I Conti del Canvìn

di Hoel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tu es Pierus ***
Capitolo 2: *** Il Colloquio di Lavoro ***
Capitolo 3: *** Nobil domino mio, il catalogo è questo … ***
Capitolo 4: *** Scacco al … Duca! ***
Capitolo 5: *** Versione di Latino ***
Capitolo 6: *** Mannaggia a te, Niccolò! ***
Capitolo 7: *** Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza ***
Capitolo 8: *** Kinzir! Kinzir! ***
Capitolo 9: *** Creusa Persis ***
Capitolo 10: *** Figure da Normanno ***
Capitolo 11: *** Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì … ***



Capitolo 1
*** Tu es Pierus ***


Dovuta prefazione: questa raccolta di storielle, come già spiegato nell’introduzione, corrispondono a sghiribizzi di autrici giusto per farsi qualche risata. Come il copista veronese che, tra un documento e l’altro, a lato della pagina scriveva indovinelli.

Ma in altri contesti di solito siamo autrici serie, eh!

Buona lettura!

 

***

 

 

 

 

Tu es Pierus

Laddove cercando di provare con esempi concreti una teoria su come il nome “Piero” non abbia portato fortuna a molti personaggi storici – vedasi Pier della Vigna, Pere II d’Aragona, Piero d'Aragona fratello di Alfonso I d'Aragona di Napoli, Piero d'Aragona figlio di Alfonso II d'Aragona di Napoli, Piers Gavenston, Piero il Fatuo, Piero Loredan, Piero del Verme, Piero Abelardo, Piero il Crudele di Castiglia, Piero il Giustiziere del Portogallo, Piero III di Russia, ecc. -  si arrivò a parlare del tremendo assedio di Brescia del 1512, in cui un altro valoroso “Piero” perse non la vita bensì … altro. E non fu il braccio.




“Tu, Pierre, nomato come il santo che rinnegò Nostro Signore, quando il tuo nome verrà pronunciato ad alta voce, sta sicuro che ti capiterà una gran disgrazia!”


All’epoca un giovinetto Pierre Terrail de Bayard non aveva compreso appieno la veridicità della fattura lanciatagli da quella vecchia baba, cui aveva per innocente burla fatto lo sgambetto e provocando di conseguenza la rottura della brocca di latte appena munto che trasportava seco.

 

Lo aveva scoperto però poco dopo, quando sua madre lo aveva chiamato per desinare ed ecco che il povero Pierre nella corsa per raggiungerla inciampava sui gradini, rotolando fin quasi all’inizio delle scale e gli s’incrinarono un paio di costole, nonché perse tutti i denti da latte davanti, venne seppellito vivo dall’arazzo cui s’era aggrappato, ruppe un inestimabile reliquiario, provocò la caduta di una serva che trasportava dalle cucine la zuppa che l’ustionò e, dulcis in fundo, dallo spavento s’urinò addosso e i fratelli lo sfotterono inclementi per mesi.


Da quel momento in poi, Bayard ben si assicurò che nessuno mai lo chiamasse Pierre e fortunatamente per lui i suoi genitori e parenti lo appellavano mon cher enfant o mon frère; gli amici Piquet; Blanche per pudore lo si tace e infine le Chevalier sans peur et sans reproche per la fama e i meriti conquistati sul campo di battaglia, che fecero appunto dimenticare ai più il suo nome di battesimo e il valente condottiero, credendosi salvo, obliò la tremenda maledizione …


D’altronde, sotto le mura di Brescia, altro aveva cui pensare, ovvero guerreggiare contro gli accaniti Veneziani capitanati da Andrea Gritti.


La battaglia proseguiva difficile e perfino il duca Gaston de Foix-Nemours si trovava in difficoltà, isolato da Bayard e i suoi. Quand’ecco che all’improvviso comparve una colonna di stradioti e il sangue del Bon Chevalier ribollì d’entusiasmo.


“Federico Contarini!”, gridò, sguainando la spada e girando il cavallo verso il provveditore degli stradioti. “Finalmente vi potrò sfidare!”

A Ferrara aveva tanto udito parlare di lui, delle sue spedizioni audaci e vittoriose e Bayard smaniava di confrontarsi con un cavaliere di sì grande valore.


Spronò dunque il cavallo e si preparò a caricare il veneziano, ma all’improvviso da quell’uditiva bolgia infernale composta da urla, rantoli, bestemmie e invocazioni alla Corte Celeste s’erse un forte richiamo:

“Ehilà, Pierre!”


“Cos- ..?”


“Suca!”, gli rispose un balestriere veneziano sbucato diosacché dove.


Bayard appena avvertì lo schiocco del meccanismo e il sibilo della freccia, che un dolore atroce, inconcepibile, da Golgota Crocefisso gli martoriò corpo e anima e se non fosse stato per il suo ognora zelante scudiero, sarebbe ignominiosamente caduto da cavallo con la mano là dove Adamo per primo si coprì.


“Allora, cerusico, l’è vivo?”


“Lui sì, ma il suo viril orgoglio mi sa di no.”


Avevano ben da narrare i suoi fedeli compagni, come il Bayard, ospite di una dama bresciana e delle sue nubili figlie, si fosse comportato cavallerescamente, salvaguardando il loro onore e  neppure sfiorandole con un dito.

 

Anche se avesse voluto, d’ora in avanti mai più avrebbe potuto.


Almeno, pensava sconsolato l’uomo nel delirio degli oppiacei e della febbre, con Blanche sono riuscito per fortuna a consumare in tempo.


La battaglia fu vinta dai Francesi, il Nemours vittorioso saccheggiava la città e Brescia perduta.


Ciononostante, un’unica soddisfazione si poté prendere Venezia, mentre rivedeva i suoi piani d’attacco, ossia di levare in futuro dai suoi rapporti l’avverbio “virilmente”, quando descriveva il furor guerriero del Bayard in battaglia.



 

 

***

 

 

 Curiosità: stando ai biografi del Baiardo, a quanto parrebbe la ferita alla coscia infertagli durante l’assedio di Brescia equivalse sul serio al povero Baiardo alla fine di ogni gioia amorosa. Poi le versioni discordano, c’è chi sostiene fosse stato a causa di una picca e non una freccia.

 Semperinfelix dal canto suo di ciò è assai dubbiosa,  per lei non si tratta che di una gran balla e che Baiardo “godette” dell’ottima sua salute fino alla fine dei suoi giorni.

Se avete in mente altri “Piero” dal destino assai infelice, per favore fatecelo sapere, siamo curiose!



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Capitolo 2
*** Il Colloquio di Lavoro ***


Cogliamo l’occasione per ringraziare i gentilissimi recensori Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito la prima novella.

Procediamo dunque con la seconda e buona lettura,

 

 

***

 

 

Il Colloquio di Lavoro

 

Laddove anche il più grande genio rinascimentale sperimentando le delizie della disoccupazione e non esistendo all’epoca la cassa integrazione, per scampare a fame e creditori dovette affrontare l’orrido supplizio del colloquio di lavoro.

Noi ci s’immagina dunque come Leonardo da Vinci riuscì a strappare a Ludovico il Moro un contratto a tempo indeterminato, ché alla fine, non contano solo i meriti bensì dire la cosa giusta al momento giusto.

 

 

 

“Avanti il prossimo!”


Leonardo da Vinci s'alzò trepidante dall'ottomana su cui era stato lasciato ad attendere in corridoio e stringendo sotto il braccio il suo taccuino pieno di scarabocchi s'inoltrò nello studio del duca, pronto al debutto.


Il Moro stava seduto dietro la solida scrivania di mogano al centro della stanza; alla sua destra il segretario, Bartolomeo Calco, scorreva rapido la penna sulla carta, appuntando la sua entrata. “Nome”, gli chiese secco.


“Lionardo di messer Piero da Vinci”, gli rispose quello, sollevandosi sulle punte.


“Ah, Fiorenzino! Benissimo, messere!” esclamò ilare il Moro, non nascondendo un sorrisetto malizioso. I fiorentini, è risaputo, sono tutti sodomiti, e i loro figlioli tutti figli dei senesi e dei pisani, perciò non avrebbe dovuto temere che potesse insidiargli le amanti.  “Ditemi, che sapete fare?”


“Ho appreso l'arte della musica, so suonare la lira e molti altri portentosi instrumenti. Saprò allietare cene e banchetti meglio di qualunque delle vostre amiche affettuose, signor duca”.


Ludovico picchiettò con due dita sul mento.  “Soltanto?”


“Conosco etianche l'arte della guerra, potrò costruirvi macchine strepitose, mai viste da uomo! Capaci di sputare più foco sugli inimici che il drago di San Zorzo, altre che lanceranno sassi e pietre a mille mila miglia di distanza, cascando in testa ai turchi infedeli, etiam navi capaci di navigare senz'acqua, carri che nessuna bombarda potrà distruggere ed altri che si libreranno in volo sugli inimici come leggiadri piccioni, bersagliandoli a piacimento. Comprendo il linguaggio di cavalli e di ogni bestiola, di modo che potrete conoscere i piani del nemico ancor prima che vi si appressi. So prosciugare i mari, invertire il corso di fiumi e torrenti, spostare colli e montagne o anche aprire valichi alpini, e all'occorrenza spegnere e accendere il sole. Inoltre, se lo vorrete, scaverò gallerie sotterrane sì lunghe da sbucare nello ninferno, onde potrete essere il primo uomo a indire una crociata contro Satan medesmo, ingraziandovi il Papa”.


Questo è scoppiato, fu il primo pensiero del duca, ma disse piuttosto “Mmmh, nient'altro?”


“Sono anche artista eccellentissimo, so dipingere e scolpire in ogni modo e manera, ancora si potrà dare compimento alla statua equestre del gloriosissimo duca Francesco Sforza, vostro defunto padre, ad eterno onore della sua felice memoria e del nome dell'inclita casa Sforzesca”.


“Va bene, signor da Vincio”, Ludovico congiunse le mani, perforandolo con lo sguardo, “le faremo sapere”.


Leonardo salutò mortificato e col morale alle stalle si diresse alla porta, ormai convinto che non l'avrebbe mai assunto e che sarebbe dovuto tornare a Firenze dal Medici, a morire di fame nella speranza che gli desse una commissione. Aveva già la mano posata sulla maniglia, quando improvvisamente ricordò che solo una cosa il Moro amava più dei cefali e della potta: la sua vigna.


Si rigirò verso lor signorie e sorridendo esclamò “O duca, vi annaffio l'orticello!”


Ludovico s'alzò di botto dalla scranna, per modo che la scrivania volò avanti di tre metri, sfondando la parete, mentre il povero Calco, rimasto con la penna a mezz'aria, ebbe la pellanda nuova di sartoria macchiata dall'inchiostro che gli gocciolava addosso.

“Messer da Vincio!” gli gridò il duca, puntandogli il grosso indice contro, “siete assunto!”

 

 

 

 

***

 

 

 

Curiosità: il colloquio ovviamente è di fantasia! Però la disperazione di Da Vinci per ottenere un ingaggio dopo due anni d’inattività  e pure una querela per un dipinto fatto “male”, quella no, purtroppo essa era assai veritiera …

Anche la passione del Moro per il pesce (cefalo), le belle donne (potta) e l’orticoltura corrispondono al vero. Leonardo sul serio si ritrovò ad annaffiare la Sforzesca a Vigevano, rendendo fertili quelle terre aride, e Ludovico lo ricompensò regalandogli una sua vigna personale.  

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Capitolo 3
*** Nobil domino mio, il catalogo è questo … ***


Non possiamo finire di ringraziare i gentilissimi recensori Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito anche la seconda novella.

Ringraziamo l’immensa e immortale collaborazione dei magnifici messeri Da Ponte e Mozart, per averci fornito lo spunto.

Procediamo dunque con la terza e buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

***

 

 

 

Nobil domino mio, il catalogo è questo …

 

Laddove si venne in discorso su come all’uomo di natura geloso sia sconsigliabile sposare una donna non soltanto vedova, ma più ricca e potente di lui e come nel matrimonio, talvolta, esigere totale sincerità possa rivelarsi controproducente.

 

 

 

 

Naimerio di Breganze irruppe nella stanza della moglie, madonna Cunizza da Romano, la quale neppure gli diede la soddisfazione di trasalire, anzi pure lo fissò scocciata mentre la sua dama di compagnia, Agnese di Monselice, le sistemava il velo di seta sulle ormai candide trecce adornate di nastri d’oro e perle.

Malgrado la collera montante, l’uomo non poté non vacillare dinanzi alla bellezza sensuale e ammaliante della moglie, dei suoi occhi grandi ed espressivi, del suo corpo ancora snello e il seno miracolosamente sodo ed eretto, pur avendo ormai quaranta e passa anni.

Forse per questo gli era salita una bile non verde, bensì nera alla scoperta di come ella avesse usato il pretesto dei giochi del Castello d'Amore, per “laudare et accarezzare” (così gli era stato riferito) dieci giovani nobili ospiti, ossia tre vicentini, due veronesi, due feltrini, due bellunesi e persino, massimo scorno, un veneziano.

Tutti -  aggiungevano maliziosi i suoi informatori-  ritornati presso le rispettive città mirabilmente soddisfatti dell’ospitalità dei da Romano.

“Che desiderate ancora?”

“Voglio spiegazioni! Con che coraggio osate mostrarvi così impunemente in pubblico e a corte e persino prendete la Santa Comunione, dopo aver compiuto un sì nero misfatto?”

“Quale misfatto?”, corrugò disorientata la fronte Cunizza. Poi, ricordandosi, esclamò scrollando incurante le spalle: “Oh, in quanto a quello, ebbi le mie ragioni. È vero, madonna Agnese?”

“È vero, e che ragioni forti!”, ridacchiò perfida la dama di compagnia.

Al che Naimerio vide rosso. “E quali sono, sentiamo, se non la vostra perfidia, la vostra leggerezza? Ma Iddio volle ch'io scoprissi le vostre iniquità, per far la Sua e la mia giusta vendetta!”

La sorella d’Ezzelino da Romano il Terribile, padrone assoluto di Belluno, Feltre, Padova, Verona e Vicenza e sorella di Alberico da Romano signore di Treviso, rise talmente forte da sconquassarsi il petto formoso e profumato.

“Ma sentitelo! Si crede il predicatore fra’ Domenico a Bologna!”

“Negate d’aver fornicato con quei dieci nobili?” e appurato come la moglie neanche si premurasse di smentire né di protestare la sua modestia, ruggì invasato: “Scellerata, fedifraga, gran meretrice! Vi ripudierò e vi farò frustare sulla pubblica piazza!”

“Eh via, consolatevi! Non siete voi, non foste e non sarete né il primo, né l'ultimo a condividere il tempo più giocondo con me.”

Naimerio di Breganze avvertì un doloroso crampo allo stomaco. Adesso che ci ripensava, quei sorrisetti divertiti il giorno delle sue nozze, i bisbigli, quell’insistente puntare le dita … “No”, ansimò fremente d’ira, “non è  vero, non può essere!”

“Se non credete alle mie parole, crederete a quanto v’esporrà la mia dolcissima e sincera amica. Avanti, madonna Agnese, raccontategli un poco!”

“Che debbo dirgli, domina?”

“Tutto!”

“Ma proprio tutto?”

“Esige sincerità? Che sia accontentato! Digli pur tutto e che poi vada con Dio così da lasciarmi finalmente in pace.”

Madonna Agnese, sospirando, estrasse da un cassettone un pingue libro d’assai semplice aspetto. “Nobil domino mio, se mi concedete qualche istante, vorrei leggervi qualcosa. Non si tratta né di una Bibbia né di un Parzifal; né di un Erec ed Enide né di poesie d’amor cortese, sebbene sempre di “virili” imprese  e amor si narra.”

“Poche storie, vieni al dunque!”

Schiarendosi la gola, la nobildonna incominciò con enfasi: “Nobil domino mio, il catalogo è questo di tutti gli homeni amati dalla magnifica domina Cunizza, un catalogo modestamente da me curato da ch’ella aveva tredici anni. Ascoltate, anzi meglio ancora: sedete meco e leggete con me!”, lo incoraggiò, sistemando il libro sul leggio e al povero Naimerio, solamente alla vista della fittissima lista, venne un violento capogiro, costringendolo a sedersi.

“A Verona ne amò seicentoquaranta; a Vicenza, duecentotrentuno; cento a Padova e a Belluno novantuno ma a Treviso … eh, a Treviso siamo oltre milletré!”

Il nobiluomo vicentino vacillava ora tra la voglia di strangolare la moglie e strangolare se stesso, per esser stato tanto stolto nella sua ambizione d’aver fin troppo prontamente accettato la proposta di Ezzelino d’accasarsi con la vedova sorella.

“V’han fra questi contadini, cavalieri, cittadini …”

Naimerio maledì il giorno in cui aveva imparato a leggere, riconoscendo in quell’infernal lista i nomi dei suoi concittadini; dei membri delle Corporazioni assieme alla Cancelleria di Treviso al gran completo, capitanati da Enrico da Bonio – cor meum dilectissimus più volte cerchiato; gente che conosceva da una vita e perfino amici suoi carissimi e … e c’era pure suo fratello Raimondo?

“… v’han fra questi monaci, vescovi e trovatori …”

D’accordo, passasse per Sordello da Goito che si sapeva ormai da qua fino ad Ais de Provença, ma includere nei suoi spassi adulterini anche i religiosi?

Guarda, guarda te un po’ quello stramaledetto del suo confessore, che mentre gli predicava l’astinenza e gli ordinava penitenze, gli teneva caldo il letto trastullandosi con la mogliera!

Quasi, quasi abbracciava il catarismo assieme al cognato Ezzelino!

“… v’han fra questi conti, baroni, marchesi … ”

Rizzardo da San Bonifacio signore di Verona (comprensibile, l’era stato il marito) e per la par condicio ogni suo parente maschio, dai quattordici ai sessant’anni; conti, baroni e signori di Baone, Lendinara, Prata di Pordenone, Cavaso del Tomba, Egna; nobiluomini di Bassano, di Oderzo, di Feltre; amici dei parenti toscani di Mangona; patrizi veneziani giunti in veste di Podestà; un Visconti che passava di visita e pure il marchese Rinaldo d’Este, il marito di sua nipote Adelaide da Romano …  Cum eis iacebam …

“ … principi e re …”

Enzo di Hohenstaufen (cosa significava quel bis terque accanto al suo nome?) e … e Federico suo padre? Alla faccia del “vo ad uccellare con l’Imperatore!”

“… come avrete capito, v’è qui una gran varietà d’homeni d’ogni grado, d’ogni forma e d’ogni età!”

A onor del vero faceva uno strano effetto leggere il nome dell’Imperatore associato a rigo a capo ad un anonimo mugnaio trevigiano …

Incurante del crescente malessere di Naimerio, madonna Agnese proseguì imperterrita: “Al biondo, la mia domina è solita lodargli la nobiltà e la cortesia … Al bruno, la costanza e l’intraprendenza … Al rosso, l’arguzia e la passionalità …”

Naimerio conficcò le unghie sulle ginocchia mentre la moglie lo osservava compiaciuta, un sorriso sulfureo sulla bocca vermiglia e mai venne sottolineata abbastanza la somiglianza col crudele suo fratello Ezzelino, come in quel momento.

“D’inverno li preferisce robusti e muscolosi; d’estate invece agili e snelli. L’homo grande e grosso lo vuole per sentirsi protetta e vezzeggiata; quello più sottile e flessuoso per coccolarselo e insieme provar nuove cavalcature.”

Il nobiluomo vicentino si portò una mano alla bocca, sentendosi veramente male anche perché la sua mente lo beffava applicando i volti di parenti, amici e conoscenti a tutte quelle cosette amorose, che solo lui credeva condividere con madonna Cunizza nel segreto del talamo nuziale.

“Non disdegna i vecchi, specie se ancora gagliardi, ma questo più per sua personale soddisfazione d’aggiungere anch’essi in lista”, gli confidò la dama di compagnia, come se al disperato Naimerio facesse alcuna differenza. “Ma …” e qui il sorriso di madonna Agnese assunse una piega cospiratrice che non gli piacque affatto. “Ma la passione predominante della mia domina, è d’iniziar il giovin cavaliere principiante!”

“Che cos --?” , ululò l’uomo, spalancando incredulo la bocca e cascando quasi dalla sedia.

Tutti i figli cadetti che gli inviavano le famiglie onde ricevere l’investitura … tutti quei giovani  anche fin troppo entusiasti di servire e combattere per la causa dei da Romano … A chi, in ginocchio, avevano veramente prestato fedeltà?

“La mia domina non si cura se i suoi homeni siano nobili o plebei; se siano giovani o vecchi; se siano brutti o belli, purché non siano … ”, e chiuse teatralmente il libro sotto il naso dello sbigottito Naimerio “… i suoi fratelli.”

Cunizza da Romano batté divertita le mani e la nobildonna s’inchinò.

“Ora che sapete ciò che faccio”, si alzò poi la tremenda, anguillando flessuosa verso il marito. “Mettevi il cuore in pace e non molestatemi più con le vostre gelosie e vedrete che vivremo contenti. Inoltre”, aggiunse, gli occhi due pozzi neri di pura bragia che avrebbero spaventato l’istesso demonio, “chiamatemi ancora meretrice o minacciatemi con la pubblica gogna o il ripudio e v’assicuro che mio fratello vi farà sentir le sue” e detto questo, gli diede la mano ché era giunta l’ora di scendere a presenziare ai Vespri.

Naimerio di Breganze, livido e sconfitto, non contemplò altra soluzione se non d’accettare e fingere: d’altronde, meglio vivo e cornuto che vivo sì, ma senza naso, orecchie, lingua, occhi, mani e viril orgoglio come soleva punire Ezzelino i suoi nemici e chiunque osasse mostrar la benché minima forma di scortesia nei confronti della sua dolcissima, bellissima e virtuosissima (in letto) sorellina.

Amen.

 

 

 

 

***

 

 

Curiosita’: ovviamente questa è tutta un’esagerazione, per la gioia di Naimerio (Semperinfelix si è doluta un po’ per lui, mi sa). La teoria qua è che le vedove la sappiano troppo lunga per lasciarsi dominare così facilmente, anzi, pretendono il doppio!

Cunizza da Romano – altresì nota come la figlia di Venere – però aveva sul serio tra i trovatori e in tutto il Veneto questa gran fama di donna indipendente e libertina, collezionando ben tre mariti, numerosi amanti (Federico II ed Enzo è un’invenzione nostra, sebbene … forse … magari … )e scandalizzando i contemporanei con la sua fuga dal marito Rizzardo di San Bonifacio col trovatore Sordello da Goito e soprattutto per aver convissuto per quindici anni con Enrico da Bonio, uomo più giovane di lei, già sposato e con prole!

Certo, Cunizza se la godette assai ma molto su di lei è stato anche gonfiato, colpa della propaganda guelfa e di quella vecchia pettegola di Salimbene di Adam, che la dipinsero alla stregua di una lupa mangia-uomini.

Dante, invece, la collocò nel Paradiso e questo perché, secondo un ragionamento tra noi due, la Cunizza conosciuta dal Sommo oramai era una signora anziana dedita ad opere di carità, pentita e redenta dal suo passato … pittoresco. Inoltre, caduti e trucidati i da Romano e costretta all’esilio, ella deve aver suscitato nel Dante esule (molti anni più avanti) un sentimento d’affinità nella disgrazia, specie quando nel suo lungo girovagare Dante passò anche per Treviso e Verona là dove Cunizza era vissuta.

Ultima cosa, vi consigliamo di ascoltare l’aria “Madamina il catalogo e’ questo”, dal “Don Giovanni” di Mozart e libretto di Da Ponte, fonte di ispirazione su cui abbiamo impostato la novellina. Semperinfelix avrebbe preferito applicarlo a Francesco Sforza – effettivamente è la storia della sua vita – ma siccome Hoel è bastian contrario, ha preferito rigirarlo in chiave femminile così anche per far sentire in colpa il lettore, se ha pensato commenti non molto galanti su Cunizza.

Perché se un uomo va con tante, è virile. Se lo fa una donna, cos’è? (Una vacca, rispose Semperinfelix di conseguenza / Sia isso che issa son vacche, ribatte Hoel)

 

Un po’ di latinus maccheronicus:

 

cor meum dilectissimus = cuor mio dilettissimo.

Cum eis iacebam = con loro giacqui.

bis terque = ripetutamente.



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Capitolo 4
*** Scacco al … Duca! ***


Cogliamo l’occasione per ringraziare il gentilissimo recensore Alessandroago_94, per aver recensito la terza novella.

Procediamo dunque con alla quarta e buona lettura,

 

 

***

 

Scacco al … Duca!

 

Laddove si fantasticava su come Ludovico avesse potuto in maniera differente e meno sanguinosa chiudere – letteralmente – la partita con l’Orléans. Ovviamente, a pagarne le conseguenze è la sua dolce metà.

 

 

 

Come nei tempi remoti erano soliti certi greci poco assennati giocarsi città e stati in più o meno dubbie gare di eloquenza, sì pare almeno, così anche il Moro e il re di Francia decisero, per risolvere una volta e per tutte la decennale contesa sul ducato di Milano senza sperpero di denaro, di disputarsi lo stato a scacchi.


L'Orléans aveva in verità inizialmente proposto un duello ad armi pari come da prassi, ma Ludovico, essendo totalmente negato con la spada, aveva optato per un metodo meno drastico. Si era dunque recato in Savoia, terreno neutrale, ove incontratosi col re disputò la sua partita, forse dimentico di quanto denaro avesse perduto da giovine col fratello Galeazzo, a carte, a dadi o a qualsivoglia gioco.


Scelta pessima fra le pessime, poiché Ludovico, come sempre sfigato in ogni cosa che manco sua madre alla nascita l'avesse nomato Piero, perdette la partita e lo stato e la dignità. Il re, seduto con lui al tavolo da gioco, sorridendo gli disse: “Tranquillo, mio Moro, se non vuoi darmi lo stato, allora dammi tua moglie e la guerra finisce qui.”


“Giammai!”,  rifiutò il Moro indignato. La sua amata Beatrice, la luce dei suoi occhi, non l'avrebbe condivisa mai e poi mai con nessuno, men che meno con quel francesino altezzoso, neppure per tutto l'oro del mondo!


“ Allora dammi il tuo deretano!”

(To', non solo francese sto qui, pensò quegli in quel mentre, ma florenzer per giunta! Avesse Iddio pietà della sua virtù!)


Poiché il duca lo fissava allucinato, l'Orleans si sentì in dovere di giustificarsi: “E che c'è di strano mai? Sono un uomo semplice io, mi basta un pertugio.”


“Va bene!”, s'arrese alfine il duca, lo cui pavento per siffatte insane voglie assai ben sollecito d'improvviso l'avia reso, “prendi mia moglie!”


Risolta a questo modo la questione della guerra, e cioè nel più vile, il duca si preparò a tornare a Milano onde affrontare la belva. I guai vennero proprio allora, allorché dovette mettere a parte la moglie dell'accordo che a sua insaputa aveva stretto per salvarsi le chiappe.


“NON SE NE PARLA PROPRIO!”  Beatrice s'aggirava furibonda per le sue camere della Rocchetta, sbattendogli in faccia tutte le porte una dopo l'altra, mentre il marito le veniva dietro con una faccia da cane bastonato.


“Beatrice, dai ...”, la supplicò più volte, tendendo ver lei le braccia, “è solo una scopatina ... che vuoi che sia?”


“TU SEI CRETINO!”


“Eddai ... è francese, manco te ne accorgi, un minuto, due massimo e ha già finito.”


“NO!”


“E se facessimo una cosa a tre, tu io e lui?”


“HO DETTO NO!”


“E se si aggiunge anche la Tremoglia?”


“La Tremoglia?” Beatrice improvvisamente si placò, fermando i propri passi. Certo, però, che la Tremoglia era proprio un bell'omo, piacente e gioviale, quasi quasi cominciava a farci un pensierino. “Mmmh, non lo so …”


Ludovico, scorgendo in lei qualche segno di cedimento, aumentò la sua offerta: “La Tremoglia e Baiardo?”


“Oh! Baiardo!?” Alla duchessa s'illuminarono gl'occhi, nell'udire quel nome. Al bel Baiardo, cavaliere prode e valoroso, paladino delle donne e dei deboli, l'unico Piero al mondo che potesse vantarsi (forse) di non essere sfigato, non avrebbe mai potuto dir di no! Il duro, però, era persuadere lui a concedersi …


Agguantò il marito per un braccio e quasi glielo staccò nel modo di trascinarlo avanti, gridando “Dove sta? Che aspetti!? ANDIAMO!”

 

 

 

 

 

***

 

 

Curiosità: pace alla buon’anima del prode Francesco Sforza, se Ludovico non fosse stato il suo ritratto sputato, di certo colui che con la mera forza dei suoi lombi aveva popolato metà della Lombardia, qualche domanda sulla fedeltà della mogliera Bianca Maria Visconti se la sarebbe fatta. Oltre a non essere un grande amante della scrima e in generale della guerra, il buon Ludovico era veramente sfortunato nel gioco a giudicare dai debiti contratti col fratello Galeazzo Maria. Se non fosse stato per i soldi di mamma Visconti, il Moro sul serio si riduceva a zappare la terra (non che se ne sarebbe doluto, però …)

Quanto a Beatrice d’Este, rassicuriamo i lettori che lì abbiamo giocato noi di fantasia, anche in presenza di due bell’omeni come la Tremoille e Bayard dubitiamo assai che lei avrebbe mai tradito il marito.

Ad ogni modo il leale Bayard non avrebbe acconsentito a tal turpe negozio, aveva la testa assai piena di … Blaaaaanche!


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Capitolo 5
*** Versione di Latino ***


Non possiamo finire di ringraziare i gentilissimi recensori Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito anche la quarta novella.

Quanto state per leggere è venuto in mente ad Hoel per tirar un po’ su di morale Semperinfelix.

Procediamo dunque con la quinta e buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

 

***

 

 

 

Versione di Latino

 

 

Laddove si vuol dimostrare come una versione di latino, tradotta letteralmente a senso o peggio ancor a caso, possa portare a conseguenze ben più gravi di un brutto voto.

 

 

 

 

Isabella di Francia, figliola del fu Filippo il Bello e madre del giovane re Edoardo III Plantageneto, si torceva le dita assieme al suo amante Lord Roger Mortimer.

Dal Castello di Berkeley, nel Gloucestershire, da ben cinque mesi se ne stava prigioniero il marito suo e deposto re d’Inghilterra, Edoardo II, che malgrado i trattamenti non esattamente di favore dei suoi “custodi” i baroni Lord Thomas Berkeley e Lord John Maltravers, proprio non ne voleva sapere di crepare, venendole incontro. Infatti, fintanto che il previo re rimaneva in vita, una qualsiasi insurrezione poteva rovesciare l’ancor traballante governo del giovane suo figliolo.

“Insomma”, sbottò un giorno Lord Mortimer dinanzi all’ennesima missiva in cui lo si informava dell’eccellente salute dell’ex-re, “lo abbiamo esposto alle correnti gelide del castello; messo nelle stanze più fredde dopo avergli lanciato secchiate d’acqua; ridotto i pasti ad uno solo al giorno; lasciato da cinque mesi con le stesse mutande e camicia; sputato catarro nella birra; gli abbiamo messo le cimici e pulci nel letto e per settimane non gli abbiamo cambiato il pitale … E seguita tuttora a respirare?”

Isabella non seppe cosa ribattere.

“Sul serio, perché non lo accoppiamo e basta? Un ordine e uno dei miei uomini va, lo getta dalla finestra e torna. Facile! Che vuoi che sia?”

“No!”, s’impuntò la donna. “Resta comunque un re unto dal Signore! Sarebbe sacrilegio ucciderlo!” e prima che un esasperato Mortimer potesse controargomentare su tali quisquiglie, ella proseguì furba: “Ci sono ordini, per cui uno non può essere considerato responsabile. La volontà di Dio si manifesterà nella comprensione di colui che riceverà questa lettera.”

E detto questo si mise a scrivere.

Eduardum occidere nolite timere bonum est”, srotolò il messaggio il barone Lord John Maltravers. E rivolto al castellano Lord Thomas Berkeley: “Ma è uno scherzo questo?”

L’uomo, guarda caso genero di Lord Mortimer, lesse dapprima con sufficienza la frase, per poi sbiancare peggio di un panno sbattuto. “Ehm …”, farfugliò, la gola d’un tratto secca. “Penso sia … Non uccidete Edoardo, bisogna avere paura?”

Silenzio.

“Potrei sapere quale idiota t’ha insegnato il latino? Per non parlare della traduzione, manco senso compiuto!”, schioccò Lord Maltravers la lingua in disapprovazione. “Dai!”

Lord Berkeley si gonfiò peggio d’un rospo, piccato. “Avanti, traduci tu se sei così bravo!”

“Facile: Non temete di uccidere Edoardo, è cosa buona!”

“Puoah, tutto sbagliato!”, s’intestardì il dileggiato.

“E invece no!”

“E invece sì!”

“Sancte Georgi adiuva me!”, allargò in alto le braccia Lord Maltravers. “Allora, analizziamo: Eduardum /occidere /nolite / timere/ bonum est ovvero: Edoardo / uccidere/ non / aver paura / buono  è. Rigiri un po’ la frase per renderla più fluida ed ecco la traduzione: Non temete di uccidere Edoardo, è cosa buona!”

Lord Berkeley, ostinato, scosse il capo e pigliando di malagrazia il messaggio, puntò i verbi sotto al naso dell’erudito cialtrone: “E se fosse, scusa, Edoardo non uccidere, aver paura buono è?”

“Ma come diavolo parli?”

“Citandoti: poi la rigiri!”, gli fece il verso il barone.

“A me stanno rigirando gli zebedei, sai?”, sbottò Lord Maltrevers  e preso un profondo respiro, imponendosi di non prenderlo a schiaffi gli delucidò: “In latino, un divieto è formato dall’infinito! Ci siamo? Occidere  e timere sono ambedue infiniti. Se interpretiamo nolite associato o a occidere o a timere, rispettivamente tradotti “non uccidere”  o “non aver paura”. Nel primo caso, timere allora andrà con bonum est, “è buono aver paura, non uccidere”; nel secondo  caso bonum est starebbe da solo e verrebbe tradotto con “E’ buono non aver paura, uccidere!” Non mi par così difficile …”

Il barone di Berkeley, incrociate le braccia al petto, fissò a lungo il suo pari. “Lo sai”, dichiarò infine, “che ti sei appena contraddetto?”

“Mi pigli per i fondelli? Ti prendo a pedate!”, sputacchiò indignato Lord Maltrevers, guardando prima l’uomo poi la frase e ancora il ghignante barone suo amico. Deglutì malamente. “Ma … no! Non mi sono contraddetto! Ho solo affermato che potrebbe esserci un’altra interpretazione …”

“Ed io che ho detto finora?!”, ruggì spaventosamente Lord Berkeley, strappandosi quasi i capelli. “M’ascoltassi mai quando parlo!”

“Eh, oh, non mettiamola sul personale, ora!”, alzò in alto le mani Lord Maltrevers, tirandosi fuori dai patemi del collega, il quale, partito ormai per la tangente e perduta la flemma inglese, sbraitò esagitato:

“Sempre di testa tua, fai! E mentre gli altri baroni o sgavazzano a Londra o a casa con la mogliera, noi che facciamo? A far da balie al previo re! A far traduzioni di latino!”

“E vabbè, dai! Cinque sterline al giorno, ti lamenti?”, tentò di negoziare Lord Maltrevers.

Accodiamoci all’insurrezione della Regina e del Principe di Galles! Vox populi vox Dei! Abbasso Edoardo, viva Edoardo! Dai che sarà divertente! Perché ti ho ascoltato, dannazione?”, continuò Lord Berkeley nel suo j’accuse contro l’amico, degenerando la situazione nel grottesco. “Perché non mi son fatto i cazzi miei?”

“Scusa, parlando di cazzi, te la prendi con me se tuo suocero si scopa la Regina e quella per meglio sollazzare ha voluto deporre il marito, mettendo uno sbarbatello sul trono?”, puntualizzò Lord Maltrevers.

Lord Thomas Berkeley, sconfitto su quell’inoppugnabile verità, si accasciò sconsolato sulla sedia, il volto tra le mani. “Odio il latino”, piagnucolò affranto.

“Suvvia”, gli cinse conciliante Lord John Maltrevers le spalle. “Non è niente, dai, capita anche ai migliori! Basta perdersi una virg - … Oh, cazzo”, si portò una mano alla bocca, dopo essergli caduto l’occhio casualmente sul messaggio.

Lord Berkeley alzò il viso, tirando su col naso. “Che c’è?”, inquisì preoccupato.

“Non c’è la virgola.”

“Ah, no?”

“No”, gli indicò trasognato Lord Maltrevers la frase e l’altro barone rimase a fissarla inebetito per qualche pingue istante, realizzando in un misto tra sdegno e sollievo:

“Per questo non riusciamo a convenire su di un’unica traduzione … E’ la frase che è ambigua, non noi che siamo ignoranti!” Deo gratias, il suo onore era salvo!

“Ecco …”, tentennò ostinato Lord Maltrers, “a onor del vero, la mia ha più senso.”

“Anche la mia, se è per quello.”

“La mia di più.”

“Tu vuoi uccidere un re unto dal Signore!”

“Un re deposto.”

“Sempre unto è.”

“Sì, di sudore. Son mesi che non si lava …”

I due sospirarono profondamente, schioccando la lingua e grattandosi indecisi la barba. Che fare? Nulla, secondo le migliori tradizioni inglesi? Chiamare un chierico? Bruciare il messaggio? Fingere di non averlo mai ricevuto? Un bell’inghippo!

Quand’ecco che la divina ispirazione illuminò la mente confusa e stanca di Lord Berkeley, il quale decise di risolvere la questione con l’unico metodo efficace a questo mondo, quando la logica e la conoscenza falliscono l’uomo:

“Testa - la mia traduzione; croce - la tua?”

“Andata!”

E fu così, per una traduzione letteralmente affidata al caso, che in data 21 settembre 1327 la regina Isabella divenne ufficialmente vedova.

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

Curiosità: cinque sterline erano assai,  basti pensare che a fine del XIX secolo corrispondevano a 300 sterline attuali!

Questa famosa frase in latino è in realtà un falso storico e proviene  dall’opera teatrale “Edward II” di Christopher Marlowe, a sua volta ispirato ad un bizzarro caso giudiziario in Ungheria, e l’avrebbe detta tal Adam d’Orleton, carceriere e sicario d’Isabella, che uccise malamente Edoardo ficcandogli un attizzatoio rovente nel didietro, contrappasso dantesco per il suo esser stato florenzer.

La cosa curiosa è che anche questo sarebbe un falso storico, come Edoardo II sia morto non si sa proprio, tutto deriva da leggende e congetture post-mortem e damnatio memoriae su Isabella e Mortimer; addirittura di recente gli storici sosterebbero che il re non sia proprio morto nel 1327, bensì liberato da un’Isabella coi sensi di colpa ed immigrato nel SRI finendo i suoi giorni da monaco eremita. Di più, per loro son tutte illazioni come Edoardo fosse stato florenzer, visto che quattro figlioli con Isabella li ha fatti e ha avuto pure un bastardo.

Verità? Leggenda? Potrebbe essere ma anche no.




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Capitolo 6
*** Mannaggia a te, Niccolò! ***


Mille ringraziamenti a Alessandroago_94 e Ardesis per aver recensito senza stramazzare per terra dopo una versione a tradimento di latino.

Vi auguriamo una buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

 

***

 

 

 

 

Mannaggia a te, Niccolò!

 

Laddove un valente condottiero invece di trovar la Bella Morte in campo di battaglia, perse la vita per chetare un suo pupillo assai molesto, dimentico degli effetti miracolosi dei più spicci sculaccioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anno Domini 1395

 

 

Il giovanissimo Niccolò d'Este, come una fastidiosissima mosca, continuava a ronzare attorno al suo caro amico Azzo da Castello, il celebrato capitano di ventura stipendiato dalla reggenza che governava Ferrara in attesa che Niccolò raggiungesse un età decente per fare il marchese.

 

Il dodicenne signore ammirava tantissimo quel capitano e non perdeva mai occasione per sommergerlo di domande su domande.

 

“Azzo! Azzo? Come si impugna correttamente uno spadone quando si è in guerra?”, gli domandò, andandogli dietro e tirandogli insistentemente la manica della veste per convincerlo a dargli retta.

 

“Con le mani Nicolò, con le mani lo devi impugnare”,  gli rispose in fretta quello, sperando che il marmocchio si accontentasse e lo lasciasse in pace.

 

“E come si dà la scalata alle mura di un castello? Eh Azzo? Tu come la daresti Azzo? Eh?”

 

“Mannaggia a te, Niccolò. Prendi scale e corde e ordini agli uomini "tie' arrangiatevi", semplice no?” 

 

Ma il molesto ragazzino, non contento, gli si parò davanti, costringendolo a fermarsi e proseguì a tartassarlo: “E come me la cavo se un nemico mi ha appena sbudellato il destriero? Eh, Azzo? Che faccio?”

 

“Ossignore!” esclamò l'uomo, portandosi una mano alla fronte. Sicché, poggiato un ginocchio in terra e accostate le mani alle spalle del ragazzino, gli propose: “Senti, se ti do una dimostrazione pratica di come si combatte, mi lasci in pace per una buona volta?”

 

E poiché il marchese accettò con trepidazione, Azzo da Castello esclamò: “Andiamo, basta che taci, per l'amor del cielo!” e lo portò alla Delizia del Belvedere, dove il piccolo Niccolò, ansioso di acquistare qualche idea delle battaglie, poiché non ne aveva ancora veduta nessuna, volle che quel valente maestro assieme ad altri campioni ne rappresentasse una da scherzo.

 

Ed il giorno del torneo organizzato a tal fine giunse: Azzo formò due squadre di armati con Antonio degli Obizzi e disposti in tal modo iniziarono a dare battaglia, mentre il marchese applaudiva estatico, non perdendo di vista una sola mossa.

 

Ad un certo punto però, la cavalcatura dell' Obizzo ebbe uno scarto non calcolato e andò ad urtare con forza Azzo proprio sul ginocchio sinistro, già lesionato da una precedente ferita riportata in battaglia ed il condottiero cadde in terra con un grido di dolore.

 

E Niccolò, che continuava a battere le mani divertito, convintissimo che facesse parte della rappresentazione, gli domandò: “Oh, Azzo? E così che si muore quindi? Eh, Azzo? Azzo...? Azzooo?”

 

Azzo da Castello, ancora steso in terra dolorante, allungò una mano verso il suo signore e stringendola come a volerlo strangolare a distanza, gridò: “Mannaggia a te, Niccolò!”

 

E la notte dopo il valente capitano, sopravvissuto a tante battaglie autentiche, ebbe il destino di morire in una battagliola da teatro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

Curiosità: si tratta di un fatto realmente accaduto, sebbene da noi estremizzato, e non di un aneddoto. Niccolò d’Este effettivamente aveva un carattere un po' particolare, tant'è vero che tre quarti della popolazione dell'Emilia discendono da lui, fama confermata dalla filastrocca: “di qua e di là dal Po son tutti figli di Niccolò”

Infine, un minuto di silenzio per la buonanima di Azzo da Castello.

 


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Capitolo 7
*** Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza ***


Ci scusiamo per la temporanea sospensione della raccolta, siamo ancora attive!

Cogliamo l’occasione per ringraziare i gentilissimi recensori Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito la precedente novellina.

Avvertimenti:  uso smodato di un francese maccheronico!

Vi auguriamo una buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

***

 

 

Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza

 

Laddove si narra di come la disarmante ovvietà del maresciallo de La Palice sia riuscita a far digerire ai recalcitranti soldati un uso e costume assai bello ed eroico sulla carta, ma lercio e poco pratico nella realtà.

 

 

 

 

7 Ottobre 1511

Il maresciallo francese Jacques de Chabannes de La Palisse aveva condotto le sue fanterie sotto le mura di Treviso, a cui conveniva porre l'assedio. Da uomo savio e accorto qual era, tuttavia, aveva imparato che prima d'intraprendere qualsivoglia fatto d'arme conveniva far due cose: la prima, ringraziare il Signore Iddio e raccomandargli l'anima, la seconda, ringraziare la Madre Terra e pregarla che neppure per quel giorno prendesse il suo sangue.

Pertanto, dopo essersi fatto il segno della croce, rivolto ai suoi uomini disse «Baciat la terre! »  Era allora il terreno alquanto fangoso, poiché non solo in quei giorni aveva piovuto a dirotto, ma per giunta il provveditore generale Gian Paolo Gradenigo aveva astutamente fatto allagare la campagna, onde rendergli più difficoltosa l'offensiva.

I soldati si ritrovarono pertanto con l'acqua fino alle caviglie, e molti di loro per giunta rimasero con una scarpa sì ed una no, poiché il terreno era divenuto risucchioso in certi punti. Ora, benché i francesi avessero fama di essere soldati rispettosi e franchi, quella volta proprio non vollero saperne di obbedire agli ordini del maresciallo.

«Ma maresciall », protestarono, «dobbem proprio? »

« Bacier! Bacier! » ribadì nuovamente l'ordine La Palisse.

«Nuuu, maresciall, nuuu! »

«Bacier vi diss! Et bacier! »

«Nuuu, per carità, maresciall! »

Innervosito dalle lunghe resistenze, La Palisse sfoderò la spada e gliela puntò contro gridando «Bacier o vi inculer! » Sicché quelli subito, poco allettati dalla prospettiva, «Bacier! Bacier! » deliberarono.

Oramai tuttavia al maresciallo, che avendo sbattuto la fronte nel pitale quella mattina era ancora parecchio delirante, sfarfallava nella testa ben altro ghiribizzo, pertanto «No! »cambiò idea «mo ve incul e ve incul! » Si credeva essere il poveretto, il redivivo Francesco Sforza.

Sicché, terrorizzati all’idea, cadendo a carponi  come i maiali di Circe, i soldati baciarono appunto alla francese il terreno, qualcuno pur ingoiando qualche sfortunata rana giusto per confermare certe malignità culinarie con cui sovente i francesi eran sfottuti.

Sogghignando perfido, La Palisse rinfoderò la spada e concluse che per i propri scopi è giusto minacciare un uomo che non vuol esser minacciato, specie di sodomia. Si credeva essere il poveretto, il redivivo Aristotele.

 

 

Signor, vi piaccia udire

l'istoria di La Palisse,

che vi potria far gioire

purché la vi divertisse.

 

El fu in vita poco abbiente

per mostrar la sua importanza,

e pur non mancogli niente

quando fu nell'abbondanza.

 

Notte e dì saltava in tondo

e figliava come un toro,

poiché avea il capo biondo

non portava il crine moro.

 

Il viaggiava volentieri

scorrazzando pel reame,

e quand'era a Poitieri

non dormiva nel letame.

 

Passò l'Alpi da la Galia,

come volse il re Luigi,

né se pugnò in Italia

il combatté a Parigi.

 

Trastullavasi in battello

come in pace così in guerra,

sempre giva per ruscello

quando non passò per terra.

 

Il bevea tutti i mattini

el vin da la botte buona,

se mangiava dai vicini

il vi andava di persona.

 

Quando si sentiva casso

gradiva i cibi teneri,

festeggiò Martedì Grasso

la vigillia de le Ceneri.

 

Coi suoi bei crini chiari

pareva un faro al molo

né avrebbe avuto pari

se il fosse stato solo.

 

Talenti n'ebbe diversi

ma si è certi d'una cosa:

quando scriveva in versi

il non scriveva in prosa.

 

Egli fu, com'è contato,

ballerino assai scadente,

né avrebbe mai stonato

se il fusse stato silente.

 

E la storia anco vuole

che giamai poté risolvre

di caricar le pistole

sanza aver avuto polvre.

 

Morto fu de La Palisse

morto fu inanzi a Pavia,

ma poco pria che morisse

l'era in vita tuttavia.

 

Fu per triste sorte giunto

da ferita assai sleale:

si crede, poi che è defunto,

che tal colpo fu mortale.

 

Con lui cascò dabbasso

la virtù da Franza ambita,

e fu il dì del suo trapasso

l'ultimo de la soa vita.

 

(La Chanson de La Palisse, Bernard de la Monnoye)

 

 

 

***

 

 

Curiosità:  Nessun francese è stato sodomizzato in questa novellina.

Scherzi a parte, l’episodio qui riportato, per quanto esasperato, comunque cita un’usanza documentata dei Francesi prima di combattere.

È questa che avete letto una nostra libera traduzione de La Chanson de La Palisse di Bernard de la Monnoye. Poiché infatti la canzonetta merita, ma la traduzione fino a ieri disponibile non le rendeva giustizia, abbiamo deciso di tentarne una noi in rima seguendo lo schema di ottenari e il senso dell'originale, con l'aggiunta di due strofe (terza e quinta, per il cui contributo ringraziamo a proposito Hoel) e l'omissione dell'ultima, a nostro parere superflua. (Hoel aggiunge che Semperinfelix è fin troppo modesta, a lei va gran parte del merito di questo riadattamento.)

Si dice (Hoel lo dice) che il maresciallo de La Palice fosse solito uscirsene con affermazione assai scontate, da qui il significato odierno di lapalissiano. I Diarii di Marin Sanudo ne riportano alcune, tra cui lo stesso commento del maresciallo a fine dell’impresa di Treviso.  Sconfitto dai Veneziani, un rammaricato La Palice infatti affermerà: Questa città è inespugnabile perché non può essere presa con l’assedio.

Altra ipotesi è che l'origine dell'aggettivo derivi da una errata interpretazione di una strofa composta alla sua morte:

«Hélas ! la Palice est mort,

il est mort devant Pavie ;

Hélas ! s'il n'estoit pas mort,

il feroit encore envie.»

 

la s antica era infatti graficamente identica alla f, e perciò i posteri lessero seroit  al posto di feroit, ed  en vie al posto di envie, di conseguenza dal significato originale di se non fosse morto, farebbe ancora invidia usciva fuori un se non fosse morto, sarebbe ancora in vita.

Jacques II de Chabannes de La Palice (1470 -1525), brevemente, fu maresciallo di Francia e uno dei condottieri  protagonisti delle Guerre d’Italia, assieme a La Tremoille, il Cavalier Baiardo, de Ligny, etc. a seguito di Carlo VIII prima, Luigi d’Orléans poi e per finir con Francesco I anche perché, come gran parte della nobiltà francese, ci lasciò le penne a Pavia nel 1525.

 

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Capitolo 8
*** Kinzir! Kinzir! ***


Oggi festa di San Marco (oltre che della Liberazione) e pertanto questa novellina in onore del Santo e di come giunse a Venezia.

(Qua Hoel ci ha messo di più lo zampino di Semperinfelix, comunque la sua benedizione ce l’abbiamo e siamo contenti)

Cogliamo l’occasione per ringraziare Alessandroago_94, per aver recensito la precedente novellina.

Avvertimenti: uso improprio di un tabù alimentare; per cortesia si tenga in considerazione che questo è avvenuto secoli addietro e che non c’è alcuna intenzione di offendere chicchessia.  

Vi auguriamo buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

 

 

***

 

 

Kinzir! Kinzir!

 

Laddove conoscere la debolezza dell’avversario, se ben sfruttata, può portare a grandi soddisfazioni.

 

 

 

 

 

Nell’autunno dell’827 d.C. gli Aghlabidi erano partiti alla conquista della Sicilia, ponendo Siracusa sotto assedio. Il Basileus Leone V immediatamente reagì inviando truppe e al contempo chiedendo aiuto militare al Doge Giustiniano Partecipazio che, conscio del prestigio che tale impresa avrebbe portato al Ducato, accettò di buon grado. Fu meno contento quando apprese del blocco dei commerci ai danni degli Arabi.

Delle dieci acazie salpate da Rivoalto in aiuto dei Romei, una di esse si staccò curiosamente dalle sue sorelle per virare verso Alessandria d’Egitto: era la San Nicola, capitanata dai veterani della battaglia di Albiola contro i Franchi, i tribuni Bon da Malamocco e Andrea “Rustico” da Torcello suo socio.

In apparenza contravvenendo agli ordini sia del Basileus sia del Doge Giustiniano  Partecipazio, in realtà da quest’ultimo erano stati incaricati di una missione ben precisa e di vitale importanza: forzare le porte di una chiesa e compiere un furto. Ché l’ambizioso Ducato non voleva limitarsi a cambiare solo nome alla sua capitale da Rivoalto a Venezia, ma adesso aveva in programma pure di cambiare santo patrono.

E stavolta di prima categoria. San Todaro, ti vogliam bene, ma oggettivamente chi ti conosce?

“Quel gran furbone del Patriarca di Aquileia si vanta di possedere il trono di San Marco!”, aveva confidato loro il Doge. “E noi ci pigliamo San Marco stesso! Alla faccia sua e di quel puzzolente dell’Imperatore Lotario suo amico!” e, dinanzi alle giuste obiezioni dei due tribuni circa i perigli di quella missione, il Doge aveva aggiunto, col ritornello oramai consueto, la solita solfa di “gloria immortale” e di “interessi superiori della patria” e “se vi intercettano i Romei, io non so un'emerita cippa, non c’entro niente.”

Bon da Malamocco e Rustico da Torcello erano dunque partiti, decisi a riportare la spoglia imbalsamata del santo evangelista Marco nella neo-ribattezzata Venezia e bisognava dire che fino a quel momento la fortuna li aveva aiutati. Con la scusa di una tempesta mai avvenuta, i due mercanti (contrabbandieri) erano attraccati senza destar troppi sospetti ad Alessandria d’Egitto e, agganciati due monaci venali, Saturanzio e Teodoro, con moine, descrizioni apocalittiche e monete tintinnanti, Bon e Rustico li avevano convinti ad aprire loro le porte della chiesa. Scambiato il corpo del Santo con quello di una mummia qualsiasi di cui l’Egitto era gremito, i due mercanti se l’erano poi squagliata via, raggiungendo indisturbati il loro fondaco.

Finché non sorse il problema.

“Come facciamo coi controlli?”, si sovvenne Rustico, fissando il socio mentre sistemava la preziosa reliquia nella grande cesta. “Per via del blocco del Basileus, quelli ci controllano anche dentro il cu- …”

Bon corrugò la fronte, grattandosi la barba su cui stavano comparendo i primi peli bianchi. “Forse ho la soluzione”, disse dopo un lungo silenzio. “Ti ricordi la prima volta che Elihu salpò con noi?”

“Ciò! Per poco non s’arrampicava sull’albero peggio d’una scimmia alla vista dei … oh!”

“Esatto: oh!”

“Emilio! Giacomo!”

“Comandi!”

“Venite qua ed aiutatemi a sistemare le ceste …”

Il giorno successivo al porto, come anticipato dai due veneziani, i doganieri arabi non appena li scorsero con le ceste appresso li fermarono. “As-salamu alaykum”, li salutarono affettati ma guardinghi.

“Wa alaykumu s-salam, così come la misericordia di Dio e le sue benedizioni”, rispose con altrettanto garbo il legato dogale Giuseppe Basejo detto “Giusto”, mentre Bon e Rustico davano indicazioni ai loro marinai di appoggiare la merce per l’ispezione.

“Dove siete diretti, fratelli?”

“A Venezia, amico mio.”

“Col Basileus che ha proibito ogni commercio con noi?”

Giusto Basejo sospirò mesto. “Miseri noi, fu una tempesta a dirottarci qui e il buon Dio nella Sua infinita bontà a questo porto ci condusse.”

Il doganiere arricciò la bocca, poco convinto. “Chi è il capitano?”

“Sono io”, avanzò Bon da Malamocco. “E questi è il primo ufficiale”, e indicò Rustico così come gli altri membri dell’equipaggio: il secondo ufficiale Pietro; i soldati Brutus detto “Brutto” perché era proprio brutto e Hubert de Gascoyne detto “Franco” - un disertore dell’esercito di Pipino Re d’Italia; Elihu ben Moishe e sua sorella Rebekah ben Moishe, rispettivamente medico di bordo e assistente e infine Giacomo, Emilio, Nikos, Medes e gli altri marinai, finché allo snervato doganiere incominciò a sorgere un gran mal di testa, essendosi ormai alzato il sole del meriggio e ancora non aveva concluso niente.

“Quindi non siete venuti per commerciare?”, li incalzò feroce.

“Nossignore!”, esclamarono scandalizzati Basejo, Bon e Rustico, levando le mani in alto. “Siamo venuti solo per rifornirci!”

“E tutte quelle ceste?”

“Carne, frutta e verdura per il viaggio!”

“Sì, certo ed io pure ci credo!”, ridacchiò sardonico l’arabo. “Ché sperate forse di prendermi per i fondelli? E’ risaputo come voi Veneziani siate tutti una gran masnada di bugiardi e figli di mille padri, pronti a vendere la propria madre per profitto!”, ruggì all’improvviso e i suoi uomini sguainarono le spade minacciosi. “Cosa state tramando voi col Basileus? Siete spie? Cosa nascondete in quelle ceste? Vi faccio impiccare tutti!”

“Calma, calma mio carissimo amico!”, lo tranquillizzò serafico Bon, scansando col dito la punta della lama puntatagli contro il petto. “Capiamo il vostro nervosismo e circospezione a causa del Basileus e della guerra a Siracusa. Ma noi non c’entriamo niente, lo giuro su tua madre! Eravamo diretti a Cipro e … e poffarbacco, una tempesta ci ha colti impreparati e  c’ha sballottati fin qui! Insomma, un uomo della tua sorte ben dovrebbe sapere come l’autunno e l’inverno non siano mesi buoni per la navigazione e di come le tempeste infurino di continuo nel Mediterraneo. O mi fai ricredere sulle tue competenze?”

Punto sul vivo il doganiere non osò ribattere. “Allora, dai ordine di aprire le ceste così da mostrarci la merce.”

Bon annuì servizievolissimo. “Con tutto il piacere di questo mondo … Giacomo! Emilio! Il mio amico vuole vedere dentro le ceste!”

“Ma capitano! Ci abbiamo messo l’intera mattinata a sistemarle!”

“Si guasterà tutto!”

“Basta voi due, canaglie malnate, non ci troviamo qui per far melina! Avete sentito l’ordine del doganiere?”

Emilio e Giacomo, scambiatisi lunghi sguardi, scrollarono le spalle. “D’accordo, contento lui”, borbottarono e tra sbuffi e imprecazioni i coperchi vennero levati e i contenuti esposti agli occhi curiosamente avidi dell’arabo, già pregustante lo sbugiardamento dei Veneziani e il loro consecutivo arresto.

“Oh”, si sfregò le mani l’uomo. “Frutta, dicevate? Ma io qua vedo solo cavolfiori e … AAAAARRRGGHH!!”

“Sayyid! Che vi succede?”, s’informarono preoccupati i suoi soldati, accorrendo in soccorso del delirante doganiere che roteava impazzito su stesso, la mano sulla bocca e gli occhi fuori delle orbite.

Afferrate le ceste, la fonte della perdita del senno del loro superiore, gli Arabi vi guardarono dentro e il tanfo della carne del maiale li stordì in pieno.

“Argh! Kinzir! Kinzir!”, gridarono terrorizzati, nascondendo anch’essi le nari e la bocca e strofinando sulle vesti le dita venute malauguratamente in contatto con la carne impura.

“Kinzir! Kinzir!”

Fingendo confusione, Bon da Malamocco estrasse la testa del maiale e la sventolò perfido sotto il naso del doganiere sofferente. “Va’ che bello! Nikos! Apri le altre ceste!”, ordinò al marinaio che tosto s’adoprò per compiacere il suo capitano.

“No!”, lo bloccò invece supplice l’arabo. “Ti prego, no!”

“Kinzir! Kinzir!”

“E no, ce le avete fatte aprire e ora le ispezionate!”, puntualizzò offeso Rustico da Torcello. “Medes, a me il porco! Portalo qua, così il doganiere vede e crede!”

“Kinzir! Kinzir!”

“Basta! Basta! Vi prendo in parola! Purché risigilliate quelle maledette ceste!”

“Kinzir! Kinzir!”

“Ma perché?”, infierì il legato dogale Basejo. “Non capisco: prima ci dai dei bugiardi e non ti fidi se non controlli le ceste; noi ti esaudiamo e poi tu cambi idea così? Amico mio, che vuoi da noi?”

Ricacciando indietro il vomito a viva forza, il doganiere berciò: “Che te ne vada all’inferno! Tu e i tuoi compari! Liberami immediatamente da quest’obbrobrio o non rispondo più di me stesso! Ah, misero me!”, guaì, sentendosi svenire nel frattanto che i soldati, tenendo una mano sul naso e l’altra sulla spada, davano il via libera ai Veneziani d’imbarcarsi sulla loro agile acazia a tre alberi.

I trafugatori della reliquia non se lo fecero ripetere due volte e rapidi come la morte salirono sulla San Nicola e non appena Alessandria d’Egitto divenne un pallino all’orizzonte l’intera ciurma proruppe in una grassa e fragorosa risata, salvo eccezione dei medici Elihu e Rebekah che, per motivi di fede giudaica, condividevano come i musulmani il medesimo tabù alimentare considerando impuro il maiale e di conseguenza provavano una certa empatia verso la loro sofferenza.

“Suvvia, Elihu! È stato grazie a te se Bon ha avuto questo lampo di genio!”, esclamò Rustico, ricordando la notte trascorsa a raccogliere tutta la carne di maiale possibile e immaginabile e di riporla assieme al cavolfiore sopra la reliquia di San Marco, acciocché i pii doganieri non potessero controllarli le ceste in lungo e in largo.

“A proposito, del porco qui che facciamo? Ce lo mangiamo?”

“Ciò, vuoi buttarlo via?”

“Ma se è stato a contatto col corpo del Santo!”

“Meglio ancora: la sua carne s’è santificata e ci porta fortuna!”

E fu buon consiglio del capitano ché dopo una traversata burrascosa nel Mediterraneo e su per l’Adriatico, in data 31 gennaio la San Nicola  sbarcava trionfale nella laguna.

Ad accoglierli ci fu il Doge Giustiniano Partecipazio in persona che con grande magnanimità perdonò i due lestofanti per il furto anzi, ricompensandoli pure con 100 libbre d’argento; ci fu inoltre Orso il vescovo di Olivolo e con lui l'intera popolazione veneziana.  Riunitosi il Gran Consiglio venne deciso di portare la reliquia nella chiesetta di San Todaro di fianco al Palazzo e convocato poi il popolo, il Doge gli chiese a gran voce chi volesse per santo protettore e all’unanimità s’elevò alto il grido: “Marco! Marco!”

 

 

 

 

***

 

 

Curiosità: ci viene da pensare che se durante l'assedio avessero lanciato giù tutti i culatelli, salsicce, pancetta, insomma ogni derivato del maiale in testa agli Arabi, Gerusalemme non sarebbe mai stata da loro riconquistata. Non lo sapremo mai.

Il trafugamento del corpo è stato arricchito nei secoli con elementi di leggenda, ma le dinamiche sono rimaste più o meno le stesse e le vicende narrate si possono ammirare nella Basilica di San Marco o nei teleri del Tintoretto nella Scuola Grande di San Marco. Ignoriamo come si scriva “maiale” in arabo, ci siamo rifatte alle iscrizioni sui mosaici a San Marco.

Il motivo del trafugamento del corpo di San Marco oltre che per motivi religiosi fu anche per motivi politici, ovvero tener testa al patriarcato di Aquileia, supportato dall’Imperatore Lotario che col concilio di Mantova voleva ristabilirne il primato sulla metropolia di Grado e di conseguenza sul Ducato di Venezia che ne faceva parte.  Inoltre, forte della vittoria sulla flotta araba a Siracusa, Venezia incominciava a prendere coscienza della propria importanza, dimostrando una crescente volontà d’indipendenza da Costantinopoli. Infatti, non a caso la scelta è caduta su di un santo delle origini, né romano né bizantino.

Prima di allora, il santo protettore di Venezia era San Teodoro (Todaro in veneziano) e solo agli inizi del IX secolo Venezia assunse il suo nome, essendosi prima chiamata Rivoalto o Rialto.

 

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Capitolo 9
*** Creusa Persis ***


Non possiamo finire di ringraziare Alessandroago_94 per continuare a seguire codesti deliri creativi e a coloro che hanno inserito questa raccolta tra le seguite e le preferite.

La mia compare Semperinfelix ci tiene a dedicare questa novellina ad Elisabetta

Buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

***

 

 

Creusa Persis

 

Laddove Enea perse per motivi di trama la sua Creusa e chi gli lavava i panni

 

 

In un tempo non molto lontano, in un giorno non molto funesto, ecco com'andò veramente la distruzione di Troia:

Frattanto che la battaglia prosegue, tra viscere strappate fuori dalla panza e teste che volano, avendo sia Greci che Troiani capitato al mercato delle armature tarocche, Enea torna a casa tutto scazzato e “Mo basta!” sbotta. “Mo ce ne andiamo!”

Quel che né la moglie né l'anziano padre sapevano, era che Achille gli aveva fatto la linguaccia e per tale ragione Enea, offesissimo, non voleva saperne d'avere ancora a che fare con lui.

“Babbasunazzu!” lo riprende aspramente il pater Anchise, sputando la dentiera. “Cascassero a Giove le mutande, noi di qui non ce ne andiamo!” La nuora Creusa lo prega e lo supplica affinché acconsenta alla partenza, per il bene suo e del nipotino che è tanto bellino, ma Anchise no, è irremovibile. “Io qui sono nato”, dice, “e qui voglio crepare!”

Si alza dalla seggiola e tutto adirato fa mostra d'andarsene. Apre la porta e proprio lì, sulla via di casa, vede venire: da una parte due dei suoi creditori, a li quali doveva ancora duecento e passa dracme, perdute tutte giocando a briscola coi vecchietti del centro anziani, dall'altra il marito cornuto della sua vicina di casa, incabbasisato nero, con un giavellotto in mano. Richiude di botto la porta, spiaccicandocisi contro con tutte le spalle, e guardando i famigliari domanda: “O, che aspettiamo ad andarcene?”

Figlio e nuora lo guardano stupefatti. “Ma come …” domandano “non eri determinato a morire qui?”

“No, no, ma io scherzavo”, si giustifica Anchise, “e poi mi sono ricordato che giovedì mentre stavo alla latrina un fulmine dorato con una stella cometa m'è cascato sulla testa e Giobbe, affacciando la faccia dal buco dove stavo seduto, m'ha detto: Anchise, vecchio scimunito, che vuoi far crepare così il tuo nipotino e quel gran pezzo di gnocca di tua nuora? Avanti, alzati e parti!

“Papà, ma che ti sei fumato?” lo interroga perplesso il figlio.

“Dai del bugiardo al tuo genitore? Ah, biscredente! Se non mi credi, guarda tuo figlio come sta avvolto da lingue di fuoco!”

Sia madre che padre si voltano allora a guardare il pargolo, che era in effetti in fiamme. “Mannaggia, n'altra volta!” sbuffa Creusa esasperata, correndo a prendere l'estintore da sotto al letto. “Sto bambino sempre in fiamme sta, oh!”

“Prodigio!” esulta Enea. “Giobbe vuol che io torni a combattere!”

“Ah! Avrei dovuto sposare tuo cugino Agenore! Lui almeno ci avrebbe messi al sicuro!” si lamenta sconsolata la moglie, una volta finito d'estinguere il bambino. “Mo decidi: o la smetti di fare lo scemo e ci porti via di qui oppure tu la potta non la vedi più!”

E fu così che dopo quell'ultimatum, messo di fronte alla terribile prospettiva di dover tornare dalla sua vecchia fiamma Ludovica, con la quale aveva condiviso la prima giovinezza, in men che non si dica Enea ebbe già i bagagli pronti. Si carica il padre sulle spalle, che tanto è lagnuso che manco camminare vuole, e dà la manina ad Ascanio, mentre Creusa li segue fuori casa con le foto di famiglia sott'al braccio.

Luogo il cammino si fermano al tempo di Cerere a fare la spesa, quindi ripartono, ma è proprio allora che Creusa, rimasta indietro perché appesantita dalle borse della spesa, si volta e vede Ermes che le fa l'occhiolino. Il bambino pure si volta, e vede che la madre non c'è, allora piagnucolando avverte il padre dell'accaduto.

Sperduta a questo modo la mogliera, Enea per tre giorni vaga di qua e di là gridando disperato: “Creusaaa! Creusaaa! Andò cazzo stai!?!?” Finalmente al terzo giorno, rotta dalle continue lamentele, gli appare l'infelice simulacro della sposa, notevolmente ingrassata rispetto a come la ricordava.

“Mio amato sposo », gli dice con voce distorta, “mettiti l'anima in pace. Gli dei mi hanno chiamato a ben altro mondo che questo, e lì, tra le sedi beate, un nuovo ruolo m'attende. Tu prosegui per la tua via, senza voltarti indietro, ed abbi cura del vecchio padre e del figlio, speranza della stirpe di Dardano. Questo, o Enea, decretò l'oscuro Fato, questo il Destino che nulla perdona. E dunque, mio amato, non ti curar di me e va'!”

Cotali parole fatte dispare come fumo che s'innalza dall'ara del sacrificio. Enea, rotto in pianto, le corre incontro, tre volte tenta la lacrimosa mano d'afferrare la veste che sfugge, tre volte fallisce nel suo intento. Allora, perduta ogni speranza, si getta in ginocchio sulla dura terra, e rivolto al cielo domanda: “O Creusa, e i panni sporchi chi li lava mo!?!”

 

 

 

 

 

 

***

 


Curiosità: Virgilio attende chi l’Eneide così spense.

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Capitolo 10
*** Figure da Normanno ***


Non possiamo finire di ringraziare Alessandroago_94 per continuare a seguire codesti deliri creativi e a coloro che hanno inserito questa raccolta tra le seguite e le preferite.

Buona lettura,

Hoel e Semperinfelix

 

 

***

 

 

Figure da Normanno

 

 

Laddove si vuol dimostrare che, o per scioltezza di lingua o per timore di ritorsioni, anche una colossale figura di merda possa trasformarsi nel più carismatico dei discorsi. 

 

 

 

 

Guglielmo Duca di Normandia appartiene alla rara categoria di uomini che sa cosa vuole e alle accuse d’eccessiva crudeltà per raggiungere i suoi scopi egli ha sempre risposto: “Hé, che ci posso fare, appunto mi si chiama Guglielmo il Bastardo!”, senza chiarire se alludesse alla sua ferocia o alla sua controversa nascita.

Ora a due cose in quest’anno Domini 1066 anela Guglielmo: l’Inghilterra e la testa di Aroldo suo rivale al trono servita su di un piatto d’argento.

 In piedi sulla prua dell’agile nave, col vento autunnale che gli scompigliava i cortissimi capelli tagliati a scodella, il fiero normanno si trova a contemplare le coste del Sussex appropinquarsi all’orizzonte e già si sente a casa sua.

Perché quel regno è suo, alla faccia di quello sporcaccione d’un sassone usurpatore. Guglielmo ama l’Inghilterra. Tranne forse per il clima. E il cibo. E gli inglesi. Però l’ama, dai, ha perfino chiesto al Papa di benedire la sua spedizione! Se non è dedizione questa!

Inoltre,  che figura ci fa altrimenti con Roberto il Guiscardo e suo fratello minore Ruggero? Loro a conquistare regni e lui a casa a riscuotere le tasse ai plebei?

“Andiamo, miei Normanni! Facciamo ingoiare le budella a questi cappelloni barbuti di Sassoni!”, grida il feroce Guglielmo ai suoi mentre estrae la spada, pronto a scendere non appena la barca da trasporto avesse attraccato sulla spiaggia di Hastings. “Per San Micheeeeee ...” e più non dice altro, ché avendo inciampato nel bordo della barca cade in un gran tonfo a faccia in giù in mezzo all'acqua.

Un silenzio di morte cala tosto tra i Normanni, neppure i molesti gabbiani osano garrire.

“Gu-Guglielmo?”, mormora  pallido in volto il suo fratellastro, Oddone di Bayeux. “Vi siete …?”

Prima però che il vescovo avesse potuto porre la fatidica e spinosa domanda, il prode normanno riemerge e s’alza in piedi e simil rana sputa acqua, sassolini, sabbia e pure qualche conchiglia.

O Nostra Donna, adesso che faccio?, cogita frenetico il cremisi Duca detto il Bastardo, Questi qua sono più superstiziosi di un branco di lavandaie, rischio che mi disertino scappando a nuoto fino in Normandia!

Nettatosi la lingua col dorso della mano, l’uomo si mette a fissare accigliato i suoi comandanti e soldati. Grazie a Dio possiede un tal vocione gutturale da nascondere l’imbarazzo atroce che sta provando in quell’istante: “Embé? Cosa sono quelle facce da giovenche? Temete un qualche sinistro presagio? Stolti!” li apostrofa aspramente e chinatosi, si riempie le mani dei sassolini sabbiosi. “Vedete invece come mi piglio facilmente questa terra?”

Oddone di Bayeux si gira disorientato verso Alano il Rosso che cerca aiuto in Guglielmo FitzOsbern che a sua volta conclude la catena con Eustachio di Boulogne, il quale dall’alto del suo acume strategico, altro non può far se non spallucce.

Cosa rispondere ad un arrogante, violento e permaloso energumeno alto quasi sei piedi? Ad un figlio illegittimo che ha difeso i suoi diritti al ducato letteralmente con le unghie e con i denti? Che ha bullizzato la povera Matilde di Fiandra onde persuaderla a sposarlo? Che ha messo a ferro e a fuoco una città perché l’aveva sfottuto d’esser nato da una figlia di un conciatore di pelli?

“Sì, oh Duca nostro! Anzi, nostro Re! Siamo tutti con voi!”

“Viva Guglielmo!”

“Viva il Duca di Normandia!”

“Viva il Re d’AEnglalond!”

“Angleterre, oh! Ché mi metto ad imparare il sassone ora? Scherziamo? Mica sono come quei cretini degli Altavilla che adesso sul serio parlano arabo, manco più li capisco!”

“Verissimo, scusate!”

“Alla pugna, miei valenti paladini! In groppa ai cavalli e lancia ben dritta e salda in mano!”

“Oui! Vive le Roi!”

“Bravi e non scordatevelo!”

 

 

 

 

 

***

 

 

Curiosità: Guglielmo il Conquistatore vinse 1 a 0 per Aroldo, centrato in pieno da una freccia nell’occhio.

Quest’aneddoto Hoel lo apprese in visita ad Hastings tra una scorpacciata e l’altra di granchi e ostriche.  

Guglielmo il Conquistare in effetti non imparò mai il sassone né a leggere o a scrivere, si dice fosse analfabeta. Aveva un vocione da far spavento, era molto alto per l’epoca, veramente era un figlio illegittimo e trascorse un’infanzia in cui tutti volevano farlo fuori e siccome Matilde di Fiandra non voleva sposarlo, l’attese fuori dalla chiesa, la tirò per le trecce in piazza e la buttò nel fango, chiedendole poi se ora lo voleva sposarlo. Al che Matilde disse di sì. Va però aggiunto, che Guglielmo non ebbe mai figli bastardi e le fu sempre un marito devoto e fedele.

Gli Altavilla suoi “cugini” ovviamente sono Roberto il Guiscardo e Ruggero che conquistarono la Sicilia e il resto del Sud Italia, formando il Regno. Fu vero che assimilarono la cultura locale.

I Normanni in Inghilterra introdussero il francese come lingua ufficiale, sicché fin quasi ai Tudor c’erano tre lingue ufficiali: francese, inglese (ch’è un misto tra sassone e francese) e latino. Adesso gli inglesi manco morti imparano un’altra lingua.



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Capitolo 11
*** Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì … ***


Questa storiella nasce dalla cocciutaggine mia e di Semperinfelix di scoprire chi per primo diede il titolo di “Tygre” a Caterina Sforza, rifiutandoci di credere alla storia dell’Anonimo Veneziano.

Ecco il risultato e buona lettura,

H. & Semperinfelix

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Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì …

 

 

Laddove alcuni soprannomi sembran esser pronunziati per esaltare, invece si scopre che son per insultar, sì, ma con garbo.

 

 

 

Un qualsiasi convegno su Caterina Sforza, giorni nostri

 

“… e così”, prosegue infervorata la professoressa di Storia Rinascimentale dell’Università “T. de’ Tali”, mentre il pubblico adorante pende dalle sua labbra, “la nostra Caterina Sforza, prima donna d’Italia, si mostra dinanzi al nemico sempre pronta, inesorabile, audace, tant’è vero che Lorenzo Giustinian, pieno di stupore verso colei che rovesciava gli schemi sociali e le aspettative maschili sul ruolo delle donne, così la descrive ai Veneziani: quella tigre di madonna di Forlì … Ella mise alla prova la tenacia di condottieri esperti, di veterani e comandò Gaspare Sanseverino, detto Fracassa, nei momenti di indecisione, quando questi fece perfino chiamare suo fratello Gianfrancesco a Modiana per farsi aiutare contro i Francesi …”

Un coro di teste annuisce energico, rapito da cotanta audacia che impressionò l’Europa intera, rendendo la biblica Debora una dilettante.

“… e quel soprannome – tygre – passò di bocca in bocca, viaggiando per ogni corte italiana e pronunciato con rispetto e ammirazione …”

 

Ravenna, settembre 1498.

 

“Quea gran vaca putana!”

Il povero segretario guaì, pur nascondendosi quasi sotto la scrivania, spaventato dalla veemente dettatura del suo superiore, il podestà e capitano di Ravenna, sier Lorenzo Giustinian.

Da ore lui e il patrizio s’erano rinchiusi nello studiolo a scrivere missive alla Signoria, aggiornandola sui fatti di Romagna e più la penna riempiva il foglio più il podestà s’infervorava, tanto da deambulare avanti e indietro, mulinando le braccia tra un insulto e l’altro e di fatti esattamente lì si erano da un po’ arenati, non riuscendo il Giustinian, nella sua collera, definire la contessa Caterina Sforza relicta Riario relicta Feo e ora de’ Medici, la quale, come la serpe milanese ch’era, fingeva amicizia e poi aiutava il suo nuovo marito, accoltellando Venezia alle spalle mentre il suo esercito si dirigeva a Pisa.

Quella stronza di Forlì ci mette i bastoni tra le ruote! Hai scritto?”

“Sior podestà, non possiamo inviare questo agli illustrissimi Pregadi!”, protestò il pover’uomo, un’espressione sconsolata dipinto sul volto pallido e stanco.

 “Già meglio così: quella madona xé proprio una roctura de cazi, la qual fa il tutto contra nostri …”

“L’ultima parte già va meglio … Forse la prima, come dire, meno enfatica?”

 “Puh!”, sbuffò scocciato sier Lorenzo. “Allora metti così: quella puzzolente grassona di Forlì fa il tutto contra i nostri …”

Al segretario venne quasi da piangere.

“Che hai? Credi che i Pregadi la pensino diversamente da me?”

“Non lo dubito, ma che diranno di noi i posteri? Che insultavamo gentildonne?”

“Gentildonna quella quasi virago?", esclamò sardonico il patrizio. "Non vuol Sua Signoria far l’uomo? E che dunque si pigli gli insulti da uomo!” perché Giustinian si chiamava e lo era di nome e di fatto, giusto. “Riprendiamo. Quella scostumata baldracca di Forlì …”

“Sior podestà!”

Quella mangiaspade di Forlì …”

“Ma…!”

“Quella serpe in pectore …”

“Perché?!”

“Quella mostruosa arpia …”

“Sior podestà, vi scongiuro!”

“Quell’innaturale femmina col cazzo …”

“Calmatevi per pietà!”

“Quella fedifraga creatura generata dai lombi dell’olim duca Galeazzo …”

“SIOR PODESTÀ, SMETTELA! MI SEMBRATE LA VOSTRA MADONNA QUANDO FATE COSÌ!”, ruggì il cancelliere, balzando in piedi e buttando all’aria, esasperato, tutte le missive, l’inchiostro, il calamaio e pure sbatté per terra il suo cappello.

Quand’ecco che si chetò all’improvviso, terrorizzato dal subitaneo silenzio calato nonché l’occhiata fissa del suo superiore. S-ciavo vostro, l’ho fatta, iniziò a tremar freddo l’uomo, già figurandosi licenziato e rispedito a pedate da sua madre a Venezia.

Lorenzo Giustinian si mise a ridere di gusto e al segretario venne di riflesso di recitare un requiescat per l’anima sua, pronta a volar via per mano di quel pazzo in fieri.

“Bravo! Bravo! Bravissimo!”, l’abbracciò invece il podestà, serrandogli il braccio attorno il collo, mezzo soffocandolo. “Oh, come ho fatto a non pensarci prima? La mia madonna! La mia madonna!”, gli ripeté inquietantemente allegro mentre gli stringeva e tirava le guance.

“Sior podestà?”, sbrodolò il cancelliere, cadendo in un tonfo sul suo sgabello.

Ma ormai il Giustinian non l’ascoltava più: con in mente quella gran rompicoglioni in soprappeso di sua suocera, le sue critiche, lamentele, rabbuffi, visite sgradite, pettegolezzi e chi più ne ha per favore non ne metta, il patrizio si sfregò le mani e, in posa ieratica, ordinò al segretario:

“Ordunque scrivi: Da Ravena, di sier Lorenzo Zustignam podestà et capitanio. Come quella tygre di la madona di Forlì faceva il tutto contra nostri; et che Achiles Tiberti di Cesena era con lei. Et dil zonzer a Forlì dil conte di Cajaza, qual va a trovar suo fratello Frachasso per unirse con le zente da quella banda di Modiana. Item, dil conte di Sojano, che aricordava da quella banda saria bon far qualche impresa, etc.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Note finali ( a cura di Semperinfelix):

Quel che i biografi di Caterina Sforza sempre tralasciano è che Gaspare Sanseverino - detto Fracasso per la sua furia in battaglia - ebbe la soddisfazione di essere l'unico uomo al mondo implorato e supplicato da Caterina (e senza successo!). Mandato dal duca Ludovico il Moro a Forlì per esserle, teoricamente, d'aiuto nella guerra, le fu solo di sdirrupo.

Avvenne infatti che Fracasso la prese rapidamente in odio, e per quanto Caterina cercasse di onorarlo, di farlo divertire e di accattivarselo, egli coglieva ogni minima scusa per risponderle in malo modo e minacciare d'andarsene. Non obbediva agli ordini, non voleva collaborare né con gli altri capitani né col proprio stesso fratello Gianfrancesco, col quale anzi litigava continuamente; non rispettava le leggi, causava disordini, faceva sempre di testa sua e talvolta rifiutava persino di parlare, se era Caterina a chiederglielo. D'altra parte, se era per parlare male di lei, lo faceva più che volentieri.

La ragione di questo comportamento non è chiara: forse il cosiddetto nuovo Achille non era tanto disposto a prendere ordini da una donna? ma egli non aveva mai mostrato ostilità nei confronti della quondam duchessa di Milano Beatrice d'Este (per certi versi simile a Caterina) alla quale si era dichiarato viceversa devoto. Più probabilmente il cruccio perenne di Fracasso - mezzo pazzo ma di buon cuore - era di poter menare le mani, cosa che Caterina a quanto pare gli impediva di fare, come dimostra il secco ultimatum che egli le rivolse prima dell'ennesima minaccia di congedo, stavolta definitivo: "Madonna, diteme più liberamente se havete bisogno de queste gente [d'armi] che sono qua, o sì, o no, perché io condurò ben mi queste gente [...] in loco che loro e mi [io] haranno [avranno] honore, perché non fu mai de costume nostro haver vergogna". Incapace di gestire il carattere scontroso e iracondo di lui, Caterina supplicava lo zio Ludovico di farlo ragionare o di richiamarlo a Milano, ma Ludovico le rispose che "è necessario il tollerarlo", perché, sebbene Fracasso dicesse "qualche male parole, el fa poi megliori facti". Caterina finì poi in catene.

(da Hoel) Nient’altro da aggiungere all’esauriente spiegazione della mia compare, perché sì, la prima parte è assolutamente una parodia di alcune conferenze attuali  e lei ci teneva a puntualizzare, onde evitare fraintendimenti.

Alla fine, il soprannome “tygre” glielo diede questo Lorenzo Giustinian e, dal tono della lettera copiata dal nostro caro Sanudo, più che ammirazione verso Caterina, ci sembrava piuttosto ch’egli in quel momento stesse provando una forte irritazione nei suoi confronti …

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