I Conti del Canvìn di Hoel (/viewuser.php?uid=86957)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tu es Pierus ***
Capitolo 2: *** Il Colloquio di Lavoro ***
Capitolo 3: *** Nobil domino mio, il catalogo è questo … ***
Capitolo 4: *** Scacco al … Duca! ***
Capitolo 5: *** Versione di Latino ***
Capitolo 6: *** Mannaggia a te, Niccolò! ***
Capitolo 7: *** Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza ***
Capitolo 8: *** Kinzir! Kinzir! ***
Capitolo 9: *** Creusa Persis ***
Capitolo 10: *** Figure da Normanno ***
Capitolo 11: *** Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì … ***
Capitolo 1 *** Tu es Pierus ***
Dovuta
prefazione:
questa
raccolta di storielle, come già spiegato
nell’introduzione, corrispondono a
sghiribizzi di autrici giusto per farsi qualche risata. Come il copista
veronese che, tra un documento e l’altro, a lato della pagina
scriveva
indovinelli.
Ma in altri contesti di solito
siamo autrici serie, eh!
Buona
lettura!
***
Tu
es Pierus
Laddove
cercando di provare con esempi concreti una teoria su come il
nome “Piero” non abbia portato fortuna a molti
personaggi storici – vedasi Pier
della Vigna, Pere II d’Aragona, Piero d'Aragona fratello di Alfonso I d'Aragona di Napoli, Piero d'Aragona figlio di Alfonso II d'Aragona di Napoli, Piers Gavenston, Piero il
Fatuo, Piero Loredan,
Piero del Verme, Piero Abelardo, Piero il Crudele di Castiglia, Piero il Giustiziere del Portogallo, Piero III di Russia, ecc. - si
arrivò a
parlare del tremendo assedio di Brescia del 1512, in cui un altro
valoroso
“Piero” perse non la vita bensì
… altro. E non fu il braccio.
“Tu, Pierre, nomato come il santo che
rinnegò Nostro Signore,
quando il tuo nome verrà pronunciato ad alta voce, sta
sicuro che ti capiterà
una gran disgrazia!”
All’epoca un giovinetto Pierre Terrail de Bayard non aveva
compreso appieno la
veridicità della fattura lanciatagli da quella vecchia baba,
cui aveva per innocente
burla fatto lo sgambetto e provocando di conseguenza la rottura della
brocca di
latte appena munto che trasportava seco.
Lo
aveva scoperto però poco dopo, quando sua madre lo aveva
chiamato per desinare ed ecco che il povero Pierre nella corsa per
raggiungerla
inciampava sui gradini, rotolando fin quasi all’inizio delle
scale e gli
s’incrinarono un paio di costole, nonché perse
tutti i denti da latte davanti,
venne seppellito vivo dall’arazzo cui s’era
aggrappato, ruppe un inestimabile
reliquiario, provocò la caduta di una serva che trasportava
dalle cucine la
zuppa che l’ustionò e, dulcis in fundo, dallo
spavento s’urinò addosso e i
fratelli lo sfotterono inclementi per mesi.
Da quel momento in poi, Bayard ben si assicurò che nessuno mai
lo
chiamasse Pierre e fortunatamente per lui i suoi genitori e parenti lo
appellavano mon cher enfant o mon frère; gli amici Piquet; Blanche per pudore lo si tace e
infine le Chevalier sans peur et sans
reproche per la fama e i meriti conquistati sul campo di
battaglia, che
fecero appunto dimenticare ai più il suo nome di battesimo e
il valente
condottiero, credendosi salvo, obliò la tremenda maledizione
…
D’altronde, sotto le mura di Brescia, altro aveva cui
pensare, ovvero
guerreggiare contro gli accaniti Veneziani capitanati da Andrea Gritti.
La battaglia proseguiva difficile e perfino il duca Gaston de
Foix-Nemours si
trovava in difficoltà, isolato da Bayard e i suoi.
Quand’ecco che
all’improvviso comparve una colonna di stradioti e il sangue
del Bon Chevalier ribollì
d’entusiasmo.
“Federico Contarini!”, gridò, sguainando
la spada e girando il cavallo verso il
provveditore degli stradioti. “Finalmente vi potrò
sfidare!”
A
Ferrara aveva tanto udito parlare di lui, delle sue spedizioni
audaci e vittoriose e Bayard smaniava di confrontarsi con un cavaliere
di sì
grande valore.
Spronò dunque il cavallo e si preparò a caricare
il veneziano, ma
all’improvviso da quell’uditiva bolgia infernale
composta da urla, rantoli,
bestemmie e invocazioni alla Corte Celeste s’erse un forte
richiamo:
“Ehilà,
Pierre!”
“Cos- ..?”
“Suca!”, gli rispose un balestriere veneziano
sbucato diosacché dove.
Bayard appena avvertì lo schiocco del meccanismo e il sibilo
della freccia, che
un dolore atroce, inconcepibile, da Golgota Crocefisso gli
martoriò corpo e
anima e se non fosse stato per il suo ognora zelante scudiero, sarebbe
ignominiosamente
caduto da cavallo con la mano là dove Adamo per primo si
coprì.
“Allora, cerusico, l’è vivo?”
“Lui sì, ma il suo viril orgoglio mi sa di
no.”
Avevano ben da narrare i suoi fedeli compagni, come il Bayard, ospite
di una dama
bresciana e delle sue nubili figlie, si fosse comportato
cavallerescamente,
salvaguardando il loro onore e neppure
sfiorandole con un dito.
Anche
se avesse voluto, d’ora in avanti mai più avrebbe
potuto.
Almeno, pensava sconsolato
l’uomo nel
delirio degli oppiacei e della febbre, con
Blanche sono riuscito per fortuna a consumare in tempo.
La battaglia fu vinta dai Francesi, il Nemours vittorioso saccheggiava
la città
e Brescia perduta.
Ciononostante, un’unica soddisfazione si poté
prendere Venezia, mentre rivedeva
i suoi piani d’attacco, ossia di levare in futuro dai suoi
rapporti l’avverbio
“virilmente”, quando descriveva il furor guerriero
del Bayard in battaglia.
***
Curiosità: stando
ai biografi del Baiardo, a quanto parrebbe la ferita alla coscia
infertagli
durante l’assedio di Brescia equivalse sul serio al povero
Baiardo alla fine di
ogni gioia amorosa. Poi le versioni discordano,
c’è chi sostiene fosse stato a causa di una
picca e non una freccia.
Semperinfelix
dal canto suo di ciò è assai dubbiosa, per lei non si tratta che
di una gran balla e
che Baiardo “godette” dell’ottima sua
salute fino alla fine dei suoi giorni.
Se
avete in mente altri “Piero” dal destino assai
infelice, per
favore fatecelo sapere, siamo curiose!
|
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Capitolo 2 *** Il Colloquio di Lavoro ***
Cogliamo
l’occasione per ringraziare i gentilissimi recensori
Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito la prima novella.
Procediamo
dunque con la seconda e buona lettura,
***
Il
Colloquio di Lavoro
Laddove
anche il più grande genio rinascimentale sperimentando le
delizie della
disoccupazione e non esistendo all’epoca la cassa
integrazione, per scampare a
fame e creditori dovette affrontare l’orrido supplizio del
colloquio di lavoro.
Noi ci
s’immagina dunque come Leonardo da Vinci riuscì a
strappare a Ludovico il Moro un
contratto a tempo indeterminato, ché alla fine, non contano
solo i meriti bensì
dire la cosa giusta al momento giusto.
“Avanti
il prossimo!”
Leonardo da Vinci s'alzò trepidante dall'ottomana su cui era
stato lasciato ad
attendere in corridoio e stringendo sotto il braccio il suo taccuino
pieno di
scarabocchi s'inoltrò nello studio del duca, pronto al
debutto.
Il Moro stava seduto dietro la solida scrivania di mogano al centro
della
stanza; alla sua destra il segretario, Bartolomeo Calco, scorreva
rapido la
penna sulla carta, appuntando la sua entrata.
“Nome”, gli chiese secco.
“Lionardo di messer Piero da Vinci”, gli rispose
quello, sollevandosi sulle
punte.
“Ah, Fiorenzino! Benissimo, messere!”
esclamò ilare il Moro, non nascondendo un
sorrisetto malizioso. I fiorentini, è risaputo, sono tutti
sodomiti, e i loro
figlioli tutti figli dei senesi e dei pisani, perciò non
avrebbe dovuto temere
che potesse insidiargli le amanti.
“Ditemi,
che sapete fare?”
“Ho appreso l'arte della musica, so suonare la lira e molti
altri portentosi
instrumenti. Saprò allietare cene e banchetti meglio di
qualunque delle vostre
amiche affettuose, signor duca”.
Ludovico picchiettò con due dita sul mento.
“Soltanto?”
“Conosco etianche l'arte della guerra, potrò
costruirvi macchine strepitose,
mai viste da uomo! Capaci di sputare più foco sugli inimici
che il drago di San
Zorzo, altre che lanceranno sassi e pietre a mille mila miglia di
distanza,
cascando in testa ai turchi infedeli, etiam navi capaci di navigare
senz'acqua,
carri che nessuna bombarda potrà distruggere ed altri che si
libreranno in volo
sugli inimici come leggiadri piccioni, bersagliandoli a piacimento.
Comprendo
il linguaggio di cavalli e di ogni bestiola, di modo che potrete
conoscere i
piani del nemico ancor prima che vi si appressi. So prosciugare i mari,
invertire il corso di fiumi e torrenti, spostare colli e montagne o
anche
aprire valichi alpini, e all'occorrenza spegnere e accendere il sole.
Inoltre,
se lo vorrete, scaverò gallerie sotterrane sì
lunghe da sbucare nello ninferno,
onde potrete essere il primo uomo a indire una crociata contro Satan
medesmo,
ingraziandovi il Papa”.
Questo è scoppiato, fu il
primo
pensiero del duca, ma disse piuttosto “Mmmh,
nient'altro?”
“Sono anche artista eccellentissimo, so dipingere e scolpire
in ogni modo e
manera, ancora si potrà dare compimento alla statua equestre
del gloriosissimo
duca Francesco Sforza, vostro defunto padre, ad eterno onore della sua
felice
memoria e del nome dell'inclita casa Sforzesca”.
“Va bene, signor da Vincio”, Ludovico congiunse le
mani, perforandolo con lo
sguardo, “le faremo sapere”.
Leonardo salutò mortificato e col morale alle stalle si
diresse alla porta,
ormai convinto che non l'avrebbe mai assunto e che sarebbe dovuto
tornare a
Firenze dal Medici, a morire di fame nella speranza che gli desse una
commissione. Aveva già la mano posata sulla maniglia, quando
improvvisamente
ricordò che solo una cosa il Moro amava più dei
cefali e della potta: la sua
vigna.
Si rigirò verso lor signorie e sorridendo esclamò
“O duca, vi annaffio
l'orticello!”
Ludovico s'alzò di botto dalla scranna, per modo che la
scrivania volò avanti
di tre metri, sfondando la parete, mentre il povero Calco, rimasto con
la penna
a mezz'aria, ebbe la pellanda nuova di sartoria macchiata
dall'inchiostro che
gli gocciolava addosso.
“Messer
da Vincio!” gli gridò il duca, puntandogli il
grosso
indice contro, “siete assunto!”
***
Curiosità: il colloquio
ovviamente è di fantasia! Però la disperazione di
Da Vinci per ottenere un
ingaggio dopo due anni d’inattività e
pure una querela per un dipinto fatto “male”,
quella no, purtroppo essa era
assai veritiera …
Anche la
passione del Moro per il pesce (cefalo), le belle donne
(potta) e l’orticoltura corrispondono al vero. Leonardo sul
serio si ritrovò ad
annaffiare la Sforzesca a Vigevano, rendendo fertili quelle terre
aride, e
Ludovico lo ricompensò regalandogli una sua vigna personale.
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Capitolo 3 *** Nobil domino mio, il catalogo è questo … ***
Non
possiamo finire di ringraziare i
gentilissimi recensori Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito
anche la seconda
novella.
Ringraziamo
l’immensa e immortale collaborazione
dei magnifici messeri Da Ponte e Mozart, per
averci fornito lo spunto.
Procediamo
dunque con la terza e buona
lettura,
Hoel e
Semperinfelix
***
Nobil
domino mio, il catalogo è questo …
Laddove si venne in discorso su come
all’uomo di natura geloso sia
sconsigliabile sposare una donna non soltanto vedova, ma più
ricca e potente di
lui e come nel matrimonio, talvolta, esigere totale sincerità
possa rivelarsi
controproducente.
Naimerio
di Breganze irruppe nella stanza
della moglie, madonna Cunizza da Romano, la quale neppure gli diede la
soddisfazione di trasalire, anzi pure lo fissò scocciata
mentre la sua dama di
compagnia, Agnese di Monselice, le sistemava il velo di seta sulle
ormai
candide trecce adornate di nastri d’oro e perle.
Malgrado
la collera montante, l’uomo non poté
non vacillare dinanzi alla bellezza sensuale e ammaliante della moglie,
dei
suoi occhi grandi ed espressivi, del suo corpo ancora snello e il seno
miracolosamente sodo ed eretto, pur avendo ormai quaranta e passa anni.
Forse per
questo gli era salita una bile non
verde, bensì nera alla scoperta di come ella avesse usato il
pretesto dei
giochi del Castello d'Amore, per “laudare et
accarezzare” (così gli era stato
riferito) dieci giovani nobili ospiti, ossia tre vicentini, due
veronesi, due
feltrini, due bellunesi e persino, massimo scorno, un veneziano.
Tutti - aggiungevano maliziosi i
suoi informatori- ritornati
presso le rispettive città mirabilmente
soddisfatti dell’ospitalità dei da Romano.
“Che
desiderate ancora?”
“Voglio
spiegazioni! Con che coraggio osate mostrarvi
così impunemente in pubblico e a corte e persino prendete la
Santa Comunione,
dopo aver compiuto un sì nero misfatto?”
“Quale
misfatto?”, corrugò disorientata la
fronte Cunizza. Poi, ricordandosi, esclamò scrollando
incurante le spalle: “Oh,
in quanto a quello, ebbi le mie ragioni. È vero, madonna
Agnese?”
“È
vero, e che ragioni forti!”, ridacchiò
perfida la dama di compagnia.
Al che
Naimerio vide rosso. “E quali sono, sentiamo,
se non la vostra perfidia, la vostra leggerezza? Ma Iddio volle ch'io
scoprissi
le vostre iniquità, per far la Sua e la mia giusta
vendetta!”
La
sorella d’Ezzelino da Romano il Terribile,
padrone assoluto di Belluno, Feltre, Padova, Verona e Vicenza e sorella
di
Alberico da Romano signore di Treviso, rise talmente forte da
sconquassarsi il
petto formoso e profumato.
“Ma
sentitelo! Si crede il predicatore fra’
Domenico a Bologna!”
“Negate
d’aver fornicato con quei dieci
nobili?” e appurato come la moglie neanche si premurasse di
smentire né di
protestare la sua modestia, ruggì invasato:
“Scellerata, fedifraga, gran meretrice!
Vi ripudierò e vi farò frustare sulla pubblica
piazza!”
“Eh
via, consolatevi! Non siete voi, non
foste e non sarete né il primo, né l'ultimo a
condividere il tempo più giocondo
con me.”
Naimerio
di Breganze avvertì un doloroso
crampo allo stomaco. Adesso che ci ripensava, quei sorrisetti divertiti
il
giorno delle sue nozze, i bisbigli, quell’insistente puntare
le dita … “No”, ansimò
fremente d’ira, “non è vero,
non può
essere!”
“Se
non credete alle mie parole, crederete a quanto
v’esporrà la mia dolcissima e sincera amica.
Avanti, madonna Agnese,
raccontategli un poco!”
“Che
debbo dirgli, domina?”
“Tutto!”
“Ma
proprio tutto?”
“Esige
sincerità? Che sia accontentato! Digli
pur tutto e che poi vada con Dio così da lasciarmi
finalmente in pace.”
Madonna
Agnese, sospirando, estrasse da un
cassettone un pingue libro d’assai semplice aspetto.
“Nobil domino mio, se mi
concedete qualche istante, vorrei leggervi qualcosa. Non si tratta
né di una
Bibbia né di un Parzifal; né di un Erec ed Enide
né di poesie d’amor cortese, sebbene
sempre di “virili” imprese e
amor si
narra.”
“Poche
storie, vieni al dunque!”
Schiarendosi
la gola, la nobildonna incominciò
con enfasi: “Nobil domino mio, il catalogo è
questo di tutti gli homeni amati dalla
magnifica domina Cunizza, un catalogo modestamente da me curato da
ch’ella
aveva tredici anni. Ascoltate, anzi meglio ancora: sedete meco e
leggete con
me!”, lo incoraggiò, sistemando il libro sul
leggio e al povero Naimerio,
solamente alla vista della fittissima lista, venne un violento
capogiro,
costringendolo a sedersi.
“A
Verona ne amò seicentoquaranta; a Vicenza,
duecentotrentuno; cento a Padova e a Belluno novantuno ma a Treviso
… eh, a
Treviso siamo oltre milletré!”
Il
nobiluomo vicentino vacillava ora tra la
voglia di strangolare la moglie e strangolare se stesso, per esser
stato tanto
stolto nella sua ambizione d’aver fin troppo prontamente
accettato la proposta
di Ezzelino d’accasarsi con la vedova sorella.
“V’han
fra questi contadini, cavalieri,
cittadini …”
Naimerio
maledì il giorno in cui aveva
imparato a leggere, riconoscendo in quell’infernal lista i
nomi dei suoi
concittadini; dei membri delle Corporazioni assieme alla Cancelleria di
Treviso
al gran completo, capitanati da Enrico da Bonio – cor meum dilectissimus più
volte cerchiato; gente che conosceva da
una vita e perfino amici suoi carissimi e … e
c’era pure suo fratello Raimondo?
“…
v’han fra questi monaci, vescovi e trovatori
…”
D’accordo,
passasse per Sordello da Goito che
si sapeva ormai da qua fino ad Ais de
Provença, ma includere nei suoi spassi
adulterini anche i religiosi?
Guarda,
guarda te un po’ quello stramaledetto
del suo confessore, che mentre gli predicava l’astinenza e
gli ordinava
penitenze, gli teneva caldo il letto trastullandosi con la mogliera!
Quasi,
quasi abbracciava il catarismo assieme
al cognato Ezzelino!
“…
v’han fra questi conti, baroni, marchesi …
”
Rizzardo
da San Bonifacio signore di Verona
(comprensibile, l’era stato il marito) e per la par condicio
ogni suo parente
maschio, dai quattordici ai sessant’anni; conti, baroni e
signori di Baone,
Lendinara, Prata di Pordenone, Cavaso del Tomba, Egna; nobiluomini di
Bassano,
di Oderzo, di Feltre; amici dei parenti toscani di Mangona; patrizi
veneziani giunti
in veste di Podestà; un Visconti che passava di visita e
pure il marchese
Rinaldo d’Este, il marito di sua nipote Adelaide da Romano
… Cum eis
iacebam …
“
… principi e re …”
Enzo di
Hohenstaufen (cosa significava quel bis
terque accanto al suo nome?) e … e
Federico suo padre? Alla faccia del “vo ad uccellare con
l’Imperatore!”
“…
come avrete capito, v’è qui una gran
varietà
d’homeni d’ogni grado, d’ogni forma e
d’ogni età!”
A onor
del vero faceva uno strano effetto
leggere il nome dell’Imperatore associato a rigo a capo ad un
anonimo mugnaio
trevigiano …
Incurante
del crescente malessere di Naimerio,
madonna Agnese proseguì imperterrita: “Al biondo,
la mia domina è solita
lodargli la nobiltà e la cortesia … Al bruno, la
costanza e l’intraprendenza …
Al rosso, l’arguzia e la passionalità
…”
Naimerio
conficcò le unghie sulle ginocchia
mentre la moglie lo osservava compiaciuta, un sorriso sulfureo sulla
bocca
vermiglia e mai venne sottolineata abbastanza la somiglianza col
crudele suo fratello
Ezzelino, come in quel momento.
“D’inverno
li preferisce robusti e muscolosi;
d’estate invece agili e snelli. L’homo grande e
grosso lo vuole per sentirsi
protetta e vezzeggiata; quello più sottile e flessuoso per
coccolarselo e
insieme provar nuove cavalcature.”
Il
nobiluomo vicentino si portò una mano alla
bocca, sentendosi veramente male anche perché la sua mente
lo beffava
applicando i volti di parenti, amici e conoscenti a tutte quelle
cosette
amorose, che solo lui credeva condividere con madonna Cunizza nel
segreto del
talamo nuziale.
“Non
disdegna i vecchi, specie se ancora
gagliardi, ma questo più per sua personale soddisfazione
d’aggiungere anch’essi
in lista”, gli confidò la dama di compagnia, come
se al disperato Naimerio
facesse alcuna differenza. “Ma …” e qui
il sorriso di madonna Agnese assunse
una piega cospiratrice che non gli piacque affatto. “Ma la
passione
predominante della mia domina, è d’iniziar il
giovin cavaliere principiante!”
“Che
cos --?” , ululò l’uomo, spalancando
incredulo la bocca e cascando quasi dalla sedia.
Tutti i
figli cadetti che gli inviavano le
famiglie onde ricevere l’investitura … tutti quei
giovani anche fin
troppo entusiasti di servire e combattere
per la causa dei da Romano … A chi, in ginocchio, avevano
veramente prestato fedeltà?
“La
mia domina non si cura se i suoi homeni
siano nobili o plebei; se siano giovani o vecchi; se siano brutti o
belli, purché
non siano … ”, e chiuse teatralmente il libro
sotto il naso dello sbigottito
Naimerio “… i suoi fratelli.”
Cunizza
da Romano batté divertita le mani e
la nobildonna s’inchinò.
“Ora
che sapete ciò che faccio”, si alzò poi
la tremenda, anguillando flessuosa verso il marito. “Mettevi
il cuore in pace e
non molestatemi più con le vostre gelosie e vedrete che
vivremo contenti.
Inoltre”, aggiunse, gli occhi due pozzi neri di pura bragia
che avrebbero
spaventato l’istesso demonio, “chiamatemi ancora
meretrice o minacciatemi con
la pubblica gogna o il ripudio e v’assicuro che mio fratello
vi farà sentir le
sue” e detto questo, gli diede la mano ché era
giunta l’ora di scendere a
presenziare ai Vespri.
Naimerio
di Breganze, livido e sconfitto, non
contemplò altra soluzione se non d’accettare e
fingere: d’altronde, meglio vivo
e cornuto che vivo sì, ma senza naso, orecchie, lingua,
occhi, mani e viril
orgoglio come soleva punire Ezzelino i suoi nemici e chiunque osasse
mostrar la
benché minima forma di scortesia nei confronti della sua
dolcissima, bellissima
e virtuosissima (in letto) sorellina.
Amen.
***
Curiosita’: ovviamente questa è tutta
un’esagerazione,
per la gioia di Naimerio (Semperinfelix si è doluta un
po’ per lui, mi sa). La teoria qua è che le vedove la sappiano troppo lunga per lasciarsi dominare così facilmente, anzi, pretendono il doppio!
Cunizza
da Romano – altresì nota come la
figlia di Venere – però aveva sul serio tra i
trovatori e in tutto il Veneto questa
gran fama di donna indipendente e libertina, collezionando ben tre
mariti,
numerosi amanti (Federico II ed Enzo è
un’invenzione nostra, sebbene … forse …
magari … )e scandalizzando i contemporanei con la sua fuga
dal marito Rizzardo
di San Bonifacio col trovatore Sordello da Goito e soprattutto per aver
convissuto per quindici anni con Enrico da Bonio, uomo più
giovane di lei, già
sposato e con prole!
Certo,
Cunizza se la godette assai ma molto
su di lei è stato anche gonfiato, colpa della propaganda
guelfa e di quella
vecchia pettegola di Salimbene di Adam, che la dipinsero alla stregua
di una
lupa mangia-uomini.
Dante,
invece, la collocò nel Paradiso e
questo perché, secondo un ragionamento tra noi due, la
Cunizza conosciuta dal
Sommo oramai era una signora anziana dedita ad opere di
carità, pentita e
redenta dal suo passato … pittoresco. Inoltre, caduti e
trucidati i da Romano e
costretta all’esilio, ella deve aver suscitato nel Dante
esule (molti anni più
avanti) un sentimento d’affinità nella disgrazia,
specie quando nel suo lungo
girovagare Dante passò anche per Treviso e Verona
là dove Cunizza era vissuta.
Ultima
cosa, vi consigliamo di ascoltare
l’aria “Madamina il catalogo e’
questo”, dal “Don Giovanni” di Mozart e
libretto di Da Ponte, fonte di ispirazione su cui abbiamo impostato la
novellina. Semperinfelix avrebbe preferito applicarlo a Francesco
Sforza –
effettivamente è la storia della sua vita – ma
siccome Hoel è bastian
contrario, ha preferito rigirarlo in chiave femminile così
anche per far sentire
in colpa il lettore, se ha pensato commenti non molto galanti su
Cunizza.
Perché
se un uomo va con tante, è virile. Se lo
fa una donna, cos’è? (Una vacca, rispose Semperinfelix di conseguenza / Sia isso che issa son vacche, ribatte Hoel)
Un po’ di latinus maccheronicus:
cor meum dilectissimus = cuor mio dilettissimo.
Cum eis iacebam = con loro giacqui.
bis terque =
ripetutamente.
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Capitolo 4 *** Scacco al … Duca! ***
Cogliamo
l’occasione per ringraziare il gentilissimo recensore
Alessandroago_94, per aver recensito la terza novella.
Procediamo
dunque con alla quarta e buona lettura,
***
Scacco
al … Duca!
Laddove si
fantasticava su come Ludovico avesse potuto in maniera differente e
meno
sanguinosa chiudere – letteralmente – la partita
con l’Orléans. Ovviamente, a
pagarne le conseguenze è la sua dolce metà.
Come nei
tempi remoti erano soliti certi greci poco assennati
giocarsi città e stati in più o meno dubbie gare
di eloquenza, sì pare almeno,
così anche il Moro e il re di Francia decisero, per
risolvere una volta e per
tutte la decennale contesa sul ducato di Milano senza sperpero di
denaro, di
disputarsi lo stato a scacchi.
L'Orléans aveva in verità inizialmente proposto
un duello ad armi pari come da
prassi, ma Ludovico, essendo totalmente negato con la spada, aveva
optato per
un metodo meno drastico. Si era dunque recato in Savoia, terreno
neutrale, ove
incontratosi col re disputò la sua partita, forse dimentico
di quanto denaro
avesse perduto da giovine col fratello Galeazzo, a carte, a dadi o a
qualsivoglia gioco.
Scelta pessima fra le pessime, poiché Ludovico, come sempre
sfigato in ogni
cosa che manco sua madre alla nascita l'avesse nomato Piero, perdette
la
partita e lo stato e la dignità. Il re, seduto con lui al
tavolo da gioco,
sorridendo gli disse: “Tranquillo, mio Moro, se non vuoi
darmi lo stato, allora
dammi tua moglie e la guerra finisce qui.”
“Giammai!”, rifiutò
il Moro indignato.
La sua amata Beatrice, la luce dei suoi occhi, non l'avrebbe condivisa
mai e
poi mai con nessuno, men che meno con quel francesino altezzoso,
neppure per
tutto l'oro del mondo!
“ Allora dammi il tuo deretano!”
(To', non
solo francese sto qui, pensò quegli in quel mentre, ma
florenzer per giunta! Avesse Iddio pietà della sua
virtù!)
Poiché il duca lo fissava allucinato, l'Orleans si
sentì in dovere di giustificarsi:
“E che c'è di strano mai? Sono un uomo semplice
io, mi basta un pertugio.”
“Va bene!”, s'arrese alfine il duca, lo cui pavento
per siffatte insane voglie
assai ben sollecito d'improvviso l'avia reso, “prendi mia
moglie!”
Risolta a questo modo la questione della guerra, e cioè nel
più vile, il duca
si preparò a tornare a Milano onde affrontare la belva. I
guai vennero proprio
allora, allorché dovette mettere a parte la moglie
dell'accordo che a sua
insaputa aveva stretto per salvarsi le chiappe.
“NON SE NE PARLA PROPRIO!” Beatrice
s'aggirava furibonda per le sue camere della Rocchetta, sbattendogli in
faccia
tutte le porte una dopo l'altra, mentre il marito le veniva dietro con
una
faccia da cane bastonato.
“Beatrice, dai ...”, la supplicò
più volte, tendendo ver lei le braccia,
“è
solo una scopatina ... che vuoi che sia?”
“TU SEI CRETINO!”
“Eddai ... è francese, manco te ne accorgi, un
minuto, due massimo e ha già
finito.”
“NO!”
“E se facessimo una cosa a tre, tu io e lui?”
“HO DETTO NO!”
“E se si aggiunge anche la Tremoglia?”
“La Tremoglia?” Beatrice improvvisamente si
placò, fermando i propri passi.
Certo, però, che la Tremoglia era proprio un bell'omo,
piacente e gioviale,
quasi quasi cominciava a farci un pensierino. “Mmmh, non lo
so …”
Ludovico, scorgendo in lei qualche segno di cedimento,
aumentò la sua offerta: “La
Tremoglia e Baiardo?”
“Oh! Baiardo!?” Alla duchessa s'illuminarono
gl'occhi, nell'udire quel nome. Al
bel Baiardo, cavaliere prode e valoroso, paladino delle donne e dei
deboli,
l'unico Piero al mondo che potesse vantarsi (forse) di non essere
sfigato, non
avrebbe mai potuto dir di no! Il duro, però, era persuadere
lui a concedersi …
Agguantò il marito per un braccio e quasi glielo
staccò nel modo di trascinarlo
avanti, gridando “Dove sta? Che aspetti!? ANDIAMO!”
***
Curiosità:
pace
alla buon’anima del prode Francesco Sforza, se Ludovico non
fosse stato il suo
ritratto sputato, di certo colui che con la mera forza dei suoi lombi
aveva
popolato metà della Lombardia, qualche domanda sulla
fedeltà della mogliera
Bianca Maria Visconti se la sarebbe fatta. Oltre a non essere un grande
amante
della scrima e in generale della guerra, il buon Ludovico era veramente
sfortunato nel gioco a giudicare dai debiti contratti col fratello
Galeazzo
Maria. Se non fosse stato per i soldi di mamma Visconti, il Moro sul
serio si
riduceva a zappare la terra (non che se ne sarebbe doluto,
però …)
Quanto a
Beatrice d’Este, rassicuriamo i lettori che lì
abbiamo
giocato noi di fantasia, anche in presenza di due bell’omeni
come la Tremoille e
Bayard dubitiamo assai che lei avrebbe mai tradito il marito.
Ad ogni
modo il leale Bayard non avrebbe acconsentito a tal turpe
negozio, aveva la testa assai piena di … Blaaaaanche!
|
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Capitolo 5 *** Versione di Latino ***
Non
possiamo finire di ringraziare i gentilissimi recensori
Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito anche la quarta novella.
Quanto
state per leggere è venuto in mente ad Hoel per tirar un
po’
su di morale Semperinfelix.
Procediamo
dunque con la quinta e buona lettura,
Hoel e
Semperinfelix
***
Versione di
Latino
Laddove si
vuol dimostrare come una versione di latino, tradotta letteralmente a
senso o
peggio ancor a caso, possa portare a conseguenze ben più gravi
di un brutto voto.
Isabella
di Francia, figliola del fu Filippo il Bello e madre del
giovane re Edoardo III Plantageneto, si torceva le dita assieme al suo
amante Lord
Roger Mortimer.
Dal
Castello di Berkeley, nel Gloucestershire, da ben cinque mesi
se ne stava prigioniero il marito suo e deposto re
d’Inghilterra, Edoardo II,
che malgrado i trattamenti non esattamente di favore dei suoi
“custodi” i
baroni Lord Thomas Berkeley e Lord John Maltravers, proprio non ne
voleva
sapere di crepare, venendole incontro. Infatti, fintanto che il previo
re
rimaneva in vita, una qualsiasi insurrezione poteva rovesciare
l’ancor traballante
governo del giovane suo figliolo.
“Insomma”,
sbottò un giorno Lord Mortimer dinanzi
all’ennesima
missiva in cui lo si informava dell’eccellente salute
dell’ex-re, “lo abbiamo
esposto alle correnti gelide del castello; messo nelle stanze
più fredde dopo
avergli lanciato secchiate d’acqua; ridotto i pasti ad uno
solo al giorno;
lasciato da cinque mesi con le stesse mutande e camicia; sputato
catarro nella
birra; gli abbiamo messo le cimici e pulci nel letto e per settimane
non gli
abbiamo cambiato il pitale … E seguita tuttora a
respirare?”
Isabella
non seppe cosa ribattere.
“Sul
serio, perché non lo accoppiamo e basta? Un ordine e uno dei
miei uomini va, lo getta dalla finestra e torna. Facile! Che vuoi che
sia?”
“No!”,
s’impuntò la donna. “Resta
comunque un re unto dal Signore!
Sarebbe sacrilegio ucciderlo!” e prima che un esasperato
Mortimer potesse
controargomentare su tali quisquiglie, ella proseguì furba:
“Ci sono ordini,
per cui uno non può essere considerato responsabile. La
volontà di Dio si
manifesterà nella comprensione di colui che
riceverà questa lettera.”
E detto
questo si mise a scrivere.
“Eduardum occidere nolite
timere bonum est”, srotolò il messaggio
il barone Lord John Maltravers. E
rivolto al castellano Lord Thomas Berkeley: “Ma è
uno scherzo questo?”
L’uomo,
guarda caso genero di Lord Mortimer, lesse dapprima con
sufficienza la frase, per poi sbiancare peggio di un panno sbattuto.
“Ehm …”,
farfugliò, la gola d’un tratto secca.
“Penso sia … Non
uccidete Edoardo, bisogna avere paura?”
Silenzio.
“Potrei
sapere quale idiota t’ha insegnato il latino? Per non
parlare della traduzione, manco senso compiuto!”,
schioccò Lord Maltravers la
lingua in disapprovazione. “Dai!”
Lord
Berkeley si gonfiò peggio d’un rospo, piccato.
“Avanti,
traduci tu se sei così bravo!”
“Facile:
Non temete di
uccidere Edoardo, è cosa buona!”
“Puoah,
tutto sbagliato!”, s’intestardì il
dileggiato.
“E
invece no!”
“E
invece sì!”
“Sancte
Georgi adiuva me!”, allargò in alto le braccia
Lord Maltravers.
“Allora, analizziamo: Eduardum
/occidere /nolite
/ timere/ bonum est ovvero: Edoardo / uccidere/ non / aver
paura / buono è.
Rigiri un po’ la frase per renderla più
fluida ed ecco la traduzione: Non temete
di uccidere Edoardo, è cosa buona!”
Lord
Berkeley, ostinato, scosse il capo e pigliando di malagrazia
il messaggio, puntò i verbi sotto al naso
dell’erudito cialtrone: “E se fosse,
scusa, Edoardo non uccidere, aver paura
buono è?”
“Ma
come diavolo parli?”
“Citandoti:
poi la rigiri!”, gli fece il verso il barone.
“A
me stanno rigirando gli zebedei, sai?”, sbottò
Lord Maltrevers e
preso un profondo respiro, imponendosi di
non prenderlo a schiaffi gli delucidò: “In latino,
un divieto è formato
dall’infinito! Ci siamo? Occidere e timere sono
ambedue infiniti. Se
interpretiamo nolite associato o a occidere o a timere,
rispettivamente tradotti “non uccidere” o “non aver
paura”. Nel primo caso, timere
allora andrà con bonum est,
“è buono aver paura, non
uccidere”; nel secondo caso
bonum est starebbe da solo e
verrebbe
tradotto con “E’ buono non aver paura,
uccidere!” Non mi par così difficile
…”
Il barone
di Berkeley, incrociate le braccia al petto, fissò a
lungo il suo pari. “Lo sai”, dichiarò
infine, “che ti sei appena contraddetto?”
“Mi
pigli per i fondelli? Ti prendo a pedate!”,
sputacchiò
indignato Lord Maltrevers, guardando prima l’uomo poi la
frase e ancora il
ghignante barone suo amico. Deglutì malamente. “Ma
… no! Non mi sono
contraddetto! Ho solo affermato che potrebbe
esserci un’altra interpretazione …”
“Ed
io che ho detto finora?!”, ruggì spaventosamente
Lord Berkeley,
strappandosi quasi i capelli. “M’ascoltassi mai
quando parlo!”
“Eh,
oh, non mettiamola sul personale, ora!”, alzò in
alto le mani
Lord Maltrevers, tirandosi fuori dai patemi del collega, il quale,
partito
ormai per la tangente e perduta la flemma inglese, sbraitò
esagitato:
“Sempre
di testa tua, fai! E mentre gli altri baroni o sgavazzano
a Londra o a casa con la mogliera, noi che facciamo? A far da balie al
previo
re! A far traduzioni di latino!”
“E
vabbè, dai! Cinque sterline al giorno, ti
lamenti?”, tentò di
negoziare Lord Maltrevers.
“Accodiamoci all’insurrezione
della Regina e del Principe di Galles! Vox populi vox Dei! Abbasso
Edoardo,
viva Edoardo! Dai che sarà divertente! Perché
ti ho ascoltato, dannazione?”,
continuò Lord Berkeley nel suo j’accuse contro
l’amico, degenerando la
situazione nel grottesco. “Perché non mi son fatto
i cazzi miei?”
“Scusa,
parlando di cazzi, te la prendi con me
se tuo suocero
si scopa la Regina e quella per meglio sollazzare ha
voluto deporre il marito, mettendo uno sbarbatello sul
trono?”, puntualizzò
Lord Maltrevers.
Lord
Thomas Berkeley, sconfitto su quell’inoppugnabile
verità, si
accasciò sconsolato sulla sedia, il volto tra le mani.
“Odio il latino”,
piagnucolò affranto.
“Suvvia”,
gli cinse conciliante Lord John Maltrevers le spalle.
“Non è niente, dai, capita anche ai migliori!
Basta perdersi una virg - … Oh,
cazzo”, si portò una mano alla bocca, dopo
essergli caduto l’occhio casualmente
sul messaggio.
Lord
Berkeley alzò il viso, tirando su col naso. “Che
c’è?”,
inquisì preoccupato.
“Non
c’è la virgola.”
“Ah,
no?”
“No”,
gli indicò trasognato Lord Maltrevers la frase e
l’altro
barone rimase a fissarla inebetito per qualche pingue istante,
realizzando in
un misto tra sdegno e sollievo:
“Per
questo non riusciamo a convenire su di un’unica traduzione
…
E’ la frase che è ambigua, non noi che siamo
ignoranti!” Deo gratias, il suo
onore era salvo!
“Ecco
…”, tentennò ostinato Lord Maltrers,
“a onor del vero, la
mia ha più senso.”
“Anche
la mia, se è per quello.”
“La
mia di più.”
“Tu
vuoi uccidere un re unto dal Signore!”
“Un
re deposto.”
“Sempre
unto è.”
“Sì,
di sudore. Son mesi che non si lava …”
I due
sospirarono profondamente, schioccando la lingua e
grattandosi indecisi la barba. Che fare? Nulla, secondo le migliori
tradizioni
inglesi? Chiamare un chierico? Bruciare il messaggio? Fingere di non
averlo mai
ricevuto? Un bell’inghippo!
Quand’ecco
che la divina ispirazione illuminò la mente confusa e
stanca di Lord Berkeley, il quale decise di risolvere la questione con
l’unico
metodo efficace a questo mondo, quando la logica e la conoscenza
falliscono
l’uomo:
“Testa
- la mia traduzione; croce - la tua?”
“Andata!”
E fu
così, per una traduzione letteralmente affidata al caso, che
in data 21 settembre 1327 la regina Isabella divenne ufficialmente
vedova.
***
Curiosità:
cinque
sterline erano assai, basti
pensare che
a fine del XIX secolo corrispondevano a 300 sterline attuali!
Questa
famosa frase in latino è in realtà un falso
storico e
proviene dall’opera
teatrale “Edward II”
di Christopher Marlowe, a sua volta ispirato ad un bizzarro caso
giudiziario in
Ungheria, e l’avrebbe detta tal Adam d’Orleton,
carceriere e sicario d’Isabella,
che uccise malamente Edoardo ficcandogli un attizzatoio rovente nel
didietro,
contrappasso dantesco per il suo esser stato florenzer.
La cosa
curiosa è che anche questo sarebbe un falso storico, come
Edoardo II sia morto non si sa proprio, tutto deriva da leggende e
congetture
post-mortem e damnatio memoriae su Isabella e Mortimer; addirittura di
recente
gli storici sosterebbero che il re non sia proprio morto nel 1327,
bensì
liberato da un’Isabella coi sensi di colpa ed immigrato nel
SRI finendo i suoi
giorni da monaco eremita. Di più, per loro son tutte
illazioni come Edoardo fosse
stato florenzer, visto che quattro figlioli con Isabella li ha fatti e
ha avuto
pure un bastardo.
Verità?
Leggenda? Potrebbe essere ma anche no.
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Capitolo 6 *** Mannaggia a te, Niccolò! ***
Mille
ringraziamenti a Alessandroago_94 e Ardesis per aver recensito senza
stramazzare per terra dopo una versione a tradimento di latino.
Vi
auguriamo una buona lettura,
Hoel e
Semperinfelix
***
Mannaggia
a te, Niccolò!
Laddove un
valente condottiero invece di trovar la Bella Morte in campo di
battaglia,
perse la vita per chetare un suo pupillo assai molesto, dimentico degli
effetti
miracolosi dei più spicci sculaccioni.
Anno
Domini 1395
Il
giovanissimo Niccolò d'Este, come una fastidiosissima mosca,
continuava a ronzare attorno al suo caro amico Azzo da Castello, il
celebrato
capitano di ventura stipendiato dalla reggenza che governava Ferrara in
attesa
che Niccolò raggiungesse un età decente per fare
il marchese.
Il
dodicenne signore ammirava tantissimo quel capitano e non
perdeva mai occasione per sommergerlo di domande su domande.
“Azzo!
Azzo? Come si impugna correttamente uno spadone quando si è
in guerra?”, gli domandò, andandogli dietro e
tirandogli insistentemente la
manica della veste per convincerlo a dargli retta.
“Con
le mani Nicolò, con le mani lo devi impugnare”, gli rispose in fretta
quello, sperando che il
marmocchio si accontentasse e lo lasciasse in pace.
“E
come si dà la scalata alle mura di un castello? Eh Azzo? Tu
come la daresti Azzo? Eh?”
“Mannaggia
a te, Niccolò. Prendi scale e corde e ordini agli
uomini "tie' arrangiatevi", semplice no?”
Ma il
molesto ragazzino, non contento, gli si parò davanti,
costringendolo a fermarsi e proseguì a tartassarlo:
“E come me la cavo se un
nemico mi ha appena sbudellato il destriero? Eh, Azzo? Che
faccio?”
“Ossignore!”
esclamò l'uomo, portandosi una mano alla fronte.
Sicché,
poggiato un ginocchio in terra e accostate le mani alle spalle del
ragazzino,
gli propose: “Senti, se ti do una dimostrazione pratica di
come si combatte, mi
lasci in pace per una buona volta?”
E
poiché il marchese accettò con trepidazione, Azzo
da Castello
esclamò: “Andiamo, basta che taci, per l'amor del
cielo!” e lo portò alla
Delizia del Belvedere, dove il piccolo Niccolò, ansioso di
acquistare qualche
idea delle battaglie, poiché non ne aveva ancora veduta
nessuna, volle che quel
valente maestro assieme ad altri campioni ne rappresentasse una da
scherzo.
Ed il
giorno del torneo organizzato a tal fine giunse: Azzo formò
due squadre di armati con Antonio degli Obizzi e disposti in tal modo
iniziarono a dare battaglia, mentre il marchese applaudiva estatico,
non
perdendo di vista una sola mossa.
Ad un
certo punto però, la cavalcatura dell' Obizzo ebbe uno
scarto non calcolato e andò ad urtare con forza Azzo proprio
sul ginocchio
sinistro, già lesionato da una precedente ferita riportata
in battaglia ed il
condottiero cadde in terra con un grido di dolore.
E
Niccolò, che continuava a battere le mani divertito,
convintissimo che facesse parte della rappresentazione, gli
domandò: “Oh, Azzo?
E così che si muore quindi? Eh, Azzo? Azzo...?
Azzooo?”
Azzo
da Castello, ancora steso in terra dolorante, allungò una
mano verso il suo signore e stringendola come a volerlo strangolare a
distanza,
gridò: “Mannaggia a te,
Niccolò!”
E la
notte dopo il valente capitano, sopravvissuto a tante
battaglie autentiche, ebbe il destino di morire in una battagliola da
teatro.
***
Curiosità:
si
tratta di un fatto realmente accaduto, sebbene da noi estremizzato, e
non di un
aneddoto. Niccolò d’Este effettivamente aveva un
carattere un po' particolare,
tant'è vero che tre quarti della popolazione dell'Emilia
discendono da lui,
fama confermata dalla filastrocca: “di qua e di là
dal Po son tutti figli di
Niccolò”
Infine,
un minuto di silenzio per la buonanima di Azzo da
Castello.
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Capitolo 7 *** Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza ***
Ci scusiamo per la temporanea
sospensione della raccolta,
siamo ancora attive!
Cogliamo l’occasione per
ringraziare i gentilissimi recensori
Alessandroago_94 e Ardesis, per aver recensito la precedente novellina.
Avvertimenti: uso
smodato di un francese
maccheronico!
Vi auguriamo una buona lettura,
Hoel e Semperinfelix
***
Se non
fosse in disuso sarebbe un'usanza
Laddove si narra di come la
disarmante ovvietà del
maresciallo de La Palice sia riuscita a far digerire ai recalcitranti
soldati
un uso e costume assai bello ed eroico sulla carta, ma lercio e poco
pratico
nella realtà.
7 Ottobre 1511
Il maresciallo francese Jacques de
Chabannes de La Palisse
aveva condotto le sue fanterie sotto le mura di Treviso, a cui
conveniva porre
l'assedio. Da uomo savio e accorto qual era, tuttavia, aveva imparato
che prima
d'intraprendere qualsivoglia fatto d'arme conveniva far due cose: la
prima,
ringraziare il Signore Iddio e raccomandargli l'anima, la seconda,
ringraziare
la Madre Terra e pregarla che neppure per quel giorno prendesse il suo
sangue.
Pertanto, dopo essersi fatto il segno
della croce, rivolto
ai suoi uomini disse «Baciat la terre!
» Era
allora il terreno alquanto fangoso, poiché
non solo in quei giorni aveva piovuto a dirotto, ma per giunta il
provveditore
generale Gian Paolo Gradenigo aveva astutamente fatto allagare la
campagna,
onde rendergli più difficoltosa l'offensiva.
I soldati si ritrovarono pertanto con
l'acqua fino alle
caviglie, e molti di loro per giunta rimasero con una scarpa
sì ed una no,
poiché il terreno era divenuto risucchioso in certi punti.
Ora, benché i
francesi avessero fama di essere soldati rispettosi e franchi, quella
volta
proprio non vollero saperne di obbedire agli ordini del maresciallo.
«Ma
maresciall », protestarono, «dobbem
proprio? »
«
Bacier! Bacier! » ribadì nuovamente l'ordine La
Palisse.
«Nuuu,
maresciall, nuuu! »
«Bacier
vi diss! Et bacier! »
«Nuuu,
per carità, maresciall! »
Innervosito dalle lunghe resistenze,
La Palisse sfoderò la
spada e gliela puntò contro gridando «Bacier
o vi inculer! » Sicché
quelli subito, poco allettati dalla prospettiva, «Bacier!
Bacier! » deliberarono.
Oramai tuttavia al maresciallo, che
avendo sbattuto la
fronte nel pitale quella mattina era ancora parecchio delirante,
sfarfallava
nella testa ben altro ghiribizzo, pertanto «No!
»cambiò idea «mo
ve incul e ve incul! » Si credeva essere il poveretto, il
redivivo Francesco
Sforza.
Sicché, terrorizzati
all’idea, cadendo a
carponi come i maiali di Circe, i soldati baciarono
appunto alla
francese il terreno, qualcuno pur ingoiando qualche sfortunata rana
giusto per
confermare certe malignità culinarie con cui sovente i
francesi eran sfottuti.
Sogghignando perfido, La Palisse
rinfoderò la spada e
concluse che per i propri scopi è giusto minacciare un uomo
che non vuol esser
minacciato, specie di sodomia. Si credeva essere il poveretto, il
redivivo
Aristotele.
Signor, vi piaccia
udire
l'istoria di La
Palisse,
che vi potria far
gioire
purché la
vi divertisse.
El fu in vita poco
abbiente
per mostrar la sua
importanza,
e pur non mancogli
niente
quando fu
nell'abbondanza.
Notte e
dì saltava in tondo
e figliava come un
toro,
poiché
avea il capo biondo
non portava il crine
moro.
Il viaggiava
volentieri
scorrazzando pel
reame,
e quand'era a
Poitieri
non dormiva nel
letame.
Passò
l'Alpi da la Galia,
come volse il re
Luigi,
né se
pugnò in Italia
il
combatté a Parigi.
Trastullavasi in
battello
come in pace
così in guerra,
sempre giva per
ruscello
quando non
passò per terra.
Il bevea tutti i
mattini
el vin da la botte
buona,
se mangiava dai
vicini
il vi andava di
persona.
Quando si sentiva
casso
gradiva i cibi
teneri,
festeggiò
Martedì Grasso
la vigillia de le
Ceneri.
Coi suoi bei crini
chiari
pareva un faro al
molo
né
avrebbe avuto pari
se il fosse stato
solo.
Talenti n'ebbe
diversi
ma si è
certi d'una cosa:
quando scriveva in
versi
il non scriveva in
prosa.
Egli fu,
com'è contato,
ballerino assai
scadente,
né
avrebbe mai stonato
se il fusse stato
silente.
E la storia anco
vuole
che giamai
poté risolvre
di caricar le pistole
sanza aver avuto
polvre.
Morto fu de La
Palisse
morto fu inanzi a
Pavia,
ma poco pria che
morisse
l'era in vita
tuttavia.
Fu per triste sorte
giunto
da ferita assai
sleale:
si crede, poi che
è defunto,
che tal colpo fu
mortale.
Con lui
cascò dabbasso
la virtù
da Franza ambita,
e fu il
dì del suo trapasso
l'ultimo de la soa
vita.
(La
Chanson de La Palisse, Bernard de la Monnoye)
***
Curiosità: Nessun
francese è stato
sodomizzato in questa novellina.
Scherzi a parte, l’episodio
qui riportato, per quanto
esasperato, comunque cita un’usanza documentata dei Francesi
prima di
combattere.
È questa che avete letto
una nostra libera traduzione de La
Chanson de La Palisse di Bernard de la Monnoye. Poiché
infatti la canzonetta
merita, ma la traduzione fino a ieri disponibile non le rendeva
giustizia,
abbiamo deciso di tentarne una noi in rima seguendo lo schema di
ottenari e il
senso dell'originale, con l'aggiunta di due strofe (terza e quinta, per
il cui
contributo ringraziamo a proposito Hoel) e l'omissione dell'ultima, a
nostro
parere superflua. (Hoel aggiunge che Semperinfelix è fin
troppo modesta, a lei
va gran parte del merito di questo riadattamento.)
Si dice (Hoel lo dice) che il
maresciallo de La Palice fosse
solito uscirsene con affermazione assai scontate, da qui il significato
odierno
di lapalissiano. I Diarii di Marin Sanudo ne riportano alcune, tra cui
lo
stesso commento del maresciallo a fine dell’impresa di
Treviso. Sconfitto dai Veneziani, un rammaricato La
Palice infatti
affermerà: Questa città
è inespugnabile perché non può essere
presa con
l’assedio.
Altra ipotesi è che
l'origine dell'aggettivo derivi da una
errata interpretazione di una strofa composta alla sua morte:
«Hélas ! la
Palice est mort,
il est mort
devant Pavie ;
Hélas ! s'il
n'estoit pas mort,
il feroit encore
envie.»
la s antica
era infatti graficamente
identica alla f, e perciò i
posteri lessero seroit
al posto di feroit, ed en
vie al posto
di envie, di conseguenza dal significato
originale di se
non fosse morto, farebbe ancora invidia usciva fuori
un se non
fosse morto, sarebbe ancora in vita.
Jacques II de Chabannes de La Palice
(1470 -1525),
brevemente, fu maresciallo di Francia e uno dei
condottieri protagonisti delle Guerre
d’Italia, assieme a La
Tremoille, il Cavalier Baiardo, de Ligny, etc. a seguito di Carlo VIII
prima,
Luigi d’Orléans poi e per finir con Francesco I
anche perché, come gran parte
della nobiltà francese, ci lasciò le penne a
Pavia nel 1525.
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Capitolo 8 *** Kinzir! Kinzir! ***
Oggi festa di San Marco (oltre che
della Liberazione)
e pertanto questa novellina in onore del Santo e di come giunse a
Venezia.
(Qua Hoel ci ha messo di
più lo zampino di
Semperinfelix, comunque la sua benedizione ce l’abbiamo e
siamo contenti)
Cogliamo l’occasione per
ringraziare Alessandroago_94,
per aver recensito la precedente novellina.
Avvertimenti: uso
improprio di un tabù alimentare; per cortesia si tenga in
considerazione che
questo è avvenuto secoli addietro e che non
c’è alcuna intenzione di offendere
chicchessia.
Vi auguriamo buona lettura,
Hoel e Semperinfelix
***
Kinzir!
Kinzir!
Laddove
conoscere la debolezza dell’avversario, se ben sfruttata,
può portare a grandi
soddisfazioni.
Nell’autunno
dell’827 d.C. gli Aghlabidi erano partiti
alla conquista della Sicilia, ponendo Siracusa sotto assedio. Il
Basileus Leone
V immediatamente reagì inviando truppe e al contempo
chiedendo aiuto militare
al Doge Giustiniano Partecipazio che, conscio del prestigio che tale
impresa
avrebbe portato al Ducato, accettò di buon grado. Fu meno
contento quando
apprese del blocco dei commerci ai danni degli Arabi.
Delle dieci acazie salpate da Rivoalto
in aiuto dei
Romei, una di esse si staccò curiosamente dalle sue sorelle
per virare verso
Alessandria d’Egitto: era la San Nicola,
capitanata dai veterani
della battaglia di Albiola contro i Franchi, i tribuni Bon da Malamocco
e
Andrea “Rustico” da Torcello suo socio.
In apparenza contravvenendo agli
ordini sia del
Basileus sia del Doge Giustiniano Partecipazio, in
realtà da
quest’ultimo erano stati incaricati di una missione ben
precisa e di vitale
importanza: forzare le porte di una chiesa e compiere un furto.
Ché l’ambizioso
Ducato non voleva limitarsi a cambiare solo nome alla sua capitale da
Rivoalto
a Venezia, ma adesso aveva in programma pure di cambiare santo patrono.
E stavolta di prima categoria. San
Todaro, ti vogliam
bene, ma oggettivamente chi ti conosce?
“Quel gran furbone del
Patriarca di Aquileia si vanta
di possedere il trono di San Marco!”, aveva confidato loro il
Doge. “E noi ci
pigliamo San Marco stesso! Alla faccia sua e di quel puzzolente
dell’Imperatore
Lotario suo amico!” e, dinanzi alle giuste obiezioni dei due
tribuni circa i
perigli di quella missione, il Doge aveva aggiunto, col ritornello
oramai
consueto, la solita solfa di “gloria immortale” e
di “interessi superiori della
patria” e “se vi intercettano i Romei, io non so
un'emerita cippa, non c’entro
niente.”
Bon da Malamocco e Rustico da Torcello
erano dunque
partiti, decisi a riportare la spoglia imbalsamata del santo
evangelista Marco
nella neo-ribattezzata Venezia e bisognava dire che fino a quel momento
la
fortuna li aveva aiutati. Con la scusa di una tempesta mai avvenuta, i
due
mercanti (contrabbandieri) erano attraccati senza destar troppi
sospetti ad
Alessandria d’Egitto e, agganciati due monaci venali,
Saturanzio e Teodoro, con
moine, descrizioni apocalittiche e monete tintinnanti, Bon e Rustico li
avevano
convinti ad aprire loro le porte della chiesa. Scambiato il corpo del
Santo con
quello di una mummia qualsiasi di cui l’Egitto era gremito, i
due mercanti se
l’erano poi squagliata via, raggiungendo indisturbati il loro
fondaco.
Finché non sorse il
problema.
“Come facciamo coi
controlli?”, si sovvenne Rustico,
fissando il socio mentre sistemava la preziosa reliquia nella grande
cesta.
“Per via del blocco del Basileus, quelli ci controllano anche
dentro il cu- …”
Bon corrugò la fronte,
grattandosi la barba su cui
stavano comparendo i primi peli bianchi. “Forse ho la
soluzione”, disse dopo un
lungo silenzio. “Ti ricordi la prima volta che Elihu
salpò con noi?”
“Ciò! Per poco
non s’arrampicava sull’albero peggio
d’una scimmia alla vista dei … oh!”
“Esatto: oh!”
“Emilio! Giacomo!”
“Comandi!”
“Venite qua ed aiutatemi a
sistemare le ceste …”
Il giorno successivo al porto, come
anticipato dai due
veneziani, i doganieri arabi non appena li scorsero con le ceste
appresso li
fermarono. “As-salamu alaykum”, li salutarono
affettati ma guardinghi.
“Wa alaykumu s-salam,
così come la misericordia di Dio
e le sue benedizioni”, rispose con altrettanto garbo il
legato dogale Giuseppe
Basejo detto “Giusto”, mentre Bon e Rustico davano
indicazioni ai loro marinai
di appoggiare la merce per l’ispezione.
“Dove siete diretti,
fratelli?”
“A Venezia, amico
mio.”
“Col Basileus che ha
proibito ogni commercio con noi?”
Giusto Basejo sospirò
mesto. “Miseri noi, fu una
tempesta a dirottarci qui e il buon Dio nella Sua infinita
bontà a questo porto
ci condusse.”
Il doganiere arricciò la
bocca, poco convinto. “Chi è
il capitano?”
“Sono io”,
avanzò Bon da Malamocco. “E questi è il
primo ufficiale”, e indicò Rustico così
come gli altri membri dell’equipaggio:
il secondo ufficiale Pietro; i soldati Brutus detto
“Brutto” perché era proprio
brutto e Hubert de Gascoyne detto “Franco” - un
disertore dell’esercito di
Pipino Re d’Italia; Elihu ben Moishe e sua sorella Rebekah
ben Moishe,
rispettivamente medico di bordo e assistente e infine Giacomo, Emilio,
Nikos,
Medes e gli altri marinai, finché allo snervato doganiere
incominciò a sorgere
un gran mal di testa, essendosi ormai alzato il sole del meriggio e
ancora non
aveva concluso niente.
“Quindi non siete venuti per
commerciare?”, li incalzò
feroce.
“Nossignore!”,
esclamarono scandalizzati Basejo, Bon e
Rustico, levando le mani in alto. “Siamo venuti solo per
rifornirci!”
“E tutte quelle
ceste?”
“Carne, frutta e verdura per
il viaggio!”
“Sì, certo ed io
pure ci credo!”, ridacchiò sardonico
l’arabo. “Ché sperate forse di prendermi
per i fondelli? E’ risaputo come voi
Veneziani siate tutti una gran masnada di bugiardi e figli di mille
padri,
pronti a vendere la propria madre per profitto!”,
ruggì all’improvviso e i suoi
uomini sguainarono le spade minacciosi. “Cosa state tramando
voi col Basileus?
Siete spie? Cosa nascondete in quelle ceste? Vi faccio impiccare
tutti!”
“Calma, calma mio carissimo
amico!”, lo tranquillizzò
serafico Bon, scansando col dito la punta della lama puntatagli contro
il petto.
“Capiamo il vostro nervosismo e circospezione a causa del
Basileus e della
guerra a Siracusa. Ma noi non c’entriamo niente, lo giuro su
tua madre! Eravamo
diretti a Cipro e … e poffarbacco, una tempesta ci ha colti
impreparati
e c’ha sballottati fin qui! Insomma, un
uomo della tua sorte ben
dovrebbe sapere come l’autunno e l’inverno non
siano mesi buoni per la
navigazione e di come le tempeste infurino di continuo nel
Mediterraneo. O mi
fai ricredere sulle tue competenze?”
Punto sul vivo il doganiere non
osò ribattere.
“Allora, dai ordine di aprire le ceste così da
mostrarci la merce.”
Bon annuì
servizievolissimo. “Con tutto il piacere di
questo mondo … Giacomo! Emilio! Il mio amico vuole vedere
dentro le ceste!”
“Ma capitano! Ci abbiamo
messo l’intera mattinata a
sistemarle!”
“Si guasterà
tutto!”
“Basta voi due, canaglie
malnate, non ci troviamo qui
per far melina! Avete sentito l’ordine del
doganiere?”
Emilio e Giacomo, scambiatisi lunghi
sguardi,
scrollarono le spalle. “D’accordo, contento
lui”, borbottarono e tra sbuffi e
imprecazioni i coperchi vennero levati e i contenuti esposti agli occhi
curiosamente avidi dell’arabo, già pregustante lo
sbugiardamento dei Veneziani
e il loro consecutivo arresto.
“Oh”, si
sfregò le mani l’uomo. “Frutta,
dicevate? Ma
io qua vedo solo cavolfiori e … AAAAARRRGGHH!!”
“Sayyid! Che vi
succede?”, s’informarono preoccupati i
suoi soldati, accorrendo in soccorso del delirante doganiere che
roteava
impazzito su stesso, la mano sulla bocca e gli occhi fuori delle orbite.
Afferrate le ceste, la fonte della
perdita del senno
del loro superiore, gli Arabi vi guardarono dentro e il tanfo della
carne del
maiale li stordì in pieno.
“Argh! Kinzir!
Kinzir!”, gridarono terrorizzati,
nascondendo anch’essi le nari e la bocca e strofinando sulle
vesti le dita
venute malauguratamente in contatto con la carne impura.
“Kinzir! Kinzir!”
Fingendo confusione, Bon da Malamocco
estrasse la
testa del maiale e la sventolò perfido sotto il naso del
doganiere sofferente.
“Va’ che bello! Nikos! Apri le altre
ceste!”, ordinò al marinaio che tosto
s’adoprò per compiacere il suo capitano.
“No!”, lo
bloccò invece supplice l’arabo. “Ti
prego,
no!”
“Kinzir! Kinzir!”
“E no, ce le avete fatte
aprire e ora le
ispezionate!”, puntualizzò offeso Rustico da
Torcello. “Medes, a me il porco!
Portalo qua, così il doganiere vede e crede!”
“Kinzir! Kinzir!”
“Basta! Basta! Vi prendo in
parola! Purché
risigilliate quelle maledette ceste!”
“Kinzir! Kinzir!”
“Ma
perché?”, infierì il legato dogale
Basejo. “Non
capisco: prima ci dai dei bugiardi e non ti fidi se non controlli le
ceste; noi
ti esaudiamo e poi tu cambi idea così? Amico mio, che vuoi
da noi?”
Ricacciando indietro il vomito a viva
forza, il
doganiere berciò: “Che te ne vada
all’inferno! Tu e i tuoi compari! Liberami
immediatamente da quest’obbrobrio o non rispondo
più di me stesso! Ah, misero
me!”, guaì, sentendosi svenire nel frattanto che i
soldati, tenendo una mano
sul naso e l’altra sulla spada, davano il via libera ai
Veneziani d’imbarcarsi
sulla loro agile acazia a tre alberi.
I trafugatori della reliquia non se lo
fecero ripetere
due volte e rapidi come la morte salirono sulla San
Nicola e
non appena Alessandria d’Egitto divenne un pallino
all’orizzonte l’intera
ciurma proruppe in una grassa e fragorosa risata, salvo eccezione dei
medici
Elihu e Rebekah che, per motivi di fede giudaica, condividevano come i
musulmani il medesimo tabù alimentare considerando impuro il
maiale e di
conseguenza provavano una certa empatia verso la loro sofferenza.
“Suvvia, Elihu! È
stato grazie a te se Bon ha avuto
questo lampo di genio!”, esclamò Rustico,
ricordando la notte trascorsa a
raccogliere tutta la carne di maiale possibile e immaginabile e di
riporla
assieme al cavolfiore sopra la reliquia di San Marco,
acciocché i pii doganieri
non potessero controllarli le ceste in lungo e in largo.
“A proposito, del porco qui
che facciamo? Ce lo
mangiamo?”
“Ciò, vuoi
buttarlo via?”
“Ma se è stato a
contatto col corpo del Santo!”
“Meglio ancora: la sua carne
s’è santificata e ci
porta fortuna!”
E fu buon consiglio del capitano
ché dopo una
traversata burrascosa nel Mediterraneo e su per l’Adriatico,
in data 31 gennaio
la San Nicola sbarcava
trionfale nella laguna.
Ad accoglierli ci fu il Doge
Giustiniano
Partecipazio in persona che con grande magnanimità
perdonò i due lestofanti per
il furto anzi, ricompensandoli pure con 100 libbre d’argento;
ci fu inoltre
Orso il vescovo di Olivolo e con lui l'intera popolazione
veneziana. Riunitosi il Gran Consiglio venne deciso
di portare la
reliquia nella chiesetta di San Todaro di fianco al Palazzo e convocato
poi il
popolo, il Doge gli chiese a gran voce chi volesse per santo protettore
e
all’unanimità s’elevò alto il
grido: “Marco! Marco!”
***
Curiosità: ci viene da pensare che se durante l'assedio avessero
lanciato giù tutti i culatelli,
salsicce, pancetta, insomma ogni derivato del maiale in testa agli
Arabi,
Gerusalemme non sarebbe mai stata da loro riconquistata. Non lo sapremo
mai.
Il trafugamento del corpo è
stato arricchito nei
secoli con elementi di leggenda, ma le dinamiche sono rimaste
più o meno le
stesse e le vicende narrate si possono ammirare nella Basilica di San
Marco o
nei teleri del Tintoretto nella Scuola Grande di San Marco. Ignoriamo
come si
scriva “maiale” in arabo, ci siamo rifatte alle
iscrizioni sui mosaici a San
Marco.
Il motivo del trafugamento del corpo
di San Marco
oltre che per motivi religiosi fu anche per motivi politici, ovvero
tener testa
al patriarcato di Aquileia, supportato dall’Imperatore
Lotario che col concilio
di Mantova voleva ristabilirne il primato sulla metropolia di Grado e
di
conseguenza sul Ducato di Venezia che ne faceva
parte. Inoltre,
forte della vittoria sulla flotta araba a Siracusa, Venezia
incominciava a
prendere coscienza della propria importanza, dimostrando una crescente
volontà
d’indipendenza da Costantinopoli. Infatti, non a caso la
scelta è caduta su di
un santo delle origini, né romano né bizantino.
Prima di allora, il santo protettore
di Venezia era
San Teodoro (Todaro in veneziano) e solo agli inizi del IX secolo
Venezia
assunse il suo nome, essendosi prima chiamata Rivoalto o Rialto.
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Capitolo 9 *** Creusa Persis ***
Non
possiamo finire di ringraziare Alessandroago_94 per continuare
a seguire codesti deliri creativi e a coloro che hanno inserito questa
raccolta
tra le seguite e le preferite.
La mia
compare Semperinfelix ci tiene a dedicare questa novellina
ad Elisabetta
Buona
lettura,
Hoel e
Semperinfelix
***
Creusa
Persis
Laddove
Enea perse per motivi di trama la sua Creusa e chi gli lavava i panni
In un
tempo non molto lontano, in un giorno non molto funesto,
ecco com'andò veramente la distruzione di Troia:
Frattanto
che la battaglia prosegue, tra viscere strappate fuori
dalla panza e teste che volano, avendo sia Greci che Troiani capitato
al
mercato delle armature tarocche, Enea torna a casa tutto scazzato e
“Mo basta!”
sbotta. “Mo ce ne andiamo!”
Quel che
né la moglie né l'anziano padre sapevano, era che
Achille
gli aveva fatto la linguaccia e per tale ragione Enea, offesissimo, non
voleva
saperne d'avere ancora a che fare con lui.
“Babbasunazzu!”
lo riprende aspramente il pater Anchise, sputando
la dentiera. “Cascassero a Giove le mutande, noi di qui non
ce ne andiamo!” La
nuora Creusa lo prega e lo supplica affinché acconsenta alla
partenza, per il
bene suo e del nipotino che è tanto bellino, ma Anchise no,
è irremovibile. “Io
qui sono nato”, dice, “e qui voglio
crepare!”
Si alza
dalla seggiola e tutto adirato fa mostra d'andarsene. Apre
la porta e proprio lì, sulla via di casa, vede venire: da
una parte due dei
suoi creditori, a li quali doveva ancora duecento e passa dracme,
perdute tutte
giocando a briscola coi vecchietti del centro anziani, dall'altra il
marito
cornuto della sua vicina di casa, incabbasisato nero, con un
giavellotto in
mano. Richiude di botto la porta, spiaccicandocisi contro con tutte le
spalle,
e guardando i famigliari domanda: “O, che aspettiamo ad
andarcene?”
Figlio e
nuora lo guardano stupefatti. “Ma come
…” domandano “non
eri determinato a morire qui?”
“No,
no, ma io scherzavo”, si giustifica Anchise, “e poi
mi sono
ricordato che giovedì mentre stavo alla latrina un fulmine
dorato con una
stella cometa m'è cascato sulla testa e Giobbe, affacciando
la faccia dal buco
dove stavo seduto, m'ha detto: Anchise,
vecchio scimunito, che vuoi far crepare così il tuo nipotino
e quel gran pezzo
di gnocca di tua nuora? Avanti, alzati e parti!”
“Papà,
ma che ti sei fumato?” lo interroga perplesso il figlio.
“Dai
del bugiardo al tuo genitore? Ah, biscredente! Se non mi
credi, guarda tuo figlio come sta avvolto da lingue di fuoco!”
Sia madre
che padre si voltano allora a guardare il pargolo, che
era in effetti in fiamme. “Mannaggia, n'altra
volta!” sbuffa Creusa esasperata,
correndo a prendere l'estintore da sotto al letto. “Sto
bambino sempre in
fiamme sta, oh!”
“Prodigio!”
esulta Enea. “Giobbe vuol che io torni a
combattere!”
“Ah!
Avrei dovuto sposare tuo cugino Agenore! Lui almeno ci
avrebbe messi al sicuro!” si lamenta sconsolata la moglie,
una volta finito
d'estinguere il bambino. “Mo decidi: o la smetti di fare lo
scemo e ci porti
via di qui oppure tu la potta non la vedi più!”
E fu
così che dopo quell'ultimatum, messo di fronte alla
terribile
prospettiva di dover tornare dalla sua vecchia fiamma Ludovica, con la
quale
aveva condiviso la prima giovinezza, in men che non si dica Enea ebbe
già i
bagagli pronti. Si carica il padre sulle spalle, che tanto è
lagnuso che manco
camminare vuole, e dà la manina ad Ascanio, mentre Creusa li
segue fuori casa
con le foto di famiglia sott'al braccio.
Luogo il
cammino si fermano al tempo di Cerere a fare la spesa,
quindi ripartono, ma è proprio allora che Creusa, rimasta
indietro perché
appesantita dalle borse della spesa, si volta e vede Ermes che le fa
l'occhiolino. Il bambino pure si volta, e vede che la madre non
c'è, allora
piagnucolando avverte il padre dell'accaduto.
Sperduta
a questo modo la mogliera, Enea per tre giorni vaga di qua
e di là gridando disperato: “Creusaaa! Creusaaa!
Andò cazzo stai!?!?” Finalmente
al terzo giorno, rotta dalle continue lamentele, gli appare l'infelice
simulacro della sposa, notevolmente ingrassata rispetto a come la
ricordava.
“Mio
amato sposo », gli dice con voce distorta, “mettiti
l'anima
in pace. Gli dei mi hanno chiamato a ben altro mondo che questo, e
lì, tra le
sedi beate, un nuovo ruolo m'attende. Tu prosegui per la tua via, senza
voltarti indietro, ed abbi cura del vecchio padre e del figlio,
speranza della
stirpe di Dardano. Questo, o Enea, decretò l'oscuro Fato,
questo il Destino che
nulla perdona. E dunque, mio amato, non ti curar di me e va'!”
Cotali
parole fatte dispare come fumo che s'innalza dall'ara del
sacrificio. Enea, rotto in pianto, le corre incontro, tre volte tenta
la
lacrimosa mano d'afferrare la veste che sfugge, tre volte fallisce nel
suo
intento. Allora, perduta ogni speranza, si getta in ginocchio sulla
dura terra,
e rivolto al cielo domanda: “O Creusa, e i panni sporchi chi
li lava mo!?!”
***
Curiosità: Virgilio
attende chi
l’Eneide così spense.
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Capitolo 10 *** Figure da Normanno ***
Non
possiamo finire di ringraziare Alessandroago_94 per continuare
a seguire codesti deliri creativi e a coloro che hanno inserito questa
raccolta
tra le seguite e le preferite.
Buona
lettura,
Hoel e
Semperinfelix
***
Figure da
Normanno
Laddove si
vuol
dimostrare che, o per scioltezza di lingua o per timore di ritorsioni,
anche
una colossale figura di merda possa trasformarsi nel più
carismatico dei
discorsi.
Guglielmo Duca di Normandia
appartiene alla rara categoria
di uomini che sa cosa vuole e alle accuse d’eccessiva
crudeltà per raggiungere
i suoi scopi egli ha sempre risposto: “Hé, che ci
posso fare, appunto mi si
chiama Guglielmo il Bastardo!”, senza chiarire se alludesse
alla sua ferocia o
alla sua controversa nascita.
Ora a due cose in
quest’anno Domini 1066 anela Guglielmo:
l’Inghilterra e la testa di Aroldo suo rivale al trono
servita su di un piatto
d’argento.
In
piedi sulla prua
dell’agile nave, col vento autunnale che gli scompigliava i
cortissimi capelli
tagliati a scodella, il fiero normanno si trova a contemplare le coste
del
Sussex appropinquarsi all’orizzonte e già si sente
a casa sua.
Perché quel regno
è suo, alla faccia di quello sporcaccione
d’un sassone usurpatore. Guglielmo ama
l’Inghilterra. Tranne forse per il
clima. E il cibo. E gli inglesi. Però l’ama, dai,
ha perfino chiesto al Papa di
benedire la sua spedizione! Se non è dedizione questa!
Inoltre, che
figura
ci fa altrimenti con Roberto il Guiscardo e suo fratello minore
Ruggero? Loro a
conquistare regni e lui a casa a riscuotere le tasse ai plebei?
“Andiamo, miei Normanni!
Facciamo ingoiare le budella a
questi cappelloni barbuti di Sassoni!”, grida il feroce
Guglielmo ai suoi
mentre estrae la spada, pronto a scendere non appena la barca da
trasporto avesse
attraccato sulla spiaggia di Hastings. “Per San Micheeeeee
...” e più non dice
altro, ché avendo inciampato nel bordo della barca cade in
un gran tonfo a
faccia in giù in mezzo all'acqua.
Un silenzio di morte cala tosto tra i
Normanni, neppure i
molesti gabbiani osano garrire.
“Gu-Guglielmo?”,
mormora pallido in
volto il suo fratellastro, Oddone
di Bayeux. “Vi siete …?”
Prima però che il vescovo
avesse potuto porre la fatidica e spinosa
domanda, il prode normanno riemerge e s’alza in piedi e simil
rana sputa acqua,
sassolini, sabbia e pure qualche conchiglia.
O Nostra
Donna, adesso
che faccio?, cogita frenetico il cremisi Duca detto il
Bastardo, Questi qua sono più
superstiziosi di un
branco di lavandaie, rischio che mi disertino scappando a nuoto fino in
Normandia!
Nettatosi la lingua col dorso della
mano, l’uomo si mette a
fissare accigliato i suoi comandanti e soldati. Grazie a Dio possiede
un tal
vocione gutturale da nascondere l’imbarazzo atroce che sta
provando in quell’istante:
“Embé? Cosa sono quelle facce da giovenche? Temete
un qualche sinistro
presagio? Stolti!” li apostrofa aspramente e chinatosi, si
riempie le mani dei
sassolini sabbiosi. “Vedete invece come mi piglio facilmente
questa terra?”
Oddone di Bayeux si gira disorientato
verso Alano il Rosso
che cerca aiuto in Guglielmo FitzOsbern che a sua volta conclude la
catena con
Eustachio di Boulogne, il quale dall’alto del suo acume
strategico, altro non
può far se non spallucce.
Cosa rispondere ad un arrogante,
violento e permaloso energumeno
alto quasi sei piedi? Ad un figlio illegittimo che ha difeso i suoi
diritti al ducato
letteralmente con le unghie e con i denti? Che ha bullizzato la povera
Matilde
di Fiandra onde persuaderla a sposarlo? Che ha messo a ferro e a fuoco
una
città perché l’aveva sfottuto
d’esser nato da una figlia di un conciatore di
pelli?
“Sì, oh Duca
nostro! Anzi, nostro Re! Siamo tutti con voi!”
“Viva Guglielmo!”
“Viva il Duca di
Normandia!”
“Viva il Re
d’AEnglalond!”
“Angleterre, oh!
Ché mi metto ad imparare il sassone ora? Scherziamo?
Mica sono come quei cretini degli Altavilla che adesso sul serio
parlano arabo,
manco più li capisco!”
“Verissimo,
scusate!”
“Alla pugna, miei valenti
paladini! In groppa ai cavalli e
lancia ben dritta e salda in mano!”
“Oui! Vive le
Roi!”
“Bravi e non
scordatevelo!”
***
Curiosità:
Guglielmo il Conquistatore vinse 1 a 0 per Aroldo, centrato in pieno da
una
freccia nell’occhio.
Quest’aneddoto Hoel lo
apprese in visita ad Hastings tra una
scorpacciata e l’altra di granchi e ostriche.
Guglielmo il Conquistare in effetti
non imparò mai il
sassone né a leggere o a scrivere, si dice fosse analfabeta.
Aveva un vocione
da far spavento, era molto alto per l’epoca, veramente era un
figlio
illegittimo e trascorse un’infanzia in cui tutti volevano
farlo fuori e siccome
Matilde di Fiandra non voleva sposarlo, l’attese fuori dalla
chiesa, la tirò
per le trecce in piazza e la buttò nel fango, chiedendole
poi se ora lo voleva
sposarlo. Al che Matilde disse di sì. Va però
aggiunto, che Guglielmo non ebbe
mai figli bastardi e le fu sempre un marito devoto e fedele.
Gli Altavilla suoi
“cugini” ovviamente sono Roberto il
Guiscardo e Ruggero che conquistarono la Sicilia e il resto del Sud
Italia,
formando il Regno. Fu vero che assimilarono la cultura locale.
I Normanni in Inghilterra
introdussero il francese come
lingua ufficiale, sicché fin quasi ai Tudor
c’erano tre lingue ufficiali:
francese, inglese (ch’è un misto tra sassone e
francese) e latino. Adesso gli
inglesi manco morti imparano un’altra lingua.
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Capitolo 11 *** Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì … ***
Questa storiella nasce dalla
cocciutaggine mia e di
Semperinfelix di scoprire chi per primo diede il titolo di
“Tygre” a Caterina
Sforza, rifiutandoci di credere alla storia dell’Anonimo
Veneziano.
Ecco il risultato e buona lettura,
H. & Semperinfelix
***************************************************************************************
Come quella
[inserisci epiteto] di la madona di Forlì …
Laddove alcuni
soprannomi sembran esser pronunziati per esaltare,
invece si scopre che son per insultar, sì, ma con garbo.
Un qualsiasi convegno
su Caterina Sforza, giorni nostri
“… e
così”, prosegue infervorata la professoressa di
Storia
Rinascimentale dell’Università “T.
de’ Tali”, mentre il pubblico adorante pende
dalle sua labbra, “la nostra Caterina Sforza, prima donna
d’Italia, si mostra
dinanzi al nemico sempre pronta, inesorabile, audace,
tant’è vero che Lorenzo
Giustinian, pieno di stupore verso colei che rovesciava gli schemi
sociali e le
aspettative maschili sul ruolo delle donne, così la descrive
ai Veneziani: quella tigre di madonna di
Forlì … Ella
mise alla prova la tenacia di condottieri esperti, di veterani e
comandò
Gaspare Sanseverino, detto Fracassa,
nei momenti di indecisione, quando questi fece perfino chiamare suo
fratello
Gianfrancesco a Modiana per farsi aiutare contro i Francesi
…”
Un coro di teste annuisce energico,
rapito da cotanta audacia
che impressionò l’Europa intera, rendendo la
biblica Debora una dilettante.
“… e quel
soprannome – tygre – passò di bocca in
bocca,
viaggiando per ogni corte italiana e pronunciato con rispetto e
ammirazione …”
Ravenna, settembre
1498.
“Quea gran vaca
putana!”
Il povero segretario guaì,
pur nascondendosi quasi sotto la
scrivania, spaventato dalla veemente dettatura del suo superiore, il
podestà e
capitano di Ravenna, sier Lorenzo Giustinian.
Da ore lui e il patrizio
s’erano rinchiusi nello studiolo a
scrivere missive alla Signoria, aggiornandola sui fatti di Romagna e
più la
penna riempiva il foglio più il podestà
s’infervorava, tanto da deambulare
avanti e indietro, mulinando le braccia tra un insulto e
l’altro e di fatti
esattamente lì si erano da un po’ arenati, non
riuscendo il Giustinian, nella
sua collera, definire la contessa Caterina Sforza relicta Riario
relicta Feo e
ora de’ Medici, la quale, come la serpe milanese
ch’era, fingeva amicizia e poi
aiutava il suo nuovo marito, accoltellando Venezia alle spalle mentre
il suo
esercito si dirigeva a Pisa.
“Quella
stronza di
Forlì ci mette i bastoni tra le ruote! Hai
scritto?”
“Sior podestà,
non possiamo inviare questo agli
illustrissimi Pregadi!”, protestò il
pover’uomo, un’espressione sconsolata
dipinto sul volto pallido e stanco.
“Già
meglio così: quella madona
xé proprio una roctura de
cazi, la qual fa il tutto contra nostri
…”
“L’ultima parte
già va meglio … Forse la prima, come dire,
meno enfatica?”
“Puh!”,
sbuffò scocciato
sier Lorenzo. “Allora metti così: quella
puzzolente grassona di Forlì fa il tutto contra i nostri
…”
Al segretario venne quasi da
piangere.
“Che hai? Credi che i
Pregadi la pensino diversamente da
me?”
“Non lo dubito, ma che
diranno di noi i posteri? Che
insultavamo gentildonne?”
“Gentildonna quella quasi
virago?", esclamò sardonico il patrizio. "Non vuol Sua Signoria far
l’uomo? E che dunque si pigli gli insulti da uomo!”
perché Giustinian si
chiamava e lo era di nome e di fatto, giusto. “Riprendiamo. Quella scostumata
baldracca di Forlì …”
“Sior
podestà!”
“Quella
mangiaspade di
Forlì …”
“Ma…!”
“Quella
serpe in
pectore …”
“Perché?!”
“Quella
mostruosa
arpia …”
“Sior podestà,
vi scongiuro!”
“Quell’innaturale
femmina col cazzo …”
“Calmatevi per
pietà!”
“Quella
fedifraga creatura
generata dai lombi dell’olim duca Galeazzo
…”
“SIOR PODESTÀ,
SMETTELA! MI SEMBRATE LA VOSTRA MADONNA
QUANDO FATE COSÌ!”, ruggì il
cancelliere, balzando in piedi e buttando
all’aria, esasperato, tutte le missive,
l’inchiostro, il calamaio e pure sbatté
per terra il suo cappello.
Quand’ecco che si
chetò all’improvviso, terrorizzato dal
subitaneo silenzio calato nonché l’occhiata fissa
del suo superiore. S-ciavo vostro,
l’ho fatta, iniziò a
tremar freddo l’uomo, già figurandosi licenziato e
rispedito a pedate da sua
madre a Venezia.
Lorenzo Giustinian si mise a ridere
di gusto e al segretario
venne di riflesso di recitare un requiescat
per l’anima sua, pronta a volar via per mano di quel pazzo in
fieri.
“Bravo! Bravo!
Bravissimo!”, l’abbracciò invece il
podestà,
serrandogli il braccio attorno il collo, mezzo soffocandolo.
“Oh, come ho fatto
a non pensarci prima? La mia madonna! La mia madonna!”, gli
ripeté inquietantemente
allegro mentre gli stringeva e tirava le guance.
“Sior
podestà?”, sbrodolò il cancelliere,
cadendo in un
tonfo sul suo sgabello.
Ma ormai il Giustinian non
l’ascoltava più: con in mente
quella gran rompicoglioni in soprappeso di sua suocera, le sue
critiche,
lamentele, rabbuffi, visite sgradite, pettegolezzi e chi più
ne ha per favore
non ne metta, il patrizio si sfregò le mani e, in posa
ieratica, ordinò al
segretario:
“Ordunque scrivi: Da
Ravena, di sier Lorenzo Zustignam podestà et capitanio. Come
quella tygre
di la madona di Forlì faceva il tutto contra nostri; et che
Achiles Tiberti di
Cesena era con lei. Et dil zonzer a Forlì dil conte di
Cajaza, qual va a trovar
suo fratello Frachasso per unirse con le zente da quella banda di
Modiana.
Item, dil conte di Sojano, che aricordava da quella banda saria bon far
qualche
impresa, etc.”
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Note
finali ( a
cura di Semperinfelix):
Quel che i biografi di Caterina
Sforza sempre tralasciano è
che Gaspare Sanseverino - detto Fracasso per la sua furia in battaglia
- ebbe
la soddisfazione di essere l'unico uomo al mondo implorato e supplicato
da
Caterina (e senza successo!). Mandato dal duca Ludovico il Moro a
Forlì per
esserle, teoricamente, d'aiuto nella guerra, le fu solo di sdirrupo.
Avvenne infatti che Fracasso la prese
rapidamente in odio, e
per quanto Caterina cercasse di onorarlo, di farlo divertire e di
accattivarselo, egli coglieva ogni minima scusa per risponderle in malo
modo e
minacciare d'andarsene. Non obbediva agli ordini, non voleva
collaborare né con
gli altri capitani né col proprio stesso fratello
Gianfrancesco, col quale anzi
litigava continuamente; non rispettava le leggi, causava disordini,
faceva
sempre di testa sua e talvolta rifiutava persino di parlare, se era
Caterina a
chiederglielo. D'altra parte, se era per parlare male di lei, lo faceva
più che
volentieri.
La ragione di questo comportamento
non è chiara: forse il
cosiddetto nuovo Achille non era tanto disposto a prendere ordini da
una donna?
ma egli non aveva mai mostrato ostilità nei confronti della
quondam duchessa di
Milano Beatrice d'Este (per certi versi simile a Caterina) alla quale
si era
dichiarato viceversa devoto. Più probabilmente il cruccio
perenne di Fracasso -
mezzo pazzo ma di buon cuore - era di poter menare le mani, cosa che
Caterina a
quanto pare gli impediva di fare, come dimostra il secco ultimatum che
egli le
rivolse prima dell'ennesima minaccia di congedo, stavolta definitivo:
"Madonna, diteme più liberamente se havete bisogno de queste
gente
[d'armi] che sono qua, o sì, o no, perché io
condurò ben mi queste gente [...]
in loco che loro e mi [io] haranno [avranno] honore, perché
non fu mai de costume
nostro haver vergogna". Incapace di gestire il carattere scontroso e
iracondo di lui, Caterina supplicava lo zio Ludovico di farlo ragionare
o di
richiamarlo a Milano, ma Ludovico le rispose che "è
necessario il
tollerarlo", perché, sebbene Fracasso dicesse "qualche male
parole,
el fa poi megliori facti". Caterina finì poi in catene.
(da
Hoel) Nient’altro da aggiungere
all’esauriente
spiegazione della mia compare, perché sì, la
prima parte è assolutamente una
parodia di alcune conferenze attuali
e
lei ci teneva a puntualizzare, onde evitare fraintendimenti.
Alla fine, il soprannome
“tygre” glielo diede questo Lorenzo
Giustinian e, dal tono della lettera copiata dal nostro caro Sanudo,
più che
ammirazione verso Caterina, ci sembrava piuttosto ch’egli in
quel momento
stesse provando una forte irritazione nei suoi confronti …
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