NANA

di Layla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventiduesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Capitolo primo.

 

Sai, Hachi…
Dopo la morte di Ren il tempo si era fermato per me.
Nulla di quello che stava accadendo era vero,
era come se camminassi nella nebbia.
Mi accorgevo a stento della tua presenza.

 

Il giorno del mio ventunesimo compleanno il tempo si fermò per me, le lancette tentavano di scattare in avanti, ma non ci riuscivano e io credevo di vivere dentro a un sogno.
Un lungo e particolareggiato incubo da cui mi sarei svegliata presto, non aspettavo altro che questo accadesse. Ero impaziente di rivedere le pareti della stanza dell’albergo in cui alloggiavo a Osaka, risentire la voce di Gimpei che mi sgridava e poi vedere la porta spalancarsi.
Prima sarebbe entrata Hachi sorridendo con in mano una torta, urlando buon compleanno, e poi sarebbe stato il turno di Ren. Lui mi avrebbe sorriso e tutto sarebbe andato a posto, non sarebbe più stato necessario incontrarsi nei sogni.
Non accadeva mai, la realtà mi lambiva come un’onda lontana, ero incapace di accettare che Ren non sarebbe mai tornato e che tutte le cose che dovevamo dirci sarebbero rimaste per sempre in sospeso.
Impossibilitata com’ero a vivere nel mondo reale dormivo.
Dormivo tutto il giorno perché almeno lì potevo vedere Ren, ma non erano sogni sereni: continuavo a vedere la sua schiena e solo metà del suo volto, che si girava a guardarmi per assicurarmi che lo seguissi.
Camminava nella nostra cittadina natale sotto la neve, io cercavo di raggiungerlo, ma una forza mi teneva a distanza e la mia mano protesa stringeva il nulla. Finivamo per ritrovarci sempre al mare, prima sulla spiaggia dove i miei piedi affondavano e poi in acqua. Solo allora Ren rallentava, io lo afferravo per la giacca e alzavo gli occhi per incontrare i suoi, ma tutto diventava buio.
C’erano due possibilità: o il sogno ricominciava o mi svegliavo e mangiavo prima che l’inseguimento ricominciasse.
Andò avanti così per un po’, poi dalla nebbia emerse la voce di Hachi, la sentivo battibeccare scherzosamente con Shin a scariche, una specie di radio non sintonizzata.
Mi venne da ridere e probabilmente rise anche il mio corpo.
Da allora iniziai a camminare fuori dalla nebbia un passo alla volta, ma ero ancora lontana dall’accettare che Ren era andato in un posto in cui non potevo più raggiungerlo.
La prima volta che tornai in me Shin era in camera mia, stava suonando la sua chitarra acustica e io mi stavo per accendere una sigaretta.
“Mi preoccupa. Ho sentito voci e movimenti prima, mi chiedo perché adesso sia calato il silenzio.”
Disse e poi riprese.
“Potresti chiederlo a Ren.”
Al suo nome reagii tirandogli un accendino, lui si spostò e mi restituì uno sguardo ostile, il sorriso cancellato dal mio gesto. Tornai a letto, il silenzio era calato nella stanza, Shin aveva smesso di suonare: l’avevo fatto arrabbiare.
All’epoca non mi importava, non c’era molto di cui mi importasse, ma quel silenzio che si allargava come una macchia di sangue, pesante di ferro e dolore era opprimente.
Presi il mio cellulare e scrissi a Shin di suonare qualcosa, qualsiasi cosa pur di riempire quel vuoto, ma lui rispose lanciando il suo telefono sulla mia schiena.
Mi voltai.
“Non avrei dovuto alzarmi per te.
Tu non mostri nessun sentimento o compassione per Ren o per chiunque ti circondi e non consideri come si sentono.”
Per un attimo mi sentii ferita e sbagliata.
Non stavo reagendo nel modo giusto, era quello che mi stava dicendo una voce, l’altra rispondeva che era solo un sogno e che presto Ren sarebbe tornato. Nemmeno in sogno però accettavo le prediche di qualcuno, cosa ne sapeva Shin?
Io avevo perso l’amore della mia vita in quel sogno e non mi ero potuta scusare con lui né dirgli quanto lo amassi, della nostra storia rimaneva solo un freddo diamante che luccicava su di un anello.
Non avrei più potuto riabbracciarlo, né dirgli che lo volevo sposare e che sarei cambiata, avrei smesso di essere la Nana egoista che pensa solo a sé stessa.
Sarei stata la moglie di Ren, pronta a sostenerlo, e non solo la promessa sposa reticente e spaventata, sarei cambiata perché infliggergli dolore non serviva a tenerlo legato a me.
Il giorno che mi sarei svegliata glielo avrei detto, ma mi sarei mai svegliata?
Shin cambiò espressione all’improvviso, da ostile divenne triste e sconvolta, nei sui occhi c’era un accenno di lacrime.
“Non posso averle detto una cosa del genere.”
Mormorò rivolto più a se stesso che a me, di chi stava parlando?
Non certo di me, ero sicura che ogni parola che mi aveva detto poco prima saliva dritta dal suo cuore, probabilmente si riferiva a qualcosa avvenuto mentre io vagavo nel mare di nebbia.
Ero così confusa, me ne stavo lì a guardarlo, a cercare di ricordare situazioni e persone quando tutto quello che avrei dovuto fare era abbracciarlo o almeno allungare una mano verso di lui: Shin stava piangendo in silenzio. Glielo dovevo, mi stava rimanendo accanto in questo strano sogno, ma il mio corpo era bloccato e la mia mente intorpidita, i pensieri giravano troppo rapidi per essere letti e decodificati. Un suono bucò la cortina della mia paralisi, Hachi stava singhiozzando nella stanza accanto, le pareti sottili come carta mi facevano sentire tutto quello che succedeva lì dentro.
Scattai in piedi, dimentica di Shin e delle sue lacrime, senza nemmeno sentirlo mentre chiamava il mio nome ed entrai nella stanza.
Nobu e Hachi erano accasciati per terra, piangevano tutti e due e non serviva un indovino per capire cosa fosse successo: Nobu poteva scoparsi Yuri dalla mattina alla sera, ma il suo cuore apparteneva ad Hachi e Hachiko poteva giocare alla mogliettina accanto a Takumi, ma sapevamo entrambe che lo faceva per il bene della figlia che aveva in grembo e che amava Nobu.
Credo che l’unica persona che Hachi abbia mai amato sia stata Nobu, ma il destino aveva fatto in modo di dividerli quasi subito ed io ero arrabbiata con il destino, all’epoca non gli perdonavo di aver fatto uscire la mia amica da quello che chiamavo il mio giardino. In realtà mi aveva fatto uno sgambetto ben peggiore e io cercavo di negarlo con tutte le mie forze.
Loro mi guardavano sorpresi, ma io riuscivo solo a sentire una sorda rabbia che mi pulsava nelle vene, perché continuavano a farsi del male?
Perché lui continuava a incasinare la vita di Hachi?
Non mi piaceva, ma era quello che aveva scelto lei e Nobu doveva smetterla di fare il ragazzino.
Dio, come sbagliavo! Dio, come era distorta la mia visione!
Decidendo di ignorare la cosa più evidente dovevo sfogarmi sul resto delle cose che non andavano bene, così afferrai Nobu per il colletto della camicia.
“Nobu!”
Iniziai furiosa, ma lui non lo era.
Era felice che io parlassi, ma io non lo stavo registrando.
“Non sei così disperato da avere bisogno di qualche moglie incinta di cui prenderti cura, vero?
Tu hai la regina Yuri Kosaka che ti scopa tutte le notti.”
Perché non stavo zitta?
“Non dovresti parlare, la tua bocca dovrebbe essere chiusa per sempre.”
Nobu non era arrabbiato, non ancora.
“Scenderesti così in basso per la sua felicità?
I tuoi sentimenti per lei sono ancora così forti che non puoi trattenerli?”
Perché continuavo a ferire chi mi stava accanto con gesti e parole?
Perché non capivo che se avessi continuato così sarei rimasta da sola?
In quel sogno, che forse non era un sogno – sussurrava la solita vocina – rischiavo di perdere tutto per il mio egoismo. Dicevo di farlo per Hachi, ma erano le mie manie di controllo la ragione per cui mi comportavo così.
“Nana! Ti stai sbagliando, sono io…”
Hachi non finì mai la frase perché Nobu le rivolse un’occhiata furiosa, era la prima volta che lo vedevo così ed era colpa mia che lo avevo accusato.
“Lei non si sbaglia. È logico che io provi ancora qualcosa per te.”
E così la verità era scivolata fuori dalla bocca di Nobu con naturalezza, facendo scoppiare Hachi in lacrime.
Ebbi un momento di buio in cui probabilmente gli mollai un pugno, perché ora lui era steso davanti a me con un taglio sulla guancia in corrispondenza di dove avevo l’anello.
“Se le stai confessando il tuo amore devi prima curarti di qualcosa: non devi farla piangere tenendo le situazioni in sospeso.”
Perché non tacevo?
Io avevo tenuto le cose in sospeso con Ren per mesi e mesi, ignorando tutti quelli che mi dicevano di fare pace con lui. Chi ero io per parlare?
Che cosa stavo facendo?
Mi vedevo staccata dal mio corpo, la ragazza esile dai capelli neri non ero io.
Chi era?
Hachi naturalmente si preoccupò di Nobu e lui le disse che non era niente, la ragazza dai capelli neri abbracciò la mia amica e la consolò. Shin disse a Ren che ero venuta per lui, ma quella non ero io, era una sconosciuta che mi somigliava e che finì per dire una cosa terribile.
“Tutti gli uomini devono solo morire.” Aveva urlato.
Ma se Ren fosse morto davvero come in quel sogno io sarei andata in pezzi, Ren doveva vivere perché ormai lui aveva troppo di me in sé e viceversa.
Alla fine mi ritrovai a dormire abbracciata alle gambe di Nobu, nonostante lo avessi insultato e picchiato lui mi era rimasto accanto. Non mi meritavo di avere persone così belle intorno, io ero marcia.
Ero sempre stata marcia, fin dal giorno in cui mia madre mi aveva abbandonata in quel giorno di neve.
Se non lo fossi stata mi avrebbe tenuta con sé.
E l’inseguimento di Ren riprese nel sogno.

 

Mi svegliai che era ora di cena, Hachi aveva cucinato un sukiyaki di pollo che sembrava squisito, ma la me stessa polemica e bastarda che si accaniva sui dettagli per non accettare il grande fatto si risvegliò.
Volevo un sukiyaki di manzo e Hachi era – come sempre – disposta ad accontentarmi.
Si iniziò a parlare del prezzo del manzo e sul fatto che solo chi lavorava poteva mangiare e fu allora che il mio egoismo si manifestò ancora.
“Se significa poter mangiare manzo, inizierò a cantare domani!”
Urlai lasciando tutti basiti, ormai avevo completamente perso il controllo delle mie reazioni ed ero ancora Nana, non la ragazza che aveva pestato Nobu.
“Non ti scaldare così all’improvviso! Soprattutto se si tratta di cibo.”
Era il povero Nobu, maltrattato da me e impossibilitato a esprimere il suo dolore per la morte di Ren, dopo Yasu era quello che lo aveva conosciuto da più tempo.
“Voglio cantare! Quanto tempo dovrei restare chiusa qui?
Fatemi cantare!”
Quanto potevo essere orribile in quel momento?
L’urna del mio ragazzo era qualche stanza più in là e non avevo mai pregato per la sua anima, non gli parlavo con regolarità come facevano tutti. Io me ne ero stata zitta, ignoravo quell’oggetto e ora proclamavo di voler cantare: un sogno e un desiderio che erano stati un regalo di Ren.
Senza di lui non avrei mai saputo di avere quel dono e sarei ancora a languire al mio paese natale lavorando in una fabbrica o nel ristorante di mia nonna se l’avessi mantenuto.
Invece ero a Tokyo grazie a lui.
Hachi ovviamente si alzò, pronta per esaudire il mio desiderio, fu ancora una volta Nobu a ricondurre tutti alla ragione e fu Shin a proporre di andare al karaoke dopo cena.
Fortuna che almeno loro due arginavano i miei capricci.
Andare al karaoke non fu possibile, c’erano troppi giornalisti interessati alla “vedova” di Ren Honjo o almeno così disse Miu e così Nobu prese la sua chitarra e Hachi recuperò del sakè.
Vedova, una parola dal suono così strano da risultare quasi pronunciata in una lingua straniera.
Era questo quello che ero in quel sogno?
Ve-do-va?
Hachi cantava con me vecchie canzoni enka, quelle della mia infanzia, che ascoltava mia nonna, refrattaria alla maggior parte delle novità occidentali. Una ragazza cresciuta a pane e musica tradizionale aveva finito per diventare una cantante punk. Era strano anche quello.
Shin invece ci guardava e basta, non so cosa passasse nella sua testa.
Mi giudicava una ragazza frivola, superficiale ed egoista?
Una donna che non piangeva per il suo uomo e pensava solo a cantare?
O semplicemente non conosceva queste canzoni essendo vissuto quasi tutta la vita in Svezia?
Avrei dovuto chiederglielo, come avrei dovuto chiedere agli altri come si sentivano invece di stare ripiegata su me stessa e sulla convinzione che tutto non fosse reale.
A un certo punto arrivò Yasu, probabilmente scambiò qualche parola con Miu prima di essere notato dal bassista.
Smettemmo di cantare, Hachi gli andò incontro, io bevevo a canna da una bottiglia scrutando il pelatino con sguardo indecifrabile.
“Oh, bentornato, Yasu.”
“Non dovevi passare la notte a casa tua?”
Nobu fece eco alla mia migliore amica.
“Cos’è successo alla tua faccia?”
Era tipico di Yasu aggirare una domanda con un’altra domanda.
“Nana gli ha dato un pugno.”
Fu Shin a rispondere, Yasu mi guardò, ma io voltai dall’altra parte, sempre bevendo dalla bottiglia.
Sentivo che la sua visita sarebbe stata portatrice di disgrazie, avevo brutti presentimenti.
“Come mai hai cambiato i tuoi piani?
È successo qualcosa?”
“Ho una cosa importante da dire a Nana.”
Lo sapevo, stava per succedere qualcosa di brutto!
Cosa doveva dirmi?
Che forse eravamo stati scaricati dalla Gaia Record?
Che avrei dovuto fare fagotto e andarmene dal dormitorio e magari anche da Tokyo e tornare in quel piccolo paese di mare dove tutto era iniziato e finito?
“Ma possiamo parlarne più tardi, canta per ora.”
“Allora canto “Funauta” di nuovo!”
Sempre le stesse enka, come non aveva mancato di far notare Shin, ma almeno non pensavo, cantare era abbastanza.
O almeno fu abbastanza per tre canzoni, durante la quarta entrò in scena un demone travestito da pornostar: la suprema Yuri Kosaka, la donna di Nobu.
Non l’avevo mai sopportata, così zuccherosa e finta mi faceva venire voglia di vomitare ogni volta che la vedevo e quel cretino del mio amico le stava dietro!
Era palese che quella donna era una sostituta di Hachi, ma lui – da bravo paladino – si era impegnato a salvarla dalla sua carriera. Il problema era che a Yuri la sua carriera piaceva dopotutto e quello della ragazza imprigionata in un ruolo impostole da altri era solo un personaggio che recitava per lui per tenerselo accanto.
Oh, come la odiavo!
“Bentornata a casa, Yuri-chan!”
Vattene, non sei la benvenuta.
Questa è la festa dei Blast e tu non ne fai parte.
“Sono impressionata, Nana-chan.
Riesci a cantare anche se non riesci a parlare.”
Perché Nobu non se la portava via?
Era la sua piaga, non la nostra.
“Allora ti conviene iniziare a lavorare presto, Sugimura ha detto che vi caccerà tutti fuori a calci se non lavorate.”
Eccola la perfidia, nascosta dietro al sorriso.
“Quello stronzo! Non esiste che io glielo permetta!”
Urlai fuori di me.
“Oh, stai bene. Quindi non hai più bisogno della moglie di Takumi al tuo fianco, no?”
“Asami!”
Nobu reagì troppo tardi, ormai le sue parole mi erano entrate dentro gelando tutto.
“Non hai più bisogno di lei al tuo fianco?”
Avevo disperatamente bisogno di Hachi al mio fianco, ma dopotutto lei non aveva scelto me, aveva scelto Takumi il giorno in cui aveva deciso di non abortire e di far nascere la creatura che cresceva dentro di lei.
La creatura dentro di lei…
Quella pancia mi ricordava che era ancora presente e che rimanere con me era pericoloso per una donna in gravidanza.
Presto Hachi se ne sarebbe andata, anche lei aveva scelto Takumi e i Trapnest.
Ricordi del giorno di neve in cui Ren era andato a Tokyo cominciarono a riaffiorare impietosi, ero la seconda scelta di tutti, anche lui aveva scelto Takumi e i Trapnest fino alla fine, per quanto mi fossi opposta.
Anche quando eravamo tornati insieme non aveva mai smesso di impegnarsi per salvaguardare l’immagine di quella band di merda dalle cazzate di Reira.
La principessa della canzone era come un buco nero che attirava al suo interno tutto ciò che amavo.
Piccole crepe si aprirono.
Questo non era un sogno, era la realtà.
Ren era morto, mi aveva abbandonata per sempre. I suoi pesanti anfibi avevano seguito le orme delle scarpe rosse di mia madre nella neve. Entrambi erano corsi via da me.
All’improvviso iniziai a tremare e respirare divenne sempre più difficile, era come avere qualcosa in gola, solo che non era tangibile. Mi strozzava, mi faceva rantolare, mentre chiedevo aiuto e percepivo il movimento nella stanza sempre più lontano.
Fluttuavo dalle parti degli anelli di Saturno, una cosmonauta perduta dentro sé stessa.
A un certo punto la gravità della Terra mi attirò di nuovo a sé, ero in luogo buio e desolato sul fondo del mare, un fantasma mi guardava con un sorriso colmo d’amore. Doveva essere Ren, quello era il suo sorriso, ma non riuscivo a vederlo bene.
Alzò un braccio e io riemersi completamente, tutti i veli erano caduti ora.
Ero nella mia stanza del comprensorio, sdraiata a letto al buio, la sveglia sul comodino segnava le tre di notte: l’ora delle streghe e dei fantasmi.
Hachi era sdraiata accanto a me, sul mio volto si disegnò un sorriso amaro.
Ren era morto sul serio, non l’avrei più abbracciato, baciato o fatto l’amore con lui, non l’avrei mai sposato e non saremmo mai tornati nel primo appartamento che avremmo dovuto condividere da vecchi.
Tutto era cenere.
L’unica cosa che mi rimaneva era la musica.
Mi alzai dal letto e andai nella stanza dove c’era l’altare dedicato al mio ragazzo: era immersa nella luce della luna.
Mi inginocchiai e recitai le preghiere tradizionali per i defunti a occhi chiusi, poi li aprii e mi soffermai sul quel sorriso.
“Ren, mi dispiace di essere stata egoista fino alla fine.
Non ho mai pianto per te, nemmeno al funerale, ti ho solo guardato.
Guardavo le mani che per te erano state tanto preziose da salvarle fino alla fine e pensavo che l’avevi fatto per Reira e non per me.
Mi dispiace di averlo pensato, ma io sono arrabbiata.
Mi hai abbandonato come ha fatto mia madre e io non so cosa fare.
Tutto ciò che mi rimane di te è la chiave del lucchetto che ti ho legato al collo e il tuo regalo di compleanno.”
Rimasi un attimo in silenzio, la fotografia ricambiò inespressiva il mio sguardo.
“Lo so che c’è una promessa tra di noi, quella di morire insieme e so che tu mi hai preceduto e che tocca a me tenervi fede, ma…
Ren, io voglio cantare ancora.
Tu mi hai dato questo sogno quando ero una ragazzina che non aveva nulla, puoi concedermi di tenerlo ancora un po’?
Ti prego, concedimi di vivere ancora un po’, poi…
Poi terrò fede alla promessa.”
Le lacrime cominciarono a scendere, ero in attesa di un segno, qualcosa che mi facesse capire che Ren mi aveva ascoltata ed era d’accordo con me.
Se me ne fossi andata ora avrei distrutto i Blast e gli sforzi di Yasu di farli andare avanti, i sogni di Nobu e l’unico punto di riferimento che Shin avesse mai avuto.
Guardavo la foto tra le lacrime, Ren aveva smesso di sorridere e mi guardava duro.
Non approvava quello che gli avevo detto, mi sentii gelare dentro per la seconda volta. Ren voleva che io lo seguissi, che onorassi la promessa.
Cosa dovevo fare?
All’improvviso senti una mano grande e calda appoggiarsi sulla mia spalla, riconobbi subito il tocco di Yasu, come Reira lo avevo usato per darmi stabilità in passato, ma ora non potevo più permettermi di farlo.
“Sono felice di vederti qui.”
Disse con la sua voce profonda.
“Cosa dovevi dirmi, Yasu?”
“Una cosa che riguarda te e una che riguarda i Blast.”
“Dimmi quella che mi riguarda, per favore.”
Lui annuì e si accese una sigaretta.
“La Shikai Corporation e la Gaia Records non vogliono più spendere uno yen sulla tua carriera da solista.
Il progetto è stato abbandonato.”
Annuii, me lo aspettavo.
“Per il resto preferirei parlarne anche davanti a Shin e Nobu, riguarda anche loro.”
“Va bene.”
“Nana, sono felice di averti visto qui.” ripetè.
Gli rivolsi una mezza specie di ghigno, non riuscivo a sorridere bene ora che sapevo che questa era la realtà.
Yasu uscì dalla stanza e io rimasi a guardare la foto di Ren, in attesa che mi desse un qualche segno positivo, ma rimase immobile.
Il suo sorriso era congelato nel tempo e si era incrinato quando gli avevo chiesto di farmi cantare ancora per un po’. Doveva essere stanco dei miei capricci persino nell’altro mondo e non potevo biasimarlo, da quando ci eravamo rimessi insieme pressati com’eravamo dalla stampa e dalle divergenze dei nostri desideri io non avevo mai provato a capirlo.
Non sul serio almeno, solo mezze intenzioni.
Ero stata una pessima fidanzata, anche se avevo la sensazione che ci fosse qualcosa che mi tenevano nascosto, non era una scappatella: era qualcos’altro.
Qualcosa di più profondo e che mi avrebbe ferita più di una scopata con un’altra.
Rimasi ancora un po’ lì, poi mormorai una preghiera di concedo e mi alzai, tornai in camera mia e mi stesi a letto accanto ad Hachi che mugugnò qualcosa nel sonno.
La stanza di Nobu era silenziosa, a quest’ora lui e Yuri di solito tenevano un concerto privato e poco casto, una cosa che mi irritava profondamente.
Forse era successo qualcosa tra di loro, sperai che fosse così, quella donna non era adatta al mio amico: era troppo possessiva ed egoista.
Non voleva un ragazzo, voleva uno schiavo da piegare ai suoi desideri.
Alla fine mi addormentai e finii per ritrovarmi sulla solita spiaggia, Ren era in acqua immerso fino alla vita, io feci per avvicinarmi, lui alzò una mano.
Un segno inequivocabile che lui mi voleva lontana da sé, sentii il cuore frantumarsi e caddi in ginocchio, lo sguardo rivolto verso terra.
Quando trovai il coraggio di alzarlo lui era sparito.
Ero completamente da sola.

Angolo di Layla.

Eccoci qui con l'ultima storia che pubblicherò su EFP, non l'ho ancora finita, ma spero che pubblicarla possa motivarmi.

Riprende alcune parti della fiction "Nana, la storia continua" di 7vite con il suo permesso.

Spero vi piaccia.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo.

 

In quel periodo ero a un passo dall’esaurimento nervoso.
Ren – il mio eroe, idolo e amico – era morto e io non avevo avuto il
tempo di vivere quel lutto né di processare che lui era diventato
un drogato senza che nessuno lo potesse aiutare.
Nana non parlava, sembrava voler ignorare la faccenda e aspettare il
ritorno del suo amore ormai perduto.
Hachi era venuta a vivere nel comprensorio e i nostri sentimenti, mai sopiti,
si erano risvegliati con la violenza di un uragano.
Asami dal conto suo non faceva che tormentarmi con crisi di gelosia.
Non ne potevo più.
-Nobu

 

“Oh, stai bene. Quindi non hai più bisogno della moglie di Takumi al tuo fianco, no?”
Quella frase fece trasalire Nobu, nemmeno gli avessero tirato un secchio di acqua gelata addosso.
Ora vedeva Asami Matsumoto per la prima volta e ne era disgustato, non era Nana quella che se ne fregava di tutto, era lei: Asami.
Lei non sapeva nulla dell’amicizia che legava Nana e Hachi eppure si era pronunciata con una leggerezza imperdonabile perché era gelosa di lui.
Egoismo allo stato puro.
“Asami!”
Disse, scattando in piedi.
“Dov’è? Se n’è andata finalmente?”
La finta bionda non lo aveva nemmeno sentito, normalmente non ci avrebbe fatto nemmeno caso – erano tante le persone che non lo ascoltavano – questa volta però la misura era colma.
La prese per un braccio senza alcuna gentilezza.
“Vieni, dobbiamo parlare.”
Il tono gli era uscito più duro di quello che avrebbe voluto, ma la rabbia ribolliva e non riusciva a contenerla.
Era arrivato il momento di sistemare le cose con la sua ragazza una volta per tutte, ora come ora non riusciva a sostenere anche il carico psicologico dei complessi di Asami, il suo era già fin troppo pesante.
Uscirono dalla stanza e lui la guidò fino a una camera vuota accanto alla sala comune, lì la lasciò libera e chiuse la porta con uno scatto nervoso.
“Asami, non possiamo andare avanti così!”
Sbottò.
“È per via della moglie di Takumi? O del mio lavoro che ti fa schifo?
Sii sincero per una volta nella tua vita!”
“Il problema non è né Nana né il tuo lavoro, tu sei il problema, Asami!”
La vide impallidire, probabilmente non era la prima volta che si sentiva rivolgere un’accusa simile.
“Io?”
Nobu sentì del trambusto nella stanza accanto, lasciò perdere la sua donna e andò a dare un’occhiata: Nana era stesa terra con un sacchetto di carta sulle labbra.
Era in preda a uno dei suoi attacchi e lui sapeva bene quale fosse stata la causa, tornò nella stanza dove lei lo aspettava con una strana espressione sul volto, lui non aveva voglia o tempo di decifrarla.
“Sarai contenta, Yuri.
Grazie alle tue parole Nana ha avuto un attacco d’ansia.”
“La moglie di Takumi?”
“No, la mia amica! Quella che tu accusi di non soffrire per la morte di Ren.”
“Ma…”
“Zitta! Tu non sai niente di Nana o di me.
Nana ha bisogno di Hachi perché è la sua migliore amica e la sua unica certezza in questo periodo difficile, quindi ha tutti i diritti di stare qui e smettila di usare la sua gravidanza come alibi.
Io sono stanco della tua gelosia e di come ti comporti, Yuri.
Prima dici che non ti piace il lavoro che fai e fai finta di non voler stare con me per via dei tuoi film, costringendomi a trovare una soluzione.
Ti ho detto che ti avrei mantenuta una volta che il tuo contratto fosse scaduto e lo volevo fare davvero, perché credevo di amarti e credevo che quello fosse il modo migliore di dimostrartelo.
Insomma, così avresti capito che non me ne fregava nulla del fatto che tu eri una pornostar e che volevo fare sul serio con te.
Ma per te non era abbastanza, vero?
Tu volevi tutto. Volevi me e il lavoro.
Così hai firmato un altro contratto senza dirmi nulla e mi hai costretto a fare buon viso a cattivo gioco una volta che ho scoperto tutto.
Non era ancora abbastanza.
Quando ti sei vista minacciata ti sei attaccata a me fino a soffocarmi!”
Prese fiato un attimo e si preparò alla stoccata finale.
“Io sono stanco, Yuri.
Non sei la persona che credevo che fossi, non ne posso più dei tuoi capricci e, a dirla tutta, non ti amo nemmeno.”
“Mi stai lasciando, Nobu?”
La voce di Asami tremava.
“Sì, ti sto lasciando.
Mi dispiace.”
Lei lo prese per mano.
“Ti prego, non farlo!
Posso cambiare, essere meglio di così.”
Nobu la compatì, probabilmente non era la prima volta che un uomo la lasciava per ragioni simili e lei non voleva che accadesse. Il biondo poteva capirla, ma non accontentarla: era stanco di farsi mettere la testa sotto i piedi da tutti.
“No, non puoi cambiare e la ragione è semplice: questa è la vera Yuri.
Qualsiasi altro volto mi mostreresti sarebbe una maschera e io non posso stare con una maschera.
Ho bisogno di una persona vera, mi dis…”
Non finì la frase perché lei gli diede uno schiaffo.
“È la moglie di Takumi che ami?”
“Non sono più affari tuoi.”
“Sì, hai ragione.
Vuoi sapere una cosa, Nobu?
Sono stata con te solo perché eri il chitarrista di una band famosa, se fossi stato uno comune non ti avrei nemmeno guardato.”
Lui le rivolse un sorriso storto.
“Grazie per aver confermato uno dei miei sospetti, adesso sono sicuro di aver fatto la cosa giusta.”
Lei uscì sbattendo la porta, Nobu uscì poco dopo e andò nella sala comune, era rimasto solo Yasu che fumava una delle sue sigarette.
“Come sta Nana?”

“Si è ripresa anche questa volta, adesso è con Hachi.
Tu?”
“Io cosa?”
“Hai rotto con Asami?”
“Ah, quello. Sì, ho rotto con lei, non riuscivo più a sopportare la sua gelosia.
Non eravamo fatti per stare insieme e poi lei stava con me solo perché sono il chitarrista dei Blast e sono abbastanza sicuro che non lo sarò più per molto.”
Yasu non disse nulla.
“Vado a dormire, è stata una giornata piuttosto lunga.”
Il batterista annuì, era perso in chissà quali pensieri.
Nobu era sicuro che non fossero positivi e che qualcosa di disastroso li stesse aspettando dietro l’angolo.

 

Sai, Hachi…
Anche dopo che capii che Ren era morto sul serio
e che non era solo un sogno il tempo continuò a
rimanere fermo. La lancetta non riusciva a scattare in
avanti. Potevo solo cantare contro il volere di Ren stesso.

 

La mattina dopo fui la prima a svegliarmi, Hachi sembrava così indifesa nel sonno con quella pancia enorme.
Mi chiesi cosa avesse provato mia madre quando era incinta di me e poi di Misato, mi aveva voluto bene o aveva voluto bene solo a mia sorella?
In fondo era lei che aveva scelto di crescere e non me, io ero quella che era stata lasciata davanti alla stessa porta da cui la Misuzu adolescente era uscita per non rientrarci mai più.
Ero stata abbandonata da mia madre e ora anche da Ren.
Mi toccai il tatuaggio, chiusi gli occhi e lottai per non piangere, non potevo, non ancora.
Ora probabilmente dovevo prepararmi a una guerra per evitare che la mia band venisse scaricata dalla casa discografica e non potevo crogiolarmi nel dolore come avrei voluto.
I Blast erano l’unica cosa che mi rimaneva, lì potevo cantare per tutti: i miei amici, Hachi, i fan e Ren.
Lì potevo ancora aiutare qualcuno o almeno così speravo.
La lettera che Misato mi aveva spedito continuava ad apparire e sparire nella mia testa, mi indicava la via da seguire, ormai non ne avevo un’altra.
“Buongiorno, Nana.
Come stai?”
La voce di Hachi mi riscosse dai miei pensieri.
“Ciao, Hachi. Sto bene, non ti preoccupare.”
“Dove sei andata stanotte? A un certo punto non c’ero più.”
“Sono andata da… Ren.”
Chiusi gli occhi e abbassai la testa, ma quando li riaprii mi accorsi che Hachi stava sorridendo.
“Sono felice che tu ci sia andata.”
Almeno lei non mi giudicava, ma la cosa non mi stupiva, non lo aveva mai fatto.
Dopo una doccia ed esserci cambiate scendemmo nella sala dove si pranzava, erano tutti, mancava solo Yuri Kosaka.
Mi sedetti accanto a Nobu, volevo evitare che la mia amica si sentisse a disagio e mi guardai intorno, stavano tutti mangiando, solo io non lo stavo facendo.
“Nobu… Dov’è Yuri Kosaka?”
“Non lo so.”
Gli rivolsi un’occhiata perplessa.
“Ci siamo lasciati.”
“Capisco.”
Adesso sapevo perché questa notte mi era stato risparmiato il loro concerto, iniziai a mangiare anche io, non avevo più nulla da dire per ora.
Una volta che tutti ebbero finito, Hachi e Miu sparirono con le stoviglie e lasciarono la mia band da sola, iniziammo a guardare Yasu che si accese una sigaretta: quello era il suo modo di iniziare a dare un annuncio.
“Ieri ho parlato con la Gaia Records e la Shikai Corporation, volevano scaricarci, per loro non siamo stati altro che una perdita di soldi. Prima Shin e poi Nana, hanno speso più di quanto hanno guadagnato.”
“È finita?”
Domandò con voce neutra Shin.
“No, ho convinto Kanemoto e Sugimura a darci un’ultima possibilità grazie all’aiuto di Misato e Kawano.
L’idea è quella di fare un concerto per strada come ai primi tempi per attirare di nuovo l’attenzione sulla band, ma prima vogliono incontrare Nana.”
“Vogliono assicurarsi che io non svenga o mi metta a piangere durante i concerti?
Non lo farò, non ho tempo per essere triste.”
“Io lo so, ma loro no.”
“Ma almeno ti manca Ren?”
L’urlo esasperato di Shin mi fa voltare verso di lui.
“Certo che mi manca! Mi manca ogni momento adesso che so che non ritornerà, vorrei poter tornare indietro e dirgli un sacco di cose, ad esempio che lo amo.
Ma non si può tornare indietro e adesso non posso nemmeno piangere o per la band è finita, lo capisci questo?
Ci hanno fatti debuttare solo perché avevano scoperto che ero la donna di Ren, adesso ci vogliono scaricare perché una band punk non la volevano fin dall’inizio.
Ti sembra giusto?
Io devo lottare affinché questo non accada e dovresti farlo anche tu!
Cosa farai se i Blast dovessero sciogliersi?”
Shin abbassò gli occhi.
“Sì, hai ragione.”
Qualcuno – Yasu – mi appoggiò una mano sulla spalla.
“Nana, alle nove abbiamo appuntamento con Sugimura e Kanemoto.”
“Ok.”
Salii di nuovo in camera mia e mi vestii come la ragazza aggressiva che conoscevano: mini di pelle nera, maglietta di Vivienne Westwood, maglione, calze nere tipo autoreggenti.
Mi truccai, sentendomi più che altro come un guerriero che si prepara alla battaglia, recuperai i miei gioielli e indossai il mio cappotto leopardato preferito.
Il batterista alzò un pollice e insieme ce ne andammo, persa nella mia nebbia non mi ero accorta che marzo stava per finire e che era freddo.
“Sei sicura, Nana?”
“Non ho scelta, Yasu.
Lo sai benissimo, che io sia pronta o no non conta nulla, loro vogliono che io gli porti dei soldi.”
“Non sei obbligata a farlo.”
“Non voglio che la band muoia e poi cosa ne sarebbe di Shin se la band andasse a puttane?
Non ha una casa a cui tornare, non ha finito il liceo, finirebbe per tornare sulla cattiva strada.”
Yasu sorrise.
“Hai perfettamente ragione, sono felice che tu abbia detto queste parole.”
Io gli sorrisi a mia volta, in quei brevi momenti mi sembrava davvero di stare meglio.
La verità era che camminavo mano nella mano con un fantasma e non lo sapevo.
Kanemoto e Sugimura ci aspettavano alla Shikai Corporation, chiesero come me la stessi cavando per cortesia più che altro, le mie risposte non gli interessavano minimamente, mi scrutavano come rapaci.
Erano alla ricerca di una crepa, un appiglio per farmi desistere, ma io non avrei offerto il fianco: troppe persone dipendevano da me e io non potevo tradirle.
“Allora, Nana. Visto che stai meglio possiamo parlare di lavoro, giusto?”
Iniziò Kanemoto.
“Sì. Io voglio cantare.”
“È la risposta che ci aspettavamo.”
Continuò Sugimura, in tono falsamente felice.
Nessuno dei due aveva mai voluto una band punk, ci avevano fatto debuttare perché la trasmissione Morning Seven aveva forzato loro la mano.
“Bene.”
“Nana, purtroppo la tua carriera solista è stata accantonata, ora preferiremmo concentrarci sulla band.”
Non ero ancora abbastanza stabile per tentare una carriera del genere.
“Abbiamo optato per un ritorno alle origini, qualcosa che torni a farla conoscere a più gente possibile: concerti all’aperto.
Nei live esprimi al meglio la tua energia e personalità e siamo convinti che la sia la soluzione migliore: in studio ci sono ancora dei problemi, ma dal vivo sono tutti catturati dal tuo carisma.”
Io annuii.
“Per me va bene.”
“Perfetto, tra una settimana vi esibirete. Vi comunicherò il luogo nei prossimi giorni, cercate di provare.
Nana, come stai gestendo il lutto?”
“Bene, credo.”
Bugia numero uno.
“Hai avuto ancora degli attacchi di ansia?”
“No.”
Bugia numero due.
“Allora, è tutto a posto.
Dateci dentro.”
Sorridevano entrambi, ma tutti e due continuavano a scrutarmi alla ricerca di un qualche segno di debolezza, ormai eravamo zavorra, una band scomoda di cui non sapevano come liberarsi.
Li odiavo.

 
Sai, Nana…
C’è stato un momento dopo la morte di Ren
In cui credevo che tutto sarebbe andato bene.
Non sapevo ancora quanto le tue ferite fossero
profonde e della forza dei demoni che ti portavi dentro.
Tu eri il mio eroe, non sapevo fossi fatta di cristallo.
Ero troppo egoista per notarlo, perdonami se puoi.

 

Quando mi svegliai quella mattina avevo l’impressione che durante la notte fosse successo qualcosa di importante, Nana mi guardava e i suoi occhi erano diversi.
Sembrava pienamente consapevole di cosa fosse successo, non si rifugiava più nella fantasia, ma era piena di dolore. La patina di tristezza che a volte scorgevo nel suo sguardo aveva preso il sopravvento, ma in fondo brillava una piccola luce e sapevo che Nana vi era testardamente avviluppata.
Non so perché mi sentii meglio, non ero sicura di niente, poteva essere tutto frutto della mia immaginazione, volevo parlare con lei e allo stesso tempo temevo di intavolare il discorso.
“Buongiorno, Nana.
Come stai?”
Chiesi con il mio solito tono e il batticuore, speravo che mi dicesse bene o qualcosa del genere.
 “Ciao, Hachi. Sto bene, non ti preoccupare.”
Sospirai internamente di sollievo, forse potevo procedere con le domande.
“Dove sei andata stanotte? A un certo punto non c’eri  più.”
“Sono andata da… Ren.”
Qualcosa dentro di me esplose di gioia, ringraziai lo spirito di Ren e sorrisi.
Si stava avviando verso la guarigione, forse.
“Sono felice che tu ci sia andata.”
Lei mi sorrise a sua volta.
Ci facemmo una doccia, prima lei e poi io, e scendemmo a fare colazione, Yuri non era al nostro tavolo, Nana chiese a Nobu perché, lui disse che si erano lasciati a il mio cuore fece una capriola di gioia, per quale motivo il mio cuore voleva tenere legato a sé quel ragazzo quando ormai ero la moglie di Takumi?
Sapevo di essere egoista, ma non fino a questo punto, decisi perciò di tenere tutto per me e di seguire il flusso della situazione e vedere dove mi avrebbe portato. In fondo il mio matrimonio non era mai stato molto saldo e Reira era la priorità di mio marito ora, forse lo era sempre stata.
Io e Miu sparecchiammo, lavammo le stoviglie e sparimmo, Yasu doveva parlare alla band e comprensibilmente voleva un po’di privacy.
“Io ho un copione da ripassare, tu cosa vuoi fare, Hachi?”
Mi chiese Miu, sapeva che mi piaceva provare con lei, ero appassionata di sceneggiati e l’idea mi tentava.
“Adesso vado a fare la spesa, ci vediamo quando torno.”
Lei guardò il mio ventre.
“Sei sicura di farcela? Non ti starai strapazzando troppo?
Dopotutto partorirai tra un mese.”
“È tutto ok, vado al supermercato dietro l’angolo.
Compro giusto un paio di sacchetti di roba.”
La ragazza di Yasu mi sorrise.
“D’accordo, dopo vieni da me. Il copione ti piacerà da morire.”
“Non vedo l’ora.”
Lei andò in camera sua, io mi misi il cappotto, controllai di avere abbastanza soldi e uscii, era già passato un anno da quando ero arrivata a Tokyo piena di sogni. Quasi non ci credevo e non mi capacitavo di come i miei sogni si fossero trasformati in incubi.
Dove avevo sbagliato?
Dove si era persa la ragazza che si meravigliava per tutto e voleva l’amore più di ogni altra cosa?
Forse era solo una maschera a cui io stessa avevo finito per credere.
Pensavo a questo mentre riempivo il carrello e poi pagavo: due sacchetti precisi e nemmeno troppo pesanti, ormai avevo l’occhio della massaia esperta.
Non appena misi piede fuori dal supermercato un’ombra si staccò dalla parete, era un uomo e io lo guardai carica d’odio.
“Kurada! Cosa vuole ancora?
Non ha rovinato abbastanza la vita di Nana?”
“Signora Ichinose, io faccio solo il mio lavoro e non provo piacere…”
“La smetta! Non mi frega più.
Devo andare.”
Quell’uomo non aveva fatto altro che giocare con me per sapere il più possibile su Nana e i Blast, non avrei commesso lo stesso errore due volte.
Una mano si chiuse sul mio polso e io mi voltai.
“Se non mi lascia immediatamente mi metto a urlare.”
“Devo dirle una cosa importante, mi permetta di prendere una delle borse e di comunicargliela, poi valuterà lei come agire.”
“Kurada, lei non ha fatto altro che giocare con me, perché dovrei fidarmi di lei?”
“Perché vuole bene a Nana e sa che in uno stato delicato come il suo basta un niente per farla crollare.”
La serietà nel suo sguardo e la voce ferma fecero scattare i miei campanelli d’allarme, quell’uomo non stava scherzando, doveva esserci qualcosa di grosso che bolliva in pentola, qualcosa che poteva sconvolgere Nana.
“Va bene.”
Kurada lasciò andare il mio polso e mi fece cenno di seguirlo, ci infilammo in un piccolo bar, lui ebbe cura di scegliere il tavolo più riservato.
“Vuole qualcosa?”
“Un tè e che vada dritto al punto.”
“Va bene.”
Ordinò e poi mi guardò, i suoi occhi erano diversi da quelli che avevo imparato a conoscere.
Dopo la morte di Ren vi aleggiava sempre un alone di tristezza che nascondeva a stento un tormento, mi avevano detto che era stato lui a trovare il mio amico ormai morto nelle lamiere accartocciate della macchina. Sicuramente era una cosa che segnava dentro.
“Misuzu Uehara vuole parlare con Nana, presto il giornale pubblicherà questo scoop e lei farà meglio a preparare psicologicamente la sua amica.”
“Come lo avete scoperto?”
“Misuzu è venuta a riprendersi Misato qui a Tokyo, l’ospitava una certa Shion, un’amica di Yasu.
Uno dei nostri giornalisti ha sentito Shion dire a Yasu che Misuzu desiderava incontrare sua figlia, con la morte di Ren è stato tutto accantonato, ma ora…”
“Ora sarebbe un bello scoop, vero?
Dopo la morte di Ren Nana dovrà affrontare la madre che l’ha abbandonata a quattro anni.”
“Ha capito al volo e sa che ora Nana non è nello stato adatto per ricevere una notizia del genere senza che qualcuno la prepari.”
Io annuì.
La notizia mi aveva scossa, ma non potevo darlo a vedere, dovevo essere forte per Nana.
Lei mi aveva sostenuta durante i miei stupidi drammi ora toccava a me aiutarla in questioni molto più serie.
Glielo dovevo.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo

 
Nana, le nostre convinzioni sono fatte di cristallo,
basta un niente per sbriciolarle.
Le nostre percezioni sono invece gli specchi del
luna-park, distorte da come le idee filtrano i pensieri.
Avrei voluto capirlo prima.

 

Quel giorno arrivai a casa trafelata, il cuore mi batteva in modo irregolare, nella mia testa c’era la guerra e Sacchan scalciava come una matta.
Corsi subito in cucina e misi via le cose, ma le mani mi tremarono, mi lasciai sfuggire una confezione da sei di uova che caddero sul pavimento con un tonfo sordo.
Ora per terra c’era della carta che sanguinava tuorli e albumi, solo un uovo era rimasto intero, lo raccolsi e me lo rigirai tra le dita.
Miu fu la prima ad accorrere, senza dire niente recuperò il necessario per pulire e sistemò il casino che avevo combinato, io invece guardavo quell’uovo e ripensavo ad altre cose cadute.
Per un attimo per terra avevo visto i cocci dei bicchieri con le fragole che avevamo nell’appartamento 707, era stato dopo che Takumi mi aveva costretta a fare sesso con lui e Nana era scappata via.
Era stata la prima crepa nel nostro rapporto, anzi un ferita che non si era mai sanata, avevamo ripreso a frequentarci, ma sapevo che per Nana l’aver scelto mio marito equivaleva ad averla abbandonata.
Nana viveva nella costante paura di essere abbandonata dalle persone che amava per colpa della madre, che l’aveva lasciata dalla nonna per sparire nella neve e nel buio oscuro di un rapporto troncato senza pietà. La stessa donna che ora la voleva rivedere, dopo diciassette anni di vuoto assoluto in cui le aveva dato una sorella senza la possibilità di saperlo.
Miu mi tolse di mano l’uovo e tornai in me, lo mise nel frigo e mi guardò.
“Nana, cosa è successo?”
“Ho bisogno di parlare con Yasu.”
Dissi decisa, tra i Blast era quello che conosceva meglio Nana e sapeva sempre quale fosse la cosa giusta da fare.
“Yasu non c’è, è andato via con Nana per parlare con la Shikai Corporation e la Gaia Records.”
“Merda! Sacchan, smettila di scalciare. La mamma ha bisogno di pensare.”
“Siediti.”
Miu mi prese per un braccio dolcemente, ma con una certa autorità e mi condusse nella sala comune, ci avvicinammo e mi guardò.
“È successo qualcosa?”
“Sì, qualcosa di importante. Volevo parlarne a Yasu per avere un consiglio, ma…”
“Riguarda Nana?”
“Sì, come fai a saperlo?”
“Le uniche persone per cui ti agiti a quel modo sono Nana e Nobu.”
Io abbassai gli occhi: era vero, per mio marito non andavo mai fuori di testa.
“Chiamami Nobu e Shin, magari riusciamo a decidere qualcosa anche solo noi quattro.”
Lei annuì ed uscì dalla stanza, mi sdraiai e dopo qualche minuto mia figlia smise di scalciare.
Tutto questo stress non le faceva bene, ma preferivo rimanere qui tra le persone a cui volevo bene che sola nella mia casa di Shirogane visto che Takumi era da Reira in pianta stabile.
“Hachi, che succede?”
Shin fu il primo ad entrare, si inginocchiò e mi prese per mano, Nobu rimase in piedi per qualche secondo, sibilò un “fanculo!” e si inginocchiò a sua volta.
“Io sto bene, ma vi devo parlare di una cosa che riguarda Nana.”
Aiutata da Nobu mi misi a sedere, lui si accomodò accanto a me, tenendomi per mano, visto che era libero ora non tratteneva i suoi piccoli gesti d’affetto. Shin e Miu si sedettero sulle due poltrone davanti a noi.
Presi fiato.
“Quando sono uscita dal supermercato ho trovato Kurada ad aspettarmi.”
“Quel bastardo!”
Nobu fece per alzarsi, ma io lo trattenni stringendogli la mano.
“Siamo andati in un bar e mi ha detto che Search ha in mano uno scoop su Nana: Misuzu Uehara vuole parlare con lei.”
“Come l’hanno scoperto?”
Shin tendeva a rimanere freddo per poter riflettere meglio.
“Poco prima della morte di Ren Misato è scappata di casa, è venuta a Tokyo. A quanto pare Shion, un’amica di Yasu, l’ha ritrovata e ospitata per un paio di giorni o qualcosa del genere.”
“Sì, è vero. Io c’ero quando Shion ha chiamato per dire che aveva trovato Misato, Yasu ha lasciato tutto nelle sue mani ed è finita bene, no?
La sorella di Nana è tornata a casa.”
Io annuii.
“Sì, ma a quanto pare c’era qualcuno che seguiva Shion o Yasu. Hanno sentito Shion che diceva che Misuzu voleva rivedere Nana.”
Sulla sala calò il silenzio.
“Dopo tutto questo tempo?”
Il tono di Nobu era flebile.
“A quanto pare. Dobbiamo dirlo a Nana, leggerlo sui giornali ora potrebbe compromettere la sua guarigione.”
Miu e Nobu annuirono, Shin guardava lontano.
“Non lo so. Quando hanno pubblicato l’articolo su Misuzu e Misato non ha reagito male come ci aspettavamo, sembrava non gliene fregasse niente.”
“Sembrava, Shin. Magari ha voluto recitare la parte della donna forte, a lei non piace mostrarsi debole e poi era una situazione diversa.”
“Sì, hai ragione. Dobbiamo dirglielo.”
Disse piano il bassista e rimanemmo tutti qualche secondo in silenzio.
Ognuno si lambiccava a cercare le parole giuste e la situazione ideale, ma erano sforzi inutili, alla fine di quei secondi si levò la voce di Nana.
“Dirmi che cosa?”
Sobbalzammo tutti, lei era entrata nella stanza seguita da Yasu.
Qualcosa nell’espressione del batterista mi fece capire che lui aveva intuito che stava per succedere qualcosa di spiacevole. A chi toccava dirglielo?
A me.
Io ero stata quella a cui Kurada aveva affidato il messaggio e che si era detta che con la maternità avrebbe dovuto diventare forte. Non potevo essere la solita ragazza egoista e svagata con una creatura in grembo.
Deglutii.
“Nana, siediti, per favore.”
Lei mi ubbidii guardandomi leggermente perplessa dal mio tono autoritario.
“Cosa succede, Hachi?
È tornato Takumi? Sacchan non sta bene?”
Io scossi la testa.
“Nana, c’è una cosa che devi sapere.
Presto i giornali pubblicheranno un articolo che ti riguarda, quindi cerca di sfruttare questa attenzione mediatica come meglio credi.”
Che bell’inizio di merda!
“Cosa diranno?”
Deglutii di nuovo, non c’era modo di indorare una pillola del genere e se c’era io non lo conoscevo.
“Nana, tua madre… Tua madre vuole vederti.”
I suoi occhi andarono fuori fuoco per un attimo, sembro impallidire e per una frazione di secondo sembro ripiegarsi su sé stessa, come un pugile dopo un attacco andato a segno.
Poi tornò la solita Nana, con la sua maschera di indifferenza.
“Vuole vedermi ora, come mai?”
“Non ne ho la più pallida idea. Forse il fatto che Misato sia scappata di casa l’ha scossa e le ha fatto decidere di provare a ricucire i rapporti con te.”
Lei scoppiò in una risata priva di allegria.
“Dopo diciassette anni?
Non ho più bisogno di lei ora, avevo bisogno di lei da bambina o quando la nonna è morta, ma ora?”
Scosse la testa.
“Ora lei non mi serve più, me la so cavare da sola.
Io devo dirvi una cosa piuttosto.”
Prese fiato e fissò Nobu e Shin negli occhi con un’intensità quasi spaventosa.
“I capi ci hanno dato una sola possibilità per evitare di essere cacciati fuori a calci in culo: un concerto live come agli inizi. Ci comunicheranno nei prossimi giorni la data, quindi dobbiamo provare.
Ve la sentite?”
“Certo, Nana, ma…”
“Ma cosa, Nobu?”
“Sei sicura che vada tutto bene?”
“Certo. Non ho nessuna intenzione di incontrare quella donna.”
Sorrise o almeno ci provò dato che le riuscì solo una mezza smorfia.
“Vado in camera mia a riposare, queste riunioni mi stancano. Ci vediamo a pranzo.”
Lasciò la stanza a passo di marcia.
Ci guardammo tutti negli occhi, Nana stava male e ancora una volta ci aveva tagliati fuori dal suo dolore.

 

Se non affronti il passato esso tornerà a morderti ogni volta
che abbasserai la guardia.
Imparerò mai questa lezione, Hachi?

 

E così dopo diciassette anni il momento che più avevo desiderato durante la mia infanzia e adolescenza era arrivato: mia madre mi stava dando attenzione.
Mia madre voleva vedermi, parlarmi, magari spiegarmi perché in un gelido giorno d’inverno mi aveva lasciata alla porta della madre che detestava, reiterando un circolo vizioso di rabbia e odio.
Avevo voluto bene alla nonna, ma lo avevo capito solo quando era morta, quando era viva non la sopportavo per il suo essere così severa, la consideravo una vecchia terribile.
Raggiunsi la mia camera e mi buttai sul letto, i ricordi ruotavano nella mia testa insieme alla neve: qualche sbiadito ricordo di me e mia madre, l’abbandono, la nonna, il suo funerale, la neve onnipresente in quella piccola città.
Sembrava che ogni volta che raggiungessi delle certezze un dio maligno decidesse di sradicarle, ma questa volta non avrei ceduto.
No, questa volta non mi sarei fatta toccare dagli eventi.
Mia madre voleva vedermi, io no e non l’avrei fatto, mi sarei concentrata solo sul concerto e poi su quello che ne sarebbe seguito.
Il mio cervello aveva deciso così, ma il mio cuore la pensava diversamente.
La domanda che continuava a urlarmi era: cosa voleva dirmi Misuzu?
Era come un mantra e ogni volta partivano immagini diverse: scusarsi, darmi spiegazioni, dirmi di stare fuori dalla sua vita e da quella di Misato, abbracciarmi, dirmi chi era mio padre, perché non mi aveva ripresa con sé quando si era sposata con Uehara.
Le possibilità erano infinite e mi stava venendo mal di testa, mi accorsi di essermi rannicchiata con le mani sulle orecchie, una bambina che vuole buttare fuori il mondo dalle sue percezioni. Il mondo però era ostinato e lottava per rientrare, un artiglio invisibile mi stava afferrando la gola, impedendomi di respirare.
No!
Urlai con tutte le mie forze.
No!
Non volevo un altro attacco di panico, volevo solo dormire e dimenticare tutto per un po’, ero stanca di affrontare demoni.
Ren rideva in un angolo della stanza, a ricordarmi della promessa che non avevo mantenuto
Alla fine la tensione ebbe la meglio, mi spedì in un luogo buio, spazioso e freddo, molti lo avrebbero definito cupo, ma per me era rilassante.
Quando mi svegliai notai Yasu seduto alla scrivania, fumava una sigaretta con espressione impenetrabile.
“Buongiorno.”
La mia voce era roca.                                                                                                                                                                                                                           “Ciao, Nana.”
Ero quasi sicura che mi stesse scrutando al di là delle lenti, mi chiesi cosa vedesse.
“Sei sicura di voler tentare di fare un concerto?”
“Certo che sì. Che ti prende?”
“La notizia di tua madre ti ha sconvolta più di quanto vorresti dare a vedere, quanto vicina sei stata ad avere un attacco di panico?”
“Ha davvero importanza, Yasu?
Abbiamo solo una possibilità e non sarò io a mandarla a fanculo per via … Lo sai.”
“Posso provare a parlare con la casa discografica e vedere se riesco ad avere un altro po’ di tempo.”
Scossi la testa, entrambi sapevamo che era impossibile.
“Nana, non ce la puoi fare in questa cosa da sola.”
“Cosa vuoi dire?”
“Non riesci a tenerla sotto controllo ed è comprensibile, dato tutto quello che ha passato, hai bisogno di qualcuno che ti aiuti. In modo professionale.
Dovresti andare almeno da uno psicologo.”
“Cosa? Sei impazzito?
Raccontare i cazzi miei a un estraneo? Non ci penso nemmeno!”
“Nana!”
Fulminai Yasu, si era acceso un fuoco dentro di me: rabbia mista a dolore, frustrazione e altri sentimenti a cui non riuscivo a dare un nome da tanto bruciavano.
“È così, dunque?
La povera Nana è impazzita, è diventata matta e io non voglio averci a che fare.
Nessuno vuole, diamola a uno strizzacervelli, magari ci fa il piacere di ficcarla in manicomio e noi non dovremo più…”
Non finii la frase perché il mio amico mi diede uno schiaffo, non forte, ma sufficiente a spegnere il fuoco e a farmi tornare in me.
Mi sedetti sul letto e mi presi la testa tra le mani, non mi ero nemmeno accorta di essermi alzata.
“Grazie.”
Mormorai a bassa voce.
“Non c’è problema. Nana, promettimi che ci penserai.
Chiedere aiuto non significa essere deboli o pazzi, significa ammettere con sé stessi che si è in una situazione che non riusciamo più a fronteggiare. Nessuno vuole abbandonarti o sbatterti in un manicomio, solo non sappiamo più come aiutarti in modo efficace.”
Respirai profondamente e mi accesi una sigaretta.
“Non ho tempo adesso, Yasu. Ora tutto quello che conta è il concerto, poi potrò andare dallo strizzacervelli e anche dal cavadenti e dal segaossa, persino da un bonzo se questo pensi che mi aiuterà.
Adesso ho un solo obbiettivo e devo concentrarmi su quello.”
Diedi una boccata alla sigaretta.
“Vedo Ren negli angoli delle stanze, è arrabbiato con me perché non ho mantenuto la promessa: non sono morta con lui.
Come faccio a …”
La mia voce si perse in un brusio indistinto, Ren era davanti a me con una mano tesa, prenderla avrebbe significato seguirlo nel regno dei morti e io non ero ancora pronta.
Volevo vivere ancora un po’, sebbene sapessi che la mia esistenza non era giusta, era quella di un’egoista che non rispettava patti e promesse.
In quei momenti avrei voluto essere morta, solo il pensiero di Hachi mi impediva di salire sul tetto e volare da Ren.
Lei aveva salvato la vita a una randagia come me che, della vita, non sapeva cosa farsene.

 

Ero sempre stata egoista.
Me lo avevano detto tutti, da Shin a Takumi,
eppure non riuscivo a cambiare, nemmeno dopo la morte di Ren.
Ero persino peggiorata, credendo che fosse stata tutta colpa mia.
Io volevo distruggere tutto quello che aveva Takumi e avevo
finito per trascinare Ren con me.
Non meritavo di vivere.
-Reira

 

Da dopo la morte di Ren la mia vita mi sembrava priva di valore, peggio ancora sembrava che finissi per distruggere ogni persona che incontrassi.
Il ritmo regolare del mio cuore monitorato mi aiutava a pensare, non ero più tornata a Tokyo da quella giornata fatale, ero rimasta nel mio paese natale a casa di mia madre. Lei pensava fosse una cosa temporanea, come sempre aveva poco tempo da dedicarmi, ma si sbagliava.
Lo capì quando lentamente smisi di mangiare, preoccupata aveva chiamato Takumi e insieme avevano discusso di un mio ricovero. E così ero finita qui a contare i miei peccati.
Shin.
Avevo fatto innamorare quel ragazzino, ingannandolo e ingannando me stessa credendo di amarlo a mia volta. Lui era stato solo uno riempitivo, qualcuno da cui avere sesso, affetto e a cui succhiare la vita fino a lasciarlo a un guscio vuoto.
Mi aveva chiamata donna egoista e aveva ragione, aveva anche detto che sarebbe tornato da me quando sarebbe maturato, lui ci credeva, ma io sapevo che non sarebbe successo.
Una volta che il manto luminoso del primo amore mi sarebbe caduto dalle spalle si sarebbe reso conto dei miei giochi da bambina mai cresciuta, che sta con un altro per infastidire l‘oggetto del suo interesse.
Ren.
Avevo sfruttato la sua gentilezza per avere un confidente che mi compatisse, gli avevo raccontato tutto, ma non lo avevo lasciato parlare troppo di sé stesso. E poi sapevo della droga, ero stata una delle prime a saperlo e cosa avevo fatto?
Invece di mettere da parte il mio orgoglio e la mia rivalità e correre da Nana avevo creduto alle promesse che ogni drogato fa: che ne sarebbe uscito da solo.
La compassione e la paura di affrontare le conseguenze mi avevano paralizzato e quando Takumi lo aveva saputo era stato troppo tardi. Ero doppiamente colpevole, oltre ad avere taciuto convenientemente ero scappata per permettere a Ren di curarsi. Nella mia testa le intenzioni erano buone – scappare, dare una notizia ai giornalisti che li distraesse da lui e dargli il tempo di disintossicarsi – nella realtà avevano causato il peggiore dei disastri. Ren era venuto a cercarmi sotto l’effetto della droga ed era morto, era diventato come Takumi – ossessionato dal proteggere il castello, i Trapnest – e non capivo perché. Forse le cose con Nana non andavano bene, forse si sentiva in colpa per avere causato guai alla band, forse cercava di ripagare un inesistente debito sacrificando tutto quello che aveva.
Perché lo aveva fatto?
Se io fossi rimasta a Tokyo come ogni persona matura lui sarebbe ancora vivo?
Una lacrima solitaria mi attraversò la guancia e cadde sulle mie mani pallide e troppo magre.
C’era qualcosa che potessi fare ora?
Potevo riprendere a mangiare e togliere almeno una preoccupazione a Takumi, lui continuava a venire da me quando avrebbe dovuto stare con sua moglie. Hachi era incinta e aveva più bisogno di Takumi di me, ma saperlo al mio capezzale mi dava un piacere perverso, come sempre l’avevo avuto tutto per me.
Non mi avrebbe mai baciata o considerata come una donna da desiderare, ma mi bastava averlo lì, se fosse rimasto abbastanza forse avrebbe cambiato idea. Fantasticavo su di lui che mollava Hachi e finalmente diventava il mio uomo, non mi importava nulla di quella nuova vita, che se prendesse cura Nobu.
Non era Nobu quello che amava Hachi?
Ero egoista.
Terribilmente egoista.
Non mi ero trattenuta nemmeno quando avevo incontrato Nana e le avevo detto che era tutta colpa mia se Ren era morto, sebbene fosse solo un misero tentativo di lavarsi la coscienza, per fortuna Shin mi aveva trascinata via, impedendomi di fare altri danni.
La porta si aprì, Naoki entrò per primo sorridendo come suo solito e dietro di lui c’era Takumi con aria tormentata: sembrava un uomo sulla graticola.
“Ciao, Reira! Come stai?”
Sorrisi debolmente all’entusiasmo del batterista biondo, guardai il mio amore.
Lui mi rivolse uno sguardo indagatore, stava controllando l’eccessiva magrezza del mio corpo e il mio stato mentale.
“Sto bene.”
“Hai mangiato?”
Non risposi alla domanda del chitarrista ed entrambi capirono che anche per oggi la flebo era l’unico modo in cui ero stata nutrita. Ogni giorno mi dicevo che avrei mangiato qualcosa, in modo da dare prova di stare meglio e di essere sulla via della guarigione.
Ogni giorno quando l’infermiera arrivava con il vassoio dei pasti il mio stomaco si chiudeva e venivo presa da una violenta nausea, così finivo per scuotere la testa e il vassoio rimaneva intatto.
Era tutta una questione psicologica ovviamente, ma i medici non mi dicevano nulla.
“Perché, Reira?”
La voce di Takumi uscì stanca, un soffio di vita sconfitta.
“Mi viene la nausea quando lo vedo, mi si chiude lo stomaco.”
“Non è colpa tua se Ren è morto, sono stato io a non aver notato prima come stava.”
Mi rispose meccanicamente, io abbassai gli occhi.
Trattenevo nel mio cuore il segreto che mi tormentava, non gli avrei mai detto che ero stata io la prima a sapere della tossicodipendenza di Ren e che avevo taciuto.
“Non avrei dovuto andarmene.”
“Non potevi sapere che ti avrebbe seguito e che anche lui era ossessionato dai Trapnest almeno quanto me.”
Questi discorsi erano stati fatti e rifatti almeno un milione di volte, erano sempre gli stessi, giusto con qualche leggera variazione di parole.
Erano inutili e lo sapevamo entrambi, ma rimanere in silenzio era peggio, venivamo tutti schiacciati dal peso dei nostri errori, solo Naoki ne era immune. Un po’ lo invidiavo, lui aveva vissuto solo il lato positivo della fama ed era riuscito in qualche modo a tenersi fuori da tutti gli oscuri segreti e le trame di potere.
Qualcuno bussò deciso alla porta della mia camera, chi poteva essere?
Non Yasu, lui non bussava mai e comunque era a Tokyo per cercare di salvare i Black Stone.
“Avanti.”
Un uomo alto e segaligno in camice bianco entrò, era il primo medico che voleva parare direttamente con me senza passare prima per Takumi.
“La signorina Reira Serizawa?”
“Sono io.”
“Devo parlarle di una cosa.”
Takumi si alzò di scatto.
“L’accordo era che prima di dire qualsiasi cosa alla signorina Serizawa dovevate parlarne con me.”
L’uomo gli rivolse uno sguardo freddo, come Takumi non amava che qualcuno mettesse in discussione cosa fare o la sua autorità.
“Questa cosa riguarda solo la signorina Serizawa.”
Guardò me e mi sentii trapassare da quegli occhi scuri, disapprovava apertamente che mi trattassero come una principessa.
“Signorina Serizawa, dalle ultime analisi è emerso qualcosa di sorprendente, mi chiedo come non sia stato notato prima.”
“È un tumore?”
Chiesi con la voce incrinata.
“No, lei è incinta, signorina.”
Mi sentii venire meno.
“Cosa?”
“Lei aspetta un bambino, un maschio così sembra, ed è al quarto mese. Ciò significa che non può più abortire.”
Mi sentii come se qualcuno avesse risucchiato tutta l’aria dalla stanza, cosa avrei fatto adesso?

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto.

 

Non avevo mai pensato di diventare madre.
Mai. Nemmeno da bambina.
Non avrei mai creduto che lo sarei diventata e
avevo accantonato quella possibilità tra quelle assurde,
vicino al mostro di Lockness e di fronte all’araba fenice.
Ora invece la possibilità impossibile si era verificata e io
non sapevo cosa fare, sapevo solo che odiavo quella creatura.
-Reira

 

Nella stanza il silenzio era talmente pesante che si poteva tagliare con il coltello.
Il medico osservò me, poi Takumi e Naoki e infine di nuovo me, non gli piacevo e glielo si leggeva negli occhi.
“Immagino avrete molto di cui discutere, vi lascio da soli.”
L’uomo uscì e potevo quasi sentire i suoi pensieri: “Lei è un’ottima cantante, signorina Serizawa, ma un pessimo essere umano.”
Eravamo rimasti noi tre, gli occhi di Takumi si erano fatti piccoli e ostili, nel suo cervello stava sicuramente analizzando ogni possibilità.
Probabilmente si stava domandando se fosse suo, dato che una volta eravamo stati a letto insieme.
“Naoki, vai.”
Disse a voce bassa.
“Ma perché? Siamo una famiglia, no?”
“Vai via!”
Abbaiò facendo trasalire il batterista.
“Va bene, io vado.”
Uscì dalla stanza lanciando occhiate perplesse, come se non afferrasse la situazione.
“Finalmente soli. Dimmi, è d Shin?”
Feci un rapido calcolo.
“Sì, penso di sì.”
“Merda, è escluso che possiamo dirglielo.”
Sgranai gli occhi, lasciando che la notizia penetrasse dentro di me.
Ero incinta.
Il frutto dell’amore tra me e Shin mi cresceva dentro e io… Io non lo volevo. Quella nuova vita era estranea e ostile, mi avrebbe separato per sempre dalla remota possibilità di rivederlo.
“Non lo voglio.”
Mormorai.
“Cosa?”
“Ho detto che non lo voglio! Non sono pronta a fare la madre e quel bambino mi impedirebbe per sempre di provare ad avere una storia con Shin!”
Perché Shin non doveva sapere della sua esistenza o altrimenti tutti avrebbero capito che io e lui avevamo avuto una storia quando lui era ancora minorenne. La sua carriera di attore sarebbe finita ancora prima di decollare e io rischiavo di avere la mia distrutta che riprendessi a cantare o no.
“È troppo tardi, l’hai sentito il dottore.” 
E lo maledissi quell’uomo.
“Cosa possiamo fare?”
“Lo riconoscerò come mio. Questo mi renerebbe uno stronzo agli occhi dell’opinione pubblica, ma almeno salverebbe te.”
Io sbattei le palpebre sconcertata.
“E Hachi? Vostro figlio o figlia?”
“Lei accetterà tutto e il bambino avrà un fratello o una sorella con cui giocare.”
Lo disse con un tono duro, gli occhi erano freddi, sembrava un lupo e mi fece paura, nonostante lo amassi da una vita.
“Ma non è una decisione che puoi prendere così su due piedi e per tutti e due. Parlane con lei almeno.”
“Al momento a mia moglie interessa solo Nana, tanto che non credo si curi molto nemmeno del bambino o bambina. E poi cosa dovrei dire ad Hachi?
Che riconoscerò il figlio tuo e di Shin?
È troppo amica di Shin per non farselo scappare e lui non lo deve sapere, su questo siamo d’accordo, vero?”
“Sì.”
Mormorai spossata.
“Reira, mangia.
Se non vuoi farlo per te, fallo per tuo figlio o figlia.”
“Io lo odio!”
Urlai con tutta me stessa.
“Lo odi anche se è di Shin?”
“Lo odio soprattutto perché è di Shin! A causa sua non potrò mai più rivederlo o tentare di avere una storia con lui, avrei preferito che fosse tuo.”
“Ne abbiamo già parlato, tu per me sei troppo speciale per essere solo un’amante.”
“E io ti ho già risposto che non mi importa, mi va bene che mi ami in qualsiasi forma, fosse anche qualche sporadica scopata.”
Lui batté il pugno su comodino, facendomi sobbalzare.
“Smettila di essere così egoista, Reira. È ora di crescere su serio visto che, ti piaccia o no, diventerai madre.
Non credi sia ora di smetterla con le cotte adolescenziali?”
lo guardai negli occhi ferma e decisa.
“Non è mai stata una cotta adolescenziale, ma tu non hai mai capito un cazzo. Tu in me vedevi la principessa del canto anche allora, non Reira.
Beh, io questo dono di Dio lo odio e adesso vattene, ho bisogno di riposare.”
“Reira…”
Tentò di insistere Takumi, io alzai per la prima volta la voce da dopo la morte di Ren.
“Vattene via!”
Lui sospirò, si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza: per una volta ero felice che se andasse.
Sapevo che aveva manie di controllo e forse sapevo anche perché: sua madre era morta, suo padre era un ubriacone e sua sorella era rimasta incinta troppo presto. Erano cambiamenti difficili da accettare per un ragazzino, era ovvio che da adulto volesse avere sempre il controllo della situazione ma non poteva decidere per me.
Perché dovevo permettergli di riconoscere il bambino e di rovinare la sua famiglia?
Non aveva senso, una volta nato lo avrei dato in adozione e qualcuno si sarebbe occupato di lui e io avrei potuto fare finta che non fosse mai esistito.
Dovevo solo dirlo a Takumi ed era la parte più difficile, finivo per fare sempre quello che decideva lui perché lo amavo. Avrei dovuto smetterlo di farlo!
Forse sarei riuscita a costruire una vita che mi piacesse sul serio e a non essere incastrata nel sogno che lui aveva creato per me. I Trapnest erano diventati un incubo che mi aveva fatto odiare la mia voce, ero maledetta da una benedizione.
Ero finita di nuovo a pensare a me quando era del bambino di cui dovevo occuparmi, una vocina mi chiese se davvero volevo essere così spietata e consegnarlo nelle mani di una coppia di estranei.
Il fatto è che non riuscivo a sentire nessun legame con questa vita che stava crescendo dentro di me, era un’erbaccia da estirpare.
Se avessi continuato a non mangiare forse sarebbe morto e la faccenda si sarebbe conclusa, soppesai questa ipotesi e mi sembrò quella migliore.
Non ci sarebbero stati scontri con Takumi e ai miei sensi di colpa ci avrei pensato io a costo di farmi suora per espiare i miei peccati.
Era una decisione egoista, ma io non potevo essere nessun’altra tranne me stessa.
Un' egoista.

 

Nana, la tragedia era vicina al suo culmine,
perché non lo notai? Perché mi sembrava che
tutto andasse bene? Ti eri messa una maschera
o te l’avevo messa io per non vedere?
Ero così presa dal vostro concerto imminente che
certe volte mi dimenticavo di essere incinta.

 

I giorni tra la proposta della casa discografica e i tre prima del concerto passarono come un turbine colorato, tutti erano concentrati sulla musica, sorridevano perfino e mi sembravano felici.
Probabilmente finché suonavano erano in una bolla di felicità data dalla musica e cercavano di starci il più possibile, anche Nana sembrava migliorare, solo ogni tanto i suoi occhi andavano fuori fuoco.
Potevano farcela, me lo sentivo, e se Nana avesse continuato a cantare tutto sarebbe andato bene perché Ren sarebbe stato felice di sentirla dall’aldilà.
Continuavo a rimanere nel comprensorio con grande rabbia di Yuri che non faceva altro che lanciami occhiatacce e venirmi addosso di proposito. Tra me e Nobu non c’era stato più nulla, le prove erano la priorità di tutti ora e ne ero felice.
Tre giorni prima del concerto mi svegliai di buon ora, Nana non dormiva più con me, anche questo era un miglioramento, e mi feci una lunga doccia. Mi vestii con cura e scesi nella sala comune, c’era solo Yasu che mi sorrise.
“Dove vai così presto, Hachi?”
“Devo fare un’ecografia, oggi saprò finalmente se è un maschio o una femmina.”
“Vuoi che ti accompagni?”
Scossi la testa.
“È tutto a posto, mi accompagna Junko.”
“Bene. Scusa se ti trascuriamo.”
“Non c’è problema.”
Risposi sorridendo. 
“Voi dovete pensare al concerto e io sono probabilmente d’intralcio.”
“Non è vero, senza di te Nana non si sarebbe mai ripresa, ti sono estremamente grato per essere venuta.”
“Forse il mio è solo egoismo.”
Dissi, iniziando a preparare la colazione.
“Forse mi piace di più stare qui che in una casa vuota, Takumi è ancora da Reira, forse avrebbe dovuto sposare lei.”
Yasu non rispose, la colazione era pronta: riso, zuppa di miso con del tofu e delle cipolle, del bacon e un uovo.
“Reira di sicuro lo preferirebbe, ma Takumi ha sempre detto di considerarla solo come una sorella.”
“Già.”
Finii di mangiare e lavai le stoviglie, poi uscii, il sole non era sorto da molto e c’era un’atmosfera surreale di calma estrema. Non potevo continuare a dipendere da Takumi, Kyusuke o Jun, dovevo fare la patente e comprarmi una macchina, mi dissi, ma sapevo che una volta partorito non ne avrei avuto il tempo.
Una macchina si fermò vicino al comprensorio e il volto sorridente di Junko fece capolino dal finestrino, io sorrisi, contenta che avesse deciso di accompagnarmi.
“Buongiorno, Nana!”
“Ciao, Jun!”
Salii in macchina e mi allacciai la cintura di sicurezza.
“Grazie per essere venuta.”
“Non potevo certo lasciarti prendere i mezzi, ti stai trascurando abbastanza ultimamente.”
“Jun, non mi sto trascurando.”
Lei sbuffò.
“Hai solo altre priorità, il che è come trascurarsi e dove è Takumi in tutto questo?”
“Da Reira, lei non mangia, ha bisogno di lui.”
“E tu no? Non hai bisogno di Takumi, il padre della tu creatura?”
“Io ce la posso fare da sola.”
La mia amica mi guardò dritta negli occhi.
“Perché state insieme?”
Io non risposi perché non c’era niente da dire, non ci amavamo e tenevamo tutti e due di più ad altre persone.
Takumi teneva a Reira, io a Nana e Nobu, l’unico motivo per cui stavamo ancora insieme era il bambino che cresceva nella mia pancia e lo sapevamo entrambi.
Non era un buon marito, ma sperai che sarebbe stato un buon padre per Satsuki, la mia felicità poteva finire in secondo piano come sempre.
“Nana, perché non lo lasci e non vai dai tuoi o dai a Nobu una possibilità?”
“Takumi è in grado di mantenerci e se tornassi dai miei gli spezzerei solo il cuore, una figlia separata e incinta darebbe adito a troppe chiacchiere.”
“Ma tu non sei felice.”
Io scossi le spalle, io avevo preso una decisione scegliendo Takumi e io dovevo portarla fino in fondo, dovevo essere adulta e responsabile per una volta. Questa volta non c’era Nana a sostenermi, dovevo contare solo sulle mie forze.
“Sei sicura di quello che fai?”
“Sono sicura che sarà un buon padre e questo basta.”
Junko tacque, probabilmente pensava che stessi sbagliando, attaccandomi ancora una volta a un uomo che non era quello giusto per me.
“L’unico con cui ti ho vista davvero felice è stato Nobu.”
“E io lo amo, ma Takumi è quello più adatto per crescere il bambino.”
“E come? È sempre da Reira.”
“Le cose cambieranno.”
Pensavano sarebbero cambiate in meglio, ancora non sapevo quanto mi sbagliassi.
Arrivammo all’ospedale, Junko parcheggiò e mi accompagnò in reparto, c’erano altre coppie in attesa per  un’ecografia, il padre era presente in tutti i casi.
Qualche minuto dopo un’infermiera si affacciò da una porta.
“Ichinose Nana?”
Chiamò e io mi alzai insieme alla mia amica.
Entrammo e una dottoressa sui trent’anni mi sorrise amichevole.
“Il signor Ichinose?”
“Non c’è, è via per impegni di lavoro.”
“Capisco, ma è un vero peccato. Oggi potremmo scoprire se si tratta di un bambino o di una bambina, si stenda sul lettino, prego.”
Feci quello che mi fu detto dopo aver dato il mio cappotto e la borsa a Jun, alzai la camicia fino a che la mia pancia non fu bella in vista. La dottoressa spalmò del gel e cominciò a muovere l’oggetto per radiografare su e giù lungo la mia pancia. Il battito del cuore del bambino mi lasciò senza fiato come tutte le volte, amavo quella creatura in modo viscerale.
La donna rimase in silenzio per un po’, poi cominciò a indicarmi le varie parti con voce dolce.
“Il bambino sta bene, i parametri sono nella norma, forse è leggermente stressato, ma non è nulla di preoccupante.”
“È un maschio?”
“In verità non lo so, la posizione in cui è messo non permette di determinare il sesso.
Sembra che sia timido o forse ama le sorprese, in ogni caso è in buona salute.”
La donna rimosse il congegno e il cuore cessò di battere, ma sapere che stesse bene mi rese felice, almeno una cosa stava andando bene.
Mi pulii e mi riallacciai la camicia, poi mi rimisi il cappotto, la dottoressa mi diede i risultati dell’ecografia.
“Si riguardi, signora Ichinose.”
“Certamente.”
Uscimmo e mi stiracchiai, mi era tornato il buon umore.
“Jun, ti va se andiamo a bere qualcosa in un bar?”
“Certo, ma non dovresti chiamare Takumi?”
“Lo farò dopo, non c’è fretta.”
Lei scosse la testa.
Sapevo che chiamare mio marito era la cosa giusta da fare, ma volevo tenermi quella gioia ancora un po’ solo per me.

 

Quando Shion mi disse che dovevo impegnarmi per
far felice Takahiro accettai, certa nel mio cuore che fosse
la cosa giusta, eppure un istinto più forte di qualsiasi decisione
razionale mi spingeva ad andarmene via.
Quello non era il mio posto, dovevo cercarlo altrove.
-Misato Uehara

 

Il mio ritorno a casa fu accolto da grandi abbracci e dimostrazioni d’affetto, erano tutti felici che io fossi tornata con mamma. Io invece mi sentivo inquieta, guardavo mio fratello e la solita marea di sensazioni bizzarre mi tirò a fondo. Non sapevo definirle, avevo detto a Shion che era amore, ma era davvero amore?
Sentivo un grande affetto, un desiderio di piacergli, volevo che mollasse la sua ragazza per stare con me, eppure non riuscivo a immaginarmi di baciarlo. Era come avere i sintomi di una strana e inclassificabile malattia. Amore era una definizione che gli andava molto vicina, ma anche ossessione.
In ogni caso mi impegnai con tutta me stessa per dare gli esami di terza media, mio padre voleva che frequentassi un liceo ad Okayama, dove ci eravamo trasferito, io bramavo Tokyo.
Lui riempiva i moduli e io guardavo su internet i siti dei licei e delle scuole professionali della capitale, una falena che cerca la sua lampada per bruciare.
Stare vicino a mio fratello e cercare di fare la brava bambina non era facile, forse essere un adolescente responsabile mi sarebbe venuto meglio in un altro posto.
Alla fine trovai una scuola a metà tra un liceo e una scuola professionale. Formava giovani che volevano lavorare nel mondo dello spettacolo da dietro le quinte, come roadies o assistenti manager e sembrava fatta a posta per me. Shion mi aveva detto di sostenere Nana facendo del mio meglio e cosa c’era di meglio se non aiutarla nel suo mondo?
Era una fuga legalizzata, un accettabile compromesso tra le mie due parti, ora dovevo solo parlarne ai miei genitori.
Decisi di farlo a cena, stavamo tutti mangiando pollo al curry quando mi decisi a parlare.
“Papà, vorrei andare a scuola a Tokyo.”
Lui mi guardò senza capire.
“Ho trovato un liceo che forma persone che lavorano dietro alle quinte del mondo dello spettacolo e vorrei frequentarlo, la retta non è nemmeno altissima.”
“Sei ancora scossa per quello che è successo a questa famiglia?”
Mi chiese brusco, una volta che ebbe recuperato la voce.
“No, solo penso che questa scuola sia meglio per me che frequentare il liceo qui o a Osaka.”
Lui inarcò un sopracciglio.
“E come sarebbe meglio?”
 “Mi formerebbe su un lavoro e potrei trovare subito o quasi un posto dopo il diploma e poi…
Potrei aiutare mia sorella, ecco.”
Mio padre sospirò, doveva avere un sacco di problemi nell’accettare che c’era questa nuova e sconosciuta appendice della famiglia.
“Come sospettavo non hai ancora superato quello che è successo in questi mesi e non posso biasimarti.”
“Ma papà! Non è così, io …”
Lui alzò una mano per farmi tacere.
“Che ne dici di un compromesso, Misato?
Tu frequenti per un mese il liceo qui ad Okayama e se dopo sarai ancora convinta che non fa per te, penseremo a Tokyo.”
“Se non dovesse andare bene qui pagherò la tua retta con l’eredità della nonna e tu dovrai lavorare per pagarti l’appartamento e altre spese.”
Mio padre fulminò mia madre per una frazione di secondo poi si rivolse di nuovo verso di me.
“Cosa ne pensi, Misato?”
“Per me è okay, io sono convinta della mia decisione, ma se per voi è meglio aspettare, aspetterò.”
Mio padre annuii, considerava ancora la mia scelta come il capriccio di una bambina, io gli avrei dimostrato il contrario.
Finito di mangiare lavai i piatti e pulii la cucina come mio solito, Takahiro uscì e mi lanciò una strana occhiata, come se in me non riconoscesse più sua sorella e il punto era quello. Potevo ignorare gli eventi degli scorsi mesi, ma non le loro conseguenze su di me: non sarei più stata la ragazzina spensierata che conosceva, adesso avevo un’ombra che mi cresceva dentro.
Andai in camera mia e mi sedetti alla mia scrivania con un foglio banco davanti a me, volevo scrivere una lettera a Nana, ma prima dovevo essere sicura che le arrivasse così presi il mio cellulare e scrissi a Shion.                                                                                                                                                                                                              
“Ciao, Shion.
Sono Misato, come stai? Io sono inquieta, ma te ne parlerò meglio un’altra volta.
Vorrei scrivere una lettera a Nana, se te la mandassi gliela consegneresti?
Ciao e grazie.”

Il mio cellulare vibrò qualche minuto dopo.

“Ciao, Misato. Io sto bene, chiamami se vuoi per la cosa che ti rende inquieta. Scrivi pure la lettera a Nana, gliela farò avere. Stammi bene.”

“Grazie mille, Shion.
Ti chiamerò appena posso e ancora grazie.”

Presi in mano la penna e cominciai a pensare alle parole che le avrei voluto dire, una lettera gliela avevo già scritta dopo la morte di Ren, questa doveva essere diversa.

“Ciao, Nana.”

Iniziai e lasciai che i miei pensieri fluissero liberamente.

“Sono Misato Uehara, spero tu abbia letto la mia lettera e che tu stia meglio almeno un po’.
Questa volta però non voglio scriverti da fan, ma da sorella, perché noi siamo sorelle e non voglio più ignorare questa cosa, il che non significa che la forzerò su di te.
Tu sei libera di continuare a considerarmi una fan qualsiasi, ti capirei, ma io ho bisogno di parlarti della nostra “famiglia”.
Per prima cosa: scusami.
Scusa se mamma ti ha abbandonato quando avevi quattro anni e non è mai tornata a riprenderti, nemmeno quando si è sposata con mio padre. Mi dispiace dal più profondo del mio cuore, se fossi davanti a te mi inginocchierei con la fronte a terra.
Scusa se io sono la figlia che lei ha scelto di crescere, non meritavi questa discriminazione e scusa se sono io a scusarmi e non mamma, ma non so se la ascolteresti come non so se ascolterai me.
Non ci sono comunque scuse per il suo comportamento e le mie forse sono troppo poco rispetto al dolore che hai provato per tutta la vita.
Vorrei che fosse andata diversamente, mamma ha privato entrambe di qualcosa di molto prezioso: il legame tra sorelle.
Eppure io ti sento lo stesso come una sorella e con il tempo spero che anche a te accada lo stesso, perché forse così ti potrei aiutare sul serio. La morte di Ren mi ha straziato e nemmeno lo conoscevo, immagino che per sia cento volte peggio. Vorrei abbracciarti e dirti che andrà tutto bene, anche se sapremmo entrambe che sarebbe falso. Vorrei trovare le parole giuste, ma penso non ce ne siano.
Quando una persona che amiamo così tanto ci lascia in modo così improvviso e parole perdono il loro potere e quelle che contano davvero sono quelle che non abbiamo detto.
Io però vorrei provare a esserci, sempre che tu lo voglia.
Casa mia è sempre aperta per te, vieni pure e piangeremo insieme, in fondo alla lettera ci sono l’indirizzo di casa mia, quello del ristorante dei mie genitori e il mio cellulare.
Non so quando riceverai questa lettera, ma può darsi che quando accada io non sia più qui: voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di bene e ti porgo ancora le mie condoglianze.
Sei sempre nei miei pensieri.

 
Tua sorella Misato

 

Chiusi la lettera e sorrisi, domani l’avrei imbucata.
Credere di aver fatto la cosa giusta mi faceva stare meglio, mi scaldava il cuore.
Erano solo sensazioni effimere e passeggere, la tragedia doveva ancora raggiungere il suo culmine, niente avrebbe potuto fermarla.

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto.

 

Dicono che non si possa sciogliere la promessa fatta a un morto,
io lo stavo facendo e sentivo su di me il peso di questa responsabilità,
sai Hachi? Mi sentivo colpevole nei confronti di tutti per avere ignorato
il loro dolore e per il piacere perverso che provavo nell’ignorare la
tua gravidanza. Odiavo quella piccola vita che mi separava da te, ma
soprattutto odiavo me stessa. Doveva essere per questo che Ren mi appariva
dappertutto: era un monito sulle conseguenze delle mie azioni.

 

La vigilia del concerto era finalmente arrivata, avevo visitato l’altare di Ren solo due volte perché ero troppo spaventata. Ogni volta gli rivolgevo la stessa preghiera – permettermi di continuare a cantare ancora per un po’ – e ogni volta vedevo la foto scuotere la testa. Il suo sorriso triste e dolce allo stesso tempo diventava una smorfia amara e poi chiudeva gli occhi e si muoveva.
Forse stavo impazzendo, forse ero vittima di una psicosi, di sicuro ero un fragilissimo vaso di vetro pieno di crepe: bastava il minimo tocco e sarei caduta a pezzi.
Se avessi visto il Suo volto durante il concerto sapevo che non avrei retto, la gola mi si sarebbe chiusa, impedendo volontariamente all’aria di entrare nei miei polmoni. L’attacco di panico avrebbe vinto e io mi sarei trovata in mano solo della fredda cenere invece dei sogni che avevo testardamente rincorso.
Dovevo trovare un modo per impedire che accadesse, trovare delle difese mentali che si attivassero e mi salvassero, mi arrovellai tutta la sera ignorando tutto e tutti.
Non ne cavai nulla alla fine, la  mia mente non aveva trovato difese o appigli abbastanza forti per resistere al richiamo di Ren, dovevo solo sperare nella fortuna.
Lentamente andarono tutti a letto e io rimasi sola nella stanza ora buia con una sigaretta tra le labbra, cantare mi aveva sempre procurato una grande gioia, ma ora avevo paura. Si di me gravava il peso dell’esistenza dei Blast, se avessi fallito la casa discografica ci avrebbe buttato fuori.
Prima della Sua morte sarebbe stato uno stimolo per fare del mio meglio, dando fondo a tutte le mie energie, ora era solo un qualcosa che mi riempiva la gola di sassi.
Alla fine mi alzai e uscii dalla stanza, entrai in quella dove c’era l’altare di Ren e mi sedetti, guardai la foto per un po’: tremolava alla luce di una candela che qualcuno aveva acceso.
“Per favore, non venire da me domani.
Aspetta solo un altro giorno, ti prego.”
Un alito freddo mi sfiorò la spalla e spense la candela, terrorizzata corsi nella mia stanza e mi infilai sotto le coperte: tremavo come una foglia e sentivo il respiro farsi più corto.
Chiusi gli occhi e chiamai a raccolta tutte le mie energie per calmarmi e alla fine scivolai in un sonno pieno di incubi, c’era il solito inseguimento della figura di Ren, ma anche un gigantesco specchio che rifletteva la mia immagine, un grande mostro.
Quando mi svegliai mi trovai davanti al volto di Hachi che mi osservava preoccupata.
“Tutto bene, Nana?”
“Sì, Hachi. Ho solo avuto degli incubi.”
“Capisco, vuoi parlarne?”
Scossi la testa.
“Va bene. La colazione è in tavola.”
Si allontanò, io mi passai una mano sulla fronte.
“Hachi!”
“Sì?”
“Tu cosa faresti se avessi promesso a Nobu di morire con lui e lui morisse all’improvviso?
Manterresti la promessa?”
Lei mi guardò senza capire per un attimo e poi si fece pensierosa.
“Non lo so, Nana.
Lasciami pensare un attimo, è una domanda a cui è difficile rispondere così su due piedi.”
“Non importa, Hachi.
Era solo una domanda, adesso vengo a fare colazione.”
“Sei sicura?”
“Sì.”
Se ne andò e io mi diedi della stupida, soffriva perché ancora non riusciva a decidere tra Nobu e Takumi e io non la stavo aiutando.
Mi feci una doccia rapida, mi cambiai e scesi a fare colazione, nonostante il concerto fosse fissato per le cinque e mezza del pomeriggio erano tutti tesi, persino Yasu.
Mangiammo in silenzio, poi giocammo a mahjong tutti insieme, non furono delle grandi partite, in un angolo Hachi e Miu alternavano le lezioni di vestizione con la prova di un copione.
Arrivò mezzogiorno, mangiammo di nuovo, poi alle due Gimpei ci portò in studio per fare un po’ di pratica: la scaletta prevedeva dieci brani.
Dieci lunghi brani da cantare ignorando il fantasma di Ren che mi seguiva a ogni passo, mi sembrava un’impesa disperata. Tutto sommato le prove non furono così male, me la cavai abbastanza bene, lo scoglio più grande ora era il concerto stesso.
Arrivarono le cinque e salimmo sul furgoncino guidato da Gimpei che ci scortò nel luogo del concerto: Harajuku, dove da sempre si ritrovavano gli adolescenti alternativi.
La nostra strumentazione era nascosta dietro un telo, i ragazzi la occuparono e cominciarono ad accordare i vari strumenti, io chiusi gli occhi. In un angolo c’era il solito fantasma, ma io mi esercitai mentalmente a non guardare da quella parte. Mi concentrai solo sul mio respiro per cercare di calmare le ondate d’ansia che mano a mano mi lambivano e poi il telo cadde.
Le prime note di Rose invasero l’aria, io aprii gli occhi e cominciai a cantare, il fantasma era innocuo o meglio si era trasferito da un’altra parte. Sul grattacielo davanti a noi campeggiava un enorme immagine dei Trapnest e Lui mi guardava da lì. Cercai un punto sicuro e mi concentra su quello, il mio cuore batteva a un ritmo irregolare. Perché l’avevano messo?
La risposta alla domanda era fin troppo semplice, le vendite dei Trapnest erano schizzate alle stelle dopo la morte di Ren e quell’immagine ne era la prova. Volevano che la gente comprasse sempre più cd e la istigavano piazzando ovunque riferimenti alla band.
Rose finì tra le urla del pubblico, io sospirai di sollievo, dovevo eseguire solo altre nove canzoni e poi avrei potuto chiudermi in una stanza e sfasciare tutto fino a farmi sanguinare le mani.
Ora era il turno di Glamorous Sky, l’immagine di Ren muoveva l’indice per attirarmi a sé, io resistevo testarda cercando nuovi punti a cui attaccarmi.
Finì anche la seconda canzone e io mi sentivo sempre peggio, mani invisibili mi artigliavano la gola qualcosa mi accelerava il respiro e il battito cardiaco fino a quasi al limite.
Ero solo un’acrobata.
Scambiai qualche battuta con il pubblico, poi Nobu attaccò Kuroi Namida, io chiusi gli occhi mentre la mia voce si alzava un po’ troppo roca.
Aprii gli occhi e mi si mozzò il respiro, tutte le facce – tutte! – che mi guardavano erano quelle di Ren ed erano tutte accusatorie. Il fulmine aveva colpito e il tuono dell’attacco di panico si propagò nel mio corpo, non riuscivo a respirare, il mio cuore batteva impazzito, la testa mi girava mentre tentavo di rimanere cosciente e di inalare un po’ di preziosa aria.
Rantolai come un animale ferito, vagamente consapevole che i ragazzi avevano smesso di suonare e mi si accalcavano attorno. La folla taceva orripilata, i volti spaventati di tante persone formavano un solo corpo, sentivo le lacrime scendere sulle guance.
Poi vidi il volto di Hachi, si chinava su di me, mi stava dicendo qualcosa, ma io non la ascoltai.
Raccolsi le mie ultime energie e sussurrai il mio più vivo desiderio.
“Voglio vedere il mare.”
Volevo rivedere Ren non in forma di fantasma, volevo almeno una specie di tomba su cui pregare.
Volevo lui nell’ultima forma mortale che mi fosse concessa.
Lui era la mia vita.
Lui…
Il buio si chiuse su di me, staccò dolcemente gli ultimi ormeggi che mi tenevano legata alla realtà e presi a fluttuare come un palloncino.
Se fossi salita abbastanza in alto sarei arrivata da Ren.

 

Il fulmine aveva colpito e il mondo stava cadendo a pezzi.
In testa mi risuonavano solo le tue ultime parole, Nana.
Voglio vedere il mare, voglio vedere Ren.
L’hai visto il mare, Nana, dopo che te sei andata?

 

Ero dietro le quinte del concerto accanto a Misato e Gimpei, ma nessuno badava a me.
La nostra attenzione era tutta concentrata su Nana, tutti speravamo che ce la facesse, io però avevo un brutto presentimento. Quell’enorme cartellone con i Trapnest non l’avrebbe aiutata a cantare, vedere Ren non l’avrebbe aiutata affatto. La domanda che mi aveva fatto quella mattina mi ronzava in testa fastidiosa, cosa significava?
Che c’era un patto tra di loro probabilmente e Nana non lo stava rispettando, forse si sentiva in colpa e questo peggiorava di sicuro il suo stato emotivo. Pregai che nessun attacco di panico la colpisse, chiesi a Ren di proteggerla.
Rose la eseguì perfettamente, Glamorous Sky fu un po’meno perfetta, ma l’energia che ci metteva compensava gli errori. Questa era la strategia di Nana sin dal primo giorno.
Poi Nobu attaccò Kuroi Namida e percepii chiaramente che qualcosa non andava, la voce della mia amica era troppo roca. Cantò fino a metà canzone poi il suo corpo si tese, paralizzato da qualcosa che solo lei vedeva, per poi ricadere a terra. Non cantava né respirava più, rantolava.
I ragazza smisero di suonare, io scattai verso Nana e mi chinai su di lei. I suoi occhi erano fuori fuoco e tremava, ogni respiro le costava fatica, le mani traditrici della sua psiche le stringevano il collo in una morsa che non poteva essere sciolta.
Non appena mi vide mi puntò i suoi occhi scuri addosso.
“Va tutto bene, Nana. Adesso arriverà un’ambulanza!”
Le dissi per calmarla, ma lei non mi ascoltava.
“Voglio vedere il mare.”
Sussurrò prima di svenire, io la guardai scioccata.
Quella era la fine, una parte del mio cervello lo aveva percepito con chiarezza, ma io non volevo pensarci, un mondo dove Nana non cantasse era inconcepibile. Avevo amato la sua voce sin dalla prima volta che aveva cantato accompagnata da Nobu in piedi sul tavolo dell’appartamento 707.
Come potevano non esserci più momenti simili in futuro?
Il suono delle sirene dell’ambulanza mi fece rientrare in me, mi alzai in modo da non intralciare i paramedici e guardai Gimpei e Misato. Entrambi scossero la testa, era davvero finita, l’indomani o forse il giorno dopo la casa discografica avrebbe scaricato i Black Stones.
Tre uomini scesero dall’ambulanza, due si occuparono di Nana e la caricarono infine su di una barella, il terzo parlò brevemente con Yasu che si era fatto avanti per spiegare la situazione. Colsi solo alcune parole come “attacco di panico” e “recente perdita del fidanzato”, per l’infermiere furono sufficienti e permise a Yasu di salire sull’ambulanza.
Io mi sentivo di ghiaccio, non sapevo cosa fare, non ero riuscita a impedire che questo accadesse, le mie preghiere si erano rivelate inutili.
Sentii un mano appoggiarsi sulla mia spalla, mi girai e mi trovai faccia a faccia con Shin, volevo dirgli qualcosa – qualsiasi cosa – per dirgli di non preoccuparsi per me, ma mi uscì solo un singulto.
Qualcuno spostò Shin con delicatezza e mi abbracciò, avrei riconosciuto quelle braccia tra mille, ancora una volta mi avevano salvato. Erano quelle di Nobu.
Scoppiai a piangere.
“È colpa mia! Avrei dovuto stare vicino a Nana e invece… Invece l’ho lasciata sola.”
Urlavo come un animale ferito, Nobu mi accarezzò la schiena con gentilezza, sentivo le sue lacrime cadere sulla mia maglia.
“Non è colpa tua, è colpa di tutti noi che abbiamo sottovalutato il problema.
Non è colpa tua, Hachi.
Non. È. Colpa. Tua.”
Piangevano entrambi, schiacciati da quella tragedia, era la fine di tutto: della loro carriera e dei loro sogni.
“Ragazzi, andiamo.”
Misato stava piangendo anche lei, ma si era avvicinata a noi.
“Andiamo in ospedale, Yasu ci ha scritto dove hanno portato Nana.”
Annuimmo tutti e tre, anche Shin, e seguimmo lei e Gimpei.
Era solo un incubo, doveva esserlo, non poteva essere successo davvero, non di nuovo. Mi sembrava di essere tornata alla notte in cui era morto Ren, alle lacrime, a evitare i paparazzi e la gente, a sentire un vuoto nel petto che non poteva essere colmato.
Mi ero promessa di essere forte perché stavo per diventare madre, ma riuscivo solo a piangere con Nobu e Shin appoggiati ognuno a una mia spalla. Il tragitto sembrava eterno, Misato parlava al telefono, non capivo cosa stesse dicendo, ma stava usando un tono implorante che non le avevo mai sentito.
La casa discografica.
Già, questa era la loro ultima possibilità e se n’era andata a fanculo, era una cosa crudele. Come potevano chiedere a una donna che aveva appena perso il suo uomo di dimenticarselo e cantare?
Fanculo i soldi e fanculo tutti quanti tranne i Blast.
Ora oscillavo tra la rabbia e la tristezza, una specie di metronomo impazzito che non trovava pace in nessun modo, dovunque volassero i miei pensieri i sentimenti che provavo erano negativi.
Arrivammo all’ospedale, seguimmo Gimpei lungo i corridoi fino a una sala d’aspetto, Yasu era seduto su di una sedia e sembrava invecchiato di cent’anni in un colpo, se non avesse avuto i capelli rasati avrei giurato che fossero diventati grigi.
“Nana?”
Chiesi.
“È in quella stanza.”
Indicò una porta accanto alle sedie dove si trovava.
“Come sta?”
“Stabile, probabilmente è come la prima volta che ha avuto un attacco di panico.”
“È sveglia?”
“Non lo so credo di no.”
Rimase in silenzio per un lungo attimo, lo stavamo guardando preoccupati perché la maschera imperturbabile che  portava era caduta lasciando il posto a un’espressione angosciata.
“È tutta colpa mia, sin dall’inizio.”
Mormoro.
“Cosa vuoi dire, Yassan?
Non è colpa tua se Ren se n’è andato.”
La voce di Nobu tremava.
“Sedetevi.”
Noi ubbidimmo.
“Mi dispiace, Nobu, ma è tutta colpa mia.
Quando Takumi ha chiesto a Ren di entrare nei Trapnest sono stato io a spingerlo ad accettare, lui non voleva lasciare Nana, ma io gli ho detto che non poteva perdere un’occasione del genere con il talento che aveva. Gli ho detto di entrare nei Trapnest e che mi sarei preso cura dei Black Stones, pensavo che sarebbe stato felice a Tokyo a realizzare i suoi sogni.
Mi sbagliavo e tanto.
Ren… era felice con noi, nella nostra piccola città perché noi eravamo la sua famiglia, quella che si era trovato da solo. Io non l’avevo capito.
Volevo solo il bene di Ren, il mio fratello non di sangue, e invece l’ho spinto dritto sulla strada dell’autodistruzione. Ren non era fatto per il successo, per i giornalisti che spiavano ogni suo movimento, lui era troppo fragile. Lui era fatto per stare con Nana in quel vecchio magazzino, dove avrebbe potuto avere dei bambini e dare loro tutto il suo affetto.”
“Yasu…”
Disse Shin, ma lui gli fece cenno di non proseguire, aveva altro da dire.
“Dopo un po’ che lo frequentavo qui a Tokyo me ne sono accorto e gliel’ho detto, ma non è servito a nulla. Aveva iniziato a frequentare troppo Reira e Takumi per tornare sui suoi passi, il modo in cui la stampa ha scoperto la sua relazione con Nana e la sua fuga innocente con Reira non lo hanno aiutato.
Si è sentito colpevole, Nana dall’altra parte non gli risparmiava il suo disprezzo per i Trapnest e da questa strana accoppiata di fattori si è originato tutto quello che li ha travolti.
Amava Nana, ma non poteva darle quello che lei chiedeva, voleva suonare con i Trapnest, ma si sentiva inadatto, così è diventato come Takumi: ossessionato dal difendere il castello.
Ma per farlo si è appoggiato a cose sbagliate, prima l’hashish e poi la cocaina.”
Sobbalzammo tutti all’ultima parola, io credevo di essere diventata amica di Ren e non mi ero accorte di niente.
“Cocaina?”
La voce di Nobu era flebile ora, considerava Ren il suo eroe ed era dura per lui scoprire queste cose.
“Sì, coca. Takumi mi ha detto che è stato Narita della loro casa discografica a fargli avere la prima dose e da allora non ha più smesso.
Quando Takumi l’ha scoperto ha fatto avere a Nana un messaggio che diceva: “Se non vuoi perdere Ren per sempre, allora stagli vicino.”
Lei però non gli ha creduto e prima che Takumi potesse fare qualcosa, come mandarlo in riabilitazione, Ren è morto. E io lo sapevo della droga e non ne ho parlato con nessuno.
Sono io che l’ho ucciso ed è colpa mia se Nana sta così male.”
Avrei voluto dire qualcosa a Yasu, ma mi sentivo avvolta dal gelo, le mie ossa erano di ghiaccio, il mio cervello una massa di neve inerte.
La seconda valanga che ci aveva travolti aveva origini lontane, ma la cosa che faceva più male era che sarebbe bastato un solo comportamento diverso e non sarebbe successo nulla.
Se Yasu avesse deciso di agire.
Se Takumi lo avesse scoperto prima.
Se Nana fosse rimasta vicino a Ren, smettendola di considerare i Trapnest come nemici.
Se Reira non fosse fuggita.
Un sacco di se che ci avevano seppelliti, come ne saremmo usciti?

 

Era tutto finito, me lo sentivo nelle ossa, ed era tutta colpa mia e 
della mia fragilità, in quel momento mi odiai così tanto che desiderai essere 
morta per ricongiungermi con Ren.

 

Riemersi lentamente dall’oscurità, il mio corpo era pesante.
C’era un bip-bip ritmico, ero in ospedale di nuovo, il mio corpo mi aveva tradito ancora una volta e il mio sogno era morto.
Mi portai le mani sul volto, per colpa mia i Blast non avrebbero più suonato, cosa sarebbe successo?
Cosa ne sarebbe stato di me che avevo puntato tutto sul mio sogno?
Poi una frase mi raggiunse nelle spire della disperazione in cui mi trovavo, “Mi dispiace, Nobu, ma è tutta colpa mia.”.
Yasu.
Che significava tutto questo?
Ascoltai il suo racconto in un crescendo di orrore, sentendomi sempre più un burattino nelle mani di qualcuno, non riuscivo a credere che potesse essere vero.
Yasu, il mio migliore amico, la mia roccia, non poteva avere fatto tutto quello che aveva detto, se ci pensavo troppo sentivo il fiato di un altro attacco di panico sul collo. Lui aveva convinto Ren a lasciarmi indietro, lui!
La spalla su cui avevo pianto tutte le mie lacrime!
E lui sapeva della droga, perché ora capivo che era quello il segreto che nessuno aveva voluto dirmi, l’avrei capito se si fosse trattato di Takumi o Reira – non correva buon sangue tra di noi – ma lui?
Perché lui?
Ripensai alle parole di Takumi, quelle che Hachi mi aveva riferito e a cui io non avevo dato retta, se solo qualcuno mi avesse spiegato la ragione di quel messaggio tanto strano l’avrei preso sul serio invece di ignorarlo e considerarlo l’ennesima manipolazione di Ichinose.
Ma nessuno mi aveva detto nulla, la povera Nana non doveva essere messa a parte dei segreti delle band, doveva solo eseguire gli ordini.
Ma se la povera Nana l’avesse saputo avrebbe combattuto con le unghie e i denti per tenere con sé Ren, non l’avrebbe lasciato andare. Ma nessuno aveva creduto in lei, nemmeno il suo migliore amico.
L’attacco di panico mi artigliò di nuovo, per la seconda volta in una giornata e caddi di nuovo nel buio.
“Ren, Ren… Mi dispiace.”
Pensai con le mie ultime forze, prima di cedere.
Mi risvegliai di nuovo nell’ospedale, era notte fonda, la luce della luna entrava dalla finestra, mi guardai intorno. Sul mio comodino c’era una bottiglietta d’acqua, delle lettere e un biglietto.
Lo lessi, era di Misato che mi augurava una pronta guarigione e mi indicava che le lettere erano di fans che le erano arrivate. Io sospirai e rovistai nella decina di lettere senza provare un vero interesse per nessuna di loro. Quelle ragazze non sapevano nulla di me e non potevano aiutarmi.
L’ultima però catturò la mia attenzione, il mittente era Misato Uehara, mia sorella. Mi aveva già scritto una volta subito dopo la morte di Ren per le condoglianze e per dirmi che credeva in me. Incuriosita la aprii, era una lettera onesta sulla nostra condizione di sorelle, in cui traspariva tutto il suo dispiacere che ci avessero separato e per le decisione di Misuzu, si scusava anche, lei che non aveva alcuna colpa come me.
Sentii un calore al cuore, quella lettera me lo aveva riscaldato, volevo conoscere Misato, volevo sapere cosa si provava ad avere un legame di sangue con qualcuno.
L’ultima parte – quella che mi invitava a raggiungerla – mi diede un’idea, forse dovevo farlo davvero, qui a Tokyo mi sentivo circondata da bugiardi.
Chi mi assicurava che anche Hachi, Nobu o Shin non mi avessero tenuta all’oscuro di qualcosa e che davvero non sapessero niente di Ren?
Guardai a lungo quella lettera senza vederla, ero caduta in una spirale di paranoia, pensavo e ripensavo a tutto quello che era successo in cerca di segni, di segnali che mi aiutassero a capire se davvero nessuno sapesse nulla prima di quel giorno.
La mia paranoia era così grande, ingigantita dalla paura atavica di essere abbandonata, che vidi cose che non erano mai avvenute. Lentamente mi convinsi che c’era una cospirazione contro di me, tutti sapevano, ma nessuno aveva voluto parlare e io servivo giusto per cantare.
Ero la loro fonte di guadagno e non potevano perdermi per quel motivo.
Se ci ripenso adesso mi vergogno a morte di quei pensieri, ma allora sembravano così veri perché spiegavano come mai ero crollata così miseramente. Ero cresciuta nel mio mito personale di essere una donna forte e non ammettevo debolezze né in me stessa né negli altri.
Ora so che tutti possono inciampare e cadere nella vita, non c’è nulla di male, anzi è naturale, la cosa importante è rialzarsi.
Alla fine appoggiai la lettera sul comodino e con metodo e delicatezza tolsi le flebo e gli elettrodi collegati a mio corpo, muovendomi con circospezione mi rivestii. Calze autoreggenti, gonna di jeans, maglia nera, maglione a righe rosse e nere, anfibi e chiodo.
Avevo preso tutto, cercai nel comodino e recuperai la mia borsa, poi mi ficcai la lettere di Misato in tasca e alzai il cappuccio nella maglia.
Aprii la porta della mia camera uno spiraglio alla volta, poi mi azzardai a guardare: il corridoio era deserto a quell’ora di notte.
Uscii e lo percorsi a passi veloci, per quanto me lo concedessero le mie condizioni, e raggiunsi delle scale, anche lì mi guardai intorno, ma sembrava che il personale dell’ospedale preferisse gli ascensori dopotutto.
Le scesi con circospezione, sperando che il cappuccio nascondesse abbastanza bene i miei lineamenti e di non avere un’aria troppo colpevole.
Per un attimo venni sfiorata dai volti dei miei amici alla scoperta che ero sparita, ma sparirono subito come granelli di sabbia trasportati dal vento.
Alla fine delle scale arrivai a una sala con delle macchinette e porte che davano su un cortile dell’ospedale, presi un bento e poi uscii.
L’aria fredda della notte mi accarezzava gentile il volto, mi faceva sentire libera perciò sorrisi senza pensare a nulla.
Avrei mangiato una volta uscita da quel posto e poi avrei deciso cosa fare: volevo andare da Misato senza essere scoperta e ciò comportava svuotare il mio conto in banca e prendere qualche vestito almeno.
Quelli erano i problemi su cui riflettei, nella mia visione distorta non vedevo la cosa più importante.
Comportandomi come Misuzu aveva fatto con me avrei inflitto una ferita nella psiche delle persone per me più importanti. Anche ora spero che possano perdonarmi.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto.

 

Sai, Nana… Non avevo mai pensato alla possibilità di
vivere senza di te fino a quel giorno. Fino ad allora
avevo pensato che, anche se tu fossi stata  lontana con
i Blast, il filo della nostra amicizia non si sarebbe spezzato.
Lo sentivo così saldo tra le mie mani, ora però non ne sono
più così sicura, ma io non mollo, Nana. Riavvolgerò quel filo
fino a trovarti.

 

Quel giorno avrei voluto vedere Nana, nonostante fossi turbata dalla confessione di Yasu, mi sembrava che il mio mondo avesse iniziato a girare all’incontrario. Da quando Yasu si comportava in modo da ferire la mia amica?
Un medico ci disse che non era possibile, visto che aveva avuto un altro attacco, ci fissò tutti negli occhi con uno sguardo severo.
“La signorina Osaki è reduce da un trauma terribile, farla cantare ed esporla a emozioni così forti è stato da incoscienti. Le probabilità che non reggesse erano molto alte, perché l’avete fatto?”
Rimanemmo tutti in silenzio, le parole del medico si erano scavate un buco in ognuno di noi, aveva perfettamente ragione.
L’uomo se ne andò e noi rimanemmo lì immobili e silenziosi.
“Ha ragione, avrei dovuto oppormi alla richiesta della casa discografica, sono stato davvero pessimo.”
“Yasu, ma se l’avessi fatto ci avrebbero scaricato.”
“Ora ci scaricano comunque e abbiamo meno probabilità di firmare un contratto con qualcun altro visto che Nana si è guadagnata la fama di persona problematica.”
“Non ti permetto di parlare così di lei!”
Scattai in piedi con i pugni chiusi.
“Scusa, Hachi. Analizzavo solo la questione dal punto di vista lavorativo.”
Una risposta acida mi salii sulla punta della lingua, ma la censurai. Il clima era già pessimo, non volevo peggiorarlo ulteriormente, ma ero scossa dalla freddezza di Yasu in quel momento, sapevo che era solito essere molto razionale, ma ora stava esagerando.
“Adesso cosa facciamo, Yassan?”
Chiese Nobu, il batterista rimase un attimo in silenzio.
“Adesso come adesso ci conviene concentrarci sui nostri piani B, non credo che ci sarà un futuro per i Blast.”
“Yasu!”
Esclamò il chitarrista.
“Nobu, per almeno un paio d’anni nessuna casa discografica ci metterà sotto contratto. Nana deve migliorare un po’ o non andremo da nessuna parte, nessuno è disposto a investire soldi su una cantante che non riesce a finire un concerto.”
“Yasu, sei un bastardo.”
L’altro lo ignorò.
“Io mi concentrerò sulla mia carriera da avvocato, voi fate quello che volete.”
“Ti è sempre importato più della tua carriera che della band, perché diavolo ci sei entrato?”
Il pelato non rispose, gli insulti gli scivolavano addosso e la cosa mi infastidiva parecchio, avrei voluto prenderlo per il colletto della camicia e scuoterlo violentemente, fagli sputare di nuovo i suoi veri sentimenti.
Stavo per farlo, ma Misato arrivò con un pacchetto di una decina di lettere.
“Sono lettere dei fan, chiederò all’infermiera di metterle sul comodino di Nana.”
Si accorse del clima teso.
“Va tutto bene?”
“Sì.”
Rispose incerto Shin, non aveva mai visto nessuno litigare con Yasu.
“Ok, allora io vado.”
Ci lasciò da soli, nessuno parlava più, nessuno si muoveva, le pareti sembravano stringersi addosso a noi come un mantello.
Alla fine Nobu scattò in piedi.
“Vado a fare un giro.”
Annunciò.
“Vengo anche io.”
Dissi e insieme lasciammo il corridoio e l’atmosfera carica di tensione e rabbia.
Non ci dicemmo nulla, vagammo per un po’ senza meta e ci ritrovammo su una terrazza, c’era una stellata pazzesca dovuta a un raro cielo limpido a Tokyo.
Nobu chiese una sigaretta a un tipo e se la accese, aspirando la prima boccata per poi tossire, io gli battei gentilmente sulla schiena.
“Non sapevo che tu fumassi.”
“Ho iniziato alle medie per darmi un tono e non sembrare l’erede della pensione Terashima. Odiavo avere un destino già scritto, mi ci sono ribellato con tutte le mie forze, ma sembra sia stato tutto inutile.”
“Non dire così, sono sicura che troverai un lavoro qui a Tokyo.”
Lui sospirò.
“Tutto quello che ha detto Yasu è vero?”
“In che senso?”
“Voi… tu non ne sapevi nulla.”
“No, nulla. Non sapevo che era stato lui a convincere Ren a mollarci né della droga, a dirla tutta sono arrabbiato con lui, ecco perché me ne sono andato. Non volevo spaccargli la faccia.”
Lo abbracciai da dietro.
“Non sei obbligata a confortarmi.”
“Ma voglio.”
Lui diede un’altra boccata alla sigaretta e poi la lanciò via, si girò e mi strinse in un abbraccio muto, sapevamo che era sbagliato ed era come giocare con il fuoco, ma non ci importava.
Ci staccammo leggermente, lui alzò il mio voltò prendendomi delicatamente il mento tra le dita, ci guardammo negli occhi e ci baciammo di nuovo, a lungo.
Rimanemmo così per un po’, poi tornammo dentro mano nella mano, nessuno disse nulla, anche perché in quel momento arrivò il dottore.
“La signorina Osaki sta dormendo, vi consiglio di andare a casa e tornare domani.”
Se avessi saputo cosa mi aspettava mi sarei ribellata a quell’ordine, ma non lo sapevo e in quel momento mi sembrò la cosa migliore da fare anche per Satsuki. Me ne dimenticavo spesso, ma ero quasi all’ottavo mese di gravidanza e non dovevo stressare troppo una creatura che non aveva colpe in quello che stava succedendo.
“Va bene.”
Uscimmo separatamente, io e Nobu salimmo sullo stesso taxi per tornare al comprensorio, ci salutammo nella camera comune e io andai in camera mia. Mi feci una lunga doccia e andai a letto, ma non riuscivo a dormire nonostante fossi stanca.
All’improvviso sentii un leggero bussare e aprii la porta: era Nobu.
“Non riesco a dormire, posso venire da te?”
“Certo.”
Mi feci da parte per lasciarlo passare e chiusi la porta, lui si sdraiò sul mio letto in silenzio. Sembrava anche lui invecchiato di molti anni in un solo giorno, era davvero stanco, il sole si era spento.
Mi sdraiai a mia volta, lui mi abbracciò da dietro e cominciò ad accarezzare la mia pancia enorme.
“Vorrei che fosse mio figlio.”
Rimasi senza fiato per la sorpresa.
“Avrei voluto combattere di più per convincerti a rimanere con me, ma cosa avevo da offrirti?
Un minuscolo monolocale e un futuro incerto, per questo ti ho lasciata andare, Takumi poteva darti molto di più. Ora penso che sia stato tutto sbagliato, se io avessi fatto l’uomo saresti ancora nel giardino di Nana.”
Ci fu un attimo in silenzio.
“Saremmo stati due cagnolini nel giardino di Nana e avremmo potuto darle una mano, lei avrebbe avuto qualcuno accanto per aiutarla a superare la morte di Ren. Sono solo un codardo.”
“No, hai solo fatto quello che mi avevi promesso: fare l’impossibile per rendermi felice e non strapparmi a Takumi con la forza per non far sì che fossi tra l’incudine e il martello.
Sono io quella che ha sbagliato tutto, Nobu.
Sono io quella che ha fatto sesso senza usare le protezioni.
Sono io quella che ha scelto i soldi sopra l’amore.
Sono io che ho lasciato Nana da sola.”
Nobu continuò ad accarezzare la mia pancia.
“Dovrei odiare la personcina che vive qui dentro, ma non ci riesco, le voglio bene persino.”
E questa era la prova che Nobu era migliore di me, lo era sempre stato, un sole che scaldava tutti, ma chi si curava di confortarlo e aiutarlo?
Ero solo una dannata egoista.
Avrei voluto piangere, ma non potevo, ormai stavo per diventare madre e dovevo dimostrarmi forte: i tempi in cui potevo piangere per qualsiasi cosa erano finiti.
Ora dovevo contare solo su me stessa, Takumi non mi avrebbe mai aiutata nel modo in cui avrei voluto, lui pensava che i soldi e qualche momento trascorso con noi a fare il padre indulgente sarebbero bastati a fare di noi una famiglia.
Non funzionava così, lo sapevo, e prima mi fossi resa indipendente sarebbe stato meglio, ecco perché dovevo imparare l’arte della vestizione al più presto.
Mi addormentai di botto, tra le braccia di Nobu, mentre la tempesta infuriava ancora dentro di me.

 

Mi svegliai tardi, erano circa le dieci, ero ancora abbracciata a Nobu.
Non me la sentii di scivolare via come una ladra, quindi lo svegliai scuotendolo piano, lui aprii gli occhi e sorrise. Il mio cuore vacillò, era come essere di nuovo ai tempo in cui stavamo insieme, quel sorriso era l’unica cosa che mi permetteva di iniziare una giornata davvero bene.
“Buongiorno.”
“Buongiorno a te.”
Avremmo dovuto essere a disagio, ma tra noi non c’era alcun imbarazzo.
Il filo del destino mi tirava verso di lui proprio ora che dovevo iniziare la mia vita con Takumi, ma perché pensarci?
Ci facemmo la doccia e ci vestimmo, poi scendemmo nella sala comune: sembrava che ci fosse passato un tornado e qualcuno aveva scritto insulti a me e a Nobu.
“Yuri non sa perdere.”
Disse semplicemente Miu, facendomi sobbalzare.
“A quanto pare no, mi odia ora.”
“Ti odiava già prima, ma non credo che sarà un problema ancora per molto, oggi pomeriggio discuterete con la Shikai corporation e penso che vi butteranno fuori, il che significa che dovrete lasciare questo posto.”
“Capisco.”
Ci sedemmo a fare colazione e poi andammo in ospedale. Nel piano dove era ricoverata Nana c’era una grande confusione, le infermiere correvano dappertutto e i dottori urlavano. Ma che stava succedendo?
Yasu fermò un’infermiera.
“Cosa sta succedendo?”
Le chiese gentilmente.
“E voi chi siete?”
“Siamo amici e parenti della signorina Osaki.”
La donna sbiancò.
“Oh, mio Dio. Devo darvi una notizia terribile: la signorina Osaki è scappata.”
“Come scappata?”
Intervenni io.
“Stamattina all’ora di colazione la mia collega è andata nella sua stanza e lei non c’era più, mancavano i vestiti e c’erano solo delle lettere.”
“Possiamo vederle?”
Domandò Misato, l‘infermiera annuì.
Ricomparve poco dopo con circa una decina di lettere che consegnò a Misato, lei le fece scorrere con aria attenta.
“Ne manca una.”
“Davvero? Quale?”
“Manca quella di Misato Uehara, Yasu.”
La guardai senza capire.
“Le hai scritto una lettere con il tuo pseudonimo.”
“No, Misato Uehara è la sorellina di Nana, la figlia di sua madre e un altro uomo, e le ha scritto un lettera.”
D’improvviso ricordai la ragazzina in divisa fanatica di Nana che avevo incontrato nel negozio di okonomiyaki a Osaka: quella doveva essere la sorella di Nana.
“Perché se l’è portata via? Che le abbia scritto qualcosa di offensivo?”
Shin stava provando a razionalizzare come suo solito e forse era meglio che farsi prendere da panico.
“Beh, non abbiamo tempo per scoprirlo, adesso sta arrivando un dottore.”
Un uomo alto e magro in camice bianco si stava dirigendo verso di noi con aria seria, non era quello del giorno prima.
“Siete i parenti della signorina Osaki?”
Ci chiese con gentilezza.
“Nana non ha parenti, noi siamo i suoi amici ed è come se fossimo la sua famiglia.”
“Capisco, seguitemi.”
Ci fece strada fino a una stanza che doveva usare come studio, ci stavamo quasi stretti.
“Ho analizzato il caso della signorina Osaki e fisicamente risulta sana, ma immagino che lo sappiate già, i suoi problemi sono di natura diversa. Risulta essere stata ricoverata già un’altra volta per malesseri simili qualche mese fa e la diagnosi era stata attacco di panico, corretto?”
“Corretto.”
Rispose Yasu.
“Le è stata consigliata quantomeno una terapia psicologica, a qualcuno di voi risulta che l’abbia fatta?”
“No, Nana era estremamente contraria a questa possibilità.”
“Capisco. Non sono un esperto di gossip, ma la signorina è la cantante di un gruppo che si chiama Black Stones?”
“Sì.”
“Allora era anche la fidanzata di Ren Honjo,il chitarrista morto recentemente?”
“Esatto.”
Il dottore sospirò.
“Ci sono stati altri eventi traumatici nella sua vita recentemente?”
“Visto che non abbiamo terminato il nostro concerto la nostra casa discografica ci scaricherà.”
“Capisco. La signorina è molto stressata e provata, probabilmente il lutto e la pressione per una possibile perdita del lavoro hanno scatenato l’attacco di panico di ieri. Il quale è solo un sintomo, è il quadro generale che mi preoccupa, secondo un mio collega psichiatra c’è un trauma nella vita della paziente che si manifesta di nuovo quando qualcosa di negativo le accade. Un trauma mai superato, probabilmente negato.”
“Venga al dunque, dottore.”
Lo esortò Yasu.
“È solo una mia opinione, ma ho paura che la signorina Osaki se ne sia andata da qui per suicidarsi.”
“È impossibile!”
Urlai io, poi mi ricordai di quella strana conversazione sulla morte che avevo avuto con lei e un brivido mi corse lungo la schiena.
“Hachi, stai calma. Dottore, grazie. Adesso andiamo a cercare Nana.”
Nobu aveva parlato con voce decisa e mi aveva appoggiato una mano sulla spalla, poi tutti eravamo usciti dalla stanza.
Qualche secondo dopo il cellulare della nostra Misato si era messo a squillare, lei aveva risposto e la faccia le era diventata ancora più cupa. Erano in arrivo altre cattive notizie, quella mattinata sembrava un incubo inscenato da Satana, sarebbe mai finita?
“Yasu, dobbiamo andare alla Gaia Records per… Per la rescissione del contratto.”
La voce le tremava e stava per piangere.
“D’accordo, Misato.”
Il batterista si era allontanato insieme a lei ed eravamo rimasti solo in tre: io, Nobu e Shin.
Avevamo tutti un’espressione persa e assente e per un po’ nessuno parlò, sapevamo cosa fare, ma eravamo tutti scossi dagli avvenimenti.
“Stare qui non ci aiuterà.”
Mormorò Nobu.
“Cosa facciamo?”
“Shin, tu e Hachi andate all’appartamento 707, io andrò al comprensorio.”
“Perché non mi mandi da qualche altra parte?”
Protestò Shin.
“Avremmo più possibilità di successo.”
Io annuii.
“Hachi è all’ottavo mese di gravidanza, con tutto questo stress potrebbe sentirsi male da un momento all’altro e se dovesse succedere preferirei che non fosse sola.”
Io e Shin rimanemmo come fulminati.
“Hai ragione, Nobu.”
Ci dividemmo come stabilito, speravamo tutti di trovare qualche indizio se non Nana stessa.
“Mamma, credi che la troveremo?”
“Certo! Nana non ci lascerebbe mai, ha solo avuto paura dell’ospedale.”
Il mio tono era incerto, da una parte volevo crederci con tutto il cuore, dall’altra qualcosa mi diceva che questa volta sarebbe stato diverso. Se Nana si fosse sentita tradita o ferita da qualcosa non aveva alcuna ragione di tornare da noi: Ren era morto e io ero ormai di Takumi.
Prendemmo un taxi e raggiungemmo l’edificio dove si trovava l’appartamento 707, lo pagammo e io guardai preoccupata le rampe di scale, non mi era mai pesato farle, ma quella mattina il mio pancione sembrava pesare cento kili.
“Hachi, tutto bene?”
Mi chiese premuroso Shin.
“Sì, solo le scale mi sembrano così tante.”
Lui si inginocchiò davanti a me.
“Ma che fai? Sono già sposata!”
Lui rise.
“Mannò Hachi, Sali in groppa, ti porto io fino all’appartamento.”
“Ma Shin, peso un sacco ora!”
“Non ti preoccupare, devo diventare un uomo, no?”
 “Okay.”
Salii sulla sua schiena e lentamente arrivammo alla porta dell’appartamento 707, lui mi fece scendere e io – dopo aver frugato nella borsa alla ricerca delle chiavi – aprii la porta.
“Forza, andiamo.”
“Sì.”
Dentro, la mia stanza era vuota come al solito, in quella di Nana sembrava fosse passato un ciclone: tutto era in disordine. Io andai dritta all’armadio e notai subito che mancavano dei vestiti, il che significava…
“Shin, è venuta qui! Mancano dei vestiti e sono abbastanza sicura che non li abbia portati al comprensorio.”
Presi il telefono e chiamai Nobu, lui rispose dopo qualche squillo.
“Hai trovato qualcosa, Nobu?”
Gli chiesi speranzosa.
“No. Nessuno ha visto Nana e ho anche controllato le telecamere, qui non è venuta. Per scrupolo sono passato in camera sua, sembra non manchi nulla. Voi?"
“Crediamo sia venuta qui, è tutto in disordine e mancano dei vestiti.”
“Ottimo, cercate ancora. Magari troveremo qualche indizio.”
“Sì.”
Chiusi la chiamata e insieme a Shin ribaltai la stanza di Nana, non saltò fuori nulla, non aveva lasciato biglietti o un indizio qualsiasi su dove si fosse rifugiata. L’unica cosa degna di interesse era che mancava la sua chiave dell’appartamento, l’avevamo cercata dappertutto, ma non l’avevamo trovata.
Mi sedetti sul letto a pensare e a cercare di dare un senso a quello che era successo.
Nana se ne era andata per qualche ragione sconosciuta, era andata all’appartamento 707, aveva preso qualche vestito – pochi, le piaceva viaggiare leggera –e la chiave, poi se ne era andata lasciandosi indietro tutto, persino la sua chitarra.
Perché l’aveva fatto?
“Secondo te perché Shin?”
Lui si riscosse dai suoi pensieri.
“Per la situazione che si era creata qui oppure deve avere sentito parte o tutta la confessione di Yasu, forse pensa che adesso tutti le nascondano qualcosa.”
Io sospirai, se una cosa del genere fosse successa Nana sarebbe certo fuggita e non avrebbe voluto essere ritrovata, dovevo solo pregare che non fossi così.
Rimanemmo lì fino a che il cellulare di Shin squillò, lui scambiò poche parole e chiuse la chiamata cupo, le cattive notizie sembravano non voler finire mai.
“Cosa è successo?”
“Dobbiamo tornare al comprensorio, la Gaia Record ci ha buttato fuori e dobbiamo sgombrare le nostre stanze.”
Io annuii, per me significava tornare nella mia villa di Shirogane, quella villa vuota che odiavo ormai.
“Cosa farai, Shin?
Ce l’hai un posto dove stare? Se no potresti venire da me?”
“Senza offesa, mamma, ma non mi va di vivere anche con Takumi. Chiederò a Nobu di ospitarmi intanto che decidiamo cosa fare.”
“Va bene.”
Dissi sconsolata.
Ce ne andammo, chiamammo un taxi per andare al dormitorio, nessuno dei due parò.
Io sentivo un freddo dentro che nessun fuoco sarebbe mai riuscito a scaldare e Shin probabilmente stava cercando di pensare al suo futuro. Cosa avrebbe fatto?
Non aveva il diploma liceale e sapeva solo suonare il basso, non aveva molte prospettive e temevo che ricadesse nel giro della prostituzione, non dovevo permettere che accadesse.
Arrivammo alla nostra meta, pagai il tassista ed entrammo, Yuri era sulla porta con una strana espressione di trionfo, nemmeno se cacciare la band fosse stato un torto fatto a me e quindi una specie di vendetta per essere stata lasciata da Nobu. Stupida donna.
Andai dritta in camera mia e cominciai a fare le valigie, non ci volle molto dato che non avevo portato tanta roba, presto mi ritrovai nella sala comune con gli altri. Li abbracciai tutti.
“Shin, mi raccomando! Non fare cavolate.”
Shin.
“Nobu, tieni d’occhio Shin e … stammi bene.”
Nobu.
“Misato, cerca di aiutare Shin.”
Lei annuì, l’unico a cui non dissi nulla fu Yasu perché ero ancora arrabbiata con lui.
Finiti i saluti salii sull’ennesimo taxi, mentre la macchina si allontanava guardavo quell’edificio con profonda nostalgia, nonostante ci avessi vissuto poco dopo conteneva anche bei ricordi, conteneva Nana.
Non la Nana forte che avevo conosciuto e a cui avevo scritto di considerarla il mio eroe, ma la Nana debole e ferita che soffriva per Ren. Era qualcosa che me la rendeva umana e più vicina a me che non facevo altro che fare errori e far soffrire le persone.
Ormai eravamo a Shirogane, vedevo la villa in lontananza, Junko secoli prima mi aveva detto che mi vedeva bene a fare la casalinga benestante. La verità era che quel posto era una prigione, aveva tutti i confort, ma rimaneva lo stesso un luogo di reclusione.
Io volevo la casa sul mare con tanto di terrazza costruita da Nana in cui vivere con lei, Nobu e la mia creatura.
Avevo sbagliato tutto, ma non potevo tornare indietro.

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Capitolo settimo

 

Sai, Hachi…
Non mi sono mai chiesta né avevo mai pensato a come si
fosse sentita mia madre il giorno in cui mi aveva abbandonato.
Credevo che mai sarei diventata come lei, ma mi sbagliavo, la fuga era
nel mio DNA, né più né meno della somiglianza fisica con lei.

 

Il bento non sapeva di molto, ma il consumarlo fuori dall’ospedale mi rendeva felice.
Non avevo mai amato molto gli ospedali e poi lì c’era il mio passato, c’erano le persone che, pur volendomi bene, mi avevano ferita, lì c’erano delle conseguenze da affrontare che io volevo evitare.
Estrassi la lettera di Misato e la rilessi di nuovo.

“Quando una persona che amiamo così tanto ci lascia in modo così improvviso le parole perdono il loro potere e quelle che contano davvero sono quelle che non abbiamo detto.
Io però vorrei provare a esserci, sempre che tu lo voglia.
Casa mia è sempre aperta per te, vieni pure e piangeremo insieme, in fondo alla lettera ci sono l’indirizzo di casa mia, quello del ristorante dei miei genitori e il mio cellulare.
Non so quando riceverai questa lettera, ma può darsi che quando accada io non sia più qui: voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di bene e ti porgo ancora le mie condoglianze.
Sei sempre nei miei pensieri.”

Sorrisi all’ingenuità di mia sorella, al suo essere così buona e candida, dava l’impressione di essere un’anima forte, ma gentile. Volevo conoscerla, magari sarei stata da lei per un po’ e poi avrei cercato un altro posto.
Buttai via il contenitore del bento e mi diressi a un bancomat, prelevai il massimo consentito e poi presi la metro per andare all’appartamento 707, buona parte dei miei vestiti erano ancora lì, come se avessi sempre saputo che le cose non potevano andare bene per sempre.
Una volta arrivata lì, salii i piani di scale e riempii un borsone con il necessario, avrei voluto prendere la mia chitarra, ma mi avrebbe resa riconoscibile e poi era carica di troppi ricordi. Era una delle cose che dovevo lasciare indietro se volevo sopravvivere.
Avrei dovuto lasciare lì la mia chiave dell’appartamento, invece me la infilai in tasca come a dimostrare che non si possono recidere tutti i legami con il passato. Non ci pensai troppo, quella notte il mio cervello era sfasato sull’idea di fuga ed escogitava tutti gli espedienti per non farmi trovare. Non potevo stare nell’appartamento o nella città da dove provenivo, erano entrambi luoghi prevedibili, quindi Okayama sembrava una buona opzione.
Andai in stazione, sentendomi avvolta da uno strano senso di déjà-vu, un anno fa circa ero scesa da un treno carica di sogni. Mi ero lasciata indietro la cittadina in cui ero vissuta per vent’anni, tutte le vicende dolorose della mia famiglia e Ren, pronta a cominciare una nuova vita in città.
Volevo diventare una cantante affermata ed ero proiettata in questo, ora invece cosa ero?
Ero una fallita, una che aveva mandato a puttane i suoi sogni.
La mia band aveva perso ogni possibilità di continuare a suonare per colpa mia, avevo perso Ren e avevo perso Hachi, la mia unica amica. Un anno fa credevo di non avere nulla, ora avevo meno di niente.
Scossi la testa, non volevo pensarci, faceva troppo male, era stato uno degli anni più intensi della mia vita, ma mi aveva bruciata. Ero stata una candela che aveva dondolato per un po’ in una tempesta, ignorando che il mio destino era quello di tutte le candele: spegnersi.
Andai alla biglietteria e comprai un biglietto di sola andata e poi andai al binario ad aspettare che il mio treno arrivasse, mi accesi una sigaretta e ignorai la gente che mi stava attorno. Speravo che il cappuccio alzato e un cappellino da baseball mi aiutassero a farmi passare inosservata, a essere una ragazza come tante.
Un quarto d’ora dopo il treno era arrivato, io avevo obliterato il biglietto ed ero salita, mi ero seduta su un sedile accanto al finestrino, quella sensazione di ritorno al passato non mi abbandonava.
La pallida giornata primaverile diventava a tratti una notte di neve e mi aspettavo da un momento all’altro che Hachi inciampasse e finisse per cadermi addosso per poi raccontarmi la sua vita.
Sospirai.
Non sarebbe successo – e lo sapevo benissimo – ma il mio cervello non lo accettava, andava frenetico dal passato al presente senza soluzione di continuità.
Il treno cominciò a muoversi, uscì dalla stazione e Tokyo iniziava ad allontanarsi metro dopo metro, forse era una città maledetta visto che non aveva portato fortuna né a me né a Ren.
Cullata dai miei pensieri mi addormentai, sognai di nuovo il mio ragazzo che si allontanava da me come durante i primi giorni. C’era solo una piccola variazione, quando arrivavamo nell’acqua e io lo toccavo per farlo voltare i primi giorni mi svegliavo, ora lo vedevo: Ren non aveva più un volto, era solo uno scheletro.
Mi svegliai agitata, ma finii per addormentarmi di nuovo.
Questa volta ero nell’appartamento 707 e c’erano i ragazzi e Hachi, parlavano di me, dicevano che ero scomparsa. Io provai a farmi notare, ma era come se fosse invisibile, nessuno si accorgeva di me, Nobu passò addirittura dentro il mio corpo: ero diventata un fantasma.
Continuai ad alternare i due sogni fino a che arrivai a destinazione, quattro ore dopo, erano circa le sette e mezza del mattino.
Scesi dal treno e mi feci spiegare dove era il ristorante degli Uehara, ci arrivai giusto per vedere Misato che usciva in uniforme e Misuzu sulla soglia che la salutava.
Mi nascosi dietro una macchina, ero stata una stupida a venire lì, come avevo potuto sperare di incontrare mia sorella senza vedere mia madre?
La guardai un attimo, i suoi capelli castani erano tagliati fino alle spalle e mi somigliava, avevamo un volto molto simile e la stessa forma degli occhi.
Sprofondai ancora di più nel mio travestimento e seguii Misato, era una ragazza sorridente, ma aveva un fondo di tristezza negli occhi. Era molto più felice di quanto lo fossi io alla sua età e questo mi ferii un po’, la guardavo chiacchierare con una ragazza dai capelli corti e spettinati e mi resi conto che io non avevo mai avuto un rapporto del genere con le mie compagne di classe. Nobu aveva dovuto stanarmi come un gatto dispettoso prima di riuscire a diventare mio amico.
Erano così le persone che avevano una famiglia che le amava?
Avevano questo scudo che le difendeva dai cattivi pensieri e dalla cupezza? Da cosa era dato?
Dall’amore? Dal sapere che c’erano delle persone che ti guardavano le spalle?
Non avrei saputo dirlo, ma in quel momenti sentii freddo dentro, ero sola al mondo.
Guardai Misato entrare a scuola e sorrisi, le augurai di avere una vita lunga e felice, volevo ancora conoscerla, ma avevo l’impressione che se l’avessi fatto avrei rovinato anche la sua esistenza.
Yasu non era diventato avvocato, Nobu era destinato a tornare alla pensione Terashima, Shin sarebbe caduto di nuovo nel giro della prostituzione, Misato Uehara – la nostra aiuto manager – si era rovinata l’innocenza e in quanto ad Hachi era incinta e sposata a un uomo che non amava.
E tutto perché avevano incontrato me.
Cosa avrei fatto alla mia sorellina se fosse entrata nella mia vita?
Mi voltai e tornai a passi lenti verso la stazione, dove sarei andata ora?
Avevo bisogno di una base per decidere le mie prossime mosse, ma tutti i miei luoghi erano stati cancellati.
Ricordai all’improvviso una bambina che mi somigliava e con cui giocavo a volte nelle mie estati solitarie, era la figlia del fratello di mio nonno. Una cugina in seconda che si chiamava Miyako, l’avevo incontrata una volta a Tokyo prima di andare a vivere nell’appartamento 707. Lei lavorava come segretaria dell’ufficio comunicazioni tra l’ambasciata giapponese e quella americana, viveva nel quartiere diplomatico e si ricordava di me. Mi aveva dato il suo numero di telefono e detto di chiamarla se avessi avuto bisogno di una mano.
Mi sedetti su di una panchina, era passato quasi un anno e probabilmente non si ricordava più di me, ma non avevo altre opzioni. Non sapevo dove andare e lei avrebbe potuto aiutarmi a uscire dal paese, solo all’estero avrei potuto essere libera dal peso della fama.
Sospirando presi in mano il cellulare e chiamai il numero, il telefono squillò a vuoto per un po’, poi mi rispose una voce allegra.
“Pronto, qui è Miyako Osaki! Chi parla?”
“Miyako, io sono Nana Osaki. Ti ricordi di me?”
“Certo che mi ricordo di te! Sei riuscita ad avere fortuna, la tua band è diventata famosa.”
Io sorrisi mio malgrado, contagiata dal suo entusiasmo.
“Già. Ti ricordi che mi avevi detto di chiamarti se avessi avuto bisogno di una mano?
Ora ho bisogno di una mano.”
“Dimmi  pure.”
“Dopo il mio malore al concerto per strada di ieri la casa discografica ha licenziato la mia band, io non ho un posto dove andare perché, per varie vicissitudini, non posso andare dai miei… amici.”
“Capisco. Beh, me le racconterai davanti a una tazza di the, ti ospito volentieri… anche perché anche io ho bisogno di una mano e chi può aiutarmi meglio che una di famiglia?”
“Ti ringrazio.”
“E di che? Chiamami quando sei quasi arrivata, manderò qualcuno a prenderti, farò in modo che sia una cosa discreta, girano strane voci.”
“Del tipo?”
Il mio cuore accelerò i battiti.
“Che sei scomparsa, che ti sei suicidata.
Ho il sospetto che tu non voglia essere trovata, mi sbaglio?”
“No, non ti sbagli. Grazie mille ancora.”
“Nessun problema.”
Chiusi la chiamata, ero metà sollevata e metà agitata.
Sollevata perché presto avrei potuto avere un luogo – per di più protetto dall’immunità diplomatica – per pensare, agitata perché la mia fuga aveva messo in allarme tutti e generato pettegolezzi e chiacchiere di cui non avevo bisogno.
Ma cosa avrei potuto fare arrivata a quel punto?
Scappando dall’ospedale avevo scelto una strada e non potevo tornare indietro, dovevo solo andare aventi e vedere dove mi avrebbe condotta. Non era quello che sognavo, ma ormai non mi importava più, ero così stanca e sfiduciata. Hachi aveva detto una volta che Reira odiava la sua voce, la stessa che da molti era considerata un dono di Dio, io al momento non avevo capito, ma ora era tutto chiaro.
Una voce potente ti spinge su un’unica difficile strada, ti chiude tutte le possibilità, abbandonarla diventa quasi impossibile e finisci per essere schiacciata dai tuoi stessi sogni.
Beh, io ero riuscita a scappare e dovevo considerarmi fortunata a modo mio.
Tornai in stazione e acquistai un biglietto per Tokyo, era la seconda volta in un giorno in cui salivo su di un treno. Lo aspettai paziente e quando arrivò vi salii, non ebbi incubi. A pochi chilometri dalla capitale chiamai Miyako e le dissi dove ero, lei mi dissi che qualcuno sarebbe venuto a prendermi fuori dalla stazione, io la ringraziai.
Un quarto d’ora dopo il treno rallentava entrando nella stazione, io raccolsi il mio borsone sospirando: volevo allontanarmi da Tokyo, ma sembrava che avessi addosso un elastico che mi rimportava al punto di partenza se mi allontanavo troppo. Dovevo tagliarlo.
Scesi dal treno e uscii dalla stazione sospinta dalla massa dei pendolari, nel parcheggio c’era una macchina scura con un uomo appoggiato ad essa. Mi fece in segno discreto, io lo raggiunsi e mi sorrise.
“La signorina Osaki?”
“Sono io.”
“Somiglia alla nostra signorina Osaki.”
“Siamo cugine.”
Risposi con voce incolore.
Chissà come sarebbe stato questo incontro?
Baci e abbracci o fredda cortesia?
A parte la chiamata di poche ore prime, l’unico ricordo che avevo di Miyako era quello di una bambina sorridente dai lunghi capelli neri che indossava tutti i vestitini allegri e femminili che a me erano stati vietati.
Il quartiere delle ambasciate era un luogo tranquillo, c’erano dei bei palazzi con enormi giardini protetti da muri e cancellate che gridavano al mondo il bisogno di privacy. Mi chiesi se anche Miyako vivesse in un casa del genere, erano persino più grandi dell’appartamento di Ren o di quella di Hachi a Shirogane.
La casa si fermò davanti a un’elegante palazzina, che era un condominio notai con un certo sollievo.
“La signorina Miyako abita all’ultimo piano.”
“Sì, grazie.”
Presi il mio borsone e suonai il campanello, poco dopo sentii il sistema d’allarme disinserirsi e la porta aprirsi, dentro c’era un enorme atrio con un gabbiotto di vetro per il portiere, una scala che saliva a chioccola in una curva raffinata sottolineata dalle  ringhiere in ferro sinuose e un ascensore retrò.
Mi avviai verso quello, era in stile liberty con una porta in ferro battuto che si aprì quando schiacciai il pulsante. Dentro digitai il pulsante dell’ultimo piano e quando ci arrivai notai che l’appartamento di Miyako era il numero 7, sorrisi e suonai il campanello.
Aspettai e qualche istate dopo lei arrivò ad aprirmi con lunghi capelli e lisci capelli rossi, divisi da una scriminatura centrale, indossava una maglia dei Black Stones e i pantaloni di una tuta, aveva anche un sacco di buchi alle orecchie per essere una che lavorava nella diplomazia.
“Ciao, Nana!
Vieni, entra!”
Mi trascinò dentro insieme al mio borsone, sembrava di buon umore, aveva una sorriso che le illuminava il volto.
“Ciao, Miyako. Scusami se ti sono piombata in casa così all’improvviso.”
“Non c’è alcun problema, mi stavo annoiando.
Vuoi del the? Del caffè?”
Volevo una birra, ma era decisamente troppo presto.
“Del the va bene.”
“Ok.”
Sempre sorridendo sparì in cucina, non capivo il suo atteggiamento, ma almeno non era ostile.
Sembrava quasi di essere davvero in famiglia, da bambina le stavo simpatica anche se i suoi genitori non volevano giocasse con me: io ero la rinnegata.
Figlia di una madre che era scappata di casa a diciotto anni, che aveva iniziato un amore illecito, era rimasta incinta e aveva abbandonato la propria prole.
Credo temessero tutti che avessi il DNA della troia, ecco perché dovevo sopportare tante privazioni ed era meglio che non si giocasse con me, potevo essere contagiosa per quel che ne sapevano loro.
Miyako tornò con due tazze di the verde e le depose sul tavolo.
“Sono stata davvero felice quando la tua band è diventata famosa, probabilmente sei l’unica nella famiglia Osaki che abbia fatto qualcosa di interessante.”
“Credo sia perché non ho mai davvero fatto parte della famiglia.”
Lei non disse nulla per un po’.
“Probabilmente hai ragione, mia madre si arrabbiava molto quando giocavo con te, non capivo il perché, ma adesso lo so. Sono come tua madre, ma non parliamo di me.
Cosa ti è successo?
Come mai sei qui?”
Bevvi un sorso del mio the, ottimo anche, e cominciai a raccontare tutto, dal principio. Da quando Ren se ne era andato a Tokyo per seguire i suoi sogni lasciandomi indietro, alla notte in cui anche io ero salita su di un treno per lo stesso motivo. Le raccontai tutto quello che era successo in un anno folle: Hachi, ritrovare Ren, la gravidanza della mia amica, il mio quasi matrimonio, la morte dell’unico uomo che io avessi mai amato e tutto il resto.
Miyako mi ascoltava in silenzio, senza interrompermi e con lo sguardo attento, ogni tanto un brillio di emozione faceva capolino in quegli occhi così simili ai miei, ma non voleva che io perdessi il filo.
Dopo quelle che parvero ore tacqui e la guardai, era innegabilmente triste e mi dispiacque per lei che si era fatta carico di una fallita come me.
“Nana, mi dispiace.
Vieni da un anno durissimo, capisco perché tu voglia scappare. Rimani pure quanto vuoi, se vorrai andare all’estero ti aiuterò volentieri. L’unica cosa che non capisco è perché tu voglia escludere i tuoi amici.”
“Sono davvero miei amici?
E se lo fossero, sono una presenza utile nella loro vita o l’ennesima grana di cui occuparsi?
Non voglio essere una grana.”
“Capisco, forse con il tempo cambierai idea.”
Sparecchiò e lavò le tazze.
“Miyako?”
“Sì?”
“Cosa significa che sei come mia madre?”
Lei si toccò la pancia.
“Sono incinta, il padre del bambino è sposato e non lo riconoscerà mai.
Mi ha detto che lo manterrà, ma non vuole incontrarlo o incontrarla.”
“Di quanto?”
“Due mesi.”
“Hai mai pensato all’aborto?”
Lei mi guardò scandalizzata.
“No! Amo questa piccola vita!”
Anche lei!
E io ancora non capivo, come potevano desiderare e persino amare qualcosa che era un ostacolo per la loro vita futura? Perché io non avevo un istinto materno?
Perché per me avere un figlio era un’idea più spaventosa del morire stesso?
Avere figli era una cosa naturale, perché io non la concepivo come tale, ma come una minaccia?
In ultima analisi era stata quella la cosa che mi aveva allontanata di più da Ren dopo i Trapnest, lui mi aveva sempre detto di volere dei figli, ma io gli avevo opposto un rifiuto granitico, avevo continuato a prendere la pillola fino alla fine.
Come sarebbe la mia vita ora se avessi avuto un figlio da lui?
Vorrei ancora scappare o avrei una ragione per rimanere e andare avanti?
Mi toccai il mio ventre vuoto e scossi la testa, ormai le cose erano andate come erano andate e non c’era motivo di torturarsi sull’ennesimo “se” della mia vita. “Se” era la particella che più odiavo, implicava possibilità di futuri migliori del presente in cui ero condannata, ma erano impossibili da raggiungere.
Se avessi accettato di avere un figlio da Ren, se lui non se ne fosse andato, se Hachi non fosse rimasta incinta, se Nobu avesse combattuto di più per lei, se qualcuno mi avesse detto della tossicodipendenza di Ren, se Reira non fosse scappata, se mia madre non mi avesse abbandonata…
Se, se, se e ancora se.
“Hai l’aria stanca, vuoi riposare?”
Mi chiese Miyako.
“Sì, grazie.”
Mi accompagnò in una stanza grande più o meno come la mia nell’appartamento 707 e mi indicò letto, armadio e dove fosse il bagno.
“Grazie, Miyako. Credo che farò una doccia e dormirò.”
“Va bene, qualsiasi cosa ti serva io sono di là.”
Annuii e tirai fuori il necessario per la doccia dal borsone e mi infilai in bagno: era bianco, con una bella doccia e una grande vasca da bagno. La accarezzai distratta, pensando a quella con le zampe di leone dell’appartamento 707.
Alla fine feci una lunga doccia che mi aiutò a togliermi un po’ della stanchezza dovuta ai due viaggi in treno e a una fuga dall’ospedale.
Chissà se qualcuno mi stava cercando a quest’ora?
Riuscivo a percepire nettamente Hachi e Nobu smuovere montagne per me, ma non Yasu e Shin, non più. Yasu non era più la persona che credevo di conoscere e Shin non sembrava felice di avermi attorno nell’ultimo periodo. Doveva essersi stancato anche lui del mio carattere da psicopatica o forse qualcuno gli aveva detto come ero stata rapida a decidere di sostituirlo con Ren al primo problema.
Scossi la testa, avevo finito di asciugarmi i capelli, quindi mi buttai a letto, cercando di non pensare e di non ricordare. Avevo intrapreso questa strada da sola e da sola dovevo percorrerla, avevo trascinato con me troppe persone nei miei casini.
Dove potevo andare?
Questo fu l’ultimo pensiero che ebbi prima di cadere in un sonno senza sogni, nero e spesso che mi avvolse come una coperta e tenne lontano incubi e ricordi.
Dovevo essere allo stremo delle forze fisiche e mentali se il mio inconscio veniva così violentemente espulso dal posto che gli competeva.
Mi svegliai che era pomeriggio inoltrato, la luce proiettava ombre lunghe nella stanza.
Mi ci volle qualche secondo per capire dove ero e come ci fossi finita, il mio cervello stava già iniziando a liquefare i ricordi del giorno prima in una nebbia indistinta che mi lasciava disorientata.
Mi alzai, indossai qualcosa di comodo e andai in salotto, Miyako stava lavorando sul suo portatile: le dita correvano leggere e veloci sui tasti. Ne rimasi affascinata, io a stento sapevo usare il cellulare e mandare messaggi prima che finisse l’anno corrente.
“Oh! Ciao, Nana!”
“Ciao, Miyako.”
“Come ti senti?”
“Non lo so.”
Risposi sincera, era tutto così strano che non riuscivo a elaborarlo come i primi giorni dopo la morte di Ren.
C’è una parte in me restia ad accettare tragedie e cambiamenti, una piccola bambina sperduta con un orso di peluche in mano, la stessa che venne abbandonata da sua madre a quattro anni.
“Nana, sei sicura che sia la cosa giusta?”
“Se io tornassi adesso verrei di nuovo coccolata da tutti, ma per loro sarei un peso, le nostre vite prenderanno direzioni differenti. I Blast sono morti, io li ho uccisi.”
Lei sembrò voler dire qualcosa, ma poi tacque.
“Un po’ ti invidio, hai sempre avuto questa forza, anche da piccola.
Non te fregava nulla di quello che pensavano gli altri, inclusa la nostra famiglia e sei sempre andata avanti, io invece ho paura.”
“Paura?”
Si toccò il ventre.
“I miei genitori mi hanno cacciata, è come se fossi morta per loro perché ho infranto il loro codice. La mia vita era già programmata, avrei lavorato qui – nel settore della diplomazia – fino a che loro non avrebbero trovato un uomo ricco e prestigioso con cui mi sarei sposata e avrei avuto dei figli.
Ora invece sono incinta di un uomo che non potrò mai sposare e ho una paura folle, non so che futuro potrò assicurare a me e a questa vita. Ecco perché vorrei avere il tuo coraggio.”
I genitori di Miyako erano così diversi da quelli di Hachi che me ne stupii, data la mia ignoranza in campo familiare pensavo che fossero tutti uguali. Era una conclusione ingenua, in fondo la mia famiglia era stata tremenda con me e con mia madre.
“Senti, starò con te fino a che avrai partorito. Ti va?”
“Sì, ci sto. Grazie, Nana.
Ma cosa farai dopo?”
“Non lo so, vorrei lasciare il Giappone perché sono stanca dei giornalisti, ma non ho ancora deciso dove andare, ci penserò in questi mesi.”
“Capisco.”
“Io volevo solo una cosa: cantare.
Pensavo fosse una benedizione, l’unica che gli dei mi avessero concesso in questa vita, ma i realtà era una maledizione. Si è portata via tutto ciò a cui tenevo, vorrei essere come Reira che si rifiuta di cantare, ma io voglio continuare a farlo e questo egoismo mi fa soffrire.
È come se fossi sopra una pila di cadaveri dei mie amici e me ne fregassi di loro.
Ho sempre cordialmente detestato Reira, pur ammirandola dal punto di vista professionale, credevo di essere migliore di lei, ma mi sbagliavo.
Pur essendo infantile e egoista è migliore di me.”
“Io credo che ti giudichi con troppa durezza.”
Io scossi la testa.
In un angolo della stanza c’erano Ren e mia nonna, entrambi mi guardavano con disapprovazione, i loro occhi erano freddi e ora capivo perché.
Io non onoravo i morti, andavo semplicemente avanti ignorando la loro esistenza e ora erano entrambi a ricordamelo e sapevo che ci sarebbero sempre stati.
Non importa dove fossi andata, in ogni angolo di qualsiasi stanza in cui sarei stata loro sarebbero sempre stati lì.
I morti se non li onori ti uccidono, ecco perché preghiamo per loro.

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Capitolo ottavo

 

Sai, Nana...
la prima volta che ti vidi su uno di quei palchi improvvisati nelle
vie centrali di Tokyo dopo il mio trasferimento da Takumi, mi chiesi cosa
ci fosse di diverso tra il realizzare un sogno e trovare la felicità.
Ora lo so. Succede quando ottieni quello che vuoi, ma non
quello di cui hai veramente bisogno. Io non avevo bisogno di
Takumi, avevo sempre avuto bisogno dei Blast.

 

Era passata una settimana dalla scomparsa di Nana.
I ragazzi si erano divisi, Shin e Yasu la cercavano a Tokyo insieme a Shion e a Miu, Nobu era tornato nel loro paese natale per vedere se fosse lì. Aveva chiamato dicendo che l’appartamento di Nana e Ren non era stato aperto, non era passata per la pensione Terashima, dalla casa di sua nonna o nell’alloggio dove abitava prima di vivere con Ren.
In generale, a Mori, nessuno ricordava di averla vista, il che significava che non era passata da lì o se l’aveva fatto non si era trattenuta a lungo, di solito nei paesi piccoli le facce nuove o che ritornano vengono notate.
Non sapere dove fosse Nana mi faceva stare male, era come se mi mancasse la terra sotto i piedi.
In passato era già successo che fossimo divise, ma sapevo sempre dove trovarla: ai concerti, all’appartamento 707, da Ren o nel comprensorio.
Ora era tutto diverso, non sapevo dove immaginarmela, la sua decisione aveva cancellato tutto come fa un’onda con i castelli di sabbia dei bambini. Perché se ne era andata?
Perché non mi aveva lasciato nemmeno il più minimo indizio?
Perché non mi aveva portata con sé?
Questo era un pensiero egoista, stavo per partorire e pensavo a scappare come una ragazzina, era ironicamente terribile. Tutto lo era.
Nana aveva sofferto tutta la vita per colpa di una persona scomparsa e ora ci stava infliggendo lo stesso tormento. Non riuscivo a credere che lo avesse fatto, mi aspettavo di rivederla presto, perché non potevo accettare che lei diventasse la mia persona scomparsa, all’epoca lei era ancora il mio eroe.
Un po’ ferito e coperto di polvere, ma pur sempre il mio eroe, non potevo avere riposto la mia fiducia nella persona sbagliata. Dovevo credere in lei come avevo sempre fatto.
Il campanello suonò all’improvviso, io mi alzai abbandonando la rivista che facevo finta di leggere e corsi alla porta con il cuore leggero.
Era lei, era tornata!
Aprii la porta e il mio cuore tremò per la delusione: davanti a me c’era Takumi.
Cosa ci faceva lui qui? Non era da Reira?
“Ciao.”
Gli dissi incerta.
“Non mi inviti a entrare?”
“Ma certo! Vieni, questa è casa tua dopotutto.
Vuoi che ti prepari un caffè o magari un bagno? Sarai stanco!”
Lo stavo investendo con un fiume di parole per mascherare la delusione e l’irritazione che provavo nel vederlo.
“Nana! Siediti, dobbiamo parlare.”
Il tono era insolitamente duro, anche per uno come lui, mi domandai cosa diavolo fosse successo.
“Okay.”
Mi sedetti sul divano con le mani in grembo nervosa, lui rimase in piedi impassibile.
“Reira è incinta di quattro mesi, è un maschio e, date le circostanze, non le è legalmente possibile abortire.”
Io stavo per dire qualcosa, ma lui fece cenno di tacere.
“Io sono il padre e lo riconoscerò, crescerà qui con Satsuki.”
Mi sentii venir meno, avevo sempre saputo che c’era un rapporto speciale tra Reira e Takumi, ma tutti mi avevano sempre detto che erano come fratello e sorella, o almeno secondo il punto di vista di mio marito. Ora scoprivo che non era così, che mentre io mandavo avanti la gravidanza che mi aveva rovinato la vita, lui si scopava la sua sorellina. La rabbia prese possesso di me e mi alzai di scatto, volevo andarmene da quella casa costruita sulle menzogne: dai miei, da Nobu, qualsiasi posto mi andava bene tranne che con Takumi.
Corsi in camera e cominciai a infilare delle cose a caso in un borsone cercando di tenere a bada le lacrime, non volevo che lui mi vedesse piangere, ci sarebbe stato del tempo dopo per farlo.
Quando finii Takumi allungò un braccio per sbarrarmi la strada.
“Cosa vuoi fare?”
“Non è ovvio? Me ne vado!
Questo matrimonio è sempre stato una farsa e non so nemmeno perché l’ho cominciata!”
“Te lo dico io, ami i soldi, Nana. Non vuoi fare la vita da pezzente, non l’hai mai voluta.
E poi dove pensi di andare?
Dai tuoi genitori per spezzare loro il cuore?
Da Nobu che non ha più nemmeno un soldo e non sa cosa fare delle sua vita?
O magari da Nana?
La stessa Nana che ti ha lasciato indietro come spazzatura inutile.
Tu hai solo me, tu non puoi stare con nessun altro che con me.”
Avrei voluto urlare che non era vero, che qualcuno avrei trovato, ma un dolore lancinante alla pancia mi fece crollare a terra. Mi contorcevo per il dolore e persi la concezione del tempo, qualcuno arrivò – paramedici – e mi caricò su di un’ambulanza.
Persi i sensi, al mio risveglio ero in ospedale.
Un’infermiera arrivò poco dopo con aria preoccupata.
“Signora Ichinose, come si sente?”
“Sono stanca, cosa è successo?”
“Ha rischiato di perdere la bambina, sospettiamo che un qualche shock abbia indotto a un parto prima del tempo. Adesso comunque state bene entrambe, solo che da adesso al momento del parto fissato lei dovrà trascorrere il suo tempo a letto.”
“La mia è diventata una gravidanza a rischio?”
“Sì. Vuole vedere suo marito?
La aspetta qui fuori.”
“Gli dica di andare a casa o meglio che se ne torni in Hokkaido e non si faccia più vedere.”
Risposi secca con la rabbia che mi pulsava in corpo, l’infermiera se ne accorse.
“Non faccia così, emozioni del genere non fanno bene alla bambina.
Allontanerò suo marito e tra poco le darò qualcosa per calmarsi e farla dormire.”
“Va bene, ma non fatemelo vedere.”
Ringhiai, non ero mai stata così arrabbiata in vita mia.
Mi ero sempre considerata una persona gentile, ma Takumi aveva scatenato il mio demone personale e ne avrebbe pagato le conseguenze, non gli avrei reso la vita facile dato che lui aveva reso la mia un inferno.
Rimasi ricoverata per tre giorni, poi venni dimessa e tornai alla villa con Takumi, non ci parlavamo.
Arrivati a casa mi misi a letto, Miu mi aveva portato un libro sull’arte della vestizione e cominciai a leggerlo: era molto interessante.
Ero prigioniera, non potevo alzarmi dal letto e dovevo vivere con lui, questo mi avrebbe reso felice qualche mese prima ora invece mi irritava e basta.
Non facevo altro che urlare, ben sapendo che non mi faceva per niente bene, mi sentivo in colpa verso Satsuki, ma non abbastanza da trattenermi.
Una settimana dopo il mio ricovero venne a trovarmi Shin, ero felice.
“Shin, come stai?”
Gli chiesi premurosa.
“Io sto bene, ma tu, mamma?
Cosa ti è successo?”
“Nulla, non ti preoccupare. Avete trovato qualche traccia di Nana?”
Non volevo dire a nessuno della gravidanza di Reira e del fatto che avrei dovuto accettare quel bambino come mio, soprattutto a Shin che l’aveva amata.
“No, nessuna. Sembra sparita dalla faccia della Terra.”
Mi portai le mani davanti alla bocca, pensando immediatamente al suicidio e al suo desiderio di raggiungere Ren.
“Stai calma, Hachi. Non trovarla non significa che sia morta, non ci pensare nemmeno nelle tue condizioni.”
“Ma se fosse davvero così?”
Mi fissò con i suoi occhi castano chiaro, ipnotici.
“Se fossi così lo sapremmo, il suo corpo sarebbe stato ritrovato.
Finché non trovano il corpo di Nana c’è speranza.”
Io annuii, rincuorata.
Shin aveva ragione, anche se si fosse uccisa in mare prima o poi il suo corpo ci sarebbe stato restituito.
Parlammo ancora un po’ del suo futuro, a quanto pare Misato Tsuzuki aveva deciso di aiutarlo ed era convinta che lui potesse farcela come attore. A lui andava bene, un po’gli dispiaceva non suonare più, ma in qualche modo doveva campare e sapeva di non avere molte chance con il solo diploma di scuola media.
Non aveva alcuna intenzione di tornare a prostituirsi, non aveva più la promessa fatta a Nana a trattenerlo, ma Shin adesso aveva un po’di amore per sé stesso perché sentiva di avere intorno una famiglia.
Era una famiglia strana e disastrata, ma gli dava la forza necessaria per non cedere.
“Mamma, cosa è successo?”
“Cosa intendi dire?”
“Deve essere successo qualcosa tra te e Takumi, sei stata così male da andare in ospedale e adesso non vi parlate.”
“Non è nulla di che.”
“Hachi, dimmelo. Per favore.”
Io abbassai gli occhi.
“Shin…”
“Mamma, voglio saperlo.”
“Non hai pensato che per te sarebbe meglio non saperlo affatto?”
“Se quell’uomo ti ha fatto soffrire lo voglio sapere, sono l’unico che può proteggerti ora come ora.”
Scoppiai in lacrime, erano giorni che quel segreto mi logorava e avevo bisogno di parlarne con qualcuno.
La verità era quella, io non potevo vivere con dei segreti come faceva Nana, eravamo fatte di materiali diversi.
“Reira è incinta.”
Ansimai.
“Il bambino è di Takumi, lui lo riconoscerà e poi lo farà venire a vivere con noi.”
Proseguii tra i singhiozzi, Shin si alzò in piedi di scatto.
Poco dopo sentii delle urla provenire dal piano di sotto, mi alzai e raggiunsi le scale: anche senza scenderle, lì la conversazione si sentiva benissimo.
“Ma come hai usato fare questo a Hachi?
Usarla per crescere i tuoi bastardi, non è un animale da usare a tuo piacimento.
Mi fai schifo!”
“Zitto, ti sto facendo un favore!”
Urlò Takumi.
“Un favore? E che favore?
Trattare di merda l’unica persona che mi abbia mai trattato bene senza secondi fini?”
“Coglione, il figlio è tuo!
Io lo riconosco solo per non mettere nei casini tu e Reira. Pensaci, tu sei minorenne e lei potrebbe finire in carcere. Mi hanno detto che vuoi provare a fare l’attore, se io non riconoscessi il bastardo come mio la tua carriera finirebbe quando la stampa saprà che è tuo. E credimi, ci metterà poco, sanno già della tua storia con Reira.”
Shin rimase in silenzio, poi sentii una porta sbattere, doveva essere quella d’ingresso.
Shin se n’era andato, io mi trascinai a letto di nuovo.
Ero svuotata da qualsiasi energia, il figlio non era di Takumi, ma questo non mi rendeva le cose più facili, anzi mi sentivo sempre più prigioniera in una rete di giochi che non era la mia.
Io volevo solo sposarmi ed essere felice.
Avevo avuto quello che volevo, ma si era rivelato essere quello di cui non avevo bisogno.
Scoppiai a piangere fino a che non mi addormentai.

 

Il mattino dopo era sereno e luminoso.
Probabilmente i ciliegi erano in fiore ed era la giornata giusta per andarli a vedere, io ero confinata a letto dalla mia condizione. Ci sarei dovuta rimanere per altre tre settimane, probabilmente sarei impazzita prima visto i pensieri contradditori che si agitavano in me.
Ero felice di stare per conoscere Satsuki, allo stesso tempo la odiavo, ero felice che dopotutto il figlio di Reira non fosse di Takumi e allo stesso tempo li odiavo tutti e due. La vecchia Hachi sembrava essere sparita, senza Nana non ero me stessa.
Ovviamente non c’erano notizie e presto ognuno avrebbe dovuto tornare alla sua vita, sarebbero andati avanti, io invece restavo indietro con due marmocchi da crescere.
Qualcuno bussò alla porta ed entrò: Reira.
Era molto più magra dell’ultima volta che l’avevo vista, la pancia si vedeva a malapena, i capelli erano poco curati e gli occhi erano spiritati. Soffriva come una donna sul rogo e una parte di me ne godeva immensamente.
“Che ci fai qui?”
Le chiesi poco gentilmente.
“Nana, ne ho parlato con Takumi, ma lui non mi vuole dare retta.
Potreste adottare il mio bambino?”
Non credevo alle mie orecchie, era così egoista da non accettare di affrontare le conseguenze delle sue azioni?
Shin non si meritava una donna simile nella sua vita, ero felice che si fossero lasciati.
“No. Il bambino è tuo, Takumi mi ha già imposto di crescerlo, non accetterò altre condizioni.
Se non volevi una gravidanza avresti dovuto stare più attenta prima, adesso non puoi fare finta che non sia successo nulla. Quanto vorrai esserci nella vita di questo bambino lo deciderai tu, ma io non ti posso e non ti voglio sostituire.”
"Ma Nana, io non…”
“Basta con questo io! Non capisci che a causa di questo tuo atteggiamento ferisci tutti quelli che ti circondano? Takumi, Shin, Ren!
Invece di piangere perché una certa cosa è andata così cerca di prevenirla!
Sono stufa di te, vattene!
La mia gravidanza è a rischio e non posso permettermi emozioni forti.”
Lei si allontanò dal mio letto.
“Tu mi odi, Nana?”
“Sì, ti odio. Adesso te ne puoi andare?”
Lei abbassò la testa e uscì dalla stanza, in quanto a me cercai di calmarmi.
Avevo i pugni stretti, il mio respiro era accelerato e mi sembrava che il cuore mi stesse scoppiando in corpo.
Mi sembrava di essere precipitata in un incubo da cui non riuscivo a svegliarmi, mi dibattevo e basta, ero senza pace. Sul rogo ci ero finita anche io, qualcuno doveva spegnere quell’incendio.
Ma chi?
Takumi che lo aveva acceso?
Nobu che avevo allontanato per il mio egoismo?
Shin che in quel momento soffriva quanto me?
Nana che se ne era andata?
Mi ero detta che dovevo diventare forte, ma non pensavo fosse così difficile, sembrava che l’universo cospirasse contro di me per mantenermi debole.
Finalmente il mio respiro tornò regolare e ripresi a leggere il libro sulla vestizione, quel mestiere doveva diventare il mio futuro perché non volevo più essere totalmente dipendente da mio marito.
Non mi ero mai impegnata troppo nei miei lavori precedenti, ora dovevo cambiare questo atteggiamento, volevo tenermi aperta una via di fuga. In caso le cose fossero andate troppo male con Takumi volevo essere in grado di mantenere me e mia figlia da sola e di poter divorziare.
Quel pomeriggio venne a trovarmi Shin, sembrava più magro e smarrito, da dopo la morte di Ren era la prima volta che lo vedevo per quel che era: un adolescente in difficoltà.
“Ciao.”
Mi disse sedendosi sulla sedia accanto al letto.
“Come stai?”
“Sono arrabbiata e non posso esserlo.”
“Mi dispiace.”
Dicemmo insieme.
Solitamente quando si verifica una cosa del genere le persone ridono, noi non avevamo motivo per farlo, la situazione non era divertente. Lui si scusava di avere messo incinta Reira e io di avergli messo questo peso sulle spalle.
“Non è colpa tua.”
Mormorai infine.
“No? Avrei dovuto capire che non ne sarebbe venuto di buono, innamorarsi di una cliente non è mai una buona idea. Credo che innamorarsi in generale non sia una buona idea.”
“Shin, non è colpa tua. È colpa di Reira che ti ha usato per non pensare al suo amore per Takumi, è lei che ti ha messo in una situazione incasinata, è lei che è stata egoista.
E l’amore è una buona idea.”
“Sì? E tu sei felice?”
Sospirai.
“Io non sono felice perché non ho amore, io e Takumi ci siamo sposati per interesse.”
Rimasi un attimo in silenzio.
“Ti ricordi come era quando io e Nobu stavamo insieme?
Come eravamo noi?”
Lui corrugò le sopracciglia.
“Lui sembrava al settimo cielo, aveva un sacco di energia, sorrideva sempre ed era ottimista, sembrava pronto a rubare la luna per te. Tu invece sorridevi sempre, era come se ti avessero acceso una luce dentro.
Quando eravate insieme eravate quasi sincronizzati.”
“Esatto, questo è l’amore, Shin.
Questo è quello che devi cercare e – quando lo trovi – non lo devi mai lasciare andare.
Impara qualcosa da noi, per favore.”
Lui annuì non del tutto convinto.
“Non mi odi quindi?”
“Come potrei? Sei mio figlio, no?
Ci siamo scelti a vicenda e non rimpiango nulla.”
“Hachi, sei la persona più generosa e gentile che io abbia mai incontrato in vita mia, ti voglio bene, davvero.”
“Anche io te ne voglio.”
Ci abbracciamo stretti, cercavamo di trovare calore e conforto uno nell’altro per sopportare la vita che ci trovavamo a vivere.
“Takumi non ti merita, perché non torni da Nobu?”
“Devo pensare al bene di Satsuki e poi voglio trovare Nana prima, senza contare che non ho idea se Nobu mi rivoglia o meno nella sua vita. Io l’ho ferito.”
“Ma lui ti ama.”
“Anche io lo amo, ma non è facile. Non è così facile.”
Stavo per piangere e lui se ne accorse, mi cullò piano come una bambina.
Ecco perché avevo bisogno dei Blast e mi mancavano: Shin era il mio adorato figlio adottivo, Nobu il mio amore, Nana l’amica che è come una sorella, quella che non ti molla mai ed è sempre al tuo fianco e Yasu il padre saggio.
Perché li avevo persi lungo la via?
La mia seconda famiglia mi mancava da morire.
“Va tutto bene, Hachi.
Se è destino che voi stiate insieme la vita troverà le sue vie, non piangere.”
“È che sono così stanca, Shin.
Ho scelto io questa via, ma mi sembra così difficile da percorrere.”
“Va tutto bene, io sono sempre dalla tua parte, ricordatelo.
È solo grazie a te e ai ragazzi che ho imparato a volermi un po’ bene e ad accettarmi.”
“Grazie, Shin, grazie.”
Continuò a cullarmi fino a che non se ne andò, aveva un casting.
“Buona fortuna, Shin.
So che ce la puoi fare.”
Lui mi sorrise e uscì dalla mia stanza, ero di nuovo da sola, ma mi sentivo meglio.
Ripensai a una serata d’estate in cui avrebbero esserci dei fuochi d’artificio e invece c’era stato un tifone, a quando era finito e a come un gruppetto di ragazzi si era poi divertito con i fuochi del supermarket mezzi bagnati.
Ora io ero nel tifone, dovevo solo aspettare che finisse per poi avere la mia parte di felicità, quando Satsuki sarebbe stata abbastanza grande da capire un divorzio e Nana sarebbe stata di nuovo al mio fianco. Non sapevo se Nobu vi avrebbe aspettata per tutto quel tempo, ma lo speravo.
Anche quella sera Takumi si fermò a cena da noi, normalmente era un fastidio e anche in quella occasione lo era, ma avevo qualcosa da dirgli.
“Takumi…”
Esordii con la mia voce più fredda.
“Sì?”
“Di’a Reira di non venire più da me, io non posso fare nulla per lei.”
“Reira è venuta qui?”
Sembrava davvero sorpreso.
“Sì, mi ha chiesto di adottare suo figlio e ho rifiutato. Dille di non venire più:”
“Va bene, glielo dirò. Però forse…”
“Dovrei considerare la sua idea? No.
Lo so che non è tuo figlio, ma non ho intenzione di sollevarla dalla responsabilità che comporta diventare madre.”
“Non pensi di essere troppo dura con lei?
In fondo è solo una bambina.”
“Ha ventitré anni, non è più una bambina. Deve imparare a prendersi le conseguenze delle sue azioni.”
Lui fece per dire qualcosa, ma poi tacque.
Fu una buona idea perché se avessi iniziato a parlare non sarei stata in grado di smettere di insultarlo, ero arrabbiata con lui e con me stessa, forse il peggior tipo di rabbia.
Non volevo riprendere a recitare il mantra dei se, non di nuovo o sarei impazzita, il mio sogno si era trasformato in un incubo e mi stava schiacciando.
Finita la  cena uscii in giardino e mi sedetti su una panchina, quella notte c’era una stellata splendida, di come non avevo mai visto a Tokyo, quasi un tentativo dell’universo di consolarmi.
Guardai le stelle a lungo, lasciando che la loro luce mi riempisse, poi pregai Ren, gli chiesi la forza per andare avanti. Un stella brillò e sembrò rispondere alla mia preghiera.
Mi chiesi se anche Nana le stesse guardando, se anche lei ne fosse rimasta incantata o se il suo sguardo era ostinatamente puntato a terra, perso nell’oscurità.
Io non ero stata in grada di proteggerla, mi scusai con Ren piangendo.
Le mie emozioni erano instabili, un momento ero arrabbiata da morire, quello dopo ero triste e senza speranza.
Il vento si alzò, era caldo per una sera d’aprile, accarezzò un po’ il ciliegio che avevamo in giardino e si portò via alcuni dei suoi petali facendoli danzare contro il cielo.
In quel momento ebbi l’assoluta certezza che non solo Nana stava guardando il cielo anche lei, ma che era qui a Tokyo, nascosta da qualche parte.
Dovevo solo tendere di più la mano e lo feci, ero colma di speranza.
Il problema è che alcune volte la speranza da sola non basta, la mia mano toccò solo della tenebra che mi macchiò, non ne fui sorpresa.
Era Nana quella pura, io ero solo una ragazzina calcolatrice che stava subendo le conseguenze delle sue azioni.
Le stelle non me l’avrebbero ridata indietro né aggiustato la mia vita, toccava a me.

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Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


Capitolo nono

 

Quell’anno la fioritura dei ciliegi fu eccezionale a Okayama.
Il tempo era mite, il profumo saturava le strade della città annullandone
gli odori e i fetori. Il vento spirava dolce e faceva cadere i petali, trasformando
i marciapiedi in morbidi tappeti rosa. Tutto era in pace tranne me.
Io volevo solo andarmene, volevo volare nel cielo come il vento.
Ero una nomade rinnegata, era nel mio sangue, lo stesso che mi chiamava
verso Tokyo. Ero una discendente di Misuzu senza dubbio alcuno.
-Misato Uehara

 

Era la terza settimana di aprile ed era stata una primavera stupenda a Okayama.
C’era stato tanto sole e pochissima pioggia e questo aveva portato alla migliore fioritura di ciliegi che avessi mai visto. Tutto era dipinto di un rosa delicato, gli alberi e i marciapiedi, e un dolce e sottile profumo aleggiava nell’aria: sembrava di vivere in un sogno.
Nana non aveva risposto alla mia lettera, ma non sapevo nemmeno se l’avesse ricevuta o letta, era scomparsa da due settimane. I giornali impazzivano letteralmente sulla sua sparizione e specialmente quelli di gossip facevano ipotesi su ipotesi. La più gettonata era il suicidio adesso, era morta in mare per raggiungere Ren, io non sapevo che pensare. I ragazzi della band non avevano rilasciato alcuna dichiarazione, gli unici ad averlo fatto erano quelli della casa discografica con scarne parole per annunciare che i Black Stones non erano più artisti sotto il loro contratto.
Mi infuriai mi sembrava che tutti stessero lasciando soli quei ragazzi che non avevano fatto nulla di male, la parte cinica di me capiva che era stato fatto tutto per soldi, lo stesso non approvavo quella decisione
Era anche la mia terza settimana di scuola, i miei genitori speravano che io avessi rinunciato al mio progetto di andare a Tokyo, ma non era così. Avevo deciso di frequentare quella scuola così lontana da casa  per aiutare Nana, ora che lei non c’era più avrei potuto aiutare i Blast. Shin aveva fatto una breve apparizione in uno sceneggiato per la televisione, potevo sostenere lui. Senza contare che ero fermamente convinta che stare per un po’ lontano dalla mia famiglia e da Takahiro, concentrandomi su me stessa e lavorando duro, mi avrebbe aiutata a farmi passare quella cotta che avevo per mio fratello.
Nella scuola di Okayama non avevo amici, tutti mi chiedevano di mia madre o di Nana, io non rispondevo mai e decidevo che non valeva la pena socializzare con gente del genere.
Non ero un fenomeno da baraccone né tanto meno lo era la mia famiglia, eravamo gente normale dopotutto e dovevamo essere protetti.
Capitava che venisse ancora qualche giornalista, ma mio padre li cacciava tutti.
La campanella della fine della giornata suonò e io misi via le mie cose e me ne andai, mi cambiai le scarpe e raggiunsi il ristorante. Mi sedetti a un tavolo separato dagli altri e Takahiro mi portò un piccolo okonomiyaki, io lo ringraziai distratta e cominciai a mangiare.
La porta si aprì accompagnata dallo scacciapensieri, lo sconosciuto e mio padre si scambiarono qualche parola, poi mio padre cominciò a urlare.
“Vattene! Non rispondiamo ai giornalisti.”
“Non sono un giornalista!”
Io alzai la testa e riconobbi Nobu Terashima nel “giornalista”.
“Papà, fermati.”
Dissi con voce controllata, lui si voltò verso di me.
“Non è un giornalista, papà. È un amico di Nana, mia sorella.”
“Misato, sei sicura?”
“Sì, papà.”
Mio padre lo lasciò entrare dopo essersi scusato brevemente e Nobu si sedette al mio stesso tavolo.
“Ragazzo, vuoi qualcosa?”
“La specialità della casa.”
Il mio vecchio annuì e ci lasciò da soli.
Nobu mi osservò attentamente per un minuto buono, in silenzio.
“Sì, somigli davvero a Nana ora che posso guardarti attentamente.”
“Ci siamo già visti noi.”
“Lo so, ma pensavo fossi una semplice fan.”
“Ora che sono la sorella di Nana le cose cambiano, vero?”
“Sì. Ho conosciuto Nana che aveva la tua età, era sempre cupa e chiusa in sé stessa, ho fatto molta fatica a diventare suo amico, ma tu sei diversa.”
Finii di mangiare.
“Forse sì, forse no.
Come mai sei venuto fin qui?”
Lui sospirò.
“Lasciami mangiare prima e poi ti spiegherò ogni cosa, se ti guardo abbastanza mi sembra di rivedere tua sorella.”
“Ma io non sono lei.”
Dissi piano, con la voce rotta.
“Lo so, scusami.
Sono stato un vero insensibile, ma sono stanco, la cerco da settimane e non ho ancora trovato un indizio.”
“Mi dispiace.”
Ero sincera, ma anche confusa, che ci faceva qui?
Mio padre arrivò con l’okonomiyaki e Nobu la mangiò di corsa, doveva avere davvero fame.
Non ci mise molto a finirlo, poi mi fissò negli occhi.
“Adesso ti spiego perché sono qui. Durante il nostro ultimo concerto Nana ha avuto un attacco di panico e di conseguenza è stata ricoverata in ospedale. Era la nostra ultima occasione, la casa discografica ci avrebbe buttato fuori se avessimo sbagliato e così è stato.
Nana è scappata dall’ospedale, nessuno sa perché né dove sia andata, non ha lasciato nulla: niente messaggi o indizi.
Ha preso qualche vestito e… la tua lettera.
Poi è sparita.”
Io sussultai.
“Adesso capisci perché sono qui?
Cosa le avevi scritto?”
“Sì, capisco. Io le avevo fatto ancora una volta le condoglianze per Ren, mi ero scusata per il comportamento di nostra madre e le avevo detto che mi sarebbe piaciuto che lei mi considerasse una sorella con cui avere un rapporto… da sorella.
In ultimo le avevo detto che le porte di casa mia erano sempre aperte per lei, le ho dato questo indirizzo e le ho detto che avevo intenzione di venire a vivere a Tokyo.”
Sapere che avesse letto la mia lettera mi scombussolava.
“Ed è venuta qui da te?”
“No. Non che io sappia, magari è passata dal ristorante o magari è venuta e poi è scappata via di nuovo: stare con me significava stare anche con nostra madre.”
Nobu annuì e rimase in silenzio per un attimo.
“Quindi tu non l’hai vista.”
“No, non l’ho vista.”
“Se dovesse venire potresti avvisarci?”
“Sì, certo.”
Mi lasciò il suo numero di telefono, sembrava parecchio avvilito.
Non era più il ragazzo sempre allegro che ricordavo, l’intera faccenda lo aveva fatto invecchiare d’un colpo, i capelli non erano più alzati dal gel, i vestiti erano meno eccentrici.
“Magari si è fermata qui quando tu eri a scuola.”
“Può darsi, adesso lo chiedo a mio padre.”
“Sì, grazie.”
Mi alzai dal tavolo e raggiunsi mio padre al bancone.
“Papà, puoi venire un attimo?
Nobu vorrebbe farti una domanda.”
“Quel tizio è affidabile?
Non vorrei ritrovarmi di nuovo sui giornali.”
“Non c’è problema.”
Mi seguì un po’riluttante, ma alla fine lo fece.
Nobu lo saluto con un inchino a cui mio padre rispose circospetto.
“Mi hanno detto che hai una domanda da farmi.”
“Sì, in effetti è così.”
Rispose Nobu.
“Di cosa si tratta?”
“Nana, la sorella di Misato, è passata di qui?”
Mio padre ci pensò un attimo, poi scosse la testa.
“Non si è vista o almeno io non l’ho vista.”
E questa era la fine delle speranze di Nobu, mi sentii male per lui e anche per me: volevo davvero avere un rapporto da sorella con Nana.
Mi accorsi che uno dei clienti ci fissava o meglio fissava il chitarrista, poi si avvicinò al nostro tavolo.
“Tu sei quello che è in una band, giusto?”
Nobu annuì.
“Mia figlia va matta per voi. Qualche settimana fa mi è sembrato di vedere qui anche la cantante, come si chiama?”
“Nana.”
Risposi io.
“Sì, Nana.”
“Ne è sicuro?”
“Abbastanza, mi sono accorto di lei perché volevo prendermi un okonomiyaki e c’era questa ragazza ferma poco distante al ristorante con l’aria di una che si nascondeva. Ti ha seguito per un po’, Misato, mentre andavi a scuola, poi vi ho perse di vista. Non erano affari miei e lei, la cantante, non sembrava pericolosa, solo un po’ confusa. Secondo me non sapeva nemmeno lei quello che voleva fare.”
Quando l’uomo finì di parlare Nobu si era fatto teso e pallido.
“L’ha vista solo quel giorno?”
“Sì, solo quel giorno. Poi ho letto sui giornali che è sparita per uccidersi, è vero?”
Il mio cuore saltò un battito e strinsi le mani a pugno.
“Sì, è sparita, ma non sappiamo se sia morta.”
Dissi con voce atona.
“Misato-chan, tutto bene?”
Il tizio con cui stavamo parlando era diventato rapidamente un frequentatore abituale del locale e mi aveva preso in simpatia, perciò mi sentii quasi obbligata ad annuire.
“Sì, tutto bene. Non si preoccupi.”
L’uomo annuì e se ne andò, doveva aver capito che avevamo bisogno di un po’di privacy.
“Credo sia arrivato il momento che io me ne vada, mi scusi per il disturbo, signor Uehara.”
“Va tutto bene, ragazzo. Spero che riuscirete a trovarla, sembra una brava ragazza.”
Nobu fece cenno di sì con la testa.
Ci alzammo tutti e tre, mio padre tornò alla cassa dove Nobu pagò il suo okinomiyaki, ora sarebbe tornato a Tokyo: aveva trovato delle notizie su Nana, meglio di niente.
“Ti accompagno in stazione.”
Gli dissi, lui mi guardò sorpreso.
“Va bene.”
Uscimmo dal negozio, fuori c’era il sole, dentro di me il freddo artico.
“Mi dispiace.”
Mormorai.
“Come mai?”
“Per la lettera.”
Nobu mi sorrise e cominciò a camminare.
“Non è colpa tua, Nana se ne sarebbe andata comunque, non reggeva la situazione ed era in equilibrio davvero precario dopo la morte di Ren.”
“Ma io le ho dato un posto dove andare.”
“E di questo te ne sono grato. Per qualche motivo ha deciso di giraci le spalle, sono felice che anche solo per poco abbia avuto un altro posto dove andare e credo che volesse davvero conoscerti.
La sua famiglia è sempre stata fonte di dolore per lei, probabilmente sei l’unica che non odia, siete tutte e due vittime di decisioni più grandi di voi.”
“Già. Ma come mai se n’è andata?”
“Questo lo sa solo lei, purtroppo.”
“Pensi che sia… morta?”
Chiesi esitante.
“No, non credo. Deve essere da qualche parte là fuori, deve.”
E così la certezza assoluta non l’aveva nemmeno lui, viveva di speranze come tutti.
“Cosa farete adesso?”
Lui scosse la testa.
“Non lo so, l’unica cosa certa è che la band non andrà avanti, non avrebbe senso senza Nana.”
“Capisco. Vorrei poter fare di più.”
Lui mi sorrise di nuovo.
“Tutti vorremmo aver fatto di più, hai qualche progetto?”
“Molto probabilmente verrò a Tokyo.”
“Cosa?”
“Volevo frequentare un liceo a Tokyo, ma mio padre era contrario così abbiamo fatto un patto. Io avrei frequentato un mese il liceo di qui e se non mi fosse piaciuto sarei potuto andare via.”
“Capisco. Buona fortuna.”
Continuammo a chiacchierare fino alla stazione, lì lui mi abbracciò.
“Abbi cura di te, Misato.”
“Anche tu, Nobu. Se lei dovesse farsi viva avviserò Shion.”
“Chiama me.”
Mi lasciò di nuovo il suo numero di telefono ed entrò nella stazione, io rimasi un attimo ferma con il cellulare stretto tra le mani a chiedermi perché
Perché Nana era venuta?
Perché non si era fatta vedere?
Perché se ne era andata?
Non avevo nessuna risposta e mille altre domande che mi frullavano in testa. Era colpa mia?
Non ero stata abbastanza come sorella?
Dove era adesso? Sarebbe mai tornata?
Avrei mai potuto conoscerla sul serio e aiutarla come volevo fare?
Sospirai profondamente e me ne tornai verso casa mia chiedendomi se dopotutto non fosse stato uno sbaglio scriverle, anche se al momento era sembrata una buona idea. Non volevo farle male del male, ma probabilmente gliene avevo fatto.
Ero una cattiva sorella?
Morivo dalla voglia di parlarne con qualcuno, ma non sapevo con chi, i miei genitori e Takahiro non avrebbero capito, Chikage forse l’avrebbe fatto, ma viveva troppo lontana.
Ero sola, disperatamente sola e per un momento mi parve di capire mia sorella e la sua solitudine. Lei aveva vissuto tutta la vita in questo modo e le poche persone con cui si era aperta le erano state strappate via in modo crudele. Ren era morto, la sua amica Hachi adesso doveva occuparsi del bambino che aspettava e probabilmente doveva essere successo qualcosa nella band. Qualcosa che nemmeno Nobu conosceva o me l’avrebbe detto, lo conoscevo poco, ma mi sembrava un ragazzo poco incline ai segreti.
Doveva essere stato orribile per lei.
Forse la famiglia Osaki era maledetta, nessuno di noi aveva trovato la felicità, ma mi rifiutavo di credere che non si potesse spezzare questo circolo vizioso. Tornai al ristornate e mi sedetti a un tavolo, tirai fuori un quaderno e iniziai a fare i compiti di mate, mio padre mi guardò per un po’, poi arrivò con una fetta di torta al cioccolato.
Ci guardammo negli occhi per un minuto senza dire nulla, il suo sguardo solitamente mite sembrava volesse scavare nella mia anima e leggere tutti i segreti che lì vi erano conservati.
“Hai gli occhi di Misuzu.”
Disse infine, inarcai un sopracciglio.
“Sì, lo so. Cioè, me lo dicono tutti che somiglio alla mamma.”
“Non mi riferivo a quello. Poco prima che ci abbandonasse qualche tempo fa aveva i tuoi stessi occhi, quelli di chi si vede proiettato altrove. Tu non voi rimanere qui, vero?”
Io arrossii.
“Sì, non voglio rimanere qui, voglio andare a Tokyo. Ci ho provato ad adattarmi, ma avevo sempre questa voglia di scappare, di cercare altrove un posto che fosse più adatto a me.
Mi dispiace di averti deluso, non sono la figlia che avresti voluto.”
Lui mi appoggiò la mano sui capelli e me li scompigliò.
“Sei perfetta così come sei, ne parleremo stasera a cena.”
Se ne andò lasciandomi stupita, non era mai stato così dolce con me da quando ero una bambina.
Continuai a fare i compiti, a quell’ora del giorno il ristorante non era molto affollato e potevo tranquillamene farli senza venire disturbata o disturbare i clienti.
Mamma uscì dal privé e mi lanciò un lungo sguardo, anche lei sembrava capire che qualcosa era successo e che non potevo essere trattenuta più a lungo sotto le loro ali. Avevo quindici anni, ne avrei compiuti sedici a ottobre, io ero la prima ad avere paura di andarmene, ma sapevo che non poteva essere evitato
Era necessario come l’aria.

 

Noi cenavamo alle nove, quando papà poteva lasciare il locale al suo aiuto cuoco senza temere che succedesse qualche guaio.
Erano sempre delle cene brevi, lui non vedeva l’ora di tornare di sotto per occuparsi di persona dei suoi clienti, ma stasera era diverso. Dopo il pasto ci eravamo riuniti tutti intorno al kotatsu: io, mamma, papà e Takahiro. La casa era immersa in un silenzio pesante come piombo, nessuno aveva ancora aperto bocca anche se tutti sapevamo come mai fossimo lì.
“Papà, perché ci hai convocati qui?”
Fu mio fratello a rompere il silenzio, era sempre lui a farlo.
“Dobbiamo parlare di Misato.”
“E cosa c’è da dire, papà? Lei sta frequentando qui il liceo come stabilito.”
“Sembri esserti dimenticato di una piccola, ma importante clausola, Takahiro. Se dopo un mese se lei avesse voluto andare ancora a Tokyo glielo avremmo permesso.”
Mio fratello si irrigidì.
“Ma lei si trova bene qui, vero?”
“Chiedilo direttamente a lei, è la sua opinione che conta ora.”
Lui mi guardò, io abbassai lo sguardo.
Anche se la mia cotta per lui sembrava essersi un po’affievolita facevo ancora fatica a sostenere il suo sguardo.
“Cosa vuoi fare, Misato?
Rimani qui o te ne andrai?”
“Io… io ci ho provato a rimanere, ma non ci riesco, voglio andare a Tokyo.
Voglio inseguire i miei sogni.”
“Ma Nana se ne è andata!”
“Aiuterò il resto della band, se ci riuscirò, farò quello che avrebbe fatto lei.”
“A lei non importa nulla dei suoi amico o non li avrebbe mollati!”
“Tu non la conosci!”
“E tu sì, invece? L’hai vista una sola volta e non credo sia sufficiente per formare un legame!”
“Che ti piaccia o no è mia sorella e il legame c’è indipendentemente da tutto, io so quello che voglio fare e lo farò.”
“Non riesci a vivere qui? Ti facciamo così schifo?”
“No, ma non posso ignorare una parte della mia famiglia! E sono stufa della gente che qui mi chiede di lei, forse a Tokyo sarà diverso.”
“Ci abbandoni per una cazzata!”
Mi alzai in piedi, ma mio padre mi fece risedere e ordinò a Takahiro di tacere.
“Takahiro, rispetta tua sorella.”
“Ma sta per fare un errore, non avrei mai dovuto permetterti di ascoltare quella band!”
“Permettermi? Ma chi ti credi di essere?
Questa è la mia vita e la gestisco io! Ascolto la musica che mi pare e scelgo il futuro che mi pare!
Non voglio rimanere qui, me ne voglio andare!”
Urlai con tutta me stessa.
“Misato, calmati. Non c’è bisogno di litigare, abbiamo capito il tuo desiderio e sono sicuro che anche tuo fratello lo capirà con il tempo.
Takahiro, tutti noi abbiamo un destino diverso da compiere, tu hai voluto portare avanti l’attività di famiglia, lei vuole fare altro. Nessuno di voi è giusto o sbagliato.”
Takahiro scosse la testa arrabbiato.
“Sta rincorrendo delle illusioni, Nana non ha bisogno di lei, non ha bisogno di nessuno o non se ne sarebbe andata come ha raccontato quel ragazzo.”
“Non è così! Io voglio lavorare in quel campo, perché non mi credi?”
“Perché sei solo una ragazzina e alla tua età non si sa quello che si vuole, ecco perché devi seguire un percorso regolare di studi. Dopo il liceo potrai fare quello che vuoi.”
La sua risposta fu come una secchiata di acqua fredda in faccia. Come poteva dire delle cose del genere con tanta leggerezza?
Sì, lo amavo, ma forse non come credevo.
Quella prima crepa in quell’amore folle fu il primo passo per liberarmene, dovevo aggrapparmi a essa con tutta la forza e allo stesso tempo difendere il mio sogno. A quel punto non mi importava che Takahiro non capisse, bastava che lo facesse mio padre, era lui a dovermi dare il consenso, firmare i documenti e con lui avrei deciso le questioni economiche.
“Takahiro, basta!”
Mio fratello abbassò la testa, per lui la questione non era affatto chiusa, ma non voleva litigare con papà.
“Quando è morta tua nonna tua madre ha ricevuto una piccola eredità, useremo quella per pagarti la retta della scuola. L’affitto dell’appartamento e i libri li dovrai pagare con i tuoi soldi, tranne per il primo mese.”
“Va bene. Mi troverò un lavoretto che mi possa mantenere.”
“Sei sicura di farcela?”
La voce di mia madre era velata di ansia.
“Non vedo l’ora di provarci, così dimostrerò a tutti che ce la posso fare e non sono solo una ragazzina viziata.”
Mio padre sorrise.
“È così che si parla, domani chiamerò la scuola e vedremo cosa è necessario fare.”
“Grazie, papà.”
“Non c’è di che, tu hai mantenuto il tuo accordo, adesso tocca a me fare la mia parte.”
“Grazie lo stesso.”
Risposi e gli feci un profondo inchino per esprimere la mia gratitudine, Takahiro abbandonò la stanza.
“Non farci caso, gli parlerò io.”
“D’accordo, papà.”
“Adesso alzati.”
Io annuii e tornai a sedermi per parlare con i miei di questioni economiche per un altro po’.
Alla fine sarei partita non appena tutte le pratiche sarebbero state sbrigate e avessi trovato un appartamento a Tokyo, mamma disse che mi avrebbe aiutato. Erano anni che non andava nella capitale, ma aveva ancora amici e una nostra parente, una cugina o qualcosa del genere che aveva l’età di Nana.
Ci avrebbe aiutato di sicuro visto che anche lei era stata cacciata dalla famiglia Osaki qualche mese prima, domani io e mamma avremmo telefonato alla scuola di Tokyo.
“Vai a letto, Misato. Domani sarà una giornata unga e faticosa.”
Io annuii, lavai i piatti, pulii la cucina e mi feci un lungo bagno rilassante.
A Tokyo non avrei avuto queste comodità, probabilmente mi sarebbero mancate, ma nulla poteva compensare il senso di libertà che avrei provato.
Per una volta nella mia vita avrei lavorato su me stessa, frequentando la scuola che volevo e stando lontana da mio fratello. Qualcosa mi diceva che sarebbe bastato stargli lontana, diventare più forte e indipendente e la mia cotta sarebbe sparita.
Dovevo solo crescere, non era facile per nessuno, ma non avevo nessun’ altra scelta.
Crescere o morire.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo decimo ***


Capitolo decimo

 

Sai, Nana...
Quando te ne sai andata mancava un mese alla nascita di Satsuki e
dentro di me era come se piovesse sempre, non riuscivo a trovare
un riparo. Camminavo in tondo, chiedendomi come avrei potuto
crescere quella creatura figlia di un errore e amarla, ma soprattutto
come avrei potuto amare il figlio di Reira e Shin che Takumi mi
aveva appioppato. Non sapevo che la risposta l’avrei avuta solo vedendoli.

 

Il parto era vicino, era questione di giorni.
Dal giorno in cui mi aveva annunciato della gravidanza di Reira Takumi era stato in casa il meno possibile e nell’ultima settimana aveva preso a dormire in un altro appartamento. Io ero felice di non averlo attorno, ero così piena di rabbia e rancore nei suoi confronti che la sua presenza faceva male a Sacchan.
Non ero sola comunque, Junko e Kyosuke venivano molto spesso, Shin era da me in ogni momento libero della sua nuova carriera e anche Misato si faceva vedere frequentemente.
Shin stava diventando un attore, grazie all’aiuto di Mai aveva partecipato a parecchi casting per ruoli poco importanti e pubblicità, era stato scelto un buon numero di volte.
Era impegnato eppure non mancava di venire da me, forse si sentiva in colpa perché per colpa di un suo errore io stavo soffrendo o forse io ero l’unica famiglia che gli era rimasta.
Yasu aveva smesso di cercare Nana o meglio aveva delegato la faccenda a Shion, lui era troppo impegnato a tentare di tornare a lavorare presso lo studio che aveva abbandonato per i Blast. In quanto a Nobu batteva instancabilmente ogni pista che potesse portare a Nana senza successo per l’altro, la mia amica sembrava essersi volatilizzata nell’aria come un fantasma.
I giornali che si occupavano del caso insinuavano sempre più spesso che fosse morta, che si fosse suicidata per raggiungere Ren. La storia vendeva bene, rispondeva alle esigenze di tragedia romantica della gente, la giovane eroina che non può vivere senza il suo amato e perciò si ammazza per essere di nuovo al suo fianco.
Non era vero, Nana era il tipo da fare cose del genere, ma non era successo, l’avrei saputo. Eravamo come delle gemelle, se fosse morta l’avrei sentito.
Ero immersa nei miei pensieri e guardavo fuori dalla finestra, la primavera era stata clemente, Tokyo aveva avuto una fioritura di ciliegi straordinaria e anche quello nel mio giardino non faceva eccezione: aveva trasformato il prato in un morbido e delicato tappeto rosa.
Suonò il campanello, la cameriera andò ad aprire – ne avevamo assunta una fino al mio parto dato che non potevo alzarmi dal letto – sentii la voce di Shin e il suo volto fece capolino dalla porta del salotto.
Sorrisi.
“Ciao, mamma.”
“Ciao, Shin.”
Si sedette sul divano accanto a me che sferruzzavo qualcosa per Satsuki, avevo imparato negli ultimi tempi.
“Come va il lavoro?”
“Va bene, posso pagare l’affitto e mangiare.”
Lo guardai.
“Senza prostituirmi.”
Aggiunse.
“Ottimo, mi fa piacere vederti, ma non sentirti obbligato a venire tutti i giorni.”
“È colpa mia se sei finita in questa situazione, se solo avessimo preso più precauzioni non dovresti crescere mio figlio come se fosse tuo.”
“Non hai nessuna colpa, io ho sbagliato per prima non prendendo precauzioni quando facevo sesso con Takumi, Satsuki non è un tuo errore.”
“Pensi che Satsuki sia un errore?”
Sospirai.
“Non lo so, non lo so più. Prima che Takumi decidesse che avremmo avuto due figli invece di uno non pensavo lo fosse, adesso ogni tanto penso a lei come qualcuno che mi ha imprigionato in una vita che non voglio. Poi sto male perché so che lei non ha alcuna colpa, non sono proprio la mamma che ti aspettavi.”
Lui scuote la testa.
“È una situazione talmente incasinata che è normale sentirsi confusi, alla fine la vita te l’ho complicata davvero.”
“Non ce l’ho con te, ce l’ho con Reira e Takumi, con il loro rapporto del cazzo in cui mi hanno trascinata.
Tu e il bambino non avete colpa, sono loro che non si decidono a chiarire cosa li lega.”
Commentai amara, sentendo il solito attacco di bile salire quando si parlava di quei due.
Odio mio marito e odio Reira per quel carattere infantile che la fa scappare dalle responsabilità, lasciando agli altri il compito di risolvere i suoi casini.
Respirai a fondo, dicendomi che queste emozioni negative avrebbero fatto male alla bambina, lei non aveva alcuna colpa in tutto questo. Se Nana fosse stata qui le cose sarebbero diverse, ma lei non c’era, mi aveva abbandonata quando avevo più bisogno di lei e lei di me.
Perché avevi voluto troncare questo legame, Nana?
Ti avevo delusa così tanto? Ti avevo ferita così tanto?
Oppure era successo qualcosa nella tua testa che aveva ribaltato tutte le tue prospettive e ti aveva fatta andare via da noi?
Cosa ti era successo?
Ma soprattutto ti avevo mai conosciuta davvero?
Per tutto quel tempo avevo voluto bene a una maschera?
“Hachi, cosa c’è?”
“Shin, secondo te Nana ha recitato una commedia per noi per tutto questo tempo?”
“No, Nana non è il tipo.
Credo che sia successo qualcosa, forse ha sentito il nostro discorso, sai, la confessione di Yasu. Loro due erano molto legati, forse si è sentita tradita.
Se non ti puoi fidare degli amici, di chi puoi fidare?”
Io abbassai gli occhi e sospirai, era una spiegazione plausibile come tante altre, la verità la sapeva solo lei e lei non era qui.
“Se così fosse perché non aspettare e parlarci?
No, non dire nulla, non sarebbe da Nana.”
Rimanemmo a parlare ancora per un po’, l’atmosfera si era fatta più rilassata, Shin non vedeva l’ora di conoscere Satsuki e mi faceva tenerezza, sembrava davvero un fratello maggiore in attesa della sua sorellina.
All’improvviso sentii del liquido colarmi lungo le gambe, mi si erano rotte le acque, presto Shin avrebbe davvero conosciuto mia figlia, per fortuna il borsone con le mie cose era pronto in camera.
“Shin, mi si sono rotte le acque.”
Dissi calma.
“Vai a prendere il borsone in camera, io chiamo Jun.”
Lui impallidì e poi annuì, non chiese nemmeno perché avessi deciso di chiamare Junko invece di Takumi, come sarebbe stato naturale.
Presi il cellulare e composi il suo numero, lei rispose dopo qualche squillo.
“Ehi, Nana! Come mai questa chiamata?”
Era allegra.
“Mi si sono rotte le acque, ho bisogno di un passaggio in ospedale.”
La sentii deglutire dall’altra parte del filo.
“Arrivo, tu sta’ calma. Sei da sola?”
“No, c’è Shin con me.”
“Ok, meglio che nessuno. Arrivo.”
Chiuse la chiamata e io rimasi seduta imbambolata, sentivo le contrazioni lente.
Per fortuna sembrava fossi solo all’inizio del travaglio, iniziavo ad avere paura nonostante mi fossi ripromessa di essere forte. Era normale, mi dissi, tutte le mamme hanno paura del parto.
È un momento di passaggio e in questi casi c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto, ecco perché li temiamo, ma la maggior parte delle volte non succede nulla.
Mi portai una mano alla pancia, come a consolare la mia creatura che stava per nascere, a dirle che non era sola e che presto la zia Jun sarebbe arrivata e saremmo andate in ospedale.
Shin scese le scale di corsa con in mano il mio borsone, lo appoggiò vicino alla porta d’ingresso e poi si precipitò da me.
“Come stai?”
Mi chiesi, il volto pallido per la preoccupazione.
“Bene, credo. Le contrazioni non sono molto frequenti, quindi sono solo all’inizio del travaglio, andrà tutto bene. Ho chiamato Junko e arriverà.”
“Avessi almeno la patente, cazzo!”
Batté un pugno sul tavolino.
“Non è colpa tua se hai diciassette e non diciotto, stai calmo, Shin.”
“Sono io che dovrei rassicurare te, non il contrario!”
“Hai mai visto una cosa andare come doveva da quando  mi conosci?
Perché ti scandalizzi?”
“Mamma, non è il momento di scherzare, davvero. Stai per partorire.”
Gli sorrisi.
“Va tutto bene, abbi fede.”
Lui non era per nulla convinto, ma alla fine annuì.
Dieci minuti dopo sentimmo il rumore di una macchina in arrivo e poi di una frenata, poco dopo la porta si spalancò ed entrò una Junko fuori di sé.
“Dimmi che non stai per partorire e che ce la facciamo ad arrivare in ospedale.”
Esordì, guardando prima me e poi Shin.
“Sì, ce la dovremmo fare. Le contrazioni sono distanziate, c’è traffico?”
“Come al solito. Dai, andiamo!”
Shin mi aiutò ad alzarmi, mi passò un braccio attorno alla vita e camminammo insieme fino alla porta, Junko prese la borsa. Uscimmo, il cielo si era oscurato e un vento freddo sferzava i rami del ciliegio facendo cadere i petali. La mia amica gettò il borsone nei sedili posteriori, Shin mi fece entrare e si sedette vicino a me, dopo essersi assicurato che mi fossi messa la cintura di sicurezza.
Jun partì con l’acceleratore a tavoletta, aveva fretta e aveva paura e forse si stava chiedendo perché avessi chiamato lei e non mio marito. Doveva aver intuito che era successo qualcosa, ma grazie al cielo capì anche che non era il momento giusto di chiedere cosa.
La sua macchinetta filava veloce nel traffico di Tokyo verso l’ospedale, le contrazioni si erano fatte più ravvicinate e gemevo piano con la mano stretta da quella del mio figliolo adottivo. Lui era pallido in volto, cercava di rassicurarmi dicendo che non mancava molto e che eravamo vicini, presto avrei ricevuto le cure del caso.
E se avessi abortito?
Se fosse successo avrei mollato Takumi, raggiunto Nobu e avrei cercato Nana con lui, Takumi avrebbe avuto la sua famiglia con Reira e io la mia libertà. Mi vergognai di questi pensieri egoisti, avevo desiderato Satsuki con tutta me stessa, ma il tradimento di mio marito aveva avvelenato tutto e poco importava che non fosse successo sul serio, solo l’imposizione della sua volontà mi faceva venire voglia di ribellarmi.
Finalmente vidi l’ospedale, entrammo nella zona del pronto soccorso, Jun fermò la macchina, Shin mi aiutò a scendere e insieme entrammo.
Ci venne incontro un’infermiera di mezza età con una crocchia di capelli grigi.
“Cosa è successo?”
“Alla mia amica si sono rotte le acque, deve partorire.”
La donna mi prese dall’altro lato e mi condusse in una stanzetta, mi fece accomodare su un lettino e mi accarezzò la fronte.
“Adesso vado a chiamare il dottore, tu sta calma, qui sei al sicuro.”
Uscì e io strinsi forte la mano di Shin, le prime lacrime mi solcavano le guance, nonostante le rassicurazioni e i pensieri egoisti avevo una paura folle. Avevo paura che gli dei mi punissero per quello che avevo fatto e pensato di fare.
“Hachi, è tutto ok.”
“Shin, ho pensato all’aborto e se succedesse davvero?
Io non voglio perdere la mia bambina perché sono egoista e…”
Lui mi appoggiò un dito sulle labbra.
“Andrà tutto bene.”
L’infermiera tornò accompagnata da un dottore, che controllò quanto fossi dilatata e la frequenza delle contrazioni.
“Dobbiamo accelerare il travaglio, infermiera, la faccia camminare.”
Con difficoltà mi fecero alzare dal lettino e poi mi fecero passeggiare lungo un corridoio più e più volte, le contrazione erano sempre più frequenti e dolorose, mi veniva da piangere.
Piangere davanti a Shin era stato facile, lo conoscevo, ma farlo davanti a un’estranea era tutta un’altra storia, non volevo farmi vedere debole e spaventata.
“È il suo primo figlio?”
Mi chiese l’infermiera.
“Sì.”
Risposi io.
“Pianga, se vuole. È normale essere spaventate alla prima gravidanza, soprattutto se si è così giovani come lei. Il corpo cambia e nessuno ci prepara mai del tutto a quello che accadrà, ma lei deve stare tranquilla: qui ci sono dei buoni dottori.
Quello che l’ha visitata ha aiutato molte donne a partorire.”
“Va bene, grazie.”
Le lacrime ripresero a scendere anche contro la mia volontà, il dolore sembrava non finire mai, il mio corpo aveva l’aria di squarciarsi in due da un momento all’altro ed era vero: il corso preparto non preparava per nulla.
Avevo una paura fottuta.
Tornammo nello studio del dottore, lui mi visitò di nuovo.
“Abbia pazienza, signora, non è dilatata abbastanza.
Vuole che chiami suo marito?”
“NO!”
Urlai, lui diede un’occhiata a Shin.
“Per caso è lui il padre del bambino?”
“NO! Ma lo vede? È un ragazzino, per chi mi ha preso?
È un mio amico e voglio solo lui, mio marito è un grandissimo stronzo e meno lo vedo meglio sto.
Mi farebbe abortire!”
Lo sguardo del dottore si fece sorpreso, forse aveva capito che c’erano dei problemi in casa nostra, ma decise saggiamente di non dire nulla.
“Infermiera, la faccia camminare ancora un po’.”
“Sì, dottore.”
Mi fecero alzare di nuovo e percorsi di nuovo quegli stramaledetti corridoi, iniziavo a odiarli con tutte le mie forze, nel frattempo le contrazioni erano sempre più frequenti. Erano onde di dolore che si abbattevano implacabili su di me, lasciandomi tremante e senza fiato. Mi sembrava di annegare a ogni colpo, di non farcela, eppure riemergevo sempre più stanca e debilitata.
L’infermiera mi guardava impietosita, chissà cosa pensava della giovane madre che voleva fare tutto da sola e tenere fuori il marito?
Forse che era una cosa normale, dato il dolore del parto, o forse la compativa perché, non essendo più giovane, aveva capito che il mio matrimonio era dovuto solo alla nascita di quella bambina.
“Va tutto bene?”
“No, non va affatto bene. Questo dolore è insopportabile.”
“Ma finirà e darà alla luce una splendida creatura. Sa se è un maschio o una femmina?”
“No, no lo so.”
“Ha già pensato ai nomi?”
“Satsuki, se è una bambina. Ren, se è un bambino.”
“Sono nomi graziosi.”
Io le sorrisi con le mie ultime forze.
“La prego, mi faccia sedere, io…. io non ce la faccio più.”
Mi sentii cadere a terra, mentre tutto si faceva nero, stavo morendo?
Mi svegliai in una sala dall’aria confortevole sdraiata su di un letto, il dolore non se n’era andato: era sempre lì pulsante e lancinante.
“Signora Ichinose, mi sente?”
Misi a fuoco il volto del dottore.
“Sì, la sento.”
“È arrivato il momento, è abbastanza dilatata, ora deve spingere quando glielo dirà l’ostetrica.”
“Come sta… il bambino?”
“Bene, non è podalico. Non sarà una passeggiata, ma vedrà che tutto il dolore lo dimenticherà una volta che avrà la sua creatura in braccio.”
Una donna dall’aria materna si avvicinò a me.
“Sono Sayaka, l’ostetrica.
Andrà tutto bene, fai quello che ti dico e non ti succederà nulla.”
Le sorrisi stanca, ormai ero così fuori di me che avrei creduto a qualsiasi cosa mi avessero, incluso che la terra è piatta.
“Vuole qualcuno accanto a lei?”
“Shin…”
“Va bene.”
La donna se ne andò e tornò poco dopo con il mio amico, era pallido in volto, ma quando si sedette accanto a me la sua espressione era imperturbabile.
“Allora, Hachi, ci siamo. Mi farai conoscere la mia nipotina o il mio nipotino.”
“A quanto pare sì.”
L’ostetrica mi ordinò di spingere e io lo feci con tutte le mie forze, stritolando la mano di Shin e urlando come se mi stessero ammazzando. Continuò così per un po’, poi Sayaka mi fissò negli occhi con un’intensità quasi arcana.
“È l’ultima spinta, signora. Ci metta tutta sé stessa.”
Io annuii e spinsi più che potei, ero arrivata al limite, o la creatura nasceva o io mi sarei strappata come una bambola di carta. Sentii qualcosa scivolare fuori da me, poi il pianto di un neonata.
“Complimenti, signora.
Ha partorito una bambina perfettamente sana.”
Scoppiai a piangere dalla gioia e Shin mi imitò, forse anche perché la mano gliel’avevo distrutta a forza di stringerla.
“Sono così felice.”
“Anche io, mi hai quasi distrutto una mano, Hachi.
Spero di poter… No, non importa.
Come la chiamerai?”
“Satsuki, Ren avrebbe voluto che la chiamassi così: un nome floreale come il suo.”
“Allora, benvenuta al mondo, Satsuki Ichinose.
Io sono zio Shin.”
Risi, Sayaka mi mise in braccio Satsuki.
Era una bambina piccola, ma perfetta, con una gran testa di capelli neri e un gran sorriso.
Era sicuramente figlia di Takumi, nel profondo del cuore ne fui delusa, avevo sperato che fosse figlio di Nobu, almeno da avere una piccola parte di lui su cui riversare il mio affetto.
Pensai ancora un attimo ai miei errori e ai comportamenti stupidi, poi mi innamorai all’istante di quella piccolina e dimenticai il passato, lei non aveva colpa in tutto quello che aveva portato alla sua nascita e fargliela pagare era profondamente ingiusto.
“È bellissima, non è vero, Shin?”
“Sì, Hachi. Lo è.”
La sua voce era incrinata, provò ad avvicinare una delle sue lunghe dita alla neonata e lei vi si aggrappò, io sorrisi felice.
“Signora…”
L’infermiera mi riportò alla realtà, anche se avrei voluto tenerla vicino a me per il momento non potevo, c’erano le prassi dell’ospedale da seguire. Le diedi la bambina e lei mi sorrise.
“Ora dobbiamo occuparci di lei.”
Il bassista capì a volo ed uscì.
Le infermiere si occuparono di me, come detto, e poi mi trasferirono in camera.
Ero stanca morta, non appena appoggiai la testa sul cuscino del mio letto mi addormentai. Sognai che Nana veniva in ospedale, le faceva conoscere Satsuki, ma il neonato non aveva i capelli di Takumi, ma quelli di Nobu.
La cosa mi sorprese, ma Nana rimase impassibile nel mio sogno, come se se lo aspettasse.                                                                                                                             “Per quanto tempo vuoi continuare a mentire a te stessa?
Perché accanirsi ad amare qualcuno che non ami davvero?”
Avrei voluto dirle che era per Satsuki, che il neonato del sogno non era davvero lei, lei era figlia di Takumi, che mi piacesse o meno, e quindi aveva tutto il diritto di crescere con suo padre. Lui era uno stronzo, ma non potevo negargli di vedere sua figlia.
Quando provai a dirle qualcosa tutto divenne nero, lei scomparve, il terreno sotto i miei piedi divenne sabbia che si aprì facendomi precipitare.
Caddi e urlai per non so quanto tempo, forse per un paio di ere glaciali, per poi svegliarmi nel mio letto ansimante e sudata.
“Tutto bene, Nana?”
Junko era seduta su di una sedia vicino al mio letto.
“Sì, ho solo avuto un incubo.
Grazie per avermi portata in ospedale.”
“Di niente, Nana. Lo sai che siamo amiche, ma perché non hai chiamato Takumi?”
Io abbassai gli occhi.
“Le cose non vanno molto bene tra di noi adesso.”
“Capisco, ma l’arrivo di Satsuki cambia tutto, lo sai, vero?”
Le rivolsi uno sguardo vacuo.
“Non far finta di non capire, la bambina ha bisogno di entrambi i genitori.
Dovresti chiamare Takumi, non sa nemmeno di essere diventato padre.”
“E se scappassi, Junko?
Io e la bambina.”
“Non puoi, adesso hai delle responsabilità.”
Sospirai, aveva ragione purtroppo, adesso avevo delle responsabilità.
Solo qualche mese prima avevo scelto la mia strada – stare con Takumi, crescere con lui sua figlia – senza sapere quanto fosse dura, ora non potevo tirarmi indietro: c’era un esserino che dipendeva in tutto e per tutto da me.
“Sì, adesso lo chiamo.”
Presi in mano il cellulare e composi il suo numero, lui rispose dopo qualche squillo.
“Nana, che succede? Non mi chiami mai durante il giorno.”
“Ho partorito, è una bambina, si chiama Satsuki.”
Dissi con una voce piuttosto distante, era un fastidio comunicargli la notizia.
Lui sembrò emozionarsi, mi chiese in che ospedale fossi e disse che sarebbe arrivato al più presto, esattamente quello che non volevo che accadesse.
Chiusi la chiamata e rimasi ad aspettare sdraiata a letto per recuperare le forze, fuori la luce calava progressivamente, avvolgendo il mondo in un mantello grigio, privando i ciliegi della loro luminosità.
Guidato dalle tenebre Takumi apparve sulla porta della mia camera, aveva il volo raggiante di gioia.
“L’ho vista, è bellissima.
Io…”
La voce gli si spezzò e non proseguì.
Takumi era un pessimo marito, un pessimo essere umano, ma capii che sarebbe stato un bravo padre o almeno ci avrebbe provato con tutte le sue forze.
Al momento per me era abbastanza.

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Capitolo 11
*** Capitolo undicesimo ***


Capitolo undicesimo.

 

Scappare, scappare e ancora scappare.
Fino a quando ero rimasta con la mia famiglia nella mia testa
c’era una vocina che continuava a urlarlo. Non era il mio posto.
Non era la mia gente. Non erano il mio futuro. Dovevo andare avanti
e scoprire dove appartenessi a costo di fare del male a chi mi aveva
cresciuta. Il giorno in cui arrivai a Tokyo quella vocina tacque per la prima volta,
ero arrivata dove dovevo essere, ora toccava a me darmi da fare per costruire
il mio futuro. Non vedevo l’ora.
-Misato Uehara.

 

C’erano volute due settimane per sistemare tutti i documenti necessari per cambiare scuola, due lunghe settimane in cui i miei compagni mi additavano e si picchiettavano il dito sulla tempia.
Per loro ero una pazza sconsiderata che gettava via un futuro sicuro per saltare nell’ignoto, una destinata a finire male come sua sorella.
Io me ne sbattevo, insieme a mia madre cercavo un appartamento in cui stare, i miei mi avrebbero pagato il primo mese di affitto, poi mi sarei trovata un lavoro e mi sarei arrangiata.
Mi andava bene, non mi faceva paura.
Ero stanca di vivere in un posto piccolo che restringeva i miei orizzonti e mi faceva credere di essere innamorata del mio fratellastro solo perché era l’unico a trattarmi bene.
Per me stessa e per non arrecare disonore alla mia famiglia dovevo andarmene e volare nel cielo della vita, anche se significava lasciare il paese prima di tutti gli altri.
Avevamo spedito i documenti all’istituto Yazawa, ora mancava solo la risposta anche se la preside aveva detto ai miei genitori che sarebbe stata sicuramente positiva, per loro non era un problema accettare una nuova studentessa ad anno scolastico iniziato.
Nel frattempo io e mia madre continuavamo a cercare un appartamento quando non aiutavamo papà al ristorante, Takahiro aveva smesso di parlarmi.
Mi ignorava totalmente, come se avessi cessato di esistere e nemmeno mi guardava, l’unica volta che lo fece fu quando annunciò che si sarebbe sposato con la sua ragazza.
Entrambi lavoravano, si amavano e si ritenevano pronti al grande passo, io non dissi nulla, ero in preda a sentimenti contradditori. Da una parte ero felice che fosse diventato ancora più irraggiungibile, dall’altra ero arrabbiata e gelosa.
Qualsiasi cosa ne pensasse lui andarmene era davvero la soluzione giusta o sarei impazzita, dovevo essere forte come tutte le donne della mia famiglia. Stringere i denti e andare avanti nel percorso che avevo scelto, era lungo e pieno di incognite, ma ero sicura che mi avrebbe portato lontano.
Se non l’avessi fatto avrei messo nei guai tutti, cercavo di seguire i consigli di Shion più che potevo, ma da quando c’era di mezzo la storia del matrimonio era diventata ancora più dura.
Una parte di me – testarda ed egoista – voleva che lui rimanesse single per sempre, visto che io non potevo averlo nessun altra poteva. Era folle.
Oltre ai preparativi per la mia partenza adesso c’erano anche quelli del matrimonio da portare avanti mio padre era stato categorico: non potevo partire prima di quella stupida cerimonia a cui io non avevo nessuna voglia di andare. Eppure mi ritrovavo a girare per negozi con mia madre per cercare il mio primo chimono elegante da adulta, venivo avvolta in metri e metri di tessuto che mamma finiva sempre per scartare.
Mi girava la testa.
Nel frattempo riuscimmo a trovare un appartamento a Tokyo, l’affitto era basso perché in periferia, ma era vicino alla metro e quindi comodo.
Andammo in città per firmare il contratto per mia grande gioia e poi ci fermammo a mangiare lì.
Mamma continuava a guardarsi in giro, come se cercasse di riconoscere qualche posto che aveva visto da giovane, ma Tokyo era come un gigantesco serpente: cambiava ciclicamente muta.
Edifici venivano abbattuti e altri innalzati, non c’era il senso di conservare il passato, ci si buttava a capofitto nel futuro.
“Quando vivevo a Tokyo c’era una bottega che vendeva chimoni, mi chiedo se ci sia ancora.”
Sputò infine mamma dopo aver finito il suo ramen, io guardai il cellulare: mancava ancora un po’ di tempo alla partenza del treno.
“Se vuoi possiamo fare un giro, abbiamo ancora tempo.”
Lei annuì.
Prendemmo dolce e caffè, pagammo e poi ci infilammo in una via stretta che sembrava uscita da un’altra era con le sue insegne al neon su edifici tradizionali.
Era mediamente animata, ma i suoi frequentatori erano prevalentemente anziani, mi chiesi cosa sarebbe successo a questo piccolo universo una volta che i vecchi fossero morti. Probabilmente sarebbe stata fagocitata dalla città senza nessuna pietà.
Mamma si fermò davanti a un negozio e sorrise.
“È questo.”
Disse soddisfatta.
“Allora entriamo.”
Mamma aprì la porta scorrevole ed entrammo: era un locale poco illuminato in cui si scorgevano i bagliori cangianti della seta.
“Buongiorno.”
Una donna di mezza età apparve dal retrobottega.
“Buongiorno, avrei bisogno di un chimono elegante per mia figlia, dobbiamo andare a un matrimonio.”
“Congratulazioni!”
La donna si illuminò.
“Vediamo se c’è qualcosa di adatto a questa signorina.”
Le sue dita si mossero delicatamente sulla seta, accarezzandola distrattamente.
“Il rosso sarebbe il colore più adatto a questa bambina, ma non vogliamo che distolga l’attenzione dalla sposa, giusto?”
“Per me non sarebbe un problema.”
Borbottai facendo ridere la donna e sbuffare mia madre.
“Misuzu, ha ereditato il tuo caratterino!”
Mia madre rise.
“Mi avevi riconosciuta dunque, Yoko.”
“Certo! Eravamo migliori amiche quando vivevi qui.”
Mi guardò attentamente.
“Non è la bambina che stavi aspettando allora, quella è diventata una cantante famosa, gusto?”
Lei annuì.
“Vediamo, vediamo…
Giallo dorato con decorazioni arancioni, dovrebbe essere perfetto.”
“Sì, credo di sì. Hai sempre avuto buongusto.”
La donna sparì nel retrobottega.
“Così è una tua amica, eh?”
“Sì, ne avevo qualcuna qui a Tokyo. Non era come a Mori dove ero la ragazza scappata di casa, lì mi avrebbero sempre additata. Sono stata pessima in tante cose, come figlia e come madre.
Ho fatto soffrire tua nonna scappando, ritornando giusto per lasciarle una bambina da crescere e sparendo di nuovo. Non sono nemmeno andata al suo funerale, volevo cancellare Nana perché mi ricordava gli errori che avevo fatto, quell’uomo che avevo tanto amato, ma che era solo un violento.
Con lei ho sbagliato tutto e adesso non so nemmeno se posso correggere i miei errori.
Con te ho avuto una seconda possibilità e stavo per sprecarla.”
La donna tornò con il tessuto, andammo in camerino e mi ci avvolse abilmente: aveva ragione, mi stava bene. Si accordava perfettamente ai miei capelli castani e anche l’obi che aveva scelto era perfetto.
Comprammo anche la tipica borsa a sacchetto coordinata e pagammo tutto, i prezzi erano economici, probabilmente calibrati sulla gente che faceva acquisti solitamente e non aveva troppo denaro da scialacquare.
Mamma e la sua amica si salutarono cordialmente e poi corremmo in stazione a prendere il treno, ce la facemmo giusto in tempo.
Mentre guardavo dal finestrino – tornando a casa – pensavo a tante cose.
Alla voglia di vivere e scappare di mamma.
Al paesino e alla sua amica Yoko che non giudicava.
A Nana, alla nonna, a me, alla morte di Ren.
Alla confessione di mia madre soprattutto, così sincera da fare male.
Forse il giorno in cui ero scappata di casa l’avevo messa davanti ai suoi errori e – in questa prospettiva – non era stata una cosa poi così sbagliata.
Speravo che nascesse di buono da tutto quel dolore.

 

Il giorno del matrimonio era arrivato.
Mio fratello aveva già consegnato le carte in comune, quindi per lo stato erano già sposati, ma lui voleva anche il matrimonio religioso.
E così ora mia madre mi stava aiutando a mettere il chimono, il giallo e l’arancione mi stavano bene, ero quasi contenta. Quando finì sorrise.
“Sei bellissima.”
Mi truccò leggermente, ben sapendo che avrei potuto esagerare con il trucco viste le mie tendenze punk, poi mi mise un crisantemo giallo tra i capelli.
Un simbolo di forza? Perché?
“Credo che tu ti sia presa una cotta per Takahiro, ecco perché vuoi scappare, ecco perché io ho approvato il tuo progetto. Che gli dei ti diano la forza di continuare sul cammino che hai intrapreso per liberarti da questa ossessione.
Il tuo amore è là fuori che ti aspetta, non è in questa famiglia.”
Un paio di lacrime solcarono le mie guance, io le asciugai attenta a non guastare il trucco.
“Grazie, mamma.”
Dissi con voce che tremava.
“Come l’hai capito?”
“Dal tuo sguardo, io avevo quello sguardo quando mi sono innamorata di tuo padre.”
Rimase un attimo in silenzio.
“Mi chiedo se Nana abbia guardato così quel ragazzo che è morto, se lo abbia amato o se io l’ho ferita così tanto da toglierle questa capacità.”
“Io penso che l’abbia amato, le poche volte che è apparsa in pubblico dopo la sua morte aveva uno sguardo vuoto. Uno sguardo del genere si ha solo quando hai perso qualcuno di molto importante, ma naturalmente le mie sono solo congetture.”
Finimmo di prepararci e andammo al tempio, Takahiro sembrava impaziente.
Kayoko non mi sembrava nulla di speciale, eppure lui l’amava intensamente, non vedeva l’ora che lei fosse a sua compagna per la vita.
Il sacerdote iniziò la cerimonia e quando gli sposi bevvero i tradizionali tre sorsi di sakè il volto di mio fratello era trasfigurato di gioia. Anche sua moglie era felice, ma continuava a guardarmi e io non capivo perché, non le avevo mai fatto nulla.
Alla fine mi si avvicinò con una faccia poco amichevole.
“Perché ti sei messa un chimono che spicca più del mio?”
Io la guardai incredula, il problema dunque era solo questo?
Non ero sicura che sarebbe stata la ragazza giusta per Takahiro, ma non volevo intromettermi più di tanto nel loro rapporto.
“Eh?”
“D’altronde c’era da aspettarselo da te, come tutte le donne della tua famiglia porti solo guai, sono felice che andrai a Tokyo, almeno la gente intorno a te smetterà di soffrire per i tuoi comportamenti da teppista.”
“Anche io sono felice di andare a Tokyo, almeno non dovrò sopportare una persona meschina come te, mio fratello non ti merita. La tua unica qualità è la bellezza, ma la tua è una di quelle bellezze che durano solo finché sei giovane, goditela fino a che ce l’hai.”
Le dissi con il mio peggior sorriso ironico dipinto in viso, inutile dire che non la prese bene.
Il suo volto divenne viola dalla rabbia e si allontanò a passo svelto, dirigendosi verso mio fratello, io rimasi da sola e felice di esserlo.
Finita la cerimonia al tempio c’era il pranzo al ristorante, erano presenti i parenti Uehara, ma non quelli Osaki e gli amici della coppia. Gli Osaki non avevano ancora perdonato a mia madre l’essere scappata di casa a diciotto anni e tutto il resto, per loro quel ramo della famiglia si era estinto con mia nonna Miyuki.
Era triste, ma se a loro andava bene così non sarei certo corsa a cercarli, non mi importava di loro, non erano belle persone se non sapevano perdonare gli errori di una ragazzina nemmeno dopo anni.
Mamma mi si avvicinò con aria preoccupata, doveva avere notato il malumore della novella sposina.
“È successo qualcosa tra te e Kayoko?”
“Scaramucce. Mi ha chiesto perché indossassi un vestito più vistoso del suo, mi ha detto che tutte le donne di questa famiglia portano solo guai e che è felice che me andrò a Tokyo, così almeno tutti smetteranno di soffrire per i miei comportamenti da teppista.”
“Questo è troppo, mancare così di rispetto alla nostra famiglia!”
“Non prendertela, mamma. Oggi è un giorno felice per Takahiro, cerchiamo di non rovinarglielo.”
“Sì, hai ragione. Ci sarà scuramente un’altra occasione per chiarire questa situazione.”
Io annuì, raggiungemmo mio padre che aspettava vicino alla macchina.
“Tutto bene?”
Chiese.
“Sì, va tutto bene.”
Lo rassicurai, ci avrebbe pensato mamma a riferirgli i poco lusinghieri commenti sulla nostra famiglia.
Mio padre era contento quel giorno, probabilmente non era stato del tutto felice da quando i giornalisti avevano iniziato a ficcanasare nella nostra vita. Mi faceva un po’ pena, era stato costretto a lasciare Osaka, iniziare tutto da capo a Okayama, mamma lo aveva lasciato momentaneamente e io ero scappata di casa.
Forse quel matrimonio era il primo momento di normalità in mesi, lui – tra altro – non aveva colpa in tutti quegli avvenimenti: erano stati i fantasmi di mamma a venire a bussare alla porta e credo che lui non ne conoscesse nemmeno la metà.
Papà aveva sposato mamma dopo che l’aveva aiutata a uscire da una relazione con un uomo violento, lo stesso che non aveva voluto Nana. Era sempre stato papà quello che aveva amato di più nella coppia e aveva difeso mamma dai pareri negativi della sua famiglia.
Salimmo in macchina e partimmo verso il ristorante, era un locale molto carino e anche economico, gestito da un vecchio amico di papà.
“Allora, cosa ve n’è parso della cerimonia?”
“Spero che Takahiro sia felice.”
Rispose prudentemente mia madre.
“E tu, Misato?”
“Mi è sembrata una bella cerimonia.”
“Ti piace Kayoko?”
“Non è a me che deve piacere.”
Dissi ridendo, volevo buttarla sullo scherzo per non dire apertamente che non la sopportavo.
“Sì, hai ragione.”
Mio padre si unì alla risata e io tirai un sospiro di sollievo interiore.
Papà guidò fischiettando una vecchia canzone, mia madre si controllò il trucco, io invece guardavo il paesaggio scorrere fuori dal finestrino. Non ero affezionata a Okayama come a Osaka, ma mi sarebbe mancata, la natura soprattutto. Tokyo mi aveva dato l’impressione di un posto in cui i parchi non erano molto diffusi, ma almeno lì sarei stata libera.
Vedere la felicità coniugale dei due novelli sposi era al di là delle mie capacità di sopportazione, dopotutto ero solo un essere umano: non una santa né una martire.
Arrivammo al ristorante ed entrammo, con mio stupore era riservato solo a noi. C’era un tavolo per i parenti e amici più stretti della sposa, per il resto dei parenti e delle conoscenze, così divisi riempivamo una sala.
Io mi sedetti al tavolo, c’eravamo solo noi, i genitori di Kayoko, Kitaro e la miglior amica della vipera con dei capelli così biondi da sembrare quasi bianchi, ma su di lei non c’era stato nulla da ridire.
Iniziarono tutti a chiacchierare amabilmente, Kayoko descriveva vivacemente il suo viaggio di nozze a Okinawa, l’anno prossimo sperava di poter andare alle Hawaii.
E perché non a New York, in Italia e poi sulla luna?
Non la sopportavo più e non vedevo l’ora che arrivasse il cibo, almeno mi sarei distratta con le pietanze, ero naturalmente magra, ma mangiare mi piaceva.
Finalmente arrivò la pentola del sukiyaki, sembrava parecchio ricco e appetitoso, mamma servì le porzioni con precisione e finalmente quel chiacchiericcio insensato tacque.
Era davvero buono, l’amico di mio padre ci sapeva fare in cucina e questo mi sarebbe stato d’aiuto, non ne dubitavo. Tra una portata e l’altra la sposa non avrebbe certo tenuto la sua boccuccia chiusa, sognava in grande e non si vergognava di farlo. Sperai solo che rendesse felice Takahiro e non lo frustrasse troppo, non se lo meritava, ma ormai non erano più affari miei, probabilmente non lo erano mai stati.
I documenti erano firmati, la cerimonia scintoista eseguita, Kayolo era la nuova signora Uehara, con tutti i diritti e doveri del caso.
“Buono questo sukiyaki!”
Dissi tanto per dire, ma nessuno mi prestò attenzione.
La faccia di Kayoko era un mix di emozioni contrastanti, da una parte si vedeva che le piaceva il cibo, dall’altra pensava chiaramente di meritarsi un ristorante più lussuoso.
Se era la ricchezza che voleva avrebbe dovuto sposare qualcuno di diverso da un cuoco di okonomiyaki, o almeno così pensavo.
La festa iniziava a farsi noiosa come previsto, dopo il sukiyaki fu servita della carne da poter grigliare a piacere e infine un monumentale piatti di sushi misto.
Tutti apprezzarono e il cibo finì alla svelta nella bocca dei commensali, arrivò la torta e con essa i discorsi di auguri agli sposi.
Era quasi finita, dovevo resistere solo un altro po’ e poi avrei potuto andare a casa e pianificare la mia partenza, il fatto che presto me ne sarei andata era l’unica cosa che evitava che cadessi in depressione.
C’erano stati così tanti cambiamenti in così poco tempo!
E cercare di comportarmi come mi aveva suggerito Shion era così difficile!
La mia coscienza insisteva dicendo che dovevo cambiare aria, una volta fatto quello le cose si sarebbero rimesse nella giusta prospettiva e io avrei smesso di soffrire e di essere una minaccia per la mia stessa famiglia.
Ci voleva solo un po’ di tempo.
“Misato?”
La voce di Takahiro mi riscosse dai miei pensieri.
Io lo guardai sinceramente stupita, dal momento in cui avevo annunciato che me ne sarei andata a Tokyo non mi parlava.
“Sì?”
“Ti va di ballare con me?
Sai, la tradizione…”
Certo, la tradizione occidentale che imponeva di ballare con i membri della propria famiglia un’ultima volta prima di ballare con la sposa.
“Ah. Sì, certo.”
Mi alzai e presi la sua mani, grande e un po’ callosa.
Con gentilezza mi spinse fino al centro della pista, le alte coppie ci sorridevano benevole.
Iniziammo a ballare un lento, una canzone dei Trapnest, a lui piaceva la voce di Reira.
“E così te ne vai…”
“Sì, tra poco me andrò.”
“Sei sicura? Sei così piccola!”
“Non sono più una bambina, Takahiro. A luglio compirò sedici anni.”
“È che per me rimarrai sempre una bambina e poi mi mancherai.”
Io sorrisi.
“Non te ne accorgerai nemmeno ora che hai una tua famiglia a cui badare, dicono che i primi mesi del matrimonio siano i migliori. La coppietta è sempre insieme e cose del genere, insomma sarai talmente appiccato a Kayoko che nemmeno ti accorgerai che io non ci sono.
Comunque torno per le vacanze estive e l’obon.”
“Quindi tu pensi che sarà così…”
“Ne sono sicura.”
Gli sorrisi rassicurante, non volevo fargli anche solo intuire qualcosa della mia cotta.
“Lo spero, mi mancherai davvero.
Devi proprio andartene?”
“Sì, è meglio per tutti.
Mi raccomando, tu sii felice.”
“Lo sarò.”
Sorrise a trentadue denti, doveva essere l’effetto dell’amore.
Continuammo a ballare fino a che la canzone non finì, poi io tornai al tavolo e osservai tutti: Takahiro era tornato da Kayoko, mamma e papà ballavano insieme.
Sì, questa famiglia sarebbe a essere felice senza la figlia problematica e io potevo passare oltre a questa situazione assurda.
La musica continuava a suonare e io sorridevo.
La mia famiglia era strana e disastrata, ma la amavo.

 
Una settimana dopo è arrivò il giorno della partenza.
Era uno splendido giorno di sole, spirava un vento tiepido che portava il profumo degli ultimi ciliegi in fiore, dopo aver fatto colazione uscii in giardino e raccolsi un fiore di ciliegio.
Sorridendo me lo misi dietro l’orecchio e poi guardai questa casa, ci avevo vissuto pochissimo, ma forse mi sarebbe mancata.
Alzai le braccia verso il cielo e rientrai, i miei bagagli erano accatastati vicino alla porta: erano giusto un paio di valigie, mi avrebbero mandato il resto più tardi.
“Sei pronta, Misato?”
Mi chiese premuroso mio padre.
“Sì, lo sono.”
Insieme caricammo i miei bagagli nella macchina di famiglia.
“Sei sicura di non volere che io o la mamma ti accompagniamo al tuo appartamento?”
“Sì, devo imparare a cavarmela da sola.
Ce la metterò tutta e ce la farò, vi renderò fieri.”
Dissi inchinandomi a loro.
“Scusatemi per tutti i problemi che vi ho creato nei mesi scorsi, da adesso cambierò.”
Mio padre mi passò dolcemente una mano tra i capelli.
“Alzati, non c’è nulla di cui scusarsi. Era una situazione difficile e tu hai perso la testa, capita, sei umana anche tu.”
Io gli sorrisi timidamente.
Entrammo in macchina e finalmente partimmo, io guardavo attentamente fuori dal finestrino, dando addio a un posto che non avevo avuto la possibilità di conosce appieno.
Arrivati in stazione scaricammo le valigie e insieme ci dirigemmo verso il binario, io tenevo stretto in mano il biglietto che mi avrebbe consegnato una nuova vita.
Avevo il batticuore, ero eccitata, pronta per vivere la mia avventura.
Non vedevo l’ora di scoprire come sarebbe stato vivere in una grande città e avere un obiettivo da perseguire, finora ero stata una foglia che si era lasciata trasportare dal vento della vita, ma da adesso in poi le cose sarebbero state diverse.
Adesso sarei stata io a decidere con le responsabilità del caso.
Arrivati al binario, io e papà salimmo sul treno, lui mi aiutò a sistemare le valigie e poi scendemmo di nuovo visto che mancava un quarto d’ora alla partenza.
Avevo gli occhi lucidi adesso, salutarli sarebbe stato difficile.
Ci abbracciammo stretti.
“Mi raccomando, stai attenta e fa del tuo meglio per essere felice.”
La voce di mamma era rotta.
“Fatti sentire e raccontaci il più possibile.”
Anche quella di papà era incrinata.
“Sì, lo farò. Farò tutte e due le cose.”
Adesso anche la mia voce era incrinata, ci abbracciammo di nuovo.
Poi salii sul treno, raggiunsi il mio scomparto e feci grandi gesti di saluto con gli occhi lucidi.
Di lì a poco il treno partì, le lacrime scorrevano sul mio volto, ma sorridevo.
Presto avrei dato un senso alla mia vita.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodicesimo ***


Capitolo dodicesimo.

 

Sai Nana, non avevo mai capito il tuo rifiuto assoluto e totale della maternità,
pensavo fosse solo una delle tante conseguenze dell’abbandono di tua madre.
Ora che mi ritrovavo a badare a Satsuki lo capii,
quella bambina era mia, ma sentivo di non amarla come avrei dovuto.
Pensavo continuamente a come sarebbe stata la mia vita se
non l’avessi partorita e quando anche la responsabilità di Ren
ricadde sulle mie spalle mi scoprii a pensare che io quei due non li volevo affatto
e mi sentii prigioniera in una vita che ormai non era più mia, ma di due mocciosi
che mi succhiavano le energie.

 

Erano passate due settimane dal parto, i ciliegi erano sfioriti e non faceva altro che piovere.
Tutti i giorni mi svegliavo sotto un cielo grigio che grondava lacrime e andavo a letto sotto lo stesso cielo, era deprimente. Takumi era venuto giusto un paio di volte, poi era sempre da Reira, perché anche lei era incinta e, sebbene non fosse suo, mio marito se ne prendeva cura come se lo fosse.
Sarebbe nato a settembre, all’inizio dell’autunno e per allora Satsuki avrebbe avuto cinque mesi, sarebbe stata quasi alla fine dello svezzamento.
Alla prospettiva di dover allattare anche quel bambino mi sentivo una specie di balia o una vacca, il fatto che fosse il figlio di Shin non alleviava la mia pena, perché era stato il gesto di Takumi a ferirmi.
Satsuki cresceva sana e serena, era una brava bambina se non per il fatto che confondeva spesso il giorno con la notte, quella che non stava bene ero io.
La allattavo, cullavo, cambiavo, lavavo in modo automatico.
Era come quando da piccola dovevo giocare con una bambola che non mi piaceva, il mio istinto materno non scattava del tutto e non riuscivo a prendermene cura come dovevo.
All’improvviso suonò il campanello, io andai ad aprire e mi ritrovai davanti Nobu, fui piacevolmente sommersa da un’ondata di felicità.
Vederlo mi rendeva sempre di buon umore, frammenti di quando stavamo insieme mi tornavano alla mente e pensavo che quello era stato il periodo più felice della mia vita.
“Ciao, Nobu!
Entra, Satsuki sarà felice di vederti.”
Lui mi rivolese il suo solito sorriso triste, da quando avevamo rotto non lo vedevo con il suo vecchio sorriso spensierato. Takumi mi aveva insegnato perché gli uragani venivano chiamati con nomi di persona, probabilmente io lo avevo insegnato a Nobu.
“No, Hachi, ma grazie.”
“Che succede?”
Chiesi preoccupata.
“Torno al mio paese, il treno parte tra un’ora.”
Io mi sentii venire meno, quando l’avrei rivisto ancora?
“Ma perché?”
“I soldi stanno finendo, non voglio entrare in un’altra band, quindi non mi rimane altro che portare avanti la pensione dei miei.”
“Ma tu odi farlo.”
“Lo so mi inventerò qualcosa per renderlo sopportabile.”
Lo abbracciai forte, volevo baciarlo, ma non sarebbe cambiato nulla.
Non era il posto e il momento adatto, non per ora almeno.
“Promettimi solo una cosa: torna per i fuochi d’artificio e per il mio compleanno.
Li festeggeremo all’appartamento 707, come ai vecchi tempi, magari arriverà anche Nana.”
Non volevo piangere, ma le lacrime scendevano da sole, senza controllo. Nobu mi staccò delicatamente da sé e me le asciugò sempre con quel suo nuovo sorriso pieno di ferite.
“Va bene, tornerò.
Festeggeremo e chissà, forse un giorno Nana tornerà davvero, io continuerò a cercarla da Mori se mi sarà possibile.”
Io annuì, lui mi diede un bacio sulla fronte e se ne andò.
Qualcosa dentro di me si spezzò con un rumore secco, tutti i legami con la mia vecchia vita erano stati troncati, ora avevo solo la mia famiglia a cui dedicarmi. Era il sogno della mia vita, ma stranamente mi sembrava di soffocarci dentro.
Non riuscivo più a capirmi, sin da piccola avevo desiderato un marito e dei figli, mamma era una casalinga felice e io volevo essere come lei. Ora lo ero ed ero anche più fortunata di lei perché Takumi era più ricco di papà, ma ero ben lontana dall’essere felice.
Dall’interno arrivò il pianto di Satsuki, io mi riscossi, la pioggia continuava a cadere indifferente alle mie tragedie. Rientrai e cercai di capire di cosa avesse bisogno la mia bambina, l’avevo cambiata da poco quindi non poteva che essere per la pipì. La feci attaccare al mio seno e lei cominciò a poppare soddisfatta, sulle mie guance invece scorrevano libere le lacrime, avevo perso e perso e perso ancora.
L’unica cosa che mi rimanesse era estranea, la bambina per cui avevo tanto lottato era una sconosciuta in cui rivedevo i colori di mio marito.
Che soffrissi di depressione post-partum?
Forse dovevo vedere un dottore o uno psicologo? E con quale coraggio lo avrei detto a Takumi?
Da quando avevano scoperto la gravidanza di Reira un tacito accordo tra di noi diceva che io non gli dovessi pesare addosso, che dovessi risolvere da sola i miei problemi, che lui ne aveva fin troppi.
Satsuki smise di succhiare, le feci fare il ruttino e la rimisi nella sua culla, poi la fissa, a lungo e con occhio critico. Era una bambina molto bella, paffuta e con una gran massa di capelli neri, aveva sempre l’aria di sorridere per qualche motivo e piangeva solo se necessario. Di capricci non ne faceva, ma le piaceva stare con me e sentire la mia voce, adorava sentirmi cantare.
Era la bambina ideale che sognavo da piccola, ma per qualche motivo non riuscivo a sentire per lei l’attaccamento che avrei dovuto. Forse perché non era nata dall’amore, ma solo dalla lussuria e dalla tristezza? Perché mi aveva impedito di agire come avrei voluto con Nana?
Perché avevo perso Nobu?
Probabilmente era per tutte quelle motivazioni, ma non era giusto che lei pagasse per i miei errori, lei era innocente, ero stata io a trascinarla in quel gran casino.
La presi in braccio e la cullai dolcemente.
“Mi dispiace, Sacchan. La mamma è confusa e non ti ama come dovrebbe, ma imparerà a farlo.
Tu non hai colpa per tutto quello che è successo di sbagliato nella sua vita, mamma ti ha voluta e continuerà a farlo.”
Lei gorgogliò felice e mi toccò il volto.
“Tu mi vuoi bene incondizionatamente, vero?
Forse dovrei imparare da te, forse tu la vita l’hai capita più di me anche se hai solo due settimane. Noi grandi siamo complicati, confondiamo quello che vogliamo con ciò di cui abbiamo bisogno e ci rendiamo infelici, dovremmo tutti essere più onesti con noi stessi, ma l’onestà fa paura.
Il giudizio della gente anche e così il dover ribaltare tutta la nostra vita.
Fa paura, tanta paura.
Ma io cercherò di esserci sempre per te, piccolina, anche se non ti ricorderai di questo strano discorso.”
Satsuki gorgogliò di nuovo, mi sembrò che sorridesse, come a dire che aveva capito tutto quello che le avevo detto.
“Sarai di sicuro più intelligente di me.”
Risi, pensando che non ci voleva molto a esserlo.
Io ero stata la tipica ragazza campagnola che arrivata a Tokyo si era fatta mettere incinta in meno di un anno da un uomo che non l’amava. Takumi probabilmente non amava nessuno, se non sé stesso e Reira in maniera distorta, io ero solo una specie di gioco che aveva vinto.
Rimisi la bambina nella sua culla e cominciai a leggere uno dei libri che mi aveva portato Miu, erano sull’arte della vestizione. Una volta che i bambini fossero stati grandi abbastanza volevo iniziare a svolgere quell’attività, in modo da avere un piano B in caso che le cose fossero andate davvero male.
“Sai, Sacchan…
Forse mamma è davvero cresciuta un po’, perché pensa a un piano B per noi, quando si trasferì a Tokyo non l‘aveva e non l’ha avuto per tanto tempo.
Mamma, è proprio un disastro, vero?
Ma ce la metterò tutta d’ora in poi.”
Rimasi colpita dall’inizio del discorso, quel “sai” era lo stesso che usavo per i miei discorsi immaginari con Nana.
“Sacchan, quel “sai” che ti ho detto prima mi ha ricordato una persona.
È la mia migliore amica, si chiama come me ed è la persona più forte che io abbia mai conosciuto, anche se adesso vaga nelle tenebre. Ti prometto che un giorno la conoscerai e lei ti chiamerà con il dolce nome che lo zio Ren ha scelto per te.”
La bambina mosse le gambette e le manine, come eccitata.
Mi chiesi quanto capisse o se reagisse così perché sentiva la voce di sua madre priva della solita nota triste che la caratterizzava.
“Un giorno ti prometto che ti racconterò tutta la storia. Di come la mamma un giorno è venuta a Tokyo, di come ha incontrato Nana, i Blast e Nobu. Forse vorrai sapere di tuo padre, ma – piccola – quella è la parte brutta della storia. Magari capirai perché la mamma avrebbe preferito Nobu.
Spero che un giorno mi perdonerai e non mi giudicherai troppo duramente.”
Satsuki mosse ancora una volta braccia e gambe, io la presi in  braccio e la cullai, nuove lacrime mi rigavano e guance.
Pensavo a come tutto sarebbe stato diverso se la bambina fosse stata figlia di Nobu, avrei mollato Takumi e lo avrei lasciato a crescere da solo il figlio di Reira. Io avrei ritrovato la persona che amavo, insieme ci saremmo occupati della pensione Terashima e avremmo cercato Nana.
Il giorno che l’avremmo trovata avrebbe di sicuro riso dicendo che eravamo due cagnolini rumorosi, ma che era felice di averci nel suo giardino. Chissà magari avrebbe persino abbandonato l’idea stessa del giardino e sarebbe stata semplicemente felice e basta.
Satsuki però era figlia di Takumi, come testimoniavano i capelli neri e tra qualche mese avrebbe avuto un fratellino non desiderato. Amavo Shin come un figlio, ma non riuscivo ad amare la sua creatura, percepivo chiaramente che non era compito mio allevarla.
Era Reira sua madre, era lei che doveva prendersi la responsabilità di crescerlo come avevo fatto io.
Tutti dicevano che Reira era debole, secondo me era solo una gran bella egoista, una che scappava dai suoi casini. Un giorno avrei dovuto spiegarlo a Satsuki e a quel bambino non ancora nato.
La mia vita sarebbe stata tutta in salita d’ora in poi e non ci sarebbe stato nessuno a darmi una mano, nessuna spalla su cui piangere.
Ero sola, completamente sola.
Nobu era appena partito, Nana era scomparsa, Shin sarebbe stato impegnato a trovare una carriera alternativa, Yasu sarebbe tornato a fare l’avvocato e comunque aveva Miu dalla sua parte; in quanto a Takumi non c’era mai veramente stato.
Ero solo la mogliettina giovane e carina da cui correre a farsi coccolare dopo il lavoro, che era la sua priorità, e le altre donne.
Sì, sapevo che mi tradiva, ne avevo trovato le tracce per caso mentre mettevo in lavatrice alcune delle sue camice. La vita è banale in fondo, segue i suoi cliché e tu ti devi abituare.
Io non mi arrabbiai comunque, dicevo agli altri di amarlo, ma mentivo, mentivo sempre.
Continuavo a farlo perché non si preoccupassero troppo per me, ero sempre stata un peso per tutti e mi ero stancata: per tutta la vita ero corsa da Jun o da Nana in lacrime per essere consolata.
Ora quel tempo era finito, ero legata a doppio filo a Takumi e dovevo accettare sia i lati positivi che negativi.
L’unica cosa a cui potevo aggrapparmi era Satsuki e probabilmente, con il tempo l’avrei fatto, dovevo solo lasciare che la delusione scivolasse via da me.
Dovevo anestetizzare la mia vita, come si anestetizza la bocca prima di togliere un dente.
Davanti a me si stendeva un lungo nastro grigio, senza scosse o novità: era quella la mia vita.
Sarei stata una madre, avrei lavorato e non avrei più amato.
Era buffo come l’amore fosse diventato un lusso per me, io, quella che senza amore non viveva, sempre pronta a buttarmi tra le braccia degli uomini più disparati, credendo sempre di essere innamorata e di aver trovato il principe azzurro.
Buffo in modo tragico.
Eppure, in fondo al mio cuore – nell’angolo più recondito dove vivono solo i sogni – speravo di riuscire un giorno a tagliare quel nastro, la mia catena immaginaria che mi inchiodava alla cuccia.

 

Erano passati ormai due mesi e mezzo.
La primavera aveva ceduto dolcemente il passo all’estate, i ciliegi erano sfioriti e nel mio giardino erano bocciati i girasoli. Il tepore si era trasformato in caldo.
Era un’estate calda, ma non troppo umida così era anche piacevole uscire con il passeggino a passeggiare con Satsuki. Andavamo spesso al parco, io mi sedevo su una panchina all’ombra e mi godevo la frescura, ascoltando il ronzio degli insetti.
Non avevo fatto amicizia con le altre mamme, a volte mi raggiungevano Shin, Misato o Miu se avevano del tempo libero. La bambina assorbiva quasi tutte le mie giornate, ma trovavo sempre il tempo di leggere il libro di Miu o esercitarmi.
Avevo appeso un furin alla finestra e mi godevo al meglio quel luglio, pensando con eccitazione al momento in cui ci sarebbero stati i fuochi d’artificio sul fiume Tama.
Takumi veniva di rado a casa, la gravidanza di Reira sembrava essere una di quelle complicate – forse anche perché lei si rifiutava ancora di mangiare o lo faceva pochissimo – e mio marito era sempre al suo fianco.
Non mi mancava affatto, ero solo preoccupata che trascurasse la bambina e che lei ne soffrisse.
Anche quel giorno uscii per andare al parco come sempre, Tanabata era passata da un paio di giorni, avevo comprato un bambù e avevo scritto il desiderio sul tanzaku in codice. Se mai mio marito l’avesse voluto leggere non ci avrebbe capito nulla, inutile dire che Takumi non era passato da casa.
Arrivata alla mia solita panchina mi sedetti e cominciai a farmi aria con il ventaglio, persa nei miei ricordi.
Un anno prima era il periodo più felice della mia vita, ero la ragazzo di Nobu, Nana e io eravamo due amiche unite, i Blast stavano per debuttare. Mi sentivo eccitata per quello e auguravo loro il meglio, era quello che avevo scritto sul tanzaku dell’anno prima.
Sorrisi debolmente pensando a quel Tanabata, eravamo tutti nell’appartamento 707, Yasu aveva spiegato a Shin il significato della festa e i cartoncini colorati erano sparsi sul tavolo. Quando finalmente li avevamo appesi tutti e messo il bambù accanto alla finestra un colpo dispettoso di vento se li era portati via tutti.
Io avevo desiderato che i Blast ce la facessero ed ero stata accontentata, ma a che prezzo?
Sospirai e pensai a quella notte di luglio in cui avrebbero dovuto esserci i fuochi d’artificio al fiume Tama, io mi ero persino comparata uno yukata, ero eccitatissima.
Solo che quella sera arrivò un tifone, i fuochi furono annullati e io ero delusissima, ci pensò Nana a risolvere la situazione. Chiamò Nobu, lui arrivò con Shin e Yasu con dei fuochi comprati in un convenience store a poco prezzo, bagnato come un pulcino.
La mia delusione si era tramutata in una gioia dilagante, scendemmo tutti lungo l’argine del fiume, compresa Misato che era nostra ospite.
Accendemmo quei fuochi d’artificio a poco prezzo e mi sembrarono più belli di tutti quelli che avevo vito nella mia vita, ne porsi uno anche a Nana sorridendo. Allora non capivo da dove arrivasse tutta questa felicità, adesso lo sapevo. Era perché ero circondata dall’affetto di persone che mi amavano così com’ero e che si prendevano cura di me. Tutti avevano sfidato quella notte piovosa solo per farmi felice, Takumi sapeva solo comprarmi delle cose per compensare la sua assenza e io me ne ero resa conto.
Peccato che avere l’armadio pieno di vestiti costosi non mi rendesse poi così felice.
Tornai a casa, l’essere una casalinga di Shirogane non faceva per me alla fine, Junko si era sbagliata.
Cinque giorni più tardi arrivò finalmente la tanta sospirata serata, mio marito aveva mangiato a casa e poi era sparito da Reira. Io mi misi uno dei mei yukata preferiti – giallo dorato con dei fiori arancioni – e mi rimirai allo specchio. La gravidanza non aveva lasciato chili in eccesso sul mio corpo, c’era solo la  mia solita faccia tonda. Mi pettinai e mi truccai, feci indossare a Satsuki una tutina coordinata con il mio yukata: era bellissima.
Il tempo era sereno questa volta, le stelle scintillavano quietamente in cielo illuminate da una grande luna piena, un vento tiepido muoveva le fronde degli alberi del mio giardino, mi portava il profumo dei fiori e faceva tintinnare il furin.
Era una bella notte.
Salii sul taxi dopo aver smontato la carrozzina con l’aiuto del taxista e partii, Tokyo mi offrì come al solito il suo spettacolo di luci e strade affollate.
L’appartamento 707, che si affacciava sul fiume, era in una zona tranquilla.
Arrivati, rimontai il passeggino, pagai il taxista e poi mi guardai attorno, la casa della mia anima era senza ascensore, avevo bisogno di aiuto per arrivarci.
“Hachi!”
Mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai, Misato stava venendo verso di me, i boccoli biondi più lunghi rispetto all’ultima volta che l’avevo vista.
“Ciao, Misato.
Gli altri sono già arrivati? Andiamo prima all’appartamento, giusto?
Non mi sembra che ci sia tantissima gente, non dovremo lottare per un posto.”
“Yasu e Shin sono arrivati, Nobu ha telefonato e ha detto che il treno sta per arrivare a Tokyo, Miu è sul set, ma pensa di riuscire a liberarsi dai suoi impegni entro un’ora.
Sai che è arrivata a Tokyo la sorellina di Nana?
Yasu dice che le somiglia molto fisicamente.”
Mentre parlava aveva smontato di nuovo il passeggino di Satsuki e se lo era messo sottobraccio.
“Andiamo! C’è della birra fresca che ci attende.”
“Va bene.”
Entrammo nel condominio e salimmo le scale, io ero in presa a un fortissimo senso di déjà-vu, quante volte avevo percorso quelle scale?
Perché me ne ero andata?
Finalmente ero davanti alla porta dell’appartamento, Misato la aprii e una scena familiare apparve davanti ai miei occhi. I ragazzi stavano fumando e chiacchierando seduti al tavolo che Nana aveva costruito, era come se il tempo non fosse mai passato. Era questo l’effetto dell’appartamento 707, congelava tempi e situazioni, custodiva e si faceva tempio di un dolore che non passava mai. Gridava tutta la nostra sofferenza per la scomparsa della mia amica e la nostra angoscia, eppure era piacevole tornarci.
“Ciao!”
Gridai, Yasu e Shin si voltarono verso di me e spensero le sigarette. Con un movimento fluido Yasu aprì la finestra e Shin venne verso di me. Sistemò il passeggino e poi mi abbracciò stretta.
“Satsuki è sempre più bella.”
Disse mentre le accarezzava delicatamente la fronte.
“Posso metterla nel passeggino?”
“Sì.”
Lui la depose sulla copertina con dolcezza e finalmente arrivammo tutti al tavolo.
Mi chiesero notizie sulla bambina e sui suoi progressi, io chiesi notizie dei loro rispettivi lavori. Lo studio dove aveva lavorato Yasu prima del debutto dei Blast lo aveva riaccolto e adesso le cose andavano bene, Misato aveva deciso di prendersi cura della carriera di Shin e adesso lui lavorava sia come modello che come attore. Era dotato di un talento naturale per la recitazione e grazie al suo look era particolarmente richiesto per i ruoli del giovane ribelle.
A modo loro erano felici, o almeno ci stavano provando.
Un leggero bussare ci fece sobbalzare, il mio corpo si alzò automaticamente per andare ad aprire la porta e mi ritrovai davanti Nobu.
Il mio cuore saltò un battito e in quello stesso momento le acque di Reira si ruppero con due mesi di anticipo.
“Ciao.”
Dissi con voce soffocata.
Lui mi scompigliò i capelli ed entrò.
“Dov’è Satsuki?”
Io chiusi la porta e gli indicai la carrozzina, lui camminò incerto e scrutò dentro il passeggino.
“Diventa sempre più bella, come te.”
Frugò nella borsa da viaggio ed estrasse un sacchetto che mi porse.
“Lo vendevano alla festa del paese, ho pensato potesse piacerti.”
Aprii il regalo e vidi che era uno scaccia pensieri tradizionale, fatto con dei cilindri e con in mezzo un kanji dello stesso materiale. Era il kanji per Nana, lo scossi leggermente e un tintinnio argentino ne scaturì, come un richiamo per qualcuno di molto speciale.
Mi vennero le lacrime agli occhi.
“Grazie, è veramente bello.”
“Sono sicuro che ci riporterà Nana, prima o poi.”
Io annuì energicamente, ero rimasta senza parole. Per fortuna arrivò Miu e cominciammo a bere e chiacchierare di nuovo, Satsuki era la regina della festa, se la spupazzavano tutti, persino Misato che non sembrava amare molto i bambini.
Alla fine arrivò l’ora dei fuochi d’artificio e scendemmo allegri lungo le sponde del fiume Tama, era arrivata un po’ di gente, ma non troppa. Si godeva comunque di una magnifica vista e io amavo il rumore dello scorrere dell’acqua.
Reira allora stava arrivando in ospedale, in lacrime, le mani strette in quelle di Takumi, pronta a dare alla luce il suo primo e indesiderato figlio.
Il primo fuoco esplose nel cielo, un lampo di luce dalla forma floreale che brillò per un attimo e poi sparì, ingoiato dal buio della notte.
Satsuki si mise a piangere, Yasu la prese in braccio, lasciandomi accanto a Nobu.
Potevo sentire il suo calore,  il suo dolore, desiderai fare qualcosa per lenirlo, ma avrei solo peggiorato la situazione. Volevo prenderlo per mano o accarezzarlo, ma sapevo che gli avrei fatto solo del male.
Intanto Reira stava partorendo, non era un parto facile visto che la madre era troppo magra e debilitata, erano momenti critici. Il bambino stava bene, non si poteva dire lo stesso della madre, per un attimo i medici temettero di averla perso, ma lei stupì tutti salvandosi.
Non volle vedere il bambino, tutti ne furono stupiti tranne Takumi.
L’unica cosa che disse era che desiderava si chiamasse Ren Ichinose, nessuno obbiettò a quella scelta, né durante né dopo, tutti amavamo Ren Honjo.
I fuochi continuavano a esplodere in cielo, colorando il fiume di riflessi dorati e colorati, lasciandomi a bocca aperta.
All’improvviso sentii la mano di Nobu stringere la mia, la strinsi a mia volta e poi lo guardai sorpresa.
“Non te ne pentirai dopo?”
“Sai, penso di essere scientificamente incapace di mollare quando si tratta di te. Non importa quanto male mi hai fatto, mi fai e mi farai, io alla fine torno sempre da te.”
Disse con espressione seria, io sentii gli occhi bruciare di lacrime.
“Va bene.”
La voce mi uscì spezzata.
Rimanemmo così, mano nella mano a guardare i fuochi d’artificio, Yasu ci guardò per un attimo, ma non disse nulla. Forse disapprovava o forse no, le sue emozioni continuavano a rimanere un mistero per tutti.
E mentre i fuochi inondavano il cielo di luce un nuovo vagito si faceva sentire nel mondo e io non lo sapevo, beatamente incosciente.
La mano di Nobu era calda, mi trasmetteva sicurezza e un senso di benessere, era come se nulla di male potesse accadermi quando ero con lui.
Credo sia stato questo misterioso potere a impedirmi di sentire il cellulare che suonava quella sera, Takumi mi cercava, io però non ero disponibile. Per una sera ero di qualcun altro, ero al mio vero posto e forse persino gli dei si impietosirono e non mi mandarono interferenze.
Avevo bisogno di ricaricare le batterie e quella fu una sera benedetta.
Ogni volta che ci ripensavo sorridevo per essere rimasta fuori dai drammi di Reira e di mio marito, ma capii anche una cosa molto dolorosa.
La mia felicità era fatta di momenti che non duravano, i grani di una collana che si protendeva nel futuro e che io continuavo a seguire sperando che mi portasse al mio posto.
Mi avrebbe ricondotta da Nana, da Nobu e dai Blast, mi avrebbe pazientemente fatto capire come crescere i miei figli al meglio e quando lasciare Takumi.
A mio modo lo amavo, ma non sentivo il per sempre che lui si aspettava da me.
Un altro fuoco esplose nel cielo, di che colore sarebbe stata questa gemma?
Cosa avrebbe significato?
Non lo sapevo, sapevo solo che Nana mi mancava e che non era morta.
Sarei stata riportata da lei dalle vie misteriose del destino.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredicesimo ***


Capitolo tredicesimo.

 

Sai, Hachi… Avevo sempre desiderato andare a Londra.
Era dove mi immaginavo fosse nato il punk, dove i Sex Pistols
avevano calcato i palcoscenici ancora prima che nascessi.
Per una ragazza di un piccolo paese come me era la terra dei
sogni. Quando vi arrivai era solo un posto come un altro per scappare
da voi e da Ren. Un luogo nuovo e, per certi versi, ostile, ma in cui
avrei potuto ricominciare da capo.

 

Erano passati tre mesi da quando Miyako mi aveva offerto asilo a casa sua, avevo cercato di aiutarla il più possibile con la gravidanza, ma non ci riuscivo.
Non potevo uscire perché o i paparazzi o i miei amici mi avrebbero riconosciuta e trovata e non volevo che accadesse. Per tutti ero diventata un mistero e mi andava bene così, ma i misteri ambulanti non sono granché utili.
Settembre era arrivato, il caldo aveva allentato la sua morsa su Tokyo e iniziato a colorare timidamente le foglie degli alberi di arancione e di giallo.
Le cose non potevano andare avanti così, stavo diventando un peso più che un aiuto per mia cugina, era arrivato di levare di nuovo le tende. Si era alzato il vento e io non ero altro che un uccello migratore senza fissa dimora.
La mia casa non era a Mori né a Tokyo e nemmeno a Okayama.
La mia casa erano delle persone che, per un motivo o per un altro, mi avevano rifiutata e messa in secondo piano nelle loro scelte di vita.
Era arrivato il momento di andarsene, ma mi sentivo in colpa nei confronti di Miyako che mi aveva accolta senza chiedermi nulla in cambio.
Finalmente una sera di metà mese riuscii a trovare il coraggio necessario per parlarle, lei stava bevendo il thé sul divano, la pancia si era gonfiata a dismisura.
“Miyako, ti ringrazio per avermi accolta, ma… Non credo che io ti possa aiutare quanto ti serve, non posso nemmeno uscire da casa.
Io credo di essere diventata un peso per te, quindi… Quindi io vorrei andarmene.”
Dissi ad alta voce e occhi chiusi, quando li riaprii lei mi stava sorridendo.
“Finalmente ti sei decisa a parlarmene, mi chiedevo quando l’avresti fatto.”
“Non sei arrabbiata?”
“No, so che è la soluzione migliore e poi tu non sembri amare la maternità.”
Io arrossii fino alla punta dei capelli, incapace di replicare, visto che aveva toccato uno dei miei punti deboli.
“Dove vorresti andare?”
Mi chiese.
“Io vorrei andare a Londra.”
“Ok, ti farò avere i documenti necessari al più presto. Soldi ne hai?”
“Sì, ho ritirato quello che avevo sul mio conto in banca e poi una volta là posso lavorare.
So fare un po’ di tutto.”
“Sei sicura di voler abbandonare del tutto i tuoi amici?”
“Io sono solo un peso per tutti.”
Mormorai a bassa voce, guardando il pavimento con aria vacua.
“No, sei amata. Li ho visti i tuoi amici sbattersi per cercarti, loro ti vogliono bene.”
“Ma alla fine vengo sempre lasciata indietro, sono la seconda scelta. È meglio che io me ne vada e poi qui, in Giappone, ho troppi ricordi di Ren.”
Ren era uno dei tanti che mi aveva messo in secondo piano e poi lasciata indietro e ora voleva che io lo seguissi. Un giorno l’avrei certo fatto, ma per ora volevo vivere ancora per un po’ e dovevo farlo lontano da tutto quello che conoscevo.
“Capisco.”
Miyako non disse nulla e gliene fui profondamente grata, l’argomento era troppo vasto e delicato per poter essere affrontato come una conversazione leggera.
“D’accordo, Nana. Ti aiuterò, anche se penso che non dovresti farlo.”
“Ti ringrazio, la fuga è nel DNA di questa famiglia, vero?”
Lei accennò un sorriso.
“Sì, a quanto pare.”                                                                                                                                                                                                                              "Già."
“Beh, io vado a prepararti i documenti.”
Mi lasciò da sola, il sole stava tramontando ed entrava a lame dalla finestra.
Il pulviscolo ballava pigro ricordandomi le galassie lontane che si muovevano da qualche parte nello spazio, loro sapevano quale era il loro posto, io no.
Pensai a miei amici, avevo raccolto qualche informazione su di loro in questi mesi.
Hachi aveva partorito una bambina, l’aveva chiamata Satsuki come voleva Ren, anche Reira aveva partorito, un bambino di nome Ren. Supponevo fosse di Takumi dato che l’aveva riconosciuto come Ren Ichinose, ma una volta l’avevo visto da lontano e somigliava molto a Shin.
Alla fine era Reira la burattinaia della situazione, la principessa del canto teneva tutti in pugno, l’aveva sempre fatto e l’avrebbe sempre fatto.
La manipolazione era come una seconda pelle per lei.
Shin non ne sapeva nulla, ma immaginai che Hachi soffrisse profondamente nel crescere quel bambino che non era suo.
Yasu era tornato a lavorare nello studio che aveva lasciato per inseguire sogni di gloria, era ancora fidanzato con Miu e mi sembrava felice.
Shin invece aveva intrapreso una carriera di modello e attore, compravo le riviste dove appariva e i film in cui aveva dei ruoli, per quanto marginali fossero. Ero felice che non fosse tornato a prostituirsi, dietro doveva esserci lo zampino di Misato Tsuzuki o di Yasu o di tutti e due, ma Misato era la possibilità più probabile.
Nobu era tornato al paese a dirigere la pensione dei suoi, era l’unico per cui provassi un sincero dispiacere, gli avevo rovinato la vita.
Ero una bestia.
Ogni tanto vedevo anche la mia sorellina in giro per Tokyo, cambiava colore dei capelli molto frequentemente e, a quanto avevo capito frequentava una specie di scuola professionale per entrare nel mondo dello spettacolo.
C’erano delle volte in cui, ricordandomi della sua lettera, volevo fermarla e bere un caffè con lei per sapere che tipa fosse, che effetto avesse fatto ricevere l’affetto di mia madre, ma non lo feci mai.
Avevo troppa paura delle risposte.
In ogni caso era inutile costruire dei legami se stavo per andarmene, avrebbe reso le cose più difficili e sapevo che lei l’avrebbe detto agli altri. In breve tempo mi avrebbero raggiunta e avvolta nel loro affetto come avevano sempre fatto, una parte di me lo desiderava, l’altra invece sapeva benissimo che avrei continuato solamente a distruggere le loro vite. Si meritavano di meglio che un disastro ambulante come me.
Durante le due settimane seguenti firmai un sacco di carte e trascorsi molto tempo navigando su internet, cercavo un appartamento o almeno un bed and breakfast in cui stabilirmi per i primi tempi. Non trovai appartamenti, solo un b&b a prezzi economici, era meglio di niente.
Partii da Tokyo il primo ottobre, era una giornata serena con un vento frizzante che invitava a buttarsi in nuove avventure. Miyako non mi accompagnò, ci salutammo a casa, poi io mi diressi in aeroporto in treno.
Non avevo molti bagagli, ma ero abituata a viaggiare leggera.
Il mio volo partiva alle quattro del mattino, alle due ero già in aeroporto, che era semideserto per mia fortuna. Non volevo essere riconosciuta né fermata, volevo solo andare via.
Era passato più di un anno da quando ero arrivata a Tokyo, allora volevo dimostrare di poter essere indipendente e farcela senza l’aiuto di nessuno, soprattutto di Ren, oggi invece volevo solo scappare.
Ero come prosciugata, i miei sogni si erano sgretolati, sbriciolati, stracciati dalla vita e buttati nel vento del cieco caso. Non avevo più nulla, nemmeno la mia voce, perché ormai di vivere cantando me ne importava poco.  L’unica cosa che volevo era smettere di pesare sui miei amici e di rovinare loro la vita, continuavo a ripensarci come un mantra.
Se Hachi non mi avesse incontrata Takumi non sarebbe mai entrato nella sua vita, lei non sarebbe mai rimasta incinta e a quest’ora si starebbe godendo la vita come una ragazza qualsiasi.
Lavorando, stando con gli amici, inseguendo l’amore fino a trovare quello giusto che per qualche ragione pensavo che per lei fosse Nobu.
Nobu probabilmente a quest’ora sarebbe a Tokyo a inseguire il suo sogno, in un’inconsapevole attesa di incontrare Hachi, invece di tornare sconfitto a lavorare per la pensione Terashima.
Yasu sarebbe un avvocato, uno di quelli bravi, l’unica incognita era Shin.
Cosa ne sarebbe stato di lui senza i Blast?
Forse l’unica cosa buona che avevo fatto era stata quella di salvarlo dalla sua vita ai margini della legalità, ma era successo per caso.
Da me non veniva mai nulla di buono.

 

Arrivai a Londra dopo un volo che mi parve lunghissimo.
Fuori pioveva ed era buio, faceva anche più freddo che in Giappone, così mi strinsi nella mia giacca di palle mentre scendevo dall’aereo.
Mi lasciai guidare dal flusso dei passeggeri, ritirai i bagagli e poi compilai le scartoffie burocratiche necessarie, alla fine mi ritrovai dall’aeroporto sola e sperduta.
Come la maggioranza dei giapponesi avevo una conoscenza superficiale dell’inglese, a volte inserivo frasi in quella lingua nelle mie canzoni, ma solo perché era figo. Lo facevano tutti, storpiando la pronuncia corretta, così lo facevo anche io.
Ora ero sola in un paese dove l’inglese era l’unica lingua parlata, dove il giapponese era inutile, tremai leggermente per il freddo e lo stress. Respirai profondamente e mossi qualche passo, non potevo rimanere paralizzata per sempre. Mi diressi verso un taxi e dopo un bel po’ di dialogo smozzicato e fatto di gesti riuscii a fargli capire dove volessi andare.
Salii in macchina dopo aver buttato le mie valigie nel bagagliaio, poi partimmo.
Londra mi scivolava addosso come pioggia mentre percorrevamo le strade che mi avrebbero portato al bed and breakfast. Mi sentivo anestetizzata e non gioivo come avrei dovuto per aver visto il Tamigi, il Big Ben, il London Bridge, la grande ruota panoramica.
Da dove veniva questo freddo interiore?
Ero stata io a troncare i rapporti con i miei amici, quindi perché mi sentivo così?
Strinsi i pugni, non potevo vacillare.
Un giorno forse sarei tornata, ma prima dovevo capire se riuscivo a stare in piedi da sola, senza appoggiarmi psicologicamente a nessuno. Sapevo che me la sarei cavata con il lavoro, lo facevo da quando avevo sedici anni, era il resto che non funzionava: dovevo sempre puntellarmi a qualcuno fino a soffocarlo per riuscire a vivere.
Questo era egoista e malsano.
Guardavo il mio riflesso nel finestrino, una ragazza giapponese con dei capelli neri di media lunghezza mi restituiva lo sguardo. Non mi truccavo più, i vestiti più vistosi, quelli più in stile punk non li indossavo quasi mai. Se prima volevo spiccare tra la folla, ora volevo sparire, le uniche cose da cui non mi sarei mai separata erano l’anello di fidanzamento, il chiodo di pelle e gli anfibi.
Erano i miei legami con Ren.
Ci fermammo in una casetta in periferia, io scaricai le mie valige e pagai l’uomo, mentre la macchina si allontanava suonai il campanello.
Poco dopo si affacciò una donna di mezza età benvestita, ma non con capi di alta moda, cercava solo di darsi un tono allo stesso modo in cui io fumavo una sigaretta dopo l’altra.
“Sono Nana Osaki, è questo il bed and breakfast delle rose?”
Dissi piano, il mio inglese sembrava ancora più scolastico e stentato.
“Sì, è questo. Venga pure, le apro il cancello.”
Infilò la mano oltre lo stipite e il cancello elettrico scattò, io entrai trascinandomi dietro le due valige.
La donna mi guidò fino in salotto, poi si sedette a un tavolo ingombrante di legno scuro e aprì un libro polveroso, poi mi fissò. Due glaciali occhi azzurri mi perforarono.
“Sono Rose York gestisco questo bed and breakfast. Piacere di conoscerla, signorina…”
“Osaki, Nana Osaki.”
“Potrebbe darmi la sua carta di identità?”
Annuii e la tirai fuori dal portafoglio.
“Quando conta di fermarsi, signorina Osaki?”
“Non lo so. Il tempo di cercarmi un appartamento, conosce qualcuno che affitta o un’agenzia?”
“Capisco. Segnerò due settimane allora.”
Io non dissi nulla.
“Per rispondere alla sua domanda: sì, conosco qualcuno.
Le consiglio però di farsi una doccia, uscire a mangiare qualcosa e poi dormire, mi sembra stanca.”
“Credo che la sua sia una buona idea.”
“L’accompagno in camera.”
La donna si alzò dalla sedia salimmo al piano superiore, c’erano diverse porte, la casa mi era sembrata spaziosa dall’esterno, ma non mi aspettavo che lo fosse così tanto.
Aprì la seconda porta a sinistra, io mi ritrovai in una camera con un letto a due piazze, una scrivania, un armadio e un piccolo bagno. C’era anche una finestra a bovindo, era tutto piuttosto spartano, quando dal salotto mi sarei aspettata un trionfo di pizzo e uncinetto.
“L’ho rimodernata, ai giovani non piacciono le vecchie case piene di decorazioni.”
Sembrava avermi letto nel pensiero, era inquietante.
“È bella.”
“Per voi giapponesi è diverso, vero? Ci sarà sempre qualcuno che vorrà abitare in una casa in stile tradizionale.”
Ripensai alla pensione Terashima, era esattamente il tipo di casa che un occidentale si aspettava di trovare in Giappone.
“Sì. Ci sono ancora parecchi hotel tradizionali, i genitori di un mio amico ne hanno uno.”
“Come sospettavo. Qui la gente non vuole altro che demolire il vecchio per far posto al nuovo, non mi stupirei se un giorno abbattessero il Big Ben.
Buon soggiorno a Londra, signorina Osaki.”
La donna mi lasciò da sola, io sistemai il mio bagaglio: mi ero portata davvero poche cose, come sempre.
Reperii il necessario per fare una doccia e controllai il bagno, era piccolo, ma perfettamente pulito e c’era la doccia. D’improvviso provai un’irrazionale nostalgia per le vasche da bagno: quella che avevo diviso con Ren e quella dell’appartamento 707 in cui io e Hachi ci scambiavamo segreti e confidenze.
Sospirai, non potevo permettere di farmi attaccare dal passato così presto, dovevo almeno provare a resistere.
Ruotai la manopola della doccia sull’acqua calda e aspettai qualche minuto prima di entrare, era piacevole sentire l’acqua bollente sulla pelle. Mi scaldava dentro, mi faceva sentire meno sola, avevo letto da qualche parte che le persone che si sentivano sole o in carenza d’affetto facevano lunghe docce calde per compensare l’affetto con il calore corporeo. Forse era lo stesso anche per me.
Uscii dalla doccia, mi asciugai per bene, anche i capelli.
Indossai un paio di jeans stracciati, una maglia e un maglione a righe nere e rosse, sotto avevo le calze pesanti. Mi misi i soliti anfibi, la giacca di palle e una sciarpa di lana con scritto “Ren”, l’avevo trovata nelle cose che avevo lasciato nell’appartamento 707. In origine era stata un dono per lui, ma in una notte di neve e di freddo lui l’aveva data a me per scaldarmi.
Presi anche la borsa e scesi al piano inferiore, la padrona stava cucinando qualcosa, non capii che cosa.
“Signora, io esco per mangiare qualcosa.”
“Ottimo, cara. Là c’è una piantina della metropolitana, ho cerchiato dove siamo noi.
Cerca di tornare per mezzanotte, per favore.”
“Sì.”
Presi in mano la mappa e la studiai, Londra era immensa.
Cercai il cerchio e lo trovai, la fermata non era troppo lontana e sarei potuta arrivare in una zona più vicina al centro. Sarebbe stato stupido sprecare soldi nei bar costosi quando potevo avere un servizio decente a un prezzo più basso.
Mi fermai a un MacDonald, ordinai il mio menù preferito e aspettai, mi venne subito in mente il Jackson Burger, ma scacciai quel pensiero.
Presi il menù e lo mangiai piuttosto meccanicamente, non sentivo il sapore, bastava solo che mi riempisse lo stomaco e mi tenesse in piedi.
Finii tutto e mi ributtai nella notte animata, c’era in giro tantissima gente esattamente come a Tokyo e per un attimo mi sentii a casa. Per un attimo pensai che Hachi mi aspettava nell’appartamento 707 con i ragazzi.
Poi realizzai che ero a Londra e mi si strinse il cuore, faceva un male cane.
Scesi di nuovo in metropolitana e presi la linea che portava nel cuore della città, volevo visitare o almeno guardare i monumenti più famosi. Invece mi ritrovai a passeggiare lungo il Tamigi come avrei fatto lungo il fiume Tama a Tokyo, stavo ancora cercando l’appartamento 707. La fantasia stava di nuovo prevalendo sulla realtà, dovevo arginarla.
Domani avrei cercato un appartamento e un lavoro, così sarei riuscita a concentrarmi come avevo bisogno.
Girovagai fino alle undici, guardai il London Bridge, il Big Ben e il Millenium Eye da lontano, sarei venuta una mattina o un pomeriggio per osservarli meglio.
La metro mi inghiottì di nuovo, ci avevo messo un’ora ad arrivare qui e ce ne misi un’altra a tornare a casa, arrivai a mezzanotte precisa.
La padrona di casa era in salotto a vedere la tv, mi guardò quando entrai.
“Buonasera, signorina Osaki o signora?”
Occhieggiò al mio diamante.
“Signorina. Lui è morto prima che ci potessimo sposare.”
Dissi piano, la donna annuì comprensiva.
“Mi dispiace per la sua perdita, le è piaciuta Londra?”
“Molto. Mi ha ricordato Tokyo a volte.”
“Lei è di Tokyo?”
“Ho vissuto a Tokyo per un anno e mezzo prima divenire qui, ma sono originaria di un piccolo paese sul mare dove nevica molto.”
“Capisco. Il clima le pare freddo?”
“Un po’. Più freddo di Tokyo e quasi più freddo del mio paese natale.”
“Si abituerà presto.”
“Credo di sì.”
Mormorai, non c’era scelta per me: adattarsi o morire.
E io non volevo morire, non ancora.
Il fantasma di Ren nell’angolo della stanza scosse la testa, mi raggiungeva in ogni luogo – forse perché viveva nella mia testa – e mi ricordava implacabile la promessa.
Morire insieme.
Se uno muore anche l’altro lo segue.
Promesse, promesse.
Il matrimonio, i “ti amo”, la band, insieme per sempre.
Promesse, promesse.
Che si erano infrante tutte.
Sentii freddo dentro come il giorno in cui Ren partì  per Tokyo senza di me, lasciandomi a piangere alla banchina della stazione, mentre lui piangeva sul sedile o almeno così diceva Nobu.
Perché non mi aveva portata con sé? Perché non me lo aveva nemmeno chiesto?
Cosa ne era stato della promessa di invecchiare insieme nel nostro appartamento? Cosa ne era stato di noi?
Erano tutte domande a cui ora lui non poteva più rispondere, erano tutte domande che non gli avevo fatto in vita per via del mio orgoglio.
“Ho sonno, vado a dormire.
Buonanotte.”
“Buonanotte anche a lei.”
Salii in camera mia con il passo pesante, nemmeno stessi trascinando con me il peso del mondo.
Forse trascinavo solo il mondo che c’era nella mia testa, quello felice in cui vivevo in una grande casa con Hachi, Ren e Nobu, in cui la band era famosa e sentivo di aver dimostrato a tutti di valere qualcosa.
La casa sul mare con la veranda costruita da me, il giardino per Hachi e i suoi figli.
Illusioni.
Ero a un passo dal ricadere in un attacco di panico, dovevo pensare a qualcos’altro e in fretta.
Ero a Londra e io avevo sempre desiderato andarci, invidiavo Ren quando partiva con i traditori.
Avevo visto dei monumenti molto belli, sembrava che qui ci tenessero al passato.
Domani avrei cercato un lavoro, con il lavoro avrei avuto dei soldi e con i soldi mi sarei potuta trasferire in un appartamento mio. Sarebbe stato un posto modesto, ma sarebbe stata la mia tana e non avrei preso coinquilini, arrivare a pagare l’affitto alla fine di ogni mese sarebbe stata una sfida visto che Londra non era certo una città in cui le cose costassero poco.
Le sfide mi piacevano ancora, anche se quella che mi preparavo ad affrontare era modesta e non avrei più cantato.
L’avrei fatto solo se fosse stato strettamente necessario, dalla mia voce erano nati solo guai.
Mi stesi a letto sopra le coperte e fissai il soffitto, le ombre si rincorrevano, creavano strane forme e poi le distruggevano. Sembrava quasi estate, sembrava quasi la mia camera da adolescente.
Se avessi potuto tornare indietro avrei detto alla me stessa del passato di non essere così dura con Ren, di chiedergli se poteva accompagnarlo a Tokyo. Perché l’orgoglio mi aveva fatto solo soffrire e perdere momenti preziosi che avrei potuto trascorrere con lui, il ticchettio dell’orologio della morte era dietro l’angolo, non valeva la pena di fare la stronza.
La questione figli era ancora tabù, ma c’era un pensiero sotterraneo che mi perseguitava: se fossi rimasta incinta avrei avuto almeno un frammento dell’uomo che amavo accanto a me.
Un esserino con i suoi occhi o il colore dei capelli, magari con un carattere o qualche tic come lui, magari persino il tono di voce.
Io però ero stata testarda fino alla fine a avevo sempre preso la pillola e poi che madre sarei stata?
Un disastro come la mia, non riuscivo a immaginarmi con un neonato tra le braccia, a volere bene a una creatura così fragile, a sentirla mia.
Il mio amore era tossico.
Mi infilai sotto le coperte.
Dovevo pensare al lavoro, avevo visto qualche bar nei dintorni, un supermercato e un Mac Donald, tutti posti in cui avrei potuto chiedere. L’esperienza non mi mancava, in Giappone mi ero data da fare, me la sapevo cavare, ero forte.
Provai a chiudere gli occhi e a rilassare il mio corpo: era un fottuto fascio di nervi che non voleva saperne di calmarsi.
Respirai a fondo, piano, una volta dopo l’altra.
Il sonno arrivò a ondate lunghe e lente, come la marea e io mi lasciavo trascinare via, vinta dalla stanchezza della giornata.
C’erano stati così tanti cambiamenti…
Era l’inizio di una nuova vita, io non mi sentivo totalmente pronta, ma non avevo scelta, visto che ero io ad averlo deciso. Non potevo tornare indietro, solo andare avanti.
Un’ultima ondata mi fece precipitare nel sonno, mi sembrava di galleggiare senza peso, attorno a me fluttuavano diverse cose: l’urna con le ceneri di Ren, la mia chitarra, le chiavi dell’appartamento 707.
Le afferrai e subito sentii il dolore, c’era Hachi che piangeva seduta al tavolo che avevo costruito, la pancia ancora enorme per via della gravidanza, avrei voluto accarezzarla.
Poi l’immagine cambiò: Nobu in chimono alla reception della pensione Terashima che accoglieva una coppia con aria triste ed elencava i pregi dell’albergo e i luoghi da visitare.
Mi scese una lacrima.
Poi apparve Yasu, era seduto a una scrivania di un ufficio, era molto ordinata e metodicamente organizzata, l’unico elemento che stonava era una foto dei Blast che Hachi aveva scattato uno dei primi giorni di prove.
La toccai con un dito seguendo i contorni dei profili dei miei amici, Shin aveva ancora i capelli castani ed era senza piercing.
Ora vedevo Shin, dormire in un letto da solo, rannicchiato su sé stesso, i capelli erano ancora azzurri, ma il piercing era scomparso.
In un angolo c’erano il basso e una chitarra classica, ma avevano l’aria di non essere stati toccati da mesi, mi sembrava che piangesse, di sicuro stava soffrendo.
Misato Tsuzuki gli accarezzava le spalle, ma lui la cacciò.
In ultimo vidi mia sorella aspettare la metro avvolta in una giacca di pelle, gli occhi distanti e i capelli colorati.
Chiesi scusa a tutti e diedi loro addio.
Sperai che un giorno potessero perdonarmi.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordicesimo ***


Capitolo quattordicesimo

 

Il tempo a Tokyo sembrò accelerare all’improvviso, la primavera
lasciò il passo all’estate e alle sue feste. In un attimo arrivò l’obon
e tornai dalla mia famiglia. Erano ancora come li ricordavo, ma allo
stesso tempo diversi. Mamma mi sembrava davvero serena, papà era invecchiato e
Takahiro era bello come sempre al fianco della sua arpia.
Il mio cuore però non aumentò i battiti, nessun pensiero strano mi
attraversò il cervello, era tornato a essere solo mio fratello.
Ero guarita dalla malattia e pronta ad amare.
-Misato Uehara.

 

Era una giornata di metà ottobre, le foglie cadevano piano dagli alberi spinte dal vento, era l’ora di giapponese, l’ultima prima del pranzo e io avrei dovuto seguirla. In realtà pensavo ai mutamenti della vita, quasi un anno prima ero una ragazzina disperata che credeva di amare il suo fratellastro, ora ero una giovane donna praticamente indipendente.
Cambiare mi aveva fatto bene, ero diventata più forte, quando avevo rivisto Takahiro in occasione dell’obon tutto quel turbinare di pensieri disturbanti e folli non si era presentato. Era tornato il fratellone con cui giocavo da bambina, un punto di riferimento importante, ma non ero più attratta da lui, ora sapevo che c’era qualcuno là fuori per me. Qualcuno che mi avrebbe reso felice e mi ero sentita come liberata, avevo capito che era da mesi che respiravo normalmente e non oppressa dal peso della colpa e della vergogna.
Mi ero sentita orgogliosa di me stessa, era come aver fatto il primo passo sulla lunga strada che porta alla maturità.
Pensavo anche a Nana, mi chiedevo dove fosse, nessuno l’aveva ancora trovata o Shion me l’avrebbe detto e mi sentivo un vuoto dentro. Volevo conoscere quella sorella che non sapevo di avere e che avevo idolatrato solo sui miei poster. Volevo scoprire la ragione di quel suo sorriso triste e del perché non si era sposata con Ren, alla fine.
Si amavano, possibile che questo non fosse bastato?
Perché gli adulti erano così complicati?
Forse ero ancora troppo giovane, mi dissi, ma ero anche contente di me.
Dopo la scuola lavoravo in un supermercato dalle due alle sei e poi in un videonoleggio fino alle undici di sera, il resto del mio tempo era dedicato a studiare, ai compiti e alle faccende domestiche.
Il sabato mattina ero impegnata in una scuola per parrucchiere, ero la cavia su ci si esercitavano le aspiranti, mi tingevano i capelli. I primi tempi si erano limitate ai canonici biondo, castano, rosso e nero; poi avevano scoperto che la mia scuola non era severa sul look delle sue alunne, Si erano sbizzarrite in un tripudio di verdi, azzurri, viola, fucsia, rosa, colori pastello e chi più ne ha più ne metta.
Ogni due settimane mi ritrovavo a cambiare il colore dei capelli, ma mi andava bene così: sembravo figa ed era gratis.
Finalmente suonò la campanella e l’insegnante se ne andò, copiai velocemente i compiti dalla lavagna e scesi in giardino a mangiare il mio bento.
Ero emozionata.
Da oggi fino alle vacanze di Natale ci sarebbe stato uno stage pagato al pomeriggio, niente più supermercato per un po’. Era alla Shikai Corporation e mi sembrava interessante lavorare presso la stesso posto in cui lo aveva fatto Nana. Era come ripercorrere per un po’le sue tracce. Quello era un pensiero stupido, ma non me ne vennero di migliori.
Finii il bento, mi godetti per un attimo i tiepidi raggi del sole, il vento frizzantino e il cielo limpido, poi mi accesi una sigaretta. Quello stage era un banco di prova molto importante per il mio futuro, se fossi riuscita a superarlo avrei saputo con certezza che avevo scelto la strada giusta, se avessi fallito…
Non volevo nemmeno pensarci, dovevo impegnarmi al massimo per far sì che andasse bene, senza tentennare  o avere paura. Dovevo solo buttarmi.
Cosa aveva fatto mia sorella?
Aveva preso un treno, mollato la cittadina di provincia in cui viveva e se ne era andata a Tokyo senza nessuna garanzia, io dovevo dimostrare lo stesso coraggio.
Finii anche la sigaretta e rientrai nell’istituto, c’era ancora tempo, così bighellonai qua e là, mi fumai un’altra sigaretta e andai in bagno.
Al mio rientro in classe mi sedetti al mio banco e tamburellai con le dita sulla superficie, in attesa. Dopo non so quanto la porta si aprì ed entrò la coordinatrice della nostra classe insieme a un uomo in doppio petto, scattammo tutti in piedi.
“Seduti, ragazzi.”
Disse compiaciuta la prof.
“Lui è Sugimura-san della Shikai Corporation e si occuperà di trovare a ognuno di noi un incarico, cercate di svolgerlo al meglio.
Signor Sugimura, vuole aggiungere qualcosa?”
“Sì, mi sembrate una classe di persone intelligenti, cercate di dimostrarlo.”
Annuimmo tutti e poi ci trasferimmo al posto di lavoro, Sugimura ci chiamò uno ad uno, io rimasi per ultima, quando toccò a me vidi che accanto a lui c’era una ragazza poco più grande di me con dei boccoli biondi che spalancò leggermente gli occhi. Che mi conoscesse o era solo la mia somiglianza con Nana?
“Sei Uehara Misato?”
“Sì, signore.”
“Bene, ti affido alla signorina Tsuzuki, lei si occupa della carriera di Shin Okazaki.”
“Grazie, signore. Farò del mio meglio, signore.”
Mi inchinai.
“Non essere così formale. Andate, adesso.”
“Sì.”
Uscimmo dalla stanza, Tsukuzi-san continuava a guardarmi.
“Tu sei la sorella di Nana, vero?”
“Sì, sono io.”
“Credo di doverti delle scuse.”
“Scuse?”
Non capivo.
“Sin dal primo giorno in cui ho incontrato i Blast ho usato il tuo nome invece del mio, perché ti invidiavo per avere un legame di sangue con Nana, volevo essere te. Anche se forse lo sono già, forse mio padre è lo stesso di Nana, non di meno ho sempre usato lo pseudonimo di Misato Uehara.”
Ora la guardavo sorpresa, quella ragazza aveva portato la sua ossessione per Nana a un livello superiore al mio.
“La verità è che ho sempre voluto contare qualcosa per Nana, esserle amica, proteggerla. Credo di aver avuto una bella cotta per lei.”
Rise imbarazzata.
“E poi ti chiedo scusa per aver tentato di impedirti di incontrare Nana, al meet and greet dell’anno scorso ho mandato Miu a non farvi incontrare. Lei non c’è riuscita, però.
Pensavo che Nana avrebbe sofferto vedendoti, scusami ancora.
È evidente che io allora non avessi capito nulla e che i miei tentativi erano tutti dettati dall’egoismo.
So che hai scritto una lettera a Nana, è l’unica che si è portata via prima di sparire, forse contava qualcosa.”
Io rimasi in silenzio per qualche minuto.
“È per Nana che lo fai? Intendo occuparti della carriera di Shin, mi pare che tu sia venuta a lavorare qui per lo stesso motivo.”
“Sì, la scuola non mi interessava e sono venuta a lavorare qui per aiutare Nana, non saprei dirti se mi occupo di Shin per lo stesso motivo. Forse mi sono affezionata sul serio alla band, io e te siamo simili.”
“Sì, anche io ho deciso di frequentare questa scuola per Nana.”
Lei mi sorrise.
“Potremmo essere amiche, io non ne ho mai avute della mia età.”
“Potremmo, lavoreremmo anche meglio.”
“Giusto, posso chiederti una cosa?”
Io annuii.
“Qui mi chiamano tutti Misato, a te scoccia se uso il tuo nome?”
“Non c’è problema. Continua pure a usarlo, è solo un nome.”
Tsuzuki-san sorrise di nuovo.
“Ho una sola domanda: qual è il tuo vero nome?”
“Mai. Mai Tsuzuki.”
“Ok, Misato Tsuzuki.”
Si fermò davanti a una porta e mi presentò a un sacco di persone, a quanto pare era in corso un servizio fotografico. C’erano fotografi, truccatrici, tuttofare, gente che si occupava degli abiti e poi c’era Shin.
Aveva i capelli di un azzurro sbiadito e l’aria assente, sembrava fosse diventato una specie di oggetto umano, non c’era traccia della vitalità che avevo visto nel meet and greet.
“Shin!”
Gridò Misato.
“C’è una persona che devo presentarti.”
Lui ci guardò, un guizzo passò in quegli occhi scuri.
“Ho l’impressione che ci siamo già conosciuti.”
“Sì, è vero. Io sono Misato Uehara, la sorella di Nana, mi hai visto a un meet and greet a Osaka una vita fa.”
Lui spalancò gli occhi.
“È vero. Ti avevo notata perché le somigliavi molto, cosa ci fai qui con la nostra Misato?”
“Lei è qui per uno stage, Shin.”
“Ah, capisco. Benvenuta al manicomio, Misato.”
Io ridacchiai nervosa.
Era l’inizio di qualcosa di grande, ne ero sicura.

 

Dopo le presentazioni mi misi in moto.
Letteralmente.
Schizzai non so quante volte alle macchinette per prendere caffè, the e altre bevande per tutti, passavo capi, correvo a fare commissioni dell’ultimo minuto, aiutai persino a spostare le luci del fotografo.
Alle sei non avevo più in grammo di energia e dovevo lavorare al videonoleggio fino alle undici, salutai tutti sorridendo comunque. Misato mi rivolse un cenno di approvazione, a quanto pare avevo passato l’esame del capo.
Presi la metropolitana, sul vagone mangiai un bento già preparato che avevo acquistato alle macchinette, mi si chiudevano gli occhi.
Arrivata alla fermata presi del caffè forte a un distributore automatico e aspettai che facesse effetto, arrivata al negozio avevo l’energia minima per sopravvivere alla serata.
Mi cambiai e salutai il collega a cui davo il cambio e poi andai diligentemente dietro al bancone, misi via qualche dvd e aspettai che arrivasse qualcuno.
Nel complesso fu una serata calma, venne qualche coppia alla ricerca di un filmetto romantico prepomiciata, qualche ragazzino che voleva film d’azione per dare una svolta a una serata morta e un vecchio cinefilo che mi fece perdere tempo alla ricerca di un dvd che scoprii non era nemmeno stato distribuito in Giappone.
Era la mia routine, dopo avrei studiato anche se sognavo il mio letto con parecchia intensità, sarebbero stati due mesi di fuoco.
Finalmente arrivò l’orario di chiusura, pulii tutto meticolosamente dopo aver messo via gli ultimi dvd fuori posto, misi l’incasso in cassaforte, inserii l’allarme, abbassai la serranda e chiusi tutto a chiave.
Ok, era finita.
Suonai a un campanello vicino al locale, il proprietario scese, prese le chiavi e mi augurò la buonanotte, io feci altrettanto.
“Misato!”
Sentii qualcuno chiamarmi e mi voltai.
Shin era all’angolo della strada sorridente, illuminato da un lampione, io sobbalzai, come mai era venuto da me?
Voleva lamentarsi di qualcosa?
“Ciao.”
Mormorai incerta.
“Ehi, come mai qui?
Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
La mia voce aveva una sfumatura ansiosa che quasi non riconobbi come mia, ero stata male in passato, ma mai ansiosa.
“No, al contrario. Sei stata perfetta, fin troppo perfetta.
Se continuerai così quelli ti sfrutteranno a morte.”
“Non posso disonorare la mia scuola e poi io voglio lavorare in quel campo e devo dimostrare di avere volontà. Non mi importa se mi sfrutteranno se porterà a qualcosa.”
“Ok, come vuoi. Ho chiesto a Misato dove lavoravi per fare due chiacchiere con te, ti va?
“Sì, certo.”
Lui sorrise.
“Devi essere affamata, conosco un posto.”
Prendemmo la metro e lui mi portò a un bar chiamato”Jackson Hole”.
“Fanno gli hamburger più buoni che io abbia mai provato.”
“Non ho poi così fame.”
Un grugnito del mio stomaco smentì le mie parole, ero una pessima bugiarda.
Pensai che una cosa del genere l’avrebbe disgustato, ma rise.
“Nana era peggiore di te, entriamo, piccola Osaki.”
Lo seguii dentro al locale, lui scelse il tavolo più appartato e ordinò bacon burger per tutti e due, gli lanciai un’occhiataccia.
“Che c’è?”
“Non mi piace la gente che sceglie il cibo al mio posto.”
“Scusa, non lo sapevo. È il piatto migliore secondo me.”
“Ok, va bene.
Che ci fai qui con una perfetta sconosciuta?”
“Non sei una sconosciuta e, comunque, per conoscerla meglio.”
Mi rivolse un sorriso aperto, sembrava un ragazzino innocente adesso.
Era camaleontico e pieno di maschere, mi attirava e mi repelleva, solo il tempo avrebbe reso chiaro quale dei due istinti avrebbe prevalso.
“Beh, mi hai visto al meet and greet…”
“Sì e ti avrò detto giusto ciao.”
Risi.
“Sì, qualcosa del genere.”
“Mi hanno detto che hai scritto una lettera a Nana, che le hai detto?”
“Di venire da me, che l’avrei accolta come una sorella. Volevo conoscerla meglio e aiutarla.”
“Lo sai che è venuta davvero probabilmente?”
“Sì, Nobu-san è venuto al ristorante dei miei. Ci ho anche parlato. Nana ha cambiato idea all’ultimo minuto perché da noi non si è vista.”
“Capisco.”
“Ti manca?”
Lui rimase in silenzio qualche secondo.
“A volte sapeva essere così egoista e insensibile che ti faceva venire voglia di mandarla a fanculo, ma…
Sì, mi manca.
Dopotutto è grazie a lei se ho avuto una seconda possibilità nella vita, gliene sarò grato per sempre.”
“Capisco.”
La cameriera arrivò con le nostre ordinazioni e la conversazione lasciò posto al pasto, avevo una fame tremenda e lo divorai velocemente. Dovevo ammettere però che Shin aveva ragione, era squisito, uno dei migliori hamburger che avevo mangiato in vita mia.
Non era stata una brutta cosa fidarsi di lui alla fine.
Lui invece mangiava piano e mi chiesi perché, Takahiro alla sua età mangiava come un bue, ingozzandosi di tutto quello su cui riusciva a mettere le mani. Diceva che era la crescita, aveva bisogno di energie per diventare grande.
“Non hai fame?”
Azzardai dopo un po’.
“Sì, ho fame. È una storia complicata.”
“Uhm, okay.”
Era magrissimo, non poteva avere paura di ingrassare.
C’era un’ombra nel suo sguardo che lo rendeva diverso dai suoi coetanei, era la cosa che mi attraeva e mi repelleva allo stesso tempo. Era il suo mistero personale che lo rendeva interessante e immagino facesse cadere chiunque ai suoi piedi.
Anche quando era membro dei Blast si sapeva poco o niente sul suo conto, qualcuno voleva che fosse ammantato da un alone di indefinitezza.
Finito di mangiare cominciammo a chiacchierare di cose poco importanti, spesso scoppiavamo a ridere senza una ragione precisa. Era la prima volta che ero così sulla stessa lunghezza d’onda con qualcuno.
Lui mi raccontava aneddoti divertenti sulla loro breve vita come band – non conosceva molto di quello che era successo quando i Blast erano ancora in quella piccola città sul mare – e io quelli sulla mia vita a Tokyo.
Gli raccontavo delle difficoltà, delle prime volte con varie esperienze comuni per chi abita in città e dei miei disastri nei lavori domestici, pensavo di sapermela cavare, ma alla prova pratica non era stato proprio così.
Ridevamo come i ragazzini che eravamo, io avevo compiuto sedici anni da tre mesi, lui avrebbe compiuto diciotto anni tra un mese circa.
“Sono stata davvero bene con te.”
Lui mi guardò confuso per un secondo, poi il suo viso si aprì in un sorriso di plastica, ammiccante da far schifo.
“Beh, pagando possiamo continuare questa serata e renderla persino migliore.”
Sgranai gli occhi, arrossii e poi sentii una grande rabbia montarmi dentro.
Con gesti secchi estrassi dal portafoglio i soldi della consumazione e li sbattei sul tavolo.
“Ma per chi mi hai preso?
Va al diavolo, Okazaki.”
Uscii dal locale impettita, ma piegata nel mio animo.
Pensavo di aver trovato qualcuno con cui iniziare almeno un’amicizia, invece avevo solo trovato uno che per soldi si sarebbe fatto portare a letto da me. Sì, da me che ero vergine e sognavo una prima volta speciale con il ragazzo giusto.
Che razza di ingenua ero!
Lo sentii chiamare il mio nome, ma lo ignorai e mi diressi verso la fermata della metro più vicina, sentendomi una vera stupida. Erano circolate delle voci su Shin – che si prostituisse – tra i fan, io non vi avevo creduto e ora scoprivo che era la verità nel modo peggiore possibile.
Con mani tremanti mi accesi una sigaretta.
Dovevo essere maledetta, come le donne della mia famiglia, in fatto di uomini, un vocina dentro di me invece se la rideva, pungolandomi continuamente con frasi come “Davvero credevi che una rockstar si interessasse a una ragazzina come te?”. Aveva ragione, io non avevo nulla di speciale, se non la mia parentela con Nana, non c’era motivo perché mi si notasse.
Buttai la sigaretta e scesi nella metropolitana.
Ero stanca morta e per colpa sua avevo sottratto del tempo prezioso allo studio, puntavo infatti ad avere una media alta per ricevere una borsa di studio che mi permettesse di ridurre a uno i lavoretti che facevo per mantenermi.
Salii sulla carrozza e mi lasciai cadere su un posto libero, la gente del vagone aveva la mia stessa faccia stanca e mezza scoraggiata. La vita nella capitale era fottutamente dura, era una specie di selezione naturale, quelli che non ce la facevano finivano per strada o scornati se ne tornavano al paese natale, rinunciando ai loro sogni.
Io però non volevo mollare, dovevo quindi stringere i denti e andare avanti.
Scesi alla mia fermata e salii al mio microscopico appartamento, era molto più tardi del solito, ma dovevo studiare, il che significava fare le ore piccole.
Quando abitavo a Okayama le facevo spesso, ma recuperavo il sonno nel pomeriggio, qui non potevo farlo.
Mi feci una doccia, bevvi un caffè forte e mi immersi nei compiti di matematica, in quelli di storia e infine studiai economia. Alla fine erano le tre di notte, avevo davanti a me solo quattro ore di sonno ed era sconfortante per un ghiro come me.
Uscii sul piccolo terrazzo a fumare una sigaretta, sotto di me si stendeva Tokyo con le sue mille luci e i suoi rumori. Era come un animale che non dormiva mai, diversa dalle città in cui avevo abitato, i primi tempi non ci avevo dormito la notte per quel rumore incessante.
Mi ero sentita una stupida provinciale, poi mi ero abituata.
Ma non ero abituata alla frase di Shin, anche se mi ero imposta di non pensarci e di ridurre i contatti al solo lavoro, mi bruciava che l’unica persona che avesse dimostrato un minimo di interesse a me lo avesse fatto per soldi o qualcosa del genere.
Faceva male, mi sentivo come una specie di merce e mi chiedevo perché l’avesse fatto, un automatismo della sua vecchia vita? Un invito a stare lontana?
Spensi la sigaretta ormai ridotta al solo mozzicone e me ne andai a letto. Fu come un blackout, il mio corpo e la mia mente si staccarono l’uno dall’altra, non feci sogni né incubi. Mi svegliai al suono della sveglia inebetita, mi feci una doccia e bevvi del caffè con dei biscotti per uscire dalle nebbie incerte di quella mattina. Preparai il bento e poi mi cambiai, indossai una mini nera, una maglia e un maglione dello stesso colore, le solite calze spesse e nere autoreggenti. Mi fissai allo specchio: l’unica cosa viva del mio volto era il mio anellino al naso.
Sospirando mi pettinai e poi passai una buona quantità di correttore sulle mie occhiaie, una passata di matita e di ombretto nero e sembravo la solita Misato. Ero solo un po’più pallida del normale.
Controllai lo zaino, mi allacciai il collare di pelle, misi gli orecchini da cui pendeva un Saturno e la giacca di pelle. Uscii in terrazza e decisi di mettermi anche una sciarpa: era una giornata fredda.
Avevo una sciarpa a fantasia zebrata – un regalo di Shion – e la indossai. Ero pronta per affrontare la scuola.
Chiusi a chiave l’appartamento e scesi rapida le scale, i miei anfibi facevano un rumore pesante che mi piaceva, era come urlare al mondo che c’ero anche io.
Presi il solito treno e raggiunsi il liceo, qualcuno mi salutò, la maggior parte degli alunni del primo anno mi ignorarono, ricevetti persino qualche occhiata ostile dai sempai delle classi seconde e terze. Ieri avevo vinto uno stage ambito, a quanto avevo capito parecchi alunni e alunne più grandi di me e quindi più qualificati avevano messo gli occhi su quell’incarico e vederselo soffiare così li aveva irritati. Subito erano circolate voci che ero stata scelta solo perché la sorellastra di Nana Osaki e Shin era un ex membro dei Blast. Erano tutte cazzate, io non avevo avuto voce in capitolo sulla scelta, era stato deciso tutto dalla Shikai Corporation, ma ciò non mi aveva resa più popolare.
Beh, popolare non lo ero mai stata.
Ero arrivata un mese dopo l’inizio delle lezioni ed ero diventata in pochissimo tempo una delle più brave della classe e la cocca di parecchi professori, la gente aveva iniziato a girarmi al largo e poi a mormorare quando qualcuno aveva tirato fuori dei vecchi rotocalchi.
L’ombra di mia sorella mi precedeva, ma invece di irritarmi mi dava sicurezza. Se ce l’aveva fatta lei potevo farcela anche io, senza nemmeno la licenza liceale era diventata una delle cantati più note tra i giovani facendosi largo in un ambiente difficile. Cosa era superare la cattiveria e l’invidia di un gruppo di adolescenti?
Poca cosa e poi io sapevo di aver vinto una parte dei demoni e la cosa mi dava un immensa forza.
Seguii le lezioni, pranzai da sola e poi andai allo studio, Misato mi accolse con un sorriso e mi spiegò il programma. Tutto iniziava con un giro di caffè e tè che preparai subito fischiettando, avevo una buona esperienza al ristorante di papà e mi uscivano buoni.
Entrai nello studio con un gran sorriso che si incrinò per un attimo quando vidi Shin, distolsi lo sguardo e distribuì quanto mi avevano richiesto.
Mi sommersero di complimenti, ma io quasi non me ne accorsi.
L’unica cosa che percepivo, che mi scottava addosso come fuoco era lo sguardo di Shin, completamente diverso da ieri sera.
Oggi i suoi occhi erano due pozze castane che mi seguivano tristi, sembrava dispiaciuto per come era andata la serata, io mi ero ripromessa di stargli lontano, ma…
Quell’alternanza di attrazione e repulsione era scomparsa, ora c’era solo l’attrazione.
Mi ero innamorata di nuovo e non sapevo se esserne felice o terrorizzata.
Non avevo scelta comunque, quegli occhi mi reclamavano a sé con troppa forza per poterli ignorare.
Chissà dove mi avrebbe portata questa nuova svolta?

 

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Capitolo 15
*** Capitolo quindicesimo ***


Capitolo quindicesimo

 

Sai, Hachi…
Ci sono diversi modi di vivere la vita, se la si considera come un fiume, c’è
chi l’affronta controcorrente per cambiare il destino e chi segue il flusso.
Io avevo sempre combattuto, non avevo mollato un attimo, ora però
non avevo più energie né nulla per cui combattere. Così mi adattai
semplicemente al flusso. Alla fine non era poi così male,
almeno non soffrivo.

 

Un mese dopo il mio insediamento a Londra le cose si erano stabilizzate.
Avevo lasciato il bed and breakfast e trovato un appartamento nei sobborghi della città, era un buco minuscolo in un quartiere abitato prevalentemente da cinesi. Non potevo parlare giapponese, così per forza di cose il mio inglese migliorò, formulavo frasi più lunghe e il mio accento nipponico stava lentamente scomparendo.
Lavoravo in un McDonald in cucina, dovevo solo friggere patatine, carne e preparare panini, non era nulla di particolarmente difficile e non richiedeva che io parlassi. L’inglese lo capivo benissimo ora e questo bastava al lavoro. Conducevo una vita piuttosto solitaria ed era quello che volevo, avevo paura di lasciare entrare nuove persone nella mia vita perché il mio cuore era colmo di quelle di quella vecchia, uno scrigno di gioielli preziosi incastonato dentro al mio petto.
Hachi e la sua solarità, Nobu e il suo incrollabile ottimismo, la forza calma di Yasu, la curiosità di Shin e l’affetto di Misato o forse dovrei dire Mai. Non li dimenticavo, erano sempre con me e anche Ren lo era, in ogni angolo di qualsiasi stanza o strada lui era lì. Aveva quell’espressione triste che mi ricordava la promessa che infrangevo ogni giorno a ogni respiro.
Ogni tanto andavo al mare, rimanevo delle ore a guardare quella distesa d’acqua e pensavo e pregavo, lui era lì con me immerso fino alla vita nell’oceano.
Perché non mi ero accorta di nulla? Perché non avevo nemmeno avuto il sospetto che si drogasse?
Era colpa del mio egoismo, volevo così tanto essere conosciuta e adorata da una marea di sconosciuti che mi ero dimenticata della prima persona che l’avesse fatto.
Era stato lui il primo a vedere del talento in una sedicenne triste e scontrosa che aveva sempre respinto il suo desiderio di paternità. Forse era per questo che mi aveva lasciato la prima volta andandosene a Tokyo, che non si fosse sentito amato abbastanza da me?
Ren era sempre stata la mia luce, lo amavo e lo amo tuttora.
Lo volevo tutto per me, perché temevo che se avessi allentato la presa se ne sarebbe andato come mia madre, mia nonna e poi Hachi. Non capivo che se l’avessi lasciato un po’più libero lui sarebbe rimasto con me, ero ossessionata dal possesso.
Dopo era arrivata la gelosia.
Vederlo così famoso, vederlo comporre canzoni per un’altra donna quando prima ero io a cantare sulle sue melodie mi mandava fuori di testa. Da quando Takumi si era preso Hachi i Trapnest erano diventati il nemico, avevo paura che si prendessero del tutto anche Ren.
Stupida me che vedevo il nostro legame così fragile!
Ora era troppo tardi per tutto, non potevo scusarmi con lui, non potevo dirgli che l’amavo, così guardavo il mare. Avevo con me il suo regalo di compleanno, ma non avevo ancora trovato il coraggio di aprirlo.
Tutte le mie giornate al mare erano più o meno così e intanto il tempo passava.
Le foglie colorate di ottobre avevano lasciato il posto al freddo mordente di novembre e alla festa di Guy Fawkes e poi alle luci di Natale.
I miei capelli crescevano, non volevo tagliarli, ogni giorno lo specchio mi rimandava l’immagine di una ragazza leggermente diversa da quella che ero stata in Giappone. Mi stava bene così, quella persona viveva nella mia testa. Nei miei sogni compiva scelte diverse ed era felice.
Oh, erano sogni magnifici!
Ren non mi aveva lasciato e insieme a Yasu e Nobu eravamo partiti per Tokyo, felici come bambini per la nuova avventura intrapresa. Misato ci aveva seguito e si era ritrovata Hachi come coinquilina, avevamo fatto amicizia senza quella morbosità che mi disturbava. Hachi e Nobu si erano innamorati ed erano felici. Ci serviva una seconda chitarra e avevamo fatto entrare Shin nella band, avevo deciso di incontrare mia sorella e avevo un buon rapporto con lei, lei si era innamorata di Shin e questo lo aveva riportato sulla buona strada.
Ma erano solo sogni e finivano in un grande buio in cui mi sembrava di soffocare, un baratro che la mia mente cancellava sistematicamente al risveglio, in qualche modo dovevo sopravvivere. Se avessi ricordato la conclusione sarei impazzita, avevo un bisogno assoluto di essere rassicurata che le cose potevano andare bene e che non c’erano solo disgrazie,
Un giorno arrivò una nuova collega al lavoro, era giapponese come me, forse potevo scambiare quattro chiacchiere con lei nella mia lingua, lei dovette pensare lo stesso perché accettò di prendere un caffè con me dopo il lavoro.
Andammo in un piccolo bar accanto al Mac, eravamo tutte e due abbastanza a disagio lei aveva lunghi capelli tinti di rosa che le cadevano in tante onde perfette.
“Così ti chiami Nana? Io sono Emiko, piacere di conoscerti.”
“Piacere mio, dove abitavi in Giappone.”
“Osaka!”
Mi risponde sorridendo.
“Tu?”
“Tokyo.”
Gli occhi le si illuminarono.
“Figo!”
Esclamò lei, tutti si entusiasmavano quando nominavo Tokyo.
“Sì, è una città molto bella.”
“Già e poi è la base dei Trapnest.”
Mi si seccò la gola a sentire quel nome, quello maledetto che mi toglieva tutto quello che a fatica conquistavo nella vita.
“Ah, sì. Ma non è che si incontrano così per strada.”
Dissi, la mia voce sembrava grattata da migliaia di invisibili sassolini.
“Sì, lo so. Ma loro mi piacciono un sacco, Reira è il mio mito, mi sono fatta i capelli rosa per lei.”
Rise scioccamente, io pensavo a Ren che suonava per la principessa del canto e non per me.
Era tutto terribilmente sbagliato.
“E adoro Takumi.”
Takumi non era altro che un bastardo violento, manipolatore e in grado di stuprare una donna senza troppi problemi, solo per farle capire che era sua come aveva fatto con Hachi quella volta nell’appartamento 707.
La volta in cui si erano spaccati i bicchieri con le fragole.
“E cosa pensi della morte di Ren?”
La mia voce sembrava emergere dalle profondità della terra.
“Mi dispiace molto, ma secondo me è colpa della sua ragazza. Come si chiama?
La stronza dei Blast? Nana? Hana?
Dicono che non lo volesse sposare perché aveva un altro, ma adesso pare sia morta anche lei.”
E così io ero la stronza dei Blast, quella di cui non si riusciva nemmeno a ricordare il nome con precisione, solo che se ne era andata.
Mi alzai in piedi, il mondo intorno a me tremava, le voci nella mia testa urlavano e Ren rideva nel suo angolo come a dirmi che raccoglievo quello che avevo seminato.
“Scusa, mi sono ricordata che avevo una cosa a fare. Devo andare.”
Lasciai sul tavolo i soldi per il mio tè e uscii quasi di corsa, mi mancava l’aria, una mano incorporea mi stringeva il collo.
Mi accasciai su una panchina in lacrime, cercando di riprendere il controllo della situazione, la valanga dei miei sentimenti, sensi di colpa e ricordi dolorosi mi stava travolgendo e io ne ero praticamente intrappolata dentro.
Non importava dove andassi o quanti chilometri mettessi tra me e il Giappone, i miei fantasmi mi seguivano lo stesso e mi tormentavano.
Trapnest, Reira, Takumi, Ren.
Erano un mantra infinito nella mia testa e mi chiesi se questa cosa sarebbe mai cambiata.
Guardai che giorno fosse sul cellulare: era il compleanno di Hachi.
Mi si strinse il cuore.

 

Non avevo mai voluto essere madre, mai. Quando mi ero ritrovata
incinta, mio malgrado, era troppo tardi abortire e così provai ad
ammazzare quel bambino lasciandomi morire di fame. Lui però aveva
sempre resistito. Dopo il parto non lo avevo nemmeno voluto vedere, per me
la faccenda era chiusa, ma cos’è questa sensazione? Quella di essere legati a qualcuno di
molto lontano e prezioso, quella che mi rende impossibile vivere la vita di prima.
-Reira

 

Il giorno del parto fu il più brutto della mia vita.
Intorno a me c’era tantissima gente agitata che urlava istruzioni mentre io a malapena faticavo a respirare per via del dolore. Mi dicevano di spingere e di spingere ancora, io strinsi la mano di Takumi e cercai di collaborare meglio che potevo, maledicendo quel bambino figlio di una relazione balorda.
Alla fine lo sentii piangere, mi sentii sollevata, avevo fatto il mio dovere portandolo in grembo, ora toccava a Takumi. Questo fu l’ultimo pensiero coerente che formulai, poi il buio cadde su di me.
Mi risvegliai molte ore più tardi distesa in un letto, avevo freddo nonostante le coperte, era qualcosa che veniva da dentro e che non volevo analizzare.
Qualche minuto dopo entrò un’infermiera sorridente.
“Buonasera, signorina Serizawa. Come si sente?”
“Debole, ho freddo.”
La donna estrasse una coperta da un armadio e la stese sopra di me.
“Grazie.”
“È normale, ha perso molto sangue e per un attimo abbiamo temuto per la sua vita.”
Io deglutisco.
“Vuole vedere il bambino?”
“No. Non voglio vederlo, non sarà affidato a me, comunque.
Desiderò però che sia chiamato Ren Ichinose.”
La donna mi guardò a occhi spalancati, sbatte un paio di volte le palpebre interdetta, poi annuì.
“Sì, capisco. La cena arriverà  tra poco, ma è sicura?
Non vuole nemmeno vederlo?”
Scossi la testa, non volevo creare legami con quel bambino, volevo far finta che non esistesse perché grazie a lui avevo perso ogni possibilità di stare con Shin e non mi rimaneva altro che Takumi. Takumi, quello che non mi aveva mai voluta.
La donna fu di parola, mezz’ora dopo arrivò la cena: brodo con del riso e della carne di pollo alla piastra. Non era il massimo, ma era meglio di niente.
Mi ci vollero due settimane prima di essere dimessa dall’ospedale a causa del mio fisico debole, provato e denutrito, ma alla fine lasciai quel posto. Takumi veniva a trovarmi molto spesso e ogni volta mi parlava di Ren, ma io lo ignoravo. Avevo scelto di non curarmi di quel figlio e non avevo intenzione di cambiare idea, l’avrebbe cresciuto Nana, lei era scelta migliore. Aveva partorito da poco, aveva latte abbastanza per due bambini, era abbastanza stupida e mansueta da accettare gli ordini di Takumi come vangelo e poi voleva bene a Shin. Per lei crescere uno o due bambini sarebbe stato lo stesso.
Una volta fuori dall’ospedale decisi di partire per una vacanza per rimettermi in sesto completamente, niente mi faceva sentire meglio che lasciare il Giappone e diventare un’anonima turista non dissimile da molte altre giapponesi. Il rosa dei miei capelli se ne era andato e li avevo tinti del mio colore naturale – un castano chiaro – il che mi rendeva ancora più comuni.
Scelsi le Hawaii come meta, prenotai due settimane in un villaggio vacanze, i biglietti aerei e controllai che i documenti come il passaporto fossero a posto. Vivevo da mia madre, come sempre lei era molto occupata con il lavoro, ma quando ci ritrovavano da sole mi puntava addosso il suo sguardo accusatore. Mia madre non parlava mai, ma sapevo esattamente quel che pensava. Mi rimproverava di aver seguito Takumi nell’avventura con i Trapnest, di non aver trovato un lavoro più stabile, di non essere stata in grado di smettere di amare Takumi, di essermi scopata un minorenne per soldi, di essere rimasta incinta e – cosa più importante – di aver abbandonato quel bambino nelle mani di un’estranea. Non capiva perché non lo volessi e soprattutto perché non volessi assumermi le responsabilità di una situazione che io avevo creato. Probabilmente il mio egoismo la ripugnava, si chiedeva forse dove aveva sbagliato con me visto che la giovane donna che aveva davanti non le piaceva, era troppo infantile e immatura.
Una settimana dopo mi imbarcai su un volo per le Hawaii, ero diretta a Honolulu, poi sarei andata in un resort in una zona un po’ più distante dalla città. Mi sentivo eccitata e felice come una bambina che va in gita, presto avrei avuto del tempo da dedicare a me stessa senza dovermi vergognare o avere qualcuno attorno che mi ricordava la situazione.
Il mio corpo sembrava avere dimenticato completamente la presenza di Ren al suo interno, non avevo latte nei seni ed ero tornata magra come un giunco.
Arrivai a destinazione, recuperai i bagagli ed uscii dall’aeroporto, il sole era accecante, l’aria era calda e carica di profumi. Sorrisi e chiamai un taxi e gli dissi dove portarmi, il taxista caricò il bagaglio e partimmo.
La città era ordinata, c’erano tante case bianche carine e palme ovunque, si sentiva l’odore della salsedine come a casa, ma qui era diverso. Più forte e speziato e mediato dal profumo dei fiori.
Il mio resort era a qualche chilometro della città, immerso in una natura lussureggiante, ma non troppo lontano dalla civiltà, il taxista mi disse che c’era un servizio navetta.
Arrivammo, scaricò le valigie di cui se ne prese cura un facchino, io invece andai alla reception.
“Buongiorno.”
Mi salutò l’impiegato lanciandomi una veloce occhiata ammirata.
“Buongiorno a lei. Ho prenotato una stanza a nome Layla Serizawa.”
L’uomo controllò, annuì, sbrigammo le formalità e poi mi scortò a un lussuoso bungalow che dava sulla spiaggia, era tutto quello di cui avevo bisogno per tornare a essere almeno un essere umano decente.
“Spero che il suo soggiorno qui sia di suo gradimento.”
“Lo spero anche io.”
Se ne andò e mi lasciò sola, io mi stiracchiai.
Lontano dal Giappone i miei demoni sembravano quasi accettabili, una rappresentazione da teatro kabuki, un’accozzaglia di maschere di oni e yurei di quelle buone a spaventare solo i bambini.
Disfai le valigie, mi feci una lunga doccia per togliermi la stanchezza del viaggio e poi guardai il cellulare: c’era una chiamata di mia madre, una di Naoki, una di Yasu e cinque di Takumi.
Sospirai, lui era l’uomo che volevo da una vita, ma che da un vita mi diceva di no, eppure non mollavo, una parte di me era certa che l’avrei ottenuto. Non mi importava di calpestare i sentimenti di sua moglie, di sua figlia e del mio stesso bambino. Lui era mio e un giorno l’avrebbe capito anche lui.
Era ancora presto per il pranzo, così riempii una borsa con il necessario per la spiaggia, mi misi un costume e poi me ne andai. Mi avevano assegnato un ombrellone ragionevole lontano da quello di un altro cliente, era una buona cosa, non mi andava di parlare molto.
Stesi un salviettone sulla sdraio e mi ci sdraiai sopra, mi stiracchiai di nuovo come un gatto, godendomi la sensazione del sole caldo sulla pelle, perdendomi in quei profumi che non mi avevano abbandonata da quando ero sbarcata qui – era come se mi proteggessero – e nel rumore delle onde.
Il mio corpo cedette all’improvviso, divenne liquido e leggero, le preoccupazioni sembravano le uniche cose che l’avessero tenuto insieme fino a quel momento.
Era piacevole, ero un palloncino che fluttuava nel cielo.
All’improvviso mi resi conto che c’era uno spago legato al mio polso destro, incuriosita lo presi tra le mani, chiedendomi cosa fosse e cosa rappresentasse. Lo seguii, mi lasciai alle spalle le Hawaii, volai sull’oceano e sul Giappone, poi caddi su Tokyo. Ero una casa di Shirogane che conoscevo solo per sentito dire, in un salotto, continuai a seguire il filo. Ora ero in una stanza con le pareti dipinte di azzurro, in un angolo c’era un lettino, con uno scacciapensieri fatto di stelle e pianeti sopra, lo mossi leggermente con il dito e un suono delicato ne uscì. Guardai infine nel lettino e mi scontrai con gli occhi scuri di un bambino dai capelli biondi come i miei.
Ren.
E lo spago che partiva dal mio polso finiva attorno al suo minuscolo polso.
Aprii gli occhi di scatto, con il respiro corto, sudata.
Adesso non c’erano più visibili fili attorno al mio polso, ma grazie a quel sogno a occhi aperti capii una cosa: che io lo volessi o meno c’era un legame tra me e mio figlio.
E questa volta non potevo né scappare né ignorarlo.
Questa volta dovevo confrontarmi con le conseguenze delle mie azioni.

 

Sai, Nana…
Sin da piccola ho sempre desiderato una famiglia e dei bambini.
Non avevo particolari aspirazioni, volevo solo un marito che mi
amasse, dei figli da accudire e poi invecchiare insieme a lui.
Avevo fallito su tutta la linea. Takumi non mi amava e la prospettiva
di invecchiare con lui mi atterriva, anche se mentivo a tutti e a me stessa
dicendo di amarlo. Riuscivo a malapena a prendermi cura di Satsuki.
Quello che mi preoccupava è che non riuscivo a tollerare Ren, quel
bambino era come un estraneo per me.
Cosa era successo al mio animo gentile?

 

Novembre era arrivato in un soffio, indaffarata come ero.
Badare a due bambini assorbiva tutte le mie energie, tanto che i miei erano sonni di pietra, erano secoli che non curavo la mia immagine. Lo specchio rimandava l’immagine di una giovane donna con qualche kilo di troppo, i capelli raccolti in una coda floscia e le occhiaie profonde.
Con Satsuki ero riuscita a raggiungere una specie di accordo, l’avevo accettata e lei sembrava averlo capito, mi lasciava dormire la notte e stava gradualmente succhiando meno latte. Ren era di tutt’altra pasta, era come se sapesse che in fondo non lo voleva nessuno e quindi puniva tutti. Continuava a piangere la notte, beveva così tanto latte da lasciarmi prosciugata.
In tutto questo Takumi era assente, lui diceva che stava cercando di riorganizzare la sua carriera lavorativa, ma io ero sicura che si vedesse con altre donne. Non mi importava molto, ero arrabbiata con lui per altre cose come avermi accollato il figlio di Reira senza nemmeno consultarmi con me.
Non riuscivo a volere bene a quel bambino, lo trattavo con gentilezza, ma non sentivo nessuno legame profondo con lui, lui era un intruso. Non importava quanto somigliasse a Shin i tratti che condivideva con Reira risaltavano di più e mi rendevano furiosa.
Parlando di Reira, non si era fatta vedere per un mese, poi era apparsa sulla porta di casa mia.
Era un piovoso giorno di agosto, io cercavo di calmare un Ren che piangeva da almeno un’ora e il campanello aveva trillato. Mi ero trascinata stancamente alla porta e avevo aperto, davanti alla figura magra e slanciata della donna mi era salito un fiotto di rabbia.
Lei sembrava appena uscita dalla pagina di una rivista, io ero un disastro.
“Cosa vuoi?”
Le avevo detto secca, per niente amichevole.
Lei aveva spalancato gli occhi sorpresa, non se lo aspettava, probabilmente credeva di trovarsi la schiava lobotomizzata di Takumi, non una donna ostile.
“Vorrei vedere Ren.”
Aveva detto piuttosto timidamente, io avevo sbuffato.
“Certo, meglio tardi che mai. Tuo figlio sta piangendo da un’ora, non si calma e mi rende la vita un incubo.”
Mi scostai dalla porta per lasciarla entrare, lei era a disagio, ma a me non importava. I tempi in cui adoravo la sua figura da un poster erano lontani secoli, la persona vera non  era all’altezza del simulacro, era solo una donna immatura ed egoista.
In ogni caso si diresse verso la culla di Ren, con gesti insicuri e inesperti lo prese in braccio, il bambino la guardò sorpreso. Per lui era un’estranea, ma doveva aver capito che erano legati in qualche modo vista la reazione. La cantante non sapeva che fare ora con quel neonato tra le braccia, così fece l’unica cosa che sapesse fare: cantò.
Pochi minuti dopo Ren dormiva profondamente e lei lo rimise nella culla, aveva un’espressione di cauta felicità. Io le riservai un’occhiata di fuoco, intimamente furiosa che una cazzo di estranea ce l’avesse fatta dove io avevo fallito, io mi ero presa cura per mesi di quel bambino senza ricevere soddisfazioni, perché lei invece era stata subito gratificata? Era la sua madre biologica, ma quella che si era fatta un mazzo per lui ero io. Io e Reira scambiammo qualche parola e poi lei se en andò.
Da allora veniva ogni due settimane, trascorreva del tempo con Ren, cantava per lui e poi se ne andava, Takumi riteneva che fosse una buona cosa, io invece ribollivo internamente, perché ero stata attirata in questo folle rapporto a tre solo perché non avevo avuto il coraggio di credere in Nobu. Ero sicura adesso che se avessi dato al chitarrista un po’ più di tempo per riflettere lui avrebbe accettato di prendersi cura di me e Satsuki, invece avevo dato retta alla mia parte più meschina e stavo scontando la pena.
Avevo appena finito di nutrire il bambino e lui si era addormentato, la bambina dormiva già: avevo un po’ di tempo per me stessa.
Mi trascinai stancamente in bagno, aprii l’acqua della vasca e quando fu piena mi immersi con un gemito di gioia, l’acqua calda mi rilassava, mi accarezzava, mi aiutava a liberarmi dallo stress. Per un attimo mi balenò in testa l’immagine di un’altra vasca – quella con le zampe di leone – e le mille chiacchiere e segreti confidati, poi tutto divenne nero.
Mi svegliai ore dopo, l’acqua era fredda, io ero fredda e di là c’era Ren che piangeva.
Uscii di corsa dalla vasca, mi asciugai e indossai i vestiti più caldi che riuscii a trovare e corsi dal bambino.
“Ehi, che c’è?
Ne hai di voce, potresti fare lo screamer…”
Lo presi in braccio lo cullai e calcolai quand’era l’ultima volta che lo avevo allattato, poteva avere fame, quindi gli offrii il mio seno, lui ci si attaccò avido.
Finito, gli feci fare il ruttino e lo rimisi nella culla, questa volta si addormentò subito, controllai Satsuki e mi asciugai i capelli.
Ero stanca morta, mi infilai sotto le coperte e mi addormentai subito nonostante tremassi per il freddo che avevo preso prima nella vasca.
Nel mio sogno ero in un appartamento piccolo, ma molto carino. Mi era estraneo eppure familiare, come se lo avessi arredato io, qua e là riconoscevo il mio tocco nella scelta degli oggetti e nel modo n cui erano disposti. Sentii il pianto di un neonato e notai che c’era una sola culla in cui Satsuki stava piangendo, la presi in braccio e la cullai.
Subito dopo sentii dei passi di corsa e vidi Nobu fermarsi allo stipite della porta.
“Ah, sei andata tu a controllare la bambina. Ma non stavi cucinando?
Stasera Ren e Nana vengono a cena.”
Gli lasciai la bambina e notai che in effetti stavo preparando un sukiyaki al manzo, quello che piaceva a Nana. Era quasi pronto, preparai confusa la tavola.
Nana? Ren?
Nana era scomparsa da mesi ormai e Ren era morto.
Suonò il campanello ed andai ad aprire e quasi svenni: c’era davvero Nana mano nella mano con Ren, stavano battibeccano come al solito, ma erano lì.
Reali.
Abbracciai stretto Ren e poi Nana.
“Ehi, Hachi! Che ti prende?”
Mi chiese Nana.
“Stanotte ho avuto un incubo terribile, Ren era morto e tu eri scomparsa.”
Lei mi rivolse uno sguardo sorpreso e aprì la bocca per rispondere, ma all’improvviso tutto cominciò a crollare, la vita che volevo iniziò a tremolare e poi si spense. Allungai un braccio verso Nobu, come a cercare di fermare quel disastro, ma le nostre mani si sfiorarono appena prima che io cadessi in un buco nero.
Mi risvegliai nel mio letto, la casa era silenziosa e sentivo le guance umide di lacrime, il mio sogno mi aveva impietosamente mostrato ciò che volevo davvero. Non avevo nulla nella vita reale.
Qui avevo quello che avevo desiderato, ma non ciò che di cui avevo bisogno.
Cominciai a piangere, volevo fare qualcosa che mi permettesse di raggiungere almeno in parte il mio sogno, ma sapevo che era impossibile. Ero solo una ragazza con il  diploma liceale, senza un impiego e nemmeno tanto sveglia dato che i miei due lavori li avevo persi entrambi. Avevo due figli a cui badare e dipendevo totalmente da Takumi.
Senza di lui sarei finita a fare compagnia ai barboni per le strade, non osavo farmi viva con Nobu dopo tutto quello che gli avevo fatto.
Volevo disperatamente che le cose fossero diverse, ma la verità era che ero inchiodata alla mia vita senza possibilità di scampo.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedicesimo ***


Capitolo sedicesimo

 

Credo che le donne della nostra famiglia siano condannate a
innamorarsi degli uomini sbagliati, Nana era stata l’unica eccezione
con Ren. Il loro era un amore da favola, il mio interessamento a Shin
invece non sembrava altrettanto idilliaco. Lui mi aveva chiesto soldi
per la sua compagnia. Dovevo dargli un’altra possibilità, nel caso si fosse
scusato, o lasciarlo perdere? Era una domanda inutile, dato che conoscevo
già la risposta.
-Misato Uehara

 

Era il mio secondo giorno di stage e mi sentivo a disagio a dover tornare a lavorare con Shin dopo quello che era successo la sera prima.
Strinsi i denti e mi dissi che dovevo andare avanti, così dopo le lezioni mattutine mi recai alla Shikai Corporation, Misato mi aspettava sorridendo.
“Oggi saremo sul set di un film!”
Sembrava eccitata.
“Ti occupi tu della carriera di Okazaki-san?”
“Oh, sì. Sono io che mi occupo della carriera di Shin ed è eccitante, ogni parte ottenuta e ogni photoshoot sono una grande soddisfazione.”
Salimmo su una macchina nera e andammo agli studi di produzione, entrammo e trovai Shin nel suo camerino, arrossii immediatamente e Misato lo notò perché mi lanciò un’occhiata interrogativa.
“Mai, puoi lasciarmi qualche minuto con Misato? Ho bisogno di parlare con lei.”
“Sì, ok. Non farla scappare, Shin.”
Lui sbuffò, la bionda se ne andò.
“Cosa vuoi?”
Ero piuttosto sulla difensiva e anche un po’ spaventata, il cuore mi batteva a ritmi impossibili.
“Parlare di ieri sera. Mi dispiace di aver detto quello che ho detto, era inappropriato. Il fatto è che io mi prostituivo e ogni bella donna era una possibile fonte di guadagno.”
Alzai un sopracciglio, io non ero ricca.
“Sei davvero carina e mi è uscita questa frase in automatico, non volevo offenderti o rovinare tutto.
Tu mi stai simpatica, ti va se ricominciamo tutto da capo?”
Valutai la situazione, lui sembrava sinceramente pentito e io ero attratta da lui, che senso aveva fare la preziosa? Certo, mi avrebbe dato l’immagine della tosta, ma io non volevo vivere di maschere, volevo solo essere me stessa.
“Sì.”
Allungai una mano verso di lui.
“Ciao, io sono Misato Uehara. Sono la stagista che ti è stata assegnata dalla Shikai Corporation e sono anche la sorellastra di Nana.”
Lui me la strinse, aveva mani grandi, leggermente ruvide e la stretta salda che mi piaceva.
“Io sono Shinichi Okazaki, ex bassista dei Blast e aspirante qualcosa. Felice di conoscerti.”
Sorrisi.
“Piacere mio.”
Lui tornò nel suo camerino, io andai sul set e mi misi subito al lavoro,  servendo tazze di caffè e facendo i mille altri piccoli compiti che  mi erano stati assegnati, sempre con lo sguardo di Misato puntato addosso.
Moriva dalla voglia di sapere cosa ci fossimo detti io e Shin, ma i tempi della produzione non ci lasciavano un momento per chiacchierare.
Finalmente arrivò la fine del mio turno e salutai tutti, sentii dei passi dietro di me, Misato mi aveva seguito fino all’ingresso.
“È successo qualcosa tra te e Shin?”
“Ieri sera è uscito a bere con me e non si è comportato bene, ma adesso abbiamo chiarito.”
Misato sospirò.
“Misato, non devi affezionarti troppo a lui.”
“Perché? È proibito dal contratto?”
“Finirai per farti male.”
Io sorrisi.
“Non glielo permetterò, non sono poi così sprovveduta. Piuttosto, non è a che a te piace?”
Lei rise.
“No, siamo solo amici.”
Se ne andò e arrivò Shin.
“Hai sentito tutto, vero?”
Lui annuì, ma me lo aspettavo, era impossibile nascondere questa conversazione.
“Posso essere un bravo ragazzo e te lo dimostrerò, posso venire a prenderti dopo il lavoro?
Giuro che non dirò cazzate questa volta.”
“Beh, se le dicessi sarebbe l’ultima volta. Va bene, comunque.
Sai dove lavoro e a che ora smetto, ci si vede.”
Lo salutai sventolando la mano, mi diressi verso la stazione della metro più vicina e quando fui sul convoglio, mangiai il mio bento visto che non avevo tempo di farlo dopo.
La mia cucina sembra migliorata, mi dissi, visto che questo l’ho preparato io e non preso alle solite macchinette. Arrivai alla mia fermata, scesi e tornai in superficie, qui la città era caotica, le persone si muovevano in fiumi che non si sfioravano mai. Pensai che fosse una cosa triste, ma era la vita che era così e forse non era una cattiva cosa.
Mi immisi nel flusso e arrivai davanti al negozio dove lavoravo, un’altra serata stancante mi attendeva e io non ero pronta. Sbadigliai ed entrai facendo tintinnare la campanella sopra la porta.
Un ragazzo dai capelli neri un po’ lunghi e gli occhiali mi salutò con un sorriso.
“Ciao, Misato. Pronta?”
“Si è mai pronti, Akira?”
Lui rise, io entrai nel privé, mi misi la maglia del negozio e mi guardai allo specchio.
Una ragazza dai capelli rossi semaforo mi rimandò uno sguardo stanco, nemmeno il correttore nascondeva le occhiaie ormai. Per un attimo il mio riflesso si confuse con quello di Nana, abbiamo gli stessi occhi e lineamenti molto simili, i miei sono forse meno affilati dei suoi, ma non troppo. Assomigliamo entrambe a mamma che somiglia a nonna o così dice lei.
Appoggiai una mano sullo specchio e mi chiesi per l’ennesima volta dove fosse finita, forse era scappata all’estero, alla fine aveva ricordi della sua vita sparsi per tutto il Giappone. Lo scintillio del mio piercing al naso e il leggero bussare di Akira mi riportarono alla realtà, uscii sorridendo.
“Scusa, mi sono guardata allo specchio e ho dovuto fare un esorcismo. Sembro un cazzo di vampiro.”
Lui rise ed entrò, io andai al bancone e indossai il mio sorriso di plastica che usavo per i clienti del negozio, anche se a volte erano pessimi, maleducati o ubriachi bisognava essere gentili con loro: era la prima regola.
D’altronde doveva esserci una ragione se esisteva il detto: “Il cliente ha sempre ragione”.
Quella sera lavorai un po’ svogliata, il mio sguardo correva troppo spesso all’orologio del negozio, una parte di me era impaziente di rivedere Shin, l’altra ne era terrorizzata a morte. Ripensavo continuamente a tutte le cose folli che le donne della mia famiglia avevano fatto per amore e mi chiedevo cosa avrei potuto fare io, ma forse lui non mi avrebbe chiesto niente del genere. Su di lui correvano svariati pettegolezzi – che si prostituisse, che fosse stato l’amante di Reira dei Trapnest – e non capivo cosa  vedesse in me di così particolare. Che fosse la normalità?
Che in me vedesse una ragazza con cui vivere un amore adolescenziale senza tutto quell’alone di torbido mistero che circondava la sua vita?
Poteva essere una buona ipotesi, in fondo io non ero nulla di speciale, tolti i capelli e il piercing ero uguale a mille altre ragazze. In ogni caso i clienti non si accorsero che non ero del tutto in me, a loro bastava che portassi i dvd richiesti e accettassi quelli che restituivano. Non era poi così difficile farlo, anche se la mia testa era altrove.
Finalmente arrivò l’orario di chiusura, misi l’incasso al solito posto, pulii il pavimento, chiusi il negozio e infine abbassai la pesante serranda. Sbrigata anche quella faccenda percorsi la poca distanza che mi separava dalla casa del proprietario e gli consegnai le chiavi.
Al mio ritorno Shin era lì, fumava indolente una sigaretta, per darmi un tono e non far vedere quanto fossi agitata me ne accesi una anche io.
“Ciao.”
Dissi piano.
“Ehi! Finita la giornata?”
“Sì, è finita anche oggi.”
Mugugnai mentre sbadigliavo.
Ero consapevole del suo corpo e del mio, della nostra vicinanza e mi sembrava di essere ridicola in ogni mia azione, troppo poco sexy per lui e cose del genere.
“Hai fame?”
“Eh?”
Mi ero distratta un attimo di troppo.
“Ti ho chiesto se hai fame.”
C’era una nota divertita nella sua voce.
“Oh, sì. Ho fame.”
Risposi con un bel sorriso per non dare a vedere quanti fossi imbarazzata.
“Ok, ti va di tornare al Jackson Burger o preferisci un altro posto?”
“C’è un chiosco non troppo lontano dal mio appartamento, preferirei andare lì.”
Lui annuì sorridendo.
“Ok, ti piace il cibo di quel posto?”
“Anche, in realtà ci vado perché è vicino a casa. Quando rimango senza niente nel frigo mangio lì, è conveniente.”
“Capisco."
Mi passa un braccio attorno alle spalle facendomi arrossire.
“Allora, andiamo. È anche meno rischioso per una ragazza che camminare per la città di notte, è pieno di brutti ceffi.”
Io annuii.
“Sì, hai ragione.”
“Ti dà fastidio?”
Si riferiva la suo braccio.
“No, non mi dà fastidio. È solo che non sono abituata.”
“Non hai mai avuto un ragazzo?”
“No.”
E come avrei potuto? Per non so quanto tempo avevo creduto di essere innamorata di mio fratello, ma lui non poteva saperlo. Il mio disagio aumentò.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No.”
“Eri innamorata di qualcuno?”
“Sì.”
Abbassai gli occhi.
“Non ti sei mai fatta avanti perché eri timida?”
Scossi la testa.
“No, era la persona sbagliata.”
“Non esistono persone giuste o sbagliate, solo occasioni che non si colgono.”
“Se avessi colto quell’occasione me ne sarei pentita”
Lui mi guardò curioso.
“No? Non era un’occasione da cogliere?”
“Ti stai chiedendo perché?”
“Sì.”
Sospirai.
“La verità è che i miei compagni non mi hanno mai accettata o fatta sentire particolarmente benvenuta, la mia unica amica era Chicage. Così senza punti di riferimento e in sua costante compagnia ho finito per innamorarmi dell’unica persona che si mostrava gentile con me, solo che non era quella giusta. Se mi fossi lasciata andare avrei rovinato molte vite. Probabilmente pensi che io sia una ragazzina patetica e codarda, ma fidati, sarebbe stato solo un gran casino
“Non penso sia patetico.”
La sua affermazione mi sorprese non poco, la gente normale sarebbe scappata pensando che fossi una specie di suorina melodarammatica, ma lui no. Lui era rimasto e mi fissava con i suoi penetranti occhi scuri, era come se mi stesse scavando nell’anima alla ricerca di chi fosse quella persona.
“So cosa vuol dire essere senza amore e un giorno mi racconterai tutto, se vorrai.”
La sua affermazione mi sorprese, non sapevo cosa dirgli, un “mi dispiace” mi sembrava stupido e banale.
“Non devi dire nulla. Forza, andiamo.”
Sorridendo lievemente mi condusse all’ingresso della metro, mentre scendevamo le scale mi accorsi per la prima volta di quanta gente equivoca e sospetta ci fosse. Era per colpa del braccio di Shin che mi faceva sentire sicura che vedevo le minacce?
Non ne avevo idea e decisi di non pensarci ulteriormente o non sarei più riuscita a percorrere quella strada in tranquillità nei giorni seguenti.
Prendemmo la linea che portava verso casa mia, nessuno dei due disse nulla, Shin continuava a tenermi stretta a sé con aria stanca. Era come se all’improvviso il peso della giornata gli fosse franato addosso.
Arrivammo alla mia fermata e scendemmo, il chiosco era a metà strada tra casa mia e la metro ed era piuttosto piccolo. Anche a quell’ora era animato, ma il chiacchiericcio della gente mi fece sentire meglio, più sicura.
“Tutto bene?”
Mi decisi infine a chiederglielo, Shin sorrise di nuovo.
“Sono solo stanco, non pensavo fare il modello fosse così faticoso.
Un sacco di casting, servizi fotografici e rotture di palle simili, fare l’attore mi piace di più, ma finisco per ottenere sempre gli stessi ruoli di solito. O sono uno straniero o un mezzo giapponese o sono il ribelle che si redime alla fine della storia. Forse dovrei tingermi i capelli del mio colore naturale.”
“Qual è?”
“Castano, un castano abbastanza chiaro.”
“Ma tu non vuoi.”
Non rispose alla mia affermazione solo perché il proprietario del chiosco arrivò per prendere le ordinazioni. Prendemmo entrambi del ramen e degli spiedini di pollo, io ordinai un the, lui la birra, il proprietario lo scrutò da capo a piedi, ma alla fine non disse niente.
“Perché hai affermato quella cosa sui miei capelli?”
“Se avessi voluto veramente tornare al tuo colore naturale l’avresti già fatto o non ci penseresti così tanto, forse il tuo colore ti ricorda qualcosa che vuoi dimenticare.”
Dissi piano dopo una lunga pausa, non volevo fare la figura dell’impicciona, ma nemmeno evitare di rispondere a una domanda legittima.
“Probabilmente hai ragione, ma non mi sembra il caso di parlare delle nostre famiglie adesso.
Voglio dire, sono incasinate entrambe e farlo a pancia vuota sarebbe deprimente, non trovi?”
Ripensai a tutti problemi che avevo avuto con la mia prima di trovare un precari equilibrio che ci permettesse di sopravvivere senza ferirci e annuii.
Oltre a noi c’erano un gruppo di universitari che faceva baldoria per aver superato brillantemente un progetto – lo urlavano a gran voce – e quattro impiegati con il viso arrossato dal sakè che festeggiavano la promozione a un livello più alto. Il chiosco era allegro, insomma, e non valeva certo la pena di abbassare l’umore, perciò sorrisi.
“Sì, hai ragione.
Sono tutti allegri qui e noi possiamo essere due ragazzini nottambuli.”
Lui annuì a sua volta.
Arrivarono i nostri ramen, avevano proprio l’aria appetitosa che mi ricordavo.
“Buon appetito!”
Esclamai leggera, Shin mi fece eco ed iniziammo a mangiare.
Sì, era proprio buono e l’atmosfera positiva lo faceva sembrare persino migliore,
Di che cosa potevo lamentarmi?
Stavo mangiando del buon cibo in compagnia di un bel ragazzo che sembrava interessato a me.
Se escludevo chi fossimo lo scenario era roseo e promettente come quello di un manga romantico, ma non potevo, un tarlo ostinato si era insinuato in me. Da quando avevo scoperto che Nana era mia sorella, avevo iniziato a paragonarmi a lei e a mamma in termini di bellezza e perdevo sempre. Tutto quello che vedevo era una banale ragazza dagli occhi e dai capelli castani che, tra l’altro, non stavamo mai a posto.
Mi intristii all’improvviso, come se mi avessero buttato addosso un secchio di acqua gelida, lui era perfetto: lineamenti fini e leggermente stranieri, grandi e penetrati occhi scuri, capelli azzurri spettinati ad arte.
“Che succede? Il tuo ramen non è buono?”
Aveva anche delle buone doti di osservazione se si era accorto che avevo smesso di mangiare nonostante fossi affamata.
“Il mio ramen va benissimo, è ottimo.”
“Cosa c’è che non va?”
“Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?”
Cercai di dribblare sorridendo.
“Sei una pessima bugiarda, Misato.”
Io arrossii.
“Il fatto è che non capisco perché tu voglia uscire con me, non sono niente di speciale, sono la classica ragazza della porta accanto se togli il colore dei capelli e i vestiti che poi porto perché ammiro mia sorella.
È perché somiglio a Nana?”
“Senti, è innegabile che tu somigli a Nana, me ne sono accorto fin dal meet and greet, ma non è per questo.
Nana non mi ha mai attratto sessualmente.”
“E allora perché?”
“Perché sei bella, spiritosa, di buon carattere e non mi tratti in modo diverso perché sono famoso.
Tu pensi che la normalità sia noiosa o simbolo di banalità, ma io ho visto abbastanza cose folli e anormali da averne abbastanza. Voglio un’amica all’incirca della mia età e lo stesso vale per una ragazza.
Sono stanco di donne mature e di persone eccessivamente problematiche.
Nelle donne che mi sono scopato cercavo mia madre, ma ho scoperto che lo facevo in modo sbagliato, che non era affetto quello, che l’affetto che ricevo da Hachi è quello giusto. Penso a lei come a una madre, anche se abbiamo solo cinque anni di differenza. E la complicata storia tra Takumi e Reira mi ha insegnato a non infilarmi in rapporti in cui sono la seconda scelta.”
“Ma io…”
“Tu avevi una cotta per tuo qualcuno di intoccabile, ma ti è passata, no?”
Mi sorrise e spinse leggermente l’indice sulla mia fronte, facendomi sorridere a mia volta, con un solo gesto aveva alzato il velo di paranoia che minacciava di soffocarmi. Forse potevamo avere un futuro se solo ci avessimo creduto.
“Sì, mi è passata. È solo che è tutto strano.”
Lui rise, per lui la nostra situazione doveva essere la cosa più vicina alla normalità che avesse mai sperimentato in vita sua.
Arrivarono anche gli spiedini di pollo e li mangiammo in silenzio, ma era uno di quei silenzi confortevoli che si creano tra persone che si conoscono.
“Sai, credo sia strano perché non hai avuto amici maschi o un ragazzo, ma non è poi così strano.”
“Sei il mio datore di lavoro.”
Lui rise di gusto.
“No, non sono io il tuo datore di lavoro. È la Shikai Corporation, io sono solo un collega.”
“Giusto.”
“Ti va di provare un po’ di birra?”
“La prossima volta, adesso devo andare a studiare. Domano ho una verifica di matematica e non posso prendere un voto basso.”
Lui alzò un sopracciglio.
“Secchiona?”
Io scossi la testa.
“Punto a vincere una borsa di studio, ecco perché devo prendere voti alti.”
Sbadigliai sonoramente.
“È stancante, ma è il prezzo della mia libertà e io lo pago volentieri.”
“Ti capisco.”
Ordinammo dolce e caffè e dopo aver chiacchierato ancora per qualche minuto ce ne andammo.
Mi accesi una sigaretta e lui fece lo stesso.
“Dove abiti? Ti accompagno.”
“Ma non devi disturbarti! Te l’ho detto che è qui vicino.”
Dissi un po’ a disagio.
“Non lascio andare una ragazza da sola nella grande città, dai, ti accompagno.”
Non avevo vissuto in paesini, sia Osaka che Okayama erano abbastanza grandi, ma non erano nulla se paragonati a Tokyo.
“Ok, hai vinto.”
Ci incamminammo verso il mio appartamento.
“Qual è il tuo membro preferito dei Blast?”
“Nana.”
Lui sorrise.
“Se ti chiedessi un appuntamento usciresti con me?”
“Ti direi che prima vorrei frequentarti un altro po’ come amico e poi farei le mie valutazioni. So benissimo di essere una provincialotta nella grande città , con pochissima esperienza per di più. Una preda facile.”
“Non ti ricordavo così nel meet and greet.”
“Beh, quella era un’occasione speciale. Ho imparato a mie spese che devo proteggere me stessa, visto che nessun altro può farlo. Devo essere il mio eroe.”
“Spero che un giorno accetterai un po’ di auto.”
“Un po’ di mutuo soccorso non sarebbe una cattiva idea.”
Sorrisi, lui mi sorrise di rimando.
“Mi hai tolto le parole di bocca, proviamo a sopravvivere insieme a questo manicomio.”
“Ci sto.”
Lui mi tese una mano e mi fece l’occhiolino, io la strinsi e suggellammo il patto.
Avevamo entrambi bisogno di qualcuno e tra noi c’era una buona chimica, poteva funzionare, potevamo anche diventare più che amici e non mi sarebbe dispiaciuto. Per la prima vota percepii che andare a Tokyo non era solo una fuga, ma poteva anche essere un’occasione per avere nuove esperienze.
Adesso camminavamo in silenzio, di nuovo non era imbarazzato o altro, era solo silenzio.
Arrivammo davanti al condominio dove abitavo, Shin lo squadrò un attimo.
“Pieno di studenti, impiegati e poche famiglie, giusto?”
“Più o meno. La tizia sotto di me ha famiglia e mi sta triturando le ovaie da quando sono qui per via dei miei orari e mi limito a muovermi il più delicatamente possibile. Se dovessi ascoltare della musica credo scatenerebbe una guerra.”
“I vicini rompiscatole ci sono ovunque.
Beh, buonanotte.”
Mi diede un bacio sulla fronte e mi lasciò lì, io ero come congelata.
Il punto in cui mi aveva baciato era caldo e sembrava che tutti i nervi del mio corpo fossero convenuti in quel punto per descrivermi le sensazioni.
Era stato meglio di qualsiasi contatto che avessi avuto con ogni essere umano della mia vita, persino Takahiro, il che mi diede la conferma definitiva che quella bolla di sentimenti che provavo era scoppiata.
Adesso era davvero solo mio fratello.
Entrai nel condominio e salii le scale a piedi fino ad arrivare al mio appartamento.
Aprii la porta e mi lasciai cadere sul letto con un sospiro come ogni sera, questa volta era un sospiro soddisfatto, però.
Ero felice per la prima volta da tanto tempo ed era bellissimo.
Era come starsene immersi nell’acqua termale calda con la neve tutt’attorno.
Avrei voluto che durasse per sempre, ma era più realistico sperare che ci sarebbero stati in futuro altri momenti del genere.
Mi feci la doccia e mi misi a studiare e poi a letto.
Sorridevo ancora e per la prima volta mi sembrava che il sorriso fosse l’espressione giusta per la mia faccia.
Risi all’idea, ma non smisi di sorridere.
Adesso avevo un motivo serio per farlo.

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassettesimo ***


Capitolo diciassettesimo

 

Sai, Nana…
Avevo sempre desiderato dei figli, ora che ne avevo due non ce la
facevo. Il blocco che avevo avuto nei confronti di Satsuki si era sciolto,
ma quello nei confronti  di Ren era più forte che mai e non sapevo
come aggirarlo. Lui poi piangeva sempre e Takumi non c’era mai.
Stavo per scoppiare.

 

Erano passate due settimane da quando Reira aveva visitato suo figlio e le cose erano persino peggiorate.  
Mi era passato l’appetito ed ero dimagrita di botto, la mia faccia era segnata da occhiaie e borse perenni, senza contare il colorito pallido e malsano. Avevo vissuto gli ultimi mesi della mia vita tra cambi di pannolini, allattamenti, ninne nanne e tutto quello che riguardava l’essere madre. Ora sentivo Satsuki come mia figlia, il problema era ancora Ren.
Mi sforzavo di vederlo come il figlio di Shin – cioè come qualcuno da amare – ma il trucco non mi riusciva, la maggior parte del tempo lo percepivo come un estraneo portato in casa mia al solo scopo di farmi andare fuori di testa e il fatto che con Reira si fosse calmato non mi aiutava affatto.
Era come se quel mocciosetto sapesse a istinto chi fosse la sua vera madre e a chi chiedere affetto, da me voleva solo cibo.
Satsuki aveva iniziato da poco con la pappette, quindi il mio latte stava diminuendo, ma Ren non sembrava accorgersene. Voleva latte di continuo, dormiva poco e piangeva molto, non sapevo più cosa fare e non potevo contare su nessuno: Takumi continuava a trascorrere molto tempo con Reira.
Ero sul punto di scoppiare e fu così che mi trovò Shin una volta, sdraiata per terra che piangevo con le mani sulle orecchie per ignorare il pianto del bambino.
La vista sembrò sconvolgerlo, rimase paralizzato, guardando alternativamente me e il piccoletto, alla fine si diresse alla culla e calmò suo figlio in qualche modo, poi venne da me. Con gentilezza mi aiutò ad alzarmi e mi fece adagiare sul divano, mi lasciò piangere per un altro po’ e poi mi asciugò le lacrime con il suo sorriso triste. Non volevo gettare i miei problemi sulle sue spalle, ma sapevo che non ce l‘avrei fatta a trattenermi, un argine si era rotto in me.
“Shin, non ce la faccio!”
Esclamai tra i singhiozzi.
“Io ci provo ad amare Ren, ma non ci riesco. Non ci riesco.
Sono una donna orribile.”
“Mi dispiace di causarti così tanti problemi.”
Spalancai gli occhi e lo guardai.
“Tu sai che…?”
“Ren è mio figlio? Sì.
Ho fatto un po’ di conti e il fatto che mi somigli me l’ha reso chiaro.
Grazie per prendertene cura, ma Takumi dov’è in tutto questo?”
“Dove è da sempre: da Reira.”
Borbottai scontenta, lui strinse le mani.
“Va tutto bene, Hachi.”
Disse piano, poi estrasse il suo cellulare.
“Ciao, dove sei?”
Il tono era poco amichevole.
“Lo so che sei a Tokyo, Reira mi ha scritto ieri.
Beh, vieni a casa tua, ammesso che ti ricordi dove sia.”
Concluse brusco.
“Chi hai chiamato?”
Chiesi impaurita, anche se una parte di me aveva già intuito tutto.
“Takumi, deve rendersi conto delle sue responsabilità.
Ha degli obblighi anche verso di te, non solo verso Reira.”
Io sbarrai gli occhi, tra Shin e mio marito non scorreva buon sangue e sperai che non degenerasse tutto in una rissa.
“Hai paura, Hachi?”
“Sì.”
“Non devi. Ti ho già detto che andrà tutto bene, non c’è ragione di averne.”
Il suo tono adesso era calmo e gentile, ma io non mi tranquillizzai.
Avrei recuperato il pieno controllo di me solo quando quella storia sarebbe finita senza vittime.
Mezz’ora dopo la porta della casa si aprì, Takumi entrò con un’espressione seccata e delle brutte occhiaie.
“Allora, perché mi hai chiamato, Shin?”
“Per Hachi. Guardala.”
Mio marito mi rivolse uno sguardo inespressivo.
“Non ce la fa più a badare a due bambini da sola, tu dove sei?
Perché sei sempre da Reira? Non sai di avere una moglie?”
“Non ti impicciare in cose che non ti riguardano, ragazzino.
Rispose secco Takumi.
“Mi riguardano visto che le hai accollato in pieno la responsabilità di mio figlio!”
Gli occhi di Shin mandavano lampi, l’altro invece scoppiò a ridere.
“Ah, lo sai! Reira non sa stare zitta.
Parli di responsabilità, allora perché non prendi il piccolo bastardo e lo cresci tu visto che sei suo padre?
Tu e la sorellina di Nana potreste essere dei buoni genitori.”
Shin si irrigidì e strinse i pugni.
“Come sai di me e Misato?”
“Vi hanno visti insieme, ti devo fare i miei complimenti, sai?
Questa volta hai dimostrato buon senso, ti sei scelto una ragazza della tua età almeno, carina, ma senza quell’aria da psicopatica di Nana.”
Il mio amico strinse i pugni ancora di più, aveva l’aria di voler attaccare da un momento all’altro.
“Ma non divaghiamo, perché non prendi Ren e lo cresci tu?”
Il silenzio si allargò come una macchia tra di loro.
“Perché non puoi. Sei solo un ragazzino senza arte né parte, non hai il diploma né un lavoro stabile, ti puoi mantenere a malapena. E sei costantemente a rischio, un passo falso e sei di nuovo nel giro della prostituzione.”
Gli occhi del mio figliolo adottivo si strinsero fino quasi a ridursi a due linee dure e ostili.
“Non mi prendo cura di lui perché tu e Reira mi avete tagliato fuori, come sempre d’altronde. Insieme avete deciso che tu l’avresti riconosciuto e cresciuto. Beh, vedi di farlo!
Smettila di scappare dalle tue responsabilità e di lasciare Hachi da sola!”
Dopo quelle parole afferrò il suo giubbotto di pelle e corse fuori da casa mia, aveva l’aria di uno che era sull’orlo di dare matto e picchiare il primo essere che fosse stato sgarbato con lui.
L'atteggiamento da padrone del mondo di Takumi, quello che aveva sempre avuto e che mi aveva affascinato ai primi tempi, mi fece perdere le staffe.
Senza dire nulla lo schiaffeggiai così forte che la sua testa si voltò di lato.
“Cosa ti prende?”
Mi chiese con il suo solito tono arrogante.
“C’è che quello che ha detto Shin è vero! Smettila di scappare dalle tue responsabilità, smettila di darle in carico a me!
Sei tu che hai riconosciuto Ren come tuo figlio, non io.
Io… io sono stanca di questa situazione! Non è facile badare a Satsuki e con Ren è anche peggio e tu non ci sei mai, stronzo!
Tu sei sempre da quella troia che ti sbava dietro da una vita, perché non fai l’uomo per una volta?
Mollami, prendi Ren e vattene con lei da qualche parte a prenderti cura della tua vera famiglia, io per te sono una specie di serva, un cagnolino fedele da scopare ogni tanto!
Sai, che c’è? Mi sono rotta i coglioni!”
Lui mi mollò un ceffone che mi mandò a fuoco la guancia, io la toccai per qualche secondo e poi cominciai a tempestargli il petto di pugni e insultandolo come mai avevo fatto.
Gli rinfacciai tutti i suoi sbagli – quando mi aveva portato a letto per divertimento, poi per ripicca verso Nobu, quando mi aveva scopato contro la mia volontà solo per ferire Nana che ci avrebbe sentito, il suo passare sempre più tempo con Reira, la gravidanza, Ren – e lui mi urlò che la puttana ero io.
Ero io ad avere aperto le gambe alla rockstar.
Gli rifilai un altro ceffone, questa volta non disse nulla.
Si limitò a girare i tacchi e a uscire dalla porta della villa.
Era quello che gli riusciva meglio.

 

Il giorno dopo mi svegliai al pianto di Ren, gemendo disperata mi tirai il cuscino sul volto.
Dopo qualche minuto dovetti cedere e mi alzai, guardai il calendario e trasalii, era il 20 novembre, di lì a dieci giorni sarebbe stato il mio ventiduesimo compleanno.
Intanto che allattavo il bambino fui presa da una profonda tristezza, l’anno prima l’avevo celebrato con Nana e tutti i miei amici – tranne Nobu, per ovvi motivi – e quest’anno?
Probabilmente a causa dei bambini sarebbe passato in secondo piano, credo fosse quello il piano di Takumi, qualcosa  che seguiva uno schema più grande: allontanarmi da tutti i miei affetti per avere il pieno controllo della mia vita e modellarla a suo piacimento.
Beh, non glielo avrei lasciato fare, mi ero lasciata calpestare come uno zerbino abbastanza!
Non sapevo da dove venisse quella rabbia e quella voglia di ribellione – ma probabilmente da tutti gli eventi che erano accaduti da quando mi ero trasferita a Tokyo, con la perdita di Nana come catalizzatore – ma mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Era quello che mi permetteva di esistere ancora come Nana Komatsu e non solo e unicamente come Nana Ichinose, la moglie devota di un uomo spietato.
Stasera, mi dissi, chiamerò Takumi e gli dirò che voglio festeggiare il mio compleanno nell’appartamento 707 con gli altri. Non avrei ceduto e avrei fatto quella festa a ogni costo.
Finalmente Ren si calmò, diedi da mangiare a Satsuki e scrissi a Shin, scusandomi per la stronzaggine di mio marito e chiedendogli come stava.
La risposta arrivò poco dopo mentre ero immersa nei miei tentativi di imparare l’arte della vestizione – un lato positivo di vivere con quello stronzo era che aveva assunto una cameriere che mi sollevava dall’obbligo delle faccende domestiche –  e lo lessi subito.
“Sto bene, mamma.
Sono al lavoro, stanotte ero da Misato, quella vera.
Non ti devi preoccupare per me. Tu stai bene, piuttosto?”
Misato quella vera? Si riferiva alla sorellina di Nana?
“Sì, sto bene. Io e Takumi abbiamo litigato.
Gli ho dato un ceffone per la prima volta, è stato liberatorio.
Vorrei festeggiare il mio compleanno come l’anno scorso, spero che non rompa troppo.
Tu ti riferisci a Misato, la sorella di Nana? Da quando uscite insieme?
Perché non me l’hai detto?”
La risposta arrivò poco dopo.
“Se riesci a mettere Takumi davanti alle sue responsabilità ti darà un giorno di libertà, credo che sappia che ti ha rovinato la vita. Sì, la sorellina di Nana. Esco con lei più o meno.
Ci siamo visti un paio di volte, ma solo come amici. Non te l’ho detto perché penso di essermi innamorato per la prima volta e volevo avere un po’ di tempo per pensarci e poi lei non lo sa. Avevo anche paura che reagissi male :P”
“Non sono una madre gelosa! Ma la voglio conoscere e se ti dovesse trattare male la picchierò con un mestolo.”
“Hachi, grazie di essere nella mia vita.
Buona fortuna.
Io sorrisi alla sua risposta, mi aveva scaldato il cuore con pochissime parole.
Ripresi il mio lavoro, un’occhiata al manuale e una al chimono che avevo cucito con Miu, fino a mezzogiorno. La cameriera mi chiamò per il pranzo, io mangiai e nutrii anche i bambini.
Mi sarebbe piaciuto uscire e incontrare Takumi in un bar, ma a chi avrei affidato Ren e Satsuki?
Sbuffando presi il mio cellulare e chiamai mio marito, che mi rispose dopo non so quanti squilli.
“Cosa vuoi?”
Mi chiese sgarbato.
“Parlarti. Vieni a casa.”
Io ero altrettanto secca.
“È urgente?”
“Dal mio punto di vista, sì.”
“Uno dei bambini sta male?”
“Devono per forza centrare i bambini? Ti devo solo parlare o devo prendere un appuntamento con la tua segretaria?”
“Va bene, arrivo.”
Chiuse la chiamata e io sbuffai di nuovo. Sapevo che sarebbe stata dura, ma non così dura.
Un’ora dopo entrò dalla porta, controllò i bambini e poi me alla ricerca di qualcosa, chissà cosa poi…
“I bambini stanno bene e tu stai bene, perché mi hai fatto precipitare qui?”
“Tu dovresti stare qui o al lavoro, non da Reira!
Lo sai che è venuta a vedere suo figlio?”
Mi rivolse uno sguardo vacuo.
“Non importa, non ti ho chiamato per discutere di questo.
Tra dieci giorni è il mio compleanno, voglio festeggiarlo con i miei amici, uscire quindi da qui per una sera e andare all’appartamento 707.”
Lo sguardo divenne più vacuo.
“E chi baderà ai bambini?”
“Tu. Sei il loro padre.”
“Non ho tempo per queste cazzate, devi proprio festeggiarlo?
Che senso ha ricordarsi che diventi più vecchia di un anno?”
Io strinsi i pugni.
“Perché voglio vedere i miei amici per una sera, voglio sentirmi una ragazza della mia età, non mi sembra una richiesta eccessiva.”
“Sei la solita ragazzina infantile, sei una madre, cazzo! Questo dovrebbe venire prima di tutto!”
“E tu sei un padre, dovrebbe venire prima di Reira, ma per te non è così!
Sei sempre da lei e mi lasci da sola, quanto sei padre?”
“È la madre che si deve prendere cura dei bambini!”
I suoi occhi mandavano fulmini.
“Questa è una concezione antiquata e non ho intenzione di seguirla!”
Mi diede uno schiaffo molto violento, io lo guardai piena d’odio.
“Ascoltami bene, Takumi Ichinose. Se tu non mi concedi la serata libera io prendo Satsuki e me ne torno dai miei. Poi divorzio, ti spenno e ti lascio da solo a crescere il tuo piccolo bastardo.
E lo farò, perché sono stanca morta di te!”
La mia minaccia sembro andare a segno perché lui parve afflosciarsi su se stesso.
“Perché cazzo mi hai sposato?”
“Dio! Perché tu mi offrivi più soldi e sicurezza di Nobu, quando mai ci siamo amati?
Io ero solo infatuata di te e anche adesso, quando dico a tutti di amarti, mento per il bene dei bambini, perché voglio che – nonostante i nostri errori – abbiano una famiglia il più serena possibile.
Cosa credevi? Che ti amassi davvero dopo tutto quello che mi hai fatto?
Non sono tonta come pensi.”
Sbottai, la verità finalmente fuori dal mio petto e dal mio cuore.
Lui mi guardò sorpreso, non era la risposta che si aspettava probabilmente, io lo avevo abituato alla docilità non a risposte sincere e taglienti.
Fare da mamma mi aveva cambiato, mi aveva fatto capire che non potevo e non dovevo sempre abbassare la testa e dire di sì per paura di rimanere da sola e non saper gestire la situazione. Questi mesi mi avevano dimostrato che ero in grado di gestire una situazione senza nessun aiuto.
In passato mi ero appoggiata a Junko, a Shoji, a Nana, a Nobu e infine a Takumi. Non avevo dimostrato di essere autonoma, ora invece sapevo di poterlo essere. Sapevo che il giorno in cui Nana sarebbe tornata nella mia vita e i bambini sarebbero stati abbastanza grandi da sopportare una separazione, la mia strada si sarebbe separata da quella di Takumi per ricongiungersi a quella di Nobu. O almeno lo speravo.
“Quindi non mi ami?”
“No, non ti amo.”
“Nemmeno io ti ho mai amata, sei stata una scommessa che ho vinto con Nobu Terashima.”
Io scossi le spalle.
“Sì, immaginavo fosse qualcosa del genere.
Stai cercando di ferire una persona che ora non c’è più, dimmi qualcosa che possa davvero ferirmi ora.”
Allargai le braccia come a indicare la casa piena di giocattoli e altre cose per bambini.
“Prova a dirmi qualcosa che mi faccia più male di questo.
Hai distrutto il mio sogno di diventare madre e di avere una famiglia, dimmi qualcosa che faccia più male.”
Takumi rimase in silenzio.
“Va bene, festeggia il tuo compleanno con i tuoi amici.”
“Bene, sono felice che abbiamo raggiunto un accordo.”
Lui mi guardò di nuovo stranito, non riconosceva la persona che aveva davanti.
Aveva ragione, ma questi mesi mi avevano insegnato molto su di me e sulla vita.
Non potevo tornare indietro, non sarei mai tornata a essere Hachi, ossia la ragazza spensierata, rumorosa e ingenua. Quell’identità era andata in pezzi, sparita insieme a Nana.
Ero diventata più forte e la prova era Takumi stesso, forse faceva un countdown mentale su quanto sarebbe durata la nostra relazione.
“Tu ami Terashima, vero?”
“Takumi, ascoltami.”
Sbuffo.
“Il tempo in cui tu te la contendevi a lui è finito, davvero finito.
Io so chi amo adesso, ma so anche che non posso stare con lui. Sarà un matrimonio di facciata, ma le cose non cambieranno perché lo è già adesso. Tu sei sempre da Reira, nel tuo distortissimo modo è l’unica donna che tu abbia mai amato e prima lo accetterai meglio sarà. Lei ti ama e non mollerà fino a quando non ti avrà avuto. È testarda e tu le hai costruito un castello con i Trapnest per farla felice e lei lo sa.”
“Credo sia meglio che me ne vada, tu chiama i Blast.”
Tagliò corto lui, la  verità era una medicina amara e a nessuno faceva piacere essere forzato ad ingoiarla.
Strinsi il mio cellulare e poi lo aprii, non sapendo chi chiamare per primo, le mie dita si mossero in automatico e prima che potessi fermarle o pensare cosa dire avevano composto il numero di Nobu.
Ora squillava a vuoto e il mio cuore batteva così forte forse stavo per avere in infarto o qualcosa del genere.
“Pronto?”
La voce di Nobu mi diede un brivido e non riuscii a parlare.
“Hachi?”
“Sì, sono io, Nobu.”
Dissi piano.
“Ehi, ciao. Come mai questa chiamata?”
Il suo tono forzatamente allegro mi fece male, tutte le persone a cui tenevo finivano per soffrire.
Nana, lo hai pensato anche tu questo?
È per questo che te ne sei andata?
“Tra una decina di giorni è il mio compleanno, vorrei festeggiarlo con le persone a cui tengo nell’appartamento 707 come ai vecchi tempi. Mi chiedevo se tu potessi venire.
So che il preavviso è poco, ma mi farebbe piacere che tu venissi.”
“Certo, conta pure su di me, verrò molto volentieri.
Mi manca Tokyo e… mi manchi tu.”
“Anche tu mi manchi, sempre.”
“Che sfigati che siamo, ne Hachi?”
“Sì, terribilmente sfigati.
Mi veniva di piangere e non riuscivo a continuare il discorso anche se avrei voluto dirgli mille cose.
“Nobu, parliamone di persona. Al telefono non ce la faccio.”
“Nemmeno io. Vorrei essere lì con te.”
“Che tu ci creda o no, anche io voglio la stessa cosa.”
“Arrivederci, Hachi. Ci vediamo all’appartamento 707 come sempre.”
“Sì. Ciao, Nobu.”
Chiusi la chiamata e mi accorsi che le mie guance erano bagnato di lacrime, avevo pianto e non me ne ero nemmeno accorta. Non mi ero trattenuta alla fine.
La telefonata più importante l’avevo fatta, ora toccava agli altri.
Ren scoppiò a piangere, lo calmai e presi di nuovo in mano il cellulare.
Chiamai Junko, Kyosoke, Yasu, Miu, Shin e Misato Tsuzuki.
Accettarono tutti di buon umore.
“Mamma, posso portare una persona?”
Mi chiese Shin, immaginai che fosse Misato.
“Sì, certo. Puoi portare chi vuoi.”
“Grazie, mamma.”
“Di niente. Mi dispiace ancora per come sia finita l’altra volta.”
Mi riferivo al litigio tra lui e Takumi in cui erano volate parole grosse e accuse reciproche, mi sembrò quasi di vederlo mentre scuoteva le spalle.
“Tutto a posto, ma’.”
“Shin, lo sa che puoi parlare con me se c’è qualcosa che ti infastidisce o ferisce.”
“È tutto a posto. Takumi ha ragione, io a mio figlio non posso offrire proprio nulla.”
“Ma puoi  amarlo.”
“Non ne sono sicuro. Guardare lui mi ricorderebbe Reira in continuazione e sai che tra noi non può più esserci un futuro. Mi dispiace solo che sia tu a pagare il prezzo dei miei errori.”
“Shin.”
“Va tutto bene, adesso devo andare.”
Chiuse la chiamata in tono triste.
Era evidente che soffriva, più di quello che avrebbe ammesso o dato a vedere, ma non mi avrebbe permesso di aiutarlo su quel fronte. Era un dolore intimo e personale che non voleva condividere, un qualcosa che affondava le sue radici nel suo passato da bambino abbandonato dalla madre.
Non era giusto che si tenesse tutto dentro, sperai che ne parlasse almeno con Misato, da solo non ce l’avrebbe fatta a sopportare un tale peso.
È così che va quando un genitore ti abbandona, Nana?
Tieni per te il dolore? Lo stringi come se fosse un segreto prezioso finché non diventa parte della tua stessa anima?
È così che ti sei sentita?
È per questo che sei scappata?
La morte di Ren era un peso troppo grande e avevi paura a condividerlo con me o con gli altri?
Ma è a questo che servono gli amici, ti aiutano nei momenti bui, tu con me ci hai provato e non me lo scordo.
Pensai questo, schegge disarticolate che non riuscivano a formare un ragionamento coerente, cercavo parallelismi con tutto quello che mi accadeva per cercare di capire la sua fuga. Era un atteggiamento stupido – ogni essere umano è diverso dall’altro – ma non potevo farne a meno. La sua scomparsa era una caverna buia e ogni luce che illuminasse anche solo un pochino di quell’abisso era benvenuta.
Tutto quello che mi poteva aiutare a capire era benvenuto.
Mi sentivo stanca e svuotata, ma soprattutto lasciata indietro.
Non era il fatto che tutti proseguissero la loro vita e io fossi bloccata tra pannolini e biberon, era perché Nana non si era confidata con me dopo tutte le conversazioni nella vasca con i piedi di leone.
Mi aveva tagliato fuori, mi aveva lasciata a brancolare.
Mi aveva lasciata sola.
Mi aveva abbandonata come sua madre aveva fatto con lei.
Mi chiesi se se ne rendesse almeno conto, ma la mia mente aveva paura della risposta.
Quanto avrei voluto parlare con lei anche solo per un secondo e dissipare i miei dubbi, ma lei era in un posto che io non potevo raggiungere.
Per il momento.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciottesimo ***


Capitolo diciottesimo

 

Ci sono dei momenti in cui nella tua vita vedi all’opera un disegno più grande.
Alcuni lo chiamano destino, io non saprei come chiamarlo, so solo che in
certi momenti è rassicurante. Ti fa sentire meglio sapere che sei attirata
verso certe persone da qualcosa di più del mero caso.
-Misato Uehara

 

Era sabato, un freddo sabato di novembre, pioveva forte come se le forze della natura stessero tentando di annegare Tokyo.
Io mi strinsi nel giubbotto di pelle e mi toccai i capelli di un verde brillante, l’allieva del corso di parrucchiera avevano deciso di provare quel colore e non mi stava male. In ogni caso mi piaceva cambiare colore ogni due settimane, mi dava un senso di libertà.
Rabbrividii, la cosa più importante era tornare nel mio appartamento, lì avrei potuto continuare a riflettere al caldo e all’asciutto. L’ombrello da borsetta era troppo piccolo e non mi riparava bene.
Il mio cuore saltò un battito e poi si mise a correre al galoppo, una figura era semisdraiata all’ingresso del mio condominio. Era un innocuo barbone? Oppure un ladro o peggio?
Non sapevo cosa fare, voltarmi e scappare oppure affrontare il pericolo?
Presi un respiro profondo e continuai a camminare, tutti i nervi all’erta e pronta a reagire a un eventuale attacco. Arrivata vicino alla figura, il mio cuore saltò di nuovo un battito, tirai un sospiro di sollievo e infine venni assalita dalla preoccupazione.
Quello che giaceva sui gradini del condominio era Shin, doveva essere lì da ore perché era bagnato fradicio, lo toccai: era anche parecchio freddo. Lo scossi più forte che potevo fino a che non si svegliò, i suoi occhi misero lentamente a fuoco la scena.
“Misato…”
Sussurrò, poi mi accarezzò piano una guancia, io presi la sua mano tra le mie.
“Ehy.”
Tentai di sorridere.
“Da quanto sei qui?”
“Non lo so. Tanto.”
“Ce la fai ad alzarti? Ti porto nel mio appartamento, lì potrai fare un bagno caldo e dovrei avere uno yukata per te.”
“Yukata? Non è da ragazze?”
“È unisex. Ce la fai ad alzarti.”
Lui sembrò dare una controllatina al suo corpo e poi annuì.
Con un po’ di fatica e aiuto da parte mia si tirò in piedi, io gli passai un braccio lungo i fianchi e insieme entrammo nel condominio. Ero preoccupata per lui, alternava momenti in cui era del tutto assente ad altri in cui in il suo sguardo esprimeva un dolore immenso, quello di un uomo che brucia impossibilitato a spegnere o provare a salvarsi dall’incendio.
Era successo qualcosa, ma che cosa?
Arrivammo al mio appartamento e lo lasciai per andare a prendere un asciugamano, rimase in piedi per fortuna. In bagno acchiappai al volo uno fresco di bucato e tornai da Shin, lo avvolsi con cura e poi gli sorrisi.
“Adesso ti preparo un bagno caldo o ti prenderai una polmonite.
Andrà tutto bene.”
L’ultima frase non aveva senso se collegata alle altre, ma parve rianimarlo.
“Misato?”
“Sì?”
“Abbracciami, per favore.”
Feci quello che mi disse, tremava e io morivo dalla voglia di chiedergli cosa diavolo fosse successo di così terribile, ma sapevo che ora come ora non me lo avrebbe detto.
Mi staccai, lo presi per mano e lo condussi in bagno, lui si sedette sul water dopo aver abbassato la tavoletta e mi guardò riempire la vasca di acqua calda.
“Qui c’è il sapone, qui lo shampoo e puoi usare quella salvietta per asciugarti.”
Lo abbracciai di nuovo ed uscii.
Ero molto stanca, mi cambiai e mi stesi qualche secondo sul letto, dal bagno venivano i rumori di qualcuno che si spogliava. Sospirando mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti lo yukata che mio padre si era dimenticato qui una volta in cui era venuto a trovarmi con la mamma. Lo trovai alla fine, bianco a righe azzurrine ricordava quello delle terme.
Shin a quest’ora doveva essere nella vasca, armandomi di tutto il mio coraggio bussai alla porta del bagno, mi rispose un fioco “avanti”.
Dalla vasca sporgeva il torso magro, il resto era coperto dalla schiuma, per fortuna.
“Ti ho portato uno yukata e della biancheria pulita. Tutto da uomo, mio padre se l’è dimenticata qui una volta che è venuto a farmi visita. Ho lavato tutto, non preoccuparti.”
Lui sorrise debolmente.
“Misato, sono una persona orribile.”
“Non so chi te l’abbia detto, ma tu non sei una persona orribile.”
Dissi decisa, lui sgranò gli occhi.
Nemmeno io sapevo da dove mi venisse quella certezza dato che non ci conoscevamo da molo tempo, ma sapevo di essere nel giusto. Istinto, immagino.
“Cambierai presto idea dopo quello che ti dirò.”
Io alzai un sopracciglio.
“Senti, vista l’ora io ceno. Del ramen preconfezionato ti va bene?”
“Sì, non ci sono problemi.”
Uscii, non mi sembrava carino trattenermi oltre.
Andai in cucina, presi due confezioni di ramen, misi l’acqua sul fuoco e preparai la tavola per due.
Perché diavolo Shin doveva essere una persona orribile?
A parte il piccolo incidente al nostro primo incontro lui con me si era sempre comportato bene, era un ottimo ascoltatore e mi faceva ridere. Stavo bene con lui e lui sembrava stare bene con me, chi era stato?
La porta del bagno si aprì e lui apparve in cucina, stava molto bene con lo yukata, arrossii come una ragazzina.
“Sembra quello che ti danno alle terme.”
“Sì, lo usano anche nelle terme. È molto comodo, almeno io la vedo così.
Tu?”
“È comodo, ma non vedo l’ora che i miei vestiti siano asciutti, sono leggermente a disagio.”
“Capisco. Siediti.”
Lo invitai a sedersi al tavolo, lui sorrise.
“Sembrano buoni.”
“Grazie del complimento, ma è solo cibo precotto.”
“Suona stupido, ma non mi sono ancora abituato alla cucina giapponese. Quando sono  a casa mangio cibo precotto straniero.”
Iniziammo a mangiare in silenzio, il dolore negli occhi di Shin non dimiuiva.
Dovevo riuscire a farlo parlare, per il suo bene soprattutto, o quella convinzione avrebbe finito per scavare un buco dentro di lui.
Mangiammo un paio di mandarini e un budino, poi – mentre lui sparecchiava – io controllai lo stato dei suoi vestiti: ora erano asciutti.
“Shin! I tuoi vestiti sono a posto!”
“Ok. Vado in bagno a cambiarmi.”
Io annuii e lavai i piatti, finito lo trovai raggomitolato sul divano, io mi sedetti accanto a lui.
“Cosa è successo?”
“Sono una brutta persona.”
“Perché lo dici? Non è vero!”
Lui sospirò.
“Ho un figlio, Misato. Un figlio di cui non potrò mai occuparmi.”
Lo guardai senza capire, un figlio?!
“Reira è rimasta incinta, lo ha scoperto dopo la morte di Ren quando è stata ricoverata perché non mangiava. Solo che invece di venire da me e parlarne, è corsa da Takumi, come sempre del resto.
Insieme hanno deciso di riconoscerlo come loro, solo che è Hachi che se ne sta occupando e lei non ce la fa. Non posso biasimarla – ha già una bambina di cui prendersi cura – ma sono arrabbiato, Takumi non la aiuta minimamente. Oggi io e lui abbiamo litigato e lui mi ha detto che non ho voce in capitolo, che non posso offrire nulla a mio figlio ed ha ragione.
Sono una pessima persona, ho abbandonato mio figlio come mia madre ha fatto con me.”
E così era quello il problema, non conoscevo Takumi, ma avevo intuito che aveva causato un sacco di problemi a mia sorella e ora stava sconvolgendo anche la vita di Shin. Strinsi i pugni e sentii in gola il sapore dell’odio, amaro come bile e forte come sakè.
“Non è colpa tua! Tu sei una vittima non meno di tuo figlio o di Nana-san.
Tu sei il padre, no? Reira sarebbe dovuta venire da te e non andare da Takumi. Sono loro ad avere sbagliato, ti hanno tagliato fuori da ogni decisione.
Non sei una cattiva persona, Shin. Se Reira ti avesse detto del bambino non ti saresti tirato indietro, giusto?”
“Sì, non l’avrei fatto.”
“Ecco. Questa è la prova. Non sei una cattiva persona.
Ma…”
“Ma?”
“Tu ami ancora Reira?”
Lui scosse lentamente la testa.
“Come potrei? Dopo quello che ha fatto è chiaro che io non sono quello che ama, lo sapevo fin dall’inizio, ma questa è la prova del nove. Non posso stare con una persona che ha costantemente in mente un’altro.
Non posso.”
Io sorrisi piano.
“Sì, sei proprio una brava persona. Migliore di me di sicuro.”
“Perché dici così?”
Io mi raggomitolai su me stessa.
“Ti ho detto che ho amato una persona che non dovevo amare, ti sei mai chiesto chi fosse?”
“Sì. Era un uomo sposato?”
Io scossi la testa, sarebbe stato tutto molto più semplice se fosse stato così.
“No. Mi ero innamorata di Takahiro, il mio fratellastro, il primo figlio di mio padre.”
Lui rimase un attimo in silenzio.
“Shion mi ha detto che è successo perché era l’unico ad apprezzarmi delle persone più o meno nella mia età, ma questo non rende le cose migliori, no?
Quale persona di buonsenso lo farebbe?
Nessuna.
Forse dei due sono io la peggiore.”
Lui mi strinse la mano e mi abbracciò più stretta che poté data la mia posizione.
Il mio cuore saltò un battito, non era scappato e non gli avevo fatto schifo.
“No, non lo sei e poi ti è passata.
Diciamo che entrambi non siamo esattamente dei santi, ma questo lo sapevamo già.
Possiamo diventare amici o creare un club delle pessime decisioni.”
Ridacchiai, con una sola battuta era riuscito a risollevarmi il morale, lo apprezzai molto, mi scesero un paio di lacrime, lui mi guardò senza capire.
“Tutto ok?”
Mi chiese premuroso.
“Sì, tutto ok. Sono solo felice, una persona normale se la sarebbe data a gambe levate, tu mi hai addirittura abbracciato.”
“Ti dispiace?”
“No.”
“Cosa significa?”
“È importante?”
Lui rimase un attimo in silenzio.
“No, per ora no.”
Si stiracchiò.
“Vado a casa, credo sia meglio.”
“Sì. Aspetta un attimo.”
Corsi all’ingresso e presi un ombrello nero.
“Per te, così non ti bagni.”
Ci sorridemmo a vicenda, poi lui lo prese, mise le scarpe e se andò lasciandomi felice come non lo ero da tanto tempo.

 

La mattina dopo il sole splendeva alto nel cielo, mi chiesi se Shin fosse sveglio mentre facevo colazione,.
Decisi di mandargli un messaggio per esserne sicura.
“Buongiorno! Dormito bene?
Ti sei ammalato dopo la pioggia di ieri?”
Lavai le stoviglie, mi cambiai e presi lo zaino per la scuola.
Lui aveva risposto.
“Ciao! Sì. Ho dormito bene, ma sono nervoso.
Stamattina ho un servizio fotografico, ma torno nel pomeriggio per il film.
Ho scoperto che devo proprio recitare per fare i servizi fotografici, non mi piacciono!
Sto bene, ho vissuto in Svezia, due gocce d’acqua di Tokyo non possono farmi nulla.
Io risi.
“Ok, superuomo svedese. La piccola donna giapponese va a scuola XD
Ci vediamo oggi pomeriggio.”
“Non vedo l’ora. Il caffè come lo prepari tu non lo prepara nessuno. 
Sorrisi e misi il cellulare nella tasca interna del chiodo di pelle e uscii di casa, a testimoniare la pioggia del giorno prima c’erano delle pozzanghere. Io ci saltellai dentro come una bambina, forte dei miei anfibi, avevo bisogno di energia positiva perché a scuola mi consideravano tutti una raccomandata e quindi mi stavano alla larga. Avrei dovuto odiare Nana per essere mia sorella, pur non essendoci mi rendeva la vita difficile, ma io ne ero orgogliosa. Il mio cervello funzionava in modo strano.
Arrivai a scuola, varcai il cancello sentendomi pronta per un altro lungo giorno.
Le lezioni si svolsero al solito ritmo, di solito mi interessavano un sacco, oggi invece dovetti quasi litigare con il mio cervello per costringerlo a prestare attenzione. I miei pensieri continuavano ad andare alla sera prima, a quando Shin mi aveva abbracciata e a come ci sarebbe stato bene un bacio. La vita però non era un manga e tutti e due eravamo pieni di casini, quindi sarebbe passato un po’ prima che ci baciassimo.
-Ma il giorno in cui ci baceremo sarà memorabile, me lo sento. Anche se sarebbe meglio che mi concentrassi su mate o stasera non ci capirò un cazzo quando dovrò fare gli esercizi.-
Sorrisi lievemente al pensiero, era un vero peccato che Shin non avesse fatto il liceo o avrebbe potuto darmi una mano con i compiti. 
Arrivò finalmente il momento del pranzo e io scattai via, verso la metropolitana, verso Shin. Come sempre c’erano delle malelingue che sputavano inacidite che lo stage lo avevo ottenuto grazie al fatto che ero la sorellina di Nana, ma non mi importava. Non più, ora ero motivata da altro per dare il meglio e dimostrare a tutti che si sbagliavano. Lui non lo sapeva, ma mi dava molta forza, quasi quasi non ci credevo nemmeno io. Presi la solita linea e mangiai il panino mentre osservavo distratta il paesaggio, c’erano un sacco di gru: a Tokyo si costruiva ed abbatteva sempre.
Mi stupivo sempre di come fosse diversa dalle città in cui avevo abitato, Osaka non era un villaggio e nemmeno Okayama, ma lo sembravano comparate alla capitale.
-Uno come Shin non lo avrei incontrato a Osaka o a Okayama, anzi probabilmente mi starei ancora dibattendo se sono pazza o no e cercherei di compiacere mio fratello. È un bene che io sia qui, questa volta l’istinto di fuga delle Osaki mi ha salvato la vita.
Mi chiedo se anche Nana si senta così o le manchino i suoi amici…-
Cercavo di sintonizzarmi sulle stesse onde mentali di mia sorella per cercare di capire perché se ne fosse andata e dove, ma finora non avevo ottenuto grandi risultati. Solo in due occasioni avevo intravisto la verità ballare davanti agli occhi, ma quando stavo per strapparle i veli era sparita, lasciandomi solo vaghe impressioni che non riuscivo a collocare.
Io ero scappata perché credevo che nessuno mi avrebbe capito ed ero anche arrabbiata per il casino che era la mia famiglia e i segreti che aveva custodito. Uno dei veli vibrava di emozioni simili, ma non riuscivo a capire. Le poche volte che avevo incontrato gli amici di Nana mi erano sembrati delle brave persone, incapaci di tradirla o farle del male. Ma allora cosa era quella strana sensazione che non se ne andava?
Un tentativo patetico di proiettarmi su Nana, facendole vivere le mie situazioni, o un indizio valido?
Mi vergognavo di dirlo a Shin, quindi me lo tenevo per me, probabilmente un giorno avrei avuto in mano tutti gli elementi per capirlo e allora avrei parlato. Non aveva senso dire qualcosa che poteva essere interpretato come offensivo senza avere in mano uno straccio di prova.
Arrivai al mio luogo di lavoro ed entrai, salutai Misato e poi Shin con un gran sorriso, la mia superiore non sembrò contrariata. Ci guardò a lungo e poi fece un cenno impercettibile di assenso, non so se diretto a noi o a sé stessa, il cui significato era chiaro: per lei era ok che noi avessimo una storia. Ne fui sollevata, la sua approvazione contava molto per me.
Durante una pausa mi si avvicinò, mi sembrava piccola e indifesa, data l’espressione timida, ma sapevano tutti che era una specie di lady di ferro.
“Ehy, Misato.”
“Ehy!”
Le risposi allegra.
“Hai presente quando hai detto che potevamo essere amiche?”
“Sì, certo che me lo ricordo.”
“Ti va di prendere un caffè, così mi racconti di Sh..lui, se ti va.”
“Certo, mi farebbe piacere.
Misato, stai bene?”
“Mi manca Nana, per anni è stata il centro del mio mondo. Negli ultimi tempi non sapevo più se mi interessavo così tanto a lei e ai Blast perché era la mia sorellastra o per altro.
Temevo di essermi innamorata di lei.”
“Sorellastra? Innamorata?”
“Sì, io e lei abbiamo probabilmente lo stesso padre.”
La notizia mi scosse, forse perché ero convinta di essere l’unica di avere il privilegio di un legame di sangue con lei.
“Capisco.”
“Fatto sta che adesso mi sento vuota.”
“Ma io non posso prendere il posto di Nana, voglio essere tua amica, ma…”
Lei sorrise.
“Mi sono espressa male, è Shin quello che rischia di finire al posto di Nana, ma non voglio che succeda.
Io voglio dei rapporti normali con la gente, senza niente di morboso, l’ho capito grazie al fatto che lei se ne è andata.”
Questa volta fui io a guardarla a lungo, continuava a sembrare piccola e indifesa, bisognosa di qualcuno che la facesse ridere.
“Un giorno nella tua vita arriverà qualcuno che spezzerà questa specie di incantesimo in cui sei finita, lo so perché è successo anche a me. Scrivimi luogo e ora per il caffè.”
Lei mi sorrise grata, io ricambiai.
Stavo imparando alla svelta che ognuno aveva le sue crepe e che prima o poi emergevano, sebbene ci si sforzasse sempre di nasconderle agli occhi impietosi degli altri.
“Come fai a esserne sicura?”
“Di cosa?”
“Che troverò una persona del genere?”
“Quando me ne sono andata da casa mia ero in una situazione molto simile alla tua e non sapevo cosa fare, avevo provato a essere gentile con lui per renderlo felice e farmi bastare sorrisi e affetto e non aveva funzionato. Così me ne sono andata e qui avevo un sacco di cose da fare, il suo fascino su di me diminuiva, ma la notte no. Poi ho incontrato Shin ed è come se l’incantesimo che mi teneva legata a quella persona fosse stato spezzato. Gli voglio bene, ma ora so che è il bene accettabile, quello che provo per Shin è a un livello diverso. Le cose possono cambiare e a volte, sorprendentemente, in meglio.”
Misato non mi sembrava molto convinta, ma non disse nulla e tornammo tutte e due al lavoro.
Le ore volarono come sempre, adoravo fare quel lavoro, mi sembrava di far parte di qualcosa di importante senza la seccatura della fama. Speravo che anche l’anno prossimo mi scegliessero per lo stesso stage, questa esperienza mi piaceva tanto.
Alla fine del mio orario di lavoro salutai tutti, presi la giacca e lo zaino e mi diressi verso l’uscita, preparandomi mentalmente al lavoro al videonoleggio. Anche quello non era male, ma avevo sempre un po’ paura nel fare il turno di notte. Poteva entrare un ladro o uno yakuza oppure potevo essere aggredita quando riportavo le chiavi al proprietario o mentre andavo verso la metro.
Forse avrei dovuto dirlo a Shin, ma non mi andava di imporgli di farmi da babysitter, dovevo cavarmela da sola.
“Misato!”
Mi sentii chiamare mentre accendevo una sigaretta e notai il bassista che correva verso di me.
“Ehy, Shin.”
“Senti, mi ha appena scritto Hachi. Il 30 è il suo compleanno e vorrebbe festeggiarlo con noi, ti va di venire?”
“Io? Ma io non faccio parte della vostra cerchia.”
Lo guardai confusa, lui mi sorrise.
“No, ma fai parte della mia e sei l’unica che io voglia portare. Ci sarà anche Misato e potrai conoscere gli altri membri dei Blast. Potrai anche vedere l’appartamento 707.”
Alzai un sopracciglio, non capivo l’accenno a questo appartamento.
“È l’appartamento dove Nana e Hachi hanno vissuto insieme, dove i Blast per come li conosci tu si sono formati. È un posto importante.”
Sorrisi, sentendo un calore al cuore.
“Ok, vengo. E come mi presenterai?”
“Sorpresa!”
Mi rispose lui con un sorriso identico al mio.
“Ora devo rientrare, mi aspettano per lavorare.
Ci vediamo stasera dopo il lavoro, non mi va che tu vada a casa da sola.”
Arrossii.
“Ma non ti devi disturbare così!”
“Mi piace essere disturbato così.”
Mi scompigliò i capelli e tornò dentro.
Fuori era sera, la luna stava sorgendo in un cielo trapuntato di stelle; ma nel mio cuore era una calda giornata estiva al mare, scandita dal tintinnio lontano di un furin.
-È questo l’amore? Era così che ti sentivi con Ren, Nana?
Vorrei parlartene, ma tu non ci sei e se ci fossi vorresti ascoltare questa estranea?-
Finii la sigaretta e scesi in metropolitana, il treno arrivò subito e io tirai fuori il secondo bento della giornata, quello della cena, gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza, ma mi imposi di mangiare tutto.
Arrivai al mio luogo di lavoro, salutai il mio collega  e indossai la casacca del videonoleggio.
Vivere a Tokyo non era facile, consumava tutte le mie energie tra scuola e lavoro, ma mi sentivo anche viva, padrona del mio destino.
E adesso c’era Shin, sentivo che tutta la confusione e la sofferenza che avevo provato stavano per trovare un senso.
Si era alzato il vento e non avevo paura.
Guardai l’orologio dietro al bancone, non vedevo l’ora che il turno finisse per poterlo vedere, non era passato molto da quando c’ eravamo salutati e già mi mancava.
Doveva essere l’amore, quello vero, di cui tutti parlavano.
A queste condizioni era bello da vivere, faceva piacere abbandonarvisi.
Finora Tokyo mi aveva portato bene, sperai che continuasse a farlo e che non mi distruggesse come aveva fatto con Nana. Dovevo smetterla di pensare a lei, eravamo sorelle, ma ciò non significava che quello che era successo a lei sarebbe successo anche a me.
Eravamo due persone diverse, con diverse personalità e destino.
Era arrivato il momento di dimostrarlo, soprattutto a me stessa.
Forza, Misato!

 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannovesimo ***


Capitolo diciannovesimo

 

Sai Nana, penso spesso al mio ventunesimo compleanno. Mi ricordo l’appartamento
buio e poi le luci degli accendini che mi mostravano i volti delle persone che
amavo, mancava solo Nobu eppure lo sentivo vicino.
Credo che quella sia stata l’ultima volta in cui io sono stata davvero felice.

 

Il 30 novembre era arrivato, avevo trascorso tutta la giornata cucinando la cena e la torta per il mio compleanno. Compivo ventidue anni e me ne sentivo addosso sessanta.
Takumi si era occupato dei bambini, lanciandomi ogni tanto occhiate di traverso, chiaramente per lui stavo perdendo tempo oppure, peggio ancora, ne sottraevo a lui. Non mi importava.
Alle sei e mezza chiamai un taxi e infilai dentro il cibo e me stessa, per l’occasione mi ero messa un abito di Nana: rosso e pieno di rouches.
Sapevo che era quello che indossava il giorno in cui Ren se ne era andato, era un abito bello ma pregno di dolore. Era adatto a festeggiare un compleanno quanto mai sgradito, il primo senza Nana.
Sapevo che sarebbero venuti tutti, questa volta anche Nobu, e che Shin avrebbe persino portato una ragazza, non vedevo l’ora di conoscerla.
La città scorreva sotto i miei occhi indifferenti, quando ero appena arrivata a Tokyo mi stupivo di tutto, adesso non mi importava di nulla. Le luci, la gente, le insegne, niente mi scuoteva davvero, pensavo ossessivamente a una notte di neve in cui il destino di due ragazze dallo stesso nome e della stessa età si era intrecciato.
Il taxi imboccò la strada che costeggiava il fiume Tama e il mio cuore saltò un battito, mi sporsi per vedere meglio il vecchio palazzo in stile occidentale, un palazzo che sembrava incongruo in Tokyo visto che sembrava arrivare dritto da certi quartieri di New York.
Qualche minuto dopo il taxi si fermò, io scesi e tirai fuori il cibo e la torta, dall’ombra vicino all’entrata emerse Yasu e prese quello che io non riuscivo. Pagai il taxi e noi due rimanemmo da soli, lui mi sorrise.
“Buon compleanno, Hachi.”
“Grazie, Yasu.
Come stai?”
“Bene. Forza, portiamo questa roba di sopra.”
“Sì. Sei già salito?”
“Sì, l’appartamento sembra aspettarci. A proposito, bel vestito.”
Ridacchiai.
“Lo hai riconosciuto, vero? È quello che Nana indossava quando ha salutato Ren.”
“Sì, l’ho riconosciuto.”
“Il forno a microonde c’è?”
“Sì, c’è.”
Io annuii, alcune cose andavano riscaldate, ecco perché ne avevo comprato uno e lo avevo portato all’appartamento. Finalmente arrivammo alla porta del 707, appoggiai il cibo in terra e frugai nella borsa, trovai le chiavi e aprii la porta. Io e Yasu entrammo e deponemmo le borse sul tavolo costruito da Nana, il lontano ricordo del battere di un martello fece capolino, ma io lo cacciai via, non sarei sopravvissuta se avessi permesso ai ricordi di prendere il sopravvento.
Infilai nel forno quello che doveva essere scaldato, finii per utilizzare anche quello tradizionale, Yasu sedeva al tavolo e fumava tranquillo.
“Miu arriverà?”
“Sì, più tardi. La sua carriera sembra stia andando bene, la chiamano  più spesso.”
“Ottimo, sono felice per lei. E la vostra storia?”
“Va bene. Sono felice con lei, entrambi diamo molta importanza al lavoro quindi non litighiamo per il tempo che ci dedichiamo.”
“Questa è una bella cosa.”
Pensai a Takumi, ma soppressi anche quel pensiero, non ci fu tempo per parlare ancora perché suonò il campanello. Corsi al citofono e risposi.
“Sì?”
“Sono Nobu.”
“Sali, io e Yasu siamo qui.”
Il cuore mi batteva forte, come l’avrei trovato dopo questi mesi?
Il tempo che ci mise per salire le scale mi sembrò eterno, ma finalmente la porta si aprì: aveva i capelli un po’ più lunghi, il suo colore naturale – un bel castano – faceva capolino e i suoi vestiti erano ancora tendenti al punk, ma meno estremi. Ci guardammo per un attimo che parve infinito, poi lo abbracciai stretta e lui ricambiò, seppellendo il volto tra i miei capelli.
“Mi sei mancata.”
Sussurrò a voce bassissima.
“Anche tu e non sai quanto.”
Risposi io.
Ci sciogliemmo dall’abbraccio e lui andò a salutare Yasu, io rimasi ancora un attimo alla porta per assaporare meglio quei pochi istanti in cui eravamo stati vicini. Erano dolce miele comparati all’amaro degli ultimi mesi e calore rispetto al freddo che emanava mio marito.
Avevo fatto la scelta sbagliata tanti mesi prima e lo sapevo, ma non potevo correggere il tiro senza far soffrire degli innocenti.
Tornai in cucina e mi gingillai con i piatti per la cena, giusto per avere qualcosa da fare, per non venire sommersa dai ricordi. L’appartamento 707 era diventato un tempio al dolore, al tempo passato e alle scelte giuste che non erano state fatte. Se fossi rimasta con Nobu, nel giardino di Nana, lei se ne sarebbe andata lo stesso?
Dopo Nobu arrivarono Jun e Kyosuke, poi Miu e Misato, l’unico che mancava ancora all’appello era  Shin, stavo per chiamarlo quando la porta si aprii. Mi paralizzai,  accanto a lui c’era una ragazza che somigliava così tantoNana da farmi pensare che si fosse presentato con un fantasma. Mi faceva male il cuore, avevo gli occhi spalancati e dovevo essere sbiancata.
La ragazza parlò.
“Sono Misato Uehara, la sorellastra di Nana, piacere di conoscerti, Hachi.”
Disse con voce incerta, anche quel soprannome detto da lei faceva male.
“Io… Io sono Nana Komatsu, ma mi chiamano tutti Hachi.”
Balbettai.
“Tutto bene?”
Mi chiese premurosa lei.
“Sì, va tutto bene, è solo che… Tu somigli molto a Nana e per un momento ho pensato che lei fosse tornata, scusami.”
“È tutto okay, lo so che le somiglio, non ti devi preoccupare.”
“Forza, entrate.”
Entrarono e si sedettero intorno al tavolo, avevo portato un tavolo da casa il giorno prima in modo da avere più spazio, l’altro poteva ospitare al massimo sette persone. Iniziai a servire le pietanza e le chiacchiere seguirono naturalmente. Junko e Kyosuke stavano frequentando con successo l’università e una galleria si era interessata ai loro lavori, ero molto felice per loro, al contrario di me avevano talento per l’arte.
Yasu stava andando alla grande allo studio dove era stato assunto e Miu riceveva sempre più ruoli, non le chiesi del suo problema di autolesionismo, ma notai che non portava più un polsino: forse aveva smesso.
Nobu disse che stava familiarizzando con la pensione Terashima, ma che i suoi genitori non sarebbero andati in pensione tanto presto così stava pensando di aprire una sala musica per i ragazzi del paese, molti avevano preso ispirazione dai Blast o dai Trapnest. Era felice, ma un’ombra era sempre presente nel suo sguardo. In quanto a Misato Tsuzuki continuava a lavorare alla Shikai Corporation, si occupava della carriera di Shin e non c’era nessun ragazzo all’orizzonte per lei.
Guardai curiosa Shin, cosa avrebbe detto? Cosa mi avrebbe raccontato di sé stesso e di Misato?
“Shin, tu ti sei portato una ragazza e non ci dici niente?
È un piacere  rivederti, Misato.”
Guardai Nobu incuriosita.
“La conosci?”
“Sono passato una volta al ristorante di suo padre quando cercavo Nana, abbiam parlato un po’.”
“Ah, capisco.”
Aveva senso, ci aveva detto che sarebbe andato a Okayama.
“È un piacere anche per me. Ho conosciuto Shin al lavoro, io sono una stagista alla Shikai Corporation per via di un accordo con il mio liceo. Devo dire che il primo incontro non è andato benissimo.”
“Che ha combinato Shin?”
Nobu stava ghignando, Shin sembrava imbarazzato.
“Stavano parlando in un bar e mi ha detto che per una certa somma sarei potuta andare a letto con lui, ovviamente l’ho piantato lì dopo avergli dato del maniaco.”
Nobu gli diede un leggero scappellotto sulla nuca.
“Ma la smetti con ‘sta cosa? Sembri davvero un maniaco.”
“Nobu ha ragione, Shin. Dovresti smetterla.
Dopo si è comportato bene?”
Domandai apprensiva a Misato.
“Sì, è stato bravo.”
“State insieme?”
“Non ufficialmente.”
“Shin, sbrigati. Una bella ragazza come lei te la fregano facilmente, lo sai che somigli tantissimo a Nana?”
“Lo so, me lo dicono in tanti.”
Il suo tono era incerto.
“Tutto bene?”
“Sì, solo che ogni tanto mi chiedo se la gente mi parli perché somiglio a mia sorella o perché è me che apprezzano.”
Io rimasi in silenzio, non sapevo bene cosa risponderle.
“Sembri una ragazza simpatica, coraggiosa per essere tornata da Shin dopo che lui si era presentato in quel modo.”
“Forse sono solo pazza, ma sono felice di esserlo, perché lui mi ha cambiato la vita.
In meglio.”
Sorrise timida e io sorrisi a mia volta, in quel momento non mi importava che somigliasse a Nana, vedevo solo una ragazza innamorata e ne ero felice. Shin si meritava qualcuno di speciale, non solo storie incasinate, il pensiero di Reira mi fece venire voglia di strozzarla: rovinava la vita di chiunque la conoscesse.
“Ottimo, allora andrai d’accordo con noi. Siamo tutti pazzi qui.”
Ridemmo tutti e riprendemmo a cenare.
Finito Misato mi aiutò a lavare i piatti e mi chiese qualche ricetta, viveva da sola e voleva stupire Shin con qualche manicaretto e poi saper cucinare era sempre utile: lei sapeva fare solo okonomiyaki.
“Un giorno me li devi far assaggiare.”
Lei mi guardò sorpresa.                                                                                                                                                                                                                       “Certo, quando vuoi.”
Sentii che potevo andare d’accordo con questa ragazza, non era Nana – nessuno poteva esserlo – ma era una tipa a posto.
Yasu si affacciò alla porta della cucina e ci guardò per un attimo.
“Hachi, puoi uscire un attimo dall’appartamento, per favore?”
Flashback dell’ultimo compleanno si affacciarono prepotenti alla mia mente, avevo la sensazione che il mondo avesse iniziato a ondeggiare. Era tutto solo nella mia testa, me lo ripetei più che potei
“Certo, la torta è qui.”
Indicai una scatola quadrata.
“Ottimo, adesso vai.”
Uscii dalla cucina, passai per la sala, gli altri mi salutarono allegramente e uscii anche dalla porta dell’appartamento 707 ritrovandomi nel corridoio vuoto. Guardai da una finestra mentre aspettavo, si vedeva il fiume Tama, il ricordo delle volte in cui ci eravamo divertiti tutti insieme lungo le sue sponde mi faceva venire voglia di piangere. Era come guardare i ricordi avvenuti un secolo prima, quando era passato solo poco più di un anno, mi toccai la pancia con rabbia. Era anche per questo che non volevi figli, Nana?
Non volevi ritrovarti a rimpiangere la gioventù non vissuta da vecchia?
Il mio cellulare vibrò nella mia mano, era un messaggio di Shin, “Entra!” diceva semplicemente. Tornai davanti alla porta, appoggiai la mano sulla maniglia e la tirai verso il basso, la porta si aprì.
Dentro era tutto buio, mi venne il batticuore, da un momento all’altro mi aspettavo di vedere il volto di Nana emergere dall’oscurità come un anno prima.
Le luci degli accendini cominciarono a illuminare i volti di Jun, Kyosuke, Yasu, Miu, Shin, Nobu, le due Misato e infine le candeline della torta.
La sensazione di déjà-vu si fece più prepotente che mai, quanti anni compivo? Ventuno o ventidue?
Ero incinta o avevo già partorito? Quella era Nana o era Misato?
“Buon compleanno!”
Urlarono tutti insieme, riportandomi alla realtà, io sorrisi.
Non avevo perso tutto, avevo ancora tanto e persone con cui festeggiarlo, ma non avrei mai smesso di cercare la mia amica. Mai.
Le lacrime iniziarono a scendere da sole, non le controllavo più e non sapevo dire se si trattasse di lacrime di gioia o di dolore. Mi rifugiai nelle braccia di Nobu, erano calde e accoglienti, sapevano di casa. Era lui la mia casa. Mi alzò il volto con dolcezza.
“Tutto bene, Hachi?”
“Sì, sono solo felice.”
Gli risposi sorridendo e asciugandomi le ultime lacrime, ora tutte le luci erano accese e tutti sembravano contenti, anche la mia torta era bella.
Miu iniziò a tagliare la torta e mi passò il piattino con la prima fetta.
“Tanti auguri, Hachi e cento di questi giorni.”
“Grazie.”
Passare cento giorni con loro alla ricerca di Nana non mi sarebbero dispiaciuti, ma domani sarei tornata a essere la casalinga, la madre di Satsuki e Ren.
Cercai di non pensarci, come con tante altre cose, quella casa era il santuario delle cose non dette, me lo ripetei di nuovo.
Mangiammo la torta chiacchierando come ai vecchi tempi, quando sognavamo che i Blast avessero successo e Nana mi prometteva che mi avrebbe costruito una casa con la veranda.
Finito Shin si alzò e tornò con un pacchetto, io arrossii.
“Da parte mia e di Misato.”
Me lo porse.
“Grazie, ma non dovevate.”
Lui sbuffò e io iniziai a lacerare la carta, dentro c’era una scatolina di carta dorata, incuriosita la aprii e mi ritrovai a rigirare tra le mani un plettro con la scritta Blast attaccato a una collanina d’argento.
“È il plettro che ho usato al nostro primo concerto, ho pensato che sarebbe stato carino che lo avessi tu. Senza di te sarei ancora un ragazzino sbandato.”
Mi scese una lacrima.
Per smorzare la tensione anche gli altri mi diedero i loro regali: Miu mi diede un altro libro sull’arte della vestizione, Yasu una sciarpa, Misato Tsuzuki una maglia dei Blast che non era mai andata in produzione, Kyosuke e Junko un cappello e un quadro che avevano dipinto insieme.
Guardai Nobu e lui mi fece cenno che me l’avrebbe dato dopo, doveva essere una cosa personale e con dei riferimenti al nostro rapporto, allora. Il mio cuore accelerò i battiti.
“Grazie a tutti! Non dovevate, davvero!”
“Hachi, è il tuo compleanno. Lasciaci dimostrare che siamo felici che tu sia al mondo e che tu faccia parte della nostra vita.”
Mi disse Junko, facendo scendere altre lacrime.
Finirono  per avvolgermi in un abbraccio collettivo, mi sentivo di nuovo un essere umano con un qualche valore e non solo una casalinga con due figli a carico e un marito assente.
“Forza, basta lacrime!”
Intervenne Shin.
“Siamo qui per festeggiare, no? Ho portato un po’ di musica.”
Inserì una musicassetta nel vecchio stereo e le note di una canzone punk si diffusero nell’appartamento, ricordandomi i primi concerti dei Blast. Iniziammo a ballare, cercando di lasciar perdere il passato che feriva e il futuro incerto, in quel momento contava solo il presente.
Osservavo le coppie intorno a me, soprattutto Shin e Misato, sembravano andare particolarmente d’accordo, ridevano molto. L’altra Misato ronzava loro attorno e anche lei mi sembrava felice.
Mi fermai un attimo per bere e la Misato che conoscevo mi si avvicinò.
“Sei felice?”
“Sì, certo. È come se una parte di Nana fosse tornata e poi…”
Arrossì leggermente.
“Misato ha detto che vuole essere mia amica, è la prima persona che vuole esserlo. È buona e gentile e rende Shin felice. Mi sento fortunata perché per un tanto tempo ho pensato che non avrei mai potuto esserlo.”
“Sono contenta per te.”
“Pensa anche alla tua felicità, Hachi.”
Ci buttammo di nuovo nelle danze, sembravano un gruppo di liceali scatenati, ero così leggera che temevo sarei volata via da un momento all’altro, come un palloncino.
Arrivata mezzanotte e mezza qualcuno bussò alla nostra porta, dovevano essere i nostri vicini che volevano dormire. Scoppiammo tutti a ridere e poi spegnemmo lo stereo.
“Ora di andare a casa.”
Disse Yasu con voce chiara.
Salutai tutti con un abbraccio sentito e un “grazie”, piano piano se ne andarono, rimase solo Nobu seduto al tavolo.
“Ti do una mano a sistemare questo casino.”
“Ok, grazie.”
Avevo il sospetto che volesse rimanere anche per un altro motivo, ma decisi di lasciargli i suoi tempi. Lavammo i piatti e pulimmo cucina e salotto, l’appartamento era tornato quello di sempre, Nobu si tormentava i lembi della sua maglia.
“Hachi, c’è qualcosa che vorrei darti.”
Io annuii e mi avvicinai.
Lui prese qualcosa dalla tasca della sua giacca di pelle buttata sul divano, era un sacchetto lungo, e me lo porse. Io lo guardai curiosa e poi lo scartai: era un collare di pelle uguale al suo e a quello di Nana.
“Nobu…”
“Questo è il mio primo collare di pelle, me lo regalò Ren tanti anni fa e voglio che lo abbia tu.
Hachi… Nana… io, è difficile da dire.
Lo so che sei sposata con Takumi, ma se un giorno volessi tornare da me indossa quel collare e io lo saprò senza che tu mi dica o mi spieghi nulla.”
Sentii le lacrime iniziare a pungermi gli occhi.
“Nobu, io continuo a farti del male. Io ti voglio troppo bene per continuare a farti soffrire, non so se posso accettarlo.”
“Nana, io soffrirò comunque. Preferisco soffrire sapendo di avere una speranza che senza averne affatto.
Per favore, accettalo.”
Annuì e lo allacciai al mio collo, la pelle era un po’ rovinata, ma morbida: sembrava fatto apposta per me.
“Grazie, Nobu.”
Lo baciai d’impulso.
Un bacio a stampo, ma era come se avessi dato origine a una reazione a catena, quel semplice bacio non era abbastanza. Tutta la voglia di lui che avevo accumulato in quei mesi esplose e sentivo che anche per lui era lo stesso.
Io lo amavo, lui mi amava.
Eravamo stati separati per tanto tempo e ora eravamo di nuovo insieme con nessuno a fermarci, avevo spento il cellulare non appena ero arrivata nell’appartamento come se una parte di me sapesse sin dall’inizio che sarebbe successo questo.
Continuammo a baciarci e quando una sua mano si infilò sotto la mia camicia all’altezza della vita rabbrividii e gemetti.
“Nana…”
“Non smettere, ti prego.”
Sussurrai. Se il tempo in quella stanza era fermo a quell’estate che non potemmo offrire a Nana io ero la ragazza di Nobu e non c’era nulla di male.
Quando il bacio finii lo presi per mano e lo condussi nella mia stanza dove avevo fatto mettere un futon, lui sgranò gli occhi, ma questo non bastò a nascondere il suo desiderio.
“Nana, sei sicura?”
“Sì, sono sicura.”
Continuammo dove ci eravamo interrotti e ben presto i nostri vestiti erano sparsi per la stanza, io sentivo le sue mani dappertutto sul mio corpo, incendiavano ogni centimetro della mia pelle strappandomi ansiti e gemiti. Io accarezzavo il suo petto magro, le spalle, i capelli, il suo membro, ogni suono che riuscivo a strappargli mi eccitava sempre più. Raggiunsi il primo orgasmo prima ancora che lui mi penetrasse, solo con i movimenti delle sue dita dentro di me.
Quando finalmente finimmo i preliminari ero fuoco allo stato puro, ogni spinta mi mandava dritta verso il paradiso, graffiavo la schiena di Nobu per mantenermi attaccata alla terra.
Continuammo finché tutti e due raggiungemmo l’orgasmo, lui ricadde su di me, ansimando, io presi ad accarezzargli i capelli. Mi ricordavo quanto gli piacesse e presto mi ritrovai tra le sue braccia, ci coccolavamo a vicenda.
Ora c’era silenzio, ma c’era una cosa che dovevo dirgli.
“Ti amo.”
Sussurrai.
“Ti amo anche io.”
“Ma ora non posso stare con te.”
“Lo so.”
“Sai anche che credo nel destino e nel ruolo del numero sette nella mia vita.”
Lui annuii.
“Ogni mio compleanno, per sette anni, sarò tua e poi decideremo.
Spero che in sette anni troveremo Nana e spero di essere in grado di liberarmi dalla dipendenza da Takumi.
So di chiederti molto, ma… puoi vedere delle altre ragazze, se vuoi, ma ricordati di questa promessa… se deciderai di accettarla.”
Lui mi guardò con i suoi occhi dolci, mi passò una mano tra i capelli accarezzandoli piano e mi baciò la fronte.
“Va bene, per sette anni ad ogni tuo compleanno indossa questo regalo e poi vedremo cosa fare, io sono sicuro che il tempo ci darà le risposte che cerchiamo.”
“Tra sette anni daremo a Nana l’estate che tanto ha cercato l’anno scorso e in quell’estate noi eravamo insieme.”
“L’estate migliore della mia vita, penso che mi ricorderò sempre di quei fuochi che non volevano saperne di accendersi sulle rive del fiume Tama.”
“Anche io lo ricordo ogni giorno.”
Tornai a raggomitolarmi nelle braccia di Nobu.
“Se io, in quell’estate, avessi combattuto di più per te, tu saresti rimasta con me?”
“Non lo so, io allora volevo che i Blast avessero successo e non mi sarei perdonata di essere un intralcio.”
“Non lo saresti stata, saresti stata una motivazione per dare il meglio di me.”
Accarezzai la guancia di Nobu.
“Sei un inguaribile romantico, spiegami come fai.”
“Ci sono nato.”
“Vorrei essere pura come te, ma dentro di me c’è il buio.”
Lui mi abbracciò e non disse nulla per un po’.
“È nel buoi freddo dello spazio che nascono le stelle e tu sei una stella.
Se sentirai freddo ti riscalderò e, se vorrai la mia luce, sarà tutta per te.”
“Ti amo.”
Mormorai con la voce spezzata.
Non meritavo un amore così puro e incondizionato, non dovevo sprecarlo.
Nei prossimi sette anni dovevo impegnarmi al massimo per trovare Nana e garantirmi un minimo di indipendenza finanziaria da Takumi. Solo così avrei potuto analizzare la situazione più lucidamente.
Nobu avrebbe avuto la sua risposta ed entrambi speravamo fosse positiva.
Solo il tempo l’avrebbe confermato o smentito.

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Capitolo 20
*** Capitolo ventesimo ***


Capitolo ventesimo

 

Ero in un periodo di transizione, era come se la crisalide dentro di me
si stesse trasformando in farfalla. Era piacevole con un fondo di dolore.
-Misato Uehara

 

La festa di compleanno di Hachi all’appartamento 707 era stato un successo, almeno dal mio punto di vista.
Lei mi era sembrata molto felice e non vedevo l’ora di conoscerla meglio, mi aveva detto di passare per un the a casa sua e lo avrei fatto. Lei era stata una persona molto importante per mia sorella e lo era per Shin, ora capivo perché la considerasse come una mamma. Era una persona allegra, capace di ascoltare e di dare la giusta attenzione alle persone, si preoccupava e cercava di far star meglio tutti. Non era come la mia che, per la maggior parte della mia vita, era stata dura, severa e restia al dialogo.
Shin mi prese la mano e io sorrisi.
Camminavano sulla strada parallela all’argine sul fiume Tama, le luci della città si riflettevano nell’acqua e brillavano sullo sfondo. Avevo la buffa sensazione di essere in un villaggio dentro la città, era solo la periferia e il fatto che quegli edifici fossero particolarmente silenziosi.
“Secondo te ci vive qualcuno qui? È così silenzioso.”
“Credo di sì, sono vecchie case, credo sia una specie di … come si dice?
Quartiere dormitorio?”
“Sì, si dice così. E penso che tu abbia ragione.”
Rimanemmo in silenzio per un attimo.
“Secondo te Hachi e Nobu finiranno per fare sesso?”
Domandammo nello stesso momento e poi scoppiammo a ridere come due dementi.
“L’hai notata anche tu la tensione tra quei due?”
“Sì, Shin. Solo un demente non l’avrebbe notata.”
Lui sospirò.
“Credo che sia Nobu l’uomo giusto per Hachi, ma ora come ora non hanno futuro. Se lei si dovesse separare da Takumi non avrebbe un soldo e dovrebbe mantenere almeno un bambino.”
“Uhm, ma Nobu non lavra in un albergo?
Cioè, non ne è il proprietario?”
“Sì, ci lavora. Per ora però i proprietari sono ancora i suoi genitori e se Hachi non gli dovesse piacere possono sempre diseredarlo.”
“Quindi mi stai dicendo che prima che quei due possano tornare insieme lei deve recuperare almeno un minimo di indipendenza economica?”
Lui annuì.
“Mi sembra che Takumi non glielo permetta.”
“Questo è il problema, ma non passiamo la serata parlando di loro due.”
“Sì, sarebbe poco rispettoso.”
Lui ridacchiò.
“No, non è solo questo. Ho una cosa da chiederti.”
Lo guardai sorpresa, cosa doveva chiedermi?
“Sì?”
“Certo. Uhm, Misato, ci verresti a un appuntamento con me”
Per lo shock non coordinai bene le mie gambe e finii per inciampare, mi sentii una completa deficiente: era questo l’effetto che mi faceva.
“Tutto okay?”
“Sì, certo.”
Borbottai, rossa come un peperone.
“Per l’appuntamento… Ci vengo.”
Dissi con voce a malapena udibile, ma abbastanza a farlo sorridere.
“È fantastico, ho già in mente un’idea stupenda per renderlo indimenticabile.”
Mi alzai in piedi, cosa aveva in mente? Mi dovevo preoccupare?
“Sarebbe?”
“Sorpresa, sorpresa. Te lo dirò solo al momento opportuno.”
“Ma non è giusto! Non puoi incuriosirmi così e poi non dirmi nulla!”
Gonfiai le guance come una bambina e lui scoppiò a ridere, lo presi come un buon segno.
“Altrimenti non è divertente.”
“Sì, immagino.”
Sbuffai io, fintamente arrabbiata con lui.
Lui mi abbracciò da dietro, era alto abbastanza da farmi sentire al sicuro.
“Dai, baby, non fare così. Ti giuro che sarà un appuntamento indimenticabile.”
“Ti conviene che lo sia!”
Lui rise di nuovo, stavo iniziando ad amare quel suono.
“Riesci a farmi ridere, mi piace un sacco. Mi piaci un sacco.”
“Mi aduli?”
“No, dico la verità.”
Arrossii violentemente, non ero abituata ai complimenti, soprattutto ai suoi.
“Sei carina.”
“Perché?”
“Arrossisci, sono secoli che non vedo una ragazza arrossire.”
“Davvero?”
Arrossii ancora di più.
“Il mio pomodorino.”
Mi sussurrò in un orecchio, facendomi rabbrividire,  era un soprannome carino.
Continuammo a camminare mano nella mano ed arrivammo alla fine di quel quartiere tranquillo, adesso eravamo immersi a pieno nelle luci della città e nelle strade animate.
Ci dirigemmo verso la stazione della metro tranquilli, completamente dimentichi che era piuttosto tardi e che io abitavo in una zona in cui l’ultima corsa arrivava presto.
Me ne ricordai quando consultai il tabellone con gli orari dei treni.
“Merda.”
Imprecai sottovoce.
“Cosa c’è?”
“Ho perso l’ultima corsa, dovrò andare a casa in taxi.”
Borbottai scontenta, non volevo spendere soldi inutilmente dato che non crescevano sugli alberi.
“Il mio appartamento è in zona, ti va di stare da me?”
Io lo guardai a occhi spalancati, lui alzò le mani davanti a sé.
“Non ti farò nulla, terrò le zampe a posto, te lo giuro.”
Io soppesai per un po’ i pro e contro della proposta, avevo paura che non si sapesse trattenere, ma non volevo nemmeno sprecare i soldi.
“Va bene, ma se non tieni a posto le zampe te le taglio.”
“Ok, ok.”
Mi prese per mano, uscimmo dalla stazione e ci ritrovammo di nuovo nel caos della città, lui camminava sicuro, io  mi sentivo come dentro a un sogno: i contorni delle cose erano sfumati e il brusio delle persone attorno a me attenuato.
Stavo per andare a dormire dal mio ragazzo e una parte di me non ci credeva ancora, stavo vivendo le normali esperienze di una ragazza della mia età senza dover temere l’ombra dell’incesto.
La Misato che credeva di amare Takahiro mi sembrava quasi un’altra persona, un’estranea che non conoscevo, ma che mi somigliava molto.
Shin si fermò e io andai a sbattere contro la sua schiena, eravamo davanti alla porta di un condominio.
“Siamo arrivati.”
“Ok, è davvero vicino.”
“Sì, io e Nobu abitavamo qui una volta. Poi, come sai, lui è tornato al suo paese, che è anche quello di Nana, ti piacerebbe visitarlo?”
Io annuì.
“Sì, mi piacerebbe molto. È lì che ci sono anche le mie radici.”
Lui sorrise senza dire nulla ed aprì la porta del condominio.
Abitava all’ultimo piano e quella notte l’ascensore non funzionava, ero senza fiato quando arrivai al suo appartamento.
“Accidenti, ne fai di ginnastica ogni giorno.”
“Sì, abbastanza.”
Entrammo e mi ritrovai in una stanza caotica, ma accogliente.
“Scusa il casino.”
“No, mi piace.”
“Ok, vuoi qualcosa da bere.”
Sbadigliai.
“Un po’ d’acqua e basta, per favore. Sono stanca e domani devo andare a scuola.”
Mugugnai, sentivo gli occhi che mi si chiudevano.
“Ok.”
Poco dopo arrivò con un bicchiere d’acqua che bevvi tutto d’un sorso.
“Ti mostro la camera da letto.”
Era una stanza ancora più disordinata del salotto con una portafinestra che si apriva su un terrazzino, Shin fece per andarsene. Non so cosa mi prese, sapevo solo che non volevo rimanere da sola.
“Shin, dormiresti con me, per favore?”
Lui sbatté gli occhi un paio di volte e poi arrossì.
“Sì, va bene.”
Ci spogliammo imbarazzati e ci infilammo a letto, lui mi attirò sul suo petto.
Qualche minuto dopo ero immersa nel miglior sonno della mia vita.

 

Sai, Hachi…
Se si potesse fermare il tempo e rivivere un giorno all’infinito, sceglierei
Quella notte d’estate, quella dei fuochi d’artificio dopo il tifone.
Solo che questa volta chiederei a Ren e a mia sorella di essere con noi.

 

La sera del compleanno di Hachi decisi di infilarmi in un bar a bere in suo onore.
Mandai un messaggio di scuse alla mia collega – ripromettendomi di non parlarle più e di cercare un altro lavoro – ed entrai nel primo locale. Era un tipico bar inglese, così ordinai anche hamburger e patatine.
Non mi sentivo a mio agio, non mi ricordava nessuno dei posti che frequentavo a Tokyo, mi sembrava di essere un’esule. Solo che gli esuli non scelgono di andarsene dalla patria, io sì.
Chissà cosa stava facendo Hachi in questo momento?
Stava festeggiando? Pensava a me?
Mi odiava ora?
Speravo ardentemente di no, non l’avrei sopportato.
Dovevo smetterla di pensare ai posti del mio passato o non sarai mai riuscita a costruire un futuro.
Perché non torni indietro?
Disse una voce nella mia testa. Io non potevo tornare, se l’avessi fatto avrei finito per appoggiarmi di nuovo a Hachi e ai miei amici e dovevo imparare a stare in piedi da sola. Dovevo riuscire a smettere di essere la bambina che aspettava sua madre, dovevo essere io a prendere per mano la me stessa piccola e indifesa e a farle vivere una vita. Contare troppo sugli altri mi rendeva debole e mi spaventava. Ogni volta che pensavo al Giappone, oltre al familiare calore, sentivo anche una fitta di paura che mi paralizzava.
Arrivò l’hamburger e iniziai a mangiarlo distrattamente, era davvero buono, ma il mio cervello fluttuava da qualche altra parte, perso tra i rimpianti.
Mangiai tutto e mi accesi una sigaretta, molti altri avventori ne avevano una quindi il posto non doveva essere molto severo sul divieto di fumare.
Una cameriera arrivò a ritirare la mia roba e mi chiese sorridendo se volessi qualcos’altro.
“Sì, un sakè.”
“Scusi?”
“Una vodka.”
Risposi arrossendo leggermente, mi ero dimenticata che non eravamo più in Giappone e il sakè non era una bevanda comune, ma qualcosa di esotico e strano.
“Sì, certo.”
La ragazza si allontanò e io mi dissi di fare più attenzione la prossima volta.
Se non vuoi tornare indietro, se li vuoi fuori dalla tua vita, perché sei qui a bere per festeggiare il compleanno di Hachi?
La vocina era persistente, non si lasciava sconfiggere, l’unica opzione era ignorarla.
Arrivò la mia vodka e iniziai a berla, il sapore forte mi riscaldò, Londra era fredda persino per una come me che al freddo ci era abituata.
Sono nata in un paese freddo.”
La me stessa del ricordo porse la sua giacca ad Hachi che si stava lamentando per la sera fresca, non mi sarei aspettata che lei in cambio mi desse la sua sciarpa.
La mia giacca le stava bene.
Mi riscossi dal ricordo, era stato quando Shoji l’aveva lasciata, quando era stato beccato con quella Sachiko e Hachi non aveva nemmeno voluto combattere per lui.
Fantastico, la vocina si era alleata con il mio subconscio e nessuno dei due mi lasciava vivere in pace.
Un giorno sarei tornata in Giappone, ma non ora.
L’idea mi colpì come un fulmine perché era vera.
Un giorno sarei tornata in patria e avrei probabilmente cercato di sistemare le cose, ma non adesso, non era il momento giusto, io non ero la persona giusta. Stavo ancora soffrendo troppo per la morte di Ren e il mio fallimento come cantante per osare presentarmi a loro e poi una parte di me non si fidava. Mi avevano tenuto nascosto il fatto che Ren fosse un tossico.
Avevo troppi pensieri, così ordinai un’altra vodka nella speranza di sopprimerne almeno qualcuno, anche uno minimo.
Com’è la vita delle persone normali?
Quelle che non inciampano in un fantasma ogni volta che girano l’angolo?
Non lo sapevo, sapevo solo che volevo più vodka.
Alla fine smisi di pensare, solo un ricordo continuava a tentarmi in un angolo della stanza: un gruppo di persone attorno a una torta in un ambiente buio. Tutti tenevano in mano un accendino, ma la cosa più luminosa era il sorriso di Hachi.
Quello illuminava l’intera stanza.

 

Sai, Nana…
Sono sempre stata sfortunata con gli uomini, pensavo che fosse colpa del
Grande Demone Celeste. Probabilmente invece era solo la tempistica sbagliata.
Anche adesso con Nobu, pur amandoci, non potevamo stare insieme come volevamo.

 

Il sole del mattino mi colpiva insistentemente gli occhi, tanto che alla fine mi svegliai e rimasi incantata per qualche minuto a fissare Nobu. Abbracciato a me sembrava di nuovo giovane, quasi un bambino.
Il sonno gli aveva tolto le preoccupazioni che lo avevano tormentato negli ultimi mesi.
Volevo svegliarlo, ma non ci riuscii così continuai a guardarlo in silenzio.
I suoi capelli erano diventati più lunghi, non li tingeva più e nel biondo iniziava a farsi largo il castano della ricrescita, probabilmente non li alzava nemmeno più in una cresta.
Adesso erano semplicemente capelli ribelli.
Non si era tolto gli orecchini e sembrava più magro di prima, le sue braccia però erano forti e confortevoli, le mani calde come lo ricordavo. Era come tornare a casa, solo che non potevo rimanere.
Mi chiesi cosa sarebbe successo se non avessi ragionato in modo così affrettato quando avevo scoperto di essere incinta. Se invece di considerare unicamente la proposta di Takumi avessi provato a pensare un po’anche a Nobu. La mia vita sarebbe diversa ora, avrei solo un bambino di cui occuparmi, un marito desideroso di aiutarmi e che soprattutto amavo, non un estraneo che avevo sposato solo per i suoi soldi.
Ma indietro non si poteva tornare e adesso non era il momento giusto pe rimettermi con Nobu, dovevo continuare ad aspettare.
Ero stanca di pensare e finii per riaddormentarmi.
Mi svegliai con Nobu che mi guardava con i suoi occhi dolci, perché fare quello che si doveva era così difficile?
“Buongiorno.”
“Buongiorno.”
Risposi io con un sorriso.
Finiva sempre per farmi sorridere, anche se io gli facevo male continuava a tornare da me.
“Sei la mia marea.”
Mormorai mezza addormentata.
“Cosa?”
“Sei come la marea, torni sempre da me anche se ti faccio sempre male e dovresti stare lontano da me.
“È così che funziona l’amore, per me almeno.”
“Tu ti meriti di meglio.”
“Ma io ho scelto te.”
Sorrisi di nuovo.
“È terribilmente egoista, ma ne sono felice.”
Questa volta fu lui a sorridere.
“Un giorno le nostre strade si incroceranno nel modo giusto e staremo insieme.
So che succederà.”
Io rimasi un attimo in silenzio.
“Sì, lo so anche io.”
Volevo credere disperatamente a quelle parola, non volevo invecchiare insieme a Takumi, non volevo soffrire per sempre imprigionata in quel matrimonio. Prima di romperlo però dovevo trovare la forza e la maturità di ammettere che era stato un fallimento non solo a me stessa, ma anche agli altri. Dovevo smettere di dire che lo amavo e che c’erano tante ragioni per stare insieme, dovevo smettere di annegare nelle mie bugie.
Potevo essere meglio di così.
“Nana?”
“Sì?”
“Tutto, ok?”
“Penso a tutte le bugie che dico, penso che un giorno dovrò essere forte abbastanza da ammettere che ho sbagliato tutto e che non amo Takumi.
E quel giorno potremo stare insieme.”
Lui annuì.
“Se quel giorno fossi stato più forte e maturo, ora non saremmo qui.”
“E se qui quel giorno non avessi seguito solo il profumo dei soldi non saremmo qui, ogni croce è fatta da due bastoni.”
Sospirammo insieme.
“Ormai non possiamo farci più nulla, c’è solo il futuro da vivere.”
Annuii, cambiare il passato non era possibile, ma scrivere un nuovo futuro sì.
“Nobu. Troverò Nana, la riporterò in Giappone e divorzierò da Takumi quando i bambini saranno grandi abbastanza da capire. Tra sette anni io e te saremo di nuovo insieme.
È come abbiamo detto ieri sera.”
Gli sorrisi.
“Dobbiamo smetterla di parlare sempre dei soliti argomenti!
Cosa vuoi per colazione per esempio?
Parti subito per Mori o ti fermi a Tokyo? Vuoi che ti prepari un bento?”
Lui alzò le mani ridendo.
“Ok, ok. Una risposta alla volta.
Sì, mi piacerebbe fare colazione.
Partirò per Mori tra due ore e, se non ti dispiace, vorrei un bento.
Cucini sempre benissimo.”
“Ottimo, mi metto subito al lavoro!”
Facevo di tutto per non pensare all’imminente separazione, volevo mostrarmi forte per una volta nella mia vita.
Cominciai a cucinare, mentre lui faceva la doccia, avrei ucciso per trasformare questo momento in una routine. Io, lui e Satsuki.
Finita la doccia la colazione era pronta e la mangiammo insieme in silenzio.
“Ottima, sei sempre stata una brava cuoca.
Tu fa’ pure la doccia, io sistemo la cucina.”
“Ok, grazie.”
Lui annuì e io entrai nel bagno dove la vasca dalle zampe di leone mi aspettava, feci un lungo bagno e poi uscii anche io. Il giorno dopo avrei portato via il necessario, oggi volevo accompagnare Nobu in stazione.
Lui era pronto, così presi la mia borsa.
“Hai il bento?”
Mi fece vedere l’interno dello zaino: c’era.
“Beh, possiamo andare allora.”
Dissi sorridendo.
Chiusi l’appartamento a chiave e scendemmo le scale.
Fuori era una fredda, pallida e limpida giornata invernale, tutto sembrava infuso dalla lue del mattino, mi soffermai un attimo a guardare il fiume, le strutture in cemento.
“Qui  è dove ci siamo dichiarati il nostro amore, era notte e c’era la luna.”
“E io ti avevo detto che avrei distrutto tutte le illusioni che avevi su di me. Be’, ci sono riuscita, no?”
“La vita non è mai facile, ma bisogna crederci.”
Indicò la borsa dove avevo messo il collare di pelle.
“Sì, hai ragione.”
Continuammo a camminare insieme, chiacchierando come vecchi amici fino alla stazione della metropolitana. Prendemmo la linea che portava alla stazione centrale di Tokyo, il vagone era stranamente vuoto, così ci sedemmo sospirando come due vecchietti.
“Un po’ mi manca Tokyo, ma ho scoperto che anche il mio paesino mi piace.”
“Sono felice per te. Continua con la sala musica, eh!”
Gli dissi con il mio miglior sorriso falso, stavo male dentro e non volevo che se ne accorgesse.
“Certo che continuerò, una nuova generazione di musicisti deve essere formata.
Almeno tutto il mio lavoro e quello di Takumi non andrà sprecato.”
Il nome di mio marito suonava amaro sulle sue labbra.
“Già, certo. Il paese natale dei Blast e dei Trapnest, certe volte me lo dimentico.”
Lui rise e poi mi abbracciò, forse un po’ stretto del normale, e mi sorrise.
“Cerca di stare bene.”
Il suo sorriso era triste.
“Anche tu.”
Qualche lacrima sfuggì al mio controllo.
Rimasi lì fino a che il treno non fu un puntino lontano, perso nell’orizzonte.
E io volevo inseguirlo con tutta me stessa, ma sapevo di non poterlo fare. È così che ti sei sentita, Nana, quando Ren se ne è andato a Tokyo e ti ha lasciato indietro?
Me ne tornai a casa mia a Shirogane, quella casa che tutti mi invidiavano, e quando il cancello si chiuse sentii anche il “click” di una prigione.
Ero in mezzo al lusso, ma rimaneva pur sempre una prigione.
Entrai in casa, salutai Satsuki e Ren che venivano pazientemente nutriti da una cameriera, poi guadai Takumi.
Non c’era amore tra di noi.
Non c’era nemmeno più attrazione.
Solo un disgusto per quell’uomo che aveva messo il lavoro davanti alla famiglia e ora stava perdendo tutto.
Il castello dei Trapnest era crollato e si era trascinato dietro tutti.
Sapevo che da tempo Takumi considerava di trasferirsi a Londra, per ricominciare in una nuova casa discografica.
Sperai con tutto il cuore che lo facesse, io dal canto mio non mi sarei mossa dal Giappone.
Avevo una missione più importante che leccare le ferite di quell’uomo: aspettare Nana.

 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventunesimo ***


Capitolo ventunesimo.

 

Dicembre era arrivato, le luci di Natale avevano ricoperto la città come luci fatate.
C’era un’atmosfera di attesa, le ragazzine cercavano cosa comprare ai
loro ragazzi e i genitori ai figli.
Sembrava che quelle luci si fossero posate anche dentro di me.
-Misato Uehara.

 

Shin era stato misterioso sul nostro appuntamento, non mi aveva dato nessun’indizio, solo di portare il necessario per due giorni. Il che significava che saremmo andati fuori città, ma dove?
Hachi non lo sapeva,  forse non voleva dirmelo.
“Goditi questo appuntamento, Misato. Non tornerà più indietro.”
Mi chiesi se non parlasse anche di sé stessa e dei suoi appuntamenti con Nobu, forse ne avrebbe voluti di più, sarebbe stato logico. Avevo conosciuto Takumi e mi era sembrato un grandissimo stronzo, aveva commentato sarcastico che ero la coppia più giovane e carina di Nana. Hachi mi aveva detto che Takumi e Nana non andavano d’accorto, ma come biasimarla? Chi andrebbe d’accordo con quel tizio?
Iniziai a preparare le valigie, l’unico l’indizio era di portare vestiti pesanti, saremmo andati in montagna?
Magari in un romantico chalet tra la neve?
Mi persi cinque minuti buoni nelle mie fantasie, alcune non esattamente caste, dovevo darmi una controllata.
Iniziai a prendere le cose più pesanti che mi ero portata da casa e a ficcarle in valigia. Alla fine presi un misto di cose pesanti e leggere, senza esagerare, dopotutto non ci saremmo trasferiti là.
Quella notte non riuscii a dormire, continuavo a rigirarmi nel letto chiedendomi dove saremmo andati e se non avessi dimenticato qualcosa.
Mi svegliai alle cinque di mattina con due occhiaie pazzesche, feci colazione e mi truccai. Indossai un paio di jeans stretti tutti pieni di tagli, una maglia nera e un maglione a righe nere e rosse. Ero okay.
Misi i soliti anfibi e la giacca di pelle, poi presi i due trolley e me ne andai sbadigliando.
La città era già attiva a quell’ora, con gente che camminava veloce, chioschi che offrivano una colazione completa per pochi yen.
Presi la metro diretta verso la stazione centrale, Shin mi aspettava vicino alle scale di collegamento.
“Buongiorno!”
Sbadigliai senza grazia.
“Buongiorno anche a te.”
Mi tese qualcosa: era un biglietto del treno e sbiancai quando lessi la destinazione.
“Dimmi che non stai scherzando, Shin.”
“No, sono serio.”
La destinazione era Mori, il villaggio di origine di Nana e degli altri.
“Ho pensato molto a cosa fare al primo appuntamento e questa mi è sembrata la migliore. Tu non ci sei mai stata eppure è lì che stanno le tue radici. Puoi vedere dove è cresciuta tua sorella, porgere omaggio alla tomba di Ren e altre cose. Nobu ci ha offerto una stanza alla pensione Terashima.
“E i suoi non gli hanno detto niente sul fatto che due minorenni dormiranno insieme?”
Ero troppo scioccata e mi uscii la domanda più stupida, quella di cui mi importava di meno.
“Tutto bene, Misato?”
Io lo abbracciai stretto, in lacrime, del tutto incapace di esprimere a parole quello che provavo e lui sembrò capirlo perché mi strinse a sua volta in silenzio.
“Va tutto bene, sono solo felice, tutto qui.”
All’improvviso ebbi l’impressione che qualcuno ci spiasse, ma chi poteva avere interesse a farlo?
I Blast non sarebbero più tornati, ma la carriera di attore di Shin poteva essere compromessa, sebbene io fossi solo due anni più giovane di lui.
Chiacchierando raggiungemmo il binario e prendemmo un caffè da una macchinetta prima di timbrare il biglietto. Era dolce e caldo, stranamente buono, forse tutto mi sembrava migliore in questa giornata.
Salimmo sul treno, spintonandoci come bambini e lasciandoci cadere senza grazia ai nostro posti.
Il treno partì e la sensazione di disagio si acuii invece di diminuire.
Che ci fosse stato davvero qualcuno? Magari quel paparazzo che ci perseguitava a Osaka?
Quello che non capivo del tutto era il perché.
Due ore dopo Shin dormiva e il mio telefono si mise a suonare, di lì a poco avrei capito tutto.
Risposi tranquilla, era Misato, probabilmente voleva solo sapere come stava andando il viaggio.
“Ciao, Misato.”
“Ciao a te, Misato.
Senti, dovete scendere alla prima fermata e tornare indietro.”
Alzai un sopracciglio.
“Perché? Cosa è successo?”
“Qualcuno vi ha fotografati insieme e ci ha mandato delle coppie e ora minaccia di mandarle ai giornali. Vogliono creare uno scandalo perché Shin frequenta delle minorenni.”
“Cazzo, non va bene.”
“Lo so. Tornate indietro, ho chiamato anche Yasu, studieremo una contromossa.”
“Ok, va bene.”
Chiusi la chiamata e guardai il volto sorridente di Shin nel sonno, non sarebbe stato facile dirglielo, ci teneva così tanto! Lo scossi gentilmente, lui si svegliò e si stropicciò gli occhi.
“Siamo già arrivati?”
“No, ma dobbiamo scendere alla prossima stazione, qualunque sia,  e tornare a Tokyo.”
Mi guardò come se fossi impazzita.
“Ma che dici?”
“Mi ha chiamato Misato, mi ha detto che ci hanno fotografato insieme e hanno mandato le foto alla Shikai Corporation minacciandoli di mandarle ai giornali. Vogliono creare uno scandalo per cui tu frequenti delle minorenni."
Lui mi guardò a occhi sbarrati.
“Cazzo!”
Controllammo la prossima fermata e radunate le nostre cose, nervosi e scontenti, per la piega degli eventi. Se avessi trovato quel bastardo l’avrei ucciso, aveva rovinato il mio primo appuntamento con Shin.
E poi era da un pezzo che non lo vedevo così triste, con gli occhi spenti e puntati a terra.
“Mi dispiace, Misato. Per colpa del mio passato…”
Io gli appoggiai un dito sulla bocca.
“Non dirlo perché non è vero. La colpa è di questa persona, non tua e non mia.
Ti prego, credimi.”
Lui annuì e sorrise lievemente, la fermata si stava avvicinando, non ci eravamo allontanati molto da Tokyo.
Scendemmo e andammo a consultare il tabellone della partenza, comprammo i biglietti e aspettammo seduti sulla banchina al freddo.
Fumavano una sigaretta dopo l’altra in silenzio, consultando ognuno la propria lista mentale di nemici, perché solo qualcuno che ce l’aveva con noi avrebbe potuto fare una cosa simile.
La carriera di Shin come attore non era ancora decollata abbastanza da interessare i media e come ex membro dei Blast valeva meno di zero. Tutti volevano Nana, trovarla e riempirla di domande, pretendere spiegazioni che non si meritavano. Qualunque cosa fosse scattato nel cervello di mia sorella aveva il diritto di rimanere lì, non di essere conosciuto da tutto il Giappone.
Com’è che certe volte i sogni diventano i tuoi peggiori incubi?
Qual è l’elemento che se spostato manda tutto a puttane?
Sarebbe bello saperlo in modo da non toccarlo mai e non avere la vita scombussolata.
Finalmente il treno arrivò ed entrammo al caldo delle carrozze, eravamo tutti e due giù di morale, ma il fatto che ci fosse Yasu ad attenderci ci rassicurava. Lui era in grado di risolvere quasi ogni casino.

 

Arrivammo a Tokyo sotto una leggera nevicata.
Misato ci aspettava alla banchina, la seguimmo senza dire nulla e salimmo su un taxi. Di una cosa ero certa, non ci stavamo dirigendo  alla Shikai Corporation.
La macchina si fermò al condominio dell’appartamento 707, io e Shin la guardammo senza capire.
“Yasu ci aspetta di sopra, lì potremo parlare in tranquillità e senza occhi o orecchie indiscreti.”
“Ok, va bene.”
Salimmo le scale e trovammo il batterista seduto al tavolo intento a esaminare le carte.
“Ciao, Yasu.
Lo salutò Shin.
“Cosa ne hai ricavato?”
“A mio parere non c’è la stampa dietro, la cosa è stata gestita in modo troppo grossolano, non è nello stile di Kurada.
E poi non avrebbe senso, i Blast sono usciti dalla scena musicale e non interessano più a nessuno e non sei ancora così famoso come attore.”
“Se non c’è la stampa dietro, chi c’è?”
“Qualcuno che vuole farti del male.”
Dissi a bassa voce, tutti mi guardarono.
“Penso che Misato abbia ragione.”
Il tono calmo di Yasu calmò il rossore delle mie guance.
“Qualcuno vuole ferire o te o Misato.”
Yasu mi passò la lettera e io la lessi.
“Riconosci la grafia?”
“No, e poi l’unico davvero arrabbiato con me è mio fratello. L’unica che sa di questa storia è Chikage e di lei mi fido.”
Sia l’avvocato con l’aspirante manager annuirono.
“Sì, conosciamo Chikage. Non farebbe del male a una mosca.
Shin?”
Gli diedero la lettera e si congelò con la mano tesa verso la lettera, i fogli volarono per terra.
“Shin?”
Eravamo tutti preoccupati, era pallido come un morto.
“Shin, che succede?”
Urlai, prendendo quella  mano rigida.
“Io sono chi ha scritto questa lettera e so perché l’ha fatto.”
Il suo tono era incolore, i capelli ormai quasi bianchi gli coprivano gli occhi.
“Chi è?”
“La stessa persona che ha organizzato lo scandalo della droga e della prostituzione: il mio fratellastro.”
Lo shock ci colpì come una frustata, persino Yasu sembrava scosso.
“Ma perché?”
“Conosci mio padre, Yasu. Non mi hai voluto nella sua vita, ti ha dato la mia custodia legale senza alzare un sopracciglio. Mio fratello è peggio, mi odia perché pensa che io non debba far parte della famiglia Okazaki, che mio padre abbia fatto uno sbaglio riconoscendomi. È da quando siamo piccoli che mi umilia e mi ficca nei guai.”
“Ma perché, Shin?”
Lui mi indicò con il volto.
“Vuole Misato.”
Yasu rimase in silenzio a lungo fumando una sigaretta dopo l’altra, nessuno diceva nulla.
“Ora che sappiamo il suo vero obbiettivo, lo anticiperemo.”
“Come precisamente?”
“Lasceremo perdere le lettere e ci concentreremo su Misato.
Shin, è possibile che lui si presenti dove lavora lei?”
“Sì, specialmente se il negozio è affollato o vuoto, in modo da non dare nell’occhio.”
“Credo che ti farà una proposta: una scopata con lui e le accuse saranno ritirate.”
Io annuii.
“Cosa devo fare?”
“Fai in modo che ti approcci in un punto ripreso dalle telecamere, digli che vuoi prendere tempo, lui se ne andrà.
Appena puoi fa vedere le immagini al tuo capo e digli che questo tipo ti molesta.
Se conosco il tizio che gestisce il block buster è un tizio abbastanza corretto da chiamare la polizia non appena lo vedrà arrivare.
I poliziotti vedranno le registrazioni e lo porteranno in centrale.
Misato…”
Yasu mi guardò oltre gli occhiali.
“Puoi farne una copia?
“Penso di sì.”
“Ottimo, portacela e saremo noi a ricattarlo. Se non la smette tu o Shin lo denuncerete. Voi sarete liberi e lui con le mani legate.”
“Sembra un ottimo piano, ma siete sicuri che funzionerà?”
“Se conosco abbastanza mio fratello funzionerà.”
“Okay.”
“La riunione è finita, allora?”
“Sì.”
Ci alzammo.
Misato allungò un pugno, Yasu la seguì e poi tocco a me e a Shin.
“Ce la faremo.”
Li alzammo e poi ce ne andammo, Yasu e Shin si allontanarono insieme, Misato chiamò un taxi e mi accompagnò a casa. Fuori dalla macchina mi batté una mano sulla spalla.
“Non preoccuparti, ce la farai ad avere una storia con Shin senza troppe complicazioni, sistemiamo il bastardo e andrà tutto a posto.
“Sì, grazie.”
Lei prese un altro taxi, io invece salii al mio appartamento abbastanza scoraggiata per come si era svolta a giornata. Per colpa di un ragazzo stupido e viziato il mio primo appuntamento era andato a fanculo e io ci tenevo così tanto!
Entrai in casa e mi ficcai sotto la doccia, poi a letto, Shin mi scrisse il solito messaggio della buonanotte, ma avevo la sensazione che anche lui fosse abbastanza depresso.
Come dargli torto? Trovi una ragazza non problematica e subito vieni rimesso al suo posto da quello stronzo di suo fratello. Non lo avevo ancora visto, ma già l’odiavo, quel pezzo di merda.
Mi misi a letto, i miei sogni furono popolati da una figura con una maschera bianca che tentava di uccidere Shin e io non riuscivo a fermarla.
Avevo paura, inutile negarlo.
Se qualcosa non fosse andato secondo il piano di Yasu cosa avremmo fatto?
“Yasu è una ragazzo molto intelligente. Può essere un ottimo avvocato e un ottimo teppista, nonché un ottimo batterista. Conosce le persone e sa quello che fa, io mi devo solo fidare.”
E quello era il punto, dopo il casino con mamma e con Nana non riuscivo a fidarmi delle persone come facevo prima. Ero diversa. Ero cresciuta.
Meno sorrisi e battute e più sguardi circospetti attorno a me, nemmeno temessi di vedere un paparazzo uscire da un tombino da un momento all’altro.
Feci colazione e andai al video noleggio, il mio capo fu sorpreso, ma felice, di vedermi, nessuno voleva mai fare il turno di notte.
E così quella notte sarei andata al lavoro, passai la giornata a pulire la casa, studiare per i test prima delle vacanze e a memorizzare il viso del bastardo. Volevo essere sicura di trovarmi in una zona coperta dalle telecamere quando fosse arrivato. Se ciò che diceva Yasu, conoscere il suo piano era un vantaggio incredibile, giocare a scacchi sapendo in anticipo le mosse dell’avversario. Mi ricordai che i Blast amavano giocare a mah jong, questo aiutava a sviluppare il cervello. Mi sarei fatta insegnare da Shin, non volevo rimanere indietro. Non volevo che fossero gli altri a decidere della mia vita, volevo essere io.
Dopo un ultima occhiata alla foto del nemico uscii avvolta nella sciarpa, fuori aveva ripreso a nevicare, il che significava che al negozio sarebbe stata una serata morta. Probabilmente si farebbe fatto vivo.
Avevo imparato a mie spese che i maniaci amavano le serate morte.
Scesi nella stazione della metro e presi la prima corsa che mi portasse al lavoro, stranamente era vuota. Ero in anticipo così mi concessi di mangiare qualcosa a un chioschetto lì vicino. Faceva freddo, non mi andava di aspettare là furi, nel chiosco c’era sempre caldo.
Mangiai del ramen e degli spiedini di pollo, gli altri avventori erano un gruppo di manager che festeggiavano la promozione di uno di loro. Erano allegri e rumorosi, non so come mi ritrovai a pensare che in quel momento avrei dovuto essere in una pensione in stile tradizionale con il mio ragazzo.
Atmosfera tranquilla, guardare la neve che cade avvolti in caldi yukata.
Ecco dove avrei dovuto essere.
Finiti anche gli spiedini uscii e mi diressi verso il videonoleggio, scambiai quattro chiacchiere con il collega che mi sostituiva e con il capo e poi mi cambiai, indossando la divisa del negozio.
Iniziai ad aspettare che arrivasse qualcuno, dopo un po’ abbandonai la postazione dietro al bancone e controllai i posti coperti dalle telecamere fingendo di gironzolare.
Uscii a fumare una sigaretta e tornai velocemente dentro a causa del freddo pungente.
Sarebbe mai arrivato?
Le ore passavano e del fratello di Shin non c’era traccia, che avesse capito qualcosa?
E poi, a un quarto d’ora dalla chiusura, lo vidi. Camminava per strada con il suo stesso passo indolente, solo che la sua espressione era quella di un tipo sicuro di sé.
Io mi misi in un punto coperto dalle telecamere e finsi di sistemare alcuni cassette, all’improvviso qualcuno mi prese da dietro, una mano su una tetta e una sulla bocca.
“Non urlare, dolcezza. Anche se mi piacerebbe che tu lo facessi, sarebbe eccitante.”
“Co-cosa vuoi?”
Mi finsi spaventata, ma ero solo disgustata.                                                                                                                                                                                             “Non so se il tuo ragazzo te l’ha detto, ma ci sono delle foto di voi due insieme che girano.
Sarebbe un casino se diventassero pubbliche, non credi?”
“E-e io cosa posso fare?”
“Lasciati scopare e brucerò i negativi.”
“Davvero?”
“Certo. Passerò un’altra volta per la risposta.”
La mano sul seno si spostò sotto la mia maglietta, con una spinta violenta fece saltare i gancetti e si prese il reggiseno, mi fece male. Lui invece lo annusò estasiato e sparì.
Mi chiusi nel negozio e poi corsi in bagno a vomitare, non mi aveva fatto niente, eppure mi sentivo violata, come aveva osato?
Controllai i filmati delle videocamere, tutto era stato ripreso, io feci in modo di farne una copia e di metterlo da parte per farlo vedere al mio capo. Lui poteva essere uno sfruttatore e uno stronzo, ma odiava i maniaci e si preoccupava sempre per me visto che il turno di notte era sempre mio.
Finalmente arrivò il momento di chiudere il negozio, presi l’incasso e i nastri della sorveglianza, abbassai la serranda e chiusi.
Andai a casa del mio capo, che distava cinquecento metri, e suonai il campanello. Lui uscì come ogni sera, io gli consegnai l’incasso e le chiavi.
“Vorrei discutere qualcosa con lei domani mattina, se possibile.”
“Cosa è successo, Misato?”
“Niente, è solo passata una persona fastidiosa al negozio.”
“Un maniaco?”
“Qualcosa del genere.”
“Va bene, ne parleremo domani.
Va’ a casa, sono preoccupato per te.”
“Grazie. Buonanotte, allora.”
“Buonanotte a lei.”
Chiamai Shin e gli chiesi di venirmi a prendere.
“Sì, arrivo. Sono nei paraggi, tu vai al chioschetto.”
“Va bene.”
Il chioschetto stava chiudendo.
“Posso aspettare qui il mio ragazzo, per favore?”
“Sì, certo. Gira brutta gente.”
Shin arrivò un quarto d’ora dopo e mi abbracciò.
“Tutto bene?”
“È passato… e si è portato via il mio reggiseno.”
Shin strinse i pugni.
“Lo ammazzo.”
“No, segui il piano di Yasu. È più sicuro, adesso portami a casa, per favore.
Non ce la faccio più a stare qui.”
Lui annuì e mi prese per mano, lentamente ci dirigemmo verso la metro, questa lunga giornata stava per finire finalmente.
Dopo avergli annunciato le malefatte del fratello, nessuno dei due disse più niente durante la corsa affollata di studenti che come me lavoravano fino a tardi per mantenersi gli studi.
Scendemmo alla mia fermata e quando arrivammo in superficie fu un sollievo sentire il freddo e la neve cadere dopo il viaggio su una carrozza sovraffollata.
“Ti fermeresti a dormire da me?”
“Sei sicura della proposta?”
Mi resi conto del secondo fine che conteneva e arrossii violentemente.
“Non volevo dire che voglio fare, ecco, sesso con te.
Non voglio stare da sola stanotte, ecco tutto.
Sono rimasta scossa e mi fa sentire più sicura sapere che c’è un’altra persona in casa.”
Lui rise.
“Tranquilla, lo sapevo che non era un invito a far sesso.”
Entrammo nel condominio e salimmo le scale fino al appartamento, lo aprii stanca e demotivata.
“Io vado a fare una doccia, tu fa come se fossi a casa tua. Di là c’è la cucina, ma non c’è birra perché sono ancora minorenne.”
“Ok.”
Presi i vestiti che usavo in casa e mi fiondai in bagno. La doccia fu lunga e bollente, volevo togliermi di dosso ogni traccia, anche minima,  delle mani che mi avevano strappato il reggiseno con una violenza che non mi meritavo.
Quando uscii Shin era fuori sul terrazzino, lo raggiunsi e mi accesi una sigaretta.
“Sei sicura di stare bene, Misato?”
“Adesso sì, mi sono tolta tutte le tracce di quel porco.”
“Mi dispiace, non volevo che finissi in questo casino per colpa mia.”
“Non è colpa tua, è colpa di tuo fratello.
È lui lo stronzo, non tu, non metterti strane idee in testa.
Abbracciami, piuttosto, fa freddo.”
Lui mi abbracciò da dietro.
“Mi piace la neve, mi ricorda il mio paese natale, la Svezia.”
“Deve essere un bel posto, ti ha dato alla luce. Anche a me piace la neve.”
“Beh, prima dei Blast la Svezia mi faceva sentire a casa. Poi sono arrivati i ragazzi e infine tu, adesso ho una casa anche in Giappone.”
Sorrisi e mi strinse di più.
“Sono felice.”
Rimanemmo ancora un po’ in contemplazione poi entrammo, adesso eravamo a disagio.
Raccolsi tutto il mio coraggio per dire quello che avevo in mente.
“Senti, il divano è scomodo. Dormi con me.”
Lui mi guardò stupito.
“Ok.”
Andammo in camera mia e cominciammo a spogliarci, io ero rossa come un pomodoro e anche lui sembrava più rosa del solito.
Ci mettemmo a letto e lui mi attirò a sé, notando che tremavo.
Il tremore finì, non seppi mai se era per freddo o paura, ma smise.
Shin emanava tepore, di quello simile alle terme fatto a posta per rilassare.
Mi addormentai subito senza pensare a quello che era successo.
Fu come se qualcuno avesse buttato una coperta nera su di me ed ero grata a quella persona immaginaria.
Avevo davvero bisogno di riposo.

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Capitolo 22
*** Capitolo ventiduesimo ***


Capitolo ventiduesimo.

 

Quando si desidera una cosa bisogna avere pazienza.
Non importa quanti ostacoli il destino metta sulla tua strada,
se tu ami quella persona tu li salterai, li scavalcherai o li scalerai se necessario.
Per Shin avrei scalato una montagna.
-Misato Uehara.

 

La mattina dopo mi svegliai in un silenzio ovattato, allungai la mano quel tanto che bastava per tirare un po’ la tenda e mi meravigliai. Aveva continuato a nevicare per tutta la notte e ora Tokyo sembrava glassata, la metro avrebbe funzionato?
Sarei riuscita ad arrivare in tempo dal mio capo?
Non vedevo l’ora di togliermi il dente, volevo che il fratello di Shin pagasse per tutte le sue malefatte e che ci lasciasse in pace. Parlando di Shin mi girai piano verso di lui e notai che dormiva ancora con un’espressione così serena che rimasi sorpresa.
Sembrava un bambino, era così vulnerabile che ne ebbi paura, in quello stato tutto poteva fargli del male, persino io, soprattutto io.
“Non ti ferirò.”
Mormorai.
“Non sarò come tutte le donne della mia famiglia, io sarò diversa.”
Svegliai Shin, lui mi sorrise.
“Buongiorno, principessa. Che stavi dicendo prima?”
“Niente, commentavo che è caduta un sacco di neve stanotte.”
“Ok.”
Mentre lui faceva la doccia io preparai la colazione, poi toccò a me.
Fuori faceva davvero freddo, non credevo potesse fare così freddo in città, ci affrettammo verso la metropolitana, almeno lì ci sarebbe stato caldo. Poi volevo parlare al mio capo il prima possibile.
La metro funzionava per fortuna e salimmo sul vagone che portava verso dove lavoravo, era pieno di studenti e impiegati come al solito. Eravamo schiacciati come sardine, non vedevo l’ora di fare la patente e possedere un auto mia o almeno un motorino. Ero stanca di farmi schiacciare.
Arrivammo alla nostra fermata e scendemmo, respirare aria quasi pura fu un sollievo.
“È presto, sei sicura che il tuo capo sia sveglio a quest’ora?”
Guardai il cellulare, effettivamente eravamo un po’ in anticipo.
“Fermiamoci in un bar, così beviamo qualcosa di caldo.”
Lui annuì ed entrammo nel primo locale che vedemmo, non era molto pieno, sperai che la roba non facesse troppo schifo o che non fosse troppo cara visto che né io né Shin navigavamo nell’oro.
Ordinammo un cappuccino, che arrivò poco dopo con qualche pasticcino come decorazione, lo assaggiai: era buono.
“Buono.”
Mormorò Shin.
“Sì.”
Risposi io, ero sulle spine ora che il momento era arrivato.
“Non ti preoccupare, andrà tutto bene.”
Shin mi strinse la mano.
“Sì.”
Ci alzammo e pagammo, come mi aspettavo il prezzo non era dei più economici.
La casa del mio capo era molto vicina, suonai il campanello e lui uscì.
Alla mattina sembrava più vecchio e stanco.
“Vieni, Misato. Lui chi è?”
“È Shin, il mio ragazzo.
“Certo. Una ragazza carina come te non rimane da sola a lungo.”
Commentò con un sorriso.
La sua casa era molto accogliente, un misto di elementi tradizionali e moderni, sua moglie stava facendo colazione mentre guardava il tg del mattino.
“Mi scusi per il disturbo, ma ho pensato che fosse meglio risolvere questa faccenda subito.”
“Deve essere successo qualcosa ieri sera, mi hai accennato a una specie di maniaco.”
“Sì, esattamente.”
Sentii la moglie sbuffare.
“Ecco perché non dovresti far fare il turno di chiusura a una ragazza: è pericoloso per lei.”
Lui sbuffò.
“Cosa è successo?”
“Mi ha fatto delle avances e si è portato via il mio reggiseno.”
Arrossii.
“Ci sono le registrazioni? Altrimenti non possiamo fare niente.”
Frugai nella mia borsa e porsi i filmati di sorveglianza al mio capo.
“Ok, adesso guardiamo e poi vedremo cosa fare.”
 “Va bene.”
Mi sentivo un po’ in imbarazzo nel mostrare al mio capo quei momenti così degradanti per me: ero stata usata come mero oggetto di una vendetta. Quel coglione non si era portato via solo il mio reggiseno, si era portato via la umanità.
Il mio capo guardava il video senza dire una parola, ma con un’espressione profondamente disgustata.
“Mi dispiace, Misato. È stato un assalto in piena regola e non te lo meritavi, perché sei una brava ragazza. Vorrei consegnarlo alla polizia, ma come possiamo?”
“Lui vuole qualcosa da me e ritornerà. Visto che sarà un’altra notte di neve, quale occasione migliore?”
“Ok, stanotte lo terrò d’occhio da casa mia. E quando lo vedrò passare chiamerò la polizia, dovremmo riuscirci.”
“Non è un po’ ristretta la tempistica? Può scappare.”
Disse Shin.
“Sì, hai ragione. Misato non va messa in pericolo o a disagio più del necessario. Io lo tratterrò, cara?”
La moglie alzò la testa dalla sua ciotola.
“Quando ti farò un segnale tu chiama la polizia e spiega la situazione, ok?”
“Ok, caro. Per me va bene.”
La sua espressione si era addolcita un attimo, doveva aver visto le immagini.
“Misato, perché accetti di lavorare la sera?”
“Per l’affitto. Faccio due lavori e nel tempo che mi resta studio. Ho bisogno di continuare a lavorare nel negozio di suo marito.”
Lei sospirò.
“Vorrei che mia figlia avesse la metà della tua grinta…”
Lo presi come un segnale di approvazione.
“Va bene, allora è deciso.”
“Sì.”
Salutai il mio capo e sua moglie e poi uscimmo da casa loro.

 

Quel giorno fu eterno.
Dopo la visita al mio capo tornammo a casa, io mi misi in pari con i compiti e lo studio, Shin studiò un copione e provò le sue battute. Non erano molte, faceva il figlio ribelle di un famiglia facoltosa e alla fine si redimeva grazie all’amore di una ragazza.
Non andava pazzo per quella sceneggiatura, ma aveva bisogno di lavorare e farsi un nome se voleva averne di migliori, anche se la sua passione erano le produzioni underground.
Finalmente arrivò il momento di uscire per andare a lavorare al supermercato, baciai Shin e mi avventurai in una Tokyo coperta di neve. Non era un problema per la metropolitana, ma le persone in strada erano di meno rispetto al solito.
Salii su di una carrozza ansiosa e preoccupata per quello che mi aspettava alla sera, anche dopo ero distratta, i miei colleghi erano leggermente preoccupati perché di solito ero efficiente.
Finalmente arrivai al videonoleggio e dopo aver mangiato un bento entrai, salutai il mio collega e poi mi cambiai. Indossai la maglietta del negozio e battei la mano sulla spalla del ragazzo.
“Dai, sei libero! Da adesso ci sono io.”
“Non credo verrà molta gente con un tempo come questo.”
“Lo spero.”
“Ah! Speri di farti un sonnellino!”
“Forse.”
Ridacchiai come una scema, non doveva sospettare nulla.
Lui uscì e io mi misi dietro al bancone, esaminai per un po’ la lista della gente che doveva riportare i video, poi iniziai a gironzolare per il negozio sistemando i dvd fuori posto.
La mia ansia aveva raggiunto il culmine, tra poco sarei esplosa.
Finalmente il bastardo arrivò, io feci finta di nulla e continuai a sistemare i dvd e le cassette. Avevo paura, ma non dovevo dimostrarlo o sarebbe stato peggio, gli avrebbe dato più potere.
Lo sentii alle mie spalle, ma continuai a ignorarlo, lui mi prese per braccio e mi costrinse a voltarmi.
“Cosa vuoi da me?”
“Lo sai, voglio una risposta da te.”
“Non verrò con te!”
“Mi costringi a usare la forza.”
In un attimo le mie mani erano imprigionate nella stretta di una delle sue, l’altra saliva verso il seno mentre mi baciava violentemente. Io mi divincolavo come un’anguilla, ma la sua stretta era forte e ora una delle sue sporche mani era su una delle mie tette.
“Così è tutto più eccitante!”
Mugugnò, poi la sua presa svanì, aprii cautamente gli occhi e lo vidi trattenuto da due robusti poliziotti, una poliziotta mi avvolse in una coperta e mi diede una tazza di the.
“Ragazzo, sei in arresto per tentata violenza sessuale.”
“Era consenziente!”
“A noi non sembrava per niente e il suo capo dice che non è la prima volta che le dai fastidio, dice che ha dei video.”
“Non è vero, voi non sapete chi sono io!”
“Chi sei importa poco, noi abbiamo visto cosa stavi facendo.”
Lo trascinarono via mentre lui vomitava un fiume di bestemmie, la poliziotta rimase.
“Ti senti meglio ora?”
Io bevvi un sorso di the.
“Sì. Grazie per essere intervenuti.”
“Il tuo capo ci ha chiamato.”
“Capisco.”
“Te la senti di venire in commissariato per la denuncia?”
“Sì, ma vorrei venire con il mio ragazzo. È possibile?”
“Sì, certo. Chiamalo pure, così ti sentirai più sicura.
Ma non sarebbe meglio chiamare la tua famiglia?”
“Loro abitano a Okayama, io vivo qui per frequentare il liceo.”
“Capisco.”
Chiamai Shin e lui arrivò subito. Mi lanciai nelle braccia di Shin e scoppiai a piangere, buttando fuori in qualche modo la tensione che avevo accumulato fino a quel momento. Benché sapessi che il rischio era calcolato mi ero spaventata comunque, lui sembrava deciso a stuprarmi, nonostante la presenza delle telecamere e il fatto che il negozio fosse un luogo pubblico. Forse pensava che i soldi di suo padre avrebbero coperto tutto, non era nemmeno la prima volta che metteva nei guai Shin. Il padre non aveva rapporti con Shin, non sapevo da dove venisse tutta quella rabbia e non mi importava nemmeno in fin dei conti, bastava che stesse lontano da me.
“È  tutto a posto, Misato. È tutto finito, adesso andiamo alla polizia e lui sarà punito.”
“Sì, lo so. È la tensione, sono stata in ansia tutto il giorno.”
“Ti capisco, ma adesso lui non può più farti male.”
Io annuii vigorosamente, era davvero finita.
“Devo andare alla polizia per la denuncia, mi accompagni?”
“Non chiederlo nemmeno. Certo, che vengo.”
“Grazie.”
Il commissariato non era molto lontano, ci andammo mano nella mano a piedi.
Avevo bisogno di Shin, volevo trascorrere più tempo possibile con lui e non vedevo l’ora che la nostra vacanza-appuntamento si potesse fare.
In commissariato mi trovai ad affrontare quella maschera di rabbia e odio che era il fratello di Shin, continuò ad inveire contro di noi mentre compilavo la denuncia. Non taceva nemmeno sotto le minacce dei poliziotti, alla fine furono costretti a sbatterlo in guardina. Sembrava nato per stare lì, se Shin era un bastardo – biologicamente parlando – quello era bastardo dentro, marcio.
Non capivo il suo accanimento, da tempo il mio ragazzo non era più responsabilità della famiglia Okazaki, era stato sotto la custodia legale di Yasu fino al suo diciottesimo compleanno e ora era maggiorenne e libero.
Finito di compilare tutti i moduli i poliziotti mi lasciarono andare, dicendomi che sarei dovuta tornare il giorno dopo per confermare il verbale firmandolo.
“E lui?”
Chiesi un filo spaventata.
“Dato il suo comportamento aggressivo rimarrà in guardina per tutta la notte, poi potrà contattare il suo avvocato. Potreste patteggiare.”
Annuii, non volevo rivedere mai più quel cazzo di maniaco.
“Puoi andare a casa ora.”
“Sì.”
Guardai l’ora sul cellulare, avevo perso l’ultimo treno.
Mi alzai comunque e uscii dal commissariato insieme al mio ragazzo, fuori nevicava ancora.  Io cominciai a frugare nella borsa con gesti nervosi.
“Misato, che succede?”
“Tra una cosa e l’altra ho perso l’ultimo treno per tornare a casa, controllo di avere abbastanza soldi per chiamare un taxi.”
“Io non abito molto lontano da qui, puoi dormire da me, se ti va.”
Tirai un sospiro di sollievo.
“Sì, mi va. Ti avrei comunque chiesto di  venire con me, non me la sento di dormire da sola.”
“Comprensibile dopo quello che hai passato.”
Abbassò gli occhi con aria triste, io gli presi una mano tra le mie.
“Ehi, non è colpa tua. Non pensarci neanche, mi hai sentito, Shin?”
“Ma se io non fossi entrato nella tua vita…”
“Mi saresti mancato.”
“Dici sul serio?”
“Sì. Probabilmente a quest’ora mi starei dibattendo in pensieri sul presunto amore per il mio fratellastro, era quello che facevo prima di conoscerti, ma poi sei arrivato tu e le cose sono cambiate, adesso so chi sono. O almeno penso di saperlo, perché la vita è in continuo movimento.”
“Deve essere per quello che cerchiamo certezze.”
“E io credo di averne trovata una in te.”
Dissi arrossendo.
“Grazie. È una delle cose più belle che mi abbiano mai detto.”
Strinse una della mie mani.
“Andiamo a casa mia, sarai stanca morta.”
Io sorrisi.
“Sì, andiamo. Un letto, una cioccolata e una dormita mi rimetteranno in sesto. Domani devo farmi vedere a scuola, almeno per sapere i compiti delle vacanze.”
Shin annuì e ci allontanammo insieme nella notte.

 

L’appartamento di Shin era piccolo e piuttosto incasinato.
Sembrava più l’appartamento di un occidentale e notai che si tolse la scarpe dopo che me le ero tolte e io e lasciandole a casaccio, non si era mai abituato al Giappone. Mi ritrovai a sorridere.
“Come mai sorridi?”
“Non ti sei ancora abituato al Giappone, vero?”
“Ci sto provando, ma mi riesce ancora difficile. Da cosa l’hai capito? A parte sapere la mia storia.”
“Le scarpe.”
Gliele indicai.
“Ogni buon giapponese sa che vanno disposte con la punta verso l’uscita, tu le hai buttate a caso e te le sei tolte dopo che io l’ho fatto. D’abitudine non lo fai e ogni giapponese ha l’abitudine di farlo.”
Lui sorrise.
“Sgamato.”
“Scusami, faccio la maestrina e tu mi hai appena aiutata.”
“Sei finita nei guai perché frequentavi me.”
“Questo non conta, non è colpa tua se hai un fratello stronzo.”
Lui sorrise.
“Vuoi qualcosa? Ho della birra…”
“No, un the caldo va benissimo. Non mi va di bere birra o altri alcolici.”
“Ok, mettiti comoda.”
Io annuii e mi lasciai cadere a peso morto sul divano, in un angolo del salotto c’erano un basso e una chitarra acustica, tutti e due avevano l’aria di non essere stati toccati da mesi. Probabilmente erano un residuo di quando suonava nei Blast di cui non riusciva, o non voleva, liberarsi. Sembravano aspettare qualcuno o qualcosa, che attendessero anche loro Nana?
Che sapessero che se n’era andata e che anche la loro vita era stata congelata da quel distacco improvviso e inaspettato?
Mi piaceva pensare di sì e le aggiunsi alla lista di cose e persone che la partenza di mia sorella aveva messo in stand-by. Ancora una volta mi chiesi perché se ne fosse andata, ma iniziava a diventare una domanda sterile e inutile, i motivi non importavano più, quello che importava era che tornasse.
“Ecco il tuo the.”
“Grazie.”
Non mi ero accorta di quanto fossi scioccata finché non bevvi quel the, sentire il suo calore dentro di me sembrò restituirmi al mondo.
“Ci voleva proprio.”
Mormorai.
“Stai meglio, ora?”
“Sì, prima mi sembrava di vagare tra argomenti non importanti per non affrontare quello che è successo stasera. Il mio monologo inutile sulle scarpe, la mia riflessione sugli strumenti musicali erano solo modi per non pensare.”
“Ah, hai notato quanto sono stati poco usati la mia chitarra e il mio basso.”
Io annuii.
“Pensi che dovrei riprendere a suonare?”
“Solo se vuoi…”
“Mi piacerebbe suonare il basso.”
“E la chitarra no?”
Il suo sguardo si fece lontano e distante.
“Ho imparato a suonare la chitarra acustica solo per Reira.”
“Oh, scusami… Io non volevo…”
Lui alzò una mano.
“È tutto okay, lei è nel passato ormai.
Ha scelto l’uomo da amare e non sono io.”
“Takumi, eh?”
“Già, Takumi. Quell’uomo sembra nato per rubare la felicità agli altri.”
Strinsi la tazza e abbassai gli occhi.
“La ami ancora?”
“È stata la prima ragazza di cui mi sono innamorato sul serio, proverò sempre qualcosa per lei, ma amarla?
No, ho smesso di amarla. Ho avuto molti mesi per capirlo e accettarlo.”
“Lei ti amava?”
“Non lo so, forse a suo modo, un pochino sì. Il vero amore della sua vita è Takumi, però, e lei correrà sempre da lui quando dovrà scegliere. È quello che ha sempre fatto, spero che un giorno riesca a tenerselo tutto per sé per sempre, molte persone smetterebbero di soffrire, inclusa tua sorella.”
“Mia sorella?”
“A lei Takumi non è mai piaciuto. Prima le ha portato via Ren con la sua band, poi Hachi e Ren una seconda volta quando lo ha implicitamente costretto a scegliere lui tra Nana e la band.”
“Stronzo.”
Borbottai, pensando a quanto dovesse avere sofferto lei, che già si portava addosso la ferita dell’abbandono di nostra madre.
“Se continuiamo a parlare di lui la mia birra si inacidirà e il tuo the diventerà amaro, meglio smettere.”
“Sono d’accordo conte, adesso è il momento di festeggiare, non di piangere.”
Finimmo il the e la birra, Shin portò tutto in cucina e lo sentii lavare la tazza.
Io ero sul divano a combattere contro me stessa, avevo già dormito con lui ed era quella la mia intenzione quando gli avevo chiesto se potevo stare da lui, eppure avevo più paura adesso che la prima volta.
Doveva essere l’effetto del trauma che avevo subito, respirai profondamente e cercai di ritrovare la calma, non potevo permettere a un bastardo qualsiasi di rovinarmi la serata e poi ero sicura che Shin non ci avrebbe provato. Mi rispettava troppo per farlo, avremmo fatto l’amore nell’occasione giusta e non era questa, ora sarebbe sembrato solo affrettato.
Mi sentii un po’ meglio.
“Che ne dici di andare a dormire, Misato?”
“Sì, ci sto.”
“Sembri nervosa.”
Io scossi le spalle.
“Lo sono, ma non so perché.”
Lui mi abbracciò forte, all’inizio ero spaventata, ma poi sentendo il suo odore mi rilassai completamente e rischiai di cadere per terra come un sacco di patate. Lui mi sollevò come se fossi una sposa.
“Sei solo spaventata, è normale.
Adesso ci facciamo una dormita e domani le cose sembreranno migliori.”
Io annuii.
“Shinichi…”
“Sì?”
“Ti amo. Grazie per esserci.
Sei stato la mia medicina.”
“E tu la mia, piccola Misato. Ora è il momento di andare a letto, sei stanca e scossa.”
“Sì.
Mi addormentai nelle sue braccia, ancora prima di raggiungere il suo letto e lo feci sorridendo.
Era questo l’effetto che mi faceva lui: anche nelle situazioni peggiori mi rassicurava e mi faceva sorridere come nessuno mai.
Era questo il vero amore, non ancorarsi a una persona come se fosse una roccia per non andare a fondo, ma sostenersi a vicenda.
Nana, sei mai riuscita ad accettare fino in fondo il sostegno di Ren?
Ren te lo ha mai offerto?
Lo hai percepito?
O forse il tuo bisogno era più primordiale? Volevi qualcuno legato a te per sempre?
Qualcuno che non scappasse?
È per questo che hai messo una catena e un lucchetto al collo di Ren?
Come ti sei sentita quando hai scoperto che li ha portati fino alla fine?
Che ha pensato a te fino alla fine, come testimonia il regalo per te?
Questo ti ha consolato o ti ha gettato in un abisso di disperazione ancora più profondo?
È per questo che scappi?
Sono i legami che ti fanno paura?
Sorella, i legami ti avrebbero potuto salvare e forse possono ancora farlo.
Fu a questo che pensai quella notte tra il sonno e la veglia, abbracciata stretta al corpo magro di Shin.

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