I Fisici

di ToscaSam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Martha Boll ***
Capitolo 2: *** Sir Isaac Newton ***
Capitolo 3: *** Mathilde Von Zhand ***
Capitolo 4: *** la signora Rose ***
Capitolo 5: *** Johan Möbius ***
Capitolo 6: *** miracolo e divieto del Re Salomone ***
Capitolo 7: *** tris ***
Capitolo 8: *** Richard Voss ***
Capitolo 9: *** i fisici ***
Capitolo 10: *** Prigionia e libertà ***
Capitolo 11: *** il Re Salomone ***



Capitolo 1
*** Martha Boll ***


 
Martha Boll
 
Il salotto era ben illuminato, ricco, elegante eppure equilibrato.
Dava un senso di spazio, di aria e salubrità.
Eppure non esisteva niente di più nefasto e oscuro, al momento. O almeno così la pensava il commissario Richard Voss.
Quel salotto gli dava ai nervi: l'aveva già visto in un'occasione non meno triste e il fatto di trovarcisi di nuovo non attenuava il suo senso di disagio.
Non c'era cornice sontuosa né lussuosa dormeuse che non gli risultasse sgradevole.
Ecco lì il tavolino dove ad agosto stava la lampada, pensò Richard. Adesso l'avevano sostituita con un candelabro d'argento. Che sciocchezza.
Il divanetto foderato di raso su cui sedeva era molto comodo. Fosse stato a casa sua se ne sarebbe compiaciuto.
 
« Come si chiamava l'infermiera?»
« Irene Strauss»
Irene Strauss.
Voss annotò velocemente su un blocchetto questo nome, pur sapendo che era perfettamente inutile.
« Età?»
« Ventidue anni»
« Aveva congiunti?»
« Un fratello che abita in Svizzera»
« L'avete avvertito?»
« Telefonicamente. Ha detto che è molto dispiaciuto»
« Nient'altro?»
« No, commissario. Nient'altro».
L'infermiera che gli stava davanti era ancora giovane: poteva avere al massimo trent'anni. Un volto gradevole, seppure rigido. Forse lo guardava così perché non desiderava la sua presenza nella clinica.
Ma che diamine. C'era stato un omicidio e lui era il commissario incaricato della polizia di stato. La sua presenza lì era del tutto legittima.
Irritato dalla fredda insolenza dell'infermiera, Voss si accomodò meglio sul divano e diede una rapida occhiata in giro: vide un piccolo tavolo con sopra bicchieri di cristallo.
« Perbacco e quelli li tenete qui?»
« Certo. I nostri pazienti dovranno pur bere»
« Alla luce dei fatti non li ritenete pericolosi, i bicchieri di cristallo?»
« No. Non sono mai stati usati come arma. Lo sa bene. Vuole del tè, signor commissario?»
« No, grazie. Mi dia una bella Sambuca in uno di quei bicchieri»
« Non usa, qui dentro».
Voss era così irritato che si alzò e prese una sigaretta dal taschino. Proprio mentre tirava fuori anche lo zippo, ecco che la voce della donna proseguì:
« Lei dimentica che qui siamo in una casa di cura».
Voss fece un cenno per scusarsi e ricacciò tutto dentro.
Guardò tristemente il disegno di gesso sul pavimento: una figura umana, sdraiata, contorta. Una ragazza di ventidue anni, roba da pazzi. Pazzi, appunto. Si trovava in una clinica psichiatrica.
Lo stabilimento aveva nome Il Lago e sorgeva in una pittoresca cittadina tedesca di periferia. Campagna, un lago – appunto – , una modesta università, qualche casa e qualche ufficio.
Voss non aveva mai sentito parlare del Lago fino all'estate precedente, quando il procuratore di stato gli aveva sottoposto un caso strano: un'infermiera era stata strangolata col filo di una lampada nel salotto di una prestigiosa clinica psichiatrica. La poverina si chiamava Dorothea Moser, aveva venticinque anni ed era finita con la corda al collo dopo un anno di lavoro nella struttura.
Voss si era precipitato sul luogo del fatto e si era ritrovato davanti a una scena fuori da ogni immaginazione: le altre infermiere sapevano benissimo chi fosse il colpevole ma non erano minimamente turbate dal fatto. Si trattava di un paziente, un ricoverato che fingeva di essere il grande fisico Isaac Newton.
Gli era stato proibito di fare alcunché verso l'omicida, anzi, non gli riuscì nemmeno avvicinarlo. Non lo vide, gli fu tenuto nascosto. Dicevano che era malato e che non poteva essergli imputato niente.
La direttrice dello stabilimento di cura, poi, non si era degnata di comparire. Anche per lei avevano tirato fuori una scusa veramente assurda: “sta giocando a scacchi con Newton”, gli avevano detto (si erano abituati a chiamare il paziente per davvero Newton) “il poverino è malato e si calma solo se gioca a scacchi con la direttrice”.
Di lei non sapeva niente: era la discendente di un'antica casata nobile che, dopo una brillante carriera universitaria, aveva raggiunto una notevole fama operando come psichiatra.
Questo era tutto quello che era accaduto a Richard Voss durante la sua visita precedente.
Adesso era novembre e Voss era stato chiamato dal procuratore di stato, infuriato come una iena, che gli comunicava di doversi dirigere nuovamente allo stabilimento Il Lago.
Un'altra infermiera era stata strangolata. Stavolta con il cordone della tenda.
Assurdo, aveva pensato Voss.
 
« E insomma, l'assassino ...» cominciò
« Ma che dice mai! Quel poveretto è malato!»
« E va bene, allora. Come lo posso definire? Diciamo, l'autore del gesto
« Si chiama Ernst Ernesti. Noi però lo chiamiamo Einstein»
« Ah si? E come mai, sentiamo?»
« Perché lui crede di essere Einstein».
Voss guardò la ragazza dritto negli occhi, ma lei li teneva fermi: credeva davvero a quanto diceva. Era seria. C'era qualcosa nei dipendenti di quel posto che non tornava: come diavolo era possibile che non si rendessero conto della situazione?
« Beh, si chiami come diavolo vuole. Io dico che è un'incoscienza far curare questi pazzi da delle infermiere. Questo è il secondo assassinio … »
« Ma signor commissario!»
« Beh. Il secondo incidente che capita qui al Lago. Guardi qui: il dodici agosto, un certo Georg Beutler, che crede di essere il grande fisico Newton, ha strangolato l'infermiera Dorothea Moser. E anche lui qui! In questo salotto! Una cosa che non sarebbe successa se la vostra direttrice avesse preso in considerazione quanto le avevo suggerito nella lettera che le lasciai: infermieri, guardie, qualcuno che possa essere d'aiuto a voi ragazze»
« Questo lo dice lei» incalzò l'infermiera. Se possibile era innervosita: « deve sapere che Dorothea Moser era membro dell'associazione femminile di lotta libera e Irene Strauss campionessa nazionale di judo».
Voss sorrise: « Si, certo. E lei?»
L'infermiera lo guardò con sufficienza: «Io faccio sollevamento pesi».
« Posso vederlo, adesso, l'assassino?»
« Ma signor commissario!»
« Santo cielo! Va bene! Posso vedere l'autore di questo efferato gesto
La donna lo squadrò con estremo disgusto. Attese molto tempo prima di rispondere, come se assaporasse l'insensatezza di quella situazione e la rigettasse addosso a Voss.
« Sta suonando il violino» concluse, fredda.
« Che diavolo vuol dire “sta suonando il violino”?»
Voss smanacciava molto. Gli accadeva sempre, quando era nervoso. Se ne rese conto e cercò di contenersi.
« E che? Non lo sente?» disse l'infermiera.
Voss era al culmine della pazienza.
Si, aveva sentito sin dal suo arrivo una melodia di sottofondo. Proveniva da qualche stanza più in là. Era un suono piacevole, ma ormai Voss era così irritato da trovarlo insopportabile.
« E lei lo faccia smettere! Devo interrogarlo!»
« Impossbile»
« Ma come è impossibile?»
« Come medici, non possiamo permetterci di interromperlo. Il signor Ernesti deve riacquistare la calma e siccome si crede Einstein, gli è possibile farlo solo suonando il violino»
« Sto diventando pazzo anch'io»
sibilò Voss, portandosi una mano alla tempia sudata.
Il cuore gli batteva a mille e non era un bene per la sua pressione. Troppo lavoro e per giunta lavoro di questo tipo. Non ce la faceva più con tutte queste grane.
Attese che il cuore gli si calmasse, si asciugò la fronte con un fazzolettino a quadri.
« Fa caldo qui dentro» mugolò, più che altro a sé stesso
« Non fa caldo per niente» sussurrò a sua volta l'infermiera, alle sue spalle.
Voss riaprì gli occhi. Il salotto si materializzò di nuovo davanti a lui.
Si voltò e si rivolse alla donna, che lo fissava con espressione arcigna:
« Mi faccia un favore, signorina …. come si chiama?»
« Martha Boll»
« Mi faccia un favore, signorina Boll. Vada a chiamarmi la direttrice. La prego»
« Mi dispiace. Anche questo è impossibile. La dottoressa sta accompagnando Einstein al pianoforte. Sa, Einstein si calma solo se la dottoressa suona con lui».
Voss affilò lo sguardo da sotto gli occhiali. Se si trattava di un trucco, si disse, non ci sarebbe cascato di nuovo:
« Ah si, eh? E tre mesi fa la dottoressa doveva giocare a scacchi con Newton per farlo calmare. Adesso il pianoforte. Sa una cosa? Non ci casco più, cara Martha Boll. Voglio parlare ad ogni costo con questa direttrice»
« Come vuole. Le toccherà aspettare»
Voss non staccò lo sguardo da quello di Martha. Lei non era preoccupata, sembrava soltanto molto seccata da tutta la vicenda.
« E quanto durerà questa storia col violino?»
« E chi lo sa? Mezz'ora? Un'ora? A seconda dei casi».
Voss falciò la stanza a grandi passi e si sistemò sul più sontuoso sofà.
« E allora aspetterò. Ha capito? Aspetterò» disse con aria di sfida.
Martha Boll lo fissò con commiserazione, come per chiedersi quanto fosse stupido. Raccolse la cartellina clinica che aveva abbandonato su un tavolo e girò i tacchi. Uscì dalla stanza con un passo dolce, soffice, decisamente contrario al gelo del suo carattere.





note autrice:
Grazie a tutti di essere qui. Volevo precisare ulteriormente che il mio testo è ispirato da "I Fisici", opera teatrale di 
Friedrich Dürrenmatt. Quello che avete letto e che leggerete nei prossimi capitoli è frutto di un mio lavoro di trasposizione e reinterpretazione. Ho modificato molto i personaggi, donando loro una caratterizzazione originale e ampliando i loro background.
Spero di continuare ad interessarvi.
Grazie per esservi fermati a leggere il primo capitolo!
 
 

 

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Capitolo 2
*** Sir Isaac Newton ***


Sir Isaac Newton
 
Voss affondò nella stoffa morbida del divano.
Era una roba da matti.
Si passò una mano sulla fronte sudata e controllò con un dito le pulsazioni del cuore sulla giugulare.
Attorno a lui tutto taceva, se non per quella snervante eppure bellissima musica lontana.
Il salotto era come un sogno, pieno di tante bellissime cianfrusaglie. Un mondo onirico che al primo tocco si sarebbe spezzato. Lì erano stati compiuti due efferati omicidi. Due giovani donne avevano esalato il loro ultimo respiro in quella stanza dallo splendore spettrale.
 
« Permette? »
Soffiò forte una voce a un centimetro dal suo orecchio.
Voss schizzò in piedi, sudato mezzo.
Davanti a lui stava un ometto smilzo, dinoccolato e piuttosto alto. Aveva profonde occhiaie violacee che gli circondavano le palpebre e occhi vispi come un gatto.
Sulla testa, si era cacciato uno straccio orribile, qualcosa che poteva essere un pezzo di pelliccia, tutta infarinata e impomatata per somigliare a una parrucca del Settecento.
Voss stava per unire il disgusto allo stupore, fare uno più uno e scoprire l'identità di quell'uomo. Ma lui si presentò da sé:
« Sono Sir Isaac Newton» dichiarò.
Sorrise debolmente.
Voss cercò di contenersi, si schiarì la gola e disse:
« Piacere. Commissario Richard Voss»
« Molto lieto, molto lieto. Sa? Ho udito del fracasso: gemiti, rantoli, poi un viavai di gente. Posso chiederle cosa succede, se non sono indiscreto?»
Voss si asciugò il sudore con un fazzoletto.
« L'infermiera Irene Strauss. È stata strangolata»
« La campionessa nazionale di judo?»
« Proprio lei»
« Terribile! Era così carina. E chi diavolo è stato?»
« È stato Ernst Ernesti»
« Ma se sta suonando il violino»
« È che deve riacquistare la calma»
« Giusto. E sarà anche affaticato dalla lotta».
L'uomo sembrava veramente genuino, nella sua malattia. Gli occhi gli schizzavano fuori dalle orbite di continuo. “Costui è proprio pazzo” pensava Voss. Ecco l'uomo che non gli avevano fatto incontrare ad agosto. Ora girava libero per la clinica, mentre lui avrebbe dovuto accompagnarlo dietro le sbarre. Il procuratore di stato aveva dovuto affrontare un'infinità di grane, scartoffie e litigi per mantenere quel povero diavolo in libertà. Era stato obbligato dalla dirigente della casa di cura.
D'un tratto, Newton tirò fuori da una tasca della sua vestaglia di satin una bottiglia di liquore.
« Sambuca!» esclamò Voss, colpito.
« Si. È italiana. È un liquore, sa? Lei non dovrebbe bere in servizio, ma le dispiace se io mi faccio un bicchierino?»
« Faccia pure»
« Ne vuole uno?»
Gli chiese Newton, offrendogli un gran bicchiere di cristallo colmo di Sambuca fino all'orlo.
Voss, accigliato, l'afferrò e lo sorseggiò.
« Come ha fatto Ernesti a uccidere Irene Strauss?» chiese l'uomo imparruccato, scolandosi a sua volta una generosa porzione di Sambuca.
« Col cordone della tenda» rispose Voss.
« Accidenti. In effetti è una possibilità, certo. Il cordone della tenda. Che brutta fine. Non me lo sarei mai aspettato da Ernesti, sa? Ma come ha potuto fare una cosa simile! Uccidere una povera infermiera»
« Eppure, anche lei ha strangolato un'infermiera, signor Beutler»
« Io?» fece lui, smarrito. La parrucca si scosse tutta, disperdendo nell'aria la sua polverosa imbiancatura.
« Eh si, signor Beutler. Dorothea Moser»
« La lottatrice?»
« La lottatrice. Il dodici agosto, proprio in questo salotto, col filo della lampada»
« Ah! Ma questa è tutta un'altra cosa, commissario! E io che la stavo anche ad ascoltare. La differenza è che non sono pazzo, signore. Salute!»
E si scolò un altro bicchiere di Sambuca.
Quando ne riemerse era stralunato, gli occhi di fuori, l'espressione fuori controllo. Eppure parlò con calma e dolcezza. Un contrasto che Voss trovò terrificante.
« Ah, l'infermiera Dorothea … se ci ripenso: bionda come il grano, straordinariamente robusta ma flessuosa, malgrado le forme abbondanti. Mi amava, e io l’amavo. Era un dilemma che si poteva risolvere solo con il filo della lampada»
« Un dilemma?» chiese Voss, a disagio
« Certo. Signore, io sono un fisico. Il mio compito è riflettere sulla gravitazione, non amare una donna»
« Ah. Capisco»
« E poi c'era l'enorme differenza di età»
« Eh certo, lei deve avere almeno duecento anni»
« Duecento? E perché?»
Beutler era davvero folle: le occhiaie scure con quegli occhietti roteanti all'interno gli conferivano un aspetto da indemoniato.
« No, dicevo … in quanto Newton, lei deve avere … »
« Ma lei è matto, commissario? Lei crede davvero che io sia Newton?»
« Ma se è lei che ci crede!»
« Oh, ma io faccio solo finta di esserlo».
Prese un altro bicchiere e si sedette su un pouf di chintz. Si rigirò il prezioso cristallo fra le mani, pensieroso.
Voss stava diventando insofferente:
« E perché fa finta, se posso chiedere?»
« Per non confondere Ernesti» concluse Beutler, grave.
« Che c'entra Enresti?»
« Vede, lui crede davvero di essere Einstein. Lui è pazzo, poveretto».
Voss si avvicinò e si sedette su un simile pouf.
« Che c'entra Ernesti con questo?»
Beutler alzò i suoi occhi forsennati sul commissario e, con naturalezza, esclamò:
« Se Ernesti venisse a sapere che il vero Einstein sono io, scoppierebbe il finimondo»
« Ah. Dunque lei ...»
« Proprio così. Sono io che ho creato la teoria della relatività, che sono nato a Ulma il 14 marzo 1879»
« Molto onorato»
« Può chiamarmi Albert»
« E lei mi chiami Richard»
« Vero che le secca di non potermi arrestare, Richard?»
« Non voglio proprio arrestare nessuno, Albert».
Sciolsero la stretta di mano.
Beutler si allontanò, portando con sé la boccia di Sambuca.
Poggiò la dita ossute sulla maniglia in ottone di una delle porte del salotto, poi si voltò e disse con aria grave:
« Farebbe meglio ad arrestare sé stesso, Richard».

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Capitolo 3
*** Mathilde Von Zhand ***


Mathilde Von Zhand


Richard Voss si domandò cos'altro avrebbe dovuto sopportare.
Rimase disteso sul sofà e si tamponò gli occhi chiusi, sentendosi terribilmente stanco.
La luce rossastra che filtrava dalle palpebre lo faceva sentire prigioniero di un inferno. C'era un'aria soffocante.
Si alzò. Rischiava di impazzire lui stesso e non aveva voglia di chiedere il ricovero presso Il Lago, trastullarsi in quel salotto con la Sambuca e finire per uccidere un'infermiera.
Decise di ammirare un imponente quadro appeso alla parete più in vista: la cornice splendida riquadrava il ritratto di un uomo in uniforme. Voss si accese una sigaretta, mandando al diavolo i regolamenti e le prediche. Gustò a fondo il sapore del fumo dentro la bocca, lo sentì arrotolarsi sulla lingua, picchiare contro i denti e risalire su fino alle narici.
Espirò, accompagnato da una nuvoletta grigia.
L'individuo arcigno ritratto nel quadro aveva ridicoli baffi a manubrio. Voss fece una risata sommessa, poi passò ad esaminare tutte le mostrine ritratte sulla divisa.
 
 
« Mio padre»
annunciò una voce alle sue spalle.
Voss sobbalzò. Dovevano tutti comparire all'improvviso, lì dentro.
Nascose goffamente la sigaretta dietro le spalle ed emanò una boccata di fumo.
« il cavaliere August Von Zhand. Abitava qui nella villa, prima che io la trasformassi in un sanatorio. Era un grand'uomo. Non ha avuto altri figli all'infuori di me e per me nutriva … un odio feroce, come del resto odiava tutta l'umanità in genere. Io che cerco di guarire i pazzi, evidentemente, sono una filantropa inguaribilmente romantica».
Chi aveva parlato era una donna di media statura, bruna, con i capelli tirati su da una crocchia a conchiglia. Emanava un'aura di eleganza e solidità: i suoi occhi neri rivelavano una non celata intelligenza e vibravano di interesse verso l'ispettore Voss. Era la direttrice.
« Signorina Von Zhand!» balbettò Voss. Arrossì, ricordandosi della sigaretta accesa e aggiunse: « Mi scusi se stavo fumando. Lo so che è proibito, però … »
« Fumi, fumi pure signor commissario. Non si preoccupi!» rise lei con gusto. Aveva le labbra dipinte di rosso scuro. Forse la sua faccia non era bellissima, ma tutta la persona trasmetteva un qualcosa di interessante e di attraente. Poteva avere una quarantina d'anni, assolutamente ben portati.
« Sa che le dico? Ho urgente bisogno di una sigaretta anch'io. Al diavolo la caposala e le sue restrizioni».
La magnetica donna frugò in una tasca del camice e ne estrasse un pacchetto di sigarette. Ne sfilò una con le labbra rosse, poi disse: « Mi fa accendere, per favore?»
« Oh, certo» fece Voss, raggiungendola e offrendole l'accendino.
Era come ipnotizzato dalle movenze della dottoressa: sicura, ammaliante, severa.
Ella si beò un poco della sigaretta poi fissò la brutta sagoma contornata di gesso e trasse un breve sospiro:
« è veramente una cosa atroce. Povera Irene Strauss. Era così giovane, così carina».
Seguì un filo di pensieri sconosciuti, poi posò lo sguardo sui due bicchieri di cristallo usati.
« Ah. C'è stato Newton?»
« Si, ho avuto il piacere di fare la sua conoscenza».
La signorina Von Zhand curvò le rosse labbra in un sorriso ironico: « E così, ha avuto una conversazione interessante con Newton?»
« Sicuro. Ho scoperto qualcosa»
« Ah davvero? I miei complimenti»
« Vede, in realtà anche Newton crede di essere Einstein»
« Ah, si. È quello che va raccontando a tutti quanti, ultimamente». La donna inspirò e la punta della sigaretta si accese. Dopo qualche secondo, aggiunse: « In realtà si crede veramente Newton».
Voss esclamò, non nascondendo la delusione: «Davvero? Ne è sicura?»
« Signor commissario. Sappia che io li conosco molto meglio di quanto essi conoscano sé stessi. Non nascondono segreti per me e se sospetto qualcosa, ho i miei mezzi per arrivare alla verità. Qui dentro niente sfugge al mio controllo»
« Beh signorina, a dire il vero le autorità protestano».
La dottoressa Von Zhand si sedette su una poltrona foderata di velluto. Accavallò le gambe e guardò Voss con aria di insofferente fermezza:
« E il procuratore di stato?»
« è su tutte le furie!» ribatté Voss, ricordandosi di quanto fosse scocciato. Quella situazione assurda, i personaggi impossibili che si susseguivano sulla sua retta via. Ora aveva dinnanzi qualcuno di competente per risolvere gli innumerevoli problemi che gli erano capitati sotto il naso.
La dottoressa osservò l'ira di Voss che si espandeva sul suo viso, poi si distese in un sorriso irritante quanto splendido:
« Come se io non avessi altre preoccupazioni che le sue furie!»
« Signorina, però lei deve ammettere che, insomma, due omicidi … »
« Signor commissario! Moderi i toni!»
« … Ebbene, che due incidenti del genere, in tre mesi, non sono proprio una bella faccenda. Le misure di sicurezza di questo istituto lasciano a desiderare»
« Mi scusi, lei come se le immagina queste misure di sicurezza?» Mathilde Von Zhand si alzò rapidamente e raggiunse il suo interlocutore. Nonostante i movimenti repentini emanava sempre una gran classe: « io dirigo una clinica, non un carcere. Nemmeno lei può arrestare dei presunti assassini prima che abbiano ucciso. Non posso rinchiudere i miei pazienti solo perché lei pensa che siano pericolosi»
« Ma qui non si tratta di presunti assassini. Si tratta di due assassini accertati e di altri non so quanti pazzi che potrebbero uccidere da un momento all'altro!»
« Ah davvero? Anche i sani uccidono e molto più spesso. E poi in che epoca viviamo? Non abbiamo a disposizione medicamenti e droghe per annichilire anche il più furioso dei pazzi? Cosa dovrei fare, secondo lei? Rinchiudere i pazienti in celle individuali? Come se non fossi in grado di distinguere un malato pericoloso da un malato innocuo!»
« Sarà. Allora questa capacità di distinzione ha fallito clamorosamente nei casi di Beutler ed Ernesti»
« Già. Ed è proprio questo che mi preoccupa. Non le furie del suo procuratore di stato».
Mathilde tornò a sedersi e aspirò grandi boccate dalla sigaretta. Voss si scoprì sudato e di nuovo a gesticolare. Si allontanò di qualche passo da quella donna letale che proprio non voleva dargli ascolto. Non c'era nessuno di ragionevole là dentro. Nemmeno la direttrice. Pazienza, pensò Voss. Avrebbero dovuto venire a patti con la legge e lui rappresentava proprio la legge, in quel momento.
D'un tratto una porta alle loro spalle si aprì emettendo un fragore inaspettato. Voss sobbalzò, Mathilde non si scompose; si limitò ad allargare i grandi occhi neri, sorpresa.
Un ometto basso e tondello si catapultò nella stanza: Voss riuscì a scorgere capelli neri ricciuti e imponenti baffi a spazzola.
L'omino si diresse dalla direttrice e l'abbracciò senza garbo:
« Mi sono svegliato!»
la donna si liberò dalla presa scivolando come un'elegante anguilla. Sfiorò la guancia dell'uomo con una carezza:
« Ma come, professore?»
« Come ho suonato? Bene? Eh? Bene?»
« Magnificamente, professore»
« Ma quell'infermiera … Irene. Irene Strauss»
« Non ci pensi più, professore»
« Allora torno a dormire»
« Ottima idea, professore».
L'uomo abbracciò di nuovo la dottoressa, che sorrise comprensiva, poi filò via così com'era entrato.
Voss stralunò gli occhi: « Era lui!»
« Lui chi, commissario?»
« L'assassino!»
« Signor commissario!»
« Si, insomma … l'autore del gesto. Quello che crede di essere Einstein»
« Precisamente. Ernst Ernesti».
Voss era stupefatto. Si riscosse quando non seppe rispondersi sul perché la visione dell'assassino lo avesse così sconvolto. Afferrò il taccuino dalla propria tasca e sfoderò un tono professionale:
« Da quanto tempo è ricoverato qui?»
« Da due anni, ormai»
« E Newton?»
« Newton? Da un anno circa»
« E in che stato?»
« Ambedue incurabili. Stia a sentire, Voss. Sono un'ottima psichiatra, so fare il mio mestiere. Questo è noto a lei e è noto anche al procuratore di stato, che ha sempre avuto stima del mio lavoro. Se posso dirle la mia, qui c'è sotto qualcos'altro. Non ha notato un fatto?»
Voss restò a bocca aperta come un'imbecille: « Un fatto?»
« A proposito di questi due malati, ci pensi un po'»
« Non la seguo»
« Proprio lei non è capace si sospetti, commissario?»
« Guardi, non capisco»
« Erano tutti e due studiosi di fisica nucleare»
« Quindi …?»
« Hanno lavorato entrambi con materiale radioattivo!»
« E lei suppone che questo c'entri qualcosa con il loro gesto?»
Mathilde si alzò, con un sorriso febbrile: « Ci pensi! Tutti e due si sono ammalati. In tutti e due la malattia si è aggravata e tutti e due hanno strangolato un'infermiera».
Voss replicò, confuso: « Cioè lei pensa a una specie di malattia del cervello dovuta alla radioattività?»
La dottoressa alzò le spalle: « Purtroppo è una possibilità che devo prendere in considerazione. Non posso scartare nessuna ipotesi».
Era la cosa più assurda che Voss avesse sentito fino a quel momento. Più assurda dell'assassino che deve suonare il violino accompagnato dalla direttrice. Più assurda del non poter pronunciare le parole “assassino” e “omicidio”.
Si guardò di nuovo intorno: ancora una volta il salotto gli dette i brividi. Quel suo splendore era così fasullo da dare il voltastomaco.
« Dove conducono tutte queste porte?» chiese Voss giusto per distrarsi dai terribili pensieri.
La dottoressa lo guardò appena:
« Una porta conduce all'atrio, una alle scale per il piano di sopra e le altre alle camere dei pazienti»
« E quanti pazienti ci sono, qui, di preciso?»
« Tre».
Voss inarcò le sopracciglia. Era stanco di essere preso in giro: « Come? Solo tre?»
« Oh, si. Tutti gli altri sono stati trasferiti all'edificio principale subito dopo il primo incidente. Non era il caso di tenere troppe persone nella villa»
« E chi è questo terzo paziente? Perché lui è stato lasciato qui?»
« Si chiama Johan Möbius. È un fisico, anche lui»
Voss rise: « Un fisico? Che coincidenza!»
Mathilde lo guardò, seria: « No, non è una coincidenza. La mia struttura ospita i pazienti a seconda dei loro interessi. Ho un'ala riservata agli scrittori, una agli industriali e, quindi, una anche per i fisici».
Voss iniziò a divertirsi. Sentì scivolare l'ultima goccia di sudore lungo le tempie e si distese in una tranquilla beatitudine:
« Ottimo, ottimo. E anche questo Möbius ha avuto a che fare con la radioattività?»
« No, mai»
« E fra qualche mese mi chiamerà perché anche lui ha strangolato un'infermiera?»
« Oh, no, commissario. È qui da dieci anni. Le sue condizioni sono sempre state stazionarie».
Voss trasse il fazzoletto a quadri dalla tasca, si asciugò finalmente la fronte e sorrise all'austera e fascinosa dottoressa: « Come vuole. In ogni caso il procuratore di stato esige delle guardie giurate che sorveglino questi pazienti. Si rivolga a chi vuole, credo che abbia mezzi a sufficienza per mantenere un esercito»
Mathilde Von Zhand affilò lo sguardo, le lunghe ciglia nere nascosero per un attimo le iridi che dopo un po' riemersero, decise:
« E va bene. Assumerò delle guardie»
« Oh! Sono contento che riesca a capire la gravità della situazione. Mi aspetto un suo riscontro in cui mi conferma che le guardie si sono stanziate qui e che non c'è più nemmeno l'ombra di un'infermiera. Spero di non dover più tornare e spero di non doverla più incontrare. Arrivederci, cara signora».
Dopo una veloce stretta di mano, Voss se ne uscì canticchiando.

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Capitolo 4
*** la signora Rose ***


 
La signora Rose
 
La dottoressa Von Zhand rimase sola nel salotto.
Aveva un'espressione austera, sarebbe stato difficile decifrare i suoi pensieri.
Continuò a fissare la porta anche dopo l'uscita del commissario Voss, poi si sedette di nuovo sulla stessa poltrona e inspirò ampie boccate dalla sigaretta sempre accesa.
Creò un effimero mondo di nebbia entro cui nascondersi e pensare. Aveva i suoi mezzi per recuperare le famose guardie che avrebbero sostituito le infermiere, ma doveva programmare tutto nei minimi dettagli. Non poteva commettere errori, anche se questo accadeva raramente alla luce di certi fatti noti solo a lei.
Il suo corpo, fasciato da un vestito nero e dal camice, giaceva abbandonato sulla poltrona. Una sconosciuta scultura del Canova: Elettra, assorta, che medita vendetta.
Sorrise nel suo mondo bianco e sfuggente poi, proprio quando stava per avvicinare di nuovo la sigaretta alla bocca, una voce la riportò alla realtà:
« Signorina!»
Era la caposala, Martha Boll. Sfoderava la sua più elevata indignazione.
Mathilde emise una risata che si confuse con un leggero colpo di tosse. Si alzò, scusandosi e raggiunse un posacenere.
« Signorina, non dovrebbe fumare qui. Adesso dovremo aprire tutte le finestre»
« Già. È un bel guaio, vero? Mi dica una cosa, prima: la salma della povera Irene è stata composta nella cappella?»
« Si, sotto l'organo. Ho chiamato l'impresa funebre e verranno a prenderla domani. Ci sarà un breve funerale»
« Non mi pare il caso di turbare oltre il povero Ernesti, le era molto affezionato. Se lei vuole partecipare, faccia pure, ma non coinvolga i degenti»
« Va bene, signorina»
« Bene, veniamo ai fatti. Cara signorina Boll sono purtroppo costretta a porre fine a una delle tradizioni di questa casa di cura».
Martha contrasse i muscoli facciali, stupita e incuriosita. Rimase rigida, con la cartella clinica in mano e attese che la dottoressa continuasse. Quella, gustò un poco il piacere di far attendere la sua sottoposta, poi esclamò: «Finora, come lei sa, avevo impiegato delle infermiere per il servizio qui alla villa. Il procuratore di stato mi ha intimato di non permettervi più l'ingresso in questo luogo. Dovrò assumere delle guardie giurate. Per l'amor di dio, non faccia quel viso, non la sto licenziando! La spedisco solo all'edificio principale»
« Signorina Von Zhand, non lascerò che mi si tolgano i miei tre fisici! Li ho in cura da quattro anni!»
« E che cos'era, questa? Un'affermazione? Purtroppo la mia decisione è irrevocabile»
« Nessuno li conosce come li conosco io! Non può lasciarli a delle guardie giurate!»
« Non posso? Signorina, le ho appena detto che devo».
Martha, ferita, fece un mezzo sorriso amaro: « Sono proprio curiosa di sapere dove le troverà queste “guardie”! Appena sapranno che due ricoverati sono degli assassini, non vorranno assumere l'incarico. Per non parlare delle cure mediche! Una guardia che somministra un medicinale! Assurdo!»
« Sa? Lei ha una fortuna meravigliosa: non doversi preoccupare affatto di questa faccenda, visto che devo pensarci io. Cambiamo discorso: è arrivata la moglie di Möbius? La stavo aspettando»
« Si, è nella sala d'attesa. Ma ...»
« La faccia entrare, allora»
« Ma io … »
« Signorina Boll, mi faccia il piacere».
Martha Boll si girò, rigida e scossa da tremiti. I lineamenti piacevoli erano del tutto alterati.
Si avvicinò alla porta che dava sull'atrio e invitò dentro le persone in attesa. La sua voce aveva un che di metallico:
« Prego, signora».
Mathilde fece scivolare dalla sua mente il penoso dialogo appena sostenuto e sfoderò un aria professionale e amabile. Sulla scena di quel noioso teatrino, Martha Boll venne sostituita da due personaggi assai bizzarri: una era una donnina sulla cinquantina, piccola, ingrigita e imbellettata in maniera molto umile; l'altro era un uomo basso in tenuta da pastore protestante. Si tenevano a braccetto. Pareva che quel luogo incutesse nella signora Möbius una gran paura.
« Mia cara signora Möbius!» esclamò la dottoressa, avvicinandosi, sciogliendola da quella posa così terrorizzata. Le strinse una mano e poi rivolse un cenno di saluto al parroco.
« No, signora dottoressa» disse la donnina: « non sono più la signora Möbius, ma Rose. Mi sono sposata due settimane or sono con il missionario Oskar Rose. Faceva il parroco a Friburgo e l'ho incontrato a un congresso. Sa, era vedovo».
La donna indicò arrossendo il suo accompagnatore: il parroco sorrise come se fosse in pace col mondo. A Mathilde sembrò un ebete.
« Beh, allora congratulazioni vivissime signora … Rose»
« Che calma regna in questo luogo. Una vera pace del Signore. Come dice il Salmista: “Vedano gli umili e si rallegrino; si ravvivi il cuore di chi cerca Dio, poiché il Signore ascolta i poveri e non disprezza i suoi che sono prigionieri. A lui acclamino i cieli e la terra, i mari e quanto in essi si muove”».
Mathilde rimase sconcertata.
La signora Rose era arrossita di piacere. Il missionario fissava il soffitto con occhi socchiusi, come se potesse scorgervi il Salmista in gloria fra i santi.
« Signora Rose, qual è il motivo della visita? Dal suo biglietto sembrava assai preoccupata»
« Oh, signora dottoressa, il fatto è che Oskar ha accettato di dirigere una missione nelle Marianne»
« Nell'Oceano Pacifico!» aggiunse il missionario, placido.
« Oh» esclamò la dottoressa. Invitò La piccola signora a continuare. Quella prese un respiro profondo, poi ripartì con vocina flebile:
« Le cose che voglio dirle sono queste, signora: volevo vedere Johan per l'ultima volta. Gli ho portato le foto dei suoi figli … insomma, non ritorneremo dalle Marianne, andremo a vivere lì»
« Capisco, signora»
« Ma c'è dell'altro. Non ho più i mezzi per pagare la retta della sua struttura» le si riempirono gli occhi di lacrime: « Johan dovrà venire ricoverato in una clinica di stato!».
Il missionario Rose si curvò sulla sua signora e l'abbracciò forte. Una scena commovente quanto pietosa.
Mathilde cercò di contenere i sentimenti che l'animavano.
« Mia cara signora. Ma perché mai dice queste cose? Il suo ex marito è così caro, così amabile. Ci siamo tutti affezionati a lui. Ha trovato dei colleghi tanto simpatici. Si è ambientato così bene. Lei mi ha pagato la retta per tanti anni, lo consideri un pegno per i suoi sforzi. Johan rimarrà qui nella villa. Sarei un mostro a mandarlo via»
I suoi occhi si illuminarono di una luce sinistra che la signora Rose non colse.
« Lei è tanto buona con me, signora dottoressa».
Gli occhi della donna si erano fatti ancora più tremuli e liquidi.
Il missionario la sorreggeva con patetico affetto.
« Adesso le vado a chiamare Möbius, che ne dice?»
Chiese la dottoressa.
« Lo sa vero che … beh, del divorzio?»
« Certo, ne è stato informato»
« Ma ha capito?»
« Purtroppo, Möbius non si interessa più degli affari del mondo. Si è rinchiuso dentro sé stesso, isolato da tutto il resto».
La voce della signora Rose diventò un sussurro: « Ma … continua sempre a sostenere che gli appare … il Re Salomone?».
Mathilde rise, amara: « Purtroppo è così. Il Re Salomone. Come ha fatto ad inventarselo, povero diavolo, non lo capisco proprio».
Il parroco biascicò: « Che deprecabile situazione! Ormai può solo sperare di trovare conforto nella fede: “nella Sua incredibile misericordia e nel Suo amore, Egli mi ha liberato, anche se mi sono comportato come un folle”»
Mathilde sbottò: « Le sue doti di teologo sono assai puntuali, signor missionario».
La signora Rose si strinse al braccio di lui: « Oskar è un bravo predicatore».
La direttrice sospirò, poi annunciò che sarebbe andata immediatamente a convocare Johan Möbius.

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Capitolo 5
*** Johan Möbius ***


Johan Möbius


La bocca sorridente, anche se priva di espressione. Gli occhi annebbiati, che puntavano verso qualcosa o qualcuno che non c'era. Beato, placido.
Questo vide la signora Rose quando il suo ex marito fu condotto della stanza dalla dottoressa Von Zhand.
« Johan!» esclamò, incapace di trattenere le lacrime di commozione.
Johan fece roteare i bulbosi occhi per tutto il salotto, poi finalmente li indirizzò verso la donna: « Lina?».
Per quell'istante, tutto fu perfetto.
« Möbius, vede che se si sforza tutto le torna in mente? È proprio la sua Lina. Adesso vi lascio, fate i bravi. Se avete bisogno di qualcosa, suonate il campanello e arriverà l'infermiera Martha».
Forse nessuno ascoltò le parole della dottoressa, tanto la commozione era forte. Johan pareva sforzarsi di ricordare un grande sentimento nascosto dentro di lui, Lina Rose era di nuovo scossa da tremiti e singhiozzi. Il missionario Rose se ne stava in contemplazione, pacifico come l'oceano e le Marianne.
« Johan, questi sono i tuoi ragazzi. Guardali, guarda quanto sono cresciuti»
Lina Rose fece scattare la chiusura della borsetta nera di velluto e ne estrasse delle fotografie.
« Ci sediamo?» chiese Möbius con espressione vacua, debole.
Il missionario rimase in disparte e lasciò che sua moglie sedesse con l'uomo che un tempo l'aveva condotta all'altare. Scelsero il sofà che qualche ora prima era stato occupato dal commissario Richard Voss.
Le foto che la signora Rose aveva estratto dalla borsetta erano tre: un giovane uomo con una camicia bianca, un liceale dallo stesso sorriso sbiadito di Möbius, e uno scolaretto che poteva avere undici o dodici anni.
« Sono fantasmi?» commentò Möbius, triste.
« Ma no, Johan. Sono i tuoi figli»
« Tre?»
« Ma certo che sono tre».
Möbius avvicinò al naso le fotografie una per una e le fissò a lungo, come per carpirne un significato profondo.
A disagio, Lina riprese le foto. Aspettò che Möbius le restituisse l'ultima.
« Come si chiama lui?»
« è Lucas, Johan. Il più piccolo. Dei tre è quello che ti assomiglia di più. Sai? Mi ha detto che vuol fare il fisico».
D'un tratto il volto di Johan mutò: un gelo improvviso lo pervase mentre gli occhi si accesero di fuoco:
« Cosa? Il fisico? No. Non te lo permetto!»
« Ma anche tu sei un fisico, Johan!»
« E vedi dove sono finito? Tutto per colpa della fisica! Della fisica e del Re Salomone! Dio, che vita! Perché io? Perché il Re Salomone? Io sono uno scienziato, un pratico! Odio la teoria! Odio la religione! Perché il fisico? Non puoi fargli fare il fisico! Te lo proibisco!».
Lina si allontanò impercettibilmente da Johan, che stava sudando e tremando. Lo vide coprirsi gli occhi con le mani, scuotersi tutto e infine, calmarsi.
Con un gesto eloquente, Lina fece avvicinare il missionario Rose. Möbius parve accorgersi della sua presenza solo allora.
« Ti presento mio marito, Oskar Rose. Fa il missionario».
Möbius rimase pietrificato.
« Tuo marito? Ma sono io tuo marito»
« Non più, Johan. La dottoressa ti ha comunicato del divorzio. E così ho sposato Oskar. Sai? Fa il missionario. Andiamo a vivere nelle isole Marianne»
« Nell'Oceano Pacifico» aggiunse il missionario.
Johan si alzò e guardò dritto negli occhi il signor Rose, con una lucidità impressionante. Lina ebbe un fremito di paura e si strinse al braccio di Oskar. Dal canto suo, il missionario esibiva un'aria completamente a suo agio.
Sorrideva a Möbius come se si conoscessero da sempre.
« Sono lieto di conoscere il nuovo padre dei miei figli» disse Möbius, gelido.
« Ho donato loro il mio cuore. Come dice il Salmista: “Ecco, eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo”».
Lina fu la prima ad accorgersi che qualcosa non andava. Oskar si sarebbe preso in pieno la gamba della sedia che Möbius scagliò con forza, se lei non l'avesse tirato da parte.
« Tu citi il Re Salomone? Tu non sai niente di lui, niente! E ora vattene alle Marianne! Prenditi mia moglie, i miei figli! Vattene! E io vi maledico! Salomone vi maledice dall'alto dei cieli! Andate via! Andate via! Alle Marianne!».
I bicchieri di cristallo andarono in frantumi. Il tavolo fu rovesciato.
L'ultima immagine che Lina ebbe di suo marito fu annebbiata dalle urla, dai cocci, dalle tende strappate e dalla mano fredda e gentile dell'infermiera Martha, che conduceva lei e Oskar fuori dal salotto del sanatorio.
 
 
*
 
« Smetta di urlare, Johan. La sua famiglia è lontana, non possono più sentirla».
Möbius era seduto sul divano, la faccia affondata fra le dita, attorniato dal caos che lui stesso aveva creato.
« Questa stanza è come la mia mente, Martha. Sono io che l'ho ridotta così»
« La smetta anche di filosofeggiare. Non le fa bene piangersi addosso. E poi ho capito che fingeva»
« Cosa?»
« Lei fingeva».
Möbius alzò la testa dalle mani e fissò l'infermiera, stralunato.
« Se n'è accorta?»
« Sono quattro anni che l'ho in cura, Johan. Perché ha trattato così sua moglie?»
« Non mi interessa più niente di lei. E nemmeno dei miei figli. Se ne vadano pure lontani. Dopo questa scenata, non avranno più voglia di pensare a me. E io sarò libero dai loro fantasmi».
Martha rise e si accomodò accanto a lui.
Gli passò una mano fra i capelli, accarezzandolo e togliendogli dalla testa qualche frammento di bicchiere. Lui la lasciò fare, rimase come un addormentato in balia delle dolci onde del mare. Martha gli tastò il polso, la fronte e l'incavo fra la mandibola e il collo. Poi sospirò:
« Signor Möbius, devo parlarle»
« Che c'è signorina?»
« Anche noi dobbiamo dirci addio».
Möbius sbatté forte le palpebre: « Cosa? E perché?»
« Mi trasferiscono all'edificio principale. Il procuratore di stato ha imposto che qui nella villa mettano piede solo delle guardie giurate, alle infermiere sarà vietato entrarvi»
« Per colpa di Einstein e Newton?»
« Esatto».
I due rimasero in silenzio per un attimo.
Martha non osava più toccare Möbius né lui riusciva più a muoversi.
Tutto fu immobile: i cristalli sbriciolati a terra, le tende ammucchiate, le sedie rovesciate. L'istantanea della mente di un pazzo: un tempio sacro violato da una tempesta.
Poi l'incantesimo si ruppe.
« Signorina Martha, io sono una persona goffa. Però voglio che sappia che da quando mi ha preso in cura lei, tutto è stato più bello».
Martha riuscì a voltarsi verso Möbius.
Lei era giovane e fresca, abile, seria. Lui un cinquantenne, sciupato, smagrito, eppure vivo.
« Signor Möbius. Io non credo che lei sia pazzo».

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Capitolo 6
*** miracolo e divieto del Re Salomone ***


miracolo e divieto del Re Salomone

Möbius sorrise amaramente: « Neanche io ci credo a dire il vero. Ma la mia disgrazia è che mi appare il Re Salomone e, nel mondo della scienza, niente è più assurdo di un miracolo».
Martha strinse i pungi poggiati sulle ginocchia. Sembrava volersi decidere, sembrava prepararsi.
« Signor Möbius, io ci credo a questo miracolo»
« Cosa?» Möbius fissò incredulo la donna che gli sedeva accanto.
Anche lei si decise a guardarlo: lo puntò dritto negli occhi. Come sono ardenti, pensò Möbius.
« Io ci credo, se lei lo dice»
« Lei crede che mi appare il Re Salomone?»
« Si. Se lei lo dice, io ci credo»
« Anche quando dico che è Salomone a dettarmi le formule fisiche?»
« Si, anche quando dice questo. E se mi dice che le appare anche re Davide, io le crederò lo stesso. È che io so che lei non è pazzo. Certe volte finge, certe volte crede alle sue stesse menzogne, certe volte è sincero. Io le crederò sempre».
Continuava a fissarlo, con le iridi ardenti e l'espressione sicura di un giocoliere che si lancia nel cerchio infuocato.
Möbius sentì le proprie mani sorreggere quel cerchio, vide l'acrobata pronta a spiccare il salto. Ma lui gettò il cerchio a terra.
« Non voglio vederla mai più».
L'acrobata non si arrese. Prese il cerchio e se lo tenne alto da sé. Poi ci saltò dentro.
« Ma io l'amo».
Il cerchio di fuoco fece divampare un incendio nel cuore di Möbius. Tutto bruciava, in un assurdo silenzio rimbombante.
Eppure lui non poteva, non doveva guardarla.
« Lei si sta precipitando nella catastrofe»
Lei gli prese le mani.
« Non ho paura» disse. Era irriducibile.
Möbius non aveva il coraggio di guardare quella faccia bella, adorabile, a lui tanto cara. Martha ormai era libera da ogni titubanza. Non spostava la testa di un centimetro e teneva gli occhi fissi su Möbius. Le mani ferme sopra le sue.
« Signorina. Martha ...» iniziò Möbius con voce tremula. Fissò le sue mani nodose, sopra cui poggiavano quelle fresche e rosee di lei. Intrecciò le sue dita squadrate a quelle affusolate, poi le divise e poi le intrecciò di nuovo.
« Lei mi ha confessato il suo amore e la fiducia che ripone in me. Devo confessare a mia volta la verità: anche io l'amo. L'amo tanto, troppo. E non posso permettermi questo. Ci sono troppe cose in gioco, cose enormi. Lei è in pericolo, proprio perché ci amiamo».
Una lacrima sfuggì al controllo di Martha Boll: era di felicità?
Un fragore inaspettato fece sobbalzare i due, seduti sul sofà.
« Mi sono svegliato di nuovo».
Era Einstein, che ciondolava felice nel salotto. I baffi a spazzola in disordine, così come i capelli.
Martha Boll si alzò e asciugò rapidamente la lacrima sulla guancia. Raggiunse l'altro paziente e gli circondò le spalle. Quello balzellava, allegro.
« Ma come, professore»
« A un tratto mi sono ricordato»
« Ma via, professore»
« Ho ucciso Irene Strauss»
« Non ci pensi più, professore».
Einstein si liberò della presa di Martha Boll e raggiunse Möbius. Dette un lieve calcio ai frammenti di bicchieri che ancora giacevano sparsi dappertutto.
« Chissà se sarò ancora in grado di suonare il violino. Chissà se sarò ancora in grado. Chissà se saprò ancora suonare il violino. Chissà se ...»
« Lei ha già ripreso a suonare, Ernst» sbottò Möbius, cercando di fermare l'ometto baffuto. Quello, come una rana, saltava di qua e di là, accompagnato dagli scricchiolii dei detriti sul pavimento.
« Il bello è che non mi piace affatto suonare il violino. E odio anche fumare la pipa».
Möbius si alzò e lo raggiunse, scocciato. Lo afferrò per un braccio:
« E allora smetta!»
« Non posso» disse l'altro, finalmente fermandosi. Si portò un pungo sul cuore e chiuse gli occhi, solenne: « sono Albert Einstein».
Aprì gli occhi e sorrise scioccamente rivolgendosi prima a Möbius, poi a Martha. L'irritazione era ben visibile sui volti di entrambi.
« Sbaglio … o le mie vecchie orecchie hanno sentito che vi amate?».
Martha Boll, rossa in viso, si accomodò una ciocca di capelli biondo cenere dietro l'orecchio. Disse, sicura:
« Ci amiamo».
Com'era bella. Com'era decisa, capace, sicura. L'animo più nobile all'interno di quel luogo. La donna più forte che Möbius avesse mai conosciuto.
« Che cosa commovente. Sa? Anche io amavo Irene Strauss e lei amava me»
« Via, professore. Vada a stendersi»
« È così. Mi amava. Diceva che avevo un accento russo, che avevo un'aria dell'est. Ero esotico, per lei. E lei era così cara, così dolce. Poi mi ha detto che voleva sposarmi e che voleva portarmi fuori dalla clinica. Voleva chiedere il permesso alla Von Zhand, voleva andare a vivere in campagna. E così l'ho strangolata»
« Dia retta a me, professore. Lei deve stendersi»
« E lei dia retta all'uomo che ama: se Möbius le consiglia di dimenticarlo, lo faccia. È meglio per tutti e lei sarà salva. Colga l'occasione del trasferimento e si scordi di noi. Altrimenti per lei è la fine».
Se ne andò, teatralmente, chiudendosi la porta di camera alle spalle.
« Poveretto. Come vaneggia» sussurrò Martha.
« Martha, stia bene a sentirmi. Agli occhi del mondo lei ama un malato di mente. Abbandoni la clinica e mi dimentichi. E’ meglio così... per tutti e due».
Gli occhi dell'infermiera si riempirono di lacrime che stavolta non si preoccupò di trattenere. I capelli erano sfuggiti al controllo dell'elastico e cadevano in ciocche disordinate sulla sua spalla. Lo fissò, piangendo, perdendo ogni dignità e ogni pudore: era rossa, rosea, sconvolta e ferita. Una ninfa dei fiumi travolta da un uragano. Möbius pensò che fosse bellissima.
« Johan. Tu … mi desideri?»
Passò al tu, gli si fece vicino, lo guardò negli occhi con quello sguardo pieno di lacrime e sentimenti. Möbius sentì le forze venire meno. Si obbligò a non guardarla.
« Ma perché mi dici cose simili?»
« Voglio venire a letto con te. Ti voglio. Voglio dei figli da te. Voglio essere tua, la tua donna, la tua compagna. Lo so che parlo come una svergognata. Ma perché non mi guardi in faccia? Non ti piaccio proprio per niente? Ora voglio sacrificarmi per uno solo, e non sempre per tutti quanti! Voglio esser lí per l'uomo che amo. Per te. Farò tutto quello che vorrai tu, lavorerò per te giorno e notte, solo non devi mandarmi via! Anch'io non ho più nessuno al mondo, all'infuori di te! Anch'io sono sola! Tu non mi ami proprio per niente, allora!».
Möbius si voltò, colmo di pietà e sofferenza. Sentiva il cuore che traboccava, le mani che tremavano e gli occhi pieni di tenebre e luce insieme.
« Io ti amo, Martha. Ti ho amata da poco dopo che mi avevi preso in cura. Sei una donna meravigliosa e forte. Ma io mi ero promesso di tenere il mio amore segreto. Non possiamo amarci. Non possiamo! È troppo pericoloso»
« Perché dici che è pericoloso? Cosa può succedere?»
« Il Re Salomone! Lui mi ucciderà se commetto errori. Non posso!»
« Non c'è nessun errore. Tu non sei pazzo. Salomone non può farti del male. Te lo prometto, Johan. Te lo prometto quanto è vero che c'è il mondo».
Möbius la guardò e fu un grande errore: lei lo prese e lo baciò con trasporto.
E lui si fece baciare, si beò di quella breve finestra di luce sul suo mondo buio.
Va bene, pensò. Finché rimarrà qui godrò del suo amore. Finché non sarà costretta a lasciare la clinica non mi priverò del raggio di sole primaverile che riscalda il mio inverno.
L'amava, ma Salomone era più potente, persino dell'amore.
È una cosa temporanea, si ripeté Möbius. Andrà tutto bene.
Ma si sbagliava.

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Capitolo 7
*** tris ***


 
Tris
 
Mathilde Von Zhand leggeva degli appunti molto interessanti. Era concentrata, con una mano scriveva e con l'altra sfogliava le pagine. Quando si dedicava allo studio portava dei grandi occhiali dalla montatura di tartaruga, teneva i capelli scuri sciolti e indossava vestaglie da camera.
Sapeva di essere intelligente e sapeva che questo non costituiva un vanto, ma un'arma: lei era più potente di tutti quegli antenati impolverati che avevano preceduto la scala del suo successo. Aveva sempre odiato il trattamento preferenziale che qualcuno, ogni tanto, le aveva riservato per l'antica discendenza. Lei si meritava un tale trattamento, ma non per il sangue; per capacità. Odiava i quadri a olio dei bis bis nonni e più di tutti quello di suo padre: l'aveva sempre disprezzata e lei, di conseguenza, lo aveva ignorato. Aveva sempre saputo di essere più forte.
E così scriveva, con la matita corta e spuntata. Scriveva e si compiaceva di sé stessa, capace e influente. La psichiatria corredava solo il lauro delle sue capacità. Si dilettava e padroneggiava la matematica, la fisica, la chimica, la statistica, la progettistica. Era nata per comandare e poche volte si era distratta da questo suo dovere di nascita.
Un rumore nasale e gracchiante interruppe lo studio della dottoressa.
Lei sospirò. Mise tutto in un cassetto, girò la chiave, si prese una sigaretta e se l'accese. Poi raggiunse lo spioncino della porta del suo studio privato.
Rimase un attimo in balia della sua visione, poi morse e inspirò con avidità la sigaretta. Le labbra rosse ed eleganti sorrisero.
« Chi è?» chiese.
« Ilka, signora. Sono il capo della sua nuova squadra di polizia privata».
Mathilde gustò a fondo il sapore della sigaretta e l'accento della persona che stava fuori dalla porta.
Le guardie erano arrivate, erano pronte ad installarsi nella villa.
 
*
 
Martha Boll sapeva che a quell'ora Möbius era sempre impegnato in una seduta con la direttrice. Ogni giorno, ella dedicava ai tre fisici alcune ore del suo tempo. C'erano altri medici meno importanti di lei, cui lei affidava le cure degli altri pazienti dell'intera struttura. Ma i fisici no, doveva curarli la dottoressa in persona.
Proprio perché sapeva che in quelle ore la signorina Von Zhand era impegnata, trovò strana la convocazione telefonica. Doveva presentarsi nel suo studio immediatamente.
Martha uscì dalla sua stanza, attraversò l'atrio della villa e indugiò un poco sulla porta del salotto. Udì una musica malinconica provenire da qualche parte oltre la porta, opera del violino di Einstein. Il suo Möbius era là dentro. Sorrise, si portò le mani al cuore e chiuse gli occhi.
Da un mese lei e Möbius si sfioravano con baci e carezze. Lei lo amava sempre di più, era inebriata, ubriaca. Aveva compiuto qualche follia, che ancora Möbius non sapeva ma che lei era certa avrebbero portato giovamento alla loro situazione. Gliene avrebbe parlato, se l'era promesso.
Senza pensarci si era avviata su per le scale che conducevano all'appartamento della direttrice.
Bussò alla porta.
« Sono Martha Boll»
« Oh, entri cara».
La dottoressa la ricevette in vestaglia. Strano, pensò Martha. Di solito era impeccabile. Mathilde era comunque una splendida visione, circondata da maestose librerie, tomi importanti, la grande scrivania di mogano e immense cartelle di studi.
Esibiva un sorriso radioso, era come arrossita.
« Le guardie giurate sono arrivate, signorina Boll. Ha avuto un mese di tempo per abituarsi all'idea e separarsi dai suoi tre cari pazienti. Oggi è il giorno. Il procuratore di stato rischia di farmi impazzire con le sue telefonate quotidiane. Finalmente l'attesa è finita. Faccia pure i bagagli e liberi il suo appartamento. Vi si stanzierà Ilka, il capo della polizia privata. Per lei è libera una stanza nell'ala Verde dell'edificio centrale».
Martha sbiancò. Aveva come rinunciato all'idea che le guardie arrivassero davvero.
« Cos'è quella faccia, signorina Boll?»
« Dottoressa. Voglio sapere se è possibile che il signor Möbius venga dimesso».
La Von Zhand tacque. Affilò lo sguardo, poi accavallò le gambe da dietro la scrivania.
« Cosa significa questo, signorina Boll?»
« Io e il signor Möbius ci sposeremo» replicò Martha, arrossendo ma senza perdere la fermezza.
« Oh» gongolò la direttrice. Martha credette che la donna non fosse del tutto in sé: non l'aveva mai vista così di buonumore, con le guance rosee e lo sguardo ridente. Sapeva che l'“oh” era sarcastico, ma c'era qualcosa di più.
« Beh, mia cara, credo che dimettere Möbius sia impossibile. Per quanto l'amore sia cieco, converrà con me che si tratta di un uomo malato»
« La signora Rose non sta più pagando la retta della clinica. Perché continua a tenerlo qui? Potrebbe essere affidato alle cure dello stato. Potremmo trasferirci altrove»
« Lei è un infermiera e mi rendo conto che la vede dal punto di vista affettivo, ma pensi un poco allo shock che provocherebbe nel caro Möbius. È infermo, è suscettibile. La sua mente fragile non reggerebbe un cambiamento così drastico»
« Mi faccio carico di tutte queste eventuali problematiche»
« Mia cara, sono io che prendo le decisioni e lei le rispetta. Io prescrivo la cura e lei la somministra. Lei è la mia migliore infermiera, non voglio perderla. E non permetterò che Möbius lasci la clinica, per il suo bene».
Gli occhi a cerbiatta della dottoressa non convinsero Martha. Non aveva scelta se non annuire, ma dentro di sé sapeva che doveva agire in qualche modo. Non poteva essere l'ultimo giorno che condivideva con Johan, l'ultima volta che lo vedeva. Le sarebbe toccato tirar fuori le sue carte quella sera stessa.
« Mi permetta allora di fargli visita, come faceva sua moglie»
« Ma lei non è sua moglie, Martha»
« Mi permetterà di sposarlo? Qui, nella cappella della clinica»
« Se proprio lo desidera ...» concluse Mathilde con un'alzata di spalle.
Qualcosa le diceva che la Von Zhand avrebbe fatto qualunque cosa per impedirlo.
« È molto strano. D'agosto Dorothea Moser venne a chiedermi di dimettere il buon Newton. Un mese fa, Irene Strauss mi implorava di lasciare libero Einstein» mormorò Mathilde.
« Dorothea e Irene non avevano capito quanto Newton e Einstein fossero malati»
« Mi domando se lei abbia fatto le stesse considerazioni»
« Si, le ho fatte» ribatté Martha, rigida.
Per il momento fu congedata. La dottoressa sembrò non volersi interessare oltre alla faccenda.
Martha fece le scale di corsa e si diresse verso il salotto, poi verso la stanza di Möbius.
« Johan! Johan!»
lui non rispose.
Martha bussò ancora, poi spinse la porta ed entrò.
La stanza era abbastanza in ordine: c'era lo scrittoio, qualche foglio scribacchiato e un cassetto chiuso a chiave. Probabilmente la chiave si trovava nella tasca dei pantaloni di Möbius.
Johan dormiva profondamente.
Si svegliò dopo una ventina buona di minuti. L'infermiera era al suo fianco.
« Martha» mugolò Möbius, assonnato.
« Johan. Ti era preso il sonno?»
« Non ricordavo nemmeno di essermi addormentato» borbottò lui.
« Dobbiamo parlare. È importante».
Johan si stropicciò gli occhi e si tirò su a sedere.
« Di che si tratta?»
« Le guardie sono arrivate. Entro stasera devo liberare l'appartamento. Non potrò più vederti».
Möbius sentì dentro di sé due sentimenti contrastanti: dire addio alla dolce Martha, alla creatura che avrebbe voluto stringere a sé per sempre, gli causava un grande dolore. Dall'altro lato, un gran sollievo lo pervadeva: era tutto al sicuro. Non doveva più preoccuparsi. Il mondo era salvo. Martha era salva. Lui era salvo.
L'attimo fugace in cui credette di aver risolto i suoi problemi si trasformò nella scoperta che, invece, si trovava solo all'inizio di una catastrofe.
Martha parlò di nuovo con quel fare ardente della sera in cui gli aveva dichiarato il suo amore: sembrava febbrile, imperiosa, irragionevole.
« Ho scritto al tuo professore universitario» disse.
« Che cosa?!» una fitta inaspettata colpì Möbius allo stomaco.
« Si. Il professor Staufen. Gli ho scritto che durante questi anni hai continuato a lavorare e che hai un sacco di materiale»
Möbius sentì di stare cominciando a sudare. Gli si strabuzzarono gli occhi.
Martha davvero non capiva questa sua reazione. Anzi, d'un tratto sembrava essersi calmata: ecco il ritratto della tranquillità; sentiva tutto sotto controllo.
« Johan, calmati. Lui ha detto che vorrebbe leggere i tuoi appunti. Non sei contento?»
Le pupille di Möbius si diressero freneticamente a destra e a sinistra. Cercò qualcosa, una via di fuga, una falla.
« Gli hai detto che mi appare il Re Salomone? Gli hai detto che quelli sono appunti che mi ha dettato lui?»
Martha rise.
« Si, e lui ha risposto che tu sei sempre stato spiritoso. È disposto a leggere gli appunti anche sono stati dettati dal Re Salomone».
Möbius non pareva felice.
Si allontanò e cominciò a misurare la stanza a grandi passi, spostando oggetti, rimettendoli al loro posto, poi spostandoli di nuovo. Si grattò la testa, si mise le mani in tasca, si sbottonò la camicia e si grattò il collo. Era completamente sudato.
« Johan, cerca di calmarti. Perché fai così?»
« Perché … quegli appunti. Salomone mi ha esplicitamente ordinato di non rivelarli. Ha detto che mi ucciderà, se li rivelo».
Martha gli si avvicinò, lo prese per mano e lo fece sedere.
« Johan, tesoro. Non essere sciocco. Ti prometto che il Re Salomone non ti ucciderà»
« Tu non capisci, Martha. Quegli appunti devono rimanere segreti»
« Se il tuo professore legge quegli appunti, tu ti guadagni una cattedra all'università. Potremo vivere lontani da qui, potrai lavorare. Ecco … io ho fatto anche un'altra cosa. Durante questo mese ho inviato il mio curriculum per ogni dove. Ho ottenuto un posto da infermiera comunale a Blumenstein, a Berlino e in mille altri piccoli paesi. Non c'è nessun motivo di preoccuparsi. Troveremo di cosa vivere, abbiamo solide basi».
Möbius si voltò verso la giovane donna: era bella, bellissima. La amava. Aveva avuto pietà di lui, l'aveva preso fra le sue braccia, l'aveva curato e fatto sentire al sicuro. Non le importava che lui fosse pazzo o meno, non le importava di niente. Martha voleva solo vivere al suo fianco per sempre.
Ma in quel momento, Möbius capì la sua maledizione: lui non poteva avere nessuno al suo fianco. Per questo aveva allontanato Lina. I suoi figli. Per questo la sua condizione era disperata. Per questo, Martha aveva sbagliato. Per questo lui aveva sbagliato. Aveva permesso che il loro amore fiorisse per un mese intero.
« Martha. Quegli appunti sono pericolosi»
« Perché pensi che Salomone ti ucciderà, se li faccio leggere ad altri?»
« Si»
« Allora dovrai fidarti di me, quando ti giuro che non verrai ucciso da Salomone»
« Che vuol dire?»
« Come ti ho detto, vuol dire che dovrai fidarti di me. Mentre dormivi ho preso i tuoi appunti. Domani li spedirò».
Era seria.
Möbius parlò con tutta la calma del mondo. La sua voce gli suonò sconosciuta.
« Martha. Ridammi immediatamente quegli appunti»
« No»
« Martha devi darmi retta»
« Devi darmi retta tu»
« C'è in gioco più di quello che pensi»
« L'amore è più forte di tutto».
L'amore. Il mondo è un luogo meraviglioso. Ci sono gli alberi, le farfalle, i fiori e l'amore. Scorrono lunghi fiumi fatti di acqua e di parole. Gli uomini si intrecciano fra loro come fili infiniti di una coperta colorata, che ricopre i suoli di ogni dove e riscalda i doni che la natura ha creato. Luce da luce. Dio vero da Dio vero.
E se la luce esiste, è perché giace al suo fianco l'ombra. E il Re Salomone si erse dalle tenebre, per nascondere il suo segreto.
Il suo verbo non poteva essere disperso fra le genti. E Möbius lo sapeva.
Si alzò e si diresse verso il salotto.
Era buio.
Non riuscì a trovare l'interruttore ma non gli importò: lo conosceva a memoria e la luce della luna era sufficiente a delineare il contorno del tavolo che cercava.
Non c'erano più i bicchieri di cristallo: li aveva distrutti lui, dopo l'ultima visita di Lina. Adesso erano stati sostituiti da dei comuni flûte di vetro. Ne prese uno e si versò la Sambuca, che Newton aveva dimenticato lì.
Fu proprio la voce di Newton che udì, dopo un soffuso rumore di porta che si apre.
« Che cosa è successo?» chiese Newton.
« Ho strangolato l'infermiera Martha Boll».

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Capitolo 8
*** Richard Voss ***


Richard Voss
 
Richard Voss sedeva beato su una morbida poltrona. Non poteva essere più a suo agio.
« Vuole un Avana?»
chiese la direttrice con voce spenta.
Lui rispose: « No, grazie»
« Della Sambuca, forse?»
« Più tardi, magari».
Mathilde Von Zhand se ne stava sgraziata su un sofà: per la prima volta, Voss non fu sopraffatto dal suo fascino, che in quel momento pareva dissolto. L'espressione amareggiata, preoccupata, non le donava. La donna si massaggiò le tempie, poi riprese, mesta:
« E allora, l'assassino …»
« Signorina! Ma che dice mai!»
« Oh. Certo, certo. Volevo dire … l'autore del gesto. Vuole vederlo?»
« Non ci penso neppure».
I grandi e cigliati occhi neri della dottoressa si voltarono, pieni di dubbio, verso quelli di Voss: «Ma …?»
« Senta, signorina Von Zhand, io faccio il mio dovere. Stendo il protocollo, prendo in visione il cadavere, lo faccio fotografare e ne faccio fare una perizia dal medico legale, ma a prendere in visione Möbius non ci tengo proprio. Quello lo lascio a lei, insieme a tutti gli altri fisici radioattivi»
« E il procuratore di stato?»
« Non ha neanche più la forza di andare in bestia».
Mathilde sprofondò ancora di più nel divano. Voss notò la sottoveste di pizzo nero, che saltava fuori dal vestito spiegazzato.
« Fa caldo, qui dentro» gemette la donna.
« Ah, non fa caldo per niente» ribatté lui.
« Oh, questo terzo assassinio ...»
« Signorina, ma che parole!»
« Beh ecco … questo incidente. Proprio non mi ci voleva. Martha Boll era la mia migliore infermiera. Lei riusciva a capire i malati. La sua vocazione risiedeva nella loro cura. L'amavo come fosse una sorella» qui la dottoressa si coprì gli occhi con le mani, per poi riemergerne un attimo dopo, come riprendendosi da un butto sogno: « ma il peggio non è poi tanto la sua morte. Voglio dire, il procuratore di stato mi farà senz'altro chiudere, mi prenderete tutti i pazienti, il mio nome non significherà niente. E io ho bisogno della visibilità che mi sono faticosamente guadagnata. La mia fama è irreparabilmente distrutta».
Voss non riuscì a non avere compassione: rise e si avvicinò alla donna. Le posò una mano sulla spalla, che era calda e liscia.
« Ma no! Tanto ormai ha finito le infermiere, qui dentro. Le guardie sono arrivate e tutto procede come deve. Vedrà che la fama non ne risentirà».
In quell'istante si aprì una delle molte porte del salotto.
Ne uscì un bell'imbusto, alto, biondo, con una corporatura allenata dentro una divisa nera. Non poteva avere più di venticinque anni. Possedeva lineamenti dell'est Europa: un naso lungo e dritto, occhi chiarissimi dalle ciglia nere.
Voss non se l'aspettava, ma non poté fare a meno di notare che la dottoressa s'era ricomposta tutta d'un fiato: ora sedeva elegante e dritta, anche se un po' concitata.
Il giovanotto dichiarò:
« La cena dei cari malati è pronta, signorina»
Aveva un forte accento.
« E che gli diamo ai nostri cari malati?» fece Voss, fingendo interesse.
« Agnolotti in brodo, poulet à la broche e bistecca alla Bismark» rispose il giovane, serio.
« Alla faccia» commentò Voss.
« Vitto di prima classe»
« Grazie Ilka» cinguettò la direttrice, sbattendo le ciglia: « vada pure, i pazienti verranno e si serviranno da sé»
« Si, signorina».
Il giovane fece un leggero inchino alla dottoressa, poi un cenno di saluto al commissario.
Uscì con passo fermo e richiuse la porta alle sue spalle.
« Perbacco, signorina. Sono un po' invidioso. L'avessimo noi in polizia, uno così! Dove l'ha trovato?»
Mathilde avvampò, ma cercò di contenersi: « In una scuola di addestramento russa. È il capo della squadra di polizia privata che lei e il suo procuratore di stato mi avete obbligato ad assumere»
« Mi dispiace per lei»
« Ha ricevuto un addestramento rigido e la sua priorità è obbedire agli ordini. Qui nella clinica, quindi, ai miei ordini»
« Immagino»
« Lo pago per questo»
« Non ne dubito».
Voss dette alla dottoressa il tempo di ricomporsi, mentre dava un'occhiata in giro: i bicchieri di cristallo erano spariti. I cordoni della tenda non c'erano più. La lampada era già stata sostituita dal candelabro, sempre al suo posto.
A un certo punto, una musica lontana e malinconica riempì il salotto.
« Ehi! Ecco Einstein con il suo violino!» esclamò Voss, divertito.
« È Bach, il suo preferito» commentò la dottoressa.
Proprio allora si udì una maniglia scattare e Möbius fece il suo ingresso: esibiva di nuovo l'espressione vacua e annebbiata ma gli si potevano scorgere occhiaie ancora più profonde di sempre.
Mathilde Von Zhand si alzò di colpo e lo raggiunse con notevoli falcate:
« Möbius! Lei ha ucciso Martha Boll! Come diavolo le è saltato in mente?!»
« Sono spiacente, signorina» mormorò lui.
« Ah, spiacente? Credevo ci tenesse a lei!»
« Me l'ha ordinato il Re Salomone»
« Il Re Salomone?!» stridette la dottoressa con voce isterica.
Ci fu un istante in cui Voss credette che la direttrice stesse per assestare un pugno sul naso a Möbius. Parve pensarlo anche lei, che sbatté le palpebre e si riscosse.
Tornò pesantemente verso il sofà e vi si sistemò.
« Mi scusi, Voss. Sa, i nervi»
« Ma le pare, signorina»
« Una clinica come questa è una cosa sfibrante»
« Ah, le credo»
« Credo di aver bisogno di riposarmi nel mio appartamento»
« Ci scommetto»
« Vogliate scusarmi. Voss, proceda all'interrogatorio o insomma, faccia tutto ciò che diavolo vuole. Arrivederci, signori».
La sinuosa dottoressa si alzò e si dileguò.
Voss rise e si accomodò sul posto lasciato vuoto da lei. Invitò anche Möbius a sedersi.
« Caro Möbius, che piacere. Venga, venga»
« Commissario, la prego. Lei deve arrestarmi»
« Arrestarla? E perché mai?»
« Ma … perché ho ucciso Martha. L'ho davvero uccisa. Con le mie mani» gli occhi gli si velarono di lacrime. Se li coprì con le nocche ruvide.
Voss era del tutto insofferente:
« Amico mio, lei stesso ha dichiarato che ha agito su ordine del Re Salomone. Fintanto che non posso arrestare lui, lei resta in libertà»
« Però ...»
« Ma che “però” e “però”. Non ci sono però. Sa cosa? Lì sotto il tavolo c'è nascosta la Sambuca di Sir Isaac Newton. Me ne versa un bicchierino?»
Möbius era vagamente allibito: « D'accordo, signor commissario».
Si alzò, trovò la Sambuca, la versò in un flûte e la portò al commissario.
« Via, me ne versi un altro. E se ne faccia uno anche per sé».
Möbius obbedì.
Voss bevve i due bicchieri d'un fiato e poi fece scoccare la lingua.
« Caro Möbius, sa, ogni anno arresto alcuni assassini. Mica tanti. Saranno sì e no una mezza dozzina. Alcuni li arresto con piacere, altri mi fanno compassione, ma devo arrestarli lo stesso. La legge è la legge. Ed ecco che mi capita lei coi suoi due colleghi. All'inizio, devo ammetterlo, mi sono seccato di non poter intervenire, ma adesso, vuol saperlo? Adesso tutt'a un tratto ci godo. Ho trovato tre assassini che posso fare a meno di arrestare, senza dover provare dei rimorsi. È una sensazione grandiosa. Avevo proprio bisogno di ferie, per questo la ringrazio» si alzò. Raggiunse il soprabito appeso a un attaccapanni e se lo infilò:
« Addio e mi stia bene. Mi saluti tanto Albert Einstein e Sir Isaac Newton. E presenti i miei omaggi al Re Salomone».
Voss salutò con calore l'uomo sul divano. Si accese una sigaretta, dette un ultimo sguardo al salotto e uscì per sempre.

 

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Capitolo 9
*** i fisici ***


I fisici
 
Passò una settimana.
Möbius rimase chiuso in camera sua, si rifiutò di mangiare e bere. Dimagrì a vista d'occhio e non scambiò parole quasi mai con nessuno.
Le guardie si stanziarono con discrezione. Durante la settimana si udirono rumori di lavori in corso e si videro modificare porte e finestre della villa. Era l'attuazione del nuovo piano di messa in sicurezza, voluta dal procuratore di stato e controfirmato dalla dottoressa Von Zhand.
Tutto divenne blindato, difficile, chiuso.
Una sera, Möbius uscì dalla sua stanza. Si sedette in salotto, gli occhi spenti, la bocca serrata. Si rigirava fra le mani un bicchierino vuoto, che non aveva contenuto nulla. Non c'era niente che gli desse conforto.
 
« Eh, capisco. Anche a me era passato l'appetito dopo la mia infermiera» commentò Newton, tranquillo, comparendo alle sue spalle. Möbius lo ignorò.
« Anche io non volevo più parlare, ma secondo me le farebbe bene!» continuò l'altro.
Möbius si alzò e fece per ritornare in camera sua.
« Resti qui» disse Newton con un'improvvisa voce autoritaria.
« Che vuole, sir Isaac?» riuscì a sospirare Möbius.
« Ho deciso che la farsa finisce qui. Le guardie hanno inasprito la sicurezza a livelli impossibili e lei se ne sta chiuso tutto il giorno in camera. Rischiamo di rimanere qui dentro per sempre. Io rischio di non ottenere alcun risultato. Mi hanno insegnato che quando la situazione è in stallo, sta a noi compiere il primo passo. Passerò all'azione proprio adesso». Sembrava stranamente serio. La parrucca impolverata era come fuori luogo sulla sua faccia, adesso.
« Questo è affar suo, sir Isaac» Möbius decise che non gli interessava. Scrollò le spalle.
« Io non sono sir Isaac Newton»
« Ah, già. Lo so. Lei è il vero Albert Einstein».
Gli occhi di Newton erano immobili.
« Fesserie» disse: « Io non sono Newton, né Einstein, né tanto meno Georg Beutler, come credono qui».
Möbius non fiatò.
L'uomo continuò: « Io sono Brian Stephien».
Möbius ebbe come un colpo. Indietreggiò a bocca spalancata e con gli occhi di fuori.
« Co … cosa?».
L'altro taceva. I suoi occhi vispi brillavano di una luce eloquente e terrificante dentro le occhiaie nere.
Nel suo arretrare, Möbius incontrò una sedia e cadde. Non staccò gli occhi dall'uomo davanti a lui.
« Lei è Brian … Stephien? L'americano che ha scoperto la teoria dell'equivalenza?»
« Si. Sono io»
« Ma lei parla tedesco! Lei non può essere americano! Lei non è Stephien! Lei è un folle!»
« Un folle? Ah ah ah» rise l'altro. Rimase in espressione distesa per qualche secondo, poi alzò un sopracciglio, inspirò e decise di rivelarsi: « Lei è un fisico e mi conosce per le mie pubblicazioni in quell'ambito. Ma io sono un agente al servizio della C.I.A.. Ho imparato così bene il tedesco con un faticosissimo addestramento. Però ne sono felice. Almeno ho potuto leggere la sua tesi di laurea anche in lingua originale».
Möbius si rialzò, tremante. Si aggrappò a una tenda.
« La mia tesi? Che c'entra?».
Stephien si sedette sul sofà, disinvolto.
Si tolse la parrucca e la gettò di lato. La sua testa sembrava così piccola, senza.
« Io sono entrato qui dentro con il solo scopo di tenerla d'occhio, amico mio. Dopo aver letto la sua tesi, la C.I.A. Si è allertata. È il testo più geniale della fisica contemporanea. Non se n'è reso conto? Oppure fa il modesto? Hanno chiesto il mio parere professionale e mi hanno proposto questo incarico: venire a spiarla. Abbiamo dovuto faticare molto per risalire alla sua vita privata. Si è nascosto proprio bene. E così abbiamo scoperto che lei si era ritirato dalla comunità scientifica dichiarando una presunta malattia mentale. Ovviamente nessuno ne è convinto. Lei non è ammalato. Lei finge per tenere nascosto qualcosa che ha scoperto. Non è così?»
« Ma … perché spiarmi? Cosa volete da me?»
« Proprio quello che ho appena detto. Capire quello che lei ha scoperto»
Möbius era stordito.
Gli girava la testa, si sentiva chiuso in una gabbia inesistente.
Da qualche parte, un altro rumore, come una porta aperta, i baffi di Einstein e la sua espressione. Ma era diversa. Non sembrava pazzo. Era lucido, serio.
« La C.I.A. Non è stata la sola a leggere la tesi del signor Möbius, sa, Stephien?».
Si portò al centro della stanza.
« Lasciate che mi presenti. Anche io faccio parte di un servizio segreto: il KGB. Il mio nome è Mitja Ylosovich, sono russo».
A Möbius si annebbiò la vista. Sentì il cuore stringergli si nel petto. Vide due Einstein e due Newton ballare davanti alle sue pupille agitate.
« Lo scopritore dell'effetto Ylosovich … » blaterò, con la bava alla bocca, annaspando, senza fiato.
« Lei è scomparso dal 1950!» gridò Stephien.
« Oh, si, volontariamente» ammise Ylosovich tranquillo.
« Le dispiace mettersi faccia al muro?»
Stephien brandiva una Colt .45. da dove diavolo spuntava? Möbius sentì il sudore, freddo, scivolargli lungo la schiena. Stava per svenire.
« Ma si, perché no? Se ci tiene tanto».
Ylosovich si voltò. Con un gesto rapidissimo, anche lui tirò fuori da una tasca nascosta una pistola. La brandì contro l'altro, con la mano ferma e capace.
I due rimasero a fissarsi intensamente per alcuni minuti, che rimbombarono secondo per secondo dentro le tempie di Möbius.
« Stephien, mi stia bene a sentire. Poiché immagino che siamo entrambi abili nell'uso delle armi, perché non la stecchiamo qui?».
Stephien tentennò.
« D'accordo» disse, poi.
« Che ne dice se le nascondiamo sotto il tavolo?»
« Va bene».
Lentamente, entrambi alzarono le armi verso l'alto; poi, senza smettere di fissarsi negli occhi, le deposero sotto le gambe del tavolo coi flûte di vetro.
« Ah, Stephien, lei mi ha mandato all'aria tutti i piani. Di lei credevo che fosse pazzo sul serio»
« Se può consolarla, anche io ero convinto che lei fosse pazzo».
I due sedettero pesantemente sul sofà, mentre Möbius era rannicchiato contro la tenda. Aveva il respiro affannato, gli occhi strabuzzati, le mani tremanti.
« Del resto, mi sono andate di traverso diverse cose» continuò Ylosovich. Möbius si sforzava di sentire nelle sue parole un accento straniero, ma non lo sentiva. Non l'avrebbe mai indovinato. Non l'aveva mai sospettato. Aveva abbassato la guardia, era stato stupido, sciocco, ingenuo.
« … la faccenda con Irene Strauss, per esempio. Ah, che dolce fanciulla. Peccato per le sue troppe domande, per la sua intenzione suicida di sapere tutto di me. Ha iniziato a sospettare troppe cose e a scoprire troppe cose. Ovviamente io dovevo rimanere in incognito. Per quanto abbia goduto del suo fresco amore, ho dovuto strangolarla. È stato per me un incidente profondamente doloroso. Beviamo qualcosa?»
Ylosovich si alzò e si diresse al tavolo con i flûte. Non accennò a chinarsi per prendere le pistole.
Fu Stephien a tirar fuori la Sambuca dalla solita tasca della vestaglia.
« Ah, come la capisco. Con Dorothea è stato molto simile. Acuta ragazza; sospettosa, dolce ragazza. Me ne faccia un bicchierino, grazie».
Ylosovich obbedì e ne versò uno anche per Möbius.
« Möbius, si dia una calmata! Venga qui, si prenda una sedia».
Möbius non riusciva a staccarsi dalla tenda. Era attanagliato da una forza schiacciante.
« Coraggio, beva con noi. Ci racconti di Martha Boll».
Fu quel nome a dargli come una scrollata.
Rabbrividendo, lentamente, Möbius si staccò dal suo rifugio e capì che aveva bisogno di una rincuorante dose di alcool. Raggiunse il tavolino di legno, scolò il primo bicchiere e invitò Ylosovich a fargliene un altro.
« Oh, vede che si sente meglio?»
« Perché non ci racconta di Martha? Era una brava ragazza, anche lei»
« Si che lo era! E io l'amavo»
« Beva, allora, beva».
Möbius bevve il terzo bicchierino di Sambuca.
« E ora parliamo un po' d'affari. Möbius, immagino che il signor Stephien abbia le mie stesse intenzioni: scoprire cosa bolle nella sua pentola e condurla di nuovo nel mondo scientifico»
« Oh, quindi lei vuol portarmi al servizio della Russia»
« Certamente»
« E lei, Stephien, vuole costringermi ...»
« Ma che parole usa, Möbius!»
« Beh, vuole convincermi a seguirla negli Stati Uniti».
« Prima di parlare di questo, Möbius» intervenne Ylosovich: « penso che il signor Stephien ed io vorremmo ardentemente sapere quello che lei ha scoperto. Vogliamo sapere se ha ripreso da dove aveva lasciato la sua tesi. Sappiamo molto bene che lei lavorava alla ricerca della teoria di campo unitaria. Alla famosa “formula universale”».
Stephien annuì: « Si, diciamo che anche per la C.I.A. questa è una priorità».
Möbius sentì la Sambuca scorrergli nelle vene. Era entrato in un gioco senza chiedere; si trovava in balia di un vortice da cui non poteva sottrarsi.
E così, finalmente, dopo anni di silenzio sul suo prezioso lavoro, disse:
« Posso tranquillizzare entrambi i servizi segreti. La teoria di campo unitaria è stata raggiunta. Io possiedo la formula universale».
 

 

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Capitolo 10
*** Prigionia e libertà ***


Prigionia e libertà
 
Fu il turno di Stephien e Ylosovich di essere ammutoliti.
Rimasero coi bicchieri a mezz'aria, le bocche spalancate. Non si aspettavano una confessione così spontanea.
« Santo dio ...» mormorò Stephien rompendo il silenzio.
Ylosovich si alzò, stralunato, con le mani nei capelli: « Migliaia … migliaia di fisici con enormi laboratori di stato cercano di far progredire la scienza, senza riuscire a niente. E lei, lei, la sbriga così, en passant, a tavolino, in un manicomio!».
Stephien cavò dalla tasca della vestaglia un fazzoletto e si asciugò il sudore sulla fronte.
« Lei è sincero?»
« Si, sono sincero» rispose Möbius, ardente: « ho passato dieci anni della mia vita rinchiuso qui. Sapevo che prima o poi sarei riuscito a formulare la teoria di campo unitaria. Avevo bisogno di un luogo fuori dal mondo, un luogo dove lavorare in santa pace. E sa perché? Perché se le mie ricerche finissero nelle mani degli uomini, verrebbero prodotte energie superiori a ogni immaginazione. La bomba atomica? Ah, potrebbe arrossire. Gli uomini non sono pronti. E voi due ne siete la dimostrazione».
Möbius guardò i due colleghi nella scienza e nemici nella politica. Ragionarono un poco sul perché dovessero sentirsi la dimostrazione della non adeguatezza degli uomini a comprendere le potentissime teorie di Möbius, poi parlarono:
« Senta, la filosofia non risolve la vita. Provi a pensarci: nessuno Stato userebbe la formula per produrre gli abomini che lei pronostica» disse Stephien
« Sarebbe solo un pretesto per incutere timore» concluse Ylosovich.
Möbius li continuò a fissare, incredulo e indignato. Si girò il bicchiere fra le dita, poi lo poggiò sul tavolo. Si mise a sedere su una sedia solitaria, davanti ai due:
« Quindi mi state proponendo di eleggere la Russia o gli Stati Uniti a sovrano incontrastato del terrore, che assoggetterà il mondo».
I due scrollarono le spalle: « Ma no, Möbius, la questione è che lei deve tornare libero. Il mondo della scienza non può fare a meno di lei. E per uscire di qui lei deve fare una scelta»
« Io sono soddisfatto del mio destino. Sono libero solo se rimango nel manicomio. Se compissi una scelta, diventerei servo degli USA o della Russia. Dovrei asservire il mio talento a una delle due potenze ed escludere l'altra. La mia scelta di rinchiudermi qui è ponderata: io decido di non scegliere. Pura ricerca, puro godimento della libertà di pensiero senza il timore di creare danni all'umanità».
Stephien e Ylosovich lo guardavano storto. Sembravano vagamente convinti delle ragioni di Möbius, ma le loro motivazioni erano predominanti.
« Ma io non ne sono soddisfatto, e questo è un elemento determinante, non le pare?» scattò Ylosovich, avvicinandosi al tavolo: « con tutto il rispetto per i suoi sentimenti personali, non deve dimenticare che lei è un genio, quindi è un bene pubblico».
Anche Stephien si alzò, alto e dinoccolato, raggiungendo con agilità la posizione di Ylosovich: « Lei, Möbius, è riuscito a penetrare in nuovi settori della fisica. Lei ha il dovere di aprire la porta anche a noi, che non siamo geni. Venga con me, e in un anno la mettiamo in frac, la spediamo a Stoccolma, e lei si prende il Premio Nobel».
« È divertente come i vostri servizi segreti mi abbiano a cuore. È divertente che in questo teatrino voi sembriate alleati, ma che invece siete nemici diretti» notò Möbius.
Möbius credeva di aver fatto un commento spiritoso e non si aspettava la mossa che seguì:
Ylosovich fu rapido a raggiungere il tavolo, Stephien intuì le sue intenzioni e saltò su. In un attimo, i due erano a terra e si strattonavano per raggiungere ognuno la propria pistola.
Möbius arretrò, cadendo dalla sedia, rialzandosi e correndo verso la porta dell'atrio. Era chiusa a chiave.
Quando si voltò, vide che i due si stavano di nuovo puntando le armi a vicenda.
« Mi dispiace che debba finire così» esclamò Stephien, con gli occhi infuocati: « Ma ormai non ci resta che sparare. Möbius non sceglierà mai».
Ylosovich, invece, scoppiò a ridere sinistramente: « Non ci resta che sparare, si, ha ragione, Stephien. Ma sparare … anche su Möbius. Può darsi che sia l'uomo più prezioso del mondo, il fisico più geniale dei nostri tempi. Ma i suoi appunti sono più preziosi di lui. Uccidiamo Möbius e cerchiamo gli appunti. La formula universale ormai è raggiunta, frugheremo la sua stanza e troveremo tutto. Riusciremo a risalire alla formula»
« E allora poi potremo anche venire a patti» commentò tremendo, Stephien.
Le due pistole erano ora puntate sulla fronte di Möbius.
Egli cercò ancora di aprire la porta, invano. I due gli si avvicinarono con le armi puntate. Lui alzò le mani, si schiacciò contro la parete fredda, strizzò gli occhi e ammise:
« Gli appunti … io li ho bruciati».
Aspettò il colpo, il dolore, la morte. Che non venne.
Le pistole erano ancora sulla sua fronte.
Le facce dietro esse ricordavano l'opera del Caravaggio: la testa mozzata di Medusa.
« Bruciati?»
« Si! Il giorno dopo la morte della mia adorata Martha. L'ho fatto per prudenza! Temevo che la polizia mi perquisisse! La formula esiste solo nella mia testa, ormai».
Un rivolo freddo scese dalla fronte di Johan Möbius e scivolò nel collo, fin sulla schiena. Rabbrividì. Era la verità e non poteva far nulla per cambiarla.
Lentamente, i due abbassarono le pistole.
« Lei ha bruciato … ha bruciato dieci anni di lavoro!» Urlò Stephien fuori di sé.
« Ma è pazzo?!» gridò Ylosovich.
Il silenzio che seguì la domanda fu rotto da uno scroscio di risate, da parte di tutti e tre.
Risero, risero fino alle lacrime, fino a sentire il mal di pancia.
« Pazzi qui lo siamo tutti, ufficialmente» concluse Stephien, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
Quando tacquero di nuovo, il salotto stava ormai cominciando a illuminarsi dei colori arancio dell'imbrunire. Il tavolo, i bicchieri di vetro, il candelabro d'argento, le poltrone e i divanetti risplendevano tutti di un rossore aranciato e sonnolento.
« Sentite» disse Möbius, andandosi a sedere: « Noi tre siamo dei fisici. Provate a ragionare in maniera logica: io non posso accettare né l'uno né l'altro “invito”. Le mie scoperte sono troppo, troppo pericolose per il genere umano. Mi ucciderei, piuttosto che scegliere un Paese cui consegnare queste formule. Perché non restate qui? Siete dei fisici, prima che delle spie. Potremo ragionare in santa pace. Potremo pensare per il gusto stesso di farlo. Pensiero fine al pensiero. Pura teoria. Il livello più nobile della nostra arte».
Gli brillavano gli occhi.
Li stava implorando.
« Beh» convenne Stephien: « prima o poi la guardia si abbasserà. Vedranno che siamo innocui e magari noi due potremo scappare».
Ylosovich invece aveva un tono sommesso: « E poi che faresti? A me è stato chiaramente detto che una spia che fallisce la missione non viene salvata, né perdonata. Rimarrei solo in balia di quest'esperienza, ripenserei alla morte di Irene, e finirei per impazzire davvero. Möbius, proverò a rimanere qui con lei. Proverò ancora a convincerla, a pregarla di recarsi con me in Russia. Ma accetto la sua idea di ascesi, la rispetto. E spero di venir convertito alla sua religione».
Alla fine, dopo aver riflettuto, anche Stephien fu dello stesso parere.
Möbius andò loro incontro e tese la mano prima a uno e poi all'altro.
Tre uomini, tre fisici. Un tedesco, cinquantenne, smagrito, con la faccia stanca e le occhiaie pesanti. Un americano, alto e dinoccolato, con occhi vispi da gatto. Un russo, basso e tozzo, baffi e capelli neri, lineamenti duri e appesantiti.
« Vi ringrazio. In nome della minuscola probabilità che l'umanità ha ancora di salvarsi»
« Brindiamo alle nostre infermiere» propose Stephien, notando che della sua bottiglia di Sambuca rimaneva giusto la quantità per un'ultima bevuta di comitiva.
Posarono le pistole di nuovo sotto il tavolo, vi si riunirono e versarono il liquido chiaro dentro i bicchieri.
« A Dorothea Moser» disse Brian Stephien:« mia cara, ti ho dato la morte in cambio del tuo amore. Ora voglio dimostrarmi degno di te».
« A Irene Strauss» disse a sua volta Mitja Ylosovich: « dolce Irene, ti prometto che darò una ragione alla tua morte».
« Alla memoria di Martha Boll» declamò per ultimo Johan Möbius; le pupille dilatate dall'emozione e due microscopiche lacrime scintillanti sulle guance magre: « amore, ho dovuto sacrificarti. I tuoi sentimenti puri benedicano il patto d'amicizia che noi tre fisici abbiamo stretto nel tuo nome».
Bevvero, commossi. Si asciugarono gli occhi e si augurarono la buonanotte.
Si ritirarono ognuno nella propria stanza.

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Capitolo 11
*** il Re Salomone ***


Il Re Salomone
 
La dottoressa premette il pulsante e il led rosso si spense.
Tornò a sedersi sul letto e iniziò con una calma febbrile a vestirsi: le calze, la biancheria, la sottoveste, il vestito. Tirò fuori dall'armadio un cappotto di pelliccia. Poi aiutò Ilka a rivestirsi: gli abbottonò la camicia, gli sistemò la divisa.
Gli fece cenno di recuperare l'arma di servizio e lui se ne munì.
Uscirono insieme per dirigersi al salotto della villa. Mathilde si accese una sigaretta e la gustò con calma.
Scesero le vaste scale che dagli appartamenti della dottoressa conducevano all'atrio. Ilka estrasse un mazzo di chiavi e rese possibile l'accesso nel salotto. Era deserto.
Mathilde si sistemò al centro della stanza, finì la sigaretta, poi la spense nel posacenere.
Ilka attese che l'ultima boccata di fumo svanisse, poi domandò:
« Comanda, signorina?»
« Vada a prendere Möbius, Ilka» disse lei con fredda tranquillità.
Ilka obbedì e tornò poco dopo accompagnato da Johan Möbius, stralunato, sorridente, che si acciambellò a sedere su una poltrona vicino alla dottoressa.
« Ah, quant'è magnifico il re Salomone. Mi parla di continuo. Abbiamo appena finito di chiacchierare»
« Ah, si?» chiese Mathilde.
« Si. Mi ha detto che preferisce il poker al bingo»
« Möbius, per ordine del procuratore di stato posso parlarle solo in presenza di un guardiano»
« Capisco, signorina»
« Però quello che ho da dirle riguarda anche i suoi due colleghi. Ilka, faccia uscire gli altri due».
Ilka obbedì meccanicamente. Raggiunse le porte dei due ricoverati e li strattonò per farli uscire.
Stephien brandiva la bottiglia di Sambuca ormai vuota e cantò:
« che notte misteriosa e sublime! Giove e Saturno rispendono e mi rivelano le leggi dell’universo».
Ylosovich invece, arrivò a saltelli e abbracciò la dottoressa: « Che notte felice e buona. Vorrei suonare il mio violino, e non cessare mai più!».
Mathilde rimase immobile, si liberò dall'abbraccio del suo paziente con movimenti minimi.
Attese qualche secondo, guardandosi le unghie rosse di una mano.
Poi disse, con noncuranza:
« Devo parlarvi. Mitja Ylosovich e Brian Stephien».
Tutti e tre i fisici saltarono in piedi.
Il russo e l'americano saltarono rapidi verso il tavolo dei bicchieri, ma Ilka intimò: « Mani dietro la testa!» e brandì il PPŠ-41.
I tre uomini furono costretti a rimanere immobili.
Ilka si avvicinò e scostò il tavolino: vide le due pistole, le intascò e continuò a puntare dritto la propria arma.
« Il vostro colloquio è stato registrato. La villa è circondata da guardie, ogni tentativo di fuga sarebbe inutile. Era molto tempo che sospettavo di voi due» aggiunse la dottoressa. Sistemò un ciuffo castano sfuggito alla crocchia a conchiglia: « è stato un piacere giocare a scacchi con lei, Stephien. Credeva fossi sciocca e che non usassi la situazione a mio vantaggio? Ne ho tratto un esatto profilo psicologico».
Stephien si rabbuiò.
« E lei, Ylosovich. Quante volte abbiamo suonato insieme. La musica è una grande rivelatrice dell'animo umano, lo sapeva? Il suo modo di toccare le corde, il suo stile d'esecuzione, la sua sensibilità. Tutti indizi, per me».
Ylosovich divenne una statua.
La dottoressa li osservò, compiaciuta. Sembrava diventata parte del magnifico salotto e ne esprimeva tutta l'energia malvagia di cui i molteplici omicidi l'avevano caricato. Avrebbe potuto soffiare sui tre ricoverati e sbriciolarli come sabbia.
Si guardò intorno e scelse la postazione più vistosa: una sedia imbottita di velluto rosso, contornata da prezioso legno scolpito. Lisciò i braccioli: le sue mani erano candide, decorate da anelli e smalto rosso.
« A voi soli, ora, voglio rivelare il mio segreto: anche a me è apparso il re Salomone». Lo disse con un tono lezioso, dolce, stucchevole, come se i tre fisici fossero grotteschi bambini a cui viene raccontata una storia.
Rimasero con le bocche spalancate e le gole aride. Solo Möbius riuscì a soffiare: « il re Salomone?».
« Oh, si» confermò Mathilde Von Zhand: «per tutti questi anni. La prima volta fu dieci anni fa. è arrivato insieme a lei, Möbius. All'inizio non mi ero accorta che ci fosse, ma pian piano, lei me l'ha mostrato»
« Ma ... è impazzita?» Möbius non capiva quanto la Von Zhand fosse seria e quanto scherzosa. Procedeva con quel tono mieloso, per prendersi gioco di loro.
« Salomone era ... come dire, risorto dai morti. Stava rivelando la sua saggezza a lei, Möbius. Così che lei potesse regnare sulla terra in suo nome. Ma lei ha avuto paura, lei ha tradito il suo re Salomone. Ecco perché è venuto da me. Per imporre il suo immenso dominio nel mondo».
Nessuno osava proferire parola. Tutto era oscuro: il tramonto e le intenzioni della dottoressa, così come l'uniforme di Ilka, immobile, che brandiva l'arma fermamente.
« E io ho obbedito al comando del re Salomone. Ero la sua dottoressa, Möbius, e potevo farle tutto quello che volevo. Non sa che sollievo a poter finalmente parlare di tutto questo. Come si dice, i cattivi devono sempre spiegare i loro antefatti, prima o poi. Per quanto il cattivo sia lei, finalmente capisco il perché di questa necessità: dà un sollievo enorme. Ebbene, sappia che sono otto anni che regolarmente la addormento, prendo i suoi appunti, li fotocopio e li studio. Sono otto anni che, grazie alle sue formule, fondo imprese gigantesche e non fallisco mai. Ho esteso il mio dominio su infinite realtà, in pratica, pur rimanendo nell'ombra, sono la proprietaria di mezza Germania» sghignazzò, amabile:« e ora, io utilizzerò la sua "formula universale". Ma si, se la ricorda? Quella che le ha dettato il re Salomone. Quella che lei ha inventato per me, Johan».
E a quel punto Möbius capì che Mathilde Von Zhand non era pazza, non si era bevuta il cervello, non aveva mai visto davvero il re Slomone. Era lui stesso, Möbius, il re Salomone di cui la donna parlava. Lui si era dettato gli appunti di fisica. Lui li aveva involontariamente consegnati alla direttrice del manicomio in cui si era rinchiuso. Lui, il suo genio.
Si alzò, tremando come una foglia:
« Io lo griderò al mondo intero. Griderò che lei mi ha derubato. Lei ha persino fatto pagare alla mia povera moglie la retta della clinica!»
« Uhm, Möbius, anche se la sua voce uscisse da queste mura - cosa che giudico improbabile - nessuno le crederebbe: agli occhi del mondo lei non è che un malato di mente, un pazzo pericoloso. E tutto per sua scelta. Sa cos'è lei? Lei Möbius, è il cattivo. Lei è un assassino».
Una pietra enorme si depositò sul cuore di Johan. Un macigno infinito, pesante quanto la morte e leggero come l'amore. Lo soffocò.
« Martha ...» sussurrò, vedendo il suo volto scolpito nel macigno.
« Irene»
« Dorothea»
mormorarono sofferenti gli altri due.
« Avete ucciso come carnefici!» strillò la dottoressa: « E l'avete fatto, uhm, inutilmente ...».
Stephien e Ylosovich non fecero in tempo a trattenere Möbius; le loro mani afferrarono l'aria, un secondo troppo tardi. Möbius si lanciò verso la dottoressa ma Ilka le fu subito al fianco: fermò la corsa di Möbius afferrandolo per la gola. Lo alzò da terra e lo scaraventò indietro. La faccia del guardiano era come una statua impassibile.
Möbius atterrò tossendo, annaspando. Gli altri due furono subito chini su di lui.
« Oh, è inutile aggredirmi, Möbius. Così com'è stato inutile bruciare i manoscritti, che erano già fra le mie mani».
La donna si alzò, attraversò il salotto a passi lenti, scelse accuratamente un'altra sedia più imponente e vi si accomodò. Il suo corpo leggero fece a fatica incurvare l'imbottitura. Accavallò le gambe e si appoggiò sullo schienale. Sembrava una regina.
« Non sono più le mura di una clinica a circondarvi. Questa casa sarà la vostra prigione. Non sarei mai ricorsa a tanto, ma, vedete, è stato il procuratore di stato a impormelo. Non sono guardiani di un manicomio che vi tengono qui: Ilka è il capo della mia polizia privata; ha ricevuto un addestramento specializzato e per voi sarà i miei occhi, le mie orecchie e la mia autorità. Salomone adesso vi distrugge per mia mano. Mentre io ne assumo il suo potere, io non ne ho paura. Io che sono l'ultima figlia della mia famiglia, ora sarò la più potente fra gli uomini».
Ilka si avvicinò alla maestosa poltrona, ma rimase due passi indietro. Strinse l'arma fra le braccia e rimase con volto di marmo a fissare i tre fisici, accasciati a terra, annientati.
Mathilde continuò:
« Con queste formule potrei sfruttare le leggi che governano l'universo. Il movimento dei pianeti, la materia oscura, i dati quantici e i segreti naturali della vita. E credo che lo farò. Applicherò la formula a ogni ambito. Potrò darmi ogni risposta per la filosofia e ogni numero per la scienza. Il gioco è fatto» concluse, curvando le labbra magnifiche e rosse in un sorriso serafico: « e chi ha vinto, non è il mondo. Ma io».
Gustò l'effetto che l'affermazione produceva su sé stessa, poi alzò il braccio sinistro e tese la mano.
« Ilka» chiamò.
Ilka la raggiunse, fece alzare la divinità dal trono e le baciò la mano; una divinità minore. Lei gioì; gli carezzò la guancia, ammirò il suo viso biondo e perfetto, poi si liberò dalla presa.
« il consiglio amministrativo ci aspetta. Direi che ho del materiale per iniziare questa nuova impresa universale».
Mathilde Von Zhand uscì, seguita da Ilka. Chiuse la porta e le mandate della serratura rimbombarono nella stanza.
Nessuno dei tre fisici seppe mai ricordare quanto tempo passò, se quel giorno durò all'infinito né se era sempre in corso. Una notte eterna, che si attanagliò ai loro cuori plumbei.
Rimasero in silenzio, accovacciati, con le mani sulla testa e le ginocchia serrate.
Albert Einstein giaceva pensando al suo violino. Le corde della sua anima stonata vibravano senza forma. Emettevano una melodia vuota e silenziosa. Perché proprio Einstein, si diceva? L'aveva inventato per fingere pazzo, ma che c'era di pazzo in Einstein? 
Sir Isaac Newton, colui che scrisse i principi matematici della filosofia naturale, contemplava il frutto delle sue ricerche. La sua vita di più di duecento anni era servita solo a perdere e a soccombere, di nuovo. Sir Isaac Newton forse giaceva già in una tomba, ormai ossa e polvere, ma che cambiava da questo sir Isaac Newton? Era forse meno reale? Forse era più reale, di certo più vivo eppure privo di vita.
E infine il re Salomone. Il povero re Salomone, spodestato dal trono, gettato a terra, perdeva attimo per attimo la sua ragione. Era sempre stato lui, il re Salomone. Se l'era inventato di sana pianta, un nome casuale per far finta d'esser pazzo, per giustificare il segreto delle scoperte. Era nella sua testa, era lui. L'aveva inventato o solo scoperto? Lui? Chi altri era lui? Un tempo era ricco, saggio e timoroso di Dio. Dinanzi al suo potere tremavano anche i più possenti. Era un sovrano giusto. Ma la sua saggezza distrusse il suo timor di Dio, e quando lo perse, allora la sua saggezza distrusse anche la sua ricchezza. E adesso erano morte le città su cui regnava, era vuoto il regno che gli era stato affidato; ormai era ridotto a un deserto dai riflessi bluastri, e chi sa dove nello spazio, intorno a una piccola stella gialla senza nome, la terra radioattiva continuava a roteare senza posa e senza senso.
Lui era Salomone. Era il povero re Salomone.
 
 
 
 
---Nota finale---
grazie per tutti quelli che hanno letto la storia.
Un grazie speciale a chi ha lasciato una recensione.
Spero di avervi invogliato alla lettura del testo teatrale originale e spero che voi ne traiate un'immagine vostra, magari diversa dalla mia.
Per quanto sia un testo vecchio, I Fisici mi pareva contenere qualcosa di tremendamente intrigante. Mi sono innamorata di Richard Voss e di Mathilde Von Zhand. Non saprei dirvi chi siano i buoni o i cattivi, né cosa sia la libertà o la prigionia, né quali siano i folli e quali i sani.
Spero di avervi interessati e spero che (se mai lo scriverò) leggerete la mia versione del “poi”, di quello che succede dopo questo conclusivo e terribile evento.
 
Un bacio,
Sam
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