Quando il gatto non c'è, i Corvi ballano

di blackjessamine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto primo. Luce ***
Capitolo 2: *** Atto secondo. In scena ***
Capitolo 3: *** Atto terzo. Sipario ***



Capitolo 1
*** Atto primo. Luce ***


Atto primo.

Luce



 

Nervi tesi.

Specchi a catturare sguardi in cerca di conferme dell’ultimo minuto.

Bisbigli soffusi, risate nervose, piccoli gesti scaramantici.

Ogni cosa aveva il proprio ritmo concitato, come se la danza fosse già cominciata – come se non fosse mai finita.

I grani di pece greca si frantumavano con uno scricchiolare rotondo e confortante sotto suole lisce di scarpette di raso, e l’adrenalina, lenta come una marea, inesorabile, potente come la vita, iniziava a scorrere nelle vene.

Sembrava quasi di poterla respirare, quella sensazione che solleticava lo stomaco e acuiva i sensi con un brivido di eccitazione spaventata e inebriante: era una sensazione annidata fra l’odore pesante e opprimente della polvere accumulata fra le cortine di velluto blu, una sensazione che inacidiva appena l’odore della lacca per i capelli e andava a smorzare il profumo dolciastro dei cosmetici.

Era una sensazione che invadeva chiunque, in quel dedalo di camerini, appianando differenze e contrasti: dal Bol'šoj all'Opéra Garnier, dal Koch Theater al Teatro Solìs, era sempre lo stesso brivido di gioia e paura e voglia di nascondersi e di gettarsi in pasto alle luci della ribalta. Poco importavano i camerini troppo piccoli del St. Paul Theater di Tamworth, poco importavano i biglietti a stento venduti nel chiosco di giornali in fondo alla piazza, e poco importava pure che, probabilmente, il pubblico in sala fosse convinto che un Balanchine fosse un berretto estivo. Non importava nemmeno che Balanchine, se avesse potuto vedere gli sforzi con cui la Compagna della Rocca martoriava il suo Jewels, si sarebbe alzato dalla sua tomba solo per prendere a ceffoni tutti in quel corpo di ballo sgangherato.

Non importava, non davvero, perché quando iniziava il conto alla rovescia per la chiamata in scena, quando il pubblico smetteva di rumoreggiare e l’orchestra prendeva posto e il direttore artistico rivolgeva il suo sguardo pieno di belle speranze e orgoglio e supplica alla sua etoile, la magia – una magia che non aveva bisogno di bacchette magiche – si compiva: non c’erano più ballerini gelosi, né contrasti, né piccole meschinità o dispetti. C’era solo un corpo di ballo che respirava come una sola entità la stessa aria elettrica.

 

*

 

Applausi, infine.

Qualche bisbiglio perplesso tra il pubblico intervallato da qualche complimento compiaciuto sussurrato a mezza voce.

Pacche sulle spalle a metà fra il compiaciuto e il consolatorio e poi, finalmente, il crollo.

Il crollo delle tensioni, della stanchezza, della certezza di aver portato a casa un altro spettacolo con la dignità ferita ma mai uccisa di una persona indigente che il capo, però, non lo china mai.

Nessuno avrebbe mai avuto l’ardire di definire l’apertura della stagione invernale del minuscolo teatro di Tamworth un successo: il balletto classico non era particolarmente apprezzato nella cittadina, e probabilmente, come avrebbero ribadito in molti in Consiglio Comunale, sarebbe stato molto meglio puntare su un classico come Lo Schiaccianoci, in vista del Natale, invece di andare a pescare queste cose pretenziose di questi coreografi moderni. E del resto, se una compagnia di Londra viaggiava fino a Tamworth per un compenso tanto modesto c'era pure da aspettarsi che non fosse poi niente di straordinario.

Nessuno avrebbe neanche avuto la cattiveria di definire il balletto portato in scena dalla Compagnia della Rocca un completo fiasco, però. Certo, lo spettacolo era cominciato con mezz’ora di ritardo, e sarebbe stato difficile definire la scenografia del tutto assente come minimale. Però Marion Kohen, la ragazza che aveva sostituito la prima ballerina dal piede rotto per una stupida scommessa che coinvolgeva troppo alcool e una scala a chiocciola, era riuscita a mascherare molto bene la sua giovane età e la sua inesperienza per un ruolo del genere.

C’erano state imprecisioni e momenti di imbarazzo quando il secondo atto era cominciato senza che le luci in sala venissero spente, ma, tutto sommato, lo spettacolo si era concluso con un dignitoso “ce la siamo cavata” collettivo, e ora i ballerini potevano concedersi un po’ di meritati festeggiamenti conditi da bonari pettegolezzi.

 

“Ho sentito che José ora fa il ballerino in televisione...”

“E lo chiami ballare, quello?”

“Be’, lo pagano per essere il sogno erotico di casalinghe in menopausa, e lo pagano comunque più di noi...”

I camerini del teatro di Tamworth erano solo due grandi stanzoni troppo riscaldati, dove i ballerini si erano ammassati con una stretta di spalle, incuranti del poco spazio e della poca riservatezza.

C’era chi si era lasciato cadere su una panca con ancora indosso i costumi di scena e chi si aggirava in mutande con la stessa naturalezza con cui si sarebbe spostato dalla propria doccia alla propria stanza.

Una ragazza dai lunghi capelli castani litigava con un diadema color smeraldo che sembrava non volerne sapere di lasciare il suo capo, mentre qualcuno fletteva con smorfie affaticate articolazioni indolenzite.

Nell’angolo più remoto, apparentemente disinteressata alle chiacchiere che prendevano corpo attorno a lei, una ragazza ancora prigioniera del suo costume rosso imprecava sottovoce, osservando la chiazza di sangue che si allargava in corrispondenza dell’unghia dell’alluce destro sulle calze chiare.

“Uh, guardate, Alhena ha un ammiratore nello Staffordshire! Perché non ci hai detto niente?”

Decidendo di ignorare per il momento il problema dell’unghia caduta, la ragazza alzò il capo, irritata: alla fine di uno spettacolo, Alhena desiderava soltanto chiudersi la porta della sua stanza dietro le spalle, spegnere la luce e dormire. Di certo non aveva voglia di affrontare il malcelato sarcasmo di Thomas Cunningham, che la guardava con occhi cattivi e feriti.

Senza nemmeno degnare Thomas di uno sguardo, Alhena lasciò che i suoi occhi venissero attratti dal proprio cappotto appeso di sbieco all’appendiabiti a muro, in mezzo a quello di tutti gli altri. Dalla tasca destra spuntava un gran mazzo di fiori dalla forma singolare: erano piccoli e dai petali sottili che parevano aprirsi in sbuffi leggeri, come pompon su un berretto invernale, ed erano di un bel blu intenso dall’aria quasi innaturale. Il bouquet era avvolto da una sottile retina di tulle color bronzo, che sembrava scintillare appena sotto la fredda luce dei neon.

Doveva esserci un errore.

Alhena non conosceva nessuno da quelle parti.

E nessuno aveva il permesso di entrare nei camerini, nemmeno per lasciare dei fiori.

Prima che lei potesse raggiungere quei fiori Thomas, allontanandosi dal viso un ciuffo di capelli ramati, estrasse da quel sottile groviglio di petali un cartoncino di un bel blu listato di bronzo, e, con voce divertita e decisamente troppo alta, lesse:

“Da parte di un vecchio amico, che forse amico non è, ma di certo è vecchio, e che sarebbe lieto di poter passeggiare con te sul viale dei ricordi. F. V.”

Thomas rise, ma non c’era traccia di divertimento nei suoi occhi quando aggiunse:

“La Regina delle Nevi si diverte, stasera! Segnatevelo sul calendario, non succede tutti i giorni che Miss Frigidezza si sciolga un po’...”

Alhena strinse con forza le dita della mano destra, come mossa da un riflesso spontaneo.

Imprecando tra sé e sé per l’impossibilità di dare libero sfogo a quell’elettricità che le scorreva tra le dita e sotto la pelle, si limitò a strappare i fiori dalle mani di Tommy, e a sibilare, arrabbiata:

“Di’ un po’, Thomas, il tuo cervello nemmeno la sfiora l’idea che non sia io quella frigida, ma che forse se una smette di venire a letto con te il problema sia tu, vero?”

Gli occhi nocciola di Thomas sembrarono sprofondare in un abisso scuro, mentre sul suo viso si alternavano risentimento e incertezza.

Alhena si pentì delle sue parole, almeno per un attimo. Era stata ingiusta, ingiusta e cattiva: il problema, tra di loro, non era stato Thomas, non all’inizio, almeno. Non quando il loro rapporto era fatto solo di chiacchiere spontanee durante le lezioni e salutari incontri a notte fonda che recavano reciproche soddisfazioni a entrambi, senza alcun impegno. Il problema era arrivato dopo, quando lui aveva iniziato ad aprirsi e a parlarle di sé come due persone che condividevano un lavoro e ogni tanto il letto non avrebbero dovuto fare. E lei sapeva che, appena svoltato l’angolo di quelle confessioni, lui si sarebbe aspettato in cambio una speculare apertura, dunque era rimasta paralizzata dalla paura. Perché Tommy era carino, e la faceva stare bene, e se avesse lasciato correre le cose si sarebbe presto trovata a dover abbassare tutte le sue difese. E quando smetti di difenderti, muori.

Alhena aveva subito troncato quella stupida storia in cui non si sarebbe mai dovuta far coinvolgere, aveva smesso di rivolgergli l’attenzione durante le prove e si era trasformata per davvero in un muro di ghiaccio. E Thomas non l’aveva presa bene, dimostrando quanto, dietro l’illusione di quei primi momenti, tra di loro le cose non avrebbero mai funzionato per davvero.

Il giovane si chinò su di lei, fissandola con occhi freddi e rabbiosi. Le posò sul fianco una mano grande e calda, stringendo più di quanto fosse lecito fare, e sibilò:

“Puoi anche tirartela quanto vuoi, con la tua aria del cazzo da ragazzina ribelle che è scappata dal collegio privato, ma sotto sotto resti comunque una zoccola”.

E Alhena, che quasi si era pentita della cattiveria nelle sue parole, lasciò che la rabbia elettrica nel suo sangue trovasse libero sfogo. Non c’era del legno liscio attorno a cui la sua mano destra potesse stringersi, e così quel grumo di risentimento, di colpa e paura – paura, sì, perché Thomas, nonostante il suo silenzio, aveva letto dentro di lei più di quanto potesse sospettare – si addensò tutto nel suo pugno, e nell’impatto doloroso, sì, ma immensamente soddisfacente tra le sue nocche e lo zigomo di Thomas.

 

*

 

Il Raven Café di solito chiudeva a mezzanotte ma, per qualche strano scherzo del destino, sembrava che quella sera il proprietario e le due giovani cameriere se ne fossero completamente dimenticati. Se ne stavano a ciondolare dietro il bancone, pulendo e ripulendo la stessa superficie e non degnando di particolare attenzione l’unica coppia ancora comodamente seduta al tavolino tondo vicino al camino – camino che, avrebbe giurato qualche cliente abituale, in trentadue anni di attività non era mai stato acceso, ma era sempre servito solamente come mensola per esporre un orribile corvo impagliato, eppure ora riluceva di fiamme allegre e crepitanti.

Se solo qualcuno dei dipendenti del Raven Café avesse sollevato lo sguardo verso quella strana coppia, avrebbe notato che si trattava a tutti gli effetti di una vista insolita: lei era una ragazza graziosa, molto giovane, il viso pallido sormontato da grandi occhi chiari che saettavano in continuazione da una parte all’altra, nervosi, incapaci di soffermarsi troppo a lungo sul suo interlocutore o su qualunque altra cosa. La sua mano destra era gonfia e tumefatta, e lei vi tamponava distrattamente un sacchetto di ghiaccio secco. Sedeva con la schiena ben dritta, posata sull’estremità della sedia, le punte dei piedi appena posate a terra, come se volesse alzarsi da un momento all’altro, e non aveva nemmeno sfiorato la tazza di tè che aveva davanti. A ben guardarla, dava l’impressione di un cucciolo selvaggio improvvisamente catturato e portato in cattività: non era propriamente spaventata, ma era guardinga e diffidente.

L’uomo di fronte a lei, invece, era quanto di più insolito si potesse immaginare in un luogo come una caffetteria di Tamworth: alto poco più che un bambino, sedeva con estrema soddisfazione su una pila di morbidi cuscini azzurri che sembravano fare a pugni con la tappezzeria e l’arredamento sui toni del pesca del Raven Cafè.

Indossava un completo da sera scuro, elegantissimo, con scarpette lucide, giacca a coda di rondine e una tuba che aveva posato con indifferenza sul pavimento sporco. L’eleganza d’insieme subiva però uno strano contrasto quando paragonata alla barba candida e lunga dell’uomo, o al mantello di velluto blu scuro che aveva posato con attenzione sullo schienale della sedia.

“Non ti chiedo di darmi subito una risposta, ma solo di pensarci”, mormorò l’uomo, contento, affondando i denti con soddisfazione in un tortino alle fragole che, in realtà, il Raven Café non aveva mai servito.

La giovane scosse la testa, risoluta:

“Non ce n’è bisogno. La ringrazio per aver pensato a me, ma non posso accettare, non... non posso”.

L’uomo continuò a masticare, gli occhi chiusi in un’espressione di estasi, e quando li riaprì, continuò a parlare come se la frase della giovane non lo avesse nemmeno sfiorato.

“È davvero un peccato che mangiate così poco, da queste parti. Siete tutte molto graziose, ma la magrezza di almeno la metà delle tue colleghe non è sana... e anche tu sei dimagrita”.

La giovane sorrise, scuotendo la testa, come divertita da qualche ricordo lontano.

“Io sto bene, non si deve preoccupare”.

“Oh, no, per questo non mi preoccupo. Mi preoccupa di più la tua felicità, anche se so di non averne il diritto... e che me ne sarei dovuto preoccupare molto prima, quando ancora potevo fare qualcosa.”

Gli occhietti scuri dell’uomo, dietro le lenti tonde dei suoi occhiali dorati, si velarono di un’antica malinconia.

“Sto bene”, ripeté la ragazza, con una nota dura e fredda nella voce. E poi, con un sospiro, aggiunse:

“È davvero gentile, ma sto bene. Ho la mia vita, un lavoro che mi piace, e sono... sì, be’, sono felice”.

L’uomo scosse appena la testa davanti a quel sorriso finto, ma rimase per un po’ in silenzio, contemplando con aria distratta le due tortine che restavano sul piattino di porcellana.

Infine, l’uomo tornò a guardare la ragazza che gli sedeva di fronte, scrutandola con attenzione e scegliendo lentamente le proprie parole:

“Sai, capisco che il tuo lavoro ti tenga molto impegnata, ma davvero, la mia richiesta, oltre che formale, ha un carattere personale: ci tengo molto a dare ai miei ragazzi la possibilità di vivere esperienze tanto diverse dalla loro quotidianità, e tu sei la prova vivente di quanto queste esperienze possano cambiare la vita... non saprei proprio a chi rivolgermi, se il tuo rifiuto fosse definitivo”.

La giovane fissò l’uomo con un sopracciglio chiaro sollevato in segno di incredulità.

“Ci sono centinaia di persone a cui potrebbe chiedere. Be’, no, forse decine, ma insomma, ci sono. Posso metterla in contatto con Mrs. Szeredàs, che le assicuro sarebbe più che all’altezza...”

“No”, la interruppe l’uomo, parlando lentamente e con un’inflessione quasi condiscendente, “no, non ci sono decine di persone adatte. Ci sono decine di persone che potrebbero insegnare il necessario, quello sì, ma sarebbe molto diverso, e tu lo sai. Non è tanto la disciplina in sé che mi interessa, quanto la possibilità di scegliere una nuova strada... e tu, mia cara, questa strada la conosci”.

Ci fu un lungo silenzio, riempito solo dallo smuoversi di ceppi nel camino.

Alla fine, la ragazza sollevò la sua mano tumefatta verso l’uomo, mormorando:

“Ho appena preso a pugni una persona solo perché mi ha detto una cosa sgradevole. Crede davvero che sia il caso di fare a me una proposta del genere?”

A queste parole, l’uomo scoppiò a ridere. Una risata fresca, un ruscello sereno.

“Oh, ma via, via, certo non auspicherei di considerare la violenza una soluzione, ma ho piena fiducia in te e nei miei ragazzi: nessuno penserà a dire cose sgradevoli, e nessuno sarà costretto ad alzare le mani, te lo prometto”.

Silenzio, di nuovo.

Quando l’uomo tornò a parlare, non c’era più traccia di risate nella sua voce, ma solo seria preoccupazione.

“Ascoltami, tu puoi anche dirmi di stare bene, ma nessuno sta davvero bene quando scappa. Io lo so che da anni ormai non hai più alcun contatto con il tuo mondo, e questo non va bene, non può andare bene...”

L’uomo allungò una mano per sfiorare quella piccola e fredda della ragazza, ma lei si ritrasse di scatto, alzandosi in piedi.

Questo è il mio mondo. Questa è la mia strada, quella che ho scelto... l’ha detto lei che è importante. Non tornerò certo indietro!”

L’uomo rimase fermo al suo posto, senza mai cercare di fermare la giovane.

“Certo che è importante, ma Alhena, una strada ha sempre un punto d’origine. E bisogna accettarlo, perché fingere che non esista non servirà a niente. Hai scelto la tua strada, ma non sei serena, perché non hai fatto pace con il tuo passato. E magari, se tornassi, solo per una volta... se ricostruissi qualche legame...”

“No, proprio no”, quasi gridò la giovane, il viso pallido chiazzato di rosso, mentre indossava con rabbia il cappotto, non curandosi della busta di ghiaccio secco che aveva fatto cadere.

“Non mi cerchi più, se lo deve fare solo per farmi una ramanzina. Non sono più una sua studentessa”.

Filius Vitious rimase fermo a guardare la ragazza sparire nella notte scura, mormorando a sé stesso, più che alla giovane, parole intrise d’amarezza:

“Non basta un diploma perché io smetta di considerarti una mia studentessa, Alhena Macnair...”

L’uomo, assicurandosi che le cameriere non lo osservassero, estrasse da una piega del mantello la sua bacchetta, e fece sparire le due tortine avanzate.

Non aveva più fame.

Con un ultimo sguardo alla strada vuota dove Alhena era scomparsa, l’uomo mormorò, di nuovo:

“Sei sempre stata una ragazza sveglia, anche se hai fatto di tutto perché noi professori credessimo il contrario. Sai dove trovarmi, quando cambierai idea”.

 

 


 

Note:

Dunque, un piccolo disclaimer prima di cominciare: la trama di questa storia è piombata nella mia testa come un fulmine a ciel sereno, costringendomi a mettere da parte tutti gli altri progetti per poter dare una forma a questo. Perché, lo sapevo, se avessi esitato, non avrei più avuto il coraggio di scrivere e addirittura pubblicato questa storia, che è chiaramente una mezza follia.

Alhena Macnair è un OC di mia invenzione, protagonista di molte mie storie. Mi rendo conto che, senza qualche conoscenza pregressa su di lei, questa storia potrebbe risultare un po' estrapolata dal nulla e poco comprensibile, ma soffermarmi di più sul contesto mi avrebbe portata a scrivere una storia molto lunga, mentre io volevo limitarmi a una one-shot (che si è trasformata in una minilong in tre atti, ma quello è un altro discorso). Vi chiedo dunque perdono, ma è una storia che ho scritto più per me che per voi, temo.

Roger Davies, questo Roger Davies (che comparirà nel prossimo capitolo, ma metto le mani avanti dando a chi di dovere i giusti crediti), deve in tutto e per tutto la sua (meravigliosa) caratterizzazione a AdhoMu, che non ringrazierò mai abbastanza per avermi concesso l’opportunità di prendere in prestito il suo personaggio. Per comprendere la storia non credo sia necessario conoscerlo, ma io vi consiglio comunque vivamente di recuperare la one-shot “Profumo di nebbia” e la mini-long “50 first Davies”, che trovate sul profilo di Adho: vi assicuro che sarà tempo impiegato benissimo.

Il fatto che Roger sia nato il tre novembre (ma guarda un po’, proprio come un certo Malandrino *ride istericamente*) è invece frutto della mia mente provata, perché sì, ho molto senso dell’umorismo.

Infine (giuro, infine): si dice che si dovrebbe scrivere di quel che si sa, no? Ecco, di balletto io (qualcosa), so. Il ballo da sala, il tango e lo spagnolo sono mondi invece a me completamente ignoti, ahimé. Ho fatto qualche ricerca, ma ammetto di non essermi sforzata troppo, quindi, nel caso avessi scritto castronerie, fatemelo notare, vi prego.

Vi lascio, il prossimo capitolo ha bisogno solo di una rilettura, dunque arriverà presto.

Ancora mille grazie a Adho che, spero, non mi odierà per la mia interpretazione del nostro amato Capitano dal sorriso di perla. 



 

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Capitolo 2
*** Atto secondo. In scena ***


Atto secondo.

In scena



 

Roger Davies si infilò nell’aula ormai sovraffollata, cercando di non farsi notare dal professor Vitious e passando in rassegna i suoi compagni in cerca del volto del suo amico Stephen, che sperava gli avesse tenuto un posto.

Mentre passava davanti a un gruppetto di ragazzine del quarto anno,si accorse di essere seguito da occhi sgranati e risatine nervose. Più nervose del solito, quantomeno.

Oh, insomma, Roger detestava la falsa modestia: di specchi ne aveva, sia a casa che nel dormitorio, e di certo non erano di legno. Il proprio riflesso l’aveva contemplato spesso e, a onor del vero, non ci aveva mai trovato nulla da ridire. Né ci aveva mai trovato qualcosa da ridire la popolazione femminile di Hogwarts, con sua grande soddisfazione. E, insomma, Roger Davies, che sui libri di scuola non aveva mai perso troppo tempo, era pur sempre un Corvonero fatto e finito, e aveva imparato presto che non si possono affinare qualità che non si posseggono: è molto più saggio impiegare il proprio tempo cercando di migliorare ciò che si ha a disposizione, traendone il meglio. E così Roger aveva scelto di puntare sull’innegabilmente affascinante connubio del suo carattere schietto e solare e del suo aspetto avvenente, consapevole che le relazioni (più o meno) pubbliche sarebbero state il suo cavallo vincente, nella vita.

E così, in capo a pochi anni, la sua reputazione di cavaliere pronto a mettere da parte la galanteria ogniqualvolta se ne presentava l’occasione s’era accresciuta sempre più, rendendolo oggetto di pettegolezzi e femminei sospiri talvolta romantici, talvolta appassionati.

Eppure, una reazione così eclatante al suo passaggio non l’aveva mai ricevuta.

Ignorando il bonario rimbrotto con cui il professor Vitious lo invitò a prendere rapidamente posto – lo scopo di quella riunione di tutti gli studenti appartenenti agli ultimi quattro anni della Casa Corvonero per lui restava ancora un mistero – Roger si fece svogliatamente largo fra ammiccamenti e gomitate, fino a trovare finalmente il posto che Stephen gli aveva riservato.

“Che mi sono perso?” chiese, svogliato, dandosi un giro d’elastico attorno ai lunghi capelli che gli erano sfuggiti dalla crocchia e pensando all’interessante chiacchierata che aveva dovuto interrompere con una graziosa fanciulla dalla chioma fulva e dal nome impronunciabile che sembrava ben decisa a lasciarlo salire a bordo della nave di Durmstrang. Si era perso il suo nome e pure il significato di tutto ciò che aveva detto, dato che la signorina non parlava una parola che fosse una d’inglese, e di certo non comprendeva lo spagnolo, ma del resto la chiacchierata non era stata interessante per il suo contenuto.

“Torneo Tremaghi, tradizioni, a Natale diamo un ballo, tutto molto formale e noioso, e ora ci tocca una lezione di ballo da sala, per allargare i nostri orizzonti o che cazzo ne so...”

Roger si guardò attorno, cercando di ragionare rapidamente.

Un ballo, a Natale. Bene, finalmente da quel Torneo arrivava qualcosa di buono. Roger, che aveva compiuto diciassette anni soltanto il tre di novembre, per settimane aveva tenuto il broncio a quello stupido Calice di Fuoco, perché diventare Campione di Hogwarts sarebbe certo stato un ottimo espediente per guadagnare visibilità anche agli occhi delle fanciulle più defilate. Poi però ci aveva messo una pietra sopra, soprattutto dopo aver compreso quale rischio avrebbe potuto correre (figuriamoci, un volto sfigurato da una terribile ustione da drago, che tragedia!). Ora, un ballo era sicuramente un diversivo da accogliere con gioia, in quel castello dove non sembrava succedere mai niente di interessante. E questo spiegava anche le risatine eccitate delle ragazze, dal momento che un ballo richiede delle coppie, e delle coppie prevedono che Roger Davies scelga una fortunata tra tante... ma chi scegliere, questo era il vero dilemma! Era una mossa che Roger avrebbe dovuto ponderare bene, perché, sebbene non temesse alcun rifiuto, sapeva anche che ogni cosa, nel fragile mondo del pettegolezzo e delle relazioni più o meno trasparenti, aveva un gran peso, un significato simbolico, un messaggio nascosto... Forse sarebbe stato bene non invitare proprio nessuna: godeva di abbastanza popolarità da non essere deriso, se si fosse presentato da solo al ballo, e allora avrebbe potuto danzare con tutte le dame non accompagnate (o quelle accompagnate e lasciate momentaneamente sole da un cavaliere dalla vescica debole) senza rischiare di infrangere il cuore di una ragazza che avrebbe potuto vedere nel suo invito qualcosa di più.

“Fai almeno finta di essere attento!” gli sibilò Stephen, e Roger si riscosse.

Si mise a fissare il professor Vitious, e solo allora comprese le parole del professore: l’ometto stava infatti parlando davvero di una lezione di ballo. Una lezione che li avrebbe tenuti impegnati nel resto del pomeriggio, per tutte le Madragole!

Questo non ci voleva.

Questo, decisamente, non ci voleva.

Roger aveva sperato di incontrare di nuovo la sua fiamma balcanica dai capelli rossi prima del tramonto, prima che le ombre gli rendessero impossibile distinguere una ragazza di Durmstrang dall’altra. E invece no, doveva restarsene rinchiuso in una stanza a farsi insegnare cose inutili dal suo professore di Incantesimi.

Oh, non che Roger disprezzasse l’arte del ballo, tutt’altro: le sue vacanze nella terra natìa di sua madre, l’Uruguay, l’avevano visto trascorrere intere notti dapprima a osservare, e poi a imitare i frequentatori delle migliori milonghe. Candombe, habanera, tango, milonga: niente aveva segreti, per lui. E non avrebbe certo perso un proficuo pomeriggio a imparare cose che già sapeva, per la sottogonna di Priscilla!

“Dammi mezz’ora, e io me la filo”, borbottò deciso a Stephen il quale, per tutta risposta, gli rifilò un sospiro rassegnato.

Intanto, il professor Vitious si era alzato in piedi – Roger ci mise un po’ a comprenderlo – e, con voce piena di entusiasmo, stava esclamando:

“Dunque, sono lieto di annunciare che ad assistermi nell’ingrato compito di insegnare a voi giovani un po’ di disciplina e passione per la nobile arte della danza, ci sarà una mia ex allieva, vostra compagna di Casa, che forse qualcuno degli studenti più anziani ricorderà dai suoi primi giorni a Hogwarts... vi presento Alhena Macnair!”

Da un posto in angolo della prima fila si levò una figuretta sottile, che raggiunse il professor Vitious e rivolse un sorriso incerto agli studenti che la fissavano, tra l’annoiato e lo sconcertato.

Roger la fissò a lungo: lui aveva ottenuto i suoi G.U.F.O. l’anno precedente, dunque poteva a buon diritto considerarsi uno studente anziano – maturo era un termine che avrebbe di gran lunga preferito, ma tant’‘era –, eppure quella figura non se la ricordava proprio. Strano, molto strano: si trattava di una ragazza giovane, il corpo sottile stretto in un paio di morbidi pantaloni scuri che evidenziavano due gambe sorprendentemente lunghe, per una ragazza così piccina, e un dolcevita nero, che faceva risaltare ancor di più il suo viso candido. Era molto graziosa: non una bellezza di quelle che colpiscono al primo sguardo, con il suo mento puntuto e le labbra sottili, ma aveva un bel portamento e, nell’insieme, la sua figura era piuttosto gradevole. Strano che Roger non la ricordasse, proprio strano. Forse la poverina faceva parte di quello sfortunato numero di anatroccoli che, ai tempi della scuola, ancora non hanno scoperto come valorizzare il cigno che è in loro.

“Alhena ora è ambasciatrice della nobile arte del balletto classico, ma ha un’ottima padronanza anche del ballo da sala, e ha molto gentilmente acconsentito a diffondere il suo sapere fra questa nuova generazione di Corvonero. Bene, lascio a lei la parola, nella speranza che voi vi comportiate come Priscilla vorrebbe...”

La ragazza lanciò al professore uno strano sguardo, a metà fra l’accusa e la richiesta d’aiuto, e fece qualche passo verso la prima fila di banchi.

“Ehm, ecco, sì, ciao a tutti”.

Uno svogliato coro di buongiorno accolse le sue parole, al che lei arrossì appena, affrettandosi ad aggiungere:

“Se qualcuno si azzarda a darmi de lei, lo faccio arrivare a Natale pelato, sia chiaro”.

Questo ottenne qualche risatina.

“Bene, se voleste essere così gentili da alzarvi in piedi, così da poter iniziare la nostra lezione...”

Questa richiesta venne accolta con borbottii e proteste. Se l’idea di un ballo aveva eccitato gli studenti, l’idea di dover effettivamente ballare sembrava aver messo un freno anche ai più esuberanti.

Roger, che alla vista della signorina Macnair aveva cominciato a pensare che, sotto sotto, quel pomeriggio poteva anche non rivelarsi una completa perdita di tempo, si alzò. Stephen, al suo fianco, rimase ostinatamente seduto, il volto in fiamme e le braccia conserte.

“Io non ballo”, mugugnò, quasi spaventato.

“Davvero, è meglio che vi alziate, perché danzare fra i banchi è piuttosto complesso”, ripeté la ragazza e qualcosa, nella luce minacciosa che le accendeva lo sguardo, convinse Roger a sollevare quasi di peso Stephen.

“Non far lo scemo, amigo, è solo questione di far due salti...”

Stephen si alzò appena in tempo: Alhena Macnair, agitando la bacchetta, fece scomparire con un solo gesto banchi e sedie, e l’aula si riempì presto di strepiti e lamenti provenienti dai numerosi studenti che si erano improvvisamente trovati lunghi e distesi per terra.

“Ma questa tizia è pazza!”, borbottò Edgar Hagen, massaggiandosi il voluminoso fondoschiena.

“Questa tizia me encanta!”, ribatté invece Roger, che cominciava ad essere stanco di timide fanciulle che cadevano ai suoi piedi, e vedeva una interessante novità in una donna che, invece, sembrava non aver problemi a mandare decine di ragazzi ad abbracciare il pavimento.

“Bene, dopo aver diligentemente seguito la mia semplice istruzione, sono certa che sarete anche in grado di dividervi in due file parallele: signori a destra, signorine a sinistra. Con la bocca chiusa, per cortesia!”

Questa volta, i giovani Corvonero non esitarono neppure un istante a fare quanto era stato loro chiesto.






 

Alhena percorreva il corridoio di pietra con passo sicuro: il dedalo composto da scale infide, scorciatoie, arazzi che nascondevano passaggi segreti e armature che si divertivano a dare falsi indizi ai passanti si snodava ai suoi piedi, ma lei lo attraversava con una certezza che non avrebbe mai creduto di possedere ancora. Eppure, varcare il cancello di ferro battuto alla base del parco di Hogwarts e tornare a sentirsi una ragazzina che, tra quelle antiche mura di pietra, aveva per la prima volta trovato riparo e affetti, era stata quasi la stessa cosa.

Sembrava passata una vita intera, oppure un solo battito di ciglia.

 

Quando si era diplomata, Alhena era una ragazzina che riusciva a vedere solo la rabbia che si portava dentro ogni giorno. Rabbia per una famiglia allucinante, e per quella società che si era crogiolata nella sua pace chiudendo ostinatamente gli occhi davanti alle roche grida d’aiuto delle famiglie di chi era stato scagionato dal ruolo di Mangiamorte. Era arrabbiata con un mondo che non aveva saputo proteggere lei e i suoi fratelli quando ne avevano bisogno, quando erano solo dei bambini, e non aveva fatto niente nemmeno dopo.

Quando si era chiusa le porte dell’Espresso per Hogwarts alle spalle per l’ultima volta, aveva giurato che in quel mondo lì non ci sarebbe tornata più. Si era voltata senza guardarsi indietro, e si era gettata in quanto di più lontano ci fosse dalla sua famiglia: il mondo dei babbani, in cui aveva imparato ad essere, se non felice, almeno serena.

Almeno fino a quando non cominciava a volere troppo bene a qualcuno, ed era colta dal terrore che il suo silenzio e la sua reticenza su un passato di cui mai avrebbe voluto parlare si sarebbero trasformati in un ostacolo troppo grosso per qualunque tipo di relazione.

Serena, almeno fino a quando un ragazzo ferito non faceva uso di piccole meschinità per sfogare la propria frustrazione, e lei tornava ad essere quella ragazzina incontenibile che conosceva solamente la sua rabbia

Serena, fino a quando non le capitava di pensare al mondo che si era lasciata alle spalle, a quello a cui rinunciava, a tutte le lettere dei compagni di scuola a cui aveva smesso di rispondere, e che, dopo un po’, non erano più arrivate...

Serena, fino a quando non si guardava allo specchio e non si rendeva conto che, a ventuno anni, era completamente sola.

 

Uscire dalla porta sul retro di un teatro di provincia e trovarsi di fronte il Direttore della propria Casa di Hogwarts, a distanza di così tanto tempo e senza il minimo preavviso, l’aveva completamente paralizzata. Aveva seguito il professor Vitious senza nemmeno riuscire a riflettere, senza capire che cosa stesse succedendo e, soprattutto, senza riuscire a ragionare lucidamente.

Si era ritrovata a raccontare al suo vecchio professore della sua vita, del suo nuovo lavoro, del piccolo appartamento che condivideva con una studentessa di medicina babbana e una musicista di origini greche. Vitious l’aveva ascoltata, intervenendo soltanto ogni tanto con commenti divertiti e sagaci, e Alhena era stata felice: aveva sempre provato molta simpatia per il suo Direttore, che aveva sempre cercato di chiudere un occhio davanti al suo non essere propriamente una studentessa modello.

Quando però lui aveva cominciato a parlare di sciocchezze, del Torneo Tremaghi e del Ballo del Ceppo, proponendole di tornare a Hogwarts per impartire almeno una lezione di ballo ai giovani Corvonero, lei era ricascata nel suo solito meccanismo di difesa: se qualcosa ti spaventa, non aspettare di farti male, scappa. E solo dopo essere scappata aveva riflettuto. Aveva riflettuto a lungo. E aveva cominciato a ripensare spesso a Hogwarts, che forse non era stata capace di proteggerla dalla sua rabbia e dal suo dolore, ma di certo era stata la sua prima vera casa. Aveva avuto qualche amico, lì, e aveva imparato che degli adulti ci si può anche fidare. E aveva capito che il professor Vitious aveva ragione: lei era fuggita da quel mondo perché il caso aveva messo sulla sua strada una possibilità che, forse, qualcuno avrebbe ritenuto impossibile, per una Macnair. La danza era stata la sua ancora di salvezza: in un modo assurdo e che ancora non aveva del tutto compreso, ma lo era stata. Quando era una bambina, qualcuno aveva gettato quel seme, non sapendo che avrebbe trovato terreno fertile e le avrebbe permesso di scappare da una vita che mai l’avrebbe resa felice. Forse era davvero importante che lei mostrasse ad altri ragazzi che quei semi esistevano, e andavano coltivati e protetti a ogni costo.

 

Chissà come, spaventata e tremante era tornata a Hogwarts, e aveva insegnato a un branco di ragazzini sgraziati almeno i rudimenti del ballo da sala. E poi ci era tornata un’altra volta, e un’altra ancora, perché, al colmo del suo stupore, qualcuno aveva chiesto al professor Vitious di averne di più: il mercoledì e il sabato pomeriggio un’aula dismessa al quarto piano era stata messa a disposizione di Alhena e di uno scalcinato e ristretto gruppo di studenti ansiosi di apprendere più dei rudimenti del ballo da sala. Con grande stupore di tutti, le ragazze erano solamente tre: Cho Chang, una graziosa signorina che, tra un sorriso radioso e l’altro, aveva confessato che avrebbe aperto le danze al fianco del Campione di Hogwarts, e insieme a lei la sua amica Marietta, che invece sembrava presenziare alle lezioni soltanto perché obbligata. C’era anche Luna Lovegood, una strana ragazza che il più delle volte se ne stava seduta a guardare gli altri, salvo poi alzarsi e ballare a modo suo quando la musica terminava. Era giovane, troppo giovane per partecipare al Ballo del Ceppo, ma sembrava che non le importasse.

I ragazzi, invece, erano un po’ più numerosi – e molto suscettibili, al punto che, il primo giorno, un armadio del settimo anno le aveva puntato in fronte la bacchetta, al grido di Prima regola delle Lezioni di Ballo: non parlare delle Lezioni di Ballo, mentre un ragazzetto del quarto anno tutto brufoli e movimenti goffi aveva aggiunto, serio: Quel che succede in quest’aula, rimane in quest’aula. La maggior parte di loro erano casi disperati, ragazzi che vivevano lontani dalla luce dei riflettori della popolarità, ragazzi difficili, ragazzi tanto timidi che Alhena credeva di non aver mai sentito la loro voce. Erano goffi e imbranati, ma lavoravano sodo, decisi a non sprecare questa insperata possibilità.

E poi, come un alieno capitato per caso sul pianeta sbagliato, c’era Roger Davies.

Roger Davies, Capitano della squadra di Quidditch, col sorriso svelto e i movimenti sicuri e aggraziati di un felino.

Roger Davies, che si lamentava in continuazione di quanto il valzer fosse freddo, rigido e troppo impostato, ma non sbagliava mai un passo.

Roger Davies, impertinente e sicuro di sé come nessuno dovrebbe essere, a diciassette anni, ma anche divertente, brillante, e, sì, per tutti i Centauri, completamente immune da qualsivoglia tipica imperfezione dell’adolescenza.

Roger sembrava incapace di rivolgersi a una persona di sesso femminile senza mettere in scena una buffa pantomima da corteggiatore seriale. Ottenendo, a giudicare dai sospiri di Marietta e dalle risatine di Cho, un discreto successo. Roger sapeva essere una compagnia estremamente piacevole: non solo per il suo innegabile bell’aspetto, di cui lui si serviva con una faccia tosta impossibile, ma perché sembrava che sotto la sua pelle abbronzata ardessero tutta la vita e la gioia del mondo. Con Alhena aveva sempre tenuto un atteggiamento un po’ ambivalente: era sfrontato e sfacciato, con le sue battute esplicite e irriverenti, ma ogni sua parola era pronunciata con un’inflessione divertita, come se stesse solo scherzando. La verità era che non scherzava affatto, e non era nemmeno serio: lanciava anche lui dei semi, e poi si voltava senza curarsi di vedere dove sarebbero caduti.

Alhena lo redarguiva, lo rimbeccava ogni volta che la sua sfacciataggine si rivelava fin troppo irriverente, ma sotto sotto non riusciva a prendersela davvero: quella faccia di bronzo la divertiva davvero, e, nonostante tutto, lo trovava simpatico. E lui lo sapeva, lui lo sapeva, quel mascalzone, e se ne approfittava senza il minimo pudore.

 

Fu dunque con molto stupore che Alhena varcò la porta dell’aula che aveva a disposizione e si ritrovò davanti un’immagine che mai avrebbe pensato di vedere: Roger Davies era seduto in un angolo, pallido e spaventato, la schiena adagiata con poca grazia contro il muro di pietra e gli occhi sgranati e ciechi: davanti a lui, Marietta e Cho confabulavano, lanciandogli lunghe occhiate che lui sembrava non vedere nemmeno.

“Roger! Cosa è successo? Ti sei fatto male?”

Il ragazzo si limitò a scuotere lentamente la testa, sormontata ora da una crocchia disordinata. Non quel disordine artefatto, curato nel minimo dettaglio, che serviva a dargli un aspetto ancor più affascinante, no: un disordine che parlava di notti insonni e spazzole dimenticate.

“È da ieri sera che fa così”, spiegò Cho, preoccupata.

Alhena si inginocchiò di fronte al ragazzo, nervosa: ecco per quale motivo non voleva accettare quella proposta del professor Vitious; lei non riusciva a badare nemmeno a sé stessa, figuriamoci avere la responsabilità di un gruppo di ragazzini! E se Roger si fosse sentito male? Se si fosse trattato di qualcosa di grave? Doveva forse portarlo in Infermeria? Chiamare qualcuno? Non voleva quella responsabilità, lei!

“Vuoi andare da Madama Chips?”

Il ragazzo scosse di nuovo la testa, e mormorò, con voce lugubre:

“Sto bene, non devo andare in Infermeria”.

Le sue labbra piene erano secche e spaccate.

“Non stai bene, non direi proprio: non ti riconosco, non sembri neanche Roger...”

“Chiamami Ramón, allora”, bofonchiò lui, senza nemmeno guardarla.

“È il suo secondo nome”, spiegò Luna distrattamente, causando una piccola esplosione di Marietta, che proprio non si spiegava che diamine ne sapesse quella poppante del secondo nome di Davies.

“Ok, Ramón, ti chiamo come ti pare, ma tu adesso ti alzi di qui e vai a farti dare un’occhiata, perché non ho voglia che i tuoi genitori mi facciano lo scalpo perché sei stato male quando eri sotto la mia responsabilità, va bene?”

Ringraziando lo sguardo gentile di Priscilla, Roger annuì, e afferrò la mano che Alhena gli tendeva per aiutarlo ad alzarsi.

Quando furono entrambi in piedi, però, il ragazzo le posò con aria solenne le mani sulle spalle, e dichiarò:

“Tu mi devi aiutare, Alhena”.

C’era un che di febbricitante e folle nel suo sguardo solitamente malizioso.

“Certo che ti aiuto, ma ora andiamo in Infermeria, vuoi?”

“No!”

Alhena, che arrivava appena alle spalle di Roger, non ebbe scelta: lui la teneva ferma, e l’unico modo in cui avrebbe potuto liberarsi era uno Schiantesimo, ma non le andava di Schiantare un ragazzo che chiaramente non stava bene, non se avesse potuto evitarlo, almeno.

“No, niente Infermeria... ma mi devi aiutare!”

Alhena fece un respiro profondo, e con molta delicatezza, come se avesse a che fare con un cane pericoloso, riuscì a condurre il ragazzo alla cattedra in fondo alla stanza, unico complemento d’arredo superstite di quell’aula. Lo fece sedere, e ripeté, con lo stesso tono tranquillo che immaginava si dovesse usare con un bambino spaventato:

“Mi vuoi dire che cosa è successo?”

“Io...” il ragazzo abbassò il capo, le gote arrossate di vergogna, e poi sussurrò, mogio:

“Una ragazza mi ha invitato al ballo".

Alhena cercò di non scoppiare a ridere: d’accordo, uno come Davies avrebbe potuto vedere in cotanto esempio di emancipazione femminile un vile attacco alla sua mascolinità, ma non le sembrava il caso di farne una tragedia tanto grande.

“E io ho detto di sì!”, rimarcò lui, come se questo chiarisse l’entità della tragedia appena consumatasi.

Cercando di ignorare il putiferio alle sue spalle – tutti, uomini e donne, impegnati o meno, volevano capire chi fosse la fortunata – Alhena si avvicinò ancora di più a Roger, sperando di risolvere il fretta la questione per potersi dedicare finalmente alla danza.

“Non è una cosa tanto brutta, sai? È una cosa buona che le ragazze non debbano più sottostare a stupide regole di cavalleria, è una cosa buona per ragazzi e ragazze, perché...”

Roger la guardò, confuso. Confuso, ma un po’ più in sé, le parve.

“Ma non è questo il punto!”, si affettò a spiegare lui, mordicchiandosi l’anellino d’argento che gli forava il labbro inferiore.

“Io adoro l’emancipazione femminile, dico davvero, però... però io avevo deciso di non portare nessuno al ballo, e invece... e invece non ho saputo dirle di no! Io non so cosa mi sta succedendo, ma lei... è diversa dalle altre! Quando la vedo, non riesco a ragionare... sono anche arrossito! Io! E ho... ho balbettato, rispondendole! Che cosa mi succede?”

Alhena, questa volta, non riuscì a trattenerla, quella risata: dando una pacca amichevole alla spalla di Roger, gli disse solo:

“Oh, ma Ramón, tu stai benissimo! Ti sei solo innamorato!”

Al che, Roger parve tornare del tutto in sé. Balzò giù dalla cattedra, si sistemò i capelli, e scandì, indignato:

“Non mi sono affatto innamorato! L’amore è diverso, dovrebbe... sì, dovrebbe farti sentire elettrico, e sapere di buono, come un campo fiorito in Provenza! E no, con lei mi sento solo come quando hai preso un Bolide in testa... assente! Questa mi tiene per le Pluffe, Alhena!”

Alhena imprecò tra i denti, indecisa se scoppiare a ridere o mettersi a piangere: nessuno le aveva spiegato come affrontare le fregole di un adolescente sovreccitato, per Circe!

Alla fine, Marietta non si trattenne più: scostando bruscamente Alhena, quasi gridò:

“Sì, ma lei chi è?”

Con tono drammatico da attore consumato, Roger tornò lasciarsi cadere sulla cattedra, esalando uno sconsolato:

“Fleur Delacour!”

 

*

 

Le finestre dell’aula erano ormai sottili rettangoli neri appena appannati dalla condensa. La stanza ondeggiava al ritmo sinuoso dello smuoversi lieve delle fiamme delle candele, rendendo ormai difficile ai ballerini provati concentrarsi e non perdere il tempo.

Non era stata la miglior lezione in cui Alhena potesse sperare: Luna Lovegood si era lamentata che quella polca irlandese fosse altamente pericolosa, perché capace di alterare lo scorrere del sangue attorno ai suoi centri vitali, e Marietta si era rifiutata di ballare assieme a Clive Fielding, dopo che lui le aveva schiacciato per la quarta volta i piedi.

Roger aveva impiegato diverso tempo a riprendersi: per buona metà della lezione se n’era rimasto in disparte, senza protestare come faceva suo solito quando, per mera sproporzione numerica, veniva il suo turno di fare soltanto finta di danzare con una dama, e dalle sue labbra non uscì nemmeno una battuta educata. Sembrò tornare un po’ in sé stesso soltanto dopo aver danzato una mediocre giga assieme ad Alhena, durante la quale non prestò affatto attenzione ai passi, ma si limitò a fissare con aria pensosa – l’aria di chi sta macchinando qualcosa, sospettava Alhena, che forse era soltanto prevenuta perché, quando aveva l’età di Roger, aveva trascorso diverse lezioni macchinando cose – il volto della sua improvvisata insegnante.

L’umore generale, comunque, era piuttosto basso quando Alhena sollevò il disco dal piatto del grammofono e diede appuntamento a tutti per la settimana successiva.

 

Alhena abbracciò con lo sguardo la stanza ormai immersa nella penombra, e si ritrovò a fissare la figura mollemente adagiata sulla cattedra di Roger.

“Fila in Sala Grande, o farai tardi per cena”.

Alhena non era per nulla credibile in quel ruolo: lei, che era stata un disastro di studentessa, sempre in ritardo o intenta a combinare qualcosa che non avrebbe dovuto combinare, non aveva la minima autorità di spingere qualcuno a rispettare gli orari. La sua poca convinzione dovette trasparire dal suo tono di voce, perché Roger si limitò a fare un vago cenno con la mano, sistemandosi ancora più comodo su quella cattedra e fissandola con uno sguardo che, Alhena intuì, non avrebbe dovuto assolutamente fare capolino sul viso di uno studente che guardasse un’insegnante. Non che Alhena si considerasse anche solo per sbaglio un’insegnante, ma comunque...

“Mi hai aiutata davvero, sai, Alhena"?"

Alhena si rese conto che la familiarità con cui Roger aveva pronunciato il suo nome non aveva nulla a che fare con il rapporto di fiducia che lei aveva cercato di instaurare con i suoi allievi.

“A distrarmi dall’effetto che mi fa Fleur, dico...”

Alhena incrociò con decisione le braccia al petto, osservando di rimando Roger con aria severa: forse aveva sbagliato nel mostrarsi sempre così amichevole. Di certo aveva sbagliato nel lasciar trasparire il suo divertimento davanti alle sue battute e insinuazioni, e ora era troppo tardi per fingere un distacco che non c’era. Anche perché una vocina, in fondo alla sua mente – la voce infida e tentatrice che da ragazzina l’aveva spinta a compiere le sciocchezze più grandi – non poteva fare a meno di sussurrare che, a ben voler guardare le cose, quello sguardo lì non le dispiaceva proprio del tutto.

“Roger”, iniziò lei, seria, senza sapere bene dove volesse andare a parare. Probabilmente solo in un luogo molto lontano da quella subdola vocina, e molto più vicina al razionale imperativo morale che gridava e strepitava a gran voce qualcosa che assomigliava molto a comportati da adulta, una volta ogni tanto, e pensa a qualcuno che un diploma se lo sia già preso, razza di incosciente depravata!

Ma lui la interruppe, balzando giù dalla cattedra con un salto agile ed esclamando, con tutta la naturalezza del mondo, quasi avesse avvertito l’irrigidirsi di Alhena e volesse confonderla e distrarla parlando d’altro:

“Senti un po’, reina de la nieve, mi togli una curiosità? Come ci è finita la figlia di un boia purosangue a fare la ballerina fra i babbani?”

Alhena ebbe un leggero sussulto, ma nascose il suo turbamento dietro la gratitudine per Roger, che si era limitato a parlare di boia, ignorando il Mangiamorte. Del resto, Roger era un figlio della pace, troppo giovane per ricordare della guerra più di quanto poteva aver studiato a scuola, e forse per lui davvero il nome dei Macnair non era sporco.

“È una storia troppo lunga per uno studente che deve rispettare il coprifuoco”, mormorò lei, senza distogliere lo sguardo dal sorriso sornione che illuminò il viso di Roger, facendogli riapparire finalmente quella luce impertinente sul viso.

“Ma sono in compagnia di un’insegnante, Professoressa Macnair, quindi al coprifuoco posso anche non badarci!”

Alhena, più scioccata dal sentirsi chiamare Professoressa Macnair che altro, gli diede un pugno scherzoso – ma nemmeno troppo – su una spalla, sibilando:

“Non ti azzardare, Ramón! Ho impiegato sette anni a trovare il modo migliore per fare ammattire i professori, non posso passare così in fretta dalla parte del nemico!”

Roger rise, con la sua risata calda e sincera.

“E allora dimmi un po’, se ho fatto bene i miei conti io e te dovremmo aver condiviso la Sala Comune addirittura per un anno: com’è che non mi ricordo di te?”

Alhena si strinse nelle spalle, sforzandosi di ricordare gli studenti più giovani a cui l’Alhena diciottenne non aveva mai prestato nemmeno un po’ di attenzione: no, non se lo ricordava proprio, un ragazzino dal sangue latino. E del resto, a diciotto anni non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe stata lieta di guardare il tempo scivolarle fra le dita mentre chiacchierava di sciocchezze con uno di quei mocciosi che tanto aveva trovato irritanti.

Perché, inutile negarlo, ma il fiume di parole che la stava portando a raccontare con naturalezza e solo poche, oculate omissioni di come un giorno aveva deciso di non tornare a casa, ma di trasferirsi nella casa di due ballerini di origine babbana, poteva significare soltanto che il calore di Roger era riuscito a sciogliere il suo riserbo di ghiaccio.

“Oh, ma per tutti i moccoli di candela, ma è tardissimo! Devo scappare, ho una prova tra mezz’ora...”

Perché, magia o meno, per attraversare il parco di Hogwarts serviva tempo, e non si sarebbe certo potuta Materializzare in un camerino pieno di babbani senza creare dello spiacevole scompiglio.

Roger, però, si limitò a sorridere mostrando la sua dentatura candida e perfetta, e a porgerle con fare galante un braccio:

“Allora, señorita, facciamo due passi assieme, già che dobbiamo andare nella stessa direzione...”

Fu soltanto questione di un attimo: la voce razionale che strepitava improperi nella sua testa si era distratta, forse troppo impegnata ad ascoltare l’inflessione esotica nella voce di Roger, e prima che Alhena avesse il tempo di riflettere si ritrovò ad accettarlo, quel braccio teso, e a lasciarsi condurre lungo i corridoi della sua vecchia scuola.


 


Note:

 

Lo so, avevo detto che avrei concluso la storia in due capitoli, ma rileggendo il tutto mi sono resa conto che la seconda parte sarebbe stata davvero troppo più lunga della prima, e così ho inserito qualche dettaglio in più sul passato di Alhena e deciso di dividere la storia in tre parti.

Perdonatemi.

Dunque, dunque: chi di voi conosce il Roger caratterizzato da AdhoMu saprà che la sua reazione all’invito di Fleur potrebbe risultare un po’ incoerente (Adho, ti prego, perdonami se ho tradito lo spirito di Roger), ma ho cercato di coniugare questo rubacuori irresistibile con il ragazzo imbambolato e completamente perso che durante il Ballo del Ceppo pende dalle labbra di Fleur: del resto, lei non è una signorina come le altre, e “gioca sporco”, mettendo in campo caratteristiche non umane che il povero Roger, nella sua collaudata esperienza, non può aver incontrato, dunque si trova completamente spiazzato. Nel prossimo capitolo ci tornerò comunque un po’ su, e da questo punto di vista prometto una rivalsa.

Detto ciò, io ringrazio ancora infinitamente Adho per la sua gentilezza e generosità nell’avermi permesso di strapazzare così il suo Capitano dal sorriso di perla.

E ringrazio ovviamente voi che vi siete buttati in questa storia pazza sulla scia della mia Alhena, che qui ancora non riesce a essere del tutto l’adulta che sarà ma che, spero, non risulti comunque troppo inquietante nel suo rapporto con Roger, che in fondo maggiorenne lo è solo per il mondo dei maghi (ho un po’ di brividi, ma spero di non fare passi falsi). 

                       

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Capitolo 3
*** Atto terzo. Sipario ***


 
Atto terzo.
Sipario
 



Quando Alhena varcò la soglia di quella che ormai aveva cominciato a considerare la sua aula per affrontare l’ultima lezione prima del Ballo del Ceppo, venne accolta da sussurri preoccupati e tenui, neanche si stesse avvicinando al capezzale di un moribondo.
I suoi studenti – tutti tranne Luna, che la settimana precedente aveva mandato a dire che i Nargilli, all’avvicinarsi delle festività, si facevano particolarmente inquieti, dunque certamente Alhena avrebbe compreso le sue motivazioni nel lasciare le lezioni di ballo – erano raccolti in un semicerchio di bisbigli attorno a Roger Davies. Quest’ultimo faceva vagare il suo sguardo perso da un viso all’altro, disperato, in cerca di un appiglio qualsiasi.
Questo non andava per niente bene.
Roger non si era mai ripreso del tutto, non dopo essere stato invitato al ballo dalla signorina Delacour: fingeva che tutto andasse bene, ma era distratto, perdeva spesso il tempo e aveva smesso di lamentarsi di quanto poco spazio ci fosse per l’interpretazione in una serie di un-due-tre codificati. Le sue battute si erano fatte meno brillanti, come se lui stesse ripetendo soltanto un copione che aveva portato in scena molte volte senza però crederci per davvero. E ad Alhena si stringeva il cuore, perché quel ragazzo era diventato l’ombra di sé stesso, e questo a diciassette anni non andava bene.
“Che succede, qui?”
Ci fu un lungo silenzio, interrotto solo dal disperato mugugno di Roger:
“Fleur, ecco che succede!”
I ragazzi si lanciarono una lunga occhiata complice, e alla fine fu Benedict Spinney, con voce baritonale, a riecheggiare, tetro:
“Be’, sì, non è stato un bello spettacolo, parola mia che una volta ho cercato di far la corte a Marion Fox durante l’ora di divinazione dicendole che io e lei siamo come una tazza di tè, io l’acqua, lei le foglie...”
“Oh, è stato davvero orribile!” proruppe infine Cho, coprendosi la bocca con una manina tremolante.
“Una brutta storia davvero... insomma, poi proprio Davies... cioè, se queste cose capitano anche a lui, significa che per noi non ci sono più speranze!”, confermò il piccolo Conrad Judge, tormentandosi un foruncolo nell’incavo della tempia destra.
Roger allora, con l’aria di chi non ha più alcuna speranza, si allontanò dai suoi compagni di Casa, posando la fronte contro il vetro freddo della finestra in fondo all’aula.
Alhena gli si avvicinò, sospirando piano, esasperata: quando lei e Vitious avevano discusso dei suoi compiti, non si era fatto cenno alla possibilità di doversi improvvisare coach motivazionale di un ragazzetto alle prese con la sua prima delusione amorosa. E non era suo compito, infatti. Ma Vitious aveva lasciato intendere che quell’incarico avrebbe potuto essere qualcosa di più... per Alhena, e per i ragazzi. Certo, lui pensava a qualcosa di più importante, come mostrare che anche una persona nata in una famiglia Purosangue e conservatrice poteva prendere in mano la propria vita e cambiarne le regole, ma i ragazzi con cui si era trovata a lavorare non erano quelli che avrebbero avuto bisogno di sentirsi dire quelle cose. I ragazzi con cui lavorava erano incerti e preoccupati da un’occasione mondana che avrebbe potuto coprirli di imbarazzo, e Alhena, che di certo non si riteneva all’altezza del compito, doveva comunque cercare di fare quel che poteva.
“Ascolta, Roger, soffrire è normale, non voglio dire che non sia così, però davvero, tra qualche anno ti accorgerai che essere scaricati non è poi...”
“Io non sono stato scaricato!”, ribatté indignato Roger, riguadagnando una briciola del suo carattere abituale.
“Io non sono affatto stato scaricato”, ripeté, scuotendo la testa, quasi fosse deluso che Alhena potesse anche solo aver pensato a qualcosa del genere.
“Ok, allora mi sfugge qualcosa, ma forse è meglio continuare la lezione...”
Alhena era riuscita a mettere le mani sul programma del Ballo, e sapeva con quale aria si sarebbero aperte le danze: aveva intenzione di lavorare un po’ di più con Cho, e di lasciarle qualche appunto da mostrare al suo cavaliere, così da poter gestire al meglio la situazione.
“Ha solo fatto una figura di merda davanti alla sua bella, e credo sia la prima volta che gli capita, quindi è fuori di testa... benvenuto nel club, Davies!”
Le parole di Spinney sembrarono colpire Roger nel vivo, perché quest’ultimo si voltò a fissare Alhena con quello sguardo febbrile che tanto la spaventava:
“Tu non puoi capire, lei... lei non è come le altre. Se ti si avvicina all’improvviso, e non sei preparato, tu non puoi... sì, insomma, non puoi ragionare, se il tuo sangue è tutto sotto la cintura”.
Alhena dovette soffocare la sua indignazione con un colpo di tosse, ma, fortunatamente, gli assensi decisi degli altri ragazzi distrassero per un attimo Davies.
“Prima, a pranzo, mi si è avvicinata in silenzio, e io non me ne ero accorto, e quando mi ha chiamato, non so come sia possibile, ma mi sono ritrovato col succo di zucca nel naso!”
L’indignazione di Roger e la sua incredulità erano quasi tenere. Checché ne dicesse, ad Alhena pareva che il ragazzo si fosse preso una cotta con i fiocchi. E, nonostante tutta la sua millantata esperienza di conquistatore seriale, sembrava anche decisamente poco avvezzo alla situazione.
“E quel che è peggio... ho cercato di parlarle in francese! Io! Io le ho parlato in francese!”
Alhena scoppiò a ridere.
“Oh, ma vedrai che non le importa, se hai fatto qualche errore! Anzi, trovo che tu abbia fatto un gesto molto carino, sai?”
Roger però la guardava scuotendo la testa, esasperato.
“Ma che m’importa degli errori! Io non parlo il francese. Io, se voglio conquistare una ragazza, uso lo spagnolo. Sempre! È una questione di principio, di sangue, di identità... è quello che sono! E invece con lei... con lei mi sono sentito come se quello che sono non fosse abbastanza. Come se dovessi cambiare la mia natura, per poter piacere a lei, e... non va bene, no?”
Alhena chinò la testa di lato, aggrottando la fronte. Forse, dietro quel bel faccino e quegli sguardi languidi, c’era davvero un cervello degno di Priscilla.
“No, non va bene cambiare per piacere agli altri, nemmeno per piacere a una ragazza speciale, ma Roger... hai solo scelto di salutarla nella sua lingua, non hai...”
“Non l’ho scelto”, ribatté lui piccato, incrociando le braccia al petto.
“Non l’ho affatto scelto, ed è questo il punto! Lei è troppo bella, e non mi lascia possibilità di scelta, e forse dovrei darmi malato, perché non so più chi sono!”
Alhena cominciava a sentire le tempie pulsare. Lei era una ballerina, non una psicologa.
Lei le cose le risolveva ballando... e forse avrebbe potuto risolvere pure queste, ballando.
Mentre un piano le si delineava in testa, si affrettò a posare un disco sul piatto del grammofono, intimando ai ragazzi di mettersi in fila.

“Cho? Roger? Potete restare un secondo, per favore?”
Alhena aveva rassicurato tutti i suoi ragazzi dicendo loro che al Ballo sarebbero stati perfetti. In realtà, il suo occhio ipercritico li trovava goffi, imprecisi, poco fluidi e rigidi come manici di scope, ma rispetto al branco scoordinato che si era trovata davanti il primo giorno, i miglioramenti erano stati innegabili. E poi, era solo un ballo scolastico: un paio di giri di valzer e sarebbe stato il turno delle Sorelle Stravagarie, e al diavolo passi scivolati e schiena diritta.
Diede ai due giovani accompagnatori le ultime indicazioni sul ballo d’apertura, dove Roger si prestò con un po’ meno entusiasmo del solito a impersonare la parte del Campione di Hogwarts, e poi lasciò andare Cho, con una rassicurazione un po’ più sincera: la ragazza era graziosa, e danzava discretamente. Se questo Cedric Diggory non fosse stato un gorilla zoppo, avrebbero fatto entrambi una dignitosissima figura.
“Ramón, dobbiamo risolverlo, questo problema. Tu al Ballo ci devi andare, e ti devi divertire. E devi essere te stesso, quindi ora vedi di riprenderti, perché vorrei che tu mi insegnassi a ballare il tango”.
Roger la guardò, per un attimo stranito.
“Ma non sei tu l’esperta, qui?”
Alhena alzò gli occhi al cielo, armeggiando con il giradischi.
“L’hai mai visto un balletto classico? Io ho studiato con il metodo russo: rigore, disciplina, studio anche del minimo dettaglio... sei tu quello che parlava di calore, di improvvisazione, di interpretazione e di passione, no?”
Roger annuì piano, mentre le note suonate da una chitarra iniziavano a riempire l'aria della stanza.
Forse era una follia, ma Alhena sospettava che Roger avesse bisogno di chiarirsi le idee, e ricordarsi chi fosse, lontano da questa Fleur Delacour.
Alhena allargò le braccia, invitando con un cenno il ragazzo a stringerla a sé e a cominciare a danzare.
I loro primi passi furono impacciati: la loro differenza di altezza era troppa perché il loro movimento fossero sufficientemente fluidi e armoniosi, e Roger era ancora confuso e distratto. Alhena, abituata ad essere perfettamente padrona della situazione, faticava a lasciarsi portare, cercando di manipolare i loro passi pur di essere lei quella al comando.
Poi la musica si fece più intensa, e la mano di Roger, che fino a quel momento era rimasta leggera, appena posata sulla schiena di Alhena, cominciò a premere davvero. Come se volesse arrivarle sotto la pelle, come se volesse spogliarla di ogni difesa.
Confìa en mì, señorita”.
Un bisbiglio roco, fin troppo vicino all’orecchio di Alhena.
Un bisbiglio che, al salire d’intensità della musica, sommerse Alhena, facendole per un attimo dimenticare il castello, gli studenti, il fatto che lei una studentessa non lo fosse più...
Decise di fidarsi.
Di assecondare i movimenti lenti di quel corpo che premeva contro il suo, declinando su percorsi ignoti il lento scivolare dei loro passi vicini, troppo vicini. Di farsi guidare in quell’intrecciarsi di gambe e sfiorarsi di anche, e incastri che avevano il sapore di terre bruciate dal sole, e di labbra salate di sudore e di mani che scivolavano avide ad avvolgere un fianco e poi più giù...
Di colpo, la consapevolezza ritornò.
E con quella, la certezza di aver fatto una grossa, enorme cazzata.
Non c’erano più voci, nella testa di Alhena: né quella sottile e subdola, né quella roboante della sua etica.
C'era soltanto la necessità di tracciare un confine, netto e invalicabile, e soffocare ogni rimostranza.
Cercando di regolarizzare il respiro e di non mettersi a urlare, Alhena riprese il controllo della situazione, sciogliendosi delicatamente dall’abbraccio di Roger – ma quant’erano lunghe, quelle braccia, neanche avesse appena danzato con la piovra gigante! – e, senza guardarlo negli occhi, senza guardare quello stupido anellino d’argento sulle sue labbra, esclamò:
“Ecco, sì, direi... questo, intendevo. Fallo vedere alla tua regina di Francia, e andrà tutto bene”.
Ma era una bugia bella e buona, e lo sapevano entrambi. Non era assolutamente questo che Alhena aveva in mente quando aveva chiesto a Roger di ballare il tango con lei. Lei sperava solo di fargli ritrovare un po’ di fiducia in sé stesso, di riportare a galla le battute sagaci e sfrontate, di ricordargli come potesse essere facile sentirsi padrone della situazione... e invece, non aveva guidato proprio niente. Anzi, aveva perso ogni controllo possibile, e si era ritrovata a tremolare come una fanciulla inconsapevole tra le braccia di un ragazzino... Un ragazzino maggiorenne, cantilenò una vocina suadente nella sua testa. Un ragazzino che andava ancora a scuola, Priscilla saggissima, altro che maggiorenne! Un ragazzino che aveva messo per la prima volta piede a Hogwarts quando lei era già maggiorenne!
Merlino, avrebbero dovuto rinchiuderla.
Avrebbero dovuto rinchiuderla e buttare via la chiave, razza di sciocca e debole allocca che era!
Roger, in tutto questo, non aveva mai smesso di fissarla con uno sguardo che, Merlino ci salvi, non avrebbe mai dovuto comparire sul viso di uno studente.
“Tu non sei affatto una principessa di ghiaccio, vero?”
Di nuovo quel timbro roco, caldissimo.
Ma Alhena era tornata pienamente in sé: spegnendo con un gesto brusco il giradischi, gettò un’occhiata severa a Roger.
“L’ultima volta che qualcuno mi ha chiamato così, poi ha finito per darmi della zoccola, e credo che da allora il suo zigomo non si sia ancora sgonfiato”.
Roger aggrottò la fronte, confuso e sì, anche ferito.
“Ma che cosa... non intendevo mica dire quello, io! Ma per chi mi hai preso?”
Alhena sospirò, chiudendo gli occhi e pregando tutti gli antichi druidi di darle la forza di fuggire da quel castello senza fare altri danni.
“Scusami, Roger, è... sono molto stanca. E tu devi tornare in Sala Comune prima che ti mettano in punizione”.
Il giovane, con un’espressione imbronciata in viso, andò a raccogliere la sua borsa con i libri in fondo all’aula.
E poi tornò vicino ad Alhena, con un improvviso sorriso sfacciato e impertinente.
“Di’ la verità, ti è piaciuto, eh?”
Impertinente e sfacciato, ma con quel suo modo di fare leggero, divertito. Cercando di non arrossire come una quindicenne, Alhena balbettò:
“Ma che cosa?”
“Ballare il tango con un esperto!”
La voglia di rifilargli un coppino era tanta, ma Alhena si trattenne.
“Sei molto bravo, in effetti”.
Roger si illuminò tutto, visibilmente soddisfatto, e poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, le cinse la vita con un braccio.
“Dobbiamo rifarlo, allora”.
“No che non dobbiamo, Roger, e lo sai benissimo”.
Alhena si districò dal suo abbraccio, cercando di infondere alle sue parole tutta la serietà del caso. Erano già stati fin troppo espliciti, e lei non aveva la minima voglia di affrontare una discussione penosa e imbarazzante. Sapeva che Roger aveva compreso, e sperò con tutte le sue forze che non complicasse ancora di più la situazione.
Roger sbuffò, alzando gli occhi al cielo e raddrizzandosi con gesto pigro la cravatta allentata.
“E va bene, va bene, capisco le tue sciocche remore morali e le rispetto. Però”, e di nuovo sul viso gli si allargò quel ghigno sfrontato “quando mi chiami Ramón anche tu hai un non indifferente effetto sull’accumulo del mio sangue sotto il livello della cintura”.
Questa volta, la mano di Alhena proprio non poté resistere, e si abbatté con uno schiocco soddisfacente sulla nuca esposta di Roger.

 
*

Che cosa l’avesse spinta ad accettare di presenziare al Ballo del Ceppo, Alhena non l’avrebbe saputo dire.
Forse perché era Natale, e a Natale era sempre più difficile tenere a bada la solitudine.
O forse era perché Hogwarts, dopo che lei aveva trovato il coraggio di tornare, le scavava nel petto una voragine dal sapore di nostalgia così grande che, qualche volta, Alhena temeva di precipitarvi dentro.
E poi, anche perché la curiosità di vedere il risultato dei suoi sforzi da insegnante le bruciava dentro come un fuoco.
Non aveva presenziato al banchetto, ma si era semplicemente confusa tra la folla di studenti dopo cena, appena in tempo per vedere i Campioni delle tre scuole aprire le danze.
Cho Chang le riempì il cuore d’orgoglio e soddisfazione: la ragazza, raggiante fra le braccia di un giovane belloccio e, fortunatamente, molto lontano dal gorilla zoppo che Alhena aveva temuto, aveva danzato con grazia. Lo stesso non si poteva dire dell’energumeno di Durmstrang, un tale giocatore di Quidditch che dava l’impressione di essere sul punto di inciampare e travolgere la sua dama un passo sì e l’altro pure. Harry Potter, il famoso Harry Potter, così giovane e sperduto accanto ai compagni più grandi, le procurò un dolore quasi fisico: sembrava non avere la più pallida idea di cosa stesse facendo, martoriava quel valzer con lo stesso sadismo con cui suo padre affilava le lame delle sue mannaie, e a poco servivano gli sgraziati sforzi della sua accompagnatrice, che nel tentativo di salvare la situazione se lo trascinava attorno come un sacco di patate troppo pesante per essere sollevato.
Roger, invece, sembrava un fantoccio di sé stesso: si muoveva come ipnotizzato, completamente ignaro di tutto ciò che lo circondava, e sembrava che ai suoi occhi esistesse solo la sua dama. E, in effetti, guardando nella loro direzione era praticamente impossibile dedicare più un’occhiata disinteressata a Roger: Fleur Delacour era una girandola di grazia e bellezza indescrivibile, una superba statua di porcellana luminosa e inavvicinabile. Alta, diritta, sembrava risplendere di una beltà ottundente. C’era poco da stupirsi che il povero Roger avesse perso completamente ogni capacità di ragionare, in sua presenza.

Durante la festa, Alhena si era tenuta in disparte. Aveva guardato gli studenti divertirsi, ballare, bere Burrobirra e scatenarsi in pista, in barba a ogni regola. Aveva sapientemente distratto lo sguardo fremente di Minerva McGrannitt, permettendo a un ignaro Roger di essere trascinato nel parco dalla sua splendida dama, e aveva sorriso vedendo Cedric Diggory posare un bacio impacciato sulle labbra di Cho Chang. Aveva chiacchierato con i suoi vecchi professori – era anche stata trascinata dal Professor Vitious in un’esilarante giga nella quale, a dispetto di ogni apparenza, l’ometto diede prova di padroneggiare splendidamente l’arte della danza – ma per la maggior parte del tempo se n’era stata in disparte, cullandosi in quella malinconica sensazione di sentirsi a casa e di non avercela, una casa, allo stesso tempo.
La Sala Grande era come la ricordava, eppure non lo era, per via di tutte quelle decorazioni e di quegli studenti agghindati a festa con abiti scintillanti e vistosi. E Alhena faceva parte della festa, ed era al tempo stesso un’estranea.
Avrebbe dovuto tornare a casa: salutare Vitious, salutare la McGrannitt, evitare di incrociare di nuovo il cammino di Piton – non erano mai stati in rapporti cordiali – e tornarsene alla desolazione del suo appartamento deserto. Le sue coinquiline erano tutte tornate in famiglia per le feste, e lei poteva ascoltare musica triste, brindare allo specchio con un buon bicchiere di vino rosso e addormentarsi con la televisione accesa, giusto per illudersi che in casa non ci fossero soltanto lei e i suoi tristi pensieri.
Avrebbe dovuto andarsene, ma continuava ad aggirarsi per la Sala Grande che andava via via svuotandosi, lasciando spazio solamente a pochi fra gli studenti più grandi.
Rimase, invece: rimase fino a quando anche gli ultimi ritardatari furono cacciati a letto, e si ritrovò ad aiutare professori ed elfi domestici a ripulire almeno il grosso della sala.
Rimase, quasi temesse il momento in cui tutto sarebbe finito: niente più balli da preparare, niente lezioni, e Hogwars si sarebbe chiusa per sempre alle sue spalle.

Nessuno prestava ormai attenzione a lei: i professori si erano ritirati a godersi il meritato riposo, di studenti non c’era più traccia, e gli elfi l’avevano ossequiosamente cacciata lontano dal cumulo di spazzatura da pulire. Alhena si diresse nel piccolo stanzino dietro il tavolo riservato agli insegnanti, dove aveva lasciato il suo mantello – nero, semplice, ridicolmente in contrasto con l’abito formale che indossava – e si gettò nel freddo pungente della notte che ormai iniziava ad albeggiare. La porzione di parco a ridosso del castello era stata decorata con cespugli di rose fra i quali brillavano le tenui luci di fate semiaddormentate e sentieri di ghiaia bianca.
Era tutto così artefatto da non sembrare nemmeno Hogwarts, ma era un’atmosfera piacevole, calda, quasi fiabesca.
Alhena si lasciò cadere su una panchina smaltata di bianco, cercando di immaginare come sarebbero andate le cose se avessero organizzato un ballo del genere quando lei era studentessa. Sicuramente la sua amica Stacey avrebbe finito per farsi accompagnare al ballo da qualcuno di belloccio e vuoto come una zucca a Halloween, per poi smollarlo in compagnia di Alhena a metà festa, per imboscarsi da qualche parte con qualcuno di più interessante. E Alhena si sarebbe annoiata a morte, e avrebbe provocato il povero malcapitato fino a farlo infuriare, e...
Un rumore sommesso, alle sue spalle, la fece sussultare. Si voltò, bacchetta alla mano, e vide una figura scarmigliata emergere da un cespuglio.
“Roger?”
Roger Davies, in maniche di camicia e capelli pieni di foglie, fissava Alhena con sguardo confuso. Era un po’ pallido, e sembrava esausto.
“Tutto a posto?”
Roger impiegò diverso tempo a mettere a fuoco Alhena, poi si aprì in un ampio sorriso e si lasciò cadere sulla panchina accanto a lei, abbandonandole con gesto scomposto il capo su una spalla.
“Oh, sono così felice di vedere un volto amico!” sospirò quello, la voce roca e flebile come quella di un malato.
“Sei sicuro di star bene?”
Roger annuì, poi scosse il capo, e infine mormorò:
“Sai, credo di essere guarito”.
Alhena, che non l’aveva mai visto più sbattuto, si permise di dubitarne e lui, con uno sbadiglio, precisò:
“Da Fleur. Lei è... è come una malattia. E io mi sono vaccinizzato, è così che dicono i babbani, no? Me ne sono preso un po’, sono stato male, ma ora sono immune...”
Alhena, che per tutta la sera lo aveva visto seguire come un docile e muto cagnolino quella bellezza francese, avrebbe voluto di nuovo dissentire, ma ebbe pietà dello stato confusionale del ragazzo al suo fianco.
“Comunque, ci siamo divertiti in quel cespuglio, e poi io sono guarito, abbiamo chiacchierato, e siamo diventati amici... ma solo amici. Siamo d’accordo: la nostra resterà una storia da una botta e via”.
“Roger!” lo redarguì Alhena, senza sentirsi davvero scandalizzata.
“E poi io credo di essermi addormentato, perché Alhena, io te lo giuro sulle sottili caviglie di Priscilla: non ho mai conosciuto una donna che mi sapesse prosciugare così...”
Questa volta, il rimbrotto di Alhena fu un po’ più sincero.
“Mi fa male tutto, Alhena...” si lagnò lui, con lo steso tono lamentoso di un bambino stanco.
E Alhena si rese conto che faceva un freddo d’inferno, e Roger aveva dormito in maniche di camicia sotto un cespuglio umido. Era già tanto che non fosse morto assiderato, quello sprovveduto! Alhena si affrettò a togliersi il mantello e a gettarlo sulle spalle del giovane, sussurrando:
“Non faresti meglio a metterti a letto?”
“Perché non mi ci metti tu?”
La mano di Alhena scattò, rifilandogli uno schiaffetto bonario – ma nemmeno troppo. E sentì che la pelle del giovane bruciava, e tanto, anche.
“Roger, vai a dormire, seriamente. Scotti”.
Il ragazzo, borbottando tra sé, raddrizzò la schiena, ebbe un capogiro, e quasi cadde dall’altra parte. E Alhena, sospirando rassegnata, lo trascinò in piedi quasi di peso, facendosi poi passare un braccio del giovane attorno alle spalle, preparandosi alla sua più difficile ascesa alla Torre di Corvonero.

E fu faticosa davvero, quella scalata: Alhena poteva anche essere una ballerina professionista e nascondere, sotto l’aspetto esile, una muscolatura più salda di quanto uno sguardo disattento potesse immaginare, ma Roger Davies, snello ed elegante quanto voleva, pesava comunque troppo per lei. Tra uno sbuffo, una spinta e un trascinamento, raggiunsero infine il batacchio a forma di aquila di bronzo: Alhena era ormai madida di sudore, e Roger, in preda alla febbre, delirava. Come avrebbero risolto un indovinello, proprio non lo sapeva.
Il becco dell’aquila si dischiuse, e la voce melodiosa che Alhena ben ricordava domandò:
“Cosa si risponde a un augurio di buon Natale?”
Esterrefatta, Alhena fissò a lungo il piumaggio lucido dell'aquila. Ma che razza di domanda era, quella? Prima che potesse iniziare a riflettere su eventuali giri di parole o trabocchetti nascosti nell'indovinello, Roger sfuggì alla sua presa, barcollò e scoccò un sonoro bacio sulla punta del becco lucido dell'animale di bronzo.
“Grazie, chica”, biascicò il ragazzo e, con enorme stupore di Alhena, sul legno liscio della porta comparve una maniglia.
“Prego, niño”, tubò l’aquila alle loro spalle e Alhena riconobbe con sgomento che la sua voce solitamente rapace suonava particolarmente civettuola.
Il cuore di Alhena quasi perse un battito, quando mise di nuovo piede nella sua vecchia Sala Comune: non era cambiato niente. C’era ancora la soffice e alta moquette azzurra, e la volta a botte trapuntata di piccole stelle luminose... c’era il camino, grande e allegro, e i sottili tavolini di cristallo disseminati con cura attorno alla statua di Priscilla Corvonero. C’era persino il suo divano preferito, quello un po’ discosto dalla confusione, di velluto blu un po’ sbiadito che, chissà, nell’angolo destro conservava ancora la traccia di bruciatura di quella volta che era così arrabbiata con Piton da aver dato fuoco per errore al tema che aveva appena finito di scrivere...
"Allora, vieni su a scaldarmi le lenzuola, señorita?
La voce di Roger, ancora un po’ impastata, riportò Alhena alla realtà. Trattenendosi a stento dalla voglia di rifilargli l’ennesimo coppino, la giovane lo trascinò fino al divano più vicino al camino, e lo fece distendere.
“Non ci penso neanche, signor furbetto. Ti ho portato al sicuro, e qui ti lascio: se vuoi che qualcuno ti rimbocchi le coperte, il massimo che posso fare è consegnarti a Madama Chips”.
Roger la fissò con uno sguardo da cane bastonato, poi, rassegnato, si abbracciò al petto le ginocchia.
E una luce maliziosa, in mezzo al fuoco vacuo della febbre, gli illuminò di nuovo gli occhi.
“Non ci pensi, però vorresti, vero?”
“Roger!”
Le dita di Roger, cinque pezzi di ghiaccio, si strinsero attorno al polso di Alhena.
“Non prendermi in giro, e non prenderti in giro. Guarda che c’ero pure io, quando abbiamo ballato, lo so che, se non fossimo stati in una scuola, avresti voluto”.
Alhena era indignata, ma la sua risposta piccata le morì sulle labbra: Roger aveva parlato con un tono semplice, aperto, come se quella fosse la cosa più naturale del mondo. Non c’era accusa, né tentazione, niente: la sua era una constatazione divertita, nulla di più.
E Alhena, che a quel tango non voleva ripensare, si limitò a sospirare.
“Sei tremendo. Ora però dormi, ché con un cadavere non ci voglio fare proprio niente”.
“Ma io ho freddo!”, protestò Roger, mettendo su un broncio ridicolo da bambino in preda ai capricci. Esasperata, ma fin troppo consapevole dei brividi di febbre che effettivamente percorrevano il corpo di Roger, Alhena agitò la bacchetta per aria, evocando una coperta che gli gettò addosso.
“Dormi, Ramón, e domani fatti dare davvero qualcosa per la febbre da Madama Chips...”
Gli occhi di Roger si spalancarono, lucidi di febbre, ma illuminati dalla sua briosa sfacciataggine.
“Come faccio a dormire se tu mi chiami così? Te l’ho detto che effetto mi fa!”
“Ma tu non eri stato prosciugato dalla tua Regina di Francia?” protestò Alhena, senza riuscire a nascondere il divertimento.
“Sono giovane”, asserì lui, sicuro, “mi riprendo in fretta. Sicura di non voler controllare?”
“Sicura, Ramón, sicura”.
“Meno male che a Natale siamo tutti più buoni”, mugugnò lui, sciogliendosi i capelli e poi tirandosi la coperta fino al mento.
Preda all’ispirazione del momento, Alhena si chinò su di lui, e sussurrò:
“Allora facciamo così: tu prometti di fare il bravo e di non infrangere troppi cuori, e, quando ti diplomerai, per festeggiare mi porterai a ballare”.
Roger le rivolse un sorriso soddisfatto, leccandosi e labbra e mormorando:
Me lo prometes?
“Parola di Corvonero”, lo rassicurò lei, con una strizzatina d’occhio.
Del resto, pensò Alhena, il tango restava per lei un territorio ancora quasi sconosciuto.
E un ballerino, per dirsi davvero completo, deve studiare anche discipline diverse.
Lo faceva soltanto per la sua carriera.



 

Note:
Non dovrei, ma ve lo dico: il mio primo fidanzatino, ai tempi delle scuole medie, mi si è avvicinato durante l’intervallo (sembra una vita fa) con una lattina di tè in mano, e mi ha conquistata con un romanticissimo “noi siamo come il tè al limone: io sono l’acqua, tu il limone” (che fossi acida già da ragazzetta? Probabile). Sapevo che questa cosa mi sarebbe tornata utile, prima o poi.
Comunque, non volevo farvi aspettare troppo per un capitolo già pronto, e dunque eccomi qui.
Io devo ancora ringraziare infinitamente AdhoMu, perché senza la sua generosità questa storia, che a me ha fatto tanto bene, non sarebbe mai nata. Nel caso qualcuno si fosse perso le scorse note, ci tengo a ribadire di nuovo che la caratterizzazione di Roger Davies a cui ho cercato di rendere giustizia è tutta farina dello splendido sacco di A.: grazie, davvero grazie. 
E ringrazio tutti voi che mi avete tenuto compagnia in questa breve e folle avventura danzante.
Chissà mai che gli artisti decidano di concedere un bis (del resto, c’è pur sempre una promessa in sospeso, no?).
Vi abbraccio!

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