My Fate is Your Name

di Flos Ignis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La scoperta ***
Capitolo 2: *** Incontro ***
Capitolo 3: *** Insieme siamo più forti ***



Capitolo 1
*** La scoperta ***



Sherlock Holmes era una creatura strana e particolare, il destino in cui non aveva mai creduto era stato generoso e crudele con lui.

Era stato cresciuto da due genitori affettuosi, ma per qualche ragione sconosciuta tra la moltitudine di parenti, zii, cugini più o meno acquisiti, in tutta la sua famiglia solo lui e suo fratello erano venuti fuori con un quoziente intellettivo minimo necessario per condurre una conversazione di un certo livello.

Le scuole primarie invece furono un incubo; suo fratello maggiore Mycroft era l'incubo degli insegnanti con la sua lingua d'argento, capace di abbindolare e mettere in imbarazzo adulti laureati e cosiddetti esperti da cui lo portarono i loro genitori. I bambini gli stavano lontani, sia per i suoi incomprensibili insulti che per la sua mole considerevole che lo proteggeva dai bulli ignoranti. Tutto sommato, più che un incubo, quei primi anni per il maggiore degli Holmes furono un interminabile limbo di noia.

Per Sherlock fu più dura. Un simile acume in un bambino dalla lingua biforcuta e dal carattere introverso e solitario come il suo creava un mix letale che gli causava guai giorno dopo giorno sempre peggiori. Una correzione a lezione di matematica gli procurava una nota per comportamento irrispettoso, una risposta acida ai compagni di scuola gli faceva spuntare lividi ovunque, scoprire i segreti e le bugie di chi gli stava intorno e svelarle ad alta voce finiva con una sospensione, un naso rotto, la rovina dei suoi amati libri... cose sempre più gravi, in tutte e sei le scuole che cambiò dall'infanzia all'adolescenza.

E più cresceva, più il mondo non capiva la verità che perseguiva in ogni campo del sapere, più il suo carattere si inaspriva e si chiudeva in un muro di spine e la sua intelligenza si acuiva e scatenava contro gli altri. 

A cosa gli servivano gli altri, quando con il poderoso cervello che madre natura gli aveva fornito poteva tranquillamente bastare a se stesso?

Lui si affidava ai fatti, alle prove, alla solida sequenza del pensiero logico che gli consentiva di trovare sempre una soluzione a qualsiasi problema.

Che spazio trovava il Fato nella pura logica che Sherlock applicava a ogni anfratto di se stesso e del mondo? Nessuno, ovviamente. Mai, impossibile.

Ecco perchè, quando compì diciotto anni, tutta la sua amata logica non gli servì minimamente a comprendere, nè tanto meno ad accettare, lo scherzo del destino che gli capitò.

Non si trattava di una regola fissa, nè un evento comune, tutt'altro: i casi come il suo erano mere eccezioni, casi talmente rari ed eccezionali da rasentare una vera e propria rarità, un caso da uno su un milione. E per quanto ciò fosse degno di un certo interesse accademico, i confini di tali eventi sfioravano troppo spesso i campi teorici del sovrannaturale per interessare veramente una mente analitica come Sherlock. 

Quando era stato costretto a studiare tali eventi al collegio, aveva ipotizzato una possibile mutazione genetica come spiegazione, ma i suoi insegnanti l'avevano quasi bollato come eretico per aver cercato di spiegare un evento che loro definivano "miracoloso".

Che branco di idioti senza cervello, aveva pensato. E sebbene non si fosse mai applicato in prima persona per provare la sua teoria, non aveva neppure accettato passivamente gli insegnamenti di coloro che parlavano di miracoli a lezione di biologia. Aveva semplicemente rimosso che quelle persone tanto speciali esistessero.

E quando compì diciotto anni, si scoprì a essere uno di loro. Una rarità, un'anomalia genetica, perchè si rifiutava di pensare a un miracolo divino: come fa un essere inesistente a fare qualcosa? Inutile anche solo pensarci.

Ma la macchia indelebile di inchiostro che gli era apparsa sul pettorale sinistro, poco sotto la clavicola, lasciava poco spazio ai dubbi.

Un nome e un cognome si erano marchiati a fuoco sulla sua pelle, reclamandolo come sua anima gemella.

John Watson.




John Watson aveva avuto un vita difficile, dove tempo per speranze e sogni non ce n'era. 

In mancanza di una figura paterna, sparita così presto dalla sua vita da non lasciarsi dietro neppure l'ombra di un ricordo, si era fatto uomo in fretta per badare a sua madre e a sua sorella. A nove anni preparava i pasti per lui e sua sorella quando la madre faceva doppi turni in ospedale per arrivare a fine mese, a dodici prendeva a calci i bulletti che prendevano in giro Harriet per la sua corporatura massiccia, a quattordici aveva iniziato a dare ripetizioni ai fratellini dei suoi amici per mettere da parte dei soldi.

Aveva sempre avuta ben chiara in mente la differenza tra i concetti di giusto o sbagliato e si era battuto come un leone per le battaglie che gli erano capitate quotidianamente, piccole o grandi che fossero, perchè non aveva mai accettato che fossero gli altri a dirigere le sue scelte: era diventato indipendente da così giovane che, quando qualcuno si arrogava il diritto di decidere per lui, il sangue gli andava dritto al cervello facendogli vedere rosso dalla rabbia.

A lui, e a lui solo, spettava scegliere la sua strada.

Diffidava delle persone, ma proteggeva strenuamente la famiglia e quei pochi, buoni amici che si era scelto con criteri rigidissimi.  

Aveva combattuto per tutta la sua vita, perciò nessuno si era sorpreso quando, all'età di diciassette anni, aveva annunciato di voler diventare un militare, per calmare il fuoco di giustizia che gli bruciava nelle vene, ma anche un medico, perchè sua madre era stata l'eroe della sua infanzia e stimava profondamente lei e il suo mestiere di infermiera, che le permetteva di salvare delle vite.

Quella volta vide sua madre in lacrime per la prima volta da quando lui e Harriet da bambini erano caduti da un albero e avevano passato la notte al pronto soccorso. Erano lacrime di commozione e orgoglio però quel giorno, tanto che anche il cuore di John scoppiò di felicità.

Aveva costruito la sua intera esistenza intorno alle poche persone care al suo cuore, alla sua ferrea morale e ai valori che intendeva proteggere: onore, famiglia, fede, vita.

Cose pratiche, poco concrete forse, ma scegliendo di diventare un medico militare era sicuro di aver trovato la sua vocazione e al tempo stesso il modo di mettere in pratica tutto ciò che per lui era importante.

Aveva inviato tutti i documenti pratici, entro un mese si sarebbe diplomato e tutto sembrava filare liscio come l'olio. Era pronto a rimboccarsi le maniche e a lavorare sodo, aveva ottenuto una borsa di studio in medicina e non appena pronto sarebbe partito per salvare le vite dei coraggiosi soldati americani sui fronti caldi.

Era pronto a una vita di lavoro, dolore e sacrifici... ma al suo diciottesimo compleanno il destino che si era fatto tante beffe di lui gli fece un dono.

Inaspettato, a tratti persino sgradito, un peso che John non avrebbe mai voluto portare.

Naturalmente, per ottenere la sua borsa di studio aveva iniziato ben prima del suo diploma a rifornirsi di manuali di medicina per potersi preparare, quindi sapeva esattamente di che fenomeno si trattasse. Gli ignoranti lo definivano "miracolo", ma alcuni luminari avevano iniziato già a fare ipotesi ben più attendibili. Aveva imparato a non credere nelle probabilità e anche se si trattava di casi estremamente rari, potevano accadere a chiunque al compimento della maggiore età.

Certo, John non si aspettava che capitasse proprio a lui.

Lungo tutto l'avambraccio sinistro, in un elegante corsivo nero, si era inciso il nome della sua metà predestinata, dell'unica anima nell'universo in grado di completarlo, a quanto aveva letto nei suoi libri.

Sherlock Holmes.



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Capitolo 2
*** Incontro ***



Era un uomo pratico, John Watson.

Come militare un solo secondo di distrazione poteva farti finire con una pallottola in testa o una mina esplosiva sotto i piedi. O peggio, l'intero plotone poteva essere spazzato via per un singolo errore.

Come medico, sapeva che anche i secondi erano fondamentali per fare la differenza tra il salvare una vita o farsela scivolare via dalle dita, come sabbia che scorre in una clessidra. Ogni attimo di indecisione è un secondo in più in cui la morte occupa il corpo del proprio paziente, rendendolo sempre più suo, sempre meno aggrappato alla realtà.

Le sue mani non esitavano, mai. Riaggiustavano ossa, fermavano emorragie ed estraevano pallottole con una fermezza e un'attenzione negli occhi che molti gli invidiavano. 

Aveva una discreta carriera alle spalle giunto a trent'anni suonati, gli ultimi dodici dei quali passati via di casa: aveva visto il mondo in tutta la sua maestosa crudeltà come nei suoi piccoli miracoli quotidiani, facendo tesoro della determinazione ceh aveva coltivato fin da ragazzo per sopravvivere mantenendosi il più possibile sano di mente. Un traguardo di un certo livello per un soldato...

Per tutti quegli anni gli era mancata sua madre come mai si era aspettato, l'aveva lasciata sola ad affrontare l'alcolismo sempre più allarmante di sua sorella e anche se ormai la sua relazione con Clara stava avendo degli effetti positivi sul suo stato, niente poteva affievolire la sua preoccupazione.

Mentre era in Afghanistan non poteva certo mantenersi in contatto con loro tutti i giorni, invece durante gli anni dell'accademia militare, dove pure i contatti con l'esterno erano molto limitati, aveva chiamato con frequenza.

Ma era questo il punto del crescere: le responsabilità aumentavano, e ora lui non era più responsabile solo per le due donne della sua vita, ma di molte, molte più persone: combatteva su un fronte caldo in prima linea, proteggeva i civili indigeni come poteva e riportava i suoi uomini al campo più interi possibile. E quando non era possibile, li seppelliva con dignità dopo aver curato più gente che poteva.

Aveva fatto del suo meglio, almeno fino a pochi mesi prima.

Era stato congedato con onore per via della sua ferita alla spalla che gli aveva procurato una fastidiosa zoppia psicosomatica, ma dopo alcune settimane di terapia era riuscito a riprendersi quel tanto che bastava per trovarsi un lavoro come chirurgo in un ospedale di Londra. Non poteva certo sopravvivere con la sua pensione per sempre e amava troppo quella città per abitare in qualunque altro luogo.

Certo, per ora doveva stare in un buco di appartamento fornito ai reduci di guerra dal governo, ma era difficile trovare un bravo coinquilino per dividere l'affitto di un locale decente.

Ridestandosi dai suoi pensieri, John si decise ad alzarsi dal letto dove aveva rimuginato sulla sua vita per quasi un'ora. Dormire a lungo gli risultava difficile, perciò si chiese perchè non avesse ancora sparato alla sveglia sul suo comodino, che faceva sempre un rumore infernale nonostante non avesse di fatto mai svolto il suo lavoro, perchè al buon dottore non serviva altro che un sussurro a dieci metri per destarsi.

Era ora di andare a lavoro comunque, i pazienti non si curavano da soli. 

Recuperò la sua borsa e il bastone, chiudendosi alle spalle la porta di quel posto che faticava a chiamare casa, quando era poco più di un luogo in cui dormire e talvolta consumare qualche pasto take-away.

L'ospedale in cui lavorava era a meno di quindici minuti a piedi da dove abitava, e quando vi giunse notò che come sempre c'era il solito via vai frenetico che annunciava grandi disastri.

-Dottor Watson, la aspettano tra dieci minuti alla sala operatoria uno, ferita da arma da fuoco al torace.-

-Buongiorno anche a te Sara. Iniziamo la giornata con il botto sembra.-

-Una sparatoria tra la polizia e alcuni criminali della mafia cinese, sembra che un civile sia stato coinvolto, ma è tutto ciò che sappiamo.-

-Molto bene, vado a salvare la vita di qualche sciagurato finito in mezzo ai guai.-

-Eccoti la sua cartella clinica. In bocca al lupo.-

L'infermiera dell'accettazione gli consegnò un faldone spesso quanto un mattone sotto il suo sguardo stranito. Ma cos'era quel paziente? Sara lo guardò sorridendo, capendo perfettamente cosa gli stesse passando per la testa.

-Sì, quell'uomo è stato spesso nostro paziente, francamente quasi metà delle nostre operazioni chirurgiche sono per lui.-

-Va bene, andiamo a salvare la vita a questo pazzo.-

Appoggiò nel suo ufficio la borsa, cercando la concentrazione sufficiente a restare in piedi per ore per operare un povero diavolo che si era beccato una pallottola in spalla.

Come sempre, gettò uno sguardo al suo avambraccio. Erano dodici anni che quel nome si era ancorato alla sua pelle, e per quanto fosse stato scioccato quando era apparso, aveva imparato a conviverci. 

Era un medico, sapeva che per quanto rari, certi eventi potevano accadere a chiunque.

Era un militare, sapeva che se certe cose dovevano accadere la misera volontà umana non poteva certo contrastarle. Se il Signore così aveva deciso, così sarebbe stato.

Comunque, nonostante ci convivesse e sapesse tutto ciò che comportava avere un nome preciso addosso, non si era mai impegnato a cercare il possessore di quel nome. Aveva deciso da molto tempo che, se era nel suo destino, avrebbero comunque incrociato i loro cammini.

In ogni caso, si premurava sempre di avere una benda a coprirsi l'avambraccio per non averlo sempre sotto gli occhi. Non aveva bisogno di distrazioni nel lavoro che aveva scelto, la sua concentrazione doveva essere costantemente al massimo e nel vedere quel nome il suo cervello non poteva fare a meno di costruire ipotesi su ipotesi sulla persona che lo portava.

Finì di sistemare la benda, lavò accuratamente le mani e infilò cuffietta e guanti, pronto a entrare in sala operatoria.

Certo, non si aspettava quello che vi trovò: mai, in tutta la sua vita, aveva provato uno sbigottimento pari a quell'istante in cui focalizzò la sua attenzione sul suo nuovo paziente. 

Non era ancora del tutto addormentato, l'anestesia gli stava venendo somministrata in quel momento ma era evidente che stesse cercando di combatterla. I suoi ricci neri erano lucidi di sudore, gli occhi spalancati per pura forza di volontà sembravano irradiare luce tanto erano chiari, da quella distanza John non poteva capirne il colore preciso, ma avrebbe scommesso sull'azzurro ghiaccio... una semplice sensazione. Si stava mordendo il labbro inferiore e irrigidiva a scatti i nervi del collo per non cedere al sonno. 

John rimase abbagliato da quella pelle così pallida che pareva iridescente sotto le luci della sala operatoria, ma solo per un secondo.

Perchè poi, ad attirare tutta la sua attenzione, fu il petto dell'uomo, scoperto per consentire la visuale sulla ferita, ripulita il più possibile dal sangue. Ma non era stato il suo fluido vitale a sconvolgerlo, quanto il fatto che sul lato opposto quello sconosciuto avesse una scritta... un nome.  

L'uomo che stava per operare era un'anima gemella. Le uniche che avesse conosciuto erano una coppia di sposi, molti anni prima, con cui era uscito qualche volta grazie ad alcuni amici in comune; erano due giovani di ottima compagnia, ma non poteva negare che la totale presa che avevano l'uno sui pensieri dell'altro gli aveva messo addosso una certa dose di incredulità... e sì, anche un pizzico d'invidia.

Entrò con il passo più sicuro che gli riusciva con la sua zoppia, dirigendosi verso l'uomo steso sul lettino e circondato di persone che lo ignoravano, preparandosi a salvargli la vita. Accadeva di frequente che i medici prendessero le distanze dai pazienti per il loro stesso bene.

John però era abituato diversamente. 

-Salve. L'anestesia non le sta facendo effetto, ma so che non è la sua prima operazione. La sua anima gemella è stata avvertita? Vuole dire qualcosa prima che la apra in due per poi ricucirla?- John era famoso per il suo humor nero, di solito i suoi pazienti lo guardavano come se fosse pazzo. Ma evidentemente, l'uomo su quel lettino era un personaggio unico.

Si tolse la mascherina con velocità, anche se le sue dita tremavano.

-Se vuole addormentarmi, avrà bisogno di una soluzione concentrata al ventisette percento, invece di questa ridicola e blanda imitazione. E invece di farmi domande idiote, si muova a togliermi la pallottola dal pettorale, ho un traffico di droga da fermare.-

-Con tutto il rispetto, è Scotland Yard ad avere il compito di catturare i criminali. Il suo è di concentrarsi unicamente su se stesso per guarire.-

-Non faccia lo stupido, dottore. Quegli idioti non saprebbero trovare le loro stesse pistole da soli, probabilmente si afferrerebbero il pene minacciando con quello i mafiosi a cui stanno inutilmente dando la caccia.-

John ridacchiò per quelle parole irriverenti. La lingua tagliente di quel tipo era ancora piuttosto attiva nonostante l'anestesia iniziasse a stordirlo. Doveva essere davvero molto testardo.

-Se anche così fosse, lei per un po' sarà sotto la mia responsabilità. Finchè non guarisce non potrà andarsene.-

-Mi vuole legare al letto, dottore? Perchè è l'unico modo per impedirmi di andarmene non appena mi sveglierò. Certo, se il suo incompetente collega riesce prima ad addormentarmi... gli avevo già detto che con me è necessaria una dose più concentrata, ma non vuole darmi retta. Spero lei sia più competente, non mi piace l'idea che un idiota qualunque metta le mani su di me.-

-Terrò a mente il consiglio sul legarla. E io sono il miglior chirurgo di Londra, so perfettamente come usare le mani, non ha nulla da temere signor...?- John si rese conto solo in quel momento che non aveva letto il nome del suo paziente, e si sentì un po' in colpa, dato che di solito cercava sempre di costruire un rapporto alla pari con i suoi assistiti.

-Holmes. Sherlock Holmes.-

Gli occhi blu di John si spalancarono nello stesso istante in cui quelli di Sherlock si chiudevano su quella sillaba. Il cuore del dottore gli salì fino in gola mentre il suo sguardo saettava sul nome dell'anima gemella del moro, che per rispetto aveva precedentemente evitato di guardare con attenzione.

John Watson.

Aveva appena incontrato la sua anima gemella... gli sembrava che quel nome gli stesse bruciando il braccio mentre il cuore gli palpitava a un ritmo frenetico.

Aveva appena scoperto la sua perfetta metà... e la sua vita era nelle sue mani.






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Capitolo 3
*** Insieme siamo più forti ***



Sette ore e quarantasette minuti dopo, Sherlock Holmes era ormai stato tagliato e ricucito, mandato in reparto perchè smaltisse il resto dell'anestesia e... sì, John aveva pensato sul serio di legarlo al letto, perchè avevano molte cose da dirsi e tante altre da scoprire con il tempo e non voleva rischiare che se ne andasse, ma quel gesto avrebbe scatenato le infinite domande dei colleghi... no, non valeva la pena rischiare. Non se ne sarebbe andato come aveva minacciato di fare appena si fosse svegliato, giusto?

Certo, la sua anima gemella gli era sembrata abbastanza spericolata da andarsene tranquillamente con i punti appena messi e mezzo litro di sangue ancora da ripristinare, ma non avrebbe potuto con così tanti medici in circolazione, giusto?

Aveva fatto fatica a concentrarsi per il resto del suo turno con il costante pensiero del suo compagno predestinato - Sherlock. Si chiamava Sherlock...

Due ore più tardi Sara gli disse di andarsene fuori dai piedi, perchè per come era deconcentrato in quel momento avrebbe potuto scambiare una sacca di fisiologica con una di antibiotico.

A sua discolpa, aveva appena fatto una scoperta che gli avrebbe cambiato la vita, che diamine, ma decise di darle retta e rendersi reperibile solo per le emergenze.

Fece avanti e indietro nel suo ufficio per svariati minuti prima di sospirare e rendere produttivo quel tempo in attesa del suo risveglio, prendendo in mano i fascicoli dei suoi vecchi pazienti e aggiornandoli con gli appunti successivi, un lavoro lungo e noioso che non aveva mai la pazienza o la voglia di fare, ma tutto era meglio che rimanere senza far nulla a fissare il vuoto.

Riuscì a resistere non più di due ore, comunque, prima di mandare al diavolo la sua etica professionale.

La sua leggendaria concentrazione era andata a quel paese ormai, perciò tanto valeva andare alla stanza duecentoventuno per controllare se un certo suo paziente fosse ancora nel mondo dei sogni o stesse sul serio tentando una fuga alla Lupin.

Scoprì ben presto che ci era andato piuttosto vicino, ma nei suoi scenari immaginari non aveva previsto quattro infermieri armati di tranquillante che scappavano in lacrime e rossi in volto - se per vergogna o rabbia, John non era in grado di definirlo -, mentre uno Sherlock decisamente sveglio stava cercando di sciogliere i muscoli tesi dal riposo forzato.

John si appoggiò allo stipite della porta, improvvisamente conscio di aver scordato il suo bastone nell'ufficio, tre piani e due corridoi più sotto.

-Lo sa di non potersene ancora andare, vero?-

Il moro si girò di scatto, smettendo per un secondo di imprecare contro tutti quei macchinari, stringendo gli occhi e indirizzandogli uno sguardo infastidito e, sì, il dottore aveva avuto una giusta sensazione: aveva gli occhi blu più belli che avesse mai visto.

-Lei è il chirurgo. Mi ricordo di averla avvertita di legarmi, o me ne sarei andato.-

-Signor Holmes, se continua ad agitarsi a quel modo si riapriranno i punti e dovrà rimanere qui oltre la normale degenza, che nel suo caso sarà relativamente breve, di appena quarantottore, a patto che lei venga in ospedale ogni giorno poi per cambiare la fasciatura per una settimana, dopodichè ogni tre giorni.-

-Noioso, noioso, noioso! Ho tutta Londra da vivere e respirare, non ho tempo per queste sciocchezze.-

-La sua salute non è una sciocchezza e ora si sieda o la farò calmare io.- John era abbastanza famoso per la sua pazienza, ma aveva intravisto una macchiolina rossa sulla fasciatura e il muoversi incessante di quell'uomo lo impensieriva. Anima gemella o meno, era il suo paziente e lui il suo dottore, che diamine!

-E come intende costringermi? Ho del lavoro da fare e anche lei scommetto, perciò vada a tediare altri pazienti più bendisposti e saremo tutti più felici.-

Però, che caratterino...

Certo, se ne era già accorto in sala operatoria da quei pochi minuti di conversazione, ma evidentemente ora che era del tutto sveglio e senza del piombo nel petto era più in forma di prima e anche la sua lingua già tagliente si era affilata.

Sospirò, racimolando pace interiore insieme all'ossigeno, per poi osservare con più calma quell'uomo. Sapeva il suo nome e la sua età - ventisette anni, leggermente più giovane di lui -, ma a parte questo, sapeva solo che erano destinati a incontrarsi e amarsi per tutta la vita.

Francamente, John non sapeva quanto credito dare a tutta quella faccenda, ma se qualcosa aveva decretato che insieme fossero "perfetti" forse valeva la pena quanto meno di conoscersi. Che il tutto poi sfociasse in una storia romantica non era indispensabile, giusto? Forse sarebbero semplicemente diventati buoni amici, di quelli nella vita si ha sempre bisogno e non è forse l'amicizia una forma d'amore, solo senza il sesso? Lui era stato sempre e solo con donne, non si era mai precluso nulla volontariamente ma non aveva mai provato chissà quali brividi nel guardare i suoi commilitoni o qualsiasi altro uomo.

Il fatto che avesse percepito una specie di scossa elettrica lungo tutta la colonna vertebrale quando aveva finalmente visto quei bellissimi occhi completamente svegli e reattivi non era altro che una reazione chimica alla vicinanza dell'uomo che la biologia reputava la sua perfetta metà, giusto?

-Dottore? Sta avendo un ictus?-

-No, no... stavo solo pensando. Come ha fatto a far scappare ben quattro infermieri?-

-Non ne sono del tutto sicuro, ho solo detto loro la verità e se la sono presa piuttosto a male. Non capisco come fanno a essere così stupide le persone, era tutto talmente ovvio che non c'era bisogno di essere me per capire che due di loro sono sposati con altri ma vanno a letto tra loro, che l'altra ha contratto la clamidia e il quarto ha da poco fatto un intervento per allungarsi il pene. Quando l'ho detto si sono arrabbiati e se ne sono andati.-

John si aspettava di tutto, ma di certo non questo. Tutto l'ospedale sapeva di Clare e Roland, John era amico di Stanford che aveva operato Leopold al pene e di Michael, che gli aveva confessato di persona di aver contratto una malattia venerea perchè la sua ex l'aveva tradito per un bel po' prima di lasciarlo.

Ma Sherlock come aveva fatto a capirlo? Era stato...

-...straordinario.-

Dopodichè ridacchiò con leggerezza, guardando con occhi ammirati il moro, che ora lo fissava con diffidenza ancora maggiore, ma con un po' di genuino stupore che lo rendeva adorabile agli occhi di John.

-...di solito non è questo quello che mi dice la gente.-

-E cosa dicono?-

-"Fuori dai piedi".-

E questa volta risero sonoramente entrambi, divertiti da quella situazione nuova per entrambi, ma molto piacevole.

John allora prese coraggio, avvicinandosi all'altro uomo, che stavolta ora sembrava più rilassato.

-Ascolti, non voglio sapere perchè non è a suo agio negli ospedali, non sono affari miei in fondo, ma posso fare in modo che la dimettano già domani, se assume qualcuno che le controlli almeno due volte al giorno la ferita per i primi tre giorni, e poi una volta al giorno finchè una mia visita di controllo non mi dirà che possiamo stare più tranquilli sui rischi di infezione o altro. Va bene?-

Sherlock lo guardò per un minuto buono, prima di sciogliere una tensione di cui John non si era accorto, guardandolo ora con semplice curiosità.

-Sono saltato giù dal tetto di questo ospedale.-

A John, per un intero minuto, si gelò il sangue nelle vene.

-Non faccia quella faccia, dottore, non ho cercato di togliermi la vita. Ho solo inscenato la mia morte per ingannare il mio nemico mortale, tale Jim Moriarty, per potermi dedicare con un po' di vantaggio tattico allo smantellamento della sua organizzazione criminale, le sue cellule erano sparse per tutto il mondo e la mia improvvisa sparizione lo avrebbe messo in allarme. Quindi mi sono finto morto, saltando dal tetto di questo ospedale.-

-Avrai fatto preoccupare molte persone. I tuoi familiari, i tuoi amici... e tu devi esserti sentito molto solo.- era così sconvolto da non rendersi conto che aveva iniziato a dargli del "tu".

Sherlock fece un gesto sprezzante alle sue parole.

-I miei genitori sono stati informati di tutto il piano da mio fratello, il Sigor Governo Britannico in persona, che mi ha aiutato a inscenare la farsa. Il collega di Scotland Yard meno noioso che collabora con me quando sono tornato l'anno scorso mi ha urlato contro per almeno un'ora, dopo avermi tirato un calcio al ginocchio, credo per impedirmi di scappare da quella tortura...-

-Io ti avrei rotto il naso con un pugno, probabilmente, se fossi stato tuo amico a quei tempi.-

-Io non ho amici, dottore.-

-Beh, a me non sembra così, e questa è comunque una cosa su cui poter lavorare. Ti va se ti do una mano?-

-Perchè si interessa tanto di me?-

-Perchè le tue storie sono molto avvincenti e mi piacerebbe molto ascoltarle, in più sei davvero un uomo intelligente, nonostante un carattere difficile. E sei chiaramente troppo idiota, per essere tanto intelligente, se non capisci questo.-

Sherlock rimase interdetto dalle sue parole, ma John aveva preso la sua decisione e niente, niente, lo avrebbe dissuaso dall'avvicinarsi di più a quell'uomo.

-Quando ti sarai rimesso mi auguro tu abbia il buonsenso di offrirmi una birra per il favore che ti sto facendo facendoti uscire da qui prima del previsto, va bene?-

John fece per andarsene, ma la voce appena insicura ma intrigata di Sherlock lo fermò sulla porta, voltato di spalle.

-Non serve che lei porti il bastone, chiaramente ne fa uso di solito, ma essendo un problema psicosomatico che in mia presenza non si è ancora presentato deduco che a lei manchi il fervore della guerra... chiaramente è un ex medico militare, e in me ha visto il suo campo di battaglia, o non vedo il motivo per cui dovrebbe aver voglia di passare del tempo con un paziente qualunque.-

-Lei non è un uomo qualunque, signor Holmes. Parleremo davanti a quella birra di tutte le tue deduzioni, sono affascinato da come sembri sapere tutto di qualcuno solo guardandolo. A presto, vado a preparare le tue carte per le dimissioni.-

Si girò di nuovo, pronto per uscire, ma poi decise che anche lui si meritava il diritto di sorprendere l'altro come il moro aveva appena fatto con lui, anche se aveva cercato di mascherarlo come poteva.

-Il mio nome è John Watson, e sono la tua anima gemella. A questo punto credo valga la pena conoscerci e vedere dove questo ci condurrà, non trovi?-

John sentì il respiro strozzato dell'altro uomo a quella sua rivelazione, perciò si voltò per lasciargli un breve sorriso fiducioso e sicuro, in un angolo del suo cuore, che in quel preciso momento stavano gettando le basi per qualcosa di grande e duraturo... solo che ancora non sapevano cosa da quei semi sarebbe cresciuto.

-A presto... Sherlock. spero che non cercherai di scappare di nuovo, ho il tuo indirizzo nelle mie cartelle cliniche e potrei farti davvero male, se tentassi di sparire proprio ora che ci siamo trovati.-

-Non credo nelle anime gemelle. Non avrebbe senso incontrarci solo per questo motivo. In più, in guerra lei era un dottore, non potrebbe farmi nulla.-

-Sono stato anche un soldato e credimi, ho avuto delle brutte giornate. Il fatto che sia un dottore significa solo che posso romperti tutte le ossa chiamandole per nome, pur di essere certo che non tenterai di scappare o fingerti di nuovo morto.-

Sherlock ora era davvero agitato e non lo guardava più negli occhi come aveva fatto fino a quel momento. Sembrava spaventato, addirittura.

Il cuore di John perse un battito a quella visione. Non voleva più vedere quell'espressione terribile su quel viso così bello.

-Ascolta, non pretendo nulla per via dei nostri tatuaggi, okay? Voglio solo conoscerti, perchè se la biologia ci reputa buoni partner vorrà dire che insieme siamo più forti che da soli. Potremmo essere buoni amici, non siamo obbligati a sposarci domani o anche tra mille anni solo per i nostri nomi, per quanto ne sappiamo potremmo anche scoprire che come amici funzioniamo talmente bene che non abbiamo bisogno di altro. Vorrei solo scoprirlo. Tu non sei almeno un po' curioso?-

E lì, John capì di aver colpito nel segno. Sherlock era curioso, e si era illuminato appena un po' quando lo aveva sentito parlare di un legame biologico e non metafisico come di solito insegnano nelle scuole comuni.

-...immagino che non avremmo nulla da perdere a conoscerci. In effetti, potresti essermi persino utile per il mio lavoro, John. I pareri di un medico che non sia affiliato alla polizia saranno certamente più attendibili.-

Sherlock sorrise, finalmente sereno e bendisposto, e se John rabbrividì al suono del suo nome o per quel lieve movimento delle labbra piene del moro, non lo avrebbe mai scoperto.

Per ora, avevano un appuntamento in programma e una vita intera per scoprire a dove quei nomi tatuati sulla pelle li avrebbero condotti.



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