I Figli della Notte

di Asia Dreamcatcher
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Peccato dell'Evocatrice ***
Capitolo 2: *** La Sognatrice di ghiaccio ***



Capitolo 1
*** Il Peccato dell'Evocatrice ***


1#Dominique

1. Il Peccato dell'Evocatrice


«Nergal eroe eccelso,
vorresti tu aprire una fessura negli Inferi,
affinché lo spirito di Endiku possa uscire dagli Inferi
ed egli possa informare suo fratello Gilgamesh
sull'ordinamento degli Inferi?

Nergal l'eroe eccelso, ubbidì,
e non appena egli ebbe aperto una fessura negli Inferi,
lo spirito di Endiku, come una folata di vento, uscì fuori dagli Inferi.»
~ Tavola XII, Epopea di Gilgameš


Dominique fissava gli zampilli d'acqua della fontana con l'unico occhio sano che le era rimasto. Il parco, nonostante l'approssimarsi della sera, era deserto, la causa era da imputare alle plumbee nuvole che incombevano sulla città, gonfie, pesanti e scure come le piume di una cornacchia grigia, promettevano una potente tempesta di lì a breve.

L'occhio destro, dall'iride scura quanto l'ebano, iniziò ad osservare la spazio circostante, catturando il dolce ciondolare dei rami, il fremere delle fragili foglie bronzo rossastre e qualsiasi movimento fuori posto. L'occhio sinistro si spostava simultaneamente con il gemello, malgrado fosse completamente inutile: l'iride di un bianco lattiginoso mostrava senza vergogna la sua cecità. Nonostante fossero passati sette anni da quel terribile giorno, c'erano volte in cui l'occhio sinistro quasi le prudeva per la sensazione di fastidiosa precarietà che le causava. Le dita le tremavano e l'insicurezza la ghermiva paralizzandola e la distanza fra lei e il resto del mondo si faceva fosca ed incerta.

Un sospiro pesante abbandonò le sue labbra grandi e carnose, tinte di un acceso rosso, poco pareva importarle che in quel modo evidenziasse la sottile cicatrice che le segnava il labbro superiore, anch'essa a perenne memoria del peccato da lei commesso.

Sette anni addietro, il giorno del suo diciottesimo compleanno, Dominique de Azara sfidò, con tutta l'impudenza della giovane età, il più sacro tabù imposto al suo potere.

Ricordava benissimo quel giorno quasi l'avesse vissuto l'attimo precedente, quella era stata anche la prima volta che aveva effettuato la catabasi, senza però la volontà di farla, trascinata negli Inferi per espiare con la vita.

La ragazza si passò una mano attorno al collo per scaldarselo, nel farlo le lunghe e numerose collane tintinnarono delicatamente nell'aria gravida di umidità.


Aveva diciotto anni, scapestrata e testarda, con l'immensa voglia di esaudire il suo più grande desiderio: conoscere sua madre.

Letha de Azara era morta, dandola alla luce in quello stesso giorno di diciotto anni prima. Nello stesso momento in cui sua madre chiudeva gli occhi per non riaprirli mai più, Dominique apriva i suoi, acquosi e innocenti, mentre sul suo piccolo e paffuto dorso sinistro della mano, compariva un disegno oscuro così disgustosamente in contrasto con la candida pelle. Il simbolo del suo potere, del suo essere. La morte della madre l'aveva consacrata necromante.

L'uroboro, il serpente che si mangia la coda, simbolo del ciclo di vita e morte, era il segno distintivo di alchimisti e necromanti, il cui potere era in grado di richiamare gli spiriti dall'aldilà e perfino evocare demoni e legarli a sé.

Dominique quel giorno si sentiva pronta, percepiva il fluire della sua forza vitale e spirituale, quelle due forze che unite le permettevano di fare qualcosa di sibillino, oscuro ma prodigioso.

Si incise il palmo della mano sinistra, gocce di sangue, linfa di vita e sacrificio, caddero sulla piccola statua in argilla raffigurante una creatura angelica, realizzata dalla stessa Dominique come tributo da donare allo spirito. Alcune parole, enunciate in una lingua inascoltabile all'orecchio umano, scivolarono lente e profonde fra le sue labbra, non c'era incertezza, il nome della madre lo pronunciò a voce alta con sollievo e venerazione.

«Letha de Azara»

Lo spirito comparve, etereo quasi iridescente ma estremamente limpido; Letha de Azara era ad un passo dalla figlia, più meravigliosa che nelle fotografie.

Fu il tempo di un respiro; sua madre ebbe appena il tempo di un barlume di consapevolezza e lei nemmeno quello per pronunciare quella parola - che mai in tutta la sua vita avrebbe usato - “Mamma”. Qualcosa di oscuro e mostruoso attraversò Letha, le cui labbra si aprirono in un'espressione a metà fra la sorpresa e l'avvertimento. Un braccio che non possedeva nulla di umano e terreno afferrò il volto di Dominique, troppo incredula per reagire e la trascinò a fondo ad una velocità folle, risucchiata in un vortice invisibile ma ineluttabile.

Si ritrovò in ginocchio, febbricitante mentre conati di vomito le scuotevano le viscere e il corpo. Boccheggiò, facendo fatica a respirare, poiché l'aria, si rese conto, era rarefatta e pesante irrorata di un odore talmente dolce da risultare nauseante.

Una voce cavernosa e ruggente come quella di un leone, le raggiunse le orecchie perforandogliele, un sacro terrore si impadronì di lei; quella lingua era la lingua degli inferi, la stessa che usava lei per aprire una fessura nella Soglia.

Alzò lo sguardo e la paura più viscerale la paralizzò. Un uomo che uomo non era, la fissava con occhi di brace ardente, terribili ma bellissimi, il corpo di un essere umano ma braccia e gambe di un drago con artigli affilati come lame, pericolosi e bramosi di lei, sulla schiena ali forti ed enormi dalla membrana opalescente, proiettavano un'ombra su quasi tutta la terra che li circondava.

Dominique tremò nuovamente davanti a quel demone, l'oscurità che emanava la schiacciava a terra, su quella sabbia dal colore indefinito che però le penetrava nelle narici bruciandole le vie respiratorie, le feriva la pelle, strappandole le vesti ricoprendo l'incarnato di pagliuzze luccicanti.

Con uno sforzo disumano si guardò attorno e non riconobbe quel luogo, ma sapeva perfettamente dov'era: negli Inferi e nella parte più oscura di essi. Aveva appena fatto una catabasi, ma in un modo che non si sarebbe mai aspettata.

A quel punto, la paura si attenuò leggermente e un pensiero luminoso ma angosciante le sovvenne;

«Dov'è mia madre?» chiese nella lingua inascoltabile per orecchio umano. La voce le tremava e non riusciva ad alzare lo sguardo su quegli occhi feroci e ultraterreni, limitandosi a posarlo sul petto bronzeo.

Il demone assottigliò lo sguardo mentre le sue ali di drago si tesero alla loro massima ampiezza per incuterle nuovo timore, di certo non si aspettava che quell'umana dall'aspetto così fragile potesse anche solo porgli una simile domanda.

«Tu osi chiedere qualcosa a me? Tu sai perché sei qui, insulsa umana?» la sua voce era terribile e le fece battere i denti per il terrore.

«Tu hai peccato! Nessun necromante può evocare spiriti a cui è legato da un vincolo di sangue o da un sentimento profondo. È proibito» il suo tono ora era severo come una condanna e duro come una pietra millenaria.

Dominique fu schiacciata ancora una volta a terra da quel potere intenso, quasi l'aria stessa ne fosse impregnata.

«La tua condanna è di vagare negli Inferi per il resto della tua miserabile vita, provando i morsi della fame con le labbra arse per la sete senza mai poterle soddisfare» sentenziò. Fra i suoi artigli si rigirò la piccola ma graziosa statuetta raffigurante l'angelo. Nel vederla Dominique si agitò, l'aveva creata pensando a sua madre, ammirandone la figura attraverso le fotografie, l'aveva scolpita per lei ed era l'unico legame che era riuscita a creare. Il demone la frantumò con una pressione minima e qualcosa nel petto della necromante si spezzò brutalmente. Urlò di rabbia, di dolore, con una forza disperata si sollevò e come una Furia, senza nemmeno pensare a cosa stesse facendo, alla sua vita, alle conseguenze si gettò contro il demone col solo desiderio violento di procurargli dolore ad animarla.

Per un misero, imperfetto istante il demone rimase seriamente e per la prima volta colpito, ma l'attimo successivo l'aveva atterrata con la sola potenza di uno sguardo.

Dominique si contorse a terra, urlando, scalciando e battendo i pugni, cercando di ribellarsi a quella potenza, come fosse una fiera selvatica, e il demone nel vedere la scintilla della vita sgorgare così impunemente da quella giovane umana, il suo rifiuto per l'autorità, i suoi sentimenti così genuinamente, quasi selvaggiamente espressi, scoppiò in una risata che alle sue orecchie giunse come una melodia antica quasi nostalgica.

Il demone la bloccò a terra sovrastandola col proprio corpo, accostò le labbra peccaminose al suo orecchio, il suo sussurrò fu qualcosa di talmente sommesso e angelico che le fece salire le lacrime agli occhi d'un colpo.

«Ho cambiato idea, giovane En-dor*. Ma sappi che pagherai per il tuo peccato, nessuno lascia gli Inferi senza aver perso qualcosa. Ricordalo Dominique de Azara, ricorda sempre qual è il tuo peccato».

Il palmo mostruoso del demone si posò lieve e delicato, come un battito d'ali di farfalla, sul suo occhio sinistro. All'inizio non avvertì nulla, l'espressione di incredula stupidità, poi un dolore lancinante ed impietoso la colpì violentemente al volto.

Urlando disperata si ritrovò sul il duro parquet della sua stanza, tenendosi il viso che le pareva andasse a fuoco. Il resto fu confuso, si ricordava vagamente di suo padre e suo fratello che accorrevano da lei. Lei che urlava, urlava chiamando sua madre, maledicendo quel demone, Astaroth, la voce le sarebbe andata via per giorni, svenne. Al suo risveglio l'occhio sinistro era completamente cieco.


Dominique tornò presente a se stessa, distaccandosi con stizza da quei vividi ricordi.

Guardò l'ora, il suo cliente sarebbe giunto tra pochi minuti, un rombo fece vibrare l'aria ormai satura ma Dominique continuò a non curarsene, con un gesto secco si scostò i lunghi capelli tinti di platino e si alzò in piedi, il corpo teso a causa di quello che aveva appena rivissuto nella sua mente. Astaroth le aveva sì tolto parte della vista ma non l'aveva privata di qualcosa di infinitamente di più importante: il ricordo di sua madre. Se anche solo per una manciata di istanti madre e figlia si erano incontrate e riconosciute. L'avrebbe rifatto, senza esitare e avrebbe sputato in faccia al principe degli Inferi, perché il sacrificio di un occhio per lo sguardo di sua madre finalmente posato su di lei, valeva più di tutto.

La pioggia finalmente fece la sua entrata in scena, con uno scroscio cadde su ogni cosa, mutandone i contorni, tutto era così caliginoso e grigio ma Dominique non aveva tempo per badarci, il suo cliente era arrivato. Era una donna elegante con l'ombrello che le copriva appena il volto; lei invece non aveva niente per ripararsi, ma certe cose non le aveva mai ritenute necessarie, o forse era solamente troppo pigra per portarsi dietro qualcosa di più di se stessa con anelli e collane.

«Vuole favorire?» la donna educatamente sporse l'ombrello per coprire anche lei.

«Oh beh grazie, senta è lei la mia cliente?» il suo tono era alto, lo era sempre stato. La sua voce era chiara e decisa come se dovesse ogni volta sovrastare qualsiasi altro rumore, o semplicemente cancellare il silenzio, chi aveva fatto della morte la propria sorella sapeva bene cosa significava quella solitudine meditativa che volente o nolente ti accompagnava per tutta la vita.

«Precisamente» replicò composta;

«Chi ha bisogno che evochi?» chiese lei spiccia, a volte questo suo modo di porsi feriva molti suoi clienti. La morte non era mai un tema facile da affrontare, lei lo sapeva meglio di chiunque altro e proprio per questo a volte la trattava in modo quasi dissacrante, pur di non restare ferita a sua volta.

«Oh non voglio assumerla per questo. C'è qualcosa di ben più urgente e oscuro e spero che lei sia la persona giusta per trattare una questione così delicata».

Ah, quello non se lo aspettava.

«Cosa esattam-?»

«Lei cosa sa di uno dei principi degli Inferi, Astaroth?»

Merda.


I'll survive.

Somehow I always do”

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*Strega di En-dor: necromante che per volontà di re Saul evoca lo spirito del profeta Samuele. Bibbia, primo libro di Samuele.


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Capitolo 2
*** La Sognatrice di ghiaccio ***


Oc-Afi

2. La Sognatrice di ghiaccio


Le persone danneggiate sono pericolose:

sanno di poter sopravvivere.”

~ J. Hart



Una folata di vento, più forte delle altre, distrasse Afi Kunene dall'atmosfera meditabonda in cui si era inconsapevolmente immersa.

Gli occhi grigi, dal taglio allungato, erano spalancati e attenti come quelli di un gatto. Il ramo della quercia strusciò sull'ampia e alta finestra del soggiorno e per un attimo Afi scorse il proprio volto riflesso.

«Tra non molto nevicherà. È opera tua, Afi?»

Una donna apparve riflessa accanto a lei, aveva un fisico asciutto e era elegantemente vestita, il viso dai lineamenti aristocratici, malgrado il naso aquilino, aveva assunto un'espressione dolcemente divertita. Le passò una tazza di tè.

«No. Immagino che la Cailleach1 abbia deciso di dare un senso a quest'inverno. - bevve e restò in silenzio per qualche istante – In ogni caso non ho un tale potere» continuò stringendosi le spalle con indifferenza. Guardò fuori, il vento gelido imperversava scuotendo con forza tutta la natura circostante, si mordicchiò compulsivamente le labbra piene. La sua bocca, così come il colore della sua pelle, bruciata dal sole, indicava origini africane, eppure i suoi lineamenti erano troppo levigati, troppo distinti per provenire dal continente nero.

«Ma ne hai a sufficienza» replicò la donna osservandola con attenzione.

Afi non rispose, alzò però gli occhi al soffitto sentendo diversi tonfi risuonare attutiti dal piano di sopra.

«Leggero come passo» osservò con fredda ironia «I necromanti non dovrebbero essere solitari e amare il silenzio?» un altro tonfo e le sue labbra si tesero in una smorfia infastidita.

«Sii buona Afi. I necromanti come lei hanno a che fare con la morte, non sono morti» la rimbrottò bonariamente la donna con una scintilla allegra nello sguardo.

«Se lo dici tu Sabine» disse lei atona.

La giovane si alzò dalla comoda poltrona e si diresse, con passo felpato, verso la finestra e vi poggiò la fronte spaziosa, come fosse spossata.

I suoi occhi, nel vedere i fitti fiocchi di neve, rilucerono di un bagliore singolare e assunsero la trasparenza opalescente del vetro. Durò qualche istante, decise poi di uscire, non aveva addosso che una semplice maglia a collo alto, troppo leggera per proteggerla dalle intemperie, ma lei sapeva che quella tempesta non le avrebbe mai fatto del male. Afi guardò in alto nel cielo nero, quasi avesse risucchiato tutti i colori; cristalli d'acqua le caddero sul viso e sui vestiti sciogliendosi su di lei come una dolce carezza.

Ciao mamma.”


Fino all'età di quindici anni, Afi non aveva mai saputo cosa fosse la neve. Non l'aveva mai vista, ne toccata, ma solo sognata tantissime volte. Poteva quasi dire che la prima immagine che le aveva delineato la sua mente fosse proprio la neve, ancora prima del volto di suo padre. Lei non sapeva dare un nome a quei cristalli dalle forme bizzarre ma magnifiche e eleganti, nei suoi sogni le cadevano attorno e basta.

Afi viveva in Namibia da sempre, anche se suo padre le aveva raccontato che lei non era nata in quella terra rossa e polverosa, ma in un altro luogo totalmente opposto a quello: verdissimo e attraversato da corsi d'acqua.

Suo padre, Zifa Kunene, era un drammaturgo piuttosto rinomato, non solo a livello nazionale ma anche internazionale. Grazie a enormi sacrifici era riuscito a frequentare l'università a Pretoria e addirittura vincere una borsa di studio e studiare a Edimburgo. Fu in quel luogo, così diverso da tutto ciò che aveva conosciuto fino a quel momento, che conobbe la sua mamma.

La donna più bella che avesse mai incontrato o sognato, le diceva spesso lui; aveva addirittura scritto una piece teatrale su di lei.

Zifa le raccontava che i suoi occhi, così rari fra la loro gente, li aveva presi proprio da sua madre, tali e quali. Da quel momento Afi non si era più vergognata del colore lunare dei suoi occhi, erano l'unico segno che sua madre aveva impresso su di lei, anche se non l'aveva mai conosciuta, anche se suo padre non le diceva mai del tutto la verità, anche se non avrebbe mai potuto raggiungerla.


Afi viveva in un piccolo villaggio di pastori non lontano dagli antichi altopiani, sul limitare del deserto costiero. La famiglia di suo padre apparteneva all'etnia Himba2. Viveva principalmente con il nonno paterno, l'unico che fosse riuscito ad accettarla veramente, il resto della sua famiglia, compreso il fratello maggiore di suo padre, e il villaggio la tollerava. Zifa viaggiava molto e ci teneva che la figlia vivesse il più genuinamente possibile la sua cultura, rare erano le volte in cui Afi andava con lui.

Malgrado a Afi piacesse la vita semplice e tranquilla del villaggio, non poteva fare a meno di sentirsi fuori posto, distante, era come se il suo centro fosse irrimediabilmente spostato; dove? Lei non sapeva dirlo.

Inoltre sentiva che qualcosa in lei era diverso, non sapeva descrivere questa sensazione appieno. A volte avvertiva il proprio corpo pizzicare, come se una forte tensione le montasse dentro e le punte delle dita prudevano, quasi qualcosa le si fosse accumulato interiormente e le dita fossero il punto estremo dove quest'energia potesse espandersi. Nessuno riusciva a trovare pozze d'acqua tanto abilmente e facilmente quanto lei, sapeva predire con accurata precisione l'inizio della stagione delle piogge. A volte vedeva cose che nessun altro riusciva a vedere; dove lei scorgeva paesaggi silenti e immacolati, gli altri non osservavano che terra brulla, rossastra e polverosa. Ammirava uccelli solcare il cielo che però sfumavano fra le bianche nubi come miraggi inafferrabili. Quando lo raccontava a suo padre e a suo nonno, loro sorridevano. Il nonno la baciava sulla fronte e non diceva nulla.

Lei ancora piccina, accettava il loro sereno silenzio con un pizzico di perplessità, d'altronde ciò che vedeva non la spaventava, erano immagini suggestive, bellissime che in un modo a lei sconosciuto la cullavano. Il resto dei suoi coetanei, così come gli adulti la chiamavano “La Sognatrice”. Sempre più spesso quell'epiteto evocativo divenne una presa in giro, un insulto quasi.

Afi all'età di quindici anni era la stramba, la paria, la Sognatrice.

Le sue coetanee l'emarginavano alimentate dalle maldicenze degli adulti, invidiose della sua bellezza, dei suoi occhi argentini, felini, limpidi, integerrimi. Gli anziani del villaggio la osservavano intimoriti e sprezzanti, lo sciamano l'additava come maledetta dagli spiriti.

Fu allora che successe. Afi si trovava al pozzo, quando un gruppetto di suoi coetanei giunse e inevitabilmente iniziarono le prese in giro, lo scherno, le cattiverie delle ragazze; i ragazzini sanno essere spietatamente cristallini nella loro crudeltà. Uno dei ragazzi più grandi le fece lo sgambetto, Afi cadde rovesciando la preziosa acqua sulla brulla terra; non un fiato proruppe dalle sue labbra, possedeva un gelido contegno, uno sguardo affilato e freddo che conteneva una furia glaciale e temibile nelle sue profondità. Un sasso la colpì alla tempia e quando la sua mano si macchiò di sangue, gli argini – che per tanto tempo aveva eretto con cura – si frantumarono. Il suo corpo si irrigidì improvvisamente, una sensazione mai provata prima le crebbe dentro riempiendola fino alle punte delle dita, il famigliare pizzicore stavolta durò solo un istante prima che una grande energia si liberasse da lei, non c'era calore ma solo un freddo pungente che avvolse lei e coloro che le erano attorno. Lei, al contrario dei suoi coetanei, non ne rimase ferita. Si rialzò in piedi, le mani tese, aperte come a schermarsi. Lei non stava soffrendo, i ragazzi invece erano accasciati a terra, rannicchiati in posizione fetale, cercavano di scaldarsi strofinando le mani sulle braccia e gridavano per la paura, per il freddo che li stava avvinghiando da dentro. I loro corpi erano rivestiti da un sottile strato di polvere opalescente.

Afi capì che il freddo proveniva da lei, se nel suo intimo c'era una forza che ardeva ciò che lei proiettava era gelo. Resasi conto di ciò iniziò a tremare sconvolta, si voltò e corse, fuggendo via da ciò che aveva provocato. Cadde a terra, la testa le girava e il suo corpo continuava a tremare violentemente, l'energia che aveva emanato si era sopita e lei si sentì spossata, le membra e i muscoli le dolevano come se avesse compiuto uno sforzo sovraumano. Si trascinò ancora per qualche metro, poi svenne.

Fu il forte odore d'incenso misto a quello rugginoso del sangue a ridestarla. Provò a muoversi ma scoprì con orrore di non riuscirci, era legata: corde spesse le stringevano il torace, le mani costrette dietro la schiena. Nonostante la testa che vorticava si rese conto di essere in piedi, legata ad un palo. Avvertiva delle voci attorno a sé, pareva intonassero una litania ma non riusciva a intuire le parole. I ricordi le soggiunsero alla mente, i ragazzi a terra congelati, l'energia che aveva sprigionato, i volti terrorizzati; un conato di vomito la colse.

Sentiva caldo, troppo caldo, la vista ci mise qualche momento a tornare, quando mise a fuoco vide le fiamme del falò davvero troppo vicine, tanto da scottarle la pelle. Lo sciamano danzava intorno a lei, salmodiando e fustigandola con rami imbevuti di qualche sostanza che evidentemente la stava indebolendo. Comprese che la stavano purificando.

Un terrore nero l'assalì, si agitò sul posto ma le corde erano strette, in particolare sul torace causandole difficoltà a respirare.

«Vi prego!» implorò con voce arrocchita dalla paura «Non volevo! Lasciatami in pace, vi supplico non volevo!», lacrime di rabbia e angoscia iniziarono a riversarsi brutalmente sul volto accaldato e sconvolto.

«Lasciatela andare! Vigliacchi, non sapete ciò che fate!».

La voce dolce e sofferente del nonno la fece tendere verso di lui, lo cercò fra la folla e quando lo vide trattenuto con forza da due uomini, urlò disperata.

Il canto non accennava a scemare, anzi stava giungendo all'apice, il fumo e l'odore acre la fecero tossire sempre più forte, la testa le girava senza sosta il suo corpo non riusciva più a sostenerla. Desiderò morire; “Voglio che finisca. Basta, non ce la faccio più. Voglio che tutto finisca”.

Mentre la coscienza la stava abbandonando, percepì un suono strano dentro di sé: un forte 'crac', sentì come se una potente pressione avesse frantumato qualcosa. Il suo cuore? Per un momento le parve che il tempo si fermasse e tutto fosse sospeso. Poi lo avvertì, un'energia incredibile – la riconobbe – le montò dentro, iniziò a battere i denti, il suo corpo tremò come se avesse freddo, una furia distruttrice e glaciale fuoriuscì da lei, l'iride mutò colore e divenne chiara come l'opale. Il fuoco si spense e l'intero villaggio fu colpito da un freddo che mai aveva conosciuto, brina si depositò sui corpi, sulle capanne e sulla terra. Le nuvole si addensarono e fiocchi gelidi e cristallini iniziarono a cadere, proprio come in uno dei suoi innumerevoli sogni.

Le corde che la tenevano legata ghiacciarono e lei riuscì a liberarsi facilmente, quasi in trans si diresse dal suo amato nonnino, l'unico non toccato da quel gelo. Suo nonno le toccò il volto con dolcezza, la sua pelle era fredda come l'acqua mai toccata dalla luce del sole.

In mezzo a quel vorticare di fiocchi candidi e impalpabili, gli occhi cristallini di Afi scorsero qualcosa. Una figura impalpabile e eterea – forse un illusione – stava davanti a lei. Era bellissima, di una bellezza trascendentale, i lunghi capelli candidi le danzavano con sottili fili di ragnatela attorno al volto, il viso era levigato, sferico e perfetto, e pallido come la luna. Gli occhi erano gli stessi di Afi argentei, stesso taglio, stessa curvatura delicata delle ciglia; il suo sguardo era dolce, materno.

«Mamma–», un sussurro fragile come una bolla di sapone in bilico nell'aria abbandonò le sue labbra.

La bocca esangue della donna si tese impercettibilmente verso l'alto, in un delicato sorriso d'assenso.

Quello fu il primo e unico incontro con sua madre.


Era letteralmente fuggita dal suo villaggio, suo padre era arrivato e l'aveva portata via senza dire una parola. Una volta lontana da ciò che era sempre stata la sua vita, le aveva raccontato tutta la storia, la storia di un amore impossibile, di un sentimento che poteva vivere solo nel silenzio del cuore e non poteva esistere se non nel mondo dei sogni, e di una principessa nata da un fugace attimo di contatto di corpi e anime. Quando suo padre aveva terminato di dirle la verità, Afi aveva versato lacrime per quella triste fiaba. Era l'ultima volta che aveva pianto.

Si era trasferita da Sabine – un'amica di vecchia data di suo padre -, nella terra di sua madre.

Nonostante il suo villaggio l'avesse tradita, umiliata e ferita nel peggior modo, una cicatrice che mai si sarebbe rimarginata completamente, c'erano momenti in cui l'Africa le mancava: i colori, i profumi, suo nonno – che si era trasferito a Pretoria insieme a suo padre, che andava e veniva -, altre volte ciò che aveva subito bruciava troppo e lei si sentiva arida come la brulla terra. Verso sua madre provava sentimenti contrastanti, eppure ogni volta che un fiocco di neve scendeva su di lei sentiva che le dedicava dell'affetto, l'avvertiva vicina a sé. A nessun altro permetteva di starle così vicino, ne a Sabine, ne a suo padre.

«E così tua madre è la Cailleach, la “Regina dell'inverno”?», il dialogo a senso unico con sua madre venne bruscamente interrotto dalla voce squillante della Necromante.

Afi si voltò, rivolgendo un'occhiata vaga alla ragazza che era comparsa al suo fianco.

«Già, anche se non sono certa di poter definire madre una donna che ho visto solo una volta» replicò con freddezza sostenuta.

«Mia madre è morta dandomi alla luce», disse Dominique svagata – quasi con noncuranza «L'unica volta che l'ho incontrata, un principe degli Inferi mi accecato l'occhio per punizione».

Se Afi rimase colpita da quelle parole non lo diede a vedere, fece una smorfia a metà tra il caustico e il malinconico.

«Il villaggio in cui sono cresciuta ha cercato di uccidermi perché aveva paura di ciò che sono» ribatté incolore. Dominique iniziò a ridacchiare con una vena d'isteria, «Certo che siamo messe bene tu e io,» tese la mano «Senti io sono Dominique de Azara comunque», Afi levò aristocraticamente un sopracciglio verso l'alto, sbuffò «Afi Kunene».

___________________________________________________Asia's Corner

1-Cailleach: nella mitologia scozzese (e irlandese) è nota anche come Beira, Regina dell'inverno. E' nota anche come Strega delle Tempeste, vista come personificazione degli elementi della natura, nel loro aspetto più distruttivo. La Cailleach ha molti tratti di una personificazione dell'inverno: pascola cervi, combatte la primavera e il suo bastone gela il suolo. E' visto come divinità o spirito delle stagioni, a lei sarebbe demandata la stagione invernale tra Samhain (1° novembre) e Beltane (1° maggio).

2-Himba: sono un gruppo etnico che risiede nella Namibia settentrionale, sono un popolo di pastori nomadi.



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