NANA di Layla (/viewuser.php?uid=34356)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo 1 *** Capitolo primo ***
Capitolo
primo.
Sai, Hachi…
Dopo la morte di Ren il
tempo si era fermato per me.
Nulla di quello che
stava accadendo era vero,
era come se camminassi
nella nebbia.
Mi accorgevo a stento
della tua presenza.
Il giorno del mio ventunesimo
compleanno il tempo si
fermò per me, le lancette tentavano di scattare in avanti,
ma non ci riuscivano
e io credevo di vivere dentro a un sogno.
Un lungo e particolareggiato incubo da cui mi sarei
svegliata presto, non aspettavo altro che questo accadesse. Ero
impaziente di
rivedere le pareti della stanza dell’albergo in cui
alloggiavo a Osaka,
risentire la voce di Gimpei che mi sgridava e poi vedere la porta
spalancarsi.
Prima sarebbe entrata Hachi sorridendo con in mano una
torta, urlando buon compleanno, e poi sarebbe stato il turno di Ren.
Lui mi
avrebbe sorriso e tutto sarebbe andato a posto, non sarebbe
più stato necessario
incontrarsi nei sogni.
Non accadeva mai, la realtà mi lambiva come
un’onda
lontana, ero incapace di accettare che Ren non sarebbe mai tornato e
che tutte
le cose che dovevamo dirci sarebbero rimaste per sempre in sospeso.
Impossibilitata com’ero a vivere nel mondo reale dormivo.
Dormivo tutto il giorno perché almeno lì potevo
vedere
Ren, ma non erano sogni sereni: continuavo a vedere la sua schiena e
solo
metà del suo volto, che si girava a guardarmi per
assicurarmi che lo seguissi.
Camminava nella nostra cittadina natale sotto la neve, io
cercavo di raggiungerlo, ma una forza mi teneva a distanza e la mia
mano
protesa stringeva il nulla. Finivamo per ritrovarci sempre al mare,
prima sulla
spiaggia dove i miei piedi affondavano e poi in acqua. Solo allora Ren
rallentava, io lo afferravo per la giacca e alzavo gli occhi per
incontrare i
suoi, ma tutto diventava buio.
C’erano due possibilità: o il sogno ricominciava o
mi
svegliavo e mangiavo prima che l’inseguimento ricominciasse.
Andò avanti così per un po’, poi dalla
nebbia emerse la
voce di Hachi, la sentivo battibeccare scherzosamente con Shin a
scariche, una
specie di radio non sintonizzata.
Mi venne da ridere e probabilmente rise anche il mio
corpo.
Da allora iniziai a camminare fuori dalla nebbia un passo
alla volta, ma ero ancora lontana dall’accettare che Ren era
andato in un posto
in cui non potevo più raggiungerlo.
La prima volta che tornai in me Shin era in camera mia,
stava suonando la sua chitarra acustica e io mi stavo per accendere una
sigaretta.
“Mi preoccupa. Ho sentito voci e movimenti prima, mi
chiedo perché adesso sia calato il silenzio.”
Disse e poi riprese.
“Potresti chiederlo a Ren.”
Al suo nome reagii tirandogli un accendino, lui si spostò
e mi restituì uno sguardo ostile, il sorriso cancellato dal
mio gesto. Tornai a
letto, il silenzio era calato nella stanza, Shin aveva smesso di
suonare:
l’avevo fatto arrabbiare.
All’epoca non mi importava, non c’era molto di cui
mi
importasse, ma quel silenzio che si allargava come una macchia di
sangue,
pesante di ferro e dolore era opprimente.
Presi il mio cellulare e scrissi a Shin di suonare
qualcosa, qualsiasi cosa pur di riempire quel vuoto, ma lui rispose
lanciando
il suo telefono sulla mia schiena.
Mi voltai.
“Non avrei dovuto alzarmi per te.
Tu non mostri nessun sentimento o compassione per Ren o
per chiunque ti circondi e non consideri come si sentono.”
Per un attimo mi sentii ferita e sbagliata.
Non stavo reagendo nel modo giusto, era quello che mi
stava dicendo una voce, l’altra rispondeva che era solo un
sogno e che presto
Ren sarebbe tornato. Nemmeno in sogno però accettavo le
prediche di qualcuno,
cosa ne sapeva Shin?
Io avevo perso l’amore della mia vita in quel sogno e non
mi ero potuta scusare con lui né dirgli quanto lo amassi,
della nostra storia
rimaneva solo un freddo diamante che luccicava su di un anello.
Non avrei più potuto riabbracciarlo, né dirgli
che lo
volevo sposare e che sarei cambiata, avrei smesso di essere la Nana
egoista che
pensa solo a sé stessa.
Sarei stata la moglie di Ren, pronta a sostenerlo, e non
solo la promessa sposa reticente e spaventata, sarei cambiata
perché
infliggergli dolore non serviva a tenerlo legato a me.
Il giorno che mi sarei svegliata glielo avrei detto, ma
mi sarei mai svegliata?
Shin cambiò espressione all’improvviso, da ostile
divenne
triste e sconvolta, nei sui occhi c’era un accenno di lacrime.
“Non posso averle detto una cosa del genere.”
Mormorò rivolto più a se stesso che a me, di chi
stava
parlando?
Non certo di me, ero sicura che ogni parola che mi aveva
detto poco prima saliva dritta dal suo cuore, probabilmente si riferiva
a qualcosa
avvenuto mentre io vagavo nel mare di nebbia.
Ero così confusa, me ne stavo lì a guardarlo, a
cercare
di ricordare situazioni e persone quando tutto quello che avrei dovuto
fare era
abbracciarlo o almeno allungare una mano verso di lui: Shin stava
piangendo in
silenzio. Glielo dovevo, mi stava rimanendo accanto in questo strano
sogno, ma
il mio corpo era bloccato e la mia mente intorpidita, i pensieri
giravano
troppo rapidi per essere letti e decodificati. Un suono bucò
la cortina della
mia paralisi, Hachi stava singhiozzando nella stanza accanto, le pareti
sottili
come carta mi facevano sentire tutto quello che succedeva lì
dentro.
Scattai in piedi, dimentica di Shin e delle sue lacrime,
senza nemmeno sentirlo mentre chiamava il mio nome ed entrai nella
stanza.
Nobu e Hachi erano accasciati per terra, piangevano tutti
e due e non serviva un indovino per capire cosa fosse successo: Nobu
poteva
scoparsi Yuri dalla mattina alla sera, ma il suo cuore apparteneva ad
Hachi e
Hachiko poteva giocare alla mogliettina accanto a Takumi, ma sapevamo
entrambe
che lo faceva per il bene della figlia che aveva in grembo e che amava
Nobu.
Credo che l’unica persona che Hachi abbia mai amato sia
stata Nobu, ma il destino aveva fatto in modo di dividerli quasi subito
ed io
ero arrabbiata con il destino, all’epoca non gli perdonavo di
aver fatto uscire
la mia amica da quello che chiamavo il mio giardino. In
realtà mi aveva fatto
uno sgambetto ben peggiore e io cercavo di negarlo con tutte le mie
forze.
Loro mi guardavano sorpresi, ma io riuscivo solo a
sentire una sorda rabbia che mi pulsava nelle vene, perché
continuavano a farsi
del male?
Perché lui continuava a incasinare la vita di Hachi?
Non mi piaceva, ma era quello che aveva scelto lei e Nobu
doveva smetterla di fare il ragazzino.
Dio, come sbagliavo! Dio, come era distorta la mia visione!
Decidendo di ignorare la cosa più evidente dovevo
sfogarmi sul resto delle cose che non andavano bene, così
afferrai Nobu per il
colletto della camicia.
“Nobu!”
Iniziai furiosa, ma lui non lo era.
Era felice che io parlassi, ma io non lo stavo registrando.
“Non sei così disperato da avere bisogno di
qualche
moglie incinta di cui prenderti cura, vero?
Tu hai la regina Yuri Kosaka che ti scopa tutte le
notti.”
Perché non stavo zitta?
“Non dovresti parlare, la tua bocca dovrebbe essere
chiusa per sempre.”
Nobu non era arrabbiato, non ancora.
“Scenderesti così in basso per la sua
felicità?
I tuoi sentimenti per lei sono ancora così forti che non
puoi trattenerli?”
Perché continuavo a ferire chi mi stava accanto con gesti e
parole?
Perché non capivo che se avessi continuato così
sarei
rimasta da sola?
In quel sogno, che forse non era un sogno – sussurrava la
solita vocina – rischiavo di perdere tutto per il mio
egoismo. Dicevo di farlo
per Hachi, ma erano le mie manie di controllo la ragione per cui mi
comportavo
così.
“Nana! Ti stai sbagliando, sono io…”
Hachi non finì mai la frase perché Nobu le
rivolse un’occhiata furiosa, era la
prima volta che lo vedevo così ed era colpa mia che lo avevo
accusato.
“Lei non si sbaglia. È logico che io provi ancora
qualcosa
per te.”
E così la verità era scivolata fuori dalla bocca
di Nobu
con naturalezza, facendo scoppiare Hachi in lacrime.
Ebbi un momento di buio in cui probabilmente gli mollai
un pugno, perché ora lui era steso davanti a me con un
taglio sulla guancia in
corrispondenza di dove avevo l’anello.
“Se le stai confessando il tuo amore devi prima curarti
di qualcosa: non devi farla piangere tenendo le situazioni in
sospeso.”
Perché non tacevo?
Io avevo tenuto le cose in sospeso con Ren per mesi e
mesi, ignorando tutti quelli che mi dicevano di fare pace con lui. Chi
ero io
per parlare?
Che cosa stavo facendo?
Mi vedevo staccata dal mio corpo, la ragazza esile dai
capelli neri non ero io.
Chi era?
Hachi naturalmente si preoccupò di Nobu e lui le disse
che non era niente, la ragazza dai capelli neri abbracciò la
mia amica e la
consolò. Shin disse a Ren che ero venuta per lui, ma quella
non ero io, era una
sconosciuta che mi somigliava e che finì per dire una cosa
terribile.
“Tutti gli uomini devono solo morire.” Aveva urlato.
Ma se Ren fosse morto davvero come in quel sogno io sarei
andata in pezzi, Ren doveva vivere perché ormai lui aveva
troppo di me in sé e
viceversa.
Alla fine mi ritrovai a dormire abbracciata alle gambe di
Nobu, nonostante lo avessi insultato e picchiato lui mi era rimasto
accanto.
Non mi meritavo di avere persone così belle intorno, io ero
marcia.
Ero sempre stata marcia, fin dal giorno in cui mia madre
mi aveva abbandonata in quel giorno di neve.
Se non lo fossi stata mi avrebbe tenuta con sé.
E l’inseguimento di Ren riprese nel sogno.
Mi svegliai che era ora di cena,
Hachi aveva cucinato un
sukiyaki di pollo che sembrava squisito, ma la me stessa polemica e
bastarda
che si accaniva sui dettagli per non accettare il grande fatto si
risvegliò.
Volevo un sukiyaki di manzo e Hachi era – come sempre
–
disposta ad accontentarmi.
Si iniziò a parlare del prezzo del manzo e sul fatto che
solo chi lavorava poteva mangiare e fu allora che il mio egoismo si
manifestò
ancora.
“Se significa poter mangiare manzo, inizierò a
cantare
domani!”
Urlai lasciando tutti basiti, ormai avevo completamente perso il
controllo
delle mie reazioni ed ero ancora Nana, non la ragazza che aveva pestato
Nobu.
“Non ti scaldare così all’improvviso!
Soprattutto se si
tratta di cibo.”
Era il povero Nobu, maltrattato da me e impossibilitato a esprimere il
suo
dolore per la morte di Ren, dopo Yasu era quello che lo aveva
conosciuto da più
tempo.
“Voglio cantare! Quanto tempo dovrei restare chiusa qui?
Fatemi cantare!”
Quanto potevo essere orribile in quel momento?
L’urna del mio ragazzo era qualche stanza più in
là e non
avevo mai pregato per la sua anima, non gli parlavo con
regolarità come
facevano tutti. Io me ne ero stata zitta, ignoravo
quell’oggetto e ora
proclamavo di voler cantare: un sogno e un desiderio che erano stati un
regalo
di Ren.
Senza di lui non avrei mai saputo di avere quel dono e
sarei ancora a languire al mio paese natale lavorando in una fabbrica o
nel
ristorante di mia nonna se l’avessi mantenuto.
Invece ero a Tokyo grazie a lui.
Hachi ovviamente si alzò, pronta per esaudire il mio
desiderio, fu ancora una volta Nobu a ricondurre tutti alla ragione e
fu Shin a
proporre di andare al karaoke dopo cena.
Fortuna che almeno loro due arginavano i miei capricci.
Andare al karaoke non fu possibile, c’erano troppi
giornalisti interessati alla “vedova” di Ren Honjo
o almeno così disse Miu e
così Nobu prese la sua chitarra e Hachi recuperò
del sakè.
Vedova, una parola dal suono così strano da risultare
quasi pronunciata in una lingua straniera.
Era questo quello che ero in quel sogno?
Ve-do-va?
Hachi cantava con me vecchie canzoni enka, quelle della
mia infanzia, che ascoltava mia nonna, refrattaria alla maggior parte
delle
novità occidentali. Una ragazza cresciuta a pane e musica
tradizionale aveva
finito per diventare una cantante punk. Era strano anche quello.
Shin invece ci guardava e basta, non so cosa passasse
nella sua testa.
Mi giudicava una ragazza frivola, superficiale ed
egoista?
Una donna che non piangeva per il suo uomo e pensava solo
a cantare?
O semplicemente non conosceva queste canzoni essendo
vissuto quasi tutta la vita in Svezia?
Avrei dovuto chiederglielo, come avrei dovuto chiedere
agli altri come si sentivano invece di stare ripiegata su me stessa e
sulla
convinzione che tutto non fosse reale.
A un certo punto arrivò Yasu, probabilmente
scambiò
qualche parola con Miu prima di essere notato dal bassista.
Smettemmo di cantare, Hachi gli andò incontro, io bevevo
a canna da una bottiglia scrutando il pelatino con sguardo
indecifrabile.
“Oh, bentornato, Yasu.”
“Non dovevi passare la notte a casa tua?”
Nobu fece eco alla mia migliore amica.
“Cos’è successo alla tua
faccia?”
Era tipico di Yasu aggirare una domanda con un’altra domanda.
“Nana gli ha dato un pugno.”
Fu Shin a rispondere, Yasu mi guardò, ma io voltai
dall’altra parte, sempre
bevendo dalla bottiglia.
Sentivo che la sua visita sarebbe stata portatrice di
disgrazie, avevo brutti presentimenti.
“Come mai hai cambiato i tuoi piani?
È successo qualcosa?”
“Ho una cosa importante da dire a Nana.”
Lo sapevo, stava per succedere qualcosa di brutto!
Cosa doveva dirmi?
Che forse eravamo stati scaricati dalla Gaia Record?
Che avrei dovuto fare fagotto e andarmene dal dormitorio
e magari anche da Tokyo e tornare in quel piccolo paese di mare dove
tutto era
iniziato e finito?
“Ma possiamo parlarne più tardi, canta per
ora.”
“Allora canto “Funauta” di
nuovo!”
Sempre le stesse enka, come non aveva mancato di far notare Shin, ma
almeno non
pensavo, cantare era abbastanza.
O almeno fu abbastanza per tre canzoni, durante la quarta
entrò in scena un demone travestito da pornostar: la suprema
Yuri Kosaka, la
donna di Nobu.
Non l’avevo mai sopportata, così zuccherosa e
finta mi
faceva venire voglia di vomitare ogni volta che la vedevo e quel
cretino del
mio amico le stava dietro!
Era palese che quella donna era una sostituta di Hachi,
ma lui – da bravo paladino – si era impegnato a
salvarla dalla sua carriera. Il
problema era che a Yuri la sua carriera piaceva dopotutto e quello
della
ragazza imprigionata in un ruolo impostole da altri era solo un
personaggio che
recitava per lui per tenerselo accanto.
Oh, come la odiavo!
“Bentornata a casa, Yuri-chan!”
Vattene, non sei la benvenuta.
Questa è la festa dei Blast e tu non ne fai parte.
“Sono impressionata, Nana-chan.
Riesci a cantare anche se non riesci a parlare.”
Perché Nobu non se la portava via?
Era la sua piaga, non la nostra.
“Allora ti conviene iniziare a lavorare presto, Sugimura
ha detto che vi caccerà tutti fuori a calci se non
lavorate.”
Eccola la perfidia, nascosta dietro al sorriso.
“Quello stronzo! Non esiste che io glielo permetta!”
Urlai fuori di me.
“Oh, stai bene. Quindi non hai più bisogno della
moglie
di Takumi al tuo fianco, no?”
“Asami!”
Nobu reagì troppo tardi, ormai le sue parole mi erano
entrate dentro gelando tutto.
“Non hai più bisogno di lei al tuo
fianco?”
Avevo disperatamente bisogno di Hachi al mio fianco, ma dopotutto lei
non aveva
scelto me, aveva scelto Takumi il giorno in cui aveva deciso di non
abortire e
di far nascere la creatura che cresceva dentro di lei.
La creatura dentro di lei…
Quella pancia mi ricordava che era ancora presente e che
rimanere con me era pericoloso per una donna in gravidanza.
Presto Hachi se ne sarebbe andata, anche lei aveva scelto
Takumi e i Trapnest.
Ricordi del giorno di neve in cui Ren era andato a Tokyo
cominciarono a riaffiorare impietosi, ero la seconda scelta di tutti,
anche lui
aveva scelto Takumi e i Trapnest fino alla fine, per quanto mi fossi
opposta.
Anche quando eravamo tornati insieme non aveva mai smesso
di impegnarsi per salvaguardare l’immagine di quella band di
merda dalle
cazzate di Reira.
La principessa della canzone era come un buco nero che
attirava al suo interno tutto ciò che amavo.
Piccole crepe si aprirono.
Questo non era un sogno, era la realtà.
Ren era morto, mi aveva abbandonata per sempre. I suoi
pesanti anfibi avevano seguito le orme delle scarpe rosse di mia madre
nella
neve. Entrambi erano corsi via da me.
All’improvviso iniziai a tremare e respirare divenne
sempre più difficile, era come avere qualcosa in gola, solo
che non era
tangibile. Mi strozzava, mi faceva rantolare, mentre chiedevo aiuto e
percepivo
il movimento nella stanza sempre più lontano.
Fluttuavo dalle parti degli anelli di Saturno, una
cosmonauta perduta dentro sé stessa.
A un certo punto la gravità della Terra mi attirò
di
nuovo a sé, ero in luogo buio e desolato sul fondo del mare,
un fantasma mi
guardava con un sorriso colmo d’amore. Doveva essere Ren,
quello era il suo
sorriso, ma non riuscivo a vederlo bene.
Alzò un braccio e io riemersi completamente, tutti i veli
erano caduti ora.
Ero nella mia stanza del comprensorio, sdraiata a letto
al buio, la sveglia sul comodino segnava le tre di notte:
l’ora delle streghe e
dei fantasmi.
Hachi era sdraiata accanto a me, sul mio volto si disegnò
un sorriso amaro.
Ren era morto sul serio, non l’avrei più
abbracciato,
baciato o fatto l’amore con lui, non l’avrei mai
sposato e non saremmo mai
tornati nel primo appartamento che avremmo dovuto condividere da vecchi.
Tutto era cenere.
L’unica cosa che mi rimaneva era la musica.
Mi alzai dal letto e andai nella stanza dove c’era
l’altare dedicato al mio ragazzo: era immersa nella luce
della luna.
Mi inginocchiai e recitai le preghiere tradizionali per i
defunti a occhi chiusi, poi li aprii e mi soffermai sul quel sorriso.
“Ren, mi dispiace di essere stata egoista fino alla fine.
Non ho mai pianto per te, nemmeno al funerale, ti ho solo
guardato.
Guardavo le mani che per te erano state tanto preziose da
salvarle fino alla fine e pensavo che l’avevi fatto per Reira
e non per me.
Mi dispiace di averlo pensato, ma io sono arrabbiata.
Mi hai abbandonato come ha fatto mia madre e io non so
cosa fare.
Tutto ciò che mi rimane di te è la chiave del
lucchetto
che ti ho legato al collo e il tuo regalo di compleanno.”
Rimasi un attimo in silenzio, la fotografia ricambiò
inespressiva il mio
sguardo.
“Lo so che c’è una promessa tra di noi,
quella di morire
insieme e so che tu mi hai preceduto e che tocca a me tenervi fede,
ma…
Ren, io voglio cantare ancora.
Tu mi hai dato questo sogno quando ero una ragazzina che
non aveva nulla, puoi concedermi di tenerlo ancora un po’?
Ti prego, concedimi di vivere ancora un po’, poi…
Poi terrò fede alla promessa.”
Le lacrime cominciarono a scendere, ero in attesa di un segno, qualcosa
che mi
facesse capire che Ren mi aveva ascoltata ed era d’accordo
con me.
Se me ne fossi andata ora avrei distrutto i Blast e gli
sforzi di Yasu di farli andare avanti, i sogni di Nobu e
l’unico punto di
riferimento che Shin avesse mai avuto.
Guardavo la foto tra le lacrime, Ren aveva smesso di
sorridere e mi guardava duro.
Non approvava quello che gli avevo detto, mi sentii
gelare dentro per la seconda volta. Ren voleva che io lo seguissi, che
onorassi
la promessa.
Cosa dovevo fare?
All’improvviso senti una mano grande e calda appoggiarsi
sulla mia spalla, riconobbi subito il tocco di Yasu, come Reira lo
avevo usato
per darmi stabilità in passato, ma ora non potevo
più permettermi di farlo.
“Sono felice di vederti qui.”
Disse con la sua voce profonda.
“Cosa dovevi dirmi, Yasu?”
“Una cosa che riguarda te e una che riguarda i
Blast.”
“Dimmi quella che mi riguarda, per favore.”
Lui annuì e si accese una sigaretta.
“La Shikai Corporation e la Gaia Records non vogliono
più
spendere uno yen sulla tua carriera da solista.
Il progetto è stato abbandonato.”
Annuii, me lo aspettavo.
“Per il resto preferirei parlarne anche davanti a Shin e
Nobu, riguarda anche loro.”
“Va bene.”
“Nana, sono felice di averti visto qui.”
ripetè.
Gli rivolsi una mezza specie di ghigno, non riuscivo a sorridere bene
ora che
sapevo che questa era la realtà.
Yasu uscì dalla stanza e io rimasi a guardare la foto di
Ren, in attesa che mi desse un qualche segno positivo, ma rimase
immobile.
Il suo sorriso era congelato nel tempo e si era incrinato
quando gli avevo chiesto di farmi cantare ancora per un po’.
Doveva essere
stanco dei miei capricci persino nell’altro mondo e non
potevo biasimarlo, da
quando ci eravamo rimessi insieme pressati com’eravamo dalla
stampa e dalle
divergenze dei nostri desideri io non avevo mai provato a capirlo.
Non sul serio almeno, solo mezze intenzioni.
Ero stata una pessima fidanzata, anche se avevo la
sensazione che ci fosse qualcosa che mi tenevano nascosto, non era una
scappatella: era qualcos’altro.
Qualcosa di più profondo e che mi avrebbe ferita
più di
una scopata con un’altra.
Rimasi ancora un po’ lì, poi mormorai una
preghiera di
concedo e mi alzai, tornai in camera mia e mi stesi a letto accanto ad
Hachi
che mugugnò qualcosa nel sonno.
La stanza di Nobu era silenziosa, a quest’ora lui e Yuri
di solito tenevano un concerto privato e poco casto, una cosa che mi
irritava
profondamente.
Forse era successo qualcosa tra di loro, sperai che fosse
così, quella donna non era adatta al mio amico: era troppo
possessiva ed
egoista.
Non voleva un ragazzo, voleva uno schiavo da piegare ai
suoi desideri.
Alla fine mi addormentai e finii per ritrovarmi sulla
solita spiaggia, Ren era in acqua immerso fino alla vita, io feci per
avvicinarmi, lui alzò una mano.
Un segno inequivocabile che lui mi voleva lontana da sé,
sentii il cuore frantumarsi e caddi in ginocchio, lo sguardo rivolto
verso
terra.
Quando trovai il coraggio di alzarlo lui era sparito.
Ero completamente da sola.
Angolo di Layla.
Eccoci qui con l'ultima storia che
pubblicherò su EFP, non l'ho ancora finita, ma spero che
pubblicarla possa motivarmi.
Riprende alcune parti della
fiction "Nana, la storia continua" di 7vite con il suo permesso.
Spero vi piaccia.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo secondo ***
Capitolo
secondo.
In quel periodo ero a un passo
dall’esaurimento nervoso.
Ren – il mio
eroe, idolo e amico – era morto e io non
avevo avuto il
tempo di vivere quel
lutto né di processare che lui era
diventato
un drogato senza che
nessuno lo potesse aiutare.
Nana non parlava,
sembrava voler ignorare la faccenda e
aspettare il
ritorno del suo amore
ormai perduto.
Hachi era venuta a
vivere nel comprensorio e i nostri
sentimenti, mai sopiti,
si erano risvegliati con
la violenza di un uragano.
Asami dal conto suo non
faceva che tormentarmi con crisi
di gelosia.
Non ne potevo
più.
-Nobu
“Oh, stai bene. Quindi
non hai più bisogno della moglie
di Takumi al tuo fianco, no?”
Quella frase fece trasalire Nobu, nemmeno gli avessero
tirato un secchio di acqua gelata addosso.
Ora vedeva Asami Matsumoto per la prima volta e ne era
disgustato, non era Nana quella che se ne fregava di tutto, era lei:
Asami.
Lei non sapeva nulla dell’amicizia che legava Nana e
Hachi eppure si era pronunciata con una leggerezza imperdonabile
perché era
gelosa di lui.
Egoismo allo stato puro.
“Asami!”
Disse, scattando in piedi.
“Dov’è? Se n’è
andata finalmente?”
La finta bionda non lo aveva nemmeno sentito, normalmente
non ci avrebbe fatto nemmeno caso – erano tante le persone
che non lo
ascoltavano – questa volta però la misura era
colma.
La prese per un braccio senza alcuna gentilezza.
“Vieni, dobbiamo parlare.”
Il tono gli era uscito più duro di quello che avrebbe
voluto, ma la rabbia ribolliva e non riusciva a contenerla.
Era arrivato il momento di sistemare le cose con la sua
ragazza una volta per tutte, ora come ora non riusciva a sostenere
anche il
carico psicologico dei complessi di Asami, il suo era già
fin troppo pesante.
Uscirono dalla stanza e lui la guidò fino a una camera
vuota accanto alla sala comune, lì la lasciò
libera e chiuse la porta con uno
scatto nervoso.
“Asami, non possiamo andare avanti così!”
Sbottò.
“È per via della moglie di Takumi? O del mio
lavoro che
ti fa schifo?
Sii sincero per una volta nella tua vita!”
“Il problema non è né Nana
né il tuo lavoro, tu sei il problema, Asami!”
La vide impallidire, probabilmente non era la prima volta
che si sentiva rivolgere un’accusa simile.
“Io?”
Nobu sentì del trambusto nella stanza accanto,
lasciò perdere la sua donna e
andò a dare un’occhiata: Nana era stesa terra con
un sacchetto di carta sulle
labbra.
Era in preda a uno dei suoi attacchi e lui sapeva bene
quale fosse stata la causa, tornò nella stanza dove lei lo
aspettava con una
strana espressione sul volto, lui non aveva voglia o tempo di
decifrarla.
“Sarai contenta, Yuri.
Grazie alle tue parole Nana ha avuto un attacco
d’ansia.”
“La moglie di Takumi?”
“No, la mia amica! Quella che tu accusi di non soffrire per
la morte di Ren.”
“Ma…”
“Zitta! Tu non sai niente di Nana o di me.
Nana ha bisogno di Hachi perché è la sua migliore
amica e
la sua unica certezza in questo periodo difficile, quindi ha tutti i
diritti di
stare qui e smettila di usare la sua gravidanza come alibi.
Io sono stanco della tua gelosia e di come ti comporti,
Yuri.
Prima dici che non ti piace il lavoro che fai e fai finta
di non voler stare con me per via dei tuoi film, costringendomi a
trovare una
soluzione.
Ti ho detto che ti avrei mantenuta una volta che il tuo
contratto fosse scaduto e lo volevo fare davvero, perché
credevo di amarti e
credevo che quello fosse il modo migliore di dimostrartelo.
Insomma, così avresti capito che non me ne fregava nulla
del fatto che tu eri una pornostar e che volevo fare sul serio con te.
Ma per te non era abbastanza, vero?
Tu volevi tutto. Volevi me e il lavoro.
Così hai firmato un altro contratto senza dirmi nulla e
mi hai costretto a fare buon viso a cattivo gioco una volta che ho
scoperto
tutto.
Non era ancora abbastanza.
Quando ti sei vista minacciata ti sei attaccata a me fino
a soffocarmi!”
Prese fiato un attimo e si preparò alla stoccata finale.
“Io sono stanco, Yuri.
Non sei la persona che credevo che fossi, non ne posso
più dei tuoi capricci e, a dirla tutta, non ti amo
nemmeno.”
“Mi stai lasciando, Nobu?”
La voce di Asami tremava.
“Sì, ti sto lasciando.
Mi dispiace.”
Lei lo prese per mano.
“Ti prego, non farlo!
Posso cambiare, essere meglio di così.”
Nobu la compatì, probabilmente non era la prima volta che un
uomo la lasciava
per ragioni simili e lei non voleva che accadesse. Il biondo poteva
capirla, ma
non accontentarla: era stanco di farsi mettere la testa sotto i piedi
da tutti.
“No, non puoi cambiare e la ragione è semplice:
questa è
la vera Yuri.
Qualsiasi altro volto mi mostreresti sarebbe una maschera
e io non posso stare con una maschera.
Ho bisogno di una persona vera, mi dis…”
Non finì la frase perché lei gli diede uno
schiaffo.
“È la moglie di Takumi che ami?”
“Non sono più affari tuoi.”
“Sì, hai ragione.
Vuoi sapere una cosa, Nobu?
Sono stata con te solo perché eri il chitarrista di una
band famosa, se fossi stato uno comune non ti avrei nemmeno
guardato.”
Lui le rivolse un sorriso storto.
“Grazie per aver confermato uno dei miei sospetti, adesso
sono sicuro di aver fatto la cosa giusta.”
Lei uscì sbattendo la porta, Nobu uscì poco dopo
e andò
nella sala comune, era rimasto solo Yasu che fumava una delle sue
sigarette.
“Come sta Nana?”
“Si è ripresa
anche questa volta, adesso è con Hachi.
Tu?”
“Io cosa?”
“Hai rotto con Asami?”
“Ah, quello. Sì, ho rotto con lei, non riuscivo
più a sopportare la sua
gelosia.
Non eravamo fatti per stare insieme e poi lei stava con
me solo perché sono il chitarrista dei Blast e sono
abbastanza sicuro che non
lo sarò più per molto.”
Yasu non disse nulla.
“Vado a dormire, è stata una giornata piuttosto
lunga.”
Il batterista annuì, era perso in chissà quali
pensieri.
Nobu era sicuro che non fossero positivi e che qualcosa
di disastroso li stesse aspettando dietro l’angolo.
Sai, Hachi…
Anche dopo che capii che
Ren era morto sul serio
e che non era solo un
sogno il tempo continuò a
rimanere fermo. La
lancetta non riusciva a scattare in
avanti. Potevo solo
cantare contro il volere di Ren
stesso.
La mattina dopo fui la prima a
svegliarmi, Hachi sembrava
così indifesa nel sonno con quella pancia enorme.
Mi chiesi cosa avesse provato mia madre quando era
incinta di me e poi di Misato, mi aveva voluto bene o aveva voluto bene
solo a
mia sorella?
In fondo era lei che aveva scelto di crescere e non me,
io ero quella che era stata lasciata davanti alla stessa porta da cui
la Misuzu
adolescente era uscita per non rientrarci mai più.
Ero stata abbandonata da mia madre e ora anche da Ren.
Mi toccai il tatuaggio, chiusi gli occhi e lottai per non
piangere, non potevo, non ancora.
Ora probabilmente dovevo prepararmi a una guerra per
evitare che la mia band venisse scaricata dalla casa discografica e non
potevo
crogiolarmi nel dolore come avrei voluto.
I Blast erano l’unica cosa che mi rimaneva, lì
potevo
cantare per tutti: i miei amici, Hachi, i fan e Ren.
Lì potevo ancora aiutare qualcuno o almeno così
speravo.
La lettera che Misato mi aveva spedito continuava ad
apparire e sparire nella mia testa, mi indicava la via da seguire,
ormai non ne
avevo un’altra.
“Buongiorno, Nana.
Come stai?”
La voce di Hachi mi riscosse dai miei pensieri.
“Ciao, Hachi. Sto bene, non ti preoccupare.”
“Dove sei andata stanotte? A un certo punto non
c’ero più.”
“Sono andata da… Ren.”
Chiusi gli occhi e abbassai la testa, ma quando li riaprii mi accorsi
che Hachi
stava sorridendo.
“Sono felice che tu ci sia andata.”
Almeno lei non mi giudicava, ma la cosa non mi stupiva, non
lo aveva mai fatto.
Dopo una doccia ed esserci cambiate scendemmo nella sala
dove si pranzava, erano tutti, mancava solo Yuri Kosaka.
Mi sedetti accanto a Nobu, volevo evitare che la mia
amica si sentisse a disagio e mi guardai intorno, stavano tutti
mangiando, solo
io non lo stavo facendo.
“Nobu… Dov’è Yuri
Kosaka?”
“Non lo so.”
Gli rivolsi un’occhiata perplessa.
“Ci siamo lasciati.”
“Capisco.”
Adesso sapevo perché questa notte mi era stato risparmiato
il loro concerto,
iniziai a mangiare anche io, non avevo più nulla da dire per
ora.
Una volta che tutti ebbero finito, Hachi e Miu sparirono
con le stoviglie e lasciarono la mia band da sola, iniziammo a guardare
Yasu
che si accese una sigaretta: quello era il suo modo di iniziare a dare
un
annuncio.
“Ieri ho parlato con la Gaia Records e la Shikai
Corporation, volevano scaricarci, per loro non siamo stati altro che
una
perdita di soldi. Prima Shin e poi Nana, hanno speso più di
quanto hanno
guadagnato.”
“È finita?”
Domandò con voce neutra Shin.
“No, ho convinto Kanemoto e Sugimura a darci
un’ultima
possibilità grazie all’aiuto di Misato e Kawano.
L’idea è quella di fare un concerto per strada
come ai
primi tempi per attirare di nuovo l’attenzione sulla band, ma
prima vogliono
incontrare Nana.”
“Vogliono assicurarsi che io non svenga o mi metta a
piangere durante i concerti?
Non lo farò, non ho tempo per essere triste.”
“Io lo so, ma loro no.”
“Ma almeno ti manca Ren?”
L’urlo esasperato di Shin mi fa voltare verso di lui.
“Certo che mi manca! Mi manca ogni momento adesso che so
che non ritornerà, vorrei poter tornare indietro e dirgli un
sacco di cose, ad
esempio che lo amo.
Ma non si può tornare indietro e adesso non posso nemmeno
piangere o per la band è finita, lo capisci questo?
Ci hanno fatti debuttare solo perché avevano scoperto che
ero la donna di Ren, adesso ci vogliono scaricare perché una
band punk non la
volevano fin dall’inizio.
Ti sembra giusto?
Io devo lottare affinché questo non accada e dovresti
farlo anche tu!
Cosa farai se i Blast dovessero sciogliersi?”
Shin abbassò gli occhi.
“Sì, hai ragione.”
Qualcuno – Yasu – mi appoggiò una mano
sulla spalla.
“Nana, alle nove abbiamo appuntamento con Sugimura e
Kanemoto.”
“Ok.”
Salii di nuovo in camera mia e mi vestii come la ragazza aggressiva che
conoscevano: mini di pelle nera, maglietta di Vivienne Westwood,
maglione,
calze nere tipo autoreggenti.
Mi truccai, sentendomi più che altro come un guerriero
che si prepara alla battaglia, recuperai i miei gioielli e indossai il
mio
cappotto leopardato preferito.
Il batterista alzò un pollice e insieme ce ne andammo,
persa nella mia nebbia non mi ero accorta che marzo stava per finire e
che era
freddo.
“Sei sicura, Nana?”
“Non ho scelta, Yasu.
Lo sai benissimo, che io sia pronta o no non conta nulla,
loro vogliono che io gli porti dei soldi.”
“Non sei obbligata a farlo.”
“Non voglio che la band muoia e poi cosa ne sarebbe di Shin
se la band andasse
a puttane?
Non ha una casa a cui tornare, non ha finito il liceo,
finirebbe per tornare sulla cattiva strada.”
Yasu sorrise.
“Hai perfettamente ragione, sono felice che tu abbia
detto queste parole.”
Io gli sorrisi a mia volta, in quei brevi momenti mi
sembrava davvero di stare meglio.
La verità era che camminavo mano nella mano con un
fantasma e non lo sapevo.
Kanemoto e Sugimura ci aspettavano alla Shikai
Corporation, chiesero come me la stessi cavando per cortesia
più che altro, le
mie risposte non gli interessavano minimamente, mi scrutavano come
rapaci.
Erano alla ricerca di una crepa, un appiglio per farmi
desistere, ma io non avrei offerto il fianco: troppe persone
dipendevano da me
e io non potevo tradirle.
“Allora, Nana. Visto che stai meglio possiamo parlare di
lavoro, giusto?”
Iniziò Kanemoto.
“Sì. Io voglio cantare.”
“È la risposta che ci aspettavamo.”
Continuò Sugimura, in tono falsamente felice.
Nessuno dei due aveva mai voluto una band punk, ci
avevano fatto debuttare perché la trasmissione Morning Seven
aveva forzato loro
la mano.
“Bene.”
“Nana, purtroppo la tua carriera solista è stata
accantonata, ora preferiremmo concentrarci sulla band.”
Non ero ancora abbastanza stabile per tentare una carriera del genere.
“Abbiamo optato per un ritorno alle origini, qualcosa che
torni a farla conoscere a più gente possibile: concerti
all’aperto.
Nei live esprimi al meglio la tua energia e personalità e
siamo convinti che la sia la soluzione migliore: in studio ci sono
ancora dei
problemi, ma dal vivo sono tutti catturati dal tuo carisma.”
Io annuii.
“Per me va bene.”
“Perfetto, tra una settimana vi esibirete. Vi
comunicherò il luogo nei prossimi
giorni, cercate di provare.
Nana, come stai gestendo il lutto?”
“Bene, credo.”
Bugia numero uno.
“Hai avuto ancora degli attacchi di ansia?”
“No.”
Bugia numero due.
“Allora, è tutto a posto.
Dateci dentro.”
Sorridevano entrambi, ma tutti e due continuavano a scrutarmi alla
ricerca di
un qualche segno di debolezza, ormai eravamo zavorra, una band scomoda
di cui
non sapevano come liberarsi.
Li odiavo.
Sai, Nana…
C’è
stato un momento dopo la morte di Ren
In cui credevo che tutto
sarebbe andato bene.
Non sapevo ancora quanto
le tue ferite fossero
profonde e della forza
dei demoni che ti portavi dentro.
Tu eri il mio eroe, non
sapevo fossi fatta di cristallo.
Ero troppo egoista per
notarlo, perdonami se puoi.
Quando mi svegliai quella mattina
avevo l’impressione che
durante la notte fosse successo qualcosa di importante, Nana mi
guardava e i
suoi occhi erano diversi.
Sembrava pienamente consapevole di cosa fosse successo,
non si rifugiava più nella fantasia, ma era piena di dolore.
La patina di
tristezza che a volte scorgevo nel suo sguardo aveva preso il
sopravvento, ma
in fondo brillava una piccola luce e sapevo che Nana vi era
testardamente
avviluppata.
Non so perché mi sentii meglio, non ero sicura di niente,
poteva essere tutto frutto della mia immaginazione, volevo parlare con
lei e
allo stesso tempo temevo di intavolare il discorso.
“Buongiorno, Nana.
Come stai?”
Chiesi con il mio solito tono e il batticuore, speravo che mi dicesse
bene o qualcosa
del genere.
“Ciao,
Hachi. Sto
bene, non ti preoccupare.”
Sospirai internamente di sollievo, forse potevo procedere
con le domande.
“Dove sei andata stanotte? A un certo punto non
c’eri più.”
“Sono andata da… Ren.”
Qualcosa dentro di me esplose di gioia, ringraziai lo
spirito di Ren e sorrisi.
Si stava avviando verso la guarigione, forse.
“Sono felice che tu ci sia andata.”
Lei mi sorrise a sua volta.
Ci facemmo una doccia, prima lei e poi io, e scendemmo a
fare colazione, Yuri non era al nostro tavolo, Nana chiese a Nobu
perché, lui
disse che si erano lasciati a il mio cuore fece una capriola di gioia,
per
quale motivo il mio cuore voleva tenere legato a sé quel
ragazzo quando ormai
ero la moglie di Takumi?
Sapevo di essere egoista, ma non fino a questo punto,
decisi perciò di tenere tutto per me e di seguire il flusso
della situazione e
vedere dove mi avrebbe portato. In fondo il mio matrimonio non era mai
stato
molto saldo e Reira era la priorità di mio marito ora, forse
lo era sempre
stata.
Io e Miu sparecchiammo, lavammo le stoviglie e sparimmo,
Yasu doveva parlare alla band e comprensibilmente voleva un
po’di privacy.
“Io ho un copione da ripassare, tu cosa vuoi fare,
Hachi?”
Mi chiese Miu, sapeva che mi piaceva provare con lei, ero
appassionata di sceneggiati e l’idea mi tentava.
“Adesso vado a fare la spesa, ci vediamo quando
torno.”
Lei guardò il mio ventre.
“Sei sicura di farcela? Non ti starai strapazzando
troppo?
Dopotutto partorirai tra un mese.”
“È tutto ok, vado al supermercato dietro
l’angolo.
Compro giusto un paio di sacchetti di roba.”
La ragazza di Yasu mi sorrise.
“D’accordo, dopo vieni da me. Il copione ti
piacerà da
morire.”
“Non vedo l’ora.”
Lei andò in camera sua, io mi misi il cappotto, controllai
di avere abbastanza
soldi e uscii, era già passato un anno da quando ero
arrivata a Tokyo piena di
sogni. Quasi non ci credevo e non mi capacitavo di come i miei sogni si
fossero
trasformati in incubi.
Dove avevo sbagliato?
Dove si era persa la ragazza che si meravigliava per
tutto e voleva l’amore più di ogni altra cosa?
Forse era solo una maschera a cui io stessa avevo finito
per credere.
Pensavo a questo mentre riempivo il carrello e poi
pagavo: due sacchetti precisi e nemmeno troppo pesanti, ormai avevo
l’occhio
della massaia esperta.
Non appena misi piede fuori dal supermercato un’ombra si
staccò dalla parete, era un uomo e io lo guardai carica
d’odio.
“Kurada! Cosa vuole ancora?
Non ha rovinato abbastanza la vita di Nana?”
“Signora Ichinose, io faccio solo il mio lavoro e non provo
piacere…”
“La smetta! Non mi frega più.
Devo andare.”
Quell’uomo non aveva fatto altro che giocare con me per
sapere il più possibile
su Nana e i Blast, non avrei commesso lo stesso errore due volte.
Una mano si chiuse sul mio polso e io mi voltai.
“Se non mi lascia immediatamente mi metto a urlare.”
“Devo dirle una cosa importante, mi permetta di prendere una
delle borse e di
comunicargliela, poi valuterà lei come agire.”
“Kurada, lei non ha fatto altro che giocare con me,
perché dovrei fidarmi di
lei?”
“Perché vuole bene a Nana e sa che in uno stato
delicato come il suo basta un
niente per farla crollare.”
La serietà nel suo sguardo e la voce ferma fecero
scattare i miei campanelli d’allarme, quell’uomo
non stava scherzando, doveva
esserci qualcosa di grosso che bolliva in pentola, qualcosa che poteva
sconvolgere Nana.
“Va bene.”
Kurada lasciò andare il mio polso e mi fece cenno di
seguirlo, ci infilammo in un piccolo bar, lui ebbe cura di scegliere il
tavolo
più riservato.
“Vuole qualcosa?”
“Un tè e che vada dritto al punto.”
“Va bene.”
Ordinò e poi mi guardò, i suoi occhi erano
diversi da quelli che avevo imparato
a conoscere.
Dopo la morte di Ren vi aleggiava sempre un alone di
tristezza che nascondeva a stento un tormento, mi avevano detto che era
stato lui
a trovare il mio amico ormai morto nelle lamiere accartocciate della
macchina.
Sicuramente era una cosa che segnava dentro.
“Misuzu Uehara vuole parlare con Nana, presto il giornale
pubblicherà questo scoop e lei farà meglio a
preparare psicologicamente la sua
amica.”
“Come lo avete scoperto?”
“Misuzu è venuta a riprendersi Misato qui a Tokyo,
l’ospitava una certa Shion,
un’amica di Yasu.
Uno dei nostri giornalisti ha sentito Shion dire a Yasu
che Misuzu desiderava incontrare sua figlia, con la morte di Ren
è stato tutto
accantonato, ma ora…”
“Ora sarebbe un bello scoop, vero?
Dopo la morte di Ren Nana dovrà affrontare la madre che
l’ha abbandonata a quattro anni.”
“Ha capito al volo e sa che ora Nana non è nello
stato adatto per ricevere una
notizia del genere senza che qualcuno la prepari.”
Io annuì.
La notizia mi aveva scossa, ma non potevo darlo a vedere,
dovevo essere forte per Nana.
Lei mi aveva sostenuta durante i miei stupidi drammi ora
toccava a me aiutarla in questioni molto più serie.
Glielo dovevo.
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Capitolo 3 *** Capitolo terzo ***
Capitolo
terzo
Nana, le nostre
convinzioni sono fatte di cristallo,
basta un niente per
sbriciolarle.
Le nostre percezioni
sono invece gli specchi del
luna-park, distorte da
come le idee filtrano i pensieri.
Avrei voluto capirlo
prima.
Quel giorno arrivai a casa
trafelata, il cuore mi batteva
in modo irregolare, nella mia testa c’era la guerra e Sacchan
scalciava come
una matta.
Corsi subito in cucina e misi via le cose, ma le mani mi
tremarono, mi lasciai sfuggire una confezione da sei di uova che
caddero sul
pavimento con un tonfo sordo.
Ora per terra c’era della carta che sanguinava tuorli e
albumi, solo un uovo era rimasto intero, lo raccolsi e me lo rigirai
tra le
dita.
Miu fu la prima ad accorrere, senza dire niente recuperò
il necessario per pulire e sistemò il casino che avevo
combinato, io invece
guardavo quell’uovo e ripensavo ad altre cose cadute.
Per un attimo per terra avevo visto i cocci dei bicchieri
con le fragole che avevamo nell’appartamento 707, era stato
dopo che Takumi mi
aveva costretta a fare sesso con lui e Nana era scappata via.
Era stata la prima crepa nel nostro rapporto, anzi un
ferita che non si era mai sanata, avevamo ripreso a frequentarci, ma
sapevo che
per Nana l’aver scelto mio marito equivaleva ad averla
abbandonata.
Nana viveva nella costante paura di essere abbandonata
dalle persone che amava per colpa della madre, che l’aveva
lasciata dalla nonna
per sparire nella neve e nel buio oscuro di un rapporto troncato senza
pietà.
La stessa donna che ora la voleva rivedere, dopo diciassette anni di
vuoto
assoluto in cui le aveva dato una sorella senza la
possibilità di saperlo.
Miu mi tolse di mano l’uovo e tornai in me, lo mise nel
frigo e mi guardò.
“Nana, cosa è successo?”
“Ho bisogno di parlare con Yasu.”
Dissi decisa, tra i Blast era quello che conosceva meglio Nana e sapeva
sempre
quale fosse la cosa giusta da fare.
“Yasu non c’è, è andato via
con Nana per parlare con la
Shikai Corporation e la Gaia Records.”
“Merda! Sacchan, smettila di scalciare. La mamma ha bisogno
di pensare.”
“Siediti.”
Miu mi prese per un braccio dolcemente, ma con una certa
autorità e mi condusse nella sala comune, ci avvicinammo e
mi guardò.
“È successo qualcosa?”
“Sì, qualcosa di importante. Volevo parlarne a
Yasu per avere un consiglio,
ma…”
“Riguarda Nana?”
“Sì, come fai a saperlo?”
“Le uniche persone per cui ti agiti a quel modo sono Nana e
Nobu.”
Io abbassai gli occhi: era vero, per mio marito non andavo mai fuori di
testa.
“Chiamami Nobu e Shin, magari riusciamo a decidere
qualcosa anche solo noi quattro.”
Lei annuì ed uscì dalla stanza, mi sdraiai e dopo
qualche minuto mia figlia
smise di scalciare.
Tutto questo stress non le faceva bene, ma preferivo
rimanere qui tra le persone a cui volevo bene che sola nella mia casa
di
Shirogane visto che Takumi era da Reira in pianta stabile.
“Hachi, che succede?”
Shin fu il primo ad entrare, si inginocchiò e mi prese per
mano, Nobu rimase in
piedi per qualche secondo, sibilò un
“fanculo!” e si inginocchiò a sua volta.
“Io sto bene, ma vi devo parlare di una cosa che riguarda
Nana.”
Aiutata da Nobu mi misi a sedere, lui si accomodò accanto a
me, tenendomi per
mano, visto che era libero ora non tratteneva i suoi piccoli gesti
d’affetto.
Shin e Miu si sedettero sulle due poltrone davanti a noi.
Presi fiato.
“Quando sono uscita dal supermercato ho trovato Kurada ad
aspettarmi.”
“Quel bastardo!”
Nobu fece per alzarsi, ma io lo trattenni stringendogli la mano.
“Siamo andati in un bar e mi ha detto che Search ha in
mano uno scoop su Nana: Misuzu Uehara vuole parlare con lei.”
“Come l’hanno scoperto?”
Shin tendeva a rimanere freddo per poter riflettere meglio.
“Poco prima della morte di Ren Misato è scappata
di casa,
è venuta a Tokyo. A quanto pare Shion, un’amica di
Yasu, l’ha ritrovata e
ospitata per un paio di giorni o qualcosa del genere.”
“Sì, è vero. Io c’ero quando
Shion ha chiamato per dire che aveva trovato
Misato, Yasu ha lasciato tutto nelle sue mani ed è finita
bene, no?
La sorella di Nana è tornata a casa.”
Io annuii.
“Sì, ma a quanto pare c’era qualcuno che
seguiva Shion o
Yasu. Hanno sentito Shion che diceva che Misuzu voleva rivedere
Nana.”
Sulla sala calò il silenzio.
“Dopo tutto questo tempo?”
Il tono di Nobu era flebile.
“A quanto pare. Dobbiamo dirlo a Nana, leggerlo sui
giornali ora potrebbe compromettere la sua guarigione.”
Miu e Nobu annuirono, Shin guardava lontano.
“Non lo so. Quando hanno pubblicato l’articolo su
Misuzu
e Misato non ha reagito male come ci aspettavamo, sembrava non gliene
fregasse
niente.”
“Sembrava, Shin. Magari ha voluto recitare la parte della
donna forte, a lei
non piace mostrarsi debole e poi era una situazione diversa.”
“Sì, hai ragione. Dobbiamo dirglielo.”
Disse piano il bassista e rimanemmo tutti qualche secondo
in silenzio.
Ognuno si lambiccava a cercare le parole giuste e la
situazione ideale, ma erano sforzi inutili, alla fine di quei secondi
si levò
la voce di Nana.
“Dirmi che cosa?”
Sobbalzammo tutti, lei era entrata nella stanza seguita da Yasu.
Qualcosa nell’espressione del batterista mi fece capire
che lui aveva intuito che stava per succedere qualcosa di spiacevole. A
chi
toccava dirglielo?
A me.
Io ero stata quella a cui Kurada aveva affidato il
messaggio e che si era detta che con la maternità avrebbe
dovuto diventare
forte. Non potevo essere la solita ragazza egoista e svagata con una
creatura
in grembo.
Deglutii.
“Nana, siediti, per favore.”
Lei mi ubbidii guardandomi leggermente perplessa dal mio tono
autoritario.
“Cosa succede, Hachi?
È tornato Takumi? Sacchan non sta bene?”
Io scossi la testa.
“Nana, c’è una cosa che devi sapere.
Presto i giornali pubblicheranno un articolo che ti
riguarda, quindi cerca di sfruttare questa attenzione mediatica come
meglio
credi.”
Che bell’inizio di merda!
“Cosa diranno?”
Deglutii di nuovo, non c’era modo di indorare una pillola del
genere e se c’era
io non lo conoscevo.
“Nana, tua madre… Tua madre vuole
vederti.”
I suoi occhi andarono fuori fuoco per un attimo, sembro impallidire e
per una
frazione di secondo sembro ripiegarsi su sé stessa, come un
pugile dopo un
attacco andato a segno.
Poi tornò la solita Nana, con la sua maschera di
indifferenza.
“Vuole vedermi ora, come mai?”
“Non ne ho la più pallida idea. Forse il fatto che
Misato sia scappata di casa
l’ha scossa e le ha fatto decidere di provare a ricucire i
rapporti con te.”
Lei scoppiò in una risata priva di allegria.
“Dopo diciassette anni?
Non ho più bisogno di lei ora, avevo bisogno di lei da
bambina o quando la nonna è morta, ma ora?”
Scosse la testa.
“Ora lei non mi serve più, me la so cavare da sola.
Io devo dirvi una cosa piuttosto.”
Prese fiato e fissò Nobu e Shin negli occhi con
un’intensità quasi spaventosa.
“I capi ci hanno dato una sola possibilità per
evitare di
essere cacciati fuori a calci in culo: un concerto live come agli
inizi. Ci
comunicheranno nei prossimi giorni la data, quindi dobbiamo provare.
Ve la sentite?”
“Certo, Nana, ma…”
“Ma cosa, Nobu?”
“Sei sicura che vada tutto bene?”
“Certo. Non ho nessuna intenzione di incontrare quella
donna.”
Sorrise o almeno ci provò dato che le riuscì solo
una
mezza smorfia.
“Vado in camera mia a riposare, queste riunioni mi
stancano. Ci vediamo a pranzo.”
Lasciò la stanza a passo di marcia.
Ci guardammo tutti negli occhi, Nana stava male e ancora
una volta ci aveva tagliati fuori dal suo dolore.
Se non affronti il passato esso
tornerà a morderti ogni
volta
che abbasserai la
guardia.
Imparerò mai
questa lezione, Hachi?
E così dopo diciassette
anni il momento che più avevo
desiderato durante la mia infanzia e adolescenza era arrivato: mia
madre mi
stava dando attenzione.
Mia madre voleva vedermi, parlarmi, magari spiegarmi
perché in un gelido giorno d’inverno mi aveva
lasciata alla porta della madre
che detestava, reiterando un circolo vizioso di rabbia e odio.
Avevo voluto bene alla nonna, ma lo avevo capito solo
quando era morta, quando era viva non la sopportavo per il suo essere
così
severa, la consideravo una vecchia terribile.
Raggiunsi la mia camera e mi buttai sul letto, i ricordi
ruotavano nella mia testa insieme alla neve: qualche sbiadito ricordo
di me e
mia madre, l’abbandono, la nonna, il suo funerale, la neve
onnipresente in
quella piccola città.
Sembrava che ogni volta che raggiungessi delle certezze
un dio maligno decidesse di sradicarle, ma questa volta non avrei
ceduto.
No, questa volta non mi sarei fatta toccare dagli eventi.
Mia madre voleva vedermi, io no e non l’avrei fatto, mi
sarei concentrata solo sul concerto e poi su quello che ne sarebbe
seguito.
Il mio cervello aveva deciso così, ma il mio cuore la
pensava diversamente.
La domanda che continuava a urlarmi era: cosa voleva
dirmi Misuzu?
Era come un mantra e ogni volta partivano immagini
diverse: scusarsi, darmi spiegazioni, dirmi di stare fuori dalla sua
vita e da
quella di Misato, abbracciarmi, dirmi chi era mio padre,
perché non mi aveva
ripresa con sé quando si era sposata con Uehara.
Le possibilità erano infinite e mi stava venendo mal di
testa, mi accorsi di essermi rannicchiata con le mani sulle orecchie,
una
bambina che vuole buttare fuori il mondo dalle sue percezioni. Il mondo
però
era ostinato e lottava per rientrare, un artiglio invisibile mi stava
afferrando la gola, impedendomi di respirare.
No!
Urlai con tutte le mie forze.
No!
Non volevo un altro attacco di panico, volevo solo
dormire e dimenticare tutto per un po’, ero stanca di
affrontare demoni.
Ren rideva in un angolo della stanza, a ricordarmi della
promessa che non avevo mantenuto
Alla fine la tensione ebbe la meglio, mi spedì in un
luogo buio, spazioso e freddo, molti lo avrebbero definito cupo, ma per
me era
rilassante.
Quando mi svegliai notai Yasu seduto alla scrivania,
fumava una sigaretta con espressione impenetrabile.
“Buongiorno.”
La mia voce era roca.
“Ciao,
Nana.”
Ero quasi sicura che mi stesse scrutando al di là delle
lenti, mi chiesi cosa
vedesse.
“Sei sicura di voler tentare di fare un concerto?”
“Certo che sì. Che ti prende?”
“La notizia di tua madre ti ha sconvolta più di
quanto vorresti dare a vedere,
quanto vicina sei stata ad avere un attacco di panico?”
“Ha davvero importanza, Yasu?
Abbiamo solo una possibilità e non sarò io a
mandarla a
fanculo per via … Lo sai.”
“Posso provare a parlare con la casa discografica e
vedere se riesco ad avere un altro po’ di tempo.”
Scossi la testa, entrambi sapevamo che era impossibile.
“Nana, non ce la puoi fare in questa cosa da sola.”
“Cosa vuoi dire?”
“Non riesci a tenerla sotto controllo ed è
comprensibile, dato tutto quello che
ha passato, hai bisogno di qualcuno che ti aiuti. In modo professionale.
Dovresti andare almeno da uno psicologo.”
“Cosa? Sei impazzito?
Raccontare i cazzi miei a un estraneo? Non ci penso
nemmeno!”
“Nana!”
Fulminai Yasu, si era acceso un fuoco dentro di me:
rabbia mista a dolore, frustrazione e altri sentimenti a cui non
riuscivo a
dare un nome da tanto bruciavano.
“È così, dunque?
La povera Nana è impazzita, è diventata matta e
io non
voglio averci a che fare.
Nessuno vuole, diamola a uno strizzacervelli, magari ci
fa il piacere di ficcarla in manicomio e noi non dovremo
più…”
Non finii la frase perché il mio amico mi diede uno
schiaffo, non forte, ma sufficiente a spegnere il fuoco e a farmi
tornare in
me.
Mi sedetti sul letto e mi presi la testa tra le mani, non
mi ero nemmeno accorta di essermi alzata.
“Grazie.”
Mormorai a bassa voce.
“Non c’è problema. Nana, promettimi che
ci penserai.
Chiedere aiuto non significa essere deboli o pazzi,
significa ammettere con sé stessi che si è in una
situazione che non riusciamo
più a fronteggiare. Nessuno vuole abbandonarti o sbatterti
in un manicomio,
solo non sappiamo più come aiutarti in modo
efficace.”
Respirai profondamente e mi accesi una sigaretta.
“Non ho tempo adesso, Yasu. Ora tutto quello che conta
è
il concerto, poi potrò andare dallo strizzacervelli e anche
dal cavadenti e dal
segaossa, persino da un bonzo se questo pensi che mi aiuterà.
Adesso ho un solo obbiettivo e devo concentrarmi su
quello.”
Diedi una boccata alla sigaretta.
“Vedo Ren negli angoli delle stanze, è arrabbiato
con me
perché non ho mantenuto la promessa: non sono morta con lui.
Come faccio a …”
La mia voce si perse in un brusio indistinto, Ren era davanti a me con
una mano
tesa, prenderla avrebbe significato seguirlo nel regno dei morti e io
non ero
ancora pronta.
Volevo vivere ancora un po’, sebbene sapessi che la mia
esistenza non era giusta, era quella di un’egoista che non
rispettava patti e
promesse.
In quei momenti avrei voluto essere morta, solo il
pensiero di Hachi mi impediva di salire sul tetto e volare da Ren.
Lei aveva salvato la vita a una randagia come me che,
della vita, non sapeva cosa farsene.
Ero sempre stata egoista.
Me lo avevano detto
tutti, da Shin a Takumi,
eppure non riuscivo a
cambiare, nemmeno dopo la morte di
Ren.
Ero persino peggiorata,
credendo che fosse stata tutta colpa
mia.
Io volevo distruggere
tutto quello che aveva Takumi e
avevo
finito per trascinare
Ren con me.
Non meritavo di vivere.
-Reira
Da
dopo la morte
di Ren la mia vita mi sembrava priva di valore, peggio ancora sembrava
che
finissi per distruggere ogni persona che incontrassi.
Il ritmo regolare del mio cuore monitorato mi aiutava a
pensare, non ero più tornata a Tokyo da quella giornata
fatale, ero rimasta nel
mio paese natale a casa di mia madre. Lei pensava fosse una cosa
temporanea,
come sempre aveva poco tempo da dedicarmi, ma si sbagliava.
Lo capì quando lentamente smisi di mangiare, preoccupata
aveva chiamato Takumi e insieme avevano discusso di un mio ricovero. E
così ero
finita qui a contare i miei peccati.
Shin.
Avevo fatto innamorare quel ragazzino, ingannandolo e
ingannando me stessa credendo di amarlo a mia volta. Lui era stato solo
uno
riempitivo, qualcuno da cui avere sesso, affetto e a cui succhiare la
vita fino
a lasciarlo a un guscio vuoto.
Mi aveva chiamata donna egoista e aveva ragione, aveva
anche detto che sarebbe tornato da me quando sarebbe maturato, lui ci
credeva,
ma io sapevo che non sarebbe successo.
Una volta che il manto luminoso del primo amore mi
sarebbe caduto dalle spalle si sarebbe reso conto dei miei giochi da
bambina mai
cresciuta, che sta con un altro per infastidire l‘oggetto del
suo interesse.
Ren.
Avevo sfruttato la sua gentilezza per avere un confidente
che mi compatisse, gli avevo raccontato tutto, ma non lo avevo lasciato
parlare
troppo di sé stesso. E poi sapevo della droga, ero stata una
delle prime a
saperlo e cosa avevo fatto?
Invece di mettere da parte il mio orgoglio e la mia
rivalità e correre da Nana avevo creduto alle promesse che
ogni drogato fa: che
ne sarebbe uscito da solo.
La compassione e la paura di affrontare le conseguenze mi
avevano paralizzato e quando Takumi lo aveva saputo era stato troppo
tardi. Ero
doppiamente colpevole, oltre ad avere taciuto convenientemente ero
scappata per
permettere a Ren di curarsi. Nella mia testa le intenzioni erano buone
–
scappare, dare una notizia ai giornalisti che li distraesse da lui e
dargli il
tempo di disintossicarsi – nella realtà avevano
causato il peggiore dei
disastri. Ren era venuto a cercarmi sotto l’effetto della
droga ed era morto,
era diventato come Takumi – ossessionato dal proteggere il
castello, i Trapnest
– e non capivo perché. Forse le cose con Nana non
andavano bene, forse si
sentiva in colpa per avere causato guai alla band, forse cercava di
ripagare un
inesistente debito sacrificando tutto quello che aveva.
Perché lo aveva fatto?
Se io fossi rimasta a Tokyo come ogni persona matura lui
sarebbe ancora vivo?
Una lacrima solitaria mi attraversò la guancia e cadde
sulle mie mani pallide e troppo magre.
C’era qualcosa che potessi fare ora?
Potevo riprendere a mangiare e togliere almeno una
preoccupazione a Takumi, lui continuava a venire da me quando avrebbe
dovuto
stare con sua moglie. Hachi era incinta e aveva più bisogno
di Takumi di me, ma
saperlo al mio capezzale mi dava un piacere perverso, come sempre
l’avevo avuto
tutto per me.
Non mi avrebbe mai baciata o considerata come una donna
da desiderare, ma mi bastava averlo lì, se fosse rimasto
abbastanza forse
avrebbe cambiato idea. Fantasticavo su di lui che mollava Hachi e
finalmente
diventava il mio uomo, non mi importava nulla di quella nuova vita, che
se
prendesse cura Nobu.
Non era Nobu quello che amava Hachi?
Ero egoista.
Terribilmente egoista.
Non mi ero trattenuta nemmeno quando avevo incontrato
Nana e le avevo detto che era tutta colpa mia se Ren era morto, sebbene
fosse
solo un misero tentativo di lavarsi la coscienza, per fortuna Shin mi
aveva
trascinata via, impedendomi di fare altri danni.
La porta si aprì, Naoki entrò per primo
sorridendo come
suo solito e dietro di lui c’era Takumi con aria tormentata:
sembrava un uomo
sulla graticola.
“Ciao, Reira! Come stai?”
Sorrisi debolmente all’entusiasmo del batterista biondo,
guardai il mio amore.
Lui mi rivolse uno sguardo indagatore, stava controllando
l’eccessiva magrezza del mio corpo e il mio stato mentale.
“Sto bene.”
“Hai mangiato?”
Non risposi alla domanda del chitarrista ed entrambi
capirono che anche per oggi la flebo era l’unico modo in cui
ero stata nutrita.
Ogni giorno mi dicevo che avrei mangiato qualcosa, in modo da dare
prova di
stare meglio e di essere sulla via della guarigione.
Ogni giorno quando l’infermiera arrivava con il vassoio
dei pasti il mio stomaco si chiudeva e venivo presa da una violenta
nausea,
così finivo per scuotere la testa e il vassoio rimaneva
intatto.
Era tutta una questione psicologica ovviamente, ma i
medici non mi dicevano nulla.
“Perché, Reira?”
La voce di Takumi uscì stanca, un soffio di vita
sconfitta.
“Mi viene la nausea quando lo vedo, mi si chiude lo
stomaco.”
“Non è colpa tua se Ren è morto, sono
stato io a non aver notato prima come
stava.”
Mi rispose meccanicamente, io abbassai gli occhi.
Trattenevo nel mio cuore il segreto che mi tormentava,
non gli avrei mai detto che ero stata io la prima a sapere della
tossicodipendenza di Ren e che avevo taciuto.
“Non avrei dovuto andarmene.”
“Non potevi sapere che ti avrebbe seguito e che anche lui era
ossessionato dai
Trapnest almeno quanto me.”
Questi discorsi erano stati fatti e rifatti almeno un
milione di volte, erano sempre gli stessi, giusto con qualche leggera
variazione di parole.
Erano inutili e lo sapevamo entrambi, ma rimanere in
silenzio era peggio, venivamo tutti schiacciati dal peso dei nostri
errori,
solo Naoki ne era immune. Un po’ lo invidiavo, lui aveva
vissuto solo il lato
positivo della fama ed era riuscito in qualche modo a tenersi fuori da
tutti gli
oscuri segreti e le trame di potere.
Qualcuno bussò deciso alla porta della mia camera, chi
poteva essere?
Non Yasu, lui non bussava mai e comunque era a Tokyo per
cercare di salvare i Black Stone.
“Avanti.”
Un uomo alto e segaligno in camice bianco entrò, era il
primo medico che voleva
parare direttamente con me senza passare prima per Takumi.
“La signorina Reira Serizawa?”
“Sono io.”
“Devo parlarle di una cosa.”
Takumi si alzò di scatto.
“L’accordo era che prima di dire qualsiasi cosa
alla
signorina Serizawa dovevate parlarne con me.”
L’uomo gli rivolse uno sguardo freddo, come Takumi non
amava che qualcuno mettesse in discussione cosa fare o la sua
autorità.
“Questa cosa riguarda solo la signorina Serizawa.”
Guardò me e mi sentii trapassare da quegli occhi scuri,
disapprovava apertamente che mi trattassero come una principessa.
“Signorina Serizawa, dalle ultime analisi è emerso
qualcosa di sorprendente, mi chiedo come non sia stato notato
prima.”
“È un tumore?”
Chiesi con la voce incrinata.
“No, lei è incinta, signorina.”
Mi sentii venire meno.
“Cosa?”
“Lei aspetta un bambino, un maschio così sembra,
ed è al
quarto mese. Ciò significa che non può
più abortire.”
Mi sentii come se qualcuno avesse risucchiato tutta l’aria
dalla stanza, cosa
avrei fatto adesso?
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Capitolo 4 *** Capitolo quarto ***
Capitolo
quarto.
Non avevo mai pensato di
diventare madre.
Mai. Nemmeno da bambina.
Non avrei mai creduto
che lo sarei diventata e
avevo accantonato quella
possibilità tra quelle assurde,
vicino al mostro di
Lockness e di fronte all’araba
fenice.
Ora invece la
possibilità impossibile si era verificata e
io
non sapevo cosa fare,
sapevo solo che odiavo quella
creatura.
-Reira
Nella stanza il silenzio era
talmente pesante che si
poteva tagliare con il coltello.
Il medico osservò me, poi Takumi e Naoki e infine di
nuovo me, non gli piacevo e glielo si leggeva negli occhi.
“Immagino avrete molto di cui discutere, vi lascio da
soli.”
L’uomo uscì e potevo quasi sentire i suoi
pensieri: “Lei è un’ottima cantante,
signorina Serizawa, ma un pessimo essere umano.”
Eravamo rimasti noi tre, gli occhi di Takumi si erano
fatti piccoli e ostili, nel suo cervello stava sicuramente analizzando
ogni
possibilità.
Probabilmente si stava domandando se fosse suo, dato che
una volta eravamo stati a letto insieme.
“Naoki, vai.”
Disse a voce bassa.
“Ma perché? Siamo una famiglia, no?”
“Vai via!”
Abbaiò facendo trasalire il batterista.
“Va bene, io vado.”
Uscì dalla stanza lanciando occhiate perplesse, come se non
afferrasse la
situazione.
“Finalmente soli. Dimmi, è d Shin?”
Feci un rapido calcolo.
“Sì, penso di sì.”
“Merda, è escluso che possiamo
dirglielo.”
Sgranai gli occhi, lasciando che la notizia penetrasse dentro di me.
Ero incinta.
Il frutto dell’amore tra me e Shin mi cresceva dentro e
io… Io non lo volevo. Quella nuova vita era estranea e
ostile, mi avrebbe separato
per sempre dalla remota possibilità di rivederlo.
“Non lo voglio.”
Mormorai.
“Cosa?”
“Ho detto che non lo voglio! Non sono pronta a fare la madre
e quel bambino mi
impedirebbe per sempre di provare ad avere una storia con
Shin!”
Perché Shin non doveva sapere della sua esistenza o
altrimenti tutti avrebbero
capito che io e lui avevamo avuto una storia quando lui era ancora
minorenne.
La sua carriera di attore sarebbe finita ancora prima di decollare e io
rischiavo di avere la mia distrutta che riprendessi a cantare o no.
“È troppo tardi, l’hai sentito il
dottore.”
E lo maledissi quell’uomo.
“Cosa possiamo fare?”
“Lo riconoscerò come mio. Questo mi renerebbe uno
stronzo agli occhi
dell’opinione pubblica, ma almeno salverebbe te.”
Io sbattei le palpebre sconcertata.
“E Hachi? Vostro figlio o figlia?”
“Lei accetterà tutto e il bambino avrà
un fratello o una sorella con cui
giocare.”
Lo disse con un tono duro, gli occhi erano freddi, sembrava un lupo e
mi fece
paura, nonostante lo amassi da una vita.
“Ma non è una decisione che puoi prendere
così su due
piedi e per tutti e due. Parlane con lei almeno.”
“Al momento a mia moglie interessa solo Nana, tanto che non
credo si curi molto
nemmeno del bambino o bambina. E poi cosa dovrei dire ad Hachi?
Che riconoscerò il figlio tuo e di Shin?
È troppo amica di Shin per non farselo scappare e lui non
lo deve sapere, su questo siamo d’accordo, vero?”
“Sì.”
Mormorai spossata.
“Reira, mangia.
Se non vuoi farlo per te, fallo per tuo figlio o figlia.”
“Io lo odio!”
Urlai con tutta me stessa.
“Lo odi anche se è di Shin?”
“Lo odio soprattutto perché è di Shin!
A causa sua non potrò mai più rivederlo
o tentare di avere una storia con lui, avrei preferito che fosse
tuo.”
“Ne abbiamo già parlato, tu per me sei troppo
speciale per essere solo
un’amante.”
“E io ti ho già risposto che non mi importa, mi va
bene che mi ami in qualsiasi
forma, fosse anche qualche sporadica scopata.”
Lui batté il pugno su comodino, facendomi sobbalzare.
“Smettila di essere così egoista, Reira.
È ora di
crescere su serio visto che, ti piaccia o no, diventerai madre.
Non credi sia ora di smetterla con le cotte adolescenziali?”
lo guardai negli occhi ferma e decisa.
“Non è mai stata una cotta adolescenziale, ma tu
non hai
mai capito un cazzo. Tu in me vedevi la principessa del canto anche
allora, non
Reira.
Beh, io questo dono di Dio lo odio e adesso vattene, ho
bisogno di riposare.”
“Reira…”
Tentò di insistere Takumi, io alzai per la prima volta la
voce da dopo la morte di Ren.
“Vattene via!”
Lui sospirò, si alzò dalla sedia e
uscì dalla stanza: per
una volta ero felice che se andasse.
Sapevo che aveva manie di controllo e forse sapevo anche
perché: sua madre era morta, suo padre era un ubriacone e
sua sorella era
rimasta incinta troppo presto. Erano cambiamenti difficili da accettare
per un
ragazzino, era ovvio che da adulto volesse avere sempre il controllo
della
situazione ma non poteva decidere per me.
Perché dovevo permettergli di riconoscere il bambino e di
rovinare la sua famiglia?
Non aveva senso, una volta nato lo avrei dato in adozione
e qualcuno si sarebbe occupato di lui e io avrei potuto fare finta che
non
fosse mai esistito.
Dovevo solo dirlo a Takumi ed era la parte più difficile,
finivo per fare sempre quello che decideva lui perché lo
amavo. Avrei dovuto
smetterlo di farlo!
Forse sarei riuscita a costruire una vita che mi piacesse
sul serio e a non essere incastrata nel sogno che lui aveva creato per
me. I
Trapnest erano diventati un incubo che mi aveva fatto odiare la mia
voce, ero
maledetta da una benedizione.
Ero finita di nuovo a pensare a me quando era del bambino
di cui dovevo occuparmi, una vocina mi chiese se davvero volevo essere
così
spietata e consegnarlo nelle mani di una coppia di estranei.
Il fatto è che non riuscivo a sentire nessun legame con
questa vita che stava crescendo dentro di me, era un’erbaccia
da estirpare.
Se avessi continuato a non mangiare forse sarebbe morto e
la faccenda si sarebbe conclusa, soppesai questa ipotesi e mi
sembrò quella
migliore.
Non ci sarebbero stati scontri con Takumi e ai miei sensi
di colpa ci avrei pensato io a costo di farmi suora per espiare i miei
peccati.
Era una decisione egoista, ma io non potevo essere
nessun’altra
tranne me stessa.
Un' egoista.
Nana, la tragedia era vicina al
suo culmine,
perché non lo
notai? Perché mi sembrava che
tutto andasse bene? Ti
eri messa una maschera
o te l’avevo
messa io per non vedere?
Ero così
presa dal vostro concerto imminente che
certe volte mi
dimenticavo di essere incinta.
I giorni tra la proposta della
casa discografica e i tre
prima del concerto passarono come un turbine colorato, tutti erano
concentrati
sulla musica, sorridevano perfino e mi sembravano felici.
Probabilmente finché suonavano erano in una bolla di
felicità data dalla musica e cercavano di starci il
più possibile, anche Nana
sembrava migliorare, solo ogni tanto i suoi occhi andavano fuori fuoco.
Potevano farcela, me lo sentivo, e se Nana avesse
continuato a cantare tutto sarebbe andato bene perché Ren
sarebbe stato felice
di sentirla dall’aldilà.
Continuavo a rimanere nel comprensorio con grande rabbia
di Yuri che non faceva altro che lanciami occhiatacce e venirmi addosso
di
proposito. Tra me e Nobu non c’era stato più
nulla, le prove erano la priorità
di tutti ora e ne ero felice.
Tre giorni prima del concerto mi svegliai di buon ora,
Nana non dormiva più con me, anche questo era un
miglioramento, e mi feci una
lunga doccia. Mi vestii con cura e scesi nella sala comune,
c’era solo Yasu che
mi sorrise.
“Dove vai così presto, Hachi?”
“Devo fare un’ecografia, oggi saprò
finalmente se è un maschio o una femmina.”
“Vuoi che ti accompagni?”
Scossi la testa.
“È tutto a posto, mi accompagna Junko.”
“Bene. Scusa se ti trascuriamo.”
“Non c’è problema.”
Risposi sorridendo.
“Voi dovete pensare al concerto e io sono probabilmente
d’intralcio.”
“Non è vero, senza di te Nana non si sarebbe mai
ripresa, ti sono estremamente
grato per essere venuta.”
“Forse il mio è solo egoismo.”
Dissi, iniziando a preparare la colazione.
“Forse mi piace di più stare qui che in una casa
vuota,
Takumi è ancora da Reira, forse avrebbe dovuto sposare
lei.”
Yasu non rispose, la colazione era pronta: riso, zuppa di miso con del
tofu e
delle cipolle, del bacon e un uovo.
“Reira di sicuro lo preferirebbe, ma Takumi ha sempre
detto di considerarla solo come una sorella.”
“Già.”
Finii di mangiare e lavai le stoviglie, poi uscii, il sole non era
sorto da
molto e c’era un’atmosfera surreale di calma
estrema. Non potevo continuare a
dipendere da Takumi, Kyusuke o Jun, dovevo fare la patente e comprarmi
una
macchina, mi dissi, ma sapevo che una volta partorito non ne avrei
avuto il
tempo.
Una macchina si fermò vicino al comprensorio e il volto
sorridente di Junko fece capolino dal finestrino, io sorrisi, contenta
che
avesse deciso di accompagnarmi.
“Buongiorno, Nana!”
“Ciao, Jun!”
Salii in macchina e mi allacciai la cintura di sicurezza.
“Grazie per essere venuta.”
“Non potevo certo lasciarti prendere i mezzi, ti stai
trascurando abbastanza
ultimamente.”
“Jun, non mi sto trascurando.”
Lei sbuffò.
“Hai solo altre priorità, il che è come
trascurarsi e
dove è Takumi in tutto questo?”
“Da Reira, lei non mangia, ha bisogno di lui.”
“E tu no? Non hai bisogno di Takumi, il padre della tu
creatura?”
“Io ce la posso fare da sola.”
La mia amica mi guardò dritta negli occhi.
“Perché state insieme?”
Io non risposi perché non c’era niente da dire,
non ci amavamo e tenevamo tutti
e due di più ad altre persone.
Takumi teneva a Reira, io a Nana e Nobu, l’unico motivo
per cui stavamo ancora insieme era il bambino che cresceva nella mia
pancia e
lo sapevamo entrambi.
Non era un buon marito, ma sperai che sarebbe stato un
buon padre per Satsuki, la mia felicità poteva finire in
secondo piano come
sempre.
“Nana, perché non lo lasci e non vai dai tuoi o
dai a
Nobu una possibilità?”
“Takumi è in grado di mantenerci e se tornassi dai
miei
gli spezzerei solo il cuore, una figlia separata e incinta darebbe
adito a
troppe chiacchiere.”
“Ma tu non sei felice.”
Io scossi le spalle, io avevo preso una decisione scegliendo Takumi e
io dovevo
portarla fino in fondo, dovevo essere adulta e responsabile per una
volta. Questa
volta non c’era Nana a sostenermi, dovevo contare solo sulle
mie forze.
“Sei sicura di quello che fai?”
“Sono sicura che sarà un buon padre e questo
basta.”
Junko tacque, probabilmente pensava che stessi sbagliando, attaccandomi
ancora
una volta a un uomo che non era quello giusto per me.
“L’unico con cui ti ho vista davvero felice
è stato
Nobu.”
“E io lo amo, ma Takumi è quello più
adatto per crescere il bambino.”
“E come? È sempre da Reira.”
“Le cose cambieranno.”
Pensavano sarebbero cambiate in meglio, ancora non sapevo quanto mi
sbagliassi.
Arrivammo all’ospedale, Junko parcheggiò e mi
accompagnò
in reparto, c’erano altre coppie in attesa per
un’ecografia, il padre era presente in tutti i
casi.
Qualche minuto dopo un’infermiera si affacciò da
una
porta.
“Ichinose Nana?”
Chiamò e io mi alzai insieme alla mia amica.
Entrammo e una dottoressa sui trent’anni mi sorrise
amichevole.
“Il signor Ichinose?”
“Non c’è, è via per impegni
di lavoro.”
“Capisco, ma è un vero peccato. Oggi potremmo
scoprire se si tratta di un bambino
o di una bambina, si stenda sul lettino, prego.”
Feci quello che mi fu detto dopo aver dato il mio cappotto e la borsa a
Jun,
alzai la camicia fino a che la mia pancia non fu bella in vista. La
dottoressa
spalmò del gel e cominciò a muovere
l’oggetto per radiografare su e giù lungo
la mia pancia. Il battito del cuore del bambino mi lasciò
senza fiato come
tutte le volte, amavo quella creatura in modo viscerale.
La donna rimase in silenzio per un po’, poi
cominciò a
indicarmi le varie parti con voce dolce.
“Il bambino sta bene, i parametri sono nella norma, forse
è leggermente stressato, ma non è nulla di
preoccupante.”
“È un maschio?”
“In verità non lo so, la posizione in cui
è messo non permette di determinare
il sesso.
Sembra che sia timido o forse ama le sorprese, in ogni
caso è in buona salute.”
La donna rimosse il congegno e il cuore cessò di battere, ma
sapere che stesse
bene mi rese felice, almeno una cosa stava andando bene.
Mi pulii e mi riallacciai la camicia, poi mi rimisi il
cappotto, la dottoressa mi diede i risultati dell’ecografia.
“Si riguardi, signora Ichinose.”
“Certamente.”
Uscimmo e mi stiracchiai, mi era tornato il buon umore.
“Jun, ti va se andiamo a bere qualcosa in un bar?”
“Certo, ma non dovresti chiamare Takumi?”
“Lo farò dopo, non c’è
fretta.”
Lei scosse la testa.
Sapevo che chiamare mio marito era la cosa giusta da
fare, ma volevo tenermi quella gioia ancora un po’ solo per
me.
Quando Shion mi disse che dovevo
impegnarmi per
far felice Takahiro
accettai, certa nel mio cuore che
fosse
la cosa giusta, eppure
un istinto più forte di qualsiasi
decisione
razionale mi spingeva ad
andarmene via.
Quello non era il mio
posto, dovevo cercarlo altrove.
-Misato Uehara
Il mio ritorno a casa fu accolto
da grandi abbracci e
dimostrazioni d’affetto, erano tutti felici che io fossi
tornata con mamma. Io
invece mi sentivo inquieta, guardavo mio fratello e la solita marea di
sensazioni bizzarre mi tirò a fondo. Non sapevo definirle,
avevo detto a Shion
che era amore, ma era davvero amore?
Sentivo un grande affetto, un desiderio di piacergli,
volevo che mollasse la sua ragazza per stare con me, eppure non
riuscivo a
immaginarmi di baciarlo. Era come avere i sintomi di una strana e
inclassificabile malattia. Amore era una definizione che gli andava
molto
vicina, ma anche ossessione.
In ogni caso mi impegnai con tutta me stessa per dare gli
esami di terza media, mio padre voleva che frequentassi un liceo ad
Okayama,
dove ci eravamo trasferito, io bramavo Tokyo.
Lui riempiva i moduli e io guardavo su internet i siti
dei licei e delle scuole professionali della capitale, una falena che
cerca la
sua lampada per bruciare.
Stare vicino a mio fratello e cercare di fare la brava
bambina non era facile, forse essere un adolescente responsabile mi
sarebbe
venuto meglio in un altro posto.
Alla fine trovai una scuola a metà tra un liceo e una
scuola professionale. Formava giovani che volevano lavorare nel mondo
dello
spettacolo da dietro le quinte, come roadies o assistenti manager e
sembrava
fatta a posta per me. Shion mi aveva detto di sostenere Nana facendo
del mio
meglio e cosa c’era di meglio se non aiutarla nel suo mondo?
Era una fuga legalizzata, un accettabile compromesso tra
le mie due parti, ora dovevo solo parlarne ai miei genitori.
Decisi di farlo a cena, stavamo tutti mangiando pollo al
curry quando mi decisi a parlare.
“Papà, vorrei andare a scuola a Tokyo.”
Lui mi guardò senza capire.
“Ho trovato un liceo che forma persone che lavorano
dietro alle quinte del mondo dello spettacolo e vorrei frequentarlo, la
retta
non è nemmeno altissima.”
“Sei ancora scossa per quello che è successo a
questa famiglia?”
Mi chiese brusco, una volta che ebbe recuperato la voce.
“No, solo penso che questa scuola sia meglio per me che
frequentare il liceo qui o a Osaka.”
Lui inarcò un sopracciglio.
“E come sarebbe meglio?”
“Mi
formerebbe su un lavoro e potrei
trovare subito o quasi un posto dopo il diploma e poi…
Potrei aiutare mia sorella, ecco.”
Mio padre sospirò, doveva avere un sacco di problemi
nell’accettare che c’era
questa nuova e sconosciuta appendice della famiglia.
“Come sospettavo non hai ancora superato quello che
è
successo in questi mesi e non posso biasimarti.”
“Ma papà! Non è così, io
…”
Lui alzò una mano per farmi tacere.
“Che ne dici di un compromesso, Misato?
Tu frequenti per un mese il liceo qui ad Okayama e se
dopo sarai ancora convinta che non fa per te, penseremo a
Tokyo.”
“Se non dovesse andare bene qui pagherò la tua
retta con l’eredità della nonna
e tu dovrai lavorare per pagarti l’appartamento e altre
spese.”
Mio padre fulminò mia madre per una frazione di secondo poi
si rivolse di nuovo
verso di me.
“Cosa ne pensi, Misato?”
“Per me è okay, io sono convinta della mia
decisione, ma
se per voi è meglio aspettare,
aspetterò.”
Mio padre annuii, considerava ancora la mia scelta come il capriccio di
una
bambina, io gli avrei dimostrato il contrario.
Finito di mangiare lavai i piatti e pulii la cucina come
mio solito, Takahiro uscì e mi lanciò una strana
occhiata, come se in me non
riconoscesse più sua sorella e il punto era quello. Potevo
ignorare gli eventi
degli scorsi mesi, ma non le loro conseguenze su di me: non sarei
più stata la
ragazzina spensierata che conosceva, adesso avevo un’ombra
che mi cresceva
dentro.
Andai in camera mia e mi sedetti alla mia scrivania con
un foglio banco davanti a me, volevo scrivere una lettera a Nana, ma
prima
dovevo essere sicura che le arrivasse così presi il mio
cellulare e scrissi a
Shion.
“Ciao, Shion.
Sono Misato, come stai?
Io sono inquieta, ma te ne
parlerò meglio un’altra volta.
Vorrei scrivere una
lettera a Nana, se te la mandassi
gliela consegneresti?
Ciao e grazie.”
Il mio cellulare vibrò
qualche minuto dopo.
“Ciao,
Misato. Io sto bene, chiamami se vuoi per la cosa
che ti rende inquieta. Scrivi pure la lettera a Nana, gliela
farò avere. Stammi
bene.”
“Grazie
mille, Shion.
Ti chiamerò appena posso e ancora grazie.”
Presi in mano la penna e cominciai
a pensare alle parole che le avrei voluto
dire, una lettera gliela avevo già scritta dopo la morte di
Ren, questa doveva
essere diversa.
“Ciao,
Nana.”
Iniziai e lasciai che i miei pensieri fluissero liberamente.
“Sono Misato
Uehara, spero tu abbia letto la mia lettera
e che tu stia meglio almeno un po’.
Questa volta
però non voglio scriverti da fan, ma da
sorella, perché noi siamo sorelle e non voglio
più ignorare questa cosa, il che
non significa che la forzerò su di te.
Tu sei libera di
continuare a considerarmi una fan
qualsiasi, ti capirei, ma io ho bisogno di parlarti della nostra
“famiglia”.
Per prima cosa: scusami.
Scusa se mamma ti ha
abbandonato quando avevi quattro
anni e non è mai tornata a riprenderti, nemmeno quando si
è sposata con mio
padre. Mi dispiace dal più profondo del mio cuore, se fossi
davanti a te mi
inginocchierei con la fronte a terra.
Scusa se io sono la
figlia che lei ha scelto di crescere,
non meritavi questa discriminazione e scusa se sono io a scusarmi e non
mamma,
ma non so se la ascolteresti come non so se ascolterai me.
Non ci sono comunque
scuse per il suo comportamento e le
mie forse sono troppo poco rispetto al dolore che hai provato per tutta
la
vita.
Vorrei che fosse andata
diversamente, mamma ha privato
entrambe di qualcosa di molto prezioso: il legame tra sorelle.
Eppure io ti sento lo
stesso come una sorella e con il
tempo spero che anche a te accada lo stesso, perché forse
così ti potrei
aiutare sul serio. La morte di Ren mi ha straziato e nemmeno lo
conoscevo,
immagino che per sia cento volte peggio. Vorrei abbracciarti e dirti
che andrà
tutto bene, anche se sapremmo entrambe che sarebbe falso. Vorrei
trovare le
parole giuste, ma penso non ce ne siano.
Quando una persona che
amiamo così tanto ci lascia in
modo così improvviso e parole perdono il loro potere e
quelle che contano
davvero sono quelle che non abbiamo detto.
Io però
vorrei provare a esserci, sempre che tu lo
voglia.
Casa mia è
sempre aperta per te, vieni pure e piangeremo
insieme, in fondo alla lettera ci sono l’indirizzo di casa
mia, quello del
ristorante dei mie genitori e il mio cellulare.
Non so quando riceverai
questa lettera, ma può darsi che
quando accada io non sia più qui: voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di
bene e ti porgo ancora le mie
condoglianze.
Sei sempre nei miei
pensieri.
Tua sorella Misato
Chiusi la lettera e sorrisi,
domani l’avrei imbucata.
Credere di aver fatto la cosa giusta mi faceva stare
meglio, mi scaldava il cuore.
Erano solo sensazioni effimere e passeggere, la tragedia
doveva ancora raggiungere il suo culmine, niente avrebbe potuto
fermarla.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo quinto ***
Capitolo
quinto.
Dicono che non si possa
sciogliere la promessa fatta a un
morto,
io lo stavo facendo e
sentivo su di me il peso di questa
responsabilità,
sai Hachi? Mi sentivo
colpevole nei confronti di tutti
per avere ignorato
il loro dolore e per il
piacere perverso che provavo
nell’ignorare la
tua gravidanza. Odiavo
quella piccola vita che mi
separava da te, ma
soprattutto odiavo me
stessa. Doveva essere per questo
che Ren mi appariva
dappertutto: era un
monito sulle conseguenze delle mie
azioni.
La vigilia del concerto era
finalmente arrivata, avevo
visitato l’altare di Ren solo due volte perché ero
troppo spaventata. Ogni
volta gli rivolgevo la stessa preghiera – permettermi di
continuare a cantare
ancora per un po’ – e ogni volta vedevo la foto
scuotere la testa. Il suo sorriso
triste e dolce allo stesso tempo diventava una smorfia amara e poi
chiudeva gli
occhi e si muoveva.
Forse stavo impazzendo, forse ero vittima di una psicosi,
di sicuro ero un fragilissimo vaso di vetro pieno di crepe: bastava il
minimo
tocco e sarei caduta a pezzi.
Se avessi visto il Suo volto durante il concerto sapevo
che non avrei retto, la gola mi si sarebbe chiusa, impedendo
volontariamente
all’aria di entrare nei miei polmoni. L’attacco di
panico avrebbe vinto e io mi
sarei trovata in mano solo della fredda cenere invece dei sogni che
avevo
testardamente rincorso.
Dovevo trovare un modo per impedire che accadesse,
trovare delle difese mentali che si attivassero e mi salvassero, mi
arrovellai
tutta la sera ignorando tutto e tutti.
Non ne cavai nulla alla fine, la mia
mente non aveva trovato difese o appigli
abbastanza forti per resistere al richiamo di Ren, dovevo solo sperare
nella
fortuna.
Lentamente andarono tutti a letto e io rimasi sola nella
stanza ora buia con una sigaretta tra le labbra, cantare mi aveva
sempre
procurato una grande gioia, ma ora avevo paura. Si di me gravava il
peso
dell’esistenza dei Blast, se avessi fallito la casa
discografica ci avrebbe
buttato fuori.
Prima della Sua morte sarebbe stato uno stimolo per fare
del mio meglio, dando fondo a tutte le mie energie, ora era solo un
qualcosa
che mi riempiva la gola di sassi.
Alla fine mi alzai e uscii dalla stanza, entrai in quella
dove c’era l’altare di Ren e mi sedetti, guardai la
foto per un po’: tremolava alla
luce di una candela che qualcuno aveva acceso.
“Per favore, non venire da me domani.
Aspetta solo un altro giorno, ti prego.”
Un alito freddo mi sfiorò la spalla e spense la candela,
terrorizzata corsi
nella mia stanza e mi infilai sotto le coperte: tremavo come una foglia
e
sentivo il respiro farsi più corto.
Chiusi gli occhi e chiamai a raccolta tutte le mie
energie per calmarmi e alla fine scivolai in un sonno pieno di incubi,
c’era il
solito inseguimento della figura di Ren, ma anche un gigantesco
specchio che
rifletteva la mia immagine, un grande mostro.
Quando mi svegliai mi trovai davanti al volto di Hachi
che mi osservava preoccupata.
“Tutto bene, Nana?”
“Sì, Hachi. Ho solo avuto degli incubi.”
“Capisco, vuoi parlarne?”
Scossi la testa.
“Va bene. La colazione è in tavola.”
Si allontanò, io mi passai una mano sulla fronte.
“Hachi!”
“Sì?”
“Tu cosa faresti se avessi promesso a Nobu di morire con lui
e lui morisse
all’improvviso?
Manterresti la promessa?”
Lei mi guardò senza capire per un attimo e poi si fece
pensierosa.
“Non lo so, Nana.
Lasciami pensare un attimo, è una domanda a cui è
difficile rispondere così su due piedi.”
“Non importa, Hachi.
Era solo una domanda, adesso vengo a fare colazione.”
“Sei sicura?”
“Sì.”
Se ne andò e io mi diedi della stupida, soffriva
perché ancora non riusciva a
decidere tra Nobu e Takumi e io non la stavo aiutando.
Mi feci una doccia rapida, mi cambiai e scesi a fare
colazione, nonostante il concerto fosse fissato per le cinque e mezza
del
pomeriggio erano tutti tesi, persino Yasu.
Mangiammo in silenzio, poi giocammo a mahjong tutti
insieme, non furono delle grandi partite, in un angolo Hachi e Miu
alternavano
le lezioni di vestizione con la prova di un copione.
Arrivò mezzogiorno, mangiammo di nuovo, poi alle due
Gimpei ci portò in studio per fare un po’ di
pratica: la scaletta prevedeva
dieci brani.
Dieci lunghi brani da cantare ignorando il fantasma di
Ren che mi seguiva a ogni passo, mi sembrava un’impesa
disperata. Tutto sommato
le prove non furono così male, me la cavai abbastanza bene,
lo scoglio più
grande ora era il concerto stesso.
Arrivarono le cinque e salimmo sul furgoncino guidato da
Gimpei che ci scortò nel luogo del concerto: Harajuku, dove
da sempre si ritrovavano
gli adolescenti alternativi.
La nostra strumentazione era nascosta dietro un telo, i
ragazzi la occuparono e cominciarono ad accordare i vari strumenti, io
chiusi
gli occhi. In un angolo c’era il solito fantasma, ma io mi
esercitai
mentalmente a non guardare da quella parte. Mi concentrai solo sul mio
respiro
per cercare di calmare le ondate d’ansia che mano a mano mi
lambivano e poi il
telo cadde.
Le prime note di Rose invasero l’aria, io aprii gli occhi
e cominciai a cantare, il fantasma era innocuo o meglio si era
trasferito da
un’altra parte. Sul grattacielo davanti a noi campeggiava un
enorme immagine
dei Trapnest e Lui mi guardava da lì. Cercai un punto sicuro
e mi concentra su
quello, il mio cuore batteva a un ritmo irregolare. Perché
l’avevano messo?
La risposta alla domanda era fin troppo semplice, le
vendite dei Trapnest erano schizzate alle stelle dopo la morte di Ren e
quell’immagine ne era la prova. Volevano che la gente
comprasse sempre più cd e
la istigavano piazzando ovunque riferimenti alla band.
Rose finì tra le urla del pubblico, io sospirai di
sollievo, dovevo eseguire solo altre nove canzoni e poi avrei potuto
chiudermi
in una stanza e sfasciare tutto fino a farmi sanguinare le mani.
Ora era il turno di Glamorous Sky, l’immagine di Ren
muoveva l’indice per attirarmi a sé, io resistevo
testarda cercando nuovi punti
a cui attaccarmi.
Finì anche la seconda canzone e io mi sentivo sempre
peggio, mani invisibili mi artigliavano la gola qualcosa mi accelerava
il
respiro e il battito cardiaco fino a quasi al limite.
Ero solo un’acrobata.
Scambiai qualche battuta con il pubblico, poi Nobu
attaccò Kuroi Namida, io chiusi gli occhi mentre la mia voce
si alzava un po’
troppo roca.
Aprii gli occhi e mi si mozzò il respiro, tutte le facce
– tutte! – che mi guardavano erano quelle di Ren ed
erano tutte accusatorie. Il
fulmine aveva colpito e il tuono dell’attacco di panico si
propagò nel mio
corpo, non riuscivo a respirare, il mio cuore batteva impazzito, la
testa mi
girava mentre tentavo di rimanere cosciente e di inalare un
po’ di preziosa
aria.
Rantolai come un animale ferito, vagamente consapevole
che i ragazzi avevano smesso di suonare e mi si accalcavano attorno. La
folla
taceva orripilata, i volti spaventati di tante persone formavano un
solo corpo,
sentivo le lacrime scendere sulle guance.
Poi vidi il volto di Hachi, si chinava su di me, mi stava
dicendo qualcosa, ma io non la ascoltai.
Raccolsi le mie ultime energie e sussurrai il mio più
vivo desiderio.
“Voglio vedere il mare.”
Volevo rivedere Ren non in forma di fantasma, volevo
almeno una specie di tomba su cui pregare.
Volevo lui nell’ultima forma mortale che mi fosse
concessa.
Lui era la mia vita.
Lui…
Il buio si chiuse su di me, staccò dolcemente gli ultimi
ormeggi che mi tenevano legata alla realtà e presi a
fluttuare come un
palloncino.
Se fossi salita abbastanza in alto sarei arrivata da Ren.
Il fulmine aveva colpito e il
mondo stava cadendo a
pezzi.
In testa mi risuonavano
solo le tue ultime parole, Nana.
Voglio vedere il mare,
voglio vedere Ren.
L’hai visto il
mare, Nana, dopo che te sei andata?
Ero dietro le quinte del concerto
accanto a Misato e
Gimpei, ma nessuno badava a me.
La nostra attenzione era tutta concentrata su Nana, tutti
speravamo che ce la facesse, io però avevo un brutto
presentimento.
Quell’enorme cartellone con i Trapnest non
l’avrebbe aiutata a cantare, vedere
Ren non l’avrebbe aiutata affatto. La domanda che mi aveva
fatto quella mattina
mi ronzava in testa fastidiosa, cosa significava?
Che c’era un patto tra di loro probabilmente e Nana non
lo stava rispettando, forse si sentiva in colpa e questo peggiorava di
sicuro
il suo stato emotivo. Pregai che nessun attacco di panico la colpisse,
chiesi a
Ren di proteggerla.
Rose la eseguì perfettamente, Glamorous Sky fu un
po’meno
perfetta, ma l’energia che ci metteva compensava gli errori.
Questa era la
strategia di Nana sin dal primo giorno.
Poi Nobu attaccò Kuroi Namida e percepii chiaramente che
qualcosa non andava, la voce della mia amica era troppo roca.
Cantò fino a metà
canzone poi il suo corpo si tese, paralizzato da qualcosa che solo lei
vedeva,
per poi ricadere a terra. Non cantava né respirava
più, rantolava.
I ragazza smisero di suonare, io scattai verso Nana e mi
chinai su di lei. I suoi occhi erano fuori fuoco e tremava, ogni
respiro le
costava fatica, le mani traditrici della sua psiche le stringevano il
collo in
una morsa che non poteva essere sciolta.
Non appena mi vide mi puntò i suoi occhi scuri addosso.
“Va tutto bene, Nana. Adesso arriverà
un’ambulanza!”
Le dissi per calmarla, ma lei non mi ascoltava.
“Voglio vedere il mare.”
Sussurrò prima di svenire, io la guardai scioccata.
Quella era la fine, una parte del mio cervello lo aveva
percepito con chiarezza, ma io non volevo pensarci, un mondo dove Nana
non
cantasse era inconcepibile. Avevo amato la sua voce sin dalla prima
volta che
aveva cantato accompagnata da Nobu in piedi sul tavolo
dell’appartamento 707.
Come potevano non esserci più momenti simili in futuro?
Il suono delle sirene dell’ambulanza mi fece rientrare in
me, mi alzai in modo da non intralciare i paramedici e guardai Gimpei e
Misato.
Entrambi scossero la testa, era davvero finita, l’indomani o
forse il giorno
dopo la casa discografica avrebbe scaricato i Black Stones.
Tre uomini scesero dall’ambulanza, due si occuparono di
Nana e la caricarono infine su di una barella, il terzo
parlò brevemente con
Yasu che si era fatto avanti per spiegare la situazione. Colsi solo
alcune
parole come “attacco di panico” e
“recente perdita del fidanzato”, per
l’infermiere furono sufficienti e permise a Yasu di salire
sull’ambulanza.
Io mi sentivo di ghiaccio, non sapevo cosa fare, non ero
riuscita a impedire che questo accadesse, le mie preghiere si erano
rivelate
inutili.
Sentii un mano appoggiarsi sulla mia spalla, mi girai e
mi trovai faccia a faccia con Shin, volevo dirgli qualcosa –
qualsiasi cosa –
per dirgli di non preoccuparsi per me, ma mi uscì solo un
singulto.
Qualcuno spostò Shin con delicatezza e mi
abbracciò,
avrei riconosciuto quelle braccia tra mille, ancora una volta mi
avevano
salvato. Erano quelle di Nobu.
Scoppiai a piangere.
“È colpa mia! Avrei dovuto stare vicino a Nana e
invece…
Invece l’ho lasciata sola.”
Urlavo come un animale ferito, Nobu mi accarezzò la
schiena con gentilezza, sentivo le sue lacrime cadere sulla mia maglia.
“Non è colpa tua, è colpa di tutti noi
che abbiamo
sottovalutato il problema.
Non è colpa tua, Hachi.
Non. È. Colpa. Tua.”
Piangevano entrambi, schiacciati da quella tragedia, era
la fine di tutto: della loro carriera e dei loro sogni.
“Ragazzi, andiamo.”
Misato stava piangendo anche lei, ma si era avvicinata a noi.
“Andiamo in ospedale, Yasu ci ha scritto dove hanno
portato Nana.”
Annuimmo tutti e tre, anche Shin, e seguimmo lei e Gimpei.
Era solo un incubo, doveva esserlo, non poteva essere
successo davvero, non di nuovo. Mi sembrava di essere tornata alla
notte in cui
era morto Ren, alle lacrime, a evitare i paparazzi e la gente, a
sentire un
vuoto nel petto che non poteva essere colmato.
Mi ero promessa di essere forte perché stavo per
diventare madre, ma riuscivo solo a piangere con Nobu e Shin appoggiati
ognuno
a una mia spalla. Il tragitto sembrava eterno, Misato parlava al
telefono, non
capivo cosa stesse dicendo, ma stava usando un tono implorante che non
le avevo
mai sentito.
La casa discografica.
Già, questa era la loro ultima possibilità e se
n’era
andata a fanculo, era una cosa crudele. Come potevano chiedere a una
donna che
aveva appena perso il suo uomo di dimenticarselo e cantare?
Fanculo i soldi e fanculo tutti quanti tranne i Blast.
Ora oscillavo tra la rabbia e la tristezza, una specie di
metronomo impazzito che non trovava pace in nessun modo, dovunque
volassero i
miei pensieri i sentimenti che provavo erano negativi.
Arrivammo all’ospedale, seguimmo Gimpei lungo i corridoi
fino a una sala d’aspetto, Yasu era seduto su di una sedia e
sembrava
invecchiato di cent’anni in un colpo, se non avesse avuto i
capelli rasati
avrei giurato che fossero diventati grigi.
“Nana?”
Chiesi.
“È in quella stanza.”
Indicò una porta accanto alle sedie dove si trovava.
“Come sta?”
“Stabile, probabilmente è come la prima volta che
ha avuto un attacco di
panico.”
“È sveglia?”
“Non lo so credo di no.”
Rimase in silenzio per un lungo attimo, lo stavamo
guardando preoccupati perché la maschera imperturbabile che portava era caduta
lasciando il posto a
un’espressione angosciata.
“È tutta colpa mia, sin
dall’inizio.”
Mormoro.
“Cosa vuoi dire, Yassan?
Non è colpa tua se Ren se n’è
andato.”
La voce di Nobu tremava.
“Sedetevi.”
Noi ubbidimmo.
“Mi dispiace, Nobu, ma è tutta colpa mia.
Quando Takumi ha chiesto a Ren di entrare nei Trapnest
sono stato io a spingerlo ad accettare, lui non voleva lasciare Nana,
ma io gli
ho detto che non poteva perdere un’occasione del genere con
il talento che
aveva. Gli ho detto di entrare nei Trapnest e che mi sarei preso cura
dei Black
Stones, pensavo che sarebbe stato felice a Tokyo a realizzare i suoi
sogni.
Mi sbagliavo e tanto.
Ren… era felice con noi, nella nostra piccola
città
perché noi eravamo la sua famiglia, quella che si era
trovato da solo. Io non
l’avevo capito.
Volevo solo il bene di Ren, il mio fratello non di
sangue, e invece l’ho spinto dritto sulla strada
dell’autodistruzione. Ren non
era fatto per il successo, per i giornalisti che spiavano ogni suo
movimento,
lui era troppo fragile. Lui era fatto per stare con Nana in quel
vecchio
magazzino, dove avrebbe potuto avere dei bambini e dare loro tutto il
suo
affetto.”
“Yasu…”
Disse Shin, ma lui gli fece cenno di non proseguire, aveva altro da
dire.
“Dopo un po’ che lo frequentavo qui a Tokyo me ne
sono
accorto e gliel’ho detto, ma non è servito a
nulla. Aveva iniziato a
frequentare troppo Reira e Takumi per tornare sui suoi passi, il modo
in cui la
stampa ha scoperto la sua relazione con Nana e la sua fuga innocente
con Reira
non lo hanno aiutato.
Si è sentito colpevole, Nana dall’altra parte non
gli
risparmiava il suo disprezzo per i Trapnest e da questa strana
accoppiata di
fattori si è originato tutto quello che li ha travolti.
Amava Nana, ma non poteva darle quello che lei chiedeva,
voleva suonare con i Trapnest, ma si sentiva inadatto,
così è diventato come Takumi:
ossessionato
dal difendere il castello.
Ma per farlo si è appoggiato a cose sbagliate, prima
l’hashish e poi la cocaina.”
Sobbalzammo tutti all’ultima parola, io credevo di essere
diventata amica di
Ren e non mi ero accorte di niente.
“Cocaina?”
La voce di Nobu era flebile ora, considerava Ren il suo eroe ed era
dura per
lui scoprire queste cose.
“Sì, coca. Takumi mi ha detto che è
stato Narita della
loro casa discografica a fargli avere la prima dose e da allora non ha
più
smesso.
Quando Takumi l’ha scoperto ha fatto avere a Nana un
messaggio che diceva: “Se non vuoi perdere Ren per sempre,
allora stagli
vicino.”
Lei però non gli ha creduto e prima che Takumi potesse
fare qualcosa, come mandarlo in riabilitazione, Ren è morto.
E io lo sapevo
della droga e non ne ho parlato con nessuno.
Sono io che l’ho ucciso ed è colpa mia se Nana sta
così
male.”
Avrei voluto dire qualcosa a Yasu, ma mi sentivo avvolta
dal gelo, le mie ossa erano di ghiaccio, il mio cervello una massa di
neve
inerte.
La seconda valanga che ci aveva travolti aveva origini
lontane, ma la cosa che faceva più male era che sarebbe
bastato un solo
comportamento diverso e non sarebbe successo nulla.
Se Yasu avesse deciso di agire.
Se Takumi lo avesse scoperto prima.
Se Nana fosse rimasta vicino a Ren, smettendola di
considerare i Trapnest come nemici.
Se Reira non fosse fuggita.
Un sacco di se che ci avevano seppelliti, come ne saremmo
usciti?
Era tutto finito, me lo sentivo
nelle ossa, ed era tutta colpa mia e
della mia
fragilità, in quel momento mi odiai
così tanto che desiderai essere
morta per ricongiungermi con Ren.
Riemersi lentamente
dall’oscurità, il mio corpo era
pesante.
C’era un bip-bip ritmico, ero in ospedale di nuovo, il
mio corpo mi aveva tradito ancora una volta e il mio sogno era morto.
Mi portai le mani sul volto, per colpa mia i Blast non
avrebbero più suonato, cosa sarebbe successo?
Cosa ne sarebbe stato di me che avevo puntato tutto sul
mio sogno?
Poi una frase mi raggiunse nelle spire della disperazione
in cui mi trovavo, “Mi dispiace, Nobu, ma è tutta
colpa mia.”.
Yasu.
Che significava tutto questo?
Ascoltai il suo racconto in un crescendo di orrore,
sentendomi sempre più un burattino nelle mani di qualcuno,
non riuscivo a
credere che potesse essere vero.
Yasu, il mio migliore amico, la mia roccia, non poteva
avere fatto tutto quello che aveva detto, se ci pensavo troppo sentivo
il fiato
di un altro attacco di panico sul collo. Lui aveva convinto Ren a
lasciarmi
indietro, lui!
La spalla su cui avevo pianto tutte le mie lacrime!
E lui sapeva della droga, perché ora capivo che era quello
il segreto che
nessuno aveva voluto dirmi, l’avrei capito se si fosse
trattato di Takumi o
Reira – non correva buon sangue tra di noi – ma lui?
Perché lui?
Ripensai alle parole di Takumi, quelle che Hachi mi aveva
riferito e a cui io non avevo dato retta, se solo qualcuno mi avesse
spiegato
la ragione di quel messaggio tanto strano l’avrei preso sul
serio invece di
ignorarlo e considerarlo l’ennesima manipolazione di Ichinose.
Ma nessuno mi aveva detto nulla, la povera Nana non
doveva essere messa a parte dei segreti delle band, doveva solo
eseguire gli
ordini.
Ma se la povera Nana l’avesse saputo avrebbe combattuto
con le unghie e i denti per tenere con sé Ren, non
l’avrebbe lasciato andare.
Ma nessuno aveva creduto in lei, nemmeno il suo migliore amico.
L’attacco di panico mi artigliò di nuovo, per la
seconda
volta in una giornata e caddi di nuovo nel buio.
“Ren, Ren… Mi dispiace.”
Pensai con le mie ultime forze, prima di cedere.
Mi risvegliai di nuovo nell’ospedale, era notte fonda, la
luce della luna entrava dalla finestra, mi guardai intorno. Sul mio
comodino
c’era una bottiglietta d’acqua, delle lettere e un
biglietto.
Lo lessi, era di Misato che mi augurava una pronta
guarigione e mi indicava che le lettere erano di fans che le erano
arrivate. Io
sospirai e rovistai nella decina di lettere senza provare un vero
interesse per
nessuna di loro. Quelle ragazze non sapevano nulla di me e non potevano
aiutarmi.
L’ultima però catturò la mia
attenzione, il mittente era
Misato Uehara, mia sorella. Mi aveva già scritto una volta
subito dopo la morte
di Ren per le condoglianze e per dirmi che credeva in me. Incuriosita
la aprii,
era una lettera onesta sulla nostra condizione di sorelle, in cui
traspariva
tutto il suo dispiacere che ci avessero separato e per le decisione di
Misuzu,
si scusava anche, lei che non aveva alcuna colpa come me.
Sentii un calore al cuore, quella lettera me lo aveva
riscaldato, volevo conoscere Misato, volevo sapere cosa si provava ad
avere un
legame di sangue con qualcuno.
L’ultima parte – quella che mi invitava a
raggiungerla –
mi diede un’idea, forse dovevo farlo davvero, qui a Tokyo mi
sentivo circondata
da bugiardi.
Chi mi assicurava che anche Hachi, Nobu o Shin non mi
avessero tenuta all’oscuro di qualcosa e che davvero non
sapessero niente di
Ren?
Guardai a lungo quella lettera senza vederla, ero caduta
in una spirale di paranoia, pensavo e ripensavo a tutto quello che era
successo
in cerca di segni, di segnali che mi aiutassero a capire se davvero
nessuno
sapesse nulla prima di quel giorno.
La mia paranoia era così grande, ingigantita dalla paura
atavica di essere abbandonata, che vidi cose che non erano mai
avvenute.
Lentamente mi convinsi che c’era una cospirazione contro di
me, tutti sapevano,
ma nessuno aveva voluto parlare e io servivo giusto per cantare.
Ero la loro fonte di guadagno e non potevano perdermi per
quel motivo.
Se ci ripenso adesso mi vergogno a morte di quei
pensieri, ma allora sembravano così veri perché
spiegavano come mai ero
crollata così miseramente. Ero cresciuta nel mio mito
personale di essere una
donna forte e non ammettevo debolezze né in me stessa
né negli altri.
Ora so che tutti possono inciampare e cadere nella vita,
non c’è nulla di male, anzi è naturale,
la cosa importante è rialzarsi.
Alla fine appoggiai la lettera sul comodino e con metodo
e delicatezza tolsi le flebo e gli elettrodi collegati a mio corpo,
muovendomi
con circospezione mi rivestii. Calze autoreggenti, gonna di jeans,
maglia nera,
maglione a righe rosse e nere, anfibi e chiodo.
Avevo preso tutto, cercai nel comodino e recuperai la mia
borsa, poi mi ficcai la lettere di Misato in tasca e alzai il cappuccio
nella
maglia.
Aprii la porta della mia camera uno spiraglio alla volta,
poi mi azzardai a guardare: il corridoio era deserto a
quell’ora di notte.
Uscii e lo percorsi a passi veloci, per quanto me lo
concedessero le mie condizioni, e raggiunsi delle scale, anche
lì mi guardai
intorno, ma sembrava che il personale dell’ospedale
preferisse gli ascensori
dopotutto.
Le scesi con circospezione, sperando che il cappuccio
nascondesse abbastanza bene i miei lineamenti e di non avere
un’aria troppo
colpevole.
Per un attimo venni sfiorata dai volti dei miei amici
alla scoperta che ero sparita, ma sparirono subito come granelli di
sabbia
trasportati dal vento.
Alla fine delle scale arrivai a una sala con delle macchinette
e porte che davano su un cortile dell’ospedale, presi un
bento e poi uscii.
L’aria fredda della notte mi accarezzava gentile il
volto, mi faceva sentire libera perciò sorrisi senza pensare
a nulla.
Avrei mangiato una volta uscita da quel posto e poi avrei
deciso cosa fare: volevo andare da Misato senza essere scoperta e
ciò
comportava svuotare il mio conto in banca e prendere qualche vestito
almeno.
Quelli erano i problemi su cui riflettei, nella mia
visione distorta non vedevo la cosa più importante.
Comportandomi come Misuzu aveva fatto con me avrei
inflitto una ferita nella psiche delle persone per me più
importanti. Anche ora
spero che possano perdonarmi.
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Capitolo 6 *** Capitolo sesto ***
Capitolo
sesto.
Sai, Nana… Non avevo
mai pensato alla possibilità di
vivere senza di te fino
a quel giorno. Fino ad allora
avevo pensato che, anche
se tu fossi stata lontana con
i Blast, il filo della
nostra amicizia non si sarebbe
spezzato.
Lo sentivo
così saldo tra le mie mani, ora però non ne
sono
più
così sicura, ma io non mollo, Nana. Riavvolgerò
quel
filo
fino a trovarti.
Quel giorno avrei voluto vedere
Nana, nonostante fossi
turbata dalla confessione di Yasu, mi sembrava che il mio mondo avesse
iniziato
a girare all’incontrario. Da quando Yasu si comportava in
modo da ferire la mia
amica?
Un medico ci disse che non era possibile, visto che aveva
avuto un altro attacco, ci fissò tutti negli occhi con uno
sguardo severo.
“La signorina Osaki è reduce da un trauma
terribile,
farla cantare ed esporla a emozioni così forti è
stato da incoscienti. Le
probabilità che non reggesse erano molto alte,
perché l’avete fatto?”
Rimanemmo tutti in silenzio, le parole del medico si
erano scavate un buco in ognuno di noi, aveva perfettamente ragione.
L’uomo se ne andò e noi rimanemmo lì
immobili e
silenziosi.
“Ha ragione, avrei dovuto oppormi alla richiesta della
casa discografica, sono stato davvero pessimo.”
“Yasu, ma se l’avessi fatto ci avrebbero
scaricato.”
“Ora ci scaricano comunque e abbiamo meno
probabilità di
firmare un contratto con qualcun altro visto che Nana si è
guadagnata la fama
di persona problematica.”
“Non ti permetto di parlare così di lei!”
Scattai in piedi con i pugni chiusi.
“Scusa, Hachi. Analizzavo solo la questione dal punto di
vista lavorativo.”
Una risposta acida mi salii sulla punta della lingua, ma la censurai.
Il clima
era già pessimo, non volevo peggiorarlo ulteriormente, ma
ero scossa dalla
freddezza di Yasu in quel momento, sapevo che era solito essere molto
razionale, ma ora stava esagerando.
“Adesso cosa facciamo, Yassan?”
Chiese Nobu, il batterista rimase un attimo in silenzio.
“Adesso come adesso ci conviene concentrarci sui nostri
piani B, non credo che ci sarà un futuro per i
Blast.”
“Yasu!”
Esclamò il chitarrista.
“Nobu, per almeno un paio d’anni nessuna casa
discografica ci metterà sotto contratto. Nana deve
migliorare un po’ o non
andremo da nessuna parte, nessuno è disposto a investire
soldi su una cantante
che non riesce a finire un concerto.”
“Yasu, sei un bastardo.”
L’altro lo ignorò.
“Io mi concentrerò sulla mia carriera da avvocato,
voi
fate quello che volete.”
“Ti è sempre importato più della tua
carriera che della band, perché diavolo ci
sei entrato?”
Il pelato non rispose, gli insulti gli scivolavano addosso e la cosa mi
infastidiva parecchio, avrei voluto prenderlo per il colletto della
camicia e
scuoterlo violentemente, fagli sputare di nuovo i suoi veri sentimenti.
Stavo per farlo, ma Misato arrivò con un pacchetto di una
decina di lettere.
“Sono lettere dei fan, chiederò
all’infermiera di
metterle sul comodino di Nana.”
Si accorse del clima teso.
“Va tutto bene?”
“Sì.”
Rispose incerto Shin, non aveva mai visto nessuno
litigare con Yasu.
“Ok, allora io vado.”
Ci lasciò da soli, nessuno parlava più, nessuno
si muoveva, le pareti
sembravano stringersi addosso a noi come un mantello.
Alla fine Nobu scattò in piedi.
“Vado a fare un giro.”
Annunciò.
“Vengo anche io.”
Dissi e insieme lasciammo il corridoio e l’atmosfera carica
di tensione e rabbia.
Non ci dicemmo nulla, vagammo per un po’ senza meta e ci
ritrovammo su una terrazza, c’era una stellata pazzesca
dovuta a un raro cielo
limpido a Tokyo.
Nobu chiese una sigaretta a un tipo e se la accese,
aspirando la prima boccata per poi tossire, io gli battei gentilmente
sulla
schiena.
“Non sapevo che tu fumassi.”
“Ho iniziato alle medie per darmi un tono e non sembrare
l’erede della pensione Terashima. Odiavo avere un destino
già scritto, mi ci
sono ribellato con tutte le mie forze, ma sembra sia stato tutto
inutile.”
“Non dire così, sono sicura che troverai un lavoro
qui a
Tokyo.”
Lui sospirò.
“Tutto quello che ha detto Yasu è vero?”
“In che senso?”
“Voi… tu non ne sapevi nulla.”
“No, nulla. Non sapevo che era stato lui a convincere Ren a
mollarci né della
droga, a dirla tutta sono arrabbiato con lui, ecco perché me
ne sono andato.
Non volevo spaccargli la faccia.”
Lo abbracciai da dietro.
“Non sei obbligata a confortarmi.”
“Ma voglio.”
Lui diede un’altra boccata alla sigaretta e poi la
lanciò
via, si girò e mi strinse in un abbraccio muto, sapevamo che
era sbagliato ed
era come giocare con il fuoco, ma non ci importava.
Ci staccammo leggermente, lui alzò il mio voltò
prendendomi delicatamente il mento tra le dita, ci guardammo negli
occhi e ci baciammo
di nuovo, a lungo.
Rimanemmo così per un po’, poi tornammo dentro
mano nella
mano, nessuno disse nulla, anche perché in quel momento
arrivò il dottore.
“La signorina Osaki sta dormendo, vi consiglio di andare
a casa e tornare domani.”
Se avessi saputo cosa mi aspettava mi sarei ribellata a
quell’ordine, ma non lo sapevo e in quel momento mi
sembrò la cosa migliore da
fare anche per Satsuki. Me ne dimenticavo spesso, ma ero quasi
all’ottavo mese
di gravidanza e non dovevo stressare troppo una creatura che non aveva
colpe in
quello che stava succedendo.
“Va bene.”
Uscimmo separatamente, io e Nobu salimmo sullo stesso taxi per tornare
al
comprensorio, ci salutammo nella camera comune e io andai in camera
mia. Mi
feci una lunga doccia e andai a letto, ma non riuscivo a dormire
nonostante
fossi stanca.
All’improvviso sentii un leggero bussare e aprii la
porta: era Nobu.
“Non riesco a dormire, posso venire da te?”
“Certo.”
Mi feci da parte per lasciarlo passare e chiusi la porta, lui si
sdraiò sul mio
letto in silenzio. Sembrava anche lui invecchiato di molti anni in un
solo
giorno, era davvero stanco, il sole si era spento.
Mi sdraiai a mia volta, lui mi abbracciò da dietro e
cominciò ad accarezzare la mia pancia enorme.
“Vorrei che fosse mio figlio.”
Rimasi senza fiato per la sorpresa.
“Avrei voluto combattere di più per convincerti a
rimanere con me, ma cosa avevo da offrirti?
Un minuscolo monolocale e un futuro incerto, per questo
ti ho lasciata andare, Takumi poteva darti molto di più. Ora
penso che sia
stato tutto sbagliato, se io avessi fatto l’uomo saresti
ancora nel giardino di
Nana.”
Ci fu un attimo in silenzio.
“Saremmo stati due cagnolini nel giardino di Nana e
avremmo potuto darle una mano, lei avrebbe avuto qualcuno accanto per
aiutarla
a superare la morte di Ren. Sono solo un codardo.”
“No, hai solo fatto quello che mi avevi promesso: fare
l’impossibile per rendermi felice e non strapparmi a Takumi
con la forza per
non far sì che fossi tra l’incudine e il martello.
Sono io quella che ha sbagliato tutto, Nobu.
Sono io quella che ha fatto sesso senza usare le
protezioni.
Sono io quella che ha scelto i soldi sopra l’amore.
Sono io che ho lasciato Nana da sola.”
Nobu continuò ad accarezzare la mia pancia.
“Dovrei odiare la personcina che vive qui dentro, ma non
ci riesco, le voglio bene persino.”
E questa era la prova che Nobu era migliore di me, lo era
sempre stato, un sole che scaldava tutti, ma chi si curava di
confortarlo e
aiutarlo?
Ero solo una dannata egoista.
Avrei voluto piangere, ma non potevo, ormai stavo per
diventare madre e dovevo dimostrarmi forte: i tempi in cui potevo
piangere per
qualsiasi cosa erano finiti.
Ora dovevo contare solo su me stessa, Takumi non mi
avrebbe mai aiutata nel modo in cui avrei voluto, lui pensava che i
soldi e
qualche momento trascorso con noi a fare il padre indulgente sarebbero
bastati
a fare di noi una famiglia.
Non funzionava così, lo sapevo, e prima mi fossi resa
indipendente sarebbe stato meglio, ecco perché dovevo
imparare l’arte della
vestizione al più presto.
Mi addormentai di botto, tra le braccia di Nobu, mentre
la tempesta infuriava ancora dentro di me.
Mi svegliai tardi, erano circa le
dieci, ero ancora
abbracciata a Nobu.
Non me la sentii di scivolare via come una ladra, quindi
lo svegliai scuotendolo piano, lui aprii gli occhi e sorrise. Il mio
cuore
vacillò, era come essere di nuovo ai tempo in cui stavamo
insieme, quel sorriso
era l’unica cosa che mi permetteva di iniziare una giornata
davvero bene.
“Buongiorno.”
“Buongiorno a te.”
Avremmo dovuto essere a disagio, ma tra noi non c’era alcun
imbarazzo.
Il filo del destino mi tirava verso di lui proprio ora
che dovevo iniziare la mia vita con Takumi, ma perché
pensarci?
Ci facemmo la doccia e ci vestimmo, poi scendemmo nella
sala comune: sembrava che ci fosse passato un tornado e qualcuno aveva
scritto
insulti a me e a Nobu.
“Yuri non sa perdere.”
Disse semplicemente Miu, facendomi sobbalzare.
“A quanto pare no, mi odia ora.”
“Ti odiava già prima, ma non credo che
sarà un problema ancora per molto, oggi
pomeriggio discuterete con la Shikai corporation e penso che vi
butteranno
fuori, il che significa che dovrete lasciare questo posto.”
“Capisco.”
Ci sedemmo a fare colazione e poi andammo in ospedale. Nel piano dove
era
ricoverata Nana c’era una grande confusione, le infermiere
correvano
dappertutto e i dottori urlavano. Ma che stava succedendo?
Yasu fermò un’infermiera.
“Cosa sta succedendo?”
Le chiese gentilmente.
“E voi chi siete?”
“Siamo amici e parenti della signorina Osaki.”
La donna sbiancò.
“Oh, mio Dio. Devo darvi una notizia terribile: la
signorina Osaki è scappata.”
“Come scappata?”
Intervenni io.
“Stamattina all’ora di colazione la mia collega
è andata
nella sua stanza e lei non c’era più, mancavano i
vestiti e c’erano solo delle
lettere.”
“Possiamo vederle?”
Domandò Misato, l‘infermiera annuì.
Ricomparve poco dopo con circa una decina di lettere che
consegnò a Misato, lei le fece scorrere con aria attenta.
“Ne manca una.”
“Davvero? Quale?”
“Manca quella di Misato Uehara, Yasu.”
La guardai senza capire.
“Le hai scritto una lettere con il tuo pseudonimo.”
“No, Misato Uehara è la sorellina di Nana, la
figlia di sua madre e un altro
uomo, e le ha scritto un lettera.”
D’improvviso ricordai la ragazzina in divisa fanatica di Nana
che avevo
incontrato nel negozio di okonomiyaki a Osaka: quella doveva essere la
sorella
di Nana.
“Perché se l’è portata via?
Che le abbia scritto qualcosa
di offensivo?”
Shin stava provando a razionalizzare come suo solito e forse era meglio
che
farsi prendere da panico.
“Beh, non abbiamo tempo per scoprirlo, adesso sta
arrivando un dottore.”
Un uomo alto e magro in camice bianco si stava dirigendo
verso di noi con aria seria, non era quello del giorno prima.
“Siete i parenti della signorina Osaki?”
Ci chiese con gentilezza.
“Nana non ha parenti, noi siamo i suoi amici ed è
come se
fossimo la sua famiglia.”
“Capisco, seguitemi.”
Ci fece strada fino a una stanza che doveva usare come
studio, ci stavamo quasi stretti.
“Ho analizzato il caso della signorina Osaki e fisicamente
risulta sana, ma immagino che lo sappiate già, i suoi
problemi sono di natura
diversa. Risulta essere stata ricoverata già
un’altra volta per malesseri
simili qualche mese fa e la diagnosi era stata attacco di panico,
corretto?”
“Corretto.”
Rispose Yasu.
“Le è stata consigliata quantomeno una terapia
psicologica, a qualcuno di voi risulta che l’abbia
fatta?”
“No, Nana era estremamente contraria a questa
possibilità.”
“Capisco. Non sono un esperto di gossip, ma la signorina
è la cantante di un
gruppo che si chiama Black Stones?”
“Sì.”
“Allora era anche la fidanzata di Ren Honjo,il chitarrista
morto recentemente?”
“Esatto.”
Il dottore sospirò.
“Ci sono stati altri eventi traumatici nella sua vita
recentemente?”
“Visto che non abbiamo terminato il nostro concerto la
nostra casa discografica ci scaricherà.”
“Capisco. La signorina è molto stressata e
provata,
probabilmente il lutto e la pressione per una possibile perdita del
lavoro
hanno scatenato l’attacco di panico di ieri. Il quale
è solo un sintomo, è il
quadro generale che mi preoccupa, secondo un mio collega psichiatra
c’è un
trauma nella vita della paziente che si manifesta di nuovo quando
qualcosa di
negativo le accade. Un trauma mai superato, probabilmente
negato.”
“Venga al dunque, dottore.”
Lo esortò Yasu.
“È solo una mia opinione, ma ho paura che la
signorina
Osaki se ne sia andata da qui per suicidarsi.”
“È impossibile!”
Urlai io, poi mi ricordai di quella strana conversazione
sulla morte che avevo avuto con lei e un brivido mi corse lungo la
schiena.
“Hachi, stai calma. Dottore, grazie. Adesso andiamo a
cercare Nana.”
Nobu aveva parlato con voce decisa e mi aveva appoggiato una mano sulla
spalla,
poi tutti eravamo usciti dalla stanza.
Qualche secondo dopo il cellulare della nostra Misato si
era messo a squillare, lei aveva risposto e la faccia le era diventata
ancora
più cupa. Erano in arrivo altre cattive notizie, quella
mattinata sembrava un
incubo inscenato da Satana, sarebbe mai finita?
“Yasu, dobbiamo andare alla Gaia Records per… Per
la rescissione
del contratto.”
La voce le tremava e stava per piangere.
“D’accordo, Misato.”
Il batterista si era allontanato insieme a lei ed eravamo rimasti solo
in tre:
io, Nobu e Shin.
Avevamo tutti un’espressione persa e assente e per un
po’
nessuno parlò, sapevamo cosa fare, ma eravamo tutti scossi
dagli avvenimenti.
“Stare qui non ci aiuterà.”
Mormorò Nobu.
“Cosa facciamo?”
“Shin, tu e Hachi andate all’appartamento 707, io
andrò al comprensorio.”
“Perché non mi mandi da qualche altra
parte?”
Protestò Shin.
“Avremmo più possibilità di
successo.”
Io annuii.
“Hachi è all’ottavo mese di gravidanza,
con tutto questo
stress potrebbe sentirsi male da un momento all’altro e se
dovesse succedere
preferirei che non fosse sola.”
Io e Shin rimanemmo come fulminati.
“Hai ragione, Nobu.”
Ci dividemmo come stabilito, speravamo tutti di trovare qualche indizio
se non
Nana stessa.
“Mamma, credi che la troveremo?”
“Certo! Nana non ci lascerebbe mai, ha solo avuto paura
dell’ospedale.”
Il mio tono era incerto, da una parte volevo crederci con tutto il
cuore,
dall’altra qualcosa mi diceva che questa volta sarebbe stato
diverso. Se Nana
si fosse sentita tradita o ferita da qualcosa non aveva alcuna ragione
di
tornare da noi: Ren era morto e io ero ormai di Takumi.
Prendemmo un taxi e raggiungemmo l’edificio dove si
trovava l’appartamento 707, lo pagammo e io guardai
preoccupata le rampe di
scale, non mi era mai pesato farle, ma quella mattina il mio pancione
sembrava
pesare cento kili.
“Hachi, tutto bene?”
Mi chiese premuroso Shin.
“Sì, solo le scale mi sembrano così
tante.”
Lui si inginocchiò davanti a me.
“Ma che fai? Sono già sposata!”
Lui rise.
“Mannò Hachi, Sali in groppa, ti porto io fino
all’appartamento.”
“Ma Shin, peso un sacco ora!”
“Non ti preoccupare, devo diventare un uomo, no?”
“Okay.”
Salii sulla sua schiena e lentamente arrivammo alla porta
dell’appartamento
707, lui mi fece scendere e io – dopo aver frugato nella
borsa alla ricerca
delle chiavi – aprii la porta.
“Forza, andiamo.”
“Sì.”
Dentro, la mia stanza era vuota come al solito, in quella
di Nana sembrava fosse passato un ciclone: tutto era in disordine. Io
andai
dritta all’armadio e notai subito che mancavano dei vestiti,
il che
significava…
“Shin, è venuta qui! Mancano dei vestiti e sono
abbastanza sicura che non li abbia portati al comprensorio.”
Presi il telefono e chiamai Nobu, lui rispose dopo
qualche squillo.
“Hai trovato qualcosa, Nobu?”
Gli chiesi speranzosa.
“No. Nessuno ha visto Nana e ho anche controllato le
telecamere, qui non è venuta. Per scrupolo sono passato in
camera sua, sembra
non manchi nulla. Voi?"
“Crediamo sia venuta qui, è tutto in disordine e
mancano
dei vestiti.”
“Ottimo, cercate ancora. Magari troveremo qualche
indizio.”
“Sì.”
Chiusi la chiamata e insieme a Shin ribaltai la stanza di Nana, non
saltò fuori
nulla, non aveva lasciato biglietti o un indizio qualsiasi su dove si
fosse
rifugiata. L’unica cosa degna di interesse era che mancava la
sua chiave
dell’appartamento, l’avevamo cercata dappertutto,
ma non l’avevamo trovata.
Mi sedetti sul letto a pensare e a cercare di dare un
senso a quello che era successo.
Nana se ne era andata per qualche ragione sconosciuta,
era andata all’appartamento 707, aveva preso qualche vestito
– pochi, le
piaceva viaggiare leggera –e la chiave, poi se ne era andata
lasciandosi
indietro tutto, persino la sua chitarra.
Perché l’aveva fatto?
“Secondo te perché Shin?”
Lui si riscosse dai suoi pensieri.
“Per la situazione che si era creata qui oppure deve
avere sentito parte o tutta la confessione di Yasu, forse pensa che
adesso
tutti le nascondano qualcosa.”
Io sospirai, se una cosa del genere fosse successa Nana sarebbe certo
fuggita e
non avrebbe voluto essere ritrovata, dovevo solo pregare che non fossi
così.
Rimanemmo lì fino a che il cellulare di Shin
squillò, lui
scambiò poche parole e chiuse la chiamata cupo, le cattive
notizie sembravano
non voler finire mai.
“Cosa è successo?”
“Dobbiamo tornare al comprensorio, la Gaia Record ci ha
buttato fuori e
dobbiamo sgombrare le nostre stanze.”
Io annuii, per me significava tornare nella mia villa di Shirogane,
quella
villa vuota che odiavo ormai.
“Cosa farai, Shin?
Ce l’hai un posto dove stare? Se no potresti venire da
me?”
“Senza offesa, mamma, ma non mi va di vivere anche con
Takumi. Chiederò a Nobu
di ospitarmi intanto che decidiamo cosa fare.”
“Va bene.”
Dissi sconsolata.
Ce ne andammo, chiamammo un taxi per andare al
dormitorio, nessuno dei due parò.
Io sentivo un freddo dentro che nessun fuoco sarebbe mai
riuscito a scaldare e Shin probabilmente stava cercando di pensare al
suo
futuro. Cosa avrebbe fatto?
Non aveva il diploma liceale e sapeva solo suonare il
basso, non aveva molte prospettive e temevo che ricadesse nel giro
della
prostituzione, non dovevo permettere che accadesse.
Arrivammo alla nostra meta, pagai il tassista ed
entrammo, Yuri era sulla porta con una strana espressione di trionfo,
nemmeno
se cacciare la band fosse stato un torto fatto a me e quindi una specie
di
vendetta per essere stata lasciata da Nobu. Stupida donna.
Andai dritta in camera mia e cominciai a fare le valigie,
non ci volle molto dato che non avevo portato tanta roba, presto mi
ritrovai
nella sala comune con gli altri. Li abbracciai tutti.
“Shin, mi raccomando! Non fare cavolate.”
Shin.
“Nobu, tieni d’occhio Shin e … stammi
bene.”
Nobu.
“Misato, cerca di aiutare Shin.”
Lei annuì, l’unico a cui non dissi nulla fu Yasu
perché
ero ancora arrabbiata con lui.
Finiti i saluti salii sull’ennesimo taxi, mentre la
macchina si allontanava guardavo quell’edificio con profonda
nostalgia,
nonostante ci avessi vissuto poco dopo conteneva anche bei ricordi,
conteneva
Nana.
Non la Nana forte che avevo conosciuto e a cui avevo
scritto di considerarla il mio eroe, ma la Nana debole e ferita che
soffriva
per Ren. Era qualcosa che me la rendeva umana e più vicina a
me che non facevo
altro che fare errori e far soffrire le persone.
Ormai eravamo a Shirogane, vedevo la villa in lontananza,
Junko secoli prima mi aveva detto che mi vedeva bene a fare la
casalinga
benestante. La verità era che quel posto era una prigione,
aveva tutti i
confort, ma rimaneva lo stesso un luogo di reclusione.
Io volevo la casa sul mare con tanto di terrazza
costruita da Nana in cui vivere con lei, Nobu e la mia creatura.
Avevo sbagliato tutto, ma non potevo tornare indietro.
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Capitolo 7 *** Capitolo settimo ***
Capitolo
settimo
Sai, Hachi…
Non mi sono mai chiesta
né avevo mai pensato a come si
fosse sentita mia madre
il giorno in cui mi aveva
abbandonato.
Credevo che mai sarei
diventata come lei, ma mi
sbagliavo, la fuga era
nel mio DNA,
né più né meno della somiglianza
fisica con
lei.
Il bento non sapeva di molto, ma
il consumarlo fuori
dall’ospedale mi rendeva felice.
Non avevo mai amato molto gli ospedali e poi lì
c’era il
mio passato, c’erano le persone che, pur volendomi bene, mi
avevano ferita, lì
c’erano delle conseguenze da affrontare che io volevo evitare.
Estrassi la lettera di Misato e la rilessi di nuovo.
“Quando
una persona
che amiamo così tanto ci lascia in modo così
improvviso le parole perdono il
loro potere e quelle che contano davvero sono quelle che non abbiamo
detto.
Io però vorrei
provare a esserci, sempre che tu lo voglia.
Casa mia è sempre
aperta per te, vieni pure e piangeremo insieme, in fondo alla lettera
ci sono
l’indirizzo di casa mia, quello del ristorante dei miei
genitori e il mio
cellulare.
Non so quando
riceverai questa lettera, ma può darsi che quando accada io
non sia più qui:
voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di
bene e ti porgo ancora le mie condoglianze.
Sei sempre nei miei
pensieri.”
Sorrisi
all’ingenuità di mia sorella, al suo essere
così
buona e candida, dava l’impressione di essere
un’anima forte, ma gentile.
Volevo conoscerla, magari sarei stata da lei per un po’ e poi
avrei cercato un
altro posto.
Buttai via il contenitore del bento e mi diressi a un
bancomat, prelevai il massimo consentito e poi presi la metro per
andare
all’appartamento 707, buona parte dei miei vestiti erano
ancora lì, come se
avessi sempre saputo che le cose non potevano andare bene per sempre.
Una volta arrivata lì, salii i piani di scale e riempii
un borsone con il necessario, avrei voluto prendere la mia chitarra, ma
mi
avrebbe resa riconoscibile e poi era carica di troppi ricordi. Era una
delle
cose che dovevo lasciare indietro se volevo sopravvivere.
Avrei dovuto lasciare lì la mia chiave
dell’appartamento,
invece me la infilai in tasca come a dimostrare che non si possono
recidere
tutti i legami con il passato. Non ci pensai troppo, quella notte il
mio
cervello era sfasato sull’idea di fuga ed escogitava tutti
gli espedienti per
non farmi trovare. Non potevo stare nell’appartamento o nella
città da dove
provenivo, erano entrambi luoghi prevedibili, quindi Okayama sembrava
una buona
opzione.
Andai in stazione, sentendomi avvolta da uno strano senso
di déjà-vu, un anno fa circa ero scesa da un
treno carica di sogni. Mi ero
lasciata indietro la cittadina in cui ero vissuta per
vent’anni, tutte le
vicende dolorose della mia famiglia e Ren, pronta a cominciare una
nuova vita
in città.
Volevo diventare una cantante affermata ed ero proiettata
in questo, ora invece cosa ero?
Ero una fallita, una che aveva mandato a puttane i suoi
sogni.
La mia band aveva perso ogni possibilità di continuare a
suonare per colpa mia, avevo perso Ren e avevo perso Hachi, la mia
unica amica.
Un anno fa credevo di non avere nulla, ora avevo meno di niente.
Scossi la testa, non volevo pensarci, faceva troppo male,
era stato uno degli anni più intensi della mia vita, ma mi
aveva bruciata. Ero
stata una candela che aveva dondolato per un po’ in una
tempesta, ignorando che
il mio destino era quello di tutte le candele: spegnersi.
Andai alla biglietteria e comprai un biglietto di sola
andata e poi andai al binario ad aspettare che il mio treno arrivasse,
mi
accesi una sigaretta e ignorai la gente che mi stava attorno. Speravo
che il
cappuccio alzato e un cappellino da baseball mi aiutassero a farmi
passare
inosservata, a essere una ragazza come tante.
Un quarto d’ora dopo il treno era arrivato, io avevo
obliterato il biglietto ed ero salita, mi ero seduta su un sedile
accanto al
finestrino, quella sensazione di ritorno al passato non mi abbandonava.
La pallida giornata primaverile diventava a tratti una
notte di neve e mi aspettavo da un momento all’altro che
Hachi inciampasse e
finisse per cadermi addosso per poi raccontarmi la sua vita.
Sospirai.
Non sarebbe successo – e lo sapevo benissimo – ma
il mio
cervello non lo accettava, andava frenetico dal passato al presente
senza
soluzione di continuità.
Il treno cominciò a muoversi, uscì dalla stazione
e Tokyo
iniziava ad allontanarsi metro dopo metro, forse era una
città maledetta visto
che non aveva portato fortuna né a me né a Ren.
Cullata dai miei pensieri mi addormentai, sognai di nuovo
il mio ragazzo che si allontanava da me come durante i primi giorni.
C’era solo
una piccola variazione, quando arrivavamo nell’acqua e io lo
toccavo per farlo
voltare i primi giorni mi svegliavo, ora lo vedevo: Ren non aveva
più un volto,
era solo uno scheletro.
Mi svegliai agitata, ma finii per addormentarmi di nuovo.
Questa volta ero nell’appartamento 707 e c’erano i
ragazzi e Hachi, parlavano di me, dicevano che ero scomparsa. Io provai
a farmi
notare, ma era come se fosse invisibile, nessuno si accorgeva di me,
Nobu passò
addirittura dentro il mio corpo: ero diventata un fantasma.
Continuai ad alternare i due sogni fino a che arrivai a
destinazione, quattro ore dopo, erano circa le sette e mezza del
mattino.
Scesi dal treno e mi feci spiegare dove era il ristorante
degli Uehara, ci arrivai giusto per vedere Misato che usciva in
uniforme e
Misuzu sulla soglia che la salutava.
Mi nascosi dietro una macchina, ero stata una stupida a
venire lì, come avevo potuto sperare di incontrare mia
sorella senza vedere mia
madre?
La guardai un attimo, i suoi capelli castani erano
tagliati fino alle spalle e mi somigliava, avevamo un volto molto
simile e la
stessa forma degli occhi.
Sprofondai ancora di più nel mio travestimento e seguii
Misato, era una ragazza sorridente, ma aveva un fondo di tristezza
negli occhi.
Era molto più felice di quanto lo fossi io alla sua
età e questo mi ferii un
po’, la guardavo chiacchierare con una ragazza dai capelli
corti e spettinati e
mi resi conto che io non avevo mai avuto un rapporto del genere con le
mie
compagne di classe. Nobu aveva dovuto stanarmi come un gatto dispettoso
prima
di riuscire a diventare mio amico.
Erano così le persone che avevano una famiglia che le
amava?
Avevano questo scudo che le difendeva dai cattivi
pensieri e dalla cupezza? Da cosa era dato?
Dall’amore? Dal sapere che c’erano delle persone
che ti
guardavano le spalle?
Non avrei saputo dirlo, ma in quel momenti sentii freddo
dentro, ero sola al mondo.
Guardai Misato entrare a scuola e sorrisi, le augurai di
avere una vita lunga e felice, volevo ancora conoscerla, ma avevo
l’impressione
che se l’avessi fatto avrei rovinato anche la sua esistenza.
Yasu non era diventato avvocato, Nobu era destinato a
tornare alla pensione Terashima, Shin sarebbe caduto di nuovo nel giro
della
prostituzione, Misato Uehara – la nostra aiuto manager
– si era rovinata
l’innocenza e in quanto ad Hachi era incinta e sposata a un
uomo che non amava.
E tutto perché avevano incontrato me.
Cosa avrei fatto alla mia sorellina se fosse entrata
nella mia vita?
Mi voltai e tornai a passi lenti verso la stazione, dove
sarei andata ora?
Avevo bisogno di una base per decidere le mie prossime
mosse, ma tutti i miei luoghi erano stati cancellati.
Ricordai all’improvviso una bambina che mi somigliava e
con cui giocavo a volte nelle mie estati solitarie, era la figlia del
fratello
di mio nonno. Una cugina in seconda che si chiamava Miyako,
l’avevo incontrata
una volta a Tokyo prima di andare a vivere nell’appartamento
707. Lei lavorava
come segretaria dell’ufficio comunicazioni tra
l’ambasciata giapponese e quella
americana, viveva nel quartiere diplomatico e si ricordava di me. Mi
aveva dato
il suo numero di telefono e detto di chiamarla se avessi avuto bisogno
di una
mano.
Mi sedetti su di una panchina, era passato quasi un anno
e probabilmente non si ricordava più di me, ma non avevo
altre opzioni. Non
sapevo dove andare e lei avrebbe potuto aiutarmi a uscire dal paese,
solo
all’estero avrei potuto essere libera dal peso della fama.
Sospirando presi in mano il cellulare e chiamai il
numero, il telefono squillò a vuoto per un po’,
poi mi rispose una voce
allegra.
“Pronto, qui è Miyako Osaki! Chi parla?”
“Miyako, io sono Nana Osaki. Ti ricordi di me?”
“Certo che mi ricordo di te! Sei riuscita ad avere fortuna,
la tua band è
diventata famosa.”
Io sorrisi mio malgrado, contagiata dal suo entusiasmo.
“Già. Ti ricordi che mi avevi detto di chiamarti
se
avessi avuto bisogno di una mano?
Ora ho bisogno di una mano.”
“Dimmi pure.”
“Dopo il mio malore al concerto per strada di ieri la casa
discografica ha
licenziato la mia band, io non ho un posto dove andare
perché, per varie
vicissitudini, non posso andare dai miei… amici.”
“Capisco. Beh, me le racconterai davanti a una tazza di the,
ti ospito
volentieri… anche perché anche io ho bisogno di
una mano e chi può aiutarmi
meglio che una di famiglia?”
“Ti ringrazio.”
“E di che? Chiamami quando sei quasi arrivata,
manderò qualcuno a prenderti,
farò in modo che sia una cosa discreta, girano strane
voci.”
“Del tipo?”
Il mio cuore accelerò i battiti.
“Che sei scomparsa, che ti sei suicidata.
Ho il sospetto che tu non voglia essere trovata, mi
sbaglio?”
“No, non ti sbagli. Grazie mille ancora.”
“Nessun problema.”
Chiusi la chiamata, ero metà sollevata e metà
agitata.
Sollevata perché presto avrei potuto avere un luogo
– per
di più protetto dall’immunità
diplomatica – per pensare, agitata perché la mia
fuga aveva messo in allarme tutti e generato pettegolezzi e chiacchiere
di cui
non avevo bisogno.
Ma cosa avrei potuto fare arrivata a quel punto?
Scappando dall’ospedale avevo scelto una strada e non
potevo tornare indietro, dovevo solo andare aventi e vedere dove mi
avrebbe
condotta. Non era quello che sognavo, ma ormai non mi importava
più, ero così
stanca e sfiduciata. Hachi aveva detto una volta che Reira odiava la
sua voce,
la stessa che da molti era considerata un dono di Dio, io al momento
non avevo
capito, ma ora era tutto chiaro.
Una voce potente ti spinge su un’unica difficile strada,
ti chiude tutte le possibilità, abbandonarla diventa quasi
impossibile e
finisci per essere schiacciata dai tuoi stessi sogni.
Beh, io ero riuscita a scappare e dovevo considerarmi
fortunata a modo mio.
Tornai in stazione e acquistai un biglietto per Tokyo, era
la seconda volta in un giorno in cui salivo su di un treno. Lo aspettai
paziente e quando arrivò vi salii, non ebbi incubi. A pochi
chilometri dalla
capitale chiamai Miyako e le dissi dove ero, lei mi dissi che qualcuno
sarebbe
venuto a prendermi fuori dalla stazione, io la ringraziai.
Un quarto d’ora dopo il treno rallentava entrando nella
stazione, io raccolsi il mio borsone sospirando: volevo allontanarmi da
Tokyo,
ma sembrava che avessi addosso un elastico che mi rimportava al punto
di
partenza se mi allontanavo troppo. Dovevo tagliarlo.
Scesi dal treno e uscii dalla stazione sospinta dalla
massa dei pendolari, nel parcheggio c’era una macchina scura
con un uomo
appoggiato ad essa. Mi fece in segno discreto, io lo raggiunsi e mi
sorrise.
“La signorina Osaki?”
“Sono io.”
“Somiglia alla nostra signorina Osaki.”
“Siamo cugine.”
Risposi con voce incolore.
Chissà come sarebbe stato questo incontro?
Baci e abbracci o fredda cortesia?
A parte la chiamata di poche ore prime, l’unico ricordo
che avevo di Miyako era quello di una bambina sorridente dai lunghi
capelli
neri che indossava tutti i vestitini allegri e femminili che a me erano
stati
vietati.
Il quartiere delle ambasciate era un luogo tranquillo,
c’erano dei bei palazzi con enormi giardini protetti da muri
e cancellate che
gridavano al mondo il bisogno di privacy. Mi chiesi se anche Miyako
vivesse in
un casa del genere, erano persino più grandi
dell’appartamento di Ren o di
quella di Hachi a Shirogane.
La casa si fermò davanti a un’elegante palazzina,
che era
un condominio notai con un certo sollievo.
“La signorina Miyako abita all’ultimo
piano.”
“Sì, grazie.”
Presi il mio borsone e suonai il campanello, poco dopo sentii il
sistema
d’allarme disinserirsi e la porta aprirsi, dentro
c’era un enorme atrio con un
gabbiotto di vetro per il portiere, una scala che saliva a chioccola in
una
curva raffinata sottolineata dalle
ringhiere in ferro sinuose e un ascensore retrò.
Mi avviai verso quello, era in stile liberty con una
porta in ferro battuto che si aprì quando schiacciai il
pulsante. Dentro
digitai il pulsante dell’ultimo piano e quando ci arrivai
notai che
l’appartamento di Miyako era il numero 7, sorrisi e suonai il
campanello.
Aspettai e qualche istate dopo lei arrivò ad aprirmi con
lunghi capelli e lisci capelli rossi, divisi da una scriminatura
centrale,
indossava una maglia dei Black Stones e i pantaloni di una tuta, aveva
anche un
sacco di buchi alle orecchie per essere una che lavorava nella
diplomazia.
“Ciao, Nana!
Vieni, entra!”
Mi trascinò dentro insieme al mio borsone, sembrava di buon
umore, aveva una
sorriso che le illuminava il volto.
“Ciao, Miyako. Scusami se ti sono piombata in casa
così
all’improvviso.”
“Non c’è alcun problema, mi stavo
annoiando.
Vuoi del the? Del caffè?”
Volevo una birra, ma era decisamente troppo presto.
“Del the va bene.”
“Ok.”
Sempre sorridendo sparì in cucina, non capivo il suo
atteggiamento, ma almeno
non era ostile.
Sembrava quasi di essere davvero in famiglia, da bambina
le stavo simpatica anche se i suoi genitori non volevano giocasse con
me: io
ero la rinnegata.
Figlia di una madre che era scappata di casa a diciotto
anni, che aveva iniziato un amore illecito, era rimasta incinta e aveva
abbandonato la propria prole.
Credo temessero tutti che avessi il DNA della troia, ecco
perché dovevo sopportare tante privazioni ed era meglio che
non si giocasse con
me, potevo essere contagiosa per quel che ne sapevano loro.
Miyako tornò con due tazze di the verde e le depose sul
tavolo.
“Sono stata davvero felice quando la tua band è
diventata
famosa, probabilmente sei l’unica nella famiglia Osaki che
abbia fatto qualcosa
di interessante.”
“Credo sia perché non ho mai davvero fatto parte
della
famiglia.”
Lei non disse nulla per un po’.
“Probabilmente hai ragione, mia madre si arrabbiava molto
quando giocavo con te, non capivo il perché, ma adesso lo
so. Sono come tua
madre, ma non parliamo di me.
Cosa ti è successo?
Come mai sei qui?”
Bevvi un sorso del mio the, ottimo anche, e cominciai a raccontare
tutto, dal
principio. Da quando Ren se ne era andato a Tokyo per seguire i suoi
sogni
lasciandomi indietro, alla notte in cui anche io ero salita su di un
treno per
lo stesso motivo. Le raccontai tutto quello che era successo in un anno
folle:
Hachi, ritrovare Ren, la gravidanza della mia amica, il mio quasi
matrimonio,
la morte dell’unico uomo che io avessi mai amato e tutto il
resto.
Miyako mi ascoltava in silenzio, senza interrompermi e
con lo sguardo attento, ogni tanto un brillio di emozione faceva
capolino in
quegli occhi così simili ai miei, ma non voleva che io
perdessi il filo.
Dopo quelle che parvero ore tacqui e la guardai, era
innegabilmente triste e mi dispiacque per lei che si era fatta carico
di una
fallita come me.
“Nana, mi dispiace.
Vieni da un anno durissimo, capisco perché tu voglia
scappare. Rimani pure quanto vuoi, se vorrai andare
all’estero ti aiuterò
volentieri. L’unica cosa che non capisco è
perché tu voglia escludere i tuoi
amici.”
“Sono davvero miei amici?
E se lo fossero, sono una presenza utile nella loro vita o
l’ennesima grana di cui occuparsi?
Non voglio essere una grana.”
“Capisco, forse con il tempo cambierai idea.”
Sparecchiò e lavò le tazze.
“Miyako?”
“Sì?”
“Cosa significa che sei come mia madre?”
Lei si toccò la pancia.
“Sono incinta, il padre del bambino è sposato e
non lo
riconoscerà mai.
Mi ha detto che lo manterrà, ma non vuole incontrarlo o
incontrarla.”
“Di quanto?”
“Due mesi.”
“Hai mai pensato all’aborto?”
Lei mi guardò scandalizzata.
“No! Amo questa piccola vita!”
Anche lei!
E io ancora non capivo, come potevano desiderare e
persino amare qualcosa che era un ostacolo per la loro vita futura?
Perché io
non avevo un istinto materno?
Perché per me avere un figlio era un’idea
più spaventosa
del morire stesso?
Avere figli era una cosa naturale, perché io non la
concepivo come tale, ma come una minaccia?
In ultima analisi era stata quella la cosa che mi aveva
allontanata di più da Ren dopo i Trapnest, lui mi aveva
sempre detto di volere
dei figli, ma io gli avevo opposto un rifiuto granitico, avevo
continuato a
prendere la pillola fino alla fine.
Come sarebbe la mia vita ora se avessi avuto un figlio da
lui?
Vorrei ancora scappare o avrei una ragione per rimanere e
andare avanti?
Mi toccai il mio ventre vuoto e scossi la testa, ormai le
cose erano andate come erano andate e non c’era motivo di
torturarsi
sull’ennesimo “se” della mia vita.
“Se” era la particella che più odiavo,
implicava possibilità di futuri migliori del presente in cui
ero condannata, ma
erano impossibili da raggiungere.
Se avessi accettato di avere un figlio da Ren, se lui non
se ne fosse andato, se Hachi non fosse rimasta incinta, se Nobu avesse
combattuto di più per lei, se qualcuno mi avesse detto della
tossicodipendenza
di Ren, se Reira non fosse scappata, se mia madre non mi avesse
abbandonata…
Se, se, se e ancora se.
“Hai l’aria stanca, vuoi riposare?”
Mi chiese Miyako.
“Sì, grazie.”
Mi accompagnò in una stanza grande più o meno
come la mia nell’appartamento 707
e mi indicò letto, armadio e dove fosse il bagno.
“Grazie, Miyako. Credo che farò una doccia e
dormirò.”
“Va bene, qualsiasi cosa ti serva io sono di
là.”
Annuii e tirai fuori il necessario per la doccia dal borsone e mi
infilai in
bagno: era bianco, con una bella doccia e una grande vasca da bagno. La
accarezzai distratta, pensando a quella con le zampe di leone
dell’appartamento
707.
Alla fine feci una lunga doccia che mi aiutò a togliermi
un po’ della stanchezza dovuta ai due viaggi in treno e a una
fuga
dall’ospedale.
Chissà se qualcuno mi stava cercando a quest’ora?
Riuscivo a percepire nettamente Hachi e Nobu smuovere
montagne per me, ma non Yasu e Shin, non più. Yasu non era
più la persona che
credevo di conoscere e Shin non sembrava felice di avermi attorno
nell’ultimo
periodo. Doveva essersi stancato anche lui del mio carattere da
psicopatica o
forse qualcuno gli aveva detto come ero stata rapida a decidere di
sostituirlo
con Ren al primo problema.
Scossi la testa, avevo finito di asciugarmi i capelli,
quindi mi buttai a letto, cercando di non pensare e di non ricordare.
Avevo
intrapreso questa strada da sola e da sola dovevo percorrerla, avevo
trascinato
con me troppe persone nei miei casini.
Dove potevo andare?
Questo fu l’ultimo pensiero che ebbi prima di cadere in
un sonno senza sogni, nero e spesso che mi avvolse come una coperta e
tenne
lontano incubi e ricordi.
Dovevo essere allo stremo delle forze fisiche e mentali
se il mio inconscio veniva così violentemente espulso dal
posto che gli
competeva.
Mi svegliai che era pomeriggio inoltrato, la luce
proiettava ombre lunghe nella stanza.
Mi ci volle qualche secondo per capire dove ero e come ci
fossi finita, il mio cervello stava già iniziando a
liquefare i ricordi del
giorno prima in una nebbia indistinta che mi lasciava disorientata.
Mi alzai, indossai qualcosa di comodo e andai in salotto,
Miyako stava lavorando sul suo portatile: le dita correvano leggere e
veloci
sui tasti. Ne rimasi affascinata, io a stento sapevo usare il cellulare
e
mandare messaggi prima che finisse l’anno corrente.
“Oh! Ciao, Nana!”
“Ciao, Miyako.”
“Come ti senti?”
“Non lo so.”
Risposi sincera, era tutto così strano che non riuscivo a
elaborarlo come i primi giorni dopo la morte di Ren.
C’è una parte in me restia ad accettare tragedie e
cambiamenti, una piccola bambina sperduta con un orso di peluche in
mano, la
stessa che venne abbandonata da sua madre a quattro anni.
“Nana, sei sicura che sia la cosa giusta?”
“Se io tornassi adesso verrei di nuovo coccolata da tutti, ma
per loro sarei un
peso, le nostre vite prenderanno direzioni differenti. I Blast sono
morti, io
li ho uccisi.”
Lei sembrò voler dire qualcosa, ma poi tacque.
“Un po’ ti invidio, hai sempre avuto questa forza,
anche
da piccola.
Non te fregava nulla di quello che pensavano gli altri,
inclusa la nostra famiglia e sei sempre andata avanti, io invece ho
paura.”
“Paura?”
Si toccò il ventre.
“I miei genitori mi hanno cacciata, è come se
fossi morta
per loro perché ho infranto il loro codice. La mia vita era
già programmata,
avrei lavorato qui – nel settore della diplomazia –
fino a che loro non
avrebbero trovato un uomo ricco e prestigioso con cui mi sarei sposata
e avrei
avuto dei figli.
Ora invece sono incinta di un uomo che non potrò mai
sposare e ho una paura folle, non so che futuro potrò
assicurare a me e a
questa vita. Ecco perché vorrei avere il tuo
coraggio.”
I genitori di Miyako erano così diversi da quelli di
Hachi che me ne stupii, data la mia ignoranza in campo familiare
pensavo che
fossero tutti uguali. Era una conclusione ingenua, in fondo la mia
famiglia era
stata tremenda con me e con mia madre.
“Senti, starò con te fino a che avrai partorito.
Ti va?”
“Sì, ci sto. Grazie, Nana.
Ma cosa farai dopo?”
“Non lo so, vorrei lasciare il Giappone perché
sono stanca dei giornalisti, ma
non ho ancora deciso dove andare, ci penserò in questi
mesi.”
“Capisco.”
“Io volevo solo una cosa: cantare.
Pensavo fosse una benedizione, l’unica che gli dei mi
avessero concesso in questa vita, ma i realtà era una
maledizione. Si è portata
via tutto ciò a cui tenevo, vorrei essere come Reira che si
rifiuta di cantare,
ma io voglio continuare a farlo e questo egoismo mi fa soffrire.
È come se fossi sopra una pila di cadaveri dei mie amici
e me ne fregassi di loro.
Ho sempre cordialmente detestato Reira, pur ammirandola
dal punto di vista professionale, credevo di essere migliore di lei, ma
mi
sbagliavo.
Pur essendo infantile e egoista è migliore di me.”
“Io credo che ti giudichi con troppa durezza.”
Io scossi la testa.
In un angolo della stanza c’erano Ren e mia nonna,
entrambi mi guardavano con disapprovazione, i loro occhi erano freddi e
ora
capivo perché.
Io non onoravo i morti, andavo semplicemente avanti
ignorando la loro esistenza e ora erano entrambi a ricordamelo e sapevo
che ci
sarebbero sempre stati.
Non importa dove fossi andata, in ogni angolo di
qualsiasi stanza in cui sarei stata loro sarebbero sempre stati
lì.
I morti se non li onori ti uccidono, ecco perché
preghiamo per loro.
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Capitolo 8 *** Capitolo ottavo ***
Capitolo ottavo
Sai, Nana...
la prima volta che ti
vidi su uno di quei palchi
improvvisati nelle
vie centrali di Tokyo
dopo il mio trasferimento da
Takumi, mi chiesi cosa
ci fosse di diverso tra
il realizzare un sogno e trovare
la felicità.
Ora lo so. Succede
quando ottieni quello che vuoi, ma non
quello di cui hai
veramente bisogno. Io non avevo bisogno
di
Takumi, avevo sempre
avuto bisogno dei Blast.
Era passata una settimana dalla
scomparsa di Nana.
I ragazzi si erano divisi, Shin e Yasu la cercavano a
Tokyo insieme a Shion e a Miu, Nobu era tornato nel loro paese natale
per
vedere se fosse lì. Aveva chiamato dicendo che
l’appartamento di Nana e Ren non
era stato aperto, non era passata per la pensione Terashima, dalla casa
di sua
nonna o nell’alloggio dove abitava prima di vivere con Ren.
In generale, a Mori, nessuno ricordava di averla vista, il
che significava che non era passata da lì o se
l’aveva fatto non si era
trattenuta a lungo, di solito nei paesi piccoli le facce nuove o che
ritornano
vengono notate.
Non sapere dove fosse Nana mi faceva stare male, era come
se mi mancasse la terra sotto i piedi.
In passato era già successo che fossimo divise, ma sapevo
sempre dove trovarla: ai concerti, all’appartamento 707, da
Ren o nel
comprensorio.
Ora era tutto diverso, non sapevo dove immaginarmela, la
sua decisione aveva cancellato tutto come fa un’onda con i
castelli di sabbia
dei bambini. Perché se ne era andata?
Perché non mi aveva lasciato nemmeno il più
minimo
indizio?
Perché non mi aveva portata con sé?
Questo era un pensiero egoista, stavo per partorire e
pensavo a scappare come una ragazzina, era ironicamente terribile.
Tutto lo
era.
Nana aveva sofferto tutta la vita per colpa di una
persona scomparsa e ora ci stava infliggendo lo stesso tormento. Non
riuscivo a
credere che lo avesse fatto, mi aspettavo di rivederla presto,
perché non
potevo accettare che lei diventasse la mia persona scomparsa,
all’epoca lei era
ancora il mio eroe.
Un po’ ferito e coperto di polvere, ma pur sempre il mio
eroe, non potevo avere riposto la mia fiducia nella persona sbagliata.
Dovevo
credere in lei come avevo sempre fatto.
Il campanello suonò all’improvviso, io mi alzai
abbandonando la rivista che facevo finta di leggere e corsi alla porta
con il
cuore leggero.
Era lei, era tornata!
Aprii la porta e il mio cuore tremò per la delusione:
davanti a me c’era Takumi.
Cosa ci faceva lui qui? Non era da Reira?
“Ciao.”
Gli dissi incerta.
“Non mi inviti a entrare?”
“Ma certo! Vieni, questa è casa tua dopotutto.
Vuoi che ti prepari un caffè o magari un bagno? Sarai
stanco!”
Lo stavo investendo con un fiume di parole per mascherare la delusione
e
l’irritazione che provavo nel vederlo.
“Nana! Siediti, dobbiamo parlare.”
Il tono era insolitamente duro, anche per uno come lui, mi domandai
cosa
diavolo fosse successo.
“Okay.”
Mi sedetti sul divano con le mani in grembo nervosa, lui rimase in
piedi
impassibile.
“Reira è incinta di quattro mesi, è un
maschio e, date le
circostanze, non le è legalmente possibile
abortire.”
Io stavo per dire qualcosa, ma lui fece cenno di tacere.
“Io sono il padre e lo riconoscerò,
crescerà qui con Satsuki.”
Mi sentii venir meno, avevo sempre saputo che c’era un
rapporto speciale tra
Reira e Takumi, ma tutti mi avevano sempre detto che erano come
fratello e
sorella, o almeno secondo il punto di vista di mio marito. Ora scoprivo
che non
era così, che mentre io mandavo avanti la gravidanza che mi
aveva rovinato la
vita, lui si scopava la sua sorellina. La rabbia prese possesso di me e
mi
alzai di scatto, volevo andarmene da quella casa costruita sulle
menzogne: dai
miei, da Nobu, qualsiasi posto mi andava bene tranne che con Takumi.
Corsi in camera e cominciai a infilare delle cose a caso
in un borsone cercando di tenere a bada le lacrime, non volevo che lui
mi
vedesse piangere, ci sarebbe stato del tempo dopo per farlo.
Quando finii Takumi allungò un braccio per sbarrarmi la
strada.
“Cosa vuoi fare?”
“Non è ovvio? Me ne vado!
Questo matrimonio è sempre stato una farsa e non so nemmeno
perché l’ho
cominciata!”
“Te lo dico io, ami i soldi, Nana. Non vuoi fare la vita da
pezzente, non l’hai
mai voluta.
E poi dove pensi di andare?
Dai tuoi genitori per spezzare loro il cuore?
Da Nobu che non ha più nemmeno un soldo e non sa cosa
fare delle sua vita?
O magari da Nana?
La stessa Nana che ti ha lasciato indietro come
spazzatura inutile.
Tu hai solo me, tu non puoi stare con nessun altro che
con me.”
Avrei voluto urlare che non era vero, che qualcuno avrei trovato, ma un
dolore
lancinante alla pancia mi fece crollare a terra. Mi contorcevo per il
dolore e
persi la concezione del tempo, qualcuno arrivò –
paramedici – e mi caricò su di
un’ambulanza.
Persi i sensi, al mio risveglio ero in ospedale.
Un’infermiera arrivò poco dopo con aria
preoccupata.
“Signora Ichinose, come si sente?”
“Sono stanca, cosa è successo?”
“Ha rischiato di perdere la bambina, sospettiamo che un
qualche shock abbia
indotto a un parto prima del tempo. Adesso comunque state bene
entrambe, solo
che da adesso al momento del parto fissato lei dovrà
trascorrere il suo tempo a
letto.”
“La mia è diventata una gravidanza a
rischio?”
“Sì. Vuole vedere suo marito?
La aspetta qui fuori.”
“Gli dica di andare a casa o meglio che se ne torni in
Hokkaido e non si faccia
più vedere.”
Risposi secca con la rabbia che mi pulsava in corpo,
l’infermiera se ne accorse.
“Non faccia così, emozioni del genere non fanno
bene alla
bambina.
Allontanerò suo marito e tra poco le darò
qualcosa per
calmarsi e farla dormire.”
“Va bene, ma non fatemelo vedere.”
Ringhiai, non ero mai stata così arrabbiata in vita mia.
Mi ero sempre considerata una persona gentile, ma Takumi
aveva scatenato il mio demone personale e ne avrebbe pagato le
conseguenze, non
gli avrei reso la vita facile dato che lui aveva reso la mia un inferno.
Rimasi ricoverata per tre giorni, poi venni dimessa e
tornai alla villa con Takumi, non ci parlavamo.
Arrivati a casa mi misi a letto, Miu mi aveva portato un
libro sull’arte della vestizione e cominciai a leggerlo: era
molto
interessante.
Ero prigioniera, non potevo alzarmi dal letto e dovevo
vivere con lui, questo mi avrebbe reso felice qualche mese prima ora
invece mi
irritava e basta.
Non facevo altro che urlare, ben sapendo che non mi
faceva per niente bene, mi sentivo in colpa verso Satsuki, ma non
abbastanza da
trattenermi.
Una settimana dopo il mio ricovero venne a trovarmi Shin,
ero felice.
“Shin, come stai?”
Gli chiesi premurosa.
“Io sto bene, ma tu, mamma?
Cosa ti è successo?”
“Nulla, non ti preoccupare. Avete trovato qualche traccia
di Nana?”
Non volevo dire a nessuno della gravidanza di Reira e del
fatto che avrei dovuto accettare quel bambino come mio, soprattutto a
Shin che
l’aveva amata.
“No, nessuna. Sembra sparita dalla faccia della
Terra.”
Mi portai le mani davanti alla bocca, pensando
immediatamente al suicidio e al suo desiderio di raggiungere Ren.
“Stai calma, Hachi. Non trovarla non significa che sia
morta, non ci pensare nemmeno nelle tue condizioni.”
“Ma se fosse davvero così?”
Mi fissò con i suoi occhi castano chiaro, ipnotici.
“Se fossi così lo sapremmo, il suo corpo sarebbe
stato
ritrovato.
Finché non trovano il corpo di Nana c’è
speranza.”
Io annuii, rincuorata.
Shin aveva ragione, anche se si fosse uccisa in mare
prima o poi il suo corpo ci sarebbe stato restituito.
Parlammo ancora un po’ del suo futuro, a quanto pare
Misato Tsuzuki aveva deciso di aiutarlo ed era convinta che lui potesse
farcela
come attore. A lui andava bene, un po’gli dispiaceva non
suonare più, ma in
qualche modo doveva campare e sapeva di non avere molte chance con il
solo
diploma di scuola media.
Non aveva alcuna intenzione di tornare a prostituirsi,
non aveva più la promessa fatta a Nana a trattenerlo, ma
Shin adesso aveva un
po’di amore per sé stesso perché
sentiva di avere intorno una famiglia.
Era una famiglia strana e disastrata, ma gli dava la
forza necessaria per non cedere.
“Mamma, cosa è successo?”
“Cosa intendi dire?”
“Deve essere successo qualcosa tra te e Takumi, sei stata
così male da andare
in ospedale e adesso non vi parlate.”
“Non è nulla di che.”
“Hachi, dimmelo. Per favore.”
Io abbassai gli occhi.
“Shin…”
“Mamma, voglio saperlo.”
“Non hai pensato che per te sarebbe meglio non saperlo
affatto?”
“Se quell’uomo ti ha fatto soffrire lo voglio
sapere, sono l’unico che può
proteggerti ora come ora.”
Scoppiai in lacrime, erano giorni che quel segreto mi logorava e avevo
bisogno
di parlarne con qualcuno.
La verità era quella, io non potevo vivere con dei
segreti come faceva Nana, eravamo fatte di materiali diversi.
“Reira è incinta.”
Ansimai.
“Il bambino è di Takumi, lui lo
riconoscerà e poi lo farà
venire a vivere con noi.”
Proseguii tra i singhiozzi, Shin si alzò in piedi di
scatto.
Poco dopo sentii delle urla provenire dal piano di sotto,
mi alzai e raggiunsi le scale: anche senza scenderle, lì la
conversazione si
sentiva benissimo.
“Ma come hai usato fare questo a Hachi?
Usarla per crescere i tuoi bastardi, non è un animale da
usare a tuo piacimento.
Mi fai schifo!”
“Zitto, ti sto facendo un favore!”
Urlò Takumi.
“Un favore? E che favore?
Trattare di merda l’unica persona che mi abbia mai
trattato bene senza secondi fini?”
“Coglione, il figlio è tuo!
Io lo riconosco
solo per non mettere nei casini tu e Reira. Pensaci, tu sei minorenne e
lei
potrebbe finire in carcere. Mi hanno detto che vuoi provare a fare
l’attore, se
io non riconoscessi il bastardo come mio la tua carriera finirebbe
quando la
stampa saprà che è tuo. E credimi, ci
metterà poco, sanno già della tua storia
con Reira.”
Shin rimase in silenzio, poi sentii una porta sbattere, doveva essere
quella
d’ingresso.
Shin se n’era andato, io mi trascinai a letto di nuovo.
Ero svuotata da qualsiasi energia, il figlio non era di
Takumi, ma questo non mi rendeva le cose più facili, anzi mi
sentivo sempre più
prigioniera in una rete di giochi che non era la mia.
Io volevo solo sposarmi ed essere felice.
Avevo avuto quello che volevo, ma si era rivelato essere
quello di cui non avevo bisogno.
Scoppiai a piangere fino a che non mi addormentai.
Il mattino dopo era sereno e
luminoso.
Probabilmente i ciliegi erano in fiore ed era la giornata
giusta per andarli a vedere, io ero confinata a letto dalla mia
condizione. Ci
sarei dovuta rimanere per altre tre settimane, probabilmente sarei
impazzita
prima visto i pensieri contradditori che si agitavano in me.
Ero felice di stare per conoscere Satsuki, allo stesso
tempo la odiavo, ero felice che dopotutto il figlio di Reira non fosse
di
Takumi e allo stesso tempo li odiavo tutti e due. La vecchia Hachi
sembrava
essere sparita, senza Nana non ero me stessa.
Ovviamente non c’erano notizie e presto ognuno avrebbe
dovuto tornare alla sua vita, sarebbero andati avanti, io invece
restavo
indietro con due marmocchi da crescere.
Qualcuno bussò alla porta ed entrò: Reira.
Era molto più magra dell’ultima volta che
l’avevo vista,
la pancia si vedeva a malapena, i capelli erano poco curati e gli occhi
erano
spiritati. Soffriva come una donna sul rogo e una parte di me ne godeva
immensamente.
“Che ci fai qui?”
Le chiesi poco gentilmente.
“Nana, ne ho parlato con Takumi, ma lui non mi vuole dare
retta.
Potreste adottare il mio bambino?”
Non credevo alle mie orecchie, era così egoista da non
accettare di affrontare
le conseguenze delle sue azioni?
Shin non si meritava una donna simile nella sua vita, ero
felice che si fossero lasciati.
“No. Il bambino è tuo, Takumi mi ha già
imposto di
crescerlo, non accetterò altre condizioni.
Se non volevi una gravidanza avresti dovuto stare più
attenta prima, adesso non puoi fare finta che non sia successo nulla.
Quanto
vorrai esserci nella vita di questo bambino lo deciderai tu, ma io non
ti posso
e non ti voglio sostituire.”
"Ma Nana, io non…”
“Basta con questo io! Non capisci che a causa di questo tuo
atteggiamento
ferisci tutti quelli che ti circondano? Takumi, Shin, Ren!
Invece di piangere perché una certa cosa è andata
così
cerca di prevenirla!
Sono stufa di te, vattene!
La mia gravidanza è a rischio e non posso permettermi
emozioni forti.”
Lei si allontanò dal mio letto.
“Tu mi odi, Nana?”
“Sì, ti odio. Adesso te ne puoi andare?”
Lei abbassò la testa e uscì dalla stanza, in
quanto a me cercai di calmarmi.
Avevo i pugni stretti, il mio respiro era accelerato e mi
sembrava che il cuore mi stesse scoppiando in corpo.
Mi sembrava di essere precipitata in un incubo da cui non
riuscivo a svegliarmi, mi dibattevo e basta, ero senza pace. Sul rogo
ci ero
finita anche io, qualcuno doveva spegnere quell’incendio.
Ma chi?
Takumi che lo aveva acceso?
Nobu che avevo allontanato per il mio egoismo?
Shin che in quel momento soffriva quanto me?
Nana che se ne era andata?
Mi ero detta che dovevo diventare forte, ma non pensavo
fosse così difficile, sembrava che l’universo
cospirasse contro di me per
mantenermi debole.
Finalmente il mio respiro tornò regolare e ripresi a
leggere il libro sulla vestizione, quel mestiere doveva diventare il
mio futuro
perché non volevo più essere totalmente
dipendente da mio marito.
Non mi ero mai impegnata troppo nei miei lavori
precedenti, ora dovevo cambiare questo atteggiamento, volevo tenermi
aperta una
via di fuga. In caso le cose fossero andate troppo male con Takumi
volevo
essere in grado di mantenere me e mia figlia da sola e di poter
divorziare.
Quel pomeriggio venne a trovarmi Shin, sembrava più magro
e smarrito, da dopo la morte di Ren era la prima volta che lo vedevo
per quel
che era: un adolescente in difficoltà.
“Ciao.”
Mi disse sedendosi sulla sedia accanto al letto.
“Come stai?”
“Sono arrabbiata e non posso esserlo.”
“Mi dispiace.”
Dicemmo insieme.
Solitamente quando si verifica una cosa del genere le
persone ridono, noi non avevamo motivo per farlo, la situazione non era
divertente. Lui si scusava di avere messo incinta Reira e io di avergli
messo
questo peso sulle spalle.
“Non è colpa tua.”
Mormorai infine.
“No? Avrei dovuto capire che non ne sarebbe venuto di
buono, innamorarsi di una cliente non è mai una buona idea.
Credo che
innamorarsi in generale non sia una buona idea.”
“Shin, non è colpa tua. È colpa di
Reira che ti ha usato
per non pensare al suo amore per Takumi, è lei che ti ha
messo in una
situazione incasinata, è lei che è stata egoista.
E l’amore è una
buona idea.”
“Sì? E tu sei felice?”
Sospirai.
“Io non sono felice perché non ho amore, io e
Takumi ci
siamo sposati per interesse.”
Rimasi un attimo in silenzio.
“Ti ricordi come era quando io e Nobu stavamo insieme?
Come eravamo noi?”
Lui corrugò le sopracciglia.
“Lui sembrava al settimo cielo, aveva un sacco di
energia, sorrideva sempre ed era ottimista, sembrava pronto a rubare la
luna
per te. Tu invece sorridevi sempre, era come se ti avessero acceso una
luce
dentro.
Quando eravate insieme eravate quasi sincronizzati.”
“Esatto, questo è l’amore, Shin.
Questo è quello che devi cercare e – quando lo
trovi –
non lo devi mai lasciare andare.
Impara qualcosa da noi, per favore.”
Lui annuì non del tutto convinto.
“Non mi odi quindi?”
“Come potrei? Sei mio figlio, no?
Ci siamo scelti a vicenda e non rimpiango nulla.”
“Hachi, sei la persona più generosa e gentile che
io abbia mai incontrato in
vita mia, ti voglio bene, davvero.”
“Anche io te ne voglio.”
Ci abbracciamo stretti, cercavamo di trovare calore e conforto uno
nell’altro
per sopportare la vita che ci trovavamo a vivere.
“Takumi non ti merita, perché non torni da
Nobu?”
“Devo pensare al bene di Satsuki e poi voglio trovare
Nana prima, senza contare che non ho idea se Nobu mi rivoglia o meno
nella sua
vita. Io l’ho ferito.”
“Ma lui ti ama.”
“Anche io lo amo, ma non è facile. Non
è così facile.”
Stavo per piangere e lui se ne accorse, mi cullò piano come
una bambina.
Ecco perché avevo bisogno dei Blast e mi mancavano: Shin
era il mio adorato figlio adottivo, Nobu il mio amore, Nana
l’amica che è come
una sorella, quella che non ti molla mai ed è sempre al tuo
fianco e Yasu il
padre saggio.
Perché li avevo persi lungo la via?
La mia seconda famiglia mi mancava da morire.
“Va tutto bene, Hachi.
Se è destino che voi stiate insieme la vita
troverà le
sue vie, non piangere.”
“È che sono così stanca, Shin.
Ho scelto io questa via, ma mi sembra così difficile da
percorrere.”
“Va tutto bene, io sono sempre dalla tua parte,
ricordatelo.
È solo grazie a te e ai ragazzi che ho imparato a volermi
un po’ bene e ad accettarmi.”
“Grazie, Shin, grazie.”
Continuò a cullarmi fino a che non se ne andò,
aveva un casting.
“Buona fortuna, Shin.
So che ce la puoi fare.”
Lui mi sorrise e uscì dalla mia stanza, ero di nuovo da
sola, ma mi sentivo
meglio.
Ripensai a una serata d’estate in cui avrebbero esserci
dei fuochi d’artificio e invece c’era stato un
tifone, a quando era finito e a
come un gruppetto di ragazzi si era poi divertito con i fuochi del
supermarket
mezzi bagnati.
Ora io ero nel tifone, dovevo solo aspettare che finisse
per poi avere la mia parte di felicità, quando Satsuki
sarebbe stata abbastanza
grande da capire un divorzio e Nana sarebbe stata di nuovo al mio
fianco. Non
sapevo se Nobu vi avrebbe aspettata per tutto quel tempo, ma lo speravo.
Anche quella sera Takumi si fermò a cena da noi,
normalmente era un fastidio e anche in quella occasione lo era, ma
avevo
qualcosa da dirgli.
“Takumi…”
Esordii con la mia voce più fredda.
“Sì?”
“Di’a Reira di non venire più da me, io
non posso fare nulla per lei.”
“Reira è venuta qui?”
Sembrava davvero sorpreso.
“Sì, mi ha chiesto di adottare suo figlio e ho
rifiutato.
Dille di non venire più:”
“Va bene, glielo dirò. Però
forse…”
“Dovrei considerare la sua idea? No.
Lo so che non è tuo figlio, ma non ho intenzione di
sollevarla dalla responsabilità che comporta diventare
madre.”
“Non pensi di essere troppo dura con lei?
In fondo è solo una bambina.”
“Ha ventitré anni, non è più
una bambina. Deve imparare a prendersi le
conseguenze delle sue azioni.”
Lui fece per dire qualcosa, ma poi tacque.
Fu una buona idea perché se avessi iniziato a parlare non
sarei stata in grado di smettere di insultarlo, ero arrabbiata con lui
e con me
stessa, forse il peggior tipo di rabbia.
Non volevo riprendere a recitare il mantra dei se, non di
nuovo o sarei impazzita, il mio sogno si era trasformato in un incubo e
mi
stava schiacciando.
Finita la cena
uscii in giardino e mi sedetti su una panchina, quella notte
c’era una stellata
splendida, di come non avevo mai visto a Tokyo, quasi un tentativo
dell’universo di consolarmi.
Guardai le stelle a lungo, lasciando che la loro luce mi
riempisse, poi pregai Ren, gli chiesi la forza per andare avanti. Un
stella
brillò e sembrò rispondere alla mia preghiera.
Mi chiesi se anche Nana le stesse guardando, se anche lei
ne fosse rimasta incantata o se il suo sguardo era ostinatamente
puntato a
terra, perso nell’oscurità.
Io non ero stata in grada di proteggerla, mi scusai con
Ren piangendo.
Le mie emozioni erano instabili, un momento ero arrabbiata
da morire, quello dopo ero triste e senza speranza.
Il vento si alzò, era caldo per una sera d’aprile,
accarezzò un po’ il ciliegio che avevamo in
giardino e si portò via alcuni dei
suoi petali facendoli danzare contro il cielo.
In quel momento ebbi l’assoluta certezza che non solo
Nana stava guardando il cielo anche lei, ma che era qui a Tokyo,
nascosta da
qualche parte.
Dovevo solo tendere di più la mano e lo feci, ero colma
di speranza.
Il problema è che alcune volte la speranza da sola non
basta, la mia mano toccò solo della tenebra che mi
macchiò, non ne fui
sorpresa.
Era Nana quella pura, io ero solo una ragazzina
calcolatrice che stava subendo le conseguenze delle sue azioni.
Le stelle non me l’avrebbero ridata indietro né
aggiustato la mia vita, toccava a me.
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Capitolo 9 *** Capitolo nono ***
Capitolo
nono
Quell’anno la
fioritura dei ciliegi fu eccezionale a
Okayama.
Il tempo era mite, il
profumo saturava le strade della
città annullandone
gli odori e i fetori. Il
vento spirava dolce e faceva
cadere i petali, trasformando
i marciapiedi in morbidi
tappeti rosa. Tutto era in pace
tranne me.
Io volevo solo
andarmene, volevo volare nel cielo come il
vento.
Ero una nomade
rinnegata, era nel mio sangue, lo stesso
che mi chiamava
verso Tokyo. Ero una
discendente di Misuzu senza dubbio
alcuno.
-Misato Uehara
Era la terza settimana di aprile
ed era stata una
primavera stupenda a Okayama.
C’era stato tanto sole e pochissima pioggia e questo
aveva portato alla migliore fioritura di ciliegi che avessi mai visto.
Tutto
era dipinto di un rosa delicato, gli alberi e i marciapiedi, e un dolce
e
sottile profumo aleggiava nell’aria: sembrava di vivere in un
sogno.
Nana non aveva risposto alla mia lettera, ma non sapevo
nemmeno se l’avesse ricevuta o letta, era scomparsa da due
settimane. I
giornali impazzivano letteralmente sulla sua sparizione e specialmente
quelli
di gossip facevano ipotesi su ipotesi. La più gettonata era
il suicidio adesso,
era morta in mare per raggiungere Ren, io non sapevo che pensare. I
ragazzi
della band non avevano rilasciato alcuna dichiarazione, gli unici ad
averlo
fatto erano quelli della casa discografica con scarne parole per
annunciare che
i Black Stones non erano più artisti sotto il loro contratto.
Mi infuriai mi sembrava che tutti stessero lasciando soli
quei ragazzi che non avevano fatto nulla di male, la parte cinica di me
capiva
che era stato fatto tutto per soldi, lo stesso non approvavo quella
decisione
Era anche la mia terza settimana di scuola, i miei
genitori speravano che io avessi rinunciato al mio progetto di andare a
Tokyo,
ma non era così. Avevo deciso di frequentare quella scuola
così lontana da
casa per aiutare
Nana, ora che lei non
c’era più avrei potuto aiutare i Blast. Shin aveva
fatto una breve apparizione
in uno sceneggiato per la televisione, potevo sostenere lui. Senza
contare che
ero fermamente convinta che stare per un po’ lontano dalla
mia famiglia e da
Takahiro, concentrandomi su me stessa e lavorando duro, mi avrebbe
aiutata a
farmi passare quella cotta che avevo per mio fratello.
Nella scuola di Okayama non avevo amici, tutti mi
chiedevano di mia madre o di Nana, io non rispondevo mai e decidevo che
non
valeva la pena socializzare con gente del genere.
Non ero un fenomeno da baraccone né tanto meno lo era la
mia famiglia, eravamo gente normale dopotutto e dovevamo essere
protetti.
Capitava che venisse ancora qualche giornalista, ma mio
padre li cacciava tutti.
La campanella della fine della giornata suonò e io misi
via le mie cose e me ne andai, mi cambiai le scarpe e raggiunsi il
ristorante.
Mi sedetti a un tavolo separato dagli altri e Takahiro mi
portò un piccolo
okonomiyaki, io lo ringraziai distratta e cominciai a mangiare.
La porta si aprì accompagnata dallo scacciapensieri, lo
sconosciuto e mio padre si scambiarono qualche parola, poi mio padre
cominciò a
urlare.
“Vattene! Non rispondiamo ai giornalisti.”
“Non sono un giornalista!”
Io alzai la testa e riconobbi Nobu Terashima nel
“giornalista”.
“Papà, fermati.”
Dissi con voce controllata, lui si voltò verso di me.
“Non è un giornalista, papà.
È un amico di Nana, mia
sorella.”
“Misato, sei sicura?”
“Sì, papà.”
Mio padre lo lasciò entrare dopo essersi scusato brevemente
e Nobu si sedette
al mio stesso tavolo.
“Ragazzo, vuoi qualcosa?”
“La specialità della casa.”
Il mio vecchio annuì e ci lasciò da soli.
Nobu mi osservò attentamente per un minuto buono, in
silenzio.
“Sì, somigli davvero a Nana ora che posso
guardarti
attentamente.”
“Ci siamo già visti noi.”
“Lo so, ma pensavo fossi una semplice fan.”
“Ora che sono la sorella di Nana le cose cambiano,
vero?”
“Sì. Ho conosciuto Nana che aveva la tua
età, era sempre cupa e chiusa in sé
stessa, ho fatto molta fatica a diventare suo amico, ma tu sei
diversa.”
Finii di mangiare.
“Forse sì, forse no.
Come mai sei venuto fin qui?”
Lui sospirò.
“Lasciami mangiare prima e poi ti spiegherò ogni
cosa, se
ti guardo abbastanza mi sembra di rivedere tua sorella.”
“Ma io non sono lei.”
Dissi piano, con la voce rotta.
“Lo so, scusami.
Sono stato un vero insensibile, ma sono stanco, la cerco
da settimane e non ho ancora trovato un indizio.”
“Mi dispiace.”
Ero sincera, ma anche confusa, che ci faceva qui?
Mio padre arrivò con l’okonomiyaki e Nobu la
mangiò di
corsa, doveva avere davvero fame.
Non ci mise molto a finirlo, poi mi fissò negli occhi.
“Adesso ti spiego perché sono qui. Durante il
nostro
ultimo concerto Nana ha avuto un attacco di panico e di conseguenza
è stata
ricoverata in ospedale. Era la nostra ultima occasione, la casa
discografica ci
avrebbe buttato fuori se avessimo sbagliato e così
è stato.
Nana è scappata dall’ospedale, nessuno sa
perché né dove
sia andata, non ha lasciato nulla: niente messaggi o indizi.
Ha preso qualche vestito e… la tua lettera.
Poi è sparita.”
Io sussultai.
“Adesso capisci perché sono qui?
Cosa le avevi scritto?”
“Sì, capisco. Io le avevo fatto ancora una volta
le condoglianze per Ren, mi
ero scusata per il comportamento di nostra madre e le avevo detto che
mi
sarebbe piaciuto che lei mi considerasse una sorella con cui avere un
rapporto…
da sorella.
In ultimo le avevo detto che le porte di casa mia erano
sempre aperte per lei, le ho dato questo indirizzo e le ho detto che
avevo
intenzione di venire a vivere a Tokyo.”
Sapere che avesse letto la mia lettera mi scombussolava.
“Ed è venuta qui da te?”
“No. Non che io sappia, magari è passata dal
ristorante o magari è venuta e poi
è scappata via di nuovo: stare con me significava stare
anche con nostra
madre.”
Nobu annuì e rimase in silenzio per un attimo.
“Quindi tu non l’hai vista.”
“No, non l’ho vista.”
“Se dovesse venire potresti avvisarci?”
“Sì, certo.”
Mi lasciò il suo numero di telefono, sembrava parecchio
avvilito.
Non era più il ragazzo sempre allegro che ricordavo,
l’intera faccenda lo aveva fatto invecchiare d’un
colpo, i capelli non erano
più alzati dal gel, i vestiti erano meno eccentrici.
“Magari si è fermata qui quando tu eri a
scuola.”
“Può darsi, adesso lo chiedo a mio
padre.”
“Sì, grazie.”
Mi alzai dal tavolo e raggiunsi mio padre al bancone.
“Papà, puoi venire un attimo?
Nobu vorrebbe farti una domanda.”
“Quel tizio è affidabile?
Non vorrei ritrovarmi di nuovo sui giornali.”
“Non c’è problema.”
Mi seguì un po’riluttante, ma alla fine lo fece.
Nobu lo saluto con un inchino a cui mio padre rispose
circospetto.
“Mi hanno detto che hai una domanda da farmi.”
“Sì, in effetti è
così.”
Rispose Nobu.
“Di cosa si tratta?”
“Nana, la sorella di Misato, è passata di
qui?”
Mio padre ci pensò un attimo, poi scosse la testa.
“Non si è vista o almeno io non l’ho
vista.”
E questa era la fine delle speranze di Nobu, mi sentii male per lui e
anche per
me: volevo davvero avere un rapporto da sorella con Nana.
Mi accorsi che uno dei clienti ci fissava o meglio
fissava il chitarrista, poi si avvicinò al nostro tavolo.
“Tu sei quello che è in una band,
giusto?”
Nobu annuì.
“Mia figlia va matta per voi. Qualche settimana fa mi
è
sembrato di vedere qui anche la cantante, come si chiama?”
“Nana.”
Risposi io.
“Sì, Nana.”
“Ne è sicuro?”
“Abbastanza, mi sono accorto di lei perché volevo
prendermi un okonomiyaki e c’era questa ragazza ferma poco
distante al ristorante con l’aria
di una che si nascondeva. Ti ha seguito per un po’, Misato,
mentre andavi a
scuola, poi vi ho perse di vista. Non erano affari miei e lei, la
cantante, non
sembrava pericolosa, solo un po’ confusa. Secondo me non
sapeva nemmeno lei
quello che voleva fare.”
Quando l’uomo finì di parlare Nobu si era fatto
teso e pallido.
“L’ha vista solo quel giorno?”
“Sì, solo quel giorno. Poi ho letto sui giornali
che è
sparita per uccidersi, è vero?”
Il mio cuore saltò un battito e strinsi le mani a pugno.
“Sì, è sparita, ma non sappiamo se sia
morta.”
Dissi con voce atona.
“Misato-chan, tutto bene?”
Il tizio con cui stavamo parlando era diventato rapidamente un
frequentatore
abituale del locale e mi aveva preso in simpatia, perciò mi
sentii quasi
obbligata ad annuire.
“Sì, tutto bene. Non si preoccupi.”
L’uomo annuì e se ne andò, doveva aver
capito che avevamo bisogno di un po’di
privacy.
“Credo sia arrivato il momento che io me ne vada, mi
scusi per il disturbo, signor Uehara.”
“Va tutto bene, ragazzo. Spero che riuscirete a trovarla,
sembra una brava ragazza.”
Nobu fece cenno di sì con la testa.
Ci alzammo tutti e tre, mio padre tornò alla cassa dove
Nobu pagò il suo okinomiyaki, ora sarebbe tornato a Tokyo:
aveva trovato delle
notizie su Nana, meglio di niente.
“Ti accompagno in stazione.”
Gli dissi, lui mi guardò sorpreso.
“Va bene.”
Uscimmo dal negozio, fuori c’era il sole, dentro di me il
freddo artico.
“Mi dispiace.”
Mormorai.
“Come mai?”
“Per la lettera.”
Nobu mi sorrise e cominciò a camminare.
“Non è colpa tua, Nana se ne sarebbe andata
comunque, non
reggeva la situazione ed era in equilibrio davvero precario dopo la
morte di
Ren.”
“Ma io le ho dato un posto dove andare.”
“E di questo te ne sono grato. Per qualche motivo ha deciso
di giraci le
spalle, sono felice che anche solo per poco abbia avuto un altro posto
dove
andare e credo che volesse davvero conoscerti.
La sua famiglia è sempre stata fonte di dolore per lei,
probabilmente sei l’unica che non odia, siete tutte e due
vittime di decisioni
più grandi di voi.”
“Già. Ma come mai se n’è
andata?”
“Questo lo sa solo lei, purtroppo.”
“Pensi che sia… morta?”
Chiesi esitante.
“No, non credo. Deve essere da qualche parte là
fuori,
deve.”
E così la certezza assoluta non l’aveva nemmeno
lui, viveva di speranze come
tutti.
“Cosa farete adesso?”
Lui scosse la testa.
“Non lo so, l’unica cosa certa è che la
band non andrà
avanti, non avrebbe senso senza Nana.”
“Capisco. Vorrei poter fare di più.”
Lui mi sorrise di nuovo.
“Tutti vorremmo aver fatto di più, hai qualche
progetto?”
“Molto probabilmente verrò a Tokyo.”
“Cosa?”
“Volevo frequentare un liceo a Tokyo, ma mio padre era
contrario così abbiamo
fatto un patto. Io avrei frequentato un mese il liceo di qui e se non
mi fosse
piaciuto sarei potuto andare via.”
“Capisco. Buona fortuna.”
Continuammo a chiacchierare fino alla stazione, lì lui mi
abbracciò.
“Abbi cura di te, Misato.”
“Anche tu, Nobu. Se lei dovesse farsi viva
avviserò Shion.”
“Chiama me.”
Mi lasciò di nuovo il suo numero di telefono ed
entrò nella stazione, io rimasi un
attimo ferma con il cellulare stretto tra le mani a chiedermi
perché
Perché Nana era venuta?
Perché non si era fatta vedere?
Perché se ne era andata?
Non avevo nessuna risposta e mille altre domande che mi
frullavano in testa. Era colpa mia?
Non ero stata abbastanza come sorella?
Dove era adesso? Sarebbe mai tornata?
Avrei mai potuto conoscerla sul serio e aiutarla come
volevo fare?
Sospirai profondamente e me ne tornai verso casa mia
chiedendomi se dopotutto non fosse stato uno sbaglio scriverle, anche
se al
momento era sembrata una buona idea. Non volevo farle male del male, ma
probabilmente gliene avevo fatto.
Ero una cattiva sorella?
Morivo dalla voglia di parlarne con qualcuno, ma non
sapevo con chi, i miei genitori e Takahiro non avrebbero capito,
Chikage forse
l’avrebbe fatto, ma viveva troppo lontana.
Ero sola, disperatamente sola e per un momento mi parve
di capire mia sorella e la sua solitudine. Lei aveva vissuto tutta la
vita in
questo modo e le poche persone con cui si era aperta le erano state
strappate
via in modo crudele. Ren era morto, la sua amica Hachi adesso doveva
occuparsi
del bambino che aspettava e probabilmente doveva essere successo
qualcosa nella
band. Qualcosa che nemmeno Nobu conosceva o me l’avrebbe
detto, lo conoscevo
poco, ma mi sembrava un ragazzo poco incline ai segreti.
Doveva essere stato orribile per lei.
Forse la famiglia Osaki era maledetta, nessuno di noi
aveva trovato la felicità, ma mi rifiutavo di credere che
non si potesse
spezzare questo circolo vizioso. Tornai al ristornate e mi sedetti a un
tavolo,
tirai fuori un quaderno e iniziai a fare i compiti di mate, mio padre
mi guardò
per un po’, poi arrivò con una fetta di torta al
cioccolato.
Ci guardammo negli occhi per un minuto senza dire nulla,
il suo sguardo solitamente mite sembrava volesse scavare nella mia
anima e
leggere tutti i segreti che lì vi erano conservati.
“Hai gli occhi di Misuzu.”
Disse infine, inarcai un sopracciglio.
“Sì, lo so. Cioè, me lo dicono tutti
che somiglio alla
mamma.”
“Non mi riferivo a quello. Poco prima che ci abbandonasse
qualche tempo fa
aveva i tuoi stessi occhi, quelli di chi si vede proiettato altrove. Tu
non voi
rimanere qui, vero?”
Io arrossii.
“Sì, non voglio rimanere qui, voglio andare a
Tokyo. Ci
ho provato ad adattarmi, ma avevo sempre questa voglia di scappare, di
cercare
altrove un posto che fosse più adatto a me.
Mi dispiace di averti deluso, non sono la figlia che
avresti voluto.”
Lui mi appoggiò la mano sui capelli e me li
scompigliò.
“Sei perfetta così come sei, ne parleremo stasera
a
cena.”
Se ne andò lasciandomi stupita, non era mai stato
così dolce con me da quando
ero una bambina.
Continuai a fare i compiti, a quell’ora del giorno il
ristorante non era molto affollato e potevo tranquillamene farli senza
venire
disturbata o disturbare i clienti.
Mamma uscì dal privé e mi lanciò un
lungo sguardo, anche
lei sembrava capire che qualcosa era successo e che non potevo essere
trattenuta più a lungo sotto le loro ali. Avevo quindici
anni, ne avrei
compiuti sedici a ottobre, io ero la prima ad avere paura di andarmene,
ma
sapevo che non poteva essere evitato
Era necessario come l’aria.
Noi cenavamo alle nove, quando
papà poteva lasciare il
locale al suo aiuto cuoco senza temere che succedesse qualche guaio.
Erano sempre delle cene brevi, lui non vedeva l’ora di
tornare di sotto per occuparsi di persona dei suoi clienti, ma stasera
era
diverso. Dopo il pasto ci eravamo riuniti tutti intorno al kotatsu: io,
mamma,
papà e Takahiro. La casa era immersa in un silenzio pesante
come piombo,
nessuno aveva ancora aperto bocca anche se tutti sapevamo come mai
fossimo lì.
“Papà, perché ci hai convocati
qui?”
Fu mio fratello a rompere il silenzio, era sempre lui a farlo.
“Dobbiamo parlare di Misato.”
“E cosa c’è da dire, papà?
Lei sta frequentando qui il liceo come stabilito.”
“Sembri esserti dimenticato di una piccola, ma importante
clausola, Takahiro.
Se dopo un mese se lei avesse voluto andare ancora a Tokyo glielo
avremmo
permesso.”
Mio fratello si irrigidì.
“Ma lei si trova bene qui, vero?”
“Chiedilo direttamente a lei, è la sua opinione
che conta ora.”
Lui mi guardò, io abbassai lo sguardo.
Anche se la mia cotta per lui sembrava essersi un
po’affievolita facevo ancora fatica a sostenere il suo
sguardo.
“Cosa vuoi fare, Misato?
Rimani qui o te ne andrai?”
“Io… io ci ho provato a rimanere, ma non ci
riesco,
voglio andare a Tokyo.
Voglio inseguire i miei sogni.”
“Ma Nana se ne è andata!”
“Aiuterò il resto della band, se ci
riuscirò, farò quello che avrebbe fatto
lei.”
“A lei non importa nulla dei suoi amico o non li avrebbe
mollati!”
“Tu non la conosci!”
“E tu sì, invece? L’hai vista una sola
volta e non credo
sia sufficiente per formare un legame!”
“Che ti piaccia o no è mia sorella e il legame
c’è
indipendentemente da tutto, io so quello che voglio fare e lo
farò.”
“Non riesci a vivere qui? Ti facciamo così
schifo?”
“No, ma non posso ignorare una parte della mia famiglia! E
sono stufa della
gente che qui mi chiede di lei, forse a Tokyo sarà
diverso.”
“Ci abbandoni per una cazzata!”
Mi alzai in piedi, ma mio padre mi fece risedere e ordinò a
Takahiro di tacere.
“Takahiro, rispetta tua sorella.”
“Ma sta per fare un errore, non avrei mai dovuto permetterti
di ascoltare
quella band!”
“Permettermi? Ma chi ti credi di essere?
Questa è la mia vita e la gestisco io! Ascolto la musica
che mi pare e scelgo il futuro che mi pare!
Non voglio rimanere qui, me ne voglio andare!”
Urlai con tutta me stessa.
“Misato, calmati. Non c’è bisogno di
litigare, abbiamo
capito il tuo desiderio e sono sicuro che anche tuo fratello lo
capirà con il
tempo.
Takahiro, tutti noi abbiamo un destino diverso da
compiere, tu hai voluto portare avanti l’attività
di famiglia, lei vuole fare
altro. Nessuno di voi è giusto o sbagliato.”
Takahiro scosse la testa arrabbiato.
“Sta rincorrendo delle illusioni, Nana non ha bisogno di
lei, non ha bisogno di nessuno o non se ne sarebbe andata come ha
raccontato
quel ragazzo.”
“Non è così! Io voglio lavorare in quel
campo, perché non
mi credi?”
“Perché sei solo una ragazzina e alla tua
età non si sa
quello che si vuole, ecco perché devi seguire un percorso
regolare di studi.
Dopo il liceo potrai fare quello che vuoi.”
La sua risposta fu come una secchiata di acqua fredda in faccia. Come
poteva
dire delle cose del genere con tanta leggerezza?
Sì, lo amavo, ma forse non come credevo.
Quella prima crepa in quell’amore folle fu il primo passo
per liberarmene, dovevo aggrapparmi a essa con tutta la forza e allo
stesso
tempo difendere il mio sogno. A quel punto non mi importava che
Takahiro non
capisse, bastava che lo facesse mio padre, era lui a dovermi dare il
consenso,
firmare i documenti e con lui avrei deciso le questioni economiche.
“Takahiro, basta!”
Mio fratello abbassò la testa, per lui la questione non
era affatto chiusa, ma non voleva litigare con papà.
“Quando è morta tua nonna tua madre ha ricevuto
una
piccola eredità, useremo quella per pagarti la retta della
scuola. L’affitto
dell’appartamento e i libri li dovrai pagare con i tuoi
soldi, tranne per il
primo mese.”
“Va bene. Mi troverò un lavoretto che mi possa
mantenere.”
“Sei sicura di farcela?”
La voce di mia madre era velata di ansia.
“Non vedo l’ora di provarci, così
dimostrerò a tutti che
ce la posso fare e non sono solo una ragazzina viziata.”
Mio padre sorrise.
“È così che si parla, domani
chiamerò la scuola e vedremo
cosa è necessario fare.”
“Grazie, papà.”
“Non c’è di che, tu hai mantenuto il tuo
accordo, adesso tocca a me fare la mia
parte.”
“Grazie lo stesso.”
Risposi e gli feci un profondo inchino per esprimere la mia
gratitudine,
Takahiro abbandonò la stanza.
“Non farci caso, gli parlerò io.”
“D’accordo, papà.”
“Adesso alzati.”
Io annuii e tornai a sedermi per parlare con i miei di
questioni economiche per un altro po’.
Alla fine sarei partita non appena tutte le pratiche
sarebbero state sbrigate e avessi trovato un appartamento a Tokyo,
mamma disse
che mi avrebbe aiutato. Erano anni che non andava nella capitale, ma
aveva
ancora amici e una nostra parente, una cugina o qualcosa del genere che
aveva
l’età di Nana.
Ci avrebbe aiutato di sicuro visto che anche lei era
stata cacciata dalla famiglia Osaki qualche mese prima, domani io e
mamma
avremmo telefonato alla scuola di Tokyo.
“Vai a letto, Misato. Domani sarà una giornata
unga e
faticosa.”
Io annuii, lavai i piatti, pulii la cucina e mi feci un lungo bagno
rilassante.
A Tokyo non avrei avuto queste comodità, probabilmente mi
sarebbero mancate, ma nulla poteva compensare il senso di
libertà che avrei
provato.
Per una volta nella mia vita avrei lavorato su me stessa,
frequentando la scuola che volevo e stando lontana da mio fratello.
Qualcosa mi
diceva che sarebbe bastato stargli lontana, diventare più
forte e indipendente
e la mia cotta sarebbe sparita.
Dovevo solo crescere, non era facile per nessuno, ma non
avevo nessun’ altra scelta.
Crescere o morire.
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Capitolo 10 *** Capitolo decimo ***
Capitolo
decimo
Sai, Nana...
Quando te ne sai andata
mancava un mese alla nascita di
Satsuki e
dentro di me era come se
piovesse sempre, non riuscivo a
trovare
un riparo. Camminavo in
tondo, chiedendomi come avrei
potuto
crescere quella creatura
figlia di un errore e amarla, ma
soprattutto
come avrei potuto amare
il figlio di Reira e Shin che
Takumi mi
aveva appioppato. Non
sapevo che la risposta l’avrei
avuta solo vedendoli.
Il parto era vicino, era questione
di giorni.
Dal giorno in cui mi aveva annunciato della gravidanza di
Reira Takumi era stato in casa il meno possibile e
nell’ultima settimana aveva
preso a dormire in un altro appartamento. Io ero felice di non averlo
attorno,
ero così piena di rabbia e rancore nei suoi confronti che la
sua presenza
faceva male a Sacchan.
Non ero sola comunque, Junko e Kyosuke venivano molto
spesso, Shin era da me in ogni momento libero della sua nuova carriera
e anche
Misato si faceva vedere frequentemente.
Shin stava diventando un attore, grazie all’aiuto di Mai
aveva partecipato a parecchi casting per ruoli poco importanti e
pubblicità,
era stato scelto un buon numero di volte.
Era impegnato eppure non mancava di venire da me, forse
si sentiva in colpa perché per colpa di un suo errore io
stavo soffrendo o
forse io ero l’unica famiglia che gli era rimasta.
Yasu aveva smesso di cercare Nana o meglio aveva delegato
la faccenda a Shion, lui era troppo impegnato a tentare di tornare a
lavorare
presso lo studio che aveva abbandonato per i Blast. In quanto a Nobu
batteva
instancabilmente ogni pista che potesse portare a Nana senza successo
per
l’altro, la mia amica sembrava essersi volatilizzata
nell’aria come un
fantasma.
I giornali che si occupavano del caso insinuavano sempre
più spesso che fosse morta, che si fosse suicidata per
raggiungere Ren. La
storia vendeva bene, rispondeva alle esigenze di tragedia romantica
della
gente, la giovane eroina che non può vivere senza il suo
amato e perciò si
ammazza per essere di nuovo al suo fianco.
Non era vero, Nana era il tipo da fare cose del genere,
ma non era successo, l’avrei saputo. Eravamo come delle
gemelle, se fosse morta
l’avrei sentito.
Ero immersa nei miei pensieri e guardavo fuori dalla
finestra, la primavera era stata clemente, Tokyo aveva avuto una
fioritura di
ciliegi straordinaria e anche quello nel mio giardino non faceva
eccezione:
aveva trasformato il prato in un morbido e delicato tappeto rosa.
Suonò il campanello, la cameriera andò ad aprire
– ne
avevamo assunta una fino al mio parto dato che non potevo alzarmi dal
letto –
sentii la voce di Shin e il suo volto fece capolino dalla porta del
salotto.
Sorrisi.
“Ciao, mamma.”
“Ciao, Shin.”
Si sedette sul divano accanto a me che sferruzzavo qualcosa per
Satsuki, avevo
imparato negli ultimi tempi.
“Come va il lavoro?”
“Va bene, posso pagare l’affitto e
mangiare.”
Lo guardai.
“Senza prostituirmi.”
Aggiunse.
“Ottimo, mi fa piacere vederti, ma non sentirti obbligato
a venire tutti i giorni.”
“È colpa mia se sei finita in questa situazione,
se solo
avessimo preso più precauzioni non dovresti crescere mio
figlio come se fosse
tuo.”
“Non hai nessuna colpa, io ho sbagliato per prima non
prendendo precauzioni
quando facevo sesso con Takumi, Satsuki non è un tuo
errore.”
“Pensi che Satsuki sia un errore?”
Sospirai.
“Non lo so, non lo so più. Prima che Takumi
decidesse che
avremmo avuto due figli invece di uno non pensavo lo fosse, adesso ogni
tanto
penso a lei come qualcuno che mi ha imprigionato in una vita che non
voglio.
Poi sto male perché so che lei non ha alcuna colpa, non sono
proprio la mamma
che ti aspettavi.”
Lui scuote la testa.
“È una situazione talmente incasinata che
è normale
sentirsi confusi, alla fine la vita te l’ho complicata
davvero.”
“Non ce l’ho con te, ce l’ho con Reira e
Takumi, con il
loro rapporto del cazzo in cui mi hanno trascinata.
Tu e il bambino non avete colpa, sono loro che non si
decidono a chiarire cosa li lega.”
Commentai amara, sentendo il solito attacco di bile salire
quando si parlava di quei due.
Odio mio marito e odio Reira per quel carattere infantile
che la fa scappare dalle responsabilità, lasciando agli
altri il compito di
risolvere i suoi casini.
Respirai a fondo, dicendomi che queste emozioni negative avrebbero
fatto male alla bambina, lei non aveva alcuna colpa in tutto questo. Se
Nana
fosse stata qui le cose sarebbero diverse, ma lei non c’era,
mi aveva abbandonata
quando avevo più bisogno di lei e lei di me.
Perché avevi voluto troncare questo legame, Nana?
Ti avevo delusa così tanto? Ti avevo ferita così
tanto?
Oppure era successo qualcosa nella tua testa che aveva
ribaltato tutte le tue prospettive e ti aveva fatta andare via da noi?
Cosa ti era successo?
Ma soprattutto ti avevo mai conosciuta davvero?
Per tutto quel tempo avevo voluto bene a una maschera?
“Hachi, cosa c’è?”
“Shin, secondo te Nana ha recitato una commedia per noi per
tutto questo
tempo?”
“No, Nana non è il tipo.
Credo che sia successo qualcosa, forse ha sentito il
nostro discorso, sai, la confessione di Yasu. Loro due erano molto
legati, forse
si è sentita tradita.
Se non ti puoi fidare degli amici, di chi puoi fidare?”
Io abbassai gli occhi e sospirai, era una spiegazione plausibile come
tante
altre, la verità la sapeva solo lei e lei non era qui.
“Se così fosse perché non aspettare e
parlarci?
No, non dire nulla, non sarebbe da Nana.”
Rimanemmo a parlare ancora per un po’, l’atmosfera
si era
fatta più rilassata, Shin non vedeva l’ora di
conoscere Satsuki e mi faceva
tenerezza, sembrava davvero un fratello maggiore in attesa della sua
sorellina.
All’improvviso sentii del liquido colarmi lungo le gambe,
mi si erano rotte le acque, presto Shin avrebbe davvero conosciuto mia
figlia,
per fortuna il borsone con le mie cose era pronto in camera.
“Shin, mi si sono rotte le acque.”
Dissi calma.
“Vai a prendere il borsone in camera, io chiamo
Jun.”
Lui impallidì e poi annuì, non chiese nemmeno
perché avessi deciso di chiamare
Junko invece di Takumi, come sarebbe stato naturale.
Presi il cellulare e composi il suo numero, lei rispose
dopo qualche squillo.
“Ehi, Nana! Come mai questa chiamata?”
Era allegra.
“Mi si sono rotte le acque, ho bisogno di un passaggio in
ospedale.”
La sentii deglutire dall’altra parte del filo.
“Arrivo, tu sta’ calma. Sei da sola?”
“No, c’è Shin con me.”
“Ok, meglio che nessuno. Arrivo.”
Chiuse la chiamata e io rimasi seduta imbambolata,
sentivo le contrazioni lente.
Per fortuna sembrava fossi solo all’inizio del travaglio,
iniziavo ad avere paura nonostante mi fossi ripromessa di essere forte.
Era
normale, mi dissi, tutte le mamme hanno paura del parto.
È un momento di passaggio e in questi casi
c’è sempre la
possibilità che qualcosa vada storto, ecco perché
li temiamo, ma la maggior
parte delle volte non succede nulla.
Mi portai una mano alla pancia, come a consolare la mia
creatura che stava per nascere, a dirle che non era sola e che presto
la zia
Jun sarebbe arrivata e saremmo andate in ospedale.
Shin scese le scale di corsa con in mano il mio borsone,
lo appoggiò vicino alla porta d’ingresso e poi si
precipitò da me.
“Come stai?”
Mi chiesi, il volto pallido per la preoccupazione.
“Bene, credo. Le contrazioni non sono molto frequenti,
quindi sono solo all’inizio del travaglio, andrà
tutto bene. Ho chiamato Junko
e arriverà.”
“Avessi almeno la patente, cazzo!”
Batté un pugno sul tavolino.
“Non è colpa tua se hai diciassette e non
diciotto, stai
calmo, Shin.”
“Sono io che dovrei rassicurare te, non il
contrario!”
“Hai mai visto una cosa andare come doveva da quando mi conosci?
Perché ti scandalizzi?”
“Mamma, non è il momento di scherzare, davvero.
Stai per partorire.”
Gli sorrisi.
“Va tutto bene, abbi fede.”
Lui non era per nulla convinto, ma alla fine annuì.
Dieci minuti dopo sentimmo il rumore di una macchina in
arrivo e poi di una frenata, poco dopo la porta si spalancò
ed entrò una Junko
fuori di sé.
“Dimmi che non stai per partorire e che ce la facciamo ad
arrivare in ospedale.”
Esordì, guardando prima me e poi Shin.
“Sì, ce la dovremmo fare. Le contrazioni sono
distanziate, c’è traffico?”
“Come al solito. Dai, andiamo!”
Shin mi aiutò ad alzarmi, mi passò un braccio
attorno alla vita e camminammo
insieme fino alla porta, Junko prese la borsa. Uscimmo, il cielo si era
oscurato e un vento freddo sferzava i rami del ciliegio facendo cadere
i
petali. La mia amica gettò il borsone nei sedili posteriori,
Shin mi fece
entrare e si sedette vicino a me, dopo essersi assicurato che mi fossi
messa la
cintura di sicurezza.
Jun partì con l’acceleratore a tavoletta, aveva
fretta e
aveva paura e forse si stava chiedendo perché avessi
chiamato lei e non mio
marito. Doveva aver intuito che era successo qualcosa, ma grazie al
cielo capì
anche che non era il momento giusto di chiedere cosa.
La sua macchinetta filava veloce nel traffico di Tokyo
verso l’ospedale, le contrazioni si erano fatte
più ravvicinate e gemevo piano
con la mano stretta da quella del mio figliolo adottivo. Lui era
pallido in
volto, cercava di rassicurarmi dicendo che non mancava molto e che
eravamo
vicini, presto avrei ricevuto le cure del caso.
E se avessi abortito?
Se fosse successo avrei mollato Takumi, raggiunto Nobu e
avrei cercato Nana con lui, Takumi avrebbe avuto la sua famiglia con
Reira e io
la mia libertà. Mi vergognai di questi pensieri egoisti,
avevo desiderato
Satsuki con tutta me stessa, ma il tradimento di mio marito aveva
avvelenato
tutto e poco importava che non fosse successo sul serio, solo
l’imposizione
della sua volontà mi faceva venire voglia di ribellarmi.
Finalmente vidi l’ospedale, entrammo nella zona del
pronto soccorso, Jun fermò la macchina, Shin mi
aiutò a scendere e insieme
entrammo.
Ci venne incontro un’infermiera di mezza età con
una
crocchia di capelli grigi.
“Cosa è successo?”
“Alla mia amica si sono rotte le acque, deve
partorire.”
La donna mi prese dall’altro lato e mi condusse in una
stanzetta, mi fece
accomodare su un lettino e mi accarezzò la fronte.
“Adesso vado a chiamare il dottore, tu sta calma, qui sei
al sicuro.”
Uscì e io strinsi forte la mano di Shin, le prime lacrime mi
solcavano le
guance, nonostante le rassicurazioni e i pensieri egoisti avevo una
paura
folle. Avevo paura che gli dei mi punissero per quello che avevo fatto
e
pensato di fare.
“Hachi, è tutto ok.”
“Shin, ho pensato all’aborto e se succedesse
davvero?
Io non voglio perdere la mia bambina perché sono egoista
e…”
Lui mi appoggiò un dito sulle labbra.
“Andrà tutto bene.”
L’infermiera tornò accompagnata da un dottore, che
controllò quanto fossi dilatata e la frequenza delle
contrazioni.
“Dobbiamo accelerare il travaglio, infermiera, la faccia
camminare.”
Con difficoltà mi fecero alzare dal lettino e poi mi fecero
passeggiare lungo
un corridoio più e più volte, le contrazione
erano sempre più frequenti e
dolorose, mi veniva da piangere.
Piangere davanti a Shin era stato facile, lo conoscevo,
ma farlo davanti a un’estranea era tutta un’altra
storia, non volevo farmi
vedere debole e spaventata.
“È il suo primo figlio?”
Mi chiese l’infermiera.
“Sì.”
Risposi io.
“Pianga, se vuole. È normale essere spaventate
alla prima
gravidanza, soprattutto se si è così giovani come
lei. Il corpo cambia e
nessuno ci prepara mai del tutto a quello che accadrà, ma
lei deve stare
tranquilla: qui ci sono dei buoni dottori.
Quello che l’ha visitata ha aiutato molte donne a
partorire.”
“Va bene, grazie.”
Le lacrime ripresero a scendere anche contro la mia volontà,
il dolore sembrava
non finire mai, il mio corpo aveva l’aria di squarciarsi in
due da un momento
all’altro ed era vero: il corso preparto non preparava per
nulla.
Avevo una paura fottuta.
Tornammo nello studio del dottore, lui mi visitò di
nuovo.
“Abbia pazienza, signora, non è dilatata
abbastanza.
Vuole che chiami suo marito?”
“NO!”
Urlai, lui diede un’occhiata a Shin.
“Per caso è lui il padre del bambino?”
“NO! Ma lo vede? È un ragazzino, per chi mi ha
preso?
È un mio amico e voglio solo lui, mio marito è un
grandissimo stronzo e meno lo vedo meglio sto.
Mi farebbe abortire!”
Lo sguardo del dottore si fece sorpreso, forse aveva
capito che c’erano dei problemi in casa nostra, ma decise
saggiamente di non
dire nulla.
“Infermiera, la faccia camminare ancora un
po’.”
“Sì, dottore.”
Mi fecero alzare di nuovo e percorsi di nuovo quegli stramaledetti
corridoi,
iniziavo a odiarli con tutte le mie forze, nel frattempo le contrazioni
erano
sempre più frequenti. Erano onde di dolore che si
abbattevano implacabili su di
me, lasciandomi tremante e senza fiato. Mi sembrava di annegare a ogni
colpo,
di non farcela, eppure riemergevo sempre più stanca e
debilitata.
L’infermiera mi guardava impietosita, chissà cosa
pensava
della giovane madre che voleva fare tutto da sola e tenere fuori il
marito?
Forse che era una cosa normale, dato il dolore del parto,
o forse la compativa perché, non essendo più
giovane, aveva capito che il mio
matrimonio era dovuto solo alla nascita di quella bambina.
“Va tutto bene?”
“No, non va affatto bene. Questo dolore è
insopportabile.”
“Ma finirà e darà alla luce una
splendida creatura. Sa se è un maschio o una
femmina?”
“No, no lo so.”
“Ha già pensato ai nomi?”
“Satsuki, se è una bambina. Ren, se è
un bambino.”
“Sono nomi graziosi.”
Io le sorrisi con le mie ultime forze.
“La prego, mi faccia sedere, io…. io non ce la
faccio
più.”
Mi sentii cadere a terra, mentre tutto si faceva nero, stavo morendo?
Mi svegliai in una sala dall’aria confortevole sdraiata
su di un letto, il dolore non se n’era andato: era sempre
lì pulsante e
lancinante.
“Signora Ichinose, mi sente?”
Misi a fuoco il volto del dottore.
“Sì, la sento.”
“È arrivato il momento, è abbastanza
dilatata, ora deve
spingere quando glielo dirà l’ostetrica.”
“Come sta… il bambino?”
“Bene, non è podalico. Non sarà una
passeggiata, ma vedrà che tutto il dolore
lo dimenticherà una volta che avrà la sua
creatura in braccio.”
Una donna dall’aria materna si avvicinò a me.
“Sono Sayaka, l’ostetrica.
Andrà tutto bene, fai quello che ti dico e non ti
succederà nulla.”
Le sorrisi stanca, ormai ero così fuori di me che avrei
creduto a qualsiasi
cosa mi avessero, incluso che la terra è piatta.
“Vuole qualcuno accanto a lei?”
“Shin…”
“Va bene.”
La donna se ne andò e tornò poco dopo con il mio
amico, era pallido in volto,
ma quando si sedette accanto a me la sua espressione era imperturbabile.
“Allora, Hachi, ci siamo. Mi farai conoscere la mia
nipotina o il mio nipotino.”
“A quanto pare sì.”
L’ostetrica mi ordinò di spingere e io lo feci con
tutte le mie forze,
stritolando la mano di Shin e urlando come se mi stessero ammazzando.
Continuò
così per un po’, poi Sayaka mi fissò
negli occhi con un’intensità quasi arcana.
“È l’ultima spinta, signora. Ci metta
tutta sé stessa.”
Io annuii e spinsi più che potei, ero arrivata al limite, o
la creatura nasceva
o io mi sarei strappata come una bambola di carta. Sentii qualcosa
scivolare
fuori da me, poi il pianto di un neonata.
“Complimenti, signora.
Ha partorito una bambina perfettamente sana.”
Scoppiai a piangere dalla gioia e Shin mi imitò, forse
anche perché la mano gliel’avevo distrutta a forza
di stringerla.
“Sono così felice.”
“Anche io, mi hai quasi distrutto una mano, Hachi.
Spero di poter… No, non importa.
Come la chiamerai?”
“Satsuki, Ren avrebbe voluto che la chiamassi
così: un nome floreale come il
suo.”
“Allora, benvenuta al mondo, Satsuki Ichinose.
Io sono zio Shin.”
Risi, Sayaka mi mise in braccio Satsuki.
Era una bambina piccola, ma perfetta, con una gran testa
di capelli neri e un gran sorriso.
Era sicuramente figlia di Takumi, nel profondo del cuore
ne fui delusa, avevo sperato che fosse figlio di Nobu, almeno da avere
una
piccola parte di lui su cui riversare il mio affetto.
Pensai ancora un attimo ai miei errori e ai comportamenti
stupidi, poi mi innamorai all’istante di quella piccolina e
dimenticai il
passato, lei non aveva colpa in tutto quello che aveva portato alla sua
nascita
e fargliela pagare era profondamente ingiusto.
“È bellissima, non è vero,
Shin?”
“Sì, Hachi. Lo è.”
La sua voce era incrinata, provò ad avvicinare una delle sue
lunghe dita alla
neonata e lei vi si aggrappò, io sorrisi felice.
“Signora…”
L’infermiera mi riportò alla realtà,
anche se avrei voluto tenerla vicino a me
per il momento non potevo, c’erano le prassi
dell’ospedale da seguire. Le diedi
la bambina e lei mi sorrise.
“Ora dobbiamo occuparci di lei.”
Il bassista capì a volo ed uscì.
Le infermiere si occuparono di me, come detto, e poi mi
trasferirono in camera.
Ero stanca morta, non appena appoggiai la testa sul
cuscino del mio letto mi addormentai. Sognai che Nana veniva in
ospedale, le
faceva conoscere Satsuki, ma il neonato non aveva i capelli di Takumi,
ma
quelli di Nobu.
La cosa mi sorprese, ma Nana rimase impassibile nel mio
sogno, come se se lo aspettasse.
“Per quanto tempo vuoi continuare a mentire a te
stessa?
Perché accanirsi ad amare qualcuno che non ami
davvero?”
Avrei voluto dirle che era per Satsuki, che il neonato del sogno non
era
davvero lei, lei era figlia di Takumi, che mi piacesse o meno, e quindi
aveva
tutto il diritto di crescere con suo padre. Lui era uno stronzo, ma non
potevo
negargli di vedere sua figlia.
Quando provai a dirle qualcosa tutto divenne nero, lei
scomparve, il terreno sotto i miei piedi divenne sabbia che si
aprì facendomi
precipitare.
Caddi e urlai per non so quanto tempo, forse per un paio
di ere glaciali, per poi svegliarmi nel mio letto ansimante e sudata.
“Tutto bene, Nana?”
Junko era seduta su di una sedia vicino al mio letto.
“Sì, ho solo avuto un incubo.
Grazie per avermi portata in ospedale.”
“Di niente, Nana. Lo sai che siamo amiche, ma
perché non hai chiamato Takumi?”
Io abbassai gli occhi.
“Le cose non vanno molto bene tra di noi adesso.”
“Capisco, ma l’arrivo di Satsuki cambia tutto, lo
sai, vero?”
Le rivolsi uno sguardo vacuo.
“Non far finta di non capire, la bambina ha bisogno di
entrambi i genitori.
Dovresti chiamare Takumi, non sa nemmeno di essere
diventato padre.”
“E se scappassi, Junko?
Io e la bambina.”
“Non puoi, adesso hai delle
responsabilità.”
Sospirai, aveva ragione purtroppo, adesso avevo delle
responsabilità.
Solo qualche mese prima avevo scelto la mia strada –
stare con Takumi, crescere con lui sua figlia – senza sapere
quanto fosse dura,
ora non potevo tirarmi indietro: c’era un esserino che
dipendeva in tutto e per
tutto da me.
“Sì, adesso lo chiamo.”
Presi in mano il cellulare e composi il suo numero, lui rispose dopo
qualche
squillo.
“Nana, che succede? Non mi chiami mai durante il
giorno.”
“Ho partorito, è una bambina, si chiama
Satsuki.”
Dissi con una voce piuttosto distante, era un fastidio comunicargli la
notizia.
Lui sembrò emozionarsi, mi chiese in che ospedale fossi e
disse che sarebbe arrivato al più presto, esattamente quello
che non volevo che
accadesse.
Chiusi la chiamata e rimasi ad aspettare sdraiata a letto
per recuperare le forze, fuori la luce calava progressivamente,
avvolgendo il
mondo in un mantello grigio, privando i ciliegi della loro
luminosità.
Guidato dalle tenebre Takumi apparve sulla porta della
mia camera, aveva il volo raggiante di gioia.
“L’ho vista, è bellissima.
Io…”
La voce gli si spezzò e non proseguì.
Takumi era un pessimo marito, un pessimo essere umano, ma
capii che sarebbe stato un bravo padre o almeno ci avrebbe provato con
tutte le
sue forze.
Al momento per me era abbastanza.
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Capitolo 11 *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo
undicesimo.
Scappare, scappare e ancora
scappare.
Fino a quando ero
rimasta con la mia famiglia nella mia
testa
c’era una
vocina che continuava a urlarlo. Non era il mio
posto.
Non era la mia gente.
Non erano il mio futuro. Dovevo
andare avanti
e scoprire dove
appartenessi a costo di fare del male a
chi mi aveva
cresciuta. Il giorno in
cui arrivai a Tokyo quella vocina
tacque per la prima volta,
ero arrivata dove dovevo
essere, ora toccava a me darmi da
fare per costruire
il mio futuro. Non
vedevo l’ora.
-Misato Uehara.
C’erano volute due
settimane per sistemare tutti i
documenti necessari per cambiare scuola, due lunghe settimane in cui i
miei
compagni mi additavano e si picchiettavano il dito sulla tempia.
Per loro ero una pazza sconsiderata che gettava via un
futuro sicuro per saltare nell’ignoto, una destinata a finire
male come sua
sorella.
Io me ne sbattevo, insieme a mia madre cercavo un
appartamento in cui stare, i miei mi avrebbero pagato il primo mese di
affitto,
poi mi sarei trovata un lavoro e mi sarei arrangiata.
Mi andava bene, non mi faceva paura.
Ero stanca di vivere in un posto piccolo che restringeva
i miei orizzonti e mi faceva credere di essere innamorata del mio
fratellastro
solo perché era l’unico a trattarmi bene.
Per me stessa e per non arrecare disonore alla mia
famiglia dovevo andarmene e volare nel cielo della vita, anche se
significava
lasciare il paese prima di tutti gli altri.
Avevamo spedito i documenti all’istituto Yazawa, ora
mancava solo la risposta anche se la preside aveva detto ai miei
genitori che
sarebbe stata sicuramente positiva, per loro non era un problema
accettare una
nuova studentessa ad anno scolastico iniziato.
Nel frattempo io e mia madre continuavamo a cercare un
appartamento quando non aiutavamo papà al ristorante,
Takahiro aveva smesso di
parlarmi.
Mi ignorava totalmente, come se avessi cessato di
esistere e nemmeno mi guardava, l’unica volta che lo fece fu
quando annunciò
che si sarebbe sposato con la sua ragazza.
Entrambi lavoravano, si amavano e si ritenevano pronti al
grande passo, io non dissi nulla, ero in preda a sentimenti
contradditori. Da
una parte ero felice che fosse diventato ancora più
irraggiungibile, dall’altra
ero arrabbiata e gelosa.
Qualsiasi cosa ne pensasse lui andarmene era davvero la
soluzione giusta o sarei impazzita, dovevo essere forte come tutte le
donne
della mia famiglia. Stringere i denti e andare avanti nel percorso che
avevo
scelto, era lungo e pieno di incognite, ma ero sicura che mi avrebbe
portato
lontano.
Se non l’avessi fatto avrei messo nei guai tutti, cercavo
di seguire i consigli di Shion più che potevo, ma da quando
c’era di mezzo la
storia del matrimonio era diventata ancora più dura.
Una parte di me – testarda ed egoista – voleva che
lui
rimanesse single per sempre, visto che io non potevo averlo nessun
altra
poteva. Era folle.
Oltre ai preparativi per la mia partenza adesso c’erano
anche quelli del matrimonio da portare avanti mio padre era stato
categorico:
non potevo partire prima di quella stupida cerimonia a cui io non avevo
nessuna
voglia di andare. Eppure mi ritrovavo a girare per negozi con mia madre
per
cercare il mio primo chimono elegante da adulta, venivo avvolta in
metri e
metri di tessuto che mamma finiva sempre per scartare.
Mi girava la testa.
Nel frattempo riuscimmo a trovare un appartamento a
Tokyo, l’affitto era basso perché in periferia, ma
era vicino alla metro e
quindi comodo.
Andammo in città per firmare il contratto per mia grande
gioia e poi ci fermammo a mangiare lì.
Mamma continuava a guardarsi in giro, come se cercasse di
riconoscere qualche posto che aveva visto da giovane, ma Tokyo era come
un
gigantesco serpente: cambiava ciclicamente muta.
Edifici venivano abbattuti e altri innalzati, non c’era
il senso di conservare il passato, ci si buttava a capofitto nel futuro.
“Quando vivevo a Tokyo c’era una bottega che
vendeva
chimoni, mi chiedo se ci sia ancora.”
Sputò infine mamma dopo aver finito il suo ramen, io guardai
il cellulare:
mancava ancora un po’ di tempo alla partenza del treno.
“Se vuoi possiamo fare un giro, abbiamo ancora
tempo.”
Lei annuì.
Prendemmo dolce e caffè, pagammo e poi ci infilammo in
una via stretta che sembrava uscita da un’altra era con le
sue insegne al neon
su edifici tradizionali.
Era mediamente animata, ma i suoi frequentatori erano
prevalentemente anziani, mi chiesi cosa sarebbe successo a questo
piccolo
universo una volta che i vecchi fossero morti. Probabilmente sarebbe
stata
fagocitata dalla città senza nessuna pietà.
Mamma si fermò davanti a un negozio e sorrise.
“È questo.”
Disse soddisfatta.
“Allora entriamo.”
Mamma aprì la porta scorrevole ed entrammo: era un locale
poco illuminato in
cui si scorgevano i bagliori cangianti della seta.
“Buongiorno.”
Una donna di mezza età apparve dal retrobottega.
“Buongiorno, avrei bisogno di un chimono elegante per mia
figlia, dobbiamo andare a un matrimonio.”
“Congratulazioni!”
La donna si illuminò.
“Vediamo se c’è qualcosa di adatto a
questa signorina.”
Le sue dita si mossero delicatamente sulla seta,
accarezzandola distrattamente.
“Il rosso sarebbe il colore più adatto a questa
bambina,
ma non vogliamo che distolga l’attenzione dalla sposa,
giusto?”
“Per me non sarebbe un problema.”
Borbottai facendo ridere la donna e sbuffare mia madre.
“Misuzu, ha ereditato il tuo caratterino!”
Mia madre rise.
“Mi avevi riconosciuta dunque, Yoko.”
“Certo! Eravamo migliori amiche quando vivevi qui.”
Mi guardò attentamente.
“Non è la bambina che stavi aspettando allora,
quella è
diventata una cantante famosa, gusto?”
Lei annuì.
“Vediamo, vediamo…
Giallo dorato con decorazioni arancioni, dovrebbe essere
perfetto.”
“Sì, credo di sì. Hai sempre avuto
buongusto.”
La donna sparì nel retrobottega.
“Così è una tua amica, eh?”
“Sì, ne avevo qualcuna qui a Tokyo. Non era come a
Mori dove ero la ragazza
scappata di casa, lì mi avrebbero sempre additata. Sono
stata pessima in tante
cose, come figlia e come madre.
Ho fatto soffrire tua nonna scappando, ritornando giusto
per lasciarle una bambina da crescere e sparendo di nuovo. Non sono
nemmeno
andata al suo funerale, volevo cancellare Nana perché mi
ricordava gli errori
che avevo fatto, quell’uomo che avevo tanto amato, ma che era
solo un violento.
Con lei ho sbagliato tutto e adesso non so nemmeno se
posso correggere i miei errori.
Con te ho avuto una seconda possibilità e stavo per
sprecarla.”
La donna tornò con il tessuto, andammo in camerino e mi
ci avvolse abilmente: aveva ragione, mi stava bene. Si accordava
perfettamente
ai miei capelli castani e anche l’obi che aveva scelto era
perfetto.
Comprammo anche la tipica borsa a sacchetto coordinata e
pagammo tutto, i prezzi erano economici, probabilmente calibrati sulla
gente
che faceva acquisti solitamente e non aveva troppo denaro da
scialacquare.
Mamma e la sua amica si salutarono cordialmente e poi
corremmo in stazione a prendere il treno, ce la facemmo giusto in tempo.
Mentre guardavo dal finestrino – tornando a casa –
pensavo a tante cose.
Alla voglia di vivere e scappare di mamma.
Al paesino e alla sua amica Yoko che non giudicava.
A Nana, alla nonna, a me, alla morte di Ren.
Alla confessione di mia madre soprattutto, così sincera
da fare male.
Forse il giorno in cui ero scappata di casa l’avevo messa
davanti ai suoi errori e – in questa prospettiva –
non era stata una cosa poi
così sbagliata.
Speravo che nascesse di buono da tutto quel dolore.
Il giorno del matrimonio era
arrivato.
Mio fratello aveva già consegnato le carte in comune,
quindi per lo stato erano già sposati, ma lui voleva anche
il matrimonio
religioso.
E così ora mia madre mi stava aiutando a mettere il
chimono, il giallo e l’arancione mi stavano bene, ero quasi
contenta. Quando
finì sorrise.
“Sei bellissima.”
Mi truccò leggermente, ben sapendo che avrei potuto
esagerare con il trucco
viste le mie tendenze punk, poi mi mise un crisantemo giallo tra i
capelli.
Un simbolo di forza? Perché?
“Credo che tu ti sia presa una cotta per Takahiro, ecco
perché vuoi scappare, ecco perché io ho approvato
il tuo progetto. Che gli dei
ti diano la forza di continuare sul cammino che hai intrapreso per
liberarti da
questa ossessione.
Il tuo amore è là fuori che ti aspetta, non
è in questa
famiglia.”
Un paio di lacrime solcarono le mie guance, io le asciugai attenta a
non
guastare il trucco.
“Grazie, mamma.”
Dissi con voce che tremava.
“Come l’hai capito?”
“Dal tuo sguardo, io avevo quello sguardo quando mi sono
innamorata di tuo
padre.”
Rimase un attimo in silenzio.
“Mi chiedo se Nana abbia guardato così quel
ragazzo che è
morto, se lo abbia amato o se io l’ho ferita così
tanto da toglierle questa
capacità.”
“Io penso che l’abbia amato, le poche volte che
è apparsa
in pubblico dopo la sua morte aveva uno sguardo vuoto. Uno sguardo del
genere
si ha solo quando hai perso qualcuno di molto importante, ma
naturalmente le
mie sono solo congetture.”
Finimmo di prepararci e andammo al tempio, Takahiro sembrava impaziente.
Kayoko non mi sembrava nulla di speciale, eppure lui
l’amava intensamente, non vedeva l’ora che lei
fosse a sua compagna per la
vita.
Il sacerdote iniziò la cerimonia e quando gli sposi
bevvero i tradizionali tre sorsi di sakè il volto di mio
fratello era
trasfigurato di gioia. Anche sua moglie era felice, ma continuava a
guardarmi e
io non capivo perché, non le avevo mai fatto nulla.
Alla fine mi si avvicinò con una faccia poco amichevole.
“Perché ti sei messa un chimono che spicca
più del mio?”
Io la guardai incredula, il problema dunque era solo questo?
Non ero sicura che sarebbe stata la ragazza giusta per
Takahiro, ma non volevo intromettermi più di tanto nel loro
rapporto.
“Eh?”
“D’altronde c’era da aspettarselo da te,
come tutte le
donne della tua famiglia porti solo guai, sono felice che andrai a
Tokyo,
almeno la gente intorno a te smetterà di soffrire per i tuoi
comportamenti da
teppista.”
“Anche io sono felice di andare a Tokyo, almeno non
dovrò
sopportare una persona meschina come te, mio fratello non ti merita. La
tua
unica qualità è la bellezza, ma la tua
è una di quelle bellezze che durano solo
finché sei giovane, goditela fino a che ce
l’hai.”
Le dissi con il mio peggior sorriso ironico dipinto in viso, inutile
dire che
non la prese bene.
Il suo volto divenne viola dalla rabbia e si allontanò a
passo svelto, dirigendosi verso mio fratello, io rimasi da sola e
felice di
esserlo.
Finita la cerimonia al tempio c’era il pranzo al
ristorante, erano presenti i parenti Uehara, ma non quelli Osaki e gli
amici
della coppia. Gli Osaki non avevano ancora perdonato a mia madre
l’essere
scappata di casa a diciotto anni e tutto il resto, per loro quel ramo
della
famiglia si era estinto con mia nonna Miyuki.
Era triste, ma se a loro andava bene così non sarei certo
corsa a cercarli, non mi importava di loro, non erano belle persone se
non
sapevano perdonare gli errori di una ragazzina nemmeno dopo anni.
Mamma mi si avvicinò con aria preoccupata, doveva avere
notato il malumore della novella sposina.
“È successo qualcosa tra te e Kayoko?”
“Scaramucce. Mi ha chiesto perché indossassi un
vestito più vistoso del suo, mi
ha detto che tutte le donne di questa famiglia portano solo guai e che
è felice
che me andrò a Tokyo, così almeno tutti
smetteranno di soffrire per i miei
comportamenti da teppista.”
“Questo è troppo, mancare così di
rispetto alla nostra famiglia!”
“Non prendertela, mamma. Oggi è un giorno felice
per
Takahiro, cerchiamo di non rovinarglielo.”
“Sì, hai ragione. Ci sarà scuramente
un’altra occasione
per chiarire questa situazione.”
Io annuì, raggiungemmo mio padre che aspettava vicino
alla macchina.
“Tutto bene?”
Chiese.
“Sì, va tutto bene.”
Lo rassicurai, ci avrebbe pensato mamma a riferirgli i
poco lusinghieri commenti sulla nostra famiglia.
Mio padre era contento quel giorno, probabilmente non era
stato del tutto felice da quando i giornalisti avevano iniziato a
ficcanasare
nella nostra vita. Mi faceva un po’ pena, era stato costretto
a lasciare Osaka,
iniziare tutto da capo a Okayama, mamma lo aveva lasciato
momentaneamente e io
ero scappata di casa.
Forse quel matrimonio era il primo momento di normalità
in mesi, lui – tra altro – non aveva colpa in tutti
quegli avvenimenti: erano
stati i fantasmi di mamma a venire a bussare alla porta e credo che lui
non ne
conoscesse nemmeno la metà.
Papà aveva sposato mamma dopo che l’aveva aiutata
a
uscire da una relazione con un uomo violento, lo stesso che non aveva
voluto
Nana. Era sempre stato papà quello che aveva amato di
più nella coppia e aveva
difeso mamma dai pareri negativi della sua famiglia.
Salimmo in macchina e partimmo verso il ristorante, era
un locale molto carino e anche economico, gestito da un vecchio amico
di papà.
“Allora, cosa ve n’è parso della
cerimonia?”
“Spero che Takahiro sia felice.”
Rispose prudentemente mia madre.
“E tu, Misato?”
“Mi è sembrata una bella cerimonia.”
“Ti piace Kayoko?”
“Non è a me che deve piacere.”
Dissi ridendo, volevo buttarla sullo scherzo per non dire apertamente
che non
la sopportavo.
“Sì, hai ragione.”
Mio padre si unì alla risata e io tirai un sospiro di
sollievo interiore.
Papà guidò fischiettando una vecchia canzone, mia
madre
si controllò il trucco, io invece guardavo il paesaggio
scorrere fuori dal
finestrino. Non ero affezionata a Okayama come a Osaka, ma mi sarebbe
mancata,
la natura soprattutto. Tokyo mi aveva dato l’impressione di
un posto in cui i
parchi non erano molto diffusi, ma almeno lì sarei stata
libera.
Vedere la felicità coniugale dei due novelli sposi era al
di là delle mie capacità di sopportazione,
dopotutto ero solo un essere umano:
non una santa né una martire.
Arrivammo al ristorante ed entrammo, con mio stupore era
riservato solo a noi. C’era un tavolo per i parenti e amici
più stretti della
sposa, per il resto dei parenti e delle conoscenze, così
divisi riempivamo una
sala.
Io mi sedetti al tavolo, c’eravamo solo noi, i genitori
di Kayoko, Kitaro e la miglior amica della vipera con dei capelli
così biondi
da sembrare quasi bianchi, ma su di lei non c’era stato nulla
da ridire.
Iniziarono tutti a chiacchierare amabilmente, Kayoko
descriveva vivacemente il suo viaggio di nozze a Okinawa,
l’anno prossimo
sperava di poter andare alle Hawaii.
E perché non a New York, in Italia e poi sulla luna?
Non la sopportavo più e non vedevo l’ora che
arrivasse il
cibo, almeno mi sarei distratta con le pietanze, ero naturalmente
magra, ma
mangiare mi piaceva.
Finalmente arrivò la pentola del sukiyaki, sembrava
parecchio ricco e appetitoso, mamma servì le porzioni con
precisione e finalmente
quel chiacchiericcio insensato tacque.
Era davvero buono, l’amico di mio padre ci sapeva fare in
cucina e questo mi sarebbe stato d’aiuto, non ne dubitavo.
Tra una portata e
l’altra la sposa non avrebbe certo tenuto la sua boccuccia
chiusa, sognava in
grande e non si vergognava di farlo. Sperai solo che rendesse felice
Takahiro e
non lo frustrasse troppo, non se lo meritava, ma ormai non erano
più affari
miei, probabilmente non lo erano mai stati.
I documenti erano firmati, la cerimonia scintoista
eseguita, Kayolo era la nuova signora Uehara, con tutti i diritti e
doveri del
caso.
“Buono questo sukiyaki!”
Dissi tanto per dire, ma nessuno mi prestò attenzione.
La faccia di Kayoko era un mix di emozioni contrastanti,
da una parte si vedeva che le piaceva il cibo, dall’altra
pensava chiaramente
di meritarsi un ristorante più lussuoso.
Se era la ricchezza che voleva avrebbe dovuto sposare
qualcuno di diverso da un cuoco di okonomiyaki, o almeno
così pensavo.
La festa iniziava a farsi noiosa come previsto, dopo il
sukiyaki fu servita della carne da poter grigliare a piacere e infine
un
monumentale piatti di sushi misto.
Tutti apprezzarono e il cibo finì alla svelta nella bocca
dei commensali, arrivò la torta e con essa i discorsi di
auguri agli sposi.
Era quasi finita, dovevo resistere solo un altro po’ e
poi avrei potuto andare a casa e pianificare la mia partenza, il fatto
che
presto me ne sarei andata era l’unica cosa che evitava che
cadessi in
depressione.
C’erano stati così tanti cambiamenti in
così poco tempo!
E cercare di comportarmi come mi aveva suggerito Shion
era così difficile!
La mia coscienza insisteva dicendo che dovevo cambiare
aria, una volta fatto quello le cose si sarebbero rimesse nella giusta
prospettiva e io avrei smesso di soffrire e di essere una minaccia per
la mia
stessa famiglia.
Ci voleva solo un po’ di tempo.
“Misato?”
La voce di Takahiro mi riscosse dai miei pensieri.
Io lo guardai sinceramente stupita, dal momento in cui
avevo annunciato che me ne sarei andata a Tokyo non mi parlava.
“Sì?”
“Ti va di ballare con me?
Sai, la tradizione…”
Certo, la tradizione occidentale che imponeva di ballare
con i membri della propria famiglia un’ultima volta prima di
ballare con la
sposa.
“Ah. Sì, certo.”
Mi alzai e presi la sua mani, grande e un po’ callosa.
Con gentilezza mi spinse fino al centro della pista, le
alte coppie ci sorridevano benevole.
Iniziammo a ballare un lento, una canzone dei Trapnest, a
lui piaceva la voce di Reira.
“E così te ne vai…”
“Sì, tra poco me andrò.”
“Sei sicura? Sei così piccola!”
“Non sono più una bambina, Takahiro. A luglio
compirò sedici anni.”
“È che per me rimarrai sempre una bambina e poi mi
mancherai.”
Io sorrisi.
“Non te ne accorgerai nemmeno ora che hai una tua
famiglia a cui badare, dicono che i primi mesi del matrimonio siano i
migliori.
La coppietta è sempre insieme e cose del genere, insomma
sarai talmente
appiccato a Kayoko che nemmeno ti accorgerai che io non ci sono.
Comunque torno per le vacanze estive e l’obon.”
“Quindi tu pensi che sarà
così…”
“Ne sono sicura.”
Gli sorrisi rassicurante, non volevo fargli anche solo intuire qualcosa
della
mia cotta.
“Lo spero, mi mancherai davvero.
Devi proprio andartene?”
“Sì, è meglio per tutti.
Mi raccomando, tu sii felice.”
“Lo sarò.”
Sorrise a trentadue denti, doveva essere l’effetto
dell’amore.
Continuammo a ballare fino a che la canzone non finì,
poi io tornai al tavolo e osservai tutti: Takahiro era tornato da
Kayoko, mamma e
papà ballavano insieme.
Sì, questa famiglia sarebbe a essere felice senza la
figlia problematica e io potevo passare oltre a questa situazione
assurda.
La musica continuava a suonare e io sorridevo.
La mia famiglia era strana e disastrata, ma la amavo.
Una settimana dopo è arrivò il giorno della
partenza.
Era uno splendido giorno di sole, spirava un vento
tiepido che portava il profumo degli ultimi ciliegi in fiore, dopo aver
fatto
colazione uscii in giardino e raccolsi un fiore di ciliegio.
Sorridendo me lo misi dietro l’orecchio e poi guardai
questa casa, ci avevo vissuto pochissimo, ma forse mi sarebbe mancata.
Alzai le braccia verso il cielo e rientrai, i miei
bagagli erano accatastati vicino alla porta: erano giusto un paio di
valigie, mi
avrebbero mandato il resto più tardi.
“Sei pronta, Misato?”
Mi chiese premuroso mio padre.
“Sì, lo sono.”
Insieme caricammo i miei bagagli nella macchina di famiglia.
“Sei sicura di non volere che io o la mamma ti
accompagniamo al tuo appartamento?”
“Sì, devo imparare a cavarmela da sola.
Ce la metterò tutta e ce la farò, vi
renderò fieri.”
Dissi inchinandomi a loro.
“Scusatemi per tutti i problemi che vi ho creato nei mesi
scorsi, da adesso cambierò.”
Mio padre mi passò dolcemente una mano tra i capelli.
“Alzati, non c’è nulla di cui scusarsi.
Era una
situazione difficile e tu hai perso la testa, capita, sei umana anche
tu.”
Io gli sorrisi timidamente.
Entrammo in macchina e finalmente partimmo, io guardavo attentamente
fuori dal
finestrino, dando addio a un posto che non avevo avuto la
possibilità di
conosce appieno.
Arrivati in stazione scaricammo le valigie e insieme ci
dirigemmo verso il binario, io tenevo stretto in mano il biglietto che
mi
avrebbe consegnato una nuova vita.
Avevo il batticuore, ero eccitata, pronta per vivere la
mia avventura.
Non vedevo l’ora di scoprire come sarebbe stato vivere in
una grande città e avere un obiettivo da perseguire, finora
ero stata una
foglia che si era lasciata trasportare dal vento della vita, ma da
adesso in poi
le cose sarebbero state diverse.
Adesso sarei stata io a decidere con le responsabilità
del caso.
Arrivati al binario, io e papà salimmo sul treno, lui mi
aiutò a sistemare le valigie e poi scendemmo di nuovo visto
che mancava un
quarto d’ora alla partenza.
Avevo gli occhi lucidi adesso, salutarli sarebbe stato
difficile.
Ci abbracciammo stretti.
“Mi raccomando, stai attenta e fa del tuo meglio per
essere felice.”
La voce di mamma era rotta.
“Fatti sentire e raccontaci il più
possibile.”
Anche quella di papà era incrinata.
“Sì, lo farò. Farò tutte e
due le cose.”
Adesso anche la mia voce era incrinata, ci abbracciammo
di nuovo.
Poi salii sul treno, raggiunsi il mio scomparto e feci
grandi gesti di saluto con gli occhi lucidi.
Di lì a poco il treno partì, le lacrime
scorrevano sul
mio volto, ma sorridevo.
Presto avrei dato un senso alla mia vita.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo dodicesimo.
Sai Nana, non avevo mai capito
il tuo rifiuto assoluto e
totale della maternità,
pensavo fosse solo una
delle tante conseguenze
dell’abbandono di tua madre.
Ora che mi ritrovavo a
badare a Satsuki lo capii,
quella bambina era mia,
ma sentivo di non amarla come
avrei dovuto.
Pensavo continuamente a
come sarebbe stata la mia vita se
non l’avessi
partorita e quando anche la responsabilità
di Ren
ricadde sulle mie spalle
mi scoprii a pensare che io quei
due non li volevo affatto
e mi sentii prigioniera
in una vita che ormai non era più
mia, ma di due mocciosi
che mi succhiavano le
energie.
Erano passate due settimane dal
parto, i ciliegi erano
sfioriti e non faceva altro che piovere.
Tutti i giorni mi svegliavo sotto un cielo grigio che
grondava lacrime e andavo a letto sotto lo stesso cielo, era
deprimente. Takumi
era venuto giusto un paio di volte, poi era sempre da Reira,
perché anche lei
era incinta e, sebbene non fosse suo, mio marito se ne prendeva cura
come se lo
fosse.
Sarebbe nato a settembre, all’inizio dell’autunno e
per
allora Satsuki avrebbe avuto cinque mesi, sarebbe stata quasi alla fine
dello
svezzamento.
Alla prospettiva di dover allattare anche quel bambino mi
sentivo una specie di balia o una vacca, il fatto che fosse il figlio
di Shin
non alleviava la mia pena, perché era stato il gesto di
Takumi a ferirmi.
Satsuki cresceva sana e serena, era una brava bambina se
non per il fatto che confondeva spesso il giorno con la notte, quella
che non
stava bene ero io.
La allattavo, cullavo, cambiavo, lavavo in modo
automatico.
Era come quando da piccola dovevo giocare con una bambola
che non mi piaceva, il mio istinto materno non scattava del tutto e non
riuscivo a prendermene cura come dovevo.
All’improvviso suonò il campanello, io andai ad
aprire e
mi ritrovai davanti Nobu, fui piacevolmente sommersa da
un’ondata di felicità.
Vederlo mi rendeva sempre di buon umore, frammenti di
quando stavamo insieme mi tornavano alla mente e pensavo che quello era
stato
il periodo più felice della mia vita.
“Ciao, Nobu!
Entra, Satsuki sarà felice di vederti.”
Lui mi rivolese il suo solito sorriso triste, da quando avevamo rotto
non lo
vedevo con il suo vecchio sorriso spensierato. Takumi mi aveva
insegnato perché
gli uragani venivano chiamati con nomi di persona, probabilmente io lo
avevo
insegnato a Nobu.
“No, Hachi, ma grazie.”
“Che succede?”
Chiesi preoccupata.
“Torno al mio paese, il treno parte tra
un’ora.”
Io mi sentii venire meno, quando l’avrei rivisto ancora?
“Ma perché?”
“I soldi stanno finendo, non voglio entrare in
un’altra
band, quindi non mi rimane altro che portare avanti la pensione dei
miei.”
“Ma tu odi farlo.”
“Lo so mi inventerò qualcosa per renderlo
sopportabile.”
Lo abbracciai forte, volevo baciarlo, ma non sarebbe cambiato nulla.
Non era il posto e il momento adatto, non per ora almeno.
“Promettimi solo una cosa: torna per i fuochi
d’artificio
e per il mio compleanno.
Li festeggeremo all’appartamento 707, come ai vecchi
tempi, magari arriverà anche Nana.”
Non volevo piangere, ma le lacrime scendevano da sole,
senza controllo. Nobu mi staccò delicatamente da
sé e me le asciugò sempre con
quel suo nuovo sorriso pieno di ferite.
“Va bene, tornerò.
Festeggeremo e chissà, forse un giorno Nana
tornerà
davvero, io continuerò a cercarla da Mori se mi
sarà possibile.”
Io annuì, lui mi diede un bacio sulla fronte e se ne
andò.
Qualcosa dentro di me si spezzò con un rumore secco,
tutti i legami con la mia vecchia vita erano stati troncati, ora avevo
solo la
mia famiglia a cui dedicarmi. Era il sogno della mia vita, ma
stranamente mi
sembrava di soffocarci dentro.
Non riuscivo più a capirmi, sin da piccola avevo
desiderato un marito e dei figli, mamma era una casalinga felice e io
volevo
essere come lei. Ora lo ero ed ero anche più fortunata di
lei perché Takumi era
più ricco di papà, ma ero ben lontana
dall’essere felice.
Dall’interno arrivò il pianto di Satsuki, io mi
riscossi,
la pioggia continuava a cadere indifferente alle mie tragedie. Rientrai
e
cercai di capire di cosa avesse bisogno la mia bambina,
l’avevo cambiata da poco
quindi non poteva che essere per la pipì. La feci attaccare
al mio seno e lei
cominciò a poppare soddisfatta, sulle mie guance invece
scorrevano libere le
lacrime, avevo perso e perso e perso ancora.
L’unica cosa che mi rimanesse era estranea, la bambina
per cui avevo tanto lottato era una sconosciuta in cui rivedevo i
colori di mio
marito.
Che soffrissi di depressione post-partum?
Forse dovevo vedere un dottore o uno psicologo? E con
quale coraggio lo avrei detto a Takumi?
Da quando avevano scoperto la gravidanza di Reira un
tacito accordo tra di noi diceva che io non gli dovessi pesare addosso,
che
dovessi risolvere da sola i miei problemi, che lui ne aveva fin troppi.
Satsuki smise di succhiare, le feci fare il ruttino e la
rimisi nella sua culla, poi la fissa, a lungo e con occhio critico. Era
una
bambina molto bella, paffuta e con una gran massa di capelli neri,
aveva sempre
l’aria di sorridere per qualche motivo e piangeva solo se
necessario. Di
capricci non ne faceva, ma le piaceva stare con me e sentire la mia
voce,
adorava sentirmi cantare.
Era la bambina ideale che sognavo da piccola, ma per
qualche motivo non riuscivo a sentire per lei l’attaccamento
che avrei dovuto.
Forse perché non era nata dall’amore, ma solo
dalla lussuria e dalla tristezza?
Perché mi aveva impedito di agire come avrei voluto con Nana?
Perché avevo perso Nobu?
Probabilmente era per tutte quelle motivazioni, ma non
era giusto che lei pagasse per i miei errori, lei era innocente, ero
stata io a
trascinarla in quel gran casino.
La presi in braccio e la cullai dolcemente.
“Mi dispiace, Sacchan. La mamma è confusa e non ti
ama
come dovrebbe, ma imparerà a farlo.
Tu non hai colpa per tutto quello che è successo di
sbagliato nella sua vita, mamma ti ha voluta e continuerà a
farlo.”
Lei gorgogliò felice e mi toccò il volto.
“Tu mi vuoi bene incondizionatamente, vero?
Forse dovrei imparare da te, forse tu la vita l’hai
capita più di me anche se hai solo due settimane. Noi grandi
siamo complicati,
confondiamo quello che vogliamo con ciò di cui abbiamo
bisogno e ci rendiamo
infelici, dovremmo tutti essere più onesti con noi stessi,
ma l’onestà fa
paura.
Il giudizio della gente anche e così il dover ribaltare
tutta la nostra vita.
Fa paura, tanta paura.
Ma io cercherò di esserci sempre per te, piccolina, anche
se non ti ricorderai di questo strano discorso.”
Satsuki gorgogliò di nuovo, mi sembrò che
sorridesse, come a dire che aveva
capito tutto quello che le avevo detto.
“Sarai di sicuro più intelligente di me.”
Risi, pensando che non ci voleva molto a esserlo.
Io ero stata la tipica ragazza campagnola che arrivata a
Tokyo si era fatta mettere incinta in meno di un anno da un uomo che
non
l’amava. Takumi probabilmente non amava nessuno, se non
sé stesso e Reira in
maniera distorta, io ero solo una specie di gioco che aveva vinto.
Rimisi la bambina nella sua culla e cominciai a leggere
uno dei libri che mi aveva portato Miu, erano sull’arte della
vestizione. Una
volta che i bambini fossero stati grandi abbastanza volevo iniziare a
svolgere
quell’attività, in modo da avere un piano B in
caso che le cose fossero andate
davvero male.
“Sai, Sacchan…
Forse mamma è davvero cresciuta un po’,
perché pensa a un
piano B per noi, quando si trasferì a Tokyo non
l‘aveva e non l’ha avuto per
tanto tempo.
Mamma, è proprio un disastro, vero?
Ma ce la metterò tutta d’ora in poi.”
Rimasi colpita dall’inizio del discorso, quel
“sai” era
lo stesso che usavo per i miei discorsi immaginari con Nana.
“Sacchan, quel “sai” che ti ho detto
prima mi ha
ricordato una persona.
È la mia migliore amica, si chiama come me ed è
la
persona più forte che io abbia mai conosciuto, anche se
adesso vaga nelle
tenebre. Ti prometto che un giorno la conoscerai e lei ti
chiamerà con il dolce
nome che lo zio Ren ha scelto per te.”
La bambina mosse le gambette e le manine, come eccitata.
Mi chiesi quanto capisse o se reagisse così
perché
sentiva la voce di sua madre priva della solita nota triste che la
caratterizzava.
“Un giorno ti prometto che ti racconterò tutta la
storia.
Di come la mamma un giorno è venuta a Tokyo, di come ha
incontrato Nana, i
Blast e Nobu. Forse vorrai sapere di tuo padre, ma – piccola
– quella è la
parte brutta della storia. Magari capirai perché la mamma
avrebbe preferito
Nobu.
Spero che un giorno mi perdonerai e non mi giudicherai
troppo duramente.”
Satsuki mosse ancora una volta braccia e gambe, io la presi in braccio e la cullai, nuove
lacrime mi
rigavano e guance.
Pensavo a come tutto sarebbe stato diverso se la bambina
fosse stata figlia di Nobu, avrei mollato Takumi e lo avrei lasciato a
crescere
da solo il figlio di Reira. Io avrei ritrovato la persona che amavo,
insieme ci
saremmo occupati della pensione Terashima e avremmo cercato Nana.
Il giorno che l’avremmo trovata avrebbe di sicuro riso
dicendo che eravamo due cagnolini rumorosi, ma che era felice di averci
nel suo
giardino. Chissà magari avrebbe persino abbandonato
l’idea stessa del giardino
e sarebbe stata semplicemente felice e basta.
Satsuki però era figlia di Takumi, come testimoniavano i
capelli neri e tra qualche mese avrebbe avuto un fratellino non
desiderato.
Amavo Shin come un figlio, ma non riuscivo ad amare la sua creatura,
percepivo
chiaramente che non era compito mio allevarla.
Era Reira sua madre, era lei che doveva prendersi la
responsabilità di crescerlo come avevo fatto io.
Tutti dicevano che Reira era debole, secondo me era solo
una gran bella egoista, una che scappava dai suoi casini. Un giorno
avrei
dovuto spiegarlo a Satsuki e a quel bambino non ancora nato.
La mia vita sarebbe stata tutta in salita d’ora in poi e
non ci sarebbe stato nessuno a darmi una mano, nessuna spalla su cui
piangere.
Ero sola, completamente sola.
Nobu era appena partito, Nana era scomparsa, Shin sarebbe
stato impegnato a trovare una carriera alternativa, Yasu sarebbe
tornato a fare
l’avvocato e comunque aveva Miu dalla sua parte; in quanto a
Takumi non c’era
mai veramente stato.
Ero solo la mogliettina giovane e carina da cui correre a
farsi coccolare dopo il lavoro, che era la sua priorità, e
le altre donne.
Sì, sapevo che mi tradiva, ne avevo trovato le tracce per
caso mentre mettevo in lavatrice alcune delle sue camice. La vita
è banale in
fondo, segue i suoi cliché e tu ti devi abituare.
Io non mi arrabbiai comunque, dicevo agli altri di amarlo,
ma mentivo, mentivo sempre.
Continuavo a farlo perché non si preoccupassero troppo
per me, ero sempre stata un peso per tutti e mi ero stancata: per tutta
la vita
ero corsa da Jun o da Nana in lacrime per essere consolata.
Ora quel tempo era finito, ero legata a doppio filo a
Takumi e dovevo accettare sia i lati positivi che negativi.
L’unica cosa a cui potevo aggrapparmi era Satsuki e
probabilmente, con il tempo l’avrei fatto, dovevo solo
lasciare che la
delusione scivolasse via da me.
Dovevo anestetizzare la mia vita, come si anestetizza la
bocca prima di togliere un dente.
Davanti a me si stendeva un lungo nastro grigio, senza
scosse o novità: era quella la mia vita.
Sarei stata una madre, avrei lavorato e non avrei più
amato.
Era buffo come l’amore fosse diventato un lusso per me,
io, quella che senza amore non viveva, sempre pronta a buttarmi tra le
braccia
degli uomini più disparati, credendo sempre di essere
innamorata e di aver
trovato il principe azzurro.
Buffo in modo tragico.
Eppure, in fondo al mio cuore – nell’angolo
più recondito
dove vivono solo i sogni – speravo di riuscire un giorno a
tagliare quel
nastro, la mia catena immaginaria che mi inchiodava alla cuccia.
Erano passati ormai due mesi e
mezzo.
La primavera aveva ceduto dolcemente il passo all’estate,
i ciliegi erano sfioriti e nel mio giardino erano bocciati i girasoli.
Il
tepore si era trasformato in caldo.
Era un’estate calda, ma non troppo umida così era
anche
piacevole uscire con il passeggino a passeggiare con Satsuki. Andavamo
spesso
al parco, io mi sedevo su una panchina all’ombra e mi godevo
la frescura,
ascoltando il ronzio degli insetti.
Non avevo fatto amicizia con le altre mamme, a volte mi
raggiungevano Shin, Misato o Miu se avevano del tempo libero. La
bambina
assorbiva quasi tutte le mie giornate, ma trovavo sempre il tempo di
leggere il
libro di Miu o esercitarmi.
Avevo appeso un furin alla finestra e mi godevo al meglio
quel luglio, pensando con eccitazione al momento in cui ci sarebbero
stati i
fuochi d’artificio sul fiume Tama.
Takumi veniva di rado a casa, la gravidanza di Reira
sembrava essere una di quelle complicate – forse anche
perché lei si rifiutava
ancora di mangiare o lo faceva pochissimo – e mio marito era
sempre al suo
fianco.
Non mi mancava affatto, ero solo preoccupata che
trascurasse la bambina e che lei ne soffrisse.
Anche quel giorno uscii per andare al parco come sempre,
Tanabata era passata da un paio di giorni, avevo comprato un
bambù e avevo
scritto il desiderio sul tanzaku in codice. Se mai mio marito
l’avesse voluto
leggere non ci avrebbe capito nulla, inutile dire che Takumi non era
passato da casa.
Arrivata alla mia solita panchina mi sedetti e cominciai
a farmi aria con il ventaglio, persa nei miei ricordi.
Un anno prima era il periodo più felice della mia vita,
ero la ragazzo di Nobu, Nana e io eravamo due amiche unite, i Blast
stavano per
debuttare. Mi sentivo eccitata per quello e auguravo loro il meglio,
era quello
che avevo scritto sul tanzaku dell’anno prima.
Sorrisi debolmente pensando a quel Tanabata, eravamo
tutti nell’appartamento 707, Yasu aveva spiegato a Shin il
significato della
festa e i cartoncini colorati erano sparsi sul tavolo. Quando
finalmente li
avevamo appesi tutti e messo il bambù accanto alla finestra
un colpo dispettoso
di vento se li era portati via tutti.
Io avevo desiderato che i Blast ce la facessero ed ero
stata accontentata, ma a che prezzo?
Sospirai e pensai a quella notte di luglio in cui
avrebbero dovuto esserci i fuochi d’artificio al fiume Tama,
io mi ero persino
comparata uno yukata, ero eccitatissima.
Solo che quella sera arrivò un tifone, i fuochi furono
annullati e io ero delusissima, ci pensò Nana a risolvere la
situazione. Chiamò
Nobu, lui arrivò con Shin e Yasu con dei fuochi comprati in
un convenience
store a poco prezzo, bagnato come un pulcino.
La mia delusione si era tramutata in una gioia dilagante,
scendemmo tutti lungo l’argine del fiume, compresa Misato che
era nostra
ospite.
Accendemmo quei fuochi d’artificio a poco prezzo e mi
sembrarono più belli di tutti quelli che avevo vito nella
mia vita, ne porsi uno
anche a Nana sorridendo. Allora non capivo da dove arrivasse tutta
questa
felicità, adesso lo sapevo. Era perché ero
circondata dall’affetto di persone
che mi amavano così com’ero e che si prendevano
cura di me. Tutti avevano
sfidato quella notte piovosa solo per farmi felice, Takumi sapeva solo
comprarmi delle cose per compensare la sua assenza e io me ne ero resa
conto.
Peccato che avere l’armadio pieno di vestiti costosi non
mi rendesse poi così felice.
Tornai a casa, l’essere una casalinga di Shirogane non
faceva per me alla fine, Junko si era sbagliata.
Cinque giorni più tardi arrivò finalmente la
tanta
sospirata serata, mio marito aveva mangiato a casa e poi era sparito da
Reira. Io
mi misi uno dei mei yukata preferiti – giallo dorato con dei
fiori arancioni –
e mi rimirai allo specchio. La gravidanza non aveva lasciato chili in
eccesso
sul mio corpo, c’era solo la
mia solita
faccia tonda. Mi pettinai e mi truccai, feci indossare a Satsuki una
tutina
coordinata con il mio yukata: era bellissima.
Il tempo era sereno questa volta, le stelle scintillavano
quietamente in cielo illuminate da una grande luna piena, un vento
tiepido
muoveva le fronde degli alberi del mio giardino, mi portava il profumo
dei
fiori e faceva tintinnare il furin.
Era una bella notte.
Salii sul taxi dopo aver smontato la carrozzina con
l’aiuto del taxista e partii, Tokyo mi offrì come
al solito il suo spettacolo
di luci e strade affollate.
L’appartamento 707, che si affacciava sul fiume, era in
una zona tranquilla.
Arrivati, rimontai il passeggino, pagai il taxista e poi
mi guardai attorno, la casa della mia anima era senza ascensore, avevo
bisogno
di aiuto per arrivarci.
“Hachi!”
Mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai, Misato stava venendo verso di me, i boccoli
biondi più lunghi rispetto all’ultima volta che
l’avevo vista.
“Ciao, Misato.
Gli altri sono già arrivati? Andiamo prima
all’appartamento, giusto?
Non mi sembra che ci sia tantissima gente, non dovremo
lottare per un posto.”
“Yasu e Shin sono arrivati, Nobu ha telefonato e ha detto che
il treno sta per
arrivare a Tokyo, Miu è sul set, ma pensa di riuscire a
liberarsi dai suoi
impegni entro un’ora.
Sai che è arrivata a Tokyo la sorellina di Nana?
Yasu dice che le somiglia molto fisicamente.”
Mentre parlava aveva smontato di nuovo il passeggino di
Satsuki e se lo era messo sottobraccio.
“Andiamo! C’è della birra fresca che ci
attende.”
“Va bene.”
Entrammo nel condominio e salimmo le scale, io ero in
presa a un fortissimo senso di déjà-vu, quante
volte avevo percorso quelle
scale?
Perché me ne ero andata?
Finalmente ero davanti alla porta dell’appartamento,
Misato la aprii e una scena familiare apparve davanti ai miei occhi. I
ragazzi
stavano fumando e chiacchierando seduti al tavolo che Nana aveva
costruito, era
come se il tempo non fosse mai passato. Era questo l’effetto
dell’appartamento
707, congelava tempi e situazioni, custodiva e si faceva tempio di un
dolore
che non passava mai. Gridava tutta la nostra sofferenza per la
scomparsa della
mia amica e la nostra angoscia, eppure era piacevole tornarci.
“Ciao!”
Gridai, Yasu e Shin si voltarono verso di me e spensero le sigarette.
Con un
movimento fluido Yasu aprì la finestra e Shin venne verso di
me. Sistemò il
passeggino e poi mi abbracciò stretta.
“Satsuki è sempre più bella.”
Disse mentre le accarezzava delicatamente la fronte.
“Posso metterla nel passeggino?”
“Sì.”
Lui la depose sulla copertina con dolcezza e finalmente
arrivammo tutti al tavolo.
Mi chiesero notizie sulla bambina e sui suoi progressi,
io chiesi notizie dei loro rispettivi lavori. Lo studio dove aveva
lavorato
Yasu prima del debutto dei Blast lo aveva riaccolto e adesso le cose
andavano
bene, Misato aveva deciso di prendersi cura della carriera di Shin e
adesso lui
lavorava sia come modello che come attore. Era dotato di un talento
naturale
per la recitazione e grazie al suo look era particolarmente richiesto
per i
ruoli del giovane ribelle.
A modo loro erano felici, o almeno ci stavano provando.
Un leggero bussare ci fece sobbalzare, il mio corpo si
alzò automaticamente per andare ad aprire la porta e mi
ritrovai davanti Nobu.
Il mio cuore saltò un battito e in quello stesso momento
le acque di Reira si ruppero con due mesi di anticipo.
“Ciao.”
Dissi con voce soffocata.
Lui mi scompigliò i capelli ed entrò.
“Dov’è Satsuki?”
Io chiusi la porta e gli indicai la carrozzina, lui camminò
incerto e scrutò
dentro il passeggino.
“Diventa sempre più bella, come te.”
Frugò nella borsa da viaggio ed estrasse un sacchetto che
mi porse.
“Lo vendevano alla festa del paese, ho pensato potesse
piacerti.”
Aprii il regalo e vidi che era uno scaccia pensieri tradizionale, fatto
con dei
cilindri e con in mezzo un kanji dello stesso materiale. Era il kanji
per Nana,
lo scossi leggermente e un tintinnio argentino ne scaturì,
come un richiamo per
qualcuno di molto speciale.
Mi vennero le lacrime agli occhi.
“Grazie, è veramente bello.”
“Sono sicuro che ci riporterà Nana, prima o
poi.”
Io annuì energicamente, ero rimasta senza parole. Per
fortuna arrivò Miu e
cominciammo a bere e chiacchierare di nuovo, Satsuki era la regina
della festa,
se la spupazzavano tutti, persino Misato che non sembrava amare molto i
bambini.
Alla fine arrivò l’ora dei fuochi
d’artificio e scendemmo
allegri lungo le sponde del fiume Tama, era arrivata un po’
di gente, ma non
troppa. Si godeva comunque di una magnifica vista e io amavo il rumore
dello
scorrere dell’acqua.
Reira allora stava arrivando in ospedale, in lacrime, le
mani strette in quelle di Takumi, pronta a dare alla luce il suo primo
e
indesiderato figlio.
Il primo fuoco esplose nel cielo, un lampo di luce dalla
forma floreale che brillò per un attimo e poi
sparì, ingoiato dal buio della
notte.
Satsuki si mise a piangere, Yasu la prese in braccio,
lasciandomi accanto a Nobu.
Potevo sentire il suo calore, il
suo dolore, desiderai fare qualcosa per
lenirlo, ma avrei solo peggiorato la situazione. Volevo prenderlo per
mano o
accarezzarlo, ma sapevo che gli avrei fatto solo del male.
Intanto Reira stava partorendo, non era un parto facile
visto che la madre era troppo magra e debilitata, erano momenti
critici. Il
bambino stava bene, non si poteva dire lo stesso della madre, per un
attimo i
medici temettero di averla perso, ma lei stupì tutti
salvandosi.
Non volle vedere il bambino, tutti ne furono stupiti
tranne Takumi.
L’unica cosa che disse era che desiderava si chiamasse
Ren Ichinose, nessuno obbiettò a quella scelta,
né durante né dopo, tutti amavamo
Ren Honjo.
I fuochi continuavano a esplodere in cielo, colorando il
fiume di riflessi dorati e colorati, lasciandomi a bocca aperta.
All’improvviso sentii la mano di Nobu stringere la mia,
la strinsi a mia volta e poi lo guardai sorpresa.
“Non te ne pentirai dopo?”
“Sai, penso di essere scientificamente incapace di mollare
quando si tratta di
te. Non importa quanto male mi hai fatto, mi fai e mi farai, io alla
fine torno
sempre da te.”
Disse con espressione seria, io sentii gli occhi bruciare di lacrime.
“Va bene.”
La voce mi uscì spezzata.
Rimanemmo così, mano nella mano a guardare i fuochi
d’artificio, Yasu ci guardò per un attimo, ma non
disse nulla. Forse
disapprovava o forse no, le sue emozioni continuavano a rimanere un
mistero per
tutti.
E mentre i fuochi inondavano il cielo di luce un nuovo
vagito si faceva sentire nel mondo e io non lo sapevo, beatamente
incosciente.
La mano di Nobu era calda, mi trasmetteva sicurezza e un
senso di benessere, era come se nulla di male potesse accadermi quando
ero con
lui.
Credo sia stato questo misterioso potere a impedirmi di
sentire il cellulare che suonava quella sera, Takumi mi cercava, io
però non
ero disponibile. Per una sera ero di qualcun altro, ero al mio vero
posto e
forse persino gli dei si impietosirono e non mi mandarono interferenze.
Avevo bisogno di ricaricare le batterie e quella fu una
sera benedetta.
Ogni volta che ci ripensavo sorridevo per essere rimasta
fuori dai drammi di Reira e di mio marito, ma capii anche una cosa
molto
dolorosa.
La mia felicità era fatta di momenti che non duravano, i
grani di una collana che si protendeva nel futuro e che io continuavo a
seguire
sperando che mi portasse al mio posto.
Mi avrebbe ricondotta da Nana, da Nobu e dai Blast, mi
avrebbe pazientemente fatto capire come crescere i miei figli al meglio
e
quando lasciare Takumi.
A mio modo lo amavo, ma non sentivo il per sempre che lui
si aspettava da me.
Un altro fuoco esplose nel cielo, di che colore sarebbe
stata questa gemma?
Cosa avrebbe significato?
Non lo sapevo, sapevo solo che Nana mi mancava e che non
era morta.
Sarei stata riportata da lei dalle vie misteriose del
destino.
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Capitolo 13 *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo tredicesimo.
Sai, Hachi… Avevo
sempre desiderato andare a Londra.
Era dove mi immaginavo
fosse nato il punk, dove i Sex
Pistols
avevano calcato i
palcoscenici ancora prima che nascessi.
Per una ragazza di un
piccolo paese come me era la terra
dei
sogni. Quando vi arrivai
era solo un posto come un altro
per scappare
da voi e da Ren. Un
luogo nuovo e, per certi versi,
ostile, ma in cui
avrei potuto
ricominciare da capo.
Erano passati tre mesi da quando
Miyako mi aveva offerto
asilo a casa sua, avevo cercato di aiutarla il più possibile
con la gravidanza,
ma non ci riuscivo.
Non potevo uscire perché o i paparazzi o i miei amici mi
avrebbero riconosciuta e trovata e non volevo che accadesse. Per tutti
ero
diventata un mistero e mi andava bene così, ma i misteri
ambulanti non sono
granché utili.
Settembre era arrivato, il caldo aveva allentato la sua
morsa su Tokyo e iniziato a colorare timidamente le foglie degli alberi
di
arancione e di giallo.
Le cose non potevano andare avanti così, stavo diventando
un peso più che un aiuto per mia cugina, era arrivato di
levare di nuovo le
tende. Si era alzato il vento e io non ero altro che un uccello
migratore senza
fissa dimora.
La mia casa non era a Mori né a Tokyo e nemmeno a
Okayama.
La mia casa erano delle persone che, per un motivo o per
un altro, mi avevano rifiutata e messa in secondo piano nelle loro
scelte di
vita.
Era arrivato il momento di andarsene, ma mi sentivo in
colpa nei confronti di Miyako che mi aveva accolta senza chiedermi
nulla in
cambio.
Finalmente una sera di metà mese riuscii a trovare il
coraggio necessario per parlarle, lei stava bevendo il thé
sul divano, la
pancia si era gonfiata a dismisura.
“Miyako, ti ringrazio per avermi accolta, ma… Non
credo
che io ti possa aiutare quanto ti serve, non posso nemmeno uscire da
casa.
Io credo di essere diventata un peso per te, quindi…
Quindi io vorrei andarmene.”
Dissi ad alta voce e occhi chiusi, quando li riaprii lei mi stava
sorridendo.
“Finalmente ti sei decisa a parlarmene, mi chiedevo
quando l’avresti fatto.”
“Non sei arrabbiata?”
“No, so che è la soluzione migliore e poi tu non
sembri amare la maternità.”
Io arrossii fino alla punta dei capelli, incapace di replicare, visto
che aveva
toccato uno dei miei punti deboli.
“Dove vorresti andare?”
Mi chiese.
“Io vorrei andare a Londra.”
“Ok, ti farò avere i documenti necessari al
più presto. Soldi ne hai?”
“Sì, ho ritirato quello che avevo sul mio conto in
banca e poi una volta là
posso lavorare.
So fare un po’ di tutto.”
“Sei sicura di voler abbandonare del tutto i tuoi
amici?”
“Io sono solo un peso per tutti.”
Mormorai a bassa voce, guardando il pavimento con aria vacua.
“No, sei amata. Li ho visti i tuoi amici sbattersi per
cercarti, loro ti vogliono bene.”
“Ma alla fine vengo sempre lasciata indietro, sono la seconda
scelta. È meglio
che io me ne vada e poi qui, in Giappone, ho troppi ricordi di
Ren.”
Ren era uno dei tanti che mi aveva messo in secondo piano
e poi lasciata indietro e ora voleva che io lo seguissi. Un giorno
l’avrei
certo fatto, ma per ora volevo vivere ancora per un po’ e
dovevo farlo lontano
da tutto quello che conoscevo.
“Capisco.”
Miyako non disse nulla e gliene fui profondamente grata,
l’argomento era troppo vasto e delicato per poter essere
affrontato come una
conversazione leggera.
“D’accordo, Nana. Ti aiuterò, anche se
penso che non
dovresti farlo.”
“Ti ringrazio, la fuga è nel DNA di questa
famiglia,
vero?”
Lei accennò un sorriso.
“Sì, a quanto pare.”
"Già."
“Beh, io vado a prepararti i documenti.”
Mi lasciò da sola, il sole stava tramontando ed entrava a
lame dalla finestra.
Il pulviscolo ballava pigro ricordandomi le galassie
lontane che si muovevano da qualche parte nello spazio, loro sapevano
quale era
il loro posto, io no.
Pensai a miei amici, avevo raccolto qualche informazione
su di loro in questi mesi.
Hachi aveva partorito una bambina, l’aveva chiamata
Satsuki come voleva Ren, anche Reira aveva partorito, un bambino di
nome Ren.
Supponevo fosse di Takumi dato che l’aveva riconosciuto come
Ren Ichinose, ma
una volta l’avevo visto da lontano e somigliava molto a Shin.
Alla fine era Reira la burattinaia della situazione, la
principessa del canto teneva tutti in pugno, l’aveva sempre
fatto e l’avrebbe
sempre fatto.
La manipolazione era come una seconda pelle per lei.
Shin non ne sapeva nulla, ma immaginai che Hachi
soffrisse profondamente nel crescere quel bambino che non era suo.
Yasu era tornato a lavorare nello studio che aveva
lasciato per inseguire sogni di gloria, era ancora fidanzato con Miu e
mi
sembrava felice.
Shin invece aveva intrapreso una carriera di modello e
attore, compravo le riviste dove appariva e i film in cui aveva dei
ruoli, per
quanto marginali fossero. Ero felice che non fosse tornato a
prostituirsi,
dietro doveva esserci lo zampino di Misato Tsuzuki o di Yasu o di tutti
e due,
ma Misato era la possibilità più probabile.
Nobu era tornato al paese a dirigere la pensione dei
suoi, era l’unico per cui provassi un sincero dispiacere, gli
avevo rovinato la
vita.
Ero una bestia.
Ogni tanto vedevo anche la mia sorellina in giro per
Tokyo, cambiava colore dei capelli molto frequentemente e, a quanto
avevo capito
frequentava una specie di scuola professionale per entrare nel mondo
dello
spettacolo.
C’erano delle volte in cui, ricordandomi della sua
lettera, volevo fermarla e bere un caffè con lei per sapere
che tipa fosse, che
effetto avesse fatto ricevere l’affetto di mia madre, ma non
lo feci mai.
Avevo troppa paura delle risposte.
In ogni caso era inutile costruire dei legami se stavo
per andarmene, avrebbe reso le cose più difficili e sapevo
che lei l’avrebbe
detto agli altri. In breve tempo mi avrebbero raggiunta e avvolta nel
loro
affetto come avevano sempre fatto, una parte di me lo desiderava,
l’altra
invece sapeva benissimo che avrei continuato solamente a distruggere le
loro
vite. Si meritavano di meglio che un disastro ambulante come me.
Durante le due settimane seguenti firmai un sacco di
carte e trascorsi molto tempo navigando su internet, cercavo un
appartamento o
almeno un bed and breakfast in cui stabilirmi per i primi tempi. Non
trovai
appartamenti, solo un b&b a prezzi economici, era meglio di
niente.
Partii da Tokyo il primo ottobre, era una giornata serena
con un vento frizzante che invitava a buttarsi in nuove avventure.
Miyako non
mi accompagnò, ci salutammo a casa, poi io mi diressi in
aeroporto in treno.
Non avevo molti bagagli, ma ero abituata a viaggiare
leggera.
Il mio volo partiva alle quattro del mattino, alle due
ero già in aeroporto, che era semideserto per mia fortuna.
Non volevo essere
riconosciuta né fermata, volevo solo andare via.
Era passato più di un anno da quando ero arrivata a
Tokyo, allora volevo dimostrare di poter essere indipendente e farcela
senza
l’aiuto di nessuno, soprattutto di Ren, oggi invece volevo
solo scappare.
Ero come prosciugata, i miei sogni si erano sgretolati,
sbriciolati, stracciati dalla vita e buttati nel vento del cieco caso.
Non
avevo più nulla, nemmeno la mia voce, perché
ormai di vivere cantando me ne
importava poco. L’unica
cosa che volevo
era smettere di pesare sui miei amici e di rovinare loro la vita,
continuavo a
ripensarci come un mantra.
Se Hachi non mi avesse incontrata Takumi non sarebbe mai
entrato nella sua vita, lei non sarebbe mai rimasta incinta e a
quest’ora si
starebbe godendo la vita come una ragazza qualsiasi.
Lavorando, stando con gli amici, inseguendo l’amore fino
a trovare quello giusto che per qualche ragione pensavo che per lei
fosse Nobu.
Nobu probabilmente a quest’ora sarebbe a Tokyo a
inseguire il suo sogno, in un’inconsapevole attesa di
incontrare Hachi, invece
di tornare sconfitto a lavorare per la pensione Terashima.
Yasu sarebbe un avvocato, uno di quelli bravi, l’unica
incognita era Shin.
Cosa ne sarebbe stato di lui senza i Blast?
Forse l’unica cosa buona che avevo fatto era stata quella
di salvarlo dalla sua vita ai margini della legalità, ma era
successo per caso.
Da me non veniva mai nulla di buono.
Arrivai a Londra dopo un volo che
mi parve lunghissimo.
Fuori pioveva ed era buio, faceva anche più freddo che in
Giappone, così mi strinsi nella mia giacca di palle mentre
scendevo dall’aereo.
Mi lasciai guidare dal flusso dei passeggeri, ritirai i
bagagli e poi compilai le scartoffie burocratiche necessarie, alla fine
mi
ritrovai dall’aeroporto sola e sperduta.
Come la maggioranza dei giapponesi avevo una conoscenza
superficiale dell’inglese, a volte inserivo frasi in quella
lingua nelle mie
canzoni, ma solo perché era figo. Lo facevano tutti,
storpiando la pronuncia
corretta, così lo facevo anche io.
Ora ero sola in un paese dove l’inglese era l’unica
lingua parlata, dove il giapponese era inutile, tremai leggermente per
il freddo
e lo stress. Respirai profondamente e mossi qualche passo, non potevo
rimanere
paralizzata per sempre. Mi diressi verso un taxi e dopo un bel
po’ di dialogo
smozzicato e fatto di gesti riuscii a fargli capire dove volessi andare.
Salii in macchina dopo aver buttato le mie valigie nel
bagagliaio, poi partimmo.
Londra mi scivolava addosso come pioggia mentre
percorrevamo le strade che mi avrebbero portato al bed and breakfast.
Mi
sentivo anestetizzata e non gioivo come avrei dovuto per aver visto il
Tamigi,
il Big Ben, il London Bridge, la grande ruota panoramica.
Da dove veniva questo freddo interiore?
Ero stata io a troncare i rapporti con i miei amici,
quindi perché mi sentivo così?
Strinsi i pugni, non potevo vacillare.
Un giorno forse sarei tornata, ma prima dovevo capire se
riuscivo a stare in piedi da sola, senza appoggiarmi psicologicamente a
nessuno. Sapevo che me la sarei cavata con il lavoro, lo facevo da
quando avevo
sedici anni, era il resto che non funzionava: dovevo sempre puntellarmi
a
qualcuno fino a soffocarlo per riuscire a vivere.
Questo era egoista e malsano.
Guardavo il mio riflesso nel finestrino, una ragazza
giapponese con dei capelli neri di media lunghezza mi restituiva lo
sguardo.
Non mi truccavo più, i vestiti più vistosi,
quelli più in stile punk non li
indossavo quasi mai. Se prima volevo spiccare tra la folla, ora volevo
sparire,
le uniche cose da cui non mi sarei mai separata erano
l’anello di fidanzamento,
il chiodo di pelle e gli anfibi.
Erano i miei legami con Ren.
Ci fermammo in una casetta in periferia, io scaricai le
mie valige e pagai l’uomo, mentre la macchina si allontanava
suonai il
campanello.
Poco dopo si affacciò una donna di mezza età
benvestita,
ma non con capi di alta moda, cercava solo di darsi un tono allo stesso
modo in
cui io fumavo una sigaretta dopo l’altra.
“Sono Nana Osaki, è questo il bed and breakfast
delle
rose?”
Dissi piano, il mio inglese sembrava ancora più scolastico e
stentato.
“Sì, è questo. Venga pure, le apro il
cancello.”
Infilò la mano oltre lo stipite e il cancello elettrico
scattò, io entrai trascinandomi dietro le due valige.
La donna mi guidò fino in salotto, poi si sedette a un
tavolo ingombrante di legno scuro e aprì un libro polveroso,
poi mi fissò. Due
glaciali occhi azzurri mi perforarono.
“Sono Rose York gestisco questo bed and breakfast. Piacere
di conoscerla, signorina…”
“Osaki, Nana Osaki.”
“Potrebbe darmi la sua carta di
identità?”
Annuii e la tirai fuori dal portafoglio.
“Quando conta di fermarsi, signorina Osaki?”
“Non lo so. Il tempo di cercarmi un appartamento, conosce
qualcuno che affitta o un’agenzia?”
“Capisco. Segnerò due settimane allora.”
Io non dissi nulla.
“Per rispondere alla sua domanda: sì, conosco
qualcuno.
Le consiglio però di farsi una doccia, uscire a mangiare
qualcosa e poi dormire, mi sembra stanca.”
“Credo che la sua sia una buona idea.”
“L’accompagno in camera.”
La donna si alzò dalla sedia salimmo al piano superiore,
c’erano diverse porte, la casa mi era sembrata spaziosa
dall’esterno, ma non mi
aspettavo che lo fosse così tanto.
Aprì la seconda porta a sinistra, io mi ritrovai in una
camera con un letto a due piazze, una scrivania, un armadio e un
piccolo bagno.
C’era anche una finestra a bovindo, era tutto piuttosto
spartano, quando dal
salotto mi sarei aspettata un trionfo di pizzo e uncinetto.
“L’ho rimodernata, ai giovani non piacciono le
vecchie
case piene di decorazioni.”
Sembrava avermi letto nel pensiero, era inquietante.
“È bella.”
“Per voi giapponesi è diverso, vero? Ci
sarà sempre qualcuno che vorrà abitare
in una casa in stile tradizionale.”
Ripensai alla pensione Terashima, era esattamente il tipo di casa che
un
occidentale si aspettava di trovare in Giappone.
“Sì. Ci sono ancora parecchi hotel tradizionali, i
genitori di un mio amico ne hanno uno.”
“Come sospettavo. Qui la gente non vuole altro che demolire
il vecchio per far
posto al nuovo, non mi stupirei se un giorno abbattessero il Big Ben.
Buon soggiorno a Londra, signorina Osaki.”
La donna mi lasciò da sola, io sistemai il mio bagaglio: mi
ero portata davvero
poche cose, come sempre.
Reperii il necessario per fare una doccia e controllai il
bagno, era piccolo, ma perfettamente pulito e c’era la
doccia. D’improvviso
provai un’irrazionale nostalgia per le vasche da bagno:
quella che avevo diviso
con Ren e quella dell’appartamento 707 in cui io e Hachi ci
scambiavamo segreti
e confidenze.
Sospirai, non potevo permettere di farmi attaccare dal
passato così presto, dovevo almeno provare a resistere.
Ruotai la manopola della doccia sull’acqua calda e
aspettai qualche minuto prima di entrare, era piacevole sentire
l’acqua
bollente sulla pelle. Mi scaldava dentro, mi faceva sentire meno sola,
avevo
letto da qualche parte che le persone che si sentivano sole o in
carenza
d’affetto facevano lunghe docce calde per compensare
l’affetto con il calore
corporeo. Forse era lo stesso anche per me.
Uscii dalla doccia, mi asciugai per bene, anche i
capelli.
Indossai un paio di jeans stracciati, una maglia e un
maglione a righe nere e rosse, sotto avevo le calze pesanti. Mi misi i
soliti
anfibi, la giacca di palle e una sciarpa di lana con scritto
“Ren”, l’avevo
trovata nelle cose che avevo lasciato nell’appartamento 707.
In origine era
stata un dono per lui, ma in una notte di neve e di freddo lui
l’aveva data a
me per scaldarmi.
Presi anche la borsa e scesi al piano inferiore, la
padrona stava cucinando qualcosa, non capii che cosa.
“Signora, io esco per mangiare qualcosa.”
“Ottimo, cara. Là c’è una
piantina della metropolitana,
ho cerchiato dove siamo noi.
Cerca di tornare per mezzanotte, per favore.”
“Sì.”
Presi in mano la mappa e la studiai, Londra era immensa.
Cercai il cerchio e lo trovai, la fermata non era troppo
lontana e sarei potuta arrivare in una zona più vicina al
centro. Sarebbe stato
stupido sprecare soldi nei bar costosi quando potevo avere un servizio
decente
a un prezzo più basso.
Mi fermai a un MacDonald, ordinai il mio menù preferito e
aspettai, mi venne subito in mente il Jackson Burger, ma scacciai quel
pensiero.
Presi il menù e lo mangiai piuttosto meccanicamente, non
sentivo il sapore, bastava solo che mi riempisse lo stomaco e mi
tenesse in
piedi.
Finii tutto e mi ributtai nella notte animata, c’era in
giro tantissima gente esattamente come a Tokyo e per un attimo mi
sentii a casa.
Per un attimo pensai che Hachi mi aspettava nell’appartamento
707 con i
ragazzi.
Poi realizzai che ero a Londra e mi si strinse il cuore,
faceva un male cane.
Scesi di nuovo in metropolitana e presi la linea che portava nel cuore
della
città, volevo visitare o almeno guardare i monumenti
più famosi. Invece mi
ritrovai a passeggiare lungo il Tamigi come avrei fatto lungo il fiume
Tama a
Tokyo, stavo ancora cercando l’appartamento 707. La fantasia
stava di nuovo
prevalendo sulla realtà, dovevo arginarla.
Domani avrei cercato un appartamento e un lavoro, così
sarei riuscita a concentrarmi come avevo bisogno.
Girovagai fino alle undici, guardai il London Bridge, il
Big Ben e il Millenium Eye da lontano, sarei venuta una mattina o un
pomeriggio
per osservarli meglio.
La metro mi inghiottì di nuovo, ci avevo messo
un’ora ad
arrivare qui e ce ne misi un’altra a tornare a casa, arrivai
a mezzanotte
precisa.
La padrona di casa era in salotto a vedere la tv, mi
guardò quando entrai.
“Buonasera, signorina Osaki o signora?”
Occhieggiò al mio diamante.
“Signorina. Lui è morto prima che ci potessimo
sposare.”
Dissi piano, la donna annuì comprensiva.
“Mi dispiace per la sua perdita, le è piaciuta
Londra?”
“Molto. Mi ha ricordato Tokyo a volte.”
“Lei è di Tokyo?”
“Ho vissuto a Tokyo per un anno e mezzo prima divenire qui,
ma sono originaria
di un piccolo paese sul mare dove nevica molto.”
“Capisco. Il clima le pare freddo?”
“Un po’. Più freddo di Tokyo e quasi
più freddo del mio paese natale.”
“Si abituerà presto.”
“Credo di sì.”
Mormorai, non c’era scelta per me: adattarsi o morire.
E io non volevo morire, non ancora.
Il fantasma di Ren nell’angolo della stanza scosse la
testa, mi raggiungeva in ogni luogo – forse perché
viveva nella mia testa – e
mi ricordava implacabile la promessa.
Morire insieme.
Se uno muore anche l’altro lo segue.
Promesse, promesse.
Il matrimonio, i “ti amo”, la band, insieme per
sempre.
Promesse, promesse.
Che si erano infrante tutte.
Sentii freddo dentro come il giorno in cui Ren partì per Tokyo senza di me,
lasciandomi a piangere
alla banchina della stazione, mentre lui piangeva sul sedile o almeno
così
diceva Nobu.
Perché non mi aveva portata con sé?
Perché non me lo
aveva nemmeno chiesto?
Cosa ne era stato della promessa di invecchiare insieme
nel nostro appartamento? Cosa ne era stato di noi?
Erano tutte domande a cui ora lui non poteva più
rispondere, erano tutte domande che non gli avevo fatto in vita per via
del mio
orgoglio.
“Ho sonno, vado a dormire.
Buonanotte.”
“Buonanotte anche a lei.”
Salii in camera mia con il passo pesante, nemmeno stessi trascinando
con me il
peso del mondo.
Forse trascinavo solo il mondo che c’era nella mia testa,
quello felice in cui vivevo in una grande casa con Hachi, Ren e Nobu,
in cui la
band era famosa e sentivo di aver dimostrato a tutti di valere qualcosa.
La casa sul mare con la veranda costruita da me, il
giardino per Hachi e i suoi figli.
Illusioni.
Ero a un passo dal ricadere in un attacco di panico,
dovevo pensare a qualcos’altro e in fretta.
Ero a Londra e io avevo sempre desiderato andarci,
invidiavo Ren quando partiva con i traditori.
Avevo visto dei monumenti molto belli, sembrava che qui
ci tenessero al passato.
Domani avrei cercato un lavoro, con il lavoro avrei avuto
dei soldi e con i soldi mi sarei potuta trasferire in un appartamento
mio.
Sarebbe stato un posto modesto, ma sarebbe stata la mia tana e non
avrei preso
coinquilini, arrivare a pagare l’affitto alla fine di ogni
mese sarebbe stata
una sfida visto che Londra non era certo una città in cui le
cose costassero
poco.
Le sfide mi piacevano ancora, anche se quella che mi
preparavo ad affrontare era modesta e non avrei più cantato.
L’avrei fatto solo se fosse stato strettamente
necessario, dalla mia voce erano nati solo guai.
Mi stesi a letto sopra le coperte e fissai il soffitto,
le ombre si rincorrevano, creavano strane forme e poi le distruggevano.
Sembrava quasi estate, sembrava quasi la mia camera da adolescente.
Se avessi potuto tornare indietro avrei detto alla me
stessa del passato di non essere così dura con Ren, di
chiedergli se poteva
accompagnarlo a Tokyo. Perché l’orgoglio mi aveva
fatto solo soffrire e perdere
momenti preziosi che avrei potuto trascorrere con lui, il ticchettio
dell’orologio della morte era dietro l’angolo, non
valeva la pena di fare la
stronza.
La questione figli era ancora tabù, ma c’era un
pensiero
sotterraneo che mi perseguitava: se fossi rimasta incinta avrei avuto
almeno un
frammento dell’uomo che amavo accanto a me.
Un esserino con i suoi occhi o il colore dei capelli,
magari con un carattere o qualche tic come lui, magari persino il tono
di voce.
Io però ero stata testarda fino alla fine a avevo sempre
preso la pillola e poi che madre sarei stata?
Un disastro come la mia, non riuscivo a immaginarmi con un
neonato tra le braccia, a volere bene a una creatura così
fragile, a sentirla
mia.
Il mio amore era tossico.
Mi infilai sotto le coperte.
Dovevo pensare al lavoro, avevo visto qualche bar nei
dintorni, un supermercato e un Mac Donald, tutti posti in cui avrei
potuto
chiedere. L’esperienza non mi mancava, in Giappone mi ero
data da fare, me la
sapevo cavare, ero forte.
Provai a chiudere gli occhi e a rilassare il mio corpo:
era un fottuto fascio di nervi che non voleva saperne di calmarsi.
Respirai a fondo, piano, una volta dopo l’altra.
Il sonno arrivò a ondate lunghe e lente, come la marea e
io mi lasciavo trascinare via, vinta dalla stanchezza della giornata.
C’erano stati così tanti cambiamenti…
Era l’inizio di una nuova vita, io non mi sentivo totalmente
pronta, ma non avevo scelta, visto che ero io ad averlo deciso. Non
potevo
tornare indietro, solo andare avanti.
Un’ultima ondata mi fece precipitare nel sonno, mi
sembrava di galleggiare senza peso, attorno a me fluttuavano diverse
cose:
l’urna con le ceneri di Ren, la mia chitarra, le chiavi
dell’appartamento 707.
Le afferrai e subito sentii il dolore, c’era Hachi che
piangeva seduta al tavolo che avevo costruito, la pancia ancora enorme
per via
della gravidanza, avrei voluto accarezzarla.
Poi l’immagine cambiò: Nobu in chimono alla
reception
della pensione Terashima che accoglieva una coppia con aria triste ed
elencava
i pregi dell’albergo e i luoghi da visitare.
Mi scese una lacrima.
Poi apparve Yasu, era seduto a una scrivania di un
ufficio, era molto ordinata e metodicamente organizzata,
l’unico elemento che
stonava era una foto dei Blast che Hachi aveva scattato uno dei primi
giorni di
prove.
La toccai con un dito seguendo i contorni dei profili dei
miei amici, Shin aveva ancora i capelli castani ed era senza piercing.
Ora vedevo Shin, dormire in un letto da solo,
rannicchiato su sé stesso, i capelli erano ancora azzurri,
ma il piercing era
scomparso.
In un angolo c’erano il basso e una chitarra classica, ma
avevano l’aria di non essere stati toccati da mesi, mi
sembrava che piangesse,
di sicuro stava soffrendo.
Misato Tsuzuki gli accarezzava le spalle, ma lui la
cacciò.
In ultimo vidi mia sorella aspettare la metro avvolta in
una giacca di pelle, gli occhi distanti e i capelli colorati.
Chiesi scusa a tutti e diedi loro addio.
Sperai che un giorno potessero perdonarmi.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo
quattordicesimo
Il tempo a Tokyo sembrò
accelerare all’improvviso, la
primavera
lasciò il passo all’estate e alle sue feste. In un
attimo
arrivò l’obon
e tornai dalla mia famiglia. Erano ancora come li
ricordavo, ma allo
stesso tempo diversi. Mamma mi sembrava davvero serena,
papà era invecchiato e
Takahiro era bello come sempre al fianco della sua arpia.
Il mio cuore però non aumentò i battiti, nessun
pensiero
strano mi
attraversò il cervello, era tornato a essere solo mio
fratello.
Ero guarita dalla malattia e pronta ad amare.
-Misato Uehara.
Era una giornata di
metà ottobre, le foglie cadevano
piano dagli alberi spinte dal vento, era l’ora di giapponese,
l’ultima prima
del pranzo e io avrei dovuto seguirla. In realtà pensavo ai
mutamenti della
vita, quasi un anno prima ero una ragazzina disperata che credeva di
amare il
suo fratellastro, ora ero una giovane donna praticamente indipendente.
Cambiare mi aveva fatto bene, ero diventata più forte,
quando avevo rivisto Takahiro in occasione dell’obon tutto
quel turbinare di
pensieri disturbanti e folli non si era presentato. Era tornato il
fratellone
con cui giocavo da bambina, un punto di riferimento importante, ma non
ero più
attratta da lui, ora sapevo che c’era qualcuno là
fuori per me. Qualcuno che mi
avrebbe reso felice e mi ero sentita come liberata, avevo capito che
era da
mesi che respiravo normalmente e non oppressa dal peso della colpa e
della
vergogna.
Mi ero sentita orgogliosa di me stessa, era come aver
fatto il primo passo sulla lunga strada che porta alla
maturità.
Pensavo anche a Nana, mi chiedevo dove fosse, nessuno
l’aveva ancora trovata o Shion me l’avrebbe detto e
mi sentivo un vuoto dentro.
Volevo conoscere quella sorella che non sapevo di avere e che avevo
idolatrato
solo sui miei poster. Volevo scoprire la ragione di quel suo sorriso
triste e
del perché non si era sposata con Ren, alla fine.
Si amavano, possibile che questo non fosse bastato?
Perché gli adulti erano così complicati?
Forse ero ancora troppo giovane, mi dissi, ma ero anche
contente di me.
Dopo la scuola lavoravo in un supermercato dalle due alle
sei e poi in un videonoleggio fino alle undici di sera, il resto del
mio tempo
era dedicato a studiare, ai compiti e alle faccende domestiche.
Il sabato mattina ero impegnata in una scuola per
parrucchiere, ero la cavia su ci si esercitavano le aspiranti, mi
tingevano i
capelli. I primi tempi si erano limitate ai canonici biondo, castano,
rosso e
nero; poi avevano scoperto che la mia scuola non era severa sul look
delle sue
alunne, Si erano sbizzarrite in un tripudio di verdi, azzurri, viola,
fucsia,
rosa, colori pastello e chi più ne ha più ne
metta.
Ogni due settimane mi ritrovavo a cambiare il colore dei
capelli, ma mi andava bene così: sembravo figa ed era gratis.
Finalmente suonò la campanella e l’insegnante se
ne andò,
copiai velocemente i compiti dalla lavagna e scesi in giardino a
mangiare il
mio bento.
Ero emozionata.
Da oggi fino alle vacanze di Natale ci sarebbe stato uno
stage pagato al pomeriggio, niente più supermercato per un
po’. Era alla Shikai Corporation e mi sembrava interessante
lavorare presso la stesso posto in cui
lo aveva fatto Nana. Era come ripercorrere per un po’le sue
tracce. Quello era
un pensiero stupido, ma non me ne vennero di migliori.
Finii il bento, mi godetti per un attimo i tiepidi raggi
del sole, il vento frizzantino e il cielo limpido, poi mi accesi una
sigaretta.
Quello stage era un banco di prova molto importante per il mio futuro,
se fossi
riuscita a superarlo avrei saputo con certezza che avevo scelto la
strada
giusta, se avessi fallito…
Non volevo nemmeno pensarci, dovevo impegnarmi al massimo
per far sì che andasse bene, senza tentennare
o avere paura. Dovevo solo buttarmi.
Cosa aveva fatto mia sorella?
Aveva preso un treno, mollato la cittadina di provincia
in cui viveva e se ne era andata a Tokyo senza nessuna garanzia, io
dovevo
dimostrare lo stesso coraggio.
Finii anche la sigaretta e rientrai nell’istituto,
c’era
ancora tempo, così bighellonai qua e là, mi fumai
un’altra sigaretta e andai in
bagno.
Al mio rientro in classe mi sedetti al mio banco e
tamburellai con le dita sulla superficie, in attesa. Dopo non so quanto
la
porta si aprì ed entrò la coordinatrice della
nostra classe insieme a un uomo
in doppio petto, scattammo tutti in piedi.
“Seduti, ragazzi.”
Disse compiaciuta la prof.
“Lui è Sugimura-san della Shikai Corporation e si
occuperà di trovare a ognuno di noi un incarico, cercate di
svolgerlo al
meglio.
Signor Sugimura, vuole aggiungere qualcosa?”
“Sì, mi sembrate una classe di persone
intelligenti,
cercate di dimostrarlo.”
Annuimmo tutti e poi ci trasferimmo al posto di lavoro,
Sugimura ci chiamò uno ad uno, io rimasi per ultima, quando
toccò a me vidi che
accanto a lui c’era una ragazza poco più grande di
me con dei boccoli biondi che
spalancò leggermente gli occhi. Che mi conoscesse o era solo
la mia somiglianza
con Nana?
“Sei Uehara Misato?”
“Sì, signore.”
“Bene, ti affido alla signorina Tsuzuki, lei si occupa della
carriera di Shin
Okazaki.”
“Grazie, signore. Farò del mio meglio,
signore.”
Mi inchinai.
“Non essere così formale. Andate,
adesso.”
“Sì.”
Uscimmo dalla stanza, Tsukuzi-san continuava a guardarmi.
“Tu sei la sorella di Nana, vero?”
“Sì, sono io.”
“Credo di doverti delle scuse.”
“Scuse?”
Non capivo.
“Sin dal primo giorno in cui ho incontrato i Blast ho
usato il tuo nome invece del mio, perché ti invidiavo per
avere un legame di
sangue con Nana, volevo essere te. Anche se forse lo sono
già, forse mio padre
è lo stesso di Nana, non di meno ho sempre usato lo
pseudonimo di Misato
Uehara.”
Ora la guardavo sorpresa, quella ragazza aveva portato la
sua ossessione per Nana a un livello superiore al mio.
“La verità è che ho sempre voluto
contare qualcosa per
Nana, esserle amica, proteggerla. Credo di aver avuto una bella cotta
per lei.”
Rise imbarazzata.
“E poi ti chiedo scusa per aver tentato di impedirti di
incontrare Nana, al meet and greet dell’anno scorso ho
mandato Miu a non farvi
incontrare. Lei non c’è riuscita, però.
Pensavo che Nana avrebbe sofferto vedendoti, scusami
ancora.
È evidente che io allora non avessi capito nulla e che i
miei tentativi erano tutti dettati dall’egoismo.
So che hai scritto una lettera a Nana, è l’unica
che si è
portata via prima di sparire, forse contava qualcosa.”
Io rimasi in silenzio per qualche minuto.
“È per Nana che lo fai? Intendo occuparti della
carriera
di Shin, mi pare che tu sia venuta a lavorare qui per lo stesso
motivo.”
“Sì, la scuola non mi interessava e sono venuta a
lavorare qui per aiutare
Nana, non saprei dirti se mi occupo di Shin per lo stesso motivo. Forse
mi sono
affezionata sul serio alla band, io e te siamo simili.”
“Sì, anche io ho deciso di frequentare questa
scuola per
Nana.”
Lei mi sorrise.
“Potremmo essere amiche, io non ne ho mai avute della mia
età.”
“Potremmo, lavoreremmo anche meglio.”
“Giusto, posso chiederti una cosa?”
Io annuii.
“Qui mi chiamano tutti Misato, a te scoccia se uso il tuo
nome?”
“Non c’è problema. Continua pure a
usarlo, è solo un
nome.”
Tsuzuki-san sorrise di nuovo.
“Ho una sola domanda: qual è il tuo vero
nome?”
“Mai. Mai Tsuzuki.”
“Ok, Misato Tsuzuki.”
Si fermò davanti a una porta e mi presentò a un
sacco di persone, a quanto pare
era in corso un servizio fotografico. C’erano fotografi,
truccatrici,
tuttofare, gente che si occupava degli abiti e poi c’era Shin.
Aveva i capelli di un azzurro sbiadito e l’aria assente,
sembrava fosse diventato una specie di oggetto umano, non
c’era traccia della
vitalità che avevo visto nel meet and greet.
“Shin!”
Gridò Misato.
“C’è una persona che devo
presentarti.”
Lui ci guardò, un guizzo passò in quegli occhi
scuri.
“Ho l’impressione che ci siamo già
conosciuti.”
“Sì, è vero. Io sono Misato Uehara, la
sorella di Nana,
mi hai visto a un meet and greet a Osaka una vita fa.”
Lui spalancò gli occhi.
“È vero. Ti avevo notata perché le
somigliavi molto, cosa
ci fai qui con la nostra Misato?”
“Lei è qui per uno stage, Shin.”
“Ah, capisco. Benvenuta al manicomio, Misato.”
Io ridacchiai nervosa.
Era l’inizio di qualcosa di grande, ne ero sicura.
Dopo le presentazioni mi misi in
moto.
Letteralmente.
Schizzai non so quante volte alle macchinette per
prendere caffè, the e altre bevande per tutti, passavo capi,
correvo a fare
commissioni dell’ultimo minuto, aiutai persino a spostare le
luci del fotografo.
Alle sei non avevo più in grammo di energia e dovevo
lavorare al videonoleggio fino alle undici, salutai tutti sorridendo
comunque.
Misato mi rivolse un cenno di approvazione, a quanto pare avevo passato
l’esame
del capo.
Presi la metropolitana, sul vagone mangiai un bento già
preparato che avevo acquistato alle macchinette, mi si chiudevano gli
occhi.
Arrivata alla fermata presi del caffè forte a un
distributore automatico e aspettai che facesse effetto, arrivata al
negozio
avevo l’energia minima per sopravvivere alla serata.
Mi cambiai e salutai il collega a cui davo il cambio e
poi andai diligentemente dietro al bancone, misi via qualche dvd e
aspettai che
arrivasse qualcuno.
Nel complesso fu una serata calma, venne qualche coppia
alla ricerca di un filmetto romantico prepomiciata, qualche ragazzino
che
voleva film d’azione per dare una svolta a una serata morta e
un vecchio
cinefilo che mi fece perdere tempo alla ricerca di un dvd che scoprii
non era
nemmeno stato distribuito in Giappone.
Era la mia routine, dopo avrei studiato anche se sognavo
il mio letto con parecchia intensità, sarebbero stati due
mesi di fuoco.
Finalmente arrivò l’orario di chiusura, pulii
tutto
meticolosamente dopo aver messo via gli ultimi dvd fuori posto, misi
l’incasso
in cassaforte, inserii l’allarme, abbassai la serranda e
chiusi tutto a chiave.
Ok, era finita.
Suonai a un campanello vicino al locale, il proprietario
scese, prese le chiavi e mi augurò la buonanotte, io feci
altrettanto.
“Misato!”
Sentii qualcuno chiamarmi e mi voltai.
Shin era all’angolo della strada sorridente, illuminato
da un lampione, io sobbalzai, come mai era venuto da me?
Voleva lamentarsi di qualcosa?
“Ciao.”
Mormorai incerta.
“Ehi, come mai qui?
Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
La mia voce aveva una sfumatura ansiosa che quasi non
riconobbi come mia, ero stata male in passato, ma mai ansiosa.
“No, al contrario. Sei stata perfetta, fin troppo
perfetta.
Se continuerai così quelli ti sfrutteranno a
morte.”
“Non posso disonorare la mia scuola e poi io voglio lavorare
in quel campo e
devo dimostrare di avere volontà. Non mi importa se mi
sfrutteranno se porterà
a qualcosa.”
“Ok, come vuoi. Ho chiesto a Misato dove lavoravi per fare
due chiacchiere con
te, ti va?
“Sì, certo.”
Lui sorrise.
“Devi essere affamata, conosco un posto.”
Prendemmo la metro e lui mi portò a un bar
chiamato”Jackson Hole”.
“Fanno gli hamburger più buoni che io abbia mai
provato.”
“Non ho poi così fame.”
Un grugnito del mio stomaco smentì le mie parole, ero una
pessima bugiarda.
Pensai che una cosa del genere l’avrebbe disgustato, ma
rise.
“Nana era peggiore di te, entriamo, piccola Osaki.”
Lo seguii dentro al locale, lui scelse il tavolo più
appartato e ordinò bacon
burger per tutti e due, gli lanciai un’occhiataccia.
“Che c’è?”
“Non mi piace la gente che sceglie il cibo al mio
posto.”
“Scusa, non lo sapevo. È il piatto migliore
secondo me.”
“Ok, va bene.
Che ci fai qui con una perfetta sconosciuta?”
“Non sei una sconosciuta e, comunque, per conoscerla
meglio.”
Mi rivolse un sorriso aperto, sembrava un ragazzino innocente adesso.
Era camaleontico e pieno di maschere, mi attirava e mi
repelleva, solo il tempo avrebbe reso chiaro quale dei due istinti
avrebbe
prevalso.
“Beh, mi
hai visto al meet and greet…”
“Sì e ti avrò detto giusto
ciao.”
Risi.
“Sì, qualcosa del genere.”
“Mi hanno detto che hai scritto una lettera a Nana, che le
hai detto?”
“Di venire da me, che l’avrei accolta come una
sorella. Volevo conoscerla
meglio e aiutarla.”
“Lo sai che è venuta davvero
probabilmente?”
“Sì, Nobu-san è venuto al ristorante
dei miei. Ci ho
anche parlato. Nana ha cambiato idea all’ultimo minuto
perché da noi non si è
vista.”
“Capisco.”
“Ti manca?”
Lui rimase in silenzio qualche secondo.
“A volte sapeva essere così egoista e insensibile
che ti
faceva venire voglia di mandarla a fanculo, ma…
Sì, mi manca.
Dopotutto è grazie a lei se ho avuto una seconda
possibilità nella vita, gliene sarò grato per
sempre.”
“Capisco.”
La cameriera arrivò con le nostre ordinazioni e la
conversazione lasciò posto
al pasto, avevo una fame tremenda e lo divorai velocemente. Dovevo
ammettere
però che Shin aveva ragione, era squisito, uno dei migliori
hamburger che avevo
mangiato in vita mia.
Non era stata una brutta cosa fidarsi di lui alla fine.
Lui invece mangiava piano e mi chiesi perché, Takahiro
alla sua età mangiava come un bue, ingozzandosi di tutto
quello su cui riusciva
a mettere le mani. Diceva che era la crescita, aveva bisogno di energie
per
diventare grande.
“Non hai fame?”
Azzardai dopo un po’.
“Sì, ho fame. È una storia
complicata.”
“Uhm, okay.”
Era magrissimo, non poteva avere paura di ingrassare.
C’era un’ombra nel suo sguardo che lo rendeva
diverso dai
suoi coetanei, era la cosa che mi attraeva e mi repelleva allo stesso
tempo.
Era il suo mistero personale che lo rendeva interessante e immagino
facesse
cadere chiunque ai suoi piedi.
Anche quando era membro dei Blast si sapeva poco o niente
sul suo conto, qualcuno voleva che fosse ammantato da un alone di
indefinitezza.
Finito di mangiare cominciammo a chiacchierare di cose
poco importanti, spesso scoppiavamo a ridere senza una ragione precisa.
Era la
prima volta che ero così sulla stessa lunghezza
d’onda con qualcuno.
Lui mi raccontava aneddoti divertenti sulla loro breve
vita come band – non conosceva molto di quello che era
successo quando i Blast
erano ancora in quella piccola città sul mare – e
io quelli sulla mia vita a
Tokyo.
Gli raccontavo delle difficoltà, delle prime volte con
varie esperienze comuni per chi abita in città e dei miei
disastri nei lavori
domestici, pensavo di sapermela cavare, ma alla prova pratica non era
stato
proprio così.
Ridevamo come i ragazzini che eravamo, io avevo compiuto
sedici anni da tre mesi, lui avrebbe compiuto diciotto anni tra un mese
circa.
“Sono stata davvero bene con te.”
Lui mi guardò confuso per un secondo, poi il suo viso si
aprì in un sorriso di plastica, ammiccante da far schifo.
“Beh, pagando possiamo continuare questa serata e
renderla persino migliore.”
Sgranai gli occhi, arrossii e poi sentii una grande
rabbia montarmi dentro.
Con gesti secchi estrassi dal portafoglio i soldi della
consumazione e li sbattei sul tavolo.
“Ma per chi mi hai preso?
Va al diavolo, Okazaki.”
Uscii dal locale impettita, ma piegata nel mio animo.
Pensavo di aver trovato qualcuno con cui iniziare almeno
un’amicizia, invece avevo solo trovato uno che per soldi si
sarebbe fatto
portare a letto da me. Sì, da me che ero vergine e sognavo
una prima volta
speciale con il ragazzo giusto.
Che razza di ingenua ero!
Lo sentii chiamare il mio nome, ma lo ignorai e mi
diressi verso la fermata della metro più vicina, sentendomi
una vera stupida.
Erano circolate delle voci su Shin – che si prostituisse
– tra i fan, io non vi
avevo creduto e ora scoprivo che era la verità nel modo
peggiore possibile.
Con mani tremanti mi accesi una sigaretta.
Dovevo essere maledetta, come le donne della mia
famiglia, in fatto di uomini, un vocina dentro di me invece se la
rideva,
pungolandomi continuamente con frasi come “Davvero credevi
che una rockstar si
interessasse a una ragazzina come te?”. Aveva ragione, io non
avevo nulla di
speciale, se non la mia parentela con Nana, non c’era motivo
perché mi si
notasse.
Buttai la sigaretta e scesi nella metropolitana.
Ero stanca morta e per colpa sua avevo sottratto del
tempo prezioso allo studio, puntavo infatti ad avere una media alta per
ricevere una borsa di studio che mi permettesse di ridurre a uno i
lavoretti
che facevo per mantenermi.
Salii sulla carrozza e mi lasciai cadere su un posto
libero, la gente del vagone aveva la mia stessa faccia stanca e mezza
scoraggiata. La vita nella capitale era fottutamente dura, era una
specie di
selezione naturale, quelli che non ce la facevano finivano per strada o
scornati se ne tornavano al paese natale, rinunciando ai loro sogni.
Io però non volevo mollare, dovevo quindi stringere i
denti e andare avanti.
Scesi alla mia fermata e salii al mio microscopico
appartamento, era molto più tardi del solito, ma dovevo
studiare, il che
significava fare le ore piccole.
Quando abitavo a Okayama le facevo spesso, ma recuperavo
il sonno nel pomeriggio, qui non potevo farlo.
Mi feci una doccia, bevvi un caffè forte e mi immersi nei
compiti di matematica, in quelli di storia e infine studiai economia.
Alla fine
erano le tre di notte, avevo davanti a me solo quattro ore di sonno ed
era
sconfortante per un ghiro come me.
Uscii sul piccolo terrazzo a fumare una sigaretta, sotto
di me si stendeva Tokyo con le sue mille luci e i suoi rumori. Era come
un
animale che non dormiva mai, diversa dalle città in cui
avevo abitato, i primi
tempi non ci avevo dormito la notte per quel rumore incessante.
Mi ero sentita una stupida provinciale, poi mi ero
abituata.
Ma non ero abituata alla frase di Shin, anche se mi ero
imposta di non pensarci e di ridurre i contatti al solo lavoro, mi
bruciava che
l’unica persona che avesse dimostrato un minimo di interesse
a me lo avesse
fatto per soldi o qualcosa del genere.
Faceva male, mi sentivo come una specie di merce e mi
chiedevo perché l’avesse fatto, un automatismo
della sua vecchia vita? Un
invito a stare lontana?
Spensi la sigaretta ormai ridotta al solo mozzicone e me
ne andai a letto. Fu come un blackout, il mio corpo e la mia mente si
staccarono l’uno dall’altra, non feci sogni
né incubi. Mi svegliai al suono
della sveglia inebetita, mi feci una doccia e bevvi del
caffè con dei biscotti
per uscire dalle nebbie incerte di quella mattina. Preparai il bento e
poi mi
cambiai, indossai una mini nera, una maglia e un maglione dello stesso
colore, le
solite calze spesse e nere autoreggenti. Mi fissai allo specchio:
l’unica cosa
viva del mio volto era il mio anellino al naso.
Sospirando mi pettinai e poi passai una buona quantità di
correttore sulle mie occhiaie, una passata di matita e di ombretto nero
e
sembravo la solita Misato. Ero solo un po’più
pallida del normale.
Controllai lo zaino, mi allacciai il collare di pelle,
misi gli orecchini da cui pendeva un Saturno e la giacca di pelle.
Uscii in
terrazza e decisi di mettermi anche una sciarpa: era una giornata
fredda.
Avevo una sciarpa a fantasia zebrata – un regalo di Shion
– e la indossai. Ero pronta per affrontare la scuola.
Chiusi a chiave l’appartamento e scesi rapida le scale, i
miei anfibi facevano un rumore pesante che mi piaceva, era come urlare
al mondo
che c’ero anche io.
Presi il solito treno e raggiunsi il liceo, qualcuno mi
salutò, la maggior parte degli alunni del primo anno mi
ignorarono, ricevetti
persino qualche occhiata ostile dai sempai delle classi seconde e
terze. Ieri
avevo vinto uno stage ambito, a quanto avevo capito parecchi alunni e
alunne
più grandi di me e quindi più qualificati avevano
messo gli occhi su
quell’incarico e vederselo soffiare così li aveva
irritati. Subito erano
circolate voci che ero stata scelta solo perché la
sorellastra di Nana Osaki e
Shin era un ex membro dei Blast. Erano tutte cazzate, io non avevo
avuto voce
in capitolo sulla scelta, era stato deciso tutto dalla Shikai
Corporation, ma ciò
non mi aveva resa più popolare.
Beh, popolare non lo ero mai stata.
Ero arrivata un mese dopo l’inizio delle lezioni ed ero
diventata in pochissimo tempo una delle più brave della
classe e la cocca di
parecchi professori, la gente aveva iniziato a girarmi al largo e poi a
mormorare quando qualcuno aveva tirato fuori dei vecchi rotocalchi.
L’ombra di mia sorella mi precedeva, ma invece di
irritarmi mi dava sicurezza. Se ce l’aveva fatta lei potevo
farcela anche io,
senza nemmeno la licenza liceale era diventata una delle cantati
più note tra i
giovani facendosi largo in un ambiente difficile. Cosa era superare la
cattiveria e l’invidia di un gruppo di adolescenti?
Poca cosa e poi io sapevo di aver vinto una parte dei
demoni e la cosa mi dava un immensa forza.
Seguii le lezioni, pranzai da sola e poi andai allo
studio, Misato mi accolse con un sorriso e mi spiegò il
programma. Tutto
iniziava con un giro di caffè e tè che preparai
subito fischiettando, avevo una
buona esperienza al ristorante di papà e mi uscivano buoni.
Entrai nello studio con un gran sorriso che si incrinò
per un attimo quando vidi Shin, distolsi lo sguardo e
distribuì quanto mi
avevano richiesto.
Mi sommersero di complimenti, ma io quasi non me ne
accorsi.
L’unica cosa che percepivo, che mi scottava addosso come
fuoco era lo sguardo di Shin, completamente diverso da ieri sera.
Oggi i suoi occhi erano due pozze castane che mi
seguivano tristi, sembrava dispiaciuto per come era andata la serata,
io mi ero
ripromessa di stargli lontano, ma…
Quell’alternanza di attrazione e repulsione era
scomparsa, ora c’era solo l’attrazione.
Mi ero innamorata di nuovo e non sapevo se esserne felice
o terrorizzata.
Non avevo scelta comunque, quegli occhi mi reclamavano a
sé con troppa forza per poterli ignorare.
Chissà dove mi avrebbe portata questa nuova svolta?
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Capitolo 15 *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo
quindicesimo
Sai, Hachi…
Ci sono diversi modi di
vivere la vita, se la si
considera come un fiume, c’è
chi l’affronta
controcorrente per cambiare il destino e chi
segue il flusso.
Io avevo sempre
combattuto, non avevo mollato un attimo,
ora però
non avevo più
energie né nulla per cui combattere. Così
mi adattai
semplicemente al flusso.
Alla fine non era poi così male,
almeno non soffrivo.
Un mese dopo il mio insediamento a
Londra le cose si
erano stabilizzate.
Avevo lasciato il bed and breakfast e trovato un
appartamento nei sobborghi della città, era un buco
minuscolo in un quartiere
abitato prevalentemente da cinesi. Non potevo parlare giapponese,
così per forza
di cose il mio inglese migliorò, formulavo frasi
più lunghe e il mio accento
nipponico stava lentamente scomparendo.
Lavoravo in un McDonald in cucina, dovevo solo friggere
patatine, carne e preparare panini, non era nulla di particolarmente
difficile
e non richiedeva che io parlassi. L’inglese lo capivo
benissimo ora e questo
bastava al lavoro. Conducevo una vita piuttosto solitaria ed era quello
che
volevo, avevo paura di lasciare entrare nuove persone nella mia vita
perché il
mio cuore era colmo di quelle di quella vecchia, uno scrigno di
gioielli
preziosi incastonato dentro al mio petto.
Hachi e la sua solarità, Nobu e il suo incrollabile
ottimismo, la forza calma di Yasu, la curiosità di Shin e
l’affetto di Misato o
forse dovrei dire Mai. Non li dimenticavo, erano sempre con me e anche
Ren lo
era, in ogni angolo di qualsiasi stanza o strada lui era lì.
Aveva
quell’espressione triste che mi ricordava la promessa che
infrangevo ogni
giorno a ogni respiro.
Ogni tanto andavo al mare, rimanevo delle ore a guardare
quella distesa d’acqua e pensavo e pregavo, lui era
lì con me immerso fino alla
vita nell’oceano.
Perché non mi ero accorta di nulla? Perché non
avevo
nemmeno avuto il sospetto che si drogasse?
Era colpa del mio egoismo, volevo così tanto essere
conosciuta e adorata da una marea di sconosciuti che mi ero dimenticata
della
prima persona che l’avesse fatto.
Era stato lui il primo a vedere del talento in una
sedicenne triste e scontrosa che aveva sempre respinto il suo desiderio
di
paternità. Forse era per questo che mi aveva lasciato la
prima volta
andandosene a Tokyo, che non si fosse sentito amato abbastanza da me?
Ren era sempre stata la mia luce, lo amavo e lo amo
tuttora.
Lo volevo tutto per me, perché temevo che se avessi
allentato la presa se ne sarebbe andato come mia madre, mia nonna e poi
Hachi.
Non capivo che se l’avessi lasciato un
po’più libero lui sarebbe rimasto con
me, ero ossessionata dal possesso.
Dopo era arrivata la gelosia.
Vederlo così famoso, vederlo comporre canzoni per
un’altra donna quando prima ero io a cantare sulle sue
melodie mi mandava fuori
di testa. Da quando Takumi si era preso Hachi i Trapnest erano
diventati il
nemico, avevo paura che si prendessero del tutto anche Ren.
Stupida me che vedevo il nostro legame così fragile!
Ora era troppo tardi per tutto, non potevo scusarmi con
lui, non potevo dirgli che l’amavo, così guardavo
il mare. Avevo con me il suo
regalo di compleanno, ma non avevo ancora trovato il coraggio di
aprirlo.
Tutte le mie giornate al mare erano più o meno
così e
intanto il tempo passava.
Le foglie colorate di ottobre avevano lasciato il posto
al freddo mordente di novembre e alla festa di Guy Fawkes e poi alle
luci di
Natale.
I miei capelli crescevano, non volevo tagliarli, ogni
giorno lo specchio mi rimandava l’immagine di una ragazza
leggermente diversa
da quella che ero stata in Giappone. Mi stava bene così,
quella persona viveva
nella mia testa. Nei miei sogni compiva scelte diverse ed era felice.
Oh, erano sogni magnifici!
Ren non mi aveva lasciato e insieme a Yasu e Nobu eravamo
partiti per Tokyo, felici come bambini per la nuova avventura
intrapresa.
Misato ci aveva seguito e si era ritrovata Hachi come coinquilina,
avevamo
fatto amicizia senza quella morbosità che mi disturbava.
Hachi e Nobu si erano
innamorati ed erano felici. Ci serviva una seconda chitarra e avevamo
fatto
entrare Shin nella band, avevo deciso di incontrare mia sorella e avevo
un buon
rapporto con lei, lei si era innamorata di Shin e questo lo aveva
riportato
sulla buona strada.
Ma erano solo sogni e finivano in un grande buio in cui
mi sembrava di soffocare, un baratro che la mia mente cancellava
sistematicamente al risveglio, in qualche modo dovevo sopravvivere. Se
avessi
ricordato la conclusione sarei impazzita, avevo un bisogno assoluto di
essere
rassicurata che le cose potevano andare bene e che non
c’erano solo disgrazie,
Un giorno arrivò una nuova collega al lavoro, era
giapponese come me, forse potevo scambiare quattro chiacchiere con lei
nella
mia lingua, lei dovette pensare lo stesso perché
accettò di prendere un caffè
con me dopo il lavoro.
Andammo in un piccolo bar accanto al Mac, eravamo tutte e
due abbastanza a disagio lei aveva lunghi capelli tinti di rosa che le
cadevano
in tante onde perfette.
“Così ti chiami Nana? Io sono Emiko, piacere di
conoscerti.”
“Piacere mio, dove abitavi in Giappone.”
“Osaka!”
Mi risponde sorridendo.
“Tu?”
“Tokyo.”
Gli occhi le si illuminarono.
“Figo!”
Esclamò lei, tutti si entusiasmavano quando nominavo
Tokyo.
“Sì, è una città molto
bella.”
“Già e poi è la base dei
Trapnest.”
Mi si seccò la gola a sentire quel nome, quello maledetto
che mi toglieva tutto
quello che a fatica conquistavo nella vita.
“Ah, sì. Ma non è che si incontrano
così per strada.”
Dissi, la mia voce sembrava grattata da migliaia di invisibili
sassolini.
“Sì, lo so. Ma loro mi piacciono un sacco, Reira
è il mio
mito, mi sono fatta i capelli rosa per lei.”
Rise scioccamente, io pensavo a Ren che suonava per la principessa del
canto e
non per me.
Era tutto terribilmente sbagliato.
“E adoro Takumi.”
Takumi non era altro che un bastardo violento,
manipolatore e in grado di stuprare una donna senza troppi problemi,
solo per
farle capire che era sua come aveva fatto con Hachi quella volta
nell’appartamento 707.
La volta in cui si erano spaccati i bicchieri con le
fragole.
“E cosa pensi della morte di Ren?”
La mia voce sembrava emergere dalle profondità della
terra.
“Mi dispiace molto, ma secondo me è colpa della
sua
ragazza. Come si chiama?
La stronza dei Blast? Nana? Hana?
Dicono che non lo volesse sposare perché aveva un altro,
ma adesso pare sia morta anche lei.”
E così io ero la stronza dei Blast, quella di cui non si
riusciva nemmeno a
ricordare il nome con precisione, solo che se ne era andata.
Mi alzai in piedi, il mondo intorno a me tremava, le voci
nella mia testa urlavano e Ren rideva nel suo angolo come a dirmi che
raccoglievo quello che avevo seminato.
“Scusa, mi sono ricordata che avevo una cosa a fare. Devo
andare.”
Lasciai sul tavolo i soldi per il mio tè e uscii quasi di
corsa, mi mancava l’aria, una mano incorporea mi stringeva il
collo.
Mi accasciai su una panchina in lacrime, cercando di
riprendere il controllo della situazione, la valanga dei miei
sentimenti, sensi
di colpa e ricordi dolorosi mi stava travolgendo e io ne ero
praticamente
intrappolata dentro.
Non importava dove andassi o quanti chilometri mettessi
tra me e il Giappone, i miei fantasmi mi seguivano lo stesso e mi
tormentavano.
Trapnest, Reira, Takumi, Ren.
Erano un mantra infinito nella mia testa e mi chiesi se
questa cosa sarebbe mai cambiata.
Guardai che giorno fosse sul cellulare: era il compleanno
di Hachi.
Mi si strinse il cuore.
Non avevo mai voluto essere
madre, mai. Quando mi ero
ritrovata
incinta, mio malgrado,
era troppo tardi abortire e così
provai ad
ammazzare quel bambino
lasciandomi morire di fame. Lui
però aveva
sempre resistito. Dopo
il parto non lo avevo nemmeno
voluto vedere, per me
la faccenda era chiusa,
ma cos’è questa sensazione?
Quella di essere legati a qualcuno di
molto lontano e
prezioso, quella che mi rende impossibile
vivere la vita di prima.
-Reira
Il giorno del parto fu il
più brutto della mia vita.
Intorno a me c’era tantissima gente agitata che urlava
istruzioni mentre io a malapena faticavo a respirare per via del
dolore. Mi
dicevano di spingere e di spingere ancora, io strinsi la mano di Takumi
e
cercai di collaborare meglio che potevo, maledicendo quel bambino
figlio di una
relazione balorda.
Alla fine lo sentii piangere, mi sentii sollevata, avevo
fatto il mio dovere portandolo in grembo, ora toccava a Takumi. Questo
fu
l’ultimo pensiero coerente che formulai, poi il buio cadde su
di me.
Mi risvegliai molte ore più tardi distesa in un letto,
avevo freddo nonostante le coperte, era qualcosa che veniva da dentro e
che non
volevo analizzare.
Qualche minuto dopo entrò un’infermiera sorridente.
“Buonasera, signorina Serizawa. Come si sente?”
“Debole, ho freddo.”
La donna estrasse una coperta da un armadio e la stese sopra di me.
“Grazie.”
“È normale, ha perso molto sangue e per un attimo
abbiamo
temuto per la sua vita.”
Io deglutisco.
“Vuole vedere il bambino?”
“No. Non voglio vederlo, non sarà affidato a me,
comunque.
Desiderò però che sia chiamato Ren
Ichinose.”
La donna mi guardò a occhi spalancati, sbatte un paio di
volte le palpebre
interdetta, poi annuì.
“Sì, capisco. La cena arriverà tra poco, ma è
sicura?
Non vuole nemmeno vederlo?”
Scossi la testa, non volevo creare legami con quel bambino, volevo far
finta
che non esistesse perché grazie a lui avevo perso ogni
possibilità di stare con
Shin e non mi rimaneva altro che Takumi. Takumi, quello che non mi
aveva mai
voluta.
La donna fu di parola, mezz’ora dopo arrivò la
cena: brodo
con del riso e della carne di pollo alla piastra. Non era il massimo,
ma era
meglio di niente.
Mi ci vollero due settimane prima di essere dimessa
dall’ospedale a causa del mio fisico debole, provato e
denutrito, ma alla fine
lasciai quel posto. Takumi veniva a trovarmi molto spesso e ogni volta
mi
parlava di Ren, ma io lo ignoravo. Avevo scelto di non curarmi di quel
figlio e
non avevo intenzione di cambiare idea, l’avrebbe cresciuto
Nana, lei era scelta
migliore. Aveva partorito da poco, aveva latte abbastanza per due
bambini, era
abbastanza stupida e mansueta da accettare gli ordini di Takumi come
vangelo e
poi voleva bene a Shin. Per lei crescere uno o due bambini sarebbe
stato lo
stesso.
Una volta fuori dall’ospedale decisi di partire per una
vacanza per rimettermi in sesto completamente, niente mi faceva sentire
meglio
che lasciare il Giappone e diventare un’anonima turista non
dissimile da molte
altre giapponesi. Il rosa dei miei capelli se ne era andato e li avevo
tinti
del mio colore naturale – un castano chiaro – il
che mi rendeva ancora più
comuni.
Scelsi le Hawaii come meta, prenotai due settimane in un
villaggio vacanze, i biglietti aerei e controllai che i documenti come
il
passaporto fossero a posto. Vivevo da mia madre, come sempre lei era
molto
occupata con il lavoro, ma quando ci ritrovavano da sole mi puntava
addosso il
suo sguardo accusatore. Mia madre non parlava mai, ma sapevo
esattamente quel
che pensava. Mi rimproverava di aver seguito Takumi
nell’avventura con i
Trapnest, di non aver trovato un lavoro più stabile, di non
essere stata in
grado di smettere di amare Takumi, di essermi scopata un minorenne per
soldi,
di essere rimasta incinta e – cosa più importante
– di aver abbandonato quel
bambino nelle mani di un’estranea. Non capiva
perché non lo volessi e
soprattutto perché non volessi assumermi le
responsabilità di una situazione
che io avevo creato. Probabilmente il mio egoismo la ripugnava, si
chiedeva
forse dove aveva sbagliato con me visto che la giovane donna che aveva
davanti
non le piaceva, era troppo infantile e immatura.
Una settimana dopo mi imbarcai su un volo per le Hawaii,
ero diretta a Honolulu, poi sarei andata in un resort in una zona un
po’ più
distante dalla città. Mi sentivo eccitata e felice come una
bambina che va in
gita, presto avrei avuto del tempo da dedicare a me stessa senza
dovermi
vergognare o avere qualcuno attorno che mi ricordava la situazione.
Il mio corpo sembrava avere dimenticato completamente la
presenza di Ren al suo interno, non avevo latte nei seni ed ero tornata
magra
come un giunco.
Arrivai a destinazione, recuperai i bagagli ed uscii
dall’aeroporto, il sole era accecante, l’aria era
calda e carica di profumi.
Sorrisi e chiamai un taxi e gli dissi dove portarmi, il taxista
caricò il
bagaglio e partimmo.
La città era ordinata, c’erano tante case bianche
carine
e palme ovunque, si sentiva l’odore della salsedine come a
casa, ma qui era
diverso. Più forte e speziato e mediato dal profumo dei
fiori.
Il mio resort era a qualche chilometro della città,
immerso in una natura lussureggiante, ma non troppo lontano dalla
civiltà, il
taxista mi disse che c’era un servizio navetta.
Arrivammo, scaricò le valigie di cui se ne prese cura un
facchino, io invece andai alla reception.
“Buongiorno.”
Mi salutò l’impiegato lanciandomi una veloce
occhiata ammirata.
“Buongiorno a lei. Ho prenotato una stanza a nome Layla
Serizawa.”
L’uomo controllò, annuì, sbrigammo le
formalità e poi mi scortò a un lussuoso
bungalow che dava sulla spiaggia, era tutto quello di cui avevo bisogno
per
tornare a essere almeno un essere umano decente.
“Spero che il suo soggiorno qui sia di suo
gradimento.”
“Lo spero anche io.”
Se ne andò e mi lasciò sola, io mi stiracchiai.
Lontano dal Giappone i miei demoni sembravano quasi
accettabili, una rappresentazione da teatro kabuki,
un’accozzaglia di maschere
di oni e yurei di quelle buone a spaventare solo i bambini.
Disfai le valigie, mi feci una lunga doccia per togliermi
la stanchezza del viaggio e poi guardai il cellulare: c’era
una chiamata di mia
madre, una di Naoki, una di Yasu e cinque di Takumi.
Sospirai, lui era l’uomo che volevo da una vita, ma che
da un vita mi diceva di no, eppure non mollavo, una parte di me era
certa che
l’avrei ottenuto. Non mi importava di calpestare i sentimenti
di sua moglie, di
sua figlia e del mio stesso bambino. Lui era mio e un giorno
l’avrebbe capito
anche lui.
Era ancora presto per il pranzo, così riempii una borsa
con il necessario per la spiaggia, mi misi un costume e poi me ne
andai. Mi
avevano assegnato un ombrellone ragionevole lontano da quello di un
altro
cliente, era una buona cosa, non mi andava di parlare molto.
Stesi un salviettone sulla sdraio e mi ci sdraiai sopra,
mi stiracchiai di nuovo come un gatto, godendomi la sensazione del sole
caldo
sulla pelle, perdendomi in quei profumi che non mi avevano abbandonata
da
quando ero sbarcata qui – era come se mi proteggessero
– e nel rumore delle
onde.
Il mio corpo cedette all’improvviso, divenne liquido e
leggero, le preoccupazioni sembravano le uniche cose che
l’avessero tenuto
insieme fino a quel momento.
Era piacevole, ero un palloncino che fluttuava nel cielo.
All’improvviso mi resi conto che c’era uno spago
legato
al mio polso destro, incuriosita lo presi tra le mani, chiedendomi cosa
fosse e
cosa rappresentasse. Lo seguii, mi lasciai alle spalle le Hawaii, volai
sull’oceano e sul Giappone, poi caddi su Tokyo. Ero una casa
di Shirogane che
conoscevo solo per sentito dire, in un salotto, continuai a seguire il
filo.
Ora ero in una stanza con le pareti dipinte di azzurro, in un angolo
c’era un
lettino, con uno scacciapensieri fatto di stelle e pianeti sopra, lo
mossi
leggermente con il dito e un suono delicato ne uscì. Guardai
infine nel lettino
e mi scontrai con gli occhi scuri di un bambino dai capelli biondi come
i miei.
Ren.
E lo spago che partiva dal mio polso finiva attorno al
suo minuscolo polso.
Aprii gli occhi di scatto, con il respiro corto, sudata.
Adesso non c’erano più visibili fili attorno al
mio
polso, ma grazie a quel sogno a occhi aperti capii una cosa: che io lo
volessi
o meno c’era un legame tra me e mio figlio.
E questa volta non potevo né scappare né
ignorarlo.
Questa volta dovevo confrontarmi con le conseguenze delle
mie azioni.
Sai, Nana…
Sin da piccola ho sempre
desiderato una famiglia e dei
bambini.
Non avevo particolari
aspirazioni, volevo solo un marito
che mi
amasse, dei figli da
accudire e poi invecchiare insieme a
lui.
Avevo fallito su tutta
la linea. Takumi non mi amava e la
prospettiva
di invecchiare con lui
mi atterriva, anche se mentivo a
tutti e a me stessa
dicendo di amarlo.
Riuscivo a malapena a prendermi cura
di Satsuki.
Quello che mi
preoccupava è che non riuscivo a tollerare
Ren, quel
bambino era come un
estraneo per me.
Cosa era successo al mio
animo gentile?
Novembre era arrivato in un
soffio, indaffarata come ero.
Badare a due bambini assorbiva tutte le mie energie,
tanto che i miei erano sonni di pietra, erano secoli che non curavo la
mia
immagine. Lo specchio rimandava l’immagine di una giovane
donna con qualche
kilo di troppo, i capelli raccolti in una coda floscia e le occhiaie
profonde.
Con Satsuki ero riuscita a raggiungere una specie di
accordo, l’avevo accettata e lei sembrava averlo capito, mi
lasciava dormire la
notte e stava gradualmente succhiando meno latte. Ren era di
tutt’altra pasta,
era come se sapesse che in fondo non lo voleva nessuno e quindi puniva
tutti.
Continuava a piangere la notte, beveva così tanto latte da
lasciarmi
prosciugata.
In tutto questo Takumi era assente, lui diceva che stava
cercando di riorganizzare la sua carriera lavorativa, ma io ero sicura
che si
vedesse con altre donne. Non mi importava molto, ero arrabbiata con lui
per
altre cose come avermi accollato il figlio di Reira senza nemmeno
consultarmi
con me.
Non riuscivo a volere bene a quel bambino, lo trattavo
con gentilezza, ma non sentivo nessuno legame profondo con lui, lui era
un
intruso. Non importava quanto somigliasse a Shin i tratti che
condivideva con
Reira risaltavano di più e mi rendevano furiosa.
Parlando di Reira, non si era fatta vedere per un mese,
poi era apparsa sulla porta di casa mia.
Era un piovoso giorno di agosto, io cercavo di calmare un
Ren che piangeva da almeno un’ora e il campanello aveva
trillato. Mi ero
trascinata stancamente alla porta e avevo aperto, davanti alla figura
magra e
slanciata della donna mi era salito un fiotto di rabbia.
Lei sembrava appena uscita dalla pagina di una rivista,
io ero un disastro.
“Cosa vuoi?”
Le avevo detto secca, per niente amichevole.
Lei aveva spalancato gli occhi sorpresa, non se lo
aspettava, probabilmente credeva di trovarsi la schiava lobotomizzata
di
Takumi, non una donna ostile.
“Vorrei vedere Ren.”
Aveva detto piuttosto timidamente, io avevo sbuffato.
“Certo, meglio tardi che mai. Tuo figlio sta piangendo da
un’ora, non si calma e mi rende la vita un incubo.”
Mi scostai dalla porta per lasciarla entrare, lei era a
disagio, ma a me non importava. I tempi in cui adoravo la sua figura da
un
poster erano lontani secoli, la persona vera non
era all’altezza del simulacro, era solo una
donna immatura ed egoista.
In ogni caso si diresse verso la culla di Ren, con gesti
insicuri e inesperti lo prese in braccio, il bambino la
guardò sorpreso. Per
lui era un’estranea, ma doveva aver capito che erano legati
in qualche modo
vista la reazione. La cantante non sapeva che fare ora con quel neonato
tra le
braccia, così fece l’unica cosa che sapesse fare:
cantò.
Pochi minuti dopo Ren dormiva profondamente e lei lo
rimise nella culla, aveva un’espressione di cauta
felicità. Io le riservai
un’occhiata di fuoco, intimamente furiosa che una cazzo di
estranea ce l’avesse
fatta dove io avevo fallito, io mi ero presa cura per mesi di quel
bambino
senza ricevere soddisfazioni, perché lei invece era stata
subito gratificata?
Era la sua madre biologica, ma quella che si era fatta un mazzo per lui
ero io.
Io e Reira scambiammo qualche parola e poi lei se en andò.
Da allora veniva ogni due settimane, trascorreva del
tempo con Ren, cantava per lui e poi se ne andava, Takumi riteneva che
fosse
una buona cosa, io invece ribollivo internamente, perché ero
stata attirata in
questo folle rapporto a tre solo perché non avevo avuto il
coraggio di credere
in Nobu. Ero sicura adesso che se avessi dato al chitarrista un
po’ più di
tempo per riflettere lui avrebbe accettato di prendersi cura di me e
Satsuki,
invece avevo dato retta alla mia parte più meschina e stavo
scontando la pena.
Avevo appena
finito di nutrire il bambino e lui si era addormentato, la bambina
dormiva già:
avevo un po’ di tempo per me stessa.
Mi trascinai stancamente in bagno, aprii l’acqua della
vasca e quando fu piena mi immersi con un gemito di gioia,
l’acqua calda mi
rilassava, mi accarezzava, mi aiutava a liberarmi dallo stress. Per un
attimo
mi balenò in testa l’immagine di
un’altra vasca – quella con le zampe di leone
– e le mille chiacchiere e segreti confidati, poi tutto
divenne nero.
Mi svegliai ore dopo, l’acqua era fredda, io ero fredda e
di là c’era Ren che piangeva.
Uscii di corsa dalla vasca, mi asciugai e indossai i
vestiti più caldi che riuscii a trovare e corsi dal bambino.
“Ehi, che c’è?
Ne hai di voce, potresti fare lo screamer…”
Lo presi in braccio lo cullai e calcolai quand’era
l’ultima volta che lo avevo
allattato, poteva avere fame, quindi gli offrii il mio seno, lui ci si
attaccò
avido.
Finito, gli feci fare il ruttino e lo rimisi nella culla,
questa volta si addormentò subito, controllai Satsuki e mi
asciugai i capelli.
Ero stanca morta, mi infilai sotto le coperte e mi
addormentai subito nonostante tremassi per il freddo che avevo preso
prima
nella vasca.
Nel mio sogno ero in un appartamento piccolo, ma molto
carino. Mi era estraneo eppure familiare, come se lo avessi arredato
io, qua e
là riconoscevo il mio tocco nella scelta degli oggetti e nel
modo n cui erano
disposti. Sentii il pianto di un neonato e notai che c’era
una sola culla in
cui Satsuki stava piangendo, la presi in braccio e la cullai.
Subito dopo sentii dei passi di corsa e vidi Nobu
fermarsi allo stipite della porta.
“Ah, sei andata tu a controllare la bambina. Ma non stavi
cucinando?
Stasera Ren e Nana vengono a cena.”
Gli lasciai la bambina e notai che in effetti stavo preparando un
sukiyaki al
manzo, quello che piaceva a Nana. Era quasi pronto, preparai confusa la
tavola.
Nana? Ren?
Nana era scomparsa da mesi ormai e Ren era morto.
Suonò il campanello ed andai ad aprire e quasi svenni:
c’era davvero Nana mano nella mano con Ren, stavano
battibeccano come al
solito, ma erano lì.
Reali.
Abbracciai stretto Ren e poi Nana.
“Ehi, Hachi! Che ti prende?”
Mi chiese Nana.
“Stanotte ho avuto un incubo terribile, Ren era morto e
tu eri scomparsa.”
Lei mi rivolse uno sguardo sorpreso e aprì la bocca per
rispondere, ma
all’improvviso tutto cominciò a crollare, la vita
che volevo iniziò a tremolare
e poi si spense. Allungai un braccio verso Nobu, come a cercare di
fermare quel
disastro, ma le nostre mani si sfiorarono appena prima che io cadessi
in un
buco nero.
Mi risvegliai nel mio letto, la casa era silenziosa e
sentivo le guance umide di lacrime, il mio sogno mi aveva
impietosamente
mostrato ciò che volevo davvero. Non avevo nulla nella vita
reale.
Qui avevo quello che avevo desiderato, ma non ciò che di
cui avevo bisogno.
Cominciai a piangere, volevo fare qualcosa che mi
permettesse di raggiungere almeno in parte il mio sogno, ma sapevo che
era
impossibile. Ero solo una ragazza con il diploma liceale,
senza un impiego
e nemmeno tanto sveglia dato che i miei due lavori li avevo persi
entrambi.
Avevo due figli a cui badare e dipendevo totalmente da Takumi.
Senza di lui sarei finita a fare compagnia ai barboni per
le strade, non osavo farmi viva con Nobu dopo tutto quello che gli
avevo fatto.
Volevo disperatamente che le cose fossero diverse, ma la
verità era che ero inchiodata alla mia vita senza
possibilità di scampo.
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Capitolo 16 *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo sedicesimo
Credo che le donne della nostra
famiglia siano condannate
a
innamorarsi degli uomini
sbagliati, Nana era stata
l’unica eccezione
con Ren. Il loro era un
amore da favola, il mio
interessamento a Shin
invece non sembrava
altrettanto idilliaco. Lui mi aveva
chiesto soldi
per la sua compagnia.
Dovevo dargli un’altra possibilità,
nel caso si fosse
scusato, o lasciarlo
perdere? Era una domanda inutile,
dato che conoscevo
già la
risposta.
-Misato Uehara
Era il mio secondo giorno di stage
e mi sentivo a disagio
a dover tornare a lavorare con Shin dopo quello che era successo la
sera prima.
Strinsi i denti e mi dissi che dovevo andare avanti, così
dopo le lezioni mattutine mi recai alla Shikai Corporation, Misato mi
aspettava
sorridendo.
“Oggi saremo sul set di un film!”
Sembrava eccitata.
“Ti occupi tu della carriera di Okazaki-san?”
“Oh, sì. Sono io che mi occupo della carriera di
Shin ed è eccitante, ogni
parte ottenuta e ogni photoshoot sono una grande
soddisfazione.”
Salimmo su una macchina nera e andammo agli studi di
produzione, entrammo e trovai Shin nel suo camerino, arrossii
immediatamente e
Misato lo notò perché mi lanciò
un’occhiata interrogativa.
“Mai, puoi lasciarmi qualche minuto con Misato? Ho
bisogno di parlare con lei.”
“Sì, ok. Non farla scappare, Shin.”
Lui sbuffò, la bionda se ne andò.
“Cosa vuoi?”
Ero piuttosto sulla difensiva e anche un po’ spaventata, il
cuore mi batteva a
ritmi impossibili.
“Parlare di ieri sera. Mi dispiace di aver detto quello
che ho detto, era inappropriato. Il fatto è che io mi
prostituivo e ogni bella
donna era una possibile fonte di guadagno.”
Alzai un sopracciglio, io non ero ricca.
“Sei davvero carina e mi è uscita questa frase in
automatico, non volevo offenderti o rovinare tutto.
Tu mi stai simpatica, ti va se ricominciamo tutto da
capo?”
Valutai la situazione, lui sembrava sinceramente pentito
e io ero attratta da lui, che senso aveva fare la preziosa? Certo, mi
avrebbe
dato l’immagine della tosta, ma io non volevo vivere di
maschere, volevo solo
essere me stessa.
“Sì.”
Allungai una mano verso di lui.
“Ciao, io sono Misato Uehara. Sono la stagista che ti
è
stata assegnata dalla Shikai Corporation e sono anche la sorellastra di
Nana.”
Lui me la strinse, aveva mani grandi, leggermente ruvide e la stretta
salda che
mi piaceva.
“Io sono Shinichi Okazaki, ex bassista dei Blast e
aspirante qualcosa. Felice di conoscerti.”
Sorrisi.
“Piacere mio.”
Lui tornò nel suo camerino, io andai sul set e mi misi
subito al lavoro, servendo
tazze di caffè e facendo i mille
altri piccoli compiti che mi
erano stati
assegnati, sempre con lo sguardo di Misato puntato addosso.
Moriva dalla voglia di sapere cosa ci fossimo detti io e
Shin, ma i tempi della produzione non ci lasciavano un momento per
chiacchierare.
Finalmente arrivò la fine del mio turno e salutai tutti,
sentii dei passi dietro di me, Misato mi aveva seguito fino
all’ingresso.
“È successo qualcosa tra te e Shin?”
“Ieri sera è uscito a bere con me e non si
è
comportato bene, ma adesso abbiamo chiarito.”
Misato sospirò.
“Misato, non devi affezionarti troppo a lui.”
“Perché? È proibito dal
contratto?”
“Finirai per farti male.”
Io sorrisi.
“Non glielo permetterò, non sono poi
così sprovveduta.
Piuttosto, non è a che a te piace?”
Lei rise.
“No, siamo solo amici.”
Se ne andò e arrivò Shin.
“Hai sentito tutto, vero?”
Lui annuì, ma me lo aspettavo, era impossibile nascondere
questa
conversazione.
“Posso essere un bravo ragazzo e te lo dimostrerò,
posso
venire a prenderti dopo il lavoro?
Giuro che non dirò cazzate questa volta.”
“Beh, se le dicessi sarebbe l’ultima volta. Va
bene,
comunque.
Sai dove lavoro e a che ora smetto, ci si vede.”
Lo salutai sventolando la mano, mi diressi verso la stazione della
metro più
vicina e quando fui sul convoglio, mangiai il mio bento visto che non
avevo tempo
di farlo dopo.
La mia cucina sembra migliorata, mi dissi, visto che
questo l’ho preparato io e non preso alle solite macchinette.
Arrivai alla mia
fermata, scesi e tornai in superficie, qui la città era
caotica, le persone si
muovevano in fiumi che non si sfioravano mai. Pensai che fosse una cosa
triste, ma era la
vita che era così e forse non era una cattiva cosa.
Mi immisi nel flusso e arrivai davanti al negozio dove
lavoravo, un’altra serata stancante mi attendeva e io non ero
pronta. Sbadigliai
ed entrai facendo tintinnare la campanella sopra la porta.
Un ragazzo dai capelli neri un po’ lunghi e gli occhiali
mi salutò con un sorriso.
“Ciao, Misato. Pronta?”
“Si è mai pronti, Akira?”
Lui rise, io entrai nel privé, mi misi la maglia del
negozio e mi guardai allo specchio.
Una ragazza dai capelli rossi semaforo mi rimandò uno
sguardo stanco, nemmeno il correttore nascondeva le occhiaie ormai. Per
un
attimo il mio riflesso si confuse con quello di Nana, abbiamo gli
stessi occhi
e lineamenti molto simili, i miei sono forse meno affilati dei suoi, ma
non
troppo. Assomigliamo entrambe a mamma che somiglia a nonna o
così dice lei.
Appoggiai una mano sullo specchio e mi chiesi per
l’ennesima volta dove fosse finita, forse era scappata
all’estero, alla fine
aveva ricordi della sua vita sparsi per tutto il Giappone. Lo
scintillio del
mio piercing al naso e il leggero bussare di Akira mi riportarono alla
realtà,
uscii sorridendo.
“Scusa, mi sono guardata allo specchio e ho dovuto fare
un esorcismo. Sembro un cazzo di vampiro.”
Lui rise ed entrò, io andai al bancone e indossai il mio
sorriso di plastica che usavo per i clienti del negozio, anche se a
volte erano
pessimi, maleducati o ubriachi bisognava essere gentili con loro: era
la prima
regola.
D’altronde doveva esserci una ragione se esisteva il
detto: “Il cliente ha sempre ragione”.
Quella sera lavorai un po’ svogliata, il mio sguardo
correva troppo spesso all’orologio del negozio, una parte di
me era impaziente
di rivedere Shin, l’altra ne era terrorizzata a morte.
Ripensavo continuamente
a tutte le cose folli che le donne della mia famiglia avevano fatto per
amore e
mi chiedevo cosa avrei potuto fare io, ma forse lui non mi avrebbe
chiesto
niente del genere. Su di lui correvano svariati pettegolezzi
– che si
prostituisse, che fosse stato l’amante di Reira dei Trapnest
– e non capivo
cosa vedesse in me
di così particolare.
Che fosse la normalità?
Che in me vedesse una ragazza con cui vivere un amore
adolescenziale senza tutto quell’alone di torbido mistero che
circondava la sua
vita?
Poteva essere una buona ipotesi, in fondo io non ero
nulla di speciale, tolti i capelli e il piercing ero uguale a mille
altre
ragazze. In ogni caso i clienti non si accorsero che non ero del tutto
in me, a
loro bastava che portassi i dvd richiesti e accettassi quelli che
restituivano.
Non era poi così difficile farlo, anche se la mia testa era
altrove.
Finalmente arrivò l’orario di chiusura, misi
l’incasso al
solito posto, pulii il pavimento, chiusi il negozio e infine abbassai
la
pesante serranda. Sbrigata anche quella faccenda percorsi la poca
distanza che
mi separava dalla casa del proprietario e gli consegnai le chiavi.
Al mio ritorno Shin era lì, fumava indolente una
sigaretta, per darmi un tono e non far vedere quanto fossi agitata me
ne accesi
una anche io.
“Ciao.”
Dissi piano.
“Ehi! Finita la giornata?”
“Sì, è finita anche oggi.”
Mugugnai mentre sbadigliavo.
Ero consapevole del suo corpo e del mio, della nostra
vicinanza e mi sembrava di essere ridicola in ogni mia azione, troppo
poco sexy
per lui e cose del genere.
“Hai fame?”
“Eh?”
Mi ero distratta un attimo di troppo.
“Ti ho chiesto se hai fame.”
C’era una nota divertita nella sua voce.
“Oh, sì. Ho fame.”
Risposi con un bel sorriso per non dare a vedere quanti fossi
imbarazzata.
“Ok, ti va di tornare al Jackson Burger o preferisci un
altro posto?”
“C’è un chiosco non troppo lontano dal
mio appartamento, preferirei andare lì.”
Lui annuì sorridendo.
“Ok, ti piace il cibo di quel posto?”
“Anche, in realtà ci vado perché
è vicino a casa. Quando rimango senza niente
nel frigo mangio lì, è conveniente.”
“Capisco."
Mi passa un braccio attorno alle spalle facendomi
arrossire.
“Allora, andiamo. È anche meno rischioso per una
ragazza
che camminare per la città di notte, è pieno di
brutti ceffi.”
Io annuii.
“Sì, hai ragione.”
“Ti dà fastidio?”
Si riferiva la suo braccio.
“No, non mi dà fastidio. È solo che non
sono abituata.”
“Non hai mai avuto un ragazzo?”
“No.”
E come avrei potuto? Per non so quanto tempo avevo creduto di essere
innamorata
di mio fratello, ma lui non poteva saperlo. Il mio disagio
aumentò.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No.”
“Eri innamorata di qualcuno?”
“Sì.”
Abbassai gli occhi.
“Non ti sei mai fatta avanti perché eri
timida?”
Scossi la testa.
“No, era la persona sbagliata.”
“Non esistono persone giuste o sbagliate, solo occasioni
che non si colgono.”
“Se avessi colto quell’occasione me ne sarei
pentita”
Lui mi guardò curioso.
“No? Non era un’occasione da cogliere?”
“Ti stai chiedendo perché?”
“Sì.”
Sospirai.
“La verità è che i miei compagni non mi
hanno mai
accettata o fatta sentire particolarmente benvenuta, la mia unica amica
era Chicage.
Così senza punti di riferimento e in sua costante compagnia
ho finito per
innamorarmi dell’unica persona che si mostrava gentile con
me, solo che non era
quella giusta. Se mi fossi lasciata andare avrei rovinato molte vite.
Probabilmente pensi che io sia una ragazzina patetica e codarda, ma
fidati,
sarebbe stato solo un gran casino
“Non penso sia patetico.”
La sua affermazione mi sorprese non poco, la gente normale sarebbe
scappata
pensando che fossi una specie di suorina melodarammatica, ma lui no.
Lui era
rimasto e mi fissava con i suoi penetranti occhi scuri, era come se mi
stesse
scavando nell’anima alla ricerca di chi fosse quella persona.
“So cosa vuol dire essere senza amore e un giorno mi
racconterai tutto, se vorrai.”
La sua affermazione mi sorprese, non sapevo cosa dirgli,
un “mi dispiace” mi sembrava stupido e banale.
“Non devi dire nulla. Forza, andiamo.”
Sorridendo lievemente mi condusse all’ingresso della
metro, mentre scendevamo le scale mi accorsi per la prima volta di
quanta gente
equivoca e sospetta ci fosse. Era per colpa del braccio di Shin che mi
faceva
sentire sicura che vedevo le minacce?
Non ne avevo idea e decisi di non pensarci ulteriormente
o non sarei più riuscita a percorrere quella strada in
tranquillità nei giorni
seguenti.
Prendemmo la linea che portava verso casa mia, nessuno
dei due disse nulla, Shin continuava a tenermi stretta a sé
con aria stanca.
Era come se all’improvviso il peso della giornata gli fosse
franato addosso.
Arrivammo alla mia fermata e scendemmo, il chiosco era a
metà strada tra casa mia e la metro ed era piuttosto
piccolo. Anche a quell’ora
era animato, ma il chiacchiericcio della gente mi fece sentire meglio,
più
sicura.
“Tutto bene?”
Mi decisi infine a chiederglielo, Shin sorrise di nuovo.
“Sono solo stanco, non pensavo fare il modello fosse
così
faticoso.
Un sacco di casting, servizi fotografici e rotture di
palle simili, fare l’attore mi piace di più, ma
finisco per ottenere sempre gli
stessi ruoli di solito. O sono uno straniero o un mezzo giapponese o
sono il
ribelle che si redime alla fine della storia. Forse dovrei tingermi i
capelli
del mio colore naturale.”
“Qual è?”
“Castano, un castano abbastanza chiaro.”
“Ma tu non vuoi.”
Non rispose alla mia affermazione solo perché il
proprietario del chiosco arrivò per prendere le ordinazioni.
Prendemmo entrambi
del ramen e degli spiedini di pollo, io ordinai un the, lui la birra,
il
proprietario lo scrutò da capo a piedi, ma alla fine non
disse niente.
“Perché hai affermato quella cosa sui miei
capelli?”
“Se avessi voluto veramente tornare al tuo colore
naturale l’avresti già fatto o non ci penseresti
così tanto, forse il tuo
colore ti ricorda qualcosa che vuoi dimenticare.”
Dissi piano dopo una lunga pausa, non volevo fare la figura
dell’impicciona, ma
nemmeno evitare di rispondere a una domanda legittima.
“Probabilmente hai ragione, ma non mi sembra il caso di
parlare delle nostre famiglie adesso.
Voglio dire, sono incasinate entrambe e farlo a pancia
vuota sarebbe deprimente, non trovi?”
Ripensai a tutti problemi che avevo avuto con la mia
prima di trovare un precari equilibrio che ci permettesse di
sopravvivere senza
ferirci e annuii.
Oltre a noi c’erano un gruppo di universitari che faceva
baldoria per aver superato brillantemente un progetto – lo
urlavano a gran voce
– e quattro impiegati con il viso arrossato dal
sakè che festeggiavano la
promozione a un livello più alto. Il chiosco era allegro,
insomma, e non valeva
certo la pena di abbassare l’umore, perciò sorrisi.
“Sì, hai ragione.
Sono tutti allegri qui e noi possiamo essere due
ragazzini nottambuli.”
Lui annuì a sua volta.
Arrivarono i nostri ramen, avevano proprio l’aria
appetitosa che mi ricordavo.
“Buon appetito!”
Esclamai leggera, Shin mi fece eco ed iniziammo a
mangiare.
Sì, era proprio buono e l’atmosfera positiva lo
faceva
sembrare persino migliore,
Di che cosa potevo lamentarmi?
Stavo mangiando del buon cibo in compagnia di un bel
ragazzo che sembrava interessato a me.
Se escludevo chi fossimo lo scenario era roseo e
promettente come quello di un manga romantico, ma non potevo, un tarlo
ostinato
si era insinuato in me. Da quando avevo scoperto che Nana era mia
sorella,
avevo iniziato a paragonarmi a lei e a mamma in termini di bellezza e
perdevo
sempre. Tutto quello che vedevo era una banale ragazza dagli occhi e
dai
capelli castani che, tra l’altro, non stavamo mai a posto.
Mi intristii all’improvviso, come se mi avessero buttato
addosso un secchio di acqua gelida, lui era perfetto: lineamenti fini e
leggermente stranieri, grandi e penetrati occhi scuri, capelli azzurri
spettinati ad arte.
“Che succede? Il tuo ramen non è buono?”
Aveva anche delle buone doti di osservazione se si era
accorto che avevo smesso di mangiare nonostante fossi affamata.
“Il mio ramen va benissimo, è ottimo.”
“Cosa c’è che non va?”
“Perché dovrebbe esserci qualcosa che non
va?”
Cercai di dribblare sorridendo.
“Sei una pessima bugiarda, Misato.”
Io arrossii.
“Il fatto è che non capisco perché tu
voglia uscire con
me, non sono niente di speciale, sono la classica ragazza della porta
accanto
se togli il colore dei capelli e i vestiti che poi porto
perché ammiro mia
sorella.
È perché somiglio a Nana?”
“Senti, è innegabile che tu somigli a Nana, me ne
sono
accorto fin dal meet and greet, ma non è per questo.
Nana non mi ha mai attratto sessualmente.”
“E allora perché?”
“Perché sei bella, spiritosa, di buon carattere e
non mi
tratti in modo diverso perché sono famoso.
Tu pensi che la normalità sia noiosa o simbolo di
banalità, ma io ho visto abbastanza cose folli e anormali da
averne abbastanza.
Voglio un’amica all’incirca della mia
età e lo stesso vale per una ragazza.
Sono stanco di donne mature e di persone eccessivamente
problematiche.
Nelle donne che mi sono scopato cercavo mia madre, ma ho
scoperto che lo facevo in modo sbagliato, che non era affetto quello,
che
l’affetto che ricevo da Hachi è quello giusto.
Penso a lei come a una madre,
anche se abbiamo solo cinque anni di differenza. E la complicata storia
tra
Takumi e Reira mi ha insegnato a non infilarmi in rapporti in cui sono
la
seconda scelta.”
“Ma io…”
“Tu avevi una cotta per tuo qualcuno di intoccabile, ma ti
è passata, no?”
Mi sorrise e spinse leggermente l’indice sulla mia fronte,
facendomi sorridere
a mia volta, con un solo gesto aveva alzato il velo di paranoia che
minacciava
di soffocarmi. Forse potevamo avere un futuro se solo ci avessimo
creduto.
“Sì, mi è passata. È solo
che è tutto strano.”
Lui rise, per lui la nostra situazione doveva essere la cosa
più vicina alla
normalità che avesse mai sperimentato in vita sua.
Arrivarono anche gli spiedini di pollo e li mangiammo in
silenzio, ma era uno di quei silenzi confortevoli che si creano tra
persone che
si conoscono.
“Sai, credo sia strano perché non hai avuto amici
maschi
o un ragazzo, ma non è poi così strano.”
“Sei il mio datore di lavoro.”
Lui rise di gusto.
“No, non sono io il tuo datore di lavoro. È la
Shikai
Corporation, io sono solo un collega.”
“Giusto.”
“Ti va di provare un po’ di birra?”
“La prossima volta, adesso devo andare a studiare. Domano ho
una verifica di
matematica e non posso prendere un voto basso.”
Lui alzò un sopracciglio.
“Secchiona?”
Io scossi la testa.
“Punto a vincere una borsa di studio, ecco perché
devo
prendere voti alti.”
Sbadigliai sonoramente.
“È stancante, ma è il prezzo della mia
libertà e io lo
pago volentieri.”
“Ti capisco.”
Ordinammo dolce e caffè e dopo aver chiacchierato ancora
per qualche minuto ce ne andammo.
Mi accesi una sigaretta e lui fece lo stesso.
“Dove abiti? Ti accompagno.”
“Ma non devi disturbarti! Te l’ho detto che
è qui vicino.”
Dissi un po’ a disagio.
“Non lascio andare una ragazza da sola nella grande
città, dai, ti accompagno.”
Non avevo vissuto in paesini, sia Osaka che Okayama erano abbastanza
grandi, ma
non erano nulla se paragonati a Tokyo.
“Ok, hai vinto.”
Ci incamminammo verso il mio appartamento.
“Qual è il tuo membro preferito dei
Blast?”
“Nana.”
Lui sorrise.
“Se ti chiedessi un appuntamento usciresti con me?”
“Ti direi che prima vorrei frequentarti un altro
po’ come amico e poi farei le
mie valutazioni. So benissimo di essere una provincialotta nella grande
città ,
con pochissima esperienza per di più. Una preda
facile.”
“Non ti ricordavo così nel meet and
greet.”
“Beh, quella era un’occasione speciale. Ho imparato
a mie spese che devo
proteggere me stessa, visto che nessun altro può farlo. Devo
essere il mio
eroe.”
“Spero che un giorno accetterai un po’ di
auto.”
“Un po’ di mutuo soccorso non sarebbe una cattiva
idea.”
Sorrisi, lui mi sorrise di rimando.
“Mi hai tolto le parole di bocca, proviamo a sopravvivere
insieme a questo manicomio.”
“Ci sto.”
Lui mi tese una mano e mi fece l’occhiolino, io la strinsi e
suggellammo il
patto.
Avevamo entrambi bisogno di qualcuno e tra noi c’era una
buona chimica, poteva funzionare, potevamo anche diventare
più che amici e non
mi sarebbe dispiaciuto. Per la prima vota percepii che andare a Tokyo
non era
solo una fuga, ma poteva anche essere un’occasione per avere
nuove esperienze.
Adesso camminavamo in silenzio, di nuovo non era
imbarazzato o altro, era solo silenzio.
Arrivammo davanti al condominio dove abitavo, Shin lo
squadrò un attimo.
“Pieno di studenti, impiegati e poche famiglie,
giusto?”
“Più o meno. La tizia sotto di me ha famiglia e mi
sta
triturando le ovaie da quando sono qui per via dei miei orari e mi
limito a
muovermi il più delicatamente possibile. Se dovessi
ascoltare della musica
credo scatenerebbe una guerra.”
“I vicini rompiscatole ci sono ovunque.
Beh, buonanotte.”
Mi diede un bacio sulla fronte e mi lasciò lì, io
ero
come congelata.
Il punto in cui mi aveva baciato era caldo e sembrava che
tutti i nervi del mio corpo fossero convenuti in quel punto per
descrivermi le
sensazioni.
Era stato meglio di qualsiasi contatto che avessi avuto
con ogni essere umano della mia vita, persino Takahiro, il che mi diede
la
conferma definitiva che quella bolla di sentimenti che provavo era
scoppiata.
Adesso era davvero solo mio fratello.
Entrai nel condominio e salii le scale a piedi fino ad
arrivare al mio appartamento.
Aprii la porta e mi lasciai cadere sul letto con un
sospiro come ogni sera, questa volta era un sospiro soddisfatto,
però.
Ero felice per la prima volta da tanto tempo ed era
bellissimo.
Era come starsene immersi nell’acqua termale calda con la
neve tutt’attorno.
Avrei voluto che durasse per sempre, ma era più
realistico sperare che ci sarebbero stati in futuro altri momenti del
genere.
Mi feci la doccia e mi misi a studiare e poi a letto.
Sorridevo ancora e per la prima volta mi sembrava che il
sorriso fosse l’espressione giusta per la mia faccia.
Risi all’idea, ma non smisi di sorridere.
Adesso avevo un motivo serio per farlo.
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassettesimo ***
Capitolo
diciassettesimo
Sai, Nana…
Avevo sempre desiderato
dei figli, ora che ne avevo due
non ce la
facevo. Il blocco che
avevo avuto nei confronti di
Satsuki si era sciolto,
ma quello nei confronti
di Ren era più forte che mai e non sapevo
come aggirarlo. Lui poi
piangeva sempre e Takumi non c’era
mai.
Stavo per scoppiare.
Erano passate due settimane da
quando Reira aveva
visitato suo figlio e le cose erano persino peggiorate.
Mi era passato l’appetito ed ero dimagrita di botto, la
mia faccia era segnata da occhiaie e borse perenni, senza contare il
colorito
pallido e malsano. Avevo vissuto gli ultimi mesi della mia vita tra
cambi di
pannolini, allattamenti, ninne nanne e tutto quello che riguardava
l’essere
madre. Ora sentivo Satsuki come mia figlia, il problema era ancora Ren.
Mi sforzavo di vederlo come il figlio di Shin –
cioè come
qualcuno da amare – ma il trucco non mi riusciva, la maggior
parte del tempo lo
percepivo come un estraneo portato in casa mia al solo scopo di farmi
andare
fuori di testa e il fatto che con Reira si fosse calmato non mi aiutava
affatto.
Era come se quel mocciosetto sapesse a istinto chi fosse
la sua vera madre e a chi chiedere affetto, da me voleva solo cibo.
Satsuki aveva iniziato da poco con la pappette, quindi il
mio latte stava diminuendo, ma Ren non sembrava accorgersene. Voleva
latte di
continuo, dormiva poco e piangeva molto, non sapevo più cosa
fare e non potevo
contare su nessuno: Takumi continuava a trascorrere molto tempo con
Reira.
Ero sul punto di scoppiare e fu così che mi trovò
Shin
una volta, sdraiata per terra che piangevo con le mani sulle orecchie
per
ignorare il pianto del bambino.
La vista sembrò sconvolgerlo, rimase paralizzato,
guardando alternativamente me e il piccoletto, alla fine si diresse
alla culla
e calmò suo figlio in qualche modo, poi venne da me. Con
gentilezza mi aiutò ad
alzarmi e mi fece adagiare sul divano, mi lasciò piangere
per un altro po’ e
poi mi asciugò le lacrime con il suo sorriso triste. Non
volevo gettare i miei
problemi sulle sue spalle, ma sapevo che non ce l‘avrei fatta
a trattenermi, un
argine si era rotto in me.
“Shin, non ce la faccio!”
Esclamai tra i singhiozzi.
“Io ci provo ad amare Ren, ma non ci riesco. Non ci
riesco.
Sono una donna orribile.”
“Mi dispiace di causarti così tanti
problemi.”
Spalancai gli occhi e lo guardai.
“Tu sai che…?”
“Ren è mio figlio? Sì.
Ho fatto un po’ di conti e il fatto che mi somigli me
l’ha reso chiaro.
Grazie per prendertene cura, ma Takumi dov’è in
tutto
questo?”
“Dove è da sempre: da Reira.”
Borbottai scontenta, lui strinse le mani.
“Va tutto bene, Hachi.”
Disse piano, poi estrasse il suo cellulare.
“Ciao, dove sei?”
Il tono era poco amichevole.
“Lo so che sei a Tokyo, Reira mi ha scritto ieri.
Beh, vieni a casa tua, ammesso che ti ricordi dove sia.”
Concluse brusco.
“Chi hai chiamato?”
Chiesi impaurita, anche se una parte di me aveva già
intuito tutto.
“Takumi, deve rendersi conto delle sue
responsabilità.
Ha degli obblighi anche verso di te, non solo verso
Reira.”
Io sbarrai gli occhi, tra Shin e mio marito non scorreva buon sangue e
sperai
che non degenerasse tutto in una rissa.
“Hai paura, Hachi?”
“Sì.”
“Non devi. Ti ho già detto che andrà
tutto bene, non c’è ragione di averne.”
Il suo tono adesso era calmo e gentile, ma io non mi
tranquillizzai.
Avrei recuperato il pieno controllo di me solo quando
quella storia sarebbe finita senza vittime.
Mezz’ora dopo la porta della casa si aprì, Takumi
entrò
con un’espressione seccata e delle brutte occhiaie.
“Allora, perché mi hai chiamato, Shin?”
“Per Hachi. Guardala.”
Mio marito mi rivolse uno sguardo inespressivo.
“Non ce la fa più a badare a due bambini da sola,
tu dove
sei?
Perché sei sempre da Reira? Non sai di avere una
moglie?”
“Non ti impicciare in cose che non ti riguardano, ragazzino.
Rispose secco Takumi.
“Mi riguardano visto che le hai accollato in pieno la
responsabilità di mio figlio!”
Gli occhi di Shin mandavano lampi, l’altro invece
scoppiò a ridere.
“Ah, lo sai! Reira non sa stare zitta.
Parli di responsabilità, allora perché non prendi
il
piccolo bastardo e lo cresci tu visto che sei suo padre?
Tu e la sorellina di Nana potreste essere dei buoni
genitori.”
Shin si irrigidì e strinse i pugni.
“Come sai di me e Misato?”
“Vi hanno visti insieme, ti devo fare i miei complimenti,
sai?
Questa volta hai dimostrato buon senso, ti sei scelto una
ragazza della tua età almeno, carina, ma senza
quell’aria da psicopatica di
Nana.”
Il mio amico strinse i pugni ancora di più, aveva
l’aria di voler attaccare da
un momento all’altro.
“Ma non divaghiamo, perché non prendi Ren e lo
cresci tu?”
Il silenzio si allargò come una macchia tra di loro.
“Perché non puoi. Sei solo un ragazzino senza arte
né
parte, non hai il diploma né un lavoro stabile, ti puoi
mantenere a malapena. E
sei costantemente a rischio, un passo falso e sei di nuovo nel giro
della
prostituzione.”
Gli occhi del mio figliolo adottivo si strinsero fino quasi a ridursi a
due
linee dure e ostili.
“Non mi prendo cura di lui perché tu e Reira mi
avete
tagliato fuori, come sempre d’altronde. Insieme avete deciso
che tu l’avresti riconosciuto
e cresciuto. Beh, vedi di farlo!
Smettila di scappare dalle tue responsabilità e di
lasciare Hachi da sola!”
Dopo quelle parole afferrò il suo giubbotto di pelle e corse
fuori da casa mia,
aveva l’aria di uno che era sull’orlo di dare matto
e picchiare il primo essere
che fosse stato sgarbato con lui.
L'atteggiamento da padrone del mondo di Takumi, quello che
aveva sempre avuto e che mi aveva affascinato ai primi tempi, mi fece
perdere
le staffe.
Senza dire nulla lo schiaffeggiai così forte che la sua
testa si voltò di lato.
“Cosa ti prende?”
Mi chiese con il suo solito tono arrogante.
“C’è che quello che ha detto Shin
è vero! Smettila di
scappare dalle tue responsabilità, smettila di darle in
carico a me!
Sei tu che hai riconosciuto Ren come tuo figlio, non io.
Io… io sono stanca di questa situazione! Non è
facile
badare a Satsuki e con Ren è anche peggio e tu non ci sei
mai, stronzo!
Tu sei sempre da quella troia che ti sbava dietro da una vita,
perché non fai
l’uomo per una volta?
Mollami, prendi Ren e vattene con lei da qualche parte a
prenderti cura della tua vera famiglia, io per te sono una specie di
serva, un
cagnolino fedele da scopare ogni tanto!
Sai, che c’è? Mi sono rotta i coglioni!”
Lui mi mollò un ceffone che mi mandò a fuoco la
guancia, io la toccai per
qualche secondo e poi cominciai a tempestargli il petto di pugni e
insultandolo
come mai avevo fatto.
Gli rinfacciai tutti i suoi sbagli – quando mi aveva
portato a letto per divertimento, poi per ripicca verso Nobu, quando mi
aveva scopato
contro la mia volontà solo per ferire Nana che ci avrebbe
sentito, il suo
passare sempre più tempo con Reira, la gravidanza, Ren
– e lui mi urlò che la
puttana ero io.
Ero io ad avere aperto le gambe alla rockstar.
Gli rifilai un altro ceffone, questa volta non disse
nulla.
Si limitò a girare i tacchi e a uscire dalla porta della
villa.
Era quello che gli riusciva meglio.
Il giorno dopo mi svegliai al
pianto di Ren, gemendo
disperata mi tirai il cuscino sul volto.
Dopo qualche minuto dovetti cedere e mi alzai, guardai il
calendario e trasalii, era il 20 novembre, di lì a dieci
giorni sarebbe stato
il mio ventiduesimo compleanno.
Intanto che allattavo il bambino fui presa da una
profonda tristezza, l’anno prima l’avevo celebrato
con Nana e tutti i miei
amici – tranne Nobu, per ovvi motivi – e
quest’anno?
Probabilmente a causa dei bambini sarebbe passato in
secondo piano, credo fosse quello il piano di Takumi, qualcosa che seguiva uno schema
più grande:
allontanarmi da tutti i miei affetti per avere il pieno controllo della
mia
vita e modellarla a suo piacimento.
Beh, non glielo avrei lasciato fare, mi ero lasciata
calpestare come uno zerbino abbastanza!
Non sapevo da dove venisse quella rabbia e quella voglia di ribellione
– ma
probabilmente da tutti gli eventi che erano accaduti da quando mi ero
trasferita a Tokyo, con la perdita di Nana come catalizzatore
– ma mi ci
aggrappai con tutte le mie forze. Era quello che mi permetteva di
esistere
ancora come Nana Komatsu e non solo e unicamente come Nana Ichinose, la
moglie
devota di un uomo spietato.
Stasera, mi dissi, chiamerò Takumi e gli dirò che
voglio
festeggiare il mio compleanno nell’appartamento 707 con gli
altri. Non avrei
ceduto e avrei fatto quella festa a ogni costo.
Finalmente Ren si calmò, diedi da mangiare a Satsuki e
scrissi a Shin, scusandomi per la stronzaggine di mio marito e
chiedendogli
come stava.
La risposta arrivò poco dopo mentre ero immersa nei miei
tentativi di imparare l’arte della vestizione – un
lato positivo di vivere con
quello stronzo era che aveva assunto una cameriere che mi sollevava
dall’obbligo delle faccende domestiche –
e lo lessi subito.
“Sto bene,
mamma.
Sono al lavoro, stanotte
ero da Misato, quella vera.
Non ti devi preoccupare
per me. Tu stai bene, piuttosto?”
Misato quella vera? Si riferiva alla sorellina di Nana?
“Sì,
sto bene. Io e Takumi abbiamo litigato.
Gli ho dato un ceffone
per la prima volta, è stato
liberatorio.
Vorrei festeggiare il
mio compleanno come l’anno scorso,
spero che non rompa troppo.
Tu ti riferisci a
Misato, la sorella di Nana? Da quando
uscite insieme?
Perché non me
l’hai detto?”
La risposta arrivò poco dopo.
“Se riesci a
mettere Takumi davanti alle sue
responsabilità ti darà un giorno di
libertà, credo che sappia che ti ha
rovinato la vita. Sì, la sorellina di Nana. Esco con lei
più o meno.
Ci siamo visti un paio
di volte, ma solo come amici. Non
te l’ho detto perché penso di essermi innamorato
per la prima volta e volevo
avere un po’ di tempo per pensarci e poi lei non lo sa. Avevo
anche paura che reagissi male
:P”
“Non sono una
madre gelosa! Ma la voglio conoscere e se ti dovesse trattare
male la picchierò con un mestolo.”
“Hachi, grazie
di essere nella mia vita.
Buona fortuna.”
Io sorrisi alla sua risposta, mi aveva scaldato il cuore con pochissime
parole.
Ripresi il mio lavoro, un’occhiata al manuale e una al
chimono che avevo cucito con Miu, fino a mezzogiorno. La cameriera mi
chiamò
per il pranzo, io mangiai e nutrii anche i bambini.
Mi sarebbe piaciuto uscire e incontrare Takumi in un bar,
ma a chi avrei affidato Ren e Satsuki?
Sbuffando presi il mio cellulare e chiamai mio marito,
che mi rispose dopo non so quanti squilli.
“Cosa vuoi?”
Mi chiese sgarbato.
“Parlarti. Vieni a casa.”
Io ero altrettanto secca.
“È urgente?”
“Dal mio punto di vista, sì.”
“Uno dei bambini sta male?”
“Devono per forza centrare i bambini? Ti devo solo parlare o
devo prendere un
appuntamento con la tua segretaria?”
“Va bene, arrivo.”
Chiuse la chiamata e io sbuffai di nuovo. Sapevo che sarebbe stata
dura, ma non
così dura.
Un’ora dopo entrò dalla porta,
controllò i bambini e poi
me alla ricerca di qualcosa, chissà cosa poi…
“I bambini stanno bene e tu stai bene, perché mi
hai
fatto precipitare qui?”
“Tu dovresti stare qui o al lavoro, non da Reira!
Lo sai che è venuta a vedere suo figlio?”
Mi rivolse uno sguardo vacuo.
“Non importa, non ti ho chiamato per discutere di questo.
Tra dieci giorni è il mio compleanno, voglio festeggiarlo
con i miei amici, uscire quindi da qui per una sera e andare
all’appartamento
707.”
Lo sguardo divenne più vacuo.
“E chi baderà ai bambini?”
“Tu. Sei il loro padre.”
“Non ho tempo per queste cazzate, devi proprio festeggiarlo?
Che senso ha ricordarsi che diventi più vecchia di un
anno?”
Io strinsi i pugni.
“Perché voglio vedere i miei amici per una sera,
voglio
sentirmi una ragazza della mia età, non mi sembra una
richiesta eccessiva.”
“Sei la solita ragazzina infantile, sei una madre, cazzo!
Questo dovrebbe
venire prima di tutto!”
“E tu sei un padre, dovrebbe venire prima di Reira, ma
per te non è così!
Sei sempre da lei e mi lasci da sola, quanto sei padre?”
“È la madre che si deve prendere cura dei
bambini!”
I suoi occhi mandavano fulmini.
“Questa è una concezione antiquata e non ho
intenzione di
seguirla!”
Mi diede uno schiaffo molto violento, io lo guardai piena
d’odio.
“Ascoltami bene, Takumi Ichinose. Se tu non mi concedi la
serata libera io prendo Satsuki e me ne torno dai miei. Poi divorzio,
ti spenno
e ti lascio da solo a crescere il tuo piccolo bastardo.
E lo farò, perché sono stanca morta di
te!”
La mia minaccia sembro andare a segno perché lui parve
afflosciarsi su se stesso.
“Perché cazzo mi hai sposato?”
“Dio! Perché tu mi offrivi più soldi e
sicurezza di Nobu, quando mai ci siamo
amati?
Io ero solo infatuata di te e anche adesso, quando dico a
tutti di amarti, mento per il bene dei bambini, perché
voglio che – nonostante
i nostri errori – abbiano una famiglia il più
serena possibile.
Cosa credevi? Che ti amassi davvero dopo tutto quello che
mi hai fatto?
Non sono tonta come pensi.”
Sbottai, la verità finalmente fuori dal mio petto e dal mio
cuore.
Lui mi guardò sorpreso, non era la risposta che si
aspettava probabilmente, io lo avevo abituato alla docilità
non a risposte
sincere e taglienti.
Fare da mamma mi aveva cambiato, mi aveva fatto capire
che non potevo e non dovevo sempre abbassare la testa e dire di
sì per paura di
rimanere da sola e non saper gestire la situazione. Questi mesi mi
avevano
dimostrato che ero in grado di gestire una situazione senza nessun
aiuto.
In passato mi ero appoggiata a Junko, a Shoji, a Nana, a
Nobu e infine a Takumi. Non avevo dimostrato di essere autonoma, ora
invece
sapevo di poterlo essere. Sapevo che il giorno in cui Nana sarebbe
tornata
nella mia vita e i bambini sarebbero stati abbastanza grandi da
sopportare una
separazione, la mia strada si sarebbe separata da quella di Takumi per
ricongiungersi a quella di Nobu. O almeno lo speravo.
“Quindi non mi ami?”
“No, non ti amo.”
“Nemmeno io ti ho mai amata, sei stata una scommessa che ho
vinto con Nobu
Terashima.”
Io scossi le spalle.
“Sì, immaginavo fosse qualcosa del genere.
Stai cercando di ferire una persona che ora non
c’è più,
dimmi qualcosa che possa davvero ferirmi ora.”
Allargai le braccia come a indicare la casa piena di
giocattoli e altre cose per bambini.
“Prova a dirmi qualcosa che mi faccia più male di
questo.
Hai distrutto il mio sogno di diventare madre e di avere
una famiglia, dimmi qualcosa che faccia più male.”
Takumi rimase in silenzio.
“Va bene, festeggia il tuo compleanno con i tuoi
amici.”
“Bene, sono felice che abbiamo raggiunto un
accordo.”
Lui mi guardò di nuovo stranito, non riconosceva la persona
che aveva davanti.
Aveva ragione, ma questi mesi mi avevano insegnato molto
su di me e sulla vita.
Non potevo tornare indietro, non sarei mai tornata a
essere Hachi, ossia la ragazza spensierata, rumorosa e ingenua.
Quell’identità
era andata in pezzi, sparita insieme a Nana.
Ero diventata più forte e la prova era Takumi stesso,
forse faceva un countdown mentale su quanto sarebbe durata la nostra
relazione.
“Tu ami Terashima, vero?”
“Takumi, ascoltami.”
Sbuffo.
“Il tempo in cui tu te la contendevi a lui è
finito, davvero
finito.
Io so chi amo adesso, ma so anche che non posso stare con
lui. Sarà un matrimonio di facciata, ma le cose non
cambieranno perché lo è già
adesso. Tu sei sempre da Reira, nel tuo distortissimo modo è
l’unica donna che
tu abbia mai amato e prima lo accetterai meglio
sarà. Lei ti ama e non mollerà
fino a quando non ti avrà avuto. È testarda e tu
le hai costruito un castello con
i Trapnest per farla felice e lei lo sa.”
“Credo sia meglio che me ne vada, tu chiama i
Blast.”
Tagliò corto lui, la verità
era una
medicina amara e a nessuno faceva piacere essere forzato ad ingoiarla.
Strinsi il mio cellulare e poi lo aprii, non sapendo chi
chiamare per primo, le mie dita si mossero in automatico e prima che
potessi
fermarle o pensare cosa dire avevano composto il numero di Nobu.
Ora squillava a vuoto e il mio cuore batteva così forte
forse stavo per avere in infarto o qualcosa del genere.
“Pronto?”
La voce di Nobu mi diede un brivido e non riuscii a
parlare.
“Hachi?”
“Sì, sono io, Nobu.”
Dissi piano.
“Ehi, ciao. Come mai questa chiamata?”
Il suo tono forzatamente allegro mi fece male, tutte le
persone a cui tenevo finivano per soffrire.
Nana, lo hai pensato anche tu questo?
È per questo che te ne sei andata?
“Tra una decina di giorni è il mio compleanno,
vorrei
festeggiarlo con le persone a cui tengo nell’appartamento 707
come ai vecchi
tempi. Mi chiedevo se tu potessi venire.
So che il preavviso è poco, ma mi farebbe piacere che tu
venissi.”
“Certo, conta pure su di me, verrò molto
volentieri.
Mi manca Tokyo e… mi manchi tu.”
“Anche tu mi manchi, sempre.”
“Che sfigati che siamo, ne Hachi?”
“Sì, terribilmente sfigati.
Mi veniva di piangere e non riuscivo a continuare il discorso anche se
avrei
voluto dirgli mille cose.
“Nobu, parliamone di persona. Al telefono non ce la
faccio.”
“Nemmeno io. Vorrei essere lì con te.”
“Che tu ci creda o no, anche io voglio la stessa
cosa.”
“Arrivederci, Hachi. Ci vediamo all’appartamento
707 come sempre.”
“Sì. Ciao, Nobu.”
Chiusi la chiamata e mi accorsi che le mie guance erano bagnato di
lacrime,
avevo pianto e non me ne ero nemmeno accorta. Non mi ero trattenuta
alla fine.
La telefonata più importante l’avevo fatta, ora
toccava
agli altri.
Ren scoppiò a piangere, lo calmai e presi di nuovo in
mano il cellulare.
Chiamai Junko, Kyosoke, Yasu, Miu, Shin e Misato Tsuzuki.
Accettarono tutti di buon umore.
“Mamma, posso portare una persona?”
Mi chiese Shin, immaginai che fosse Misato.
“Sì, certo. Puoi portare chi vuoi.”
“Grazie, mamma.”
“Di niente. Mi dispiace ancora per come sia finita
l’altra volta.”
Mi riferivo al litigio tra lui e Takumi in cui erano volate parole
grosse e
accuse reciproche, mi sembrò quasi di vederlo mentre
scuoteva le spalle.
“Tutto a posto, ma’.”
“Shin, lo sa che puoi parlare con me se
c’è qualcosa che ti infastidisce o
ferisce.”
“È tutto a posto. Takumi ha ragione, io a mio
figlio non
posso offrire proprio nulla.”
“Ma puoi amarlo.”
“Non ne sono sicuro. Guardare lui mi ricorderebbe Reira in
continuazione e sai
che tra noi non può più esserci un futuro. Mi
dispiace solo che sia tu a pagare
il prezzo dei miei errori.”
“Shin.”
“Va tutto bene, adesso devo andare.”
Chiuse la chiamata in tono triste.
Era evidente che soffriva, più di quello che avrebbe
ammesso o dato a vedere, ma non mi avrebbe permesso di aiutarlo su quel
fronte.
Era un dolore intimo e personale che non voleva condividere, un
qualcosa che
affondava le sue radici nel suo passato da bambino abbandonato dalla
madre.
Non era giusto che si tenesse tutto dentro, sperai che ne
parlasse almeno con Misato, da solo non ce l’avrebbe fatta a
sopportare un tale
peso.
È così che va quando un genitore ti abbandona,
Nana?
Tieni per te il dolore? Lo stringi come se fosse un
segreto prezioso finché non diventa parte della tua stessa
anima?
È così che ti sei sentita?
È per questo che sei scappata?
La morte di Ren era un peso troppo grande e avevi paura a
condividerlo con me o con gli altri?
Ma è a questo che servono gli amici, ti aiutano nei
momenti bui, tu con me ci hai provato e non me lo scordo.
Pensai questo, schegge disarticolate che non riuscivano a
formare un ragionamento coerente, cercavo parallelismi con tutto quello
che mi
accadeva per cercare di capire la sua fuga. Era un atteggiamento
stupido – ogni
essere umano è diverso dall’altro – ma
non potevo farne a meno. La sua
scomparsa era una caverna buia e ogni luce che illuminasse anche solo
un
pochino di quell’abisso era benvenuta.
Tutto quello che mi poteva aiutare a capire era
benvenuto.
Mi sentivo stanca e svuotata, ma soprattutto lasciata
indietro.
Non era il fatto che tutti proseguissero la loro vita e
io fossi bloccata tra pannolini e biberon, era perché Nana
non si era confidata con me dopo tutte le conversazioni nella vasca con
i piedi di leone.
Mi aveva tagliato fuori, mi aveva lasciata a brancolare.
Mi aveva lasciata sola.
Mi aveva abbandonata come sua madre aveva fatto con lei.
Mi chiesi se se ne rendesse almeno conto, ma la mia mente
aveva paura della risposta.
Quanto avrei voluto parlare con lei anche solo per un
secondo e dissipare i miei dubbi, ma lei era in un posto che io non
potevo
raggiungere.
Per il momento.
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Capitolo 18 *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo
diciottesimo
Ci sono dei momenti in cui nella
tua vita vedi all’opera
un disegno più grande.
Alcuni lo chiamano
destino, io non saprei come chiamarlo,
so solo che in
certi momenti
è rassicurante. Ti fa sentire meglio sapere
che sei attirata
verso certe persone da
qualcosa di più del mero caso.
-Misato Uehara
Era sabato, un freddo sabato di
novembre, pioveva forte
come se le forze della natura stessero tentando di annegare Tokyo.
Io mi strinsi nel giubbotto di pelle e mi toccai i
capelli di un verde brillante, l’allieva del corso di
parrucchiera avevano deciso
di provare quel colore e non mi stava male. In ogni caso mi piaceva
cambiare
colore ogni due settimane, mi dava un senso di libertà.
Rabbrividii, la cosa più importante era tornare nel mio
appartamento, lì avrei potuto continuare a riflettere al
caldo e all’asciutto.
L’ombrello da borsetta era troppo piccolo e non mi riparava
bene.
Il mio cuore saltò un battito e poi si mise a correre al
galoppo, una figura era semisdraiata all’ingresso del mio
condominio. Era un innocuo
barbone? Oppure un ladro o peggio?
Non sapevo cosa fare, voltarmi e scappare oppure
affrontare il pericolo?
Presi un respiro profondo e continuai a camminare, tutti
i nervi all’erta e pronta a reagire a un eventuale attacco.
Arrivata vicino
alla figura, il mio cuore saltò di nuovo un battito, tirai
un sospiro di
sollievo e infine venni assalita dalla preoccupazione.
Quello che giaceva sui gradini del condominio era Shin,
doveva essere lì da ore perché era bagnato
fradicio, lo toccai: era anche
parecchio freddo. Lo scossi più forte che potevo fino a che
non si svegliò, i
suoi occhi misero lentamente a fuoco la scena.
“Misato…”
Sussurrò, poi mi accarezzò piano una guancia, io
presi la sua mano tra le mie.
“Ehy.”
Tentai di sorridere.
“Da quanto sei qui?”
“Non lo so. Tanto.”
“Ce la fai ad alzarti? Ti porto nel mio appartamento,
lì
potrai fare un bagno caldo e dovrei avere uno yukata per te.”
“Yukata? Non è da ragazze?”
“È unisex. Ce la fai ad alzarti.”
Lui sembrò dare una controllatina al suo corpo e poi
annuì.
Con un po’ di fatica e aiuto da parte mia si tirò
in
piedi, io gli passai un braccio lungo i fianchi e insieme entrammo nel
condominio. Ero preoccupata per lui, alternava momenti in cui era del
tutto
assente ad altri in cui in il suo sguardo esprimeva un dolore immenso,
quello
di un uomo che brucia impossibilitato a spegnere o provare a salvarsi
dall’incendio.
Era successo qualcosa, ma che cosa?
Arrivammo al mio appartamento e lo lasciai per andare a
prendere un asciugamano, rimase in piedi per fortuna. In bagno
acchiappai al
volo uno fresco di bucato e tornai da Shin, lo avvolsi con cura e poi
gli
sorrisi.
“Adesso ti preparo un bagno caldo o ti prenderai una
polmonite.
Andrà tutto bene.”
L’ultima frase non aveva senso se collegata alle altre, ma
parve rianimarlo.
“Misato?”
“Sì?”
“Abbracciami, per favore.”
Feci quello che mi disse, tremava e io morivo dalla voglia di
chiedergli cosa
diavolo fosse successo di così terribile, ma sapevo che ora
come ora non me lo
avrebbe detto.
Mi staccai, lo presi per mano e lo condussi in bagno, lui
si sedette sul water dopo aver abbassato la tavoletta e mi
guardò riempire la
vasca di acqua calda.
“Qui c’è il sapone, qui lo shampoo e
puoi usare quella
salvietta per asciugarti.”
Lo abbracciai di nuovo ed uscii.
Ero molto stanca, mi cambiai e mi stesi qualche secondo
sul letto, dal bagno venivano i rumori di qualcuno che si spogliava.
Sospirando
mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti lo yukata che mio padre si
era
dimenticato qui una volta in cui era venuto a trovarmi con la mamma. Lo
trovai
alla fine, bianco a righe azzurrine ricordava quello delle terme.
Shin a quest’ora doveva essere nella vasca, armandomi di
tutto il mio coraggio bussai alla porta del bagno, mi rispose un fioco
“avanti”.
Dalla vasca sporgeva il torso magro, il resto era coperto
dalla schiuma, per fortuna.
“Ti ho portato uno yukata e della biancheria pulita.
Tutto da uomo, mio padre se l’è dimenticata qui
una volta che è venuto a farmi
visita. Ho lavato tutto, non preoccuparti.”
Lui sorrise debolmente.
“Misato, sono una persona orribile.”
“Non so chi te l’abbia detto, ma tu non sei una
persona orribile.”
Dissi decisa, lui sgranò gli occhi.
Nemmeno io sapevo da dove mi venisse quella certezza dato
che non ci conoscevamo da molo tempo, ma sapevo di essere nel giusto.
Istinto,
immagino.
“Cambierai presto idea dopo quello che ti
dirò.”
Io alzai un sopracciglio.
“Senti, vista l’ora io ceno. Del ramen
preconfezionato ti
va bene?”
“Sì, non ci sono problemi.”
Uscii, non mi sembrava carino trattenermi oltre.
Andai in cucina, presi due confezioni di ramen, misi
l’acqua sul fuoco e preparai la tavola per due.
Perché diavolo Shin doveva essere una persona orribile?
A parte il piccolo incidente al nostro primo incontro lui
con me si era sempre comportato bene, era un ottimo ascoltatore e mi
faceva
ridere. Stavo bene con lui e lui sembrava stare bene con me, chi era
stato?
La porta del bagno si aprì e lui apparve in cucina, stava
molto bene con lo yukata, arrossii come una ragazzina.
“Sembra quello che ti danno alle terme.”
“Sì, lo usano anche nelle terme. È
molto comodo, almeno
io la vedo così.
Tu?”
“È comodo, ma non vedo l’ora che i miei
vestiti siano
asciutti, sono leggermente a disagio.”
“Capisco. Siediti.”
Lo invitai a sedersi al tavolo, lui sorrise.
“Sembrano buoni.”
“Grazie del complimento, ma è solo cibo
precotto.”
“Suona stupido, ma non mi sono ancora abituato alla cucina
giapponese. Quando
sono a casa mangio
cibo precotto
straniero.”
Iniziammo a mangiare in silenzio, il dolore negli occhi di Shin non
dimiuiva.
Dovevo riuscire a farlo parlare, per il suo bene
soprattutto, o quella convinzione avrebbe finito per scavare un buco
dentro di
lui.
Mangiammo un paio di mandarini e un budino, poi – mentre
lui sparecchiava – io controllai lo stato dei suoi vestiti:
ora erano asciutti.
“Shin! I tuoi vestiti sono a posto!”
“Ok. Vado in bagno a cambiarmi.”
Io annuii e lavai i piatti, finito lo trovai raggomitolato sul divano,
io mi
sedetti accanto a lui.
“Cosa è successo?”
“Sono una brutta persona.”
“Perché lo dici? Non è vero!”
Lui sospirò.
“Ho un figlio, Misato. Un figlio di cui non potrò
mai
occuparmi.”
Lo guardai senza capire, un figlio?!
“Reira è rimasta incinta, lo ha scoperto dopo la
morte di
Ren quando è stata ricoverata perché non
mangiava. Solo che invece di venire da
me e parlarne, è corsa da Takumi, come sempre del resto.
Insieme hanno deciso di riconoscerlo come loro, solo che
è Hachi che se ne sta occupando e lei non ce la fa. Non
posso biasimarla – ha
già una bambina di cui prendersi cura – ma sono
arrabbiato, Takumi non la aiuta
minimamente. Oggi io e lui abbiamo litigato e lui mi ha detto che non
ho voce
in capitolo, che non posso offrire nulla a mio figlio ed ha ragione.
Sono una pessima persona, ho abbandonato mio figlio come
mia madre ha fatto con me.”
E così era quello il problema, non conoscevo Takumi, ma
avevo intuito che aveva causato un sacco di problemi a mia sorella e
ora stava
sconvolgendo anche la vita di Shin. Strinsi i pugni e sentii in gola il
sapore
dell’odio, amaro come bile e forte come sakè.
“Non è colpa tua! Tu sei una vittima non meno di
tuo
figlio o di Nana-san.
Tu sei il padre, no? Reira sarebbe dovuta venire da te e
non andare da Takumi. Sono loro ad avere sbagliato, ti hanno tagliato
fuori da
ogni decisione.
Non sei una cattiva persona, Shin. Se Reira ti avesse
detto del bambino non ti saresti tirato indietro, giusto?”
“Sì, non l’avrei fatto.”
“Ecco. Questa è la prova. Non sei una cattiva
persona.
Ma…”
“Ma?”
“Tu ami ancora Reira?”
Lui scosse lentamente la testa.
“Come potrei? Dopo quello che ha fatto è chiaro
che io
non sono quello che ama, lo sapevo fin dall’inizio, ma questa
è la prova del
nove. Non posso stare con una persona che ha costantemente in mente
un’altro.
Non posso.”
Io sorrisi piano.
“Sì, sei proprio una brava persona. Migliore di me
di
sicuro.”
“Perché dici così?”
Io mi raggomitolai su me stessa.
“Ti ho detto che ho amato una persona che non dovevo
amare, ti sei mai chiesto chi fosse?”
“Sì. Era un uomo sposato?”
Io scossi la testa, sarebbe stato tutto molto più semplice
se fosse stato così.
“No. Mi ero innamorata di Takahiro, il mio fratellastro,
il primo figlio di mio padre.”
Lui rimase un attimo in silenzio.
“Shion mi ha detto che è successo
perché era l’unico ad
apprezzarmi delle persone più o meno nella mia
età, ma questo non rende le cose
migliori, no?
Quale persona di buonsenso lo farebbe?
Nessuna.
Forse dei due sono io la peggiore.”
Lui mi strinse la mano e mi abbracciò più stretta
che
poté data la mia posizione.
Il mio cuore saltò un battito, non era scappato e non gli
avevo fatto schifo.
“No, non lo sei e poi ti è passata.
Diciamo che entrambi non siamo esattamente dei santi, ma
questo lo sapevamo già.
Possiamo diventare amici o creare un club delle pessime
decisioni.”
Ridacchiai, con una sola battuta era riuscito a risollevarmi
il morale, lo apprezzai molto, mi scesero un paio di lacrime, lui mi
guardò
senza capire.
“Tutto ok?”
Mi chiese premuroso.
“Sì, tutto ok. Sono solo felice, una persona
normale se
la sarebbe data a gambe levate, tu mi hai addirittura
abbracciato.”
“Ti dispiace?”
“No.”
“Cosa significa?”
“È importante?”
Lui rimase un attimo in silenzio.
“No, per ora no.”
Si stiracchiò.
“Vado a casa, credo sia meglio.”
“Sì. Aspetta un attimo.”
Corsi all’ingresso e presi un ombrello nero.
“Per te, così non ti bagni.”
Ci sorridemmo a vicenda, poi lui lo prese, mise le scarpe e se
andò lasciandomi
felice come non lo ero da tanto tempo.
La mattina dopo il sole splendeva
alto nel cielo, mi
chiesi se Shin fosse sveglio mentre facevo colazione,.
Decisi di mandargli un messaggio per esserne sicura.
“Buongiorno!
Dormito bene?
Ti sei ammalato dopo la
pioggia di ieri?”
Lavai le stoviglie, mi cambiai e presi lo zaino per la
scuola.
Lui aveva risposto.
“Ciao!
Sì. Ho dormito bene, ma sono nervoso.
Stamattina ho un
servizio fotografico, ma torno nel
pomeriggio per il film.
Ho scoperto che devo
proprio recitare per fare i servizi
fotografici, non mi piacciono!
Sto bene, ho vissuto in
Svezia, due gocce d’acqua di
Tokyo non possono farmi nulla.”
Io risi.
“Ok, superuomo
svedese. La piccola donna giapponese va a
scuola XD
Ci vediamo oggi
pomeriggio.”
“Non vedo
l’ora. Il caffè come lo prepari tu non lo
prepara nessuno. ”
Sorrisi e misi il cellulare nella tasca interna del
chiodo di pelle e uscii di casa, a testimoniare la pioggia del giorno
prima
c’erano delle pozzanghere. Io ci saltellai dentro come una
bambina, forte dei
miei anfibi, avevo bisogno di energia positiva perché a
scuola mi consideravano
tutti una raccomandata e quindi mi stavano alla larga. Avrei dovuto
odiare Nana
per essere mia sorella, pur non essendoci mi rendeva la vita difficile,
ma io
ne ero orgogliosa. Il mio cervello funzionava in modo strano.
Arrivai a scuola, varcai il cancello sentendomi pronta
per un altro lungo giorno.
Le lezioni si svolsero al solito ritmo, di solito mi
interessavano un sacco, oggi invece dovetti quasi litigare con il mio
cervello
per costringerlo a prestare attenzione. I miei pensieri continuavano ad
andare
alla sera prima, a quando Shin mi aveva abbracciata e a come ci sarebbe
stato bene
un bacio. La vita però non era un manga e tutti e due
eravamo pieni di casini,
quindi sarebbe passato un po’ prima che ci baciassimo.
-Ma il giorno in cui ci
baceremo sarà memorabile, me lo
sento. Anche se sarebbe meglio che mi concentrassi su mate o stasera
non ci
capirò un cazzo quando dovrò fare gli esercizi.-
Sorrisi lievemente al pensiero, era un vero peccato che
Shin non avesse fatto il liceo o avrebbe potuto darmi una mano con i
compiti.
Arrivò finalmente il momento del pranzo e io scattai via,
verso la metropolitana, verso Shin. Come sempre c’erano delle
malelingue che
sputavano inacidite che lo stage lo avevo ottenuto grazie al fatto che
ero la
sorellina di Nana, ma non mi importava. Non più, ora ero
motivata da altro per
dare il meglio e dimostrare a tutti che si sbagliavano. Lui non lo
sapeva, ma
mi dava molta forza, quasi quasi non ci credevo nemmeno io. Presi la
solita
linea e mangiai il panino mentre osservavo distratta il paesaggio,
c’erano un
sacco di gru: a Tokyo si costruiva ed abbatteva sempre.
Mi stupivo sempre di come fosse diversa dalle città in
cui avevo abitato, Osaka non era un villaggio e nemmeno Okayama, ma lo
sembravano comparate alla capitale.
-Uno come Shin non lo
avrei incontrato a Osaka o a
Okayama, anzi probabilmente mi starei ancora dibattendo se sono pazza o
no e
cercherei di compiacere mio fratello. È un bene che io sia
qui, questa volta
l’istinto di fuga delle Osaki mi ha salvato la vita.
Mi chiedo se anche Nana
si senta così o le manchino i
suoi amici…-
Cercavo di sintonizzarmi sulle stesse onde mentali di mia
sorella per cercare di capire perché se ne fosse andata e
dove, ma finora non
avevo ottenuto grandi risultati. Solo in due occasioni avevo intravisto
la
verità ballare davanti agli occhi, ma quando stavo per
strapparle i veli era
sparita, lasciandomi solo vaghe impressioni che non riuscivo a
collocare.
Io ero scappata perché credevo che nessuno mi avrebbe
capito ed ero anche arrabbiata per il casino che era la mia famiglia
e i
segreti che aveva custodito. Uno dei veli vibrava di emozioni simili,
ma non
riuscivo a capire. Le poche volte che avevo incontrato gli amici di
Nana mi
erano sembrati delle brave persone, incapaci di tradirla o farle del
male. Ma
allora cosa era quella strana sensazione che non se ne andava?
Un tentativo patetico di proiettarmi su Nana, facendole
vivere le mie situazioni, o un indizio valido?
Mi vergognavo di dirlo a Shin, quindi me lo tenevo per
me, probabilmente un giorno avrei avuto in mano tutti gli elementi per
capirlo
e allora avrei parlato. Non aveva senso dire qualcosa che poteva essere
interpretato come offensivo senza avere in mano uno straccio di prova.
Arrivai al mio luogo di lavoro ed entrai, salutai Misato
e poi Shin con un gran sorriso, la mia superiore non sembrò
contrariata. Ci
guardò a lungo e poi fece un cenno impercettibile di
assenso, non so se diretto
a noi o a sé stessa, il cui significato era chiaro: per lei
era ok che noi
avessimo una storia. Ne fui sollevata, la sua approvazione contava
molto per me.
Durante una pausa mi si avvicinò, mi sembrava piccola e
indifesa, data l’espressione timida, ma sapevano tutti che
era una specie di
lady di ferro.
“Ehy, Misato.”
“Ehy!”
Le risposi allegra.
“Hai presente quando hai detto che potevamo essere
amiche?”
“Sì, certo che me lo ricordo.”
“Ti va di prendere un caffè, così mi
racconti di Sh..lui,
se ti va.”
“Certo, mi farebbe piacere.
Misato, stai bene?”
“Mi manca Nana, per anni è stata il centro del mio
mondo. Negli ultimi tempi
non sapevo più se mi interessavo così tanto a lei
e ai Blast perché era la mia
sorellastra o per altro.
Temevo di essermi innamorata di lei.”
“Sorellastra? Innamorata?”
“Sì, io e lei abbiamo probabilmente lo stesso
padre.”
La notizia mi scosse, forse perché ero convinta di essere
l’unica di avere il
privilegio di un legame di sangue con lei.
“Capisco.”
“Fatto sta che adesso mi sento vuota.”
“Ma io non posso prendere il posto di Nana, voglio essere tua
amica, ma…”
Lei sorrise.
“Mi sono espressa male, è Shin quello che rischia
di
finire al posto di Nana, ma non voglio che succeda.
Io voglio dei rapporti normali con la gente, senza niente
di morboso, l’ho capito grazie al fatto che lei se ne
è andata.”
Questa volta fui io a guardarla a lungo, continuava a
sembrare piccola e indifesa, bisognosa di qualcuno che la facesse
ridere.
“Un giorno nella tua vita arriverà qualcuno che
spezzerà
questa specie di incantesimo in cui sei finita, lo so perché
è successo anche a
me. Scrivimi luogo e ora per il caffè.”
Lei mi sorrise grata, io ricambiai.
Stavo imparando alla svelta che ognuno aveva le sue crepe
e che prima o poi emergevano, sebbene ci si sforzasse sempre di
nasconderle
agli occhi impietosi degli altri.
“Come fai a esserne sicura?”
“Di cosa?”
“Che troverò una persona del genere?”
“Quando me ne sono andata da casa mia ero in una situazione
molto simile alla
tua e non sapevo cosa fare, avevo provato a essere gentile con lui per
renderlo
felice e farmi bastare sorrisi e affetto e non aveva funzionato.
Così me ne
sono andata e qui avevo un sacco di cose da fare, il suo fascino su di
me
diminuiva, ma la notte no. Poi ho incontrato Shin ed è come
se l’incantesimo
che mi teneva legata a quella persona fosse stato spezzato. Gli voglio
bene, ma
ora so che è il bene accettabile, quello che provo per Shin
è a un livello
diverso. Le cose possono cambiare e a volte, sorprendentemente, in
meglio.”
Misato non mi sembrava molto convinta, ma non disse nulla e tornammo
tutte e
due al lavoro.
Le ore volarono come sempre, adoravo fare quel lavoro, mi
sembrava di far parte di qualcosa di importante senza la seccatura
della fama.
Speravo che anche l’anno prossimo mi scegliessero per lo
stesso stage, questa
esperienza mi piaceva tanto.
Alla fine del mio orario di lavoro salutai tutti, presi
la giacca e lo zaino e mi diressi verso l’uscita,
preparandomi mentalmente al
lavoro al videonoleggio. Anche quello non era male, ma avevo sempre un
po’
paura nel fare il turno di notte. Poteva entrare un ladro o uno yakuza
oppure
potevo essere aggredita quando riportavo le chiavi al proprietario o
mentre andavo
verso la metro.
Forse avrei dovuto dirlo a Shin, ma non mi andava di
imporgli di farmi da babysitter, dovevo cavarmela da sola.
“Misato!”
Mi sentii chiamare mentre accendevo una sigaretta e notai il bassista
che
correva verso di me.
“Ehy, Shin.”
“Senti, mi ha appena scritto Hachi. Il 30 è il suo
compleanno e vorrebbe
festeggiarlo con noi, ti va di venire?”
“Io? Ma io non faccio parte della vostra cerchia.”
Lo guardai confusa, lui mi sorrise.
“No, ma fai parte della mia e sei l’unica che io
voglia
portare. Ci sarà anche Misato e potrai conoscere gli altri
membri dei Blast.
Potrai anche vedere l’appartamento 707.”
Alzai un sopracciglio, non capivo l’accenno a questo
appartamento.
“È l’appartamento dove Nana e Hachi
hanno vissuto
insieme, dove i Blast per come li conosci tu si sono formati.
È un posto
importante.”
Sorrisi, sentendo un calore al cuore.
“Ok, vengo. E come mi presenterai?”
“Sorpresa!”
Mi rispose lui con un sorriso identico al mio.
“Ora devo rientrare, mi aspettano per lavorare.
Ci vediamo stasera dopo il lavoro, non mi va che tu vada
a casa da sola.”
Arrossii.
“Ma non ti devi disturbare così!”
“Mi piace essere disturbato così.”
Mi scompigliò i capelli e tornò dentro.
Fuori era sera, la luna stava sorgendo in un cielo
trapuntato di stelle; ma nel mio cuore era una calda giornata estiva al
mare,
scandita dal tintinnio lontano di un furin.
-È questo
l’amore? Era così che ti sentivi con Ren, Nana?
Vorrei parlartene, ma tu
non ci sei e se ci fossi
vorresti ascoltare questa estranea?-
Finii la sigaretta e scesi in metropolitana, il treno
arrivò subito e io tirai fuori il secondo bento della
giornata, quello della
cena, gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza, ma mi imposi di
mangiare
tutto.
Arrivai al mio luogo di lavoro, salutai il mio collega
e indossai la casacca del videonoleggio.
Vivere a Tokyo non era facile, consumava tutte le mie
energie tra scuola e lavoro, ma mi sentivo anche viva, padrona del mio
destino.
E adesso c’era Shin, sentivo che tutta la confusione e la
sofferenza che avevo provato stavano per trovare un senso.
Si era alzato il vento e non avevo paura.
Guardai l’orologio dietro al bancone, non vedevo
l’ora
che il turno finisse per poterlo vedere, non era passato molto da
quando c’
eravamo salutati e già mi mancava.
Doveva essere l’amore, quello vero, di cui tutti
parlavano.
A queste condizioni era bello da vivere, faceva piacere
abbandonarvisi.
Finora Tokyo mi aveva portato bene, sperai che
continuasse a farlo e che non mi distruggesse come aveva fatto con
Nana. Dovevo
smetterla di pensare a lei, eravamo sorelle, ma ciò non
significava che quello
che era successo a lei sarebbe successo anche a me.
Eravamo due persone diverse, con diverse personalità e
destino.
Era arrivato il momento di dimostrarlo, soprattutto a me
stessa.
Forza, Misato!
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo diciannovesimo
Sai Nana, penso spesso al mio
ventunesimo compleanno. Mi
ricordo l’appartamento
buio e poi le luci degli
accendini che mi mostravano i
volti delle persone che
amavo, mancava solo Nobu
eppure lo sentivo vicino.
Credo che quella sia
stata l’ultima volta in cui io sono
stata davvero felice.
Il 30 novembre era arrivato, avevo
trascorso tutta la
giornata cucinando la cena e la torta per il mio compleanno. Compivo
ventidue
anni e me ne sentivo addosso sessanta.
Takumi si era occupato dei bambini, lanciandomi ogni
tanto occhiate di traverso, chiaramente per lui stavo perdendo tempo
oppure,
peggio ancora, ne sottraevo a lui. Non mi importava.
Alle sei e mezza chiamai un taxi e infilai dentro il cibo
e me stessa, per l’occasione mi ero messa un abito di Nana:
rosso e pieno di
rouches.
Sapevo che era quello che indossava il giorno in cui Ren
se ne era andato, era un abito bello ma pregno di dolore. Era adatto a
festeggiare un compleanno quanto mai sgradito, il primo senza Nana.
Sapevo che sarebbero venuti tutti, questa volta anche
Nobu, e che Shin avrebbe persino portato una ragazza, non vedevo
l’ora di
conoscerla.
La città scorreva sotto i miei occhi indifferenti, quando
ero appena arrivata a Tokyo mi stupivo di tutto, adesso non mi
importava di
nulla. Le luci, la gente, le insegne, niente mi scuoteva davvero,
pensavo
ossessivamente a una notte di neve in cui il destino di due ragazze
dallo
stesso nome e della stessa età si era intrecciato.
Il taxi imboccò la strada che costeggiava il fiume Tama e
il mio cuore saltò un battito, mi sporsi per vedere meglio
il vecchio palazzo
in stile occidentale, un palazzo che sembrava incongruo in Tokyo visto
che
sembrava arrivare dritto da certi quartieri di New York.
Qualche minuto dopo il taxi si fermò, io scesi e tirai
fuori il cibo e la torta, dall’ombra vicino
all’entrata emerse Yasu e prese
quello che io non riuscivo. Pagai il taxi e noi due rimanemmo da soli,
lui mi
sorrise.
“Buon compleanno, Hachi.”
“Grazie, Yasu.
Come stai?”
“Bene. Forza, portiamo questa roba di sopra.”
“Sì. Sei già salito?”
“Sì, l’appartamento sembra aspettarci. A
proposito, bel vestito.”
Ridacchiai.
“Lo hai riconosciuto, vero? È quello che Nana
indossava
quando ha salutato Ren.”
“Sì, l’ho riconosciuto.”
“Il forno a microonde c’è?”
“Sì, c’è.”
Io annuii, alcune cose andavano riscaldate, ecco perché ne
avevo comprato uno e
lo avevo portato all’appartamento. Finalmente arrivammo alla
porta del 707,
appoggiai il cibo in terra e frugai nella borsa, trovai le chiavi e
aprii la
porta. Io e Yasu entrammo e deponemmo le borse sul tavolo costruito da
Nana, il
lontano ricordo del battere di un martello fece capolino, ma io lo
cacciai via,
non sarei sopravvissuta se avessi permesso ai ricordi di prendere il
sopravvento.
Infilai nel forno quello che doveva essere scaldato, finii
per utilizzare anche quello tradizionale, Yasu sedeva al tavolo e
fumava
tranquillo.
“Miu arriverà?”
“Sì, più tardi. La sua carriera sembra
stia andando bene, la chiamano più
spesso.”
“Ottimo, sono felice per lei. E la vostra storia?”
“Va bene. Sono felice con lei, entrambi diamo molta
importanza al lavoro quindi non litighiamo per il tempo che ci
dedichiamo.”
“Questa è una bella cosa.”
Pensai a Takumi, ma soppressi anche quel pensiero, non ci fu tempo per
parlare
ancora perché suonò il campanello. Corsi al
citofono e risposi.
“Sì?”
“Sono Nobu.”
“Sali, io e Yasu siamo qui.”
Il cuore mi batteva forte, come l’avrei trovato dopo questi
mesi?
Il tempo che ci mise per salire le scale mi sembrò
eterno, ma finalmente la porta si aprì: aveva i capelli un
po’ più lunghi, il
suo colore naturale – un bel castano – faceva
capolino e i suoi vestiti erano
ancora tendenti al punk, ma meno estremi. Ci guardammo per un attimo
che parve
infinito, poi lo abbracciai stretta e lui ricambiò,
seppellendo il volto tra i
miei capelli.
“Mi sei mancata.”
Sussurrò a voce bassissima.
“Anche tu e non sai quanto.”
Risposi io.
Ci sciogliemmo dall’abbraccio e lui andò a
salutare Yasu,
io rimasi ancora un attimo alla porta per assaporare meglio quei pochi
istanti
in cui eravamo stati vicini. Erano dolce miele comparati
all’amaro degli ultimi
mesi e calore rispetto al freddo che emanava mio marito.
Avevo fatto la scelta sbagliata tanti mesi prima e lo
sapevo, ma non potevo correggere il tiro senza far soffrire degli
innocenti.
Tornai in cucina e mi gingillai con i piatti per la cena,
giusto per avere qualcosa da fare, per non venire sommersa dai ricordi.
L’appartamento 707 era diventato un tempio al dolore, al
tempo passato e alle
scelte giuste che non erano state fatte. Se fossi rimasta con Nobu, nel
giardino di Nana, lei se ne sarebbe andata lo stesso?
Dopo Nobu arrivarono Jun e Kyosuke, poi Miu e Misato,
l’unico che mancava ancora all’appello era
Shin, stavo per chiamarlo quando la porta si aprii. Mi
paralizzai, accanto
a lui c’era una ragazza che
somigliava così tanto
a Nana da farmi
pensare che si fosse presentato con un fantasma. Mi faceva male il
cuore, avevo
gli occhi spalancati e dovevo essere sbiancata.
La ragazza parlò.
“Sono Misato Uehara, la sorellastra di Nana, piacere di
conoscerti, Hachi.”
Disse con voce incerta, anche quel soprannome detto da lei faceva male.
“Io… Io sono Nana Komatsu, ma mi chiamano tutti
Hachi.”
Balbettai.
“Tutto bene?”
Mi chiese premurosa lei.
“Sì, va tutto bene, è solo
che… Tu somigli molto a Nana e
per un momento ho pensato che lei fosse tornata, scusami.”
“È tutto okay, lo so che le somiglio, non ti devi
preoccupare.”
“Forza, entrate.”
Entrarono e si sedettero intorno al tavolo, avevo portato
un tavolo da casa il giorno prima in modo da avere più
spazio, l’altro poteva
ospitare al massimo sette persone. Iniziai a servire le pietanza e le
chiacchiere seguirono naturalmente. Junko e Kyosuke stavano
frequentando con
successo l’università e una galleria si era
interessata ai loro lavori, ero
molto felice per loro, al contrario di me avevano talento per
l’arte.
Yasu stava andando alla grande allo studio dove era stato
assunto e Miu riceveva sempre più ruoli, non le chiesi del
suo problema di
autolesionismo, ma notai che non portava più un polsino:
forse aveva smesso.
Nobu disse che stava familiarizzando con la pensione
Terashima, ma che i suoi genitori non sarebbero andati in pensione
tanto presto
così stava pensando di aprire una sala musica per i ragazzi
del paese, molti
avevano preso ispirazione dai Blast o dai Trapnest. Era felice, ma
un’ombra era
sempre presente nel suo sguardo. In quanto a Misato Tsuzuki continuava
a
lavorare alla Shikai Corporation, si occupava della carriera di Shin e
non
c’era nessun ragazzo all’orizzonte per lei.
Guardai curiosa Shin, cosa avrebbe detto? Cosa mi avrebbe
raccontato di sé stesso e di Misato?
“Shin, tu ti sei portato una ragazza e non ci dici
niente?
È un piacere
rivederti, Misato.”
Guardai Nobu incuriosita.
“La conosci?”
“Sono passato una volta al ristorante di suo padre quando
cercavo Nana, abbiam
parlato un po’.”
“Ah, capisco.”
Aveva senso, ci aveva detto che sarebbe andato a Okayama.
“È un piacere anche per me. Ho conosciuto Shin al
lavoro,
io sono una stagista alla Shikai Corporation per via di un accordo con
il mio
liceo. Devo dire che il primo incontro non è andato
benissimo.”
“Che ha combinato Shin?”
Nobu stava ghignando, Shin sembrava imbarazzato.
“Stavano parlando in un bar e mi ha detto che per una
certa somma sarei potuta andare a letto con lui, ovviamente
l’ho piantato lì
dopo avergli dato del maniaco.”
Nobu gli diede un leggero scappellotto sulla nuca.
“Ma la smetti con ‘sta cosa? Sembri davvero un
maniaco.”
“Nobu ha ragione, Shin. Dovresti smetterla.
Dopo si è comportato bene?”
Domandai apprensiva a Misato.
“Sì, è stato bravo.”
“State insieme?”
“Non ufficialmente.”
“Shin, sbrigati. Una bella ragazza come lei te la fregano
facilmente, lo sai
che somigli tantissimo a Nana?”
“Lo so, me lo dicono in tanti.”
Il suo tono era incerto.
“Tutto bene?”
“Sì, solo che ogni tanto mi chiedo se la gente mi
parli perché somiglio a mia
sorella o perché è me che apprezzano.”
Io rimasi in silenzio, non sapevo bene cosa risponderle.
“Sembri una ragazza simpatica, coraggiosa per essere
tornata da Shin dopo che lui si era presentato in quel modo.”
“Forse sono solo pazza, ma sono felice di esserlo,
perché lui mi ha cambiato la
vita.
In meglio.”
Sorrise timida e io sorrisi a mia volta, in quel momento non mi
importava che
somigliasse a Nana, vedevo solo una ragazza innamorata e ne ero felice.
Shin si
meritava qualcuno di speciale, non solo storie incasinate, il pensiero
di Reira
mi fece venire voglia di strozzarla: rovinava la vita di chiunque la
conoscesse.
“Ottimo, allora andrai d’accordo con noi. Siamo
tutti
pazzi qui.”
Ridemmo tutti e riprendemmo a cenare.
Finito Misato mi aiutò a lavare i piatti e mi chiese
qualche ricetta, viveva da sola e voleva stupire Shin con qualche
manicaretto e
poi saper cucinare era sempre utile: lei sapeva fare solo okonomiyaki.
“Un giorno me li devi far assaggiare.”
Lei mi guardò sorpresa.
“Certo, quando
vuoi.”
Sentii che potevo andare d’accordo con questa ragazza, non
era Nana – nessuno
poteva esserlo – ma era una tipa a posto.
Yasu si affacciò alla porta della cucina e ci
guardò per
un attimo.
“Hachi, puoi uscire un attimo dall’appartamento,
per
favore?”
Flashback dell’ultimo compleanno si affacciarono prepotenti
alla mia mente,
avevo la sensazione che il mondo avesse iniziato a ondeggiare. Era
tutto solo
nella mia testa, me lo ripetei più che potei
“Certo, la torta è qui.”
Indicai una scatola quadrata.
“Ottimo, adesso vai.”
Uscii dalla cucina, passai per la sala, gli altri mi salutarono
allegramente e
uscii anche dalla porta dell’appartamento 707 ritrovandomi
nel corridoio vuoto.
Guardai da una finestra mentre aspettavo, si vedeva il fiume Tama, il
ricordo
delle volte in cui ci eravamo divertiti tutti insieme lungo le sue
sponde mi
faceva venire voglia di piangere. Era come guardare i ricordi avvenuti
un
secolo prima, quando era passato solo poco più di un anno,
mi toccai la pancia
con rabbia. Era anche per questo che non volevi figli, Nana?
Non volevi ritrovarti a rimpiangere la gioventù non
vissuta da vecchia?
Il mio cellulare vibrò nella mia mano, era un messaggio
di Shin, “Entra!” diceva semplicemente. Tornai
davanti alla porta, appoggiai la
mano sulla maniglia e la tirai verso il basso, la porta si
aprì.
Dentro era tutto buio, mi venne il batticuore, da un
momento all’altro mi aspettavo di vedere il volto di Nana
emergere
dall’oscurità come un anno prima.
Le luci degli accendini cominciarono a illuminare i volti
di Jun, Kyosuke, Yasu, Miu, Shin, Nobu, le due Misato e infine le
candeline
della torta.
La sensazione di déjà-vu si fece più
prepotente che mai,
quanti anni compivo? Ventuno o ventidue?
Ero incinta o avevo già partorito? Quella era Nana o era
Misato?
“Buon compleanno!”
Urlarono tutti insieme, riportandomi alla realtà, io
sorrisi.
Non avevo perso tutto, avevo ancora tanto e persone con
cui festeggiarlo, ma non avrei mai smesso di cercare la mia amica. Mai.
Le lacrime iniziarono a scendere da sole, non le
controllavo più e non sapevo dire se si trattasse di lacrime
di gioia o di
dolore. Mi rifugiai nelle braccia di Nobu, erano calde e accoglienti,
sapevano
di casa. Era lui la mia casa. Mi alzò il volto con dolcezza.
“Tutto bene, Hachi?”
“Sì, sono solo felice.”
Gli risposi sorridendo e asciugandomi le ultime lacrime, ora tutte le
luci
erano accese e tutti sembravano contenti, anche la mia torta era bella.
Miu iniziò a tagliare la torta e mi passò il
piattino con
la prima fetta.
“Tanti auguri, Hachi e cento di questi giorni.”
“Grazie.”
Passare cento giorni con loro alla ricerca di Nana non mi
sarebbero dispiaciuti, ma domani sarei tornata a essere la casalinga,
la madre
di Satsuki e Ren.
Cercai di non pensarci, come con tante altre cose, quella
casa era il santuario delle cose non dette, me lo ripetei di nuovo.
Mangiammo la torta chiacchierando come ai vecchi tempi,
quando sognavamo che i Blast avessero successo e Nana mi prometteva che
mi
avrebbe costruito una casa con la veranda.
Finito Shin si alzò e tornò con un pacchetto, io
arrossii.
“Da parte mia e di Misato.”
Me lo porse.
“Grazie, ma non dovevate.”
Lui sbuffò e io iniziai a lacerare la carta, dentro
c’era una scatolina di
carta dorata, incuriosita la aprii e mi ritrovai a rigirare tra le mani
un
plettro con la scritta Blast attaccato a una collanina
d’argento.
“È il plettro che ho usato al nostro primo
concerto, ho
pensato che sarebbe stato carino che lo avessi tu. Senza di te sarei
ancora un
ragazzino sbandato.”
Mi scese una lacrima.
Per smorzare la tensione anche gli altri mi diedero i
loro regali: Miu mi diede un altro libro sull’arte della
vestizione, Yasu una
sciarpa, Misato Tsuzuki una maglia dei Blast che non era mai andata in
produzione, Kyosuke e Junko un cappello e un quadro che avevano dipinto
insieme.
Guardai Nobu e lui mi fece cenno che me l’avrebbe dato
dopo, doveva essere una cosa personale e con dei riferimenti al nostro
rapporto, allora. Il mio cuore accelerò i battiti.
“Grazie a tutti! Non dovevate, davvero!”
“Hachi, è il tuo compleanno. Lasciaci dimostrare
che
siamo felici che tu sia al mondo e che tu faccia parte della nostra
vita.”
Mi disse Junko, facendo scendere altre lacrime.
Finirono per
avvolgermi in un abbraccio collettivo, mi sentivo di nuovo un essere
umano con
un qualche valore e non solo una casalinga con due figli a carico e un
marito
assente.
“Forza, basta lacrime!”
Intervenne Shin.
“Siamo qui per festeggiare, no? Ho portato un po’
di
musica.”
Inserì una musicassetta nel vecchio stereo e le note di una
canzone punk si
diffusero nell’appartamento, ricordandomi i primi concerti
dei Blast. Iniziammo
a ballare, cercando di lasciar perdere il passato che feriva e il
futuro
incerto, in quel momento contava solo il presente.
Osservavo le coppie intorno a me, soprattutto Shin e
Misato, sembravano andare particolarmente d’accordo, ridevano
molto. L’altra
Misato ronzava loro attorno e anche lei mi sembrava felice.
Mi fermai un attimo per bere e la Misato che conoscevo mi
si avvicinò.
“Sei felice?”
“Sì, certo. È come se una parte di Nana
fosse tornata e poi…”
Arrossì leggermente.
“Misato ha detto che vuole essere mia amica, è la
prima
persona che vuole esserlo. È buona e gentile e rende Shin
felice. Mi sento
fortunata perché per un tanto tempo ho pensato che non avrei
mai potuto
esserlo.”
“Sono contenta per te.”
“Pensa anche alla tua felicità, Hachi.”
Ci buttammo di nuovo nelle danze, sembravano un gruppo di liceali
scatenati,
ero così leggera che temevo sarei volata via da un momento
all’altro, come un
palloncino.
Arrivata mezzanotte e mezza qualcuno bussò alla nostra
porta, dovevano essere i nostri vicini che volevano dormire. Scoppiammo
tutti a
ridere e poi spegnemmo lo stereo.
“Ora di andare a casa.”
Disse Yasu con voce chiara.
Salutai tutti con un abbraccio sentito e un
“grazie”,
piano piano se ne andarono, rimase solo Nobu seduto al tavolo.
“Ti do una mano a sistemare questo casino.”
“Ok, grazie.”
Avevo il sospetto che volesse rimanere anche per un altro motivo, ma
decisi di
lasciargli i suoi tempi. Lavammo i piatti e pulimmo cucina e salotto,
l’appartamento era tornato quello di sempre, Nobu si
tormentava i lembi della
sua maglia.
“Hachi, c’è qualcosa che vorrei
darti.”
Io annuii e mi avvicinai.
Lui prese qualcosa dalla tasca della sua giacca di pelle
buttata sul divano, era un sacchetto lungo, e me lo porse. Io lo
guardai
curiosa e poi lo scartai: era un collare di pelle uguale al suo e a
quello di
Nana.
“Nobu…”
“Questo è il mio primo collare di pelle, me lo
regalò Ren
tanti anni fa e voglio che lo abbia tu.
Hachi… Nana… io, è difficile da dire.
Lo so che sei sposata con Takumi, ma se un giorno volessi
tornare da me indossa quel collare e io lo saprò senza che
tu mi dica o mi
spieghi nulla.”
Sentii le lacrime iniziare a pungermi gli occhi.
“Nobu, io continuo a farti del male. Io ti voglio troppo
bene per continuare a farti soffrire, non so se posso
accettarlo.”
“Nana, io soffrirò comunque. Preferisco soffrire
sapendo di avere una speranza
che senza averne affatto.
Per favore, accettalo.”
Annuì e lo allacciai al mio collo, la pelle era un
po’ rovinata, ma morbida:
sembrava fatto apposta per me.
“Grazie, Nobu.”
Lo baciai d’impulso.
Un bacio a stampo, ma era come se avessi dato origine a
una reazione a catena, quel semplice bacio non era abbastanza. Tutta la
voglia
di lui che avevo accumulato in quei mesi esplose e sentivo che anche
per lui
era lo stesso.
Io lo amavo, lui mi amava.
Eravamo stati separati per tanto tempo e ora eravamo di
nuovo insieme con nessuno a fermarci, avevo spento il cellulare non
appena ero
arrivata nell’appartamento come se una parte di me sapesse
sin dall’inizio che
sarebbe successo questo.
Continuammo a baciarci e quando una sua mano si infilò
sotto la mia camicia all’altezza della vita rabbrividii e
gemetti.
“Nana…”
“Non smettere, ti prego.”
Sussurrai. Se il tempo in quella stanza era fermo a
quell’estate che non
potemmo offrire a Nana io ero la ragazza di Nobu e non c’era
nulla di male.
Quando il bacio finii lo presi per mano e lo condussi
nella mia stanza dove avevo fatto mettere un futon, lui
sgranò gli occhi, ma
questo non bastò a nascondere il suo desiderio.
“Nana, sei sicura?”
“Sì, sono sicura.”
Continuammo dove ci eravamo interrotti e ben presto i nostri vestiti
erano
sparsi per la stanza, io sentivo le sue mani dappertutto sul mio corpo,
incendiavano ogni centimetro della mia pelle strappandomi ansiti e
gemiti. Io
accarezzavo il suo petto magro, le spalle, i capelli, il suo membro,
ogni suono
che riuscivo a strappargli mi eccitava sempre più. Raggiunsi
il primo orgasmo
prima ancora che lui mi penetrasse, solo con i movimenti delle sue dita
dentro
di me.
Quando finalmente finimmo i preliminari ero fuoco allo
stato puro, ogni spinta mi mandava dritta verso il paradiso, graffiavo
la
schiena di Nobu per mantenermi attaccata alla terra.
Continuammo finché tutti e due raggiungemmo
l’orgasmo,
lui ricadde su di me, ansimando, io presi ad accarezzargli i capelli.
Mi
ricordavo quanto gli piacesse e presto mi ritrovai tra le sue braccia,
ci
coccolavamo a vicenda.
Ora c’era silenzio, ma c’era una cosa che dovevo
dirgli.
“Ti amo.”
Sussurrai.
“Ti amo anche io.”
“Ma ora non posso stare con te.”
“Lo so.”
“Sai anche che credo nel destino e nel ruolo del numero
sette nella mia vita.”
Lui annuii.
“Ogni mio compleanno, per sette anni, sarò tua e
poi
decideremo.
Spero che in sette anni troveremo Nana e spero di essere
in grado di liberarmi dalla dipendenza da Takumi.
So di chiederti molto, ma… puoi vedere delle altre
ragazze, se vuoi, ma ricordati di questa promessa… se
deciderai di accettarla.”
Lui mi guardò con i suoi occhi dolci, mi passò
una mano
tra i capelli accarezzandoli piano e mi baciò la fronte.
“Va bene, per sette anni ad ogni tuo compleanno indossa
questo regalo e poi vedremo cosa fare, io sono sicuro che il tempo ci
darà le
risposte che cerchiamo.”
“Tra sette anni daremo a Nana l’estate che tanto ha
cercato l’anno scorso e in
quell’estate noi eravamo insieme.”
“L’estate migliore della mia vita, penso che mi
ricorderò sempre di quei fuochi
che non volevano saperne di accendersi sulle rive del fiume
Tama.”
“Anche io lo ricordo ogni giorno.”
Tornai a raggomitolarmi nelle braccia di Nobu.
“Se io, in quell’estate, avessi combattuto di
più per te,
tu saresti rimasta con me?”
“Non lo so, io allora volevo che i Blast avessero successo e
non mi sarei
perdonata di essere un intralcio.”
“Non lo saresti stata, saresti stata una motivazione per
dare il meglio di me.”
Accarezzai la guancia di Nobu.
“Sei un inguaribile romantico, spiegami come fai.”
“Ci sono nato.”
“Vorrei essere pura come te, ma dentro di me
c’è il
buio.”
Lui mi abbracciò e non disse nulla per un po’.
“È nel buoi freddo dello spazio che nascono le
stelle e
tu sei una stella.
Se sentirai freddo ti riscalderò e, se vorrai la mia
luce, sarà tutta per te.”
“Ti amo.”
Mormorai con la voce spezzata.
Non meritavo un amore così puro e incondizionato, non
dovevo sprecarlo.
Nei prossimi sette anni dovevo impegnarmi al massimo per
trovare Nana e garantirmi un minimo di indipendenza finanziaria da
Takumi. Solo
così avrei potuto analizzare la situazione più
lucidamente.
Nobu avrebbe avuto la sua risposta ed entrambi speravamo
fosse positiva.
Solo il tempo l’avrebbe confermato o smentito.
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Capitolo 20 *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo
ventesimo
Ero in un periodo di
transizione, era come se la
crisalide dentro di me
si stesse trasformando
in farfalla. Era piacevole con un
fondo di dolore.
-Misato Uehara
La festa di compleanno di Hachi
all’appartamento 707 era stato
un successo, almeno dal mio punto di vista.
Lei mi era sembrata molto felice e non vedevo l’ora di
conoscerla meglio, mi aveva detto di passare per un the a casa sua e lo
avrei
fatto. Lei era stata una persona molto importante per mia sorella e lo
era per
Shin, ora capivo perché la considerasse come una mamma. Era
una persona
allegra, capace di ascoltare e di dare la giusta attenzione alle
persone, si
preoccupava e cercava di far star meglio tutti. Non era come la mia
che, per la
maggior parte della mia vita, era stata dura, severa e restia al
dialogo.
Shin mi prese la mano e io sorrisi.
Camminavano sulla strada parallela all’argine sul fiume
Tama, le luci della città si riflettevano
nell’acqua e brillavano sullo sfondo.
Avevo la buffa sensazione di essere in un villaggio dentro la
città, era solo
la periferia e il fatto che quegli edifici fossero particolarmente
silenziosi.
“Secondo te ci vive qualcuno qui? È
così silenzioso.”
“Credo di sì, sono vecchie case, credo sia una
specie di … come si dice?
Quartiere dormitorio?”
“Sì, si dice così. E penso che tu abbia
ragione.”
Rimanemmo in silenzio per un attimo.
“Secondo te Hachi e Nobu finiranno per fare sesso?”
Domandammo nello stesso momento e poi scoppiammo a ridere come due
dementi.
“L’hai notata anche tu la tensione tra quei
due?”
“Sì, Shin. Solo un demente non l’avrebbe
notata.”
Lui sospirò.
“Credo che sia Nobu l’uomo giusto per Hachi, ma ora
come
ora non hanno futuro. Se lei si dovesse separare da Takumi non avrebbe
un soldo
e dovrebbe mantenere almeno un bambino.”
“Uhm, ma Nobu non lavra in un albergo?
Cioè, non ne è il proprietario?”
“Sì, ci lavora. Per ora però i
proprietari sono ancora i suoi genitori e se
Hachi non gli dovesse piacere possono sempre diseredarlo.”
“Quindi mi stai dicendo che prima che quei due possano
tornare insieme lei deve
recuperare almeno un minimo di indipendenza economica?”
Lui annuì.
“Mi sembra che Takumi non glielo permetta.”
“Questo è il problema, ma non passiamo la serata
parlando di loro due.”
“Sì, sarebbe poco rispettoso.”
Lui ridacchiò.
“No, non è solo questo. Ho una cosa da
chiederti.”
Lo guardai sorpresa, cosa doveva chiedermi?
“Sì?”
“Certo. Uhm, Misato, ci verresti a un appuntamento con
me”
Per lo shock non coordinai bene le mie gambe e finii per inciampare, mi
sentii
una completa deficiente: era questo l’effetto che mi faceva.
“Tutto okay?”
“Sì, certo.”
Borbottai, rossa come un peperone.
“Per l’appuntamento… Ci vengo.”
Dissi con voce a malapena udibile, ma abbastanza a farlo
sorridere.
“È fantastico, ho già in mente
un’idea stupenda per
renderlo indimenticabile.”
Mi alzai in piedi, cosa aveva in mente? Mi dovevo preoccupare?
“Sarebbe?”
“Sorpresa, sorpresa. Te lo dirò solo al momento
opportuno.”
“Ma non è giusto! Non puoi incuriosirmi
così e poi non dirmi nulla!”
Gonfiai le guance come una bambina e lui scoppiò a ridere,
lo presi come un
buon segno.
“Altrimenti non è divertente.”
“Sì, immagino.”
Sbuffai io, fintamente arrabbiata con lui.
Lui mi abbracciò da dietro, era alto abbastanza da farmi
sentire al sicuro.
“Dai, baby, non fare così. Ti giuro che
sarà un
appuntamento indimenticabile.”
“Ti conviene che lo sia!”
Lui rise di nuovo, stavo iniziando ad amare quel suono.
“Riesci a farmi ridere, mi piace un sacco. Mi piaci un
sacco.”
“Mi aduli?”
“No, dico la verità.”
Arrossii violentemente, non ero abituata ai complimenti, soprattutto ai
suoi.
“Sei carina.”
“Perché?”
“Arrossisci, sono secoli che non vedo una ragazza
arrossire.”
“Davvero?”
Arrossii ancora di più.
“Il mio pomodorino.”
Mi sussurrò in un orecchio, facendomi rabbrividire, era un soprannome carino.
Continuammo a camminare mano nella mano ed arrivammo alla
fine di quel quartiere tranquillo, adesso eravamo immersi a pieno nelle
luci
della città e nelle strade animate.
Ci dirigemmo verso la stazione della metro tranquilli,
completamente dimentichi che era piuttosto tardi e che io abitavo in
una zona
in cui l’ultima corsa arrivava presto.
Me ne ricordai quando consultai il tabellone con gli
orari dei treni.
“Merda.”
Imprecai sottovoce.
“Cosa c’è?”
“Ho perso l’ultima corsa, dovrò andare a
casa in taxi.”
Borbottai scontenta, non volevo spendere soldi inutilmente dato che non
crescevano sugli alberi.
“Il mio appartamento è in zona, ti va di stare da
me?”
Io lo guardai a occhi spalancati, lui alzò le mani davanti a
sé.
“Non ti farò nulla, terrò le zampe a
posto, te lo giuro.”
Io soppesai per un po’ i pro e contro della proposta, avevo
paura che non si
sapesse trattenere, ma non volevo nemmeno sprecare i soldi.
“Va bene, ma se non tieni a posto le zampe te le
taglio.”
“Ok, ok.”
Mi prese per mano, uscimmo dalla stazione e ci ritrovammo
di nuovo nel caos della città, lui camminava sicuro, io mi sentivo come dentro a
un sogno: i contorni
delle cose erano sfumati e il brusio delle persone attorno a me
attenuato.
Stavo per andare a dormire dal mio ragazzo e una parte di
me non ci credeva ancora, stavo vivendo le normali esperienze di una
ragazza
della mia età senza dover temere l’ombra
dell’incesto.
La Misato che credeva di amare Takahiro mi sembrava quasi
un’altra persona, un’estranea che non conoscevo, ma
che mi somigliava molto.
Shin si fermò e io andai a sbattere contro la sua
schiena, eravamo davanti alla porta di un condominio.
“Siamo arrivati.”
“Ok, è davvero vicino.”
“Sì, io e Nobu abitavamo qui una volta. Poi, come
sai,
lui è tornato al suo paese, che è anche quello di
Nana, ti piacerebbe
visitarlo?”
Io annuì.
“Sì, mi piacerebbe molto. È
lì che ci sono anche le mie
radici.”
Lui sorrise senza dire nulla ed aprì la porta del
condominio.
Abitava all’ultimo piano e quella notte l’ascensore
non
funzionava, ero senza fiato quando arrivai al suo appartamento.
“Accidenti, ne fai di ginnastica ogni giorno.”
“Sì, abbastanza.”
Entrammo e mi ritrovai in una stanza caotica, ma accogliente.
“Scusa il casino.”
“No, mi piace.”
“Ok, vuoi qualcosa da bere.”
Sbadigliai.
“Un po’ d’acqua e basta, per favore. Sono
stanca e domani
devo andare a scuola.”
Mugugnai, sentivo gli occhi che mi si chiudevano.
“Ok.”
Poco dopo arrivò con un bicchiere d’acqua che
bevvi tutto
d’un sorso.
“Ti mostro la camera da letto.”
Era una stanza ancora più disordinata del salotto con una
portafinestra che si
apriva su un terrazzino, Shin fece per andarsene. Non so cosa mi prese,
sapevo
solo che non volevo rimanere da sola.
“Shin, dormiresti con me, per favore?”
Lui sbatté gli occhi un paio di volte e poi
arrossì.
“Sì, va bene.”
Ci spogliammo imbarazzati e ci infilammo a letto, lui mi
attirò sul suo petto.
Qualche minuto dopo ero immersa nel miglior sonno della
mia vita.
Sai, Hachi…
Se si potesse fermare il
tempo e rivivere un giorno
all’infinito, sceglierei
Quella notte
d’estate, quella dei fuochi d’artificio dopo
il tifone.
Solo che questa volta
chiederei a Ren e a mia sorella di
essere con noi.
La sera del compleanno di Hachi
decisi di infilarmi in un
bar a bere in suo onore.
Mandai un messaggio di scuse alla mia collega –
ripromettendomi di non parlarle più e di cercare un altro
lavoro – ed entrai
nel primo locale. Era un tipico bar inglese, così ordinai
anche hamburger e
patatine.
Non mi sentivo a mio agio, non mi ricordava nessuno dei
posti che frequentavo a Tokyo, mi sembrava di essere
un’esule. Solo che gli
esuli non scelgono di andarsene dalla patria, io sì.
Chissà cosa stava facendo Hachi in questo momento?
Stava festeggiando? Pensava a me?
Mi odiava ora?
Speravo ardentemente di no, non l’avrei sopportato.
Dovevo smetterla di pensare ai posti del mio passato o
non sarai mai riuscita a costruire un futuro.
Perché non
torni indietro?
Disse una voce nella mia testa. Io non potevo tornare, se
l’avessi fatto avrei finito per appoggiarmi di nuovo a Hachi
e ai miei amici e
dovevo imparare a stare in piedi da sola. Dovevo riuscire a smettere di
essere
la bambina che aspettava sua madre, dovevo essere io a prendere per
mano la me
stessa piccola e indifesa e a farle vivere una vita. Contare troppo
sugli altri
mi rendeva debole e mi spaventava. Ogni volta che pensavo al Giappone,
oltre al
familiare calore, sentivo anche una fitta di paura che mi paralizzava.
Arrivò l’hamburger e iniziai a mangiarlo
distrattamente,
era davvero buono, ma il mio cervello fluttuava da qualche altra parte,
perso
tra i rimpianti.
Mangiai tutto e mi accesi una sigaretta, molti altri
avventori ne avevano una quindi il posto non doveva essere molto severo
sul
divieto di fumare.
Una cameriera arrivò a ritirare la mia roba e mi chiese
sorridendo se volessi qualcos’altro.
“Sì, un sakè.”
“Scusi?”
“Una vodka.”
Risposi arrossendo leggermente, mi ero dimenticata che non eravamo
più in
Giappone e il sakè non era una bevanda comune, ma qualcosa
di esotico e strano.
“Sì, certo.”
La ragazza si allontanò e io mi dissi di fare più
attenzione la prossima volta.
Se non vuoi tornare
indietro, se li vuoi fuori dalla tua
vita, perché sei qui a bere per festeggiare il compleanno di
Hachi?
La vocina era persistente, non si lasciava sconfiggere,
l’unica opzione era ignorarla.
Arrivò la mia vodka e iniziai a berla, il sapore forte mi
riscaldò, Londra era fredda persino per una come me che al
freddo ci era
abituata.
“Sono nata in
un paese freddo.”
La me stessa del ricordo
porse la sua giacca ad Hachi che si stava lamentando
per la sera fresca, non mi sarei aspettata che lei in cambio mi desse
la sua
sciarpa.
La mia giacca le stava
bene.
Mi riscossi dal ricordo, era stato quando Shoji l’aveva
lasciata, quando era stato beccato con quella Sachiko e Hachi non aveva
nemmeno
voluto combattere per lui.
Fantastico, la vocina si era alleata con il mio
subconscio e nessuno dei due mi lasciava vivere in pace.
Un giorno sarei tornata in Giappone, ma non ora.
L’idea mi colpì come un fulmine perché
era vera.
Un giorno sarei tornata in patria e avrei probabilmente
cercato di sistemare le cose, ma non adesso, non era il momento giusto,
io non
ero la persona giusta. Stavo ancora soffrendo troppo per la morte di
Ren e il
mio fallimento come cantante per osare presentarmi a loro e poi una
parte di me
non si fidava. Mi avevano tenuto nascosto il fatto che Ren fosse un
tossico.
Avevo troppi pensieri, così ordinai un’altra vodka
nella
speranza di sopprimerne almeno qualcuno, anche uno minimo.
Com’è la vita delle persone normali?
Quelle che non inciampano in un fantasma ogni volta che
girano l’angolo?
Non lo sapevo, sapevo solo che volevo più vodka.
Alla fine smisi di pensare, solo un ricordo continuava a
tentarmi in un angolo della stanza: un gruppo di persone attorno a una
torta in
un ambiente buio. Tutti tenevano in mano un accendino, ma la cosa
più luminosa
era il sorriso di Hachi.
Quello illuminava l’intera stanza.
Sai, Nana…
Sono sempre stata
sfortunata con gli uomini, pensavo che
fosse colpa del
Grande Demone Celeste.
Probabilmente invece era solo la
tempistica sbagliata.
Anche adesso con Nobu,
pur amandoci, non potevamo stare
insieme come volevamo.
Il sole del mattino mi colpiva
insistentemente gli occhi,
tanto che alla fine mi svegliai e rimasi incantata per qualche minuto a
fissare
Nobu. Abbracciato a me sembrava di nuovo giovane, quasi un bambino.
Il sonno gli aveva tolto le preoccupazioni che lo avevano
tormentato negli ultimi mesi.
Volevo svegliarlo, ma non ci riuscii così continuai a
guardarlo in silenzio.
I suoi capelli erano diventati più lunghi, non li tingeva
più e nel biondo iniziava a farsi largo il castano della
ricrescita,
probabilmente non li alzava nemmeno più in una cresta.
Adesso erano semplicemente capelli ribelli.
Non si era tolto gli orecchini e sembrava più magro di
prima, le sue braccia però erano forti e confortevoli, le
mani calde come lo
ricordavo. Era come tornare a casa, solo che non potevo rimanere.
Mi chiesi cosa sarebbe successo se non avessi ragionato
in modo così affrettato quando avevo scoperto di essere
incinta. Se invece di
considerare unicamente la proposta di Takumi avessi provato a pensare
un
po’anche a Nobu. La mia vita sarebbe diversa ora, avrei solo
un bambino di cui
occuparmi, un marito desideroso di aiutarmi e che soprattutto amavo,
non un
estraneo che avevo sposato solo per i suoi soldi.
Ma indietro non si poteva tornare e adesso non era il
momento giusto pe rimettermi con Nobu, dovevo continuare ad aspettare.
Ero stanca di pensare e finii per riaddormentarmi.
Mi svegliai con Nobu che mi guardava con i suoi occhi
dolci, perché fare quello che si doveva era così
difficile?
“Buongiorno.”
“Buongiorno.”
Risposi io con un sorriso.
Finiva sempre per farmi sorridere, anche se io gli facevo
male continuava a tornare da me.
“Sei la mia marea.”
Mormorai mezza addormentata.
“Cosa?”
“Sei come la marea, torni sempre da me anche se ti faccio
sempre male e
dovresti stare lontano da me.
“È così che funziona l’amore,
per me almeno.”
“Tu ti meriti di meglio.”
“Ma io ho scelto te.”
Sorrisi di nuovo.
“È terribilmente egoista, ma ne sono
felice.”
Questa volta fu lui a sorridere.
“Un giorno le nostre strade si incroceranno nel modo
giusto e staremo insieme.
So che succederà.”
Io rimasi un attimo in silenzio.
“Sì, lo so anche io.”
Volevo credere disperatamente a quelle parola, non volevo
invecchiare insieme a Takumi, non volevo soffrire per sempre
imprigionata in
quel matrimonio. Prima di romperlo però dovevo trovare la
forza e la maturità
di ammettere che era stato un fallimento non solo a me stessa, ma anche
agli altri. Dovevo
smettere di dire che lo amavo e che c’erano tante ragioni per
stare insieme,
dovevo smettere di annegare nelle mie bugie.
Potevo essere meglio di così.
“Nana?”
“Sì?”
“Tutto, ok?”
“Penso a tutte le bugie che dico, penso che un giorno
dovrò essere forte
abbastanza da ammettere che ho sbagliato tutto e che non amo Takumi.
E quel giorno potremo stare insieme.”
Lui annuì.
“Se quel giorno fossi stato più forte e maturo,
ora non
saremmo qui.”
“E se qui quel giorno non avessi seguito solo il profumo
dei soldi non saremmo qui, ogni croce è fatta da due
bastoni.”
Sospirammo insieme.
“Ormai non possiamo farci più nulla,
c’è solo il futuro
da vivere.”
Annuii, cambiare il passato non era possibile, ma scrivere un nuovo
futuro sì.
“Nobu. Troverò Nana, la riporterò in
Giappone e
divorzierò da Takumi quando i bambini saranno grandi
abbastanza da capire. Tra
sette anni io e te saremo di nuovo insieme.
È come abbiamo detto ieri sera.”
Gli sorrisi.
“Dobbiamo smetterla di parlare sempre dei soliti
argomenti!
Cosa vuoi per colazione per esempio?
Parti subito per Mori o ti fermi a Tokyo? Vuoi che ti
prepari un bento?”
Lui alzò le mani ridendo.
“Ok, ok. Una risposta alla volta.
Sì, mi piacerebbe fare colazione.
Partirò per Mori tra due ore e, se non ti dispiace,
vorrei un bento.
Cucini sempre benissimo.”
“Ottimo, mi metto subito al lavoro!”
Facevo di tutto per non pensare all’imminente
separazione, volevo mostrarmi forte per una volta nella mia vita.
Cominciai a cucinare, mentre lui faceva la doccia, avrei
ucciso per trasformare questo momento in una routine. Io, lui e Satsuki.
Finita la doccia la colazione era pronta e la mangiammo
insieme in silenzio.
“Ottima, sei sempre stata una brava cuoca.
Tu fa’ pure la doccia, io sistemo la cucina.”
“Ok, grazie.”
Lui annuì e io entrai nel bagno dove la vasca dalle zampe di
leone mi
aspettava, feci un lungo bagno e poi uscii anche io. Il giorno dopo
avrei
portato via il necessario, oggi volevo accompagnare Nobu in stazione.
Lui era pronto, così presi la mia borsa.
“Hai il bento?”
Mi fece vedere l’interno dello zaino: c’era.
“Beh, possiamo andare allora.”
Dissi sorridendo.
Chiusi l’appartamento a chiave e scendemmo le scale.
Fuori era una fredda, pallida e limpida giornata
invernale, tutto sembrava infuso dalla lue del mattino, mi soffermai un
attimo
a guardare il fiume, le strutture in cemento.
“Qui è
dove ci
siamo dichiarati il nostro amore, era notte e c’era la
luna.”
“E io ti avevo detto che avrei distrutto tutte le illusioni
che avevi su di me. Be’,
ci sono riuscita, no?”
“La vita non è mai facile, ma bisogna
crederci.”
Indicò la borsa dove avevo messo il collare di pelle.
“Sì, hai ragione.”
Continuammo a camminare insieme, chiacchierando come vecchi amici fino
alla
stazione della metropolitana. Prendemmo la linea che portava alla
stazione
centrale di Tokyo, il vagone era stranamente vuoto, così ci
sedemmo sospirando
come due vecchietti.
“Un po’ mi manca Tokyo, ma ho scoperto che anche il
mio
paesino mi piace.”
“Sono felice per te. Continua con la sala musica,
eh!”
Gli dissi con il mio miglior sorriso falso, stavo male
dentro e non volevo che se ne accorgesse.
“Certo che continuerò, una nuova generazione di
musicisti
deve essere formata.
Almeno tutto il mio lavoro e quello di Takumi non andrà
sprecato.”
Il nome di mio marito suonava amaro sulle sue labbra.
“Già, certo. Il paese natale dei Blast e dei
Trapnest,
certe volte me lo dimentico.”
Lui rise e poi mi abbracciò, forse un po’ stretto
del normale, e mi sorrise.
“Cerca di stare bene.”
Il suo sorriso era triste.
“Anche tu.”
Qualche lacrima sfuggì al mio controllo.
Rimasi lì fino a che il treno non fu un puntino lontano,
perso nell’orizzonte.
E io volevo inseguirlo con tutta me stessa, ma sapevo di
non poterlo fare. È così che ti sei sentita,
Nana, quando Ren se ne è andato a
Tokyo e ti ha lasciato indietro?
Me ne tornai a casa mia a Shirogane, quella casa che
tutti mi invidiavano, e quando il cancello si chiuse sentii anche il
“click” di
una prigione.
Ero in mezzo al lusso, ma rimaneva pur sempre una
prigione.
Entrai in casa, salutai Satsuki e Ren che venivano
pazientemente nutriti da una cameriera, poi guadai Takumi.
Non c’era amore tra di noi.
Non c’era nemmeno più attrazione.
Solo un disgusto per quell’uomo che aveva messo il lavoro
davanti alla famiglia e ora stava perdendo tutto.
Il castello dei Trapnest era crollato e si era trascinato
dietro tutti.
Sapevo che da tempo Takumi considerava di trasferirsi a
Londra, per ricominciare in una nuova casa discografica.
Sperai con tutto il cuore che lo facesse, io dal canto
mio non mi sarei mossa dal Giappone.
Avevo una missione più importante che leccare le ferite
di quell’uomo: aspettare Nana.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo
ventunesimo.
Dicembre era arrivato, le luci
di Natale avevano
ricoperto la città come luci fatate.
C’era
un’atmosfera di attesa, le ragazzine cercavano cosa
comprare ai
loro ragazzi e i
genitori ai figli.
Sembrava che quelle luci
si fossero posate anche dentro
di me.
-Misato Uehara.
Shin era stato misterioso sul
nostro appuntamento, non mi
aveva dato nessun’indizio, solo di portare il necessario per
due giorni. Il che
significava che saremmo andati fuori città, ma dove?
Hachi non lo sapeva,
forse non voleva dirmelo.
“Goditi questo appuntamento, Misato. Non tornerà
più
indietro.”
Mi chiesi se non parlasse anche di sé stessa e dei suoi
appuntamenti con Nobu, forse ne avrebbe voluti di più,
sarebbe stato logico.
Avevo conosciuto Takumi e mi era sembrato un grandissimo stronzo, aveva
commentato sarcastico che ero la coppia più giovane e carina
di Nana. Hachi mi
aveva detto che Takumi e Nana non andavano d’accorto, ma come
biasimarla? Chi
andrebbe d’accordo con quel tizio?
Iniziai a preparare le valigie, l’unico l’indizio
era di
portare vestiti pesanti, saremmo andati in montagna?
Magari in un romantico chalet tra la neve?
Mi persi cinque minuti buoni nelle mie fantasie, alcune
non esattamente caste, dovevo darmi una controllata.
Iniziai a prendere le cose più pesanti che mi ero portata
da casa e a ficcarle in valigia. Alla fine presi un misto di cose
pesanti e
leggere, senza esagerare, dopotutto non ci saremmo trasferiti
là.
Quella notte non riuscii a dormire, continuavo a
rigirarmi nel letto chiedendomi dove saremmo andati e se non avessi
dimenticato
qualcosa.
Mi svegliai alle cinque di mattina con due occhiaie
pazzesche, feci colazione e mi truccai. Indossai un paio di jeans
stretti tutti
pieni di tagli, una maglia nera e un maglione a righe nere e rosse. Ero
okay.
Misi i soliti anfibi e la giacca di pelle, poi presi i
due trolley e me ne andai sbadigliando.
La città era già attiva a quell’ora,
con gente che
camminava veloce, chioschi che offrivano una colazione completa per
pochi yen.
Presi la metro diretta verso la stazione centrale, Shin
mi aspettava vicino alle scale di collegamento.
“Buongiorno!”
Sbadigliai senza grazia.
“Buongiorno anche a te.”
Mi tese qualcosa: era un biglietto del treno e sbiancai quando lessi la
destinazione.
“Dimmi che non stai scherzando, Shin.”
“No, sono serio.”
La destinazione era Mori, il villaggio di origine di Nana e degli altri.
“Ho pensato molto a cosa fare al primo appuntamento e
questa mi è sembrata la migliore. Tu non ci sei mai stata
eppure è lì che
stanno le tue radici. Puoi vedere dove è cresciuta tua
sorella, porgere omaggio
alla tomba di Ren e altre cose. Nobu ci ha offerto una stanza alla
pensione
Terashima.
“E i suoi non gli hanno detto niente sul fatto che due
minorenni dormiranno insieme?”
Ero troppo scioccata e mi uscii la domanda più stupida,
quella di cui mi
importava di meno.
“Tutto bene, Misato?”
Io lo abbracciai stretto, in lacrime, del tutto incapace di esprimere a
parole
quello che provavo e lui sembrò capirlo perché mi
strinse a sua volta in
silenzio.
“Va tutto bene, sono solo felice, tutto qui.”
All’improvviso ebbi l’impressione che qualcuno ci
spiasse, ma chi poteva avere interesse a farlo?
I Blast non sarebbero più tornati, ma la carriera di
attore di Shin poteva essere compromessa, sebbene io fossi solo due
anni più
giovane di lui.
Chiacchierando raggiungemmo il binario e prendemmo un
caffè da una macchinetta prima di timbrare il biglietto. Era
dolce e caldo,
stranamente buono, forse tutto mi sembrava migliore in questa giornata.
Salimmo sul treno, spintonandoci come bambini e
lasciandoci cadere senza grazia ai nostro posti.
Il treno partì e la sensazione di disagio si acuii invece
di diminuire.
Che ci fosse stato davvero qualcuno? Magari quel
paparazzo che ci perseguitava a Osaka?
Quello che non capivo del tutto era il perché.
Due ore dopo Shin dormiva e il mio telefono si mise a
suonare, di lì a poco avrei capito tutto.
Risposi tranquilla, era Misato, probabilmente voleva solo
sapere come stava andando il viaggio.
“Ciao, Misato.”
“Ciao a te, Misato.
Senti, dovete scendere alla prima fermata e tornare
indietro.”
Alzai un sopracciglio.
“Perché? Cosa è successo?”
“Qualcuno vi ha fotografati insieme e ci ha mandato delle
coppie e ora minaccia
di mandarle ai giornali. Vogliono creare uno scandalo perché
Shin frequenta
delle minorenni.”
“Cazzo, non va bene.”
“Lo so. Tornate indietro, ho chiamato anche Yasu, studieremo
una contromossa.”
“Ok, va bene.”
Chiusi la chiamata e guardai il volto sorridente di Shin
nel sonno, non sarebbe stato facile dirglielo, ci teneva
così tanto! Lo scossi
gentilmente, lui si svegliò e si stropicciò gli
occhi.
“Siamo già arrivati?”
“No, ma dobbiamo scendere alla prossima stazione, qualunque
sia, e tornare a
Tokyo.”
Mi guardò come se fossi impazzita.
“Ma che dici?”
“Mi ha chiamato Misato, mi ha detto che ci hanno fotografato
insieme e hanno
mandato le foto alla Shikai Corporation minacciandoli di mandarle ai
giornali.
Vogliono creare uno scandalo per cui tu frequenti delle minorenni."
Lui mi guardò a occhi sbarrati.
“Cazzo!”
Controllammo la prossima fermata e radunate le nostre
cose, nervosi e scontenti, per la piega degli eventi. Se avessi trovato
quel bastardo
l’avrei ucciso, aveva rovinato il mio primo appuntamento con
Shin.
E poi era da un pezzo che non lo vedevo così triste, con
gli occhi spenti e puntati a terra.
“Mi dispiace, Misato. Per colpa del mio
passato…”
Io gli appoggiai un dito sulla bocca.
“Non dirlo perché non è vero. La colpa
è di questa
persona, non tua e non mia.
Ti prego, credimi.”
Lui annuì e sorrise lievemente, la fermata si stava
avvicinando, non ci eravamo
allontanati molto da Tokyo.
Scendemmo e andammo a consultare il tabellone della
partenza, comprammo i biglietti e aspettammo seduti sulla banchina al
freddo.
Fumavano una sigaretta dopo l’altra in silenzio,
consultando ognuno la propria lista mentale di nemici,
perché solo qualcuno che
ce l’aveva con noi avrebbe potuto fare una
cosa simile.
La carriera di Shin come attore non era ancora decollata
abbastanza da interessare i media e come ex membro dei Blast valeva
meno di
zero. Tutti volevano Nana, trovarla e riempirla di domande, pretendere
spiegazioni che non si meritavano. Qualunque cosa fosse scattato nel
cervello
di mia sorella aveva il diritto di rimanere lì, non di
essere conosciuto da
tutto il Giappone.
Com’è che certe volte i sogni diventano i tuoi
peggiori
incubi?
Qual è l’elemento che se spostato manda tutto a
puttane?
Sarebbe bello saperlo in modo da non toccarlo mai e non
avere la vita scombussolata.
Finalmente il treno arrivò ed entrammo al caldo delle
carrozze, eravamo tutti e due giù di morale, ma il fatto che
ci fosse Yasu ad
attenderci ci rassicurava. Lui era in grado di risolvere quasi ogni
casino.
Arrivammo a Tokyo sotto una
leggera nevicata.
Misato ci aspettava alla banchina, la seguimmo senza dire
nulla e salimmo su un taxi. Di una cosa ero certa, non ci stavamo
dirigendo alla
Shikai Corporation.
La macchina si fermò al condominio
dell’appartamento 707,
io e Shin la guardammo senza capire.
“Yasu ci aspetta di sopra, lì potremo parlare in
tranquillità e senza occhi o orecchie indiscreti.”
“Ok, va bene.”
Salimmo le scale e trovammo il batterista seduto al
tavolo intento a esaminare le carte.
“Ciao, Yasu.
Lo salutò Shin.
“Cosa ne hai ricavato?”
“A mio parere non c’è la stampa dietro,
la cosa è stata gestita in modo troppo
grossolano, non è nello stile di Kurada.
E poi non avrebbe senso, i Blast sono usciti dalla scena
musicale e non interessano più a nessuno e non sei ancora
così famoso come
attore.”
“Se non c’è la stampa dietro, chi
c’è?”
“Qualcuno che vuole farti del male.”
Dissi a bassa voce, tutti mi guardarono.
“Penso che Misato abbia ragione.”
Il tono calmo di Yasu calmò il rossore delle mie guance.
“Qualcuno vuole ferire o te o Misato.”
Yasu mi passò la lettera e io la lessi.
“Riconosci la grafia?”
“No, e poi l’unico davvero arrabbiato con me
è mio fratello. L’unica che sa di
questa storia è Chikage e di lei mi fido.”
Sia l’avvocato con l’aspirante manager annuirono.
“Sì, conosciamo Chikage. Non farebbe del male a
una
mosca.
Shin?”
Gli diedero la lettera e si congelò con la mano tesa verso
la lettera, i fogli
volarono per terra.
“Shin?”
Eravamo tutti preoccupati, era pallido come un morto.
“Shin, che succede?”
Urlai, prendendo quella mano
rigida.
“Io sono chi ha scritto questa lettera e so perché
l’ha
fatto.”
Il suo tono era incolore, i capelli ormai quasi bianchi
gli coprivano gli occhi.
“Chi è?”
“La stessa persona che ha organizzato lo scandalo della droga
e della
prostituzione: il mio fratellastro.”
Lo shock ci colpì come una frustata, persino Yasu sembrava
scosso.
“Ma perché?”
“Conosci mio padre, Yasu. Non mi hai voluto nella sua
vita, ti ha dato la mia custodia legale senza alzare un sopracciglio.
Mio
fratello è peggio, mi odia perché pensa che io
non debba far parte della
famiglia Okazaki, che mio padre abbia fatto uno sbaglio riconoscendomi.
È da
quando siamo piccoli che mi umilia e mi ficca nei guai.”
“Ma perché, Shin?”
Lui mi indicò con il volto.
“Vuole Misato.”
Yasu rimase in silenzio a lungo fumando una sigaretta dopo
l’altra, nessuno
diceva nulla.
“Ora che sappiamo il suo vero obbiettivo, lo
anticiperemo.”
“Come precisamente?”
“Lasceremo perdere le lettere e ci concentreremo su Misato.
Shin, è possibile che lui si presenti dove lavora
lei?”
“Sì, specialmente se il negozio è
affollato o vuoto, in modo da non dare
nell’occhio.”
“Credo che ti farà una proposta: una scopata con
lui e le accuse saranno ritirate.”
Io annuii.
“Cosa devo fare?”
“Fai in modo che ti approcci in un punto ripreso dalle
telecamere, digli che vuoi prendere tempo, lui se ne andrà.
Appena puoi fa vedere le immagini al tuo capo e digli che
questo tipo ti molesta.
Se conosco il tizio che gestisce il block buster è un
tizio abbastanza corretto da chiamare la polizia non appena lo
vedrà arrivare.
I poliziotti vedranno le registrazioni e lo porteranno in
centrale.
Misato…”
Yasu mi guardò oltre gli occhiali.
“Puoi farne una copia?
“Penso di sì.”
“Ottimo, portacela e saremo noi a ricattarlo. Se non la
smette tu o Shin lo
denuncerete. Voi sarete liberi e lui con le mani legate.”
“Sembra un ottimo piano, ma siete sicuri che
funzionerà?”
“Se conosco abbastanza mio fratello
funzionerà.”
“Okay.”
“La riunione è finita, allora?”
“Sì.”
Ci alzammo.
Misato allungò un pugno, Yasu la seguì e poi
tocco a me e
a Shin.
“Ce la faremo.”
Li alzammo e poi ce ne andammo, Yasu e Shin si allontanarono insieme,
Misato
chiamò un taxi e mi accompagnò a casa. Fuori
dalla macchina mi batté una mano
sulla spalla.
“Non preoccuparti, ce la farai ad avere una storia con
Shin senza troppe complicazioni, sistemiamo il bastardo e
andrà tutto a posto.
“Sì, grazie.”
Lei prese un altro taxi, io invece salii al mio appartamento abbastanza
scoraggiata per come si era svolta a giornata. Per colpa di un ragazzo
stupido
e viziato il mio primo appuntamento era andato a fanculo e io ci tenevo
così
tanto!
Entrai in casa e mi ficcai sotto la doccia, poi a letto,
Shin mi scrisse il solito messaggio della buonanotte, ma avevo la
sensazione
che anche lui fosse abbastanza depresso.
Come dargli torto? Trovi una ragazza non problematica e
subito vieni rimesso al suo posto da quello stronzo di suo fratello.
Non lo
avevo ancora visto, ma già l’odiavo, quel pezzo di
merda.
Mi misi a letto, i miei sogni furono popolati da una
figura con una maschera bianca che tentava di uccidere Shin e io non
riuscivo a
fermarla.
Avevo paura, inutile negarlo.
Se qualcosa non fosse andato secondo il piano di Yasu cosa
avremmo fatto?
“Yasu è una ragazzo molto intelligente.
Può essere un
ottimo avvocato e un ottimo teppista, nonché un ottimo
batterista. Conosce le
persone e sa quello che fa, io mi devo solo fidare.”
E quello era il punto, dopo il casino con mamma e con
Nana non riuscivo a fidarmi delle persone come facevo prima. Ero
diversa. Ero
cresciuta.
Meno sorrisi e battute e più sguardi circospetti attorno
a me, nemmeno temessi di vedere un paparazzo uscire da un tombino da un
momento
all’altro.
Feci colazione e andai al video noleggio, il mio capo fu
sorpreso, ma felice, di vedermi, nessuno voleva mai fare il turno di
notte.
E così quella notte sarei andata al lavoro, passai la
giornata a pulire la casa, studiare per i test prima delle vacanze e a
memorizzare il viso del bastardo. Volevo essere sicura di trovarmi in
una zona
coperta dalle telecamere quando fosse arrivato. Se ciò che
diceva Yasu,
conoscere il suo piano era un vantaggio incredibile, giocare a scacchi
sapendo
in anticipo le mosse dell’avversario. Mi ricordai che i Blast
amavano giocare a
mah jong, questo aiutava a sviluppare il cervello. Mi sarei fatta
insegnare da
Shin, non volevo rimanere indietro. Non volevo che fossero gli altri a
decidere
della mia vita, volevo essere io.
Dopo un ultima occhiata alla foto del nemico uscii
avvolta nella sciarpa, fuori aveva ripreso a nevicare, il che
significava che
al negozio sarebbe stata una serata morta. Probabilmente si farebbe
fatto vivo.
Avevo imparato a mie spese che i maniaci amavano le serate morte.
Scesi nella stazione della metro e presi la prima corsa
che mi portasse al lavoro, stranamente era vuota. Ero in anticipo
così mi
concessi di mangiare qualcosa a un chioschetto lì vicino.
Faceva freddo, non mi
andava di aspettare là furi, nel chiosco c’era
sempre caldo.
Mangiai del ramen e degli spiedini di pollo, gli altri
avventori erano un gruppo di manager che festeggiavano la promozione di
uno di
loro. Erano allegri e rumorosi, non so come mi ritrovai a pensare che
in quel
momento avrei dovuto essere in una pensione in stile tradizionale con
il mio
ragazzo.
Atmosfera tranquilla, guardare la neve che cade avvolti
in caldi yukata.
Ecco dove avrei dovuto essere.
Finiti anche gli spiedini uscii e mi diressi verso il
videonoleggio, scambiai quattro chiacchiere con il collega che mi
sostituiva e
con il capo e poi mi cambiai, indossando la divisa del negozio.
Iniziai ad aspettare che arrivasse qualcuno, dopo un po’
abbandonai la postazione dietro al bancone e controllai i posti coperti
dalle
telecamere fingendo di gironzolare.
Uscii a fumare una sigaretta e tornai velocemente dentro
a causa del freddo pungente.
Sarebbe mai arrivato?
Le ore passavano e del fratello di Shin non c’era
traccia, che avesse capito qualcosa?
E poi, a un quarto d’ora dalla chiusura, lo vidi. Camminava
per strada con il suo stesso passo indolente, solo che la sua
espressione era
quella di un tipo sicuro di sé.
Io mi misi in un punto coperto dalle telecamere e finsi
di sistemare alcuni cassette, all’improvviso qualcuno mi
prese da dietro, una
mano su una tetta e una sulla bocca.
“Non urlare, dolcezza. Anche se mi piacerebbe che tu lo
facessi, sarebbe eccitante.”
“Co-cosa vuoi?”
Mi finsi spaventata, ma ero solo disgustata.
“Non so se il tuo
ragazzo te l’ha detto, ma ci sono delle
foto di voi due insieme che girano.
Sarebbe un casino se diventassero pubbliche, non credi?”
“E-e io cosa posso fare?”
“Lasciati scopare e brucerò i negativi.”
“Davvero?”
“Certo. Passerò un’altra volta per la
risposta.”
La mano sul seno si spostò sotto la mia maglietta, con una
spinta violenta fece
saltare i gancetti e si prese il reggiseno, mi fece male. Lui invece lo
annusò
estasiato e sparì.
Mi chiusi nel negozio e poi corsi in bagno a vomitare,
non mi aveva fatto niente, eppure mi sentivo violata, come aveva osato?
Controllai i filmati delle videocamere, tutto era stato
ripreso, io feci in modo di farne una copia e di metterlo da parte per
farlo vedere al mio capo. Lui
poteva essere uno sfruttatore e uno stronzo, ma odiava i maniaci e si
preoccupava
sempre per me visto che il turno di notte era sempre mio.
Finalmente arrivò il momento di chiudere il negozio,
presi l’incasso e i nastri della sorveglianza, abbassai la
serranda e chiusi.
Andai a casa del mio capo, che distava cinquecento metri,
e suonai il campanello. Lui uscì come ogni sera, io gli
consegnai l’incasso e
le chiavi.
“Vorrei discutere qualcosa con lei domani mattina, se
possibile.”
“Cosa è successo, Misato?”
“Niente, è solo passata una persona fastidiosa al
negozio.”
“Un maniaco?”
“Qualcosa del genere.”
“Va bene, ne parleremo domani.
Va’ a casa, sono preoccupato per te.”
“Grazie. Buonanotte, allora.”
“Buonanotte a lei.”
Chiamai Shin e gli chiesi di venirmi a prendere.
“Sì, arrivo. Sono nei paraggi, tu vai al
chioschetto.”
“Va bene.”
Il chioschetto stava chiudendo.
“Posso aspettare qui il mio ragazzo, per favore?”
“Sì, certo. Gira brutta gente.”
Shin arrivò un quarto d’ora dopo e mi
abbracciò.
“Tutto bene?”
“È passato… e si è portato
via il mio reggiseno.”
Shin strinse i pugni.
“Lo ammazzo.”
“No, segui il piano di Yasu. È più
sicuro, adesso portami a casa, per favore.
Non ce la faccio più a stare qui.”
Lui annuì e mi prese per mano, lentamente ci dirigemmo verso
la metro, questa
lunga giornata stava per finire finalmente.
Dopo avergli annunciato le malefatte del fratello,
nessuno dei due disse più niente durante la corsa affollata
di studenti che
come me lavoravano fino a tardi per mantenersi gli studi.
Scendemmo alla mia fermata e quando arrivammo in
superficie fu un sollievo sentire il freddo e la neve cadere dopo il
viaggio su
una carrozza sovraffollata.
“Ti fermeresti a dormire da me?”
“Sei sicura della proposta?”
Mi resi conto del secondo fine che conteneva e arrossii violentemente.
“Non volevo dire che voglio fare, ecco, sesso con te.
Non voglio stare da sola stanotte, ecco tutto.
Sono rimasta scossa e mi fa sentire più sicura sapere che
c’è un’altra persona in casa.”
Lui rise.
“Tranquilla, lo sapevo che non era un invito a far
sesso.”
Entrammo nel condominio e salimmo le scale fino al
appartamento, lo aprii stanca e demotivata.
“Io vado a fare una doccia, tu fa come se fossi a casa
tua. Di là c’è la cucina, ma non
c’è birra perché sono ancora
minorenne.”
“Ok.”
Presi i vestiti che usavo in casa e mi fiondai in bagno. La doccia fu
lunga e
bollente, volevo togliermi di dosso ogni traccia, anche minima, delle mani che mi avevano
strappato il
reggiseno con una violenza che non mi meritavo.
Quando uscii Shin era fuori sul terrazzino, lo raggiunsi
e mi accesi una sigaretta.
“Sei sicura di stare bene, Misato?”
“Adesso sì, mi sono tolta tutte le tracce di quel
porco.”
“Mi dispiace, non volevo che finissi in questo casino per
colpa mia.”
“Non è colpa tua, è colpa di tuo
fratello.
È lui lo stronzo, non tu, non metterti strane idee in
testa.
Abbracciami, piuttosto, fa freddo.”
Lui mi abbracciò da dietro.
“Mi piace la neve, mi ricorda il mio paese natale, la
Svezia.”
“Deve essere un bel posto, ti ha dato alla luce. Anche a me
piace la neve.”
“Beh, prima dei Blast la Svezia mi faceva sentire a casa. Poi
sono arrivati i
ragazzi e infine tu, adesso ho una casa anche in Giappone.”
Sorrisi e mi strinse di più.
“Sono felice.”
Rimanemmo ancora un po’ in contemplazione poi entrammo,
adesso eravamo a disagio.
Raccolsi tutto il mio coraggio per dire quello che avevo
in mente.
“Senti, il divano è scomodo. Dormi con
me.”
Lui mi guardò stupito.
“Ok.”
Andammo in camera mia e cominciammo a spogliarci, io ero rossa come un
pomodoro
e anche lui sembrava più rosa del solito.
Ci mettemmo a letto e lui mi attirò a sé, notando
che
tremavo.
Il tremore finì, non seppi mai se era per freddo o paura,
ma smise.
Shin emanava tepore, di quello simile alle terme fatto a
posta per rilassare.
Mi addormentai subito senza pensare a quello che era
successo.
Fu come se qualcuno avesse buttato una coperta nera su di
me ed ero grata a quella persona immaginaria.
Avevo davvero bisogno di riposo.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo
ventiduesimo.
Quando si desidera una cosa
bisogna avere pazienza.
Non importa quanti
ostacoli il destino metta sulla tua
strada,
se tu ami quella persona
tu li salterai, li scavalcherai
o li scalerai se necessario.
Per Shin avrei scalato
una montagna.
-Misato Uehara.
La mattina dopo mi svegliai in un
silenzio ovattato,
allungai la mano quel tanto che bastava per tirare un po’ la
tenda e mi
meravigliai. Aveva continuato a nevicare per tutta la notte e ora Tokyo
sembrava glassata, la metro avrebbe funzionato?
Sarei riuscita ad arrivare in tempo dal mio capo?
Non vedevo l’ora di togliermi il dente, volevo che il
fratello di Shin pagasse per tutte le sue malefatte e che ci lasciasse
in pace.
Parlando di Shin mi girai piano verso di lui e notai che dormiva ancora
con
un’espressione così serena che rimasi sorpresa.
Sembrava un bambino, era così vulnerabile che ne ebbi
paura, in quello stato tutto poteva fargli del male, persino io,
soprattutto
io.
“Non ti ferirò.”
Mormorai.
“Non sarò come tutte le donne della mia famiglia,
io sarò
diversa.”
Svegliai Shin, lui mi sorrise.
“Buongiorno, principessa. Che stavi dicendo prima?”
“Niente, commentavo che è caduta un sacco di neve
stanotte.”
“Ok.”
Mentre lui faceva la doccia io preparai la colazione, poi
toccò a me.
Fuori faceva davvero freddo, non credevo potesse fare
così freddo in città, ci affrettammo verso la
metropolitana, almeno lì ci
sarebbe stato caldo. Poi volevo parlare al mio capo il prima possibile.
La metro funzionava per fortuna e salimmo sul vagone che
portava verso dove lavoravo, era pieno di studenti e impiegati come al
solito.
Eravamo schiacciati come sardine, non vedevo l’ora di fare la
patente e possedere
un auto mia o almeno un motorino. Ero stanca di farmi schiacciare.
Arrivammo alla nostra fermata e scendemmo, respirare aria
quasi pura fu un sollievo.
“È presto, sei sicura che il tuo capo sia sveglio
a
quest’ora?”
Guardai il cellulare, effettivamente eravamo un po’ in
anticipo.
“Fermiamoci in un bar, così beviamo qualcosa di
caldo.”
Lui annuì ed entrammo nel primo locale che vedemmo, non
era molto pieno, sperai che la roba non facesse troppo schifo o che non
fosse
troppo cara visto che né io né Shin navigavamo
nell’oro.
Ordinammo un cappuccino, che arrivò poco dopo con qualche
pasticcino come decorazione, lo assaggiai: era buono.
“Buono.”
Mormorò Shin.
“Sì.”
Risposi io, ero sulle spine ora che il momento era arrivato.
“Non ti preoccupare, andrà tutto bene.”
Shin mi strinse la mano.
“Sì.”
Ci alzammo e pagammo, come mi aspettavo il prezzo non era dei
più economici.
La casa del mio capo era molto vicina, suonai il
campanello e lui uscì.
Alla mattina sembrava più vecchio e stanco.
“Vieni, Misato. Lui chi è?”
“È Shin, il mio ragazzo.
“Certo. Una ragazza carina come te non rimane da sola a
lungo.”
Commentò con un sorriso.
La sua casa era molto accogliente, un misto di elementi
tradizionali e moderni, sua moglie stava facendo colazione mentre
guardava il
tg del mattino.
“Mi scusi per il disturbo, ma ho pensato che fosse meglio
risolvere questa faccenda subito.”
“Deve essere successo qualcosa ieri sera, mi hai accennato a
una specie di
maniaco.”
“Sì, esattamente.”
Sentii la moglie sbuffare.
“Ecco perché non dovresti far fare il turno di
chiusura a
una ragazza: è pericoloso per lei.”
Lui sbuffò.
“Cosa è successo?”
“Mi ha fatto delle avances e si è portato via il
mio reggiseno.”
Arrossii.
“Ci sono le registrazioni? Altrimenti non possiamo fare
niente.”
Frugai nella mia borsa e porsi i filmati di sorveglianza
al mio capo.
“Ok, adesso guardiamo e poi vedremo cosa fare.”
“Va
bene.”
Mi sentivo un po’ in imbarazzo nel mostrare al mio capo
quei momenti così degradanti per me: ero stata usata come
mero oggetto di una
vendetta. Quel coglione non si era portato via solo il mio reggiseno,
si era
portato via la umanità.
Il mio capo guardava il video senza dire una parola, ma
con un’espressione profondamente disgustata.
“Mi dispiace, Misato. È stato un assalto in piena
regola
e non te lo meritavi, perché sei una brava ragazza. Vorrei
consegnarlo alla
polizia, ma come possiamo?”
“Lui vuole qualcosa da me e ritornerà. Visto che
sarà
un’altra notte di neve, quale occasione migliore?”
“Ok, stanotte lo terrò d’occhio da casa
mia. E quando lo
vedrò passare chiamerò la polizia, dovremmo
riuscirci.”
“Non è un po’ ristretta la tempistica?
Può scappare.”
Disse Shin.
“Sì, hai ragione. Misato non va messa in pericolo
o a
disagio più del necessario. Io lo tratterrò,
cara?”
La moglie alzò la testa dalla sua ciotola.
“Quando ti farò un segnale tu chiama la polizia e
spiega
la situazione, ok?”
“Ok, caro. Per me va bene.”
La sua espressione si era addolcita un attimo, doveva aver visto le
immagini.
“Misato, perché accetti di lavorare la
sera?”
“Per l’affitto. Faccio due lavori e nel tempo che
mi resta studio. Ho bisogno
di continuare a lavorare nel negozio di suo marito.”
Lei sospirò.
“Vorrei che mia figlia avesse la metà della tua
grinta…”
Lo presi come un segnale di approvazione.
“Va bene, allora è deciso.”
“Sì.”
Salutai il mio capo e sua moglie e poi uscimmo da casa loro.
Quel giorno fu eterno.
Dopo la visita al mio capo tornammo a casa, io mi misi in
pari con i compiti e lo studio, Shin studiò un copione e
provò le sue battute.
Non erano molte, faceva il figlio ribelle di un famiglia facoltosa e
alla fine
si redimeva grazie all’amore di una ragazza.
Non andava pazzo per quella sceneggiatura, ma aveva
bisogno di lavorare e farsi un nome se voleva averne di migliori, anche
se la
sua passione erano le produzioni underground.
Finalmente arrivò il momento di uscire per andare a
lavorare al supermercato, baciai Shin e mi avventurai in una Tokyo
coperta di
neve. Non era un problema per la metropolitana, ma le persone in strada
erano
di meno rispetto al solito.
Salii su di una carrozza ansiosa e preoccupata per quello
che mi aspettava alla sera, anche dopo ero distratta, i miei colleghi
erano
leggermente preoccupati perché di solito ero efficiente.
Finalmente arrivai al videonoleggio e dopo aver mangiato
un bento entrai, salutai il mio collega e poi mi cambiai. Indossai la
maglietta
del negozio e battei la mano sulla spalla del ragazzo.
“Dai, sei libero! Da adesso ci sono io.”
“Non credo verrà molta gente con un tempo come
questo.”
“Lo spero.”
“Ah! Speri di farti un sonnellino!”
“Forse.”
Ridacchiai come una scema, non doveva sospettare nulla.
Lui uscì e io mi misi dietro al bancone, esaminai per un
po’ la lista della gente che doveva riportare i video, poi
iniziai a
gironzolare per il negozio sistemando i dvd fuori posto.
La mia ansia aveva raggiunto il culmine, tra poco sarei
esplosa.
Finalmente il bastardo arrivò, io feci finta di nulla e
continuai a sistemare i dvd e le cassette. Avevo paura, ma non dovevo
dimostrarlo o sarebbe stato peggio, gli avrebbe dato più
potere.
Lo sentii alle mie spalle, ma continuai a ignorarlo, lui
mi prese per braccio e mi costrinse a voltarmi.
“Cosa vuoi da me?”
“Lo sai, voglio una risposta da te.”
“Non verrò con te!”
“Mi costringi a usare la forza.”
In un attimo le mie mani erano imprigionate nella stretta di una delle
sue,
l’altra saliva verso il seno mentre mi baciava violentemente.
Io mi divincolavo
come un’anguilla, ma la sua stretta era forte e ora una delle
sue sporche mani
era su una delle mie tette.
“Così è tutto più
eccitante!”
Mugugnò, poi la sua presa svanì, aprii cautamente
gli occhi e lo vidi
trattenuto da due robusti poliziotti, una poliziotta mi avvolse in una
coperta
e mi diede una tazza di the.
“Ragazzo, sei in arresto per tentata violenza
sessuale.”
“Era consenziente!”
“A noi non sembrava per niente e il suo capo dice che non
è la prima volta che le dai fastidio, dice che ha dei
video.”
“Non è vero, voi non sapete chi sono io!”
“Chi sei importa poco, noi abbiamo visto cosa stavi
facendo.”
Lo trascinarono via mentre lui vomitava un fiume di bestemmie, la
poliziotta
rimase.
“Ti senti meglio ora?”
Io bevvi un sorso di the.
“Sì. Grazie per essere intervenuti.”
“Il tuo capo ci ha chiamato.”
“Capisco.”
“Te la senti di venire in commissariato per la
denuncia?”
“Sì, ma vorrei venire con il mio ragazzo.
È possibile?”
“Sì, certo. Chiamalo pure, così ti
sentirai più sicura.
Ma non sarebbe meglio chiamare la tua famiglia?”
“Loro abitano a Okayama, io vivo qui per frequentare il
liceo.”
“Capisco.”
Chiamai Shin e lui arrivò subito. Mi lanciai nelle braccia
di Shin e scoppiai a piangere, buttando fuori in
qualche modo la tensione che avevo accumulato fino a quel momento.
Benché
sapessi che il rischio era calcolato mi ero spaventata comunque, lui
sembrava
deciso a stuprarmi, nonostante la presenza delle telecamere e il fatto
che il
negozio fosse un luogo pubblico. Forse pensava che i soldi di suo padre
avrebbero coperto tutto, non era nemmeno la prima volta che metteva nei
guai
Shin. Il padre non aveva rapporti con Shin, non sapevo da dove venisse
tutta
quella rabbia e non mi importava nemmeno in fin dei conti, bastava che
stesse
lontano da me.
“È tutto
a posto,
Misato. È tutto finito, adesso andiamo alla polizia e lui
sarà punito.”
“Sì, lo so. È la tensione, sono stata
in ansia tutto il
giorno.”
“Ti capisco, ma adesso lui non può più
farti male.”
Io annuii vigorosamente, era davvero finita.
“Devo andare alla polizia per la denuncia, mi
accompagni?”
“Non chiederlo nemmeno. Certo, che vengo.”
“Grazie.”
Il commissariato non era molto lontano, ci andammo mano nella mano a
piedi.
Avevo bisogno di Shin, volevo trascorrere più tempo
possibile con lui e non vedevo l’ora che la nostra
vacanza-appuntamento si
potesse fare.
In commissariato mi trovai ad affrontare quella maschera
di rabbia e odio che era il fratello di Shin, continuò ad
inveire contro di noi
mentre compilavo la denuncia. Non taceva nemmeno sotto le minacce dei
poliziotti, alla fine furono costretti a sbatterlo in guardina.
Sembrava nato
per stare lì, se Shin era un bastardo –
biologicamente parlando – quello era
bastardo dentro, marcio.
Non capivo il suo accanimento, da tempo il mio ragazzo
non era più responsabilità della famiglia
Okazaki, era stato sotto la custodia
legale di Yasu fino al suo diciottesimo compleanno e ora era
maggiorenne e
libero.
Finito di compilare tutti i moduli i poliziotti mi
lasciarono andare, dicendomi che sarei dovuta tornare il giorno dopo
per
confermare il verbale firmandolo.
“E lui?”
Chiesi un filo spaventata.
“Dato il suo comportamento aggressivo rimarrà in
guardina
per tutta la notte, poi potrà contattare il suo avvocato.
Potreste
patteggiare.”
Annuii, non volevo rivedere mai più quel cazzo di
maniaco.
“Puoi andare a casa ora.”
“Sì.”
Guardai l’ora sul cellulare, avevo perso l’ultimo
treno.
Mi alzai comunque e uscii dal commissariato insieme al
mio ragazzo, fuori nevicava ancora.
Io
cominciai a frugare nella borsa con gesti nervosi.
“Misato, che succede?”
“Tra una cosa e l’altra ho perso l’ultimo
treno per tornare a casa, controllo
di avere abbastanza soldi per chiamare un taxi.”
“Io non abito molto lontano da qui, puoi dormire da me,
se ti va.”
Tirai un sospiro di sollievo.
“Sì, mi va. Ti avrei comunque chiesto di venire con me, non me la
sento di dormire da
sola.”
“Comprensibile dopo quello che hai passato.”
Abbassò gli occhi con aria triste, io gli presi una mano tra
le mie.
“Ehi, non è colpa tua. Non pensarci neanche, mi
hai
sentito, Shin?”
“Ma se io non fossi entrato nella tua
vita…”
“Mi saresti mancato.”
“Dici sul serio?”
“Sì. Probabilmente a quest’ora mi starei
dibattendo in pensieri sul presunto
amore per il mio fratellastro, era quello che facevo prima di
conoscerti, ma
poi sei arrivato tu e le cose sono cambiate, adesso so chi sono. O
almeno penso
di saperlo, perché la vita è in continuo
movimento.”
“Deve essere per quello che cerchiamo certezze.”
“E io credo di averne trovata una in te.”
Dissi arrossendo.
“Grazie. È una delle cose più belle che
mi abbiano mai
detto.”
Strinse una della mie mani.
“Andiamo a casa mia, sarai stanca morta.”
Io sorrisi.
“Sì, andiamo. Un letto, una cioccolata e una
dormita mi
rimetteranno in sesto. Domani devo farmi vedere a scuola, almeno per
sapere i
compiti delle vacanze.”
Shin annuì e ci allontanammo insieme nella notte.
L’appartamento di Shin
era piccolo e piuttosto
incasinato.
Sembrava più l’appartamento di un occidentale e
notai che
si tolse la scarpe dopo che me le ero tolte e io e lasciandole a
casaccio, non
si era mai abituato al Giappone. Mi ritrovai a sorridere.
“Come mai sorridi?”
“Non ti sei ancora abituato al Giappone, vero?”
“Ci sto provando, ma mi riesce ancora difficile. Da cosa
l’hai capito? A parte
sapere la mia storia.”
“Le scarpe.”
Gliele indicai.
“Ogni buon giapponese sa che vanno disposte con la punta
verso l’uscita, tu le hai buttate a caso e te le sei tolte
dopo che io l’ho fatto.
D’abitudine non lo fai e ogni giapponese ha
l’abitudine di farlo.”
Lui sorrise.
“Sgamato.”
“Scusami, faccio la maestrina e tu mi hai appena
aiutata.”
“Sei finita nei guai perché frequentavi
me.”
“Questo non conta, non è colpa tua se hai un
fratello stronzo.”
Lui sorrise.
“Vuoi qualcosa? Ho della birra…”
“No, un the caldo va benissimo. Non mi va di bere birra o
altri alcolici.”
“Ok, mettiti comoda.”
Io annuii e mi lasciai cadere a peso morto sul divano, in un angolo del
salotto
c’erano un basso e una chitarra acustica, tutti e due avevano
l’aria di non
essere stati toccati da mesi. Probabilmente erano un residuo di quando
suonava
nei Blast di cui non riusciva, o non voleva, liberarsi. Sembravano
aspettare
qualcuno o qualcosa, che attendessero anche loro Nana?
Che sapessero che se n’era andata e che anche la loro
vita era stata congelata da quel distacco improvviso e inaspettato?
Mi piaceva pensare di sì e le aggiunsi alla lista di cose
e persone che la partenza di mia sorella aveva messo in stand-by.
Ancora una
volta mi chiesi perché se ne fosse andata, ma iniziava a
diventare una domanda
sterile e inutile, i motivi non importavano più, quello che
importava era che
tornasse.
“Ecco il tuo the.”
“Grazie.”
Non mi ero accorta di quanto fossi scioccata finché non
bevvi quel the, sentire
il suo calore dentro di me sembrò restituirmi al mondo.
“Ci voleva proprio.”
Mormorai.
“Stai meglio, ora?”
“Sì, prima mi sembrava di vagare tra argomenti non
importanti per non
affrontare quello che è successo stasera. Il mio monologo
inutile sulle scarpe,
la mia riflessione sugli strumenti musicali erano solo modi per non
pensare.”
“Ah, hai notato quanto sono stati poco usati la mia chitarra
e il mio basso.”
Io annuii.
“Pensi che dovrei riprendere a suonare?”
“Solo se vuoi…”
“Mi piacerebbe suonare il basso.”
“E la chitarra no?”
Il suo sguardo si fece lontano e distante.
“Ho imparato a suonare la chitarra acustica solo per
Reira.”
“Oh, scusami… Io non volevo…”
Lui alzò una mano.
“È tutto okay, lei è nel passato ormai.
Ha scelto l’uomo da amare e non sono io.”
“Takumi, eh?”
“Già, Takumi. Quell’uomo sembra nato per
rubare la felicità agli altri.”
Strinsi la tazza e abbassai gli occhi.
“La ami ancora?”
“È stata la prima ragazza di cui mi sono
innamorato sul
serio, proverò sempre qualcosa per lei, ma amarla?
No, ho smesso di amarla. Ho avuto molti mesi per capirlo
e accettarlo.”
“Lei ti amava?”
“Non lo so, forse a suo modo, un pochino sì. Il
vero amore della sua vita è
Takumi, però, e lei correrà sempre da lui quando
dovrà scegliere. È quello che
ha sempre fatto, spero che un giorno riesca a tenerselo tutto per
sé per
sempre, molte persone smetterebbero di soffrire, inclusa tua
sorella.”
“Mia sorella?”
“A lei Takumi non è mai piaciuto. Prima le ha
portato via Ren con la sua band,
poi Hachi e Ren una seconda volta quando lo ha implicitamente costretto
a
scegliere lui tra Nana e la band.”
“Stronzo.”
Borbottai, pensando a quanto dovesse avere sofferto lei, che
già si portava
addosso la ferita dell’abbandono di nostra madre.
“Se continuiamo a parlare di lui la mia birra si
inacidirà e il tuo the
diventerà amaro, meglio smettere.”
“Sono d’accordo conte, adesso è il
momento di festeggiare, non di piangere.”
Finimmo il the e la birra, Shin portò tutto in cucina e
lo sentii lavare la tazza.
Io ero sul divano a combattere contro me stessa, avevo
già dormito con lui ed era quella la mia intenzione quando
gli avevo chiesto se
potevo stare da lui, eppure avevo più paura adesso che la
prima volta.
Doveva essere l’effetto del trauma che avevo subito,
respirai profondamente e cercai di ritrovare la calma, non potevo
permettere a
un bastardo qualsiasi di rovinarmi la serata e poi ero sicura che Shin
non ci
avrebbe provato. Mi rispettava troppo per farlo, avremmo fatto
l’amore
nell’occasione giusta e non era questa, ora sarebbe sembrato
solo affrettato.
Mi sentii un po’ meglio.
“Che ne dici di andare a dormire, Misato?”
“Sì, ci sto.”
“Sembri nervosa.”
Io scossi le spalle.
“Lo sono, ma non so perché.”
Lui mi abbracciò forte, all’inizio ero spaventata,
ma poi sentendo il suo odore
mi rilassai completamente e rischiai di cadere per terra come un sacco
di
patate. Lui mi sollevò come se fossi una sposa.
“Sei solo spaventata, è normale.
Adesso ci facciamo una dormita e domani le cose
sembreranno migliori.”
Io annuii.
“Shinichi…”
“Sì?”
“Ti amo. Grazie per esserci.
Sei stato la mia medicina.”
“E tu la mia, piccola Misato. Ora è il momento di
andare a letto, sei stanca e
scossa.”
“Sì.
Mi addormentai nelle sue braccia, ancora prima di raggiungere il suo
letto e lo
feci sorridendo.
Era questo l’effetto che mi faceva lui: anche nelle
situazioni peggiori mi rassicurava e mi faceva sorridere come nessuno
mai.
Era questo il vero amore, non ancorarsi a una persona
come se fosse una roccia per non andare a fondo, ma sostenersi a
vicenda.
Nana, sei mai riuscita ad accettare fino in fondo il
sostegno di Ren?
Ren te lo ha mai offerto?
Lo hai percepito?
O forse il tuo bisogno era più primordiale? Volevi
qualcuno legato a te per sempre?
Qualcuno che non scappasse?
È per questo che hai messo una catena e un lucchetto al
collo di Ren?
Come ti sei sentita quando hai scoperto che li ha portati
fino alla fine?
Che ha pensato a te fino alla fine, come testimonia il
regalo per te?
Questo ti ha consolato o ti ha gettato in un abisso di
disperazione ancora più profondo?
È per questo che scappi?
Sono i legami che ti fanno paura?
Sorella, i legami ti avrebbero potuto salvare e forse
possono ancora farlo.
Fu a questo che pensai quella notte tra il sonno e la
veglia, abbracciata stretta al corpo magro di Shin.
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