhodey, che si dissangua tra le sue braccia. E adesso Peter. Intrappolato dietro lo schermo di una TV. Implorante. Agonizzante.

Tony non ha neanche potuto provare a confortarlo. Rhodey è stato l’unico, tra tutti loro, con cui ha potuto avere un momento. Non sa cosa sia peggio. Cosa sia più doloroso. Ha troppo da cui poter scegliere.

Vede infine l’oggetto che ha preso a calci e il suo cuore ha un sussulto. Il pacco della Everhart. Gli sembra che gliel’abbia dato secoli fa. Prima di tutto questo. Si chiede dove sia lei adesso. Come stia gestendo tutto questo. Se il pacco abbia ancora un qualche significato per lei.

Tony lo fissa. I fogli sono sparpagliati sul tappeto, e la scatoletta nera si è aperta. Dentro, c’è una chiavetta per il palmare.

Continua a fissarla, quasi non fosse certo che sia davvero lì. Nulla di tutto ciò fa differenza, il suo ragazzo non c’è più… non importa cosa abbia scoperto la Everhart, non può cambiare quel fatto. Ma Tony sospira strizzando gli occhi e si avvicina, raccogliendola da terra. Si rimette in piedi e gli fa male tutto. Ma vuole che stare peggio di così. Vuole uscire e prendere di mira un Pacificatore. Vuole che lo riducano in poltiglia.

Non riesce a decidere il modo migliore per morire.

Si siede sulla sponda del letto, prende il palmare e cerca di ignorare i Giochi sul muro. Sembra che moriranno tutti tra poco… al diavolo il piano, al diavolo la speranza, e probabilmente sarà lui, quel bambinetto di Osborn che Peter ha inchiodato al muro. Al sicuro dallo scontro. L’ultimo a rimanere in piedi.

Tony scuote la testa. Inserisce la chiavetta al terzo tentativo, e trova dei file criptati che gli sbarrano la strada. Non ha la forza per tutto questo, non adesso, ma imposta il pilota automatico, imbocca delle backdoor, inserisce dei codici, sfonda i firewall. Non sa cosa diavolo sia né perché sia così secretato, e non vorrebbe far altro che metterlo da parte. Ma continua a lavorare, sconfiggendo ogni nuova finestra e schermata blu e, alla fine, scavalca un ultimo blocco di sicurezza.

Un video riempie lo schermo.

La vede immediatamente. La riconosce dalle sue ricerche, quando stava cercando di dare a Peter un po’ di serenità mentale, almeno un po’ di serenità. Mary Parker, seduta di fronte a una telecamera, con una luce irrequieta negli occhi. Sembra essere in un qualche laboratorio, e Tony vede suo marito che si sposta dietro di lei.

“Ben, May, se state guardando questo video, devono essere successe molte cose per– per farvi arrivare al momento in cui… lo state guardando.” Scrolla la testa, e la sua voce trema. “Se lo state guardando, noi non ci siamo più. Se lo state guardando, Peter… Peter–” La sua voce si spezza e distoglie lo sguardo, si rivolge verso Richard. Lui si ferma, brevemente, qualunque cosa stia facendo, e annuisce cercando di trasmetterle un po’ di forza. “Peter è nei Giochi.”

Fa un cenno, guardandosi le mani, e Tony quasi vuole smettere di guardare. Peter non è più nei Giochi. Peter è un corpo nell’arena. Peter è morto. Sta guardando negli occhi una donna che ha deluso, la madre del bambino che non è riuscito a salvare.

Distoglie lo sguardo, mentre lei continua a parlare.

“Mi dispiace se non siamo lì,” dice. “Io… abbiamo sempre– sappiamo che c’è… che c’è una possibilità che noi–”

“Mary,” la richiama Richard, fissandola.

“È difficile parlare così,” replica, voltandosi verso di lui. “Come… come se stessimo per fallire. Come se ci guardassero da un futuro in cui abbiamo fallito, dove lui– dove lui è–”

“È solo per sicurezza,” ribatte lui. “Solo nel caso vada storto qualcosa. Va bene? Dobbiamo essere lungimiranti. E lo siamo stati.”

“Va bene,” dice lei, sfregandosi gli occhi. “Va bene.”

Tony non riesce a guardare, sapendo che non ce l’hanno fatta. Sapendo che in quel momento, niente era ancora inciso nella pietra. Niente era ancora accaduto. In quel momento, loro erano vivi. Peter era al sicuro.

Mary ricomincia. “Sapete quello che abbiamo fatto,” afferma. “Voi non… abbiamo cercato di limitare i dettagli, ma sono sicura che abbiate sentito… le voci. E sapete quello che vi abbiamo detto. È stato un inferno, è stata… una tortura, per entrambi. Ma– Dio, Richard, non so come– non so come dirlo. Così sembra terribile, così sembra che lo stessimo usando per degli esperimenti.”

Tony rialza lo sguardo, le sopracciglia corrugate, e vede Richard che si avvicina, posandole una mano sulla spalla. Si china in modo da entrare nell’inquadratura.

“Abbiamo fatto ciò che dovevamo,” dice. “Qualunque cosa abbiamo liberato là fuori, qualunque cosa incontrerà… l’abbiamo– l’abbiamo reso immune. Non lo ucciderà. Ogni volta che siamo stati lì, con lui, portavamo… portavamo dei campioni, abbiamo… insomma, ce ne siamo assicurati. Non erano esperimenti, noi… sapevamo quello che stavamo facendo. Non possiamo evitargli il dolore o– o di soffrire, ma non morirà. Non permetteremo alle cose che ci hanno costretto a creare di uccidere nostro figlio.”

Tony sente un brivido al cuore. Non sa cosa diavolo stia provando, un miscuglio rosso acceso di shock e rabbia.

“Speriamo che non accada mai,” dice Mary, mentre una luce blu si accende sullo sfondo. “Speriamo che questo video rimanga… semplicemente criptato, che nessuno lo apra mai–”

“Ma se così sarà, se state– se lo state guardando nell’arena adesso, loro… non possono ucciderlo. Non con quello che abbiamo creato noi, non con quello che Capitol usa contro di noi, contro di loro, i… i Tributi,” dice Richard. “Non so che Vincitori avremo, nel vostro tempo, ma sia Janet che Tony… possiamo fidarci di loro. So che lo prepareranno a tutto. Ma i mutanti… abbiamo fatto in modo che nessuno di loro, nulla di ciò che abbiamo creato possa uccidere il nostro Peter.”

Tony si lascia sfuggire un piccolo suono di protesta senza volerlo, nel sentire il padre di Peter che parla di lui e di fiducia nella stessa frase. Dopo quello che ha fatto. Quello che non ha fatto. Quello che ha lasciato accadere.

“E Frank, se sei lì,” aggiunge Mary. “Ti chiedo solo… tienili al sicuro. Proteggili, quando tornerà a casa. Perché tornerà a casa.”

Nel posto in cui sono scatta un allarme, e fissano entrambi freneticamente la telecamera.

“Vi vogliamo bene,” dice Mary.

“Vogliamo bene a tutti e due.”

“E Peter,” chiama Mary. “Peter, ci dispiace così tanto…”

“Ma ti vogliamo–”

Qualcosa si muove dietro di loro, e l’immagine si interrompe. Tony fissa lo schermo nero e scaglia il palmare lontano da sé.

Il modo in cui parlavano di Peter, alla fine. Come se fossero stati così sicuri, così sicuri che le loro azioni l’avrebbero salvato. Tenuto in vita. Che sarebbe riuscito a vedere questo video, di ritorno dai Giochi. Si sente il cuore impazzito e si mette in piedi, iniziando a marciare avanti e indietro.

“Beh, vi sbagliavate,” esala, le mani piantate sui fianchi mentre continua a camminare, con il sottofondo di Steve che cerca di tornare alla torre che risuona alle sue spalle. “Vi sbagliavate. L’hanno ucciso. L’hanno ucciso, non li avete fermati. Nessuno può farlo, non importa… quanto lo vogliano. È morto, è– è–” Tony smette di camminare, portandosi una mano agli occhi mentre un’altra ondata di lacrime lo investe.

Ci hanno provato tutti, con così tanto impegno. Avevano fatto dei progetti. Tony ci ha messo tutto se stesso, tutto quanto, nel salvare Peter Parker. Tutti l’hanno fatto. Eppure.

“Maledizione, ragazzo,” sussurra Tony. Scuote la testa, strozzandosi con un singhiozzo. “Maledizione.” Gli manca, gli manca la sua solarità, nonostante tutto. Quella sua fiducia cieca che lo aveva spaventato a morte, di cui voleva disperatamente mostrarsi degno.

Si asciuga gli occhi, risucchiando un respiro, e si avvicina alla finestra. Scosta bruscamente via le tende e fissa Capitol sotto di lui, in fiamme. È stato Peter. Peter ha vinto i loro cuori, per una volta, per davvero. Gliel’ha fatta vedere. Ha aperto le loro menti, ha fatto comprendere l’inferno che sono veramente gli Hunger Games. Lo amavano. Lo amavano sul serio, a dispetto dei loro difetti, della loro vacuità. E anche i Distretti. Tony può solo immaginare cosa stia accadendo laggiù. Peter era speranza. Era la scintilla di speranza che tutto questo potesse avere fine. E adesso sta cadendo a pezzi. Tony non sa come farà a funzionare, senza Peter, con solo il suo ricordo, il suo martirio. La rabbia è lì, ma la coordinazione è sparita. L’icona è sparita. Il volto. Il collante che teneva insieme tutto.

Sa che la finestra è chiusa a chiave. Ha provato a forzarla in passato, gli anni scorsi. Era sempre riuscito ad assestare sei o sette colpi con una delle robuste sedie della cucina prima che Janet arrivasse a fermarlo. Ma lei adesso non è qui. Non la vedrà mai più.

Sente la voce idiota di Hammer in testa. Non vorrebbe che ti arrendessi, Tony.

Si è sempre immaginato Pepper che lo osservava. Che seguiva ogni sua variazione d’umore, mentre indietreggiava di fronte alla morte o vi si tuffava contro. Riesce a immaginare la sua silenziosa delusione. Ma Peter… Peter sarebbe arrabbiato. Peter sarebbe ferito, da ciò che gli passa in testa ora. Peter lo perseguiterà.

Ma è ciò che Tony vuole. Vuole aggrapparsi a lui in qualunque modo. Anche al senso di colpa che porta con sé… a tutto ciò che non è riuscito a fare. Vederlo è come una ferita rovente, come qualcuno che gli cava gli occhi, ma ne ha bisogno. Non è in grado di andare avanti senza di lui.

Amalo come se fosse tuo. Se è davvero questo che significa, Tony sa che non era destino che avesse dei figli. Perché non riesce a tenerli in vita. Peter era come suo figlio, gliel’ha detto. E cosa ha lasciato che gli accadesse? Cosa ha visto accadere? I genitori non dovrebbero seppellire i propri figli, e a lui non è concesso neanche quel lusso.

Poggia la fronte contro la finestra e guarda il mondo che brucia per Peter Parker.

Il bracciale vibra.

Il mondo quasi si scioglie del tutto a quella sensazione, solo quella, nient’altro che quella. Tony quasi ha un infarto per lo shock, indietreggia e abbassa gli occhi sul congegno. Lo fissa in modo accusatorio, con pura rabbia che gli risale le vene. Non possono togliersi questi affari maledetti fino alla fine, devono portarsi appresso il dolore e la perdita finché non viene incoronato un Vincitore, ma non dovrebbero avere dei malfunzionamenti. Tony sa di non potersi gestire, se questo coso inizia a fare come cazzo gli pare.

Lo fissa in cagnesco. Adesso c’è solo silenzio, di nuovo, e scuote la testa, ma poi… un battito. Debole, lento. Ma è lì.

“Ma che cazzo…” esala Tony, con la gola che si costringe, perché non può farcela. Non ce la fa. Sa che questi Giochi non dureranno ancora a lungo, considerando il pandemonio che hanno scatenato, ma anche solo un secondo di questo, di falsa speranza, è un memento di ciò che ha perso, è troppo per il suo cuore.

Afferra il bracciale, cercando di far scattare la chiusura, ma il battito aumenta solo d’intensità. Tony si sente sul punto di svenire, e si rivolge verso lo schermo senza volerlo. Non c’è più speranza, lo sa. Non c’è speranza. Il suo ragazzo non c’è più. È andato, come tutti quelli prima di lui.

Le riprese in TV impazziscono per un secondo. Si muovono da Steve a Michelle, ancora intrappolata. Mettono a fuoco Hardy, morta. Tornano su Scott, ancora in ombra, ancora immobile. Mostrano Osborn, che lotta per liberarsi dalle ragnatele di Peter. Mostrano Beck, ancora nello stesso punto, molto più deteriorato, pieno di mosche.

Poi mostrano Peter.

E ovviamente pensa di immaginarselo, pensa che lo stia desiderando con così tanta intensità che gli si sta manifestando davanti agli occhi, solo per svanire quando più ne ha bisogno. Ma lo sente: affaticato, rantolante: un respiro, uno che non avrebbe mai più dovuto inalare aria e la trova comunque.

Tony si gira mezzo paralizzato e rimane a guardare mentre Peter, tremante, torna in vita. E Tony è terrorizzato, per un istante, che ci siano dietro loro, che stiano usando il corpo di Peter in qualche modo per torturarlo e soggiogarlo. Poi la mano del ragazzo preme contro il pavimento, con forza, e lui alza lo sguardo, fissando la telecamera.

È lui. I suoi occhi. Peter. È vivo. È vivo, di nuovo, chissà come. Deve essere un sogno. Non può accadere davvero.

“Ragazzo,” sussurra, stringendo ancora strettamente il bracciale.

Gli occhi di Peter sono stralunati e respira a fatica, i battiti del suo cuore troppo veloci, decisamente troppo veloci. Tony è finito in un mondo di fantasia, per forza, ma si muove comunque verso lo schermo, quasi inciampando nei suoi stessi piedi.

“Sto impazzendo,” sussurra ancora. “Cazzo, alla fine sto andando fuori di testa. Non– non può–”

Peter cerca di sollevare la mano, ma è come se fosse incollata lì. Fa forza, e con un po’ di leva riesce a muoversi, e si fissa il palmo come se non l’avesse mai visto prima. Arrotola la manica del giacchetto e il morso… è solo un piccolo segno rosso.

Tony non ci crede. Non può crederci, non può crederci. Non gli è mai stato regalato nulla, mai, ma questo… lo fissa, e lo fissa, e continua a fissarlo, e forse potrebbe– potrebbe davvero– sta accadendo davvero. Sta accadendo davvero, sul serio.

“Cristo santo,” esala, la testa che gli gira per le vertigini. Ripensa al video che ha appena visto, quelle due anime che guardano tutto dall’oltretomba. “Ce l’hanno fatta,” sussurra. “Ce l’hanno fatta.” Deve essere così, sta succedendo.

I genitori di Peter lo hanno salvato.

Il sollievo che prova Tony è più grande di quanto abbia mai provato, e circonda il bracciale con la mano portandolo al petto. Non sa come fare a crederci, non sa se dovrebbe, ma Peter si sta muovendo sullo schermo, mettendosi in piedi tremante e pieno di nuova vita, ed è la cosa più bella che Tony abbia mai visto. È vivo, respira, il suo cuore batte. Anche se sono stati ingabbiati da Capitol per così tanti anni, i genitori di Peter hanno escogitato un piano d’emergenza. Uno che ha funzionato. Come avrebbero potuto rinunciarvi, avendone l’opportunità? Chi non vorrebbe proteggerlo con la propria vita? È tutto quello che vuole fare Tony. È l’unica cosa che importa. Ma ce l’hanno fatta. Ce l’hanno fatta, ce l’hanno fatta.

Peter è vivo. È vivo, è vivo.

La gratitudine di Tony va al di là di qualunque comprensione, e non riesce a pensare lucidamente. Sa che adesso sono ancor più nei guai, proprio a causa di tutto questo, perché è inimmaginabile, non si è mai visto prima… per Capitol, questo è un problema. Questa è una resurrezione. Peter adesso è più potente di quanto non sia mai stato prima. Il suo stesso essere è un’arma. Ma tutto ciò che riesce a pensare Tony è che adesso può ancora farcela. Ha ancora una possibilità. Quell’essere umano fantastico e meraviglioso può ancora tornare a casa. Tony può ancora essere la figura paterna che vuole essere. Da qualche parte, lontano da qui.

Tony è troppo impegnato a fissarlo, a ringraziare la sua buona stella, per sentire la finestra che si rompe nella stanza accanto.

 
§

 
Peter si sveglia con un respiro spezzato.

Il terrore di sapere che la morte lo stava consumando ancora lo attanaglia, e riesce a muoversi a stento. La sua paura è smisurata, e lo paralizza, perché era morto. Sa che lo era. L’ha sentito in ogni dettaglio: il dolore straziante, l’impotenza più pura e completa, tutto l’amore e i ricordi che lo inondavano, cercando di tenerlo lì. Si è sentito un bambino, e tutto ciò che voleva era che Tony atterrasse lì per salvarlo, portarlo al sicuro, e Peter sapeva che stava guardando. E sapeva che anche May e Ned erano lì, e ciò l’ha solo spaventato di più. Gli si stava rompendo il cuore, e poteva sentire anche i loro, come se fossero connessi assieme dall’affetto che li unisce.

Peter ha sentito anche Stane. Quello che voleva fare, che avrebbe fatto, perché Peter stava morendo, perché Peter stava per morire da un momento all’altro. E Peter era intontito da quell’immagine che lo divorava, e tutto ciò che voleva era che finisse, fermare tutto, sopravvivere. Ma ha sentito lo stesso il proprio cuore che rallentava. Ha sentito l’aria che gli mancava. Tutto si era fatto silenzioso.

Ma adesso è sveglio. E le cose… non sono come prima.

Si sente più concentrato. Come se riuscisse a sentire tutto a chilometri di distanza. La sua vista è più nitida, il suo udito è fino, e, quando preme una mano contro il pavimento, rimane incollata lì. Come se avesse della colla sulla pelle. La tira via dopo un lungo momento e si guarda il palmo: tutto sembra uguale a prima, ma sa che non è così.

Riesce a sentire la nuova forza che si fa largo in lui. È come se il suo corpo fosse mutato, come se qualcuno l’avesse allungato, infondendogli nuova forza, scattante e pronta all’uso. La sua mente è un disastro peggiore del solito… tutto si ammassa impilandosi sul resto, le voci si intrecciano con altre voci, sente il modo in cui si muove il terreno, in cui il vento soffia fuori, il modo in cui i veicoli alieni scuotono l’edificio. Riesce a sentire tutto, ogni cosa, non riesce neanche a classificare o identificare tutto ciò che riesce a sentire adesso, tutto ciò che sa e non dovrebbe sapere. Quel sistema d’allarme che gli stringe il cuore sembra potenziato, adesso, come se sapesse ciò che sta arrivando, da dove, perché, che intenzioni ha.

Si sente folle.

Non sa chi sia, cosa sia, che cervello ci sia nella sua testa. Non sa cosa diavolo gli sia successo, e sa che non rientrava nei loro piani, che non volevano trasformarlo in… qualunque cosa sia adesso. Una parte di lui si sente sul punto di crollare sotto il peso di quelle nuove responsabilità. Il resto vuole fare a brandelli il loro mondo. Perché, adesso, crede di esserne in grado. Non è testata, qualunque cosa sia quella che gli scorre nelle vene, qualunque cosa gli abbia fatto quel ragno. Ma se lo sente. Lo sa.

Guarda la telecamera e respira a fondo. Sa che tutti l’hanno visto. Ma sa chi è importante tra loro.

Adesso c’è un orologio che ticchetta. Perché questo non è normale, e saranno assetati di sangue. Stane lo sarà.

Peter sa che là fuori il pericolo è ovunque, e se ascolta abbastanza attentamente può sentirla. Sente MJ che grida aiuto. Percepisce ciò che la intrappola, qualunque cosa sia, che si sgretola, si smuove, ma non abbastanza per farla liberare, e neanche per schiacciarla. Non ancora. Sente anche altri richiami e lo sa: sa che non c’è molto tempo.

È stato un disastro per tutta la sua vita. E adesso la sua testa è un guazzabuglio di molto più di quanto abbia mai avuto là dento, ma in qualche modo… scopre di riuscire a concentrarsi.

Niente di tutto questo sembra più impossibile.

Deglutisce a fatica, e quando afferra la maniglia scardina l’intera porta dagli stipiti.

“Porca troia,” esclama, fissandola. La getta da parte, con le mani che rischiano di appiccicarsi anche lì. Riesce a sentire MJ, può localizzarla con precisione, sa che è al quinto piano. Ma c’è un gruppo di alieni ad aspettarlo a metà strada.

Recupera il suo zaino, attento a non stritolarlo tra le mani, e si mette in marcia. Corre sospinto dall’adrenalina più pura, perché potrebbe rimanere fermo a languire in un punto, lamentandosi e piangendo e cercando di dare un senso a ciò che è successo. A tutte queste sensazioni orribili e contrastanti. Ma sa, sa che hanno bisogno di lui. Si ricorda di aver pensato a casa sua, subito prima di vedere l’ultimo ragno. Deve tornare a casa. Devono tornare tutti a casa.

Gli alieni gli si avventano contro non appena lascia la stanza.

Spara una ragnatela e scavalca il corrimano portante, sparandone altre mentre avanza. Atterra sul soffitto e rimane incollato lassù, con suo enorme shock, e salta giù, di nuovo in mezzo alla mischia. Lo caricano, ma Peter schiva ogni colpo, ogni pugno, e si scansa con una capriola quando uno di loro gli spara con una pistola laser.

Fa. Effettivamente. Una capriola. Senza nemmeno pensarci. Ogni capriola che ha fatto in vita sua è stata frutto di preparazione e panico e un’intera vita di pratica, ma qui, nel bel mezzo di una zona di guerra, riesce a farne una senza nemmeno pensarci.

Si scansa di nuovo dalla traiettoria e sferra un pugno. L’alieno in questione viene sbalzato alla indietro come se l’avesse colpito un autotreno. Peter si ritrae mentre il prossimo cerca di aggredirlo, e lo scaglia via da parte, sollevandolo come se non pesasse nulla. Cercano di metterlo all’angolo tutti insieme e lui spara un’altra ragnatela, correndo e facendo un salto oscillante, diretto verso la tromba delle scale.

Le oscillazioni non sono più goffe e pesanti, e anche se ancora respira e si fa prendere dall’ansia come ha sempre fatto, riesce a mettere a segno colpi che non avrebbe mai pensato di poter fare, riesce ad aggirare ostacoli in cui prima sarebbe inciampato. Il suo cervello, anche se più in grado di concentrarsi rispetto a prima, continua a ripetergli no, no, no, non ce la farai. Ma ce la fa. Quasi sempre.

Sente nuova potenza nei propri pugni, in ogni parte del suo corpo, durante gli scontri che affronta lungo la strada verso MJ. Scaglia da parte gli alieni come fossero incorporei, può seminarli, e quando una delle armature si unisce a loro al terzo piano, spara una ragnatela, la supera con una capriola e le atterra sopra. Quella cerca di scrollarselo di dosso, sollevandosi, ma lui sferra un pugno dritto attraverso la corazza, trapassandola e mandando scintille ovunque. Riesce a balzar via prima che precipiti, schiantandosi sulla rampa che conduce al quarto piano.

Stanno succedendo troppe cose.

Si fa largo attraverso altri alieni, facendoli a pezzi a mani nude, e li immobilizza con le ragnatele, oscillando attorno a loro finché non sono ben legati in un mucchio. Si getta da un muro all’altro, col fiatone, e inizia ad appiccicarsi anche attraverso le scarpe, adesso. Riesce a muoversi come un cavolo di ragno. È stato quel mutante. Quel ragno. L’ha ucciso, l’ha riportato indietro e l’ha reso diverso. Gli ha dato… dei poteri.

Sono stati i suoi genitori? È stato per causa loro? Non ha tempo di rimuginarci su, ma sente il cuore fare un balzo a quella prospettiva.

Arriva oscillando fino al quinto piano, e tutti i suoi segnali d’allarme scattano. Tutto se stesso lo sta conducendo da lei.

Riesce a vedere che il tetto in questo punto è collassato, e un paio di segni di esplosioni ora estinte anneriscono i muri e hanno infuocato le macerie. Vede una mano che ne sporge, ma sa che non è lei, ormai conosce abbastanza bene le sue mani da saperlo… ma sa che è qui, qua sotto, da qualche parte. Afferra la mano, e non trova alcun polso. Potrebbe essere Hardy. Pensa che possa essere lei. Chiunque sia, è già andato. Non può aiutarlo.

“MJ!” grida, guardandosi attorno. Il punto è questo, è questo, e inizia a smuovere i calcinacci, cercandola.

“Peter!” esclama lei in un lamento.

A soli pochi metri da lui. Sotto uno dei blocchi di macerie più grandi.

È cemento solido, quasi un pezzo singolo sepolto da frammenti di statue e colonne dal piano superiore. Peter si affretta sin lì, sente il suo respiro.

“Aspetta,” le dice. “Aspetta, aspetta.”

Fa presa sui bordi del blocco di cemento, flettendo le ginocchia. Serra i denti e spinge, spinge con tutte le sue nuove forze mosso dal puro bisogno di salvarla. Le sue braccia e le sue gambe protestano per la sua urgenza, ma fa leva in avanti, continuando a sollevarlo e abbattendo ogni nuovo dolore nelle proprie ossa. Questa roba deve pesare due o tre tonnellate, forse più, con tutto quello che c’è sopra, ma la sta muovendo. La sta spostando da lei.

Al di sotto c’era un piccolo pezzo di colonna che ha impedito al tutto di schiacciarla, grazie a Dio, e quando ha abbastanza spazio per muoversi la vede schizzar via, più in fretta che può. Lascia cadere la lastra di cemento, che si abbatte al suolo sollevando nuvole di polvere. Scrolla le braccia, e dovrebbero essere distrutte, cazzo, dopo quello che ha fatto ma è come se avesse… tagliato della legna. Sollevato dei libri. Non tonnellate di cemento.

Si volta, aiutandola a rimettersi in piedi. Respira a fatica e la prende per le braccia, gli occhi che esaminano rapidi il suo volto per assicurarsi che non vi siano tagli o ferite gravi.

“Stai bene?” sussurra.

“Come diavolo hai fatto?” chiede lei, con la voce spezzata e roca per le urla. “Quello era… quello… è atterrato addosso a Hardy e l’ha uccisa, ha quasi ucciso me, non l’ha fatto solo perché ero sotto quella colonna, e si stava… si stava spezzando, stava per spazzarsi… come diavolo hai fatto?” Ha il fiatone, scuote la testa verso di lui. “Non avresti dovuto riuscirci.”

“Uh,” riesce a dire Peter. Sono cambiate molte cose, ma la sua capacità di mantenere la calma di fronte a lei non è tra queste. Sa che l’orologio sta ancora ticchettando, che le cose si stanno facendo molto, molto pericolose, adesso. Ma se ne sta lì impalato con la bocca aperta, come un idiota.

“Peter.”

“Ero morto,” dice, rapido. “E adesso sono qui. E, non so come, sono più forte. Non lo so. Non ne ho idea. Sul serio. Ma dobbiamo… so che Nat ha bisogno di aiuto, laggiù, là…” Indica in modo vago alla sua destra, “… là, da qualche parte, lo so, e M’Baku è vicino, e– e Steve, e Shuri, e un paio d’altri, sono… là fuori, da qualche parte sul lato della torre, hanno– hanno bisogno d’aiuto anche loro, dobbiamo andare…”

Le prende la mano e comincia a correre, e lei mantiene saldamente la stretta. Gli tasta il bicipite, la spalla, e sa che sta sentendo le differenze. Perché è diverso. E lui è imbarazzato. Sa che non dovrebbe esserlo, perché è un bene, e non è nemmeno colpa sua, ma il suo volto diventa comunque scarlatto. Vorrebbe che fosse successo in un momento in cui avesse avuto il tempo di metabolizzare il tutto, perché deve sedersi per un istante, deve solo… ha bisogno di un momento di pausa. Ma non ne avrà uno adesso.

“Cosa… cosa? Cosa. Che cosa– no, no…” trattiene il fiato MJ, aggrappata a lui. “Cosa? Peter.”

“Ne parliamo dopo!” risponde lui, scattando in avanti, con quella sensazione che diventa più forte, campanelli d’allarme e sudore e panico che lo guidano verso un punto preciso. Natasha ha bisogno di lui. Sa che è lei. Riesce a sentirla.

“Sei morto?” grida MJ. “Sei morto? Come hai fatto a– no, aspetta. No. Eri morto?”

“Sì, sì, ne sono abbastanza sicuro!” dice lui, con i brividi che gli corrono lungo la schiena al pensiero, e non vuole pensarci. “Sembrava, uh, sembrava proprio di sì!”

Si fermano con uno stridio di scarpe di fronte alla finestra rotta, e sa che Natasha è proprio là fuori da qualche parte. È come se avesse una mappa invisibile in testa, con dei puntini rossi e lampeggianti che indicano le persone che hanno bisogno di aiuto. È come quel presentimento che aveva prima, da sempre, ma più potente, più forte, più preciso, più certo di ciò che gli comunica.

Sta impazzendo.

“Peter,” balbetta MJ, reggendosi forte al suo braccio, accostandosi a lui. “Ero… Dio, ero così preoccupata, da quando tu… e ho sentito troppi cannoni, e ho avuto così paura che uno di loro fosse… ma adesso mi dici che– adesso sei…”

Si volta verso di lei, col cuore che è impazzito per troppi motivi diversi. C’è troppo, c’è davvero troppo, veramente troppo. Non ha tempo per fare tutto ciò per cui gli servirebbe tempo. “Posso baciarti?” chiede. “Solo… al volo…”

Lei gli si accosta e lo fa per lui, senza esitare un secondo. Le posa una mano sulla guancia e non avrebbe mai pensato che il suo primo bacio sarebbe stato così, qui, con qualcuno di incredibile come lei, e non si aspettava nemmeno di avere il suo stesso sangue e quello di qualcun altro addosso quando sarebbe successo, ma questo mondo gli ha insegnato che non tutto può essere perfetto. Le sue labbra sono morbide e quel bacio è colmo d’urgenza, non riesce ad assaporarlo perché sa che deve recuperare gli altri. Il suo senso di responsabilità è troppo pesante, troppo forte, lo indirizza esattamente dove dovrebbe andare.

Si ritrae, scostandole i capelli dal volto senza pensare. “Sì, uno dei cannoni è stato per me. Lo so, sono… sicuro al cento per cento. Mi dispiace, mi dispiace che sia successo e mi dispiace che stia succedendo tutto così in fretta, ma un ragno mi ha morso e credo dovesse uccidermi, ma mi– mi ha cambiato. Mi sento fuori di testa, tipo, in ogni modo in cui si può essere fuori di testa. E adesso sarà tutto più difficile, ma ho– sono molto più abile di prima. Non so perché. Non lo so.”

“Peter,” dice lei, gli occhi pieni di tristezza e confusione. “Non sto… non sto capendo…”

“Mi dispiace,” dice di nuovo, e sente di doverlo dire un milione di volte. Sa come suonerebbe tutto questo se lui fosse nei suoi panni, se fossero a ruoli invertiti. Si china a baciarla sulla guancia, e lei si appoggia contro di lui. Lo fa rabbrividire, e cerca di concentrarsi. Si scosta da lei, guardandola negli occhi. “Dammi solo un secondo. Il piano è ancora in corso, è ancora in corso, devo solo… riportare tutti indietro.” Si allontana, facendole un cenno, e prende a camminare all’indietro. “Dammi solo un secondo, okay? Torno subito, devo recuperare Natasha.”

MJ scuote la testa. “Cosa? Dove…”

Non può spiegarle altro, e scuote la testa nella sua direzione, sperando che possa aspettare, solo per un momento. Le volta le spalle e salta fuori dalla finestra.

 
§

 
Tony continua a fissare la TV mentre Peter si alza barcollando, ancora in quella stanza buia dove aveva smesso di muoversi, dove sembrava sarebbe rimasto finché Stane in persona non fosse arrivato a compiere il suo sporco lavoro. Ma adesso… adesso è di nuovo in piedi, e sono passati solo pochi secondi da quando il mondo di Tony è cambiato di nuovo, ma lui sta già pregando. L’unica persona per la quale abbia davvero pregato negli ultimi vent’anni è questo ragazzo, e lo sta facendo di nuovo, prega che sopravviva. Prega che non sia un trucco, o qualche storia dell’orrore fabbricata da Capitol.

Peter si muove lentamente verso la porta, e con un solo, esitante movimento, la scardina dagli stipiti.

Tony aggrotta le sopracciglia. “Porca troia,” esala, nell’esatto momento in cui lo dice Peter.

Poi, la porta della sua camera da letto sia apre con uno schianto, sbattendo contro il muro. Tony si volta di scatto, vedendo una figura mascherata, e la sua prima associazione è un Pacificatore, il suo primo pensiero è lottare, perché non vuole più morire, non più, non mentre il ragazzo ancora respira. Non farà tornare Peter in un mondo in cui lui non c’è più, non dopo tutto quello che ha passato.

Si scaglia contro la figura e la spinge all’indietro, in corridoio. Impattano violentemente contro il muro, che si crepa all’altezza dei gomiti dell’uomo in maschera; spinge rapidamente all’indietro Tony, alzando le mani.

“Non sono dell’umore, stronzo,” dice Tony, offrendo i pugni e preparandosi allo scontro. Non sa se sia qualcuno di Capitol inviato a farlo fuori in segreto, senza l’ausilio dei Pacificatori, o se sia qualche idiota che ha fatto irruzione qua dentro per una storia, per un momento con Tony Stark dopo la morte del suo Tributo. Con tutto quello che sta succedendo, si aspetta che diventino così audaci. “Ti spedisco tre volte all’inferno se–”

“Facciamo di no,” dice una voce familiare, e Tony indietreggia barcollando contro il muro quando niente meno che Bucky Barnes si toglie la maschera e fa un passo nella luce. “Sono un po’ arrugginito nel corpo a corpo. Mi sto ancora abituando alla mano nuova. Al… braccio nuovo.”

Tony lo fissa. Il suo cuore inciampa, si ferma, si rimette in moto. Tra Peter e questo, inizia a pensare che qualcuno gli abbia messo qualcosa nel bicchiere. E chissà quando è stato il suo ultimo bicchiere. Con Lensher? Erik sta cercando di fregarlo? Di farlo allucinare? Sta funzionando. Il suo intero mondo sta tremando. È un casino. Non sta accadendo. Un’altra cosa che non sta accadendo.

“Sì, vecchio, sono davvero qui,” dice Bucky. Si avvicina a lui come se fosse un cavallo che non vuole spaventare, e posa una mano esitante sul suo avambraccio. Non la mano metallica, ma quella di carne e ossa. Quella che Tony ha stretto tra le sue prima che Bucky entrasse nel tubo. Abbassa lo sguardo, e vede le stesse cicatrici.

Risucchia un enorme respiro, rilasciandolo di colpo. Ha brividi ovunque, e sta tremando in modo incontrollato. C’è un uomo morto davanti a lui.

“Sei lì?” chiede Bucky, in modo amichevole. Non era sempre amichevole, nel periodo in cui si sono conosciuti. Era arrabbiato, una rabbia che Tony conosceva e capiva. Che aveva alimentato quando non avrebbe dovuto. Che forse ha portato Bucky ad essere ucciso.

Ma, apparentemente, il concetto di morto non vuol più dire quello che ha sempre significato.

“Che succede?” chiede Tony, preferendo la logica alle emozioni, anche se tutti i suoi muri portanti minacciano di venir giù. Ha bisogno di rassicurazioni, ne ha bisogno, ma non se ne concede mai, come se non se le meritasse. No, decisamente non se le merita. “Che diavolo sta succedendo? Come fai ad essere qui? Come faccio a sapere che non è–”

“Gelato alla fragola,” dice Bucky, e Tony sente un sussulto nel petto. “Già. Non lo sa nessun altro. Nessuno ha i video. Quindi sai che sono io. Non è un trucco.”

Tony non potrebbe mai dimenticarselo. Mai. Janet non c’era, quella volta. Ed era finito ovunque, dappertutto, per tutta la stanza. Era stata una delle prime volte in cui aveva sentito ridere Bucky. Di cuore. Sente il suo volto che diventa bollente e scuote la testa, sente che sta per svenire. Non sembra ancora reale, è come qualcosa che si è creato lui in testa, e fa dei passetti minuscoli in avanti, avvolgendo Bucky tra le braccia e stringendolo a sé. Solo emozioni, adesso. Niente più logica. Ce n’è mai stata?

“Porca puttana,” impreca sottovoce Tony. “Porca puttana.”

“È bello rivederti, finalmente,” replica lui, dandogli delle pacche sulla schiena.

Tony non ha mai rivisto i Tributi. Non dopo che venivano mandati via, non dopo averli guardati combattere per sopravvivere. Non dopo averli visti morire. La morte di Bucky è diventata famosa: un colpo secco nell’ora finale, quando ne erano rimasti solo quattro. Wagner [1] gli si era avvicinato di soppiatto, l’aveva colpito con un dardo velenoso. Fine partita. Non gli era mai sembrato giusto, non ci era mai venuto a patti, e Tony era diventato catatonico per le ore successive, con la confusione e l’orrore che continuavano a respingerlo dentro la propria testa.

Ma il concetto è chiaro. I Tributi non tornano. Non i suoi, almeno. È stato l’unico a tornare al Dodici, dopo Janet. E anche per lei era stata una grossa sorpresa. Ha pregato, per Peter, e appena pochi istanti fa la sua speranza si è riaccesa. Ma è passato più di un anno, da quando ha visto Bucky. Da quando l’ha guardato morire. Ha visto il braccio di Bucky nell’ufficio, dove Stane si ergeva a loro signore e padrone. Bucky era speciale, vero? Ma adesso Bucky è qui. Il cervello di Tony non riesce a concepirlo, ma è qui… lo sta abbracciando, è qui.

È troppo per comprenderlo.

“Sul serio, come diavolo è possibile?” chiede Tony, mentre ancora lo stringe. Ha bisogno di fatti. Magari un po’ di logica. Perché il mondo non ha più senso. Ha bisogno di parole, di spiegazioni. Poi probabilmente avrà bisogno di svenire. Tutto – tutto – gli fa male. Gli pulsa la testa.

“Te lo dico mentre andiamo–”

“Mentre andiamo dove?” chiede Tony. “Che sta succedendo? Seriamente. Seriamente. Mentre andiamo al piano? Siamo ancora nel piano? Li portiamo fuori? Ne hai sempre fatto parte? Cristo…”

“Andiamo,” dice Bucky, e quando Tony si ritrae lo vede fissare la TV in camera da letto. “Cristo, okay… è successo, è…”

Tony guarda oltre la sua spalla, vedendo Peter che si fa strada attraverso la torre e gli alieni come se non gli causassero il minimo ostacolo, come se stesse giocando a un qualche gioco.

“Andiamo, bene,” dice Bucky, prendendolo per la spalla. “È un bene. Siamo sulla giusta rotta, ma lui è, uh… Cristo, ma che gli è preso?”

“Oh, sai, è appena risorto, scommetto che puoi capirlo,” dice Tony, gesticolando verso la TV. Poi riesce a vedere davvero ciò che sta guardando. Peter li sta abbattendo con un singolo colpo. Peter si… attacca alle pareti e ai soffitti. Peter si muove come non si è mai mosso. Tony respira a fondo, inclinando la testa, e si sente sul punto di svegliarsi da un momento all’altro. Non sa quando si sveglierà, ma spera che sia dopo tutto questo. Quando Peter sarà di nuovo sano e salvo e saranno nel Tredici. Dovunque sia il Tredici adesso. Sempre meglio che qui. Questo posto è un bordello.

“Andiamo,” dice Bucky. “Sul serio. Capisco le, uh, domande, ma abbiamo una tabella di marcia. Andiamo.” Lo prende di nuovo per la spalla.

“Aspetta, aspetta,” lo ferma Tony. Si affretta a prendere il suo palmare, con la chiavetta ancora inserita, e lo ficca in una delle sue borse. Deve tenere d’occhio il ragazzo, ovunque andranno.

Ovunque andrà lui. Con Bucky. Che è morto. Deve tenere d’occhio Peter. Che è morto, anche lui. Stanno seguendo il piano? Anche il piano è morto? Non ha idea di cosa diavolo stia succedendo.

“Prendi,” dice Bucky, tendendogli una maschera simile alla propria. “E, uh, questo. Non so quanta gente incontreremo.” Una giacca scura. Tony indossa entrambi e si sente pazzo. È pazzo. Non gli hanno detto di nessun Tributo morto quando hanno parlato del piano, di far uscire Peter e gli altri. Magari avrebbero dovuto menzionare la cosa. Sembrava che volessero prepararlo al fallimento.

Segue Bucky all’esterno, lo osserva mentre tira fuori il proprio palmare, impartendo comandi che sono più complicati di qualunque cosa gli sia mai venuta in mente, e si è dedicato a un bel po’ di lavoretti coi palmari negli ultimi dodici anni. Un muro acquoso si erge attorno a loro mentre camminano, e si muovono in mezzo al pandemonio generale dei corridoi come fantasmi.

“Le maschere e le giacche sono solo una precauzione,” dice Bucky. “Saliamo.”

Tony ancora non riesce a smettere di guardarlo. Non sa cosa gli provochi – paura, gratitudine, affetto, shock – ma più di tutto, speranza. Speranza di riuscire a farcela. Se ce l’ha fatta Bucky – dopo la morte – quella che sembrava una morte – allora perché loro non dovrebbero?

Prendono le scale sul retro e si dirigono verso il tetto. Ci sono ancora degli spari costanti quando sbucano all’aria aperta, e Tony si chiede se Stane non stia veramente facendo uccidere dei cittadini di Capitol. Li farebbe infuriare solo di più. Gli si rivolterebbero contro ancor più rapidamente. Non sa se correrebbe quel rischio. Quell’uomo è completamente fottuto di cervello, ma farebbe di tutto per mantenersi al potere. Deve. Sanno tutti dei suoi trascorsi, dei suoi rivali avvelenati, spediti in viaggi dai quali non sono più tornati. È spietato.

“Di qua,” dice Bucky, tirandolo per i vestiti. È buio pesto là fuori, e Tony riesce a malapena a vedere dove mette i piedi, con tutto il caos che c’è attorno a lui. “Qui. Sali.”

Tony lo fissa, assottigliando gli occhi. Sono vicini al cornicione del tetto, e non c’è letteralmente nulla su cui salire. Sta parlando a una visione, ne è ancora piuttosto certo, e magari sta comunque per buttarsi da quel cazzo di Centro Tributi. Magari è questo, che sta succedendo. Gli ultimi spasmi delle sue terminazioni nervose, nei momenti che precedono la morte. Sta rivivendo i propri errori.

“Siamo schermati,” dice Bucky. “Dai, smettila di fare quella faccia, non farmi ridere di te in un momento così serio. Cerco sempre di essere rispettoso.”

Tony fa un verso scettico. “Tu? Certo. E non mi vedi neanche la faccia, ho una maschera.”

“So che stai facendo quella faccia. Lo so, lo sento.”

Tony sente un pugno nello stomaco. “Cristo, sei davvero tu.”

Bucky sale nel nulla. “Visto?”

Tony lo osserva, annuendo tra sé.” Okay,” dice. “Anche se sono sicuro che sto per precipitare verso la morte…”

“No, non te lo permetto,” dice Bucky, tendendo la mano. “Anche il nostro nuovo e apparentemente potenziato Spider-Man non farebbe i salti di gioia, ci scommetto.”

Tony scuote la testa, ma afferra la sua mano. Bucky lo issa su, e camminano nel cielo vuoto.

L’elivelivolo si rivela lentamente mentre si muovono al suo interno, finché non è completamente visibile e la rampa si chiude. È più grande di quello che li ha portati nell’arena, ma vede la cabina di pilotaggio con un solo uomo a fare da pilota, che si gira quando entrano. Ci sono alcuni altri compartimenti, una piccola porta che li costringerebbe a piegarsi per passarci, appena oltre la rampa di scale a sinistra, e un’altra sopra di loro, che conduce a un’area che non riesce a scorgere. Ci sono due uomini che li attendono in piedi, e hanno entrambi un’espressione grave.

“Aspettate, un momento,” dice Tony, fermandosi nei suoi passi. “Un momento. Janet. Non posso andarmene senza Janet.”

“Tutti sono in posizione,” dice Bucky. “Tutti i Vincitori. Janet l’abbiamo presa, è impegnata a radunare le famiglie con Nebula.”

“Neb- Nebula?” tartaglia Tony. Il suo cuore fa un altro salto mortale. “È… è viva?”

“Sì,” risponde Bucky, guidandolo verso gli altri due uomini. Si toglie la maschera, e Tony lo imita.

“Posso decollare?” chiede il pilota. “Pensavo avessimo una tabella di marcia.”

“Sam e Hammer,” sbotta Tony, perché nulla ha senso, e deve aggrapparsi a tutti quei fatti appesi nel mezzo della sua testa prima che scompaiano del tutto.

“Sono a posto,” dice uno degli uomini, burbero. “Sono anche loro in posizione. Abbiamo recuperato Hammer poco dopo che l’hai incontrato. Piangeva ancora.”

Tutti e due gli uomini indossano vesti da combattimento. Anche Bucky.

“Okay,” dice Tony, scuotendo la testa e deglutendo a fatica. “Okay, va bene, uh… sì, andiamo.”

Il pilota decolla, ma Tony lo percepisce appena, e rimangono tutti saldamente in piedi. Continua a chiedersi se questa non sia una trappola, ma il modo in cui Bucky lo guarda… è esattamente quello che ricorda. Sempre lo stesso. Non pensa che loro ci riuscirebbero, a ricreare quello sguardo che non ha mai mostrato in pubblico. Ci voleva molto, per far aprire Bucky. Non tutti ci riuscivano.

Tony estrae il palmare dalla borsa e controlla Peter. Sta spostando parte di quel cavolo di muro da Michelle. E non è… non è un qualcosa che qualcuno di loro riuscirebbe a fare senza sforzo. Neanche Bucky, col suo braccio metallico. Quei muri sono di cemento solido. Tonnellate e tonnellate.

“Bene, ho bisogno di qualche risposta che avrei già dovuto ricevere,” dice Tony, alzando lo sguardo verso di loro. “Chiunque voi siate, qualunque cosa stia succedendo… perché Bucky e Nebula sono vivi, che diavolo è successo al mio ragazzo–”

“Io sono Happy Hogan, Tony!” grida il pilota, salutandolo da sopra la spalla. “Sono un tuo grandissimo fan.”

“Matt Murdock,” si presenta l’uomo più magro. Indossa delle lenti scure, e Tony si chiede perché diamine ci sia un uomo cieco nella loro missione segreta.

“Frank Castle,” dice l’uomo più corpulento. [2]

Tony ricorda quel nome pronunciato da Mary nel video.

“La Dottoressa Helen Cho è al livello superiore, si sta preparando a trattare qualunque ferita dovessero aver riportato,” continua l’uomo.

“Stanno organizzando tutto da anni, Tony,” dice Bucky, girandosi verso di lui. “Non ci crederai, ma ci sono altri Tributi nel Tredici.”

“Molti di loro erano stati programmati, intenzionali,” dice Murdock. “Noi… non potevamo salvarli tutti. E a volte con certi assetti potevano essere salvate solo determinate persone. Volevamo salvarle tutte… ma semplicemente, non potevamo. Non eravamo ancora abbastanza forti, per rischiare così tanto.”

“Tu vieni dal Tredici?” chiedi Tony, con l’ansia che gli torce le ossa.

“Sì,” risponde Murdock. “Anche Happy.”

“Io sono cresciuto nel Sette,” dice Frank. “Ma ero sotto contratto con Capitol. “Quindi ho passato la maggior parte del tempo qui.”

Tony annuisce con un movimento rigido. “Quindi… ti hanno salvato,” conclude, fissando Bucky. “Quel dardo era…”

“L’hanno escogitato loro,” dice Bucky. “Per farmi sembrare morto.”

“E Stane ti ha preso il braccio?” chiede ancora Tony. “Eri sveglio quando è successo?”

“No,” dice Bucky, distogliendo lo sguardo. “Mi sono svegliato dopo.”

“Io aiutavo a ‘occuparsi’ dei corpi,” dice Murdock. “Ma Stane, lui… a volte si presentava prima che riuscissimo a sbarazzarcene, almeno ufficialmente. Prima che svegliassimo quelli che non erano davvero morti.”

“Cristo,” impreca Tony, abbassando gli occhi. Lancia uno sguardo al palmare, ancora tra le sue mani, e vede Peter che libera Natasha da dove era rimasta bloccata all’esterno. È appiccicato all’edificio, cazzo. Con mani e piedi.

“Potevamo salvarli solo in certi modi,” dice Murdock. “Modi come il dardo che si è beccato Bucky. Se un mutante era troppo ferale, non… codificato a una certa maniera, non potevamo impedire che li facesse a pezzi. È stato… è stato un viaggio duro.”

“Già, scegliere e decidere chi vive e chi muore,” dice Tony, con un retrogusto amaro in bocca.

“Stavano salvando persone che altrimenti sarebbero morte,” dice Bucky. “Hanno rischiato la vita per farlo.”

“Già,” replica lui, asciutto.

“Il tuo ragazzino,” interviene Frank. “Conoscevo i suoi genitori. Lavoravo con loro. Io… si fidavano abbastanza di me per mettermi a parte di chi fossero veramente. Di come non volessero fare assolutamente nulla di ciò che li obbligava a fare. Li stava uccidendo. Ed ero l’unico a sapere cosa hanno fatto. A Peter.”

A Tony si gela il sangue.

“Dopo che sono morti, io sono scomparso. Mi sono trovato con Murdock, qui, ho raggiunto il Tredici. Non avrei mai rintracciato il ragazzo. Mai. Non ho mai progettato di farlo. Volevo evitargli tutte queste brutture, a tutti i costi, e se mai ce l’avessimo fatto, se mai avessimo… ideato un piano abbastanza solido, per far crollare tutto il sistema, avevo pensato che avremmo semplicemente… potuto recuperarlo. Portare anche lui nel Tredici, con tutti i rifugiati.”

Tony alza lo sguardo. Incontra i suoi occhi.

“E poi si è offerto volontario,” continua Frank. “E io ero in contatto con Bruce. Ho sentito voci di quello che stavano pianificando, di come fossero finalmente pronti per tentare qualcosa, usando Rogers come volto, ma io avevo tenuto d’occhio Peter… era un bravo ragazzo, c’è… c’è qualcosa in lui. Credo che tu mi capisca, no? Quindi l’ho detto a Bruce. Gli ho detto quello che avevano fatto, come l’avevano protetto. E Stane se la stava facendo sotto dalla gioia, voleva scatenare tutto contro il ragazzo, ed è stato abbastanza stupido da usare i ragni fabbricati dagli stessi Parker. Pensava che sarebbe stato un perfetto colpo basso, rivoltargli contro le creazioni dei suoi genitori. E invece si è fregato con le sue mani.”

Tony lo fissa. “Sapevate… sapevate che l’avrebbero ucciso? Tu e Bruce… lo sapevate?”

“Non era morto,” ribatte Frank. “Non per davvero. Era… praticamente morto. Ma non del tutto. Sapevamo che sarebbe parso così, a tutti. Merda, tutto quello che ha dovuto fare il ragazzo è stato essere se stesso, e sono caduti tutti ai suoi piedi. La sua morte ha messo in moto la rivoluzione. Era esattamente ciò che ci serviva. Sapevamo che sarebbe tornato. Quello che non sapevamo era, uh…” Allunga una mano, picchietta sul palmare di Tony. Peter sta oscillando a mezz’aria con Natasha, e atterra con una capriola dentro l’edificio. Solleva una statua gigantesca come se pesasse niente e la scaglia contro gli alieni contro cui sta combattendo Michelle.

Frank ridacchia. “Non sapevamo che sarebbe tornato come un dannato supereroe. Non so nemmeno se loro lo sapevano. I suoi genitori. Ciò rende le cose… rende le cose più difficili nel senso che dobbiamo arrivare lì, rapidamente. Si vendicheranno, non sapranno cosa cazzo fare. Ma con lui, in questo stato… una fenice che risorge, una fenice che risorge con dei poteri… è la nostra icona, in tutto e per tutto. La morte l’ha reso più potente, l’ha reso ancor più potente.”

Tony si sente il volto accaldato. Mette via il palmare lentamente, con calma, ancora in funzione, mentre mostra quello che Peter può fare. Sta tremando violentemente, con la rabbia che gorgoglia dentro di lui.

“Tony…” comincia Bucky.

“Quindi il primo ragno è stata opera vostra?” chiede Tony, cercando di mantenere una voce moderata. “Con… con la Everhart?”

Frank lancia un’occhiata a Murdock. “Nah,” risponde. “Quello è stato solo un evento giusto al momento giusto. Coincidenza, immagino. E alla fine ha significato tutto, eh?”

Tony scatta in avanti, agguanta Frank per il bavero e lo sbatte contro la parete dell’elivelivolo. Li sente esclamare in coro, si ritrova Murdock e Bucky ai lati, ma gli occhi di Frank sono puntati nei suoi. “Quindi l’avete usato,” ringhia Tony, tra i denti. “Sapevate che avrebbe sofferto così, cazzo, e l’avete comunque lasciato accadere? Tu e Bruce, avreste potuto impedirlo, avreste potuto… fargli cambiare strada, tenerlo lontano dai ragni, qualunque cazzo di alternativa, ma l’avete permesso? L’avete lasciato morire? Perché avrebbe funzionato meglio per la vostra storia?”

“Non era morto, Stark…”

“Di sicuro lo sembrava,” ribatte Tony. “Di sicuro a sentirlo sembrava di sì. A vederlo. Perché io ho addosso uno di questi stramaledetti bracciali e ho sentito il suo cuore fermarsi.”

“Era debole,” replica Frank. “Il bracciale non poteva registrarlo. Il tuo non ha neanche un localizzatore dentro, Bruce te l’ha dato apposta, non è come gli altri…”

“E ci serviva una reazione spontanea da parte tua,” aggiunge Murdock. “Diciamolo e basta. A loro importa anche del vostro legame, ti avrebbero imitato. Tutti ti hanno visto reagire. L’hanno trasmesso ovunque.”

A Tony non importa che Murdock sia cieco. Vuole spaccare loro la testa, una contro l’altra. Dà uno spintone a Frank e fa un passo indietro, riavvicinandosi a Bucky.

“Capisco come ti senti, okay, Stark?” dice Frank, dietro di lui. “Lo capisco. Abbiamo visto tutti la morte. Vogliamo tenere in vita i nostri, e tu sei rimasto invischiato con quegli stronzi di Capitol per anni. So cosa vuol dire. Hanno ucciso la tua ragazza, i tuoi genitori… e all’inizio… non ero sicuro, perché io– io conoscevo i genitori di Peter, quindi mi sentivo… dalla loro parte, credo. E quindi non ero sicuro se tu fossi sincero con lui. O se stessi solo recitando il tuo ruolo. Ma adesso so chi sei. So com’è un padre. Anch’io lo ero.”

Tony si volta a guardarlo, con la gola costretta.

“Ha sofferto, sì. È vero. Ma sapevamo che sarebbe tornato. Ne eravamo certi. Prima era forte. E grazie a un qualche… miracolo, adesso è ancora più forte. E dobbiamo raggiungerlo. Sei pronto, vero? Sei con noi? Perché ci hanno detto che sei con noi. Ci hanno detto che avresti fatto di tutto per riprenderti il ragazzo.”

“Certo che sono con voi,” replica lui. “E certo che lo farei.”

“Allora siamo a posto,” dice Frank. Si siede su uno dei sedili, liberando un sospiro, e Tony pensa che potrebbe essersi aspettato il suo livore. Murdock si siede accanto a lui.

Tony guarda Bucky. Ancora sotto shock nel vederlo qui. Ha menzionato altri Tributi, e Tony deve sapere. “Uh, prima stavi dicendo degli… altri Tributi, uh… Hank, o… Hope? Rhodey?” Gli trema la voce, preannunciando la risposta.

Bucky scuote la testa. “Mi dispiace,” risponde. “È cominciato tutto dopo di te. Bruce non stava scherzando, quando ha detto che l’hai ispirato. Sei stato la scintilla, Tony. E Peter… la sta facendo divampare.”

Tony si strofina gli occhi. Si sente male. Si sente stanco, così stanco che sa di non essere abbastanza in forma per tutto questo. Deve essere migliore di così. “Qual è il piano?” chiede.

“In teoria è semplice,” risponde Bucky. “Voliamo sopra l’arena, e quando escono dal portale sfondiamo la cima della cupola e li tiriamo fuori. Nel peggiore dei casi dovremo entrare. Ma quello è il peggiore dei casi. Rimarremo schermati finché non saremo proprio sopra di loro, quindi speriamo di coordinarci bene. Dobbiamo rimanere in osservazione.”

“E nessuno ci sta alle costole?” chiede Tony, guardandolo.

“No,” replica Bucky. “Per ora no.”

Per ora no potrebbe significare da un momento all’altro. Tony sospira, mordendosi l’interno della guancia, e tira di nuovo fuori il suo palmare, controllando Peter. Sta lanciando alieni a destra e a manca, li prende a pugni spedendoli contro le pareti. Schiva tutto come se niente fosse. Fa acrobazie con Michelle in braccio.

Scuote la testa e alza di nuovo lo sguardo verso Bucky. “Sono, uh. Sono davvero contento che tu sia vivo.” Cerca di impedire alla propria voce di incrinarsi. Non è sembrato abbastanza emotivo. Non sa come dirlo in modo che significhi qualcosa. Semplicemente non… riesce ancora a crederci.

“Anch’io,” replica Bucky, con un cenno. “Sono… sono davvero felice di vederti.”

 
§

 
Peter corre. È riuscito a recuperare Natasha, è riuscito a svegliare M’Baku, e adesso stanno scappando a rotta di collo dagli alieni, che sembrano moltiplicarsi ad ogni secondo che passa. Sono al sesto piano, e sa che deve tornare giù a prendere Steve e gli altri.

“Di qua,” grida, incitando MJ, M’Baku e Natasha a destra, verso una porta aperta. Ricorda cos’è successo l’ultima volta che ha imboccato la prima porta aperta in vista, e stringe i denti quando corrono all’interno, sparando ragnatele ovunque. Ma è solo uno sgabuzzino. Nessun mutante in vista. Un breve attimo di respiro. Peter si sente sul punto di esplodere.

Chiude rapidamente la porta una volta dentro, e lascia la mano sulla maniglia, pregando di non romperla. Ma può tenerla con fermezza, impedendo loro di entrare.

Gli altri tre lo fissano guardinghi, raggruppati contro il muro.

“Che diavolo ti è successo?” chiede Natasha, a occhi sbarrati.

“Uh…” comincia Peter, con la porta che trema dietro di lui. “Non lo so. Sono abbastanza sicuro di essere morto.” Odia dirlo. Suona così stupido. Non esprime la paura che ha scatenato quel momento. Il dolore che ha sentito allora.

Cosa?” esclama M’Baku, reclinandosi di peso contro il muro accanto alla spalla di Natasha. “Come, scusa?”

“Sì, non saprei,” dice Peter, scuotendo la testa. “Non– non–” Quasi gli fa male la testa per tutto il concentrato di panico riguardo a Steve, e sa che deve uscire di qui, andare a recuperare lui e gli altri per continuare a scalare la torre. Non hanno molto tempo. Non sa come fa a saperlo, lo sa e basta. “Sentite, ne parliamo dopo, okay?”

“Dopo?” ripete Natasha, scambiando un’occhiata con MJ. “Dopo quando? Tipo, a pranzo?”

“Dopo!” sbotta Peter. “Perché ci sarà sicuramente un dopo, perché ce la stiamo cavando benissimo!”

“Peter, non puoi andare là fuori,” dice MJ, scuotendo freneticamente la testa. “È troppo, troppo pericoloso.”

“Devo,” replica Peter. “Vado solo a prenderli, lui e uh, chiunque sia con lui, e poi torno di corsa qui e continuiamo a salire. Dobbiamo… andare avanti.” Non vuole pensare al fatto che potrebbero chiudere lo squarcio nel cielo. Non vuole pensare a loro che inviano altri mutanti. Ormai sapranno che lui è diverso, lo sanno, e proveranno a fermarlo.

“Peter!” grida MJ. “Non puoi–”

“Torno subito,” dice lui. “Promesso, promesso. Chiudo la porta con le ragnatele così non possono entrare. Sarete al sicuro.”

Si sposta rapidamente all’esterno prima che possano chiedergli altro, e si butta di nuovo in mezzo agli alieni, sigillando la porta con le ragnatele.

Svicola via saltando dal gruppo di alieni che allungano verso di lui unghie e artigli, sparando ragnatele anche contro di loro, e vorrebbe avere un’arma, dannazione. Avrebbe dovuto chiedere a M’Baku se aveva ancora il coltello. Non ha visto Natasha coi tirapugni d’ottone. Scappa via dagli alieni, scattando, muovendosi più veloce che può, e li semina. È davvero veloce, adesso, e quasi si spaventa a morte. Salta fuori dalla finestra.

Spara una ragnatela, centrando l’edificio, e non appena comincia a oscillare il sole tramonta, come se qualcuno avesse chiuso un sipario. Oscurità completa, buio pesto.

Poi, un tuono. Rimbomba attraverso l’intera arena, e il cielo trema di fulmini. Una nuova schiera di alieni esce dallo squarcio nel cielo, e poi altri, e altri, e altri ancora, e quando Peter abbassa lo sguardo, lo vede. Fuoco, che si sprigiona dal terreno. E c’è un cannone.

“Merda,” mormora Peter. “Steve, sto arrivando! Sto arrivando!”





 
*



 
 
 
 Tradotto da: ever in your favor: phoenix rising, di iron_spider da _Lightning_


Note: 

[1] Kurt Wagner, aka Nightcrawler
[2] Matt Murdock, aka DareDevil; Frank Castle, aka The Punisher.


Note della traduttrice:

Cari Lettori,
suvvia, il ritorno del nostro Peter era un po' telefonato, a partire dal titolo... ma ammetto che il mio momento di panico l'ho avuto, soprattutto perché siamo quasi alla fine della storia (sono 14 capitoli) e l'autrice ha già dimostrato una vena di sadismo lunga un miglio :')
Come mi è già stato consigliato da più persone, inizierò a fornire farmaci cardiaci e reattori arc in omaggio con le mie storie/traduzioni, che a quanto pare sono un attentato vagante... ma spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e che abbiate apprezzato la traduzione!

Ringrazio
Eevaa, Paola Malfoy, ericaron che hanno recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno commentato i precedenti <3 Arriverò il prima possibile a rispondervi (per me è una questione di principio farlo), ma questa settimana è stata serrata e ho dato precedenza all'aggiornamento per non tenervi sulle spine. Un grazie speciale a T612 che ha fatto un mega-lavoro di recupero, rendendomi felicissima (e facendomi sentire in colpa per i danni fisici che ho causato a lei e agli altri con questa traduzione).

Sono io stessa in attesa del capitolo successivo, che uscirà lunedì prossimo, quindi immagino di riuscire ad aggiornare entro mercoledì/giovedì, se non vengo oberata di impegni accademici :)
Alla prossima,

-Light-

P.S. No, neanche io so cosa diavolo sia successo con quel cavolo di gelato alla fragola, e una parte di me non vuole scoprirlo :'D



 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** I Parker possono fare qualsiasi cosa ***


Capitolo 13: I Parker possono fare qualsiasi cosa





 
Peter sa esattamente dove sia Steve, anche in questo nuovo buio. Anche con la tempesta che cresce d’intensità. Ma deve arrivare lì prima che il fuoco attecchisca, prima che si diffonda. Stanno accadendo troppe cose, tutte insieme. Gli sembra impossibile.

Ma tutto è impossibile. Finché non smette di esserlo.

Si sente a un passo dal collassare, dal precipitare nel panico e rovinare tutto, ma continua ad avanzare e salta attaccandosi a una ragnatela proprio quando un fulmine impatta sulla strada sottostante, incenerendo una decina di alieni e abbattendoli al suolo. Peter sapeva che non gli sarebbe stato permesso di volare qua e là coi suoi nuovi poteri ancora per molto. Sapeva che la ritorsione era in arrivo, ma sembra che stia arrivando rapida, e a frotte.

Lo squarcio nel cielo deve solo rimanere aperto. Deve rimanere così. Possono aggirare gli alieni e tutto il resto. Deve solo rimanere aperto.

Corre lungo il lato dell’edificio, balza con una nuova oscillazione e poi li vede. Ancora impegnati in un combattimento contro un gruppo di alieni, proprio vicini al perimetro della torre. Peter sa che deve recuperarli uno ad uno, è l’unica maniera in cui può agire. Il fuoco avanza a rotta di collo lungo la strada, e li sta raggiungendo.

Sente un altro cannone in lontananza, e pensa che potrebbe essere Harry. Harry, che ha lasciato indifeso. Potrebbe essere lui, perché Peter non ha idea di chi sia ancora rimasto, e ci sono stati due cannoni negli ultimi due minuti. Probabilmente a causa del fuoco.

“Dannazione,” impreca a mezza voce, perché si è ripetuto di non voler perdere nessun altro, a prescindere da chi fosse. È stato prima di questa follia, ma adesso dovrebbe essere più forte. Più in grado di salvarli: ne ha la forza, ha queste… queste nuove abilità, e dovrebbe salvare le persone. Non dovrebbero morire mentre lui è in questo stato.

Spara una ragnatela più lunga, che si appiglia in alto sull’edificio, e oscilla basso, arrivando rasoterra e mirando per chiunque sia sulla sua traiettoria. Vede che è Shuri quando si avvicina, e la afferra mentre le passa accanto. Lei lancia un piccolo grido, colpendolo sul lato della testa, e poi strilla di nuovo quando realizza quello che sta accadendo. Si aggrappa a lui e si tiene stretta.

“Ma che diavolo?” urla, col vento che li frusta mentre svoltano l’angolo.

Spara un’altra ragnatela, rattrappendo le gambe e cercando di andare più in alto. Vuole lasciarli tutti al quinto piano, da dove è sceso.

“Adesso voli?” chiede Shuri, aggrappandosi alle sue spalle. “Questo… wow, è impressionante…”

“Già,” dice Peter, serrando i denti. “Ne parliamo dopo!” Questa diventerà la sua nuova frase preferita.

“Dopo?” grida lei, trattenendo di nuovo il fiato quando lui lancia un’altra ragnatela.

“Dopo!” grida lui in risposta. Vede il quinto piano in avvicinamento, e cerca di atterrare come si deve, di mettersi in orizzontale, e oltrepassano in volo la finestra. Cerca di avvolgerla col suo corpo in modo da non farla impattare troppo duramente per terra, e si fermano rotolando.

Gli alieni si avventano immediatamente su di loro, e Peter spara più ragnatele che può, respingendoli. Non vuole sprecarle, sa che gli servono, per tutto, per fuggire, e prega gli dèi di averne fatte abbastanza. Calcia via un alieno e Shuri arriva rapida in suo aiuto, sottraendo una delle loro armi. Non è una di quelle pistole laser che ha visto prima, ma sfrigola da una delle estremità come un taser.

Shuri ne fa buon uso. “Vai!” urla, elettrificandoli e tenendoli a bada. “Prendi gli altri!”

“Okay!” grida lui, sperando che riesca a resistere. Medita se rimuovere le ragnatele dalla porta dove sono chiusi gli altri, ma sta correndo così forte che non si arresta per tempo e sfreccia oltre, balzando fuori dalla finestra prima di poterci ripensare.

Il cielo brontola rabbioso, con fulmini che saettano dappertutto in lontananza.

Ripete lo stesso processo tre volte e osserva il fuoco che sale, cercando di raggiungerli prima di lui. Si posizionano più in alto, arrampicandosi sui camion, sui muri degli edifici circostanti, ma Peter arriva fin lì e li recupera uno ad uno.

Nessuna delle donne si presenta, si aggrappano solo a lui una volta realizzato quello che sta succedendo, e le deposita nel mezzo della battaglia al quinto piano di cui Shuri si sta abilmente occupando.

Peter pensava che sollevare Steve sarebbe stato più difficile, per ovvie ragioni, ma ci riesce comunque senza problemi, come se nulla fosse, questo tizio gigantesco e dalle spalle squadrate, e riesce in qualche modo a trasportarlo con un braccio solo come fosse un sacco di patate.

“Uh,” commenta lui, mentre oscillano verso il quinto piano.

“Ehilà,” replica Peter. Si aspettava di essere completamente sfiancato, dopo aver eseguito la stessa manovra quattro volte, contro un branco di fiamme inferocite e una tempesta tonante che si sta scatenando attorno a loro. Ma inizia a mancargli il fiato solo adesso.

“Come ci riesci?” chiede Steve, tenendosi a lui e fissandolo come se gli fosse spuntata una seconda testa.

Peter spara un’altra ragnatela e si assicura di impostare la traiettoria di oscillazione che gli serve per raggiungere il punto voluto. Steve è più pesante delle ragazze, quindi si muovono in modo diverso.

“Beh, questo l’ho sempre saputo fare,” risponde, strizzando gli occhi quando il rombo di un altro tuono sembra avvicinarsi a loro.

“Uh, questo?” chiede ancora Steve. “Sapevo dello, uh, spostamento via ragnatele, credo che Sam l’abbia chiamato così…”

“Ah, con ‘questo’ intendi il portare te?” realizza Peter, sparando un'altra ragnatela e ondeggiando più in alto a mezz’aria. Sono quasi arrivati.

“Già,” dice Steve, col fiato mozzo per la rapida avanzata, come se qualcuno l’avesse colpito in petto. “Già. Quello.”

“È una storia lunga,” replica Peter, vedendo la finestra in avvicinamento. “Ci siamo…”

“Come sarebbe, ci sia–

Steve sbarra gli occhi quando Peter li slancia entrambi verso la finestra, e ha migliorato il rotolamento d’atterraggio visto che è la quarta volta che lo fa. È comunque più piccolo di Steve, a dispetto dei suoi recenti cambiamenti, quindi non riesce esattamente ad avvolgerlo col proprio corpo come con le ragazze, ma stringe la sua testa al petto quando toccano terra così da non fargliela sbattere.

Non sente i suoni di lotta che c’erano durante i suoi atterraggi precedenti, ed è lieto di aver finito, perché si sente sbatacchiare il cervello qua e là. Si ritrae da Steve, lo aiuta a rimettersi in piedi e lui lo fissa incredulo mentre le tre donne si fanno rapidamente loro incontro.

“Saliamo?” chiede la ragazza più giovane. Peter non ha ancora afferrato il suo nome, ma crede che sia qualcosa tipo Williams. Sembra avere più o meno la sua età. “Nel senso, andiamo su, vero?”

“Gli altri, dove sono?” chiede Steve, prendendo Peter per il braccio.

“Di qua,” dice lui, e scatta via. “Li ho barricati con le ragnatele in uno sgabuzzino, o un qualcosa del genere…”

“Raggruppiamoci!” risponde Steve. “Vai là dentro, riorganizziamoci, prendiamoci un paio di minuti…”

Peter sbuffa un respiro. Vuole solo andarsene. Il fuoco, il buio, la tempesta, i nuovi alieni, sono determinati a prendere lui, e non sa neanche se a questo punto stiano ancora cercando di lasciare in vita uno di loro. Adesso sono tutti riuniti, chiunque fosse là sotto è ormai perduto – lo sa, lo sente – e devono andare, devono andarsene. Devono riuscire a parlare di tutto questo ad alta voce, ma non può sabotare tutto adesso: i tecnici dell’arena capiranno ben presto quello che stanno per fare. Spera che Bruce stia coprendo loro le spalle. Spera che riesca a proteggerli quel tanto che basta per farli evadere. Ma, visto lo stato delle cose… Peter non ne è così sicuro.

“Okay, riorganizziamoci,” dice infine, e si affretta con loro verso lo sgabuzzino. Ci sono molti corpi di alieni in giro, e sente altri brontolii sotto di loro. Stanno arrivando.

Raggiunge la porta e strappa via le ragnatele, e tutti e cinque si fanno largo all’interno. Chiude la porta, vede M’Baku che si para di fronte a MJ e Natasha che sembra prepararsi a uno scontro. Ma tutti e tre si rilassano quando vedono chi è entrato.

“Grazie a Dio,” dicono Natasha e M’Baku, all’unisono.

“Ci stiamo riorganizzando,” annuncia Peter, appoggiandosi di peso contro la porta per tenerla chiusa. Nota che Shuri ha ancora l’arma aliena che ha sottratto, che ronza tra le sue mani.

“Io sono Misty Knight,” dice la donna più alta, scostandosi i ricci dagli occhi. “Scusate se ci è voluto così tanto per trovarvi tutti. Ho… ho perso Greg quasi all’inizio.” [1]

Fanno solo un cenno verso di lei, sono tutti troppo esausti per dire molto. Peter crede di ricordare Greg. È quello che alcuni fan avevano preso a chiamare Gravity. Continua a fissare MJ, e teme che lei lo stia guardando in modo diverso.

“Uh, io sono Riri. Riri Williams. [2] Scusate, merda, tutto questo è assolutamente ridicolo e sono… sono stufa. Sono veramente stufa.”

“Su quello siamo d’accordo,” commenta Natasha.

“Non ho idea di cosa sia successo a Robbie,” dice Riri. Scuote la testa. “Non l’ho neanche visto.”

Peter deglutisce a fatica. “Beck l’ha ucciso,” rivela. “Il primo giorno. E io ho ucciso Beck.” Quella frase gli lascia un retrogusto amaro in bocca.

“Oh,” esala Riri, guardandolo. “Oh… capisco.” Sembra sul punto di dire altro, ma poi lo tiene per sé.

“Devo sapere cosa ti è successo,” interviene Steve, voltandosi verso Peter. “Mi…” Osserva gli altri, e Peter adesso lo vede davvero, vede i tagli e le escoriazioni su tutte le braccia, la lacerazione che gli segna la guancia. “Mi… mi ha sollevato. Come ha sollevato voi due, ma è stato – insomma – non dovrebbe esserne in grado.”

“Non abbiamo tempo,” mormora Peter, scuotendo la testa e chiudendo gli occhi. “Non ne abbiamo. Dobbiamo… dobbiamo andare avanti.”

“Diccelo in trenta secondi,” chiede MJ, fissandolo. “Perché io ho bisogno di saperlo.”

“Tu lo sai già,” replica lui, ansiosamente, protendendo la mano libera. “Te l’ho detto, mi hai sentito.”

“Condividilo anche col resto della classe,” lo incalza Natasha, fissandolo a sua volta.

Peter sospira, guardando Misty e Riri, che non hanno alcuna idea di cosa diavolo stia succedendo. Si scrocchia le nocche contro il fianco, scuotendo la testa. “Ero… ero con Scott Lang, quando è stato ucciso. Dopodiché ho… sono tornato alla torre il più in fretta possibile. Sono finito in un’imboscata, con questo enorme branco di ragni, e sono riuscito a fuggire… ma uno mi si era attaccato addosso. Mi… mi ha morso e… sapevo che stavo morendo, sentivo il mio corpo che cedeva, e ha fatto malissimo, è stato… è stato terrificante e poi– è diventato tutto buio. Ero… non c’ero più.”

Lo fissano tutti a bocca aperta.

Lui abbassa lo sguardo sul pavimento, vicino alle lacrime, e si sfrega rabbiosamente gli occhi. “Ma dopo mi sono svegliato. Non so quanto tempo fosse passato. Ma ero… diverso. Più forte. Ho scardinato una porta. Correvo in mezzo agli alieni come se nulla fosse. Ho trapassato con un pugno una delle armature di Iron Man. Uso le ragnatele per spostarmi ed è… come se volassi. Non sono più maldestro. Sono veloce, davvero veloce e avevo– prima avevo questa stranezza, era come se riuscissi a capire se stesse per succedere qualcosa di brutto, ma adesso è… dieci volte più potente. Riesco a capire da dove arriva il pericolo, a evitarlo, ad andargli incontro, a capire quanto è grave, sono– non so perché sia successo. Non lo so. Ma è successo. Sono diverso, sono diverso ma sono… sono vivo.”

Lo guardano fisso come se qualcuno li avesse messi in pausa. MJ ha gli occhi pieni di lacrime.

“E cosa… dice questo tuo rilevatore di pericolo, adesso?” chiede M’Baku, lentamente.

Peter butta fuori un respiro. “È impazzito. Ed è ovunque. Siamo… siamo gli unici rimasti.” Il suo senso di colpa è schiacciante. Un grumo viscido nella sua gola.

C’è un profondo silenzio dopo quell’affermazione, come se la stessero tutti metabolizzando. Peter pensa a evadere, al piano, e vorrebbe aver guardato meglio lo squarcio nel cielo, per vedere dove finisse esattamente il campo di forza, quanto fosse vicino alla cima della torre. Non ha idea di come faranno ad arrivare lassù, sembra così dannatamente lontana, e medita se portarli tutti quanti in una sola volta. Probabilmente ci riuscirebbe. Ma c’è di mezzo la questione logistica… rilascia un altro respiro, scuotendo la testa, e sa che la sua ansia ha subito un’impennata da quando è tornato, così come tutto il resto.

Pensa di nuovo che potrebbero sfruttare le armature. Sa che potrebbe probabilmente prenderne il controllo col palmare, e trattiene il fiato: tutti gli scossoni di prima, volare qua e là, cadere a destra e a manca, atterrare ripetutamente… ha fatto tutto, come un idiota, con lo zaino in spalla.

Toglie una spallina, aprendo rapido la zip. Afferra il palmare e per fortuna è mezzo sepolto sotto la coperta termica, intatto.

“Che fai?” chiede Steve.

A Peter tremano le dita e lascia cadere a terra lo zaino, trattenendo in mano il palmare. “Voglio vedere se riesco ad hackerare le armature. “Prenderne il controllo in modo che non ci attacchino. E magari potremmo, uh, usarle.” Alza lo sguardo su Steve, incontra i suoi occhi e non sa se stia dicendo abbastanza, o troppo, e vorrebbe solo poter parlare liberamente. Gli batte forte il cuore, e realizza che non sta più tenendo chiusa la porta, dannazione. Si sporge all’indietro, afferrando la maniglia, e chiude gli occhi cercando di respirare.

“Lascia, faccio io,” dice Shuri, appoggiando la sua arma al muro. “Dallo a me.”

“Sì, prendilo tu,” dice Riri. “Peter, sembra che tu, uh… stia rompendo un po’ l’angolo col pollice.”

Peter apre di scatto gli occhi e quasi si lascia cadere il palmare di mano quando vede la crepa. “Maledizione,” sussurra, e lo porge a Shuri. Lei lo prende, e si mette al lavoro con Riri. Peter le sente presentarsi sottovoce, e poi M’Baku rilascia un sonoro sospiro.

“Bene,” esordisce. “Non saprei dire perché, ma gli credo. E sono disposto a seguire l’unica persona che abbia oltrepassato la soglia della morte qua dentro.”

“Finalmente,” commenta Shuri, scoccandogli un’occhiata.

“Mi dispiace per quello che hai dovuto passare,” dice Steve, mettendogli una mano sulla spalla. “Non posso neanche immaginarlo.”

“Sospettavo che stessero prendendo di mira te,” dice Misty. “Capitol è… molto presente nel Cinque. C’erano molti rumori su di te. Credo che siano spaventati. E adesso lo sono di sicuro.”

Peter sa che il Distretto Cinque ha il compito di fornire energia a tutta Panem. Se riuscissero a prendere il Cinque, potrebbero prendere Capitol, cavolo.

“Lo sono,” interviene Natasha. “Hanno paura di te.”

“E fanno bene,” dice Steve, stringendogli la spalla. Fa una smorfia, come se fosse sorpreso di ciò che sente sotto la mano. “Ragazzo, sei cambiato. E so che dev’essere… dura.”

“Chi se lo sarebbe aspettato?” chiede retorica Natasha, e c’è una punta di dolcezza nella sua voce che prima non c’era. “Ma ci siamo noi con te.”

“Tutti noi,” aggiunge Shuri, alzando gli occhi dal palmare.

“Cavolo, sì,” dice Riri, rivolgendogli un sorriso. “Te la cavi bene, Peter.”

Lui annuisce. Non sa se sappia effettivamente ciò che sta facendo, o se sia in grado controllare ciò che gli è stato donato, qualunque cosa sia, mentre è così sotto pressione. Non vuole che nessuno di loro rimanga ferito all’ultimo momento, quando sono così vicini a uscire. Non vuole ferirli per sbaglio. O rovinare tutto.

“Siamo con te,” dice Steve, lasciandolo andare.

Gli occhi di Peter scattano verso MJ. Non ha detto molto, e ciò lo preoccupa. Teme che lo veda in modo diverso, che ne sia troppo spaventata. Si guarda i piedi, e la intravede alzarsi. Gli passa le mani sulle spalle e lo attira a lei, abbracciandolo saldamente. È un gesto stranamente intimo, abbastanza da farlo arrossire per il fatto che lo stia stringendo così di fronte a tutti gli altri, ma la vita e la morte accelerano le cose. Ricambia la stretta, affondando le mani nei suoi capelli, e cerca di essere delicato, perché adesso nelle sue vene non scorre ciò che scorreva prima. E non vorrebbe mai farle male. Mai e poi mai.

Sente che gli posa un lungo bacio sulla guancia.

“Sono con te,” sussurra, con le labbra che gli sfiorano il lobo dell’orecchio. “Sono con te fino alla fine.”

Sente dei brividi che gli percorrono la spina dorsale e annuisce, tracciando la curva della sua schiena con una mano. Si scosta da lui e incontra i suoi occhi, ancora aggrappata alle sue spalle.

“Bene,” annuncia Riri. “Credo che abbiamo… concluso qualcosa, qui.”

MJ sorride, e si sposta al suo fianco.

“Ce le abbiamo,” dice Riri. “Insomma, ci aspettano.

“Ci aspettano?” chiede Natasha, avvicinandosi per guardare il palmare.

“Non riesco a farle venire fin qui,” dice Shuri, alzando lo sguardo e aggrottando le sopracciglia nell’incontrare lo sguardo guardingo di M’Baku. “È tutto bloccato, se proviamo a spingerci sotto al secondo livello di sicurezza. Ma ci aspettano. Sul tetto. Sono tre.”

“Basteranno,” dice Peter, e sa che, se non ci sono già arrivati, Capitol capirà che stanno cercando di fare qualcosa. Spera che Bruce li stia proteggendo.

C’è lo schianto sonoro di un fulmine all’esterno e, chissà perché, ne dubita.

“Tieni tu il palmare,” dice Peter, guardando Shuri. “Non vorrei romperlo.”

“Perfetto,” replica lei, e lo fa scivolare nella tasca del giacchetto.

“Quando sei pronto tu, Spider-Man,” dice Steve, rivolgendogli un cenno.

Ti voglio bene, tesoro. Ma non morirai. Non morirai.
Sii sempre te stesso, figliolo. A tutti i costi. Che tu sia qui sotto, o là sopra. Sii sempre te stesso.
Faccio il tifo per te, amico. Lo facciamo tutti. Ogni singolo giorno.
Avrebbero fatto di tutto per impedire che ti accadesse qualcosa. Eri la luce della loro vita.
Ma tu… Peter, tu per me sei come un figlio. So che lo sei. Ti amo come amerei un figlio, ragazzo, davvero, e mi dispiace. Mi dispiace così tanto.

E poi il modo in cui MJ lo sta guardando adesso, il suo respiro sul volto, il modo in cui lo stava stringendo solo un momento fa. Non sa cosa sia la pace, non l’ha mai veramente vissuta, neanche nei suoi primi giorni di vita. Ma queste persone, alcune perdute, alcune ancora qui, sono la ragione per cui deve andare avanti. È per loro. Non vuole che il loro affetto scompaia. Ha provato la morte, ha cercato di sfuggirle, di implorare pietà quando era nelle sue grinfie, e non vuole che quell’affetto si spenga assieme a lui. Non di nuovo. Non può trasformarlo in dolore. Non più. Deve vivere per loro.

“Va bene,” esala. “Andiamo.”

 
§

 
Il fuoco sta salendo.

Devono seminarlo, così come le nuove legioni di alieni, e le vedono mentre conquistano piano dopo piano, selvagge e inferocite e divorando tutto sul loro cammino. La tempesta continua a imperversare all’esterno nel buio pesto, e i fulmini illuminano tutto ogni volta che cadono lì vicino. Quando succede, Peter crede di sentir tremare la torre. La tempesta e il fuoco spazzano via tutti gli alieni sul loro percorso, erompono dalle finestre e li fanno fuori a mucchi interi, e non capisce se siano espedienti di Bruce o tentativi maldestri, disperati, di uccidere i Tributi rimanenti. È quasi certo che ormai non stiano più puntando ad avere un Vincitore, e siano solo impazienti di farla finita. Con una morte orribile.

Salgono inciampando ogni rampa di scale, sparando e pugnalando e spingendo gli alieni finché non gli fanno male le ossa. A volte corre in mezzo a loro, sbaragliandoli, e non riesce quasi a fermarsi quando comincia ad andare troppo veloce. Non trattiene i suoi colpi, non sa come farlo, e disintegra le loro facce, li trapassa a calci, sente le loro ossa che si spezzano. Cerca di ricordarsi che non sono reali, che sono stati creati per i Giochi, privi di pensieri o sentimenti, ma non gli piace quella sensazione, il poterli sopraffare così facilmente. Ha paura di come possa sembrare dall’esterno, per la sua famiglia. Non vuole che abbiano paura di lui allo stesso modo in cui lui ha paura di se stesso.

È la stessa routine, ripetuta all’infinito su ogni piano, e Peter continua a guardare in alto, oltre le ringhiere, per vedere quanto lontano debbano ancora andare. Potrebbe portarsi lassù con una ragnatela, senza sforzo, lo sa, ma non può lasciare indietro gli altri. Si assicura solo che MJ rimanga al suo fianco. Si assicura che gli stia vicino, e continua a contare.

Al diciottesimo piano il pavimento inizia a sbriciolarsi sotto i loro piedi mentre corrono, e Peter afferra MJ per il braccio, spingendola avanti. Il suo cuore salta dei battiti, perché, se dovessero cadere, cadrebbero tra le fiamme.

“Merda, merda,” impreca Riri, dietro di lui.

Sono vicinissimi alla rampa, così vicini, ma non abbastanza, e il pavimento continua a collassare mentre avanzano. Peter spinge MJ sopra le scale, sentendo gli schianti e gli alieni che strillano mentre il pavimento crolla su di loro e il fuoco li consuma vivi.

Ce la fanno tutti, e saltano sulla rampa di scale proprio quando il pavimento scompare… tranne Shuri. È rimasta un po’ troppo indietro, e Peter sente M’Baku esclamare alle sue spalle mentre cade, col suolo che si sbriciola sotto i suoi ultimi passi. Il fuoco continua a salire e sta arrivando, sta arrivando a ghermirla.

Peter si sta per sentire male, si sta per sentire male, cazzo, e deve fare qualcosa.

Si getta dal bordo delle scale, mezzo appeso nel vuoto, e spara una ragnatela col cuore in gola.

Si aggancia al suo polso e ne arresta bruscamente la caduta, e Peter vede il fuoco che divampa, inghiottendo l’orda di alieni sottostante mentre diventa più alto, sempre più alto. Lei sta ancora tenendo l’arma aliena con la mano libera, e lancia un’occhiata sotto di lei, respirando affannata.

“Tenetegli il piede!” grida Steve, e Peter sente tutti che gli saltano addosso, piantandolo saldamente sul posto.

Stringe i denti e strattona la ragnatela, issandola su più velocemente che può. Sente tutti che pregano silenziosamente dietro di lui, dei forza, forza sussurrati, e Shuri emette un lamento e alza lo sguardo, fissandolo con occhi folli di paura mentre lui continua a tirare e tirare. Finalmente lei arriva con le mani alle sue spalle, quasi colpendolo in testa con l’arma, e gli altri lo strattonano di peso all’indietro. Lui quasi cade mentre cerca di ritrovare l’equilibrio sulle scale, e le mani di tutti loro sono su loro due, a tenerli fermi sul posto.

Shuri si scosta, sembra che stia per dire qualcosa, ma M’Baku la tira verso di sé.

“Mai più, ragazzina,” dice, incalzandola verso le scale di fronte a lui. “Mai più.”

“Okay, okay,” mormora lei. “Grazie, Peter!”

“Uh-huh, uh-huh,” borbotta lui, facendo loro cenno di continuare ad avanzare. Il fuoco sta arrivando. È troppo vicino, maledizione. Non sa se si fermerà una volta arrivato al tetto. Lo spera, lo spera davvero. Deve aggrapparsi alla speranza.

Rimangono serratamente in gruppo dopo quell’incidente, e ci sono altri alieni ad aspettarli al piano successivo.

“Quanti diavolo di piani ha questo posto?” grida MJ, accucciandosi quando uno degli esseri tenta di colpirla.

Peter lo calcia via, buttandone giù altri tre nell’impeto.

“Troppi,” dice Misty. “Decisamente troppi.”

Peter sente il calore del fuoco che risale attraverso il pavimento, ed è preoccupato di sentirlo collassare di nuovo. Arrivano alla rampa successiva e alza lo sguardo e sembra che… sembra che ci sia solo un altro piano. “Ne manca uno!” grida, con voce acuta e tendente al panico, ma tinta da nuovo entusiasmo e nervosismo. “Ne manca uno, ne manca uno!”

Affretta subito il passo, ma cerca di non lasciarli troppo indietro. Va troppo veloce adesso, fin troppo veloce, e riesce a stento a porsi un freno. Salgono le scale pestando forte i piedi, rumorosi, e Peter scatta in avanti aggrappandosi al corrimano, pronto al combattimento.

Non c’è niente. Niente.

Una volta che tutti hanno superato le scale Peter si affaccia dalla balaustra e vede gli alieni che tentavano di inseguirli venire avvolti e consumati dalle fiamme. Indietreggia, barcollando, il cuore in gola, ma il fuoco… si ferma. Divampa furioso, proprio vicino alla cima delle scale. Ma non sale più in alto di così.

Le intere scale sprofondano del tutto, e il fuoco scompare alla vista mentre il pavimento collassa su se stesso, come se non ci fosse mai neanche stata una tromba delle scale. Peter respira affannato, fissando il punto ora vuoto, e non sa cosa diavolo significhi tutto questo.

“Spero che non ci servisse più nulla, là sotto,” commenta M’Baku.

“Ci siamo, guardate,” dice Steve. Peter si volta verso di lui e segue i suoi occhi. Vede una porta alla fine del pianerottolo. È etichettata ACCESSO AL TETTO. Le pareti sono composte da vetrate per tutto il perimetro, e al posto di piccole nicchie e corridoi, stanze a vetri e tutto ciò che simulava un posto reale, un edificio funzionale da qualche parte in un qualche mondo, l’ultimo piano è vuoto, come una delle tante, grosse fabbriche echeggianti e abbandonate alla periferia del Dodici. Gli ricorda tutto il tempo passato là dentro con Ned da bambino, accoccolati in una tenda di fortuna, a lanciare ululati e cinguettii per ascoltare il modo in cui quei versi rimbalzavano sulle pareti.

È così vicino a riunirsi alla sua famiglia. Così vicino che riesce a sentirlo.

Vede la tempesta che infuria all’esterno, coi fulmini che cadono tutt’intorno a loro, seguiti da tuoni. Peter pensa ancora di sentir ondeggiare la torre, e si chiede se, proprio alla fine, l’intero edificio non possa venir giù.

“Okay, proseguiamo… con più calma,” dice MJ, affannata, e stanno tutti ansimando e sbuffando allo stesso modo, quindi annuiscono in assenso. Anche Peter annuisce, anche se non è affatto a corto di fiato. Gli sembra quasi ingiusto.

È a quel punto che lo sente.

Piano, all’inizio. Lontano.

Il suo cuore accelera, e si sente allo scoperto. Solo. “Qualcun altro lo sente?” sussurra.

Pensa che dovrebbe correre. Qui c’è troppo pericolo perché il suo nuovo sistema d’allarme connesso a corpo e cervello possa funzionare a dovere, ma da quando si è risvegliato è sempre riuscito a localizzarlo… lo faceva muovere da un posto all’altro. Verso qualcuno in cerca d’aiuto, o lontano da un potenziale pericolo.

Qui sembra ovunque.

“Sentire cosa?” chiede MJ, al suo fianco.

“Non sento nulla…” Steve si interrompe. “Hai anche il super-udito, adesso? Oltre a tutto il resto.”

Peter non gli risponde, perché sta iniziando a distinguere le parole. La voce.

Peter!” grida May. “Peter… oddio, aiutami!” piange, ed è straziante.

Peter fa un piccolo, esitante passo in avanti, col cuore stretto in una morsa. Sa che non è reale, sa che non lo è. Non può esserlo.

“Lo sento,” dice MJ, prendendogli la mano. “Peter, non è–”

MJ, TI PREGO! TI PREGO, FERMALI–

MJ si ferma di colpo, col volto che si distorce. Era la voce di una bambina, e suppone sia sua sorella. La voce si mescola a quella di May, a mezz’aria, e aumentano entrambe di volume.

“Cercano di fermarci,” dice Natasha. “Di distrarci..:”

Tasha, ti prego, fermali. Ti prego, amore, ti prego, fa troppo male…

Anche Natasha sembra scossa, e scambia una rapida occhiata con Steve.

“Andiamo,” dice Peter. Le voci si fanno più forti, e altre iniziano a parlare, tutte intrise di dolore e sofferenza. Sembra che li stiano torturando. Stanno implorando aiuto. “Andiamo, andiamo.”

Non appena spiccano in una corsa, le voci esplodono: uomini, donne, bambini, che urlano, chiamano il nome dei loro cari, piangono in agonia.

Shuri, stai indietro, non toccarla…
M’Baku, ti prego, ti prego…
Misty, non respiro, non… riesco a muovermi…
Steve, aiutami. Dio, fa male.

Ogni voce è un coltello che gli scorre addosso, e anche il loro gruppo sta urlando, si contorce nel sentirle. C’è qualcosa di viscerale, in quelle voci, come se ogni volta che loro battono le palpebre vedessero ciò che accade dietro ai loro occhi, la tortura dei loro cari, con qualcosa che li fa a pezzi, qualcosa che invia loro scosse elettriche, qualcosa, un qualcosa di avvolto nell’ombra che li strangola a morte.

Le urla non fanno che aumentare di volume mentre corrono, e Peter sente la voce di May, quella di Ned, quella di Tony, ed è straziante, è un dolore straziante. Si tappa le orecchie, premendo con forza la base dei palmi per cercare di soffocarle, e grida a pieni polmoni, tutto, tutto pur di fermarle, di fermare le voci, la loro sofferenza, e sembra così maledettamente reale. Peter sta per vomitare, per collassare, perché stanno facendo loro del male, li stanno torturando, cazzo, lo sa, lo intuisce, lo sente, in ogni momento lancinante…

Aveva intenzione di staccare le mani dalle orecchie una volta raggiunta la porta, ne aveva davvero intenzione, invece si getta in avanti e le sfonda d’impeto, inciampando in una stanza più piccola con una tortuosa scala a chiocciola.

Impatta contro il muro, con la porta che cade a terra dietro di lui, ammaccata al centro nel punto in cui l’ha caricata. Le urla minacciano di seguirli, e Peter fa cenno a tutti di avvicinarsi a lui, raggruppandosi contro il muro, scossi da sussulti. Tony grida in preda all’agonia, e Peter si precipita su per le scale dietro Steve, sperando di fuggire via. Deve solo andare via.

Salgono tutti pesantemente le scale, che sono brevi, arrugginite e scivolose: tutto cerca di ferirli proprio qui, alla fine. Natasha esce per prima dalla porta sul tetto, e la seguono tutti rapidamente. Una volta fuori, nell’oscurità, nella notte, Peter sbatte la porta dietro di sé tagliando fuori le voci.

Finalmente riesce a respirare. Si china in avanti, con le mani sulle ginocchia.

“Cristo,” dice Riri. “Non riuscirò… mai a smettere di sentirle.”

La sente ansimare, e poi trattenere il fiato. Alza lo sguardo, e la vede fissare le tre armature: fluttuano lì, in loro attesa.

Peter realizza. Realizza dov’è. Dove sono tutti loro. Guarda in alto e vede il campo di forza da dove gli alieni continuano a uscire, ma non più a schiere, solo in gruppi sparuti. Il campo di forza stesso si estende dallo squarcio nel cielo, terminando proprio sopra le loro teste. Forse a una decina di metri da loro. Osserva gli alieni che seguono quella linea verde e tremolante, per lui così ovvia perché sa dove trovarla, e si distaccano da essa nel punto in cui finisce, allontanandosi poi in volo. È come se fosse evidenziata a colori sgargianti. È larga quanto lo squarcio, con campi di forza a delimitarne la circonferenza [3]. Eccola. Ecco la loro via d’uscita.

Peter si guarda intorno. Non c’è nessuno di quegli esseri qua sopra; ci sono poche luci di segnalazioni blu e lampeggianti all’estremità del tetto, che sono davvero d’aiuto nel buio. Si sposta verso il bordo e si sporge dalla balaustra: il fuoco è alto, arriva esattamente fino al punto in cui si era fermato all’interno. Sta bruciando il mondo intero. Non ci sono stelle sopra di loro, solo fulmini ramificati, nuvole minacciose e il crepuscolo grigio-violaceo dello squarcio che lo distingue dal cielo stesso.

Un fulmine cade poco lontano, e il tuono rimbomba nefasto.

L’inno di Capitol risuona, facendolo sobbalzare, e il loro simbolo appare nel cielo.

“Aspetta un attimo,” dice MJ, avvicinandosi a lui e intrecciando le dita alle sue. “Aspetta. Aspetta. Sarai… sarai lassù?” chiede, con la voce che trema. “Perché non ce la faccio. Non ce la faccio a vederti.”

“Sono qui,” sussurra lui, stringendole la mano. “Okay? Non importa.”

MJ scuote la testa, respirando più forte, e il gruppo si avvicina quando un’altra saetta cade, stavolta più vicina alla torre. Peter si prepara al peggio; non sa se vedrà o meno il proprio volto, e ricorda com’è stato vedere la propria tomba nell’illusione di Beck. Forse sarà la stessa cosa.

Invece dei volti dei Tributi caduti, quello di Stane viene proiettato nel cielo.

Peter si sente strappare l’aria dai polmoni.

“Ma salve, miei ultimi Tributi,” dice Stane, sorridendo ampiamente e inclinando la testa verso di loro. “Siete arrivati fin qui e ne avete passate tante. Alcuni più di altri.”

Sembra guardare direttamente Peter, e ha negli occhi quello stesso brillio che aveva nell’ufficio. Peter si sente trasportare a quel momento, solo che stavolta non è protetto. Non ha Tony a fargli da scudo.

“Le alleanze di solito non durano così a lungo,” dice Stane, scuotendo la testa, e dallo sfondo sembra essere ancora nella sua residenza. Non nei quartier generali dell’arena. Quindi dovrebbero essere al sicuro. Potrebbe non sapere ancora nulla. Potrebbe non saperlo. “Ma il fuoco sta lentamente crescendo,” continua Stane. “Molto più lentamente, adesso, rispetto a poco fa. È straziante, vero? Potrebbe uccidere tutti. Tutti possono bruciare vivi.”

Peter sposta lo sguardo e incontra quello di Steve. Sembra guardingo. Tutto questo non ha precedenti, lo sanno entrambi. Ma molte cose in questi Giochi non hanno precedenti.

“Io l’ho visto da vicino,” dice Stane, annuendo tra sé. “Di recente. Appena pochi minuti fa, in effetti. I vostri cari Mentori. Sì, li abbiamo radunati tutti, abbiamo liberato le fiamme, ed è stato… beh, il fetore, è stato… particolarmente sgradevole. Particolarmente sgradevole.”

Peter sente freddo e barcolla, col cuore che gli schizza in gola. Si deconcentra, non– non riesce più a guardarlo. Non può ascoltare ciò che sta dicendo. Non se dice queste cose.

“Tony ha urlato più di tutti, signor Parker,” continua Stane. “Pensavo che dovessi saperlo. Ha sofferto più di tutti, di tutti loro. Janet, lei ha quasi… ha quasi accolto la cosa di buon grado, ma Thor e Carol hanno lottato a lungo. C’era da aspettarselo.”

Peter quasi ha un conato e sta tremando, battendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Il suo cervello imposta il pilota automatico, e non può sentire un’altra parola, non una di più. Si sposta deciso verso Shuri, incontra i suoi occhi e vede il dolore che li rende lucidi.

“Shuri,” gracida. “Posso avere quell’affare? Quella specie di arma aliena?”

Lei apre la bocca ma non dice nulla, e abbassa lo sguardo su di essa come se si fosse dimenticata di stringerla così forte. Gliela porge e lui la prende, rivolgendole un cenno. Ronza, pulsante di energia.

Un’altra serie di fulmini manda scintille, saettando attraverso il volto di Stane.

“Quindi, per chiunque di voi tornerà indietro,” dice Stane. “Sarà in un mondo nuovo. Una nuova generazione di Vincitori…”

Continua a parlare, ma Peter non lo sente. La propria rabbia gli urla contro, assordandogli le orecchie con scariche statiche. Si posiziona sul bordo del tetto, e riesce a vedere il fuoco. Sente le fiamme, e immagina ciò che ha detto Stane. Sta mentendo per forza. Sta mentendo per forza.

Cade un altro fulmine.

Peter prende la mira con l’arma, e osserva le scintille e l’energia che emana dall’estremità appuntita. Carica il braccio all’indietro, mettendoci tutto se stesso, tutta la sua nuova forza e volontà, e scaglia l’arma verso il cielo. Non sa fino a dove arrivi la cupola dal punto in cui sono, ma sono molto in alto, quindi dovrebbero essere abbastanza vicini.

Un istante dopo la colpisce, proprio mentre un’altra nuvola si sprigiona in mezzo a due fasci di fulmini. L’arma è carica di elettricità, e quando fa contatto con la cupola esplode, un ordigno potente, rumoroso e troppo accecante che li fa tutti indietreggiare, schermandosi gli occhi. Il volto di Stane si oscura e Peter sente il suono di quello che sembra un calo di potenza, ovunque, dappertutto. Riporta gli occhi allo squarcio e quello rimane aperto, ma il campo di forza sussulta. Non arrivano altri alieni. Quelli che stavano ancora volando qua e là puntano verso il basso, rimbalzando tra loro ed esplodendo poi nel fuoco sottostante. La cupola ronza d’elettricità nel punto in cui l’ha colpita, rivelando una griglia incurvata che si mostra per un istante prima di essere di nuovo velata dal cielo.

“Cristo santo,” esclama Steve. “Credo che tu gli abbia messo fuori uso la rete.”

“Non pensavo l’avresti colpita,” dice M’Baku, fissando il cielo a bocca aperta. “Non… beh, avrei dovuto saperlo. Sei Spider-Man.”

Peter respira forte, scacciando via le lacrime.

“Abbiamo ancora le armature,” dice Riri, indicandole. “Ci sono ancora, volano ancora.”

“Peter, stava mentendo,” dice Steve. “Stava mentendo.”

“Credo che le telecamere siano fuori gioco,” osserva Natasha. “Non penso possano vederci.”

“Come fai a saperlo?” chiede Misty.

La loro conversazione scema nelle orecchie di Peter come il monologo di Stane poco fa, e ha le vertigini, si sente sul punto di svenire. Continua a figurarsi Tony che brucia. Colto da un dolore orribile. Si piega di nuovo in due, puntando le mani sulle ginocchia.

“Peter,” lo chiama MJ. È vicino a lui, al suo fianco, e Steve è dal lato opposto, una mano sulla sua spalla.

“Sta mentendo,” dice di nuovo Steve. “Sta cercando di spezzarci, proprio alla fine. Non sapeva del nostro piano, pensa che ci rivolteremo l’uno contro l’altro adesso. Sta cercando di farci impazzire. Ma noi non cederemo, giusto? Non glielo permetteremo.”

“Non parlare… del piano ad alta voce,” esala Peter, strizzando con forza gli occhi.

“La rete è fuori uso, Peter,” lo richiama Shuri. “Lo vedo dal palmare. Tutte le telecamere sono spente. La cupola è debole, dobbiamo– dobbiamo andare adesso, finché ne abbiamo la possibilità.”

“Non è morto,” sussurra MJ. “Non è morto. Nessuno di loro lo è. Vuole solo spaventarci, ma non può spaventarci, giusto?”

Peter deglutisce a forza, cercando di rimettersi in moto. Continua a cadere in quei brutti momenti: la Mietitura, l’ufficio di Stane, quella stanza coi ragni. Il panico tenta di piazzarlo là dentro, cerca di paralizzarlo. Ma cerca di ascoltare MJ e Steve. Tony non è morto. Non è morto.

C’è un brontolio che non ha nulla a che fare con la tempesta. Guardano tutti verso l’alto: sembra uno schianto, dall’alto. Schianti, schianti, schianti.

“Credo siano loro,” dice Natasha. “Noi. I nostri. Dobbiamo andare. Dobbiamo arrivare lassù.”

MJ sfrega la mano sulla schiena di Peter, rapida, e lui annuisce tra sé. Non è morto, non è morto, non è morto.

“Va bene,” dice, raddrizzandosi e ignorando il modo forsennato in cui batte il proprio cuore. “Uh, Shuri, Riri, potete… fornire alle armature delle rotte? Potete dire loro di dirigersi lassù?”

“Penso di sì,” dice Riri, e lei e Shuri si chinano di nuovo sul palmare. “Sì, ecco… ci siamo. Bene, bene. Ce l’abbiamo fatta.”

Peter guarda in alto. I campi di forza sono ancora potenti, e Peter ne segue il profilo fino allo squarcio. Non ha idea di cosa ci sia lassù, una volta che lo attraverseranno. Ma Bruce sa quello che sta facendo. Peter deve crederci.

 C’è un altro schianto che scuote l’intera cupola.

“Io vado per primo, con le ragnatele, e porto MJ,” dice Peter. “Voi mi seguite una volta che sarò in mezzo ai campi di forza.

Non sa come prepararsi a tutto questo. Non sa come compiere questi passi finali, ai quali hanno agognato sin dal momento in cui sono usciti da quei tubi.

Pensa a Ben. Tutti quegli anni in cui c’è stato. Era incrollabile, lo supportava, non aveva mai, mai smesso di credere in lui. Non importa cosa stesse cercando di fare. Non importa chi stesse cercando di essere.

Chi sei tu, figliolo? Chi sei tu?! Sei Peter Parker, ecco chi sei! I Parker possono fare qualsiasi cosa. Tu puoi fare tutto ciò che ti metti in testa di fare.

Tocca la sua spilla di Iron Man e cerca di trovare un po’ di forza.

“Va bene,” sussurra, cercando di placare il proprio cuore. “Okay, okay. MJ?”

“Sono qui,” risponde lei, vicina a lui.

Lui le cinge la vita col braccio e la attira a sé, sperando contro ogni buonsenso di riuscire a mantenere la presa mentre salgono. “Reggiti a me,” dice, facendole un cenno. “Più forte che puoi.”

“Va bene,” dice lei, gli occhi enormi, comprimendo le labbra in una linea sottile.

Lancia un’occhiata verso gli altri, e Riri impartisce dei comandi alle armature tramite il palmare per farle scendere più vicine.

“Sono davvero contenta che la rete sia fuori uso e che Tony non stia guardando,” commenta, entrando in una delle armature più snelle, che si chiude attorno a lei. “Non è esattamente il modo in cui volevo farmi notare da lui.”

Parla di lui come se fosse vivo. Perché lo è. Perché lo è.

Peter sente il proprio cuore pulsare e alza lo sguardo, posizionandosi proprio sotto lo squarcio nel cielo, in linea coi campi di forza. Estende la mano destra, gettandosi una breve occhiata alle spalle per vedere gli altri che si aggrappano alle armature, con Riri e Shuri che si passano il palmare avanti e indietro, impartendo gli ultimi comandi.

Peter si concentra. Prende la mira. Spara una ragnatela, salta in corsa e issa lui e MJ verso l’alto, e per un momento terrificante pensa che non ce la farà, che non siano abbastanza vicini, che la ragnatela si spezzerà, che cadranno e cadranno finché il fuoco non li azzannerà. Poi sente la voce di Ben nelle orecchie, e di Tony, di May, di Ned, sente la stretta colma di fiducia di MJ sulle sue spalle, e si spinge più lontano di quanto avrebbe mai creduto possibile. Ritrae le gambe e trascina entrambi lassù, finché non fa presa direttamente su una delle pareti interne del campo di forza. Respira a fatica, e temeva di ricevere una scossa, non ha avuto davvero il tempo di prenderlo in considerazione, ma non succede nulla: è solo come toccare uno strano muro invisibile. Ci ha pensato Bruce.

È sospeso in mezzo al cielo. La notte lo circonda.

“Oddio,” esala MJ, aggrappandosi a lui.

“Va tutto bene, va tutto bene,” dice lui, cercando di calmare lei e se stesso. “Ti tengo, ti tengo.”

Spara un’altra ragnatela, stavolta un po’ più in alto e sull’altro lato, e supera il vuoto, issandosi più in alto. Si attacca anche lì. Guarda oltre la propria spalla, col fiato corto, e vede gli altri avvicinarsi con le armature, lenti ma costanti: Nat e Steve sono sorretti dalle braccia di quella più massiccia, M’Baku; Shuri ha addosso quella rosso-oro che lo stava inseguendo prima, e Misty e Riry ne hanno una dorata, con le braccia allungate.

Peter cerca di concentrarsi e si sente folle, fuori posto, come se non fosse davvero dentro al proprio corpo in questo momento, come se non fosse lui, se non fosse qui. Guarda verso le fauci spalancate nel cielo e il loro interno è profondo e buio. Ha paura. Ha paura di fendere quell’oscurità, di permetterle di toccarlo, perché questo potrebbe ancora essere un trucco. Potrebbero ancora fallire.

Ma è tutto ciò che hanno. E quegli schianti… li sente ancora. Forti, ripetuti, sopra di loro. Si stanno avvicinando. Sono loro. Le persone che li tireranno fuori.

Aumenta la stretta sulla vita di MJ e si arrampica carponi sulla parete del campo di forza più agilmente che più. È snervante, tutto quel buio attorno a lui, il modo in cui è praticamente appeso a mezz’aria. Si concentra sulle increspature, sulle chiazze verdi, ricorda Tony che gli insegnava tutto sui campi di forza e cerca di tornare a quel momento, cerca di alimentarlo.

Spara un’altra ragnatela verso il lato opposto e prosegue là sopra. Ha così tanta paura, è così spaventato, e riesce a malapena a respirare. Deve essere forte per MJ. Non può mostrarsi così. Si chiede cosa succederebbe se scagliasse una ragnatela direttamente nello squarcio nel cielo, dove andrebbe a finire, su cosa si attaccherebbe. Gli sembra di proseguire all’infinito, e cerca di prendere un ritmo, ondeggiando avanti e indietro, avanti e indietro, finché non sente le mani di MJ che gli affondano con più forza nelle spalle.

“Stai bene?” le chiede, fermandosi un istante sul campo di forza di sinistra. Si guarda di nuovo indietro, e gli altri sei li stanno ancora seguendo.

“Siamo vicini?” chiede lei, premendo la fronte contro la sua tempia.

Lui alza ancora lo sguardo, e ogni volta che lo fa la gravità sembra colpirlo, lo distrae, gli fa quasi mollare la presa. Nuvole temporalesche li circondano, e i bordi dello squarcio nel cielo brillano violacei, con dei viticci che si agitano dentro e fuori dalla sua circonferenza. Peter ha un brivido.

“Sì,” dice, anche se non può davvero dirlo. Non vuole spaventarla.

Il suo cuore trema, salta dei battiti, e spara altre ragnatele sul lato su cui sono ora, arrampicandosi come fosse su una scala. Il suo stivale sinistro scivola e lui sobbalza appena, scivolando; MJ lancia uno strillo, affondando il volto nella sua spalla.

“Merda, merda,” bofonchia Peter, riprendendo la presa. “Scusa, scusa. Posso attaccarmi attraverso le scarpe, ma ogni tanto è difettoso.”

“Non fa niente,” dice lei, ma non alza lo sguardo. “Sali e basta.”

“Penso che ci siamo quasi!” grida Shuri, vicina dietro di loro. “Continuate.”

Gli schianti scuotono tutto il mondo, adesso, e lo squarcio diventa sempre più grande man mano che si avvicinano. Peter è più forte, più veloce, diverso, ma le gambe e le braccia sono sotto sforzo, e non è abituato ad attaccarsi a questa roba, quindi continua a farsi venire dubbi. Sono a circa una decina di metri dallo squarcio, adesso, e sente le armature che fluttuano vicine dietro di loro.


Peter?” lo chiama Steve.

Peter non risponde. Punta solo uno spara-ragnatele verso lo squarcio e lascia partire la ragnatela. Espira forte dalla bocca mentre la segue con lo sguardo, poi la sente tendersi. Fare presa.

“Reggiti,” sussurra. “Devo lasciarti andare. Tieniti con braccia e gambe. Non lasciarmi.”

“Oddio,” geme MJ.

Aumenta la presa, allacciando le gambe al suo busto. Peter si dà la spinta contro il campo di forza, portandoli a fluttuare là a mezz’aria, sorretti solo dalla singola ragnatela alla quale è aggrappato. Lascia andare MJ esitando, quando è sicuro che non cadrà, si tende con l’altra mano e inizia a issarsi verso l’alto. Non ha abbastanza spazio per prendere lo slancio verso l’alto, col campo di forza così strutturato, e tira e tira, come faceva con quelle funi a educazione fisica, troppo tempo fa. Una mano dopo l’altra, una mano dopo l’altra.

L’oscurità dello squarcio si chiude su di loro, e ha l’impressione di sentire uno scroscio, a tempo coi costanti schianti sopra di loro. Risucchia un respiro mentre si avvicinano, sempre più, e chiude gli occhi quando si addentrano nello squarcio, avanzando proprio attraverso esso. Non sa cosa si fosse aspettato, se un vuoto denso, o di vedere il mondo capovolgersi, ma li inghiotte, e poi… sale su qualcosa di diverso.

Apre gli occhi e se ne pente subito per via di tutta quella luce, tutto quel bianco. Sembra il sottotetto di un grosso magazzino, e la ragnatela in sé è attaccata alla cima incurvata della cupola. C’è un altro forte colpo da sopra che li scuote attraverso la fune, così li fa salire un altro po’, oscillando in avanti così da poggiare i piedi su un pavimento di linoleum solido.

“Cavolo,” commenta, stringendo di nuovo MJ, che è ancora in posizione fetale, abbracciata a lui.

“Siamo a terra?” chiede. “Siamo–”

C’è un altro forte schianto da sopra, e quando guarda in alto vede che la cupola si sta spaccando. Spera davvero che Natasha abbia ragione, e che quelli lassù siano i buoni. “Ci siamo,” mormora, sfiorandole il fianco. Lei si stacca rapida, strofinandosi gli occhi, e lui non ha il tempo di assicurarsi che stia bene come vorrebbe fare. Muove un paio di passi verso il bordo dello squarcio, giusto in tempo per vedere l’armatura che trasporta Misty e Riri sfrecciare attraverso l’apertura.

Vola verso l’alto e impatta contro la cima della cupola, ed entrambe cadono atterrando duramente. Peter e MJ si affrettano verso di loro, ed entrambe le donne alzano incredule lo sguardo, stordite dal bagliore improvviso.

“Ma che diavolo?” dice Misty, guardandosi intorno.

“Le aiuto io,” dice MJ, toccandogli il braccio.” “Vai là e assicurati che gli altri stiano arrivando.”

“Va bene,” esala Peter, lanciando un’occhiata all’armatura di Iron Man che ancora fluttua sopra di loro.

Da sopra arriva un altro schianto e una trave cede, abbattendosi a pochi metri da loro. Peter barcolla sotto l’onda d’urto, e quasi ricade all’indietro in quel maledetto buco. Shuri e M’Baku arrivano subito dopo, e il loro atterraggio va un po’ meglio: solo M’Baku cade, e Shuri riesce ad atterrare aggraziatamente mentre la seconda armatura si unisce alla prima. Peter le osserva, temendo che si rivoltino di nuovo contro di loro.

Steve e Nat sono più indietro e Peter rimane in attesa, respirando agitato dalla bocca. Un altro forte schianto, e altre tre travi cadono, con la frattura nella cupola che si espande.

Non appena fanno capolino, Peter vede con orrore le luci sull’armatura di Steve e Nat che si spengono, mentre l’intero congegno perde potenza. Iniziano a cadere mentre quella sbanda verso il basso, lontano da loro, e Peter si getta verso il bordo dello squarcio, lanciando una ragnatela da ciascuna mano. Nat afferra la propria, ma la seconda sfugge alle dita di Steve e Peter ne lancia rapido un’altra, col cuore che sprofonda. C’è un altro colpo contro la cupola e identifica il suono: un elivelivolo. E degli spari.

La seconda ragnatela si aggancia al petto di Steve, arrestando bruscamente la sua caduta.

“Tenetelo per il piede, come prima!” grida MJ.

“Tiriamolo indietro,” dice M’Baku, e Peter digrigna i denti, tirando e tirando per trascinare su Steve e Natasha. Sente M’Baku, MJ, Misty e Riri attaccati addosso, e lo issano in piedi, lanciando sbuffi e imprecazioni come un sol uomo. A Peter tremano le braccia mentre lo sollevano e lo traggono all’indietro, sempre più lontano mentre lui continua a tirare.

Finalmente, finalmente Steve e Natasha sbucano fuori, aggrappandosi al bordo dello squarcio proprio mentre c’è un altro violento schianto da sopra.

Quelli sono decisamente degli spari, e il rumore del motore di un elivelivolo.

Tutti si affrettano verso Steve e Natasha, strattonandoli lontano dal buco.

“Scusaci,” dice Steve, col fiatone.

“Fa niente,” replica Peter, strappando la ragnatela dal suo petto.

È a quel punto che la cima della cupola va in frantumi, spaccandosi in due. Cercano tutti riparo raggruppandosi assieme mentre le travi rimanenti si abbattono a terra, con parte della cupola stessa che viene tirata giù e atterra con rumore sordo. Là fuori c’è un elivelivolo, e la porta della rampa d’accesso si apre di scatto. Qualcun altro sta senza dubbio sparando contro l’elivelivolo, e loro stanno rispondendo al fuoco, mentre entrano a fatica nell’apertura che hanno creato.

Peter sa che sono qui per salvarli. Se non lo fossero lo percepirebbe, e poi li avrebbero già spediti all’inferno. Batte le palpebre guardando in alto, chiedendosi quanto siano lontani: non molto, sa che potrebbe coprire la distanza con un balzo, ma non il resto di loro.

Smette totalmente di pensare quando, cazzo, Bucky Barnes sporge la testa dall’apertura e lancia giù una corda.

Pensa di stare avendo le allucinazioni, e tutti rimangono con lo sguardo fisso nel vuoto. Bucky è morto. Bucky è morto, l’hanno tutti visto morire. L’intero paese l’ha visto morire. Lui grida qualcosa ma non riescono a sentirlo oltre il rumore dei rotori e degli spari. Ha ancora il braccio di metallo e fa loro dei cenni con esso, intimando loro di avvicinarsi, e Peter crede di svenire. Ha visto quel braccio nell’ufficio di Stane, ma–  lui– è proprio qui…

Peter era morto. Sa di esserlo stato. Quindi qualcosa… sta accadendo. C’è una ragione per tutto questo. Per tutto.

Cerca di tornare in sé.

“Andate!” grida, spingendo avanti il gruppo. Farà salire prima loro. Poi andrà lui, quando saranno tutti al sicuro.

Gli spari rimbombano nel sottotetto, con l’elivelivolo che spara di rimando, da un punto che non riescono a vedere. L’intera struttura trema. L’elivelivolo carica a tutta a forza l’apertura che ha creato nella cupola, cercando di allargarla, e il loro gruppo avanza. Shuri va per prima, attaccandosi alla corda, e Bucky la porta in salvo, rapido ed efficiente. Riri è la successiva, poi Misty, e ripetono il processo finché non rimangono solo MJ e Peter.

“Vai,” dice lui, una mano alla base della sua schiena, spingendola in avanti. È infastidito dal fatto che abbia aspettato così tanto, anche se per rimanere con lui.

Lei increspa le sopracciglia nel guardarlo, con occhi preoccupati, e le dà un’altra leggera spinta. Si aggrappa alla corda ora di nuovo abbassata e Peter rimane a guardare mentre Bucky la tira su come tutti gli altri.

Peter sta per lanciare una ragnatela e salire lassù per conto suo, quando qualcosa colpisce violentemente l’elivelivolo, spingendolo più a fondo nella frattura e scuotendo l’intera cupola. Peter barcolla all’indietro, due passi di troppo, e prima di rendersene conto sta cadendo all’indietro, dritto nello squarcio nel cielo.

Non ha ancora mai provato una tale paura prima d’ora, e il terrore ha la meglio per un istante di troppo: si lascia cadere, precipitando a peso morto attraverso l’oscurità, diretto verso quel mondo in tempesta da cui sta cercando così disperatamente di fuggire. Poi ritrova il proprio centro, espirando forte dalla bocca, e lancia una ragnatela, mirando alla rampa dell’elivelivolo, che si allontana di secondo in secondo. La guarda fendere l’aria al rallentatore, non è sicuro che farà presa, non ha mirato bene, non ce la farà…

Tony esce di corsa dal velivolo, si getta in avanti e afferra la ragnatela prima che manchi il bersaglio. Quella si tende e Peter vi si aggrappa con tutte le sue forze, con puro sollievo ed esaltazione che lo attraversano perché Tony è qui, Tony è vivo, e tutti gli altri si aggrappano a lui mentre tira Peter verso la salvezza. Lui chiude gli occhi per un solo istante, lasciandosi sopraffare, con due lacrime gli solcano le guance mentre risucchia un respiro tremante, e quando li riapre Tony è davvero lì. È lì, è lì, è ancora lì. Lo sta salvando.

Peter si issa verso l’alto per aiutarli, scalando la ragnatela mentre lo tirano su, e Tony allunga la mano libera verso di lui quando si avvicina. Peter fa lo stesso, e c’è quasi, c’è quasi, è a pochi centimetri dal bordo della rampa…

Un’esplosione li colpisce, fuoco, calcinacci e parti di cupola cadono ovunque e l’elivelivolo si inclina, virando pericolosamente.

Peter cerca di mantenere la presa e riesce appena a sfiorare le dita di Tony con le proprie prima che qualcosa lo colpisca in testa. L’oscurità lo avvolge.

 
§

 
Si sveglia nel silenzio. Qualcuno parla sottovoce. Una mano stringe la sua. Non vuole ancora aprire gli occhi, perché gli pulsa la testa e anche il più piccolo barlume di luce è troppo, è un fuoco accecante. Ha visto abbastanza fuoco per una vita intera. Non vuole mai più vederlo.

Geme, sussultando. Gli fa male tutto, cazzo, specialmente la testa e il braccio. E non ha idea di dove sia.

“Peter,” dice MJ, e gli stringe più forte la mano. La sente mentre gli tocca il volto, facendo aderire il palmo alla guancia. È bello. Non ha mai davvero vissuto momenti come questo, e si chiede cosa arriverà a rovinarlo adesso.

“Bucky è davvero vivo?” gracchia, arricciando il naso. “O sono di nuovo morto?”

“È vivo,” dice lei. “Siamo con lui e con, uh, altri tre uomini, dal Distretto Tredici. Stiamo andando lì, ma abbiamo dovuto fare il giro lungo, così Capitol non può… mettere fuori uso il sistema di schermatura dai suoi avamposti nei Distretti. Siamo sull’oceano adesso, non so… non so quanto ci metteremo. Ci hanno tolto i localizzatori dal braccio. Siamo scappati, Peter. Siamo scappati dall’arena.”

Lui apre gli occhi.

Sono… sono sull’elivelivolo. È tutto di metallo solido, senza finestre, come il primo che ha visto, ma sembra un modello più avanzato, più spazioso di quello che l’ha portato nell’arena.

Il suo cuore si fa freddo e si guarda intorno. MJ, accanto a lui, che gli stringe la mano pettinandogli gentilmente indietro i capelli. Natasha, Misty e Riri, su una brandina a qualche metro da loro. Steve e M’Baku, seduti su due sedili attaccati alla parete. Shuri, con un palmare, seduta vicino alla porta sulla parete di fronte.

Manca qualcuno.

“Dov’è Tony?” chiede Peter, facendo una smorfia nel tirarsi su.

MJ sembra nervosa.

“MJ, dov’è Tony?” chiede di nuovo, alzando troppo la voce. Sa che era qui. Sa che c’era. Lo stava salvando, era lì per portarlo fuori.

Peter si guarda intorno quando MJ non risponde, e si mette di scatto in piedi. C’è un bendaggio bianco attorno al suo braccio, e lo strofina sovrappensiero. Il suo localizzatore. L’hanno estratto. Bucky è vivo. Dov’è Tony?

“Peter,” lo chiama Shuri, mettendo da parte il palmare e alzandosi in piedi. “Lui… nell’esplosione…”

Gli occhi di Peter si riempiono istantaneamente di lacrime e scuote la testa. “Dov’è?” chiede. “Dov’è?”

“È vivo,” dice Steve, alzandosi a sua volta. “È vivo, solo che…”

“Solo che cosa?” chiede Peter, a malapena in grado di aggrapparsi a quel è vivo se c’è qualche riserva in merito, e si guarda intorno forsennato, mentre loro lo scrutano con incomprensibile compassione.

MJ lo sfiora di nuovo e lui sobbalza, ma lei gli prende comunque la mano. “Qui dentro,” dice, piano, e lo guida verso la porta più lontana. Sente il cuore che gli martella contro le costole, puro panico, e deve chinarsi un poco per entrare. MJ non lo segue, e il mondo si restringe attorno a lui quando vede cos’ha davanti.

Tony è steso su una brandina, gli occhi chiusi, e ha qualcosa… nel petto. Piccolo, circolare, collegato a quella che sembra una grossa batteria poggiata su un tavolino accanto a lui. Ci sono stracci su stracci intrisi di sangue in un cestino lì accanto, quasi straripante. C’è un medico, lì, una donna alta e dall’aria elegante che si gira sentendolo entrare, e il suo volto si ammorbidisce subito quando vede chi è, come se l’avessero avvertita della reazione che avrebbe avuto.

“Peter,” dice, pacata.

“Cosa– cosa è successo?” chiede lui, e suona come un bambino. Ha paura ad avvicinarsi, ma gli si accosta comunque. C’è un vero e proprio buco nel petto di Tony, dove è infisso quell’aggeggio rotondo. Un buco. Nel suo petto. Peter si sente avvizzire. Come se si fosse rotto dentro. Non può accadere. Non a Tony. Non può sopportarlo.

“Nell’esplosione,” esordisce la donna, “Tony è stato colpito. C’erano molte schegge, ne ho rimosse il più possibile, ma ce ne sono ancora molte, e puntano al suo setto atriale. Quello che ho fatto qui… questo è un elettromagnete, collegato a una batteria per auto. Impedisce alle schegge di perforargli il cuore. È tutto ciò che ho potuto approntare in così poco tempo, ma quando saremo nel Tredici riusciremo a gestire meglio la situazione. Te lo prometto.”

Peter risucchia un respiro tremolante e annuisce, con la gola stretta e dolorante. Ha l’impressione che ci sia troppo buio ai margini della sua visuale, che cerca di affondare gli artigli dentro di lui. C’è una sedia accanto alla brandina e la avvicina, ascoltando il modo in cui si trascina sul pavimento di metallo. Si siede, prende una mano di Tony tra le sue e desidera con tutto se stesso che si svegli. Vuole che si metta a sedere, adesso. Che dica qualcosa. Che lo stringa a sé. Che gli urli contro, che lo sgridi, qualunque cosa. Qualunque cosa piuttosto che vederlo disteso lì, come è adesso.

Peter chiude gli occhi, poggiando la fronte sulle sue nocche.

Sa che Tony è rimasto ferito mentre lo traeva in salvo sull’elivelivolo. Lo sa. Questo è colpa sua. Loro due sono stati investiti dall’esplosione – dalle esplosioni, perché probabilmente ce ne sono state altre – ma Peter adesso ha dei poteri. È… diverso. Si è fatto a malapena un graffio. Tony deve esserne stato consapevole. Deve averlo visto, nell’arena. Eppure, in ogni caso, ha comunque messo a rischio la propria vita per lui. Si è messo in pericolo. E adesso è qui.

La sua mente si sta muovendo alla velocità della luce, ha troppe cose a cui pensare, troppe da risolvere.

Tony è ferito, è gravemente ferito, cazzo, e non è sveglio. Non si sveglia.

Se loro sono fuggiti, sono tutti in pericolo.

Tutti.

I Distretti… le loro famiglie. May, Ned. Tutti quelli nel Dodici.

Cosa farà Stane? Chiaramente sa che sono evasi, considerando quelle maledette esplosioni e quel contrattacco. Sarà in grado di rintracciarli? Riuscirà a sopraffare di nuovo il Tredici? Cosa farà quando metterà le mani su di loro? Gli taglierà la testa mentre è ancora vivo? Torturerà prima gli altri, costringendolo a guardare?

La paura lo annega.

Sente qualcuno avvicinarsi alle sue spalle, e sa che non è il medico. Sa che è MJ, lo sa dal modo in cui si muove. Gli accarezza il profilo delle spalle, e ciò gli fa di nuovo salire le lacrime agli occhi. Qualunque cosa potrebbe farlo crollare.

“Ehi,” dice, con voce sul punto di rompersi, e non la guarda. “Uh, sai se… le nostre famiglie, uh… sai se– qualcuno, uh…”

“Janet è partita con una squadra diretta al Dodici,” risponde MJ. “Alcuni sono andati negli altri Distretti, ma Bucky ha detto che hanno… che hanno perso contatto con loro prima di recuperarci. Quindi dovremo… aspettare, e sapremo tutto al nostro arrivo nel Tredici.” Si schiarisce la voce, e lui sa che è consapevole che queste sono solo altre brutte notizie compattate in cima a tutto il resto.

May potrebbe non esserci più. Anche Ned. Potrebbe averli già persi e non saperlo nemmeno. Sono fuggiti dall’arena, tutti e otto, e visto il momento… Peter pensava che avrebbero festeggiato. Pensava che avrebbero stappato bottiglie di champagne, urlando a squarciagola in cima a un tetto. Ce l’hanno fatta, sono fuori, ma è tutto in bilico, al contrario di quello che si era aspettato.

Non ci aveva riflettuto abbastanza, prima. È stato ingenuo, stupido. Si meritava di rimanere morto in quella maledetta arena.

China il capo, premendo la fronte sul dorso della mano di Tony. Ha bisogno della sua guida, adesso. Ha bisogno di lui.

“Svegliati, ti prego,” sussurra. “Ti prego, svegliati.”
 



 
*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Tradotto da: ever in your favor: parkers can do anything, di iron_spider da _Lightning_

Note:

[1] Greg Willis aka Gravity. Come dice il nome, controlla la gravità e ha poteri pseudo-telecinetici.
[2] Riri Williams aka Ironheart, erede spirituale di Iron Man nei fumetti e grande ammiratrice di Tony Stark.
[3] In questo punto mi sono presa un po’ di libertà nel tradurre, perché in tutta onestà nell'originale, per come era descritto, ho fatto un po' di fatica a capire come fosse strutturato il campo di forza. Ho preferito la chiarezza alla fedeltà al testo, senza per questo alterarlo in modo incisivo.



Note della traduttrice:

Cari Lettori, se vi è scappata una parolaccia/blasfemia a fine capitolo, sappiate che sono con voi <3 Per chi mi consigliava di allegare un reattore arc ai capitoli: ECCO, CONTENTI? :'D
Comunque, ormai ci siamo: manca un'unica altra parte alla conclusione e sinceramente non credo riuscirò ad arrivare viva a domenica/lunedì prossimo, con o senza reattori.
Nel frattempo, vi terrò compagnia a metà settimana con un'altra piccola traduzione, di una shot molto, molto fluff sempre dalla penna della bravissima
iron_spider :)

Un grazie enorme va a Eevaa, ericaron, Manulalala (grazie anche per il messaggio!), Paola Malfoy, Miryel e T612 che hanno commentato la storia finora, aggiungendola alle loro liste e dandomi feedback anche sulla traduzione <3 Un grazie estemporaneo ad _Atlas_ che funge da mia beta-reader sopportando i miei scleri notturni <3
A prestissimo,

-Light-

 
 
EDIT: chiedo scusa, ma nella fretta di aggiornare ho commesso un errore amatoriale, traducendo "anything" con "tutto"- invece del più corretto "qualsiasi cosa". Ho corretto solo ora, perdonate la svista! Ho comunque avviato una micro-revisione dei capitoli precedenti, giusto per accertarmi che non vi siano altri errori :)  
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Giochi peggiori a cui giocare (parte 1) ***


Capitolo 14: Giochi peggiori a cui giocare

(Parte 1)

 




Peter rimane in attesa di altre esplosioni che non arrivano. Rimane in attesa di schiantarsi, di sentir precipitare l’elivelivolo. Ma non succede niente di tutto ciò. Hanno tutti lo stesso marchio sul braccio, rimasto dopo che la Dottoressa Cho ha rimosso i localizzatori, ma quando finalmente Peter controlla al di sotto della benda il suo è quasi del tutto scomparso. Anche quei pochi graffi che aveva sul volto stanno sbiadendo, e suppone che vi sia una qualche sorta di guarigione accelerata in atto, assieme a… a tutto il resto.

Guarda fisso Tony. Guarda quella cosa nel suo petto, chiedendosi se gli impedisca di repsirare. Ha addosso una mascherina per l’ossigeno, adesso, la Dottoressa Cho ha ritenuto fosse meglio così. A Peter è sembrata solo un’altra sconfitta. Gli stringe la mano e cerca di trasmettergli la sua forza vitale, cerca di dargli un po’ di quella sua energia in eccesso. La Dottoressa Cho sembra ottimista, ma lui non trova alcun ottimismo dentro di sé. Tony parlava in continuazione, anche quando non voleva. E adesso no. Adesso è disteso lì, con un elettromagnete nel petto. Sembra quasi morto.

Scopre che l’arena era stata costruita nel Distretto Due, vicino all’acqua, e dopo sei lunghe ore di volo arrivano nel Distretto Tredici. L’elivelivolo entra in profondità nel sottosuolo, più in basso di quando sono arrivati nell’arena, e lui si aggrappa alla mano di Tony come fosse una cima di sicurezza, col terrore che gli scorre nelle vene. Non hanno ancora alcuna notizia su chi gestiva le operazioni di recupero, inclusa Janet, e se dovrà sentirsi dire che May è morta, dopo tutto questo, non pensa che sarà in grado di superarlo.

Percepisce l’atterraggio. Sente il motore che si spegne. Rivolge una rapida occhiata a MJ e sente il panico che lo stringe nella sua morsa. Sa che porteranno via Tony, e sa che non potrà andare con lui: dovranno operarlo, cercheranno di migliorare le cose, e non hanno bisogno di alcuna distrazione. Peter ha paura di cosa farà, perché teme di aggrapparsi a lui, di crollare, di dare di matto. È in bilico, sul precipizio di qualcosa di orribile, perché stanno succedendo troppe cose tutte insieme e non ha la minima idea di come affrontarle.

Ha sedici anni. Ne ha abbastanza di tutto questo.

La porta si apre lasciando entrare Bucky, con un altro uomo che spinge una barella dietro di lui. Peter si sente fuori di testa ogni volta che vede Bucky, e da quanto ha sentito si crederà ancor più folle una volta che inizieranno a mescolarsi alla popolazione del Tredici.

Strizza la mano di Tony tra le sue. Rilascia un respiro tremante, col cuore che batte più rapido. MJ è in piedi dietro di lui, e posa una mano rassicurante sulla sua spalla. Cerca di nutrirsi di quell’energia, ma non è più così facile quando vede l’espressione sul volto di Bucky.

Peter sa che Bucky e Tony si conoscono, o che... si conoscevano, ed erano in confidenza l’anno scorso. Sembra soffrire anche lui per quello che è successo a Tony. “Lo prendiamo noi, ragazzo. Sarà nel nostro ospedale, al quinto piano, e non appena avrà finito in camera operatoria ti manderemo a chiamare.”

Peter deglutisce a fatica, annuendo. Ma ancora non ha lasciato andare la mano di Tony. Si accosta a lui, cercando di non guardare la cosa nel suo petto, e batte le palpebre per scacciare le lacrime. Il suo volto non dovrebbe essere così fiacco, così immobile. “Svegliati… svegliati e basta,” gracchia Peter. “Okay? Ho bisogno che tu ti svegli.” Annuisce, cercando di convincersi che Tony possa sentirlo.

Poi lo lascia andare.

Dopodiché si ripiega su se stesso, come se stesse guardando tutto da un profondo recesso della propria mente. MJ gli tiene la mano, poggia il capo sulla sua spalla; gli altri trasferiscono Tony sulla barella e lo portano via, con la Dottoressa Cho che segue la loro scia. MJ lo guida fuori dalla stanza e, se non lo tirasse appena, lui non si muoverebbe neppure.

Rivolge a malapena uno sguardo al resto del gruppo quando si riuniscono nella sala principale dell’elivelivolo, e gli altri uomini – Happy, Matt e Frank – sembrano tutti concentrati su di lui, ognuno di loro con un’aura differente attorno a sé. È abbastanza certo che Matt sia cieco, considerati gli occhiali, ma crede anche che sia molto più consapevole dello spazio che lo circonda rispetto a quanto si potrebbe pensare. Altrimenti non sarebbe qui.

Happy è l’unico ad approcciarlo, mentre si avviano giù dalla rampa e fuori dall’elivelivolo.

“Ehi,” lo chiama, dandogli una pacca sul braccio. “Sono una sorta di pezzo grosso, qua dentro, quindi se ti serve una guida per andare in giro, chiedi a me. Ti do una mano io.”

Peter lo guarda da sopra la spalla, annuendo brevemente. Nessuna offesa per Happy, ma vuole che siano Tony e May a fargli da guida. È loro che vorrebbe davvero. Vuole scoprire tutto e perdersi con loro. Costruire una nuova vita insieme.

Alza lo sguardo una volta fuori dal velivolo: sono in un enorme deposito che sembra uscito fuori da una base militare, e vi è ogni sorta di jet e armamenti, oltre a degli uffici con pareti di vetro che ospitano più meraviglie tecnologiche di quante ne abbia viste a Capitol. Punta gli occhi davanti a sé mentre attraversano il tutto, e intravede qualcuno in testa al gruppo che li guida, camminando a falcate decise. Happy supera tutti gli altri e si affretta a raggiungerlo, mormorandogli qualcosa all’orecchio.

L’uomo si gira, guardandoli. “Da questa parte,” dice, e svolta bruscamente in un altro spazio. “Seguitemi e basta, prego.”

MJ gli stringe la mano. Lui continua a tenere il passo, e si chiede se Janet sia tornata sana e salva con May e Ned. Si chiede dove abbiano portato Tony. Non riesce a trovare un senso di normalità. Non sa nemmeno se esista, è come un concetto estraneo sul quale la sua mente non riesce a far presa. Vuole sapere cosa sta accadendo nel mondo esterno, cos'è successo dopo la loro fuga dall’arena, come hanno reagito i Distretti, quali sono state le ritorsioni di Capitol. Ma ha paura di scoprirlo.

Si spostano in un’ampia sala, e anche se è tutto metallo e acciaio sembra comunque più calda di Capitol o dell’arena.

Happy si volta a guardarli, sorridendo. “Vi portiamo direttamente ai vostri nuovi alloggi... a meno che non vogliate farvi dare un’altra occhiata nell’ala medica? Cho è incredibile, e abbiamo un altro dottore, Yinsen–”

“Penso che siamo tutti a posto, giusto?” chiede Steve, lanciandosi un’occhiata attorno. Peter controlla di nuovo sotto la sua fasciatura, e non c’è neanche più un segno.

“C’è altro che dovremmo sapere?” chiede Natasha, ed è raro vedere quell’agitazione nei suoi occhi. Peter sa che è preoccupata per suo marito.

“Siamo in silenzio radio, per il momento, così non possono rintracciare la nostra frequenza,” dice Happy, guardandosi di nuovo alle spalle. “Una volta che le acque si saranno calmate, potremo tornare operativi. Ma adesso c’è troppo fermento e non vogliamo intercettazioni.”

“Avete saputo qualcos’altro, prima che arrivassimo?” chiede Riri. “Qualunque cosa riguardo alle nostre famiglie e amici? So che eravate con noi, ma…” rivolge lo sguardo all’altro uomo accanto a Happy, come se fosse lui quello a cui chiedere.

Happy lo guarda a sua volta, e lui scuote la testa. A Peter sprofonda il cuore. “Sentite, abbiamo tre diverse stazioni d’atterraggio, e ora c’è un po’ troppo caos. Forse sono già arrivati, ma la notizia potrebbe non essere arrivata fin qui.”

Una densa preoccupazione si sta avvolgendo come un bozzolo attorno al loro gruppo, e Peter sprofonda ancor di più nella propria testa. Precipita nelle fauci spalancate di un abisso, mentre scalcia e si dibatte e urla. Ma non ha voce.

Si avvicinano a una serie di doppie porte, e Happy e l’altro uomo ne aprono una. Il gruppo di muove in un ampio spazio che deve essere una sorta di centro nevralgico, o sala comune. Peter non riesce a distinguerlo appieno perché ci sono… persone ovunque. Persone che stanno in quelli che sembrano negozi, e gli ricorda il Forno che del loro Distretto. Persone, in piedi vicino a dei tavoli, piazzate accanto a carichi di cibo e cestini ricolmi di libri. Persone qui e su, più su, ancor più su, fin dove riesce a vedere, in ogni livello circolare dell'ambiente. Sono addossati ad ogni ringhiera e guardano in basso. Li guardano tutti con una sorta di meraviglia negli occhi, e quel sentimento aleggia nell’aria come un fiore catturato dal vento, delicato. Il silenzio è riverente.

Happy si guarda indietro, e sembra sul punto di dire qualcosa.

Poi qualcuno inizia ad applaudire.

È solo uno, all’inizio, in alto da qualche parte, e poi qualcun altro si unisce a lui, due persone che applaudono a tempo. Poi un altro, e un altro, un intero gruppo e poi, in un lampo, sono tutti. Tutti quanti. Stanno applaudendo con una forza e una determinazione che Peter non ha mai visto a Capitol, con le lacrime agli occhi, lacrime che scorrono e a cui viene permesso scorrere senza vergogna.

La gente inizia a esultare, grida di gioia, ed è l’emozione più strana che Peter abbia mai provato in vita sua. Si adagia su tutto il resto, e lui diventa un guscio di se stesso, un qualcosa che viene avvolto in qualcos’altro, ed è tutto inerte, è tutto anonimo, è di nuovo all’inizio. È niente, è un’ameba. Ma loro esultano. Sono al settimo cielo. Per lui, per il gruppo di Tributi di cui fa parte, per ciò che sono riusciti a realizzare.

Capisce solo allora. Sono fuggiti. Sono fuggiti dall’arena. Non c’è stato alcun Vincitore dei Sessantesimi Hunger Games, perché otto Tributi sono evasi. I ribelli hanno dichiarato guerra.

Altre porte si aprono alla loro destra, appena oltre a quello che sembra un mercato in allestimento.

A Peter si blocca il respiro, e il suo mondo rallenta.

Vede Janet, Thor, Carol, Strange. Luke, Jessica, tutti gli altri Vincitori. Sono in testa a un gruppo numeroso, un gruppo che si sparpaglia e inizia a scansarli da parte quando vede chi hanno davanti.

“Clint!” grida Natasha, e Peter la vede scattare in avanti, lontano da loro, scontrandosi con un uomo dai capelli chiari, che la solleva in aria con slancio.

“Oddio, Tasha,” dice Clint, facendole fare una piroetta. “Oddio.”

Anche Riri si distacca dal gruppo, poi Misty, Shuri, MJ…

“Peter!”

Tutti stanno ancora applaudendo, ma il suo udito diventa ovattato, come se fosse sott’acqua. La vede, in mezzo alle famiglie riunite, e non è attraverso lo schermo di una TV, non è un ricordo, e prima che riesca a fare più di due passi May è lì, proprio di fronte a lui, ad avvolgerlo tra le braccia.

“Oh, mio Dio, piccolo,” piange, aggrappandosi a lui, premendogli una mano dietro la testa. “Piccolo mio, piccolo mio, Peter. Oddio. Oddio.”

Lui all’inizio è rigido, paralizzato dallo shock, e quando trova un appiglio sulla sua spalla realizza che è davvero qui. È davvero con lui, non è un trucco, non è un’altra illusione nell’arena. Sono insieme, sono insieme.

Lei si discosta prendendogli il volto tra le mani e lui crolla, sciogliendosi in lacrime.

“Oh, tesoro,” sussurra, sporgendosi per posargli un bacio sulla guancia. “Tesoro, stai bene. Stai bene, sei al sicuro.” Lo bacia di nuovo sulla guancia, lo bacia sulla fronte. La guarda mentre lo prende per il braccio girandolo, e per un attimo crede che stia esaminando la fasciatura… ma capisce che sta cercando il punto in cui l’ha morso il ragno. C’è solo un minuscolo segno, adesso, quasi del tutto svanito, e lei vi posa sopra un bacio, con una delle sue lacrime che cade a scivolargli sulla pelle.

“May,” riesce a dire, con la voce scossa da tremiti. Grazie a Dio. Grazie a Dio.

“Ned è qui, tesoro,” dice lei, guardandosi alle spalle e posandogli una mano sulla guancia. “Eccolo, qui… Ned–” Cerca a tentoni dietro di lei, lanciando occhiate alla gente che si ricongiunge attorno a loro, e poi Peter vede anche lui, mentre May trova il suo polso tirandolo in avanti.

“Oddio,” singhiozza Ned, e sta già piangendo. Si sporge verso Peter, lo attira a sé, e lui nasconde il volto nella sua spalla. Lui prende a piangere di più. “Dio, Peter, abbiamo– abbiamo avuto così tanta paura–”

“Anch’io,” sussurra lui, stringendolo forte. Ha ancora paura. Di tutto. Sente May che gli bacia la tempia, e c’è così tanta gente che piange, attorno a loro. Che ride e si abbraccia e si bacia.

Sono qui. Sono davvero qui.

Ned si stacca da lui, si asciuga gli occhi e rivolge uno sguardo a May prima di concentrarsi di nuovo su Peter. “Hai lanciato quel coso nel cielo e… ed è diventato tutto nero,” dice poi. “Non sapevamo cosa fosse successo. E poi… Janet Van Dyne si è presentata alla porta di May.”

“Eravamo tutti e due quasi nel panico,” dice May, scuotendo la testa. “È stata dura per lei farci uscire di nascosto senza attirare l’attenzione.”

“Anche la tua famiglia, vero?” chiede Peter, guardando Ned.

“Sì,” risponde lui, annuendo. “Anche loro.”

Peter si limita a fissarli. Sono fantastici, sono incredibili, non riesce a credere che siano qui. Sono con lui. Si copre il volto con la mano e si sente sul punto di cadere a terra.

“Sei un supereroe,” dice Ned, stringendogli il braccio. “Sei davvero un supereroe.”

Peter scuote la testa. Non vuole che lo chiamino così. Si sente male, vuole essere felice ma si sente male, e non riesce a controllare il proprio respiro. Stanno succedendo troppe cose. C’è troppo a cui pensare.

Ma sono vivi. Sono vivi.

Qualcuno gli tocca la spalla, e si volta per vedere Frank Castle in piedi lì accanto. Torna in sé, tirando un po’ su col naso, e gli applausi sono cessati, ma ci sono molti mormorii e discorsi eccitati tutt’attorno. Molti altri pianti, e anche risate.

“Puoi venire con me, per favore?” chiede Frank, così piano che Peter a malapena riesce a sentirlo.

Si sposta istintivamente più vicino a May. “Non senza di loro,” dice. “Devo–”

“Frank?” chiede May. Sta stringendo il braccio di Peter con forza, come se temesse di vederselo portar via di nuovo.

Frank annuisce, e c’è una mitezza, nei suoi occhi, che sembra inappropriata per lui. “Signora Parker,” dice.

“Cristo, pensavo fossi…” comincia May, e guarda rapidamente Peter. Non completa la frase. È strano. Perché dovrebbe conoscerlo?

“Possono venire anche loro, Peter,” dice Frank. “Dobbiamo… fare una sorta di… riunione. Non so se è il termine corretto.” Abbassa lo sguardo a fissarsi i piedi. “Il Presidente del Tredici vuole incontrarti. Parlare di alcune cose.”

Peter deglutisce a forza. Sente “Presidente” e pensa “Stane”. Ma non è più laggiù. È qui, è nel Tredici. Stane non può raggiungerlo. Non può. Non può.

“Potete seguirmi?” chiede Frank.

Peter si guarda alle spalle, verso il punto in cui vede MJ. È ancora abbracciata a sua madre e sua sorella, le stringe forte a sé. Peter non vuole lasciarla indietro, ma non vuole neanche disturbarla.

Se ne va in silenzio, con May e Ned dietro di lui.

 
§

 
Realizza, mentre Frank li guida attraverso il labirinto che è il Tredici, che quel posto è molto più vasto di quanto avesse immaginato. È ancora un po’ stranito dal fatto che May conosca Frank e continua a orbitare nel suo spazio, temendo di vederla scomparire. Ned lo guarda in modo strano, e non sa cosa dirgli. Continua semplicemente a fissarlo, perché vederlo lì lo fa sentire coi piedi per terra. Lo fa sentire reale.

Mentre camminano, Ned allunga una mano verso di lui e gli scosta il bavero del giacchetto, rivelando la spilla di Iron Man. Peter abbassa lo sguardo, toccandola brevemente.

“Per tutto il tempo, ho avuto paura che la perdessi,” dice Ned, con la preoccupazione che gli increspa la fronte. “Ne hai passate così tante e non… non sapevo se avesse resistito.”

“Tony l’ha fissata bene,” dice Peter, e gli si spezza la voce sul suo nome. Si schiarisce la gola, con una rapida occhiata a Ned. “Tu hai la tua, vero?”

“Certo,” replica lui. Scosta la propria giacca, e la spilla di Wasp è lì. Come lo è sempre stata. “Cosa, uh… dov’è Tony? Dov’è, sta… sta facendo qualcosa d’importante?”

La domanda lo assale come una cinghia che gli strizza il cuore. “Uh, lui… era sull’elivelivolo, per farci scappare. È… è rimasto ferito.” Gli si incrina la voce e distoglie lo sguardo.

“Peter,” lo chiama Ned, una mano sulla sua schiena. “Mi… mi dispiace.”

Peter scuote la testa. “Andrà tutto bene,” replica. “Andrà… andrà sicuramente tutto bene.”

“Certo che sì,” concorda Ned. “Insomma, è Tony Stark.”

Peter adesso sa chi è Tony Stark, e sa che non è fatto di ferro, per quanto vorrebbe che lo fosse. È colmo di dolore che lo fa a pezzi ogni giorno. È il bersaglio di persone potenti. E adesso è spezzato.

Libera un respiro, e quando alza lo sguardo vede Frank e May immersi in una fitta conversazione. Non sa perché, ma lo innervosisce. Finalmente, dopo altri lunghi momenti, svoltano in un vicolo cieco e si fermano di fronte alla porta di fondo.

“Eccoci,” dice Frank. Si china così da permettere a qualcosa nel muro di scansionargli il volto, e la porta si apre. Entra per primo, facendo un cenno col braccio a May.

L’uomo che Peter presume sia il Presidente li aspetta all’interno, in piedi. È alto, imponente, con una benda sull’occhio, e di fronte a lui c’è un tavolo straripante di documenti, assieme a una decina di schermi che trasmettono ogni tipo di violenze. Quando si avvicina Peter realizza che sono riprese in diretta, e che vengono dai Distretti. E… da Capitol. Rimane lì a fissarle, le sopracciglia aggrottate, e infine si accorge che Frank gli sta offrendo una sedia.

“Peter,” esordisce Frank. “Signora Parker, signor Leeds… questo è il Presidente Fury.”

“Ho aspettato a lungo questo incontro,” dice Fury, rapido, senza alzare lo sguardo su di loro. “Frank, chiudiamo alla svelta. Stark aveva il video, giusto?”

“Giusto,” conferma lui. Cerca nella borsa che ha in mano, e Fury sembra continuare a fare quello che stava facendo, come se loro non fossero nemmeno lì. “May, questo era, uh… originariamente per te. Ma Christine Everhart, una dei profughi, ha compiuto per anni delle ricerche sulla corruzione di Capitol e ha disseppellito questo, dandolo a Tony. Io ne ero già a conoscenza. Ero l’unico a cui l’avessero detto.”

Peter si sente come se qualcuno gli stesse tagliando l’ossigeno, e guarda rapido May, vedendo i suoi occhi emotivi e colmi di preoccupazione. Lei e Ned lo circondano come il suo campo di forza personale, e Frank attiva un palmare di fronte a loro, spingendolo davanti a Peter. C’è una schermata nera. Preme il tasto d’avvio.

Sua madre appare sullo schermo.

Negli istanti successivi, quel qualcosa che Peter aveva continuato a chiedersi viene confermato. Guarda i suoi genitori che lottano per rivelare il loro più grande segreto, e a dispetto di tutto l’orrore che gli ribolle nel petto, prova la cosa più simile a un senso di pace dall’inizio di tutto questo. L’hanno protetto. L’hanno fatto volontariamente.

Peter, ci dispiace così tanto…
Ma ti vogliamo–

Il video termina, e rimangono seduti lì in un silenzio scioccato.

“Non sapevano che avrebbe acquisito dei poteri, vero?” chiede Fury, prima che Frank possa dire qualcosa.

“No,” risponde lui. “Non credo.” Sospira pesantemente, e i suoi occhi cercano quelli di May. “Stark era già… molto incazzato con me, perché abbiamo permesso a Peter di… morire, di soffrire, ma sapevamo che Capitol–”

“No,” lo interrompe May, fermamente. “Non importa quello che mi dite su quei maledetti di Capitol. Tony e io la pensiamo allo stesso modo.”

“Anche noi stavamo guardando,” dice Ned, a bassa voce. “E le persone che gli vogliono bene. L’abbiamo… visto tutti.”

Peter sospira, stringendogli il braccio.

“È questo che l’ha reso così potente,” dice Fury. Si alza in piedi, si rassetta la giacca e incrocia le braccia sul petto. “L’amore che la gente prova per te, Peter, è… Cristo, è impressionante. È ovunque. È diverso da qualunque cosa abbiamo mai visto prima. E questa è roba potente. È roba che smuove le montagne. Sappiamo cosa sarebbe successo se ti avessero visto morire. Ma non si trattava solo della tua morte. Ma del fatto che saresti tornato. E sapevamo che saresti tornato.”

Peter non sa cosa dire. Ha l’impressione che May si infurierebbe, se provasse a dire qualcosa, perché… lo capisce.

“Ma i poteri? Nessuno se li aspettava, Spider-Man. Cristo.” Fury emette uno sbuffo rivolto a lui, come se fosse stata una sua scelta.

“Non voglio che voi lo usiate come l’hanno usato loro,” dice May, agitandosi sulla sedia. “Come Capitol. I suoi genitori hanno fatto tutto questo per permettergli di vivere, ed è vivo grazie a loro–”

“È vivo anche perché avevamo un piano,” dice Fury, puntando ora le mani sui fianchi. “Perché abbiamo inviato i nostri uomini migliori a salvarlo. Perché Tony Stark si è lanciato in prima linea.”

Peter chiude con forza gli occhi, passandosi una mano sul volto. Sprofonda un po’ di più nella sedia.

“Cosa è successo a Tony?” chiede May, guardando prima Fury, poi Peter.

“È stato ferito,” dice Peter, fissandosi le mani strette in grembo. “Per tirarmi sull’elivelivolo. È vivo, ma non… non sta bene.”

May annuisce, rilasciando un respiro controllato. Fury cammina avanti e indietro un paio di volte, e si nota una netta tensione nelle sue spalle. Peter sa che ha molto a cui pensare, visto che è al comando di tutto questo.

“Non lo useremo, signora Parker,” dice Fury. “Dipende da lui. Ma ha conquistato cuori e menti per un motivo. Non ci sono mai state rivolte a Capitol. Contro nessuno. Non fino ad ora. E qui abbiamo una promettente rivoluzione, in cui Peter è rimasto coinvolto affinché quest'altro, qua, non dovesse affrontare l’arena e il resto delle loro stronzate.” Fa un cenno imperioso verso Ned.

“Farò tutto ciò che volete che faccia,” dice Peter, cercando di suonare controllato e adulto, anche se si sente tutto meno che quello. “Voglio solo… devo aspettare che si svegli Tony e–”

“Non devi,” dice Fury, e Peter non sa se guardarlo nell’occhio o nella benda quando ce l’ha di fronte. “Non adottiamo la loro stupida politica dei Mentori, qui. Non hai bisogno di un baby-sitter.”

Peter scuote la testa e sente un capogiro. “No, no, io voglio–”

“Presidente Fury,” interviene May. “Capisco cosa sta succedendo, e quanto tutto possa essere… folle, in questo momento. Lo capisco, davvero. Ho sempre saputo chi fosse Peter, da prima che il mondo iniziasse ad adorarlo. Capisco la vostra storia. Capisco quello che hanno fatto i suoi genitori, quello che è successo e che loro non avevano previsto, che ha finito per… esaltare tutti ancor di più.” I suoi occhi si spostano decisi su Peter e inclina il capo, come se cercasse di guardarlo meglio. Lui sente di poter trarre forza da lei, anche solo avendola qui.

May continua, riportando lo sguardo a Fury. “Ma questo ragazzo ha bisogno di un momento di tregua,” dice lei. “Quello che ha passato è più di quanto chiunque possa sopportare. È stato negli Hunger Games. È stato costretto a fare cose che nessuno dovrebbe essere costretto a fare, soprattutto non qualcuno come lui. E poi è– è...”

“May,” mormora Peter, accostandosi a lei.

“È– è morto. E sembrava– sembrava–” Risucchia un respiro tremante. “Lo sapete. L’avete visto. L’abbiamo pensato tutti, e io non riesco nemmeno a immaginare come sia stato per lui. Quell’esperienza… è sua. Sua e solo sua. Individuale. E adesso Tony, il suo mentore, il suo eroe… è ferito? In seguito a un evento in cui lui era coinvolto? Conosco il mio ragazzo. E dopo tutti quegli orrori… ha bisogno di una pausa. Se la merita. Come chiunque.”

Termina il proprio discorso con un sospiro spezzato, e Peter posa la testa sulla sua spalla, serrando con forza gli occhi.

Quando li riapre, l’espressione sul volto di Fury è cambiata.

“L’avrà,” dichiara.

Peter si raddrizza, guardandolo interrogativamente.

“Ho vissuto sottoterra per tutta la mia vita, dannazione,” continua l’altro. “Sono passati sessantuno anni da quando sganciarono le bombe. Io avevo due anni. Non ricordo nulla di ciò che è successo, non ricordo i miei genitori perché morirono nell’esplosione. Questo posto mi ha cresciuto, questa comunità, e ho visto il cielo solo una manciata di volte in vita mia. Conosco solo la guerra, ragazzo, o la sua attesa, il prepararsi ad essa, quindi capisco il bisogno di riposare. Lo capisco. Sei appena tornato, va bene. Abbiamo un po’ di bei posti in cui puoi farti un giro.”

Peter lo fissa. Teme che sia un inganno.

“Frank,” lo chiama Fury, e fa un gesto secco con la mano verso sinistra. “Puoi portarli ai livelli inferiori?”

“Certo,” replica lui, alzandosi.

“Uh,” tentenna Peter, alzandosi a sua volta, sulla difensiva. “Come farete a… uh, come faccio a dirvi che–”

“Ti troviamo noi,” dice Fury, “e quando sarà il momento dovrai di nuovo essere te stesso su un palco nazionale, Spider-Man. So che puoi farcela, perché sulle spalle hai lo stesso senso di responsabilità che pesa sulle mie.” Poi si rimette seduto, rivolgendo di nuovo la propria attenzione agli schermi, cambiando inquadrature, scorrendo rapido un’orda di messaggi.

Peter sente il cuore in gola e annuisce, mentre loro tre seguono Frank all’esterno.

 
§

 
Peter è sicuro che Frank Castle non sia abituato ad essere il galoppino di nessuno. Ha la stazza di un soldato e agisce allo stesso modo, ma ci sono anche tristezza e compassione nei suoi occhi, soprattutto ora che May è qui. Peter vorrebbe fargli delle domande, vuole scoprire cosa sa, ma qualcosa lo frena. È rimasto con loro, sin dall’elivelivolo. Ma è ovvio che abbia avuto un qualche tipo di comunicazione con Fury. Peter sa che qui le faccende sono molto politiche, fino alle fondamenta, e lui ha a malapena scalfito la superficie.

Frank li fa entrare in una stanza tre livelli più sotto e, non appena varcano la soglia, scompare di nuovo in corridoio.

“Peter!” lo chiama la voce di MJ.

Riesce appena a lanciare un’occhiata alla stanza che se la ritrova tra le braccia, col volto nascosto contro il suo collo. Lo stringe come se si fosse aspettata di non vederlo mai più, e quando si scosta da lui gli posa una mano sulla guancia. “Sei sparito di colpo, dannazione,” dice, affannata. “Eri lì e poi… e poi…” Realizza che non è da solo e i suoi occhi trovano May e Ned oltre la sua spalla. “Oh, uh, oh…”

Sembra un momento fatto di cristallo, datogli in dono, uno che potrebbe facilmente rovinare, uno che avrebbe potuto non vedere mai. Ma si fa leggermente da parte, tendendo una mano verso May e Ned.

“MJ,” dice, deglutendo a forza. “Ehm, questa è… questa è mia zia, May Parker, e lui è il mio migliore amico, Ned Leeds. May, Ned, lo– lo so che conoscete Michelle Jones, ma uh… questo è il nostro– è la presentazione ufficiale che non abbiamo avuto occasione di fare.” Si schiarisce la gola. Dio, è davvero un deficiente.

Ma loro non fatto neanche caso ai suoi balbettamenti. MJ guarda entrambi, più volte, con gli occhi che le si riempiono di lacrime, poi li attira a sé avvolgendoli in un grande abbraccio.

“È davvero bello conoscervi,” sussurra poi.

“Oh, e anche per me, cara,” dice MJ, sfregandole la schiena. “Grazie per esserti presa cura del mio ragazzo.”

“Sei stata fantastica, là dentro,” mormora Ned, stringendola. “Mi è piaciuto soprattutto come hai usato quel cartello di stop.”

Tutti e tre ridono, e Peter si sente come se stesse guardando direttamente il sole. Poi sente qualcuno che gli tocca il braccio. Alza lo sguardo, e vede che è Natasha.

“Perché hai ancora addosso la loro stupida uniforme?” chiede, squadrandolo da capo a piedi.

Lui ride, come un idiota, facendo un paio di passi verso di lei. Riesce a guardarsi intorno, e l’unica parola che gli balena in testa per descrivere la stanza è accogliente. È spaziosa, è arredata per assomigliare a un rifugio, con tappeti e divani e quello che sembra un camino finto nell’angolo. Librerie, un cucinino… è molto diversa dal resto del Tredici che ha visto finora. Questa stanza sembra fatta apposta, è come se fosse stata creata per il suo utilizzo attuale: un posto dove riprendere fiato. Un posto per loro. Peter nota tutti gli altri Tributi e le loro famiglie, e alcuni degli altri Mentori: Thor, Carol, Luke e Jessica. Ma non Janet, non Tony, e sente di nuovo freddo.

“Cristo, eccolo qui,” dice un uomo, spuntato da dietro Natasha, e Peter sobbalza tornando sulla Terra. È lo stesso uomo con cui l’ha vista prima, solo che adesso sul suo volto c’è un sorriso aperto invece di un sofferto sollievo. Ha un tutore che gli blocca la gamba, e quello che sembra un apparecchio acustico all’orecchio destro.

“Mio marito,” dice Natasha. “Clint Barton.”

“Ragazzo, sei un eroe…”

Peter scuote la testa, e sente il collo andargli a fuoco. “Non sono–”

“Senti, a questa donna non serve l’aiuto di nessuno, mai,” dice Clint, abbassando lo sguardo su Natasha, “ma l’unica volta che le è servito, quando era appesa fuori da quella finestra… c’eri tu. Quello che hai fatto, io non– non ti ringrazierò mai abbastanza. Davvero.”

Natasha gli rivolge un sorriso caloroso a Peter. “Era tutto sotto controllo. Mi bastavano solo un paio di minuti in più.”

“Mhm,” mugugna Clint ironico, con ancora un gran sorriso in faccia. “Volevo solo dirti grazie, okay? Grazie. Non darò di matto perché ti meriti di meglio, ma sei– sono fiero di conoscerti, ecco.” Gli tende la mano che non cinge le spalle di Natasha, e Peter la stringe rapido.

“Grazie,” dice, e non sa se sia davvero la cosa giusta da dire.

“Peter,” sente la voce di Steve. Lui sbircia da sopra la spalla di Clint e lo vede seduto accanto a Bucky, mentre si alza in piedi. “Non ti hanno lasciato cambiare?”

Clint dà una pacca sulla spalla di Peter mentre lui lo supera, e questi gli rivolge un sorriso impacciato, avvicinandosi a Steve. “Uh, ho… ho dovuto incontrare Fury.”

“Non ti fanno neanche respirare, eh?” scuote la testa Steve. “Andiamo.”

“Ehm,” esita Peter, guardandosi da sopra la spalla. May, MJ e Ned sono ancora raggruppati vicini.

“Non preoccuparti,” dice Clint, seguendo il suo sguardo. “Gli dico io dove sei.”

 
§

 
Peter rimane seduto sotto il getto della doccia per quelle che sembrano tre vite. Non riesce a venire a patti col fatto di essere stato nell’arena fino a poche ore fa. Non riesce ad accettare di esserne uscito, anche se sa che è vero. Lo sporco e il sudiciume si scollano dalla sua pelle e scivolano nello scarico, e sembrano non finire mai.

Prima di tutto ciò pensava che l’avessero sporcato. Non aveva potuto prevedere quello che gli avrebbero fatto. Sa che delle parti di lui rimarranno sempre laggiù, a prescindere da quello che accadrà a quell’arena, da cosa ne resterà, da quello che Capitol sceglierà di conservare. È morto laggiù. È cambiato. Gli hanno portato via qualcosa.

Quasi spacca la manopola dell’acqua calda quando la chiude.

C’è un piccolo spogliatoio fuori dalla doccia, con un intero armadio pieno di vestiti etichettati PETER PARKER. È strano pensare che qualcuno li abbia scelti per lui. Ne erano così sicuri. Erano così pronti. Gli ricorda il suo armadio abbandonato a Capitol, e prima o poi, presto, vuole scegliersi da solo i vestiti. Prendere le proprie decisioni.

Rimanda un crollo emotivo prima di tornare fuori, sentendosi per un istante troppo rotto per andare avanti. Risucchia un respiro, sapendo che verranno a cercarlo presto, ed esce di nuovo nell’ingresso.

Ci sono varie porte in questa zona, e sa che anche il resto delle famiglie dev’essersi rintanato là dentro, insieme agli altri Vincitori e ad alcuni dei profughi. Sente le voci che arrivano dalla sala comune: quella tonante di Thor, quella di Steve che si intreccia a quella di Bucky, e quest'ultimo è ancora così strano da sentire. Ascoltarlo nella vita reale. Vivo. Che parla.

È strano essere qui, punto.

Sente una porta aprirsi dietro di lui e gira di scatto la testa, con un residuo del panico da arena che ancora non allenta la presa su di lui. Inizia a pensare a quanto abbia bisogno di dormire, quando vede chi ha appena aperto la porta.

È esattamente come l’ha vista nell’illusione. Quella che ha creato lui stesso. Uguale alle foto fornite dal palmare.

“Peter Parker,” dice Cassie Lang, stringendo ancora la maniglia. La lascia andare rapidamente, però, e si muove più velocemente di lui perché lui è congelato, bloccato, vede suo padre nei suoi occhi, nel modo in cui si muove. Lei gli corre incontro, e lui si inginocchia senza nemmeno pensarci. Teme di essere troppo spaventoso. Teme che lei lo odi. È colpa sua se suo padre è morto. È colpa sua.

Non dice nulla, e deglutisce a stento.

“Stai bene?” chiede lei, piano, coi grandi occhi concentrati su di lui. “Ho… hanno detto che stavate arrivando, e ci chiedevamo se…”

“Sto bene,” dice lui, sentendosi insignificante.

“A mio… a mio papà piacevi tanto,” dice lei, annuendo. Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Si capiva.”

“Ti amava più di ogni altra cosa,” dice Peter, con la voce che gli si incrina, gli occhi che bruciano. “Lo sentivo in ogni parola che diceva.”

“Lo so,” dice Cassie annuendo di nuovo, e ha gli occhi rossi e gonfi, come se avesse pianto molto. Vi si formano delle nuove lacrime anche adesso. “Volevo– volevo solo dirti che… volevo dirti grazie,” dice poi. “Per– per quello che hai fatto, alla fine. Mamma non– mi ha fatto uscire dalla stanza, ha mandato da me Paxton… lui è il mio patrigno. Lui e papà andavano d’accordo, però. Ma lei– lei mi ha detto cosa hai fatto e– e sono contenta che tu… l’abbia fatto.”

Peter si sente in mille pezzi. “Certo,” risponde. “Mi– mi ha salvato la vita. Era fantastico.”

“Sì,” dice Cassie, rivolgendogli un sorriso un po’ tremante. “Era davvero fantastico.” Poi si appoggia a lui, avvolgendolo in un abbraccio stretto, per qualcuno così piccolo, e lui la abbraccia di rimando, pensando a Scott. “Sei un eroe,” sussurra Cassie, contro la sua spalla. “Sei veramente un eroe.”

“No,” replica Peter. “Non lo sono, giuro.”

Una donna dai lunghi capelli biondi esce in fretta dalla stessa porta da cui è uscita Cassie, e trattiene il fiato quando li vede. Il rumore spaventa Cassie, che si ritrae di scatto correndo verso la donna e superandola d’impeto, rientrando nella stanza. Peter rimane lì in ginocchio, col cuore bloccato in una morsa viziosa.

“Mi dispiace, davvero,” dice la donna.

“No, non– no…” Si rimette in piedi barcollando.

“No, intendo…” la donna si poggia allo stipite della porta. “Per quello… che hai passato. È solo… mi dispiace molto.” Gli rivolge una rapida occhiata, con un cenno, e si ritira nella stanza.

Peter indietreggia trascinando i piedi, poggiandosi al muro, e si pianta la base dei palmi negli occhi. Ha le vertigini, e il dolore che vive in lui adesso sembra troppo enorme, troppo forte.

“Ehi,” lo chiama la voce di MJ, all’improvviso, e sente le sue mani che gli scorrono lungo i suoi fianchi. “Ehi, ehi.”

“Scusa,” gracchia Peter. “Stavo– stavo tornando.”

“Non fa niente,” dice lei, rapida. “Va tutto benissimo.”

“Ho appena visto Cassie,” dice lui, lasciando scivolare via le mani. Fa un cenno verso la porta. “E io sono il motivo per cui suo padre è morto, quindi… questo è quanto. L’ho vista, dal vivo, e avrei dovuto aspettarmi che–”

“Peter,” lo interrompe lei, corrugando le sopracciglia. “Sai che Scott non è stato colpa tua. Lo sai.”

Peter deglutisce a fatica, scuotendo la testa, e non gli riesce di seguire i suoi stessi pensieri. Sta cadenzo a pezzi. “E io… io sono la loro nuova icona, o quel che è, solo che non ho idea di cosa stia accadendo là fuori perché nessuno mi ha detto nulla e ho troppa paura per chiedere. Ho incontrato il Presidente e ho visto delle immagini, ma non– avevo troppa paura e basta.”

“Hai incontrato il Presidente?” chiede MJ.

Peter annuisce. “Sì, e mi sta dando un po’ di tempo, ma so che non aspetterà in eterno. E non so quanto tempo mi serve. Un milione di anni, probabilmente. Io– non ho idea di chi sono, di– di cosa sono. Non so più come essere me stesso, non ho mai capito perché piacessi a tutti e non– non so come essere ciò in cui mi ha trasformato quel ragno. Non so come fare. Non– non so come essere un eroe.”

Lei lo osserva con la preoccupazione negli occhi, per poi avvicinarsi, posandogli una mano sul fianco.

“E Tony,” continua Peter, con il carico di lacrime represse che rompe gli argini non appena pronuncia il suo nome. “È stato nella mia vita da sempre, anche quando non c’era davvero, e adesso è– è–” La sua voce si spezza di nuovo e abbassa lo sguardo, con il volto che si contrae. “E anche quello è per causa mia. E ho bisogno di lui, MJ. Ho bisogno di lui, è– è come se fosse mio papà. È come un padre, per me.”

MJ fa scorrere le mani su e giù lungo le sue braccia, poi gli prende il volto tra le mani. Preme la fronte contro la sua.

“Tony starà bene,” sussurra, accarezzandogli la guancia col pollice. “Non ti lascerebbe mai. Sa che sei qui, che sei di nuovo in un posto dove può vederti… si sveglierà. Hanno dei dottori incredibili, qui, Thor ce lo stava dicendo. Faranno quello che devono fare e non smetteranno di lavorare finché non sarà in perfetta forma.”

Peter annuisce, cercando di incamerare il suo profumo.

“E tu… devi smetterla di prenderti tutte le colpe, tanto per cominciare. Sei una vittima, qui, come tutti noi. Tutti quelli che abbiamo perso nell’arena sono colpa di Capitol. È solo colpa loro.”

“Già,” sussurra lui. Ama il suono della sua voce. Ha un certo effetto su di lui e, nonostante tutto l’orrore che lo circonda adesso, lo sta calmando. Solo toccandolo e parlandogli.

“Adesso non sei diverso,” dice lei, piano. “Tu sei tu. Sei amato perché sei spontaneo. Perché sei buono. Perché non porti una maschera. Non cerchi di nascondere ciò che provi, e prendi a cuore le cose con tutto te stesso. Tutto e tutti. Sei così pieno d’amore. E non dico mai niente del genere a nessuno, perché invece io provo a reprimere i miei sentimenti, ma tu… con te non ci riesco. Perché sei fatto così.”

Peter sente il proprio respiro diventare più leggero.

“Anch’io ho paura di quello che sta accadendo là fuori,” dice lei. “Ma qualunque cosa sia, d’ora in poi… siamo insieme. Va bene?”

“Va bene,” risponde lui, e non è mai stato così certo di qualcosa. Sono insieme. Sono insieme.

Lei colma la piccola distanza che ancora li separa e lo bacia. Non è come il bacio nell’arena, troppo rapido e straripante di panico. È pieno di desiderio e bisogno, morbido e calmo, e lei si fa più vicina, con le mani che scivolano ad afferrargli la nuca. Le cinge la vita e il suo stomaco fa le capriole, e pensa che forse la ama.

Il bacio si rompe dopo un momento, le loro fronti che ancora si toccano.

“Okay?” chiede lei.

“Okay,” risponde lui, e non è neanche certo di cosa stiano parlando.

Sente qualcosa sfiorargli la gamba, e quando abbassa lo sguardo vede la gatta di Carol che cammina impettita avanti e indietro, chiaramente convinta di essere più importante di qualunque evento in corso.

MJ ride, posando un altro rapido bacio sulle sue labbra prima di chinarsi. “Oh, mio Dio,” sussurra. “Non hai idea di quanto mi siano mancati gli animali.”

“Questo qui è davvero sfacciato,” dice Peter, inginocchiandosi accanto a lei e posando il capo sulla sua spalla mentre lei accarezza Goose sulla schiena. “È di Carol. Faceva sempre zapping tra i Distretti Undici e Dodici.”

“Ah,” dice MJ, poggiandosi a lui mentre si porta Googe in grembo. “Una piccola ribelle fatta e finita.”

“Decisamente,” sospira Peter. Cerca di liberare la mente per un momento, e di rimanere lì. Proprio lì, e basta.

 
§

 
Sta ondeggiando nel dormiveglia nel suo nuovo alloggio quando lo chiamano. Si mette a sedere sul letto, sfregandosi gli occhi. Hanno tutti stanze singole, che sono più o meno grandi la metà di quella che aveva nell’attico, ma non gli importa. Il letto è comodo, alla porta accanto ci sono May e Ned e a quella di fronte MJ. In teoria, anche Tony sarà di fronte a lui. Quando si sveglierà.

C’è un piccolo pannello accanto alla porta, dal quale proviene il suono. Porta le gambe oltre la sponda del letto e vi arriva a tentoni, sfregando ancora via il bruciore dagli occhi. Preme il tasto verde di risposta, e vede la Dottoressa Cho sullo schermo.

“Peter,” dice. “Sei–”

“È sveglio?” chiede Peter, cercando di concentrarsi,

“Non ancora,” risponde lei, come se si aspettasse quella domanda. “Ma puoi venire a fargli visita, se vuoi.”

Peter sente le spalle afflosciarsi per la sconfitta, ma annuisce. “Uh, l’ala medica?”

“Quinto piano,” risponde lei.

Gli ci vogliono circa quindici minuti per arrivarci, perché si perde cinque o sei volte e non vuole chiedere aiuto. Questo intero luogo è come uno strambo labirinto, ma c’è gente ovunque. Tutti fanno qualcosa, tutti lavorano, tutti aiutano qualcun altro. Non c’è alcuna TV in giro e gli sembra una scelta oculata, l’esatto opposto di come sono le cose a Capitol e nei Distretti. Continua a rammentarsi che questo è, tecnicamente, un Distretto. Ma nessuno sa che è ancora qui. Nessuno sa che sono qui. Si chiede cosa pensi la gente riguardo a quello che è accaduto. Si chiede se lo ritengano morto.

Esce dall’ascensore mordicchiandosi il labbro inferiore e raggiunge l’ala medica, finalmente. C’è un’altra serie di porte con una chiusura a impronta, ma accanto c’è una breve lista di nomi con gli autorizzati, e c’è anche il suo. Preme una mano contro lo schermo, lo osserva mentre la scannerizza, e poi la porta si apre.

L’interno somiglia molto all’ospedale del Centro Tributi, come se fosse stato modellato su di esso e poi migliorato. C’è una scrivania alla sua destra, con una donna dall’aria gioviale dietro. Gli fa un cenno.

“Salve, signor Parker,” lo saluta. “Quinta porta in fondo, sulla tua sinistra.”

“Grazie,” risponde lui, suonando piccolo e stupido perché il cuore gli tambureggia nel petto, la sua ansia è vertiginosa e sente il sudore freddo che lo inonda perché Tony è ferito, è ferito, è ferito, e non importa dove sia adesso lui, non può aiutarlo. Non può salvarlo. Non può fare niente di niente. E per quanto voglia credere a tutto ciò che gli ha detto MJ, non può fare a meno di pensare che sia ormai spezzato per quello che gli hanno fatto, per quello che l’hanno obbligato ad affrontare, perché sente che i pensieri non sono più i suoi. Gli sono entrati in testa.

Bussa cautamente alla porta quando la raggiunge, impaziente di vedere Tony, ma tentato dal fuggire via e nascondersi in uno dei molti anfratti di questo luogo.

La Dottoressa Cho apre la porta sorridendogli cordiale, e la chiude dietro di lui. Sente delle voci più forti, adesso, proprio dietro il muro alla sua sinistra. “Peter, devo… devo dare un’occhiata anche a te. Dopo quello che è successo. Fury ha mandato delle direttive, e stavamo cercando di lasciarti un po’ di spazio, ma sai benissimo che c’è qualcosa che–”

Peter si ritrae di scatto da lei. “Sono venuto qui per vedere Tony, e voglio vedere Tony,” dice, con la bocca secca. “E non– non voglio che voi mi… visitiate mentre sono– da solo. Voglio qui May, o Ned, o MJ, o Tony, e adesso non sono pronto per–”

“Va bene,” dice Cho, rivolgendogli un cenno, come se fosse cosciente che è sul punto di esplodere. “Inventerò una scusa, va bene? Ma non è come pensi. Vogliamo solo capire cosa c’è di diverso, se c’è qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci. Capire come gestire il tutto.”

“Okay,” le accorda Peter, lanciando un’altra occhiata verso la stanza adiacente. Crede di sentire delle persone conosciute.

“Okay,” ripete lei. “Entra. Mi scuso se la visita non è privata. Ti faccio rimanere quando se ne andranno.”

Lui annuisce in un ringraziamento silenzioso, e svolta l’angolo. C’è più gente di quanta si aspettasse: un medico, Janet, Happy, Bruce, cavolo, e… Nebula. Nebula. Nebula, che è morta. Peter rimane impalato lì, cercando di contenere lo shock, e quando Janet si volta riesce a vedere Tony. Non è in una veste da ospedale: ha addosso solo un maglione bianco, e sembra quasi in pace: non c’è più una batteria per auto attaccata a lui, ma Peter vede ancora il lieve contorno del cerchio in mezzo al suo petto. Ci sono dei macchinari accanto al letto, e l’elettrocardiografo non emette alcun rumore, ma Peter osserva comunque la linea che si muove.

“Peter,” lo accoglie Janet, con un sorriso esausto.

“Ragazzo…”

“Signor Parker,” dice il medico.

Né Bruce né Nebula parlano, ma lei ha un’espressione di pietra, mentre Bruce sta sorridendo.

“Sono lieto che tu sia qui. Io sono Ho Yinsen, e il signor Stark sta significativamente meglio.”

“Vedo ancora… quella cosa, sotto alla maglietta,” dice Peter, rimanendo lì impacciato.

“Qui, Peter,” dice Janet, alzandosi dalla sua sedia.

“No, no, non fa niente,” dice lui.

“Su,” insiste Janet. Si avvicina a lui, lo prende per mano e lo guida fino alla sedia. Gli dà una lieve pacca sulla spalla e lo fa sedere.

Peter cerca di non guardare fisso Nebula. Sapeva che ci sarebbero stati altri Tributi vivi, ma è comunque… scioccante. Si rivolge invece verso Tony. Lancia un’occhiata al Dottor Yinsen e sente Happy e Bruce che parlottano tra loro vicino al muro divisorio.

“La Dottoressa Cho e io abbiamo creato un reattore arc miniaturizzato per impedire alle schegge di arrivare al suo cuore. Genera tre gigajoule al secondo, e lo farà stare bene.”

Peter non chiede perché non abbiano semplicemente rimosso le schegge, perché crede di potersi rispondere da solo. Con tutta probabilità è estremamente pericoloso. Avrebbero potuto ucciderlo. Quindi questo è il meglio che gli è concesso.

“È molto all’avanguardia,” dice Yinsen. “Potrebbe far battere il suo cuore per cinquanta vite.”

Peter annuisce, perché quella gli sembra una cosa molto buona.

“Una versione più grande del reattore arc fornisce energia al Distretto Tredici, Peter,” dice Bruce, alle sue spalle. “È il meglio del meglio. E sono certo che, quando Tony si sveglierà, avrà anche un paio di idee per potenziarlo.”

Peter rilascia un respiro, alzando gli occhi su Janet. Sembra sfinita, mentre gli scompiglia i capelli. Si china verso Tony e gli lascia un lungo bacio sulla fronte, poi esce dalla stanza senza aggiungere altro. Peter teme che non stia affatto bene. Che non stia gestendo la situazione. Spera che MJ riesca a parlarle, se non l’ha già fatto.

“Torno subito,” dice Yinsen, spostando lo sguardo tra tutti loro. “Il signor Stark riceverà ossigeno a intervalli regolari, non prendetelo come un cattivo segno. Fa parte della procedura. E dobbiamo controllare anche te, Peter.”

Peter sente un piccolo balzo al cuore, e non dà cenno di aver sentito. Mentre Yinsen esce, si sporge per prendere la mano di Tony.

“Hai fatto un ottimo lavoro nell’arena,” dice Nebula, dall’altro lato del letto. “Si vede che Stark ti ha influenzato.”

“Grazie,” dice Peter, con voce un po’ spezzata. “È che– io– scusa, solo che è assurdo…”

Lei abbassa lo sguardo su Tony, sporgendo leggermente il mento. “Lo so,” dice soltanto. “Non è stato facile neanche per me, quando mi sono svegliata. Ma ci stiamo tutti adattando a modo nostro.” I suoi occhi scattano in alto a trovare i suoi, e lui se ne sente intimidito esattamente come quando l’ha vista come Tributo.

“Posso immaginare,” gracchia, annuendo. “Lo capisco.”

“A te è andata peggio, in confronto a me,” dice lei. C’è un istante di silenzio, riempito solo dai suoi pensieri impazziti e dai mormorii di Happy. “Non mi piacciono molte persone, ma mi piace Stark. E ho visto che effetto gli ha fatto la tua morte. Spero che tu sia qui con lui quando si sveglierà.”

“Certo,” dice lui, rapido. “Ci sarò.”

Lei non lo guarda di nuovo. Si limita a tirare indietro i capelli di Tony, sfiorandoli appena, poi si alza anche lei, uscendo dalla stanza come i due prima di lei.

Peter stringe la mano di Tony e lo fissa, come se fissarlo abbastanza intensamente possa farlo svegliare. Ha bisogno di parlare con lui, ha bisogno di sentire la sua voce: è fuori dall’arena, è di nuovo con May e Ned, ha MJ… sente che riuscirebbe a gestire tutto il resto, se solo Tony si svegliasse. Deve svegliarsi. Tutti si comportano come se stesse bene, in perfetta forma, a dispetto di qualunque cosa hanno detto che abbia nel petto. Un reattore arc. Quindi perché diavolo non si sveglia?

“L’abbiamo recuperata,” dice in quel momento Happy. “Lei e Bucky. Kate Bishop. Brunnhilde. Jennifer Walters. Danny Rand. Miles Morales. [1] Un gruppetto di loro.”

Peter sente il cuore incespicare. Non riesce a crederci, cazzo, a nulla di tutto questo. Risucchia un respiro, spostando la sedia in modo da sedersi di traverso. “Come, uh… come va nei Distretti?” chiede, esitante. “Che succede là fuori?”

Happy e Bruce si scambiano uno sguardo, come se fossero sorpresi dalla domanda, e anche Peter è sorpreso. Vuole sapere, non vuole sapere. Ma sente che sono informazioni necessarie, non importa quanto siano terribili. È stato lui a fare tutto questo, e si sente in dovere di essere informato. In più, nonostante l’attuale situazione di Tony, si sente come se lui gli stesse dando forza. Per il solo fatto di essere nello stesso luogo.

“Beh, la rivoluzione è cominciata,” dice Happy. “In alcuni posti va meglio di altri. L’Uno e il Due sono roccaforti di Capitol, non avevamo molti agenti dormienti là dentro, quindi si stanno preparando ad agire a lungo termine e aspettano rinforzi. Nel Cinque è lo stesso, perché devono difendere la diga, ma al momento è uno dei nostri bersagli principali. La resistenza è stata forte nel Quattro e nel Sei, quindi si stanno impegnando a tenersi in vantaggio.”

“Il Dodici?” chiede Peter, con voce sottile.

“Stanno bene,” dice Happy. “Quella è casa tua, quindi combattono strenuamente, più di tutti gli altri. Tutti sono coinvolti. Torneremo in ogni Distretto per recuperare altri profughi, ma il Dodici sta facendo ottimi progressi. Anche l’Undici.”

Non menziona le perdite. Non ne parla.

“E Stane?” chiede Peter, con un picco bollente che gli scatta all’interno. “Lui?”

“È ancora rintanato nella sua torre d’avorio,” dice Happy colmo di fiele, con un’occhiata a Bruce.

“Stane lascia il lavoro sporco agli altri,” dice Bruce, muovendosi appena sul posto e incrociando le braccia sul petto. “Gli piace rimanere a guardare. È deviato, e sadico, e non arriveremo a lui fino all’ultima azione di questa guerra. Farà in modo che sia così. Ma quando sarà il momento, se vorrai, potrai essere tu a eliminarlo. Credo che tu ti sia guadagnato quest’onore, e sicuramente aiuterà la nostra storia.”

Peter corruga le sopracciglia. Per quanto voglia morto Stane, non riesce a immaginarsi di ucciderlo lui stesso. Ha già ucciso fin troppe persone, e non vuole mai più far parte di nulla del genere. “No,” replica. “No, non potrei–”

“Non fa niente,” lo ferma Bruce. “Non siamo neanche lontanamente vicini a quel momento.”

Peter sospira, riportando lo sguardo a Tony.

“Tutto questo è stato enormemente difficile, Peter,” continua Bruce. “Quasi impossibile. E volevo solo ringraziarti per averlo reso possibile. Non avrebbe funzionato senza di te, e non stai ingannando nessuno. Sei semplicemente… insomma, voglio solo ringraziarti per essere te stesso. Mi dispiace per quello che hai passato, mi dispiace davvero, e non– vorrei che non avessi dovuto vivere quelle esperienze. Nessuna di esse. Vorrei aver gettato un po’ più di luce sul piano e non aver tenuto all’oscuro tutti voi, ma c’erano orecchie ovunque, ed era tutto in precario equilibrio.”

“Capisco,” risponde Peter. Ma prova comunque una sensazione che non riesce a descrivere. Una sorta di… risentimento. Non sa se provenga da lui, o dal nucleo dell’anima di Tony che avvolge loro e l’intera stanza e tutto il resto.

“I quartier generali dell’arena sono diventati una zona di guerra nel momento stesso in cui hai manifestato i tuoi poteri,” spiega Bruce. “Lotte fisiche. Armi. Ordini per l’arena provenienti da Stane in persona, e non aveva idea di come reagire. Gli altri continuavano a tentare di contattarlo, ma abbiamo tagliato le linee. Il fuoco è stata opera loro. L’oscurità è stata… un incidente. Sono sicuro che abbia reso la fuga più difficile. Mi dispiace anche per quello.”

“Adesso è finita,” dice Peter.

“È appena cominciata,” dice Bruce. Si avvicina a lui, inclinando un poco il capo, è c’è un’estrema gentilezza nei suoi occhi. “Detesto che tu sia in questa posizione. Vorrei non doverci appoggiare così tanto su qualcuno che è stato scaraventato in questo mondo, ma ti prometto che avrai tutto il supporto di cui avrai bisogno. In ogni senso.”

“Presto sarò pronto,” balbetta Peter, guardando di nuovo Tony. “Devo solo–”

“So che hai parlato con Fury,” dice Bruce. “Non preoccuparti, va bene? Rilassati e basta. Aspetta Tony.”

Peter sospira. “Non so nemmeno che ore siano,” dice, sfregandosi gli occhi con la mano libera.

“Le nove di mattina,” risponde Bruce. Gli dà una pacca sulla spalla. “È un nuovo giorno, Peter.”

A quel punto sia Bruce che Happy escono dalla stanza, lasciandolo solo con Tony. Sospira, uno di quei sospiri che sembrano scaturirgli dalla punta delle dita dei piedi e che gli attraversano tutto il corpo. Si china in avanti, premendo la fronte contro la spalla di Tony.

“Infrangerò la nostra promessa, se non ti svegli,” sussurra, strizzandogli la mano. Cerca di tenere a mente la sua nuova forza, e andrebbe del tutto fuori di testa se dovesse fargli male, poco ma sicuro. “Mi farò un bicchiere, hai capito? Mi… mi scolo un’intera bottiglia di tequila, mi senti? Ma non lo farò, se ti svegli. Non lo farò. Va bene? Però svegliati, ti prego. Ti prego.”

Non vuole piangere di nuovo. Ma lo fa lo stesso.

 
§

 
Rimane con Tony per un’ora e mezza, raccontandogli cose che probabilmente non ricorderà, pregando e piangendo e, in pratica, diventando folle. Quando alla fine se ne va lascia con riluttanza che Cho e Yinsen lo visitino, ma solo quando MJ lo raggiunge.

Ha acquisito massa muscolare che prima non c’era. Il suo metabolismo è sensibilmente più veloce. È tre centimetri più alto. La sua forza è fuori misura, più grande di quella mai misurata nell’essere umano. Riflessi, senso dell’equilibrio e agilità superiori alla norma. Vista e udito migliorati. E ha anche una guarigione accelerata, a seconda del tipo di ferita. Non riescono a spiegarsi il fatto che riesca ad attaccarsi ai muri, ma dicono che ci lavoreranno sopra. È nella forma fisica migliore in cui sia mai stato. È al picco delle proprie forze, ma si sente come una fragile statua di sale. Incapace di smettere di guardarsi alle spalle, verso ciò che gli è accaduto. Sul punto di cadere a terra.

Subito dopo mangia pancake con MJ, nella nuova area mensa che ancora devono esplorare e, di nuovo, non riesce a uscire dalla propria testa.

MJ si sporge verso di lui, prendendogli la mano, e lui solleva lo sguardo forzando un sorriso.

“Scusa,” dice.

“Per cosa?” chiede lei.

“Niente, per… come sono.”

“Non devi mai scusarti per quello,” dice lei, seguendo le linee del suo palmo con un dito. “Ehi, ce l’abbiamo fatta, no? Non siamo a cena fuori, ma siamo– Peter, ce l’abbiamo fatta fino al Dopo. Il nostro Dopo. Ho conosciuto May e stiamo… stiamo facendo colazione insieme. Solo noi due. Ancora meglio.”

Per qualche motivo, quello gli sembra come un enorme pugno nello stomaco e sente un rimescolio di sensazioni ovunque, di felicità e pura, genuina tristezza. Le prende la mano e le bacia le nocche. Non importa come si senta lui, sa che è felice che lei sia qui. Che sia qui con lui.

 
§

 
Tony è sul confine tra il sonno e la veglia. Un sonno troppo profondo per essere davvero sonno, intessuto a troppo dolore. Ha provato molto dolore in vita sua, abbastanza da considerarlo un vecchio amico, ma questo ha cercato di affogarlo. Questo dolore ha affondato gli artigli nella sua carne e l’ha lacerato, finché, per la prima volta, non si è trovato tra le grinfie della morte. Riusciva a sentirli dall’altro lato, sentiva Pepper che chiamava il suo nome.

Ma c'era anche la voce di Peter in quel coro. E Peter… non è morto. Non più. Tony lo sa, nel suo cuore. Il mondo è diverso, quando non c’è Peter Parker.

Quindi è andato alla deriva nell’oscurità, ma ha tenuto salda la presa.

I suoi occhi sfarfallano aprendosi e sente il dolore in circolo, che ristagna al centro del petto. Batte le palpebre, disorientato, poi porta la sinistra al petto e sente qualcosa sotto alla maglietta. Qualcosa di duro, rotondo, infisso nel suo torace. Ne segue il contorno con la punta del dito, emettendo un lamento da dietro la mascherina dell’ossigeno.

Gli hanno messo addosso un maglione, cazzo. Non mette un maglione da anni. Questa sembra opera di Janet, ma è troppo debole per arrabbiarsi sul serio.

È disteso in un letto d’ospedale, col busto inclinato. Non ci sono finestre, solo alcune luci troppo violente. Realizza che c’è… qualcosa alla sua destra, e abbassa lo sguardo. C’è un cuscino premuto contro il suo fianco, e Peter vi è adagiato sopra, con un braccio sotto la testa e l’altro che stringe la sponda del letto. Non sembra affatto una posizione comoda, ma sta comunque dormendo.

Tony scolla la mascherina dell’ossigeno dal proprio volto con la sinistra, gettandola da parte, e rimane a fissarlo.

L’ultima cosa che ricorda è l’esplosione. Stava cercando di issare Peter sull’elivelivolo, e poi l’esplosione. È tutto ciò che ricorda. E adesso sono qui, Peter è qui… non è più nell’arena. È qui, ed è vivo.

Quella realizzazione si abbatte su di lui. La prova reale che il ragazzo ce l’ha fatta. Dopo tutto quello che ha passato, dopo che il loro piano impossibile ha davvero funzionato. Peter è vivo. È qui. È al sicuro. Non si vede mai un Tributo uscire dall’arena. Solo se si è fortunati. Solo se si vince. Ma ne hanno fatti uscire otto. Sono riusciti a salvarne otto, se tutto è andato per il verso giusto dopo che quella maledetta aeronave li ha colpiti. Otto, incluso Peter.

Ha visto Peter morire, e adesso è qui. È davvero qui. Non è un sogno, o un’allucinazione alimentata dal troppo gin.

Tony lo fissa come se fosse una visione. Come se non fosse davvero lì. Perché lui non è mai così fortunato. Non lo è, mai. E adesso il ragazzo è qui. È proprio qui.

Peter contrae le sopracciglia e rigira il volto nel cuscino, emettendo un piccolo verso. La sua testa freme, e prende a respirare dalla bocca.

Un incubo, se Tony dovesse tirare a indovinare. Ne ha affrontati abbastanza da saperlo.

Allunga una mano e gli scosta esitante i capelli dalla fronte. Ha un paio di lunghi tagli che prima non c’erano, ma sembra che stiano già sbiadendo, lasciando dietro di sé solo il loro fantasma. Peter emette un altro verso sofferto, col respiro che accelera, e Tony passa di nuovo la mano tra i suoi capelli, cercando di calmarlo.

“Shh, ragazzo,” sussurra. “Shh, va tutto bene. Stai bene. Non sei più laggiù, sei qui. Va tutto bene.”

Il respiro di Peter rallenta e storce la faccia, girandosi verso la mano di Tony. I suoi occhi si aprono lentamente, e batte le palpebre verso di lui, guardandolo, ma evidentemente senza registrare cosa stia vedendo. È ancora mezzo addormentato, con l’incubo che scema nei suoi occhi.

Tony sorride, arruffandogli ancora i capelli. “Ehi, ragazzo,” dice, cercando di non far sentire che sta così male. Ma l’emozione c’è tutta, è messa a nudo, e non sta più cercando di contenerla.

Peter lo fissa, e poi il suo sguardo si fa più limpido. Allunga una mano, trova quella di Tony e la stringe mentre si tira su, fissandolo a bocca aperta. “Oh, mio Dio,” esala.

“Nah,” replica Tony. “Solo io.”

“Oh, mio Dio,” ripete Peter, con gli occhi che si riempiono di lacrime. “Tony… Cristo, finalmente, sono passati tre giorni, mi hai spaventato a morte–”

“Mi dispiace, la morte per te è assolutamente off-limits, perché lo dico io,” dice Tony, e gli si spezza stupidamente la voce da qualche parte nel mezzo della frase, e adesso sta avendo serie difficoltà. Vuole chiedere cosa cazzo abbia il suo petto che non va, ma… non riesce a smettere di guardare il ragazzo. Di stringergli la mano. È proprio qui. È proprio qui.

“Tony,” sussurra Peter, corrugando le sopracciglia, e si porta più vicino a lui.

“Pete, è bello rivederti,” dice Tony, ridendo. “Dio, è… stai bene? Che diavolo è successo?”

Peter tira su col naso, portando la mano libera ad asciugarsi gli occhi, e Tony scuote la testa, sentendo quella tensione nel petto che sembra impossibile da cancellare.

“Non importa, vieni qui,” continua, mettendosi seduto meglio, iniziando a piangere anche lui come una fontana. “Qui, qui, vieni qui.”

Peter emette un paio di respiri strozzati, ancora appollaiato sulla sponda del letto, e Tony lo attira in un abbraccio che era in dirittura d’arrivo da quelli che adesso sembrano anni. Peter nasconde la faccia nella sua spalla, scosso da singulti e singhiozzi e aggrappandosi a lui, e Tony si sente come se qualcuno lo stesse pestando a sangue, col petto che gli esplode, le braccia che tirano: gli fa male tutto. Ma non importa, perché ha qui Peter. È con lui.

Gli passa una mano tra i capelli, respirandolo a fondo.

“Dio, mi hai spaventato,” sussurra Peter, contro la stoffa del maglione. “Mi hai spaventato.”

“Lo so,” dice Tony, strofinandogli la schiena. “Lo so, ragazzo, mi dispiace. Se stiamo tenendo i conti, anche tu mi hai spaventato, ma non è stata colpa tua, quindi immagino che adesso io sia doppiamente in debito con te.”

Peter ride appena, e Tony lo stringe più forte. Gli sembra un dannato miracolo, ed è restio a lasciarlo andare. Neanche Peter sembra incline a farlo.

“Ci sono delle schegge che rischiano di raggiungerti il cuore,” dice Peter, cercando di placare il pianto, la guancia poggiata contro la sua spalla. “Quel coso nel tuo petto impedisce che ci arrivino. Ti rende più forte. Sei un cyborg, adesso.”

Tony trattiene una risata, poi sussulta, perché fa un male cane. “Beh, quello è sempre stato il mio destino,” dice, spostando la presa su Peter e premendogli un palmo alla base del collo. “Stai bene? Sinceramente.”

“No,” dice lui. “Per nulla. Neanche lontanamente. Fisicamente, sì, certo. Emotivamente, sono un caso da ricovero. Ma questo… questo aiuta. Aiuta molto.”

Tony libera un altro sospiro, cercando di abituarsi a quella sensazione. Non sa se ci riuscirà mai, e dovrà parlare con qualche medico per capire cosa cazzo gli stia succedendo. Peter si ritrae, ancora col singhiozzo, e riesce a formare un sorriso piccolo e stanco. Tony tende una mano, sfiorandogli la guancia con le nocche. “È veramente bello vederti,” dice, con la voce che si spezza.

“Anche per me,” dice Peter. “Finalmente. Non ti saresti dovuto quasi buttare dall’elivelivolo per prendermi.”

Tony alza gli occhi al cielo. “Ragazzo.”

“No, sei quasi morto,” dice Peter, incrociando le braccia. “Sei quasi morto e sai che non potrei sopportarlo. Non voglio sopportare la morte di nessun’altra persona che amo–”

Tu sei quasi morto,” dice Tony, piantandogli un indice sulla spalla. “Stavi cadendo, mi sono lanciato fuori da quel catorcio perché nessuno si stava muovendo abbastanza in fretta e non avrei mai permesso che mio figlio precipitasse di nuovo in quel cazzo di buco infernale. Neanche per sogno.” Sospira, sussultando di nuovo e strofinando le dita attorno ai bordi di quel coso rotondo. “Com’è che l’hanno chiamato?” chiede, picchiettandoci sopra. Brilla di una tenue luce blu sotto il maglione, e si chiede se sarà sempre visibile sotto a tutte le sue magliette.

“Reattore arc,” dice Peter, ancora un po’ immusonito.

“Okay,” dice Tony, cercando di assorbire quel fatto. Alza di nuovo lo sguardo su Peter. “Abbiamo recuperato tutti?”

“Tutti quelli del nostro gruppo, sì,” conferma Peter.

“Janet?” chiede Tony. “May e Ned? Sam?”

“Janet ha portato qui May e Ned, insieme a un gruppo delle altre famiglie,” risponde lui. “Non ho ancora visto Sam, ma so che è qui, me l’ha detto Thor.”

Peter sembra stanco. Più vecchio di quanto non sia. C’è una spossatezza che gli pesa addosso, e Tony la riconosce dal suo personale periodo Dopo I Giochi, subito dopo, ma adesso è tutto diverso. È tutto diverso. C’è una maledetta guerra in corso, e al centro c'è proprio Peter.

Il ragazzo si sdraia, premendo la fronte contro la sua spalla. “Ho rimandato il compito di diventare la loro icona, o quel che è, e so che stanno perdendo la pazienza con me. Ho detto loro che ti stavo aspettando. Abbiamo fatto qualche foto che hanno messo in circolazione, così che la gente sapesse che sono vivo, ma vogliono fare queste… pass-pro pubblicitarie per… risollevare le truppe non– non lo so, non lo so. So che devo, l’accordo è questo, e potrei solo rovinare ancor di più le cose se non–”

“Non stai rovinando nulla,” dice Tony, stringendogli la nuca. “Okay? Sono fortunati ad averti. E tre giorni non sono nulla, cazzo, queste cose non si vincono o perdono in tre giorni. E non ci sbatteranno fuori, perché le ripercussioni sarebbero… enormi.”

“Devo farlo,” dice Peter. “So che devo.”

“E io sarò lì con te,” replica Tony. Punta lo sguardo verso la porta di fondo. Ce la può fare. Può alzarsi dal letto. Può essere di nuovo se stesso. La versione migliore di se stesso. Quella che Peter si merita di avere a supportarlo. “Capito? Sempre. Fino alla fine. Non stiamo più giocando secondo le regole di Capitol, e non possono più portarmi via da te. E questo è quanto, okay? Sei in grado di fare tutto, e hai un intero sistema di supporto, qui. Siamo tutti qui per te.”

Sente Peter annuire. “Va bene,” mormora. “Se lo dici tu.”

“Ne sono sicuro,” replica Tony, posandogli un bacio sulla tempia. “E se ti turba qualcosa, la cambiamo. La aggiustiamo.

“Va bene,” sussurra Peter. “Basta che tu rimanga qui. Non ti addormentare di nuovo in mia presenza.”

“Fidati, non accadrà,” dice Tony. Ripensa all’oscurità, a tutti quei suoni distorti in quel mondo comatoso e diviso a metà. “E se ricordo bene, hai minacciato di infrangere la nostra promessa? Di scolarti una tequila, o qualcosa del genere? Ragazzo, è una cosa terribile da dire a un uomo in coma.”

Peter si ritrae di scatto, gli occhi sbarrati. “Mi hai sentito?” chiede.

“Già,” dice Tony, sorridendo del suo sbigottimento. “O comunque, me lo ricordo.”

“Beh, bene,” dice Peter, alzando fiero il mento. “Si vede che sono stato chiaro.”

Dio, Tony gli vuole un bene dell’anima.

 
§

 
Dopo aver fatto rapporto a May, Peter si addormenta nella soffice poltroncina nell’angolo, e Tony si chiede che diavolo di ritmo sonno-veglia abbia adottato da quando è qui. Parla con Yinsen, che getta lumi sul reattore arc spiegandogli quale siano le sue vere condizioni, e riesce a ringraziare sia lui che Helen Cho, per essersi assicurati che non morisse.

Passeggia per la stanza solo per dimostrare a se stesso di riuscirci, e si infila un paio di pantaloni un po’ più decorosi della tuta arancione che nessuno, se non Janet, avrebbe osato mettergli addosso.

È vicino alla porta quando lei in persona la attraversa, affiancata da Happy Hogan, il pilota dell’aereo.

“Oh,” esclama Janet, fissandolo incredula. “Dio. Dio, sei… sei sveglio, cammini…”

“Non ti ha avvertita nessuno?” chiede Tony. È dannatamente felice di rivederla.

“No,” risponde lei. “Happy voleva solo passare di nuovo a trovarti, e ho pensato…”

Tony si sporge oltre lei per tendere la mano a Happy. “Signor Hogan, non ci siamo incontrati esattamente nelle migliori circostanze, ma mi stai simpatico e vorrei lo sapessi. Sei un ottimo pilota e il ragazzo si fida di te, il che mi basta.”

“Grazie mille,” replica lui. “E il ragazzo è grandioso, è incredibile. Proprio come te, eh?”

Tony ricambia il sorriso e, sì, gli piace proprio questo tipo.

“Vi lascio da soli, Jan,” dice Happy. “Tony, sono davvero contento che tu sia sveglio, e che lavori con noi! È un onore.”

“Onore mio,” ribatte Tony, e lo osserva lasciare la stanza. “Parla piano, Peter dorme, ed è chiaro che ultimamente non ci sia riuscito molto.”

“Sei sicuro che tu possa andartene in giro così?” chiede lei, cercando di usare le maniere forti per spingerlo di nuovo all’interno della stanza.

“Sto bene,” replica lui, senza indietreggiare. “Ho un nuovo, adorabile gingillo nel petto, proprio quello che ho sempre voluto. Come stai? Stai bene?” Trattiene entrambi nella piccola anticamera, così da non disturbare Peter.

Janet distoglie lo sguardo, scuotendo la testa. “Ho tenuto d’occhio quello che sta accadendo là fuori,” risponde. “È un disastro, Tony. I Distretti sono nel caos. Stanno morendo così tante persone, e gli unici che stanno avendo la meglio sono quelli che hanno dalla loro parte i soldati del Tredici.”

“Su, le guerre non si vincono in un giorno, come si dice,” replica Tony. “Un giorno, tre giorni, uguale…”

“Hanno bisogno di supporto, o non si vincono affatto,” ribatte Janet, incontrando i suoi occhi.

“Metteremo in azione Peter tra poco,” dice Tony, sbirciando oltre il muro per assicurarsi che stia ancora dormendo. “Quello dovrebbe risollevare un po' gli spiriti.”

“Aiuterà, ma io… io penso di voler combattere,” dice Janet.

Il mondo sprofonda nelle viscere di Tony e rimane lì, a ribollire. Il suo dolore s’impenna, di schianto, e sente dei brividi corrergli su e giù lungo le braccia.

“Tony,” lo anticipa lei, interpretando all’istante la sua espressione.

“No,” dice lui, scuotendo la testa. “Non mi piace. Neanche un po’.”

“Peter è la loro stella polare, ma possono trovare qualcosa in ognuno di noi,” dice lei. “Siamo inutili, rintanati qui, sottoterra. Nascosti.”

“Sei inutile da morta,” sputa fuori Tony, con la rabbia che lo infiamma. “Capito? Mi hai detto che non puoi perdermi, beh, neanch’io posso perderti.”

“È diverso, adesso,” ribatte Janet, accostandosi a lui. “Questo è… più grande di noi. Più grande di ciò che siamo mai stati in vita nostra. Non ci sono regole, e rende solo più difficile prendere questo tipo di decisioni…”

“Facile,” la interrompe Tony. “Dico no. Fatto. Decisione presa.”

Lei gli sorride come se avesse già deciso senza di lui. E hanno sempre preso le loro decisioni insieme. Da sempre, da quando era il suo Tributo. Da quando è diventato il suo Vincitore. Da quando è diventato Mentore, al suo fianco.

Gli sembra che quel cazzo di reattore arc si stia trasformando in acido, trapassandolo da parte a parte.

Lei gli posa una mano sulla guancia.

“Janet,” dice lui, la voce che s’impenna sull’ultima sillaba. “Non… mi sono praticamente appena svegliato.”

“Non preoccuparti,” dice lei, accarezzandogli lo zigomo col pollice. “Non ti sparisco davanti.”

“Ecco, fai bene,” dice lui, stridulo.

Lei lascia ricadere la mano, sorridendogli in un modo preciso, particolare. “Torna a riposarti, tesoro. Devo incontrare di nuovo il Presidente e, per come siamo messi ora, non ne sono entusiasta.”

Tony la guarda storto, seguendola mentre si dirige verso la porta. “Sì, vai. E per favore rimediaci dei cazzo di cercapersone o qualcosa del genere, così posso contattarti.”

“Lo farò,” replica lei. Indugia sulla soglia per un istante, squadrandolo da capo a piedi. “Ti sei tolto i vestiti che ti avevo messo.”

Se n’era quasi dimenticato. “Uh, sì, grazie per avermi vestito come un agente immobiliare di Capitol, l’ho adorato.”

Lei sbuffa dal naso e gli lancia un bacio, chiudendo la porta dietro di lei. Lui la fissa, respirando a fatica, e di sicuro non ha tenuto bassa la voce. Sa che Peter adesso ha un udito potenziato, maledizione, e Janet doveva lanciargli addosso quella bomba di notizia proprio ora. Sente il cuore che lavora a doppio ritmo e il suo respiro si fa sibilante, e Cristo, quella donna lo ucciderà.

È come se qualcosa scattasse nella sua testa, come se sentisse un improvviso bisogno di impazzire, un’incapacità di gestire ciò che ha tra le mani. Janet è una costante, è il suo quotidiano, la certezza che ha nella propria vita. E il pensiero di ciò che gli ha detto lo taglia a pezzetti. Come se fosse perso nel deserto, incapace di essere chi dovrebbe essere. Senza di lei? Come?

Gli si oscura la vista, si restringe, ma non è sicuro del motivo. Fa capolino oltre l’angolo e il ragazzo è ancora fuori gioco. Si sente irrequieto, instabile, e si avvicina a lui, sfiorandogli la caviglia. Non vuole disturbarlo, ma, merda, deve fare qualcosa. Qualcosa che magari non significa nulla, ma comunque qualcosa.

“Pete,” lo chiama in un sussurro.

Lui si sveglia di colpo dopo due scossoni, gli occhi spiritati finché non si posano su di lui, calmandosi un poco. “Ehi, ehi,” bofonchia, assonnato. “Stai bene? Va tutto bene?”

“Sì, sto bene,” mente Tony. “Niente incubi, vero?”

“No, no… perché non sei a letto?” chiede Peter, ripiegando rapido il poggiapiedi. Si chiude con un forte schiocco, come se il ragazzo fosse stato sul punto di rompere la poltrona.

Tony sa che Janet gli ha scombussolato la testa, ma non sa cosa farci. Yinsen non vuole che lui lasci l’ospedale fino a domani, per trasferirlo in chissà quali capsule in cui fanno vivere la gente qui, ma Tony si chiede in che tipo di guai si caccerebbe se decidesse di andarsene un po’ a zonzo. Si chiede se qui abbiano la stessa reverenza per i Vincitori che hanno nel resto dei Distretti, e se potrebbe sfruttarla a suo vantaggio nel caso finisse per fare qualcosa di stupido. Sa di non poter seguire Janet, perché lei si infurierebbe con lui e lui con se stesso. Ma deve muoversi, adesso, prima di cadere a pezzi. È tutto quello che può fare.

“Tony,” lo chiama Peter, alzandosi e prendendolo per il gomito.

“Ti va di farti un giro?” chiede lui. “Tipo… lungo il corridoio, così. Sto diventando claustrofobico qua dentro e credo sia in via di peggioramento, considerando che siamo… sottoterra, dannazione.”

“Sei sicuro di sentirtela?” chiede Peter. “Perché–”

“Senti, ragazzino, non volevo nemmeno svegliarti, ma non volevo che ti svegliassi senza trovarmi, e sapevo che se fosse successo non saresti rimasto qui, quindi–”

“E va bene,” sbuffa Peter. “Ma rimaniamo nell’ospedale. È abbastanza grande.”

Tony non è sicuro di volerlo fare, ma lascia crede al ragazzo di avere il controllo, per ora. Annuisce e si avvia per primo, cercando di non incurvarsi come un cavolo di vecchio del villaggio. Raggiunge il corridoio e realizza di non avere idea di che ore siano, e sa che qua dentro i giorni cominceranno a scorrere l’uno sull’altro finché non arriverà il momento di prendere delle grosse decisioni. Continua a portarsi una mano al reattore arc, e si chiede quando si abituerà a sentirlo lì. O se dovrà mai farlo.

“Sai se qui dentro c’è qualcun altro?” chiede poi, osservando un infermiere che attraversa l’atrio senza degnarli di un’occhiata.

“Nessuno che conosca,” risponde Peter. “O, almeno… non me l’hanno detto. Non so quello che non mi dicono.”

Tony mugugna tra sé. È impaziente di vedere Sam, è impaziente persino di vedere Hammer. Chiunque gli sia familiare, che possa stabilizzarlo. Janet l’ha… angosciato, cazzo. Ma ha qui Peter, deve solo continuare a guardare Peter. Peter è qui. È vivo, è vivo. Deve essere forte per lui. Deve fare l’adulto.

C’è una porta decorata in fondo all’atrio, e Tony inclina la testa in quella direzione, perché sembra fuori posto, qua dentro. “Guarda,” dice, indicandola. “Credo che quella conduca a una dimensione parallela.”

“Credo che tu debba stenderti,” dice Peter, prendendolo per l’avambraccio. E Tony riesce a percepire la sua forza, la prima, vera dimostrazione al di fuori di uno schermo. È leggermente scioccante e gli riserva un rapido sguardo, ma continua ad avanzare.

“Questa porta, poi mi riposo. Va bene, Spider-Man?” gli chiede.

Peter sospira e lo lascia andare. “Va bene.”

Tony afferra la maniglia quando vi è davanti, e i suoi occhi registrano la placca CAPPELLA E MEMORIALE solo quando sta già entrando.

La sala è… incredibilmente grande, illuminata da piccole candele chiaramente finte, perché del fuoco in un posto come questo non sarebbe una buona idea. È dipinta d'arancione, brillante, con circa sei file di panche su ogni lato che arrivano a una piccola predella con un altare. Là ci sono dei fiori di vetro soffiato, dorati e rossi e rosa come un tramonto, che rilucono come i riflessi del mare.

E i muri.

Sulla sinistra, c’è una frase che sovrasta quelli che sembrano migliaia e migliaia di nomi, incisi in granito color bronzo. La frase è scritta a caratteri solenni: ALLE MIGLIAIA DI VITE RUBATE NEL BOMBARDAMENTO DEL 2046. Si snodano sotto di essa come un’onda, nome dopo nome dopo nome, e Tony non sa come riescano a entrarvi tutti.

“Il bombardamento li ha sterminati,” sussurra Peter, dietro di lui.

“Già,” gracchia Tony.

Inizia a pensare che entrare qui dentro non sia stata una grande idea, considerando che il suo dannato cuore è rotto fisicamente ed emotivamente. E poi decide di affaticarlo ancor di più, girandosi verso il muro di destra: non vi è alcuna frase, lì, ma quando si avvicina vede che anche quelli sono nomi di persone perdute, divisi per anno e Distretto, da dopo il bombardamento.

Ci sono così tanti morti. Così tanti.

“Cristo,” esala Tony, mentre attraversano le panche e si accostano al muro di destra.

“Hanno tenuto traccia di tutti,” dice Peter.

Cominciano l’anno in cui sono cominciati gli Hunger Games, e non vi sono elencati solo i Tributi mai tornati a casa. Ci sono altri nomi per ogni anno, per ogni Distretto, e Tony percepisce il proprio cuore in modo diverso, ora, lo sente tendersi, quando pensa a lei. Si chiede se sia qui e trova l’anno, trova il proprio anno, e le sue dita vanno a tracciare quel P E P P E R come se vi fossero legate da un filo invisibile. Rilascia un respiro tremante, seguendo anche il contorno del suo cognome, e ricorda di quando discutevano se farla diventare Pepper Stark o se adottare il doppio cognome. Non hanno mai avuto la possibilità di scegliere.

Ci sono i nomi dei Tributi uccisi, e di tutti gli altri che Capitol si è preso, e quando li ha presi. Tony si chiede come facciano a saperlo. Come l’abbiano scoperto. Quanti corpi abbiano visto.

Li immagina mentre guardano quello di lei.

“Sì, questa stanza è stata una cattiva idea,” dice, schiarendosi la voce. “Scusa, Peter.”

“Già, te l’avevo detto,” dice lui, ma non vi è rabbia né foga, nelle sue parole. “Dai. È ora di riposarti.”

“Cristo,” sussurra Tony, asciugandosi gli occhi mentre Peter lo prende di nuovo per il braccio. “Non volevo diventare vecchio così presto.”

“Ti sei svegliato oggi, in pratica,” replica Peter.

Tony prende ad addossare mentalmente la colpa a qualcuno, inizia a pensare che è stata Janet, ma in verità ha fatto tutto da solo. La reazione che ha avuto davanti a lei, l’idea di perderla, hanno scalciato via un paio di rotelle nella sua testa. Janet è padrona di se stessa, lo è sempre stata, ma lui non riesce, non può pensare di perderla. Lo sta facendo vacillare. Lo riempie di dubbi.

Se Janet può andarsene, può farlo anche Peter. Sono parti di lui, loro due, le due persone al mondo a cui tiene di più. Ha quasi perso Peter, poi l’ha riavuto, e adesso Janet sta programmando di andare a bussare alla porta della morte per il bene superiore. Peter è il bene superiore, ne è assolutamente convinto, e se lei può farlo, può farlo anche lui. Non vuole nemmeno pensare al ragazzo che se ne va, perché se Janet sta avendo su di lui quest’effetto, sa che annegherà completamente se dovesse farlo anche Peter. Perdere entrambi è una condanna a morte. Il mondo non può funzionare. Il suo mondo.

Davanti a loro si para una distrazione, sotto forma di Sam e Hammer che sbucano nell’atrio, come se i desideri di Tony li avessero fatti apparire di fronte a lui. Vorrebbe aver avuto prima quel potere, ma gli va bene anche adesso. Sam tiene per il braccio Hammer in modo molto simile a come Peter sta tenendo lui, e stanno battibeccando tra loro. Sembra tutto come prima, come quello a cui era abituato, e lascia andare un respiro che non era conscio di trattenere.

“Sei fuori di testa,” sta dicendo Sam. “Dovrei lasciarti cadere per terra. Proprio qui. Mollarti qui. Nuovo tappeto! Nuovo tappeto per l’atrio.”

“Non lo faresti, sei troppo buono,” replica Hammer. Si guarda alle spalle quando sente chiudersi la porta della cappella, e il suo volto si illumina. “Oh, porca puttana. Eccoli qui. Tutti e due, di ritorno dalle braccia della morte.”

“Oh, ehi,” dice Sam, con un gran sorriso. “Sei sveglio, adesso, ragazzo? Sono passato ieri a trovarti ma stavi ancora ronfando.”

“Devi avermi mancato di poco,” dice lui, aggrottando le sopracciglia.

“Ho fatto solo un salto di sfuggita,” dice Sam. “Mi sto assicurando che questo cretino non muoia, ma sono abbastanza sicuro che sia solo ipocondriaco. Come stai, Pete? Ci hai reso tutti fieri.”

“Sto meglio, ora che ti vedo,” replica Peter.

Justin sbuffa. “Ipocondriaco. Non dategli retta. Comunque, che diavolo ci facevate là dentro?” chiede poi. “La cappella? Sul serio, Tony?”

“Davamo solo un’occhiata in giro,” replica lui, cercando di raddrizzare la schiena per riconquistare la sua altezza normale. “È bello vedervi vivi, che vi è successo? Siete feriti?”

“Un Pacificatore testa di cazzo mi ha sparato alla gamba mentre stavamo recuperando le famiglie del Quattro,” spiega Hammer. “Nel senso, non mi ha riconosciuto. O magari sì. Comunque, che vadano tutti a fanculo. La parte peggiore di essere un ribelle è non avere con me i miei vestiti. Non un singolo blazer, non un singolo paio di calze. Non so come farò a sopravvivere.”

“Cristo,” dice Sam, alzando gli occhi al cielo. “Io mi sono beccato una coltellata nella spalla nel Sette. Non è nulla di che.”

“Non cercare di fare il duro,” lo rimbecca Hammer.

Tony trattiene una risata, abbassando lo sguardo, e si accosta un poco a Peter. “Sono davvero contento di vedervi entrambi qui,” dice, in un rapido respiro. Ripensa a tutti quei nomi sul muro, e cerca di scacciarli dalla sua mente. “Davvero, davvero contento.”

Chiacchierano per una decina di minuti, prima che Peter si inventi una scusa per lui, come leggendogli nel pensiero, e rientrano nella sua stanza, mettendosi di nuovo comodi. Tony avrebbe voluto continuare a parlare, ma la spossatezza e il panico lo stanno divorando, e deve smetterla, cazzo. Non è più un bambino. Non lo è, non lo è, non lo è da tantissimo tempo. Deve essere responsabile.

“Stai bene?” chiede Peter.

Tony è seduto sulla sponda del letto, con la testa sepolta tra le mani. Peter non dovrebbe chiederglielo. Non dopo tutto quello che ha passato. “No,” dice senza pensare, perché non ci riesce, a pensare. Si asciuga gli occhi e alza lo sguardo, cercando di riprendere il controllo del proprio cervello. Cercando di rimettersi sulla giusta rotta. Si tratta di Peter. Si tratta del ragazzo. Non può essere egoista, cazzo. “Sì,” si corregge.

“Tony,” dice Peter, inclinando di lato la testa.

“È solo che… Janet ha esternato l’intenzione di… di unirsi ai combattimenti,” dice lui, concludendo che a sincerità sia la strada migliore. “E mi ha scombinato il cervello. Mi dispiace.”

“Perché vuole farlo?” chiede Peter, aggrottando la fronte. Lancia un’occhiata verso la porta, come se si aspettasse di vederla apparire ora che parlano di lei. “C’è MJ, lei–”

“Non dirlo a lei, per favore,” lo ferma Tony, prendendogli la mano. “Senti, io… non sto prendendo in considerazione la cosa. Davvero. Voglio… voglio solo concentrarmi su di te. Tutto qua. L’importante… l’importante è questo.”

“Lei è importante,” ribatte Peter, con voce incrinata.

“Sì, ma– ma può fare le proprie scelte… senza di me,” dice Tony, cercando di convincersi. “Io devo… tenerti d’occhio, accertarmi che non ci siano degli stronzi che vogliono trarre vantaggio da te. Devo essere sicuro che… che tutto… vada bene.” Gli stringe la mano. Se Janet se ne va, gli rimane solo il ragazzo. “Hai appena attraversato l’inferno e una parte di me non riesce a crederci, non riesce a… farlo quadrare. Il fatto di riaverti qui. Supera qualsiasi cosa per cui abbia mai pregato, ma è… mi sta facendo a pezzi il cervello. Perché non mi è mai successo. Questo– questo per me è un nuovo territorio.”

“Nessuno di noi due è davvero a posto,” sussurra Peter.

Tony libera un respiro. “Già,” concorda. “Ma staremo bene.”






 
*




Tradotto da: ever in your favor: worse games to play, di iron_spider da _Lightning_


 Note:
 
[1] Jennifer Walters aka She-Hulk


Note della traduttrice:

Cari Lettori,
innanzitutto mi scuso per il ritardo con cui è arrivato questo capitolo, pur avendolo già anticipato tramite le risposte, ma a mia discolpa dico che era lungo sessanta pagine di Word e mi sono ritrovata letteralmente sommersa :')
Non per fare un torto all'autrice, ma ho deciso di dividerlo in due parti di lunghezza più o meno uguale, sia perché in tutta sincerità ho avuto problemi io in primis a leggerlo in una seduta, sia per farvi arrivare in tempi decenti almeno una parte del gran finale. Spero apprezzerete la scelta <3

Ringrazio infinitamente tutti voi che avete recensito, letto e aggiunto alle vostre liste finora, e vi do appuntamento col capitolo finale a lunedì prossimo!
Hasta la vista,

-Light-


 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Giochi peggiori a cui giocare (parte 2) ***


Capitolo 15: Giochi peggiori a cui giocare

(parte 2)
 


Peter guarda Tony, e Tony lo guarda di rimando. Peter è preoccupato per lui, per il reattore arc, per il suo stato mentale, e capisce che si sta sentendo in colpa per aver anche solo esternato le proprie paure, temendo chiaramente di metterne altre sul suo piatto. Lui invece è contento che l’abbia fatto, che le stia condividendo. E forse il fatto che nessuno di loro due sia realmente in grado di affrontare la situazione lo fa sentire un po’ meglio, ma sa anche che al momento ha inquietudini diverse da quelle di Tony. La partenza di Janet, la reazione di lui e MJ a quel fatto. Cosa potrebbe accaderle. Se dovrebbe prendere in considerazione anche lui l’idea di andarsene. Per combattere. È forte, e sarebbe d’aiuto. Ma ne è terrorizzato.

Il mondo sta tremando.

Il giorno dopo, Yinsen visita Tony e lo dimette con titubanza dalle proprie cure, ed è allora che Peter intuisce che Tony è ancora in ansia per i suoi nuovi poteri e tutto ciò che comportano. È un qualcosa che nessuno riesce a spiegarsi, ed è sicuro che, prima o poi, Capitol e il Tredici, magari entrambi, finiranno per disseppellire i dettagli di ciò che gli hanno fatto i suoi genitori. Magari tentare di emularlo.

Peter dice a Fury che è pronto. O meglio, vede Frank nell’atrio con Karen Page, rimane a bocca aperta per un paio di secondi, e poi gli urla di dire a Fury che è pronto prima che le porte dell’ascensore si chiudano. E Frank lo fissa come se fosse impazzito.

“Quel tipo non mi convince,” dice Tony, mentre dà un pugno al tasto del loro piano per portarli giù nelle palestre. “Lui e Bruce erano gli unici a sapere quello che avevano fatto i tuoi genitori, e ti hanno comunque fatto attraversare l’inferno.”

Peter ha fin troppi pensieri al riguardo, ma le sue sofferenze personali sono alla fine della lista. Non gli piace che May, Tony e Ned abbiano sofferto nel guardarlo. Non gli piace che gli altri abbiano sofferto mentre aspettavano che tornasse. “Beh, è servito al suo scopo, credo,” dice Peter.

“Sei un essere umano,” replica Tony, lentamente, fissandolo. “Ti hanno usato, e a me non sta bene.”

Peter sorride tra sé, abbassando lo sguardo. “Allora siamo solo pedine in un altro gioco, eh?”

“Spero di no, cazzo,” ribatte Tony, con un verso seccato. “A meno che non possiamo davvero vincerlo. Ma non permetterò a nessuno di loro di fare altre stronzate simili con te. Permesso negato.”

“Adesso ho qualche meccanismo di difesa abbastanza efficiente,” replica Peter, quando si aprono le porte. Vorrebbe mostrargli cosa sa fare, anche se c’è ancora una sorta di paura a inquinare i propri movimenti e le possibili conseguenze.

“Bene,” dice Tony, mentre si incamminano lungo il corridoio. “Cominciamo ad affinare queste abilità.”

Devono fornire le loro impronte digitali quando entrano nella palestra, e Peter si chiede per un istante se negheranno loro l’accesso. Ma le porte si aprono dopo averli scansionati entrambi, e lui non riesce a smettere di confrontare ogni singolo aspetto del Tredici con Capitol. Niente gli ricorda il Dodici, come aveva pensato all’inizio, e conclude che il numero di profughi di Capitol negli alti ranghi abbia avuto un’influenza sulle ricostruzioni una volta che il Tredici si è spostato sottoterra.

“Oh, buon Dio, qui hanno il caffè,” dice Tony, affrettandosi verso una macchinetta nell’angolo. “Non pensavo mi sarebbe mancato così tanto.”

Quel posto somiglia a una versione migliorata delle palestre a Capitol, con attrezzi ginnici e più proiettori di simulazioni e palmari olografici. Hanno ogni sorta d’arma negli armadietti che delineano le pareti, e non ci sono telecamere. Da nessuna parte. Peter ci fa veramente caso solo in quel momento, e realizza che quel tempo appartiene finalmente a lui, per tutto ciò che intende e vuole farne. Nessuno d’indesiderato lo sta guardando. Non è più una gara.

“Hai il permesso di bere caffè?” chiede Peter, osservando le pareti imbottite, mentre si china per togliersi le scarpe. Le mette da parte, tira fuori di tasca gli spara-ragnatele e li indossa. Non gli rimane molto fluido, ma ha abbondanza di materiali per farne altro qui.

“Se ho il permesso,” sbuffa Tony con scherno, e Peter sente la macchina del caffè che si mette in moto.

Continua a pensare al reattore arc di Tony come se fosse il suo cuore messo allo scoperto, e dovrebbe piantarla. “Ma... non saprei, se uh, per la tua salute…”

“Il caffè non mi ha mai tradito e non penso comincerà a farlo ora,” ribatte lui. “Te ne faccio una tazza. Non so perché non abbia cercato di fartelo bere a Capitol.”

Peter l’ha solo bevuto una o due volte in passato, con May, e non ha cuore di dirgli che non è esattamente di suo gusto. Risucchia un respiro guardando il muro, fa un saltello e scatta in una corsa verso di esso, rimanendovi attaccato e correndo fino al soffitto.

“Porca troia,” sbotta Tony, alzando lo sguardo verso di lui ad occhi spalancati.

Peter preme i palmi sul soffitto, gattonando più al centro, poi vi preme le piante dei piedi, lasciandosi penzolare. Rimane appiccicato come se niente fosse, senza problemi, appeso a testa in giù. È più facile di quando era nell’arena.

Tony si limita a fissarlo, con la tazza vuota in mano.

“Riesco ad appiccicarmi un po’ attraverso le scarpe,” dice Peter, con le mani sui fianchi, e aspetta che il sangue inizi ad arrivargli alla testa. “Ma, sì, senza è più semplice. Dovremo… inventare delle scarpe compatibili con… quello che sono diventato.”

“Lo dirò a Sam,” dice Tony, con voce un po' piatta.

“Sam?” chiede Peter, mentre prende la mira con lo spara-ragnatele destro verso il muro di fondo. La ragnatela parte e fa presa, e Peter ondeggia fin laggiù, esibendosi in un paio di capriole strada facendo. Spara un’altra ragnatela da sopra la spalla e torna indietro dondolando, per poi scattare in salto contro il muro.

“Uh… Sam sta progettando il tuo nuovo costume per quelle specie di pubblicità,” continua Tony, sempre guardandolo. “Ha quasi finito.” Peter getta un’occhiata verso il basso, e lo vede mentre cerca di versarsi una tazza di caffè continuando a guardarlo al contempo.

“Quando lo sei venuto a sapere?” grida Peter, continuando a sparare ragnatele e oscillare qua e là, seguendo parabole che persino lui può definire aggraziate. Atterra in punta di piedi su una pila di pesi, e solleva una palla etichettata con un 50 kg. La afferra con una mano e prende a fare il giocoliere muovendosi qua e là.

“Stamattina, mentre stavi ancora… quanto pesa quell’affare?” chiede Tony, ad alta voce.

“Cinquanta chili,” risponde Peter. La lancia in alto, fino al soffitto, e la riprende dietro la schiena. Si era preoccupato di veder sparire i poteri da un giorno all’altro. Non sa se “preoccupato” sia la parola giusta. Li vuole e non li vuole . Ritiene di esserseli guadagnati, ma gli mettono soggezione. Sospira, facendo rimbalzare la palla sulla testa.

“Cristo, Peter,” esclama Tony.

“Sto bene!” replica lui. La rimette a posto, e si guarda intorno. Ci sono dei rialzi in acciaio nell’angolo che non sono chiaramente pensati per essere sollevati, ma lui ne impila quattro e prende a scattare in corsa avanti e indietro portandoli in braccio.

Sente Tony schioccare la lingua. “Credevo di poter catalogare il tutto come un delirio della febbre,” dice poi. “Ma vederlo adesso, nel senso– vederlo davvero…” Scuote la testa, e prende un altro sorso di caffè.

Peter mette giù i rialzi, deglutendo a forza e piantandosi le mani sui fianchi. “Uh, credi… che le persone avranno paura di me?” chiede. È un qualcosa che vuole chiedergli da quando è accaduto. Una paura che gli ha scavato dentro.

Tony nega con la testa. “No,” dichiara. Poi solleva le sopracciglia. “Solo le persone giuste.”

Beve altre quattro tazze, cosa che Peter cerca di sconsigliargli, ma lui lo ignora, il che non lo sorprende. Peter fabbrica altre ragnatele, per poi fare capriole qua e là distruggendo oggetti e avviando simulazioni che prima non sarebbe mai stato in grado di completare. Si sente estraniato dal mondo, ma no necessariamente in modo negativo, e per qualche momento sembra che non vi sia una guerra, o battaglie, né Capitol né Hunger Games. C’è il qui, e Tony che beve caffè. MJ, la sua famiglia. Ned e May che esplorano il Tredici mentre lui si allena.

Poi arriva la chiamata.

PETER PARKER E TONY STARK. PREGO FARE RAPPORTO IN SALA PRODUZIONI 17-A, UNDICESIMO LIVELLO, PER PRODUZIONE PASS-PRO.

Peter balza giù dal soffitto e fissa Tony, col cuore che batte un po’ più veloce. “Ora?” chiede.

Tony rilascia un respiro, mandando giù la sua ultima tazza e avvicinandosi a lui. “Sembrerebbe di sì.”

Peter annuisce, e tutta la spavalderia che aveva fino a un momento fa scema, risucchiata da un buco di scarico. Annuisce di nuovo, mordicchiandosi il labbro inferiore e ascoltando le pulsazioni rapide del suo cuore.

Tony si ferma di fronte a lui e gli posa una mano sulla spalla. “Saremo tutti lì con te,” gli dice. “Fai finta di parlare con noi, ed è fatta.”

 
§

 
Peter non ha idea di cosa aspettarsi, quindi quando supera le porte affiancato da Tony tenta di reprimere la sorpresa.

Di sicuro, sono tornate le telecamere.

La stanza è piccola, anche se il soffitto è più alto di quanto avrebbe immaginato, ed è per lo più scura, con le pareti nere. C’è un piccolo palco direttamente di fronte a lui, e lì i muri sono verdi, delineati da luci fluorescenti. Le telecamere svolazzano sul palco, ronzanti. Ce ne sono almeno dieci.

May, MJ e Ned sono accomodati su delle sedie lungo il muro, e ce n’è una libera accanto a May, presumibilmente per Tony. C’è una vetrata sulla destra, dietro di loro, e a Peter ricorda i giudizi, con un brivido che gli corre lungo la schiena. All’interno vede Fury, intento a parlare con Bruce.

May si alza in piedi, con gli altri due che la seguono rapidi. “Stai bene, tesoro?” gli chiede. “Ho parlato con Fury e ha detto che non dovreste metterci troppo.”

“Okay,” replica Peter, rivolgendo un’occhiata fugace a Tony. “Sì, sì, sarà– andrà bene”. Ha già avuto un assaggio di tutto ciò. Più o meno, se si contano le interviste del Gran Maestro.

“Saremo proprio qui,” dice MJ.

“E non è in diretta, quindi…” aggiunge Ned. “Così hanno detto. Sarà più semplice di quello che hai fatto a Capitol.”

“Già,” replica Peter, deglutendo a fatica.

“Va bene, eccomi,” dice la voce di Sam, alle spalle di Tony. Si sta affrettando verso di loro con qualcosa tra le mani. “L’ho appena finita, cavolo, mi stavano col fiato sul collo.” Solleva il nuovo costume, nero, lucido, con l’aspetto metallico di quello che ha indossato alla prima intervista. Ha un ragno giallo decisamente più grande al centro del petto, e un altro sulla schiena. [1] “Ho cercato di adattarlo alla novità di piedi e mani appiccicosi…”

“Bene,” dice Tony, rivolgendogli un’occhiata. “Mi hai letto nel pensiero.”

“E questo gioiellino potrebbe anche essere adatto a un combattimento,” continua Sam. “È a prova di proiettile. Se mi avessero dato più tempo, avrei potuto aggiungerci qualche altro fronzolo…”

“Va benissimo,” dice Peter, annuendo rivolto a lui, e gli piace sul serio, pensa davvero che sia qualcosa di speciale. Non riesce ad esprimerlo a dovere, però, perché ha la bocca completamente secca, e si sente di nuovo intrappolato in un orologio ticchettante. Gli lampeggia in testa l’arena, e intorno a lui si fa più buio. “Uh, dove posso…”

“Di qua, vieni,” dice Sam, facendogli cenno.

Peter si cambia in fretta, ascoltando il tump tump del proprio cuore, e quando esce di nuovo Bruce è vicino al palco, con Tony al suo fianco.

“Bene, Peter,” dice Bruce, invitandolo ad avvicinarsi. “Devi solo… salire là sopra, leggere dal gobbo digitale e fare del tuo meglio. Sarai perfetto, ne sono sicuro. Lo sfondo dietro di te sarà una ricostruzione delle forze ribelli che prendono d’assalto Capitol, con te nelle prime linee; faremo qualche aggiustamento per farti sembrare appena uscito dalla battaglia, ma ancora forte e pieno di vigore; e pronuncerai quello che potremmo considerare… una proclamazione di vittoria.”

Peter risucchia un respiro, a malapena in grado di tenersi in piedi. “Okay,” risponde, rivolgendo uno sguardo a Tony. Lui ha in faccia un’espressione indecifrabile, ma Peter capta delle ombre di dubbio riguardo a tutta la faccenda.

Sale sul palco, e socchiude di scatto gli occhi contro le luci abbaglianti. Non riesce a vedere quasi nulla oltre esse, né Bruce né Tony, né gli altri seduti vicino al muro. Respira a fondo dalla bocca, col petto che si stringe per l’ansia, e cerca di ripetersi che tutto questo non è in diretta, come ha detto Ned. Non deve implorare gli sponsor. Non è questione di vita o di morte.

Ma lo è. Solo, non la sua.

Il gobbo digitale di fronte a lui si illumina, fornendogli le parole, e Peter rilascia un respiro spezzato, annientato dalla paura di fronte a tutto questo, e a quello che significa, e a quanto peso gli stia di nuovo premendo sulle spalle. Una piccola luce rossa si accende accanto al gobbo.

Esita per un lungo secondo, poi inizia a parlare.

“Ci sentiranno nelle strade,” dice, probabilmente troppo piano, con gli occhi che scorrono rapidamente le battute. “Ci sentiranno… marciare nella residenza…”

Taglia, taglia,” dice la voce di Fury, e Peter si sgonfia, chiudendo con forza gli occhi. “Un po’ meno svociato, ragazzo, e un po’ più veloce, va bene?

“Okay,” dice Peter, annuendo.

Riproviamo. Sei l’eroe di una conquista, capito?

Peter annuisce. Non si sente affatto così. Non si è sentito così neanche quando è uscito dall’arena. La luce rossa si riaccende.

“Ci sentiranno nelle strade!” dice Peter, più veloce, decisamente troppo veloce, ma va avanti. “Ci sentiranno marciare nella residenza, con solo… amore nei nostri cuori, per un mondo…”

Taglia,” dice di nuovo la voce di Fury.

Peter sospira, sentendosi già esausto e stremato, e porta una mano a sfregarsi gli occhi. Prova a individuare Tony, di trovare una connessione con lui, uno sguardo, qualunque cosa, ma sa di non potersi arrendere subito. Deve farcela.

Si vede che stai leggendo, ragazzo, dai solo un’occhiata al gobbo e poi guarda le telecamere.

“Okay, capito,” dice Peter, mordicchiandosi il labbro inferiore. Risucchia un altro respiro, spostando il peso da un piede all’altro. Gli fa male il petto e si scrocchia il collo, cercando di non entrare nel panico. Continua ad avere flash dell’arena. Di quella stanza, coi ragni.

“Stai bene, Pete?” chiede la voce di Tony.

Peter rilascia un respiro, ne incamera un altro, e guarda nella direzione da cui viene la voce. “Uh, sì,” risponde.

“Sicuro?”

Peter annuisce.

Sta benissimo, vai, Peter.

La luce rossa si riaccende, e Peter sente il cuore che sprofonda. Tiene alta la testa e cerca di concentrarsi. “Ci sentiranno nelle strade,” dice. “Ci sentiranno… marciare nella residenza…”

Tony entra nel suo campo visivo. Sale sul palco e si piazza direttamente davanti a lui, dandogli una pacca sulla spalla.

Stark, andiamo,” dice Fury. “Sei–

“Si possono spegnere le luci, per favore?” chiede lui, educatamente, e Peter vorrebbe accasciarsi addosso a lui per il sollievo, con la testa sulla sua spalla. Tony gli scompiglia i capelli.

“Peter–” comincia May.

“Va tutto bene, May,” dice Tony. “Le luci, prego, mh?”

Peter sente Fury che sospira, e poi le luci si attenuano. Alza la testa e Tony lo lascia andare: adesso riesce a vedere gli altri, oltre a Sam che sta lì a braccia incrociate, Bruce dietro le telecamere, un paio di tecnici nella saletta con Fury. Peter si sente un totale imbecille, e sa che ormai si stanno pentendo tutti dell’icona che si sono scelti.

“Prima di tutto, chiunque abbia scritto quella…” Tony s’interrompe, scuotendo la testa. “Fury, se sei stato tu, ti serve uno sceneggiatore presidenziale. Prima di subito.”

Peter sente lo sbuffo di Fury, ma non dà cenno di voler ribattere.

“Secondo… perché amiamo Peter Parker?” chiede Tony, guardandosi intorno. “Perché amiamo Peter? So che ci sono cinque persone in questa stanza, incluso me stesso, che amano il ragazzo. Uno di voi, forza. Perché?”

Peter sente il proprio cuore che riprende a battere più velocemente.

“Perché è spontaneo,” dice May, con orgoglio.

“Esatto,” dice Tony. “È buono. È spontaneo. Aiuta le persone, non segue un copione. Questo è– questo sembra loro. Non sembra lui.”

Peter abbassa lo sguardo con le guance che vanno a fuoco, e non dice nulla.

Quindi cosa suggerisci?” chiede Fury.

“Lasciatelo parlare,” risponde Tony, con un ampio gesto della mano. “Lasciategli dire quello che ha vissuto. Perché vuole far parte della resistenza. Se la gente vede quello, nei luoghi in cui si combatte, lo seguiranno. Non vogliono vedere una schifezza di filmato di propaganda messo insieme alla bell’e meglio. Vogliono vedere lui, vogliono sapere quello che pensa lui. Sono più intelligenti di quanto pensiate.”

C’è un breve silenzio, e Peter guarda Bruce, che guarda a sua volta in direzione di Fury.

Va bene,” dice Fury. “Vai avanti finché puoi, ragazzo. Faremo dei tagli se necessario.”

“Col mio aiuto,” sottolinea Tony. Fury non dà cenno di averlo sentito. Tony si volta, fissando Peter, e gli fa cenno di mettersi seduto. Si piazzano entrambi sul bordo del palco, e le telecamere li seguono. “Rimarrò proprio qui,” dice lui, facendogli un cenno. “Possono rimuovermi in seguito. Sii solo… onesto. Sii te stesso.”

“Va bene,” esala Peter. “Va bene.”

“E niente luci rosse,” aggiunge Tony. “Tenetevi pronti per quando è pronto lui, e basta.”

“Datemi uno sfondo dell’arena,” dice Bruce. “O magari di qualche posto nel Dodici.”

Peter si sente molto meglio con Tony quassù con lui, e prende un altro respiro profondo, cercando di convogliare tutto ciò che è dentro di lui e che riguarda l’argomento. C’è così tanto, troppo, e deve condensarlo.

Punta gli occhi nella telecamera. Prende un respiro e comincia.

“Gli Hunger Games sono stati parte della mia vita sin da quando sono venuto al mondo,” dice, inclinandosi verso destra per toccare la spalla di Tony. “I miei genitori sono stati costretti a creare mutanti per Capitol, sapendo costantemente che in futuro, un giorno, avrebbero potuto uccidere loro figlio. Sono stati assassinati, mentre ricercavano una vita migliore per le generazioni successive. Mio zio Ben è morto in conseguenza delle condizioni di vita nel Dodici, quelle che tutti i Distretti devono affrontare ogni singolo giorno.”
Abbassa lo sguardo sulle proprie mani quando gli si incrina la voce, e risucchia un respiro, cercando di andare avanti. “Ho vissuto nella paura, la stessa in cui avete vissuto voi, ogni anno, chiedendomi se sarei stato scelto. Ma la paura è stata peggiore quando ho realizzato che avevano pescato da quell’urna il nome del mio migliore amico, e che avrei dovuto vederlo combattere per sopravvivere, e dovevo… non potevo permettere che uccidessero anche lui. Tutto ciò che precede i Giochi è di per sé un gioco. Non possiamo dire ciò che vorremmo dire. Non possiamo andare dove vorremmo andare. Siamo tutti prigionieri, tutti noi, solo che i Tributi sono prigionieri in vetrina. Io… il Presidente Stane ha mandato quei ragni per me, appositamente. E l’avete visto tutti. Avete visto tutti cosa è successo. Quel dolore sarà… vivrà per sempre dentro di me. Non me ne libererò mai, e neanche della paura che hanno instillato nel mio cuore. Il fatto che io sia qui è un miracolo, è la possibilità che così tanti prima di me non hanno avuto. E ora posso dire quello che voglio. Ora posso dire che voglio combattere per voi. Combattere al vostro fianco, per la vita che meritiamo. Tutti di noi, ognuno di noi è intrappolato, bloccato… chiuso a chiave nella vita e nelle posizioni in cui ci hanno costretti. Anche la gente che vive a Capitol, e anche voi lo sapete.”

Si morde il labbro inferiore, lancia un’occhiata a Tony, e lui gli fa un cenno.

“Non vorrei mai una guerra,” dice Peter, a bassa voce. “Non voglio altra morte, altre perdite, altri… spazi vuoti dove prima c’era qualcuno di prezioso. E abbiamo tutti delle persone, abbiamo tutti delle persone che amiamo. Ma Capitol non ci permetterà di tenerle vicine. Continueranno a prendere e prendere e prendere, finché non sarà rimasto nessuno. Ed è per questo che tutti noi dobbiamo sollevarci. Tutti noi dobbiamo combattere per il futuro. Per un mondo senza Hunger Games. Senza Pacificatori a ogni angolo. Senza chiederci se questo giorno sarà l’ultimo. Ho… ho provato la perdita, ho provato la morte da entrambi i lati, e voglio un mondo che… sappia cosa sia la pace. La vera pace, con scelte reali. Vi prego. Difendete ciò in cui credete. Vi prego, incontratemi dall’altra parte. In un mondo per cui abbiamo combattuto. Un mondo che abbiamo vinto. Uno che ci siamo guadagnati.”

Abbassa di nuovo lo sguardo, e non trova nient’altro da dire. Una lacrima gli scivola lungo la guancia e la asciuga rapido. Tony si sporge verso di lui, stringendogli il ginocchio.

Non mi capita spesso di riconoscere qualcosa a qualcuno,” dice la voce di Fury. “Ma Stark, avevi assolutamente ragione. Per oggi è tutto. Grazie mille, signor Parker.

“Tutto qua?” chiede Peter, alzando lo sguardo.

“Per ora,” dice Bruce, piano. “Hai fatto un lavoro incredibile, Peter. Arriverà dritto ai loro cuori.”

“Su,” dice Tony. “Andiamo a mangiare qualcosa, okay?”

 
§

 
Peter non sa come Tony li abbia convinti a cucinare dello stufato di mais, ma il primo boccone lo riempie di quel tipo di calore che ha continuato a cercare da quando è arrivato qui. Peter, Tony, May, MJ, Ned e Sam sono seduti tutti insieme in una sala privata per pranzare, e Peter sente di poter dormire per giorni. La mancanza di Janet lo spaventa, ma arriva proprio mentre lui dà l’assalto alla seconda porzione, prendendo posto in silenzio accanto a Tony e posando un bacio veloce sulla testa di MJ.

“Sono contenta che tu abbia cambiato le carte in tavola, Tony,” dice May, aprendo infine il discorso ora che sono da soli. “Sono… credo che siano rimasti sottoterra troppo a lungo.”

“Uno come Bruce dovrebbe avere un po’ più di dimestichezza,” dice Sam, rigirandosi la forchetta tra le dita. “Ha fatto parte di Capitol per anni, ha visto il loro valore di produzione.”

“Ma non vogliamo che tutto questo somigli a loro,” dice MJ.

“Mi ha innervosito,” interviene Peter. “Finché… finché non si è intromesso Tony non– non sapevo come sentirmi.”

May sospira, sporgendosi per accarezzargli il braccio.

“Non vogliamo che tutto ciò diventi una nuova versione di Capitol,” dice Tony. “Basta dare un’occhiata alla nostra storia. A volte succede proprio sotto i nostri nasi e non ce ne rendiamo conto finché non è troppo tardi. Non sono neanche sicuro che si siano resi conto di aver sbagliato. Nel modo in cui ti stavano presentando.”

“Ma lui ha sistemato le cose,” dice Janet. “L’ho visto, e… ed era davvero ottimo, Peter.”

“Perché era se stesso,” dice Ned. “So per certo che ci sono un sacco di persone là fuori che vorrebbero solo… parlare con Peter, sapere cos’ha da dire, quindi quella pubblicità… farà la differenza, so che sarà così.”

“Sai quando la trasmetteranno, Tony?” chiede Sam.

“Dovrebbero già averla messa in onda,” dice lui, e Peter non si lascia sfuggire il rapido sguardo che gli rivolge.

Peter è di nuovo in quella condizione in cui si guarda dall’esterno, in cui si sente come se qualcun altro sia presente al posto suo, e lui non deve quindi ricordarsi i dettagli. Ma sente ancora quel dolore vicino al cuore, che cerca di trattenerlo qui, che gli ricorda che è convolto, con tutto se stesso.

“Uh, posso averne ancora?” chiede poi, lanciando un’occhiata all’altra teglia di stufato.

“Certo che sì,” dice Tony, con un ampio sorriso.

 
§

 
L’assenza di giorno e notte e quel sovraccarico di emozioni fanno desiderare a Peter di dormire, e una parte di lui vorrebbe allontanarsi da tutti gli altri. Vuole costruire dei muri, cacciarli tutti via, tenerli alla larga da lui. Sarebbe meglio in ogni caso, e se lo meriterebbe. Si meriterebbe quella solitudine, quell’isolamento. Chissà come, ha ingannato tutti convincendoli che fosse importante, e gli sembra uno degli errori più grandi che abbia mai commesso.

Ma un’altra parte di lui vorrebbe cementarsi addosso a loro e non lasciarli mai andare. Quella parte di lui vuole regredire, vuole piangere e piangere e piangere per impedire loro di allontanarsi, per farsi accudire da loro.

Non riesce a trovare una buona via di mezzo, ed ha la nausea a forza di pensare che non esista una vera pace. Che non ci sia davvero un posto per lui e la vita che vuole vivere. Adesso ha delle responsabilità.

Nei suoi sogni c’è la luce che abbandona gli occhi di Scott. La voce di Tony, che urla. L’esplosione.

Si sveglia di soprassalto quando May lo riscuote.

“Scusa, tesoro,” dice, e ci sono delle linee addolorate sulla sua fronte, la sua bocca è rigida e serrata.

“Cosa è successo?” chiede lui, strofinandosi gli occhi e alzandosi a sedere con le vertigini. “Che succede?”

“Hai dormito per cinque ore,” dice lei, e le trema la voce. Lo aiuta ad alzarsi. “Vieni.”

Il sistema d’allarme nella sua testa ronza d’impazienza, e gli sembra di essersi perso qualcosa mentre dormiva. “Tony sta bene?” chiede, e si ritrova a tremare. “MJ? Ned?”

“Sì,” dice lei, e lo prende per il braccio, guidandolo fuori dalla stanza.

“May, che sta succedendo?” chiede lui, seguendola in preda all’ansia, e gli ricorda il momento in cui è morto Ben. Quando non riusciva nemmeno a parlare, come se tutta l’aria fosse stata risucchiata dallo spazio attorno a loro.

“Devo…” balbetta, e gli stringe il braccio più forte che può. Guarda fisso davanti a sé, e non è normale vederla così. “Devo, uh, solo portarti… dagli altri. Devono dirtelo loro.”

“May,” dice Peter, con la gola che si stringe. “Dimmelo.”

Tony esce dalla stanza davanti a loro, svolta l’angolo e si avvicina concitato quando li vede. “Peter,” dice, e anche la sua voce traballa. “Ragazzo.”

Peter si stacca da May, facendoglisi incontro, con cuore che gli batte follemente. “Che succede? Chiede di nuovo. “Che è successo? Che è successo?” Sente qualcosa provenire dalla stanza da cui è uscito Tony, sembra lo statico di una radio, confuso a una voce spezzata.

“Peter, adesso devi…”

Peter lo supera di corsa, oltre la porta aperta. È un piccolo ufficio, e Bruce è lì, assieme a un altro paio di uomini in divisa. Stanno guardando… Peter non capisce cosa sia. Sembra… sembrano le immagini del Tredici che hanno sempre mostrato loro, proprio dopo il bombardamento. Pura distruzione, cadaveri, ceneri– il– il Municipio nella– nella piazza– il Municipio nel Dodici– quello è il Municipio nel Dodici– sventrato– spazzato via…

Peter sente il proprio corpo che viene attraversato da scosse, e porta le mani ad afferrarsi la gola.

Il Dodici è stato completamente annientato– popolazione– forse un centinaio di profughi in– se è–

La sua vista si riempie di macchie e non respira, non respira. “Hanno bombardato– hanno bombardato il Dodici?” geme. “Hanno bombardato il Dodici?”

“Circa mezz’ora fa,” dice Bruce, a capo chino. “Stiamo ricevendo adesso le segnalazioni.”

Peter ondeggia, cercando di riprendere fiato, di smettere di tremare, prova a– prova a– pensare, ed emette degli stupidi versi piagnucolanti che non riesce a fermare, e porta la mano a coprirsi la bocca. Hanno bombardato il Dodici, hanno bombardato il Dodici. La sua casa. La sua casa. Hanno distrutto la sua casa. Annientata. Solo un centinaio di sopravvissuti su migliaia di migliaia.

“Peter,” sussurra Tony, accanto a lui, toccandogli la spalla.

Peter sente lacrime bollenti che gli scivolano sulle guance, e lo shock attraversa elettrico il suo corpo, col cuore che pulsa di dolore, un dolore lancinante, che lo pugnala…

La realizzazione lo colpisce. Come una tonnellata di mattoni. Il suo spot  è andato in onda ovunque, giusto poco fa. Proprio prima che lui andasse a dormire. Il suo spot è stato trasmesso ovunque. E adesso questo. Adesso questo. Il Dodici non esiste più. Perché pensavano che lui fosse lì? Perché volevano vendicarsi? Non importa. In ogni caso. In entrambi. È colpa sua. È colpa sua. Sono tutti morti per colpa sua. Sono tutti morti per colpa sua.

“Non è colpa tua,” sussurra ancora Tony.

Peter sente May che piange e gli ricorda di nuovo Ben, qul giorno, e lui è cresciuto con Ben nel Dodici. Ben ha passato la sua intera vita nel Dodici. Ben è sepolto lì, la sua tomba è lì. Peter nel Dodici ha conosciuto i suoi genitori, ed è dove hanno scelto di salvarlo. Niente di tutto questo… niente esiste più. Niente. Non c’è più. I suoi occhi scattano verso gli schermi, che mostrano la carneficina. Corpi ovunque, immobilizzati nei loro ultimi, terribili istanti. Persone che conosceva. Persone con cui ha vissuto fianco a fianco. La sua casa, la sua casa, e non c’è più. Non c’è più ed è colpa sua. È colpa sua.

Prende un passo tremante all’indietro, col corpo che sembra troppo pesante, e percepisce la mano di Tony sulla schiena. Le emozioni lo stanno strangolando e non sa a quale aggrapparsi, non sa quale sia giusta, e scopre ben presto che la sua rabbia sta crescendo con nuovo vigore. Rabbia, e il bisogno di combattere.

Si volta, aggira Tony, supera May, e si avvia lungo il corridoio. Riesce a malapena a vedere oltre le proprie lacrime, e serra la mascella.

“Dove stai andando?” lo chiama Tony, seguendolo.

“Devo combattere,” dice Peter, cercando di ricordarsi la strada che ha fatto con Frank la prima volta che è arrivato qui. Deve incontrare Fury. Deve salire su uno degli elivelivoli là fuori. “Devo– devo imbarcarmi con– con i soldati del Tredici, ovunque abbiano più bisogno di noi, devo– devo combattere.”

No,” dice Tony, con voce roca, e Peter lo sente cercare di tenere il passo. “Neanche per sogno, no.”

Peter svolta l’angolo e si dirige verso gli ascensori.

“No, Peter,” dice ancora Tony, e stavolta la sua voce si spezza. “No.”

Peter sente le lacrime che aumentano, e continua a vedere le immagini su quello schermo. Non potrà mai tornare indietro. Neanche se vincono. Non a com’era prima. È andato, è andato. Sono tutti morti. Ceneri. Ceneri.

“Peter!” si alza la voce di May, e sembra così distante.

“Devo farlo,” dice Peter. “Devo fare… devo fargliela vedere– devo– ho bisogno di–”

Tony lo afferra da dietro, strettamente, bloccandogli le braccia lungo i fianchi, e mantiene la presa, cercando di frenare la sua avanzata. A Peter ricorda i loro allenamenti prima dei Giochi, e non riesce a pensare lucidamente, non riesce a pensare, a pensare, tutti quei corpi, tutta quella morte, la sua casa, la sua casa, è spazzata via, l’hanno ridotta in cenere, l’hanno bruciata…

“Lasciami andare,” rantola. “Tony, devo– devo farlo– devo–”

“So che puoi farcela,” dice Tony, vicino al suo orecchio. “So che potevi prima, e sicuramente puoi farcela ora, ma Peter, io–”

Ceneri. Ceneri. Sono tutti morti, sono tutti morti, cazzo. Tutti i suoi ricordi sono sepolti tra quelle macerie, il fantasma dei passi di Ben, ed è colpa sua, è colpa sua, per via di quello spot, di quello che ha detto…

“Devo andare,” singhiozza, e si trascina in avanti, spingendosi via dalla stretta di Tony.

Sente lo schiocco, sente Tony che emette un sibilo, lo vede stringersi il polso. Il mondo sembra smettere di tremare per un secondo, e poi comincia a rompersi. Si era detto che non avrebbe mai fatto loro del male, a nessuno di loro, non alle persone che ama, e adesso ha ferito Tony, e May è proprio dietro di lui e vede i suoi occhi sbarrati, scioccati, ed è stato lui, è stato lui a fare anche quello. Tony ne ha già passate così tante, cazzo, e adesso gli ha fatto di nuovo male. Gli vuole bene e gli ha fatto male. Rimane lì a fissarlo, attonito.

“Ehi, non m’importa,” dice Tony, scuotendo la testa. “Non m’importa. Non m’importa. Vedi?” Solleva il polso, rigirandolo, e non riesce affatto a celare il suo sussulto di dolore. Ma scuote comunque la testa, di nuovo, col reattore arc che riluce sotto la maglietta. “A me non importa. Sapevo che sarebbe successo, volevo solo… attirare la tua attenzione, okay? Okay?” Ha anche lui le lacrime agli occhi. Era anche casa sua. Peter continua a fissare il suo polso, e si sente la testa leggera.

“È colpa m–”

“Invece no,” lo ferma Tony facendo un passo verso di lui, esitante. “Non è colpa tua. Affatto. È ciò che quel bastardo vuole che tu pensi, Pete. Ti conosce. L’avrebbe fatto comunque, capito? L’aveva già pianificato. L’avrebbe fatto al Quattro. All’Undici. Non è colpa tua.  Non lo è. Non lo è. Capito?”

Peter sente il labbro inferiore tremare e abbassa lo sguardo, risucchiando un respiro. Il suo senso dell’equilibrio è sfasato, e fa un passo indietro. Lontano. “Voglio– devo fargliela vedere, Tony, io– è stato lui, è stato lui e– e io sono inutile, cazzo, sono inutile qui, potrei– potrei fare la differenza là fuori, potrei– potrei fargliela vedere, potrei– potrei fargliela pagare–”

Tony fa due ampi passi verso di lui, sempre tenendosi il polso, come se stesse cercando di contenere il dolore. “Non posso perderti,” dice a bassa voce. “Non posso. Ti ho detto quello che vuole fare Janet. Te l’ho detto. Non so dove diavolo sia, potrebbe– potrebbe già essere morta, Pete, e io… May, Michelle, Ned, tutti quanti, maledizione… sei essenziale, lo capisci? Per tutti noi. Sei insostituibile. Abbiamo già dovuto vederti morire e, ragazzo, attraverserei l’inferno piuttosto che lasciarlo accadere di nuovo. Non mi importa di quanto cazzo sei forte adesso o di quante ossa mi rompi, non me ne frega un cazzo. Io non conto nulla, okay? Tu sì. Tu sì, e non è colpa tua, e non te ne andrai.”

“Ha ragione,” dice May, avvicinandosi rapida. “Piccolo, non puoi–”

“No,” dice Peter, tendendo una mano verso di lei e piangendo più forte. “Non avvicinarti, non posso–… non posso farti male–  ho già– ho già fatto male a Tony–”

“Io sto bene,” dice Tony, scuotendo la testa. “Non ho bisogno di mani, o polsi, o quel che è. Non importa. Capito?”

Il mondo si riempie di crepe tutto attorno a lui. Il Dodici non esiste più. Non esiste più. E lui è inutile, maledettamente inutile, ed è terrorizzato al pensiero che, per un momento, mentre marciava a passo di carica in quel corridoio, voleva morire. Che voleva gettarsi in battaglia, uccidere quanti più droni di Capitol prima di venire eliminato definitivamente. Non sa come si senta adesso, nel guardarli, attraverso le lacrime. Non lo sa.

Si avvicina barcollando al muro, chiude gli occhi e vi preme contro la fronte. Il dolore erompe da lui in un pianto ovattato, e sente May e Tony che si accostano ai suoi fianchi, posandogli le mani sulle spalle.

“Non è colpa tua, Peter,” sussurra Tony. “Non lo è.”

“Doveva aver già progettato tutto,” dice May, baciandogli la spalla. “Avrebbe potuto scegliere qualunque Distretto. Poteva accadere a chiunque.”

“Non ce la faccio,” esala Peter, con la testa che gira sempre più. Tutto ciò che riesce a fare è ferire. Il Dodici non esiste più. Non esiste più. “Non– non ce la posso fare–” Chiude gli occhi, e vede solo cenere.

Scivola nel buio.

 
§

 
Tony siede sulla sponda del letto di Peter una volta che Cho gli dà il via libera, poi gli ricompone la frattura del polso, fornendogli un gesso che è piccolo e senza pretese, uno che si spera non attirerà subito gli occhi di Peter quando si sveglierà.

Tony non stava mentendo quando ha detto quello che ha detto. Non gli importa. Permetterebbe a Peter di rompergli ogni singolo osso, pur di non lasciare che si unisca ai combattimenti in questo stato, ed è piuttosto sicuro che May la pensi allo stesso modo. Quest’ultima entra e si siede accanto a lui sul letto, prendendogli la mano.

“La nostra casa,” sussurra poi. “La nostra casa.”

Tony annuisce. Si è dissociato dal Distretto Dodici da quando è stato mietuto, ma voleva proteggere quelle persone. Ripensa a dove viveva con Pepper, prima che tutto cambiasse. Era seppellita lì. Stane gliel’aveva concesso. Adesso non c’è più nemmeno un luogo dove farle visita. Sono tutti morti. Il Dodici non aveva un sottosuolo in cui rifugiarsi.

“Spero che tu sappia che non è colpa sua per davvero,” dice Tony, e a questo punto prega che il ragazzo stia fingendo di dormire. Che se ne stia disteso lì, sveglio, in ascolto. “Questo tipo di cose richiede pianificazione. Preparativi. Per quanto Stane sia folle, non si può fare qualcosa del genere in un batter d’occhi, nel lasso di tempo che è intercorso dalla messa in onda. Era pronto. Stava… aspettando il momento giusto. Sa perfettamente come ferire le persone.”

“Lo so,” risponde May. “E Bruce ha detto… che gli scontri si sono inaspriti, da quando i Distretti l’hanno visto. C’è stato più coinvolgimento. Più compattezza. Più scontri.”

Tony si morde il labbro inferiore e annuisce. Bruce ha detto così. La notizia del bombardamento aveva… semplicemente eclissato tutto il resto. “Se potesse spazzarci tutti via, l’avrebbe già fatto,” dice poi. “L’avrebbe fatto in un sol colpo. Un attacco coordinato. Credo che… che abbiano usato gran parte delle loro risorse.” Non ne è davvero certo. Lo spera e basta. Quella sensazione che ha nel petto è tremenda, e Peter era la luce che gli permetteva di andare avanti. Deve fare in modo che il ragazzo si riprenda.

Rimangono seduti lì a lungo, in silenzio, e May continua a tenergli la mano. Tony vorrebbe che Peter avesse qualcun altro, a parte lui. Qualcuno forte quanto May. Lui non è neanche lontanamente paragonabile allo zio del ragazzo, ed è certo che ne siano entrambi coscienti.

Qualcuno bussa alla porta, e Bucky sporge la testa all’interno prima che uno di loro due possa aprirla. Tony intravede Steve subito dietro di lui, in corridoio.

“Uh, Tony,” lo chiama Bucky. “Sei richiesto.” Guarda May, e le fa un rapido cenno. “Scusi, signora Parker,” dice, abbassando la voce.

“Non fa niente,” replica lei, ricambiando il cenno. Lo guarda con sincero affetto e Tony sa che, a dispetto della situazione e degli ultimi eventi, tutti sono al settimo cielo nel vedere che i Tributi dati per morti non lo sono affatto.

May lascia andare la sua mano.

“Un momento,” dice lui, rivolgendo un’occhiata agli altri, e Bucky lascia che la porta si richiuda. Tony si alza, buttando fuori un respiro, e si avvicina a Peter. Si accovaccia vicino alla testa del letto, toccandogli delicatamente il braccio. “Ti voglio bene, ragazzo,” dice. “Torno subito.” Aspetta per un secondo, sperando che Peter si svegli e lo guardi, ma non succede. Gli stringe il braccio e si alza in piedi, dirigendosi alla porta.

“Che succede?” chiede, quando la richiude. “Non ce la faccio a reggere altre brutte notizie, Buck.”

Lui scambia un’occhiata con Steve, e Tony percepisce un qualcosa di strano che viene trasmesso dall’uno all’altro, come se fossero più in confidenza di quanto avesse pensato in precedenza.

“Steve, uh…” esita Bucky, chinando il capo. “Diglielo.”

“Cristo, cosa?” chiede Tony, e non ha idea di dove si stiano dirigendo, o perché. Se ci fosse stato un altro bombardamento l’avrebbe saputo e non può farci i conti ora, cazzo, soprattutto se coinvolge Peter. Fissa Steve, sgranando gli occhi. “Cosa, Rogers? Cosa?”

“Uh, Janet è partita circa un’ora fa,” dice lui, con la mascella contratta. Superano l’ufficio nel quale hanno saputo del bombardamento poco fa, ma lui rivolge a malapena uno sguardo alla porta chiusa. Steve prosegue. “Si è diretta verso il Quattro, insieme a M’Baku, Frank Castle, Misty Knight e qualche altri Tributo degli anni scorsi.”

Tony ha la bocca secca. Non sa come faccia a continuare a muoversi.

“Ho cercato di farla ragionare,” dice Steve, e Bucky si frappone tra loro due, come se si aspettasse che Tony attacchi Steve, o chissà cosa. “Ma lei… insomma, aveva preso la sua decisione, e ha minacciato di darmi una botta in testa quando ho tentato di chiamarti.”

“Avresti dovuto lasciarglielo fare,” dice Tony, cercando di tenere a bada un attacco di panico, oltre a nuove lacrime.

“Abbiamo visto tutti di cosa è capace Janet,” dice Bucky, senza guardare nessuno dei due. “L’avrebbe messo fuori gioco in due secondi netti.”

Tony sente dei brividi lungo le braccia.

“Non è una condanna a morte, Tony,” dice Bucky. “È con gente altamente qualificata…”

“Non so neanche perché li lascino andare via,” dice Tony, tra i denti digrignati. “Non hanno alcun vero e proprio addestramento militare, neanche un po’, cazzo, nessuno di noi ce l’ha…”

“Lavorano con ciò che hanno a disposizione,” dice Steve, in un respiro, e la parte razionale di Tony conclude che neanche a lui piaccia tutto questo. Ma la sua parte più emotiva si sta sgretolando, lo sospinge verso il Distretto Quattro, poi lo radica sul posto, incitandolo a tornare nella stanza di Peter e piantarsi di fronte alla porta per impedirgli di andarsene. Di partire e farsi uccidere. Janet non può morire. Non può. E lui non lo saprebbe nemmeno, cazzo. Non saprebbe nemmeno che il suo mondo è diventato un po’ più piccolo.

Magari lo percepirebbe.

Cerca di darsi un contegno. Cerca di rimanere un normale essere umano e non la stella morente e sul punto di collassare che si sente adesso. Cerca di ricordarsi quello che si è ripetuto prima. Lei è padrona di se stessa. È la sua decisione. Ma questo gli fa pensare che anche Peter sia padrone di se stesso. No, Peter ha sedici anni. No, la partenza di Peter ucciderebbe Tony, e anche May. È come una bruciatura. È come qualcosa che va a fuoco.

“Dove stiamo andando?” chiede, suonando a malapena riconoscibile.

“Quella è, uh, tutta un’altra storia,” dice Bucky. “A parte. Uh, un qualcosa che potrebbe essere qualcosa. O niente. Potrebbe.”

Tony lo fissa in cagnesco.

“Ma, uh, Janet ti ha lasciato questo,” dice Steve. Gli tende un auricolare, e Tony lo fissa nel proprio palmo. Gli sembra una bomba. Ultimamente pensa un po’ troppo spesso alle bombe. Steve si schiarisce la voce. “Uh, devi premere…”

“Sì, grazie, stellina, so come si usa,” dice Tony. O meglio, scatta, e si sente in colpa, ma non dice nulla per esternarlo. Si ficca l’auricolare nell’orecchio e preme il tasto rosso, con gli altri due che si fanno silenziosi per permettergli di ascoltare.

Spero che tu non sia troppo arrabbiato,” dice lei, con la traccia di una risata nella voce, e così fa ancora più male. “Solo che sapevo che avresti provato a fare qualcosa, se ti avessi detto il momento preciso. Se fossi stato lì. Solo… so quello che ti ho detto, e mi sento un’ipocrita, ma adesso, alla fine, dopo tutto quello che è successo, sento di dover fare qualcosa. Devo essere… degna. È un ultimo inno a Hank e Hope. Combattere contro coloro che me li hanno portati via. Ho finalmente l’occasione per renderli fieri. Per assicurarmi che non un’altra madre perda un altro figlio. O una moglie il proprio marito.
Ti voglio un bene dell’anima. Sei stato la luce della mia vita sin da quel giorno terribile, e in tutta questa oscurità avevo te, e tu avevi me. Ma non hai più bisogno di me, tesoro. Sei forte, davvero, e adesso hai chi ti sostiene. Puoi farcela. So che puoi. Sarai nel mio cuore, non importa cosa dovrò affrontare, e non importa quel che accadrà: ti vedrò di nuovo.
Ti voglio bene, Tony. Prenditi cura di loro. Prenditi cura di Peter, e della mia Michelle.”

Si schiarisce la voce, e si sente qualcosa in sottofondo, poi il messaggio si interrompe.

Tony si sfila l’auricolare e lo fa scivolare in tasca. Si sente come se stesse per scomparire da un momento all’altro, perché lei è l’unica persona che l’ha sempre tenuto in piedi, che l’ha tenuto in vita per tutti questi anni. C’erano sempre le sue mani sulle sue spalle, a tirarlo indietro.

Adesso è in piedi da solo per la prima volta da quando gli Hunger Games l’hanno sputato fuori.

“Mi dispiace, Tony,” dice Bucky.

Tony realizza che stanno ancora camminando. Sono a un piano diverso. Come? Quando hanno preso l’ascensore? Risucchia un respiro. Cerca di essere normale. Cerca di essere un Tony Stark che può vivere senza Janet Van Dyne.

“Uh, qual era l’altra cosa?” chiede, con voce roca, ancora irriconoscibile. Non è preparato a quest’altra cosa. Qualunque essa sia. Qualunque altra cosa sarà comunque troppo.

“Il palmare che Peter ha reperito nell’arena ha preso a squillare da poco dopo il bombardamento,” dice Steve. “Shuri e Riri ce l’hanno fatto presente.”

Tony cerca di stabilizzare il respiro. “Chi è ‘noi’?” chiede, senza pensarci, con una sorta di amarezza mista a rabbia che si fa strada nella sua voce. “Siete parte di un ‘noi’, eh? E che ‘noi’ sarebbe?”

Steve sospira, e scambia un’altra occhiata carica di significati con Bucky. Svoltano lungo un altro corridoio.

“Volevamo lasciarti spazio per rimetterti,” dice Bucky. “E anche a Peter. Ma ne facciamo parte tutti. Qualunque… cosa sia, sta procedendo.”

Tony continua solo a pensare che Janet non ne fa più parte. Se n’è andata. Assieme ad alcuni altri. Sa quanto Peter tenda ad affezionarsi, e che sapere che sono partiti non gioverà al suo morale. “Perché state coinvolgendo me, adesso?” chiede. “Per le chiamate, dico. Solo perché dovevate dirmi di Jan?”

“Uh, no,” dice Steve. “Si schiarisce la gola, raddrizzando un poco le spalle. “È… il destinatario sei tu. E quando rintracciamo la fonte, è… viene da dentro Capitol.”

“Non ci stanno rintracciando, vero?” chiede lui, con la paura che gli pizzica il cuore al pensiero di Peter, tutto ciò che gli rimane.

“No,” nega Steve.

“Ne siamo certi,” aggiunge Bucky.

“O meglio… Shuri ne è certa.”

Bucky si ferma di fronte a una serie di doppie porte. “Suona ogni paio di minuti, e abbiamo concluso che avrebbero chiamato di nuovo entro il tuo arrivo. Non sappiamo cosa sia, ma abbiamo deciso di portarti qui. Non hanno modo di triangolare la nostra posizione, anche se so che probabilmente hanno un’idea di dove siamo.”

Tony li osserva, entrambi lì in piedi, spalla a spalla, sintonizzati su una qualche lunghezza d’onda a lui estranea.

“Quindi entro là dentro, fisso il palmare e aspetto che chiunque ci sia a Capitol mi chiami?” chiede, sollevando le sopracciglia.

“Uh, esatto,” dice Bucky, spingendo la porta. “Non c’è nessun altro dentro, ma inizieranno a registrare non appena inizierà la chiamata.”

Tony sospira, superandoli. “Cristo,” mormora, e Bucky chiude la porta dietro di lui senza dire altro. La stanza è l’ennesima versione dei loro cubicoli scavati nei muri, buia e spoglia salvo per un tavolo, una sedia e il palmare. Tony si avvicina, sedendosi, e scuote la testa. Fa scorrere le dita lungo i bordi del palmare, ripensando a tutto ciò che Peter ha dovuto affrontare nell’arena. Si stuzzica il gesso.

Pensa a Janet. Si chiede se non stia corteggiando la morte, adesso che sono arrivati alla fine, adesso che le strutture forzate di Capitol non premono più loro addosso. Anche lui ci fa un pensiero. Ma si rifiuta di abbandonare Peter, si rifiuta categoricamente di provocare altro dolore a quel ragazzo. Si merita esclusivamente sole e dei cazzo di arcobaleni d’ora in poi, e Tony sente la voce di Pepper in testa, come se quella frase l’avesse detta davvero, e non fosse solo un qualcosa che la sua mente in subbuglio ripete come un disco rotto. Amalo come se fosse tuo, Tony.

Sospira di nuovo, scorrendo gli ultimi comandi impartiti dal palmare. Shuri e Riri hanno combinato un bel po’ di cosine con le armature di Iron Man, e quel fatto gli fa desiderare un qualcosa a cui non ha pensato da moltissimo tempo. Non è mai riuscito a trovare il tipo di metallo che gli serviva, allora, ma qui le cose sono diverse, nel Tredici. Hanno dei materiali a cui pensava avessero accesso solo gli Strateghi.

Il palmare prende a squillare, facendolo trasalire, anche se avrebbe dovuto aspettarselo. Appare una serie di linee di codice, e le legge rapido riconoscendo la posizione a Capitol, e vede ciò che vede chi sta chiamando: il proprio nome, ripetuto all’infinito. Vede i loro tentativi di rintracciare la posizione del palmare, vede i firewall che hanno ovviamente eretto Shuri e Riri, solidi e destinati a non cedere, e pensa che quelle due potrebbero essere in grado di abbattere Capitol da sole.

Tony risucchia un respiro, e accetta la chiamata.

C’è solo una massa confusa di pixel, all’inizio, poi appare chiaramente il volto di Obadiah Stane. Sorride ampiamente, e Tony si impone di non sussultare, agitandosi sulla sedia e inclinando il capo.

“Ma salve, Tony!” dice Stane, ridendo tra sé. “Non pensavo avresti risposto.”

“Cristo, quante volte mi hai chiamato?” chiede Tony, cercando di mantenere una voce pacata e di non lasciar trasparire nulla dai propri occhi. “Non credevo fosse così possessivo, signor Presidente, ma immagino che me lo sarei dovuto aspettare.”

“Beh, ero preoccupato!” dice Stane, sollevando le mani. “Ho sentito delle voci davvero, davvero terribili, Tony, riguardo a quel che è successo, e tu eri disperso! Non avevo la più pallida idea di cosa fosse successo.”

“Oh, sembra che però tu l’abbia capito,” dice Tony, serrando la mascella. “Hai messo al lavoro le tue doti deduttive.”

“E credo di vedere una specie di… coso blu, là sotto alla tua maglietta,” continua Stane, e si sporge verso la telecamera. “Wow, fammi dare un’occhiata–”

“Nah, non credo proprio,” replica lui, e sistema lo schermo in modo che non riesca a vedere così in basso. “Ehi, questo non è esattamente il momento migliore, ho molto a cui pensare, c’è una festa di carnevale giusto stasera, un altro festino–”

“Oh, sono sicuro che tu te la stia spassando,” dice Stane, e ha ancora in faccia quel sorriso rivoltante. “Ne sono assolutamente sicuro.”

“Già…”

“Volevo solo farti un saluto,” dice poi. “Vedere come se la stiano passando tutti. Perché non hai molto tempo, Tony.”

“Sì, certo, certo,” replica lui, e sente la rabbia montare di nuovo. “Sappiamo tutti quanto ti piacciano le tue minacce di merda, Obie–”

“Che ha detto Peter della mia risposta al suo video?” chiede Stane. “Ho pensato potesse piacergli. Sai, una degna sorpresa. Mi sono preso il mio tempo, per fargliela. L’avevo preparata sin dalla fuga, ma volevo… insomma, volevo fare le cose per bene. E sono particolarmente fiero del mio tempismo.”

Tony lo fissa fremente, col volto che si infiamma.

Stane ride. “Te lo porterò via a tutti i costi, Tony,” dice. “È il mio bersaglio numero uno. Non mi fermerò. Quello che ho detto in passato? Quello è nulla. Gli strapperò un arto alla volta proprio di fronte a te, lo–”

“No, no,” grida Tony, tendendosi in avanti. “No, maledizione, non ti lascio più fare i tuoi cazzo di monologhi, figlio di puttana.”

“Andiamo, signor Stark–”

“Peter Parker può farti a pezzi senza battere ciglio,” continua Tony, a voce troppo alta. “Può strangolarti con una stretta di dita. Può buttar giù i tuoi muri e seppellirti nella tua cazzo di opulenza. È un supereroe adesso, stronzo, e per causa tua. Sei stato tu, per colpa della tua maledetta arroganza, sei stato tu e adesso non lo puoi fermare. Non hai mai potuto. Il mondo lo ama, si fida di lui, combatterà per lui, e finalmente ti sconfiggeranno. È finito il tempo in cui stavamo senza far nulla a rintanarci in un angolo di fronte a te, Stane. Non accadrà per un solo altro secondo, capito? È fatta. Non riuscirai mai a toccarlo. Non te lo permetterò mai. Sei già morto. Sei già morto, cazzo.”

Tony pianta il dito contro il tasto di fine chiamata prima che Stane possa dire altro. Si immerge subito nei codici, e blocca il numero impedendogli di chiamare ancora i palmari del Tredici. Scaglia via il palmare e poggia la fronte sul tavolo, respirando affannato.

Non gli ha mai parlato così. Mai, non gli ha mai parlato così. Si sente libero, finalmente libero, privo di catene, non appartiene più a loro.

“Pep,” sussurra, serrando con forza gli occhi. “Non so quanto ci vorrà, amore. Non lo so. Ma alla fine… lo prenderò. Non farà mai più del male a nessuno di coloro che amo.” Una lacrima gli scivola lungo la guancia e la lascia cadere, immaginando il suo pollice che la asciuga via. “Lo prometto,” sussurra. “Lo prometto.”

 
§

 
Peter si sveglia un paio di volte prima di riuscire a svegliarsi davvero. Guizza dentro e fuori dai sogni, dagli incubi, e quando finalmente la sua anima torna al proprio posto è col volto verso il muro, con MJ che lo abbraccia da dietro. Sente May e Tony che parlano tra loro, mormorando dolcemente. Sente MJ che gli bacia la spalla.

Si gira sulla schiena e MJ lo guarda, anche lei chiaramente impegnata a contenere lo shock. Tiene un braccio a cingerlo, forzando un sorriso.

“Ehi,” lo saluta.

“Ehi,” sussurra lui, cercando di impedire alla propria voce di incrinarsi. Si alza a sedere, sfregandosi gli occhi, e si aggrappa all’idea che gli si sta formando in testa, a prescindere da quanto faccia male. Deve fare qualcosa. Tutto questo deve avere un significato.

Lancia un’occhiata attorno a sé, e vede che Tony e May sono sull’attenti, che lo fissano. Tony ha un gesso al polso, che gli dà la nausea. C’è anche Ned, ed era intento a leggere un libro. Ora ha smesso, decisamente.

“Peter…”

“Stai bene, Pete?” chiede Tony.

“Tesoro, sei…”

“Il Dodici è radioattivo?” chiede Peter, rapido. “È– è… possiamo andarci?”

Tony assottiglia gli occhi, guardando May. “Uh, era… erano bombe incendiarie, Pete. Potremmo andarci. Il Dodici può essere ricostruito, al cento per cento.”

Peter rimane fermo nella propria decisione. Quella che ha colto dai suoi sogni. E cerca di essere più forte di quanto non sia. Cerca di essere Spider-Man. “Voglio andare lì,” dice. “Voglio– dobbiamo filmare qualcosa laggiù. E mandarlo in onda. Come abbiamo fatto l’ultima volta. Dobbiamo andare tutti, e dobbiamo… mostrare a tutti cos’hanno fatto.”

C’è un deciso cambio d’atmosfera nella stanza, e Peter posa una mano sul ginocchio di MJ, con lei che si sposta per farlo alzare.

“So che, uh, non volete che io lo faccia,” dice Peter, guardandoli tutti e quattro. “Non voglio farlo. Ma dobbiamo. È… è più grande di me. È più grande di ciò che provo. Devo solo… devo proteggerli in ogni modo di cui sono capace. Chi è rimasto.”

Tony si alza, annuendo. “Okay,” dice. “Contatto Bruce.”

 
§

 
Non è immediato. Ci vogliono lunghe discussioni, preparativi, ma circa un giorno dopo viene dato il via libera. Peter cerca continuamente di raccogliere le forze di cui ha bisogno per affrontare tutto questo.

May riesce a lasciarlo andare a fatica quando deve salire sull’elivelivolo, ma il semplice fatto che siano in così tanti a partecipare è… di conforto. Per lei, e per lui. Ma si sarebbe sentito al sicuro anche se fossero stati solo lui e Tony. Tony è Iron Man. Iron Man e Spider-Man sono uniti.

Devono tenere attentamente d’occhio i cieli lungo il tragitto, e la quantità di protezioni che hanno con sé è più di quanto Peter si fosse aspettato. Fury è leggermente preoccupato che Stane possa tentare di abbatterli, con così tanti di loro concentrati nello stesso punto, quindi ha esagerato per prevenire la cosa. Ci sono lui e Tony, Bucky, Steve, Bruce, MJ, Natasha e Clint, Jessica e Luke, Carol e Sue Storm. Il fratello di Shuri l’ha fatta rimanere, con suo grande disappunto. Ci sono altri Vincitori che vogliono essere coinvolti, ma Fury li trattiene. Non vuole che stiano via a lungo, per via del pericolo. Sam fabbrica per lui un altro costume nero, con delle ragnatele bianche e un piccolo ragno al centro del petto, anch’esso bianco [2]. Indossa una giacca per coprirlo, e affonda nelle maniche.

Devono solo arrivare e andare via. Dentro e fuori.

“Stai bene?” chiede Tony, quando sono circa a metà strada.

“Sì,” risponde Peter, e sta mentendo solo in parte. Gli sembra la cosa giusta da fare.

“Sei sicuro?” insiste Tony.

“Sono nervoso,” ammette Peter, lanciando un’occhiata a MJ, che sta parlando con Sue e suo marito Reed. “Ma devo– voglio che tutti lo vedano. Che vedano cosa ha fatto.”

Tony lo fissa per un lungo momento, annuendo. “Sono davvero fiero di te,” dice poi. “Mi viene da pensare a prima, proprio all’inizio… e diamine, avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto capire che avresti cambiato il mondo.”

Peter scuote la testa. “Io non– non…” Non sa cosa dire e guarda il braccio di Tony. “Mi dispiace, per quello,” dice poi, con un gesto a indicarlo. “Mi… mi sento uno schifo.”

“Non c’è bisogno,” sbuffa Tony. “Davvero. Francamente, è un onore. Tutti vorrebbero avere questa fortuna.”

Peter sorride impercettibilmente.

“Non voglio che ti senti in colpa,” dice Tony, nascondendo il gesso dietro alla propria gamba. “Non per me.”

Peter annuisce, e cerca di accettare quelle parole.

 
§

 
Il Dodici è ancora fumante.

Peter si sente stranamente distaccato da quel luogo, quando atterrano, quando lo vede con i propri occhi. Jessica e Luke si allontanano dal gruppo con due soldati ad accompagnarli, e sa che stanno cercando di risparmiargli il peggio, i punti in cui ci sono più corpi. Ha sentito che la maggior parte della gente era raggruppata a circa un chilometro dal confine, come se pensassero di riuscire a scappare.

Si fissa i piedi mentre fanno decollare le telecamere. Sono proprio di fronte al Municipio, e c’è solo polvere. È distrutto, riconoscibile a malapena per ciò che era. È venuto qui tante volte, così tante volte in vita sua. Proprio qui, in questo punto. Il Dodici era la sua casa. Era la sua casa.

Adesso è ridotta in macerie.

“Ehi,” dice MJ, accanto a lui. Peter la guarda e lei gli si accosta, posandogli un casto bacio all’angolo delle labbra. Ha le lacrime agli occhi quando si allontana, e gli passa una mano sulla schiena. “Ce la puoi fare, capito?”

“Gr– grazie,” dice lui, schiarendosi la voce. Alza lo sguardo, vedendo Jessica e Luke che stanno tornando, facendo un cenno d’assenso a Tony. Peter sente il petto costretto mentre li osserva raggrupparsi dietro di lui, proprio come avevano discusso di fare, e sente i soldati dentro l’elivelivolo che tengono traccia di ogni possibile pericolo in avvicinamento.

“Sono in contatto con loro, Pete,” dice Tony, alla sua destra. “Va tutto bene.”

Peter ha paura di essere in piedi sopra a dei corpi. Corpi che non può vedere, perché sono sepolti sotto tutti i detriti. La sua paura minaccia di bloccarlo, ma poi Tony gli stringe la spalla. Sostiene il suo sguardo, rivolgendogli un cenno, e Peter capisce perfettamente cosa sta cercando di comunicargli.

“Va bene,” esala, mentre Tony lo lascia andare. “Va bene.”

“Quando sei pronto,” chiama Bruce, alle sue spalle. “Come l’altra volta. Siamo pronti per te.”

Ci sono tre telecamere di fronte a lui, altre che circondano il gruppo, circa sei che si aggirano su quel che resta del Dodici, raccogliendo quanti più scatti possibili.

Peter inspira. Espira.

“Qui è Peter Parker,” dice, con voce che trema. “Sono in ciò che rimane del Distretto Dodici. Due giorni fa, Capitol ha inviato un paio di elivelivoli e ha bombardato la mia casa con delle bombe incendiarie, finché non ne è rimasto più nulla.” Abbassa lo sguardo, serrando le mani di fronte a lui. Non sa neanche cosa dire. Gli sembra di essere in un territorio vuoto, adesso. “Ci sono state migliaia di vittime,” dice, a voce bassa. Rialza lo sguardo. “Migliaia. Migliaia di anime che il Presidente Stane era disposto a sacrificare per mantenere il controllo dei Distretti.”

Guarda sopra la sua spalla, e il resto di loro china la testa, in un gesto non programmato che in qualche modo si allinea perfettamente nei loro ranghi. Gli manda un brivido lungo la schiena.

Si gira di nuovo verso le telecamere. “È questo, che fanno,” dice. “È questo che continueranno a fare se non ci opponiamo. Continueranno a farci a pezzi finché non rimarrà nessuno. Il popolo di Panem è solo un’altra pedina nel gioco di Stane. Il popolo di Panem è più di un tiro al bersaglio per permettergli di mantenere la sua posizione. Ma adesso è diventata labile, Stane. Ci proteggeremo a vicenda. Costruiremo un nuovo mondo, uno in cui questo – questo – non accadrà mai.” Si guarda di nuovo alle spalle, verso l’inferno di distruzione che li circonda. Gli sembra irreale. Sembra un palcoscenico. Questa è casa sua. Casa sua.

Indietreggia malfermo, solo leggermente, ma Tony allunga una mano a stabilizzarlo. MJ gli prende l’altra mano e intreccia le dita alle sue.

“Tutte queste persone… volevano solo una vita migliore,” dice Peter, con voce nuovamente traballante. “Volevano solo una vita che fosse la loro. Senza gli Hunger Games a incombere. Senza un governo che li avrebbe uccisi per aver tentato di esistere.” Scuote la testa, col labbro che trema. Punta gli occhi direttamente nella telecamera. Se lo immagina mentre guarda. “Ma li vendicheremo. Vendicheremo chi sono stati e chi volevano essere. E renderemo il mondo sicuro per le generazioni che verranno. Non sapranno mai cosa vuol dire essere intrappolati sotto il regno del Presidente Stane. Non conosceranno mai gli Hunger Games. Saranno liberi. Come noi ci siamo sempre meritati.”

Annuisce, stringe la mano di MJ e vede le telecamere che si spengono. Lei si sporge verso di lui, posandogli un bacio sulla tempia, e lui sospira accogliendo quel contatto.

“Sei stato perfetto, Peter,” dice Bruce, gentilmente, alle sue spalle. “Aveva un… un certo non so che. Un qualcosa.”

Tony rilascia un respiro accanto a lui. “Vuoi provare a contrattare per più tempo?
chiede.” Vuoi… provarci di nuovo o… fare un giro?”

“Hanno recuperato tutti, vero?” chiede lui. “Hanno controllato? Sono certi di non aver lasciato nessuno indietro?”

Tony annuisce. “Hanno controllato,” risponde. “Sono tutti fuori, con noi. Cho e Yinsen hanno un intero reparto pieno di feriti, ma tutti i sopravvissuti… sono fuori.”

Peter medita se rimanere per seppellire i corpi, ma sa che sono tutti esposti. Si inginocchia, lasciando MJ, e preme il palmo sul suolo polveroso. Chiude gli occhi e dice una preghiera in testa, e crede quasi di sentire la voce di Ben che gli risponde. Come se ci stesse pensando lui. Come se sarà lui a condurli a casa.

Un giorno, Peter lo vedrà di nuovo. Lui, i suoi genitori, tutti coloro che sono morti qui. Anche Scott, e Pepper, e Rhodey, tutte le persone di cui Tony gli ha parlato.

Ma non oggi. Non così presto.

 
§

 
Un gruppo di venti contadini nel Distretto Undici respinge uno squadrone di Pacificatori e li ricaccia verso il confine. Rubano le loro armi e li fanno uscire a forza dagli uffici governativi e dalle armerie. Portano il simbolo di Spider-Man sulla spalla.
Dei ribelli si nascondono negli alberi nel Distretto Sette, lasciando cadere bombe sui Pacificatori che li inseguono. Gridano le parole di Peter: “Vendichiamo chi sono stati, e chi volevano essere!”
Il Distretto Quattro porta Scott nel proprio cuore, e vengono allestiti ologrammi in tutto il Distretto, lo stesso che Peter Parker ha creato mentre Scott stava morendo. I Pacificatori rimangono vittime delle loro trappole, e alcuni vengono trascinati in mezzo all’oceano ad annegare.
Janet Van Dyne si erge con coloro disposti a morire per l’operazione nel Distretto Cinque: bombe, per abbattere la diga e la riserva d’energia di Capitol. Ci vorranno settimane per organizzare il tutto e raccogliere le persone necessarie. Ma verrà fatto.
I ribelli nel Distretto Sei bloccano le entrate al loro Distretto con dei vagoni abbandonati. Creano maschere e costumi. Sono tutti Spider-Man.
La battaglia nel Distretto Otto termina con la vittoria dei ribelli, e i cittadini riescono a mettere all’angolo le truppe di Pacificatori in una delle fabbriche di grano, per poi darla alle fiamme. Rinforzano i confini, e non permettono l’accesso ad altri Pacificatori. Per il momento, sono liberi.

 
§

 
Sono passati nove giorni, e Peter ha cercato di sbarazzarsi di parte del proprio senso di colpa. Non pensa al Dodici per rattristarsi. Pensa a ciò che ha detto. Vuole vendicarli.

Il Tredici ha dei laboratori che esulano da tutto quello che Peter ha visto in vita sua, e Tony sembra un bambino in un negozio di caramelle. Peter sta accanto a lui, e gli passa gli attrezzi quando glieli chiede. Lo osserva costruire. Lo fa sentire al sicuro, normale. Magari non sa cosa significa tutto questo, ma sta iniziando a scoprirlo.

“Sai chi c’è qui?” chiede Tony, chino sulla propria postazione, intento a saldare qualcosa a qualcos’altro. È un po’ che sta scartando materiali, ancora insoddisfatto dalla resistenza dei metalli su cui ha messo le mani.

“Chi?” chiede Peter, con gli occhi che delineano lo scheletro di ciò che sta costruendo Tony.

“Quel ragazzino che hai salvato, Harley,” dice Tony. Sospira, voltandosi a fronteggiare Peter mentre lancia una vite in aria, riacchiappandola al volo. “Hanno delle lezioni per quei ragazzi, qui, possono… possono scegliere le materie che vogliono e tutto il resto e... cavolo, è bello. Anche a lui piace costruire cose. Vuole diventare un meccanico.”

Peter sorride al pensiero.

“Scommetto che gli piacerebbe molto rivederti,” aggiunge Tony.

“Magari lo vado a cercare più tardi,” replica Peter. Schiocca la lingua e si guarda alle spalle. I laboratori sono composti da un’infinità di stanze, tutte con pareti di vetro per una completa trasparenza. Steve e Bucky sono in quella accanto, mentre maneggiano delle armi e degli scudi. Natasha e Clint vanno e vengono, tallonati da Kate Bishop. Dietro di lui, Bruce è immerso in una fitta conversazione con Thor, e hanno i loro progetti dispiegati di fronte. Sam è oltre la porta dietro di loro, con un’orda di progetti legati a Spider-Man su cui lavora contemporaneamente. Carol è ancora più indietro, con Riri, Shuri e Kamala Khan, tutte con troppe idee e non abbastanza spazio per metterle tutte in pratica. Non ancora. Ma Peter le conosce abbastanza, e sa che occuperanno almeno altre sei stanze qua dentro per realizzare ciò che vogliono.

Vede MJ in corridoio, che cammina con May e Ned. Si fermano, ammirando le pareti blindate che conducono ai laboratori, e Peter rimane a osservarle un istante prima di tornare a guardare Tony.

“Stai costruendo un’armatura, vero?” chiede poi. I suoi occhi guizzano verso ciò su cui sta lavorando. Che è decisamente un’armatura, che Tony lo ammetta o meno.

Lui sorride, sollevando le sopracciglia. “Sto… facendo un tentativo,” dichiara. Incrocia le braccia sul petto. “È saltato fuori che il reattore arc può fornire energia a un’armatura come quella che avevo costruito. In modo da avere anche un’intelligenza artificiale all’interno, degli schermi, proprio come quei bastardi, e… e… posso volare. Se faccio le cose per bene.”

Il volto di Peter si illumina. “Wow,” esclama. “Davvero? Come quelle nell’arena?”

“Meglio, chiaramente,” replica Tony, dandogli di gomito.

Peter sorride appena e rivolge un’altra occhiata a Sam, che al momento sta intessendo un costume con le sue ragnatele.

“Ci sono stati un po’ di… discorsi,” dice a qual punto Tony, schiarendosi la voce. “Ovviamente vogliamo tutti rimanere vivi, sai, per… per ancora molti anni, ma so– so come ti senti. So cosa ti passa per la testa, e non importa quel che dico io o quante volte ti sbarro la strada… so che vuoi unirti agli scontri, in qualche modo. Magari più di quanto già tu non faccia con i pass-pro.”

“Forse,” dice Peter, mordicchiandosi il labbro. “Voglio solo… non lo so.” Vuole fare la differenza. Non vuole rimanere al sicuro quando nessuno lo è. Ma non vuole morire. Non di nuovo. Non vuole che May, Tony, Ned e MJ si trovino di nuovo ad affrontare una cosa simile.

Continua a pensare… che ha dei poteri per un motivo.

“Beh, come dicevo, ci sono stati… dei discorsi,” dice Tony. Alza lo sguardo, e Peter ne segue la direzione. Sta fissando Steve e Bucky. “Più o meno tutti quelli che abbiamo attorno adesso si sentono allo stesso modo,” rivela. “E Bruce stava pensando che potremmo eventualmente riunirci, come un gruppo, magari come… una squadra, e fare qualche missione sotto copertura. Missioni di recupero. Niente azioni in prima linea, ma… potremmo andare dove hanno bisogno di noi. Prendere le fortezze di Capitol che sono troppo ostiche per i ribelli da soli. Sottrarre informazioni. Roba del genere. Saremmo al sicuro, protetti, preparati… ci copriremmo le spalle a vicenda.”

Peter lo fissa. “Missioni?” chiede. “Come una squadra?”

“Solo se vuoi,” dice Tony. “Io ti voglio solo al sicuro, ma sto cercando di essere… flessibile. Posso farlo. Posso essere flessibile.”

Peter annuisce. “Sì,” risponde. “Sì, sì, mi– mi piacerebbe molto…”

“Dovremmo fare una quantità assurda di allenamenti,” dice Tony, gesticolando un po’ agitato. “Nel senso, tutti noi. Tutto il giorno, tutti i giorni. Non sarebbero gli Hunger Games, sarebbe peggio, e non voglio che tu vada là fuori impreparato.”

“Certo,” dice Peter, rapido. “Sì, sì, certo–”

“E i costumi che avremo addosso, dovrebbero essere letteralmente… insomma, Peter, il tuo dovrebbe essere a prova di proiettile. Dovrei davvero impacchettarti con della plastica da imballaggio per sentirmi a posto. E non lo sarei nemmeno allora.”

“Va bene,” dice Peter. “Cioè, sarei con te, quindi… e se tu indossi l’armatura di Iron Man? Insomma–”

“È solo… sono solo chiacchiere, per ora,” dice Tony. Si guarda di nuovo alle spalle, verso Bruce e Thor. Bruce sembra molto infervorato, come se stesse imitando un mostro, e Thor sembra preoccupato. Tony torna a fissare Peter. “È… se succede, dobbiamo solo essere pronti. Nel senso che tu dovrai essere pronto. La guerra sarà lunga, e ci sarà… ci sarà molto da fare. Non saranno solo scontri corpo a corpo.”

Peter ricambia lo sguardo e annuisce di nuovo. Gli sembrano tutti giganti, tutti loro, persino MJ, e l’idea di combattere al loro fianco, di fare ciò che va fatto, sente… sente che è giusta. Lo riempie di determinazione, e gli sembra finalmente di riuscire a far presa su quelle responsabilità che gli pesano sulle spalle da quando quel ragno l’ha morso.

Fa due passi in avanti e abbraccia strettamente Tony, nascondendo il volto nella sua spalla. Tony ride, avvolgendolo a sua volta.

“Ehi, e questo per cos’è?” chiede, passandogli una mano sulla schiena. “Non che mi stia lamentando.”


Niente,” dice Peter, serrando con forza gli occhi. Ripensa a tutto, a tutto quanto, a come Tony fosse un tempo una figura lontana che stimava così tanto, e adesso è diventato così. Adesso è come un padre. Adesso è qui, per tutto quanto. Non importa cosa accadrà. E con lui, May, Ned, MJ… e tutti coloro che gli stanno a fianco, Peter pensa di poter fare tutto. Non importa cosa gli farà affrontare Stane.

Lo sconfiggeranno. Peter sa che ce la faranno.

“È solo… grazie,” sussurra Peter.

“Grazie a te,” replica Tony, piano.

Peter continua a stringerlo, immaginando tutto ciò che li aspetta, e cerca di pensare oltre la guerra, oltre la morte e le sofferenze, oltre le possibili perdite. Cerca di immaginarsi il Dopo. Il vero, vero Dopo. Un tramonto sul regno di Stane su Panem. Avrà una famiglia, una vita. Una vera ragazza, che lo ama. Avrà una squadra.

Si ritrae, con tutte quelle possibilità in testa, e pensa ad arrivare fin laggiù. “Quindi, se… se formeremo una squadra avremo bisogno di un nome. Ci chiamano tutti i ribelli, ci serve un nostro nome. Un nome di squadra.”

“Con mia sorpresa, quella è stata la prima cosa a cui quel maledetto di Fury ha pensato quando ha tirato fuori l’idea,” ride Tony, dandogli una pacca sulla spalla e riprendendo a lavorare sull’armatura, appuntando la parola vibranio sul suo palmare. “Sembra che ci stesse pensando. Ha detto che tu l’hai ispirato.”

“Qual è?” chiede Peter, avvicinandosi a sua volta e mettendosi accanto a lui, pronto ad aiutarlo.

“I Vendicatori,” risponde Tony, rivolgendogli un’occhiata. “Suona bene, eh?”

Peter non avrebbe mai pensato di diventare questo. Ha sempre creduto che sarebbe rimasto un ragazzo del Dodici per tutta la vita. Ma adesso è Spider-Man. Adesso è… un Vendicatore.

Pensa che Ben sarebbe orgoglioso. Anche i suoi genitori.

“Già,” dice, con troppe emozioni dentro di sé. “Sì. I Vendicatori. Mi piace.”

Tony fa un gran sorriso, e i due si rimettono al lavoro. Si sono lasciati gli Hunger Games alle spalle. E adesso ci sono i Vendicatori all’orizzonte.

Non importa chi altri ci sarà al suo fianco, Peter è certo di una cosa: Iron Man e Spider-Man saranno sempre uniti.

 





 
• Fine 
 
 

 
Tradotto da: ever in your favorworse games to play, di iron_spider da _Lightning_

Note:

[1] 
Il costume in questione è quello del videogioco di Marvel's Spider-Man ->
Anti-Ock suit
[2] Questo costume è una versione nera di quello che si vede in Homecoming -> qui 


Note della traduttrice:

Cari Lettori,
siamo giunti alla fine di questa storia, stavolta per davvero. Mi scuso per il ritardo degli ultimi aggiornamenti, ma come avete visto l'ultimo capitolo era mastodontico e il mio tempo per tradurre si è drasticamente ridotto... anche se ho già altre traduzioni in cantiere ;)

A questo punto direi che è il caso di aprire una sorta di discussione "tra fan" riguardo alla storia e al suo finale. Personalmente, ne ho tante/troppe da dire, ma magari evito di tediarvi e intasare ulteriormente le note :')

Un grazie enorme a Eevaa, Manulalala, ericaron, T612, Miryel e Paola Malfoy per aver seguito e recensito la storia, spronandomi a continuarne la traduzione e ad aggiornare puntualmente, per quanto possibile. E ringrazio infinitamente _Atlas_, mia fidata beta reader che ha impedito a molti orrori di battitura di arrivare alla pubblicazione <3

Di nuovo grazie mille a tutti voi, e spero continuerete a seguire le altre traduzioni!
Un caro saluto,

-Light-

P.S. Mi sono presa la libertà di apporre la parola "fine" alla storia, ma non è chiaro se l'autrice voglia scrivere o meno un seguito, visti i vari sospesi che ha lasciato. Personalmente lo ritengo improbabile, ma mai dire mai!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3855243