Oc-Afi
2.
La Sognatrice di ghiaccio
“Le
persone danneggiate sono pericolose:
sanno
di poter sopravvivere.”
~
J. Hart
◊
Una
folata di vento, più forte delle altre, distrasse Afi Kunene
dall'atmosfera meditabonda in cui si era inconsapevolmente immersa.
Gli
occhi grigi, dal taglio allungato, erano spalancati e attenti come
quelli di un gatto. Il ramo della quercia strusciò sull'ampia e alta
finestra del soggiorno e per un attimo Afi scorse il proprio volto
riflesso.
«Tra
non molto nevicherà. È opera tua, Afi?»
Una
donna apparve riflessa accanto a lei, aveva un fisico asciutto e era
elegantemente vestita, il viso dai lineamenti aristocratici, malgrado
il naso aquilino, aveva assunto un'espressione dolcemente divertita.
Le passò una tazza di tè.
«No.
Immagino che la Cailleach1
abbia deciso di dare un senso a quest'inverno. - bevve e restò in
silenzio per qualche istante – In ogni caso non ho un tale potere»
continuò stringendosi le spalle con indifferenza. Guardò fuori, il
vento gelido imperversava scuotendo con forza tutta la natura
circostante, si mordicchiò compulsivamente le labbra piene. La sua
bocca, così come il colore della sua pelle, bruciata dal sole,
indicava origini africane, eppure i suoi lineamenti erano troppo
levigati, troppo distinti per provenire dal continente nero.
«Ma
ne hai a sufficienza» replicò la donna osservandola con attenzione.
Afi
non rispose, alzò però gli occhi al soffitto sentendo diversi tonfi
risuonare attutiti dal piano di sopra.
«Leggero
come passo» osservò con fredda ironia «I necromanti non dovrebbero
essere solitari e amare il silenzio?» un altro tonfo e le sue labbra
si tesero in una smorfia infastidita.
«Sii
buona Afi. I necromanti come lei hanno a che fare con la morte, non
sono morti» la rimbrottò bonariamente la donna con una scintilla
allegra nello sguardo.
«Se
lo dici tu Sabine» disse lei atona.
La
giovane si alzò dalla comoda poltrona e si diresse, con passo
felpato, verso la finestra e vi poggiò la fronte spaziosa, come
fosse spossata.
I
suoi occhi, nel vedere i fitti fiocchi di neve, rilucerono di un
bagliore singolare e assunsero la trasparenza opalescente del vetro.
Durò qualche istante, decise poi di uscire, non aveva addosso che
una semplice maglia a collo alto, troppo leggera per proteggerla
dalle intemperie, ma lei sapeva che quella tempesta non le avrebbe
mai fatto del male. Afi guardò in alto nel cielo nero, quasi avesse
risucchiato tutti i colori; cristalli d'acqua le caddero sul viso e
sui vestiti sciogliendosi su di lei come una dolce carezza.
“Ciao
mamma.”
Fino
all'età di quindici anni, Afi non aveva mai saputo cosa fosse la
neve. Non l'aveva mai vista, ne toccata, ma solo sognata tantissime
volte. Poteva quasi dire che la prima immagine che le aveva delineato
la sua mente fosse proprio la neve, ancora prima del volto di suo
padre. Lei non sapeva dare un nome a quei cristalli dalle forme
bizzarre ma magnifiche e eleganti, nei suoi sogni le cadevano attorno
e basta.
Afi
viveva in Namibia da sempre, anche se suo padre le aveva raccontato
che lei non era nata in quella terra rossa e polverosa, ma in un
altro luogo totalmente opposto a quello: verdissimo e attraversato da
corsi d'acqua.
Suo
padre, Zifa Kunene, era un drammaturgo piuttosto rinomato, non solo a
livello nazionale ma anche internazionale. Grazie a enormi sacrifici
era riuscito a frequentare l'università a Pretoria e addirittura
vincere una borsa di studio e studiare a Edimburgo. Fu in quel luogo,
così diverso da tutto ciò che aveva conosciuto fino a quel momento,
che conobbe la sua mamma.
La
donna più bella che avesse mai incontrato o sognato, le diceva
spesso lui; aveva addirittura scritto una piece teatrale su di lei.
Zifa
le raccontava che i suoi occhi, così rari fra la loro gente, li
aveva presi proprio da sua madre, tali e quali. Da quel momento Afi
non si era più vergognata del colore lunare dei suoi occhi, erano
l'unico segno che sua madre aveva impresso su di lei, anche se non
l'aveva mai conosciuta, anche se suo padre non le diceva mai del
tutto la verità, anche se non avrebbe mai potuto raggiungerla.
Afi
viveva in un piccolo villaggio di pastori non lontano dagli antichi
altopiani, sul limitare del deserto costiero. La famiglia di suo
padre apparteneva all'etnia Himba2. Viveva
principalmente con il nonno paterno, l'unico che fosse riuscito ad
accettarla veramente, il resto della sua famiglia, compreso il
fratello maggiore di suo padre, e il villaggio la tollerava. Zifa
viaggiava molto e ci teneva che la figlia vivesse il più
genuinamente possibile la sua cultura, rare erano le volte in cui Afi
andava con lui.
Malgrado
a Afi piacesse la vita semplice e tranquilla del villaggio, non
poteva fare a meno di sentirsi fuori posto, distante, era come se il
suo centro fosse irrimediabilmente spostato; dove? Lei non sapeva
dirlo.
Inoltre
sentiva che qualcosa in lei era diverso, non sapeva descrivere questa
sensazione appieno. A volte avvertiva il proprio corpo pizzicare,
come se una forte tensione le montasse dentro e le punte delle dita
prudevano, quasi qualcosa le si fosse accumulato interiormente e le
dita fossero il punto estremo dove quest'energia potesse espandersi.
Nessuno riusciva a trovare pozze d'acqua tanto abilmente e facilmente
quanto lei, sapeva predire con accurata precisione l'inizio della
stagione delle piogge. A volte vedeva cose che nessun altro riusciva
a vedere; dove lei scorgeva paesaggi silenti e immacolati, gli altri
non osservavano che terra brulla, rossastra e polverosa. Ammirava
uccelli solcare il cielo che però sfumavano fra le bianche nubi come
miraggi inafferrabili. Quando lo raccontava a suo padre e a suo
nonno, loro sorridevano. Il nonno la baciava sulla fronte e non
diceva nulla.
Lei
ancora piccina, accettava il loro sereno silenzio con un pizzico di
perplessità, d'altronde ciò che vedeva non la spaventava, erano
immagini suggestive, bellissime che in un modo a lei sconosciuto la
cullavano. Il resto dei suoi coetanei, così come gli adulti la
chiamavano “La Sognatrice”. Sempre più spesso quell'epiteto
evocativo divenne una presa in giro, un insulto quasi.
Afi
all'età di quindici anni era la stramba, la paria, la Sognatrice.
Le
sue coetanee l'emarginavano alimentate dalle maldicenze degli adulti,
invidiose della sua bellezza, dei suoi occhi argentini, felini,
limpidi, integerrimi. Gli anziani del villaggio la osservavano
intimoriti e sprezzanti, lo sciamano l'additava come maledetta dagli
spiriti.
Fu
allora che successe. Afi si trovava al pozzo, quando un gruppetto di
suoi coetanei giunse e inevitabilmente iniziarono le prese in giro,
lo scherno, le cattiverie delle ragazze; i ragazzini sanno essere
spietatamente cristallini nella loro crudeltà. Uno dei ragazzi più
grandi le fece lo sgambetto, Afi cadde rovesciando la preziosa acqua
sulla brulla terra; non un fiato proruppe dalle sue labbra, possedeva
un gelido contegno, uno sguardo affilato e freddo che conteneva una
furia glaciale e temibile nelle sue profondità. Un sasso la colpì
alla tempia e quando la sua mano si macchiò di sangue, gli argini –
che per tanto tempo aveva eretto con cura – si frantumarono. Il suo
corpo si irrigidì improvvisamente, una sensazione mai provata prima
le crebbe dentro riempiendola fino alle punte delle dita, il
famigliare pizzicore stavolta durò solo un istante prima che una
grande energia si liberasse da lei, non c'era calore ma solo un
freddo pungente che avvolse lei e coloro che le erano attorno. Lei,
al contrario dei suoi coetanei, non ne rimase ferita. Si rialzò in
piedi, le mani tese, aperte come a schermarsi. Lei non stava
soffrendo, i ragazzi invece erano accasciati a terra, rannicchiati in
posizione fetale, cercavano di scaldarsi strofinando le mani sulle
braccia e gridavano per la paura, per il freddo che li stava
avvinghiando da dentro. I loro corpi erano rivestiti da un sottile
strato di polvere opalescente.
Afi capì che il freddo proveniva da lei, se nel suo intimo c'era
una forza che ardeva ciò che lei proiettava era gelo. Resasi conto
di ciò iniziò a tremare sconvolta, si voltò e corse, fuggendo via
da ciò che aveva provocato. Cadde a terra, la testa le girava e il
suo corpo continuava a tremare violentemente, l'energia che aveva
emanato si era sopita e lei si sentì spossata, le membra e i muscoli
le dolevano come se avesse compiuto uno sforzo sovraumano. Si
trascinò ancora per qualche metro, poi svenne.
Fu
il forte odore d'incenso misto a quello rugginoso del sangue a
ridestarla. Provò a muoversi ma scoprì con orrore di non riuscirci,
era legata: corde spesse le stringevano il torace, le mani costrette
dietro la schiena. Nonostante la testa che vorticava si rese conto di
essere in piedi, legata ad un palo. Avvertiva delle voci attorno a
sé, pareva intonassero una litania ma non riusciva a intuire le
parole. I ricordi le soggiunsero alla mente, i ragazzi a terra
congelati, l'energia che aveva sprigionato, i volti terrorizzati; un
conato di vomito la colse.
Sentiva
caldo, troppo caldo, la vista ci mise qualche momento a tornare,
quando mise a fuoco vide le fiamme del falò davvero troppo vicine,
tanto da scottarle la pelle. Lo sciamano danzava intorno a lei,
salmodiando e fustigandola con rami imbevuti di qualche sostanza che
evidentemente la stava indebolendo. Comprese che la stavano
purificando.
Un
terrore nero l'assalì, si agitò sul posto ma le corde erano
strette, in particolare sul torace causandole difficoltà a
respirare.
«Vi
prego!» implorò con voce arrocchita dalla paura «Non volevo!
Lasciatami in pace, vi supplico non volevo!», lacrime di rabbia e
angoscia iniziarono a riversarsi brutalmente sul volto accaldato e
sconvolto.
«Lasciatela
andare! Vigliacchi, non sapete ciò che fate!».
La
voce dolce e sofferente del nonno la fece tendere verso di lui, lo
cercò fra la folla e quando lo vide trattenuto con forza da due
uomini, urlò disperata.
Il
canto non accennava a scemare, anzi stava giungendo all'apice, il
fumo e l'odore acre la fecero tossire sempre più forte, la testa le
girava senza sosta il suo corpo non riusciva più a sostenerla.
Desiderò morire; “Voglio che finisca. Basta, non ce la faccio più.
Voglio che tutto finisca”.
Mentre
la coscienza la stava abbandonando, percepì un suono strano dentro
di sé: un forte 'crac', sentì come se una potente pressione avesse
frantumato qualcosa. Il suo cuore? Per un momento le parve che il
tempo si fermasse e tutto fosse sospeso. Poi lo avvertì, un'energia
incredibile – la riconobbe – le montò dentro, iniziò a battere
i denti, il suo corpo tremò come se avesse freddo, una furia
distruttrice e glaciale fuoriuscì da lei, l'iride mutò colore e
divenne chiara come l'opale. Il fuoco si spense e l'intero villaggio
fu colpito da un freddo che mai aveva conosciuto, brina si depositò
sui corpi, sulle capanne e sulla terra. Le nuvole si addensarono e
fiocchi gelidi e cristallini iniziarono a cadere, proprio come in uno
dei suoi innumerevoli sogni.
Le
corde che la tenevano legata ghiacciarono e lei riuscì a liberarsi
facilmente, quasi in trans si diresse dal suo amato nonnino, l'unico
non toccato da quel gelo. Suo nonno le toccò il volto con dolcezza,
la sua pelle era fredda come l'acqua mai toccata dalla luce del sole.
In
mezzo a quel vorticare di fiocchi candidi e impalpabili, gli occhi
cristallini di Afi scorsero qualcosa. Una figura impalpabile e eterea
– forse un illusione – stava davanti a lei. Era bellissima, di
una bellezza trascendentale, i lunghi capelli candidi le danzavano
con sottili fili di ragnatela attorno al volto, il viso era levigato,
sferico e perfetto, e pallido come la luna. Gli occhi erano gli
stessi di Afi argentei, stesso taglio, stessa curvatura delicata
delle ciglia; il suo sguardo era dolce, materno.
«Mamma–»,
un sussurro fragile come una bolla di sapone in bilico nell'aria
abbandonò le sue labbra.
La bocca esangue della donna si tese impercettibilmente verso l'alto,
in un delicato sorriso d'assenso.
Quello fu il primo e unico incontro con sua madre.
Era
letteralmente fuggita dal suo villaggio, suo padre era arrivato e
l'aveva portata via senza dire una parola. Una volta lontana da ciò
che era sempre stata la sua vita, le aveva raccontato tutta la
storia, la storia di un amore impossibile, di un sentimento che
poteva vivere solo nel silenzio del cuore e non poteva esistere se
non nel mondo dei sogni, e di una principessa nata da un fugace
attimo di contatto di corpi e anime. Quando suo padre aveva terminato
di dirle la verità, Afi aveva versato lacrime per quella triste
fiaba. Era l'ultima volta che aveva pianto.
Si
era trasferita da Sabine – un'amica di vecchia data di suo padre -,
nella terra di sua madre.
Nonostante
il suo villaggio l'avesse tradita, umiliata e ferita nel peggior
modo, una cicatrice che mai si sarebbe rimarginata completamente,
c'erano momenti in cui l'Africa le mancava: i colori, i profumi, suo
nonno – che si era trasferito a Pretoria insieme a suo padre, che
andava e veniva -, altre volte ciò che aveva subito bruciava troppo
e lei si sentiva arida come la brulla terra. Verso sua madre provava
sentimenti contrastanti, eppure ogni volta che un fiocco di neve
scendeva su di lei sentiva che le dedicava dell'affetto,
l'avvertiva vicina a sé. A nessun altro permetteva di starle così
vicino, ne a Sabine, ne a suo padre.
«E
così tua madre è la Cailleach, la “Regina dell'inverno”?»,
il dialogo a senso unico con sua madre venne bruscamente interrotto
dalla voce squillante della Necromante.
Afi
si voltò, rivolgendo un'occhiata vaga alla ragazza che era comparsa
al suo fianco.
«Già,
anche se non sono certa di poter definire madre una donna che ho
visto solo una volta» replicò con freddezza sostenuta.
«Mia
madre è morta dandomi alla luce», disse Dominique svagata – quasi
con noncuranza «L'unica volta che l'ho incontrata, un principe degli
Inferi mi accecato l'occhio per punizione».
Se
Afi rimase colpita da quelle parole non lo diede a vedere, fece una
smorfia a metà tra il caustico e il malinconico.
«Il
villaggio in cui sono cresciuta ha cercato di uccidermi perché aveva
paura di ciò che sono» ribatté incolore. Dominique iniziò a
ridacchiare con una vena d'isteria, «Certo che siamo messe bene tu e
io,» tese la mano «Senti io sono Dominique de Azara comunque», Afi
levò aristocraticamente un sopracciglio verso l'alto, sbuffò «Afi
Kunene».
___________________________________________________Asia's Corner
1-Cailleach: nella
mitologia scozzese (e irlandese) è nota anche come Beira, Regina
dell'inverno. E' nota anche come Strega delle Tempeste, vista come
personificazione degli elementi della natura, nel loro aspetto
più distruttivo. La Cailleach ha molti tratti di una
personificazione dell'inverno: pascola cervi, combatte la primavera e
il suo bastone gela il suolo. E' visto come divinità o spirito
delle stagioni, a lei sarebbe demandata la stagione invernale tra
Samhain (1° novembre) e Beltane (1° maggio).
2-Himba: sono un gruppo etnico che risiede nella Namibia settentrionale, sono un popolo di pastori nomadi.
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