Cà d'Anime è in vendita

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fȏl di fantèsmi ***
Capitolo 2: *** In mezzo alla campagna, il tintinnio di un passaggio a livello ***
Capitolo 3: *** Fantèsmi e buratèn ***
Capitolo 4: *** Al pázz di melcuntànt ***
Capitolo 5: *** La casa degli amici ***



Capitolo 1
*** Fȏl di fantèsmi ***


Ca’ D’Anime è in vendita
 

“E chi li vede strilla
oh mamma mia!
Gambe in spalla
e vola via!”
(“Carletto il principe dei mostri”, sigla finale)
 
 

1. Fȏl di fantèsmi[1]

 
In un paese nella campagna dell’Emilia, circa a metà degli anni Ottanta.
 

“C’è un buco in una delle inferriate del primo piano. Proviamo a entrare e a dare un’occhiata in giro.” Tra tutti, Gigi Anguillari detto l’Anguilla era quello che conosceva meglio il posto. C’era stato più volte, anche di notte quando nella campagna non si vedeva a un metro, d’inverno per la nebbia e d’estate perché dal fiume saliva una caligine rasoterra, che serpeggiava a guizzi e spirali come le bisce. L’unico lampione, piantato di recente all’ingresso del viale, era stato preso a sassate ancor prima che l’Enel si facesse due conti, realizzando che alla Cà D’Anime la corrente non arrivava né valeva la pena di tirar su due pali per farcela arrivare, perché la villa era abbandonata da secoli e pipistrelli e civette ci vedono anche al buio, anzi di più e meglio. Eppure, da qualche parte esisteva perfino un proprietario: secondo alcuni l’era il dièvel in persona, per altri, semplicemente, qualcuno che non aveva nessun interesse ad accollarsi quel rudere, che dai tempi dei tempi stava in piedi appoggiato ai pioppi e a quattro assi piazzate là dal Comune.
Di lì a poco anche il lampione, forse per la tristezza di ritrovarsi solo o perché si era adeguato all’andazzo del posto, aveva cominciato a pencolare storto. L’unica compagnia era una comitiva di pipistrelli che in estate passava le ferie nei solai, in fila a testa in giù ad attendere il crepuscolo come ombrelli richiusi. In autunno migravano in qualche grotta più riparata, così il nostro restava di nuovo triste e storto in compagnia della pioggia, di un nebbione che si tagliava col coltello e degli inverni di neve che, col passare degli anni, l’avevano piegato ancor più verso il basso.
In quel pomeriggio di fine estate alla Cà d’Anime arrivarono in tre, quattordici anni a testa e un tempo di vacanza che era ormai agli sgoccioli ma bisognava pure impegnare in qualche modo: l’Anguilla in motoretta e il Secchio seduto dietro, con le zampe da trampoliere che tagliavano l’aria.
Il Ninèn[2] arrancava sulla Graziella di sua madre e ce la metteva tutta per non restare indietro e ingoiare la polvere che il compare levava su smarmittando.
Per arrivare alla villa, occorreva attraversare il viale di cipressi che un tempo era stato padronale. Due pilastri reggevano ancora i cardini di un cancello inesistente. Quello che c’era prima, di ferro battuto con lo stemma della casata, era stato recuperato da qualcuno del posto e ora se ne andava a passeggio lungo gli argini sotto forma di pezzi di ricambio per biciclette.
Forse anche la Graziella che in quel momento il Ninèn arrestava coi piedi, montava qualche reliquia della fu cancellata dei conti D’Anime.
Tinteggiato di bianco con cornici di rosso attorno alle finestre, l’edificio incombeva sbucando dai cespugli coi cornicioni sbreccati, lunghe crepe sui muri e qua e là i cartelli con la scritta pericolo di crollo.
Mentre l’Anguilla faceva scattare il cavalletto e il Ninèn controllava le suole delle scarpe, Semprini il Secchione, detto anche il Secchio per esigenze di abbreviazione, mise a fuoco dietro ai fondi di bottiglia la villa e diede voce a una legittima perplessità: “Siamo sicuri che regge? Qua rischiamo di fare la fine del topo.”
Un nastro bianco e rosso girava attorno a due pioppi e si perdeva nel folto dei cespugli. Era stato messo là dal Comune nel tentativo di impedire l’accesso a vagabondi, cultori di messe nere e quattordicenni impiccioni: o quanto meno per avvertirli del fatto che un eventuale cornicione caduto sulla testa non avrebbe fruttato nessun risarcimento.
“Là dentro ci sono i fantasmi,” osservò il Ninèn, a mero titolo informativo. L’impaccio con cui cercava di ricacciare dentro i calzoni i rotolini di ciccia fuoriusciti nella corsa era chiaro segnale di una fifa galoppante.
“E grazie al caz, siamo qui per questo!” intervenne l’Anguilla. “Bona lè cincischiare, sul retro c’è la breccia che il sottoscritto ha scovato apposta per voi.”
Io non sto cincischiando,” ci tenne a dire il Secchio, “dico solo che la struttura è a rischio di crollo e che non mi piacerebbe affatto restarci sotto.”
“La verità è che voialtri vi state cagando in mano,” insistette l’Anguilla inoltrandosi a gambe larghe in mezzo alle felci, scostando le ramaglie fitte dei rovi, sicuro come se stesse entrando in casa sua. Il Secchio gli tenne dietro, seguito dal Ninèn in posizione di retroguardia. Che poi voleva dire essere il primo a filarsela nel caso in cui la faccenda prendesse una brutta piega.
Solo quando si trattò di passare sotto a un cornicione pieno di ombre, il Ninèn passò sfrecciando davanti a tutti gli altri, con le mani levate a riparo della zucca e la paura che gli metteva le ali ai piedi: “I palpastrèl”, brontolò quando fu a distanza di sicurezza. “A me fanno senso, quegli uccellacci.”
“Sei il solito ‘gnurànt. I pipistrelli son brisa uccelli, sono mamifferi.”
L’Anguilla s’insinuò nella breccia e in un attimo fu dentro, seguito a ruota dal Secchio.
Mentre il Ninèn cercava d’intrufolarsi a sua volta, le mani gli sudavano per la strizza di rimanere infilzato in uno degli spuntoni della grata, nonché di trovarsi faccia a faccia con uno spettro. D’un tratto si sentì strattonare all’indietro: senza dubbio, una mano di morto l’aveva acchiappato al volo e lo teneva ben stretto, a mo’ di coniglio tirato su per le orecchie.
Appeso per la giacca rossa e blu del Bologna a un ferro sporgente, sentendosi già sul bancone del macellaio tra la mannaia e il ceppo dei coltellacci, il Ninèn cacciò uno strillo da maialino da latte, che conteneva tutto il terrore del mondo e rimbalzò contro i muri facendoli sussultare. I calzini degli altri due che erano già dentro scesero precipitosamente a cagarella.
Un altro rimbombo echeggiò fino ai ballatoi dell’ultimo piano e anche stavolta era il Ninèn che ruzzolava a capofitto sul pavimento, la giacca del Bologna strappata proprio nel punto in cui i calciatori ci avevano scritto sopra gli autografi, con l’Uniposca indelebile. Lo sbrego era tale che hai voglia ago e filo per rimetterlo insieme. Quando si avvide del sacrilegio, il Ninèn guaì di nuovo, con un acuto così pieno di sentimento che pareva gli avessero spezzato tutte le ossa, una alla volta.
“Oh, ma bona lé, vuoi far venir giù il mondo?” mormorò il Secchio, già grigio in faccia per il semplice fatto d’essere lì a fare qualcosa di proibito.
“Fate poco bordello,” disse l’Anguilla, secco. “Avanti, per di qua.”
Non che l’Anguilla avesse meno strizza degli altri: molto semplicemente, era più bravo a evitare che gli si leggesse in faccia. Era stato lui a insistere per andare a curiosare alla Cà D’Anime, tanto per far passare la noia di un pomeriggio in cui la bocciofila era piena di anziani intenti a giocare a briscola e a compilare la schedina, con la massima concentrazione dietro agli occhiali divisi in mezzelune – una metà per vederci da lontano e l’altra per leggere da vicino. Chi non era completamente assorbito nell’impresa di azzeccare i risultati della prossima domenica, era immerso in fumose questioni di politica: fumose in senso stretto, perché nell’angolo riservato ai compagni, tutti in tuta blu col Manifesto che spuntava dalle tasche, le esalazioni delle Nazionali senza filtro formavano una cappa ancor più persistente della nebbia che calava sul paese a novembre.
“Andiamo a fare un giro alla Ca’ D’Anime,” aveva proposto a quel punto l’Anguilla. Gli altri non se l’erano sentita di rifiutare, un po’ perché non avevano altre idee da proporre e un po’ per non farci la figura dei cacasotto.
“La strada l’è ardott mel[3]. Se mi scoppia una gomma poi me la paghi te,” aveva provato a dire il Ninèn che a conti fatti, più degli spettri, temeva le cioccate di sua madre.
“Che poi, là non c’è niente,” aveva aggiunto il Secchio, “ai fantasmi ci credono soltanto i vecchi e i cinni.[4]
Che i cinni ci credessero, lo dimostrava il fatto che in quel preciso momento i tre avanzavano tra i mucchi di calcinacci e le scritte a spray sui muri – pentacoli rovesciati, frasi di innamorati, organi genitali affrescati con dovizia di particolari – tenendosi stretti come i rondinini nei nidi. Di quando in quando, inciampavano l’uno nelle scarpe dell’altro. 
Quanto ai vecchi del paese, fingevano di non crederci ma quando gli toccava passare dalla Cà D’Anime per andare al podere, acceleravano con tali sgambate in bicicletta che pareva che tra le buche della sterrata corresse il Giro d’Italia.
In paese si raccontava ancora la storiella di un medium d’altri tempi, un certo Pickmann che si era esibito in teatro a Bologna, in pieno Ottocento. Era l’epoca in cui furoreggiava la moda dello spiritismo, delle sedute al buio con le mani sul tavolino e delle dame che voltavano gli occhi in su e cominciavano a farfugliare stramberie da indiavolate. Quella sera, il presentatore aveva annunciato che il professor Pickmann si apprestava a evocare un’anima trapassata, alla quale il gentile pubblico in sala avrebbe potuto porre delle domande. Era seguito un silenzio di piombo, dopo di che una voce era echeggiata dal loggione: “Di ban sό, fantèsma, l’èt mai ciapè int al cul?”
Non si seppe mai chi fu l’ardito loggionista. Quel che è certo è la colorita espressione divenne proverbiale e che il professor Pickmann non fu più visto a Bologna.
Ma quelli erano altri tempi, storie di una città che scambiava per nebbia quel velo di foschia che si asciugava appeso ai tetti alla mattina. Poi subito spariva alla stessa maniera con cui le donne di casa ritirano i lenzuoli dopo che han preso aria.
La nebbia, quella vera, era tutt’altra cosa. La gente della campagna, che se la sentiva pesare sulle spalle per buona parte dell’anno, sapeva che in quella caligine che cancellava le strade quattro passi più in là si nascondevano voci, suggestioni e ricordi: le impronte delle cose che erano andate perdute, gli spiriti dei morti che vagavano lungo gli argini perché avevano perso la strada per il camposanto o perché gli era rimasto qualche cosa da fare, prima di dedicarsi all’eterno riposo nella muffa dei loro loculi. C’era chi aveva visto in quella bruma fuggevole la faccia di un parente e si era ricordato che c’era ancora da mettere in ordine la casa, raccogliere la roba prima di darla via: puntualmente, dal cassetto di un comò saltavano fuori quelle due banconote che facevano comodo, un libretto postale, una serie di numeri che fruttavano un ambo, se non proprio un terno secco, sulla ruota di Bologna.
Anche quando in paese era arrivata la radio, poi la televisiàn dapprima alla bocciofila e poi su tutti i centrini dei casolari, le storie di fantasmi avevano continuato ad andarsene a spasso indisturbate, cariche di fruscii e sospiri come la nebbia. Quanto alla Cà D’Anime, c’era chi raccontava di un misterioso violino che suonava in pieno giorno e forse anche di notte, ma col buio nessuno aveva fegato e voglia di avventurarsi da quelle parti, neppure per imboscarsi con la morosa.
Si diceva che quel viulèn fosse appartenuto a uno degli ultimi conti D’Anime, un giovane macilento che s’era impiccato per un amore tragico o più semplicemente perché era matto duro. Di certo, la morte non gli aveva dato sollievo: lo dimostrava il fatto che il viulèn fantèsma continuava a suonare, levando dalle corde un lamento così tormentoso da andare via di testa. Infatti, c’era stato chi aveva saltato l’argine per non sentirlo più. Ma in quei casi era tutta gente a cui già da prima mancava qualche rotella: sicché non si poteva dar la colpa al fantèsma se gli era venuto il ghiribizzo di affogarsi senza lasciare neppure una lettera in riva al fiume. O almeno così dicevano il giudice, il medico legale e un sacco di altra gente venuta dalla città apposta per ripescarli dal groviglio di rami e cespugli dell’argine.
Altri se l’erano cavata con un bello spavento. Qualcuno sosteneva di essersi perso nei campi e di avere vagato a lume di naso per un tempo che non si poteva misurare. Uno di questi era Pinèn dla Marìa, più noto come la spânga[5] o, quando era proprio fradicio, lo stindèn, lo stendibiancheria. C’era però da dire che Pinèn era solito iniziare la giornata col giro delle osterie. Già alle otto e mezza gli si poteva spillare dalla pancia la Vecchia Romagna solo a metterci il rubinetto, sicché non era il caso di dargli retta più di tanto.
Di storie che giravano attorno alla Cà D’Anime l’Anguilla e il Ninèn ne avevano sentite raccontare parecchie, dalle nonne e bisnonne che volevano solo tenerli lontani da quei muri pericolanti. Tuttavia e alla faccia delle buone intenzioni, alle orecchie dei cinni quei fȏl suonavano esattamente come musica di violini: erano zolfanelli che accendevano la voglia di andare a curiosare per scoprire se nei racconti c’era qualcosa di vero.
Di fȏl di fantèsmi Semprini detto il Secchio ne aveva sentiti meno, perché i suoi avevano la laurea, la farmacia in piazza e venivano dalla città: tuttavia, in quel pomeriggio in cui la luce iniziava lentamente a declinare e la campagna intorno era una pennellata di oro e di bigio, mentre si avventurava per le sale della Cà D’Anime, il Secchio era lì lì per farsela sotto esattamente come gli altri.
In quel momento e a suon di cucci e spintoni, nascondendosi dietro alle spalle dell’Anguilla che a sua volta cacciava avanti gli altri due, i cinni erano giunti fino alla scalinata che saliva a volute ai piani superiori. Incerti se proseguire, si limitarono a guardar su verso i ballatoi. Fin lì, dei presunti concerti di violini della Cà D’Anime, non avevano sentito neppure una nota.
L’Anguilla accese una torcia, perché ormai imbruniva e dalle sale vicine filtrava solo un filo di pulviscolo lattiginoso. Il fascio di luce rischiarò appena l’ombra che spioveva dall’alto, qualche battito d’ala di colombi o palpastrèl che fuggivano a ripararsi in qualche anfratto. Una passatoia che un tempo era stata vermiglia scoloriva sulla polvere dei gradini, nascondendo probabili insidie rovinose.
“Io lassù non ci vado,” disse subito il Secchio. “C’è da rompersi l’oss dal cȏl.”
“Neppure io, sia chiaro,” si accodò il Ninèn. “Ci ho già rimesso la giacca del Bulagna, am pèr che basta e avanza.”
“Torniamo indietro. Io ve l’avevo detto, che qui non c’è niente,” riprese il Secchio, dopo essersi assicurato che tra gli stucchi e i brandelli di ragnatele, che penzolavano lunghe e spesse come tende, non ci fosse davvero niente.
 “Te ti aspetti che i fantasmi vengan fòra coi lenzuoli,” disse l’Anguilla, che per pura cautela continuava anche lui a guardarsi bene attorno. “Invece il fantèsma è semplicemente una presenza. Qualcosa che ti viene vicino e ti soffia sul collo.”
Fu allora che l’Anguilla, per render meglio l’idea, soffiò davvero sulla collottola del Ninèn.
In quel preciso istante si udì un urlo venir giù a capofitto, acuto e perforante come quando si ammazza il maiale a Natale: uno strepito che dire assatanato era dir niente.
Mo dai, che scherzo!” disse l’Anguilla con la faccia che sbiadiva in un color carta da zucchero. Lì per lì aveva pensato che a strillare fosse stato di nuovo il Ninèn. Però il Ninèn e il Secchio guardavano verso l’alto, imbambolati come se avessero veduto chissà che apparizione. E infatti l’apparizione c’era sul serio: ritta sul ballatoio dell’ultimo piano, là dove nessuno poteva arrivare perché la scala era crollata giusto a metà, c’era una vecchia scarmigliata e feroce che strepitava insulti e pareva venuta dritta su dall’inferno, per quanto era cattiva e faceva tremare i muri con urla da indemoniata. Addirittura la polvere veniva giù crepitando come se fosse pioggia.
Pareva che l’intera Cà D’Anime fosse sul punto di crollare sulla testa dei tre in un fortunale di calcinacci.
Caràggne! Delinquenti! Adès, scendo e v’amazzo!” imperversava la vecchia e in un attimo era in fondo al ballatoio, in procinto di scendere quelle scale inesistenti.  
Sotto a quella gragnuola e ancor più alla sola idea di trovarsela di fronte, i cinni se la diedero a gambe senza pensarci sopra un momento di più. Corsero per le stanze spintonandosi a vicenda con mani sudaticce che parevano già le grinfie della vecchia, persero l’orientamento nei saloni tutti ugualmente vetusti, ingombri di pietrame, rovine e marciume. Ritrovarono infine la via della breccia e stavolta il Ninèn si fiondò dentro per primo, superando l’ostacolo con un guizzo da acciuga. Col fiato che bruciava, continuarono a correre inciampando nelle radici che affioravano ovunque. I cespugli strapparono al Ninèn un altro pezzo di giacca del Bulagna.
Raggiunsero bici e moto e solamente quando furono a debita distanza si concessero una sosta, un sospiro di sollievo e uno scambio di opinioni.
“Che brόtta veciaza,” esalò il Secchio con la faccia che pareva un burazzo tirato su dalla varechina[6]. “Chissà chi diavolo era.”
“Forse una zingara che è andata a stare lì,” disse l’Anguilla ostentando una finta calma. I garretti gli tremavano ai due lati del Ciao come se stesse ballando.
I zengher mica scorr an bulgnais[7], osservò ancora il Secchio, “quelli girano le giostrine dei luna park e parlano in turco.”
Il Ninèn, che al posto del fiato aveva una fornace per via della corsa, riuscì a dire una cosa sola: “E poi, non aveva le gambe.”
Gli altri due lo guardarono con la faccia del prete che vede entrare in chiesa il Pinèn dla Marìa con la Vecchia Romagna nel sacchetto di carta e in bocca certe bestemmie da tirar giù il campanile.
C’sa dit,” intervenne l’Anguilla, “ti sei bevuto il zervèl?”
“Io l’ho vista bene”, insistette il Ninèn, sicuro al cento per cento. “Non aveva le gambe, ma solo la sottana che spenzolava in aria. Quella l’era un fantèsma e ci voleva fèr fòra. Altro che musica di viulèn.”
Già si erano lasciati alle spalle il viale dei cipressi, che nel crepuscolo esalava un tepore dolce insieme ai primi versi cupi della civetta. Più lontano rispondeva un singhiozzo monotono, un rospo che si godeva la frescura di un fosso. Quei richiami che si perdevano nel silenzio dei campi e nel vapore che saliva dalle zolle, suscitavano un’impressione di lontananza e mistero.
Mentre il sole calava, il mondo intero era fermo.
Ancora con la paura attaccata ai garretti, anzi aumentata perché il buio iniziava a venire giù svelto, i cinni ripresero la strada, col motorino al minimo e il Ninèn che arrancava sulla Graziella a testa bassa. Dopo un ragionevole tempo di riflessione, si fece sentire di nuovo la voce del Secchio: “Forse i pi ce li aveva sotto alla gonna.”
“Io ho visto solo un pezzo, quello che sporgeva giù dalla balaustra,” tornò a dire il Ninèn. “Sotto, non c’era gnente.”
“Mia nonna al dìs che il fantèsma era uno che suonava il violino,” insistette l’Anguilla, che aveva ancora la forza e la tigna d’esser poco convinto.
Cla dona il viulèn se l’è mangiato per colazione,” disse tetro il Ninèn. “E per cena voleva noi, e tu non dir di no perché c’eri e hai visto.”
Continuarono ad andare avanti per un po’, tenendosi vicini e in silenzio per riprendersi dallo spavento. Mancava poco al paese, da quelle parti non girava mai nessuno.
Non sapevano, i cinni, che a un paio di chilometri da lì il tratto di autostrada sopra al cavalcavia era stato interrotto per via di un incidente che aveva accartocciato motori e lamiere come fossero scatolette. Sopra c’era andato a finire un rimorchio che s’era rovesciato e pareva un burdigone[8] con le zampe per aria.
Mentre si tentava di salvare il salvabile, il traffico era stato deviato sulla statale che attraversava il paese per quanto era lungo: pochi metri dalla bocciofila fino alla chiesa, passando per la piazzetta con la farmacia dei Semprini e poco più in là l’emporio dove si vendeva di tutto, dai sacchi di granaglie ai quaderni di scuola. Chi aveva fretta e conosceva bene il posto, poteva prendere la scorciatoia che passava per la Cà D’Anime.
Quella geniale idea era venuta in mente a un certo Maurizio Tovoli detto il Punghèn, perché era smilzo e aveva il musetto da sorcio ma soprattutto perché, alla maniera dei topolini di campagna, conosceva tutte le strade e riusciva a intrufolarsi col camion della Cooperativa Arredi d’Arte fin giù per le cavedagne.
Reduce da quasi venti ore di viaggio tra l’andata e il ritorno, proveniente dall’Austria e diretto a Bologna insieme a una fornitura di orologi a cucù, il Punghèn non vedeva l’ora di consegnare e concedersi finalmente una notte di sonno. Per questo, lanciò il camion di corsa giù per quella stradina sperduta tra i campi, dove di solito giravano soltanto civette e palpastrèl.  
Il Punghèn confidava che i sobbalzi della sterrata e il baracchino da radioamatore, tramite il quale era in corso un’interessante conversazione con una certa Mariangela, gli avrebbero impedito di addormentarsi al volante. Si sbagliava di grosso, perché un colpo di sonno lo colse tutt’a un tratto. Il camion proseguì a rotta di collo fin quando non si accorse che alla guida, di fatto, non c’era nessuno. Allora prese ad andare a casaccio, pelò qualche ramo ed era sul punto d’infilarsi dritto in un fosso, quando incappò in una buca e l’autista si svegliò giusto in tempo per non finirci dentro.
Il camion si trovava a pochi metri dalla Cà D’Anime. Fu a quel punto che il Punghèn si accorse della vecchia ferma in mezzo alla strada come fanno le galline cinque secondi prima di essere investite. Spuntata da chissà dove, mostrava i pugni e gridava senza far caso ai fari che la puntavano dritta e a tutto il resto del camion, in procinto di travolgerla con tonnellate di ferro e orologi a cucù.
Il Punghèn sterzò di colpo per non tirarla sotto e fu così che il fosso lo beccò per davvero, e mica solo quello. Prima che il camion si rovesciasse lungo disteso, fece appena in tempo a sentire delle urla di ragazzini. Voci terrorizzate che forse erano vere o forse solo un sogno, come la vecchia che era comparsa all’improvviso e che il Punghèn, prima di chiudere gli occhi in anticipo sulla tabella di marcia, fece appena in tempo a pensare che era ben strana: perché pur restando ferma in mezzo alla strada, non aveva le gambe ma solo la sottana che svolazzava a mezzo metro da terra.  
Dal baracchino, la voce della Mariangela, sfoglina per passione, continuò a raccontare delle quantità di tigelle che aveva sfornato alla festa dell’Unità di San Lazzaro, precisando che quella era l’ultima sera e magari il Punghèn poteva fare un salto, così tanto per conoscersi.
Quando si accorse che su quella banda nessuno le rispondeva, la Mariangela terminò il suo monologo con un passo e chiudo e si mise a preparare l’impasto per la serata. 

 
******

 
Cà D’Anime, quasi trent’anni dopo

 
“Prego signore, se volete seguirmi vi mostro i vari ambienti.” Mungendosi la faccia nel fazzoletto dove aveva spremuto il sudore delle ultime ventiquattr’ore, Massimo Passerini, di professione agente immobiliare, si fece da parte, cedendo il passo a due donne che entrarono scodinzolando sui tacchi, il naso dritto per aria.
“Ma quanta polvere c’è!” osservò la più giovane, come se fosse capitata in un qualunque appartamento un po’ in disordine. “Ci saranno mica i ragni, io proprio non li sopporto,” aggiunse, scuotendo qua e là una capigliatura di ricci a cavatappi così esuberante che tutti i ragni e i burdigoni del mondo potevano farci il nido e ci sarebbe avanzato ancora dello spazio.
Mo siamo sicuri che sta in piedi?” intervenne l’altra, più pratica. L’Adalgisa Buganè, in arte maga Gisella, picchiò con le nocche sul primo muro che le capitò a tiro, col risultato di far piovere una manciata di pulviscolo: “A me, sembra poco solido.”
“Naturalmente, lo stabile necessita di restauri,” intervenne il Passerini, temendo un improvviso cedimento strutturale ma cercando di mantenersi professionale. “Questo, sia chiaro, incide sul prezzo che vi ricordo è estremamente favorevole.”
“Di questo dobbiamo ancora discutere,” lo fulminò secca la maga Gisella, con la voce tonante con cui leggeva le carte su Tele Savena, in genere annunciando malocchi e altre disgrazie. Un altro po’ di polvere venne giù dagli antichi decori del soffitto, forse per lo spavento.
Il Passerini cercò nuovamente riparo tra le pieghe del fazzoletto. Anche se nei saloni regnava l’umidità fredda delle cantine, il consulente sudava non solo perché portava a spasso, strizzati dentro alla giacca, centododici chili tondi, ma anche perché era reduce da giorni interi di rinvii e dibattimenti proprio sulla questione prezzo. D’un tratto capì perché il gran capo gli avesse appioppato proprio quella cliente: avere a che fare con la maga Gisella era come scalare l’Everest in braghini e infradito e questo, il signor Draghetti della Immobiliare Reno doveva averlo indovinato all’istante, col suo intuito da mediatore di lungo corso.
“Volevo solo dire che le condizioni dell’edificio… nelle stanze più interne vi sono stucchi di pregio e anche degli affreschi,” provò a dire il Passerini.
“Io vedo solamente dei muri rovinati,” lo interruppe la maga, contemplando la sequenza di graffiti e genitali che qualche buontempone aveva realizzato scaricando dozzine di bombolette spray. “Non li tenete mica poi tanto bene, i vostri immobili.”
“Come vi dicevo in agenzia,” e come vi ho ripetuto fino all’esaurimento per settimane di seguito, “la villa risale alla metà del Settecento ed è rimasta chiusa per molto tempo, finché l’ultimo erede dei conti D’Anime non si è deciso a vendere.”
“Piuttosto, dicono che qua ci sono i fantasmi,” s’intromise la moracciona coi cavatappi.
“Quelle son vecchie storie di contadini. È un pezzo ormai che non se ne sentono più.”
Il Passerini avvertì una punta di nostalgia. Da anni non capitava da quelle parti e nel frattempo il paese era cambiato al punto da non riuscire a riconoscerlo: era diventato un sobborgo della città, circondato da agriturismi con l’orticello biologico, le tavolate per i matrimoni e i battesimi e il maneggio dei pony per divertire i bambini. Insieme alla bocciofila e le partite a briscola, anche i fȏl di fantèsmi dovevano essere andati in pensione.
 “Mo dove sarebbero, questi famosi affreschi?” Dritta sui tacchi a spillo, i pugni ben piantati sui fianchi, la maga Gisella era chiaramente intenzionata a stare sul pezzo. “Mi sa che quelle foto che mi ha mostrato in ufficio erano un po’ vecchiotte, caro il mio giovanotto. Se non ci sono gli affreschi, guardi che il prezzo scende.”
Il Passerini allentò il nodo della cravatta, pescò in fondo alla tasca un altro fazzoletto e si diresse verso la scalinata che spariva nell’ombra dei piani superiori.
“La scala non è agibile,” avvertì, mentre la moracciona stava già per posare il piede sul primo gradino. “Però da qui si dipartono vari ambienti ricchi di modanature e decori ornamentali. Nel salone alla vostra destra, potete osservare pregiati affreschi in stile settecentesco.”
Da una parete, in effetti, una ninfa campestre faceva capolino tra un pentacolo rovesciato e una testa di caprone, rozzamente abbozzati a colpi di spray.
“Ovviamente, i dipinti necessitano di un’adeguata opera di ripulitura…”
Senza far caso alla ninfa e tanto meno al Passerini, la maga Gisella ispezionava il vano scale. Arrivò in breve a trarre le sue conclusioni e non aveva ancora visto né il pentacolo né il caprone: “Ma qui l’è tutto un disâster! Qui bisogna tirar giù i muri e rifarli daccapo, qui di buono ci sono solo le fondamenta!”
E che diavolo pretendi, per ventimila euro?
“Però, se i fantasmi ci sono davvero, sarebbe il posto adatto per il nostro centro esoterico,” suggerì la moracciona, che si guardava attorno con aria ispirata.
Al Passerini cominciava a mancare il respiro. Forse dipendeva dal fatto che dentro alla Cà D’Anime l’aria non circolava e l’umido pesava come un lenzuolo fradicio sulle spalle, per giunta di misura matrimoniale. Ma soprattutto c’erano ben altri pensieri, ricordi che spingevano per tornare alla luce da quell’angolo buio in cui li aveva relegati per anni. Il consulente si frugò nuovamente nelle tasche e artigliò il secondo pacchetto della giornata, constatando che su venti sigarette ne restava soltanto una.
“Vi dispiace se fumo?” chiese e ancor prima di ottenere una risposta si era già piantato la sigaretta in bocca e manovrava per far scattare l’accendino.
Quel senso di malessere, più simile a un’inquietudine che non sapeva spiegare, cominciava ad accentuarsi.
Bella, ràgaz, ma quello è il Ninèn!” saltò su di punto di bianco una voce che non era né della maga né della sua assistente. Il Passerini rimase con la fiammella dell’accendino dritta in aria, mentre con la coda dell’occhio saliva su fino all’ultimo piano, dove però non c’era nessuna sottana svolazzante dal ballatoio.
Mo ve’, l’è il Ninèn per davvero,” intervenne una seconda voce di adolescente. “Sόccia se è messo male, al pèr il Vecchione che bruciano in piazza Maggiore per Capodanno.”
“Ma quanti anni avrà?”
“Basta che fai il conto di quando sei morto.”
Seguì una serie di sghignazzi mentre il Passerini, stupefatto, non capiva se quelle voci gli parlavano nella testa – il che era già di per sé un pessimo segno – oppure se nella casa c’era davvero qualcuno. Ad ogni buon conto, sia la maga Gisella che la sua irsuta assistente continuavano a gironzolare per le sale come se fossero in centro a guardare le vetrine.
Pȏver Ninèn, è bianco come uno strâz,” riprese la prima voce. “Avrà qualche brutta malattia di sicuro. Qualcosa di incurabile.”
“Tu dici che tra poco verrà a stare da noi?”
“Non gli dò più di sei mesi. Un anno, a stare larghi.”
“E quelle là, invece? Simpatiche cόmm un gât tachè ai marόn.”[9]
Mo Ninèn, ma chi ci hai portato? Qui ci stanno i fantèsmi, mica le streghe…”
“Ohi, ma la volete piantare?” sbottò a quel punto il Passerini, suscitando il comprensibile stupore della maga Gisella. “Ma come, dottore? Dovremo pur guardare, per farci un’idea…”
“Comunque, a mio parere, l’ambiente è congeniale,” intervenne di nuovo la tipa coi cavatappi. “Ci sono delle vibrazioni molto particolari. Non le senti anche tu, Gisa?”
La maga nonché sedicente medium di Tele Savena drizzò le orecchie in ascolto.
Una solenne pernacchia seguita da una coda di altre risate fu udita solo dal consulente Passerini, il quale alzò il tono per sovrastare quel chiasso che forse era solamente nella sua testa e forse invece no. “Molto bene, signore,” disse stropicciandosi energicamente le mani, “direi che si è fatto tardi ed è ora di andare. Tra poco sarà buio e, come sapete, l’allacciamento elettrico è ancora in corso d’opera.” Con il vostro permesso, io qua non voglio restarci un minuto di più.
“Ah, non c’è neanche la luce? Mo benessum.” La maga Gisella stava ancora guardando in su. Tutto sommato, se a quel punto fosse spuntata fuori la vecchia senza gambe, al Passerini non sarebbe dispiaciuto neanche un po’. 
“Fino a pochi anni fa, anche il paese era piuttosto isolato. Comunque, ora la villa l’avete vista,” riprese, deciso a tagliar corto prima che la penombra facesse venir voglia a qualche altro spettro di uscire a sgranchirsi il lenzuolo. “Sul prezzo ci potremo naturalmente accordare, ma bisognerà sentire il parere del proprietario.”
“Quanto a questo, gradirei discuterne personalmente con il signor conte,” azzardò la Gisella, che malgrado la lunga strada percorsa dalla campagna ai tarocchi, non era riuscita a sfondare negli ambienti che contano. “Da pari a pari, riusciremmo sicuramente a intenderci.”
“La proprietà tratta solo per mezzo dell’agenzia,” la bruciò il Passerini, che di streghe e fantèsmi ne aveva piene le tasche e desiderava solo raggiungere il terzo pacchetto che giaceva intonso nel cruscotto dell’auto. Evitò di aggiungere che l’ultimo discendente dei conti D’Anime era un vecchietto che costruiva burattini e teneva spettacoli in giro per le piazze. Partiva da Bologna con un furgone adibito a teatrino, attraversava i paesi seguendo il corso del fiume, finché arrivava al mare e bivaccava in Riviera per tutta l’estate. Uno spirito libero che sotto sotto il Passerini invidiava.
Il bisavolo del conte, quello che suonava il violino nelle antiche fole di un tempo, era da un pezzo che non si sentiva più. Non l’avevano sentito neanche quei tre ragazzetti, Gigi Anguillari detto l’Anguilla, il Secchio e il Ninèn, in quel disgraziato pomeriggio in cui s’erano avventurati alla Cà D’Anime sulle orme degli antichi racconti. Per non pensarci, non appena fu in auto ed ebbe assicurato la pancia alla cintura, il Passerini alzò la radio a tutto volume. Fece appena a tempo a sentire la maga Gisella mentre si rivolgeva alla sua assistente:
“Ventimila euro per quella baracca, figuriamoci un po’. Questi dell’agenzia hanno visto un bel film. Parlerò io con il conte e se non arriviamo a ottomila prezìs, non son più l’Adalgisa.”
Io, invece, vado a san Luca a piedi se riesco a scampare il centro esoterico, si disse il Passerini e non sapeva neppure perché di punto in bianco gli fosse uscita quell’idea, a lui che possedeva soltanto un pacco di bollette da pagare e anche una percentuale su ottomila euro gli avrebbe fatto comodo. Diede gas e il pandino quattro per quattro cacciò fuori un ringhio da belva sotto la carrozzeria color sabbia, con l’adesivo forza Bologna appiccicato sul di dietro.
Mentre l’auto trottava, i pensieri si accavallavano nella testa del Passerini alla stessa velocità con cui sfilavano i cipressi del viale, i pioppi non ancora abbattuti per far spazio a mobilifici e ipermercati.
“Non potrebbe andare un poco più piano?” saltò su l’Adalgisa. Il pandino saltava da una buca all’altra con piglio da giovanotto e cigolava su sospensioni da ottantenne: messe insieme, le due cose facevano temere che viti e bulloni fossero lì per schiodarsi al prossimo urto.
 “Ho fretta, signore mie,” dichiarò il Passerini, ricorrendo a un espediente suggerito da Draghetti in persona per i casi di emergenza. “In agenzia mi attende un altro cliente interessato alla villa e disposto a pagare ventimila in contanti.”
Per un attimo sperò che questo fantomatico acquirente spuntasse fuori sul serio. O almeno che Tele Savena chiudesse i battenti e la maga Gisella si trovasse costretta a leggere le carte nella piazza del paese, al posto delle vecchine che, quando era bambino, vendevano i rametti di liquirizia e raccontavano i fȏl di fantèsmi di una volta.
Nella quiete dei campi, lontano dal fracasso del pandino e delle canzonette alla radio, come fosse il respiro stesso del fiume incominciava lenta a salire la nebbia.
 

 
******
 

[1] Storie di fantasmi.
[2] Maialino in dialetto bolognese.
[3] Ridotta male, malmessa.
[4] Bambini, ragazzini.
[5] La spugna.
[6] “Brutta vecchiaccia” e “strofinaccio”.
[7] “Gli zingari mica parlano in bolognese.”
[8] Scarafaggio.
[9] “Simpatiche come un gatto attaccato ai marroni.”

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Capitolo 2
*** In mezzo alla campagna, il tintinnio di un passaggio a livello ***


“Fantasmi. Espressione materiale e visibile
di una paura interiore”
(Ambrose Bierce)
 
 

2. In mezzo alla campagna, il tintinnio di un passaggio a livello
 

Quella sera il Passerini buttò in padella una busta di tagliatelle al ragù e nel microonde quattro pizzette, e al diavolo la dieta ché tanto, per quanto s’impegnasse a brucare insalate e la sera uno yogurt, centododici chili era e centododici restava, come se la maga Gisella in persona gli avesse stregato la bilancia, impedendo all’ago di scendere anche solo di un etto.
Mentre i cubetti cominciavano a sciogliersi e poi a sfrigolare un confortante aroma di sugo, gettò uno sguardo dalla finestra di quel cubo di due metri per tre che fungeva da cucinotto. Il Reno di Casalecchio, immobile nella foschia della sera, gli ricordò il paese e il fiume che lo attraversava sonnolento. Strusciando col suo pelo umido contro gli argini, proprio dietro alla Cà D’Anime mandava su un odore di cantina e di muschio che secondo i cuntadèn di una volta era sicuro indizio della presenza dei fantèsmi.
Chissà perché gli spettri amano l’umidità. Forse perché, in fondo, son fatti della stessa sostanza della nebbia: suggestioni e pensieri, memorie destinate a ritornare a galla quando meno te lo aspetti. Del suo ultimo pomeriggio trascorso alla Cà D’Anime, Massimo Passerini detto il Ninèn rammentava soltanto quella vecchia da spavento che strillava dal ballatoio dell’ultimo piano, pronta a venir giù per una scala che non c’era e con gambe che non aveva.
Lui invece, che le gambe le aveva eccome, era scappato insieme al Secchio e all’Anguilla che neanche una saetta avrebbe potuto filare più svelta. Di quel che era successo da quel momento in poi, conservava soltanto brandelli confusi. Ricordava gli amici in due sul motorino, lui a fianco che pedalava sulla Graziella e intorno solamente il silenzio. Poi tutti quanti, a un tratto, erano stati investiti da un urto così potente che l’ultima cosa che il Ninèn aveva pensato, prima di rotolare nelle profondità di un sonno ch’era durato mesi, era che la Cà D’Anime doveva essersi sollevata dai cespugli, aveva cacciato fuori zampe lunghe e veloci come quelle dei ragni, li aveva inseguiti in strada e là era crollata addosso a loro tre, con tutto il suo peso di mura e puntelli di ferro.
Una punizione coi fiocchi, alla faccia di chi sostiene che i fantasmi son puri spiriti.
Solo durante il ricovero, ascoltando nel dormiveglia i discorsi degli adulti, aveva realizzato che la villa non s’era mossa neppure di un metro. Era stato un trasporto di orologi a cucù a stirarli come sfoglie col mattarello, bici e moto comprese.
Un certo Punghèn di Budrio si trovava in quel momento alla guida del mezzo, sicché nella sua mente ancora scompaginata, il Ninèn s’era figurato un camion che correva con un topo al volante.
Quella scena aveva continuato ad angosciarlo per anni: gli bastava chiudere gli occhi per trovarsela davanti, fresca e nuova di zecca come se stesse succedendo in quel momento.
Al Punghèn era mancato il tempo per raccontare di aver visto una vecchia comparire dal nulla proprio in mezzo alla strada, così all’improvviso che neppure un pilota di rally sarebbe riuscito a scansarla senza infilarsi in un fosso. Ma anche senza conoscere questi particolari, dal giorno dell’incidente per il Ninèn il tempo s’era fermato sul ciglio della sterrata, a mezza via tra la Cà D’Anime e il paese. Nella sua testa continuava ad andare in onda sempre lo stesso film e lui si aggrappava al suo banco di scuola, all’istituto tecnico, come se si trattasse del manubrio della Graziella.
Quando i professori lo chiamavano alla cattedra, era già molto se riusciva a ricordarsi che Massimo Passerini era davvero lui. Le ore di lezione gli scorrevano sotto al naso alla stessa velocità dei treni che attraversavano la campagna sferragliando a testa bassa. Ai tempi di suo nonno, quando non c’era ancora la televisione, i cuntadèn si portavano le seggiole da casa e li guardavano passare come fossero al cinema, assaporando assieme alla polvere dei binari l’odore di città sconosciute e del mare.  
L’istituto per geometri si trovava a Bologna e dopo le lezioni, sapendo che la Cà D’Anime lo attendeva lungo la strada, puntualmente il Ninèn sbagliava orario e addirittura corriera. Alla terza bocciatura consecutiva, i suoi si decisero a lasciare il paese e a trasferirsi altrove.  
A Casalecchio di Reno il Ninèn ricominciò a crescere, soprattutto in larghezza perché aveva scoperto che il luogo più sicuro per sfuggire ai suoi incubi era la cucina di casa. Persino nelle ore più buie della notte, il fornello odorava di soffritto e sughi d’uva. L’asse che sua madre levava da sotto il tavolo per tirare la sfoglia conservava l’impronta della farina setacciata a montagnola, dentro a cui ricadevano lo zucchero e due occhi d’uova.
Il Ninèn era convinto che là nessun fantèsma avrebbe potuto raggiungerlo perché la cucina era un luogo vivo, in grado di sconfiggere tutte le case infestate del mondo. Dopo aver spazzolato il fondo di tutte le casseruole, la madia del pane e tutto quello che riusciva a recuperare in giro, finalmente crollava con la testa tra le braccia.
Riposava protetto dal ronzio del frigorifero e in compagnia della Trifola, il vecchio bracco da guardia che non era mai riuscito ad abituarsi alla città e di notte abbaiava perché scambiava gli autobus per rumori di ladri attorno al pollaio.
Più tardi, Trifola divenne talmente insofferente che i suoi dovettero rimandarlo al paese. Ormai cieco e con le zampe che stentavano a reggerlo, finì i suoi giorni abbaiando alla catena e alla nebbia, perché ormai le galline non le rubava più nessuno e i ladri erano semplice frutto della sua immaginazione.
Mentre grattugiava una collinetta di forma sopra alle tagliatelle, il Passerini pensò che da quando era morto Trifola era venuto meno anche l’ultimo legame con il paese, come se il vecchio cane si fosse portato via anche la nostalgia. Al tempo in cui la famiglia si era trasferita, c’era ancora il nonno Eleuterio: a ottantasei anni curava l’orto e i campi e alle diciotto in punto, con l’afa o con la nebbia, si fermava a guardare il diretto che tagliava la pianura da cima a fondo. Finché una sera l’avevano trovato i vicini di casa, seduto sulla seggiola tra le spighe e i papaveri alti di giugno.
Una volta abbandonata a se stessa, la cascina Passerini aveva cominciato a riempirsi di fruscii, a scricchiolare come le giunture del fu Eleuterio quando si arrampicava per potare i ciliegi. Pur di non vederla andare in malora, i genitori del Ninèn avevano appeso il cartello vendesi e seppure a malincuore l’avevano data via.
La casa di campagna, così come il paese, aveva subito il destino dei luoghi dove un tempo si andava e ora non si va più. Aveva continuato a esistere da qualche parte, in quella dimensione ormai lontanissima dove vanno a finire le vecchie cose, i giocattoli e gli abiti che non si può nemmeno passare ai cugini perché ormai sono cresciuti anche loro.
Da allora, anche Massimo Passerini aveva finalmente cominciato a pensare ad altro. Almeno fino al giorno in cui il signor Draghetti dell’Immobiliare Reno gli aveva affibbiato la trattativa per la Cà D’Anime.
“Sono anni che ce l’abbiamo sulla groppa e mai che si sia presentato un potenziale acquirente. D’altra parte, si fa prima a buttare giù tutto che a restaurare. Però ci sono stucchi e affreschi del Settecento. Tu punta su quelli,” aveva detto Draghetti, piazzandogli sotto al naso una serie di foto. Scattate in bianco e nero su uno sfondo lattiginoso, le immagini non facevano che accentuare l’atmosfera sinistra del luogo. Mancavano solo i palpastrèl e la vecchia alla balaustra.
“Cosa sarebbe, un fienile?” aveva commentato il Passerini, fingendo di non avere mai visto la villa. Draghetti l’aveva smascherato più o meno immediatamente.
“Tu sei di quelle parti, la Cà D’Anime la conosci sicuramente. Domani viene l’Adalgisa Buganè, quella che legge le carte su Tele Savena.” Sulla scrivania del Passerini si materializzò un faldone ingiallito, che probabilmente risaliva ai tempi in cui era stata posta la prima pietra e persino i fantèsmi erano ancora giovani. “La tua cliente mi ha tenuto al telefono più di un’ora, per discutere il prezzo senza neppure aver visto l’immobile. Io tra una settimana parto per la Thailandia, quindi sta a te concludere. Vediamo di riuscire a piazzare quel rudere.”
 Il Passerini non aveva certo potuto dirgli che lui in quella casa ci aveva visto un fantèsma e che ancora adesso, dopo trent’anni, avrebbe preferito tagliarsi tutti e due i piedi piuttosto che portarli a spasso per la Cà D’Anime. In buon ordine, aveva chinato il capo e s’era preparato all’incontro con la Gisella leggendo per intero il dossier sulla villa, sintonizzandosi addirittura su Tele Savena per capire con chi gli toccava avere a che fare.
Anche quella sera, forte della protezione di un bel piatto di tagliatelle, si mise a sfogliare il fascicolo con la maga che imperversava in sottofondo, impegnata in uno dei suoi consulti telefonici: “Signora, qui le carte parlano chiaro, c’è un cambiamento in vista ma sarà un cambiamento per il peggio.” E ti pareva, pensò il Passerini, abbassando il volume per evitare che un’altra strega, quella del piano di sotto, cominciasse a tempestare di colpi il pavimento con la scopa d’ordinanza.
Malgrado l’audio ridotto a un sussurro, la Gisella teneva banco con piglio e sentimento. “Sento molta negatività nella sua voce, signora,” replicò a una certa Clotilde di Casteldebole, che aveva osato contestare il responso. “Le carte dicono che qui c’è un impedimento, forse una fattura. Controlli se per caso c’è un rotolo di peli dentro al suo materasso.”
Che altro dovrebbe esserci dentro a un materasso? pensò il Passerini, poco partecipe delle traversie della Clotilde. Continuò a sfogliare il fascicolo e ritrovò le foto che mostravano diversi scorci della Cà D’Anime: la facciata avviluppata da festoni di edera, gli affreschi degli interni ripresi in modo da nascondere il più possibile gli svolazzi con lo spray. La ninfa campestre si affacciava tra il caprone e il pentacolo e guardava dritta verso di lui.
Strano, quel pomeriggio gli era parso che fosse ritratta di profilo. Anzi, ne era sicuro.
“Signora, qui ci vuole un rito apposta perché la legatura è di quelle cattive, mai visto un caso di malocchio come questo. Però la nostra Moira è in grado di aiutarla anche in comode rate mensili, è un’esperta a livello mondiale in questo campo.” A quel punto apparve sul teleschermo la moracciona, infagottata in un caffettano tipo carta stagnola.
Il Passerini era sul punto di alzarsi per recuperare le pizzette dal microonde, quando un’altra foto gli saltò all’occhio. Una panoramica della facciata evidenziava un dettaglio che prima gli era sfuggito. C’era un volto affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.
Pareva fatto di ombra e ammiccava dalle imposte leggermente socchiuse.
Un attimo prima di farsi prendere dall’angoscia, almeno due cose frullarono nella mente di Massimo Passerini detto il Ninèn: tutte le persiane della Cà D’Anime erano sprangate da anni, per ordine del Comune. La relativa delibera era contenuta nel faldone.
Quanto all’ombra che occhieggiava dagli scuri, non c’era alcun dubbio: si trattava della vecchia del ballatoio, uscita come nuova dagli incubi più foschi della sua adolescenza.
Per tutti quegli anni il Ninèn s’era convinto che si fosse trattato di un sogno, uno scherzo degli anestetici somministrati prima e dopo l’intervento con cui avevano rimesso insieme i suoi pezzi.
Osservò meglio la foto.
In effetti, quella era l’unica finestra a cui mancavano le assi inchiodate alle persiane. Il volto era poco più di un’impronta, un’area di maggiore densità luminosa dentro a cui spiccavano due occhi così vispi che a momenti pungevano.
Sarà un fotomontaggio, si disse il Ninèn, perché l’alternativa era assai più preoccupante. Se era vera la vecchia, allora erano vere anche le voci dell’Anguilla e del Secchio.
Per quel che ne sapeva, Gigi Anguillari e il Semprini erano stati centrati dal camion del Punghèn come birilli su una pista da bowling. Quel che era stato possibile raccogliere dalla strada e dal fosso era stato sepolto nel cimitero del paese.
Alla televisione, la Gisella e la sua assistente continuavano a vaticinare disgrazie alla Clotilde di Casteldebole, ormai sciolta in singulti e lacrime telefoniche.
Nel frattempo, andava in onda la sigla di chiusura. In sovraimpressione scorreva il numero che occorreva digitare per farsi togliere il sonno assieme al malocchio.
Quella sera, probabilmente, sarebbero stati in due a non dormire: la Clotilde con la fattura a morte nel materasso e il Passerini che passava per l’ennesima volta in rassegna le foto della villa. In tutte le altre immagini, le assi erano correttamente fissate alle imposte e della vecchia non c’era, per così dire, neppure l’ombra.
Quanto alla ninfa campestre, a una seconda occhiata apparve nuovamente voltata di profilo.
A quel punto, l’unica certezza per il Passerini era che quella notte l’avrebbe trascorsa in cucina come ai bei vecchi tempi. Purtroppo non ci sarebbe stata la Trifola a fargli compagnia, ad abbaiare agli autobus e al camion che a mezzanotte vuotava i cassonetti con uno sconquasso da fine del mondo. In compenso, da qualche parte nel freezer doveva esserci una vaschetta di gelato, bacio amaretto e puffo, se non ricordava male. Accanto al posacenere, c’erano due pacchetti di sigarette ancora intatti.
Il che significava che forse non tutto era ancora perduto.

 
******

 
“Guarda, secondo me il bivio l’abbiamo già passato da un pezzo.”
Mentre la moracciona procedeva abbarbicata al volante, nello sforzo di distinguere qualcosa di più del nulla nella nebbia che era calata tutt’a un tratto, l’Adalgisa Buganè s’intestardiva a dar retta a una mappa più che approssimativa, una serie di frecce per di qua e per di là che illustrava il tragitto per raggiungere la Cà D’Anime. Il tutto era appuntato su un foglio stropicciato a forza di rigirarselo tra le mani.
“Devi cercare il bivio per la trattoria I Grilli, dopo di che svolti a destra.”
“Io finora non ho visto nessun bivio,” si limitò a osservare la moracciona, gli occhi fissi alla strada. Pareva che il mondo intero fosse stato cancellato da una gigantesca gomma color latte.
Mo vai più piano, no? Che non si vede gnente e rischiamo di prendere un fosso.”
“Se vado ancora più piano, mi fermo.”
“Ecco, appunto: accosta e vediamo di capire a che punto siamo.”
Vediamo era decisamente una parola grossa.
L’appuntamento col Beppe Mondaini della Cooperativa Muratori & Restauri era stato fissato per le quindici e trenta alla villa, a patto di riuscire a rintracciare la Cà D’Anime in quella coltre che non s’era mai vista così spessa, una lastra fulgente che tagliava la strada appena un metro più in là.
Dopo avere sfiancato il consulente Passerini sulla questione prezzo, l’Adalgisa Buganè s’era decisa a concludere l’affare per diciottomila euro. Il titolare Draghetti non s’era fatto trovare né al telefono né in agenzia, e quanto al fantomatico conte D’Anime, la maga era arrivata persino a dubitare che esistesse sul serio. L’unica cosa certa era l’assegno di caparra che di lì a poche ore avrebbe consegnato all’Immobiliare Reno, ammesso di riuscire ad arrivare in tempo per la firma del compromesso.
Col Mondaini, la Gisella era stata irremovibile: “La avverto: la villa è d’epoca e intendo mantenerla il più possibile conforme allo stato originale”. Il che significava spendere il necessario per evitare che la Cà D’Anime crollasse e chiudere i cordoni della borsa su tutto il resto. “Se vogliamo organizzare un centro come si deve, occorrerà mantenere un ambiente adatto. Altrimenti le entità potrebbero avvertire delle interferenze e non riusciremo a stabilire un contatto.”
Il Mondaini non s’era lasciato impressionare: “Se l’immobile è d’epoca, bisognerà sentire la Soprintendenza. Poi occorre valutare la stabilità, visto che c’è un’ordinanza che dichiara il rischio di crollo. Di lavoro da fare ce ne sarà parecchio.”
“Quella villa sta su da più di trecento anni, qualcosa vorrà ben dire,” aveva replicato la Gisella, testarda.
“Anche il casolare di mio cognato stava là da ottant’anni, ma era così marcio che appena abbiamo montato l’impalcatura è venuto giù tutto e addio agriturismo.” 
La Gisella aveva fretta. Sicuramente, a quell’ora il titolare della Muratori & Restauri era già sul posto e soltanto guardando la villa da lontano si era fatto un’idea di quanto avrebbe potuto spremerle dalle tasche.
“Ma siamo passate di qua, l’altra volta? Io proprio non ricordo.” Ormai una cosa sola col volante dell’auto, la moracciona era in evidente difficoltà. Dopo il bivio che indicava la direzione per I Grilli, la strada aveva iniziato a stringersi sempre più, fino a ridursi a un viottolo tra i poderi. Come se non bastasse, oltre alla nebbia stava calando anche il buio.
“Sei sicura che questa sia la direzione giusta?” riprese la moracciona, al secolo Moira Fabbri. “Ho l’impressione che non stiamo andando proprio da nessuna parte.”
 “Che ora abbiamo fatto?”  domandò a quel punto la maga. “Quello dei restauri sarà già là da un pezzo.” Non aveva neppure finito di dirlo che l’auto iniziò a sbandare in maniera sempre più incontrollabile. La moracciona al volante fece appena in tempo ad accostare. “Abbiamo forato,” disse in un soffio, non appena riuscì a riprendersi dallo spavento. “Ci mancava solo questo. E adesso che facciamo?”
Scesero entrambe dall’auto, ma tra il buio che in campagna è fitto sul serio, la nebbia ancora più fitta, il freddo che pungeva e l’inesperienza, fu già molto se riuscirono a capire qual era la gomma a terra. A quel punto, non trovarono niente di meglio da fare che mettersi a litigare.
“Chiama qualcuno, no? Prendi su quel telefono e chiama un carro attrezzi!” In men che non si dica, la voce della Gisella aveva già raggiunto i toni perforanti che usava in televisione. Una comitiva di cornacchie sciamò da un castagno, visibilmente infastidita.
“Il telefono qui non prende, e poi non so nemmeno dove siamo andate a finire! Cosa ci dico, a quelli dell’ACI?”
“Siamo sulla strada per la Cà D’Anime!” s’infuriò una volta di più la Gisella, strappando con un’unghiata il cellulare dalle mani dell’assistente. “Io sono socia ACI, il carro attrezzi me lo devono gratis!”
Fu in quel momento che entrambe notarono un bagliore poco lontano, molto probabilmente una finestra accesa. “Là c’è qualcuno, andiamo,” decise la Gisella, mettendosi subito in marcia in direzione di quel quadrato di luce. “Sarà una casa di contadini. Quelli sanno far tutto, cambiare una gomma, per loro, è roba da ridere.”
Alla Moira Fabbri non restò altro che trotterellare accanto alla Gisa, perché fra le altre cose aveva paura del buio e a rimanere là a vegliare l’auto in panne non ci pensava proprio.
Avevano percorso soltanto pochi metri quando la luce si spense. La campagna piombò in un’oscurità così impenetrabile che persino le voci si udivano a stento.
“E adesso che facciamo?” tremò la moracciona, afferrando l’unico appiglio che sentiva vicino, ossia il braccio dell’Adalgisa.
Adès si va avanti sempre dritto. Ora che ci penso, quella dovrebbe essere proprio la trattoria dei Grilli.”
“Ma secondo te, a quest’ora, un locale può avere tutte le luci spente?”
“Sarà giorno di chiusura”, tirò dritto la maga, imperturbabile finché non centrò una pozzanghera e sprofondò con tacchi, caviglie e almeno cinque centimetri di calze. Per cavarsene fuori, si aggrappò alla Moira finendo per trascinarla nella stessa acqua fangosa.
Mo che fai, mo che schifo!” Nel tentativo di svincolarsi, la moracciona perse una scarpa e non riuscì più a recuperarla. Per un lunghissimo istante le due donne si guardarono, sperimentando la stessa, stranissima sensazione: pareva che dal fondo una mano le stesse afferrando, stringendo le caviglie e tirandole verso il basso.    
“Non lasciamoci suggestionare,” brontolò l’Adalgisa, con un tono che voleva essere combattivo e invece uscì incerto. “È solo una pozzanghera.” Uscì scalciando e si tirò dietro la moracciona, che prese a seguirla a zoppo galletto.   
Di lì a poco si fermarono di nuovo. Da una direzione ch’era impossibile stabilire proveniva un tintinnio prolungato, qualcosa che ricordava lo scampanellio di un passaggio a livello.  
Fu un attimo e dal buio spuntarono due fari che puntavano decisamente verso di loro, diventando ogni secondo più grandi e fendendo la nebbia con fasci di una fosforescenza spettrale.
Un fischio perforante cancellò il tintinnio che ancora rimaneva sospeso nell’aria, proveniente da chissà dove.
“Ma il treno passa di qua?” fu l’ultima cosa che riuscì a dire la Moira Fabbri. Di fronte a lei, la faccia dell’Adalgisa spiccava illuminata come dai riflettori dello studio televisivo, con l’unica differenza che stavolta la maga se ne stava impalata e solo il labbro inferiore continuava a tremare, senza lasciare uscire nemmeno una parola.

 
******

 
Presso gli uffici dell’Immobiliare Reno, Massimo Passerini era concentratissimo nell’impresa di scartare sottobanco un vassoio di pasticcini alle mandorle, di quelli con la ciliegia candita nel mezzo. La seconda mossa consisteva nel cacciarseli in bocca cercando di non farsi notare dai presenti, che poi erano la collega Granella della scrivania a fianco e una coppia di piccioncini ferma sul marciapiedi, intenta a consultare gli avvisi di affittasi esposti in vetrina.
China sulle carte da compilare, alcune delle quali pendevano dal tavolo cercando una via di fuga verso il cestino, la Granella stava ultimando le pratiche per la cessione di un capannone a un’impresa di pompe funebri. Il volantino pubblicitario della ditta, “il più tardi possibile… ma sempre con Scanabissi”, era la cosa più sinistra che il Passerini avesse mai visto, dopo la vecchia della Cà D’Anime. La collega Granella ci vedeva pochissimo, rifiutava gli occhiali per ragioni di estetica e compensava infilando il lungo naso dentro ai fascicoli, al punto che pareva che li stesse sfogliando proprio in punta di becco.   
Con la mano infilata dentro al cassetto e l’aria di chi pensa a tutt’altro, Massimo Passerini riuscì a grattare fuori altri tre pasticcini, gli ultimi con la ciliegia color verde: rispetto a quelli rossi non c’era praticamente nessuna differenza, in entrambi i casi la pasta si appiccicava ai denti e là restava a sciogliersi, diffondendo una gratificante dolcezza amarognola. Ma per il Passerini il verde possedeva il valore aggiunto della stranezza e di quelle piccole eccentricità lui ci viveva: canditi verde mare, spirali di liquirizia da srotolare coi denti, biscotti da aprire in due per leccare la striscia di vaniglia all’interno.
Lanciò un’occhiata al cassetto, constatando che anche le ciliegine rosse ormai scarseggiavano e intanto dei clienti non s’era fatto vivo nessuno. Non erano arrivati né la maga Gisella e neppure il conte Filippetto D’Anime, di professione burattinaio nonché proprietario dell’augusta dimora in vendita. 
L’ufficio galleggiava in una bolla tiepida mentre fuori la pioggia imperversava a tratti più fitta, a tratti come semplice umidità di novembre.
Sulla scrivania del Ninèn giacevano due copie del preliminare di vendita per la Cà D’Anime, uscite di fresco dall’ufficio del notaio Porsei. Alcune penne col logo dell’Immobiliare erano ordinatamente disposte accanto alla cartellina, già pronte per la firma.
Sul marciapiedi continuavano a sfilare figure chiuse dentro agli impermeabili, chine sotto agli ombrelli, fradice sulle bici. Di tanto in tanto qualcuno procedeva ingobbito in direzione dell’agenzia salvo fermarsi sotto alla pensilina, ad attendere l’autobus con le sporte della spesa, la borsa da lavoro, la sacca della palestra. Per quanto il Passerini si ostinasse a tenere d’occhio la strada, nessuno dei passanti somigliava alla Gisella e alla sua assistente coi cavatappi.
Quanto al conte D’Anime, il Passerini non sapeva neppure che faccia avesse.
Si erano sentiti solo un paio di volte al telefono: la prima quando il maestro aveva accettato l’offerta, la seconda per stabilire la data del compromesso. Un rapido controllo agli appuntamenti in agenda confermò che l’incontro era stato fissato per le diciotto e trenta di quella sera piovosa in cui, sicuramente, anche i fantèsmi al paese se ne stavano rintanati al calduccio.
Forse era un fantèsma anche il conte Filippetto.
Strani presentimenti cominciavano a vorticare nella testa del Passerini. Non poteva fare a meno di pensare che il conte Filippetto, la medium di Tele Savena e l’intera faccenda fossero solo un parto della sua immaginazione.
In cerca di conforto, interpellò la collega: “Non è che non vengono perché oggi piove?”
“Prova a telefonare,” fu la risposta che emerse dall’antro della Granella. Immersa nelle scartoffie, una matita attorcigliata tra le ciocche un po’ nere e un po’ grigie, la collega pareva più che mai un uccello arruffato, col becco a caccia di briciole tra le carte.
“Li ho chiamati un sacco di volte e tra poco si chiude. Che faccio, aspetto ancora?”
“Ci avranno ripensato. Magari hanno voluto concludere tra di loro, senza mettere di mezzo l’agenzia. A volte succede.”
Questa era sicuramente una possibilità.
Il Passerini provò a ricontattare il conte, ma la chiamata correva sulla linea senza che nessuno si decidesse a rispondere. Al numero della maga, dopo un paio di squilli scattava una voce preregistrata: messaggio gratuito, l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
Il pensiero della vecchia sul ballatoio, delle voci dell’Anguilla e del Secchio che lo inseguivano per i quattro cantoni della Cà D’Anime continuava a riaffacciarsi a intervalli. Il fruscio della pioggia che veniva da fuori gli dava l’impressione che di nuovo la villa si fosse sollevata su zampette di ragno e si stesse aggirando per le vie del quartiere.
Ancora un poco e sarebbe arrivata fino a lui.
“Esco a prendere qualcosa per cena,” annunciò il Passerini, non riuscendo più a sopportare l’attesa.  
“Non hai già cenato abbastanza?” La Granella sollevò appena un’occhiata dagli appunti del commendator Scanabissi, esequie e arte funeraria dal 1940. “E poi non posso mica star qui al posto tuo. Stasera ho un appuntamento.”
Come no. Figurarsi. 
In un attimo il Passerini era già sulla porta, le falde del cappotto che prendevano il volo investite da una raffica di pioggia e umidità. In men che non si dica raggiunse il kebabbaro all’angolo e ordinò due pizze da asporto con funghi, carciofini e un’altra decina di ingredienti a casaccio.
Era il primo cliente della serata.
Le due donne velate che gestivano il locale assieme a un monumentale pakistano in grembiule, marito o padre che fosse, presero nota fissandolo appena con grandi occhi bordati di kajal.  
Avvolto dagli odori di spezie e carne arrosto, il Passerini si rilassò. Gli piaceva quel posto, col pavimento appiccicoso come la cucina di casa sua e le pareti decorate da manifesti che invitavano a viaggiare in paesi lontani. Sulla mensola c’erano biglietti da visita, studenti che insegnavano a suonare la chitarra, ripetizioni e dog sitter. C’erano vecchie riviste e copie di quotidiani di almeno tre giorni prima. Per il Passerini, che non era mai al corrente di niente, quei fogli stropicciati rappresentavano pur sempre una novità. 
Mentre era intento a sfogliare la Gazzetta dello Sport – ultimamente non s’interessava più nemmeno al Bologna – un vecchio televisore mandava in onda le ultime notizie della giornata. Le due velate presidiavano la cassa come statue di sale, il kebabbaro strapazzava l’impasto, schizzava cucchiaiate di pomodoro e infornava.
Quella della tivù era l’unica voce presente nel locale.
Dopo dieci minuti di pubblicità a base di panettoni e alberi decorati, anche se mancava più di un mese a Natale, il telegiornale riprese. Fu a quel punto che il Passerini lasciò perdere la Gazzetta e drizzò decisamente le orecchie.  
Il servizio riguardava uno strano incidente avvenuto al paese in località I Grilli, a meno di un chilometro dalla Cà D’Anime.
“Sciagura in campagna, due morti su una linea ferroviaria da tempo inutilizzata,” recitavano i titoli in sovraimpressione. In primo piano uno del posto, ripreso al limitare di una stradicciola, continuava a ripetere che era roba da matti, perché lungo quel viottolo c’era sì un binario, o meglio c’era stato in tempo di guerra, ma poi la ferrovia era stata deviata e i campi avevano ricoperto ogni cosa.
Secondo Trenitalia, rappresentata da un tizio che pareva appena ripescato dal fiume, non risultava che la linea fosse ancora operativa. Tuttavia i primi rilievi parlavano chiaro: un mezzo a dir poco pesante aveva investito la famosa medium di Tele Savena, tale Adalgisa Buganè, una certa Moira Fabbri e la loro Punto color argento, tranciandole in pezzettini così precisi che neppure col tritacarne si poteva far meglio.
Quelli dell’ambulanza avevano continuato a raccogliere i resti arrivando fino al viale che conduceva alla Cà D’Anime. La fila dei cipressi s’intravedeva cupa e nebbiosa sullo sfondo.  
Mentre le riprese dei campi in panoramica sfilavano davanti agli occhi del Passerini, la sua faccia scoloriva nella stessa tinta grigio topo del tavolino.
Una delle velate, sopraggiunta con i cartoni delle pizze e un forte aroma di curry, si premurò di chiedere se andava tutto bene.
“Devo telefonare,” disse il Ninèn, in un soffio. La donna posò i cartoni e si defilò in fretta, richiamata dietro al banco dal padre o marito.
Il Passerini chiamò in ufficio, dove la collega Granella confermò che non s’era fatto vivo nessuno, che doveva scappare perché aveva un impegno urgente e che non era giusto che toccasse sempre a lei passare lo straccio prima della chiusura.
Alla televisione, le notizie sull’incidente avevano ceduto il passo a un servizio sulle località sciistiche più in voga. Baite e paesaggi innevati, turisti sulle sdraio con le facce cotte dal sole. Il Passerini raccolse i cartoni delle pizze, si crogiolò nel tepore che gli scaldava le mani e finalmente si decise a uscire dal locale.
Fuori aveva smesso di piovere e le strade si scrollavano la gobba come i cani.
L’idea di tornare a casa, dove lo attendevano soltanto i suoi pensieri, gli provocò un senso di smarrimento. Trovò rifugio nell’auto, uno spazio ridotto dove gli incubi non potevano starci tutti o almeno si sarebbero sentiti un po’ stretti. Accese la radio in cerca di altre notizie. Girovagò tra i canali finché s’imbatté in un programma che trasmetteva sigle di cartoni animati: munito di un sottofondo rassicurante, decise di dedicarsi per il momento alle pizze. Il primo morso provocò uno smottamento di carciofini, peperoni e pomodoro che traboccò sul cappotto, rimbalzò sui calzoni e finì la sua corsa in parte sulle scarpe, in parte sul tappetino. E questi sono cinquanta euro di lavasecco, pensò il Passerini in fondo contento, perché un normale contrattempo era quello che ci voleva per tenere a bada tutto il resto.   
Stava ancora frugando in cerca di un fazzoletto quando da una tasca non meglio precisata partì la colonna sonora di Suspiria, che in un momento di puro autolesionismo aveva scelto come suoneria del telefono.
 Per un attimo ebbe il timore che a chiamare fosse la maga Gisella dall’altro mondo o magari l’Anguilla, in veste di improvvisato macchinista di un treno inesistente. Invece era il Draghetti, e guai se il gran capo avesse saputo che il Passerini aveva rubricato il suo numero alla voce Strazzamaroni.
“Allora, Massimo, abbiamo concluso? Siamo riusciti a rifilare la bicocca?”
In sottofondo si udiva un brusio di traffico godereccio, con scoppi di risate e folate di musica da qualche locale. Per riuscire a farsi sentire, il Draghetti era costretto a urlare.
“Ciao, Gianni. Diciamo che siamo ancora in fase di trattative.”
Altri suoni di festa, risate femminile e ritmi orientaleggianti. Non si capiva se era la voce del Draghetti a barcollare in preda a una sbronza coi fiocchi o se si trattava di un problema di linea.
“Massimo, ci sei? Qui a Phuket devi venirci anche tu, prima o poi. È il paradiso in terra, le donne praticamente ti corrono dietro.”
“Immagino,” rispose il Passerini a denti stretti. Nel cartone, le pizze si stavano raffreddando.
“Comunque ho un altro interessato alla Cà D’Anime, a cui darei assolutamente la precedenza. Lascia perdere l’Adalgisa Busoni e segnati questo nome,” e qui un’interferenza cancellò le parole insieme al sottofondo da notte selvaggia, “… aspettati che venga a trovarti in questi giorni.”
Perfetto, pensò il Passerini. Le parole gli uscirono dalla bocca da sole. “Stasera aspettavo i clienti per la firma del compromesso ma c’è stato un contrattempo,” disse tutto d’un fiato. “Non so cosa sia successo di preciso, fatto sta che l’Adalgisa Buganè è finita sotto a un treno.”
Detta così sembrava una barzelletta e forse lo era davvero. Al telegiornale avevano parlato di un binario e di un mezzo pesante: le somme le aveva tirate la sua immaginazione, che come al solito galoppava per conto suo. 
Restò con il telefono appiccicato all’orecchio, in attesa di qualche reazione da parte del gran capo. Gli ci volle un pezzo per rendersi conto che la linea era caduta, molto probabilmente insieme al Draghetti, travolto dall’energia delle sue notti thailandesi.
Un ticchettio di gocce sul parabrezza lo avvertì che stava ricominciando a piovere.
Accese una sigaretta e mise in moto il pandino, che rispose con un colpo di tosse e un ronfare sornione.
Se non altro, aveva un obiettivo a breve termine: riscaldare le pizze nel microonde, trascinare la solita poltrona in cucina e il sonno, prima o poi, sarebbe arrivato.    
In sottofondo, la radio mandava in onda la sigla di un vecchio cartone della sua infanzia: …E chi li vede strilla o mamma mia! Gambe in spalla e vola via!

 
******

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Capitolo 3
*** Fantèsmi e buratèn ***


"Parevami di muovere in un mondo di fantasmi
e di sentir me stesso l’ombra di un sogno.”
(Alfred Tennyson)

 
 
3. Fantèsmi e buratèn

 
La facciata della villa mostrava le finestre contornate di rosso con le persiane in tinta tutte ugualmente chiuse, anche all’ultimo piano. Le assi inchiodate per ordine del Comune erano al loro posto e almeno in quel momento nessun occhio maligno faceva capolino dagli scuri. Il Passerini cavò dalla tasca la foto che aveva esaminato la sera prima: la prima finestra in alto era effettivamente priva di sbarramenti, ma la bolla di luce in cui gli era sembrato di scorgere un volto non era niente di più di un semplice riverbero, catturato per caso dalla macchina fotografica. Forse una goccia d’acqua o un semplice raggio di sole avevano creato quell’effetto curioso. Ci voleva davvero parecchia fantasia per vederci una vecchia.
Eppure io la foto l’ho guardata più volte, persino con la lente d’ingrandimento.
La breccia nella grata del piano terra c’era ancora. Stavolta, però, il Ninèn disponeva della chiave e poteva entrare a curiosare nella Cà D’Anime senza correre il rischio di finire allo spiedo.
Non sapeva neppure da dove aveva tirato fuori il coraggio, fatto sta che il programma della giornata era degno del miglior cuor di leone: sopralluogo alla villa e sul luogo dell’incidente, a seguire appuntamento in serata col conte Filippetto al paese vicino, dove sarebbe andato in scena lo spettacolo Fasulèn e musica di viùlen, folklore bolognese e leggende delle campagne. 
Di fȏl di fantèsmi il signor conte doveva conoscerne parecchie, a cominciare da quelle di casa sua. Per una volta che era riuscito a racimolare un po’ di fegato, Massimo Passerini era fermamente intenzionato ad approfittarne. Voleva sapere tutto, a cominciare dalla vecchia sul ballatoio per finire con quel binario resuscitato dal nulla, appena in tempo per far transitare qualcosa che aveva spalmato la maga Gisella come se fosse Nutella su una fetta di pane.
Munito di registratore con cassetta, che risaliva ai tempi dei suoi quattordici anni trascorsi a inseguire le hit parade alla radio, torcia rubata al don durante i campi scout e macchina fotografica, il Passerini perlustrò il piano terra in cerca di qualche indizio della presenza dei fantèsmi.  
L’atmosfera della villa era più squallida che sinistra, coi mucchi di calcinacci spazzati ai piedi dei muri in una parvenza d’ordine e il pavimento chiazzato di erbacce e di muffa. L’odore del fiume arrivava fin là e appiccicava addosso un tanfo dolciastro.
Nella sala affrescata, la ninfa campestre era regolarmente voltata di profilo ma accanto alla testa di capro c’era un altro scarabocchio realizzato con lo spray, anzi ce n’erano due: una figura più larga che lunga montata sui tacchi a spillo e una più smilza, con una testa di ricci così fulminati che neanche a infilare due dita in una presa sarebbero usciti uguale. Entrambe erano state cancellate con una croce.
Più sotto, c’era una scritta: Gambe in spalla e vola via.
Prima che le ginocchia cominciassero a sciogliersi, il Passerini si ricordò che doveva essere professionale: fotografò lo schizzo da tutte le angolazioni e si sforzò di cavar fuori da chissà dove una spiegazione logica. Senza voler tirare in ballo i fantèsmi, era evidente che qualcun altro aveva accesso alla villa. Qualcuno che durante la visita della maga Gisella ce l’aveva messa tutta per provare a spaventarli.
Però le voci dell’Anguilla e del Secchio erano proprio quelle e le ho sentite soltanto io.  
Di più: quel graffito realizzato con un’inquietante dovizia di dettagli era l’esatto resoconto dei fatti accaduti la sera prima, nei campi attorno alla villa.
Anche la frase gli ricordava qualcosa, ma sul momento il Ninèn era troppo impegnato a mantenere l’autocontrollo – ossia a evitare di farsela sotto – per ragionarci su.
Forse nella campagna si aggirava un maniaco, qualche pazzo furioso. Ecco cosa succede a non leggere mai i giornali: magari al paese c’è un killer a piede libero e tu, come capita ai fessi nei film dell’orrore, gli arrivi giusto in casa senza rendertene conto.
 Ormai era in ballo e quello scampolo di coraggio che si sentiva addosso non sarebbe tornato a fargli visita tanto presto. Fu così che il Ninèn decise di recitare la parte del fessacchiotto da film horror fino in fondo e prese la via delle scale, senza pensare che il suo personaggio era quello che di solito incappa in una morte orrenda subito al primo tempo.
La scala si presentava identica all’ultima volta che era stato lì: saliva lungo i muri di una sorta di pozzo scuro, con un corrimano tenuto su da festoni di ragnatele e di polvere. Il primo passo fu accompagnato da uno scricchiolio, ma di lì in poi il Passerini riuscì a salire senza intoppi. Per quanto scalcinati i gradini erano di pietra, roba solida come si faceva una volta.
Giunto a metà della rampa, guardò in su.
Dalle brecce del tetto scendevano fasci di luce cinerea. Tutt’intorno un silenzio che forse era rassicurante e forse invece no.
Vè ragaz, l’è turnè il Ninèn!” squittì a un certo punto una voce.
Soccia, è ingrassato ancora.” Ed ecco la seconda, puntuale come un’eco.
“Am pèr una murtadela.”[1]
Seguì il solito scroscio impertinente di risate.
Solo per un pelo il Ninèn resistette all’impulso di afferrare il corrimano e procurarsi un volo di almeno tre metri in quel pozzo di cui, a guardar giù, non si vedeva il fondo.  
“Qui è proprietà privata!” ruggì all’indirizzo dell’anonimo occupante abusivo della villa, maniaco, serial killer o semplice buontempone. “C’è divieto di accesso, chiamo i carabinieri!”
“E dai, Ninèn, non riconosci i vecchi amici? Siamo sempre noi, il Secchio e l’Anguilla…”  
Tenendosi aggrappato a una sporgenza del muro, il Passerini si voltò verso la direzione da cui provenivano le voci, senza naturalmente vedere un bel niente. “Dove diavolo siete?”
Mo siamo qua con te a farti compagnia. T’è brisa cuntènt?”[2]
Il Passerini decise di stare al gioco. Sedette su un gradino, provò ad azionare il registratore che s’ingarbugliò subito, si stropicciò le mani com’era solito fare quando aveva di fronte qualche cliente particolarmente rognoso.
“Bene, ràgaz. Facciamo pure due chiacchiere come ai bei vecchi tempi.”
Forse sono ancora nel mio letto e sto sognando. Quelle due pizze di ieri devono essermi rimaste sullo stomaco.
“Solo due pizze per cena?” rise l’Anguilla. “Cos’è, ti sei messo a dieta?”
“Anzitutto vorrei sapere cosa ci fate qui e soprattutto cosa significa quel disegno che ho trovato di sotto,” riprese il Ninèn, andando subito al punto.
Vorrei anche sapere perché soltanto io riesco a sentirvi, ma questo potrà dirmelo senz’altro uno bravo.
“Ormai nessuno ci crede più, ai fantèsmi. Te invece ci credi, è per questo che ci senti,” disse il Semprini e sia che si trattasse di un’allucinazione o di un incubo da cattiva digestione, al Ninèn parve di cogliere una punta di tristezza nella sua voce.
“Anche la maga Gisella ci credeva, se è per questo.”
A tal dègg!”[3] intervenne l’Anguilla. “Quella pensava solo ai baiuc ed era convinta di farne a pacchi portando qui il pubblico e la televisiàn per le sue sedute spiritiche. Ma la villa non è un teàter e noi non siamo mica dei buratèn.”
“Ma in quanti siete, qua?” chiese il Ninèn, circospetto.
“Eh, una volta di fantasmi ce n’erano tanti. Poi la gente ha smesso di crederci e molti sono scomparsi. Anche gli spettri muoiono, se non lo sai. Se ne vanno quando non c’è più nessuno che li ricorda, così adès siamo rimasti in quattro gatti.” Pareva quasi di vedere l’Anguilla contare sulle dita. “È rimasta la Fonsa, la vecchia burlona che tu conosci bene. Il violinista è un pezzo che non si sente più. E poi ci siamo noi.” 
“Ci sarebbe anche il Punghèn, quello del busso,” aggiunse il Secchio. “Ma lui preferisce andarsene in giro col camion a far scherzi alla gente che non gli piace. Quella roba sul muro l’ha fatta lui, eh? Io avevo nove in disegno.”
“Noi con quella faccenda non c’entriamo,” ci tenne a dire l’Anguilla. “Noi siamo tuoi amici.”
Il Ninèn accese due sigarette di seguito, di cui la prima dalla parte del filtro. L’odore di bruciaticcio restò a lungo sospeso in quell’atmosfera immobile e fuori dal tempo.  
“Andiamo, ràgaz, mi spiace ma la Cà D’Anime è in vendita e il sottoscritto ha una mucchia di bollette da pagare, oltre all’affitto. Là fuori il mondo va avanti e mica posso campare d’aria come voialtri.”
 “Mo dove vuoi che vadano dei poveri fantèsmi senza un tetto sulla testa? Noi siamo morti qua e qua vogliamo restare.”
“I morti dovrebbero starsene a cuccia nel camposanto, mica andarsene in giro a spaventare i cristiani. E poi provate un poco a mettervi nei miei panni: sono almeno sei mesi che non concludo un affare, giro per i quartieri cercando case da vendere e accompagno i clienti, ma finché non si va a contratto io non becco una lira. Insomma, da buoni amici potreste ben darmi una mano.”
Non ci posso credere. Sto parlando di lavoro con degli spettri, ovvero con qualcosa che in teoria non esiste. Ed è persino più difficile che trattare con la buonanima dell’Adalgisa Buganè.   
“A noi quella specie di maga non piaceva per gnente. Dico bene, Secchio?”
“Io dico che il Ninèn può vendere se gli servono i baiuc, l’importante è che venda a qualcuno che ci sta bene. Altrimenti noi lo diciamo al Punghèn e poi ci pensa lui.”
“Ma dove lo trovo, io, uno che vi va bene? Ma vi rendete conto…”
“Hey, lassù! C’è nessuno?”
Una voce dal basso, vigorosa e decisa. Un rumore di passi talmente pesanti da far temere che il Punghèn fosse entrato con tutto il suo carico di orologi a cucù.
“Chi è, laggiù?” Il Passerini si sforzò di fare la voce grossa, riuscendo a cavar fuori solamente un acuto da topo spaventato. “Qui solo i clienti hanno diritto di entrare e solo accompagnati dal sottoscritto! Chiamo i carabinieri!”
“Chi ha detto che chiama?” ridacchiò il Secchio dal suo angolo di penombra. “Di’ su, Ninèn, perché non la comperi te, la villa? Tu che ne dici, Angui? Non è una buona idea?”
Soccia, sarebbe il massimo!”
Il parlottio dei fantasmi fu superato dalla voce dell’intruso: “Massimo Passerini è lei? La sua collega in ufficio mi ha riferito che potevo trovarla qui.”
Come uscito dall’interferenza sulla linea Phuket – Casalecchio, al pianterreno c’era il secondo papabile acquirente della Cà D’Anime contattato da Strazzamaroni in persona.
In men che non si dica il Ninèn recuperò torcia e registratore, borsa da ufficio e macchina fotografica. Svelto come la Fonsa sul ballatoio scese dallo scalone, rassettando giacca e cravatta e cercando di mettere insieme una faccia adatta alla circostanza.  
“Ero occupato a eseguire dei rilievi,” si giustificò con quella specie di armadio che si trovò di fronte appena girato l’angolo.  
“Non ce n’era bisogno,” tagliò corto due ante, stringendogli la mano con una morsa da scavatrice in funzione. “Come le avrà anticipato il Gianni, io sono interessato solo all’area edificabile. È mia intenzione buttare giù tutto e ricostruire dalle fondamenta. Palestra, centro massaggi e spa.”
Che ha detto?” Alle spalle del Ninèn si udì un bisbiglio da foglia secca che trema prima di cadere dall’albero.
“So che c’è un altro potenziale acquirente,” tirò dritto l’armadio, “ma io offro cinquantamila in contanti. Ho già provveduto a sottoscrivere la proposta, la troverà in ufficio sulla sua scrivania. Faccia presente alla proprietà che per quel che mi riguarda possiamo passare subito al rogito.”
Di ban so, Mastro Lindo, starai scherzando...” Questa volta a tremare era la voce del Secchio. “Ninèn, digli qualcosa. Digli che non si può.”
Potere, si poteva. A quanto risultava dalle visure allegate al dossier, il terreno era classificato come edificabile senza via di scampo. Lungo tutto il perimetro della Cà D’Anime, cipressi e palpastrèl compresi, si sarebbe potuto tirar su un grattacielo col beneplacito del Comune e fatti salvi i relativi permessi.  
Le ginocchia del Passerini cominciarono a vacillare come se gli si fossero materializzati davanti la vecchia senza gambe, un topo alla guida di un camion e la maga Gisella ridotta a sottiletta. In realtà, il motivo era un altro e per una volta tanto c’entrava poco o niente con la paura.
Cinquantamila in contanti significavano una provvigione da mille e una notte.
D’un tratto un vecchio sogno, quello di comperarsi un piccolo podere e vivere di quello che gli offriva la terra, era di nuovo là. Non ci aveva più pensato dai tempi dell’incidente ma quello era stato il suo sogno di ragazzo, quando aiutava il nonno a rompere le zolle nei giorni della semina e il vapore usciva dai solchi come se fosse il respiro del mondo.
“Un giorno, tutto questo sarà tuo,” gli ripeteva il vecchio Eleuterio, chino nell’orto a controllare i radicchi, a seminare a uno a uno i girasoli che a giugno diventavano più alti di lui. Nel frutteto, il Ninèn lo aiutava a mettere a dimora le piante giovani, i ciliegi che a novembre, nei giorni dei Morti, parevano stecchiti e poi ad aprile fiorivano in tutti i poderi, distese di petali rosa a perdita d’occhio.  
Per anni aveva vissuto al ritmo delle stagioni finché l’incidente non lo aveva catapultato in città, il paese era divenuto il luogo dei cattivi ricordi e il casolare del nonno era stato venduto. “Per una pipa di tabacco,” aveva ripetuto fino all’ultimo giorno suo padre, morto di nostalgia pochi anni dopo. La madre del Passerini aveva tenuto duro finché suo figlio aveva trovato uno straccio di lavoro. Dopo di che, aveva seguito il marito in un paradiso che, molto probabilmente, aveva le stesse forme e gli odori della campagna.
“Ohi Ninèn ma che fai, dormi in piedi?” Da dietro, gli arrivò addirittura una spinta.
“Hai sentito che ha detto Braccio di Ferro, qui? Questo vuole buttare giù tutto con la ruspa. Digli qualcosa, no?” 
“Direi che si può fare,” riprese il Passerini quando riuscì a recuperare l’uso della parola, per di più con un piglio di cui fu il primo a stupirsi. “Stasera devo giusto incontrare il conte D’Anime e sarò lieto di sottoporgli la sua offerta.” Offrì una sigaretta all’armadio a due ante e accese la propria, stavolta con mano ferma.
“Ma questa è casa nostra! Noi siamo tuoi amici, andiamo, Ninèn!”
“Non sai che quando muore qualcuno agli altri spetta di vivere anche per lui?”
Di nuovo la voce dell’armadio a due ante surclassò il cicaleccio dei fantèsmi: “Non mi sono ancora presentato: Gianluigi Balotti della Fitness e benessere. Lei conoscerà sicuramente i nostri centri dedicati alle discipline del corpo.”
“Naturalmente,” mentì il Ninèn, accompagnando prudentemente due ante verso l’uscita.
Di fatto, l’unica palestra che avesse mai frequentato, peraltro con risultati discutibili, era quella della scuola media del paese. Alle superiori, quando pesava già più di novanta chili, era riuscito a farsi esonerare per via dell’incidente. Come dire che era scampato alla gogna delle flessioni a terra e delle gare di corsa grazie alle ancor più discutibili capacità di guidatore del Punghèn. Forse qualcosa ai fantèsmi la doveva davvero.
“Ninèn, perché non ci ascolti? Che c’è, ti sei ismito?”
“Allora conto su di lei, Passerini. Quanto all’altro acquirente, immagino siate ancora in fase di trattative…”
“Comprala te, Ninèn!”
“Di questo non deve preoccuparsi, signor Balotti,” assicurò il Passerini, chiudendosi alle spalle la porta che separava il mondo della Cà D’Anime da quello di fuori e bloccandola col lucchetto. “Il tempo di espletare le pratiche necessarie e la Cà D’Anime sarà sua.”

 
******

 
“L’avventura più strana del mondo, cari bambini e cari adulteri, è quella a cui assisterete proprio adès qui al teàter di buratèn, dove io, Fasulèn, squattrinato e senza un baiùc” – al Passerini venne subito in mente qualcuno – “andrò alla Casa delle Anime armato come si conviene,” e qui il burattino menò due colpi in aria col suo inseparabile bastone, per poi abbassare la voce fino quasi a un sussurro. “Là i fantèsmi suonano musica di viùlèn e fanno festa tutta la notte. Voi ci credete ai fantèsmi?”
Dal pubblico accalcato sulla piazzetta si levarono gridolini entusiasti: “No che non ci crediamo!” strillò una bimbetta con un gigantesco pompon sulla cuffia.
“I fantasmi non esistono!” saltò su un altro cinno. Era così piccino che dalla seggiola non arrivava a toccare terra.  
“E invece, in questa storia i fantèsmi ci sono eccome,” replicò Fasulèn con aria misteriosa, mentre le luci si abbassavano per creare la giusta atmosfera. “E ora, signore e signori, seguitemi: attraverseremo insieme il Bosco degli Spaventi!”
Detto questo, il nostro prese a dirigersi su un sentiero decorato di muschio come quello dei presepi, sopra al quale fluttuavano palpastrèl di pannolenci. Più in alto, un fascio di luce illuminò una casa con le cornici rosse, che assomigliava in tutto e per tutto alla Cà D’Anime. Seduto sotto all’insegna Cesira pasta fresca, accanto a nonni e nipoti stretti come allo stadio quando gioca il Bologna, il Passerini allungò il collo: di nuovo catturato dai segreti di quella villa che non aveva mai smesso di affascinarlo, da quando era anche lui un cinno che scorrazzava in bicicletta per la campagna.   
In un certo senso, ci aveva azzeccato: il conte Filippetto, che da dietro alle quinte tirava le file dell’intero spettacolo, era un pozzo di scienza in materia di fȏl di fantèsmi. Sulla fama sinistra della Cà D’Anime aveva costruito l’intera messinscena, sicché il Ninèn si vide sfilare davanti al naso, uno dopo l’altro, tutti i protagonisti della sua infanzia: c’era la Fonsa, che accolse Fasulèn volando a mezz’aria e beccandosi in cambio una sonora bastonata sulla groppa. C’era il conte violinista, che volteggiava col suo strumento e una corda al collo, la cui estremità si perdeva tra i drappeggi del sipario. C’era la ninfa prigioniera dell’affresco, e quando Fasulèn riuscì a liberarla pronunciando la parola magica tajadèl, in scena apparve una tavolata di tagliatelle come se nelle sale della Cà D’Anime fossero all’opera decine di sfogline. Le nozze tra il violinista e la ninfa furono celebrate con gran pompa, musica di viulèn e pastasciutta per tutti. Dopo di che il sipario calò cigolando.
Questa non la sapevo, si disse il Ninèn, preso in contropiede dai magici poteri delle tagliatelle al ragù ma soprattutto dalla storia d’amore tra la ninfa e il conte impiccato.
“Come mai ha deciso di vendere?” chiese più tardi al maestro buratinèr, che dopo lo spettacolo lo accolse nel furgoncino che fungeva da teatro, laboratorio e casa viaggiante di Filippetto D’Anime.
L’interno era interamente tappezzato da scaffali che ospitavano marionette di ogni genere, dalle dame in crinolina e guance di porcellana ai più semplici pupazzi di cartapesta. C’era il dutaur Balanzàn[4] con la sua toga nera e le scarpe con la fibbia, un grosso libro e la penna d’oca incollata alla mano di cartapesta. C’erano Fasulèn e poco più in là il violinista e la Fonsa, col grembiule che scendeva su gambe che non c’erano e un naso a punteruolo che al Passerini ricordò immediatamente la collega Granella.  
Sul tavolo da lavoro, attrezzi da falegname e barattoli di vernici, pennelli e una caffettiera che borbottava su un fornelletto.
“Vendere mi dispiace,” ammise il conte, frugando in uno scatolone e cavando fuori un paio di tazze spaiate. “Ma i baiuc per tenere in piedi la villa io proprio non li ho. Il tempo passa, così mi ritrovo nella necessità di affidarla a qualcuno.”
All’altro capo del tavolo, mentre il caffè sfrigolava più che venir su, Filippetto D’Anime si lasciò sprofondare su una sdraio con la scritta Bagno Marisa e un’aria così afflitta che al confronto il suo bisavolo impiccato pareva morto dal ridere.
Aspetta che ti dica che stai per incassare cinquantamila tondi, si disse il Passerini, e vedrai come cambi faccia.
“Sono tempi difficili anche per i buratèn, “riprese il conte D’Anime. “Gente che viene agli spettacoli ce n’è sempre meno. Al giorno d’oggi c’è il cinema, c’è la televisiàn. Io mi accontento di campare sulle antiche leggende che circondano la Cà D’Anime da quando è stata costruita. Posso solo sperare che chi comprerà la villa la tratterà con il riguardo che merita.”
Hai voglia, pensò il Ninèn e solo in quel momento gli prese al cuore una stretta. Come se Gianluigi Balotti detto due ante non gli avesse già detto che intendeva tirare giù tutto e il destino della Cà D’Anime gli apparisse dinanzi agli occhi soltanto allora.
Per un attimo sperò che il conte Filippetto non accettasse quella proposta che solo un matto da manicomio poteva rifiutare. Di ban so, ragazzuolo. Vuoi il tuo campicello o preferisci lavorare per Strazzamaroni e per gente come l’Adalgisa Buganè fino alla pensione?
Il ricordo della maga Gisella fece scattare un’improvvisa scintilla nella mente a dir poco confusa di Massimo Passerini, detto il Ninèn.
“Senta un po’, signor conte…”
“Mi chiami ben Filippetto,” lo interruppe il maestro.  
“Bene, signor Filippetto,” riprese il Passerini, un po’ disorientato da quel nome da marionetta in carne e ossa. “Noi l’altra settimana avevamo un appuntamento in agenzia. Lei aveva accettato la proposta di una nostra cliente e io l’attendevo per la firma del compromesso.” Solo per un istante, il Ninèn si guardò alle spalle. Aveva l’impressione che, dall’alto dei loro scaffali, i buratèn allungassero le orecchie in ascolto. La Fonsa e il violinista erano quelli che le allungavano più di tutti.
Filippetto D’Anime sgranò gli occhi e pareva anche lui uno dei suoi pupazzi.
“Ho aspettato per ore,” continuò il Passerini, sentendo crescere l’inquietudine. “Ma lei non si è fatto vivo.” E neppure l’Adalgisa Buganè, se è per questo.   
“Ci avrò ripensato,” rispose il maestro. Affondò nella sdraio e nell’ombra che iniziava ad avvolgere il furgone. Fuori già cominciava a calare la nebbia e i contorni della piazzetta sfumavano in un’atmosfera irreale.
“C’è dell’altro,” riprese il Passerini. “La sua acquirente, signora Buganè, è morta proprio quel pomeriggio, nei pressi della villa. Ne hanno parlato tutti i giornali.”
“Sicché all’appuntamento è mancata anche lei,” osservò il conte D’Anime, dal suo cono di tenebra. I burattini parvero annuire dai loro scaffali, la caffettiera lanciò un fischio da treno in corsa.
“È mancata, precisamente.”
“Che dire, giovanotto? Probabilmente, a loro la signora Busoni non andava granché a genio.”
Ormai il Passerini ne aveva sentite tante che non fece neppure finta di sbalordirsi.
“Buganè, signor conte. Adalgisa Buganè, quella che leggeva le carte in tivù.”
“Io non ho la tivù e non leggo i giornali.”
Trascorse un lungo attimo di silenzio, poi il Passerini riprese: “Comunque, ci sarebbe un altro cliente interessato all’affare. Gianluigi Balotti della catena Fitness e benessere è disposto a pagare cinquantamila euro per la Cà D’Anime. Ha già sottoscritto la proposta e vorrebbe andare al rogito il prima possibile.”
Il vecchio burattinaio si limitò a servire il caffè senza battere ciglio.
“Tenga però presente,” continuò il Passerini, “che il cliente in questione intende demolire l’intera struttura compreso il viale d’accesso, per costruire un centro massaggi e una palestra.”
Loro non saranno affatto contenti,” rispose il conte, scuotendo la testa.
“Direi che loro dovranno farsene una ragione. Cinquantamila euro, signor Filippetto, non uno di meno,” insistette il Passerini. Si palpò le tasche in cerca di accendino e pacchetto.
“Le dispiace se fumo?”
“Non se ne parla proprio.”
“Capisco, è un brutto vizio.”
“Intendevo l’affare,” riprese il buratinèr cavando fuori dall’ombra un cipiglio di roccia. “Dica pure al suo cliente che la Cà D’Anime non si tocca, neppure per tutto l’oro del mondo.”
Ecco la tua provvigione che prende il volo insieme al campicello. Bravo Ninèn!
Stavolta però, bravo non se l’era detto da solo: con la coda dell’occhio, gli era parso di vedere almeno due figurine fare una capriola. Si trovavano su uno scaffale che fino a quel momento non aveva notato e avevano le sembianze dell’Acciuga e del Secchio, uguali prezìs com’erano ai tempi spensierati dei loro quattordici anni. Forse da qualche parte c’era anche una terza marionetta in bicicletta che indossava una giacca rossa e blu del Bologna.
“Bene, io devo andare,” annunciò il Passerini con una gamba già fuori dal tavolo e il bisogno impellente di filar via di corsa. “Grazie per il caffè, signor Filippetto. Pensi alla mia proposta e mi faccia sapere.”
D’un tratto si ricordò di un particolare che l’aveva colpito durante lo spettacolo.
“Sa una cosa? Conoscevo la storia del violinista fantasma, ma non sapevo che ci fosse un legame con la donna ritratta giù al piano terra. Pensavo si trattasse di una semplice decorazione.”
“La pòvra Agostinella,” scosse il capo il maestro, levandosi con un cigolio dalla sdraio. “Era figlia dei contadini che curavano i campi attorno alla villa. Quando i padroni di allora scoprirono l’intrigo la fecero murare viva nella parete, o almeno così si dice. Forse, semplicemente, la cacciarono via. Secondo la leggenda, fu il mio bisavolo a dipingere la sua immagine su quel muro che li ormai li divideva per sempre. Dopo di che, il primo Filippo D’Anime diede di matto: suonava giorno e notte – e pare che suoni ancora – finché non s’impiccò al ballatoio dell’ultimo piano. Lo trovò l’Ildefonsa, la vecchia cameriera che se l’era cresciuto da quando era un cinno.”   
“Pensa te,” disse il Ninèn, scrutando la nebbia di fuori. “Con tutto il rispetto, signor conte: non sarebbe stato più logico tirare giù il muro invece di affrescarlo? Per liberare l’infelice donzella, voglio dire.”
“Sono fȏl di fantèsmi,” replicò il buratinèr, sibillino. “Storie di altri tempi che vanno e vengono come il vento, e ognuno le racconta un po’ come gli pare.”
Il Passerini si rinchiuse dentro al paltò, la sciarpa sopra le orecchie per affrontare l’umido che, non appena scese il gradino del furgone, lo avvolse con una pioggerella d’aghi che s’infilavano dappertutto. Il fiato usciva a sbuffi, poca luce baluginava dai lampioni e poi, naturalmente, non si vedeva a un metro.
Non aveva neppure superato quel metro, le gambe in spalla più per il freddo che per il turbamento, quando lo raggiunse la voce del conte:
Ragazuòl, mi sembri uno a posto. Perché la mia villa non te la pigli te?” 
“Perché io lavoro per l’agenzia. E forse di baiuc ne ho meno di lei,” rispose il Passerini a caso nella nebbia, le gambe bene in spalla e senza voltarsi indietro. A quel punto prese ad andare di corsa, prima che al conte D’Anime venisse in mente di offrirgli la casa dei fantèsmi, dei palpastrèl e degli amici a prezzo stracciato o addirittura gratis.  
 
******
 

[1] “Sembra una mortadella.”
[2] “Non sei contento?”
[3] “Te lo dico”, qui da intendersi nel senso di “come no!”
[4] Il dottor Balanzone, maschera tipica di Bologna.

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Capitolo 4
*** Al pázz di melcuntànt ***


“Il coraggio non mi manca.
È la paura che mi frega.”
(Totò)
 

4. Al pázz di melcuntànt[1]

 
Dopo l’incontro col Passerini alla Cà D’Anime, quella stessa sera Gianluigi Balotti il cui soprannome non era due ante bensì duecento libbre, in considerazione del peso massimo che era in grado di sollevare col bilanciere, aveva fatto un giro di telefonate, tra cui una al Draghetti che continuava a svernare felicemente in Thailandia.
“Allora Gianni, ho contattato quel pirla del tuo agente immobiliare, quel tale Passerotti. Dopo di che ho parlato col nostro amico in filiale, per il mutuo non c’è problema. Pensavo a un pagamento in più soluzioni, direi ventimila al rogito e il resto rateale.”
“Mi pare una buona idea. Non è il caso di dare troppo nell’occhio.” All’altro capo del mondo, la voce del Draghetti tradiva una lievissima punta d’ansia. “Biancheria da lavare, qua, ce n’è parecchia” rise con imbarazzo. “Puoi mandare a ritirarla quando vuoi.”
Un attimo di silenzio, tanto per far capire a quell’imbecille del Draghetti che non era il caso di fare lo spiritoso né di lasciarsi sfuggire troppe cose. Il Gianni afferrò al volo e riprese: “Sto trascorrendo un’ottima vacanza. Per qualsiasi necessità, rivolgiti al mio agente.”
Sbrigate le chiamate, duecento libbre raggiunse il paese vicino, non lontano dalla piazzola dove andava in scena lo spettacolo Fasulèn e musica di viulèn. Le viuzze laterali pullulavano di venditori di caldarroste, vasetti di miele e propoli, assaggi di formaggi di fossa della Romagna. Borse di stoffa e altri straccetti colorati erano esposti sul banchetto di un gruppo di fricchettoni, seduti in cerchio a cantare attorno a una chitarra.
Col suo incedere lento, che avrebbe fatto morire di crepacuore il pandino del Passerini, il Suv scivolò fino a una porta a vetri con il logo Fitness e Benessere
Pochi minuti dopo, duecento libbre era impegnato in una sessione di allenamenti pesanti, l’ideale per scaricare la tensione che quell’ennesimo investimento gli stava procurando. Per principio e per esperienza non si fidava di nessuno e tra tutti i tirapiedi di cui era costretto bene o male a servirsi, il meno affidabile era proprio il Gianni Draghetti, che considerava la Thailandia un paradiso di donnine più che una cassaforte dove il denaro – la biancheria, per intenderci – doveva riposare ben custodito come un uccelletto nel nido, nell’attesa di essere onestamente reinvestito.
Dopo i primi viaggi pagati in cui s’era divertito come un cinno alle giostre, stavolta c’era voluto del bello e del buono per convincere il Gianni ad accettare quella breve vacanza a Phuket. Duecento libbre gli aveva promesso che sarebbe stata l’ultima volta. Ma non sapeva, il Gianni, che quando si hanno le mani in pasta in certi affari, non ci si può licenziare da un giorno l’altro, perché nel frattempo si sono imparate troppe cose e l’unica bocca che tace è ovviamente quella del morto.
Disteso sulla panca, tutti i muscoli impegnati nello sforzo fino agli alluci, in quel momento Gianluigi Balotti era impegnato a sollevare proprio quel peso per cui era famoso in tutte le palestre della Fitness e dintorni. Attorno a lui solo il brusio della filodiffusione, il fiato grosso di qualcuno che correva sulla pedana e qualche grido di ragazzino entusiasta dalla vicina aula di karate. Non c’era neppure il trainer che avrebbe dovuto accompagnarlo nei movimenti e che il Balotti aveva spedito via con una sola, rapida alzata di sopracciglia.
Fu un attimo: come se accanto a lui si fosse materializzata una mano invisibile, l’attrezzo accusò un colpo, il Balotti perse la presa e circa centoventi chili di bilanciere gli caddero sul volto, con uno scricchiolio di ossa frantumate che precedette l’urlo, disumano e tremendo, del loro legittimo proprietario.
Nel trambusto che seguì e che radunò attorno all’infortunato facce sudate e attonite con l’asciugamano al collo, a stento riuscirono a farsi strada due marcantoni per cavare quel peso dal naso ormai completamente spianato del Balotti.
Ridotto a un mascherone di schegge e di sangue, duecento libbre andava avanti imperterrito a strillare, proprio come la sirena dell’ambulanza che, nel frattempo, a nessuno era venuto in mente di chiamare.
Come apparso dal nulla, si fece avanti a quel punto un tizio in casacca bianca, con la faccia da topolino di campagna. “State lontani,” ripeteva, facendosi strada tra lo sbigottimento della calca. “È tutto sotto controllo.” Forse rassicurato, forse solo stordito, duecento libbre non batté ciglio. Smise addirittura di urlare mentre i presenti, impietriti, assistevano a strane manovre di soccorso. Quel tizio tutto solo fasciò alla meglio il Balotti o meglio ciò che restava della sua faccia, lo caricò con l’aiuto dei due colossi sulla barella in dotazione alla palestra e da lì all’interno di un furgone ugualmente bianco.
Dopo di che il topo, il furgone e il Balotti sparirono silenziosi nella nebbia che era calata nel frattempo, senza altre parole né suono di sirena.
Quando i frequentatori della palestra riuscirono a riaversi, cominciarono anche a porsi delle domande.
“La sanità va sempre peggio,” attaccò un vecchietto del corso di ginnastica, che vantava all’attivo due protesi d’anca e numerosi ricoveri per infarti seriali. “Una volta giravano almeno in due in ambulanza e la barella mica la chiedevano in prestito.”
“Sarà la spending review. Però ai tagli dovrebbe esserci un limite,” osservò un donnone, fascia per il sudore tra i ricci candidi e calzamaglia attillata.
“Ma chi ha chiamato i soccorsi?” chiese il marcantonio più grosso, che poi era uno dei responsabili del posto.  
“Io no,” si tirò indietro il nonnetto plurinfartuato. “A momenti mi pigliava un azidant, e poi ho il telefonino nell’armadietto.”
“Io volevo chiamare, ma nel frattempo quello era già arrivato.”
“Chiunque sia stato, ha fatto bene,” intervenne un altro anziano pettoruto, ex militare in pensione. “Se aspettavamo voi…”
“Certo che qui la sicurezza è scadente. Presenterò un esposto in Comune e le mie rimostranze al proprietario della struttura,” s’intromise uno spilungone cachettico, di professione avvocato e consigliere di minoranza.
“Il proprietario è quello a cui è caduto il bilanciere sul naso,” tagliò corto il marcantonio gestore. “Ed è stato lui stesso a rifiutare il supporto del trainer.”
L’intera palestra sprofondò in un silenzio sgomento e almeno per quella sera venne decisa la chiusura anticipata.
Nel frattempo, a pochi chilometri da lì, una figura bianca si aggirava sull’argine, strascinando un involto che, a vederlo da lontano, dava l’impressione d’esser molto pesante. A quell’ora, nella tenuta del contadino Raggi in località I Grilli, non c’era anima viva a parte la nebbia. Era il periodo in cui i campi e i frutteti si lasciavano a riposo dopo le semine e ci si dedicava alle riparazioni degli attrezzi nei casolari, alle storie di fantèsmi davanti al caminetto per chi ancora ne ricordava qualcuna.
Il tonfo del fagotto che cadeva nel fiume, rompendo per un attimo l’immobilità quieta della caligine, non fu udito apparentemente da nessuno. Dopo di che l’acqua lentamente si richiuse, con una serie di cerchi concentrici e bollicine che furono le prime a scomparire.
 

 
******

 
Sulla riva opposta del fiume, Massimo Passerini brancolava nella nebbia più fitta tentando di ripercorrere a ritroso il sentiero che dalla Cà D’Anime lo aveva condotto al paese vicino, dove era andato in scena lo spettacolo dei buratèn. Il risultato era che i suoi pensieri erano più confusi che mai e che le cavedagne parevano tutte uguali. Decise di orientarsi seguendo il corso del fiume, o meglio quel fruscio appena percettibile che saliva dall’argine. A tratti, la nebbia svaporava svelando l’ombra di un salice, la gobba di un ponticello.
A un bivio, un cartello col grillo parlante di Pinocchio indicava che era sulla via giusta per raggiungere I Grilli, cucina casereccia e chiusura il lunedì. Da lì in poi l’ansa del fiume si allargava, l’acqua ne approfittava per fare una sosta e formava uno stagno coperto di mucillagini e foglie morte. Molti di quelli a cui il misterioso violino della Cà D’Anime aveva fatto saltare le ultime rotelle si erano buttati proprio in quel punto, fatto sta che quando il Ninèn era un cinno e spariva qualcuno, quello era il primo posto dove si andava a cercare.
La gente del paese lo chiamava al pázz di melcuntànt.
Mentre arrancava lungo la cavedagna, il Passerini assaporava con struggimento il tepore dell’abitacolo del pandino, che in realtà puzzava peggio del fiume, di fumo vecchio e del mentolo che un alberello appeso al retrovisore tentava inutilmente di contrastare. Malgrado tutti i suoi limiti, in quel momento il pandino quattro per quattro, possibilmente col riscaldamento sparato a mille, assumeva i contorni mitici di una reggia.
All’andata, il Passerini s’era tolto lo sfizio di andare a curiosare sul luogo in cui la maga Gisella e la sua assistente erano passate a miglior vita, con un biglietto di sola andata per un mondo in cui di sicuro c’erano meno nebbia e meno umidità: ma a parte due giri di un nastro uguale a quello che alla Cà D’Anime impediva l’accesso ai curiosi, non aveva trovato niente. Non un filo d’erba piegato, nessun segno di frenata e tanto meno rotaie spuntate fuori dalle zolle per l’occasione. Pareva che l’Adalgisa Buganè fosse sparita semplicemente dissolvendosi, un colpo sul tasto giusto del telecomando e fine dello spettacolo. Chissà come avrebbe fatto, adesso, la Clotilde di Casteldebole a farsi cavare il malocchio dal materasso.
Gli tornò in mente la frase che aveva notato quella mattina alla Cà D’Anime, proprio sotto allo schizzo che ritraeva la Gisella e la sua assistente con una croce sopra a scanso di equivoci: Gambe in spalla e vola via. E infatti l’Adalgisa Buganè e la moracciona avevano preso il volo, cancellate come pupazzi su una lavagna di scuola.
Ripensando alla scuola, gli tornarono in mente i pomeriggi trascorsi in compagnia del Secchio e dell’Anguilla a divorare pane, Nutella e cartoni animati davanti alla televisiàn di suo nonno. Tra robot dall’aspetto di antichi samurai che salvavano la terra menando botte da orbi, giocatori di calcio e orfanelle piene di scalogna e sentimento, c’era una storia che parlava dell’amicizia tra un bambino e un gruppo di mostriciattoli paciocconi: c’erano l’Uomo Tigre, no, quella era un’altra faccenda, forse era l’Uomo Lupo, poi Frankenstein e il vampiro. C’era soprattutto quella canzone: E chi li vede strilla o mamma mia! Gambe in spalla e vola via!
Bene, abbiamo appurato che anche il Punghèn, o meglio il maniaco pazzoide e serial killer che gira attorno alla villa guardava quel cartone. Detto questo non ho risolto un bel niente, rimuginò il Ninèn, mentre procedeva sforzandosi di tenere il fruscio lento del fiume a portata d’orecchio e la torcia del don ben piantata davanti.
A un tratto gli sembrò di sentire un tonfo sordo, come di qualcosa che cade o è gettato nell’acqua. A giudicare dall’impatto, doveva trattarsi di qualcosa di particolarmente pesante. Sarà mica qualcuno, pensò in un tumulto di agitazione, ricordando le storie di cronaca paesana della sua infanzia. Gente che si buttava senza lasciar neppure le scarpe o due righe di saluto sull’argine. Andiamo, c’è sempre il solito furbo che getta porcherie in acqua, poi la gente si lamenta che il fiume puzza come una fogna. E per lo schifo che c’è anche gli immobili van giù con i prezzi e a rimetterci è ovviamente chi vende.
Camminò per un tempo che gli sembrò eterno, sempre sognando il quieto tepore del pandino, finché si ritrovò di fronte a un altro bivio, o forse era lo stesso di prima. Davanti a lui c’era di nuovo il cartello della trattoria I Grilli. Avvolto nella bruma che saliva dal fiume, il grillo di Pinocchio esibiva un ghigno poco rassicurante al posto della consueta espressione godereccia.
A quel punto, il Passerini impallidì. Gli tornarono in mente tutti i fȏl di fantèsmi che aveva sentito da cinno, storie di gente che aveva udito la musica di viulèn della Cà D’Anime e dopo aveva perso la bussola, non riuscendo più a ritrovare la strada di casa. Si ricordò di quel che raccontava in giro Pinèn dla Marìa: in un giorno di pioggia si era rifugiato sotto ai balconi della villa per poi destarsi fradicio dentro a un fosso, in aperta campagna. Senza neanche sapere come c’era arrivato e con nelle orecchie ancora quel violino malinconico che a sentirlo una volta non lo scordavi più.
Al Pinèn detto la spânga nessuno dava retta perché girava con la Vecchia Romagna nel sacchetto di carta e la sua foto segnaletica era probabilmente esposta in tutte le osterie e i bar della pianura accanto all’avviso listato a lutto “È morto pagherò: ne danno il triste annuncio il figliolo poi passo e la nuora metti in conto”.  
Eppure, in quel momento il Pinèn dla Marìa apparve al Passerini circonfuso da un’aureola di profeta incompreso. In fin dei conti, come diceva sempre suo nonno, la verità la intuiscono soprattutto due categorie di persone, i cinni e i matti duri. Più che matto, però, la spânga era appunto una spugna che avrebbe prosciugato anche il fiume se fosse stato alcool. La sua unica ragione di autorevolezza consisteva nel possedere un fegato che avrebbe meritato la medaglia d’oro per la Resistenza.
Senza contare che lui, Massimo Passerini, quella musica di viulèn non l’aveva mai sentita, né alla Cà D’Anime e neppure nei paraggi tipo dov’era adesso, lungo il viottolo che conduceva ai Grilli e da lì in poi al viale dei cipressi e al pandino. A guardar bene, all’orizzonte s’intravedeva un quadrato di luce. Forse la trattoria non era così lontana.
Allora non mi sono perso del tutto, pensò, passando dall’arrancare stordito al trotto sostenuto.  
Quando la nebbia si stendeva sulla pianura, e quella sera era proprio sbracata a pancia all’aria come il Pinèn nel fosso, i rumori restavano tutti schiacciati sotto e nei campi non ne sentivi neanche uno. C’era però, al di sotto di quella cappa ovattata, un brusio che si udiva solo a tendere l’orecchio e solo ad averlo fino: era una sorta di tintinnio, come l’allarme di un passaggio a livello.
Il Passerini, all’inizio, lo scambiò per il rumore di chincaglieria delle chiavi che aveva in tasca. Poi si voltò a guardare perché d’un tratto aveva la strana sensazione di essere seguito, per di più da qualcuno o qualcosa che arrivava di corsa.
Vide due fari allargarsi nella nebbia, puntando verso di lui e accorciando sempre più le distanze senza fare rumore, come sospesi in aria. 
Dai rami di un alberello un gruppo di cornacchie si levò all’improvviso, pochi richiami rauchi che finirono presto per essere inghiottiti dalla nebbia e dal quel tintinnio così assurdo: perché da quelle parti la ferrovia mica c’era, o meglio c’era stata in tempo di guerra ma poi la linea era stata soppressa e la campagna aveva ricoperto ogni cosa.
 

 
******

 
Quella stessa sera, a bordo del furgoncino della ditta con tanto di grillo parlante in versione autoadesiva sulla fiancata, un certo Amedeo Minguzzi, titolare della trattoria I Grilli, ritornava all’ovile dopo aver accompagnato sette nipoti ad assistere allo spetacuel di buratèn al paese vicino.
Già smaliziati all’età di dieci - dodici anni pur essendo a tutti gli effetti figli della campagna e ancora ben lontani dai tentacoli corruttori della città, allo spettacolo i cinni s’erano annoiati come neanche a scuola. Alla domanda di Fasulèn se credevano ai fantasmi non s’erano neanche presi la briga di rispondere – solo il più grandicello aveva abbozzato a voce bassa sto’ caz – e avevano passato tutto il tempo spolliciando su tablet e smartphone, mentre il loro zio e nonno si era divertito un sacco a seguire quell’ingenua vicenda di spettri e tagliatelle.   
Dopo una sosta ristoratrice alla bocciofila, il furgoncino aveva ripreso a caracollare lungo la cavedagna, avvolto dal silenzio della nebbia e dei nipoti che era come se non ci fossero. Solo il bagliore degli schermi che di tanto in tanto riverberava su una faccia, suggeriva la presenza di qualche forma di vita sul sedile del passeggero e nella penombra del retro.
Vuoi per la sonnolenza indotta dai due grappini che aveva buttato giù alla bocciofila, vuoi perché con la nebbia le cose le noti solo quando stai per passarci sopra, il Minguzzi aveva quasi rischiato di travolgere un tizio che camminava proprio in mezzo al sentiero, con la borsa da ufficio e l’aria del cittadino che si è perso.
Ecco il primo cliente della serata. Direi che non è il caso di stirarlo come una biscia, ragionò tra sé il Minguzzi, sdrucciolando una frenata improvvisa e aprendo lo sportello.
Stavo quasi per metterla sotto,” si scusò con quel tale che gli ricambiò uno sguardo spaurito, neanche avesse di fronte i fantèsmi del teatrino. “Se crede, posso darle un passaggio. Sandrino, lascia il posto al signore e va’ dietro con gli altri.”
Sandrino, uno spilungone di un metro e settantacinque dotato di tablet adeguato alla stazza, scese sbuffando e senza staccare gli occhi cerchiati dallo schermo, quasi in stato di ipnosi.
“Va ai Grilli, non è vero?” riprese il conducente. Prese rapidamente le misure all’estraneo e decise che era meglio far scendere un altro nipote. “Luigén, vai dietro anche tu. Lei venga su, si accomodi,” disse cerimonioso. Un’altra larva di dieci anni munita di tablet si dileguò in silenzio nel retro del furgone.
“Io veramente ho parcheggiato alla Cà D’Anime,” si schermì il Passerini, rincuorato da quell’incontro che proprio non si aspettava. “Se mi fa la cortesia di allungarsi fin lì e lasciarmi all’inizio del viale…”
“È quasi ora di cena,” osservò il Minguzzi con fare da imbonitore. “Perché non si ferma da noi? Stasera abbiamo pappardelle ai funghi porcini, tortelloni burro e salvia, tigelle col tagliere di stracchino e affettati…”
No grazie, dopo lo scherzo delle due pizze per cena, stavolta si va di insalata. Sarà la volta buona che riprendo la dieta.
“Davvero non posso fermarmi,” tenne duro il Passerini che l’acquolina in bocca, in fondo, ce l’aveva. Si strinse nell’abitacolo e il furgoncino ripartì, cigolando le sospensioni per il raddoppio del peso.
“Guardi che lo stracchino lo produciamo noi. La pasta è fatta in casa e per il resto serviamo solo roba della campagna, a chilometro zero.”
“Purtroppo devo correre in ufficio a sistemare delle pratiche. Sono un agente immobiliare, ho in corso una trattativa per la vendita della Cà D’Anime.” 
Mo chi è al mat che vuole comprare quella spelonca?” Ringalluzzito dalla presenza di qualcuno con cui parlare, il Minguzzi saltabeccava col furgoncino riuscendo a centrare tutte le buche. “Le dico la verità,” riprese, in vena di confidenze. “La villa la piglierei io, se potessi. Non mi dispiacerebbe mettere in piedi un agriturismo, ma sa com’è, ci girano attorno troppe brutte storie.”
“E chi ci crede più ai fȏl di fantèsmi? Al giorno d’oggi, è roba che va bene per i teàter di buratèn.” Malgrado i continui sobbalzi, il Passerini si crogiolava al calduccio dell’abitacolo e stava già per cedere a un principio di sonno.
“E la storia di quelle due morte ammazzate?” riprese il Minguzzi. “Ma lo sa che da noi sono venuti pure i Carabinieri? Han fatto delle domande, tipo se avevamo sentito qualcosa, ma era giorno di chiusura, c’era solo mia moglie che tirava la sfoglia perché, come le dicevo, i nostri prodotti son tutti a chilometro zero.”
Il Passerini si sforzava di ascoltare, ma la stanchezza della giornata era come colla da falegname spennellata sulle palpebre. Per un lunghissimo istante, sognò che accanto al pandino lo attendeva la Trifola, il vecchio bracco da guardia che nelle notti in città abbaiava dal quarto piano contro agli autobus.
“Lo sa che mia moglie è andata in televisione? Una volta ha chiamato la maga Gisella e si è fatta fare le carte. È saltato fuori che aveva il malocchio. Ci sono voluti più di duemila euro per cavar via la fattura.”
Bravi fessi, pensò il Passerini nel dormiveglia. A destarlo del tutto, ci pensò il cellulare nel taschino della giacca, che cominciò a fremere le note di Suspiria.
Soccia, che figata!” Sette voci improvvisamente resuscitate dallo stato larvale emersero entusiaste dal retro del furgone.
“Cos’è, una suoneria?”
“Signore, ce la passa anche a noi per favore?
“Massimo, dove sei?” Al telefono c’era la collega Granella, con le penne così arruffate che a momenti spuntavano dal ricevitore. Tra l’altro, quando quell’uccellaccio del malaugurio lo chiamava per nome, era segno di guai in vista.
“Ci son qua i Carabinieri. Vogliono farti delle domande su quella tua cliente, la cartomante. Si può sapere che cosa hai combinato?”
Io? Niente. Mica c’ero io alla guida del camion, del treno o di chissà che altro. Che vadano pure a domandare al Punghèn.   
“Sbrigati un po’ a venire. Tra l’altro, io sono qui col commendator Scanabissi e mi stai facendo fare una pessima figura.”
“Sicuro che non vuole fermarsi per cena?” ritentò l’ineffabile ristoratore Minguzzi. Erano in prossimità del viale dei cipressi. Il pandino emergeva dalla caligine col suo tristo color sabbia, l’adesivo forza Bologna appiccicato sul posteriore e la carrozzeria schizzata di fango.
L’immagine della reggia tiepida e confortevole, preannuncio di una serata in tutta tranquillità, si sgonfiò alla maniera di un palloncino forato per dispetto. 
“Come le dicevo, ho del lavoro che mi attende in ufficio. Un becchino, un’arpia e molto probabilmente una coppia di sbirri. In tutti i film, quelli là girano sempre in due.
Ogni volta che, alla guida del pandino, veniva fermato per semplici controlli, solo a vedere la paletta della Stradale o il gesto di accostare di un vigile urbano, il Passerini era colto da visioni apocalittiche: davanti a sé vedeva manette pronte a scattare, multe d’importo tale da costringerlo a vendere una casa che neppure possedeva e per finire le quattro pareti di una cella di cui, provvidenzialmente, qualcuno aveva buttato via la chiave.
Quella sera, dopo aver chiuso la comunicazione con la collega Granella, sperimentò la stessa sensazione a metà tra la vertigine cosmica e la pesantezza di stomaco di chi ha appena ingoiato un’incudine.
Scese dal furgoncino, non salutò nemmeno e si avviò a testa bassa verso il pandino.  
 

 
******

 
Quando arrivò in ufficio, non solo il titolare della ditta Scanabissi, ma anche i carabinieri se n’erano già andati. Segno evidente che piazzargli un paio di gingilli sui polsi non era tra le loro priorità del momento.
La collega Granella aveva appena terminato di ritoccarsi le sopracciglia dentro a quella sorta di loculo che era il bagno dell’agenzia, in vista di un altro appuntamento che l’attendeva in serata. Sul lavandino, come poté appurare il Passerini entrando di corsa con la vescica sotto pressione, giaceva un’infinità di peluzzi ricurvi. Molto probabilmente, oltre alle sopracciglia la collega s’era fatta anche la barba.
Riguardo alla visita dei due poliziotti – un appuntato e un brigadiere, secondo la Granella che alla tivù seguiva tutti i programmi dedicati ai delitti più efferati – il Passerini non riuscì a estorcerle nessuna informazione.
“Volevano te”, si limitò a dire, evasiva. “A me non han chiesto niente e poi ero impegnata col mio cliente.” Da una borsetta di proporzioni minimali, ma in grado di contenere un intero laboratorio restauri, cavò fuori una spazzola e incominciò a strigliarsi le chiome con energia. Nel frattempo andava avanti e indietro riordinando i fascicoli, riponendo l’agenda, raccattando il soprabito e disseminando ovunque altro pelo. “Sono rimasti qui per più di un’ora. A un certo punto, uno dei due si è persino addormentato.” 
“Non potevi chiamarmi subito?” Il Passerini continuava a starle in mezzo ai piedi, a inseguirla in quel vortice di spostamenti qua e là per l’ufficio.
Io ti ho chiamato subito. Sei tu che ci hai messo una vita. Dove diavolo eri?”
“Anch’io avevo un appuntamento importante.”
“Figurarsi.”
“Ho presentato alla proprietà la proposta di quel cliente di Draghetti. Se non sbaglio, proprio tu gliel’hai fatta sottoscrivere stamattina, ficcando il naso nelle mie carte, se proprio vogliamo dirlo. Si tratta di un affare da cinquantamila euro.” Il Passerini ritenne opportuno tralasciare il no secco che aveva ottenuto dal conte D’Anime.
La Granella, che era in trattativa da mesi con Scanabissi per un misero capannone da quattromila euro, rimase con la spazzola sospesa a mezz’aria e una ciocca elettrizzata dritta sulla testa. Se ne andò via così, con grande soddisfazione del Passerini che a sua volta s’infilò nello sgabuzzino, cavò fuori scopa, paletta e mocio e si dedicò all’opera di ammucchiare tutto quel pelo e ripulire l’ufficio. Siccome in agenzia non c’era più nessuno, ne approfittò per accendersi due sigarette di seguito.
Anche a casa, riordinare lo aiutava a scaricare la tensione e a schiarirsi le idee. Chissà cosa volevano sapere da lui l’appuntato e il brigadiere: certo niente di importante, visto che uno dei due s’era persino concesso una pennichella nell’attesa. Forse stavano ricostruendo gli ultimi spostamenti della maga Gisella prima dell’incidente, del duplice omicidio o di come diavolo avevano rubricato quel fatto.
La sola parola duplice omicidio, di per sé strettamente connessa a tribunale, sentenza ed ergastolo, fu più che sufficiente a togliere il respiro al Passerini e a rapprendergli tutta l’ansia in un nodo in gola. Non è che quelli pensavano che lui c’entrasse qualcosa? Concorso in omicidio plurimo e sicuramente aggravato, dal momento che l’Adalgisa Buganè e la moracciona coi cavatappi erano state ridotte allo stato di spezzatino senza nessun motivo apparente: così avrebbero intitolato i giornali pubblicando la foto della sua faccia, magari proprio quella che aveva sulla patente e in cui esibiva un’aria da perfetto psicopatico.
Gli venne subito in mente che lui l’alibi per quella sera ce l’aveva, e di ferro. Aveva una testimone, quella cornacchia della Granella che s’era trattenuta in ufficio con lui, scartabellando le pratiche del becchino Scanabissi durante tutto quel piovoso pomeriggio. Quando il Passerini era uscito per andare dal kebabbaro, la notizia del fattaccio correva già sull’onda di tutti i tigì nazionali.
Lo squillo del telefono sulla sua scrivania gli fece fare un doppio salto carpiato dal buio dei suoi pensieri al panico manifesto: come se dall’altra parte della cornetta ci fosse il Presidente del Tribunale in persona, pronto a notificargli il mandato d’arresto e ad avvertirlo prima, così, per cortesia. Si metta la maglia della salute, in galera fa freddo.
Forse non era quella l’esatta procedura, ma il terrore che correva nelle vene del Passerini al ritmo di centoventi pulsazioni al minuto, quello sì, era reale. Sollevò la cornetta con cautela.
Dall’altro capo non c’era il Presidente del Tribunale pronto a comminargli l’ergastolo su due piedi, né il Presidente della Repubblica intenzionato a revocargli il diritto di cittadinanza, né tanto meno il preside del suo vecchio liceo deciso ad annullargli l’esame di maturità per comportamento scorretto. C’era invece la voce del conte Filippetto e mai come in quel momento al Passerini sembrò di risentire suo padre che lo aiutava a rimettersi in piedi dopo una caduta in bicicletta, il nonno che gli offriva le prime ciliegie della stagione, la Trifola che abbaiava sull’aia e in sottofondo il canto dei nove cori angelici.
“Signor conte, che sorpresa!”
“Chiamami ben Filippetto. Allora, ragazuòl, ci hai pensato un po’ sopra?”   
“A cosa, signor conte?”
Mo alla mia proposta! Alòra, la prendi te la villa? Loro ne sarebbero molto contenti.”
“Come le dicevo, signor Filippetto, baiocchi non ne ho. Vivo in affitto e faccio già fatica ad arrivare a fine mese, figurarsi se posso permettermi un immobile che tra l’altro necessita di qualche lavoretto. Parliamo piuttosto del mio cliente. Non ho mai visto fare un’offerta come questa da quando lavoro qui.”
“Guardi, giovanotto, anch’io ci ho pensato su un pezzo, e sono arrivato alla conclusione che non si tratta di una questione di baiùc. Io e i miei buratèn un piatto di tagliatelle riusciamo sempre a metterlo in tavola. Demolire la Cà D’Anime, non posso neanche pensarci. È un fatto di ricordi, là ci hanno vissuto in tanti e la villa conserva i segni del loro passaggio, le emozioni, i ricordi. I fantasmi, se vuole. Non possiamo buttar giù tutto come se niente fosse. E poi non sa che quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per loro?”  
Questa l’ho già sentita. Ma io mica posso campare in memoria dell’Anguilla e del Secchio. Chi muore giace, dice il proverbio, e se chi vive non paga le bollette puntualmente gli staccano luce e gas.  
“Quindi cosa devo riferire al cliente?”
“Dietro alla villa son tutti campi liberi. Sono secoli che nessuno se ne occupa. Da’ retta a me, va’ a dare un’occhiata. Magari ti vien voglia di cavar qualche erbaccia e non sarebbe neppure una cattiva idea.”
“Come le ho detto, io lavoro per l’agenzia e il mio compito è trovarle un acquirente. Tra l’altro, io non m’intendo di coltivazioni, non sono un giardiniere e nemmeno un cuntadèn,” si affrettò a dire il Passerini che pure il sogno del campicello ce l’aveva e non gli pareva vera un’offerta del genere. Se il conte era disposto a cedergli un fazzoletto di terra, magari anche a rate… A quel punto, si trattava soltanto di far due conti in banca, in fin dei conti un gruzzolo doveva pur averlo, qualche rimasuglio della vecchia eredità dei suoi. Avrebbe potuto chiedere un mutuo, poi c’era da aprire la partita IVA come imprenditore agricolo, e poi…
Restò a lungo soprappensiero, senza neanche accorgersi che nel frattempo era caduta la linea.
 

 
******

 
Coperti dalla brina della prima mattina, i campi erano un pendio di erba croccante e incolta che al Passerini ricordarono il tempo in cui, insieme all’Anguilla e al Secchio, si buttava giù dai cucuzzoli con lo slittino. Al paese, l’inverno era dominio della nebbia e solo verso febbraio qualche fiocco volteggiava in avanscoperta per poi farsi seguire dal resto della truppa: grossi ciuffi lanosi che ricordavano il manto ricciuto delle pecore e attecchivano subito, portando insieme al bianco la magia del silenzio.
Anche il fiume taceva nei giorni della neve, coprendosi di uno strato immobile di ghiaccio nelle zone in cui era più in secca. Una volta l’Anguilla ebbe la brillante idea di attraversarlo coi pattini, col risultato di sprofondare quasi subito. Per fortuna in quel punto il livello dell’acqua era ai minimi storici, sicché l’Anguilla se la cavò con un febbrone e non gli toccò iniziare la sua carriera di spettro con eccessivo anticipo.
Dall’alto della collina che sorgeva subito dietro, il tetto mezzo sfasciato della Cà D’Anime affiorava celato da un intrico di rami bassi.  
Vista da lì, nella piena luce di una mattina domenicale, col sottofondo di campane che veniva a folate dai borghi vicini, la villa perdeva tutto il suo alone di mistero e appariva per quello che era realmente: una signora d’altri tempi che si reggeva decorosa sulle stampelle e riposava al sole come i pensionati nei giardinetti, addosso ancora i segni di un passato di splendore dimenticato.
Tirando il fiato e proseguendo fino alla sommità di quel colle sicuramente buono per piantar dei ciliegi, il Passerini ripensò ai suoi vecchi amici d’infanzia. Premesso che lui ai fantasmi non ci credeva, per il Secchio e l’Anguilla valeva la pena di fare un’eccezione. Decisamente la villa era casa loro e lui, Massimo Passerini, si sarebbe impegnato sul proprio onore di scout a non cederla a sedicenti fattucchiere, o a palazzinari intenzionati a spazzar via le sale e gli affreschi del Settecento per far posto a colate di calcestruzzo.
Al Bricoman sotto casa aveva acquistato cesoie, stivaloni di gomma, una zappa e un badile, un libro sulle colture. Altri attrezzi li aveva recuperati in cantina, in mezzo ai cimeli del fu Eleuterio. Dal baule del pandino, legati alla bell’e meglio per non smarrirli strada facendo, spuntavano quattro alberelli di serra. Quattro ciliegi dall’aspetto decisamente sparuto, ma muniti di etichetta che prometteva una splendida fioritura.  
In realtà, a parte i ricordi che risalivano ai tempi in cui aiutava suo nonno nell’orto, il Passerini non aveva nessuna reale esperienza di lavori contadineschi. La città se l’era portato via troppo presto. Dopo due ore, aveva rivoltato un quadrato di terra non più grande del fazzoletto in cui stava versando litri di sudore. Si sentiva sfinito, come se avesse dissodato l’intera pianura padana da solo.
Decise di svagarsi con un giro alla villa. In fondo, non aveva ancora detto agli amici che l’affare con due ante Balotti era definitivamente saltato per volontà del conte burattinaio.
All’interno della Cà D’Anime faceva più freddo che fuori. Il Passerini vagò a lungo per le sale col sudore che s’intirizziva sulla nuca ma nessuna voce uscì da dietro le colonne, né dalla scalinata che serpeggiava fino su ai piani alti.  
Bella, ragaz, ci siete? Andiamo, era tutto uno scherzo…  non la vendo, la villa, potete star tranquilli!”
Da parte dell’Anguilla e del Secchio non si udì neppure un refolo di vento in risposta.
Nella stanza degli affreschi, stavolta erano in tre a fare compagnia alla ninfa campestre: oltre ai ritratti della maga Gisella e della sua assistente, c’era una terza figura nerboruta tipo omino Michelin, naturalmente obliterata con una croce. Più sotto, un’altra scritta: “Il più bello che c’è è grande e grosso e pesa tre quintali e trentatré.
Di nuovo la sigla di quel cartone che aveva allietato i pomeriggi dei cinni a base di pane, Nutella e divano. Tra l’altro, e strano che gli venisse in mente soltanto ora, non si trattava della sigla di apertura ma di quella finale. Che era come dire capitolo chiuso.
Al Ninèn, questo particolare provocò l’effetto di un sasso contro un vespaio. Il vespaio in questione era ovviamente la sua testa in cui ronzavano dubbi, perplessità e mille domande, ciascuna ben dotata di un pungiglione delle dimensioni di una trivella.  
Era da giorni che cercava di contattare due ante e ogni volta la voce preregistrata della compagnia telefonica continuava a ripetergli che l’utente non era al momento raggiungibile. Riprova oggi e domani, dopo un po’ s’era messo l’anima in pace. Forse il Balotti non era più interessato, avendo trovato un altro rudere da demolire a un costo più vantaggioso.
Però poteva almeno degnarsi di avvertire, in fondo era amico del gran capo Draghetti. Senza dire che quel prezzo da fenomeno era stato lui a proporlo.    
C’era poi un’altra ipotesi più insidiosa, e che proprio per questo non si stancava di ronzare nella zucca – vespaio del Passerini: due ante voleva spazzar via la Cà D’Anime e invece la Cà D’Anime ha spazzato via lui. Quel disegno sul muro non lasciava spazio ai dubbi, a patto naturalmente di credere ai fantèsmi.  
Quella stessa mattina, Elpidio Raggi di professione contadino s’era alzato prima dell’alba. Aveva caricato sulla carriola due sacchi di cemento e di sabbia, mattoni e cazzuola, un involto con dentro un pollo arrosto e una fiaschetta di vino rosso. Poi s’era avviato in direzione dell’argine, con l’intenzione di santificare il giorno festivo riparando il muretto che segnava il confine della sua proprietà.
Giunto sul posto, aveva riposto il pranzo al sicuro sotto a un pioppo ed era sceso al fiume per procurarsi l’acqua e iniziare la lavorazione della malta.
A quell’ora, sui campi aleggiava l’ultima foschia della notte e non si capiva se la giornata sarebbe stata di nebbia oppure di sole. Il contadino Raggi s’era avventurato giù per la scarpata dell’argine. Aveva raggiunto il punto dove il fiume si allargava formando l’ansa profonda che la gente chiamava al pàzz di melcuntènt e aveva immerso il secchio.
Proprio lì, tra le canne, aveva notato quello che a prima vista gli era sembrato un oggetto squadrato.
Probabilmente, qualcuno aveva pensato bene di buttar via un vecchio frigo.
A un’occhiata più attenta, però, il contadino Raggi si era reso conto che non s’era mai visto un frigorifero dotato di due braccia e una testa che ciondolava sotto il pelo dell’acqua. Raccolse un ramo per avvicinare l’oggetto e osservarlo meglio. Dopo di che dimenticò il secchio, dimenticò anche il pollo e la fiaschetta di rosso e pochi minuti dopo correva a gambe levate diretto al casolare, per avvertire i carabinieri che c’era un morto giù al fiume.
Nel frattempo, alla villa, il Ninèn aveva smesso di preoccuparsi per le sorti dell’Anguilla e del Secchio, ben deciso a risolvere il mistero di un’altra assenza, quella di due ante Balotti. Chiamò almeno quattro palestre localizzate con l’aiuto di Google Maps e ottenne da altrettante segretarie solo risposte sbrigative e generiche, che lo fecero sentire come un bambino che chiami i grandi magazzini per parlare con Babbo Natale.
“Il titolare non c’è,” tagliò corto la prima delle impiegate.
“Per l’iscrizione deve passare personalmente, con il certificato del medico curante,” rispose la seconda.
“Balotti Gianluigi non ce l’ho,” confermò la terza, più accomodante. “Però posso passarle la Balotti Desdemona, l’istruttrice di Piloga.” Il Passerini non aveva la più pallida idea di cosa fosse il Piloga.
“Provi alla sede centrale,” suggerì infine l’ultima, avendo cura di buttare giù il telefono prima che il Passerini potesse domandare qual era la sede in questione tra le tante che Google Maps segnalava in zona. Fece un ultimo tentativo, scegliendo a caso nel mucchio. Non era mai stato granché fortunato alle pesche in parrocchia, ma questa volta riuscì a ottenere qualche informazione in più dal responsabile di una palestra che guarda caso si trovava nel paese vicino, quello dov’era andato in scena lo spettacolo di Fasulèn.
“Il titolare ha avuto un incidente,” gli rispose il marcantonio gestore. “Neppure io l’ho più sentito da quando è successo il fatto. A dirla proprio tutta, non sono neppure riuscito a capire in quale ospedale è stato ricoverato.”
In quello stesso momento, ciò che restava di un frigo in ammollo, o meglio di un corpo umano più o meno di quella stazza, veniva caricato su una vera ambulanza alla presenza del pubblico ministero, del medico legale e di una squadra di carabinieri intenti a recintare quel tratto dell’argine. Il contadino Raggi andava avanti e indietro stringendo la fiaschetta e il fagotto del pollo.  
“Eccone un altro,” commentò il maresciallo.
“Non c’è due senza tre,” brontolò il medico legale, a cui un destino ingrato aveva assegnato un’autopsia di prima mattina, per di più su un cadavere ripescato, al posto della biciclettata domenicale con gli amici e a seguire il pranzo già prenotato ai Grilli con le specialità della casa: pappardelle ai funghi porcini, crescentine e tigelle, sangiovese come se piovesse.
“Vediamo anzitutto di capire di chi si tratta e se è possibile stabilire un collegamento con i precedenti ritrovamenti.” Le spalle curve per un principio di scoliosi da eccessiva frequentazione di codici e faldoni, il naso perennemente gocciolante nel fazzoletto, il giudice Radicchio pareva il tipico alunno secchione bullizzato nelle scuole di ogni ordine e grado.
Pur essendo giovanissimo, nelle aule di tribunale s’era già costruito una solida fama di gât tachè ai marόn a mezzo metro d’altezza, secondo il parere unanime di cancellieri, avvocati, colleghi e forze dell’ordine. Incappare in un’indagine condotta da Radicchio significava sgobbare senza tregua per analizzare tutte le piste possibili, dal delitto passionale all’intreccio politico, dallo scandalo finanziario all’attacco degli ufo.
Quella mattina, l’odore di limo che saliva dal fiume e quello del frigorifero caricato sulla lettiga avevano cancellato gli ultimi rimasugli di sonno dalla mente del giudice Radicchio, rendendolo immediatamente operativo.
“Mi faccia avere la sua relazione prima di mezzogiorno,” intimò al medico legale, che indugiava sull’argine in preda alla malinconia e al richiamo di pappardelle e tigelle a chilometro zero.
“Voglio un rapporto sugli ultimi movimenti della vittima,” ordinò ai carabinieri che una volta finito di recintare l’argine, si aggiravano spaesati e con le mani in mano.
“Ma se non sappiamo nemmeno chi è”, intervenne il maresciallo.
“Si tratta del terzo cadavere nel giro di un mese, sempre nella stessa zona.” Con un cenno del capo che subito si trasformò in uno starnuto, Radicchio indicò l’altra sponda, dove erano stati recuperati i resti della Gisella e della sua assistente. “Il tempo di capire se questo si è buttato di sua iniziativa oppure no, il tempo di dargli un nome e sulla mia scrivania devono comparire tutte le informazioni rilasciate da chiunque sia in grado di fornire degli elementi utili, riguardo a questa vicenda e a quella dell’Adalgisa Busoni.”
“Buganè, signor giudice.”
“Quanto a lei, si tenga a disposizione.” Le parole del giudice scattarono come una tagliola ai piedi del contadino Raggi, che era lì lì per svignarsela con il suo pollo arrosto.
Elpidio Raggi sussultò, esattamente come fece il Passerini qualche giorno dopo, quando un brigadiere e un appuntato entrarono negli uffici dell’Immobiliare Reno puntando dritti verso di lui.

 
******

 

[1] Il pozzo degli scontenti.

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Capitolo 5
*** La casa degli amici ***


“Ogni uomo è in potere dei suoi fantasmi
Fino al rintoccare dell’ora
In cui la sua umanità si desta.”
(William Blake)
 

5. La Casa degli amici

 
Massimo Passerini era nel pieno di una di quelle giornate che sembrano corse a ostacoli pianificate dalla sfiga in persona, secondo gradi crescenti di difficoltà.  
Tanto per cominciare, proprio quella mattina aveva ricevuto una telefonata non da parte di due ante Balotti, ormai decisamente latitante insieme alla sua offerta di cinquantamila euro, e neppure da parte del conte Filippetto, che dalla sera in cui gli aveva proposto di sfoltire le erbacce nei campi della Cà D’Anime era anche lui scomparso letteralmente nel nulla. Al cellulare, che per l’occasione attaccò le note di Suspiria con una particolare intensità di vibrazioni funeste, c’era l’ultima persona che il Passerini si sarebbe aspettato – o augurato - di sentire: la signora Poggioli detta Maga Magò, quella che gli bussava con la scopa contro il soffitto quando il volume della tivù superava la soglia del sussurro da confessionale in chiesa.
Maga Magò era altresì proprietaria del loculo di cinquantun metri quadri in cui il Passerini vegetava come Dracula nella cassa, dietro il pagamento di un canone strozzinesco di settecento euro mensili: quella mattina, Poggioli lo contattava per far presente che sua nipote si sposava e che quindi l’appartamento le serviva. “Le invierò la disdetta tramite raccomandata, ma ci tenevo comunque ad avvertirla prima. Faccia pure con comodo, non c’è nessuna fretta,” aveva aggiunto, munifica, mentre il suo ex inquilino boccheggiava sepolto sotto a due metri metaforici di terra. O forse era letame, anche se ancora non ne sentiva l’odore.
I contadini lo sanno: finché non lo vai a rimestare col badile, lo stallatico non dà fastidio a nessuno. Se ne sta buono e zitto dentro alla concimaia e leva qualche zaffata giusto per ricordarti che al mondo esiste anche lui, che è utile per far crescere le colture e che per questo merita assoluto rispetto.
Quando lo vai a muovere, allora vien su un fetore da far girare la testa: sarà per l’entusiasmo di entrare finalmente in azione, sarà che la nebbia tende a ricacciare gli odori verso il basso, fatto sta che nel periodo in cui si spargeva il letame, in paese si girava con il naso tappato e anche I Grilli chiudevano prudentemente per ferie.
Presso la sede dell’Immobiliare Reno, la pianta di ficus spelacchiato all’ingresso ignorava da sempre l’esistenza di concime e fertilizzanti in genere, nel minuscolo bagno lo scarico funzionava a regime ma l’atmosfera si poteva ugualmente tagliare col coltello, quello grosso da macellaio. Nel giro di un paio d’ore, Massimo Passerini aveva ridotto in cenere due pacchetti di sigarette, divorato con risucchi da formichiere un intero vassoio di pasticcini, litigato con la collega che non voleva saperne di mettersi alla ricerca di una casa per lui, essendo già indiavolata per conto suo.
“Rivolgiti a qualcun altro!” strepitava la Granella, avvelenata col mondo intero. “Io non voglio più saperne di voialtri morti di fame!”
Anche lei, a quanto pareva, correva le mille miglia sul circuito della sfiga: dopo mesi di trattative, l’affare con Scanabissi era colato a picco con la rapidità di una barchetta di carta dentro a un tombino. Per di più, il programma della serata non prevedeva nessun appuntamento galante.
A quel punto il Passerini adottò la stessa strategia di quando, trent’anni prima, s’era trovato faccia a faccia con la Fonsa che minacciava terrificanti vie di fatto dal ballatoio: recuperò il cappotto, guadagnò in fretta l’uscita e tirò un bel respiro soltanto quando fu a distanza di sicurezza. Il brusio del traffico che procedeva incolonnato, i clacson che inveivano contro un furgone parcheggiato in doppia fila, gli parvero rilassanti come il silenzio della campagna in pieno inverno.  
Presso la rivendita di giornali e tabacchi lo attendeva il secondo scoglio della giornata. Praticamente un iceberg che affiorava insidioso dal marciapiede, dov’erano piazzate le locandine con le notizie del giorno. Dentro al negozio, gli venne incontro una sfilza di titoli pubblicati, senza eccessive varianti, da tutti i quotidiani:
“Mistero nella bassa: trovato un terzo corpo.”
“Cadavere nel Reno, l’identità dell’uomo rinvenuto nel fiume col cranio fracassato.”
Un rotocalco aveva esiliato a fondo pagina gli ultimi pettegolezzi sui reali d’Inghilterra e strombazzava un titolo che eccelleva su tutti per piglio e fantasia: “La maledizione della maga Gisella, tutti i dettagli nello speciale a pagina tre.”
Il Passerini sapeva già di chi si trattava ancora prima di sfogliare una sola pagina: Gianluigi Balotti detto due ante. Il Punghèn. Quel nuovo disegno apparso sul muro della Cà D’Anime.
Con l’aria del malvivente colto in flagrante, si assicurò una copia del Carlino e del Corriere, oltre a una stecca intera di sigarette. Non se la sentì di tornare in agenzia ed esporre la refurtiva sotto agli occhi della Granella. Riparò nel pandino e si dedicò a letture più che esaustive.
Più o meno nella stessa sequenza, i giornali riportavano la vicenda del ritrovamento da parte del contadino Raggi. Di seguito, la salma era stata identificata da coloro che nelle ultime ore avevano segnalato la scomparsa di Gianluigi Balotti, di professione imprenditore: una moglie legittima e due amanti clandestine avevano pensato bene di accapigliarsi nei locali dell’obitorio, rimediando ciascuna una denuncia per interruzione di pubblico servizio e lesioni. Una sberla se l’era presa anche il medico legale e ora si trattava soltanto di scoprire chi delle tre aveva avuto la mano più svelta.
Un certo Dagnini Dante, responsabile di una delle palestre della Fitness e benessere, riferiva che il Balotti era rimasto vittima di un incidente nella sala attrezzata per la pesistica. No, il bilanciere in testa non gliel’aveva tirato nessuno. Ovviamente il Balotti era stato soccorso, ma da quel momento in poi se n’erano perse le tracce. Naturalmente sarei in grado di descrivere il tizio che l’ha portato via su un furgone, ce l’ho davanti agli occhi come se lo vedessi in questo preciso istante. So che la faccenda è finita in consiglio comunale ma qui la sicurezza non c’entra, il titolare ha rifiutato l’assistenza del trainer. Non sto dicendo che se l’è andata a cercare. Come ho detto, si è trattato di un incidente.
A margine dell’intervista, il quotidiano riportava un grossolano identikit, una faccia da topo con due occhietti spiritati che per fortuna non erano dell’Anguilla e neppure del Secchio. Quanto al Punghèn, il Passerini non l’aveva mai visto ma più di un sospetto, in realtà, ce l’aveva. Però mica poteva andare alla polizia a raccontare che in quel delitto, come già in quello della maga Gisella, c’entravano i fantasmi della Cà D’Anime.  
Decise di rientrare in ufficio, spaventato all’idea che i fantèsmi l’avrebbero passata liscia ma lui invece no, perché ben tre clienti dell’Immobiliare, clienti suoi per la precisione e tutti interessati ad acquistare la villa, avevano staccato un biglietto per l’aldilà nei modi più fantasiosi.
Mai come in quel momento avvertiva il bisogno di non restare solo con quei pensieri che, proprio come il letame, più venivano rivoltati in qua e in là, più gli riempivano la testa con la puzza di guai in vista.  
Se non che ad attenderlo in agenzia, oltre alla collega, c’era anche il terzo e più impegnativo ostacolo che quella giornata all’insegna della iella gli aveva riservato.  
“Gianni Draghetti è lei?” lo apostrofò il brigadiere.  
“Io veramente sono Massimo Passerini.”
“E Draghetti dov’è?” incalzò l’appuntato.
“In vacanza in Thailandia,” ammise il Ninèn. Chissà perché aveva la strana sensazione di star coprendo un malestro senza neanche sapere che cosa era successo.  
“Confermo,” si udì dietro le quinte la voce della Granella. “Il titolare è assente, tornerà a fine mese.”
L’appuntato continuava a guardarsi intorno come se Strazzamaroni fosse nascosto in qualche armadio, dietro alle scrivanie, dentro al contenitore della carta da riciclo.
“Va bene, Passerini,” brontolò il brigadiere, sfogliando una cartellina contenente chissà quali indizi schiaccianti. “Se non le dispiace, siamo qui per rivolgerle qualche domanda. Buganè Adalgisa, Fabbri Moira e Balotti Gianluigi. Erano suoi clienti?”
Ci siamo.
“Solo la Buganè e Balotti. La Fabbri era l’assistente della maga Gisella, alla televisione erano sempre insieme. Io però quella sera…”
“Lasci perdere la tivù. A noi interessano i fatti avvenuti qui in agenzia.”
“Entrambi i clienti erano interessati a una villa di campagna per la quale l’Immobiliare possiede un regolare mandato di vendita. Si tratta della Cà D’Anime in località I Grilli,” vuotò il sacco il Passerini. La sensazione che provava era quella di un cappio che cominciava a far presa attorno al suo collo.
“A noi interessano soprattutto i rapporti che intercorrevano tra il suo titolare, Draghetti Gianni, e il Balotti Gianluigi,” puntualizzò il brigadiere.
Quindi io non c’entro? Il nodo scorsoio si allentò impercettibilmente.
“Circa dieci giorni fa, ho ricevuto una telefonata dal mio titolare. Il signor Draghetti mi informava che c’era un altro cliente interessato alla villa. Dopo l’Adalgisa Buganè, naturalmente.” Quel nome scottava sulla lingua del Passerini come se avesse appena ingoiato un tizzone. “Immagino si trattasse di Gianluigi Balotti. Draghetti mi chiamava dalla Thailandia e la linea era disturbata.”
“Molto bene,” annuì il brigadiere. “Continui.”
Di nuovo l’impressione di stare rivelando fatti gravi, precisi e concordanti, proprio quello che ci voleva per un’imputazione in piena regola. Ma ormai era in ballo e quando ormai ti sei lanciato dal decimo piano non è che puoi ripensarci e fare marcia indietro. Il Passerini diede una scorsa all’agenda: “Il giorno venti novembre ho incontrato Gianluigi Balotti alla Cà D’Anime. Il cliente mi ha riferito di avere già discusso la proposta col Gianni… pardon, col signor Draghetti.”
“A quanto ammontava l’offerta del Balotti?” Il brigadiere scambiò un’occhiata d’intesa con l’appuntato. Appollaiata tra le scartoffie della sua scrivania, la Granella tendeva le orecchie come antenne.
“Cinquantamila euro, anche se dalla stima l’immobile era stato valutato per ventimila.”
“Direi che è sufficiente. Se non ha altro da riferire…”
Veramente ci sarebbero quei disegni sul muro. Se lor signori desiderano, avrei anche le foto.
Il Passerini stava già per aprire bocca, quando il suo sesto senso lo avvertì che parlarne equivaleva a levare il telo di salvataggio di sotto al famoso tizio che stava precipitando.  
“Non c’è altro, direi,” si limitò a confermare.
“Si tenga a disposizione,” concluse l’appuntato, lanciandogli un’occhiata carica di minacciosi e incomprensibili sottintesi.

 
******

 
Immobile sottoposto a sequestro giudiziario.
Così recitava l’avviso che il giorno seguente il Passerini e la collega trovarono sulla porta dell’agenzia, sigillata da molteplici giri di nastro adesivo.
Una pioggia torrenziale annullava ogni rumore e lungo la strada i fari, accesi come di notte, si squagliavano in una foschia giallognola mentre le auto procedevano a passo d’uomo. Sul marciapiede, poche ombre filavano rapide a capo chino. Un tizio in bicicletta, interamente coperto da una cerata, rischiò di travolgerli passando come una saetta sul marciapiedi.
“Qualcuno mi spieghi che cosa è successo.” Ritta sotto l’ombrello che scolava acqua da tutte le stecche, la faccia della Granella era in tinta con la pozzanghera che si allargava ai suoi piedi.    
“Mi sa che non si può entrare,” balbettò il Passerini, con insolito acume. Fece un bilancio rapido: nel giro di ventiquattr’ore, aveva perduto la casa e forse anche il lavoro. Evidentemente, la gara di campionato mondiale della sfiga, a cui si trovava iscritto suo malgrado, si svolgeva in più giornate come il Giro d’Italia. D’un tratto la maglia rosa della salute che indossava sotto a giacca e cravatta acquistò un significato del tutto nuovo e imprevisto.
“Non hai sentito ieri il telegiornale?” attaccò la Granella, che gocciolava pioggia persino dal naso. “Quel tuo cliente, il Balotti, pare fosse coinvolto in affari poco puliti. Non si trattava neppure di un pesce piccolo e, se vuoi il mio parere, in questa faccenda c’è dentro anche il Draghetti. Ci sarà pure un motivo per cui la polizia è venuta a cercarlo in ufficio.”
“Non era la polizia, erano carabinieri,” fu l’unica osservazione che uscì da sotto l’ombrello del Passerini. La sera precedente era crollato nel letto così com’era, senza neanche cavare il consueto yogurt dal frigo e senza accendere la tivù: a digiuno nello stomaco e a digiuno di notizie sui fatti della Cà D’Anime. Al posto della testa, gli pareva di avere una boccia di pesci rossi in tempesta.  
“E adesso che facciamo?” D’un tratto la Granella pareva aver smarrito tutto il suo spirito: faceva acqua non solo dalle stecche e dal naso, ma anche tra le ciglia c’era un velo tremante, pronto a straripare in un pianto dirotto.    
“Adesso si fa colazione. Poi cercheremo di capirci qualcosa,” rispose il Passerini puntando decisamente verso il caffè all’angolo, non uno qualsiasi ma quello che esibiva il miglior assortimento di pasterelle. “Per me, cappuccio e cornetto. Al cioccolato, se c’è.” Lasciò l’ordine alla collega, quindi s’incamminò diretto all’edicola.
Le locandine del giorno erano un capolavoro di sintesi giornalistica: “Cadavere nel Reno, da tempo erano in corso indagini per riciclaggio.”
I quotidiani riportavano con dovizia di particolati il modo in cui il denaro depositato in Thailandia veniva utilizzato per ottenere credito ed essere reinvestito in Italia, utilizzando il marchio Fitness e benessere. L’elenco dei reati ipotizzati dal sostituto procuratore Radicchio – traffico di armi, scommesse clandestine, droga, prostituzione – era praticamente un Bignami del codice penale.
Con l’ombrello risucchiato qua e là dalle raffiche e i giornali sottobraccio, il Passerini rientrò nel caffè tirandosi dietro una coda di pioggia.
Seguì una lunga pausa dedicata alla lettura delle notizie. Per la prima volta da quando la conosceva, la Granella aveva inforcato un paio di occhiali a catenella e scorreva le righe fiutando come un segugio. Dal cassetto dei peggiori ricordi del Passerini, sempre molto affollato, saltò fuori l’immagine della sua vecchia professoressa di matematica, intenta alla correzione di un compito in classe particolarmente catastrofico.
“Quindi, secondo te, in tutta questa faccenda c’entra anche Strazzamaroni?” domandò dopo un poco. A tutto quel polverone, lui ci credeva fino a un certo punto. Li aveva visti con i suoi occhi, i disegni della Cà D’Anime, e non aveva dubbi che anche il terzo ritratto, quello di due ante Balotti, fosse opera del Punghèn.
Strazzamaroni c’entra, e c’entrano ovviamente le sue vacanze a Phuket,” ribadì la Granella. “Ti ricordi anni fa, quando Draghetti riuscì a piazzare l’ex salumificio Zampetti per duecentomila euro? Era una bicocca peggio della tua villa, e se non sbaglio l’acquirente era proprio la Fitness e benessere.”
“Questo non spiega niente. E poi che mi dici della maga Gisella?”
“Probabilmente era coinvolta anche lei. Magari aveva ricevuto delle minacce e non ha voluto mollare l’affare.”
“Andiamo, non sta in piedi,” replicò il Passerini con uno starnuto, perché lo zucchero a velo che ricopriva il cornetto gli era andato a finire su per il naso. “Di ruderi in campagna ce n’è quanti ne vuoi. Mica si può far fuori la gente soltanto per avere due muri da tirar giù.”
“Guarda che quelli non si fan degli scrupoli. Per loro , ammazzare è roba di tutti i giorni.”  
In quell’ora che veleggiava pigramente verso il culmine della mattinata lavorativa, nel piccolo caffè non c’era nessuno.
La luce smorzata da una serie di lampade creava lunghe ombre senza contrastare il buio che veniva da fuori. Il ticchettio della pioggia, il tavolino ingombro di giornali sfogliati, tutto contribuiva a creare un’atmosfera da naufragio senza superstiti.
Nel silenzio da veglia funebre che era caduto a un tratto, le note di Suspiria echeggiarono con la potenza di un’orchestra sinfonica nel taschino del Passerini. Aggrappata alla tazza del cappuccino fumante nel tentativo di scaldarsi anima e corpo, la Granella rivolse al collega un’occhiata guardinga.
“Studio notarile Pungipeli, buongiorno,” esordì all’altro capo una voce tremula, da persona anziana. Probabilmente centenaria oppure già morta, vista l’aria che tirava. “Parlo con il signor Massimo Passerini?”
“Chi lo cerca?” rispose l’interpellato, pronto a buttar giù nel caso di trattasse del Punghèn, di Draghetti o del procuratore Radicchio in persona, tutti con la voce in falsetto e sotto mentite spoglie.
“Finalmente la trovo, signor Passerini!” esultò il vecchietto, con un trapestio di carte che s’intuì sullo sfondo. “Sono il notaio Arrigo Pungipeli, esecutore testamentario del conte Filippetto Ludovico Giorgio Marino D’Anime di Valbella.”
Il Passerini s’era già smarrito al secondo nome. Di fronte al suo silenzio, il notaio continuò: “Lei è figlio ed erede del fu Passerini Enrico, a sua volta figlio ed erede di Passerini Eleuterio?”
“Direi che sono io, però…”
“L’attendo nel mio studio per importanti disposizioni che la riguardano. Mi trova a Bologna in via del Riccio numero 10. La prego di non farmi attendere ulteriormente, ho impiegato parecchi anni per ritrovarla e adesso non vorrei che si mettesse di mezzo pure la vecchiaia. Sa com’è, a novantotto anni il tempo ormai si fa breve…”
Il Passerini rimase per un po’ col telefono appiccicato all’orecchio, a dir poco perplesso dopo avere concluso quella strana conversazione.
“Quindi?” indagò la Granella.
“Non ho capito niente,” ammise il Passerini, “però devo andare.” Pagò il conto alla cassa, salutò la collega che ancora lo guardava con le due catenelle che penzolavano ai lati del naso. Solo in quel momento, dopo averci pensato sopra per anni, gli venne in mente che la Granella assomigliava a un kiwi, quel grosso uccello brizzolato col becco come una stecca. Con un sorriso a fior di labbra, uscì dal caffè e pochi minuti dopo sfrecciava sul pandino, diretto in via del Riccio.
 

 
******

 
Lo studio del notaio Pungipeli era in cima a una scala di cinque piani, illuminata appena da un abbaino sigillato da polvere, ragnatele e dai secoli. I gradini di pietra mostravano in certi punti l’impronta infossata e lucida di coloro che, per un tempo che s’indovinava lunghissimo, avevano preceduto Massimo Passerini nell’impresa di arrampicarsi su a piedi. In un vano scavato in quei muri da catacomba era stato impiantato un moderno ascensore, probabilmente per regalare ai visitatori il brivido della sepoltura da vivi: forse per via dell’umidità eccessiva, forse perché a eccedere era il peso del Passerini, fatto sta che non appena le porte si chiusero con un fruscio discreto, la luce interna si spense, l’apparecchio sussultò e non diede altri segni di vita.
Dopo un primo tentativo, seguito da un secondo tanto per non far sempre la figura del cacasotto, il Passerini decise ch’era molto più saggio salire a forza di gambe piuttosto che finire a sua volta sul giornale sotto al titolo: “Resti umani mummificati rinvenuti all’interno di un antico palazzo.”
Neanche a farlo apposta, il dottor Pungipeli esercitava la sua professione di notaio arroccato nella piccionaia dell’ultimo piano. Il Passerini arrivò su che respirava a stento, fischiando come un merlo.
Il portone di legno scuro si aprì su un metro e mezzo di gobba e il volto dolce e decrepito di una donna. Dietro s’intravedeva il quadrato di luce morbido di una cucina, con le presine e i burazzi appesi ai loro ganci e e un tegame che borbottava sul fornello. Il Passerini seguì la donna in fondo a un corridoio in cui l’aroma del ragù di una volta, quello che resta a cuocere per almeno due ore, si mescolava alla cera dei grandi mobili in legno, armadi e cassapanche tutti ugualmente scuri.
Il corridoio era immerso in una tenebra da oltretomba e il Passerini raggiunse lo studio del notaio praticamente rimbalzando da uno spigolo all’altro. La vecchina si dileguò dopo avere dischiuso uno spiraglio e infilato dentro la punta del naso:
L’è arivè il ragazuòl,” disse, un attimo prima di scomparire.     
A quel punto il Passerini si fece coraggio e infilò a sua volta dentro alla stanza dapprima il naso, poi tutto quanto il resto.
Quello che si presentò davanti ai suoi occhi era una via di mezzo tra un labirinto e un museo. Enormi librerie dividevano la sala in corsie strette come le cavedagne. Appesi al buio in alto, grandi lampadari a gocce tintinnavano mossi da correnti invisibili.
Sui ripiani, trovavano spazio non soltanto volumi più o meno corposi, ma ogni sorta di oggetti bizzarri: civette e barbagianni, appollaiati in fila su un ciocco di legno, lo scrutavano coi loro occhi di vetro. Poco più in là, rinchiusi in una teca, facevano capolino dei pesci mai visti, forniti di una mascella così vigorosa e denti così aguzzi che il Passerini provò un certo sollievo nel leggere la didascalia sottostante: “rana pescatrice degli abissi, vive a 3.000 metri di profondità.”
Spero non qua da noi, si limitò ad aggiungere, mentre la voce tremula già sentita al telefono lo invitava a proseguire:
“Si accomodi, Passerini! Avanti, sempre dritto.”
Un’altra teca conteneva dei ragni di dimensioni tali che al Passerini ricordarono i tempi in cui furoreggiavano le bestiacce di gomma e il Secchio e l’Anguilla ne avevano infilato più d’uno negli armadietti della sala dei professori.
Una volta raggiunto il centro del labirinto, gli si parò dinanzi una scrivania monumentale, dietro alla quale era assiso un vecchietto azzimato. Quando il notaio scese dal suo scranno per venirgli incontro, il Passerini si accorse ch’era ancora più fragile e trasparente della donna del ragù. Aveva gli stessi occhi limpidi e azzurri, sul volto la medesima espressione benevola e sulla schiena una gobba ancora più poderosa.
“Prego, signor Passerini,” lo invitò Pungipeli, tentando di avvicinare una sedia imbottita che era palesemente più grande di lui e doveva pesare il doppio. “Mi perdoni se la mia collezione l’ha un po’ inquietata. Amo le cose strane, le tante curiosità di questo pazzo mondo.”
“Io l’ho trovata davvero interessante,” mentì il Passerini, per buona educazione. D’un tratto, avvertiva l’impulso di grattarsi dappertutto, come se uno di quegli aracnidi a pelo lungo fosse a passeggio su e giù per la sua schiena. Era anche incerto se dare una mano all’anziano oppure trattenersi per timore di offenderlo. Quando però si avvide che la monumentale sedia imbottita era sul punto di crollare addosso al notaio, si affrettò a sollevarla con una sola mano, la trasportò di peso fino alla scrivania e si sentì due ante per un brevissimo istante.
“Grazie Passerini e beata la gioventù! Orbene, procediamo!” Pungipeli recuperò il suo posto sullo scranno, lesto come un folletto. Da una scansia alle sue spalle levò un grosso faldone, barcollò per un attimo, riuscì a depositarlo indenne sul tavolo. “A quanto mi risulta, lei è l’erede designato dal conte Filippetto eccetera D’Anime, che in gioventù fu amico carissimo di suo nonno Eleuterio.”
“Il conte Filippetto?” Ma se era vivo e vegeto solo pochi giorni fa…
Il notaio Pungipeli frugava assorto tra i meandri del faldone. Dopo un poco, riprese: “Lei che è del posto avrà senza dubbio sentito parlare della leggenda del violinista della Cà D’Anime. Si dice che lo sfortunato musicista si sia impiccato proprio dentro alla villa e che da allora il suo spirito si aggiri per le sale, traendo dalle corde melodie inquiete e addirittura in grado di condurre alla pazzia.”  
“Conosco questa storia,” ammise il Passerini. “Me la raccontava mia nonna quand’ero un cinno. Diceva che alla Cà D’Anime accadono cose strane.” E Dio solo sa quanto aveva ragione.
“Il conte Filippetto amava molto il violino, ma soprattutto amava l’Agostina Dall’Olio, figlia dei contadini che badavano al podere,” continuò Pungipeli.
Di quale Filippetto stiamo parlando? Quello del viulèn o quello dei burattini?
“La storia dell’impiccato fu in realtà una scusa inventata dai conti D’Anime per salvare la faccia, dopo che Filippetto fuggì dal paese assieme alla ragazza. Fu il Passerini Eleuterio a sventare il suicidio, un giorno in cui aveva appuntamento alla villa col giovane conte, per accompagnarlo in cerca di funghi. Lo trovò con la corda al collo e riuscì appena a soccorrerlo con l’aiuto di una certa Ildefonsa, cameriera della famiglia. Per farla breve, l’Eleuterio convinse il conte ad andarsene e gli donò… mi faccia controllare… esatto, gli donò duemila lire in contanti, tutti i risparmi che lo stesso Passerini teneva ben cuciti nel materasso. Erano molto amici.”
“Mi perdoni se la interrompo,” intervenne a quel punto il Passerini. “Mio nonno non mi ha mai raccontato nulla in proposito. Anche mio padre, credo, non ne sapeva niente.”
“Ecco qui il testamento redatto e sottoscritto dal conte D’Anime di suo pugno.” Pungipeli gli piazzò sotto al naso una serie di fogli vergati da una stilografica sbiadita. “Mi è stato consegnato dal conte Filippetto ancora molti anni fa. Nonostante la sua vita raminga, i suoi gli conservarono il titolo di erede, anche perché non c’era nessun altro parente. Io andavo spesso ad assistere agli spettacoli di burattini in piazza, a quel tempo la buonanima e sua moglie lavoravano per una compagnia molto in voga. Lui suonava il violino e l’Agostina cuciva i costumi delle marionette. Ci siamo conosciuti in quei tempi felici.
Non durò a lungo, nel giro di breve il conte rimase vedovo e a quanto pare perse anche l’unico figlio. Fu allora che prese l’abitudine di tornare di tanto in tanto alla villa. Durante una di quelle visite, realizzò lui stesso un affresco che ritraeva la sua amata nelle sembianze di una ninfa dei campi. Era proprio così che era apparsa ai suoi occhi la prima volta che l’aveva incontrata, nei giorni della mietitura. Spesso, quando gli capitava di tornare alla villa, il conte rispolverava la sua passione per il violino. In verità suonava solamente per lei, l’Agostinella, per ricordare gli anni vissuti insieme. È tutto molto romantico.”  
“Direi invece che è strano. Quando sarebbe morto il conte Filippetto?”
“Ho qui il certificato che ne attesta la morte alla data del 22 novembre 2008. Tra poco, e per la precisione domani, saranno dieci anni prezìs.”
Ma se io l’ho incontrato solo pochi giorni fa, stava per dire il Passerini. Invece, domandò: “E in tutto questo tempo non si è fatto vivo nessuno?” E soprattutto, io che c’entro?
Il vecchio notaio si grattò i pochi capelli che ancora gli restavano tra la zucca e la gobba: “L’unico figlio è morto. Non esiste nessun altro, che io sappia, che possa far valere diritti sulla Cà D’Anime. In tutti questi anni, il mio compito in qualità di amico personale del conte D’Anime è stato ricercare l’erede disegnato. Non le nascondo che è stato come frugare in un pagliaio per cavar fuori un ago. Leggendo il testamento, ero convinto che il nome corretto fosse Passarini Eleuterio e lei non ha idea di quanti Passarini ci siano in tutta la pianura padana. A un certo punto ho dovuto sospendere le ricerche per curarmi di un brutto male. Ma anche in quei giorni, il mio pensiero era sempre rivolto alle ultime volontà del mio amico. Lei forse è troppo giovane per capire, ma quando qualcuno muore, qualcuno che è profondamente caro al nostro cuore, a chi rimane spetta di vivere anche per lui.”
“Mio nonno è morto da molti anni. Mi spiace che lei abbia cercato tanto a lungo per nulla.”
“Si sbaglia, giovanotto,” sorrise il notaio. “A questo punto, è opportuno che dia lettura delle clausole testamentarie vere e proprie: io sottoscritto Filippetto D’Anime, eccetera eccetera, nomino mio erede universale Passerini Eleuterio e in sua assenza i suoi legittimi discendenti, con diritto ad acquisire la proprietà della villa denominata Cà D’Anime in località I Grilli, nonché i campi per un totale di dodici ettari di terreno. Tradotto in soldoni, l’erede del conte è lei, signor Passerini. Non può immaginare quanto sono felice di aver finalmente adempiuto alla mia promessa, realizzando gli ultimi desideri di un caro amico.”
“Dev’esserci un equivoco.” Oppure sto sognando, tra poco mi sveglierò per andare al lavoro, troverò l’agenzia aperta e darò un bacio in fronte a Strazzamaroni Draghetti. Non so se avrò il coraggio di baciare la Granella, ma ciò che importa è che tutta questa faccenda non sarà mai accaduta.  
“Non c’è nessun equivoco, può esserne certo.” Il notaio gli rivolse un sorriso così largo che anche le orecchie si mossero, prese dall’emozione. “L’unico vincolo imposto all’erede consiste nell’impegno a conservare in buono stato l’immobile e a non deciderne l’abbattimento per nessuna ragione.”
Finalmente una lampadina si accese tra i neuroni parecchio ingarbugliati del Passerini: “Non credo che potrò permettermi le spese per restaurare quel rudere.” Certo di aver trovato una scusa coi fiocchi, andò avanti a spiegare: “Ho qualche risparmio da parte, ma sarei più interessato a investire in un campicello, proprio in memoria di mio nonno Eleuterio.”
“Qui ci sono dodici ettari di podere. E se proprio vogliamo metterla in questi termini, anche questa è pur sempre eredità di suo nonno.”
“Posso pensarci su e darle una risposta.”
“Non abbiamo molto tempo,” incalzò Pungipeli. “La successione si è aperta alla morte del conte. Come lei ben saprà, da quel momento è iniziato a decorrere il termine per accettare l’eredità: dieci anni prezìs, che scadono per l’appunto domani. Sicché lei dovrebbe decidere adesso.”  
La sensazione che tutti i ragni del mondo si fossero dati convegno sulla sua schiena rimase a lungo impressa nella mente del Passerini, insieme a una domanda: Ma se il conte era già morto e sepolto, io chi ho incontrato al teàter di buratèn?
 

 
******

 
Ad aprile, i quattro ciliegi piantati lungo il declivio della Cà D’Anime erano diventati dieci, una fila sparuta che però dimostrava di avere attecchito bene. I rami ancora spogli si erano rinforzati, moltiplicando i getti e accennando qua e là una timida fioritura. Tra le dita del Passerini, quei calici picchiettati di rosa proprio al centro ricordavano l’ultima neve, caduta all’improvviso quando già era marzo e gli stormi di rondini cominciavano a tornare.
L’è un bel disâster,” aveva detto il contadino Raggi, scrutando il cielo basso e i fiocchi che cadevano in file disciplinate.
Quando erano riusciti a tornare sulla collina dopo quella tormenta di tre giorni e tre notti, avevano trovato parecchi rami spezzati. Il Passerini non aveva fatto neppure in tempo a preoccuparsi: una palla di neve, compatta e massiccia come solo l’Anguilla sapeva farle, l’aveva centrato in pieno sfarinandosi in schegge ghiacciate giù per la schiena. Rabbrividendo, un poco per il gelo e molto per la sorpresa, il Ninèn s’era voltato in cerca del simpaticone di turno. Dietro di lui, naturalmente, non c’era nessuno.
A metà del pendio, il contadino Raggi era intento a sgombrare l’orto, a rassettare i teli che coprivano le semine e a rimettere in piedi i paletti. “Tutto bene, lassù?” aveva detto schermando la voce con la mano, per farla arrivare a quel mamalόcc di città lo stava fissando. “C’è da lavorare, qua, mica da divertirsi,” aveva brontolato, udendo una risata che in realtà proveniva dai tetti della Cà D’Anime, bianchi sotto la coltre di quella nevicata che, a sentire i giornali, non se n’era mai vista una uguale da quando c’era il paese.
Non sono io che rido, aveva commentato tra sé il Passerini, schivando un’altra palla e cavando un intero blocco, così grosso che andava bene per costruirci un pupazzo, due bottoni per gli occhi e una carota al posto del naso. Con quel proiettile era sceso fino alla più vicina breccia nel tetto e l’aveva lanciato dentro, suscitando un tripudio di voci di ragazzini e lo sbigottimento negli occhi di Elpidio Raggi.
Zitadèn, che combini?” aveva detto allora il vecchio contadino, con la pala a mezz’aria. “Fai i dispetti ai fantèsmi?”
Contro tutte le previsioni, aprile aveva portato quella fioritura imprevista. Grappoli bianchi e rosa su quei rami apparentemente stecchiti, che disegnavano l’aria di trame nodose e nere e parevano buoni per accendere il camino.
In quel periodo, la campagna era in pieno fermento e ogni angolo risuonava di voci.
Dai torrenti che ruzzolavano a capofitto dall’Appennino, arrivavano al fiume le acque del disgelo. Al pàzz di melcuntànt, dove solitamente la corrente si arrestava e restava là a cincischiare senza andare né avanti né indietro, il silenzio che regnava al tempo della nebbia aveva ceduto il passo a tutto un affaccendarsi di scrosci e gorgoglii.
Fu in quel periodo che il Passerini lasciò il suo appartamento in città. Dopo aver caricato gli ultimi scatoloni e percorso le stanze per vedere se aveva dimenticato qualcosa, aveva consegnato le chiavi a Maga Magò con un mese di anticipo sui tempi stabiliti.
“È stato un piacere, signor Passerini,” aveva cinguettato la vecchia Poggioli, che tanto per cambiare brandiva la scopa e gli venne incontro scivolando sulle pattine. “Mi rincresce perdere un inquilino come lei, così silenzioso. Se ha bisogno di referenze…”
Il Passerini rispose che non gli occorreva altro. Un po’ di magone in realtà ce l’aveva, all’idea di lasciare quelle quattro pareti dove di lui, ormai, non era rimasto niente. Attraversando le stanze, sgombre e con le tapparelle abbassate, era rimasto sopraffatto dal silenzio. Solo il grande frigo della cucina gli rimandava il suo ronzio rassicurante.
Caracollando sul pandino con gli scatoloni che ostacolavano la visuale, si era avviato in direzione della campagna. I rumori del traffico della prima mattina giungevano ovattati come se intorno a lui non ci fossero camion carichi di derrate, auto ferme ai semafori e motorini sfreccianti, ma soltanto la quiete senza tempo dei campi, il fruscio del fiume che attraversava la pianura diretto al mare e davanti a lui il nonno Eleuterio, col badile e la zappa sulle spalle ricurve.  
Dopo un breve tragitto parcheggiò di fronte alla sede dell’Immobiliare, che pareva una Cà D’Anime in miniatura, relegata nell’ombra dall’avviso di sequestro sbiadito dalla pioggia. Sulla vetrina, dove erano ancora erano appesi vecchi avvisi di affittasi, lo smog aveva steso una patina scura, a colpi di cazzuola a giudicare dallo spessore.
Del Draghetti non s’erano più avute notizie. Anche l’inchiesta relativa alla morte e ai proficui traffici di due ante Balotti doveva essersi arenata da un po’, fatto sta che i giornali avevano smesso di parlarne. All’edicola, i quotidiani erano tornati a occuparsi di politica e sui rotocalchi fioriva il gossip sui reali d’Inghilterra, le principesse di Monaco, qualche volto della tivù, insieme alle prime diete per arrivare pronti alla prova costume.   
Poco più in là, era stata aperta da poco un’agenzia di viaggi. Dalla porta filtrava un odore di arredi nuovi. Scalza su un telo azzurro, mosso qua e là per rappresentare le onde del mare, la collega Granella era intenta a disporre in vetrine conchiglie e dépliant. Alle sue spalle, un poster mostrava spiagge di sabbia candida, un’amaca tra due palme e un panda in bermuda, che poi era il logo del tour operator.
“Anch’io sono in partenza,” sorrise il Passerini. “Ci vediamo al paese.”
“Quindi alla fine ti hanno appioppato quel rudere. Voglio proprio vedere come riuscirai a tenerlo in piedi. Già ti avranno pelato con le spese di successione.”
“Infatti, non ho più un soldo,” rise il Passerini. “Per ora mi occupo solo delle colture. Speriamo di riuscire a vendere due radicchi.”
La Granella finì di sistemare un veliero in miniatura tra i marosi di tela azzurra, dopo di che scese dal ripiano con cautela, cercando le scarpe con le punte dei piedi.
“E del Draghetti, hai più avuto notizie?”
“Secondo me è rimasto in Thailandia, ad aspettare che si calmino le acque.”
“Forse non tornerà,” annuì la Granella, dirigendosi verso una scrivania decorata con il panda in bermuda, questa volta in peluche. Da un cassetto cavò una busta e la infilò nella tasca del Passerini: “Tu però, vedi di non sparire. Fammi sapere come procede con i lavori e i radicchi.”
Solamente più tardi, quando era già alla villa e cercava di raccapezzarsi tra gli scatoloni impilati, il Passerini sentì qualcosa che gli pungeva nelle tasche e si ritrovò in mano la busta della Granella. Dentro, c’erano duecento euro in contanti e un biglietto: “Ogni fine è un inizio,” scriveva la collega, con la sua calligrafia simile a zampette di uccello. “Stammi bene e non mangiarteli tutti in pasticcini.”
Per un attimo, il Passerini si sentì come il conte Filippetto, soccorso in extremis da suo nonno Eleuterio. Mentre frugava a caso in cerca del fornelletto, del sacco a pelo e della lampada da campeggio – dentro alla Cà D’Anime si gelava - incominciò a pensare a come avrebbe potuto far fruttare quella piccola somma: ovviamente pensava ad altre colture, ma forse poteva anche concedersi lo sfizio di un secchio di vernice, per cancellare quei famosi disegni che per fortuna nessuno, a parte lui, aveva mai visto.    
Soprappensiero percorse corridoi e vani ombrosi, finché non arrivò alla sala degli affreschi.
Ritratta di profilo su un orizzonte di colline e cipressi, la ninfa campestre fissava con lo sguardo un punto lontano. Degli inquietanti schizzi che ritraevano la maga Gisella, la moracciona coi cavatappi e due ante Balotti non c’era alcuna traccia, neppure una macchia a indicare che un nuovo strato d’intonaco era stato spalmato là sopra di recente. Persino il pentacolo e il caprone erano svaniti nel nulla.
Bella, Ninèn, che fai? Hai visto un fantasma?” saltò su a un tratto una voce ben conosciuta.
“Se cerchi i disegni, sono spariti tutti insieme al Punghèn,” attaccò la seconda. “Meglio così, facevano proprio schifo. Se vuoi te lo faccio io, un bel ritratto. Avevo nove in disegno.”
 “Chissà dov’è andato a finire, quel bravo umarell,” riprese l’Anguilla. “Forse non aveva più niente da fare qui, oppure nessuno si ricordava più di lui.”
“Io direi che lui c’ha messo dello sbuzzo[1], per farsi ricordare,” osservò il Passerini, che si sentiva ancora un fuorilegge a piede libero. Nonostante fossero passati dei mesi, continuava a pensare che nell’ufficio del procuratore Radicchio, in tutte le stazioni dei carabinieri e addirittura presso la polizia thailandese, fosse affisso un manifesto con la sua foto e la scritta wanted, come nei film western.
“Forse il compito del Punghèn era semplicemente proteggere la villa,” azzardò il Secchio. “Adesso sarà andato a farsi una pennichella al camposanto insieme al suo furgone. Tra l’altro, mi sa che gli era scaduta la patente. Da un bel pezzo, direi.”
“Voi invece non ci pensate proprio, a farvi un bel sonno?”
“Noi siamo tuoi amici,” rise l’Acciuga. “E finché starai qui ci saremo anche noi, per fare un po’ di balotta insieme come ai bei vecchi tempi.”   
Mo che bellezza,” rispose il Passerini, che non voleva ammetterlo ma in fondo era contento.
Il giorno seguente, dopo avere trascorso la notte insonne non per via dei fantasmi ma per il gelo artico che infestava la villa, il Passerini uscì all’alba per scaldarsi le ossa, più che per lavorare. Lungo il pendio pareva che fosse tornata d’un tratto la neve. Ovunque si ammassavano quei riccioli di lanugine che la primavera dei pioppi manda a spasso col vento.
Tutt’intorno regnava il silenzio incantato della mattina presto, interrotto soltanto dall’abbaiare di un cane che giungeva a folate da qualche casolare. Il Passerini, che quella mattina aveva deciso di dissodare un altro pezzo di terra e si sentiva sfinito ancor prima di cominciare, si fermò ad ascoltare: quel richiamo che andava e veniva insieme alla brezza, gli aveva messo addosso una gran nostalgia. Era ancora assorto nei suoi pensieri quando dalle file imbiancate dei pioppi gli venne incontro un bracco tale e quale alla Trifola. O meglio, un mucchio d’ossa dotato di quattro zampe e un mozzicone di coda che batteva l’aria a destra e a manca, in preda a un parossismo di festa.
Quel cane che, a guardarlo, pareva centenario, saliva il pendio ansando con la lingua di fuori. Forse perché in procinto di tirare le cuoia o forse con l’intenzione di piazzare un paio di poderose leccate sul primo pezzo anatomico di proprietà del Passerini – mani o faccia o entrambi – che gli fosse capitato a tiro. Sul dorso ispido si distingueva una macchia talmente riconoscibile e familiare che il Passerini, a quel punto e alla faccia dell’evidenza, non ebbe più dubbi.
“Qua Trifola! Vieni qua, bello!”
Il bracco passò sfiorando le gambe del Passerini, acchiappò una carezza al volo poi proseguì la corsa e se ne andò così com’era venuto, sparendo tra i cespugli e la bambagia dei pioppi.
Solo allora il Passerini si accorse dell’altra figura ferma più a valle, nei pressi della Cà D’Anime. Si trattava di un tizio che indossava una palandrana d’altri tempi e teneva un violino posato sulla spalla, come fosse in procinto di attaccare a suonare.
“Signor conte!” chiamò il Passerini, sbracciandosi dalla cima del colle e senza rendersi conto di quell’assurdità. “Signor Filippetto! È mica suo quel cane?”
Vista da lassù, nel vento che iniziava a spirare più forte, la piccola figura era poco più di un’ombra. Il Passerini la vide sollevare la mano in segno di saluto, dopo di che la brezza la portò via con sé. Fu a quel punto che la melodia malinconica di un violino iniziò a farsi sentire per la campagna intorno, per tutta la pianura e fino all’argine del fiume, finché fu superata dal canto del primo usignolo della stagione.
 
 
 
 

[1] Creatività, inventiva.

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