The Last Remaining Light

di Soul Mancini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


cittidì pagu pagu
Prologo





Flashback
Silhouette of the memory
Your eyes are getting heavy
[Tomahawk – Flashback]




La mia pelle è ricoperta da uno strato di umidità e sudore, forse fa freddo ma io non lo sento. Sdraiato sul duro pavimento che si scontra con le mie ossa troppo sporgenti, con un ago premuto sul braccio, lascio scorrere lo sguardo attraverso la confortante penombra dello stanzino e penso che questa potrebbe essere l’ultima dose che mi sparo in vena. Già, potrei morire solo, senza nemmeno sapere dove mi trovo, ma la cosa non mi fa paura, così come non mi ha fatto paura negli anni precedenti. Sono così tranquillo, vedete? Finché l’eroina si mischia al mio sangue, nulla può andare storto.
Sono Ives Mancini, o meglio, sono ormai il suo fantasma sbiadito. Se anni fa mi avessero detto che sarei finito in queste condizioni, non ci avrei mai creduto; proprio io, il ragazzo allegro e sempre sorridente, ottimista e gentile con tutti.
Ma forse nessuno è mai riuscito a scorgere il mondo dietro i miei occhi azzurri, quegli stessi occhi che ora si fanno pesanti; le palpebre insistono per serrarsi, ingabbiandomi in un’oscurità ancora più profonda, a cui solo sfocati e luminosi fotogrammi possono avere accesso. Sono così tanti i ricordi, si mischiano e si inseguono nella mia testa, definendo ancora una volta la mia triste storia, sbattendomela in faccia.

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Capitolo 2
*** I ***


I
 
 
 
 
 
I need your arms to welcome me
But a cold stone’s all I see
[Metallica – Mama Said]


 
 
 
Osservo la lapide con sguardo perso. Non so ancora leggere, non capisco quelle scritte che spiccano sul marmo chiaro, però osservo la piccola foto in bianco e nero racchiusa in un’austera cornice: raffigura una ragazza bellissima, dai capelli lunghi e lisci e dagli occhi grandi e profondi, anche se non ne posso definire il colore.
“Questa è tua madre, Ives” mormora zia Maura, posando un nuovo vasetto di fiori sulla tomba.
Getto uno sguardo al cielo plumbeo sopra di noi, poi scruto con attenzione mia zia, l’unica persona che si è presa la briga di farmi da genitore quando mia madre è morta. Zia Maura è un donnone, alta e formosa, dalla pelle olivastra, i capelli scuri e sempre raccolti in una folta coda di capelli e lo sguardo severo; tutto l’opposto di sua sorella.
“Questa pietra è mia madre?” chiedo titubante, posando la mano sulla pietra fredda.
Ho quattro anni, non riesco proprio a capire come una mamma possa essere così dura e fredda, non profumare di niente e stare sempre lontana da me. Nella mia testa, zia Maura è sempre stata mia madre.
 
 
Proprio lei, tante volte, mi ha raccontato la storia della mia famiglia, come se stesse raccontando una qualsiasi favola della buonanotte; non mi nasconde niente, anche quando la verità è dura e dolorosa da accettare.
Mia madre si chiamava Veronica Mancini, nota a tutti come Niki, ed era una ribelle – poteva forse mettere al mondo un bimbo angelico e dal carattere mite? Certo che no, ho preso tutto da lei!
Niki scappò di casa, vagabondò, sopravvisse come le era possibile e qualche volta tornava a casa da Maura, la sua adorata sorella maggiore.
Solo che, in un’afosa serata di fine luglio, Niki bussò alla porta di sua sorella con le lacrime agli occhi e i vestiti spiegazzati, palesemente sconvolta.
“Era pallida, aveva i capelli scompigliati e stopposi, tremava talmente tanto che sembrava sul punto di spezzarsi e in quelle condizioni sembrava ancora più magra e smunta del solito” mi dice sempre zia Maura. Incredibile, nella foto che c’è sulla sua tomba sembra davvero meravigliosa.
Niki, in preda ai singhiozzi, si buttò tra le braccia della sorella e le rivelò che qualche settimana prima era stata stuprata ed era rimasta incinta. “Non voglio uccidere il mio bambino, non voglio abortire, ma non lo posso crescere da sola… aiutami!” supplicava. Aveva soltanto ventidue anni
Zia Maura è una grande donna, questo lo dovete sapere tutti. Infatti, nonostante lavorasse tutti i giorni, avesse una bambina di cinque anni e un marito poco conciliante nei confronti di Niki, si prese cura di sua sorella durante tutto il periodo della gravidanza, accudendola e riportandola sulla giusta via quando si perdeva.
Io venni al mondo l’8 aprile e già allora gridavo come un pazzo, attirando tutte le attenzioni su di me. Mia madre piangeva, mi amava e mi odiava, mi stringeva a sé e l’attimo dopo mi respingeva con disgusto. Le ricordavo quella brutta nottata di luglio, le ricordavo il suo stupratore.
Che fortuna, ci pensate? Nemmeno il mio concepimento è stato frutto di un gesto d’amore, il mio destino era già segnato.
Zia Maura ospitò Niki a casa sua quando lei uscì dall’ospedale, nonostante suo marito Stan storcesse il naso contrariato. “Perché mai dovrei avere una puttana e un figlio di puttana in casa mia?” borbottava. Zia Maura, in tutta risposta, gli mollava uno schiaffo ben assestato e gli intimava di non parlare mai più in quel modo di sua sorella e suo nipote.
Dopo una settimana, Niki uscì di casa e mi lasciò con zia Maura. Non tornò mai più.
Una volta mi hanno detto che io ero la causa del suicidio di mia madre, perché ogni volta che lei mi guardava si ricordava della violenza subita. Forse hanno ragione, forse ero già cattivo, anche se avevo solo una settimana.
“Al funerale di tua madre, ero seduta al primo banco e ti tenevo tra le braccia” mi racconta sempre zia Maura. Non c’era tempo per piangersi addosso, nella sua vita era appena piovuto un neonato bisognoso di cure.
Stan non si lamentò del fatto che fossi il suo nuovo inquilino, anche se mi fulminava con lo sguardo ogni giorno. Comunque presi il cognome di zia perché lui non mi volle riconoscere come suo figlio.
Lo capisco, chi vorrebbe avere in carico il figlio di uno stupro?
 
 
Ora che sono più grande, sono tornato presso la lapide di Veronica Mancini. Non la vengo a trovare spesso, un po’ ce l’ho con lei perché non mi voleva abbracciare quando sono nato.
Accarezzo le parole che spiccano sul marmo chiaro e sussurro: “Però non sei una puttana, mamma. Non è colpa tua se il destino è stato cattivo con te”.
Ora quelle lettere riesco a leggerle bene:
 
Veronica Mancini
30 maggio 1946 – 15 aprile 1968
 
 

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Capitolo 3
*** II ***


II
 
 
 
 
 
I'm so tired of being here
Suppressed by all my childish fears
[Evanescence – My Immortal]
 
 
 
 
So di essere troppo vivace a volte, ma sono un bambino, ho soltanto voglia di giocare un po’. Chi lo dice che rompere i vasi a furia di pallonate è sbagliato?
Solo che stavolta ho tirato troppo la corda, me ne rendo conto dallo sguardo che mi lancia Stan; ha sempre avuto un’aria minacciosa, complice la sua corporatura robusta e scolpita da anni di lavoro come muratore, ma ciò che ogni volta mi atterrisce di più è il suo sguardo torvo. Quei suoi occhietti piccoli e scuri hanno il potere di instillare il terrore in me.
“Adesso basta, brutto bastardo!” grida, afferrandomi per i capelli e tirandoli forte. La testa mi fa malissimo e il sorrisetto sornione mi si cancella subito dalle labbra, mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime.
Zia Maura, torna presto. Perché vai al lavoro e mi lasci sempre solo con lui?
“Puniscilo, papà!” strilla Maggie battendo le mani. Lei gode nel vedermi soffrire, le piace, e sa che suo padre la accontenterà perché lui la ama. È comprensibile, è la sua figlia biologica, la sua principessa, io sono solo in più.
Stan mi porta in camera mia, mi scaraventa sul lettino e mi massacra di botte, mentre mi urla contro che sono un figlio di puttana e non ci faccio niente in quella casa. Non è la prima volta che mi picchia e mi intima di non farne parola con Maura, ma oggi ha esagerato, è andato oltre tutti i limiti: dopo aver pianto e gridato come mai prima, sono talmente stordito dai colpi ricevuti e dal sangue perso che sono sul punto di svenire, sto malissimo. Mi fa male tutto, voglio che zia Maura torni subito a casa.
Una volta impartitami una punizione esemplare, Stan sembra soddisfatto; sogghigna ed esce dalla stanza, lasciandomi lì, nel buio, con le guance incrostate di lacrime e la maglietta incrostata dal sangue, che continua a colarmi dal naso e dal labbro spaccato.
Sdraiato sul materasso, con la mente annebbiata e gli occhi sbarrati a osservare l’oscurità, vengo assalito dalla paura. E se Stan decidesse di rientrare nella stanza? E se domani lo facesse di nuovo?
Non voglio più stare qui, non mi va più di vivere qui, ho paura.
Zia Maura mi trova così quando torna dal lavoro. “Amore, stai tranquillo, va tutto bene” mi rassicura non appena si accorge delle mie condizioni, prendendomi tra le sue forti braccia e io nascondo il viso tumefatto nel suo seno prosperoso, tremando come una foglia. Nonostante lei cerchi di mostrarsi calma per non spaventarmi, mi basta posare l’orecchio sul suo petto per sentire il cuore batterle all’impazzata.
“Cos’è successo?” mi chiede.
“Stan” riesco soltanto a biascicare tra i singhiozzi.
Senza perdere la calma, mi adagia nuovamente sul letto e mi medica le ferite una per una, mi lascia una carezza sulla testa e torna in cucina, proprio dove si trova suo marito.
“Fuori di qui” afferma in tono irremovibile, con quel suo vocione grosso che farebbe venire i brividi a chiunque. E io so che quando zia Maura prende una decisione, non torna più indietro.
Discutono a lungo, si gridano contro, si insultano come mai hanno fatto prima. Mi fa male sapere che tutto ciò è successo per colpa mia, forse hanno ragione Stan e Maggie a dire che sono una disgrazia che nessuno vuole veramente.
Lottando contro la paura, li raggiungo in cucina in punta di piedi, troppo curioso di sapere come andrà a finire: zia Maura sta in piedi con le mani sui fianchi e lo sguardo infiammato, Stan ringhia e Maggie piagnucola rannicchiata sul divano.
“Preferisci veramente questo figlio di puttana a me?” grugnisce Stan, incrociando le braccia al petto.
“Non voglio avere in casa un uomo che picchia mio figlio e chiama puttana mia sorella. Niki, Ives e Maggie sono le tre persone più importanti della mia vita, hai mancato loro di rispetto e per me sei morto. Esci, sparisci e non guardarti indietro, non ti sfiori nemmeno l’idea di tornare da queste parti. Vai.”
A quel punto Maggie scatta in piedi e, senza smettere di singhiozzare, corre da suo padre e lo abbraccia con disperazione. “Ti prego, papà, non andartene, resta qui! Se te ne vai, voglio andarmene con te!” grida.
La capisco: loro due hanno un bellissimo rapporto, lui non l’ha mai sfiorata nemmeno con un dito e stravede per lei. In fondo Stan non è un uomo cattivo, anzi, è un bravissimo padre e Maggie si può ritenere fortunata.
E ora lui se ne va per colpa mia, che non faccio nemmeno parte della famiglia.
Maggie già mi odia, da oggi mi detesterà ancora di più.
“Però,” dico a zia Maura mentre, con le guance rigate dalle lacrime, mi infila il pigiama, qualche ora più tardi, “mi dispiace che Stan se ne sia andato, era un po’ anche il mio papà.”
 
 

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Capitolo 4
*** III ***


III
 
 
 
 
 
I guess I'm always hoping that you'll end this reign
But it's my destiny to be the king of pain
[The Police – King Of Pain]
 
 
 
 
Zia Maura è al lavoro, io e Maggie siamo a casa da soli. A lei non piace quando succede così, non ha voglia di farmi da baby sitter.
Un po’ perché mi odia da quando Stan se n’è andato, un po’ perché io ho tanta voglia di giocare, correre, farla arrabbiare.
Lei fa come Stan, mi chiude in camera. Mi afferra per i capelli, mi trascina verso il materasso e mi ci sbatte contro. Mi dibatto, cerco di liberarmi, ma Maggie è forte e riesce a bloccarmi per bene.
Questa scena l’ho già vissuta una volta ed è andata a finire male, sono spaventato.
Lei mi punta addosso i suoi occhi verdi e penetranti – è incredibile quanto lo sguardo di una dodicenne possa essere così cupo e minaccioso, sembra quello di un’adulta – e ringhia: “Non provare a muoverti di qui, altrimenti ti soffoco col cuscino”.
Le sorrido. “Sono tuo fratello, non lo faresti mai.”
Tu non sei mio fratello, sei uno schifoso sfasciafamiglie. E non mettere in dubbio quello che dico, pensi davvero che non ne avrei il coraggio? Se tu morissi, la mia vita sarebbe migliore.” Mi toglie le mani di dosso e accarezza distrattamente la fodera del cuscino che si trova proprio a fianco a me, una scintilla le attraversa lo sguardo.
Sembra una psicopatica.
Rabbrividisco e non oso ribattere, forse è meglio non sfidarla troppo.
Maggie si avvia verso l’uscita di camera mia e mi rivolge un’occhiata tagliente. “Non muoverti.”
Tiro un sospiro di sollievo e mi rannicchio su me stesso, cercando di fermare il forte tremito che mi attraversa tutto il corpo. È estate, ma tremo.
Afferro il cuscino e lo lancio dall’altra parte della stanza. Non voglio che mi ammazzi.
Eppure mi sento in colpa, non riesco a togliermi dalla testa che sia proprio colpa mia. Stan se n’è andato, Maggie mi odia, zia Maura piange in silenzio quando crede che nessuno se ne accorga, e se non ci fossi stato io tutto questo non sarebbe successo. Sembra essere proprio il mio destino: sono il re del dolore, appena arrivo la gente inizia a soffrire.
Io non odio nessuno, nemmeno Maggie. Nessuno la può odiare, lei è sempre stata quella bambina dolce e sorridente, gentile con tutti, quel tipo di bambina che fa i disegni da regalare alla famiglia per le ricorrenze.
Io non sono mai stato bravo a disegnare.
E forse, come dice lei, non ho neanche una famiglia.
 
 

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Capitolo 5
*** IV ***


IV
 
 
 
 
 
Friends will be friends
When you're in need of love they give you care and attention
[Queen – Friends Will Be Friends]
 
 
 
 
“Stai qui, hai capito? Non ti muovere, non ci provare.”
È dall’inizio dell’estate che Maggie mi ripete sempre le stesse cose, ormai le so a memoria: devo passare il pomeriggio in quella sorta di discarica mentre lei va a incontrare i suoi amici in piazza, così da poter fumare, fare la gallina con i ragazzi più grandi e tutte quelle cose che fanno le tredicenni.
“Sì, tranquilla. Lo so.” Mi allontano e mi guardo intorno: è rimasto tutto uguale a ieri. Il piazzale sterrato è ancora deserto e polveroso, l’afa si sprigiona dal terreno, i secchi di plastica sono ancora rovesciati, le formiche passeggiano ancora sulle travi marce sparse a terra, la ruggine si scrosta dalle vecchie ferraglie e l’immondizia è ancora ammassata ovunque. Dopotutto non mi posso lamentare, ho un parco giochi tutto per me.
“Vado. E non ti salti in mente di venire a disturbarmi.”
Maggie si allontana e io la osservo con le sopracciglia aggrottate. Si è messa in tiro, indossa una minigonna striminzita e si è truccata pesantemente; queste cose le fa quando zia Maura esce di casa, ruba i suoi trucchi e i suoi profumi di nascosto e si traveste da pagliaccio.
Sarà che sono ancora piccolo, chissà, ma non ne capisco il senso.
Mi siedo a terra, in mezzo alla sporcizia, e osservo le formiche che si muovono in una linea perfetta.
Cosa potrei fare oggi? Da mesi, da quando mia sorella è diventata grande e si è fatta degli amici, trascorro tutti i miei pomeriggi qui e ormai conosco ogni rottame e ogni rifiuto a memoria.
Chissà cosa direbbe zia Maura se scoprisse che mia sorella non mi fa da baby sitter come lei crede. Andrebbe su tutte le furie.
Decido di costruire una fortezza per le formiche e il loro formicaio, magari anche loro hanno bisogno di ripararsi quando il sole è troppo caldo. Mi allungo a prendere un secchio sfasciato, poi mi guardo intorno; cosa potrei utilizzare per decorare gli interni? Cosa potrebbe servire a quegli animaletti?
Mi sollevo da terra e mi metto in cerca di tutti gli oggetti utili al mio scopo.
La strada adiacente al piazzale è deserta e silenziosa, come sempre. Nessuno passa di lì e quando capita mi nascondo sempre; per il nostro quartiere a volte si aggirano individui poco raccomandabili, meglio non farsi trovare nei paraggi.
Ma oggi c’è troppo caldo, i delinquenti di strada non si scomodano.
 
 
Un’asse di legno come ponte. Sì, mi sembra una bella idea, così le formiche potranno sfilare come su una passerella per entrare nella loro reggia, come quelle star di Hollywood.
Una volta zia Maura ci ha portato in centro e abbiamo visto Hollywood, la collina con la scritta, le strade sfavillanti e l’allegra frenesia, ma soltanto da lontano.
“Ehi.”
Sobbalzo e la trave piena di schegge che sto posizionando con cura mi scivola dalle mani. Non mi sono accorto che è arrivato qualcuno, eppure ci faccio sempre tanta attenzione. Il cuore mi batte all’impazzata: e se fosse un malintenzionato?
Sollevo piano il capo e mi ritrovo faccia a faccia con un bambino all’incirca della mia età – forse poco più grande – che non avevo mai visto prima. Sembra davvero un figo, con i capelli neri dal taglio a spazzola e       quegli occhi scuri e indecifrabili.
“Ciao” lo saluto, riprendendo a fare ciò che ho lasciato a metà.
Lo sconosciuto si siede accanto a me e mi scruta. “Cosa ci fai qui?”
“Niente, sto giocando.”
“E perché proprio qui? Hai visto tutta la merda che c’è qui intorno?”
Sollevo di nuovo lo sguardo. Dev’essere davvero un tipo forte, ha usato la parola merda, che nella bocca di un ragazzino così piccolo non ci dovrebbe stare. Okay, a volte lo dico anch’io, ma lui è così disinvolto.
“Mia sorella mi lascia qui.”
“Devi avere una sorella davvero stronza. Amico, qui ci fanno le sparatorie di notte, lo sai?”
Gli lancio uno sguardo di sfida. “Mia sorella non è stronza, hai capito?” ruggisco. Non mi piace che Maggie venga insultata così, lui non la conosce.
“E allora perché ti lascia qui da solo? Quanti anni hai, sei?” Prende ad allacciarsi una scarpa.
“Otto” preciso fieramente. “Perché lei deve uscire con i suoi amici e non mi vuole tra i piedi.”
“E perché tu non te ne vai in giro nel frattempo?”
Non mi piacciono tutte queste domande. Però lui è davvero un tipo a posto, così sicuro di sé, ed è vestito come un vero ragazzo di strada: maglietta larga, scarpe in tela, jeans stracciati. Mi piacerebbe essere come lui.
“Perché Maggie non vuole, e poi devo farmi trovare qui quando è ora di tornare a casa. Se zia Maura non ci vede rientrare insieme, mia sorella passerà un sacco di guai.”
“E tu ti preoccupi di mettere nei casini una che ti molla in una discarica per andare a fare la troietta con i suoi amici?” Scoppia a ridere, si rimette in piedi e si passa un paio di volte le mani sui pantaloni sgualciti.
In effetti è vero. Non ha tutti i torti. Io voglio bene a Maggie e non voglio incasinarla, ma anche io ho il diritto di divertirmi, proprio come lei.
Comunque preferisco cambiare argomento. “Come ti chiami?”
“Ethan AraÚjo. Tu?” ribatte, osservandomi dall’alto.
Mi alzo a mia volta. “Ives. Ives Mancini. Che figo, hai un cognome argentino?”
Ethan inarca un sopracciglio. “È brasiliano. Sai la differenza?”
Scuoto il capo e alcune ciocche corvine mi cadono sugli occhi. “Ah. È per questo che hai la pelle un po’…?”
“Sei stupido? È olivastra, e poi sono abbronzato. Ti sembra così strano? Ah già, tu sei bianco come una fottuta pista di cocaina…”
Sgrano gli occhi. “Tu sai com’è fatta la cocaina?”
“Mio fratello è uno spacciatore. In qualche modo dovremo pur guadagnarci da vivere, no?”
“E tu l’hai provata?”
“Ho nove anni, ci tengo al mio cervello. Ancora per un po’” replica secco, quasi indignato.
Ethan mi sembra un tipo abbastanza pericoloso, ma c’è qualcosa in lui che mi affascina.
“Adesso sai che facciamo io e te?” Ethan mi si piazza di fronte con un mezzo sorriso, sovrastandomi di quasi venti centimetri. “Ce ne andiamo da questa schifosa discarica e ci facciamo un giro. Sai usare lo skate?”
“No.” Ma mi piacerebbe un sacco.
“Ti insegnerò.”
Un sorriso spontaneo mi si allarga sul viso. Forse si può fare, forse anche io ho trovato un amico con cui passare i miei pomeriggi, un modello da seguire, qualcuno che mi possa insegnare come si fa a essere fighi.
Non so se sia una buona idea, Maggie si arrabbierà, ma non riesco a resistere alla tentazione.
“Ci sto!” esulto.
“Grande!”
 
 
Mi faccio trovare al piazzale alle sette e un quarto. Sono in ritardo di un quarto d’ora e infatti Maggie mi sta aspettando, infuriata più che mai.
Saluto frettolosamente Ethan – che bel pomeriggio ho trascorso con lui, mi ha promesso che domani tornerà a trovarmi – e corro da mia sorella, preoccupato per la sua reazione.
“Si può sapere cosa cazzo ti è saltato in mente? Dov’eri, stronzo?” sbraita lei, afferrandomi per la maglietta e sgualcendo il tessuto con le sue unghie lunghe e smaltate.
Mi mordo il labbro. “In giro.”
“Ti avevo detto di non muoverti!”
“Ma non è giusto che tu puoi andare a divertirti e io no!” obietto.
Maggie mi lascia andare e prende dei profondi respiri per calmarsi, guardandomi con ira. “Non me ne importa di quello che fai tu nel frattempo, ci sono solo due cose che mi interessano: non ti devi rompere l’osso del collo e devi essere in orario per tornare a casa. Ci siamo capiti?”
Mi illumino. “Quindi posso andare in giro anch’io?”
“Fai il cazzo che vuoi. L’importante è che segui queste due indicazioni. Tanto ormai sei grande abbastanza.”
Lancio un gridolino entusiasta; sono così felice che la abbraccerei, ma non le farebbe piacere.
Nel tragitto verso casa passo tutto il tempo a saltellare e a ripercorrere con la mente le ultime ore. Ethan mi piace un sacco.
Forse non è a casa mia, ma da qualche parte esisterà un posto per me. L’avrò forse trovato?
 
 

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Capitolo 6
*** V ***


V
 
 
 
 
 
Perditi nella musica nel momento in cui ti appartiene.
[Eminem]
 
 
 
 
È la prima volta che prendo un basso in mano, ma già sento qualcosa scorrermi nelle vene e arrivarmi al cuore, qualcosa che non avevo mai provato prima.
Lo strumento è color legno chiaro, è tutto ammaccato e ha un suono che mi fa tremare. Fa tremare i vetri, le pareti, l’aria, tutto ciò che c’è intorno.
È un uragano, è distruttivo, un po’ come me.
“Ives, non è accordato” cerca di richiamarmi Ethan.
Ma io non lo sento e non mi accorgo nemmeno più del freddo pungente che c’è in quel garage dalle pareti macchiate di muffa.
“Forse è il caso di dargli un plettro” commenta Sammy, l’amico batterista di Ethan.
Non sento nemmeno lui, lo voglio ignorare, rapito come sono. Pizzico una di quelle corde così grosse, mentre i polpastrelli della mano sinistra iniziano a bruciare, tanto li premo sulla tastiera. Non so se quello che sto suonando è un do o un re, però mi piace.
In quasi dieci anni di vita non avevo mai provato una sensazione del genere. Mi sento così… completo.
Quando finalmente sollevo lo sguardo – non so dire se siano passati pochi secondi o due ore – Ethan e Sammy mi stanno osservando perplessi e divertiti, il primo mentre giocherella col cavo del suo amplificatore e il secondo con le sue bacchette.
“Quindi… vorresti entrare come bassista nella nostra band?” mi chiede Sammy con un enorme sorriso. In realtà non gli ho mai visto un’espressione diversa da quella da quando sono entrato nel suo garage e l’ho conosciuto e questo lo rende ancora più buffo, insieme ai capelli rosso accesi e al miliardo di lentiggini sparse per tutto il viso.
“Certo!” rispondo d’istinto. “Io non lo so suonare, ma imparerò. Lo voglio fare!”
E così adesso sono il bassista di una band di cui non conosco nemmeno il batterista – questo però non è un problema, faccio amicizia molto facilmente. E poi se è un amico di Ethan dev’essere per forza un tipo a posto.
Ma soprattutto non capisco un accidente di musica.
Ethan mi sfila il basso dalle mani – anche se non glielo vorrei cedere – e lo osservo mentre muove quelle strane manopole all’estremo del manico. Servono per accordare, mi ha spiegato. Dovrò imparare, se voglio essere un bravo bassista.
Lui è un bravissimo musicista, anche se è ancora piccolo. Suona la chitarra da sempre, è la sua più grande passione e a volte l’ha anche portata con sé quando siamo usciti insieme, ma non sempre perché non la vuole rovinare. È bravo e conosce un sacco di musica.
Probabilmente se non fosse stato per lui non avrei mai provato a suonare qualcosa.
 
 
Quando sono costretto a separarmi dal basso di Sammy – è suo, così come la batteria e il garage in cui ci siamo rintanati; suo padre aveva una scuola di musica anni fa – sento subito una mancanza, è come se mi avessero strappato da un abbraccio. Voglio che quelle vibrazioni mi avvolgano ancora il corpo, voglio imparare tutti i trucchi e gli stratagemmi per ottenere un suono come piace a me. Voglio imparare a parlare attraverso quelle quattro corde, un po’ come quando Ethan inizia a suonare la chitarra e tutti ammutoliscono rapiti.
Voglio un basso tutto mio da poter suonare in ogni momento.
Zia Maura non sarà per nulla contenta quando glielo dirò. Ultimamente non è mai contenta di quello che faccio.
Sa che vado in giro per i fatti miei, che mi sono fatto degli amici e che mi sono strappato i jeans per essere più figo; si arrabbia sempre un sacco quando faccio tardi la sera e torno a casa quando ormai è buio. E non le piace la gente che frequento.
Qualche giorno fa le ho anche rubato qualche moneta dal portafoglio, ma non diteglielo.
Forse, se le prendessi una monetina al giorno, senza che se ne accorga, riuscirei a racimolarne abbastanza per comprare un basso.
 
 

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Capitolo 7
*** VI ***


VI
 
 
 
 
 
I'm cold, I'm drunk
I just don't care about, care about you
I smoke too much and I just don't care about you
I sing my songs and I just don't care about, care about you
I'm on my stars and I just don't care
[Måneskin – Shit Blvd]
 
 
 
 
 
Spingo piano la porta d’ingresso, che cigola fastidiosamente, e mi intrufolo in casa senza nemmeno accendere la luce. Spero davvero che zia Maura sia a letto e non si accorga di niente, non mi va di sentire una sua ramanzina e soprattutto non posso rischiare che veda i miei occhi.
Capirebbe, e allora sì che rimarrebbe delusa.
È stata una serata epica, come mai prima d’ora. Io e Ethan siamo andati in giro, abbiamo fumato marijuana, abbiamo combinato un sacco di stronzate con gli altri ragazzi del quartiere e alla fine il mio amico è riuscito a recuperare un paio di bottiglie di birra. Non so come abbia fatto, ha solo tredici anni, ma dice che è stato merito di Davi, il suo fratello maggiore.
Io non ho indagato troppo, un po’ perché Davi mi inquieta e un po’ perché Ethan è troppo riservato e non avrebbe senso fargli domande; se vorrà svelarmelo un giorno, lo farà di sua spontanea volontà.
Succede sempre così tra noi.
Muovo qualche passo in corridoio, ma subito la figura corpulenta di zia Maura mi si materializza di fronte. Nonostante la penombra, non mi sfugge la scintilla di rabbia che le attraversa gli occhi mentre mi afferra per la manica della maglietta.
Sono così frastornato che non ho la forza di reagire – forse ho un po’ esagerato stasera – ma mi ricordo di serrare gli occhi per evitare che si accorga di quanto sono rossi.
Cazzo, e se sentisse l’odore dell’erba sui miei vestiti o quello dell’alcol nel mio alito?
“Stavo per chiamare la polizia” ringhia.
So che dietro questo suo fare severo e aggressivo si nasconde un’enorme preoccupazione e allora mi sento un pochino in colpa, ma giusto un po’.
Cerco di scrollarmi le sue mani di dosso e scuoto il capo, lasciando che le mie ciocche corvine e ribelli nascondano il mio viso. “Dai, zia, siamo solo stati in giro e non mi sono reso conto dell’orario…”
“Ives, hai dodici anni ed è l’una di notte! Non voglio assolutamente che tu rimanga là fuori a quest’ora, intesi?”
Sbuffo e cerco di aggirarla, nella speranza che mi lasci in pace. “Buonanotte.”
“No, forse non ci siamo capiti!” Mi riacciuffa e mi costringe a voltarmi, poi mi afferra il mento e mi obbliga a guardarla dritta negli occhi.
Oscurità, ti prego, nascondi i segni dei miei eccessi.
“Non pensare che ora puoi fare quello che ti pare solo perché Maggie è andata a studiare fuori, sono pur sempre tua madre!”
“No, non sei mia madre” le sputo in faccia, sicuro di me come non lo sono mai stato. Può essere che sia l’alcol a disinibirmi in questo modo, ma adesso non ho voglia di pensarci.
Zia Maura mi lascia andare e all’improvviso i suoi occhi si incupiscono.
Finalmente riesco a sfuggirle e corro subito in camera mia, sbattendomi la porta alle spalle. Sì, mi prendo anche questo diritto, perché oggi sono il padrone del mondo, mi sento onnipotente.
Mi sentivo onnipotente con la canna tra le labbra.
Mi sentivo onnipotente col bicchiere tra le dita.
Mi sentivo onnipotente mentre le ragazze strette nei loro abitini ci lanciavano occhiate languide e sognanti.
Finalmente ho trovato un posto dove sentirmi a casa, una famiglia pronta ad accogliermi veramente e chi se ne fotte se zia Maura non approva, non mi può controllare come quando ero piccolo.
Del resto non l’ha mai fatto. Non c’era quando Stan mi picchiava o quando Maggie mi minacciava.
Metto su l’unica audiocassetta dei Clash che possiedo – loro sono gruppo preferito di me ed Ethan – e rovisto nel mio zaino alla ricerca di accendino e sigarette, poi mi dirigo alla finestra e ne accendo una, lasciando cadere la cenere all’esterno. L’aria della sera mi pizzica la pelle e il fumo mi pizzica i polmoni, l’adrenalina comincia a scemare.
Ora sì che sto bene.
Faccio scorrere lo sguardo per la mia stanza, illuminata solo dalla luce leggera della luna, e intravedo la sagoma del basso di Sammy abbandonato ai piedi del letto. Ormai quello strumento è più mio che suo, dato che ce l’ho sempre con me. E poi lui non lo sa suonare, non se ne fa niente.
So cosa farò per il resto della nottata: suonerò. Non c’è modo migliore per concludere una giornata perfetta come questa.
 
 

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Capitolo 8
*** VII ***


VII
 
 
 
 
 
Ho fatto questo tatuaggio unicamente per il dolore. I disegni e i colori, sono giusto per ricordo.
[Anonimo]
 
 
 
 
“Non ti conviene tirarla su prima del tatuaggio. Sai, la coca tende a innervosire e non è l’ideale quando c’è da avere pazienza.”
Distolgo lo sguardo dalla striscia bianca che ho disposto sul piano del tavolino di fronte a me e lo fisso su Ethan. È sempre così fottutamente silenzioso, compare dal niente e anche stavolta non mi ero accorto del suo arrivo.
“Mmh, dici?”
“Ce la fai a resistere?” mi chiede, inarcando un sopracciglio.
Faccio saettare lo sguardo dal suo viso alla cocaina abbandonata sul tavolo, è così invitante…
Infine sorrido al mio amico. “Certo che ce la faccio. Mi hai preso per un drogato di merda?”
Ethan si stringe nelle spalle, mi sfila la banconota dalle dita e, dopo averla arrotolata, sniffa in un solo colpo la pista bianca che avevo preparato. “Perché, non è questo che siamo? Due tossici.”
Mi acciglio. “Ehi, quella me la devi rimborsare!”
“Ti ricordo che sono io a pagarti il tatuaggio” ribatte con un sorriso sornione.
Scoppio a ridere e gli batto una pacca sulla spalla. “Lo so, stavo scherzando. Andiamo?”
“Andiamo.”
 
 
Gli aghi non mi sono mai stati simpatici, infatti non mi sono mai riuscito a spiegare chi si fa di eroina e che quindi si deve iniettare la roba in vena. Come si fa ad abituarsi a qualcosa del genere e addirittura trovarlo piacevole?
Forse è per quello che mentre Cleen, il mio tatuatore, applica lo stencil sul mio braccio, una leggera ansia mi pizzica il cuore, accelerando i miei battiti.
Ethan mi ha regalato questo tatuaggio per i miei quindici anni e io lo voglio con tutto me stesso, ma l’idea che tanti aghi mi bucheranno la pelle mi agita parecchio.
Sono nervoso, forse avrei fatto meglio a tirare su la coca prima di venire qui. Mi sono pentito di non averlo fatto.
“Pronto, ragazzino?” mi chiede Cleen, armeggiando con una macchinetta.
Mi impongo di rimanere calmo e mettere su una faccia da duro. “Sicuro.”
Devo pensare ad altro.
La mia mente corre verso linee di basso che so a memoria, verso i bellissimi concerti che ho visto al Whisky e al Rainbow, verso i corpi vibranti delle ragazze che mi vorticano attorno, invitandomi a sfiorarli ed esplorarli. Non vedo l’ora di uscire di qui e immergermi in questa vita così eccitante, quella che ho sempre sognato e che ora stringo in pugno.
Quasi non mi accorgo del ronzio della macchinetta che si accende, da quanto ho la testa piena di nuove linee di basse, canzoni da provare e da plasmare.
Ma quando gli aghi mi feriscono la pelle, all’improvviso torno alla realtà.
E la sento. È una scossa, un brivido, una sensazione tutta da conoscere. È un dolore quasi insopportabile, ma per qualche strano motivo mi piace.
Mi ricorda che sono vivo.
Improvvisamente mi dimentico del disegno, delle linee, dei colori, delle sfumature e di ciò che rimarrà sul mio braccio una volta terminato il lavoro: esistiamo solo io, gli aghi che pungono la pelle e quella micidiale scarica al cervello che continua a inebriarmi.
Nel profondo del mio cuore, me lo sento, questo è l’inizio della mia rovina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
-      Il nome del tatuatore, Cleen, è un (neanche troppo) velato omaggio a uno dei miei partecipanti di Ink Master preferiti, Cleen Rock One.
-      Il Whisky A Go Go e il Rainbow sono due famosi locali di Los Angeles, che soprattutto negli anni Settanta e Ottanta sono stati il fulcro della musica rock losangelina.
 
 

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Capitolo 9
*** VIII ***


VIII
 
 
 
 
 
Here comes the bad rain
Falling from an aching heart
[Slash, Myles Kennedy & The Conspirators - Bad Rain]
 
 
 
 
Schiudo gli occhi con cautela e, mentre un forte mal di testa e un pressante senso di nausea mi assalgono, non posso fare a meno di formulare un pensiero: ieri notte è stato uno sballo. Non ricordo di preciso cosa sia successo, so solo che è stato pazzesco.
Il mio sguardo viene catturato dal grigiore che regna fuori dalla finestra, le cui imposte sono spalancate; decine di goccioline di pioggia rigano il vetro. Osservarle, nello stato in cui mi trovo, non fa che aumentare il mal di testa e la confusione che ho nel cervello.
Che ore sono? Non ne ho idea. A dire il vero non so nemmeno come sono tornato a casa, ho un vuoto di memoria che va dal nostro concerto al Whisky fino a ora. Forse sono stato con una ragazza dopo il live, non ne sono certo, ma sicuramente è stato divertente.
Dovrei alzarmi, ma ancora non ne ho la forza.
Faccio scorrere lo sguardo per la stanza e sorrido nel constatare che è un disastro, la giusta rappresentazione di me.
C’è una piccola radio in un angolo, collegata alla corrente e accesa, sintonizzata su una stazione dal segnale disturbato; per fortuna il volume è basso, emette dei suoni ronzanti davvero fastidiosi. Deve essere rimasta accesa per tutta la notte. Sul pavimento, lì accanto, è un cimitero di vinili, cassette, indumenti vari, riviste a tema musicale, fogli e qualche libro; poggiato ai piedi del letto invece staziona il mio basso meticolosamente sistemato e chiuso all’interno della custodia.
Frastornato, mi metto a sedere lentamente e faccio scorrere una mano tra i capelli corvini e scarmigliati, le ciocche lisce e annodate mi si impigliano tra le dita prima di ricadermi sul collo e attorno al viso. Dovrei proprio farmi una doccia, prima di uscire nuovamente a fare baldoria stasera.
Stiamo ingranando, oggi suoneremo come gruppo spalla per una band non tanto famosa ma davvero forte, si chiamano Guns N’ Roses. Ho sempre saputo che i miei Storm It Down hanno del potenziale, ho sempre saputo che siamo fatti per spaccare e sono davvero entusiasta di avere l’occasione per portare in giro la mia musica, i brani in cui noi crediamo.
Serro gli occhi per qualche istante, il mal di testa mi rimbomba sempre più forte nelle tempie. Devo fare qualcosa per anestetizzarlo.
Intorpidito, scivolo giù dal letto e mi trascino fino alla scrivania, dove è scompostamente posata la mia fedele giacca in pelle; frugo nelle tasche e i miei polpastrelli sfiorano proprio ciò che stavo cercando: una piccola bustina. Prima di estrarla, tuttavia, mi guardo attorno con circospezione e tendo l’orecchio per cercare di captare eventuali rumori fuori dalla stanza.
Evito in tutti i modi di portare coca in casa, anche la più piccola dose, perché non voglio che zia Maura la trovi o che si insospettisca. L’ho già delusa tante volte: sa che fumo marijuana e che spesso torno a casa ubriaco, la sera non sa mai dove mi reco e chi frequento, vive nella costante paura di ricevere qualche chiamata dalla polizia per via delle mie bravate. Non voglio darle anche questo dolore, un figlio cocainomane sarebbe troppo.
Estraggo la bustina con un movimento fulmineo e mi fiondo nuovamente sul letto, rapido come un ladro. Cazzo, mi sento come se stessi rubando in casa mia.
Però so che è necessario agire con cautela e prudenza.
Porto fuori tutto il materiale con movimenti frettolosi e lo dispongo sul comodino sudicio. Ah, non vedo l’ora di farmi, dopo starò subito meglio!
Mentre mi preparo la pista, rifletto su quanto io sia fortunato ad avere una figura come zia Maura nella mia vita. È stata l’unica ad accogliermi quando sono rimasto orfano, l’unica che mi ha trattato come un vero e proprio figlio, l’unica ad avermi perdonato qualsiasi cosa, anche quando le ho detto e fatto cose orribili, anche se la faccio dannare e preoccupare da diciassette anni ormai. Non la merito, decisamente. È troppo buona con me.
Scaccio quei pensieri e, servendomi di una banconota arrotolata, tiro su la striscia di polvere bianca che sta sul comodino. Un bruciore ormai familiare mi pizzica le narici, fino a scivolare giù, sempre più a fondo dentro me, fino ai polmoni. Una volta terminato, tiro su col naso un altro paio di volte e gli occhi mi pizzicano, velandosi appena di lacrime.
Sniffare non mi piace tanto in realtà, è fastidioso, ma la sensazione che provo subito dopo è impagabile. Mi sento rigenerato, come se le energie mi si fossero risvegliate di botto e avessero preso a scorrere per il mio corpo intorpidito. Ho l’impressione di poter fare qualsiasi cosa.
Adocchio la sveglia lì accanto, le lancette arrancano a fatica sul quadrante. Sono passate da poco le quattro del pomeriggio e io mi sono già sparato la prima dose della giornata.
Con un mezzo sorriso sulle labbra, mi accingo a rimettere a posto tutto e nasconderlo per bene: l’ansia di poter essere scoperto mi serra ancora lo stomaco.
Mi alzo e mi dirigo nuovamente verso la scrivania con la bustina stretta tra le mani, ma mentre la sto per infilare nella tasca della giacca, accade proprio ciò che non sarebbe dovuto succedere.
La porta della camera si schiude piano e zia Maura vi si affaccia, un’espressione accigliata a indurire ancora di più i suoi lineamenti marcati. “Ives, allora sei qui. Ieri notte non ti ho sentito rientrare” afferma.
Io sono immobile, paralizzato in mezzo alla stanza, con le dita strette convulsamente al bordo del sacchettino incriminato. Non ho idea di quale espressione possa essersi dipinta sul mio viso, ma sento chiaramente il sangue defluire dalle mie guance e un capogiro mi investe.
Okay, con calma. devo riflettere. Fare qualcosa. Non devo guardarla in faccia, magari in questo modo riesco a scamparla.
Getto rapidamente la bustina in una tasca e continuo a dare le spalle a mia zia. Sento che sto iniziando a tremare.
“Cazzo, ma l’educazione e la privacy dove sono andate a finire? Bussare non si usa più?” sbotto, la voce dura e alterata. Non sembra neanche la mia.
Una remota vocina in un angolo del mio cervello mi suggerisce che non dovrei rivolgermi così a zia Maura, ma la scaccio come fosse un insetto fastidioso.
“Ives.” Pronuncia il mio nome con lentezza, in un tono talmente basso e minaccioso da mettermi i brividi. Poche volte l’ho sentita così incazzata.
Stavolta l’ho combinata grossa.
Zia Maura accorcia la distanza tra noi, sento i suoi passi pesanti e cadenzati alle mie spalle; un attimo dopo posa una mano sulla mia spalla e mi costringe a voltarmi con forza. Tento di opporre resistenza, ma la mia fisionomia esile non può nulla contro di lei, così robusta e corpulenta.
E dire che da piccolo tra quelle braccia così forti cercavo protezione…
Non sollevo lo sguardo, so che i miei occhi mi tradirebbero.
“Cosa stavi facendo?” sibila zia Maura in tono tremendamente serio.
“Non ti riguarda” mi ritrovo a rispondere, sfrontato.
“Quindi non ti dispiacerà se do un’occhiata qui.” Allenta bruscamente la presa su di me e afferra lesta la mia giacca in pelle.
No, no, no!
Col cuore a mille, tento di strappargliela dalle mani. “Lasciala! Porca puttana, molla la mia giacca!” strillo, la voce sale di diverse ottave e assume una nota isterica.
Sono disperato e anche piuttosto incazzato.
Ma lei è più forte di me e, nonostante i miei continui strattoni, riesce a infilare una mano proprio nella tasca destra. “Come, Ives? Se non hai nulla da nascondere, perché ti preoccupi tanto?” mi sfida.
“Cazzo! Non ti azzardare a mettere le mani sulle mie cose!” continuo a inveire, quasi con la bava alla bocca per la rabbia, tentando di spingerla indietro. Ci metto tutta la forza che ho, ma lei vacilla appena.
Ormai è troppo tardi. L’ha trovata, l’ha portata fuori, la stringe tra le dita con diffidenza – come se la temesse – e la osserva con circospezione.
Allora mi fermo. Tanto non c’è più niente da fare, non esiste nessuna giustificazione che regga.
Zia Maura sposta lo sguardo su di me e finalmente ho il coraggio di incrociarlo. I suoi occhi scuri sono due tizzoni ardenti, scintillano di un’ira che mi mette davvero paura.
Ma non è quella la vera pugnalata. Ciò che mi fa male davvero è la delusione, il dolore, che leggo nel fondo delle sue iridi.
L’ho delusa. Di nuovo.
Sento gli occhi bruciare.
Zia Maura getta via la bustina, che va a schiantarsi sul pavimento, poi mi afferra il mento e mi costringe a guardarla dritta negli occhi. Di certo le mie pupille parlano chiaro, non c’è bisogno di altre spiegazioni.
“Da quanto?” ringhia.
Le energie sembrano avermi abbandonato all’improvviso, mi sento prosciugato.
“Zia, io…”
“Va bene.” Mi lascia andare e si scosta bruscamente da me, come se l’avessi scottata. La solita vocina maligna mi bisbiglia che probabilmente quello sarà l’ultimo contatto che avrò con lei.
“Ives, io con te non so più cosa fare. Per te mi sono impegnata fin dal primo giorno, mi sono rimboccata le maniche e ho lavorato sodo per non far mancare niente a te e Maggie, ti sono stata vicina quando ne avevi bisogno, ti ho sempre chiesto cosa ti serviva per stare bene, ti ho lasciato tutta la libertà di cui avevi bisogno, ti ho perdonato tante volte nella speranza di vedere dei cambiamenti, dei miglioramenti, in te. io ho sempre avuto fiducia in te perché ero certa che tu fossi un ragazzo intelligente e avresti saputo sfruttare le giuste occasioni, avresti saputo distinguere il bene dal male. Ma evidentemente sperare non è bastato.” Mentre parla la voce le trema appena, anche se non perde la sua solita vena autoritaria, e per una frazione di secondo scorgo i suoi occhi inumidirsi e luccicare. Ma si ricompone subito e, assumendo un’espressione severa e irremovibile, conclude: “Hai tempo fino a domani per prendere tutte le tue cose e andartene. Questa non è più casa tua”.
Mi azzardo a ridere: deve essere uno scherzo.
“Ti rendi conto che non ho un altro posto in cui stare?” le faccio notare.
Sta scherzando, ne sono sicuro. Non può mandarmi via così, non lo farebbe mai. D’accordo, l’ho davvero delusa, ma non arriverebbe mai a tanto.
“Lo so e non mi interessa, non è più un problema mio.”
Sgrano gli occhi, il fiato mi si mozza.
La osservo voltarsi e avviarsi impettita verso l’uscita. Nessun ripensamento, nessuna titubanza.
Prima di lasciare definitivamente la stanza, si volta nella mia direzione e mi rivolge un’occhiata talmente carica di dolore da mandare il mio cuore in frantumi. “Figlio mio, io ti amo con tutta me stessa, non dimenticartelo mai. È proprio per questo che non ho nessuna intenzione di restare a guardare mentre ti distruggi con le tue stesse mani. Non ce la faccio.”
Quando la porta si richiude, la stanza piomba nel silenzio, fatta eccezione per il tamburellare della pioggia all’esterno e il fruscio della frequenza disturbata proveniente dalla radio.
Anche il mio cervello è in silenzio, talmente carico da non riuscire più a elaborare niente.
 
 
Le strade sono inondate d’acqua, le crepe e le fosse sull’asfalto sfasciato si sono trasformate in grandi pozzanghere che ingannano l’occhio in tutto quel grigiore.
Le mie scarpe in tela sono zuppe, la mia giacca in pelle non è abbastanza per proteggermi dal gelo che ho dentro.
Cammino sotto la pioggia e non mi importa di bagnarmi, di ammalarmi, di tremare per il freddo. Anzi, in questo momento non mi dispiacerebbe stare molto male e morire.
L’unica cosa che non si deve infradiciare è il basso che porto in spalla, ma per fortuna qualche mese fa ho investito per una bella custodia rigida e impermeabile. Enorme. Sembra volermi schiacciare sotto il suo peso mentre arranco sul ciglio della strada.
Anche io sono fatto di pioggia: tante goccioline mi rigano il viso, ma queste sono calde e salate, bruciano. Mi sento così debole e sbagliato a piangere così, come un bambino, con dei singhiozzi profondi che mi scuotono il petto e mi fanno sussultare le spalle, ma ora non importa. Non c’è nessuno intorno a me, tutti si defilano e si rintanano a casa durante le giornate di pioggia; io sono l’unico che se ne va in giro a prendere freddo.
Devo arrivare al Rainbow, dove suoneremo. Avrei potuto prendere un autobus, ma ho bisogno di camminare, di sgombrare la mente da tutti i pensieri prima del grandioso concerto di stasera.
Ho bisogno di piangere da solo.
Scuoto il capo e cerco di scacciare via le lacrime dalle mie guance, ma anche il dorso della mano è fradicio, non serve a niente.
La verità è che non ho nessuna voglia di andare al concerto stasera, voglio solo riavere indietro la mia casa e la mia mamma. Non è un pensiero per niente figo da formulare a diciassette anni, me ne vergogno tantissimo, ma in questo momento mi sento come quel bambino di quattro anni, fragile e indifeso, che correva a nascondersi tra le braccia di zia Maura ogni volta che qualcosa andava per il verso sbagliato.
È proprio quello che vorrei fare: mollare tutto, correre da lei, chiederle scusa, prometterle che cambierò e che non la deluderò più. Ma sarebbero promesse vane.
Non cambierò mai, ho scelto la mia strada e ho preso la mia decisione. Mi sono lasciato corrompere dalla vita di strada e dalla droga, anche se ho sempre saputo che stavo sbagliando.
Volevo la vita di strada? Ecco, ora in mezzo alla via mi toccherà anche dormire.
Mi fermo sotto la tettoia di una fermata del bus e frugo dentro la custodia del basso in cerca delle sigarette. Se continuo a camminare sotto l’acqua scrosciante, non riuscirò ad accenderne una.
Il mio corpo è scosso da tremiti di freddo, le ciocche corvine mi si sono appiccicate in testa e mi gocciolano addosso senza tregua.
Fumo in fretta la prima sigaretta, quasi tutta d’un fiato, vorace; getto a terra il mozzicone e ne accendo subito un’altra. La nicotina è l’unica sostanza a mia disposizione in questo momento, ho finito anche la coca. Devo arrivare al Rainbow il prima possibile e cercare qualcosa per stordirmi.
Ma sì, in fondo cos’ho da perdere? Ho intrapreso questo cammino verso l’abisso e quindi tanto vale tuffarmici dentro, giocare a questo gioco finché non mi fotterà.
Adesso che ho rotto anche con zia Maura, l’unica persona della mia vecchia vita di cui mi importava qualcosa e a cui importava qualcosa di me, cosa mi rimane? Non devo più rendere conto a nessuno, posso anche distruggermi.
Sospiro pesantemente mentre osservo la pioggia scrosciare, sempre più violenta, giù dalla tettoia in plastica e riversarsi a terra. La strada è come un fiume in piena, l’acqua scorre frenetica come a voler purificare tutto, mentre io mi sento sempre più sporco. Intanto, senza neanche farci caso, ho già acceso la quarta sigaretta.
E dire che zia Maura è forse l’unica persona che mi ha voluto bene, l’unica che mi ha sempre sostenuto e mi è stata vicina, anche quando non glielo chiedevo. Quante volte l’ho offesa e l’ho accusata di essere stata assente, di essere sempre al lavoro, quando in realtà lei lo faceva solo per me, per mantenermi e non farmi mancare niente.
Ha sbagliato a riporre fiducia in me, oggi ne ha avuto la conferma: sono un caso perso. Sono una nullità, non riesco a fare niente di buono e, ancora una volta, ho distrutto tutto. Il riassunto della mia vita, in sostanza.
Sono riuscito a farmi odiare da colei che mi ha sempre amato incondizionatamente, come se fossi suo figlio, sangue del suo sangue.
Gli occhi ricominciano a bruciarmi e riversare lacrime disperate sul mio viso gelido. Getto la sigaretta fumata per metà a terra e scoppio a piangere più forte di prima.
Detesto mostrarmi così fragile perfino davanti a me stesso. Ma che ci posso fare se l’unica cosa che vorrei ora è un abbraccio caldo e qualcuno che mi sussurri che non ho sbagliato proprio tutto?
Basta Ives. Stasera hai un concerto, vai e spacca tutto.
Riprendo il mio cammino, il basso sempre in spalla, e la pioggia mi investe come un’infernale doccia fredda.
Devo andare al Rainbow e fare finta che nulla sia accaduto. Suonerò. Mi stordirò.
Berrò come una spugna fino a vomitare. Anzi, di più.
Fumerò erba fino a consumarmi i polmoni. Anzi, di più.
Tirerò su strisce di coca fino a farmi sanguinare il naso. No, farò di più, molto di più.
Voglio qualcosa di potente, ma potente davvero, che mi faccia dimenticare ogni problema e illudere per un istante che vada tutto bene, che sia tutto a posto. Voglio una sensazione di calore e luce che mi scorra direttamente nelle vene.
Sorrido tra le lacrime per un attimo: anche stasera me ne fotterò dei problemi, mi divertirò e starò bene.
Chi se ne frega se ho perso una famiglia, ne ho un’altra pronta ad accogliermi così come sono, con i miei difetti e i miei vizi.
Quando finalmente giungo davanti al Rainbow, la luce grigia del giorno è ormai un lontano ricordo. Non so quantificare per quanto tempo ho camminato, ma a un certo punto mi sono arreso e ho preso un bus, ci avrei impiegato troppo tempo ad arrivare altrimenti.
Entro nel locale grondante d’acqua e sicuramente in condizioni pietose; gli occhi saranno certamente cerchiati di rosso, ho smesso di piangere da poco. Mi inventerò una scusa.
I primi che avvisto nella penombra del locale sono i ragazzi dei Guns N’ Roses, stipati in un angolo insieme alla loro cerchia di amici. Li saluto con un breve cenno prima di far slittare lo sguardo altrove, in cerca dei miei compagni di band.
Alick è sul palco e sta montando la sua batteria – ancora non ci possiamo permettere dei roadies che si occupino di queste cose al posto nostro – mentre chiacchiera animatamente con Oliver, il nostro cantante.
Io però sono in cerca di Ethan, è di lui che ho bisogno. Sicuramente si trova in un angolo a sorseggiare un po’ di vodka, accordare la sua chitarra e scambiare due parole con qualcuno. Mi guardo attorno, ma a colpo d’occhio non riesco a individuarlo.
Nel frattempo Oliver si volta, mi intercetta e mi invita ad avvicinarmi con un ampio cenno della mano. Metto su il mio miglior sorriso e mi avvicino, sperando che non si accorgano di niente.
“Amico, sei appena uscito dalla doccia?” commenta Oliver, scrutandomi attentamente con quei suoi occhi verdi e indagatori.
“Dov’è Ethan?” vado subito dritto al punto. In genere sarei entusiasta di chiacchierare e scherzare con loro, ma oggi non ne ho voglia.
Alick solleva lo sguardo dal rullante che sta finendo di posizionare sull’asta, parte della sua enorme chioma castano scuro gli ricade sul viso. “Sei sicuro di stare bene, Ives?” mi domanda col suo solito tono pacato.
Gli sorrido. “Alla grande! Mi sono solo un po’ bagnato sotto la pioggia.” Talmente tanto che mi si sta formando una piccola pozza sotto i piedi: i capelli e i vestiti sono completamente inzuppati d’acqua. “Allora, Ethan dov’è?”
Alick mi rivolge un’occhiata dubbiosa prima di afferrare l’asta di un piatto e riprendere ciò che stava facendo. Ha capito che c’è qualcosa che non va. Quel ragazzo ha un sesto senso eccezionale, è l’ultimo arrivato nella band ma è come se avesse letto l’anima di tutti e tre, semplicemente standoci accanto.
Oliver afferra premurosamente la mia custodia che ancora stazionava sulla mia spalla e la ripone in un angolo accanto ad altra attrezzatura, poi mi ficca tra le mani un bicchierino pieno di Jack Daniel’s e mi indica un anfratto buio alla destra del palco. “Se non si è volatilizzato, Ethan dovrebbe essere lì.”
Mando giù lo shot tutto d’un fiato, sperando che mi riscaldi, poi appoggio il bicchiere a bordo palco e mi dirigo in quella direzione. Adesso posso anche smettere di sorridere e mostrarmi come il ragazzino entusiasta che sono sempre stato, con Ethan non c’è bisogno di fingere. Ci ho provato tante volte, ma non riesco mai a fregarlo.
Proprio come avevo previsto, lo trovo seduto su una cassetta di birre rovesciata e la schiena contro il muro, una bottiglia semivuota poggiata accanto a lui e la chitarra tra le braccia. Le sue sopracciglia scure sono aggrottate in un’espressione concentrata e le sue dita sottili e agili volano sulle corde con la solita naturalezza che ogni volta mi spiazza. Sembra esserci nato, con quello strumento in mano.
Non appena gli giungo accanto, mi squadra da capo a piedi come se mi vedesse per la prima volta: non devo fare una buona impressione, con i capelli appiccicati in faccia, gli occhi gonfi e rossi, il corpo tremante e sepolto da indumenti troppo grandi che sembrano volermi seppellire. Nei suoi occhi grandi e scuri come il carbone leggo una tacita domanda, che però Ethan non osa farmi ad alta voce. Come sempre.
Ha capito che sto male e che è successo qualcosa, ma gliene parlerò quando sarà il momento. Tra noi funziona così, i punti interrogativi sono qualcosa di veramente raro.
Mi getto a terra accanto al mio migliore amico e mi stringo le braccia intorno al corpo nel tentativo di scaldarmi. Con lo sguardo fisso davanti a me, perso nel vuoto, affermo: “Da domani verrò a stare da te, dormirò sul tuo divano”.
Lui inarca appena un sopracciglio, poi scrolla le spalle come a voler dire che per lui non c’è problema. Ha un piccolo appartamento tutto per sé in centro a Los Angeles, il suo fratello maggiore Davi gli paga l’affitto tutti i mesi. Ed è proprio lui, tra l’altro, a procurarci la coca ogni volta che ne abbiamo bisogno, essendo uno spacciatore piuttosto ricco e influente; ha un bel giro qui a Los Angeles, ricopre una posizione davvero prestigiosa.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi ha scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Trascorrono alcuni istanti di silenzio in cui ci scambiamo giusto qualche occhiata fugace.
“Beh, che si fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai” afferma senza mezzi termini.
Sorrido appena: ormai non mi offendo più quando insulta i miei famigliari, è soltanto il suo modo di dimostrarmi solidarietà, anche se un po’ rude.
Si volta per afferrare la bottiglia abbandonata sul pavimento, ne prende un lungo sorso e poi me la passa. Lo imito e lascio che l’alcol mi scorra in tutto il corpo, riscaldandomi e rilassandomi.
Poi la poso nuovamente sul pavimento, punto i miei occhi in quelli di Ethan e metto su un sorrisetto innocente. “Davi spaccia anche eroina, vero?”
Ethan non è un ragazzo che lascia trasparire le sue emozioni, ma a quelle parole tutti i suoi muscoli si tendono e un lampo di panico gli attraversa lo sguardo. “Non dire stronzate, Ives Mancini” sibila.
 
 
Faccio scorrere lo sguardo dalla pelle pallida del mio braccio all’ago lucente, pensando che tra poco si congiungeranno. Non sono emozionato, non sono agitato, ma soltanto impaziente, come se il mio corpo e la mia anima avessero sempre saputo che questo momento sarebbe giunto. Non c’è niente da accettare e da capire, era già tutto scritto.
Sono fatto per questo.
Ethan non è per niente d’accordo, sostiene che dovrei stare lontano da questa merda e che mi distruggerà il cervello in maniera irrimediabile; si è incazzato veramente tanto, penso fosse addirittura in apprensione, ma poi ha capito che a quest’età sono io a dover prendere le mie decisioni, giuste o sbagliate che siano.
Parla proprio lui, che con i soldi ricavati da questa merda ci vive.
Sono pronto. Poso la punta dell’ago laddove mi pare di individuare una vena, inizialmente leggera, mentre i miei pensieri scorrono a mille.
Oh sì, finalmente ci siamo. Non vedo l’ora di provare quello sballo di cui tutti parlano, così sublime, così totalizzante che tutti i problemi sembrano sparire e il mondo sembra bellissimo.
Voglio soltanto smettere di soffrire.
Spingo l’ago sotto la pelle, spingo l’ero nelle mie vene. Non ho paura.
E all’improvviso la sento esplodere nella testa. È qualcosa di sgargiante, è un piacere talmente intenso che stordisce.
Mi viene da ridere e da piangere insieme. Sto per svenire, ma mi sforzo di rimanere vigile e catturare quell’attimo, talmente bello e surreale che mi si imprime a fuoco nella mente.
Oggi è il 17 novembre 1985, fuori piove e io sono felice. Finalmente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
-      Come già accennato nello scorso capitolo, il Rainbow e il Whisky A Go Go sono due famosi locali di Los Angeles che, a partire dagli anni Sessanta ma soprattutto nei Settanta e Ottanta, sono stati l’epicentro del rock losangelino.
-      Ho deciso di inserire (molto marginalmente) i Guns N’ Roses perché proprio in quel periodo erano una delle band più popolari del giro, anche se si erano formati da poco e non avevano ancora fatto grande successo.
-      Ci tengo a precisare (per Mary che non ha letto il resto della raccolta) che zia Maura è appunto la zia materna di Ives, che ha preso in affidamento il bambino quando questo aveva solo una settimana. Maggie, a cui si accenna soltanto in una frase, è la figlia biologica di Maura, cugina e “sorellastra” di Ives, ha sei anni in più di lui e si è trasferita altrove diversi anni prima.
-      Non so se alcuni lettori attenti l’hanno notato, ma tutti i componenti della band di Ives (gli Storm It Down) hanno nomi che iniziano per vocale (Ives, Ethan, Alick, Oliver). È stato quasi un caso e l’ho trovata particolare ^^ a tal proposito, ringrazio Carmaux per i deliri, i suggerimenti e la pazienza!


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Capitolo 10
*** IX ***


IX
 
 
 
 
 
And when you smile
The whole world stops and stares for a while
[Bruno Mars – Just The Way You Are]
 
 
 
 
Non appena poso lo sguardo su di lei, il primo pensiero che mi salta in mente è che stona completamente con l’ambiente circostante. In mezzo a tutto quel casino, alle ragazze dal trucco pesante e le minigonne che tentano in ogni modo di attirare l’attenzione, ai ragazzi con l’alito che odora di alcol e le pupille dilatate, al degrado dell’intero locale; lei sembra così ordinaria.
Così luminosa, coi suoi capelli di caramello, le iridi di miele, la maglia bianca che mette deliziosamente in risalto le sue forme e i jeans scuri e attillati. Una ragazzina acqua e sapone, di quelle che prendono buoni voti a scuola e aiutano la mamma a fare la spesa.
Perché si trova qui?
Seguo Ethan e Oliver verso il bancone, dove casualmente si trova proprio il gruppetto di cui fa parte anche la ragazza di mio interesse. Succede sempre così dopo i concerti: andiamo a ordinare qualcosa da bere e nel frattempo rimorchiamo qualche donna con cui concludere la serata in bellezza.
A dire il vero io non sono particolarmente amante della avventure di una notte, ma non sono mai riuscito ad avere una ragazza fissa. Forse non ne sarei nemmeno in grado.
Però stasera è diverso. Stasera c’è davvero qualcuno che mi interessa.
Il mio cantante e il mio chitarrista si avviano al bancone con passo sicuro, lanciando qualche occhiata alle ragazze nei paraggi e attaccando subito bottone con loro. Io invece rimango un passo indietro, voglio prima studiare la situazione.
Noto che la ragazza dai capelli di caramello si discosta dalle sue amiche, quasi spaventata dall’arrivo di Ethan e Oliver; la vedo sollevare gli occhi al cielo, poggiare i gomiti al bancone lurido e sospirare. Non sembra particolarmente contenta.
È la mia occasione.
Prendo coraggio, mi piazzo accanto a lei e le rivolgo un sorriso conciliante. “Ciao! Ti hanno lasciato sola?”
Lei mi rivolge un’occhiata scettica e incuriosita allo stesso tempo; le sue iridi sembrano proprio dipinte col miele, sono belle da morire. “Più o meno. Sapevo che sarebbe andata a finire così…” borbotta.
Così come?”
“Alcune mie compagne di scuola,” fa un cenno alla sua destra, dove le tre ragazze che la accompagnano continuano a parlare e ridere con Ethan e Oliver, “mi hanno convinto a venire qui, anche se ero piuttosto refrattaria. Mi hanno promesso che non mi avrebbero lasciato da sola per andare con qualche ragazzo, invece…”
“Non ti piacciono i concerti?” mi informo.
Lei scuote la testa e per la prima volta sorride. “Adoro i concerti, ma non mi piace l’atmosfera che si crea tutt’intorno.” Ridacchia appena e le sue guance si arrossano appena.
È assolutamente adorabile.
Tuttavia quell’ultima frase mi procura una strana sensazione all’altezza del cuore: io faccio parte proprio di quell’atmosfera che non le piace, provengo proprio da questo lerciume che ci circonda; non avrei nemmeno dovuto posare gli occhi su di lei, in ogni caso questa conversazione non andrà a buon fine.
“Ah, non mi sono presentata: Cheryl.” La ragazza mi sorride con fare dolce e conciliante, le labbra rosate le si increspano.
Ricambio il gesto e la scruto imbambolato; al diavolo se non le interesserò mai, ora sono qui e voglio vivere al meglio questo momento. “Ives, piacere.”
“E così tu sei il loro bassista?” mi domanda Cheryl, accennando appena a Ethan e Oliver.
“Sì. Tu suoni qualche strumento?”
Lei scuote il capo. “Non sono capace, ma amo la musica.”
“Mi stai simpatica” affermo con sincerità. “Posso offrirti da bere?”
Il suo sorriso entusiasta mi basta come risposta, è talmente radioso che pare illuminare l’intera stanza. “D’accordo!”
Ma subito dopo il suo sguardo ricade sul mio braccio magro e pallido, lasciato scoperto dalla t-shirt che indosso, e in particolare sul bozzo scuro che spicca nella parte interna.
Il segno che mi sono procurato un paio di giorni fa, quando ho sbagliato a bucarmi.
No, no, non è così che deve andare! Ho appena conosciuto Cheryl e non voglio che scopra subito cosa sono.
I suoi occhi tradiscono un’innocenza che io non voglio deturpare, non è giusto.
“Ah, questo… è di un controllo medico” mento, posando istintivamente un polpastrello sul segno scuro, come a volerlo nascondere. Abbozzo un sorriso, sperando di risultare credibile.
Come se il fatto che mi stia giustificando non sia già abbastanza sospetto…
Ma lei sembra non accorgersi di niente, anzi, un velo di imbarazzo le offusca lo sguardo. “Non eri obbligato a dirmelo, scusa, devo farmi gli affari miei.”
“Ma figurati! Allora, cosa ti offro?” cambio discorso con allegria, scacciando l’attimo di tensione che ci ha catturato.
Lei sorride. “Veramente non saprei, non sono molto abituata a bere. Opterei per una birra, ma se hai qualche altro consiglio…”
Allungo la mano sul bancone per afferrare un cartoncino su cui è stampato l’intero menu dei cocktail. “Allora… dipende dai tuoi gusti e da quanto ti vuoi sbronzare.”
Lei ride e mi dà di gomito. “Ti assicuro che da ubriaca non sono un gran bello spettacolo!”
Le lancio un’occhiata stranita, mentre nel frattempo penso che lei sarebbe uno spettacolo in qualsiasi stato.
“Non sto scherzando! Una volta, durante la cena del Ringraziamento, mio zio mi ha riempito talmente tante volte il bicchiere di vino che poi sono uscita in giardino a piedi nudi e mi sono messa a strillare una canzone di Natale!”
Scoppio a ridere. “Non è poi così terribile, si avvicinava il giusto periodo! Tornando a noi… ti piacciono i sapori dolci o preferisci quelli più forti?”
Cheryl si sporge sul bancone per sbirciare il menu dei cocktail, una sua ciocca liscia e morbida mi sfiora il palmo della mano.
E mi sento proprio come un ragazzino innamorato, come se per la prima volta avessi perso la testa, ed è una sensazione inebriante.
Mi sento al posto giusto nel momento giusto.
Mi sento così giusto e sbagliato contemporaneamente e per la prima volta mi preoccupo di cosa questa ragazza potrebbe pensare di me; ci tengo a fare bella figura.
E vorrei perdermi nella sua dolcezza, conoscere i suoi abbracci, divorare i suoi sorrisi.
Anche se una parte della mia mente sta già pensando che tra non molto finirà l’effetto dell’eroina e dovrò farmi di nuovo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Da qui la narrazione si interseca alla raccolta di drabbles Blue Eyed Damned Soul, narrata dal punto di vista di Cheryl. Per questo motivo non mi soffermerò troppo sul rapporto tra i due, non voglio essere ripetitiva per chi sta seguendo la serie e ha già letto di quelle vicende.
 
 

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Capitolo 11
*** X ***


X
 
 
 
 
 
There's an itch under my skin
It's under my skin, under my skin
'Cause I just wanna feel something real
[Nothing But Thieves – Itch]
 
 
 
 
Devo assolutamente farmi.
Questo è il mio primo pensiero quando scendo dal palco.
Sicuramente Davi ha mandato qualcuno per me e quel qualcuno mi sta aspettando all’ingresso secondario del locale.
Devo poggiare il basso e correre a prendere la mia roba. Cazzo, la mia eroina.
“Ehi, Ives” mi intercetta Ethan sul retro del palco, mentre armeggio nervosamente con la tracolla del basso.
Le dita mi tremano leggermente e sto cominciando a sudare freddo, sto fottutamente male. Non dovevo tirare così tanto la corda, sapevo di dovermi rifornire prima.
“Sai che oggi hai suonato proprio di merda?” prosegue il mio chitarrista, gettando la sua t-shirt nera zuppa di sudore a terra e cercando il cambio nel suo zaino.
“Ho suonato come sempre” ribatto bruscamente, la voce venata di un’isteria che non mi è mai appartenuta prima.
“Ives, cazzo, sono serio. Quella roba ti sta fottendo il cervello e il talento.” Ethan pronuncia quelle parole in tono duro, per niente impressionato dal mio atteggiamento ostile.
Del resto da quando vivo sul suo divano è abituato al mio continuo distacco, al mio egoismo da bucomane; ha smesso anche di provare compassione nei miei confronti, ora pare quasi odiarmi.
Sotto sotto mi fa male, anche se per fortuna l’eroina mi inibisce ogni emozione e la rende più sopportabile.
Per la prima volta sollevo lo sguardo e lo fisso dritto negli occhi, i suoi sono scuri e imperscrutabili. “Bene, tuo fratello mi ha fatto portare qui una dose, quindi ora se non ti dispiace vado a fottermi il cervello” affermo, cercando di tenere un tono sicuro, ma la voce ha preso a tremare – così come il resto del mio corpo.
Devo sbrigarmi, sto malissimo e sono sull’orlo di una crisi di astinenza.
Mi volto e schizzo via, muovendomi nella penombra del locale verso l’uscita secondaria. Soltanto pochi metri mi separano dalla mia meta…
Vado a sbattere con violenza contro Alick; in questo momento sono talmente provato che ho l’impressione di spezzarmi nell’impatto. O forse è perché sono troppo magro, me lo dice sempre anche Cheryl.
Il mio batterista, vedendomi vacillare, mi afferra per un braccio con l’intento di sorreggermi e mi scruta coi suoi occhi grandi e scuri, così tremendamente indagatori. “Cheryl ti sta cercando.”
Mi scrollo la sua mano di dosso. “Sono di fretta. Dille che sono in bagno e che arrivo subito” bofonchio, prima di aggirarlo e catapultarmi fuori, dove l’aria fresca della notte mi avvolge.
Forse dovrei avere freddo, ma sono ben altre le sensazioni che mi travolgono in questo momento, come il forte senso di nausea che si fa strada dalla bocca dello stomaco.
Per un istante il viso dolce e luminoso di Cheryl mi si materializza nella mente e mi sento così in colpa, continuo a tenerle nascosta la verità e so che, quando lo verrà a sapere – perché è inevitabile che prima o poi se ne accorga – se la prenderà talmente tanto con me che non vorrà più vedermi.
Avrebbe ragione.
Ma quei pensieri si dissolvono nell’immediato quando scorgo una figura che mi si accosta nelle tenebre: si tratta di Craig, uno dei ragazzi che lavorano per Davi.
Sorrido: l’agonia è finita.
 
Getto la testa all’indietro e socchiudo appena le palpebre. Non so nemmeno spiegare il sollievo che sto provando, questa sensazione dolce e ovattata che invade ogni cellula del mio corpo, in netto contrasto con la rudezza dell’ago che penetra sottopelle.
Sento la sostanza scorrermi nelle vene, entrare in circolo, è come un prurito, un pizzicore, un’ondata di piacere. Ed è sotto la mia pelle, dentro le ossa, dentro il mio cuore e il mio cervello.
Sembra l’unica vera sensazione che posso provare in mezzo a una realtà ormai troppo distante. È questa la realtà, per me.
Penso non sia proprio possibile rinunciarvi. Non potrei mai provare il desiderio di rinunciare all’unico dolce brandello di conforto che mi è rimasto.
 
 

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Capitolo 12
*** XI ***


XI
 
 
 
 
 
Stay with me till the end
[Daron Malakian & Scars On Broadway – Till The End]
 
 
 
 
AIDS.
Quattro lettere di cui non conoscevo il significato fino a ieri.
Quattro fottute lettere che mi hanno strappato qualsiasi speranza.
Col capo posato sul bracciolo del divano – è il divano di Ethan, ma ormai è diventato mio, il mio letto e il mio unico rifugio –, spalanco le palpebre che ho tenuto serrate per un tempo incalcolabile, ma anche la tenue luce che filtra dalle imposte chiuse mi ferisce, costringendomi a strizzare gli occhi.
È la mia routine, nulla di cui sorprendersi. Ormai vivo nella penombra, stravaccato su questo sudicio giaciglio, come un qualsiasi eroinomane che si rispetti.
Mi porto un dito magro alle ciglia dell’occhio destre e le trovo secche: in queste ventiquattro ore ho già pianto tutte le lacrime che possedevo, ora i miei occhi sono diventati aridi come il mio cuore.
Morirò. Per colpa della mia stupidità, della mia imprudenza e della mia fottuta smania di bucarmi, ora non ho più nessuna speranza.
Perché sì, prima ce l’avevo. Prima ero così ingenuo che, nonostante tutto, in qualche angolo remoto del mio cuore nutrivo una speranza, pensavo davvero di potermi salvare, di poterne uscire e che le cose sarebbero andate meglio per me. Non mi sono mai veramente impegnato perché accadesse, ma questo pensiero mi faceva bene, mi dava la forza di continuare a suonare, a uscire, ad amare, a sognare.
Almeno in minima parte, quando non ero del tutto sopraffatto dall’eroina.
Cerco di mettermi seduto con le poche forze che ho in corpo – sono talmente magro e smunto che ho l’impressione di potermi sgretolare in qualsiasi momento – e subito lo stomaco mi si rivolta, come a voler protestare. Probabilmente vomiterò di nuovo, non faccio altro da un giorno intero.
Devo morire. Forse l’ho sempre saputo, forse è per questo che mi viene facile farmene una ragione. Forse quel briciolo di speranza non bastava.
Ieri, quando sono tornato a casa dopo essere stato dal medico, non riuscivo nemmeno a parlare; non appena ho aperto la porta d’ingresso e ho visto Ethan che sistemava alcuni suoi vinili, le gambe troppo esili non mi hanno più sorretto e sono crollato, ho cominciato a piangere e rimettere tutto ciò che non mangio da mesi.
Ethan è subito corso da me e, imprecando tra i denti, mi ha aiutato a risollevarmi e sdraiarmi sul divano, poi mi è rimasto accanto finché non sono riuscito a dirgli cos’era successo.
Appena ha sentito la parola AIDS, si è incazzato. Davvero tanto. Non l’avevo mai visto così incazzato, eppure ormai ho imparato a conoscere il suo temperamento. Mi ha riempito di insulti e se n’è andato sbattendo la porta, ignorando le mie lacrime.
Non l’ho più visto da ieri pomeriggio, non è tornato a casa stanotte.
In realtà non so nemmeno che momento della giornata sia ora. Forse sono già trascorse ventiquattro ore, forse no.
La reazione di Ethan mi ha strappato il cuore dal petto, mi ha colpito come una pugnalata, perché so che ha ragione. Se n’è andato perché mi vuole bene e non può sopportare di vedermi mentre mi distruggo con le mie mani.
E ancora non l’ho detto a Cheryl… è disperata da quando è venuta a sapere della mia dipendenza dall’eroina, non oso immaginare come reagirà a questa notizia.
Sento la porta aprirsi con un cigolo, ma non apro gli occhi e non mi muovo, resto avvolto nella mia sudicia coperta col capo abbandonato sulla spalliera del divano, qualche ciocca unta che mi solletica il viso.
Sicuramente è Ethan.
E se così non fosse, se si trattasse di un malintenzionato che si è intrufolato in casa, tanto meglio: spero che mi faccia fuori.
Il nuovo arrivato muove qualche passo nella stanza, poi si ferma presso il divano, sento il suo sguardo addosso.
“L’hai detto a Cheryl?” La voce di Ethan, così insolitamente piatta e distaccata, rompe quel silenzio che aleggiava nella stanza da troppo tempo.
Sento le lacrime pungermi gli occhi e non so nemmeno perché, pensavo di averle già piante tutte. Ma all’improvviso, alla sola idea di non essere più solo, è come se un enorme peso mi si sollevasse dal petto.
“No” biascico soltanto, le labbra secche tirano terribilmente anche solo a formulare quella sillaba.
Dio, quanto sto male. Tra un po’ dovrò iniettarmi una dose, almeno starò meglio e potrò sperare di non pensare per un po’.
Le molle del divano sfondato cigolano e avverto una presenza riempire il posto vuoto accanto a me. Ethan mi si è seduto accanto.
“Sai,” mormoro, “sinceramente preferisco morire di overdose il prima possibile, piuttosto che stare male per tanto tempo e farmi annientare dalla malattia. Almeno morirei felice.”
Non so se sia normale formulare un pensiero del genere nella mia condizione, ma è la prima cosa che mi è saltata in mente. Strano modo di fare conversazione.
“Sei un pezzo di merda, Ives. Non dovresti morire. Io e te dovevamo suonare insieme, girare il mondo, far conoscere a tutti la nostra musica. Ti ricordi?” sbotta Ethan in tono duro, ma c’è qualcos’altro nella sua voce; non riesco a capire cosa sia, forse una nota di disperazione.
Ma conosco Ethan e so che non si dispera mai. E se lo facesse, non lo darebbe a vedere.
Finalmente riesco a trovare la forza di aprire gli occhi e stavolta combatto anche contro la leggera luce che li ferisce; li punto su Ethan e lo trovo con le sopracciglia scure aggrottate e i lineamenti ancora più marcati e duri per via dell’espressione accigliata, come sempre. Ma i suoi occhi sono cupi per la tristezza mentre mi scruta, e la sua carnagione olivastra è più pallida del solito.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
“Però tu non mi lascerai morire da solo, vero Ethan? Io non… io non ti lascerei mai da solo, anche se tu fossi il più grande figlio di puttana di questo universo, anche se…” Ma non riesco a continuare il mio discorso, i singhiozzi mi sconquassano il petto e le lacrime scendono copiose sulle mie guance.
Perché improvvisamente mi sono ricordato che devo morire e ancora non ci ho fatto l’abitudine.
E ancora una volta mi sento come il bambino indifeso e dolce che ha bisogno soltanto di un abbraccio, di un po’ di conforto, di qualcuno che gli doni una speranza anche quando non può esserci.
D’istinto gli afferro una mano e la stringo forte nella mia, pallida e sottile, solitamente priva di forza. Ma adesso le mie dita stritolano le sue, callose e da chitarrista, come se fosse il mio unico appiglio per stare ancora attaccato alla vita.
Perché in fondo Ethan è sempre stato la mia casa e la mia famiglia, quando pensavo di non averne una.
Lui distoglie lo sguardo, è a disagio, non sa cosa dire o fare. Lo conosco bene, so che i gesti eccessivamente affettuosi lo mettono a disagio – e forse sono l’unica cosa in grado di imbarazzarlo, in genere è così imperscrutabile e sicuro di sé.
“Ethan…” riesco soltanto a bofonchiare, prima che un conato mi colga alla sprovvista.
Cazzo.
Per fortuna ieri il mio amico ha portato una bacinella vicino al divano, così che non dovessi alzarmi ogni volta che mi sentivo male. Si è riempita in fretta nelle ultime ventiquattro ore. Buffo, non ho toccato cibo.
Mi piego in avanti e libero il mio stomaco dal niente che sta al suo interno; mi sembra quasi di soffocare, tra conati e colpi di tosse.
Forse morire sarebbe davvero la cosa migliore.
Ethan si riscuote immediatamente: scatta verso di me e con una mano mi sostiene per un braccio, mentre con l’altra mi tira indietro i capelli per evitare che si sporchino. Non mi lascia andare nemmeno per un secondo, non esita anche se faccio schifo.
“Non ti lascio da solo, meu irmãozinho” sento mormorare Ethan mentre, stremato, mi accascio nuovamente sul divano e gli stringo nuovamente la mano.
Forse pensa che non me ne sia accorto, ma io ho sentito benissimo.
E, anche se non ne ho la forza, lo ringrazio con tutto il mio cuore.
A prescindere da ciò che accadrà, Ethan sarà sempre la mia famiglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Meu irmãozinho in portoghese significa “fratellino mio”. Non dimentichiamo che Ethan ha origini brasiliane ^^

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Capitolo 13
*** XII ***


XII
 
Like a crystal tear

 
 

 
 
 
I wake in the night, I pace like a ghost
The room is on fire, invisible smoke
[Taylor Swift – The Archer]
 
 
 
 
Schiudo le palpebre e i miei occhi pesanti si scontrano con l’oscurità. Li sento bruciare, prudere, pizzicare, come se un fumo denso e scuro li avesse investiti.
Che ore sono? Forse è giorno, forse è notte… ormai non le distinguo più, le imposte sono sempre ben chiuse e le tende tirate. È un’eterna notte, la mia.
Mi ci vuole qualche istante per realizzare ciò che mi sta accadendo: un violento accesso di tosse mi scuote il petto, mi fa tremare i muscoli e mi imperla la pelle di sudore.
Ancora. Di nuovo.
Non ho la forza di mettermi seduto, anche se i polmoni mi si strizzano nel petto e un forte senso di nausea mi assale.
Non lo faccio perché sono troppo stanco.
Tossisco, ancora e ancora. Mi brucia il petto, mi brucia il viso, mi brucia la gola. Mi sembra quasi di star affogando, annaspo in cerca d’aria, stringo i pugni e affondo le unghie nei palmi con forza.
Scatto a sedere nel tentativo di trovare un po’ di sollievo. Va leggermente meglio, anche se ho l’impressione che qualcuno mi stia schiacciando la gabbia toracica fino a togliermi il respiro.
Tento di prendere qualche respiro profondo e mi guardo attorno in questo mare di oscurità. Sono così stanco, distrutto; vorrei solo chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
Ma la tosse non mi vuole ancora lasciare in pace. Ormai è così ogni notte, ogni giorno, ci sono abituato e so esattamente ciò che devo fare per trovare un po’ di serenità.
Mi alzo vacillando e vengo colto da un capogiro. Respiro affannosamente, sento le orecchie bollenti e il mondo barcolla attorno a me. Sono costretto a posare una mano sullo schienale del divano per non rovinare a terra.
Ho caldo. Troppo caldo.
Ancora preda della tosse, mi dirigo con passo malfermo verso il bagno; mi chiudo la porta alle spalle e accendo le luci della specchiera – due lampadine su tre sono fulminate e l’unica superstite emana una luce fioca e lugubre, che si riflette sulla ceramica sudicia del lavandino.
Ethan fa fatica a stare dietro alla casa, a me, a tutto. A volte non ci torna proprio, a casa: sicuramente si sta stufando pure lui della mia malattia e di questa situazione, quando mi ha concesso di dormire sul suo divano momentaneamente non poteva immaginare che sarebbe andata a finire così.
Mi aggrappo al bordo del lavandino e ancora una volta mi abbandono ai colpi di tosse. Finché la vista non mi si appanna, finché le orecchie non sibilano e si ovattano, finché non sento più le gambe e il mondo sembra essere lontano anni luce. Tossisco fino a sfinirmi, finché le uniche sensazioni che riesco a percepire sono un vuoto all’altezza dei polmoni e un retrogusto amaro, quasi terroso, in gola.
Sono veramente stufo di vivere così. Si può chiamare vita, poi?
Deglutisco a vuoto e tiro un sospiro di sollievo quando mi accorgo che l’accesso di tosse si sta pian piano placando. Ho espulso il niente che avevo dentro e ora comincio a stare un po’ meglio.
Quando riacquisto un minimo di lucidità e riesco a tenere le palpebre aperte, anche se a fatica, noto che il lavandino si è riempito di schizzi rossastri.
Anche oggi ho tossito sangue. Come ogni giorno.
Apro il rubinetto e mi sciacquo il viso, qualche goccia mi finisce anche tra i capelli scarmigliati e unti. Mi lascio scivolare un po’ d’acqua in gola per tentare di placare il bruciore; non so nemmeno se sia potabile, ma poco importa, tanto devo morire. Se bevessi veleno non cambierebbe niente, anzi, mi aiuterebbe a farla finita nel minor tempo possibile.
Sento la testa pesante, ma ciononostante mi sforzo di sollevare il capo; la luce, per quanto soffusa, mi ferisce le pupille affaticate, ma a colpirmi ancora di più è il mio riflesso nello specchio.
Da quanto tempo non incrociavo il mio stesso sguardo? Da quanto tempo non vedevo il mio volto profondamente devastato?
Sembra quasi uno scherzo, a ben pensarci. Dov’è finito quel ragazzino dai lineamenti dolci e il sorriso radioso che ero un tempo? Chi è quest’estraneo che ha preso il suo posto, perfetto riflesso della malattia?
Faccio scorrere lo sguardo sulle guance scavate e diafane, che sotto la luce giallognola sembrano ancora più malate; lo poso sulle labbra sottili e secche, talmente fragili da sembrare sul punto di sciuparsi, e sulle rughe profonde che solcano la fronte. Osservo il modo raccapricciante in cui le mie ciocche corvine, lunghe e scomposte come mai lo sono state, ricadono pesanti attorno al mio viso scarno e piccolo, come un manto oscuro che rischia di schiacciarmi.
Un tempo queste stesse ciocche erano folte e morbide, incorniciavano un viso rotondetto e delicato, quasi infantile, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e le guance che si tingevano di rosa.
Infine mi guardo negli occhi e fa male, troppo male.
I miei occhi pesanti, contornati di rosso e iniettati di sangue e sofferenza; sempre allucinati e stralunati per via della droga, sempre più tristi, rassegnati, spenti. Le iridi hanno assunto il colore della burrasca, si sono fatte opache e prive di ogni sfumatura.
Quelle stesse iridi che fino a qualche anno fa erano di un azzurro brillante da fare invidia al cielo, emanavano una luce talmente intensa da fare invidia al sole. Mi ero ripromesso che quelle iridi avrebbero sempre sorriso, qualsiasi cosa fosse capitata, ma ho fallito.
Sento una fitta all’altezza del cuore, come una pugnalata, e sono costretto a distogliere lo sguardo, incapace di sostenerlo oltre.
E lo fisso sulle mie braccia pallide e magre da far spavento, ricoperte di croste, cicatrici e segni più o meno freschi di punture. Ormai non c’è più spazio per accogliere un altro ago, eppure troverò un modo per iniettarmi la prossima dose. Un modo lo si trova sempre, quando l’eroina che hai in circolo sta per esaurire il suo effetto.
Sollevo nuovamente il capo e strizzo appena le palpebre, irritato dalla luce della lampadina e dal mio stesso sguardo.
Non possono essere davvero i miei, quegli occhi arresi.
Improvvisamente vengo colto dalla consapevolezza che, per quanto il mio involucro esterno si mantenga ancora in vita, io dentro sono già morto. Non c’è più niente nella mia anima, il vero Ives non esiste più.
Sono morto nel momento in cui, stupidamente e ingenuamente, quasi per un capriccio, mi sono sparato la prima dose di ero in vena.
Poi, quando ho scoperto di aver preso l’AIDS, sono morto ancora di più.
Ed è tutta solo ed esclusivamente colpa mia.
A quel pensiero, un singhiozzo disperato mi scuote il petto e la gola. Come ci sono arrivato a questa condizione? Perché sono arrivato a farmi così tanto del male, fino a uccidermi?
Io non ho mai veramente voluto morire, io voglio vivere. Ho soltanto ventun anni e ho così tante cose da fare: tanti luoghi da vedere, tanta musica da comporre, tanti palchi da calcare, tante persone da conoscere e stringere a me, tanti sorrisi da dispensare… ho così tanto ancora da donare; è una piccola fiamma che si ostina a rimanere accesa da qualche parte dentro me, ma che nessuno ha mai visto bruciare veramente.
Nessuno ha mai voluto vederla e lasciarsi scaldare da lei, o forse sono io che sono sempre stato incapace di mostrarla.
Perché devo morire? Perché devo lasciare che un soffio di vento spenga anche quell’ultima fiamma?
Mi mordo il labbro nel tentativo di trattenere un gemito di frustrazione e una lacrima solitaria mi scivola sulla guancia destra. Non mi ero nemmeno accorto di star per piangere.
Rimango per qualche istante a fissarla, così bella e fragile sulla mia pelle, ha il potere di incanalare dentro sé tutta la luce presente nella stanza.
Sembra quasi surreale che quella graziosa goccia provenga proprio da me. È talmente delicata che pare di cristallo.
Cristallo.
Se non fossi troppo stanco per sorridere, lo farei: quella parola mi ricorda la mia Cheryl. Mi fa pensare a una frase che mi ha detto una volta: “Ives, tu sei come il cristallo. Così splendente, raffinato, bello e prezioso… ma basta un battito di ciglia per sporcare la sua superficie, basta un soffio perché si frantumi in mille pezzi. Tu hai la stessa bellezza e la stessa fragilità del cristallo”.
Sul momento ho ridacchiato e le ho preso una ciocca di capelli tra le dita per giocarci un po’, ma successivamente ci ho ripensato tanto e forse, se le avessi dato retta, sarei riuscito a non finire in pezzi.
Cheryl era così, pensava fuori dagli schemi: aveva l’aspetto di una fata e le idee di una poetessa, e in un modo o nell’altro finiva sempre per avere ragione.
Sembrava così indifesa e dolce, con i suoi vestiti ordinati da brava ragazza, il trucco leggero, i capelli color caramello e gli occhi color miele; sembrava così innocente che avevo paura di sporcarla e contaminarla, di trascinarla con me giù nel baratro, ma non mi sono reso conto che in realtà era molto più forte di me.
Mi è rimasta accanto con pazienza quando ha scoperto che mi facevo di eroina, anche se era spaventata a morte. Mi è rimasta accanto anche quando la mia dipendenza ha cominciato a risucchiarmi senza via di scampo e io pian piano mi dimenticavo di lei.
Mi è rimasta accanto anche quando ha saputo che avevo l’AIDS, anche se sapere che avevo i giorni contati la faceva star male, ma mi amava così tanto che si sacrificava per me.
Anche se io non l’ho mai meritato.
È per questo che anch’io la amo e per sempre la amerò, fino al mio ultimo respiro.
Così tanto che non potevo vederla morire insieme a me e le ho chiesto di andare via, di non tornare mai più da me e di trovare la felicità con qualcuno che possa dargliela davvero.
E così ha fatto. Se n’è andata piangendo e in preda ai sensi di colpa, ma non mi è sfuggito il velo di sollievo che le ha illuminato gli occhi quando le ho detto che era libera.
Sono riuscito a diventare un peso anche per l’unica ragazza che io abbia mai amato. Come biasimarla del resto? Così giovane, piena di vita e talento, stare dietro a un tossico malato e in fin di vita sarebbe un fardello troppo grande per lei. Non glielo imporrei mai.
Un’altra persona – l’ennesima – che esce dalla mia vita portando con sé solo sofferenza e delusione. Ho deluso tutti ormai, non è rimasto più nessuno.
È proprio come quando ero un bambino, il re del dolore: ovunque io passi, porto solo tristezza e distruzione.
È rimasto solo Ethan, anche se non so perché. Io e lui siamo come fratelli, mi ha promesso che ci sarebbe sempre stato ed è vero: mi ha dato un luogo in cui vivere quando non avevo niente e nessuno, mi ha dato una famiglia quando la mia mi ha ripudiato, mi ha dato un sogno in cui credere quando ogni mia speranza era infranta ed è l’unico che ancora mi sta accanto, mi osserva mentre mi autodistruggo.
Ma sento che anche lui si sta stancando, non ne può più: certe volte rientra a casa, mi trova sul divano con lo sguardo vacuo e una siringa tra le mani e mi guarda come se sperasse di vedermi sparire all’istante. Un tempo ero il suo fratellino, adesso sono diventato un peso anche per lui.
Io ci ho provato in tutti i modi, ho combattuto con le unghie e con i denti per passare dalla parte dei buoni, dalla parte della luce, ma alla fine ci sono cascato: le tenebre da cui sono nato mi hanno inghiottito nuovamente. Sono riuscito soltanto a deludere tutti e fare del male.
Ha senso quindi continuare a vivere? Che senso ha ostinarsi a tenere accesa quella fiammella traballante?
A chi importa se muoio? Sarà solo una liberazione per tutti.
Getto un’altra occhiata allo specchio: la lacrima si è ormai asciugata, lasciando solo una lieve traccia sulla pelle pallida. La sua bellezza si è dissolta in fretta, come tutte le cose belle.
Era una lacrima fatta di cristallo, proprio come me.
Basta, per oggi ho pensato troppo.
Mi allontano dal lavandino, spengo la luce e mi trascino fuori dal bagno sulle gambe traballanti. Non so nemmeno come io riesca a stare ancora in piedi.
Ora tornerò al mio divano, mi avvolgerò nella mia lurida coperta, mi sparerò una dose massiccia di eroina in vena e dormirò.
Sperando che sia l’ultimo ago della mia vita. Sperando di andare in overdose e non svegliarmi mai più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
Mi concedo un piccolo angolino autrice per questo capitolo, anche se in questa raccolta non sono solita inserirne.
Scrivere questo capitolo in questo particolare periodo della mia vita è stato semplicemente straziante. È andato a calcare la mano su alcune mie ferite troppo recenti per potersi rimarginare, mi ha fatto male e forse questo si riflette sul testo.
Ma l’ho voluto fare, perché sentivo che mi serviva e mi farà a lungo andare star meglio. L’ho voluto affrontare, me lo sono imposto, perché ci tenevo troppo e perché so che mi avrebbe aiutato.
Certi demoni si possono esorcizzare solo tramite la scrittura, non credete?
Per i lettori abituali di questa raccolta, volevo semplicemente darvi delle spiegazioni sul ritardo nell’aggiornare. Non mi sono mai dimenticata di questa raccolta, anzi, mai come ora la sento vicina e mia.
Ma passiamo alle note più tecniche e quelle per il giudice.
A differenza degli altri capitoli, qui ho dovuto dare un titolo per esigenze del contest, ecco perché avete trovato una sorta di “sottotitolo”; a tal proposito, la citazione iniziale fa parte del pacchetto da me scelto, insieme al genere Drammatico e al prompt/oggetto “cristallo”. Elementi che mi hanno davvero tanto ispirato, grazie koopa!
Inserisco qualche altra piccola annotazione per il giudice, che potrebbe essergli utile dal momento che la storia fa parte di una serie:
-      Quando Ives parla di “musica da comporre e palchi da calcare”, si riferisce alla band in cui lui suona come bassista, i Storm It Down; di questa band fa parte anche Ethan – il suo migliore amico e coinquilino – in veste di chitarrista.
-      La scena è ambientata nel 1989, quando l’AIDS era una minaccia costante e ancora non si conosceva nessuna cura efficace per trattarlo.
-      Ives ha avuto un’infanzia burrascosa e difficile, per questo dice che fin da piccolo ha sempre portato sofferenza e distruzione ovunque passasse.
Penso (e spero) che tutti gli altri riferimenti si siano capiti bene dal testo.
Grazie a tutti coloro che sono giunti all’ultimo vero capitolo della raccolta, spero di non essere stata troppo dura e non avervi scioccato.
Ma i ringraziamenti veri e propri li farò nelle ultime NdA, dopo l’epilogo ♥
 
 

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


Epilogo




E, se ci pensi bene, di solito chi rimane vittima di droghe o altro è perché è talmente tanto buono da non riuscire a ribellarsi.
[evelyn80]




Anche i pensieri cominciano a pesare insieme alle palpebre.
Il mio cuore pesa.
Il mio corpo pesa.
E in fondo cosa sono stato durante questi ventun anni per le persone che mi hanno circondato, se non un peso? Un triste fardello, troppo lento e ingenuo per stare al passo col mondo in cui mi sono ritrovato a vivere.
Mi sono messo l’anima in pace e ho perdonato tutti, anche coloro che mi hanno odiato e fatto del male: non è colpa loro se sono finito qui, su questo pavimento duro e freddo, con le vene consumate dall’eroina e le cellule consumate dalla malattia.
L’unico da biasimare sono io, soltanto io; troppo debole per reagire al dolore, troppo stupido per capire che l’apparente benessere provocato dalla droga mi stava in realtà uccidendo, troppo egoista per riuscire a tenere strette le poche persone che mi hanno amato.
Sento il respiro corto. L’ago mi pizzica ancora la pelle, laddove l’ho conficcato.
Tento di riaprire gli occhi. Mi pesa come sollevare un macigno, mi stanca. Le mie pupille si scontrano con l’oscurità, ma a me sembra comunque troppo accecante.
A questa vita mi ci sono aggrappato come ho potuto, ho sorriso fino a creparmi le labbra, ho amato fino a sgretolarmi il cuore, ho sopportato la sofferenza finché non mi ha tolto il respiro. E infine ho ceduto, mi sono arreso, ho riconosciuto di essere un vinto. L’ennesima fioca luce che si spegne senza lasciare traccia.
E ora la morte non mi fa più paura, anzi: la cerco, la voglio, la desidero. Perché dopotutto le sono sempre appartenuto, è quello il mio posto.
Sorrido appena, per l’ultima volta, mentre un opprimente torpore mi assale. La sento ancora, la dolce e calda sensazione dell’eroina che mi scorre dentro e mi culla lentamente verso il tanto agognato oblio.
Serro le palpebre per l’ultima volta – nessuno vedrà più il cielo e la tempesta dentro le mie iridi.
Sono pronto. O forse non lo sarò mai.

Me ne vado amando zia Maura.
Me ne vado amando Ethan.
Me ne vado amando Cheryl.
Me ne vado amando tutti i miei amici, tutti gli sguardi che ho incrociato, tutti i sorrisi che ho ricevuto, tutte le lacrime che ho asciugato.
Me ne vado amando la musica.
Me ne vado amando perfino Maggie e Stan, e tutte quelle persone che – come loro – mi hanno preso a calci il cuore.
Me ne vado amando la vita, anche se lei non mi ha mai voluto e non mi ha mai ritagliato un posto tra i suoi figli.
Me ne vado amando, perché è l’unica cosa che so fare.

Qualunque cosa ci sia dall’altra parte, spero abbia il volto di mia madre.









Note:
Se dicessi che scrivere questo epilogo è stato straziante, sarebbe un eufemismo.
Mi ha semplicemente distrutto.
Ci ho impiegato tre lunghissimi mesi e mezzo per prendere coraggio e buttarlo giù, perché la sola idea mi toglieva il respiro. La verità è che, quando ho cominciato a scrivere questa raccolta, non avevo idea che Ives mi sarebbe entrato tanto nelle ossa, nel cuore e nell’anima. È partito tutto come una normale storia, è finito per essere uno dei tasselli più importanti della mia vita.
E raccontare di lui nei suoi ultimi attimi mi fa piangere. Mi fa male. È quasi come perdere un figlio.
Cos’altro posso aggiungere? The Last Remaining Light, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni, rimane uno dei progetti più difficili, impegnativi, importanti e dolorosi da portare a termine. La porterò sempre sempre sempre nel cuore.
Ringrazio dal profondo del cuore coloro che hanno avuto il coraggio di arrivare fino in fondo, di emozionarsi, disperarsi e star male con me.
Ringrazio evelyn80, Juriaka, Kim WinterNight e Sabriel_Little Storm per esserci state sempre, per aver creduto in me e aver vissuto questo viaggio – voi siete coloro che hanno sentito, forse più di tutti, Ives sulla vostra pelle; lo avete scoperto, conosciuto e, spero, amato insieme a me.
Ringrazio, per questo capitolo in particolare, nuovamente Evelyn per avermi concesso di utilizzare la citazione che trovate a inizio capitolo: mi scrisse questa frase in una risposta a recensione e ne rimasi profondamente colpita.
Grazie a _EverAfter_ per la profondità e il trasporto con cui si è immersa in questa storia; ringrazio mystery_koopa per il suo contest e ringrazio anche Carmaux_95, Carme93, Elise Brown e sangue di nephilim per aver lasciato un commento.
Grazie ai lettori silenziosi, a chi ha aggiunto la storia alle liste e chiunque si trovi qui per un motivo o per un altro, anche solo per sbaglio.
Spero che dentro tutti voi, in un angolo remoto del vostro cuore, sia rimasto impresso un frammento di Ives.
GRAZIE ♥


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