The Last Remaining Light di Soul Mancini (/viewuser.php?uid=855959)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
cittidì pagu pagu
Prologo
Flashback
Silhouette of the memory
Your eyes are getting heavy
[Tomahawk
–
Flashback]
La mia pelle
è ricoperta da uno strato di umidità e sudore,
forse fa freddo ma io non lo sento. Sdraiato sul duro pavimento che si
scontra
con le mie ossa troppo sporgenti, con un ago premuto sul braccio,
lascio
scorrere lo sguardo attraverso la confortante penombra dello stanzino e
penso
che questa potrebbe essere l’ultima dose che mi sparo in
vena. Già, potrei
morire solo, senza nemmeno sapere dove mi trovo, ma la cosa non mi fa
paura,
così come non mi ha fatto paura negli anni precedenti. Sono
così tranquillo,
vedete? Finché l’eroina si mischia al mio sangue,
nulla può andare storto.
Sono Ives Mancini, o
meglio, sono ormai il suo fantasma
sbiadito. Se anni fa mi avessero detto che sarei finito in queste
condizioni,
non ci avrei mai creduto; proprio io, il ragazzo allegro e sempre
sorridente,
ottimista e gentile con tutti.
Ma forse nessuno
è mai riuscito a scorgere il mondo dietro i
miei occhi azzurri, quegli stessi occhi che ora si fanno pesanti; le
palpebre
insistono per serrarsi, ingabbiandomi in
un’oscurità ancora più profonda, a cui
solo sfocati e luminosi fotogrammi possono avere accesso. Sono
così tanti i
ricordi, si mischiano e si inseguono nella mia testa, definendo ancora
una
volta la mia triste storia, sbattendomela in faccia.
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Capitolo 2 *** I ***
I
I
need your arms to
welcome me
But
a cold stone’s all I see
[Metallica
– Mama
Said]
Osservo la lapide con sguardo perso. Non so ancora leggere,
non capisco quelle scritte che spiccano sul marmo chiaro,
però osservo la
piccola foto in bianco e nero racchiusa in un’austera
cornice: raffigura una
ragazza bellissima, dai capelli lunghi e lisci e dagli occhi grandi e
profondi,
anche se non ne posso definire il colore.
“Questa è tua madre, Ives” mormora zia
Maura, posando un
nuovo vasetto di fiori sulla tomba.
Getto uno sguardo al cielo plumbeo sopra di noi, poi scruto
con attenzione mia zia, l’unica persona che si è
presa la briga di farmi da
genitore quando mia madre è morta. Zia Maura è un
donnone, alta e formosa,
dalla pelle olivastra, i capelli scuri e sempre raccolti in una folta
coda di
capelli e lo sguardo severo; tutto l’opposto di sua sorella.
“Questa pietra è mia madre?” chiedo
titubante, posando la
mano sulla pietra fredda.
Ho quattro anni, non riesco proprio a capire come una mamma
possa essere così dura e fredda, non profumare di niente e
stare sempre lontana
da me. Nella mia testa, zia Maura è sempre stata mia madre.
Proprio lei, tante volte, mi ha raccontato la storia della
mia famiglia, come se stesse raccontando una qualsiasi favola della
buonanotte;
non mi nasconde niente, anche quando la verità è
dura e dolorosa da accettare.
Mia madre si chiamava Veronica Mancini, nota a tutti come
Niki, ed era una ribelle – poteva forse mettere al mondo un
bimbo angelico e
dal carattere mite? Certo che no, ho preso tutto da lei!
Niki scappò di casa, vagabondò, sopravvisse come
le era
possibile e qualche volta tornava a casa da Maura, la sua adorata
sorella
maggiore.
Solo che, in un’afosa serata di fine luglio, Niki
bussò alla
porta di sua sorella con le lacrime agli occhi e i vestiti spiegazzati,
palesemente sconvolta.
“Era pallida, aveva i capelli scompigliati e stopposi,
tremava talmente tanto che sembrava sul punto di spezzarsi e in quelle
condizioni sembrava ancora più magra e smunta del
solito” mi dice sempre zia
Maura. Incredibile, nella foto che c’è sulla sua
tomba sembra davvero
meravigliosa.
Niki, in preda ai singhiozzi, si buttò tra le braccia della
sorella e le rivelò che qualche settimana prima era stata
stuprata ed era
rimasta incinta. “Non voglio uccidere il mio bambino, non
voglio abortire, ma
non lo posso crescere da sola… aiutami!”
supplicava. Aveva soltanto ventidue
anni
Zia Maura è una grande donna, questo lo dovete sapere tutti.
Infatti, nonostante lavorasse tutti i giorni, avesse una bambina di
cinque anni
e un marito poco conciliante nei confronti di Niki, si prese cura di
sua
sorella durante tutto il periodo della gravidanza, accudendola e
riportandola
sulla giusta via quando si perdeva.
Io venni al mondo l’8 aprile e già allora gridavo
come un
pazzo, attirando tutte le attenzioni su di me. Mia madre piangeva, mi
amava e
mi odiava, mi stringeva a sé e l’attimo dopo mi
respingeva con disgusto. Le
ricordavo quella brutta nottata di luglio, le ricordavo il suo
stupratore.
Che fortuna, ci pensate? Nemmeno il mio concepimento è stato
frutto di un gesto d’amore, il mio destino era già
segnato.
Zia Maura ospitò Niki a casa sua quando lei uscì
dall’ospedale, nonostante suo marito Stan storcesse il naso
contrariato. “Perché
mai dovrei avere una puttana e un figlio di puttana in casa
mia?” borbottava.
Zia Maura, in tutta risposta, gli mollava uno schiaffo ben assestato e
gli
intimava di non parlare mai più in quel modo di sua sorella
e suo nipote.
Dopo una settimana, Niki uscì di casa e mi lasciò
con zia
Maura. Non tornò mai più.
Una volta mi hanno detto che io ero la causa del suicidio di
mia madre, perché ogni volta che lei mi guardava si
ricordava della violenza
subita. Forse hanno ragione, forse ero già cattivo, anche se
avevo solo una settimana.
“Al funerale di tua madre, ero seduta al primo banco e ti
tenevo tra le braccia” mi racconta sempre zia Maura. Non
c’era tempo per
piangersi addosso, nella sua vita era appena piovuto un neonato
bisognoso di
cure.
Stan non si lamentò del fatto che fossi il suo nuovo
inquilino, anche se mi fulminava con lo sguardo ogni giorno. Comunque
presi il
cognome di zia perché lui non mi volle riconoscere come suo
figlio.
Lo capisco, chi vorrebbe avere in carico il figlio di uno
stupro?
Ora che sono più grande, sono tornato presso la lapide di
Veronica Mancini. Non la vengo a trovare spesso, un po’ ce
l’ho con lei perché
non mi voleva abbracciare quando sono nato.
Accarezzo le parole che spiccano sul marmo chiaro e sussurro:
“Però non sei una puttana, mamma. Non è
colpa tua se il destino è stato cattivo
con te”.
Ora quelle lettere riesco a leggerle bene:
Veronica
Mancini
30 maggio 1946 – 15
aprile 1968
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Capitolo 3 *** II ***
II
I'm so tired of
being here
Suppressed by all my
childish fears
[Evanescence
– My
Immortal]
So di essere troppo vivace a volte, ma sono un bambino, ho
soltanto voglia di giocare un po’. Chi lo dice che rompere i
vasi a furia di
pallonate è sbagliato?
Solo che stavolta ho tirato troppo la corda, me ne rendo
conto dallo sguardo che mi lancia Stan; ha sempre avuto
un’aria minacciosa,
complice la sua corporatura robusta e scolpita da anni di lavoro come
muratore,
ma ciò che ogni volta mi atterrisce di più
è il suo sguardo torvo. Quei suoi
occhietti piccoli e scuri hanno il potere di instillare il terrore in
me.
“Adesso basta, brutto bastardo!” grida,
afferrandomi per i
capelli e tirandoli forte. La testa mi fa malissimo e il sorrisetto
sornione mi
si cancella subito dalle labbra, mentre gli occhi mi si riempiono di
lacrime.
Zia Maura, torna presto. Perché vai al lavoro e mi
lasci
sempre solo con lui?
“Puniscilo, papà!” strilla Maggie
battendo le mani. Lei gode
nel vedermi soffrire, le piace, e sa che suo padre la
accontenterà perché lui
la ama. È comprensibile, è la sua figlia
biologica, la sua principessa, io sono
solo in più.
Stan mi porta in camera mia, mi scaraventa sul lettino e mi
massacra di botte, mentre mi urla contro che sono un figlio di puttana
e non ci
faccio niente in quella casa. Non è la prima volta che mi
picchia e mi intima
di non farne parola con Maura, ma oggi ha esagerato, è
andato oltre tutti i
limiti: dopo aver pianto e gridato come mai prima, sono talmente
stordito dai
colpi ricevuti e dal sangue perso che sono sul punto di svenire, sto
malissimo.
Mi fa male tutto, voglio che zia Maura torni subito a casa.
Una volta impartitami una punizione esemplare, Stan sembra
soddisfatto; sogghigna ed esce dalla stanza, lasciandomi lì,
nel buio, con le
guance incrostate di lacrime e la maglietta incrostata dal sangue, che
continua
a colarmi dal naso e dal labbro spaccato.
Sdraiato sul materasso, con la mente annebbiata e gli occhi
sbarrati a osservare l’oscurità, vengo assalito
dalla paura. E se Stan
decidesse di rientrare nella stanza? E se domani lo facesse di nuovo?
Non voglio più stare qui, non mi va più di vivere
qui, ho
paura.
Zia Maura mi trova così quando torna dal lavoro.
“Amore,
stai tranquillo, va tutto bene” mi rassicura non appena si
accorge delle mie
condizioni, prendendomi tra le sue forti braccia e io nascondo il viso
tumefatto
nel suo seno prosperoso, tremando come una foglia. Nonostante lei
cerchi di
mostrarsi calma per non spaventarmi, mi basta posare
l’orecchio sul suo petto per
sentire il cuore batterle all’impazzata.
“Cos’è successo?” mi chiede.
“Stan” riesco soltanto a biascicare tra i
singhiozzi.
Senza perdere la calma, mi adagia nuovamente sul letto e mi
medica le ferite una per una, mi lascia una carezza sulla testa e torna
in
cucina, proprio dove si trova suo marito.
“Fuori di qui” afferma in tono irremovibile, con
quel suo
vocione grosso che farebbe venire i brividi a chiunque. E io so che
quando zia
Maura prende una decisione, non torna più indietro.
Discutono a lungo, si gridano contro, si insultano come mai hanno
fatto prima. Mi fa male sapere che tutto ciò è
successo per colpa mia, forse
hanno ragione Stan e Maggie a dire che sono una disgrazia che nessuno
vuole
veramente.
Lottando contro la paura, li raggiungo in cucina in punta di
piedi, troppo curioso di sapere come andrà a finire: zia
Maura sta in piedi con
le mani sui fianchi e lo sguardo infiammato, Stan ringhia e Maggie
piagnucola
rannicchiata sul divano.
“Preferisci veramente questo figlio di puttana a
me?” grugnisce
Stan, incrociando le braccia al petto.
“Non voglio avere in casa un uomo che picchia mio
figlio
e chiama puttana mia sorella. Niki, Ives e Maggie
sono le tre persone
più importanti della mia vita, hai mancato loro di rispetto
e per me sei morto.
Esci, sparisci e non guardarti indietro, non ti sfiori nemmeno
l’idea di
tornare da queste parti. Vai.”
A quel punto Maggie scatta in piedi e, senza smettere di
singhiozzare, corre da suo padre e lo abbraccia con disperazione.
“Ti prego,
papà, non andartene, resta qui! Se te ne vai, voglio
andarmene con te!” grida.
La capisco: loro due hanno un bellissimo rapporto, lui non
l’ha mai sfiorata nemmeno con un dito e stravede per lei. In
fondo Stan non è
un uomo cattivo, anzi, è un bravissimo padre e Maggie si
può ritenere
fortunata.
E ora lui se ne va per colpa mia, che non faccio nemmeno
parte della famiglia.
Maggie già mi odia, da oggi mi detesterà ancora
di più.
“Però,” dico a zia Maura mentre, con le
guance rigate dalle
lacrime, mi infila il pigiama, qualche ora più tardi,
“mi dispiace che Stan se
ne sia andato, era un po’ anche il mio
papà.”
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Capitolo 4 *** III ***
III
I
guess I'm always
hoping that you'll end this reign
But
it's my destiny to be the king of pain
[The
Police – King Of
Pain]
Zia Maura è al lavoro, io e Maggie siamo a casa da soli. A
lei non piace quando succede così, non ha voglia di farmi da
baby sitter.
Un po’ perché mi odia da quando Stan se
n’è andato, un po’
perché io ho tanta voglia di giocare, correre, farla
arrabbiare.
Lei fa come Stan, mi chiude in camera. Mi afferra per i
capelli, mi trascina verso il materasso e mi ci sbatte contro. Mi
dibatto,
cerco di liberarmi, ma Maggie è forte e riesce a bloccarmi
per bene.
Questa scena l’ho già vissuta una volta ed
è andata a finire
male, sono spaventato.
Lei mi punta addosso i suoi occhi verdi e penetranti –
è
incredibile quanto lo sguardo di una dodicenne possa essere
così cupo e
minaccioso, sembra quello di un’adulta – e ringhia:
“Non provare a muoverti di
qui, altrimenti ti soffoco col cuscino”.
Le sorrido. “Sono tuo fratello, non lo faresti mai.”
“Tu non sei mio fratello, sei uno schifoso
sfasciafamiglie.
E non mettere in dubbio quello che dico, pensi davvero che non ne avrei
il
coraggio? Se tu morissi, la mia vita sarebbe migliore.” Mi
toglie le mani di
dosso e accarezza distrattamente la fodera del cuscino che si trova
proprio a
fianco a me, una scintilla le attraversa lo sguardo.
Sembra una psicopatica.
Rabbrividisco e non oso ribattere, forse è meglio non
sfidarla troppo.
Maggie si avvia verso l’uscita di camera mia e mi rivolge
un’occhiata tagliente. “Non muoverti.”
Tiro un sospiro di sollievo e mi rannicchio su me stesso,
cercando di fermare il forte tremito che mi attraversa tutto il corpo.
È
estate, ma tremo.
Afferro il cuscino e lo lancio dall’altra parte della stanza.
Non voglio che mi ammazzi.
Eppure mi sento in colpa, non riesco a togliermi dalla testa
che sia proprio colpa mia. Stan se n’è andato,
Maggie mi odia, zia Maura piange
in silenzio quando crede che nessuno se ne accorga, e se non ci fossi
stato io
tutto questo non sarebbe successo. Sembra essere proprio il mio
destino: sono
il re del dolore, appena arrivo la gente inizia a soffrire.
Io non odio nessuno, nemmeno Maggie. Nessuno la può odiare,
lei è sempre stata quella bambina dolce e sorridente,
gentile con tutti, quel
tipo di bambina che fa i disegni da regalare alla famiglia per le
ricorrenze.
Io non sono mai stato bravo a disegnare.
E forse, come dice lei, non ho neanche una famiglia.
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Capitolo 5 *** IV ***
IV
Friends
will be friends
When
you're in need of love they give you care and attention
[Queen
– Friends Will Be Friends]
“Stai qui,
hai capito? Non ti muovere, non ci provare.”
È
dall’inizio dell’estate che Maggie mi ripete sempre
le
stesse cose, ormai le so a memoria: devo passare il pomeriggio in
quella sorta
di discarica mentre lei va a incontrare i suoi amici in piazza,
così da poter
fumare, fare la gallina con i ragazzi più grandi e tutte
quelle cose che fanno
le tredicenni.
“Sì,
tranquilla. Lo so.” Mi allontano e mi guardo intorno:
è
rimasto tutto uguale a ieri. Il piazzale sterrato è ancora
deserto e polveroso,
l’afa si sprigiona dal terreno, i secchi di plastica sono
ancora rovesciati, le
formiche passeggiano ancora sulle travi marce sparse a terra, la
ruggine si
scrosta dalle vecchie ferraglie e l’immondizia è
ancora ammassata ovunque.
Dopotutto non mi posso lamentare, ho un parco giochi tutto per me.
“Vado. E non
ti salti in mente di venire a disturbarmi.”
Maggie si allontana e
io la osservo con le sopracciglia
aggrottate. Si è messa in tiro, indossa una minigonna
striminzita e si è
truccata pesantemente; queste cose le fa quando zia Maura esce di casa,
ruba i
suoi trucchi e i suoi profumi di nascosto e si traveste da pagliaccio.
Sarà che
sono ancora piccolo, chissà, ma non ne capisco il
senso.
Mi siedo a terra, in
mezzo alla sporcizia, e osservo le
formiche che si muovono in una linea perfetta.
Cosa potrei fare oggi?
Da mesi, da quando mia sorella è
diventata grande e si è fatta degli
amici, trascorro tutti i miei
pomeriggi qui e ormai conosco ogni rottame e ogni rifiuto a memoria.
Chissà cosa
direbbe zia Maura se scoprisse che mia sorella
non mi fa da baby sitter come lei crede. Andrebbe su tutte le furie.
Decido di costruire
una fortezza per le formiche e il loro
formicaio, magari anche loro hanno bisogno di ripararsi quando il sole
è troppo
caldo. Mi allungo a prendere un secchio sfasciato, poi mi guardo
intorno; cosa
potrei utilizzare per decorare gli interni? Cosa potrebbe servire a
quegli
animaletti?
Mi sollevo da terra e
mi metto in cerca di tutti gli oggetti
utili al mio scopo.
La strada adiacente al
piazzale è deserta e silenziosa, come
sempre. Nessuno passa di lì e quando capita mi nascondo
sempre; per il nostro
quartiere a volte si aggirano individui poco raccomandabili, meglio non
farsi
trovare nei paraggi.
Ma oggi
c’è troppo caldo, i delinquenti di strada non si
scomodano.
Un’asse di
legno come ponte. Sì, mi sembra una bella idea,
così le formiche potranno sfilare come su una passerella per
entrare nella loro
reggia, come quelle star di Hollywood.
Una volta zia Maura ci
ha portato in centro e abbiamo visto
Hollywood, la collina con la scritta, le strade sfavillanti e
l’allegra
frenesia, ma soltanto da lontano.
“Ehi.”
Sobbalzo e la trave
piena di schegge che sto posizionando
con cura mi scivola dalle mani. Non mi sono accorto che è
arrivato qualcuno,
eppure ci faccio sempre tanta attenzione. Il cuore mi batte
all’impazzata: e se
fosse un malintenzionato?
Sollevo piano il capo
e mi ritrovo faccia a faccia con un
bambino all’incirca della mia età –
forse poco più grande – che non avevo mai
visto prima. Sembra davvero un figo, con i capelli neri dal
taglio a
spazzola e quegli
occhi scuri e indecifrabili.
“Ciao”
lo saluto, riprendendo a fare ciò che ho lasciato a
metà.
Lo sconosciuto si
siede accanto a me e mi scruta. “Cosa ci fai
qui?”
“Niente, sto
giocando.”
“E
perché proprio qui? Hai visto tutta la merda che
c’è qui
intorno?”
Sollevo di nuovo lo
sguardo. Dev’essere davvero un tipo
forte, ha usato la parola merda, che nella bocca di un
ragazzino così
piccolo non ci dovrebbe stare. Okay, a volte lo dico anch’io,
ma lui è così
disinvolto.
“Mia sorella
mi lascia qui.”
“Devi avere
una sorella davvero stronza. Amico, qui ci fanno
le sparatorie di notte, lo sai?”
Gli lancio uno sguardo
di sfida. “Mia sorella non è stronza,
hai capito?” ruggisco. Non mi piace che Maggie venga
insultata così, lui non la
conosce.
“E allora
perché ti lascia qui da solo? Quanti anni hai,
sei?” Prende ad allacciarsi una scarpa.
“Otto”
preciso fieramente. “Perché lei deve uscire con i
suoi amici e non mi vuole tra i piedi.”
“E
perché tu non te ne vai in giro nel frattempo?”
Non mi piacciono tutte
queste domande. Però lui è davvero un
tipo a posto, così sicuro di sé, ed è
vestito come un vero ragazzo di strada:
maglietta larga, scarpe in tela, jeans stracciati. Mi piacerebbe essere
come
lui.
“Perché
Maggie non vuole, e poi devo farmi trovare qui
quando è ora di tornare a casa. Se zia Maura non ci vede
rientrare insieme, mia
sorella passerà un sacco di guai.”
“E tu ti
preoccupi di mettere nei casini una che ti molla in
una discarica per andare a fare la troietta con i suoi
amici?” Scoppia a
ridere, si rimette in piedi e si passa un paio di volte le mani sui
pantaloni
sgualciti.
In effetti
è vero. Non ha tutti i torti. Io voglio bene a
Maggie e non voglio incasinarla, ma anche io ho il diritto di
divertirmi,
proprio come lei.
Comunque preferisco
cambiare argomento. “Come ti chiami?”
“Ethan
AraÚjo. Tu?”
ribatte, osservandomi dall’alto.
Mi alzo a mia volta.
“Ives. Ives Mancini. Che figo, hai un cognome
argentino?”
Ethan inarca un
sopracciglio. “È brasiliano. Sai la
differenza?”
Scuoto il capo e
alcune ciocche corvine mi cadono sugli occhi. “Ah.
È per questo che hai la
pelle un po’…?”
“Sei
stupido? È
olivastra, e poi sono abbronzato. Ti sembra così strano? Ah
già, tu sei bianco
come una fottuta pista di cocaina…”
Sgrano gli occhi.
“Tu sai com’è fatta la
cocaina?”
“Mio
fratello è uno
spacciatore. In qualche modo dovremo pur guadagnarci da vivere,
no?”
“E tu
l’hai
provata?”
“Ho nove
anni, ci
tengo al mio cervello. Ancora per un po’” replica
secco, quasi indignato.
Ethan mi sembra un
tipo abbastanza pericoloso, ma c’è qualcosa in lui
che mi affascina.
“Adesso sai
che
facciamo io e te?” Ethan mi si piazza di fronte con un mezzo
sorriso,
sovrastandomi di quasi venti centimetri. “Ce ne andiamo da
questa schifosa
discarica e ci facciamo un giro. Sai usare lo skate?”
“No.”
Ma mi
piacerebbe un sacco.
“Ti
insegnerò.”
Un sorriso spontaneo
mi si allarga sul viso. Forse si può fare, forse anche io ho
trovato un amico
con cui passare i miei pomeriggi, un modello da seguire, qualcuno che
mi possa
insegnare come si fa a essere fighi.
Non so se sia una
buona idea, Maggie si arrabbierà, ma non riesco a resistere
alla tentazione.
“Ci
sto!” esulto.
“Grande!”
Mi faccio trovare al
piazzale alle sette e un quarto. Sono in ritardo di un quarto
d’ora e infatti
Maggie mi sta aspettando, infuriata più che mai.
Saluto
frettolosamente Ethan – che bel pomeriggio ho trascorso con
lui, mi ha promesso
che domani tornerà a trovarmi – e corro da mia
sorella, preoccupato per la sua
reazione.
“Si
può sapere cosa cazzo
ti è saltato in mente? Dov’eri,
stronzo?” sbraita lei, afferrandomi per la
maglietta e sgualcendo il tessuto con le sue unghie lunghe e smaltate.
Mi mordo il labbro.
“In giro.”
“Ti avevo
detto di
non muoverti!”
“Ma non
è giusto che
tu puoi andare a divertirti e io no!” obietto.
Maggie mi lascia
andare e prende dei profondi respiri per calmarsi, guardandomi con ira.
“Non me
ne importa di quello che fai tu nel frattempo, ci sono solo due cose
che mi
interessano: non ti devi rompere l’osso del collo e devi
essere in orario per
tornare a casa. Ci siamo capiti?”
Mi illumino.
“Quindi
posso andare in giro anch’io?”
“Fai il
cazzo che
vuoi. L’importante è che segui queste due
indicazioni. Tanto ormai sei grande
abbastanza.”
Lancio un gridolino
entusiasta; sono così felice che la abbraccerei, ma non le
farebbe piacere.
Nel tragitto verso
casa passo tutto il tempo a saltellare e a ripercorrere con la mente le
ultime
ore. Ethan mi piace un sacco.
Forse non è
a casa
mia, ma da qualche parte esisterà un posto per me.
L’avrò forse trovato?
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Capitolo 6 *** V ***
V
Perditi
nella musica nel momento in cui ti appartiene.
[Eminem]
È la prima
volta che prendo un basso in mano, ma già sento
qualcosa scorrermi nelle vene e arrivarmi al cuore, qualcosa che non
avevo mai
provato prima.
Lo strumento
è color legno chiaro, è tutto ammaccato e ha un
suono che mi fa tremare. Fa tremare i vetri, le pareti,
l’aria, tutto ciò che
c’è intorno.
È un
uragano, è distruttivo, un po’ come me.
“Ives, non
è accordato” cerca di richiamarmi Ethan.
Ma io non lo sento e
non mi accorgo nemmeno più del freddo
pungente che c’è in quel garage dalle pareti
macchiate di muffa.
“Forse
è il caso di dargli un plettro” commenta Sammy,
l’amico batterista di Ethan.
Non sento nemmeno lui,
lo voglio ignorare, rapito come sono.
Pizzico una di quelle corde così grosse, mentre i
polpastrelli della mano
sinistra iniziano a bruciare, tanto li premo sulla tastiera. Non so se
quello
che sto suonando è un do o un re, però mi piace.
In quasi dieci anni di
vita non avevo mai provato una
sensazione del genere. Mi sento così… completo.
Quando finalmente
sollevo lo sguardo – non so dire se siano
passati pochi secondi o due ore – Ethan e Sammy mi stanno
osservando perplessi
e divertiti, il primo mentre giocherella col cavo del suo amplificatore
e il
secondo con le sue bacchette.
“Quindi…
vorresti entrare come bassista nella nostra band?”
mi chiede Sammy con un enorme sorriso. In realtà non gli ho
mai visto
un’espressione diversa da quella da quando sono entrato nel
suo garage e l’ho
conosciuto e questo lo rende ancora più buffo, insieme ai
capelli rosso accesi
e al miliardo di lentiggini sparse per tutto il viso.
“Certo!”
rispondo d’istinto. “Io non lo so suonare, ma
imparerò. Lo voglio fare!”
E così
adesso sono il bassista di una band di cui non
conosco nemmeno il batterista – questo però non
è un problema, faccio amicizia
molto facilmente. E poi se è un amico di Ethan
dev’essere per forza un tipo a
posto.
Ma soprattutto non
capisco un accidente di musica.
Ethan mi sfila il
basso dalle mani – anche se non glielo
vorrei cedere – e lo osservo mentre muove quelle strane
manopole all’estremo
del manico. Servono per accordare, mi ha spiegato. Dovrò
imparare, se voglio
essere un bravo bassista.
Lui è un
bravissimo musicista, anche se è ancora piccolo.
Suona la chitarra da sempre, è la sua più grande
passione e a volte l’ha anche
portata con sé quando siamo usciti insieme, ma non sempre
perché non la vuole
rovinare. È bravo e conosce un sacco di musica.
Probabilmente se non
fosse stato per lui non avrei mai provato
a suonare qualcosa.
Quando sono costretto
a separarmi dal basso di Sammy – è
suo, così come la batteria e il garage in cui ci siamo
rintanati; suo padre
aveva una scuola di musica anni fa – sento subito una
mancanza, è come se mi
avessero strappato da un abbraccio. Voglio che quelle vibrazioni mi
avvolgano
ancora il corpo, voglio imparare tutti i trucchi e gli stratagemmi per
ottenere
un suono come piace a me. Voglio imparare a parlare attraverso quelle
quattro
corde, un po’ come quando Ethan inizia a suonare la chitarra
e tutti
ammutoliscono rapiti.
Voglio un basso tutto
mio da poter suonare in ogni momento.
Zia Maura non
sarà per nulla contenta quando glielo dirò.
Ultimamente
non è mai contenta di quello che faccio.
Sa che vado in giro
per i fatti miei, che mi sono fatto degli
amici e che mi sono strappato i jeans per essere più figo;
si arrabbia sempre
un sacco quando faccio tardi la sera e torno a casa quando ormai
è buio. E non
le piace la gente che frequento.
Qualche giorno fa le
ho anche rubato qualche moneta dal
portafoglio, ma non diteglielo.
Forse, se le prendessi
una monetina al giorno, senza che se
ne accorga, riuscirei a racimolarne abbastanza per comprare un basso.
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Capitolo 7 *** VI ***
VI
I'm cold, I'm drunk
I just don't care
about, care about you
I smoke too much and I
just don't care about you
I sing my songs and I
just don't care about, care about you
I'm on my stars and I
just don't care
[Måneskin
– Shit
Blvd]
Spingo piano la porta d’ingresso, che cigola
fastidiosamente, e mi intrufolo in casa senza nemmeno accendere la
luce. Spero
davvero che zia Maura sia a letto e non si accorga di niente, non mi va
di
sentire una sua ramanzina e soprattutto non posso rischiare che veda i
miei
occhi.
Capirebbe, e allora sì che rimarrebbe delusa.
È stata una serata epica, come mai prima d’ora. Io
e Ethan
siamo andati in giro, abbiamo fumato marijuana, abbiamo combinato un
sacco di
stronzate con gli altri ragazzi del quartiere e alla fine il mio amico
è
riuscito a recuperare un paio di bottiglie di birra. Non so come abbia
fatto,
ha solo tredici anni, ma dice che è stato merito di Davi, il
suo fratello
maggiore.
Io non ho indagato troppo, un po’ perché Davi mi
inquieta e
un po’ perché Ethan è troppo riservato
e non avrebbe senso fargli domande; se
vorrà svelarmelo un giorno, lo farà di sua
spontanea volontà.
Succede sempre così tra noi.
Muovo qualche passo in corridoio, ma subito la figura
corpulenta di zia Maura mi si materializza di fronte. Nonostante la
penombra,
non mi sfugge la scintilla di rabbia che le attraversa gli occhi mentre
mi
afferra per la manica della maglietta.
Sono così frastornato che non ho la forza di reagire
– forse
ho un po’ esagerato stasera – ma mi ricordo di
serrare gli occhi per evitare che
si accorga di quanto sono rossi.
Cazzo, e se sentisse l’odore dell’erba sui miei
vestiti o
quello dell’alcol nel mio alito?
“Stavo per chiamare la polizia” ringhia.
So che dietro questo suo fare severo e aggressivo si
nasconde un’enorme preoccupazione e allora mi sento un
pochino in colpa, ma
giusto un po’.
Cerco di scrollarmi le sue mani di dosso e scuoto il capo,
lasciando che le mie ciocche corvine e ribelli nascondano il mio viso.
“Dai,
zia, siamo solo stati in giro e non mi sono reso conto
dell’orario…”
“Ives, hai dodici anni ed è l’una di
notte! Non voglio
assolutamente che tu rimanga là fuori a quest’ora,
intesi?”
Sbuffo e cerco di aggirarla, nella speranza che mi lasci in
pace. “Buonanotte.”
“No, forse non ci siamo capiti!” Mi riacciuffa e mi
costringe a voltarmi, poi mi afferra il mento e mi obbliga a guardarla
dritta
negli occhi.
Oscurità, ti prego, nascondi i segni dei miei
eccessi.
“Non pensare che ora puoi fare quello che ti pare solo
perché
Maggie è andata a studiare fuori, sono pur sempre tua
madre!”
“No, non sei mia madre” le sputo in faccia, sicuro
di me
come non lo sono mai stato. Può essere che sia
l’alcol a disinibirmi in questo
modo, ma adesso non ho voglia di pensarci.
Zia Maura mi lascia andare e all’improvviso i suoi occhi si
incupiscono.
Finalmente riesco a sfuggirle e corro subito in camera mia,
sbattendomi la porta alle spalle. Sì, mi prendo anche questo
diritto, perché
oggi sono il padrone del mondo, mi sento onnipotente.
Mi sentivo onnipotente con la canna tra le labbra.
Mi sentivo onnipotente col bicchiere tra le dita.
Mi sentivo onnipotente mentre le ragazze strette nei loro
abitini ci lanciavano occhiate languide e sognanti.
Finalmente ho trovato un posto dove sentirmi a casa, una
famiglia pronta ad accogliermi veramente e chi se ne fotte se zia Maura
non
approva, non mi può controllare come quando ero piccolo.
Del resto non l’ha mai fatto. Non c’era quando Stan
mi
picchiava o quando Maggie mi minacciava.
Metto su l’unica audiocassetta dei Clash che possiedo
– loro
sono gruppo preferito di me ed Ethan – e rovisto nel mio
zaino alla ricerca di
accendino e sigarette, poi mi dirigo alla finestra e ne accendo una,
lasciando
cadere la cenere all’esterno. L’aria della sera mi
pizzica la pelle e il fumo
mi pizzica i polmoni, l’adrenalina comincia a scemare.
Ora sì che sto bene.
Faccio scorrere lo sguardo per la mia stanza, illuminata
solo dalla luce leggera della luna, e intravedo la sagoma del basso di
Sammy
abbandonato ai piedi del letto. Ormai quello strumento è
più mio che suo, dato
che ce l’ho sempre con me. E poi lui non lo sa suonare, non
se ne fa niente.
So cosa farò per il resto della nottata: suonerò.
Non c’è
modo migliore per concludere una giornata perfetta come questa.
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Capitolo 8 *** VII ***
VII
Ho
fatto questo tatuaggio unicamente per il dolore. I disegni e i colori,
sono
giusto per ricordo.
[Anonimo]
“Non ti
conviene tirarla su prima del tatuaggio. Sai, la
coca tende a innervosire e non è l’ideale quando
c’è da avere pazienza.”
Distolgo lo sguardo
dalla striscia bianca che ho disposto
sul piano del tavolino di fronte a me e lo fisso su Ethan. È
sempre così
fottutamente silenzioso, compare dal niente e anche stavolta non mi ero
accorto
del suo arrivo.
“Mmh,
dici?”
“Ce la fai a
resistere?” mi chiede, inarcando un
sopracciglio.
Faccio saettare lo
sguardo dal suo viso alla cocaina
abbandonata sul tavolo, è così
invitante…
Infine sorrido al mio
amico. “Certo che ce la faccio. Mi hai
preso per un drogato di merda?”
Ethan si stringe nelle
spalle, mi sfila la banconota dalle
dita e, dopo averla arrotolata, sniffa in un solo colpo la pista bianca
che
avevo preparato. “Perché, non è questo
che siamo? Due tossici.”
Mi acciglio.
“Ehi, quella me la devi rimborsare!”
“Ti ricordo
che sono io a pagarti il tatuaggio” ribatte con
un sorriso sornione.
Scoppio a ridere e gli
batto una pacca sulla spalla. “Lo so,
stavo scherzando. Andiamo?”
“Andiamo.”
Gli aghi non mi sono
mai stati simpatici, infatti non mi
sono mai riuscito a spiegare chi si fa di eroina e che quindi si deve
iniettare
la roba in vena. Come si fa ad abituarsi a qualcosa del genere e
addirittura
trovarlo piacevole?
Forse è per
quello che mentre Cleen, il mio tatuatore,
applica lo stencil sul mio braccio, una leggera ansia mi pizzica il
cuore,
accelerando i miei battiti.
Ethan mi ha regalato
questo tatuaggio per i miei quindici
anni e io lo voglio con tutto me stesso, ma l’idea che tanti
aghi mi bucheranno
la pelle mi agita parecchio.
Sono nervoso, forse
avrei fatto meglio a tirare su la coca
prima di venire qui. Mi sono pentito di non averlo fatto.
“Pronto,
ragazzino?” mi chiede Cleen, armeggiando con una macchinetta.
Mi impongo di rimanere
calmo e mettere su una faccia da
duro. “Sicuro.”
Devo pensare ad altro.
La mia mente corre
verso linee di basso che so a memoria,
verso i bellissimi concerti che ho visto al Whisky e al Rainbow, verso
i corpi
vibranti delle ragazze che mi vorticano attorno, invitandomi a
sfiorarli ed
esplorarli. Non vedo l’ora di uscire di qui e immergermi in
questa vita così
eccitante, quella che ho sempre sognato e che ora stringo in pugno.
Quasi non mi accorgo
del ronzio della macchinetta che si
accende, da quanto ho la testa piena di nuove linee di basse, canzoni
da
provare e da plasmare.
Ma quando gli aghi mi
feriscono la pelle, all’improvviso
torno alla realtà.
E la sento.
È una scossa, un brivido, una sensazione tutta
da conoscere. È un dolore quasi insopportabile, ma per
qualche strano motivo mi
piace.
Mi ricorda che sono
vivo.
Improvvisamente mi
dimentico del disegno, delle linee, dei
colori, delle sfumature e di ciò che rimarrà sul
mio braccio una volta
terminato il lavoro: esistiamo solo io, gli aghi che pungono la pelle e
quella
micidiale scarica al cervello che continua a inebriarmi.
Nel profondo del mio
cuore, me lo sento, questo è l’inizio
della mia rovina.
Note:
-
Il nome del tatuatore,
Cleen, è un (neanche
troppo) velato omaggio a uno dei miei partecipanti di Ink Master
preferiti,
Cleen Rock One.
-
Il Whisky A Go Go e il
Rainbow sono due famosi
locali di Los Angeles, che soprattutto negli anni Settanta e Ottanta
sono stati
il fulcro della musica rock losangelina.
|
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Capitolo 9 *** VIII ***
VIII
Here
comes the bad rain
Falling
from an aching heart
[Slash,
Myles Kennedy & The Conspirators - Bad Rain]
Schiudo gli occhi con
cautela e, mentre un forte mal di
testa e un pressante senso di nausea mi assalgono, non posso fare a
meno di
formulare un pensiero: ieri notte è stato uno sballo. Non
ricordo di preciso
cosa sia successo, so solo che è stato pazzesco.
Il mio sguardo viene
catturato dal grigiore che regna fuori
dalla finestra, le cui imposte sono spalancate; decine di goccioline di
pioggia
rigano il vetro. Osservarle, nello stato in cui mi trovo, non fa che
aumentare
il mal di testa e la confusione che ho nel cervello.
Che ore sono? Non ne
ho idea. A dire il vero non so nemmeno
come sono tornato a casa, ho un vuoto di memoria che va dal nostro
concerto al
Whisky fino a ora. Forse sono stato con una ragazza dopo il live, non
ne sono
certo, ma sicuramente è stato divertente.
Dovrei alzarmi, ma
ancora non ne ho la forza.
Faccio scorrere lo
sguardo per la stanza e sorrido nel
constatare che è un disastro, la giusta rappresentazione di
me.
C’è
una piccola radio in un angolo, collegata alla corrente
e accesa, sintonizzata su una stazione dal segnale disturbato; per
fortuna il
volume è basso, emette dei suoni ronzanti davvero
fastidiosi. Deve essere
rimasta accesa per tutta la notte. Sul pavimento, lì
accanto, è un cimitero di
vinili, cassette, indumenti vari, riviste a tema musicale, fogli e
qualche
libro; poggiato ai piedi del letto invece staziona il mio basso
meticolosamente
sistemato e chiuso all’interno della custodia.
Frastornato, mi metto
a sedere lentamente e faccio scorrere
una mano tra i capelli corvini e scarmigliati, le ciocche lisce e
annodate mi
si impigliano tra le dita prima di ricadermi sul collo e attorno al
viso.
Dovrei proprio farmi una doccia, prima di uscire nuovamente a fare
baldoria
stasera.
Stiamo ingranando,
oggi suoneremo come gruppo spalla per una
band non tanto famosa ma davvero forte, si chiamano Guns N’
Roses. Ho sempre
saputo che i miei Storm It Down hanno del potenziale, ho sempre saputo
che
siamo fatti per spaccare e sono davvero entusiasta di avere
l’occasione per
portare in giro la mia musica, i brani in cui noi crediamo.
Serro gli occhi per
qualche istante, il mal di testa mi
rimbomba sempre più forte nelle tempie. Devo fare qualcosa
per anestetizzarlo.
Intorpidito, scivolo
giù dal letto e mi trascino fino alla scrivania,
dove è scompostamente posata la mia fedele giacca in pelle;
frugo nelle tasche
e i miei polpastrelli sfiorano proprio ciò che stavo
cercando: una piccola
bustina. Prima di estrarla, tuttavia, mi guardo attorno con
circospezione e tendo
l’orecchio per cercare di captare eventuali rumori fuori
dalla stanza.
Evito in tutti i modi
di portare coca in casa, anche la più
piccola dose, perché non voglio che zia Maura la trovi o che
si insospettisca.
L’ho già delusa tante volte: sa che fumo marijuana
e che spesso torno a casa
ubriaco, la sera non sa mai dove mi reco e chi frequento, vive nella
costante
paura di ricevere qualche chiamata dalla polizia per via delle mie
bravate. Non
voglio darle anche questo dolore, un figlio cocainomane sarebbe troppo.
Estraggo la bustina
con un movimento fulmineo e mi fiondo
nuovamente sul letto, rapido come un ladro. Cazzo, mi sento come se
stessi
rubando in casa mia.
Però so che
è necessario agire con cautela e prudenza.
Porto fuori tutto il
materiale con movimenti frettolosi e lo
dispongo sul comodino sudicio. Ah, non vedo l’ora di farmi,
dopo starò subito
meglio!
Mentre mi preparo la
pista, rifletto su quanto io sia
fortunato ad avere una figura come zia Maura nella mia vita.
È stata l’unica ad
accogliermi quando sono rimasto orfano, l’unica che mi ha
trattato come un vero
e proprio figlio, l’unica ad avermi perdonato qualsiasi cosa,
anche quando le
ho detto e fatto cose orribili, anche se la faccio dannare e
preoccupare da diciassette
anni ormai. Non la merito, decisamente. È troppo buona con
me.
Scaccio quei pensieri
e, servendomi di una banconota
arrotolata, tiro su la striscia di polvere bianca che sta sul comodino.
Un
bruciore ormai familiare mi pizzica le narici, fino a scivolare
giù, sempre più
a fondo dentro me, fino ai polmoni. Una volta terminato, tiro su col
naso un
altro paio di volte e gli occhi mi pizzicano, velandosi appena di
lacrime.
Sniffare non mi piace
tanto in realtà, è fastidioso, ma la
sensazione che provo subito dopo è impagabile. Mi sento
rigenerato, come se le
energie mi si fossero risvegliate di botto e avessero preso a scorrere
per il
mio corpo intorpidito. Ho l’impressione di poter fare
qualsiasi cosa.
Adocchio la sveglia
lì accanto, le lancette arrancano a
fatica sul quadrante. Sono passate da poco le quattro del pomeriggio e
io mi
sono già sparato la prima dose della giornata.
Con un mezzo sorriso
sulle labbra, mi accingo a rimettere a
posto tutto e nasconderlo per bene: l’ansia di poter essere
scoperto mi serra
ancora lo stomaco.
Mi alzo e mi dirigo
nuovamente verso la scrivania con la
bustina stretta tra le mani, ma mentre la sto per infilare nella tasca
della
giacca, accade proprio ciò che non sarebbe dovuto succedere.
La porta della camera
si schiude piano e zia Maura vi si
affaccia, un’espressione accigliata a indurire ancora di
più i suoi lineamenti
marcati. “Ives, allora sei qui. Ieri notte non ti ho sentito
rientrare”
afferma.
Io sono immobile,
paralizzato in mezzo alla stanza, con le
dita strette convulsamente al bordo del sacchettino incriminato. Non ho
idea di
quale espressione possa essersi dipinta sul mio viso, ma sento
chiaramente il
sangue defluire dalle mie guance e un capogiro mi investe.
Okay, con calma. devo
riflettere. Fare qualcosa. Non devo
guardarla in faccia, magari in questo modo riesco a scamparla.
Getto rapidamente la
bustina in una tasca e continuo a dare
le spalle a mia zia. Sento che sto iniziando a tremare.
“Cazzo, ma
l’educazione e la privacy dove sono andate a
finire? Bussare non si usa più?” sbotto, la voce
dura e alterata. Non sembra
neanche la mia.
Una remota vocina in
un angolo del mio cervello mi
suggerisce che non dovrei rivolgermi così a zia Maura, ma la
scaccio come fosse
un insetto fastidioso.
“Ives.”
Pronuncia il mio nome con lentezza, in un tono
talmente basso e minaccioso da mettermi i brividi. Poche volte
l’ho sentita
così incazzata.
Stavolta
l’ho combinata grossa.
Zia Maura accorcia la
distanza tra noi, sento i suoi passi
pesanti e cadenzati alle mie spalle; un attimo dopo posa una mano sulla
mia
spalla e mi costringe a voltarmi con forza. Tento di opporre
resistenza, ma la
mia fisionomia esile non può nulla contro di lei,
così robusta e corpulenta.
E dire che da piccolo tra
quelle braccia così forti
cercavo protezione…
Non sollevo lo
sguardo, so che i miei occhi mi tradirebbero.
“Cosa stavi
facendo?” sibila zia Maura in tono tremendamente
serio.
“Non ti
riguarda” mi ritrovo a rispondere, sfrontato.
“Quindi non
ti dispiacerà se do un’occhiata qui.”
Allenta
bruscamente la presa su di me e afferra lesta la mia giacca in pelle.
No, no, no!
Col cuore a mille,
tento di strappargliela dalle mani.
“Lasciala! Porca puttana, molla la mia giacca!”
strillo, la voce sale di
diverse ottave e assume una nota isterica.
Sono disperato e anche
piuttosto incazzato.
Ma lei è
più forte di me e, nonostante i miei continui
strattoni, riesce a infilare una mano proprio nella tasca destra.
“Come, Ives?
Se non hai nulla da nascondere, perché ti preoccupi
tanto?” mi sfida.
“Cazzo! Non
ti azzardare a mettere le mani sulle mie cose!”
continuo a inveire, quasi con la bava alla bocca per la rabbia,
tentando di
spingerla indietro. Ci metto tutta la forza che ho, ma lei vacilla
appena.
Ormai è
troppo tardi. L’ha trovata, l’ha portata fuori, la
stringe tra le dita con diffidenza – come se la temesse
– e la osserva con
circospezione.
Allora mi fermo. Tanto
non c’è più niente da fare, non
esiste nessuna giustificazione che regga.
Zia Maura sposta lo
sguardo su di me e finalmente ho il
coraggio di incrociarlo. I suoi occhi scuri sono due tizzoni ardenti,
scintillano di un’ira che mi mette davvero paura.
Ma non è
quella la vera pugnalata. Ciò che mi fa male
davvero è la delusione, il dolore, che leggo nel fondo delle
sue iridi.
L’ho delusa.
Di nuovo.
Sento gli occhi
bruciare.
Zia Maura getta via la
bustina, che va a schiantarsi sul
pavimento, poi mi afferra il mento e mi costringe a guardarla dritta
negli
occhi. Di certo le mie pupille parlano chiaro, non
c’è bisogno di altre
spiegazioni.
“Da
quanto?” ringhia.
Le energie sembrano
avermi abbandonato all’improvviso, mi
sento prosciugato.
“Zia,
io…”
“Va
bene.” Mi lascia andare e si scosta bruscamente da me,
come se l’avessi scottata. La solita vocina maligna mi
bisbiglia che
probabilmente quello sarà l’ultimo contatto che
avrò con lei.
“Ives, io
con te non so più cosa fare. Per te mi sono
impegnata fin dal primo giorno, mi sono rimboccata le maniche e ho
lavorato
sodo per non far mancare niente a te e Maggie, ti sono stata vicina
quando ne
avevi bisogno, ti ho sempre chiesto cosa ti serviva per stare bene, ti
ho
lasciato tutta la libertà di cui avevi bisogno, ti ho
perdonato tante volte
nella speranza di vedere dei cambiamenti, dei miglioramenti, in te. io
ho
sempre avuto fiducia in te perché ero certa che tu fossi un
ragazzo intelligente
e avresti saputo sfruttare le giuste occasioni, avresti saputo
distinguere il
bene dal male. Ma evidentemente sperare non è
bastato.” Mentre parla la voce le
trema appena, anche se non perde la sua solita vena autoritaria, e per
una
frazione di secondo scorgo i suoi occhi inumidirsi e luccicare. Ma si
ricompone
subito e, assumendo un’espressione severa e irremovibile,
conclude: “Hai tempo
fino a domani per prendere tutte le tue cose e andartene. Questa non
è più casa
tua”.
Mi azzardo a ridere:
deve essere uno scherzo.
“Ti rendi
conto che non ho un altro posto in cui stare?” le
faccio notare.
Sta scherzando, ne
sono sicuro. Non può mandarmi via così,
non lo farebbe mai. D’accordo, l’ho davvero delusa,
ma non arriverebbe mai a
tanto.
“Lo so e non
mi interessa, non è più un problema
mio.”
Sgrano gli occhi, il
fiato mi si mozza.
La osservo voltarsi e
avviarsi impettita verso l’uscita.
Nessun ripensamento, nessuna titubanza.
Prima di lasciare
definitivamente la stanza, si volta nella
mia direzione e mi rivolge un’occhiata talmente carica di
dolore da mandare il
mio cuore in frantumi. “Figlio mio, io ti amo con tutta me
stessa, non
dimenticartelo mai. È proprio per questo che non ho nessuna
intenzione di
restare a guardare mentre ti distruggi con le tue stesse mani. Non ce
la
faccio.”
Quando la porta si
richiude, la stanza piomba nel silenzio,
fatta eccezione per il tamburellare della pioggia all’esterno
e il fruscio
della frequenza disturbata proveniente dalla radio.
Anche il mio cervello
è in silenzio, talmente carico da non
riuscire più a elaborare niente.
Le strade sono
inondate d’acqua, le crepe e le fosse
sull’asfalto sfasciato si sono trasformate in grandi
pozzanghere che ingannano
l’occhio in tutto quel grigiore.
Le mie scarpe in tela
sono zuppe, la mia giacca in pelle non
è abbastanza per proteggermi dal gelo che ho dentro.
Cammino sotto la
pioggia e non mi importa di bagnarmi, di
ammalarmi, di tremare per il freddo. Anzi, in questo momento non mi
dispiacerebbe stare molto male e morire.
L’unica cosa
che non si deve infradiciare è il basso che
porto in spalla, ma per fortuna qualche mese fa ho investito per una
bella
custodia rigida e impermeabile. Enorme. Sembra volermi schiacciare
sotto il suo
peso mentre arranco sul ciglio della strada.
Anche io sono fatto di
pioggia: tante goccioline mi rigano
il viso, ma queste sono calde e salate, bruciano. Mi sento
così debole e
sbagliato a piangere così, come un bambino, con dei
singhiozzi profondi che mi
scuotono il petto e mi fanno sussultare le spalle, ma ora non importa.
Non c’è
nessuno intorno a me, tutti si defilano e si rintanano a casa durante
le
giornate di pioggia; io sono l’unico che se ne va in giro a
prendere freddo.
Devo arrivare al
Rainbow, dove suoneremo. Avrei potuto
prendere un autobus, ma ho bisogno di camminare, di sgombrare la mente
da tutti
i pensieri prima del grandioso concerto di stasera.
Ho bisogno di piangere da
solo.
Scuoto il capo e cerco
di scacciare via le lacrime dalle mie
guance, ma anche il dorso della mano è fradicio, non serve a
niente.
La verità
è che non ho nessuna voglia di andare al concerto
stasera, voglio solo riavere indietro la mia casa e la mia mamma. Non è
un pensiero per niente figo da formulare a diciassette anni, me ne
vergogno
tantissimo, ma in questo momento mi sento come quel bambino di quattro
anni,
fragile e indifeso, che correva a nascondersi tra le braccia di zia
Maura ogni
volta che qualcosa andava per il verso sbagliato.
È proprio
quello che vorrei fare: mollare tutto, correre da
lei, chiederle scusa, prometterle che cambierò e che non la
deluderò più. Ma
sarebbero promesse vane.
Non
cambierò mai, ho scelto la mia strada e ho preso la mia
decisione. Mi sono lasciato corrompere dalla vita di strada e dalla
droga,
anche se ho sempre saputo che stavo sbagliando.
Volevo la vita di
strada? Ecco, ora in mezzo alla via mi
toccherà anche dormire.
Mi fermo sotto la
tettoia di una fermata del bus e frugo
dentro la custodia del basso in cerca delle sigarette. Se continuo a
camminare
sotto l’acqua scrosciante, non riuscirò ad
accenderne una.
Il mio corpo
è scosso da tremiti di freddo, le ciocche
corvine mi si sono appiccicate in testa e mi gocciolano addosso senza
tregua.
Fumo in fretta la
prima sigaretta, quasi tutta d’un fiato,
vorace; getto a terra il mozzicone e ne accendo subito
un’altra. La nicotina è
l’unica sostanza a mia disposizione in questo momento, ho
finito anche la coca.
Devo arrivare al Rainbow il prima possibile e cercare qualcosa per
stordirmi.
Ma sì, in
fondo cos’ho da perdere? Ho intrapreso questo
cammino verso l’abisso e quindi tanto vale tuffarmici dentro,
giocare a questo
gioco finché non mi fotterà.
Adesso che ho rotto
anche con zia Maura, l’unica persona
della mia vecchia vita di cui mi importava qualcosa e a cui importava
qualcosa
di me, cosa mi rimane? Non devo più rendere conto a nessuno,
posso anche
distruggermi.
Sospiro pesantemente
mentre osservo la pioggia scrosciare,
sempre più violenta, giù dalla tettoia in
plastica e riversarsi a terra. La
strada è come un fiume in piena, l’acqua scorre
frenetica come a voler
purificare tutto, mentre io mi sento sempre più sporco.
Intanto, senza neanche
farci caso, ho già acceso la quarta sigaretta.
E dire che zia Maura
è forse l’unica persona che mi ha
voluto bene, l’unica che mi ha sempre sostenuto e mi
è stata vicina, anche
quando non glielo chiedevo. Quante volte l’ho offesa e
l’ho accusata di essere
stata assente, di essere sempre al lavoro, quando in realtà
lei lo faceva solo
per me, per mantenermi e non farmi mancare niente.
Ha sbagliato a riporre
fiducia in me, oggi ne ha avuto la
conferma: sono un caso perso. Sono una nullità, non riesco a
fare niente di
buono e, ancora una volta, ho distrutto tutto. Il riassunto della mia
vita, in
sostanza.
Sono riuscito a farmi
odiare da colei che mi ha sempre amato
incondizionatamente, come se fossi suo figlio, sangue del suo sangue.
Gli occhi ricominciano
a bruciarmi e riversare lacrime
disperate sul mio viso gelido. Getto la sigaretta fumata per
metà a terra e
scoppio a piangere più forte di prima.
Detesto mostrarmi
così fragile perfino davanti a me stesso.
Ma che ci posso fare se l’unica cosa che vorrei ora
è un abbraccio caldo e
qualcuno che mi sussurri che non ho sbagliato proprio tutto?
Basta Ives. Stasera hai
un concerto, vai e spacca tutto.
Riprendo il mio
cammino, il basso sempre in spalla, e la
pioggia mi investe come un’infernale doccia fredda.
Devo andare al Rainbow
e fare finta che nulla sia accaduto.
Suonerò. Mi stordirò.
Berrò come
una spugna fino a vomitare. Anzi, di più.
Fumerò erba
fino a consumarmi i polmoni. Anzi, di più.
Tirerò su
strisce di coca fino a farmi sanguinare il naso.
No, farò di più, molto di più.
Voglio qualcosa di
potente, ma potente davvero, che mi
faccia dimenticare ogni problema e illudere per un istante che vada
tutto bene,
che sia tutto a posto. Voglio una sensazione di calore e luce che mi scorra
direttamente nelle vene.
Sorrido tra le lacrime
per un attimo: anche stasera me ne
fotterò dei problemi, mi divertirò e
starò bene.
Chi se ne frega se ho
perso una famiglia, ne ho un’altra
pronta ad accogliermi così come sono, con i miei difetti e i
miei vizi.
Quando finalmente
giungo davanti al Rainbow, la luce grigia
del giorno è ormai un lontano ricordo. Non so quantificare
per quanto tempo ho
camminato, ma a un certo punto mi sono arreso e ho preso un bus, ci
avrei
impiegato troppo tempo ad arrivare altrimenti.
Entro nel locale
grondante d’acqua e sicuramente in
condizioni pietose; gli occhi saranno certamente cerchiati di rosso, ho
smesso
di piangere da poco. Mi inventerò una scusa.
I primi che avvisto
nella penombra del locale sono i ragazzi
dei Guns N’ Roses, stipati in un angolo insieme alla loro
cerchia di amici. Li
saluto con un breve cenno prima di far slittare lo sguardo altrove, in
cerca
dei miei compagni di band.
Alick è sul
palco e sta montando la sua batteria – ancora
non ci possiamo permettere dei roadies che si occupino di queste cose
al posto
nostro – mentre chiacchiera animatamente con Oliver, il
nostro cantante.
Io però
sono in cerca di Ethan, è di lui che ho bisogno.
Sicuramente si trova in un angolo a sorseggiare un po’ di
vodka, accordare la
sua chitarra e scambiare due parole con qualcuno. Mi guardo attorno, ma
a colpo
d’occhio non riesco a individuarlo.
Nel frattempo Oliver
si volta, mi intercetta e mi invita ad
avvicinarmi con un ampio cenno della mano. Metto su il mio miglior
sorriso e mi
avvicino, sperando che non si accorgano di niente.
“Amico, sei
appena uscito dalla doccia?” commenta Oliver, scrutandomi
attentamente con quei suoi occhi verdi e indagatori.
“Dov’è
Ethan?” vado subito dritto al punto. In genere sarei
entusiasta di chiacchierare e scherzare con loro, ma oggi non ne ho
voglia.
Alick solleva lo
sguardo dal rullante che sta finendo di
posizionare sull’asta, parte della sua enorme chioma castano
scuro gli ricade
sul viso. “Sei sicuro di stare bene, Ives?” mi
domanda col suo solito tono
pacato.
Gli sorrido.
“Alla grande! Mi sono solo un po’ bagnato sotto
la pioggia.” Talmente tanto che mi si sta formando una
piccola pozza sotto i piedi:
i capelli e i vestiti sono completamente inzuppati d’acqua.
“Allora, Ethan
dov’è?”
Alick mi rivolge
un’occhiata dubbiosa prima di afferrare
l’asta di un piatto e riprendere ciò che stava
facendo. Ha capito che c’è
qualcosa che non va. Quel ragazzo ha un sesto senso eccezionale,
è l’ultimo
arrivato nella band ma è come se avesse letto
l’anima di tutti e tre,
semplicemente standoci accanto.
Oliver afferra
premurosamente la mia custodia che ancora
stazionava sulla mia spalla e la ripone in un angolo accanto ad altra
attrezzatura, poi mi ficca tra le mani un bicchierino pieno di Jack
Daniel’s e
mi indica un anfratto buio alla destra del palco. “Se non si
è volatilizzato,
Ethan dovrebbe essere lì.”
Mando giù
lo shot tutto d’un fiato, sperando che mi riscaldi,
poi appoggio il bicchiere a bordo palco e mi dirigo in quella
direzione. Adesso
posso anche smettere di sorridere e mostrarmi come il ragazzino
entusiasta che
sono sempre stato, con Ethan non c’è bisogno di
fingere. Ci ho provato tante
volte, ma non riesco mai a fregarlo.
Proprio come avevo
previsto, lo trovo seduto su una cassetta
di birre rovesciata e la schiena contro il muro, una bottiglia
semivuota poggiata
accanto a lui e la chitarra tra le braccia. Le sue sopracciglia scure
sono
aggrottate in un’espressione concentrata e le sue dita
sottili e agili volano
sulle corde con la solita naturalezza che ogni volta mi spiazza. Sembra
esserci
nato, con quello strumento in mano.
Non appena gli giungo
accanto, mi squadra da capo a piedi
come se mi vedesse per la prima volta: non devo fare una buona
impressione, con
i capelli appiccicati in faccia, gli occhi gonfi e rossi, il corpo
tremante e
sepolto da indumenti troppo grandi che sembrano volermi seppellire. Nei
suoi
occhi grandi e scuri come il carbone leggo una tacita domanda, che
però Ethan
non osa farmi ad alta voce. Come sempre.
Ha capito che sto male
e che è successo qualcosa, ma gliene
parlerò quando sarà il momento. Tra noi funziona
così, i punti interrogativi
sono qualcosa di veramente raro.
Mi getto a terra
accanto al mio migliore amico e mi stringo
le braccia intorno al corpo nel tentativo di scaldarmi. Con lo sguardo
fisso
davanti a me, perso nel vuoto, affermo: “Da domani
verrò a stare da te, dormirò
sul tuo divano”.
Lui inarca appena un
sopracciglio, poi scrolla le spalle
come a voler dire che per lui non c’è problema. Ha
un piccolo appartamento
tutto per sé in centro a Los Angeles, il suo fratello
maggiore Davi gli paga
l’affitto tutti i mesi. Ed è proprio lui, tra
l’altro, a procurarci la coca
ogni volta che ne abbiamo bisogno, essendo uno spacciatore piuttosto
ricco e
influente; ha un bel giro qui a Los Angeles, ricopre una posizione
davvero
prestigiosa.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi
ha scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Trascorrono alcuni
istanti di silenzio in cui ci scambiamo
giusto qualche occhiata fugace.
“Beh, che si
fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai”
afferma senza mezzi termini.
Sorrido appena: ormai
non mi offendo più quando insulta i
miei famigliari, è soltanto il suo modo di dimostrarmi
solidarietà, anche se un
po’ rude.
Si volta per afferrare
la bottiglia abbandonata sul
pavimento, ne prende un lungo sorso e poi me la passa. Lo imito e
lascio che
l’alcol mi scorra in tutto il corpo, riscaldandomi e
rilassandomi.
Poi la poso nuovamente
sul pavimento, punto i miei occhi in
quelli di Ethan e metto su un sorrisetto innocente. “Davi
spaccia anche eroina,
vero?”
Ethan non è
un ragazzo che lascia trasparire le sue
emozioni, ma a quelle parole tutti i suoi muscoli si tendono e un lampo
di
panico gli attraversa lo sguardo. “Non dire stronzate, Ives
Mancini” sibila.
Faccio scorrere lo
sguardo dalla pelle pallida del mio
braccio all’ago lucente, pensando che tra poco si
congiungeranno. Non sono
emozionato, non sono agitato, ma soltanto impaziente, come se il mio
corpo e la
mia anima avessero sempre saputo che questo momento sarebbe giunto. Non
c’è
niente da accettare e da capire, era già tutto scritto.
Sono fatto per questo.
Ethan non è
per niente d’accordo, sostiene che dovrei stare
lontano da questa
merda e che
mi distruggerà il cervello in maniera
irrimediabile; si è incazzato veramente tanto, penso fosse
addirittura in
apprensione, ma poi ha capito che a quest’età sono
io a dover prendere le mie
decisioni, giuste o sbagliate che siano.
Parla proprio lui, che
con i soldi ricavati da questa
merda ci
vive.
Sono pronto. Poso la
punta dell’ago laddove mi pare di
individuare una vena, inizialmente leggera, mentre i miei pensieri
scorrono a
mille.
Oh sì,
finalmente ci siamo. Non vedo l’ora di provare quello
sballo di cui tutti parlano, così sublime, così
totalizzante che tutti i
problemi sembrano sparire e il mondo sembra bellissimo.
Voglio soltanto
smettere di soffrire.
Spingo l’ago
sotto la pelle, spingo l’ero nelle mie vene.
Non ho paura.
E
all’improvviso la sento esplodere nella testa. È
qualcosa
di sgargiante, è un piacere talmente intenso che stordisce.
Mi viene da ridere e
da piangere insieme. Sto per svenire,
ma mi sforzo di rimanere vigile e catturare quell’attimo,
talmente bello e
surreale che mi si imprime a fuoco nella mente.
Oggi è il
17 novembre 1985, fuori piove e io sono felice.
Finalmente.
Note:
-
Come già
accennato nello scorso capitolo, il
Rainbow e il Whisky A Go Go sono due famosi locali di Los Angeles che,
a partire
dagli anni Sessanta ma soprattutto nei Settanta e Ottanta, sono stati
l’epicentro
del rock losangelino.
-
Ho deciso di inserire
(molto marginalmente) i
Guns N’ Roses perché proprio in quel periodo erano
una delle band più popolari
del giro, anche se si erano formati da poco e non avevano ancora fatto
grande
successo.
-
Ci tengo a precisare
(per Mary che non ha letto
il resto della raccolta) che zia Maura è appunto la zia
materna di Ives, che ha
preso in affidamento il bambino quando questo aveva solo una settimana.
Maggie,
a cui si accenna soltanto in una frase, è la figlia
biologica di Maura, cugina
e “sorellastra” di Ives, ha sei anni in
più di lui e si è trasferita altrove
diversi anni prima.
-
Non so se alcuni
lettori attenti l’hanno notato,
ma tutti i componenti della band di Ives (gli Storm It Down) hanno nomi
che iniziano
per vocale (Ives, Ethan, Alick, Oliver). È stato quasi un
caso e l’ho trovata
particolare ^^ a tal proposito, ringrazio Carmaux per i deliri, i
suggerimenti
e la pazienza!
|
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Capitolo 10 *** IX ***
IX
And
when you smile
The
whole world stops and stares for a while
[Bruno
Mars – Just
The Way You Are]
Non appena poso lo
sguardo su di lei, il primo pensiero che
mi salta in mente è che stona completamente con
l’ambiente circostante. In
mezzo a tutto quel casino, alle ragazze dal trucco pesante e le
minigonne che
tentano in ogni modo di attirare l’attenzione, ai ragazzi con
l’alito che odora
di alcol e le pupille dilatate, al degrado dell’intero
locale; lei sembra così
ordinaria.
Così
luminosa, coi suoi capelli di caramello, le iridi di
miele, la maglia bianca che mette deliziosamente in risalto le sue
forme e i
jeans scuri e attillati. Una ragazzina acqua e sapone, di quelle che
prendono
buoni voti a scuola e aiutano la mamma a fare la spesa.
Perché si
trova qui?
Seguo Ethan e Oliver
verso il bancone, dove casualmente
si trova proprio il gruppetto di cui fa parte anche la ragazza di mio
interesse. Succede sempre così dopo i concerti: andiamo a
ordinare qualcosa da
bere e nel frattempo rimorchiamo qualche donna con cui concludere la
serata in
bellezza.
A dire il vero io non
sono particolarmente amante della
avventure di una notte, ma non sono mai riuscito ad avere una ragazza
fissa.
Forse non ne sarei nemmeno in grado.
Però
stasera è diverso. Stasera c’è davvero qualcuno
che mi interessa.
Il mio cantante e il
mio chitarrista si avviano al bancone
con passo sicuro, lanciando qualche occhiata alle ragazze nei paraggi e
attaccando subito bottone con loro. Io invece rimango un passo
indietro, voglio
prima studiare la situazione.
Noto che la ragazza
dai capelli di caramello si discosta
dalle sue amiche, quasi spaventata dall’arrivo di Ethan e
Oliver; la vedo
sollevare gli occhi al cielo, poggiare i gomiti al bancone lurido e
sospirare.
Non sembra particolarmente contenta.
È la mia
occasione.
Prendo coraggio, mi
piazzo accanto a lei e le rivolgo un
sorriso conciliante. “Ciao! Ti hanno lasciato sola?”
Lei mi rivolge
un’occhiata scettica e incuriosita allo
stesso tempo; le sue iridi sembrano proprio dipinte col miele, sono
belle da
morire. “Più o meno. Sapevo che sarebbe andata a
finire così…” borbotta.
“Così come?”
“Alcune mie
compagne di scuola,” fa un cenno alla sua
destra, dove le tre ragazze che la accompagnano continuano a parlare e
ridere
con Ethan e Oliver, “mi hanno convinto a venire qui, anche se
ero piuttosto
refrattaria. Mi hanno promesso che non mi avrebbero lasciato da sola
per andare
con qualche ragazzo, invece…”
“Non ti
piacciono i concerti?” mi informo.
Lei scuote la testa e
per la prima volta sorride. “Adoro i
concerti, ma non mi piace l’atmosfera che si crea
tutt’intorno.” Ridacchia
appena e le sue guance si arrossano appena.
È
assolutamente adorabile.
Tuttavia
quell’ultima frase mi procura una strana sensazione
all’altezza del cuore: io faccio parte proprio di
quell’atmosfera che non le
piace, provengo proprio da questo lerciume che ci circonda; non avrei
nemmeno
dovuto posare gli occhi su di lei, in ogni caso questa conversazione
non andrà
a buon fine.
“Ah, non mi
sono presentata: Cheryl.” La ragazza mi sorride
con fare dolce e conciliante, le labbra rosate le si increspano.
Ricambio il gesto e la
scruto imbambolato; al diavolo se non
le interesserò mai, ora sono qui e voglio vivere al meglio
questo momento. “Ives,
piacere.”
“E
così tu sei il
loro bassista?” mi domanda Cheryl, accennando appena a Ethan
e Oliver.
“Sì.
Tu suoni
qualche strumento?”
Lei scuote il capo.
“Non sono capace, ma amo la musica.”
“Mi stai
simpatica”
affermo con sincerità. “Posso offrirti da
bere?”
Il suo sorriso
entusiasta mi basta come risposta, è talmente radioso che
pare illuminare
l’intera stanza. “D’accordo!”
Ma subito dopo il
suo sguardo ricade sul mio braccio magro e pallido, lasciato scoperto
dalla
t-shirt che indosso, e in particolare sul bozzo scuro che spicca nella
parte
interna.
Il segno che mi sono
procurato un paio di giorni fa, quando ho sbagliato a bucarmi.
No, no, non
è così
che deve andare! Ho appena conosciuto Cheryl e non voglio che scopra
subito cosa
sono.
I suoi occhi
tradiscono
un’innocenza che io non voglio deturpare, non è
giusto.
“Ah,
questo… è di un
controllo medico” mento, posando istintivamente un
polpastrello sul segno
scuro, come a volerlo nascondere. Abbozzo un sorriso, sperando di
risultare
credibile.
Come se il fatto che
mi stia giustificando non sia già abbastanza
sospetto…
Ma lei sembra non
accorgersi di niente, anzi, un velo di imbarazzo le offusca lo sguardo.
“Non eri
obbligato a dirmelo, scusa, devo farmi gli affari miei.”
“Ma
figurati!
Allora, cosa ti offro?” cambio discorso con allegria,
scacciando l’attimo di
tensione che ci ha catturato.
Lei sorride.
“Veramente non saprei, non sono molto abituata a bere.
Opterei per una birra,
ma se hai qualche altro consiglio…”
Allungo la mano sul
bancone per afferrare un cartoncino su cui è stampato
l’intero menu dei
cocktail. “Allora… dipende dai tuoi gusti e da
quanto ti vuoi sbronzare.”
Lei ride e mi
dà di
gomito. “Ti assicuro che da ubriaca non sono un gran bello
spettacolo!”
Le lancio
un’occhiata stranita, mentre nel frattempo penso che lei
sarebbe uno spettacolo
in qualsiasi stato.
“Non sto
scherzando!
Una volta, durante la cena del Ringraziamento, mio zio mi ha riempito
talmente
tante volte il bicchiere di vino che poi sono uscita in giardino a
piedi nudi e
mi sono messa a strillare una canzone di Natale!”
Scoppio a ridere.
“Non è poi così terribile, si
avvicinava il giusto periodo! Tornando a noi… ti
piacciono i sapori dolci o preferisci quelli più
forti?”
Cheryl si sporge sul
bancone per sbirciare il menu dei cocktail, una sua ciocca liscia e
morbida mi
sfiora il palmo della mano.
E mi sento proprio
come un ragazzino innamorato, come se per la prima volta avessi perso
la testa,
ed è una sensazione inebriante.
Mi sento al posto
giusto nel momento giusto.
Mi sento
così giusto
e sbagliato contemporaneamente e per la prima volta mi preoccupo di
cosa questa
ragazza potrebbe pensare di me; ci tengo a fare bella figura.
E vorrei perdermi
nella sua dolcezza, conoscere i suoi abbracci, divorare i suoi sorrisi.
Anche se una parte
della mia mente sta già pensando che tra non molto
finirà l’effetto dell’eroina
e dovrò farmi di nuovo.
Note:
Da qui la
narrazione
si interseca alla raccolta di drabbles Blue Eyed Damned Soul, narrata dal punto di
vista di Cheryl. Per
questo motivo non mi soffermerò troppo sul rapporto tra i
due, non voglio
essere ripetitiva per chi sta seguendo la serie e ha già
letto di quelle
vicende.
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Capitolo 11 *** X ***
X
There's an itch
under my skin
It's under my skin,
under my skin
'Cause I just wanna
feel something real
[Nothing But Thieves
– Itch]
Devo assolutamente farmi.
Questo è il mio primo pensiero quando scendo dal palco.
Sicuramente Davi ha mandato qualcuno per me e quel qualcuno
mi sta aspettando all’ingresso secondario del locale.
Devo poggiare il basso e correre a prendere la mia roba.
Cazzo, la mia eroina.
“Ehi, Ives” mi intercetta Ethan sul retro del
palco, mentre
armeggio nervosamente con la tracolla del basso.
Le dita mi tremano leggermente e sto cominciando a sudare
freddo, sto fottutamente male. Non dovevo tirare così tanto
la corda, sapevo di
dovermi rifornire prima.
“Sai che oggi hai suonato proprio di merda?”
prosegue il mio
chitarrista, gettando la sua t-shirt nera zuppa di sudore a terra e
cercando il
cambio nel suo zaino.
“Ho suonato come sempre” ribatto bruscamente, la
voce venata
di un’isteria che non mi è mai appartenuta prima.
“Ives, cazzo, sono serio. Quella roba ti sta fottendo il
cervello e il talento.” Ethan pronuncia quelle parole in tono
duro, per niente
impressionato dal mio atteggiamento ostile.
Del resto da quando vivo sul suo divano è abituato al mio
continuo distacco, al mio egoismo da bucomane; ha smesso anche di
provare
compassione nei miei confronti, ora pare quasi odiarmi.
Sotto sotto mi fa male, anche se per fortuna l’eroina mi
inibisce ogni emozione e la rende più sopportabile.
Per la prima volta sollevo lo sguardo e lo fisso dritto
negli occhi, i suoi sono scuri e imperscrutabili. “Bene, tuo
fratello mi ha
fatto portare qui una dose, quindi ora se non ti dispiace vado a
fottermi il
cervello” affermo, cercando di tenere un tono sicuro, ma la
voce ha preso a
tremare – così come il resto del mio corpo.
Devo sbrigarmi, sto malissimo e sono sull’orlo di una crisi
di astinenza.
Mi volto e schizzo via, muovendomi nella penombra del locale
verso l’uscita secondaria. Soltanto pochi metri mi separano
dalla mia meta…
Vado a sbattere con violenza contro Alick; in questo momento
sono talmente provato che ho l’impressione di spezzarmi
nell’impatto. O forse è
perché sono troppo magro, me lo dice sempre anche Cheryl.
Il mio batterista, vedendomi vacillare, mi afferra per un
braccio con l’intento di sorreggermi e mi scruta coi suoi
occhi grandi e scuri,
così tremendamente indagatori. “Cheryl ti sta
cercando.”
Mi scrollo la sua mano di dosso. “Sono di fretta. Dille che
sono in bagno e che arrivo subito” bofonchio, prima di
aggirarlo e catapultarmi
fuori, dove l’aria fresca della notte mi avvolge.
Forse dovrei avere freddo, ma sono ben altre le sensazioni
che mi travolgono in questo momento, come il forte senso di nausea che
si fa
strada dalla bocca dello stomaco.
Per un istante il viso dolce e luminoso di Cheryl mi si materializza
nella mente e mi sento così in colpa, continuo a tenerle
nascosta la verità e
so che, quando lo verrà a sapere –
perché è inevitabile che prima o poi se ne
accorga – se la prenderà talmente tanto con me che
non vorrà più vedermi.
Avrebbe ragione.
Ma quei pensieri si dissolvono nell’immediato quando scorgo
una figura che mi si accosta nelle tenebre: si tratta di Craig, uno dei
ragazzi
che lavorano per Davi.
Sorrido: l’agonia è finita.
Getto la testa all’indietro e socchiudo appena le palpebre.
Non so nemmeno spiegare il sollievo che sto provando, questa sensazione
dolce e
ovattata che invade ogni cellula del mio corpo, in netto contrasto con
la
rudezza dell’ago che penetra sottopelle.
Sento la sostanza scorrermi nelle vene, entrare in circolo,
è come un prurito, un pizzicore, un’ondata di
piacere. Ed è sotto la mia pelle,
dentro le ossa, dentro il mio cuore e il mio cervello.
Sembra l’unica vera sensazione che posso provare in mezzo a
una realtà ormai troppo distante. È questa
la realtà, per me.
Penso non sia proprio possibile rinunciarvi. Non potrei mai
provare il desiderio di rinunciare all’unico dolce brandello
di conforto che mi
è rimasto.
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Capitolo 12 *** XI ***
XI
Stay with me till the
end
[Daron Malakian
& Scars On Broadway – Till The End]
AIDS.
Quattro lettere di cui non conoscevo il significato fino a
ieri.
Quattro fottute lettere che mi hanno strappato qualsiasi
speranza.
Col capo posato sul bracciolo del divano – è il
divano di
Ethan, ma ormai è diventato mio, il mio letto e il mio unico
rifugio –,
spalanco le palpebre che ho tenuto serrate per un tempo incalcolabile,
ma anche
la tenue luce che filtra dalle imposte chiuse mi ferisce,
costringendomi a
strizzare gli occhi.
È la mia routine, nulla di cui sorprendersi. Ormai vivo
nella penombra, stravaccato su questo sudicio giaciglio, come un
qualsiasi
eroinomane che si rispetti.
Mi porto un dito magro alle ciglia dell’occhio destre e le
trovo secche: in queste ventiquattro ore ho già pianto tutte
le lacrime che
possedevo, ora i miei occhi sono diventati aridi come il mio cuore.
Morirò. Per colpa della mia stupidità, della mia
imprudenza
e della mia fottuta smania di bucarmi, ora non ho più
nessuna speranza.
Perché sì, prima ce l’avevo. Prima ero
così ingenuo che,
nonostante tutto, in qualche angolo remoto del mio cuore nutrivo una
speranza,
pensavo davvero di potermi salvare, di poterne uscire e che le cose
sarebbero
andate meglio per me. Non mi sono mai veramente impegnato
perché accadesse, ma
questo pensiero mi faceva bene, mi dava la forza di continuare a
suonare, a
uscire, ad amare, a sognare.
Almeno in minima parte, quando non ero del tutto sopraffatto
dall’eroina.
Cerco di mettermi seduto con le poche forze che ho in corpo
– sono talmente magro e smunto che ho l’impressione
di potermi sgretolare in
qualsiasi momento – e subito lo stomaco mi si rivolta, come a
voler protestare.
Probabilmente vomiterò di nuovo, non faccio altro da un
giorno intero.
Devo morire. Forse l’ho sempre saputo, forse è per
questo
che mi viene facile farmene una ragione. Forse quel briciolo di
speranza non
bastava.
Ieri, quando sono tornato a casa dopo essere stato dal
medico, non riuscivo nemmeno a parlare; non appena ho aperto la porta
d’ingresso e ho visto Ethan che sistemava alcuni suoi vinili,
le gambe troppo
esili non mi hanno più sorretto e sono crollato, ho
cominciato a piangere e
rimettere tutto ciò che non mangio da mesi.
Ethan è subito corso da me e, imprecando tra i denti, mi ha
aiutato a risollevarmi e sdraiarmi sul divano, poi mi è
rimasto accanto finché
non sono riuscito a dirgli cos’era successo.
Appena ha sentito la parola AIDS, si è
incazzato.
Davvero tanto. Non l’avevo mai visto così
incazzato, eppure ormai ho imparato a
conoscere il suo temperamento. Mi ha riempito di insulti e se
n’è andato
sbattendo la porta, ignorando le mie lacrime.
Non l’ho più visto da ieri pomeriggio, non
è tornato a casa
stanotte.
In realtà non so nemmeno che momento della giornata sia ora.
Forse sono già trascorse ventiquattro ore, forse no.
La reazione di Ethan mi ha strappato il cuore dal petto, mi
ha colpito come una pugnalata, perché so che ha ragione. Se
n’è andato perché
mi vuole bene e non può sopportare di vedermi mentre mi
distruggo con le mie
mani.
E ancora non l’ho detto a Cheryl… è
disperata da quando è
venuta a sapere della mia dipendenza dall’eroina, non oso
immaginare come
reagirà a questa notizia.
Sento la porta aprirsi con un cigolo, ma non apro gli occhi
e non mi muovo, resto avvolto nella mia sudicia coperta col capo
abbandonato
sulla spalliera del divano, qualche ciocca unta che mi solletica il
viso.
Sicuramente è Ethan.
E se così non fosse, se si trattasse di un malintenzionato
che si è intrufolato in casa, tanto meglio: spero che mi
faccia fuori.
Il nuovo arrivato muove qualche passo nella stanza, poi si
ferma presso il divano, sento il suo sguardo addosso.
“L’hai detto a Cheryl?” La voce di Ethan,
così insolitamente
piatta e distaccata, rompe quel silenzio che aleggiava nella stanza da
troppo
tempo.
Sento le lacrime pungermi gli occhi e non so nemmeno perché,
pensavo di averle già piante tutte. Ma
all’improvviso, alla sola idea di non
essere più solo, è come se un enorme peso mi si
sollevasse dal petto.
“No” biascico soltanto, le labbra secche tirano
terribilmente anche solo a formulare quella sillaba.
Dio, quanto sto male. Tra un po’ dovrò iniettarmi
una dose,
almeno starò meglio e potrò sperare di non
pensare per un po’.
Le molle del divano sfondato cigolano e avverto una presenza
riempire il posto vuoto accanto a me. Ethan mi si è seduto
accanto.
“Sai,” mormoro, “sinceramente preferisco
morire di overdose
il prima possibile, piuttosto che stare male per tanto tempo e farmi
annientare
dalla malattia. Almeno morirei felice.”
Non so se sia normale formulare un pensiero del genere nella
mia condizione, ma è la prima cosa che mi è
saltata in mente. Strano modo di
fare conversazione.
“Sei un pezzo di merda, Ives. Non dovresti morire. Io e te
dovevamo suonare insieme, girare il mondo, far conoscere a tutti la
nostra
musica. Ti ricordi?” sbotta Ethan in tono duro, ma
c’è qualcos’altro nella sua
voce; non riesco a capire cosa sia, forse una nota di disperazione.
Ma conosco Ethan e so che non si dispera mai. E se lo
facesse, non lo darebbe a vedere.
Finalmente riesco a trovare la forza di aprire gli occhi e
stavolta combatto anche contro la leggera luce che li ferisce; li punto
su
Ethan e lo trovo con le sopracciglia scure aggrottate e i lineamenti
ancora più
marcati e duri per via dell’espressione accigliata, come
sempre. Ma i suoi
occhi sono cupi per la tristezza mentre mi scruta, e la sua carnagione
olivastra è più pallida del solito.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
“Però tu non mi lascerai morire da solo, vero
Ethan? Io non…
io non ti lascerei mai da solo, anche se tu fossi il più
grande figlio di
puttana di questo universo, anche se…” Ma non
riesco a continuare il mio
discorso, i singhiozzi mi sconquassano il petto e le lacrime scendono
copiose
sulle mie guance.
Perché improvvisamente mi sono ricordato che devo morire e
ancora non ci ho fatto l’abitudine.
E ancora una volta mi sento come il bambino indifeso e dolce
che ha bisogno soltanto di un abbraccio, di un po’ di
conforto, di qualcuno che
gli doni una speranza anche quando non può esserci.
D’istinto gli afferro una mano e la stringo forte nella mia,
pallida e sottile, solitamente priva di forza. Ma adesso le mie dita
stritolano
le sue, callose e da chitarrista, come se fosse il mio unico appiglio
per stare
ancora attaccato alla vita.
Perché in fondo Ethan è sempre stato la mia casa
e la mia
famiglia, quando pensavo di non averne una.
Lui distoglie lo sguardo, è a disagio, non sa cosa dire o
fare. Lo conosco bene, so che i gesti eccessivamente affettuosi lo
mettono a
disagio – e forse sono l’unica cosa in grado di
imbarazzarlo, in genere è così
imperscrutabile e sicuro di sé.
“Ethan…” riesco soltanto a bofonchiare,
prima che un conato
mi colga alla sprovvista.
Cazzo.
Per fortuna ieri il mio amico ha portato una bacinella
vicino al divano, così che non dovessi alzarmi ogni volta
che mi sentivo male.
Si è riempita in fretta nelle ultime ventiquattro ore.
Buffo, non ho toccato
cibo.
Mi piego in avanti e libero il mio stomaco dal niente che
sta al suo interno; mi sembra quasi di soffocare, tra conati e colpi di
tosse.
Forse morire sarebbe davvero la cosa migliore.
Ethan si riscuote immediatamente: scatta verso di me e con
una mano mi sostiene per un braccio, mentre con l’altra mi
tira indietro i
capelli per evitare che si sporchino. Non mi lascia andare nemmeno per
un
secondo, non esita anche se faccio schifo.
“Non ti lascio da solo, meu irmãozinho”
sento
mormorare Ethan mentre, stremato, mi accascio nuovamente sul divano e
gli stringo
nuovamente la mano.
Forse pensa che non me ne sia accorto, ma io ho sentito
benissimo.
E, anche se non ne ho la forza, lo ringrazio con tutto il
mio cuore.
A prescindere da ciò che accadrà, Ethan
sarà sempre la mia
famiglia.
Note:
Meu
irmãozinho in portoghese
significa “fratellino
mio”. Non dimentichiamo che Ethan ha origini brasiliane ^^
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Capitolo 13 *** XII ***
XII
Like a crystal tear
I
wake in the night, I pace like a ghost
The
room is on fire, invisible smoke
[Taylor
Swift – The Archer]
Schiudo le palpebre e i miei occhi pesanti si scontrano con
l’oscurità. Li sento bruciare, prudere, pizzicare,
come se un fumo denso e
scuro li avesse investiti.
Che ore sono? Forse è giorno, forse è
notte… ormai non le
distinguo più, le imposte sono sempre ben chiuse e le tende
tirate. È un’eterna
notte, la mia.
Mi ci vuole qualche istante per realizzare ciò che mi sta
accadendo: un violento accesso di tosse mi scuote il petto, mi fa
tremare i
muscoli e mi imperla la pelle di sudore.
Ancora. Di nuovo.
Non ho la forza di mettermi seduto, anche se i polmoni mi si
strizzano nel petto e un forte senso di nausea mi assale.
Non lo faccio perché sono troppo stanco.
Tossisco, ancora e ancora. Mi brucia il petto, mi brucia il
viso, mi brucia la gola. Mi sembra quasi di star affogando, annaspo in
cerca
d’aria, stringo i pugni e affondo le unghie nei palmi con
forza.
Scatto a sedere nel tentativo di trovare un po’ di sollievo.
Va leggermente meglio, anche se ho l’impressione che qualcuno
mi stia
schiacciando la gabbia toracica fino a togliermi il respiro.
Tento di prendere qualche respiro profondo e mi guardo
attorno in questo mare di oscurità. Sono così
stanco, distrutto; vorrei
solo chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
Ma la tosse non mi vuole ancora lasciare in pace. Ormai è
così ogni notte, ogni giorno, ci sono abituato e so
esattamente ciò che devo
fare per trovare un po’ di serenità.
Mi alzo vacillando e vengo colto da un capogiro. Respiro
affannosamente, sento le orecchie bollenti e il mondo barcolla attorno
a me.
Sono costretto a posare una mano sullo schienale del divano per non
rovinare a
terra.
Ho caldo. Troppo caldo.
Ancora preda della tosse, mi dirigo con passo malfermo verso
il bagno; mi chiudo la porta alle spalle e accendo le luci della
specchiera –
due lampadine su tre sono fulminate e l’unica superstite
emana una luce fioca e
lugubre, che si riflette sulla ceramica sudicia del lavandino.
Ethan fa fatica a stare dietro alla casa, a me, a tutto. A
volte non ci torna proprio, a casa: sicuramente si sta stufando pure
lui della
mia malattia e di questa situazione, quando mi ha concesso di dormire
sul suo
divano momentaneamente non poteva immaginare che
sarebbe andata a finire
così.
Mi aggrappo al bordo del lavandino e ancora una volta mi
abbandono ai colpi di tosse. Finché la vista non mi si
appanna, finché le
orecchie non sibilano e si ovattano, finché non sento
più le gambe e il mondo
sembra essere lontano anni luce. Tossisco fino a sfinirmi,
finché le uniche
sensazioni che riesco a percepire sono un vuoto all’altezza
dei polmoni e un
retrogusto amaro, quasi terroso, in gola.
Sono veramente stufo di vivere così. Si può
chiamare vita,
poi?
Deglutisco a vuoto e tiro un sospiro di sollievo quando mi
accorgo che l’accesso di tosse si sta pian piano placando. Ho
espulso il niente
che avevo dentro e ora comincio a stare un po’ meglio.
Quando riacquisto un minimo di lucidità e riesco a tenere le
palpebre aperte, anche se a fatica, noto che il lavandino si
è riempito di
schizzi rossastri.
Anche oggi ho tossito sangue. Come ogni giorno.
Apro il rubinetto e mi sciacquo il viso, qualche goccia mi
finisce anche tra i capelli scarmigliati e unti. Mi lascio scivolare un
po’
d’acqua in gola per tentare di placare il bruciore; non so
nemmeno se sia
potabile, ma poco importa, tanto devo morire. Se bevessi veleno non
cambierebbe
niente, anzi, mi aiuterebbe a farla finita nel minor tempo possibile.
Sento la testa pesante, ma ciononostante mi sforzo di
sollevare il capo; la luce, per quanto soffusa, mi ferisce le pupille
affaticate, ma a colpirmi ancora di più è il mio
riflesso nello specchio.
Da quanto tempo non incrociavo il mio stesso sguardo? Da
quanto tempo non vedevo il mio volto profondamente devastato?
Sembra quasi uno scherzo, a ben pensarci. Dov’è
finito quel
ragazzino dai lineamenti dolci e il sorriso radioso che ero un tempo?
Chi è
quest’estraneo che ha preso il suo posto, perfetto riflesso
della malattia?
Faccio scorrere lo sguardo sulle guance scavate e diafane, che
sotto la luce giallognola sembrano ancora più malate; lo
poso sulle labbra
sottili e secche, talmente fragili da sembrare sul punto di sciuparsi,
e sulle
rughe profonde che solcano la fronte. Osservo il modo raccapricciante
in cui le
mie ciocche corvine, lunghe e scomposte come mai lo sono state,
ricadono
pesanti attorno al mio viso scarno e piccolo, come un manto oscuro che
rischia
di schiacciarmi.
Un tempo queste stesse ciocche erano folte e morbide,
incorniciavano un viso rotondetto e delicato, quasi infantile, con un
sorriso
che andava da un orecchio all’altro e le guance che si
tingevano di rosa.
Infine mi guardo negli occhi e fa male, troppo male.
I miei occhi pesanti, contornati di rosso e iniettati di
sangue e sofferenza; sempre allucinati e stralunati per via della
droga, sempre
più tristi, rassegnati, spenti. Le iridi hanno assunto il
colore della
burrasca, si sono fatte opache e prive di ogni sfumatura.
Quelle stesse iridi che fino a qualche anno fa erano di un
azzurro brillante da fare invidia al cielo, emanavano una luce talmente
intensa
da fare invidia al sole. Mi ero ripromesso che quelle iridi avrebbero
sempre
sorriso, qualsiasi cosa fosse capitata, ma ho fallito.
Sento una fitta all’altezza del cuore, come una pugnalata, e
sono costretto a distogliere lo sguardo, incapace di sostenerlo oltre.
E lo fisso sulle mie braccia pallide e magre da far
spavento, ricoperte di croste, cicatrici e segni più o meno
freschi di punture.
Ormai non c’è più spazio per accogliere
un altro ago, eppure troverò un modo
per iniettarmi la prossima dose. Un modo lo si trova sempre, quando
l’eroina
che hai in circolo sta per esaurire il suo effetto.
Sollevo nuovamente il capo e strizzo appena le palpebre,
irritato dalla luce della lampadina e dal mio stesso sguardo.
Non possono essere davvero i miei, quegli occhi arresi.
Improvvisamente vengo colto dalla consapevolezza che, per
quanto il mio involucro esterno si mantenga ancora in vita, io dentro
sono già
morto. Non c’è più niente nella mia
anima, il vero Ives non esiste più.
Sono morto nel momento in cui, stupidamente e ingenuamente,
quasi per un capriccio, mi sono sparato la prima dose di ero in vena.
Poi, quando ho scoperto di aver preso l’AIDS, sono morto
ancora di più.
Ed è tutta solo ed esclusivamente colpa mia.
A quel pensiero, un singhiozzo disperato mi scuote il petto
e la gola. Come ci sono arrivato a questa condizione? Perché
sono arrivato a
farmi così tanto del male, fino a uccidermi?
Io non ho mai veramente voluto morire, io voglio vivere. Ho
soltanto ventun anni e ho così tante cose da fare: tanti
luoghi da vedere,
tanta musica da comporre, tanti palchi da calcare, tante persone da
conoscere e
stringere a me, tanti sorrisi da dispensare… ho
così tanto ancora da donare; è
una piccola fiamma che si ostina a rimanere accesa da qualche parte
dentro me,
ma che nessuno ha mai visto bruciare veramente.
Nessuno ha mai voluto vederla e lasciarsi scaldare da lei, o
forse sono io che sono sempre stato incapace di mostrarla.
Perché devo morire? Perché devo lasciare che un
soffio di
vento spenga anche quell’ultima fiamma?
Mi mordo il labbro nel tentativo di trattenere un gemito di
frustrazione e una lacrima solitaria mi scivola sulla guancia destra.
Non mi
ero nemmeno accorto di star per piangere.
Rimango per qualche istante a fissarla, così bella e fragile
sulla mia pelle, ha il potere di incanalare dentro sé tutta
la luce presente
nella stanza.
Sembra quasi surreale che quella graziosa goccia provenga
proprio da me. È talmente delicata che pare di cristallo.
Cristallo.
Se non fossi troppo stanco per sorridere, lo farei: quella
parola mi ricorda la mia Cheryl. Mi fa pensare a una frase che mi ha
detto una
volta: “Ives, tu sei come il cristallo. Così
splendente, raffinato, bello e
prezioso… ma basta un battito di ciglia per sporcare la sua
superficie, basta
un soffio perché si frantumi in mille pezzi. Tu hai la
stessa bellezza e la
stessa fragilità del cristallo”.
Sul momento ho ridacchiato e le ho preso una ciocca di
capelli tra le dita per giocarci un po’, ma successivamente
ci ho ripensato
tanto e forse, se le avessi dato retta, sarei riuscito a non finire in
pezzi.
Cheryl era così, pensava fuori dagli schemi: aveva
l’aspetto
di una fata e le idee di una poetessa, e in un modo o
nell’altro finiva sempre
per avere ragione.
Sembrava così indifesa e dolce, con i suoi vestiti ordinati
da brava ragazza, il trucco leggero, i capelli color caramello e gli
occhi
color miele; sembrava così innocente che avevo paura di
sporcarla e
contaminarla, di trascinarla con me giù nel baratro, ma non
mi sono reso conto
che in realtà era molto più forte di me.
Mi è rimasta accanto con pazienza quando ha scoperto che mi
facevo di eroina, anche se era spaventata a morte. Mi è
rimasta accanto anche
quando la mia dipendenza ha cominciato a risucchiarmi senza via di
scampo e io
pian piano mi dimenticavo di lei.
Mi è rimasta accanto anche quando ha saputo che avevo
l’AIDS,
anche se sapere che avevo i giorni contati la faceva star male, ma mi
amava
così tanto che si sacrificava per me.
Anche se io non l’ho mai meritato.
È per questo che anch’io la amo e per sempre la
amerò, fino
al mio ultimo respiro.
Così tanto che non potevo vederla morire insieme a me e le
ho chiesto di andare via, di non tornare mai più da me e di
trovare la felicità
con qualcuno che possa dargliela davvero.
E così ha fatto. Se n’è andata
piangendo e in preda ai sensi
di colpa, ma non mi è sfuggito il velo di sollievo che le ha
illuminato gli
occhi quando le ho detto che era libera.
Sono riuscito a diventare un peso anche per l’unica ragazza
che io abbia mai amato. Come biasimarla del resto? Così
giovane, piena di vita
e talento, stare dietro a un tossico malato e in fin di vita sarebbe un
fardello troppo grande per lei. Non glielo imporrei mai.
Un’altra persona – l’ennesima –
che esce dalla mia vita
portando con sé solo sofferenza e delusione. Ho deluso tutti
ormai, non è
rimasto più nessuno.
È proprio come quando ero un bambino, il re del
dolore:
ovunque io passi, porto solo tristezza e distruzione.
È rimasto solo Ethan, anche se non so perché. Io
e lui siamo
come fratelli, mi ha promesso che ci sarebbe sempre stato ed
è vero: mi ha dato
un luogo in cui vivere quando non avevo niente e nessuno, mi ha dato
una
famiglia quando la mia mi ha ripudiato, mi ha dato un sogno in cui
credere
quando ogni mia speranza era infranta ed è l’unico
che ancora mi sta accanto,
mi osserva mentre mi autodistruggo.
Ma sento che anche lui si sta stancando, non ne può
più:
certe volte rientra a casa, mi trova sul divano con lo sguardo vacuo e
una
siringa tra le mani e mi guarda come se sperasse di vedermi sparire
all’istante. Un tempo ero il suo fratellino,
adesso sono diventato un
peso anche per lui.
Io ci ho provato in tutti i modi, ho combattuto con le
unghie e con i denti per passare dalla parte dei buoni, dalla parte
della luce,
ma alla fine ci sono cascato: le tenebre da cui sono nato mi hanno
inghiottito
nuovamente. Sono riuscito soltanto a deludere tutti e fare del male.
Ha senso quindi continuare a vivere? Che senso ha ostinarsi
a tenere accesa quella fiammella traballante?
A chi importa se muoio? Sarà solo una liberazione per tutti.
Getto un’altra occhiata allo specchio: la lacrima si
è ormai
asciugata, lasciando solo una lieve traccia sulla pelle pallida. La sua
bellezza si è dissolta in fretta, come tutte le cose belle.
Era una lacrima fatta di cristallo, proprio come me.
Basta, per oggi ho pensato troppo.
Mi allontano dal lavandino, spengo la luce e mi trascino
fuori dal bagno sulle gambe traballanti. Non so nemmeno come io riesca
a stare
ancora in piedi.
Ora tornerò al mio divano, mi avvolgerò nella mia
lurida
coperta, mi sparerò una dose massiccia di eroina in vena e
dormirò.
Sperando che sia l’ultimo ago della mia vita. Sperando di
andare in overdose e non svegliarmi mai più.
Note:
Mi concedo un
piccolo angolino autrice per questo capitolo,
anche se in questa raccolta non sono solita inserirne.
Scrivere
questo capitolo in questo particolare periodo della
mia vita è stato semplicemente straziante. È
andato a calcare la mano su alcune
mie ferite troppo recenti per potersi rimarginare, mi ha fatto male e
forse
questo si riflette sul testo.
Ma
l’ho voluto fare, perché sentivo che mi serviva e
mi farà
a lungo andare star meglio. L’ho voluto affrontare, me lo
sono imposto, perché
ci tenevo troppo e perché so che mi avrebbe aiutato.
Certi demoni
si possono esorcizzare solo tramite la
scrittura, non credete?
Per i lettori
abituali di questa raccolta, volevo
semplicemente darvi delle spiegazioni sul ritardo
nell’aggiornare. Non mi sono
mai dimenticata di questa raccolta, anzi, mai come ora la sento vicina
e mia.
Ma passiamo
alle note più tecniche e quelle per il giudice.
A differenza
degli altri capitoli, qui ho dovuto dare un
titolo per esigenze del contest, ecco perché avete trovato
una sorta di
“sottotitolo”; a tal proposito, la citazione
iniziale fa parte del pacchetto da
me scelto, insieme al genere Drammatico e al prompt/oggetto
“cristallo”.
Elementi che mi hanno davvero tanto ispirato, grazie koopa!
Inserisco
qualche altra piccola annotazione per il giudice,
che potrebbe essergli utile dal momento che la storia fa parte di una
serie:
-
Quando Ives parla di
“musica da comporre e
palchi da calcare”, si riferisce alla band in cui lui suona
come bassista, i
Storm It Down; di questa band fa parte anche Ethan – il suo
migliore amico e
coinquilino – in veste di chitarrista.
-
La scena è
ambientata nel 1989, quando l’AIDS
era una minaccia costante e ancora non si conosceva nessuna cura
efficace per
trattarlo.
-
Ives ha avuto
un’infanzia burrascosa e
difficile, per questo dice che fin da piccolo ha sempre portato
sofferenza e
distruzione ovunque passasse.
Penso (e
spero) che tutti gli altri riferimenti si siano
capiti bene dal testo.
Grazie a tutti
coloro che sono giunti all’ultimo vero
capitolo della raccolta, spero di non essere stata troppo dura e non
avervi
scioccato.
Ma i
ringraziamenti veri e propri li farò nelle ultime NdA,
dopo l’epilogo ♥
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Capitolo 14 *** Epilogo ***
Epilogo
E, se ci
pensi bene,
di solito chi rimane vittima di droghe o altro è
perché è talmente tanto buono
da non riuscire a ribellarsi.
[evelyn80]
Anche i pensieri cominciano a pesare insieme alle palpebre.
Il mio cuore pesa.
Il mio corpo pesa.
E in fondo cosa sono stato durante questi ventun anni per le
persone che mi hanno circondato, se non un peso? Un
triste fardello,
troppo lento e ingenuo per stare al passo col mondo in cui mi sono
ritrovato a
vivere.
Mi sono messo l’anima in pace e ho perdonato tutti, anche
coloro che mi hanno odiato e fatto del male: non è colpa
loro se sono finito
qui, su questo pavimento duro e freddo, con le vene consumate
dall’eroina e le cellule
consumate dalla malattia.
L’unico da biasimare sono io, soltanto io; troppo debole per
reagire al dolore, troppo stupido per capire che l’apparente
benessere
provocato dalla droga mi stava in realtà uccidendo, troppo
egoista per riuscire
a tenere strette le poche persone che mi hanno amato.
Sento il respiro corto. L’ago mi pizzica ancora la pelle,
laddove
l’ho conficcato.
Tento di riaprire gli occhi. Mi pesa come sollevare un
macigno, mi stanca. Le mie pupille si scontrano con
l’oscurità, ma a me
sembra comunque troppo accecante.
A questa vita mi ci sono aggrappato come ho potuto, ho
sorriso fino a creparmi le labbra, ho amato fino a sgretolarmi il
cuore, ho sopportato
la sofferenza finché non mi ha tolto il respiro. E infine ho
ceduto, mi sono arreso,
ho riconosciuto di essere un vinto. L’ennesima
fioca luce che si spegne
senza lasciare traccia.
E ora la morte non mi fa più paura, anzi: la cerco, la
voglio, la desidero. Perché dopotutto le sono sempre
appartenuto, è quello il
mio posto.
Sorrido appena, per l’ultima volta,
mentre un
opprimente torpore mi assale. La sento ancora, la dolce e calda
sensazione dell’eroina
che mi scorre dentro e mi culla lentamente verso il tanto agognato
oblio.
Serro le palpebre per l’ultima volta – nessuno
vedrà più il
cielo e la tempesta dentro le mie iridi.
Sono pronto. O forse non lo sarò mai.
Me ne vado amando zia Maura.
Me ne vado amando Ethan.
Me ne vado amando Cheryl.
Me ne vado amando tutti i miei amici, tutti gli sguardi
che ho incrociato, tutti i sorrisi che ho ricevuto, tutte le lacrime
che ho
asciugato.
Me ne vado amando la musica.
Me ne vado amando perfino Maggie e Stan, e tutte quelle
persone che – come loro – mi hanno preso a calci il
cuore.
Me ne vado amando la vita, anche se lei non mi ha mai
voluto e non mi ha mai ritagliato un posto tra i suoi figli.
Me ne vado amando, perché è
l’unica cosa che so fare.
Qualunque cosa ci sia dall’altra parte, spero abbia
il
volto di mia madre.
Note:
Se dicessi che
scrivere questo epilogo è stato straziante,
sarebbe un eufemismo.
Mi ha
semplicemente distrutto.
Ci ho
impiegato tre lunghissimi mesi e mezzo per prendere
coraggio e buttarlo giù, perché la sola idea mi
toglieva il respiro. La verità
è che, quando ho cominciato a scrivere questa raccolta, non
avevo idea che Ives
mi sarebbe entrato tanto nelle ossa, nel cuore e nell’anima.
È partito tutto
come una normale storia, è finito per essere uno dei
tasselli più importanti della
mia vita.
E raccontare
di lui nei suoi ultimi attimi mi fa piangere. Mi
fa male. È quasi come perdere un figlio.
Cos’altro
posso aggiungere? The Last Remaining
Light,
con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni, rimane uno dei progetti
più
difficili, impegnativi, importanti e dolorosi da portare a termine. La
porterò sempre
sempre sempre nel cuore.
Ringrazio dal
profondo del cuore coloro che hanno avuto il
coraggio di arrivare fino in fondo, di emozionarsi, disperarsi e star male con
me.
Ringrazio evelyn80, Juriaka, Kim
WinterNight e
Sabriel_Little
Storm per esserci state sempre, per aver creduto in me e
aver vissuto questo
viaggio – voi siete coloro che hanno sentito, forse
più di tutti, Ives sulla vostra
pelle; lo avete scoperto, conosciuto e, spero, amato insieme a me.
Ringrazio, per
questo capitolo in particolare, nuovamente Evelyn
per avermi concesso di utilizzare la citazione che trovate a inizio
capitolo: mi
scrisse questa frase in una risposta a recensione e ne rimasi
profondamente
colpita.
Grazie a _EverAfter_ per la
profondità e il trasporto con
cui si è immersa in questa storia; ringrazio mystery_koopa per il
suo contest e
ringrazio anche Carmaux_95,
Carme93, Elise Brown e sangue di nephilim
per aver lasciato
un commento.
Grazie ai
lettori silenziosi, a chi ha aggiunto la storia
alle liste e chiunque si trovi qui per un motivo o per un altro, anche
solo per
sbaglio.
Spero che
dentro tutti voi, in un angolo remoto del vostro
cuore, sia rimasto impresso un frammento di Ives.
GRAZIE
♥
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