L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello

di giulsisonfire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Phoenix, Arizona ***
Capitolo 2: *** Involtini primavera ***
Capitolo 3: *** Erano le undici di sera ***
Capitolo 4: *** Due pillole e poi il vuoto ***



Capitolo 1
*** Phoenix, Arizona ***


                     

Phoenix, Arizona

Immaginatevi un palazzo di tre piani tenuto abbastanza male in una strada piena di negozi cinesi in una zona periferica della città di Phoenix, Arizona, Stati Uniti. Immaginatevi, al secondo piano di quel palazzo, un appartamento piccolo con le finestre solo dalla parte sinistra, che poi è quella che dà sulla strada piena di negozi cinesi. Immaginatevi, dentro quell'appartamento, una stanza quadrata e buia; buia perché sono le cinque del mattino e le tapparelle della finestra sono ancora abbassate, ma in cui il poco chiarore che riesce a filtrare mostra tante piccole particelle di polvere e illumina debolmente i capelli ricci e scompigliati di un ragazzo che sta dormendo, mezzo nudo, nel suo letto alla francese, al centro della stanza. Ora immaginatevi, in quella stanza scura, un cellulare nero, appoggiato sul comodino accanto al letto, che si illumina, per un secondo, mostrando lo sfondo di un tramonto arancione e un messaggio su Instagram. Poi basta, niente; il ragazzo dorme e il messaggio lo vedrà solo più tardi, dopo colazione, ma la scena era bella e ve la volevo raccontare.

The sun will rise and we will try again, diceva quella canzone che aveva sentito in radio, ma in quella città di merda l'unica cosa che sorgeva ogni giorno era la sua voglia di morire. Letteralmente.
Una volta in cui sentiva l'umore particolarmente sotto i piedi, Harry aveva aperto la credenza della cucina - dove sua madre teneva le medicine - aveva scelto un barattolino a caso e aveva ingoiato senz'acqua una decina di pillole bianche e blu, perché voleva uccidersi. Purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, non era morto, ma aveva passato il resto della giornata disteso sul divano, con un forte mal di pancia e ancor meno voglia di vivere di quella che aveva prima. Però non aveva più tentato il suicidio.
La causa principale dell'umore di Harry era, a detta di lui, quella città, ed in particolare quella casa. Non credo che all'epoca sapesse che c'era qualcosa di più, sotto. Sua madre si era trasferita a Phoenix dall'Inghilterra due anni prima, quando lei e il padre di Harry si erano separati. Aveva provato a rifarsi una vita da zero ma non era riuscita nel suo intento, e dopo qualche mese di vagabondaggio in giro per i motel, con ovviamente Harry al seguito, si era decisa ad accettare un lavoro come cameriera in un ristorante cinese, e ad affittare una delle poche case che poteva permettersi con il suo stipendio. In ogni caso lei sembrava in qualche modo soddisfatta, felice com'era di essersi allontanata da quel marito che non sopportava più, che la trattava come un oggetto e non la rispettava. Harry soddisfatto invece non lo era per niente, perché per motivi legali a lui sconosciuti sua madre aveva ottenuto il pieno diritto ad occuparsi di lui, e lui era stato costretto a lasciare la scuola al penultimo anno, e insieme con la scuola gli amici e la sua amata Inghilterra piena di pioggia e di prati. In qualche modo, comunque, era riuscito a finire il liceo e si era fatto anche qualche nuovo amico, ma l'America non riusciva proprio a mandarla giù. Per quel poco che aveva visto - ovvero la frazione dove abitava, il quartiere della scuola e il centro di Phoenix - quel posto gli sembrava tutto uguale. Tutto costruito, tutto squallido, tutto finto, anche gli alberi si vedeva che erano stati messi lì dall'uomo, niente in quel posto lo ispirava. Non riusciva a farsi piacere nemmeno quei cereali al miele, che continuava a fissare mentre galleggiavano nella ciotola del latte.
Quella mattina Harry si era svegliato presto come sempre, nonostante come sempre non avesse niente da fare, perché come sempre il suo sonno era stato disturbato da sua madre che guardava la televisione in salotto a volume altissimo. Quella era un'altra delle cose che Harry non sopportava, la monotonia. 
Si riscosse dalla trance in cui era entrato, ingoiò velocemente la sua colazione e si alzò da tavola, attraversò la cucina e andò a staccare il cellulare dal caricabatterie in camera per portarselo in bagno, dove aveva intenzione di farsi una doccia. Si sedette sul water e controllò le notifiche prima di buttarsi sotto l'acqua.

Messaggio da louist91: lol sono io in quella foto, faccina sorridente.

Dovete sapere che Harry, quando era in Inghilterra, fotografava le cose.
Lì in America non l'aveva mai fatto perché, come ho detto prima, non si sentiva ispirato, ma quando ogni due o tre mesi tornava nel Cheshire da suo padre e camminava da solo per le strade, oppure andava a passeggiare o a divertirsi insieme ai vecchi amici, ogni tanto tirava fuori dallo zaino la sua macchina fotografica e scattava; scattava a tutto quello che gli faceva sentire qualcosa dentro, spesso elementi naturali, ma a volte anche persone. Poi, quando tornava a casa, le foto prescelte finivano sulla sua pagina Instagram, molte volte un po' modificate, e questo secondo lui bastava a conferirgli il titolo di fotografo, scritto bello grande nella descrizione del profilo. D'altronde, al momento, Harry non era nient'altro che quello. In più gli piaceva l'idea che un giorno lontano avrebbe potuto vivere della sua passione. A volte, dopo aver pubblicato un post, gli era capitato che qualcuno gli avesse scritto, chiedendogli di mandargli in privato qualche determinata foto in cui erano ritratti: spesso erano amici o amici di amici; in ogni caso sempre nomi che conosceva o che aveva sentito dire. Quella volta no. Aprì il messaggio.
Quando vide la foto a cui la fraseseguitadaemoji era riferita gli si fermò un attimo il cuore e si ricordò di quel giorno, qualche mese prima, in cui, seduto su una panchina mentre era a telefono con sua madre aveva visto passare un ragazzo che aveva attirato la sua attenzione e aveva deciso di seguirlo e fotografarlo fino a quando non lo aveva perso dentro un negozio di scarpe. Non era la prima volta che una cosa del genere succedeva. Aveva molte foto di quel ragazzo nella sua macchina fotografica, ma siccome sapeva che lo stalking è un reato punibile, aveva deciso di pubblicarne su Instagram solo una, insieme ad altre immagini di foglie varie scattate sempre lo stesso giorno che secondo lui potevano starci bene insieme.
Insomma, dopo quasi due mesi dalla pubblicazione, probabilmente dopo un lunghissimo passaparola, dopo una quantità in fi ni ta di ehi, ma quello lì non è il fratello dell'amico del fidanzato di tua cugina?, la foto era arrivata al diretto interessato. E il diretto interessato aveva pensato bene di avvertire il fotografo e farglielo sapere.
Harry chiuse subito il messaggio sperando che se avesse fatto finta di niente quella frase sarebbe sparita da sola e lui non avrebbe dovuto rispondere, che più in grande voleva dire affrontare la realtà (cosa che lui non era abituato a fare) e poggiò il cellulare sul lavandino.
Forse avrebbe trovato la forza di rispondere, ma adesso gli serviva un po' di tempo per riflettere. Entrò in doccia.

Spazio autrice.
Buongiorno o buonasera, mi chiamo Giulia e questo è il primo capitolo di una fanfiction che da un po' mi ronzava in testa e che finalmente ho deciso di pubblicare. Non so se va più di moda adesso scrivere uno spazio autrice, non so nemmeno in realtà se va più di moda scrivere fanfiction. In ogni caso volevo chiarire un paio di cose: 1) il titolo è un tributo ad un libro che mi sta molto a cuore che raccoglie un piccolo numero di casi clinici, e si ricollega alla storia perché anche il nostro Harry soffre di un piccolo disturbo di personalità, (anche se per ora non lo sa), spero che abbia attirato la vostra attenzione come un tempo ha fatto con me; 2) non sapevo cosa scrivere nella descrizione quindi ho riportato una frase di una canzone che mi piace tantissimo, perdonatemela. Ci saranno anche dei riferimenti alla serie tv Euphoria, che consiglio.
Non voglio dilungarmi troppo quindi mi fermo qui. Spero che la storia vi piaccia e che vi invogli a continuare, non so quando aggiornerò ma sicuramente lo farò.
Bacioni.

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Capitolo 2
*** Involtini primavera ***


                                                                    

Involtini primavera

Qualche ora dopo aver fatto la doccia Harry aveva risposto a louist91 e i due ragazzi avevano continuato a parlare fino a tarda sera. Innanzitutto il ragazzo fotografato, che si chiamava Louis, come si poteva capire dal nome di instagram, aveva chiesto ad Harry se avesse scattato altre foto quel giorno. Harry aveva riflettuto qualche secondo e poi aveva risposto che sì, ne aveva conservate un altro paio, perché forse dire che ne aveva altre 32 – contate – avrebbe spaventato un po’ il suo interlocutore, e gliele aveva mandate. Poi il ragazzo inglese aveva sviato la conversazione sulla fotografia, ed Harry aveva sinceramente apprezzato perché le foto erano uno dei pochi argomenti di cui riusciva a parlare senza avere la sensazione di essere imbarazzante, cosa che gli succedeva spesso e per la quale, se poteva, evitava i rapporti sociali. Louis aveva fatto domande sul tipo di fotocamera usata, sulle “competenze” del fotografo – che si riducevano ad un video su come usare la macchina fotografica in modalità manuale della durata di 10 minuti su youtube e tante tante prove – e sulla fotografia in generale. Avevano parlato di inquadrature, di tagli, di colori, di esposizione e di luce naturale. Ed Harry si era sentito a suo agio.
In ogni caso dopo circa un’ora, la conversazione era finita con un è stato piacevole parlare con te, grazie per le foto e per la chiacchierata inviato alle 23:14 da quel ragazzo inglese di cui Harry era riuscito a sapere soltanto il nome. Dopo aver fissato lo schermo per un minuto buono ed essersi appurato che quello era effettivamente l’ultimo messaggio e che non ce ne sarebbero stati altri, Harry aveva appoggiato il telefono sul comodino sopra un libro e si era steso sul letto a guardare il soffitto. Grazie al cielo, dopo poco si era addormentato.

Nei giorni successivi comunque, non era riuscito a smettere di pensare a quel ragazzo. Dalla fine della breve conversazione via Instagram i pensieri relativi a Louis erano aumentati giorno dopo giorno – fantasie e visite ai siti over 18 annesse – forse anche perché in generale Harry non faceva niente dalla mattina alla sera e quindi per lui era difficile distrarsi e pensare ad altro. La sua mente tornava a Louis in ogni monotona azione quotidiana: quando faceva colazione e beveva il latte, mentre guardava la televisione, quando andava a fare la spesa nel supermarket di là dalla strada, quando sistemava il letto.

Ad Harry era già capitato varie volte di fissarsi con una persona.

Spesso gli passava dopo qualche settimana, a volte arrivava a durare anche mesi. La prima volta che gli era successo era alle scuole elementari, in Inghilterra, e il bersaglio era stato una bambina bionda della sua classe. Non si ricordava molto di quella sua passata ossessione (tranne quelle orribili trecce che avevano attirato la sua attenzione dal primo giorno che le aveva viste) ma i sentimenti che aveva provato in quel momento erano rimasti indelebili, ed erano gli stessi che sentiva tutte le volte che gli capitava una cosa del genere. Harry non aveva mai saputo spiegare come e perché gli succedesse, in primis a sé stesso, e quindi di conseguenza non aveva mai nemmeno cercato di farlo sapere agli altri. Sapeva solo che questi “chiodi fissi” gli occupavano il cervello 24/7, e che gli facevano provare emozioni forti e contrastanti tra cui, le più comuni, gioia, nel vedere e nel pensare a quella determinata persona, tristezza quando invece era lontano da lei, voglia di passarci più tempo possibile insieme, rabbia quando questa interagiva con qualcun altro. Harry non aveva mai provato a controllare queste sensazioni, e spesso si era risolto col sopprimerle chiudendosi per un po’ in sé stesso, altre volte distraendosi in vari modi.
Il 12 aprile, verso mezzogiorno, mentre guardava la televisione steso sul divano con sua mamma, Harry capì che tutto questo gli stava succedendo di nuovo.
Si alzò tranquillo dal divano, come sotto incantesimo, andò a prendere il cellulare che era in camera, aprì instagram e scrisse di getto un messaggio a Louis, senza nemmeno rileggerlo prima di inviarlo.

Tra qualche giorno torno in Inghilterra per venire a trovare mio padre, ti va di vederci? Magari facciamo qualche foto.

Ovviamente non era vero che in quei giorni sarebbe dovuto andare in Inghilterra. Tornò in sala e disse a sua madre che aveva voglia di vedere papà. Sua madre gli disse che se la sua voglia era così incontrollabile poteva benissimo videochiamarlo una sera invece di mandargli un messaggio la mattina e basta. Harry capì che se voleva andare da suo padre in Inghilterra avrebbe dovuto fare tutto da solo.

La mattina dopo, mentre sua madre era impegnata a servire involtini primavera ai clienti della squallida tavola calda in cui lavorava, Harry aprì l’armadio della sua camera, e dopo aver frugato tra qualche vestito da sera risalente al 15/18 (e più o meno da quella data mai più messo) trovò la cassetta in cui sua madre teneva i risparmi e l’aprì. Prese circa 400 euro, quasi tutto quello che c’era dentro, poi richiuse la cassetta e la rimise al suo posto, avendo cura di risistemare anche i vestiti. Si lavò e si vestì, poi infilò qualcosa a casaccio dentro un borsone e si sedette sul divano. Diede un’occhiata su internet e vide che dall’aeroporto più vicino a casa sua sarebbe partito un aereo per Manchester quella sera verso le 19. Rifletté qualche secondo e poi decise che poteva partire, si sarebbe arrangiato più avanti per riuscire a raggiungere casa di suo padre. Prese velocemente le sue cose e uscì di casa, dopo aver lasciato sul tavolo un bigliettino per sua mamma con scritto sono da papà, ci sentiamo. Sapeva benissimo che sua madre si sarebbe 1) incazzata e 2) preoccupata tantissimo, e si ripromise quindi di chiamarla non appena arrivato in Inghilterra. A vederlo da fuori Harry sembrava tranquillo, come sempre, ma dentro era come se un fuoco vivo gli bruciasse a livello del petto e gli facesse battere il cuore all’impazzata. In quel momento non riusciva a pensare razionalmente a quello che stava facendo, era come se il suo corpo si muovesse in maniera meccanica. Sentì un fischio e per un attimo non si rese più conto di dov’era: la fretta e la confusione gli avevano fatto girare la testa. Si appoggiò allo stipite della porta e si passò una mano sul viso. In quello stesso momento gli si illuminò il telefono e apparve una notifica bianca, con su scritto volentieri, scrivimi quando arrivi. Harry sorrise e chiuse la porta.
Mentre si avvicinava all’ascensore incontrò la vicina di appartamento che gli sorrise cordiale. Ricambiò il sorriso meglio che poteva e affrettò il passo. Appena le porte dell’ascensore si aprirono Harry ci si infilò dentro e scomparve.

Spazio autrice.
Finalmente sono riuscita a finire e a pubblicare questo secondo capitolo. Vi giuro che tra impegni vari di ogni tipo è stato veramente un parto. Mi sono impegnata molto per fargli raggiungere una lunghezza accettabile per un capitolo a modo di una fanfiction e spero di esserci riuscita haha
In ogni caso penso che i capitoli successivi saranno più lunghi perché entriamo proprio nel vivo della storia. Mi scuso per eventuali errori grammaticali. 
Non esitate a lasciare un commento perché mi fa piacerissimo e in particolare se avete qualche critica perché sono quelle che aiutano a migliorare.
Vi mando un bacio.

 

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Capitolo 3
*** Erano le undici di sera ***


                       

Erano le undici di sera


Abituato com’era al clima caldo e opprimente dell’Arizona, appena superata la porta automatica dall’aeroporto di Manchester Harry si sentì per un attimo un po’ spaesato. Nella fretta e nella frenesia con cui era partito non aveva minimamente pensato a scegliere i vestiti adatti ed era uscito con quelle tre cose che indossava normalmente quando si trovava in America. Aveva freddo. Si strinse nel felpone mentre controllava nel portafoglio quanti soldi gli rimanevano, e dopo essersi assicurato che ne aveva abbastanza per arrivare a casa, chiamò un taxi con la mano. Come spesso succedeva, non aveva avuto il coraggio di chiamare suo padre per chiedergli un passaggio fino a casa; in realtà non aveva avuto il coraggio di chiamare suo padre e basta. Aveva deciso che sarebbe stata una grande sorpresa, come quando da piccolo, nel giorno della festa del papà, sua mamma lo andava a prendere in anticipo a scuola così che appena tornato a casa avrebbero festeggiato tutti insieme. Non sapeva come mai fosse così importante quel giorno per la sua famiglia, ma era una delle poche occasioni in cui Harry poteva mangiare la torta.

Salito in macchina chiamò sua mamma, che come previsto iniziò ad urlare, riversandogli addosso tutto ciò che Harry si era già immaginato, ovvero che se se ne voleva andare era libero di farlo ma come aveva potuto rubarle dei soldi, che a questo punto avesse a restarci da suo padre visto che Phoenix gli faceva così schifo, che era un grandissimo figlio di troia (non ricordandosi forse, in quel momento, che così dicendo si implicava da sola nel discorso). Dopo che si fu calmata Harry le chiese scusa per non averla avvisata prima, cercando di sembrare il più sincero possibile, e promise che sarebbe tornato presto e che avrebbe iniziato a lavorare, per renderle tutto quello che le aveva preso. Nel frattempo il taxi aveva quasi raggiunto la destinazione.
Il tassista lo lasciò all’inizio di quella strada a senso unico. La casa era esattamente come se la ricordava. Quinta su una serie di dodici cottage praticamente uguali se non per qualche dettaglio sulla facciata, era stata comprata con i pochi soldi che Jeremy, suo padre, era riuscito ad ottenere dal divorzio. Era marrone come tutte le altre case di Manchester, e attraverso la finestra che dà sul salotto si vedevano un divano e una tv. Davanti alla finestra, sulla strada, era parcheggiata la macchina di Jeremy.
Harry suonò il campanello. Dopo qualche secondo un uomo sulla quarantina, capelli castani, bocca sottile, barba corta non particolarmente curata – indossava una polo bianca e dei pantaloni della tuta – apparve sulla soglia. Guardò il ragazzo per un po’ senza dire una parola, le sopracciglia inarcate come se stesse ragionando o cercando di ricordare qualcosa, visibilmente sorpreso. Poi il suo volto si distese, sussurrò “Harry” e lo abbracciò. Dopo poco gli fece segno di entrare. Harry conosceva quella casa, quando tornava in Inghilterra dormiva sempre nella stessa stanza al piano di sopra che scoprì essere destinata, durante l’anno, a studio. Sulla scrivania tutti i documenti relativi all’azienda di tessuti nella quale suo padre lavorava. Per qualche minuto l’uomo cercò di investigare sul motivo per cui Harry fosse venuto da lui senza preavviso; cercò in realtà soprattutto di assicurarsi che sua madre ne fosse al corrente. A lui infatti non cambiava molto avere Harry in casa, spesso si sentiva solo e apprezzava la compagnia.

Harry si era sempre trovato molto bene con suo padre, anche se non era proprio suo padre padre. A dir la verità Harry non lo sapeva chi era il suo vero padre, ma Jeremy c’era stato fin dall’inizio e l’aveva cresciuto insieme ad Anne, sua mamma, dandogli tutto l’amore possibile e quindi Harry non si era mai fatto troppe seghe mentali sull’argomento. L’unica cosa che sapeva è che sua mamma stava già con lui da qualche tempo quando aveva scoperto di essere incinta e che aveva sempre pensato che il padre non potesse essere che Jeremy, fino a quando il dottore non le aveva detto il contrario. Questa era l’unica cosa che ogni tanto sua madre gli ripeteva, quando Harry chiedeva qualcosa a cui lei non aveva voglia di rispondere. E infatti Harry dopo poco si era arreso non ottenendo nessun’altra informazione sulle sue origini né da lei, né tanto meno da suo padre. Si immaginava però che non fosse stato facile per Jeremy scoprire che la ragazza con cui era fidanzato ufficialmente era incinta di qualcun altro e non sapeva nemmeno lei di chi. I casi erano due: o Anne era stata con così tanti uomini che non poteva riuscire a indovinare di chi fosse il figlio, o il corno era stato soltanto uno, ma lei non voleva rivelarlo. In ogni caso aveva dovuto perdonarla perché i due avevano deciso di tenere il bambino, di compare una casa e di andare a vivere insieme, e dopo pochi mesi dalla nascita di Harry si erano sposati, all’età di 22 e 23 anni. Fino a qualche anno fa, quando le cose avevano iniziato ad andare malino, Harry aveva sempre pensato che alla fine l’amore vero poteva davvero esistere. Poi niente, boom, la separazione, che Harry ovviamente non aveva vissuto bene ma nemmeno troppo tragicamente (a parte per quanto riguardava la decisione di sua mamma di trasferirsi dall’altra parte del mondo). Anche dopo questa rottura, però, i rapporti col padre erano continuati invariati, seppure con minor frequenza; entrambi avevano mantenuto l’affetto che provavano nei confronti dell’altro e quando erano insieme si sentivano a proprio agio.
Dopo aver aiutato a sistemare lo studio in modo che potesse dare almeno la parvenza di essere una camera da letto, e dopo aver disfatto la sua borsa, Harry si sedette una mezz’oretta con suo padre in salotto per aggiornarlo su quello che era successo nel tempo in cui non si erano visti e/o sentiti. Poi il ragazzo si congedò, dicendo che avrebbe fatto una doccia e sarebbe andato a riposarsi subito dopo, perché anche se erano le una di venerdì il jet lag lo aveva abbastanza rincoglionito.

Quando si svegliò erano le undici di sera e suo padre dormiva. Improvvisamente si ricordò del motivo per cui era tornato in Inghilterra e si stupì di non aver pensato a Louis per tutta la giornata. Decise di scrivergli.

Aprì la chat di instagram e scrisse qualcosa in fretta: Hey, sono appena arrivato a Manchester, ti va di beccarci domani? Porto la macchina fotografica. No, non andava bene.

Riprovò: Buonasera, scusa l’orario. Volevo dirti che sono arrivato a Manchester e che quindi se ti va potremmo vederci. Ma non andava bene nemmeno così, sembrava l’inizio di una lettera per un professore.

Optò per un mix delle due opzioni: hey, sono da poco arrivato a Manchester, se ti va potremmo vederci nei prossimi giorni, porto anche la macchina fotografica ;)

Harry non era convinto ma si decise ad inviare il messaggio. Tremava un po’. Inaspettatamente la risposta arrivò dopo pochissimo tempo, ed era affermativa: okay! Ora sto uscendo ma domani ci sentiamo e fissiamo per bene. Top; forse a vederlo da fuori non si sarebbe detto ma era molto felice. Sorrise, si ridistese sul letto e chiuse gli occhi.

Spazio autrice.
Buoonasera a tutt*, sto pubblicando alle 22:37 di un martedì perché è uno dei pochi momenti liberi che mi riesco a ritagliare. Mi scuso. In ogni caso spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia fatto venir voglia di leggere il prossimo, in cui finalmente Louis ed Harry si incontreranno. Come sempre se avete qualcosa da dire vi invito a lasciare una recensione e, siccome non so quando riuscirò a pubblicare, a aggiungere la storia tra le seguite. 
Un bacione.

 

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Capitolo 4
*** Due pillole e poi il vuoto ***


                           

Due pillole e poi il vuoto

 
Louis era un ragazzo esuberante.

Dopo essersi salutati in modo un po’ imbarazzante e impacciato fuori dalla caffetteria i due ragazzi entrarono, scelsero un tavolo vicino ad una delle finestre ed ordinarono: un the il più grande, una cioccolata calda l’altro. Louis fu praticamente l’unico a parlare durante l’incontro. Harry annuiva, sorrideva, rispondeva qualche volta con brevi frasi a domande che Louis sembrava fare solo per il gusto di sentire la sua voce alzarsi in un acuto, per poi riabbassarsi di colpo. Una bella voce indubbiamente, aveva pensato Harry mentre lo ascoltava. Era un po’ confuso, in realtà. Per la maggior parte del tempo quella voce lo rilassava, ma ogni tanto gli faceva un po’ male la testa - così limpida, così veloce - e allora chiudeva gli occhi per uno o due secondi, poi ricominciava ad ascoltare.
Harry non si ricordava tutto quello che Louis gli aveva detto quel pomeriggio. Gli era successo più o meno come quando vai ad una mostra e vedi un quadro che ti piace, e quando torni a casa non ti ricordi con precisione il soggetto rappresentato, ma solo i colori e la sensazione che ti ha trasmesso. Harry si ricordava l’azzurro e il marrone, e il nero del cappotto, e poi la dolcezza del muffin e dei lineamenti di Louis, e la punta del limone nel the e del suo naso. Di ciò che il ragazzo aveva detto gli era rimasta qualche frase spezzata: “ho qualche difficoltà a pagarmi gli studi”, “mi piacerebbe imparare qualcosa sulla fotografia”, “conosco un bel parco qui vicino ma sarebbe meglio andarci di mattina quando c’è il sole”. Così il servizio fotografico era stato rimandato a data da definire (Harry stava già iniziando a pensare ad un’altra location adatta alle foto perché era più probabile che la terra smettesse di girare piuttosto che venisse il sole in quella città). In compenso se non aveva niente da fare quella sera era stato invitato in un locale che Louis aveva definito molto underground e che doveva essere nuovo perché Harry non l’aveva mai sentito nominare. Se aveva voglia di venire bastava che gli scrivesse con adeguato anticipo e si sarebbero messi d’accordo sui dettagli, altrimenti se decideva all’ultimo poteva anche non avvisare e presentarsi direttamente davanti al locale, tanto il luogo era vicino al centro città in un quartiere molto conosciuto, e gli scrisse l’indirizzo su un tovagliolino. Harry sorrise, come del resto aveva fatto tutto il pomeriggio, e dopo un saluto veloce si incamminò verso casa. Quell’incontro era stato un tornado.

Una volta a casa decise innanzitutto di farsi una doccia veloce, per rilassarsi un po’ prima di iniziare quella strana routine che più o meno da quando era entrato alle superiori aveva preceduto ogni evento importante, e che consisteva nel lavarsi, mangiare qualcosa, scegliere i vestiti da indossare, poi sdraiarsi sul letto per qualche secondo con gli occhi chiusi, alzarsi, pettinarsi e infine vestirsi. Se uno di questi passaggi andava male, Harry sapeva che la serata avrebbe preso una brutta piega.

Harry aveva deciso fin da subito che avrebbe accettato l’invito, ma si convinse ulteriormente della sua scelta quando gli arrivò un messaggio in cui Louis gli ricordava dell’appuntamento. Disse a suo padre che usciva e non sapeva a che ora sarebbe tornato. Gli assicurò che non c’era niente di cui preoccuparsi perché, anche se era da un po’ che non tornava in Inghilterra, conosceva bene la città e tutte le strade. Lo sguardo buono di Jeremy lo accompagnò fino alla porta, seguito dalle solite raccomandazioni, un po’ strane e imbarazzanti in questo caso, perché uscite dalla bocca di qualcuno che non era più abituato al suo ruolo di genitore.
Arrivò al locale in fretta. Fuori dalla porta, un po’ spostati verso sinistra rispetto all’entrata, c’erano Louis e un gruppo di ragazzi e ragazze. Louis fumava. Quando vide da lontano il ragazzo un po’ titubante si avvicinò e lo introdusse agli altri membri della comitiva. Harry dimenticò tutti i nomi il secondo dopo averli sentiti. Entrarono.
Tutto il gruppo si recò vicino al bancone per ritirare il drink incluso nel prezzo dell’entrata. Harry pensò che quella sarebbe stata l’unica bevuta della serata, innanzitutto perché non aveva altri soldi, ma anche perché spesso nel passato gli alcolici gli avevano fatto venire l’ansia. Qualche minuto dopo Louis si avvicinò a lui e Harry gli confessò che si sentiva un po’ a disagio. Il ragazzo dagli occhi celesti si allontanò dicendo di avere la soluzione.

Harry si ricordava due pillole e poi il vuoto. O meglio, immagini poco nitide. La pista da ballo piena di persone che lo spingevano da una parte all’altra del locale, la sua risata, le luci stroboscopiche, la testa che gli scoppiava, Louis che gli urlava qualcosa nell’orecchio, lui che si sedeva al bancone. Due delle amiche di Louis che gli facevano domande per conoscerlo un po’ meglio e lui che rispondeva con difficoltà, sia perché al momento la sua vita non era un granché interessante, sia perché gli girava un po’ la testa; Louis che ridacchiava dietro di loro bevendo un bicchiere di una bevanda celeste sconosciuta. Non vedeva le persone nella loro interezza ma le loro scie, gli veniva un sacco da ridere. Le pasticche le avevano buttate giù insieme lui e Louis al centro della pista da ballo ormai una mezz’oretta prima. Louis gli aveva assicurato che in questo modo sarebbe andato tutto liscio come l’olio.
Si ricordava poi il bagno del locale, una caduta che gli aveva fatto male alla schiena, altre risate, la musica di sottofondo, gli occhi chiusi, un bacio, due, forse di più. Poi chissà quanto tempo dopo si era risvegliato su una sedia appoggiato al bancone con ancora la testa che girava e Louis che gli spiegava che uno dei suoi amici lo avrebbe riportato a casa in macchina. Harry aveva annuito e con difficoltà aveva percorso la distanza che lo separava dall’auto. Una volta arrivato a casa si era precipitato in bagno e aveva vomitato. Una volta ripreso un po’ si era trascinato sul letto su cui si era disteso. Adesso aveva una sbornia, un bacio in sospeso, e tanto bisogno di dormire, il giorno seguente lo avrebbe dedicato a processare ciò che gli era successo. Finalmente, dopo tanto tempo, aveva ricominciato a provare qualcosa.


Spazio autrice.
Buonasera, dopo mesi infiniti di attesa finalmente sono riuscita a torvare la forza di completare questo capitolo e di pubblicarlo. Mi scuso immensamente per il ritardo e spero che mi perdonerete. Se invece siete qui per la prima volta e leggete la storia tutta insieme, fate finta di niente haha
Spero in ogni caso che vi stia piacendo e che vi stia un minimo interessando. Se vi va e avete qualcosa da dire, lasciate una recensione.
Baci 

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