IL NASTRO SCARLATTO

di Moonfire2394
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** INTRODUZIONE ***
Capitolo 2: *** PREFAZIONE ***
Capitolo 3: *** L'INCENDIO ***
Capitolo 4: *** COMMISSARIO GERICO ***
Capitolo 5: *** LE LEGGENDE SONO TUTTE VERE ***
Capitolo 6: *** IL CAMPO BETELGEUSE ***
Capitolo 7: *** MR BROWN ***
Capitolo 8: *** IL SOGNO ***
Capitolo 9: *** LUPUS HOMINARIUM ***
Capitolo 10: *** LEZIONE DI TIRO CON L'ARCO ***
Capitolo 11: *** UNA RISSA OGNI TANTO NON FA MALE A NESSUNO ***
Capitolo 12: *** IL FIGLIO DELL'AMMAZZA VAMPIRI ***
Capitolo 13: *** SARA ***
Capitolo 14: *** COMPROMESSI ***
Capitolo 15: *** POLVERE E OSSA ***
Capitolo 16: *** IL PROTETTORE SCOMPARSO ***
Capitolo 17: *** LA GUERRA DEI COLORI ***
Capitolo 18: *** EFFETTO OSMOSI ***
Capitolo 19: *** L'ISOLAMENTO ***
Capitolo 20: *** L'ESAME ***
Capitolo 21: *** EDNA ***
Capitolo 22: *** IL VAMPIRO ANOMALO ***
Capitolo 23: *** AL CINEMA ***
Capitolo 24: *** GLI ABOMINI ***
Capitolo 25: *** IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA ***
Capitolo 26: *** Con gli occhi di Edward ***
Capitolo 27: *** I CULLEN ***
Capitolo 28: *** FLAGELLUM DEI ***
Capitolo 29: *** IL CONTRATTO VINCOLANTE ***
Capitolo 30: *** UN FIDANZATO INDESIDERATO ***
Capitolo 31: *** AD OGNI SERRATURA LA SUA CHIAVE ***
Capitolo 32: *** RITORNO A CASA ***
Capitolo 33: *** LA CERIMONIA DEI BOTTINI ***
Capitolo 34: *** LADRI DI BACI ***
Capitolo 35: *** UN ASCIUGAMANO DI TROPPO ***
Capitolo 36: *** L'INTERROGATORIO ***
Capitolo 37: *** IL TRADIMENTO DI UN POPOLO PT. I ***
Capitolo 38: *** IL TRADIMENTO DI UN POPOLO PT. II ***
Capitolo 39: *** LA TANA DEL BIANCONIGLIO ***
Capitolo 40: *** IL LAGO DELLE NINFE DELL'ACQUA ***
Capitolo 41: *** NESSIE ***
Capitolo 42: *** CHI HA SPENTO LA LUCE? ***
Capitolo 43: *** LA FESTA DELLO SCAO LEADH PT.I ***
Capitolo 44: *** LA FESTA DELLO SCAO LEADH PT II ***
Capitolo 45: *** LA POLVERE DEL BUGIARDO ***
Capitolo 46: *** LA PROVA DELLO SCRIGNO ***
Capitolo 47: *** IO NON TEMO LE FIAMME ***
Capitolo 48: *** IL GUERRIERO MASCHERATO ***
Capitolo 49: *** LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA ***
Capitolo 50: *** TOCCATA E FUGA IN RE MINORE ***
Capitolo 51: *** SQUARCIO SPAZIO TEMPORALE ***
Capitolo 52: *** Parentesi ***
Capitolo 53: *** IL CIONDOLO DELLA LUNA ***
Capitolo 54: *** IL NUOVO PROMETEO ***
Capitolo 55: *** L'AKASHA ***
Capitolo 56: *** IL GRANDE BOATO DI LONDRA ***
Capitolo 57: *** LUX OMNIA VINCIT PARTE I ***
Capitolo 58: *** LUX OMNIA VINCIT PARTE II ***
Capitolo 59: *** LUX OMNIA VINCIT PARTE III ***
Capitolo 60: *** L'ANTICO ***
Capitolo 61: *** LASCIA CHE PRENDA IL TUO DOLORE ***
Capitolo 62: *** PROLOGO Pt. 1 ***
Capitolo 63: *** PROLOGO Pt. 2 ***
Capitolo 64: *** PROLOGO Pt. 3 (FINALE) ***



Capitolo 1
*** INTRODUZIONE ***


Ciao a tutti, qui é Moonfire2394 che vi parla! Vorrei spedere due brevi parole su questa fanfiction, nel caso in cui vi foste vagamente interessati alla trama e credo siano doverose alcune precisazioni. 

- E' la prima volta che pubblico qualcosa di mio. L'idea é nata molti anni fa, leggendo la saga della Meyer. Chi fra noi non ci ha fantasticato un po' su? ;) Ho deciso di riprenderla in mano da poco e mi sono detta: perché non condividerla con gli altri? Scrivo per passione, quindi non mi aspetto di avere chissà quale riscontro positivo, in ogni caso sono determinata a portare a termine questo progetto.

- Preavviso: è una fanfiction LONG. La storia é una ambientata fra gli anni 40' e 50',  molto tempo prima che Bella incontrasse il suo bel vampiro tormentato. Quindi i fatti narrati sono antecedenti a Twilight e comunque rimangono invariati e modellati sui nuovi personaggi di mia invezione introdotti in questo universo.

- Mi sono permessa di aggiungere diversi elementi nuovi rispetto alla saga originale ( come alcune new entry ma di questo ne parlero' sotto) oltre ai vampiri e ai licantropi: alla mischia del sovrannaturale si uniranno anche gli stregoni, le fate, alcune creature mitologiche, banshee e molto altro, compresi i cacciatori di esseri sovrannaturali chiamati Protettori. 

- I membri della famiglia Cullen verrano citati in più occasioni e verrano coinvolti in diversi punti della trama ma é bene precisare che non saranno i protagonisti di questa fanfiction, sebbene elementi preziosi e indispensabili per il susseguirsi degli avvenimenti della storia, soprattutto Edward.

- I protagonisti sono i giovani gemelli prodigio Leona e Gabriel, anche se la storia viene raccontata dal punto di vista della prima, con qualche cambio di POV durante la storia (vedi Gabriel, Fabiano, Morgana ecc.). Mi rendo conto che molti di voi sono abituati a fanfiction che hanno come fulcro principale i personaggi di twilight, ma spero comunque che riusciate a dare una possibilità a queste nuove figure e ambientazione perché credo, anche se ovviamente sono di parte U.U, che ne valga la pena e magari, inaspettatamente, proverete empatia per almeno qualcuno di loro.

Detto questo, spero che la storia vi piaccia e vi faccia appassionare. Non mi resta che augurarvi buona lettura! Non dimenticatevi di farmi sapere cosa ne pensate.

PS. Un bacio a tutti i lettori silenziosi che hanno già  dedicato qualche ora del loro tempo a leggere i miei capitoli.

 

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Capitolo 2
*** PREFAZIONE ***


Londra, 1952

C’eravamo solo noi due in quei verdi boschi incantati, strappati dalle pagine di una fiaba. I suoi fratelli, Alice e Jasper, lo precedevano ai confini della città. Le mie spade erano ancora sporche del sangue di quelle abominevoli creature.
“Vorrei non averti mai incontrato, Edward Cullen. Sarebbe tutto molto più facile” – gli confessai fissando, impavida, il cremisi dei suoi occhi da vampiro.
“Non mentire a te stessa” – disse lui comprensivo, svelando le bugie ingarbugliate fra i miei pensieri.
“Hai ragione, con te non c’è gusto. Adesso dovrò fare i conti col mio castello di menzogne” – sospirai rassegnata mentre mondavo le lame su quel tappeto di foglie.
“Sappi che io non ti giudicherò per ciò che hai fatto, sarei un ipocrita” – sogghignò sfoggiando un sorriso sghembo.
“Rimarrà il nostro segreto”
“Me lo prometti?”
“Ti prometto che un giorno, non proverai più vergogna per quanto accaduto. Ne andrai fiera piuttosto” – sussurrò mentre il suo sguardo ardeva dentro il mio.
“Corri dalla tua famiglia, prima che cambi idea”.
Il vampiro si mosse in un sfruscio di fogliame vorticante e lambì compassionevolmente la mia guancia, ferita dal suo gelido tocco, dentro il palmo della sua mano esangue.
“Vai fino in fondo in questa storia, so che ne verrai a capo anche senza il nostro aiuto. Questa non è la mia guerra ma la tua. Prenditi cura di te, fino al giorno in cui ci rincontreremo, piccola tempesta” – m’intimò, premuroso come un fratello maggiore.
“Anche tu” – rantolai timidamente con un magone in gola.
Soffrì tremendamente quando gli voltai le spalle, ma quello era un addio.
“Leona?”
“Sì, Edward” - gli risposi senza voltarmi.
“Adesso va, il Flagello di Dio ti aspetta ai cancelli del cimitero di Highgate”.
 Cercai ancora un’ultima volta il suo volto sperando che fosse lì per me a dissolvere ogni mio dubbio ma lui non c’era più.
“Andiamo Edna” – dissi al mio segugio.
“Abbiamo ancora dei conti in sospeso”.


 

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Capitolo 3
*** L'INCENDIO ***


Capitolo 1 - L'incendio

Siracusa, 3 luglio 1946
Stavo seduta sulla panchina, alternando il movimento delle gambe, nel giardino di casa con indosso una coperta lercia e intrisa di fumo. Non capivo perché me l'avessero data, c’era un caldo tremendo. Mi fischiavano le orecchie, ogni rumore era ovattato, come se fossi stata chiusa dentro una scatola. Degli uomini con tute gialle e delle buffe maschere correvano a destra e a manca creando il caos: assomigliavano tanto a uno sciame d'api. Gridavano squarcia gola fra loro ma non riuscivo ad afferrare il senso nemmeno di una parola. La mia attenzione era rivolta altrove. La casa di fronte a me era avvolta dalle fiamme e non c'era modo di placare l'incendio. Il sole era coperto da una cortina nerastra a forma di fungo. Osservavo l'uomo-ape aggrapparsi alla chilometrica scala. Teneva fra le mani una pompa dell'acqua. Fantasticai un po’: chissà se con quella scala sarei potuta arrivare fin lassù nel cielo per abbracciare la mia mamma e il mio papà per l’ultima volta. Non esisteva nessun altro essere umano su questa terra che meritasse più di loro il paradiso. Sebbene fossi perfettamente consapevole che non sarebbero più tornati, feci credere allo zio di essermi bevuta la sua ridicola storiella sul loro fantomatico lungo viaggio. Mi aveva riempito di domande senza pietà, non vedeva che non riuscivo nemmeno a dischiudere le labbra?
Tentai comunque di ricostruire, come i pezzi di un puzzle, quello che era accaduto rivisitando più volte lo stesso ricordo confuso e frammentato.
Quella mattina i miei genitori avevano ricevuto una telefonata insolita. Mamma aveva insistito tanto affinché andassi con Camilla e Gabriel in paese, così io e mio fratello avremmo potuto giocare con i nostri coetanei al parco. Non mi andava di dirle che non avevo neppure un'amica, mi evitavano tutte come se avessi la peste bubbonica e non facevano che darmi della strega. Forse perché non amavo le bambole come le altre bambine della mia età, al contrario adoravo la natura e tutto ciò che la riguardava. Volevo solo passare una giornata serena nel mio orticello e prendermi cura delle mie piantine, nutrirle, dissetarle con un po' d'acqua e osservarle mentre danzavano per me, quando erano baciate dal sole. Così finsi di avere la febbre per poter poi sgattaiolare nel mio piccolo eden privato al momento opportuno. Era semplice, bastava che lo desiderassi intensamente e come per magia la temperatura cominciava a salire.
Mentre accarezzavo i petali di una rosa, una lieve brezza mi spostò i capelli e un lampo di luce improvviso catturò la mia curiosità. Senza che me ne accorgessi, alle mie spalle, una figura minuta bloccava la chiusura della porta. Non riuscivo a vederla bene in viso, per via del cappuccio, ma doveva essere senz'altro una ragazza. Delle lunghissime ciocche di puro argento fuoriuscivano dal copricapo e le sue braccia sembravano ricoperte da milioni di minuscoli diamanti quando colpite dalla luce solare. Il buon senso avrebbe dovuto suggerirmi di gridare, invece rimasi a fissarla incantata e terrorizzata allo stesso tempo. Portò lentamente un dito alle labbra violacee intimandomi di fare silenzio e svanì dalla mia vista così com'era apparsa. Mi alzai in fretta e ritornai a casa per inseguire quello strano essere. Magari era la fatina dei denti.
Tirai un sospiro di sollievo non appena capì che la porta non era stata chiusa dall'interno. Insieme al familiare cigolio d'apertura, però, avvertì immediatamente qualcosa di diverso. Cos'era quell'odore di fiori marci e appassiti?  Fetore di cimitero, lo conoscevo bene. Quando andavamo a far visita alla tomba di nonna Ferdinanda, ero costretta a tapparmi le narici. Un misto tra esageratamente dolce e secco, un connubio quasi perfetto che ricordava la morte. Lo detestavo con tutta me stessa. Levai le scarpe e le poggiai sul davanzale per non dare alito ad alcun suono. Calpestando la moquette a piedi nudi, attraversai il corridoio e provai a sbirciare cautamente in salotto. Mi guardai attorno ma non trovai nulla di sospetto, tutto sembrava al proprio posto: il gira dischi vicino al tavolo in mogano, il tendaggio color crema identico alla stoffa di cui erano rivestiti i divani su cui sovente Camilla trascorreva i pomeriggi a rammendare i calzini bucati di mio fratello Gabriel,  e il vaso con le camelie, i fiori preferiti di mamma. Cominciai a credere che mi fossi immaginata ogni cosa. Feci per andare via ma con la coda dell'occhio scrutai l'angolo della stanza. Mi aspettavo di trovare Pesciolino nuotare felice nel suo acquario, con la stessa espressione apatica tipica dei pesci rossi ma non fu così. Pesciolino non era mai stato particolarmente vivace ma intuì che quel ventre all'insù, la bocca aperta e le branchie immobili non significavano nulla di buono. E non era tutto: anche lo scenario era tramutato. Le alghe non più verdi e rosse, ora erano nere e marce. Le osservavo mentre si sbriciolavano lentamente dissolvendosi nel nulla. Fuggì via da quella stanza con il cuore che spingeva contro le mie costole. Poi sentì dei cassetti sbattere violentemente e delle voci provenire dallo studio di papà. Mi accostai allo stipite della porta e il tanfo di morte s’intensificò. Avevo una paura tremenda ma nulla poteva contro la mia malsana curiosità.
“E' tutto inutile” - disse il ragazzo col giubbotto di pelle nera - “Non c'é nessuna traccia, eppure dovrebbe essere qui, diamine!”.
Non mi aspettavo di trovare qualcuno in quella stanza così, spontaneamente, gettai un gridolino. Capendo il fatale errore, mi coprì la bocca con entrambe le mani anche se era troppo tardi. Avevo due occhi rossi come il sangue puntati su di me. Non avevo mai visto niente di così pauroso, andava oltre il mio peggior incubo. Il giovane però, nonostante avesse una brutta cicatrice che gli solcava metà zigomo, era di una bellezza indiscutibile.
“E tu da dove salti fuori?” - disse provando a sorridermi.
Era inquietante. Fece dei timidi passi verso di me come se volesse provare a toccarmi ma io indietreggiai.
“Lasciala stare, non ci provare nemmeno”.
Un uomo incappucciato di nero, come la ragazza di poco prima, stava seduto beatamente sulla poltrona di mio padre come se fosse stato invitato ad accomodarsi. La voce doveva provenire per forza da lui, non c'era nessun altro nella stanza. Era talmente immobile da sembrare una statua. Le sue mani bianchissime erano allacciate l'una all'altra sul suo grembo.
“Ci ha visto, non possiamo lasciarla scappare”.
Cosa? Che avevano intenzione di farmi?
“Sam, Sam, Sam, mio caro Sam” - interruppe la ragazza dai capelli argentei - “Lo sai che noi non uccidiamo gli innocenti. E' la regola. La ragazzina non parlerà. Non é così piccola?”.
Adesso non aveva più il cappuccio sulla testa ma il suo volto era ugualmente coperto da una maschera dorata.
“Oh come sei dolce con i tuoi occhietti tutti impauriti. Sta tranquilla non ti faremo del male. Dimmi un po' questo é tuo?” - mi chiese mettendo in bella vista Mr. Brown, il mio orsacchiotto di peluche.
“Adesso ti metti pure a rubare giocattoli, eh? Perché non mi aiuti invece di perdere tempo?” - disse il ragazzo con la cicatrice.
“Come osi rivolgerti in questo modo alla tua Regina!” - gli rispose lei alzando la voce. Era chiaramente furiosa.
“Non sei la regina proprio di nessuno, non mi fai paura”.
Detto questo, lei lo scaraventò con un calcio dall'altra parte dello studio. Fu velocissima, facevo fatica a seguirla con lo sguardo. Il ragazzo andò a sbattere contro la libreria e si creò un gran disordine. Lo raggiunse in un attimo, lo afferrò per la camicia e lo alzò finché i suoi piedi non si staccarono dal pavimento come se pesasse poco meno di una piuma. Poi, con il gomito all'altezza del viso, agitò le dita nere come la pece. Sembrava che le avesse infilate dentro un calamaio sporcandosele d'inchiostro. Sul viso del giovane spuntarono delle sporgenti vene bluastre e cominciò ad ansimare. Il rosso dell'iride lasciò il posto al nero delle pupille espandendosi fino a diventare due cavità vuote.
“Adesso basta giocare, dovete concentrarvi sulla missione” - disse l'uomo col cappuccio.
La ragazza ubbidì a malincuore e mollò la presa sulla camicia del ragazzo che cadde a terra tossendo convulsivamente.
“Sta volta ti é data bene, Sam caro. Ricorda però: non ci sarà sempre il mio fratellino a proteggerti. Non provare a provocarmi di nuovo o te ne pentirai”.
Poi successe qualcosa d'inaspettato. Qualcuno da fuori aveva lanciato una lattina apparentemente innocua. Ticchettò' sul pavimento finché a un certo punto si fermò. Click. La stanza si riempì di un gas verdastro e non riuscì a vedere più nulla. Qualcuno mi afferrò da dietro e mi trascinò via da quella baraonda. Quando riaprì gli occhi, mi trovai fra le braccia rassicuranti di mia madre. Fui così felice, avrei voluto piangere. Arrivati in cucina, mi mise sul bancone e si assicurò che stessi bene. Indossava degli indumenti stranissimi. Aveva l'aria di una tenuta da combattimento corazzata. Sui fianchi portava due foderi per pugnali e sulla schiena una faretra ricca di frecce dalla punta verde. I capelli erano raccolti in una treccia ordinata e la faccia era colorata con simboli di cui non conoscevo il significato.
Nelle stanze accanto udì l'insistente clangore di una spada che s'infrange su qualcosa di solido. Lessi la paura negli occhi neri di mia madre e capì che papà era di là a proteggerci. La guardai e le dissi: “vai”. Lei sembrava sull'orlo di una crisi di pianto ma riuscì a conservare la sua dignità fino alla fine. Mi baciò forte la fronte tanto da farmi quasi male e mi disse: “Vi amiamo tanto. Dì a Gabriel che non avremmo mai voluto lasciarvi. Non siate tristi. Voi non siete soli perché avete l'un l'altra, insieme sarete invincibili”.
Appoggiò la sua fronte contro la mia: “Segui sempre il tuo istinto mia piccola coccinella”.
Poi mi afferrò i polsi e aggiunse: “Non permetteremo che li trovino. Quando sarà giunto il momento, lo capirai. Chiedi alla persona di cui più ti fidi al mondo, lei saprà cosa fare” - senza capire a cosa si riferisse.
Sorrise per qualche strano motivo e lasciai la mano di mia madre ignara che quella fosse l'ultima volta che l'avrei vista viva.
Il ricordo da lì in poi diventava una rete fitta di nebbia. Il ragazzo col cappotto di pelle gridava: “Dove sono? Dove li avete nascosti?”.
Quando varcai la porta, trovai mia madre stretta al vampiro la cui identità era ignota, mentre le affondava, con i suoi canini affilati come rasoi, la carne. Vidi mio padre, accecato dalla rabbia, lanciarsi contro il suo nemico e battersi valorosamente come un guerriero. Una testa mozzata che rotolava. La macchia di sangue sul pavimento che si allargava sempre di più. Mi faceva male il cuore non riuscivo a smettere di piangere. L'ultima cosa che ricordavo era il calore che inaridiva i miei bulbi oculari. Il fuoco mi solleticava e basta, mi faceva semplicemente il solletico. E infine le urla.

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Capitolo 4
*** COMMISSARIO GERICO ***


Capitolo 1.1 – Commissario Gerico

Mamma me lo aveva predetto pochi giorni prima: “Devi essere forte mia piccola coccinella. Se un giorno io e papà non ci saremo più, promettimi che ti prenderai cura di tuo fratello”. E chi si sarebbe preso cura di me? Non mi piaceva proprio per nulla zio Mark. L'alito gli puzzava di aglio. Guardai di nuovo la facciata di casa mia. Non era certo la prima volta che la vedevo ridotta in quello stato. I bombardamenti degli anni precedenti avevano messo a dura prova quella solida struttura. Alla fine sarebbe crollata comunque. Poi vidi la vicina e il marito avvicinarsi. I capelli della donna erano perfettamente laccati e avanzava imperterrita con il suo grosso neo vicino al naso. Gabriel ed io la predavamo sempre in giro. A volte giocavamo facendo finta che la sua dimora fosse un castello e che lei fosse la strega che ci abitava. Si chinò su di me poggiando le ginocchia sul prato.
“Povera piccola” - mi disse con la sua vocina insopportabile - “Mi si spezza il cuore pensando a quello che v'é accaduto. Devi essere molto scossa”.
Non sapevo che rispondere, preferivo stare in silenzio. Abbassai gli occhi a terra sperando che capisse che volevo rimanere sola ma continuò: “Di qualunque cosa tu e tuo fratello abbiate bisogno non dovete fare altro che chiedere” - e mi diede un buffetto sulla spalla.
All'improvviso esclamò: “Ma tu scotti!”.
Mi ritrassi indietro e nascosi la testa dentro la coperta come una tartaruga col suo guscio. Ero al sicuro la dentro, non poteva raggiungermi. Un gesto così familiare per me che mi ricordava i lunghi giorni ad aspettare che le bombe sopra di noi smettessero di esplodere. Per un attimo mi sentì come se mi trovassi di nuovo sotto terra, nascosta nel bunker. Il mio gemello ed io rimanevamo avvolti nella coperta di lana della nonna Ferdinanda mentre a ogni scossa il soffitto tremava e i detriti ci cadevano addosso. Mi mancava il sole sulla pelle più di ogni altra cosa. Mio padre affermava che con l'avvento della guerra i loro veri nemici sfruttavano il caos e i morti per agire indisturbati e senza freni. Per questo spesso e volentieri rimanevano via per giorni. Ogni tanto, però, sia lui sia la mamma ci venivano a trovare o almeno fin quando non erano impegnati nelle loro missioni. Restavamo in cerchio attorno a una flebile luce proveniente da una lanterna raccontandoci storie di giovani soldati che presto sarebbero venuti a salvarci attraversando l'oceano con grandi navi, ma dovevamo avere pazienza.
“Lasciamola in pace mia adorata” - disse saggiamente il marito accanto a lei. “Sta arrivando il fratello”.
Non appena pronunciò quella frase, lasciai il mio rifugio e allungai il collo. Fuori dal recinto una folla di siracusani impiccioni e pettegoli era accorsa ad assistere allo spettacolo offerto dalle fiamme. Li vedevo bisbigliare freneticamente fra loro.
Avvistai una figura totalmente fuori dal coro, immobile e isolata dal resto di quella baraonda di chiacchiere. Indossava degli indumenti strani, non avrei saputo descriverli con precisione. Erano i lineamenti di un uomo alto e atletico. I muscoli s'intravedevano da quella bizzarra giacca aderente. La chiusura era stata realizzata incastrando dei piccoli dentini di metallo l’uno con l’altro. I suoi pantaloni, strappati qua e la, erano di un tessuto che non riuscivo a riconoscere, di un colore azzurro, slavato, come il cielo sereno. Ebbi come l’impressione che fosse fuori epoca, uno straniero venuto da lontano. Per via della sua postura ricurva, avrei osato dire che fosse profondamente triste. Stringeva i pugni lungo i fianchi. Lo straniero aveva un cappuccio sulla testa, anche se riuscivo a intravedere qualche ciuffo nero che mi ricordava mio fratello. Fu allora che notai la zazzera di capelli neri di Gabriel che si avvicinava piano, guardando attonito la nostra casa che andava in pezzi. Poi la calca di gente si fece sempre più claustrofobica e persi di vista quel bizzarro individuo.
La nostra balia, Camilla, accompagnava mio fratello con sguardo truce: aveva una mano sulla sua spalla e l'altra le copriva la bocca come se non potesse credere all'orrore che si consumava davanti a lei. Mio fratello varcò i cancelli di casa e fu accolto dallo zio e da altri due uomini che si portava sempre dietro. Avevano anche loro sul polso destro lo stesso marchio di mamma e papà: un occhio aperto con dietro due spade incrociate. Vedevo solo le bocche muoversi, non era a portata di orecchio, anche se non era difficile immaginare cosa si stessero dicendo. Sembrava così piccolo da lontano il suo corpicino, nessuno si sarebbe aspettato che avesse dei polmoni così forti: cominciò a urlare e a piangere come un pazzo. L'uomo accanto allo zio lo prese in braccio per farlo calmare ma lui continuò a dibattersi senza sosta. Nello stesso istante, come se avesse preso vita propria, la pompa che era in mano al vigile del fuoco esplose. Con una violenza inaudita il flusso d'acqua lo fece sbalzare via all'indietro di una decina di metri. Approfittando dell'attimo di distrazione, Gabriel scivolò e fuggì via. Lo vidi fermarsi e guardarsi intorno con ancora i lucciconi agli occhi.
Sapevo chi stava cercando.
Lasciai cadere la sudicia coperta sulla panchina e corsi da lui. Non appena entrai nel suo campo visivo, anche lui mi venne incontro. Ci infrangemmo come un'onda sulla scogliera legandoci in un abbraccio indistruttibile. Il suo corpo era scosso da singhiozzi, lo sentivo tremare. Avevo il collo bagnato dalle sue lacrime, i suoi capelli, a contatto col mio viso, si riempirono di fuliggine. Gli avrei voluto dire: “Non piangere, ci sono io qui, per sempre” - ma non riuscivo a parlare. Continuò a stringere il mio vestito e soffocò l'ennesimo grido sulla mia spalla. Eravamo una cosa sola. In me si rinnovò il dolore di poco prima come se stesse accadendo di nuovo per la prima volta. Cademmo entrambi in ginocchio senza spezzare l'abbraccio. Passarono quelle che sembrarono ore in quella posizione. Era come se quell'unione fosse l'unica cosa che ci impediva di romperci in mille pezzi.
Arrivarono anche i giornalisti e la polizia. Il commissario fece chiudere l'area con del nastro per evitare che la gente ficcasse il naso dove non avrebbe dovuto. Stava lì con il suo impermeabile grigio topo con una mano dentro la tasca mentre l'altra reggeva un mozzicone di sigaretta ancora accesa. Nonostante il disastro davanti a lui sembrava impassibile come se stesse guardando una di quelle pellicole in bianco e nero al cinema. Terminò quello che rimaneva della cicca e la spense sotto i piedi. Poi con un cenno delle dita fece avvicinare i due individui giunti per fare il sopralluogo. L'uomo occhialuto, che stringeva fra le mani un taccuino, non appena captò il gesto del suo superiore, accorse subito lasciando cadere l'elegante penna a sfera per la fretta, l'altro con l'espressione arcigna stampata sul volto era tutt'altro che entusiasta di ubbidire al suo ordine. Nel frattempo, preso per mano Gabriel, ci avvicinammo per ascoltare.
“Cos'é stata? Una fuga di gas?” - disse il commissario rivolgendosi ai due uomini.
Rispose quello con gli occhiali: “No signore, dalla perizia abbiamo potuto capire che si tratta quasi con certezza di un incendio doloso”.
“Quante vittime?” - domandò ancora.
“Due identificate signore, si tratta dei coniugi Braveheart. Venticinque e ventisette anni, lei italiana, lui americano. La figlia era con loro quando é successa la disgrazia ed é miracolosamente rimasta illesa. Il fratello si trovava in città con la balia”.
Mio fratello mi stritolò la mano per non crollare nuovamente.
Il commissario ci osservò con gli occhi iniettati di sangue. Il baffo ben curato non riusciva a nascondere il serio problema di bruxismo che lo costringeva a scoprire i denti macchiati di un disgustoso colore giallastro. Sembrava quasi insoddisfatto della versione fornitagli dal suo sottoposto. Non era di certo un tipo che si lasciava ingannare dalle apparenze.
“Lui é americano eh?” - commentò il commissario - “Hanno preso le nostre donne anche prima che sbarcassero lungo le coste del mediterraneo come se fossero dei onnipotenti” .
Come poteva parlare del mio papà in quel modo? Lui era un eroe. Non l'aveva mica costretta la mamma a sposarlo. Loro due si amavano tantissimo. Papà era originario del Cansas e all'età di diciassette anni si era arruolato nell'esercito degli Stati Uniti d'America. Sette anni fa era giunto in Sicilia per una missione importantissima: era alla ricerca di due oggetti molto antichi chiamati le “reliquie”. Si diceva fossero perduti da secoli ormai, anche se alcune leggende narravano che si trovassero alle grotte di Dioniso a Siracusa. Amava raccontarci della prima volta che aveva incontrato la mamma: non aveva mai visto una donna più aggraziata di lei, lo aveva stregato con la sua bellezza, non poteva dimenticare quei lunghi capelli neri come il carbone e quegli occhi cosi grandi ed espressivi che le illuminavano il viso. Mamma inizialmente non voleva avere nulla a che fare con quel borioso, arrogante biondino americano che le faceva una corte sfrenata. Un giorno poi le salvò la vita e le cose cambiarono improvvisamente.
“A dire il vero” - cominciò l'altro assistente - “ci sarebbe un terzo corpo carbonizzato ma non abbiamo idea di chi sia. Siamo più che certi che quello che è accaduto è tutt'altro che un incidente. Non so cosa sia successo là dentro. Dovremmo essere abituati alla violenza con i tempi che corrono... ma questo”.
“Spiegati” - lo incitò il commissario.
“Abbiamo trovato all'interno dell'abitazione, vicino ai signori Braveheart, un cadavere senza testa già in decomposizione” - disse titubante. “Il dottor Sorrenti è riuscito a prelevare solo qualche campione prima che il corpo si polverizzasse completamente. In qualche modo i due coniugi presentano ustioni in tutto il corpo ma sono già stati identificati dal loro parente più prossimo. La donna è stata trovata con una spada conficcata nel cuore e il marito sembrerebbe essere morto di dissanguato. Questa sarà una bella gatta da pelare. Anche se non escluderei a priori il delitto passionale o la legittima difesa”.
“E' difficile da stabilire a freddo, senza indizi certi. Noi non tiriamo a indovinare”.
“Non abbiamo potuto perlustrare ancora i piani superiori, i vigili hanno qualche difficoltà a estinguere il fuoco. Non abbiamo mai visto niente del genere”.
“Commissario Gerico?” - esordì zio Mark porgendo cordialmente la mano all'uomo con l'impermeabile grigio. Lui la afferrò con decisione e la manica si spostò leggermente verso l'alto. In questo modo intravidi sul polso lo stesso marchio dello zio.
“Hai visto anche tu?” - disse Gabriel
Annui senza dare voce alla mia risposta. Stava accadendo qualcosa di insolito, in qualche modo i nostri genitori, lo zio e lo sconosciuto con i baffi sembravano essere collegati fra loro.
“Sono lo zio dei gemelli, l'unica famiglia che gli é rimasta. Non ho potuto fare almeno di ascoltare la vostra conversazione. Credete veramente che la morte della mia adorabile sorella e di mio cognato sia in realtà un omicidio?”.
“Al piano di sotto per lo meno, non ci sono segni di effrazione, per cui si é supposto che l'assassino conoscesse le vittime tanto da avere libero ingresso nella loro dimora” - rispose l'uomo con gli occhiali.
“Dirà questo ai giornalisti, signor... “ - disse zio Marcellus porgendo la penna che si trovava sul prato all'uomo occhialuto.
“Capuani. Beh io, io, io... “ -  rispose il balbuziente - “Credo sia mio dovere raccontare la verità. E' s-s-sempre la strada migliore da percorrere”.
“Che uomo virtuoso signor Capuani” - borbottò lo zio sistemandogli la giacca leggermente stropicciata.
“Le porgo le mie più sentite condoglianze” - aggiunse il commissario.
“La ringrazio di cuore” - rispose lo zio mettendogli una mano sulla spalla.
Improvvisamente tutti si voltarono nella nostra direzione.
“In realtà l'unica testimone che abbiamo, é la ragazzina. Solo lei sa come sono andate veramente le cose “ - disse il commissario.
“Non ha detto una parola da quando i vigili del fuoco l'hanno tirata fuori dalle macerie. Credo sia in uno stato di shock” - confermò l'uomo alla sua destra.
Gabriel lasciò la mia mano e mi rivolse uno sguardo pieno di attese. Sul suo viso fuligginoso le lacrime avevano tracciato delle righe irregolari, gli occhi erano ancora arrossati. “Cosa é successo veramente a mamma e papà?” - disse tirando su col naso. Aveva ancora la voce impastata dal pianto.
Quella domanda mi colse alla sprovvista. Non pensavo fosse pronto a sentire la mia versione, era troppo presto, non sapevo nemmeno io con certezza cosa fosse accaduto. Un sentimento, nuovo e sconosciuto, cominciò a insinuarsi dentro di me: il senso di colpa, la consapevolezza che ero coinvolta inequivocabilmente con la morte dei nostri genitori senza alcun nesso logico. Non ero stata in grado di proteggerli. Non volevo pensarci su, non potevo farlo o si sarebbe riaperto lo squarcio sul mio cuore. Guardare i suoi occhi, riflesso del cielo grigio che ci sovrastava, mi paralizzò. Mi sentivo la gola secca, non potevo respirare. Riuscì solo a scrollare la testa mentre mi coprivo il volto con un braccio.
“Se é permesso gli lascerei del tempo per elaborare il lutto, sono solo dei bambini”.
“Senz'altro ma vogliamo delle risposte e un colpevole. Faremo di tutto per ottenere entrambe le informazioni” - rispose prontamente il signor Capuani. Poi aggiunse: “Come si chiama la ragazzina?”.
“Leona, signor Capuani. Quello è il fratello, Gabriel” - gli rispose lo zio.
“Come é possibile uscire da quel disastro senza neanche un graffio?” - esclamò il commissario.
Il sig. Capuani abbassò la voce di qualche tonalità: “E' stata trovata sotto una trave vicino ai corpi dei suoi genitori, era impossibile da raggiungere. E' libero di credere o meno ma il capo dei vigili del fuoco ha affermato di averla vista camminare tra le fiamme come se ubbidissero al suo comando. Era come se le tracciassero la via per uscire da quel cumulo di macerie”.
“Non dire sciocchezze Capuani, il fumo deve avergli dato di volta il cervello. Questa poi” - cominciò a ridere - “la ragazzina ignifuga”.
“Avete trovato qualcosa in mezzo ai detriti? Magari una scatola con delle incisioni sopra?” - lo zio sviò prontamente il discorso.
L'uomo accanto a Capuani gli rispose: “Sì certo, perché non va lei dentro a cercare. La nostra priorità é di tirare fuori le persone che ci sono dentro e soffocare l'incendio e come può vedere con il secondo problema abbiamo ancora qualche intoppo” - detto questo ci fu un forte boato alle sue spalle.
“Perché é così importante, cosa c'é dentro?” - s'interessò il commissario.
Lo zio rispose: “Niente di che, solo dei vecchi ricordi di mia sorella. Pensavo che i miei nipoti li volessero conservare”.
Mentre dibattevano fra loro, i movimenti dello zio si fecero alquanto bizzari. Portò una mano all'orecchio percorrendo l'intero padiglione con le dita per poi infine tirare il lobo all'ingiù, intrecciò le mani muovendo ritmicamente prima l'indice, il medio e l'anulare in quest'ordine. Continuò imperterrito con altri gesti che mi solleticavano la memoria ma che in quel momento non riuscivo a collocare.
“Sappiamo-che-é-li-dentro-dobbiamo-trovarla” - disse Gabriel accanto a me.
Lo guardai perplessa.
“Guarda lo zio” - mi disse per rispondere alla mia domanda muta. “Il linguaggio segreto che mi ha insegnato papà!”.
La mia espressione non cambiò. Gabriel, ormai esasperato, copiò gli stessi gesti dello zio sillabando ogni parola. “Stanno cercando qualcosa, e se fosse quello di cui hai sentito parlare qualche mese fa quando hai origliato il litigio di mamma e papà con lo zio?”.
Ascoltavo a mala pena il suo disperato tentativo di razionalizzare l'accaduto. Nelle mie orecchie risuonava la risata tenebrosa di quell'essere oscuro e maligno e della ragazza con i capelli argentei, li vedevo ovunque. Chissà se la mamma si riferiva a quello quando mi aveva promesso che “non le avrebbero trovate”. Che importanza aveva ormai. Potevano portarsi tutto quello che rimaneva di casa nostra, niente aveva più significato per me. Soprattutto quella stupida scatola che probabilmente era costata la vita ai miei genitori. Non riuscivo a trattenere la rabbia, il mio dolore stava lentamente mutando in sete di vendetta: volevo vederli morti ai miei piedi. Non sapevo chi erano né da dove provenissero, ma potevano stare certi che non sarebbero rimasti impuniti. Non importava quanto tempo sarebbe passato, cosa avrei dovuto affrontare, cosa avrei perso lungo la strada, in modo o nell'altro li avrei trovati e li avrei fatti soffrire, per me, per Gabriel e per mamma e papà. Era una promessa. E i Braveheart mantengono sempre le loro promesse.
“Commissario sta arrivando la stampa” - disse il signor Capuani. “Che cosa dobbiamo riferirgli?”.
“La guerra è appena finita, no? Dì che si é trattato di una semplice mina inesplosa e chiudiamo qui la faccenda”.
“ Signore, sono sicuro di poter trovare le prove inconfutabili che sia un omicidio. Abbiamo una grande storia fra le mani” - disse con veemenza il signor Capuani.
Il commissario lo squadrò con gli occhi semi-chiusi fra le folte sopracciglia: “Non lo reputo necessario creare tutto questo trambusto, sarebbe meglio non impaurire i cittadini, che potrebbero fraintendere. Parlare di un omicidio significherebbe mettere in agitazione tutta la comunità, comincerebbero a diffondersi le teorie complottistiche più disparate in un clima già precario come il nostro. La decisione é presa”.
“Lei non può farlo, sta raccontando una bugia su come siano morti i miei genitori, non può infangare la loro memoria!” - cominciò a urlare mio fratello.
“Sta calmo ragazzino cerco di agire per il bene di tutti”.
“Non é vero, state nascondendo qualcosa. Bugiardi!” - continuò ad alta voce Gabriel.
Lo zio, non appena vide che la gente cominciava ad avvinarsi per seguire da vicino la disputa, si affrettò a tranquillizzarlo prendendolo per le spalle: “Shhh... non fare così piccolo guerriero” - lo chiamava con questo nomignolo fin da piccolo.
“Lo so che fa male ma non serve a nulla disperarsi. Non sappiamo come stiano i fatti, il commissario svolge solo il suo lavoro”.
“Perché mentite tutti? Persino tu, zio, cosa stai facendo?”.
Poi Gabriel si rivolse a me piangendo: “Lea ti prego. Dì a tutti come sono andate le cose, tu eri lì con loro, dillo che non é stato un incidente, dimmi che non sono morti per niente, deve esserci una spiegazione! Non possono averci lasciato. Non é vero”.
Crack. Il rumore di un altro pezzo del mio cuore che non voleva più stare al suo posto. Le lacrime stavano in bilico fra le ciglia inferiori indecise se cadere o no. Avrei tanto voluto rispondergli, o almeno l'unica piccola parte di me ancora lucida. Parlare non li avrebbe riportati in vita, mi diceva il dolore che mi logorava dentro.
“No ti prego, ti supplico, no, no, no... “ - delirava Gabriel.
Dovevo sostenere mio fratello, era la cosa giusta da fare, ma il mio corpo non rispondeva più a un solo impulso, non era più sotto il mio controllo, era come se non mi appartenesse. Avvertì di nuovo quella morsa alla bocca dello stomaco, quella sorta di palla infuocata che mi bruciava le viscere. Non era più possibile trattenerla o mi avrebbe ucciso dall'interno. Chiusi gli occhi, mi accovacciai a terra e lasciai che il calore mi avvolgesse e mi cullasse fra le sue braccia. Era lui a controllare me. Il boato di poco prima fu niente in confronto a quello che seguì. Le fiamme avvolsero per l'ultima volta casa mia accogliendola fra le sue spire come se volessero proteggerla, prima di implodere definitivamente scomparendo nel nulla. La cenere scendeva lentamente come neve a Natale. Poi mi abbandonai all'oscurità. Percepivo ancora la preghiera disperata di mio fratello.

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Capitolo 5
*** LE LEGGENDE SONO TUTTE VERE ***


Capitolo 2 -Le leggende sono tutte vere 

Fui destata dal rombo assordante di un motore. Non avevo voglia di aprire gli occhi. Almeno non ancora. Provai a muovere le mani, ma erano troppo indolenzite. Le forze mi avevano abbandonato, persino respirare mi era difficile. L'odore di bruciato non voleva cessare, aderiva perfettamente alle mie narici.
“Ho sbagliato, è stato tutto un terribile errore. Sono stato cieco. Avrei dovuto ascoltarla” - disse una voce disperata.
“Su via Mark, nessuno con un po' di buon senso le avrebbe creduto. Ancora adesso stento a farlo. Sembrano così piccoli e indifesi e così ignari di ciò che si nasconde dentro di loro. Non pensavo che uno scettico come me avrebbe avuto la possibilità di assistere a tanta potenza con la forza di un solo sguardo. Le leggende sono tutte vere”.
“Ne parli come se ne fossi affascinato, ma sentiti! Sono morte delle persone per l'amor del cielo, Bernardo! Ho appena perso mia sorella e mio cognato per colpa mia! Avrei dovuto proteggerli invece di mettere la loro vita a repentaglio”.
“Sono certo che avranno agito per il meglio. Sono morti con onore, lo sapevi che per Arianna non c'era speranza... avresti avuto il coraggio di giustiziarla?”.
“La legge é sacra ma la famiglia di più “. Seguii un attimo di silenzio.
“Non li abbandonerò. Loro sono la mia famiglia. Ho intenzione di addestrarli fin da subito, hanno bisogno di una guida. Devono imparare a controllarsi”.
“Hai forse intenzione di portarli al campo dei protettori? Non hanno ancora compiuto sette anni! Hai la minima idea del caos che si scatenerebbe tra i nostri ranghi? Non appena gli comunicheremo che loro...”.
“Non osare nemmeno pensarlo. Nessuno deve saperlo, giuralo Bernardo. David e Arianna hanno fatto cose indicibili per nasconderlo, Arianna stava per essere giustiziata dalla Coorte per questo, e tu vorresti spifferarlo così ai quattro venti? Ti ricordi della maledizione, vero? Se i miei nipoti sono ancora vivi, è un miracolo!”.
“Io non ci avevo pensato, perdonami. Pensavo fosse solo una stupida leggenda”.
“Invece è tutt’altro che una leggenda. L’ho vissuta in prima persona e la notte ancora faccio fatica a prendere sonno al solo ricordo. In ogni caso non ne voglio parlare”.
“Credo che nessuno sia in grado di capire la responsabilità che sta per cadere sulle loro spalle, non ho idea di come il Sire possa prendere la notizia. La nostra gente potrebbe anche non accettarli, dopo tutto questo tempo. L'uomo ha sempre avuto paura di ciò che non può controllare e la nostra razza non é diversa in questo.  Promettimi che manterrai il segreto!”.
“Mi stai chiedendo di mentire al Sire forse?”.
“Siamo amici da molto tempo e ti ricordo che mi devi ancora un favore”.
“Ancora con questa storia della fata! Come sei rancoroso... “.
“E' per il bene dei ragazzi. Lo sapranno quando sarà il momento. Vorrei che si adattassero agli altri bambini, non voglio che pensino di essere speciali”.
L'altro interlocutore sospirò a fondo: “D'accordo, d'accordo. Dannazione a te vecchia canaglia. Prima di partire per Firenze, dovrò mettere a posto il disastro che si sono lasciati dietro, ci vorrà un po', non sarà facile gestire la questione mediatica. Non preoccuparti continueremo a cercare quella maledetta scatola. I protettori riusciranno a impossessarsi di nuovo delle reliquie. Dall'altra parte, un giorno, potrebbero tornargli utili a quei due fenomeni che dormono proprio nei sedili posteriori della mia auto”.
Firenze? Le reliquie? Di cosa stavano parlando... mi girava la testa.
“Ti senti come un bambino alle giostre eh? Guarda che é una cosa seria”.
“Lo so. Perbacco erano secoli che non si sentiva parlare di medjai! Questa é di sicuro la cosa più eccitante che mi sia capitata in tutti questi anni e non dirmi di calmarmi! Insomma i tuoi nipoti diventeranno forse gli esseri più potenti della terra e tu stai li fermo come se la cosa non ti toccasse?”.
“Ogni volta devo ricordarmi della tua totale assenza di tatto. Stento a rimanere serio quando fingi di essere lo scrupoloso “detective che risolve tutti i casi dei miei stivali”“.
“Vuoi che sia io a dirtelo, eh? Non sono morti invano e di sicuro hanno affrontato qualcosa, qualcuno che andava ben oltre la loro portata. Almeno sono riusciti a portarsi quel maledetto con loro nella tomba. Anche se credo che non fosse da solo. E tremo al solo pensiero di chi si potrebbe trattare: Ordo Draconis, i Drakulia? David e Arianna erano fra i migliori cacciatori di vampiri in circolazione, non riesco proprio a capire cosa possa essergli capitato. Non erano certo degli sprovveduti”.
Cacciatori di vampiri? I miei genitori cacciavano esseri mitologici? Avevo capito da sola che non erano del tutto umani, ma non avrei mai pensato a quella parola: vampiri.
“Potevano anche venire i Volturi in persona e non sarebbero stati capaci di ridurli in quel modo. Se solo li avessi qui davanti a me io li... “.
“Ti faresti solo ammazzare, non so se ti sei guardato allo specchio ultimamente, ma, per la cronaca, non sei più un ragazzino”.
Lentamente sollevai le palpebre e comincia a guardarmi intorno. Poggiando tutto il peso su un braccio provai a issarmi. Con i polpastrelli percepì la consistenza della morbida pelle che ricopriva i sedili posteriori dell'auto su cui stavamo viaggiando. Sbirciai fuori dal finestrino: il sole era quasi allo zenit. Sfrecciavamo tra le vie deserte per via del coprifuoco. Dove eravamo diretti? Avvertii un pizzicotto alla gamba e subito dopo mi ritrovai la bocca soffocata dalla mano di mio fratello. Gli lessi il labiale: sta giù! Odiavo prendere ordini da lui ma lo ascoltai ugualmente. Solo per quella volta. Pensavo che, una volta riaperto gli occhi, mi sarei trovata ancora nella mia stanza. Doveva essere solo un terribile incubo niente di più. Invece era tutto così dannatamente reale. Dal lato in cui mi trovavo io, riuscivo a vedere il profilo del commissario Gerico con le mani sul volante. Accanto doveva esserci zio Mark. Avevo riconosciuto la voce.
Lo zio ignorò l'osservazione impertinente del guidatore. “Qualcosa non mi torna. No, deve essere stato un attacco mirato. Non hanno scelto un’abitazione a caso, per di più in pieno giorno. I Diurni non sono mai stati tanto spietati, é raro che si nutrano direttamente dalla fonte”.
“Magari si tratta di anomali?”.
“Può darsi ma non spiega la loro presenza qui. Come é possibile che mia sorella e mio cognato fossero in casa? Avevano degli ordini precisi, non dovevano trovarsi qui. Che li abbia avvertiti qualcuno? Mi viene da pensare che... “.
“Ma certo! Quei farabutti sapevano che David e Arianna avevano le reliquie!” - esclamò il falso-commissario come se avesse scoperto l'acqua calda. “Ed erano a conoscenza del fatto che fossero in missione!”.
“Vuoi abbassare la voce! Per la barba di Mayak sveglierai i gemelli!”.
“Sta tranquillo li ho sedati per benino. Al loro risveglio non ricorderanno nemmeno il loro nome. Una volta con quello ho spedito a nanna un mannaro inferocito”. Rise compiaciuto di se stesso.
“Hai dato un sedativo per lupi mannari a due ragazzini di sei anni?”.
“Sono medjai, se la caveranno “ - si giustificò Bernardo.
“Perché hanno mandato proprio te?”.
“Beh perché forse i protettori oggigiorno scarseggiano sempre di più... abbiamo subito molte perdite ultimamente, molti sono scomparsi”.
Passarono alcuni minuti in silenzio. Poi Bernardo domandò allo zio. “Senti un po', e la loro balia dov’é?”.
“Chi? Camilla?” - chiese senza interesse lo zio.
“E' stata richiamata a Londra per una brutta faccenda con un figlio della luna. Come mai t’interessa?”.
“E' uno schianto non trovi? Quando questa storia finisce, vorrei invitarla a ballare”.
Lo zio si limitò a grugnire rumorosamente. Forse era solo geloso o magari era il suo modo per dire “sei un idiota”, con lui non si poteva mai sapere.
Anche nella momentanea cecità avvertivo uno sguardo su di me.
“Li amavano davvero quei due mocciosi. Erano fieri di loro. Mi avevano avvertito che avrebbero fatto qualsiasi cosa. Sto per tradire la volontà di mia sorella. Non avrebbe mai voluto che facessero parte di questo mondo fatto di crudeltà e sacrificio. Sai quali sono state le ultime parole che le ho detto? Che se ne sarebbe pentita delle scelte che avrebbe preso. Mi sento così meschino, me ne sono lavato le mani. Non le ho nemmeno potuto dare degna sepoltura”.
Non avevo mai sentito lo zio mostrare il ben che minino barlume di umanità fino a quel momento. Eppure sentivo tutta l'amarezza che si celava dietro quelle parole. Avevo quasi compassione per lui.
“Su dai non ha senso rimuginare sul passato. Sono certo che ti abbia perdonato  e che in questo momento ti stia guardando. Lei e David sarebbero d'accordo con te, d'altra parte loro stessi li avrebbero allenati e istruiti”.
“Saranno il faro. La luce che ci guiderà, definitivamente, verso la vittoria. Non possiamo essere così egoisti da non condividerla con gli altri. Mettiti comodo mio caro, manca ancora un po' per giungere al porto di Palermo. Lì vi aspetta un'imbarcazione che vi scorterà direttamente a Firenze. Non preoccuparti non permetterò che finiscano in una fossa comune. Che le regole dei protettori si facciano fottere. Non erano dei traditori, erano degli eroi” - disse Bernardo con un sospiro.
Poi mi sentii sfiorare leggermente le dita, un tocco delicato come se fosse un battito d'ali di una farfalla. Era Gabriel che cercava di afferrarmi la mano. Gliela strinsi forte e premetti le mie labbra contro la sua pelle. Adesso era tutto quello che avevo, tutto ciò che rimaneva della mia famiglia. Avevo promesso a mamma che lo avrei protetto e lo avrei fatto ad ogni costo. Cercai i suoi occhi. Fissavano il vuoto davanti a lui. I riccioli neri gli rimanevano incollati al viso nei punti in cui erano sgorgate le lacrime. Nonostante ciò rispondeva alla mia stretta con la stessa intensità. Un bagliore, una piccola scintilla faceva la sua comparsa, dove i nostri palmi si toccavano. Quello era il segno: non aveva mollato, non si sarebbe arreso. Con la mano libera mi accarezzò la testa e mi sussurrò' piano: “dormi”. Con mia gran sorpresa forse non era fragile come avevo creduto e piangere non voleva certo dire che fosse debole. Era solo un tramite che ci avrebbe condotto a riacquisire l'equilibrio. Non stavamo solo per cambiare città. Di lì a poco la nostra vita sarebbe stata sconvolta del tutto. Un nuovo modo ci aspettava carico di promesse e avventure. E le avremmo affrontate insieme. Decisi di dare retta di nuovo a mio fratello: scivolai lentamente nell'universo onirico giurando a me stessa che quella sarebbe stata davvero l'ultima volta che avrei gli avrei obbedito.
 Capitolo 2.1 - Una mezza verità
Avevo il volta stomaco. Quell’imperterrito ondeggiare senza sosta mi dava le vertigini. Non ne ero del tutto convinta ma lo zio mi aveva assicurato che un po' d'aria salmastra non  aveva mai ucciso nessuno per cui io e Gabriel eravamo rimasti sul ponte. Non riuscendo a trattenere i conati di vomito, mi aggrappavo alla ringhiera con tutte le mie forze cercando di non pensare troppo a quello che stava sotto di me: il fondale marino non faceva che sbattermi in faccia ripetutamente tutte le mie più oscure paure. Eppure il blu era il mio colore preferito. Ma quella era un'altra storia. Il mare era di un blu bello ma mortale. Uno di quelli che guarderesti per giorni senza mai stancarti pur sapendo che nasconde in se' le creature più terrificanti, quelle che popolano i tuoi incubi peggiori tutte le notti. Stavo lì col vento che m’ingarbugliava i capelli fino a farli diventare una massa informe e gli occhi fissi all'orizzonte solo perché il ragazzo che avevo incontrato prima sul ponte di prua era stufo di dover pulire continuamente il pavimento a causa mia “E' cibo per pesci” - mi aveva detto esasperato. Quindi aspettavo li in silenzio il ritorno dello zio, bisognoso di caffè, pregando che un Kraken non apparisse all'improvviso, fendendo l'acqua in due, e avvolgesse i suoi tentacoli su di me trascinandomi con lui in quel blu così ignoto. Il catamarano solcava la superficie del mare velocemente e le onde s'infrangevano con violenza su di esso generando una densa schiuma biancastra al nostro passaggio. Gabriel si avvicinò di soppiatto, posò le sue braccia sulla ringhiera mentre la brezza marina gli accarezzava dolcemente i riccioli neri. Erano due giorni che non riuscivo a posare il mio sguardo su di lui. Ogni volta era un pugno in pieno stomaco, di quelli che ti fanno implorare per una boccata d'aria. Attraverso le sue cerulee iridi riuscivo a intravedere i punti dove la sua anima era stata fatta brutalmente a brandelli e non potevo non notare come quegli squarci fossero simili ai miei. Eravamo troppo orgogliosi per sfogarci l'una con l'altro, per questo avevamo per lo più parlato di cose pratiche o del tempo anche se non ci importava un granché delle condizioni metereologiche, quelle erano discussioni da adulti, per colmare i silenzi imbarazzanti.
“Lea come ti senti?” - s’interessò Gabriel.
“Sono stata meglio” - riuscii a rispondergli.
“In effetti, sei verde come una foglia. Vuoi che vada a cercare lo zio?”.
“No” - gli dissi in fretta afferrandogli il polso.
“Stai tranquilla. Non ti lascio sola”.
Ritrassi subito la mano e strinsi il pugno per la rabbia.
“Non é per quello”.
“Certo che é per quello, sei una gran fifona. E i mostri marini non esistono”.
“E tu che ne vuoi sapere? Ci sei mai stato lì sotto? Vai via non scocciarmi”.
“Quanto sei acida sorellina. Dai su, vieni, stai tremando dalla testa ai piedi. Puoi sempre vomitare lì così vedremo scivolare qualcuno”.
“Quanto sei scemo Gab” - e arrossì per la vergogna.
“Almeno oggi sei molto più loquace. Credevo che ti fosse venuta qualche forma d’infermità mentale. Felice di sapere che sei tornata fra i vivi”.
Sapevo che lo faceva per tirarmi su di morale ma restava comunque il fratello più irritante al mondo.
“Guarda da qui si riesce a vedere la costa. Fra poco raggiungeremo la nostra destinazione. Chissà com'é Firenze!”.
“Firenze non si trova certo in riva al mare, ignorante. Se avessi studiato un po' di più geografia, lo sapresti”.
“Che noia tutti quei libri, é tutto un continuo bla, bla, bla. Queste cose piaceranno a te, secchiona. Hai sentito lo zio l'altro giorno, stanno per condurci in un campo di addestramento, dove ci insegneranno a combattere. Ahyaaa!” - disse facendo la pessima imitazione di una mossa di karate.
“Combattere? Io odio la violenza, non fa per me”.
“A detta di quel tizio diventeremo i cacciatori più forti che siano mai esistiti ed io mi allenerò duramente per fare sì che questo accada. Devo riuscirci... “ - disse e gli s’incrinò leggermente la voce.
“Ucciderò ogni vampiro, li cancellerò dalla faccia della Terra”.
“Non sai nemmeno quello che dici, non hai idea di come siano pericolose quelle creature”.
“E perché non me lo dici tu, eh? Perché non mi parli Leona? Non ho forse il diritto di sapere quello che é successo tanto quanto te? Pensi di proteggermi? Be ti sbagli di grosso. Sappi che non potrai fermarmi in nessun modo. Il mio desiderio più grande é vendicare i nostri genitori, nulla conta più di questo. E so benissimo che anche per te é così, te lo leggo negli occhi, io lo sento” - disse col respiro affannato.
“Io ho bisogno di sapere, ti prego...".
Quelle parole mi colpirono come pezzi di vetro affilati. In quei due giorni avevo tenuto dentro di me tutta quella rabbia, quell'angoscia, quell'enorme tristezza senza accorgermi che accanto a me avevo qualcuno che avrebbe alleggerito il mio peso, che lo avrebbe portato con me fino alla fine. Allora mi chiesi cosa stavo facendo? Volevo proteggere mio fratello dalla verità o volevo solo tenere tutto quel marciume di emozioni per fomentare il mio odio contro quegli esseri. Fu allora che lo guardai. Lo guardai veramente. In quel ragazzino, dall'aspetto gracile e smilzo, ardeva un'audacia e un fervore, che pochi raggiungevano con la maturità. Capì subito, ricordando le ultime parole di mia madre, che se fossimo rimasti soli senza condividere nulla, non avremmo fatto altro che essere risucchiati in quel vortice di odio malato celato da una un’apparente giusta vendetta che ci avrebbe fatto perdere noi stessi.
Gabriel cercò di trattenere le lacrime e mi voltò le spalle: “Ho capito” - disse sconfitto. Se ne andò con le braccia penzolanti lungo i fianchi.
“Erano in tre” - dissi infine.
Gabriel si fermò rimanendo con la testa bassa.
“Avevano la pelle diafana e gli occhi rossi come il sangue”.
Ogni parola pronunciata faceva affiorare in me un senso di pace e libertà. Il dolore al petto non andava via, era sempre lì e forse non lo avrebbe mai fatto ma si affievoliva sempre di più fino a diventare un flebile eco. Non ebbi il coraggio di rivelargli tutta la verità, certe cose le avrei sepolte e chiuse in fondo al cuore per tutta la vita. Non sapevo come avrebbe reagito. Non avrei mai voluto che mio fratello mi odiasse.
Creai una versione fedele alla realtà che avrebbe soddisfatto il bisogno impellente di mio fratello di sapere come fossero morti i nostri genitori.
Capitolo 2.2 - Lo specchio
Attraccati al porto, lo zio ci fece promettere che non lo avremmo perso mai di vista. Ad accoglierci sulla terra ferma, due tizi dall'aria sospetta con la divisa dei pantaloni a motivo militare e magliette nere, aderenti, da cui trasparivano i corpi tonici e muscolosi, senza lasciare niente all'immaginazione. A quel punto salimmo su un furgoncino e ci sedemmo, fianco a fianco, di fronte allo zio che chiacchierava sommessamente con i due uomini che stavano sui sedili anteriori. Di tanto in tanto scorgevo una scintilla di eccitazione negli occhi di Gabriel: non stava più nella pelle. Da un lato ne ero lieta, non avrebbe pensato a mamma e papà, né ai suoi piani ricolmi di vendetta, che in parte condividevo. Pensandoci su, non era quello che avrebbero voluto per noi. Per Gabriel, per me, entrare a far parte di questa nuova realtà poteva permetterci davvero di avere il nostro nuovo inizio.
La nostra destinazione non era esattamente dietro l'angolo. Dopo aver lasciato la città, imboccammo diversi percorsi sterrati che si addentravano sempre più nella folta e verdissima foresta che si parava davanti ai nostri occhi. Persi il conto di tutti gli sbalzi e dei dolorosi scontri con la testa del mio gemello, la strada non era di certo liscia come l'olio. Non ero nemmeno molto sicura che esistesse un luogo del genere. Poi, finalmente, il motore si spense e Alarico, così lo zio aveva chiamato il guidatore del furgoncino, ci aprì le porte posteriori.
“Da qui dovremmo continuare a piedi giovanotti” - ci incalzò Alarico.
Percorremmo alcuni chilometri a piedi fra la folta vegetazione. Gab mi teneva sott'occhio, ansioso come sempre e mi offriva il suo aiuto, dove c'era da arrampicarsi. Temeva che, cadendo, mi sbucciassi le ginocchia. Le sue mani erano sudaticce ed io, più stanca che mai, riuscivo a sentire le vesciche anche attraverso le scarpe.
“Dove stiamo andando zio?”.
“Al campo Betelgeuse”.
“E cos’è?”.
“Te lo spiegherò una volta arrivati”.
Sbuffai maleducatamente dalle narici sollevando la frangetta.
Mio fratello a quel punto mi urlò: “Qual è il tuo problema?”.
“Sono stanca, mi fanno male i piedi. E poi abbiamo dimenticato Orsetto” - non capivo il mio irrazionale bisogno di un peluche ma sentivo ugualmente la necessità di dirlo ad alta voce.
“Chi se ne importa del tuo stupido peluche, non fare la bambina”.
“Se non te ne fossi accorto, io sono una bambina. E volevo informarti che nemmeno tu hai i peli sul mento, ok? Moccioso” - sibilai fra i denti.
“Cosa vuoi che me ne importi dei tuoi piagnistei? Non hai fatto altro che tenere il muso per giorni senza dire una parola come se ti avessero staccato la lingua. Non é così che dovresti comportarti, non ci sei stata per me. Sono stufo di essere forte per entrambi e delle tue bugie! So benissimo che non mi hai raccontato tutta verità, ricordati che ti conosco meglio di qualunque altro. Basta, smettila di comportarti come se fossi l'unica a meritare di soffrire. Mamma e papà non ci sono più, fattene una ragione e cresci. In quel campo nessuno ti darà il tuo stupido peluche. Dovevo esserci io con mamma e papà, forse a quest'ora non sarebbero morti! Non hai fatto nulla, sei rimasta lì a guardarli morire!”.
“Ragazzino!” - cominciò Alarico.
“Ci penso io” - rispose zio Mark.
Prese per il polso Gab e gli disse: “Per favore cerca di calmarti. La colpa non é di nessuno, intesi? Tua sorella soffre esattamente come te, non é giusto rivolgerti così a lei. Voi dovete essere una squadra e sostenervi l'un l'altro. Quando un giorno tutti ti volteranno le spalle, e credimi lo faranno, l'unica che rimarrà sempre al tuo fianco sarà sempre lei”.
“No, ha ragione” - risposi sconsolata. “ E' tutta colpa mia, non merito la tua fiducia. Non merito quella di nessuno. Ci sarei dovuta essere io al loro posto. Dovevo morire io”.
“Non dire così Leona” - cominciò lo zio ma già non lo ascoltavo più. Proseguì camminando dritta di fronte a me con un buco nel petto.
“Hai visto cosa hai fatto?” - sentì rimproverare da lontano. Non m’importava più, mio fratello mi odiava, mi voleva morta, ero solo un peso per lui, anche se avevo provato con tutta me stessa a raccontargli com'erano andate davvero le cose. L'unico modo era rimediare ai miei errori, non volevo perderlo.
“Lo sapevi?” - mi disse l'amico di Alarico, un ragazzo sacaligno dai capelli bronzei.
“Cosa?” - gli risposi tirando su col naso.
“Tutto quello che vedi” - disse indicando in lontananza ciò che rimaneva di un antico tempio, ormai ricoperto da erbacce e macerie - “é tutta opera dell'antico popolo dei medjai, i Protettori”.
“I Protettori? Med-cosa?”
“Medjai” - sillabò pazientemente.
“Che cosa sono i medjai?” - chiesi genuinamente.
“Non ti hanno spiegato proprio nulla, eh? Cavoli, non saprei da dove cominciare. Per fortuna abbiamo ancora un po’ di tempo a disposizione prima di arrivare al campo Betelgeuse. Vediamo…
La prima citazione è stata documentata all’epoca del Nuovo Regno egizio. “Coloro che proteggono il faraone” così venivano anche chiamati questi antichi guerrieri formidabili e invincibili. E per questo veniamo definiti protettori”.
“Da cosa difendevano i faraoni?”.
“Sai che gli umani non sono le uniche creature a popolare questa Terra? Molto tempo fa, strani esseri, alcuni simili a noi per aspetto, altri dalle fattezze mostruose, cominciarono ad appestare il nostro mondo agendo nell'ombra, uccidendo chiunque non fosse abbastanza forte da contrastarli, solo per il semplice gusto di farlo. Nessuno sa come sia successo o da cosa abbiano avuto origine: coevoluzione? Eventi astrali, allineamento dei pianeti? Stregoneria?”.
“Chi? I vampiri?” - sussurrai pianissimo.
“Già quei dannati succhia sangue che stanno in cima alla catena alimentare. Per non parlare anche dei lupi mannari, degli stregoni oscuri, degli ogre, dei Lihan sidhe…Non mi basterebbe un giorno per elencarli tutti”.
“Ma come è possibile? Il mondo come ha potuto ignorare per millenni una catastrofe di tale proporzioni? Se hanno agito così, cacciato a sangue freddo, senza freni, non avremmo dovuto estinguerci?”.
“Ed è qui che entrano in gioco i medjai e i protettori. Le arcaiche leggende pagane del nostro popolo narrano che al tramonto della Prima Apocalisse, quando quei mostri giravano a piede libero sul nostro pianeta, le forze della natura stessa si ribellarono: i quattro Primordiali, gli spiriti del Fuoco, dell’Aria, dell’Acqua e della Terra fecero dono del loro potere agli uomini, gli esseri più umili, inermi, incapaci di difendersi dagli assalti di quelle bestie.
I gemelli Gassan e Majak, furono i primi possessori del potere elementale: potevano devastare con la forza distruttiva del fuoco, colpire con la potenza ineluttabile dell’acqua, far tremare la terra e librarsi in aria come aquile. Invece di chiudersi nel loro egoismo e utilizzarlo per scopi personali, quel dono fu condiviso: reclutarono i guerrieri più valorosi disposti a rispondere a quella chiamata, che di fatto li condannava  a una vita di sacrifici, chiedendogli di lottare al loro fianco. Più forte era il legame che instauravano con i gemelli, più avrebbero potuto usufruire dei loro stessi talenti. Un popolo, un solo corpo: avevano ottenuto l’arma in grado di contrastare l’oscurità che minacciava di avvolgere il pianeta.
Poi, durante la XVIII dinastia del Nuovo Regno, il Faraone venne a conoscenza delle loro straordinarie capacità e li mise a capo del suo corpo di guardia, creando una vera e propria forza paramilitare d’élite per difenderlo dalle creature oscure”.
“Perché avevano quel nome bizzarro?”.
“Non ne sono sicuro, ma credo che sia il nome che gli antichi Egizi utilizzavano per indicare la popolazione nubiana che abitava la regione Medja, situata nel Sudan settentrionale. Probabilmente col tempo poi il termine non si riferì più al gruppo etnico in sé e così divenne il sinonimo che ad oggi gli attribuiamo”.
“Potrebbe avere senso” - riflettei.
“Scusa ti sto annoiando con tutte queste vecchie storie”
“No, ti prego continua, voglio saperne di più”.
Mi sorrise e continuò a parlare. Aveva una bella voce, mi piaceva ascoltarlo.
“Come potrai bene immaginare, non avrebbero fatto parte della milizia del faraone a lungo. I protettori erano essenzialmente degli spiriti liberi, non potevano rimanere circoscritti in una sola area, la loro missione era quella di proteggere il mondo intero e non un singolo pazzo individuo, megalomane, che si crede una divinità e la sua piccola cerchia.
Ovviamente il faraone non la prese bene, li bandì dalle sue terre e li additò come traditori. I protettori, con a capo i medjai, viaggiarono da nomadi a lungo, visitarono molti luoghi raccogliendo diversi discepoli in giro per il globo. Furono protagonisti di epiche battaglie e fantastiche avventure fino alla grande guerra del deserto, dove affrontarono uno dei più enormi eserciti di vampiri mai esistiti, uscendone vittoriosi. Dopo di che si ritirarono dalle scene, per così dire, e fondarono l’antica città di Hijir, la culla degli odierni protettori, ergendo incredibili muraglie magiche col l’aiuto delle fate e degli stregoni benevoli”.
“Avevo capito che fossero tutti nostri nemici…”.
“Non ho detto proprio questo. La maggior parte delle creature sovrannaturali sono pericolose e letali ma alcune di loro sono…accettabili, diciamo che riusciamo a conviverci”.
“Non capisco però come sia possibile che la gente non ne parli, che non riesca a vederli…”.
“Col passare dei secoli anche loro si sono civilizzati e hanno assunto sembianze antropomorfe per puro istinto di adattamento. A quanto pare la legge dell’evoluzione valeva anche per loro… O più semplicemente hanno compreso che, se non volevano rischiare la pelle, dovevano agire nelle retrovie, lontano dagli ingenui sguardi degli umani. Pian piano divennero solo una leggenda e nessuno credette più alla loro esistenza. Divennero i personaggi di favole e fiabe, niente di reale o tangibile, soltanto mostruosità dimoranti sotto i letti dei bambini.
Incredibile come l’uomo riesca a rendersi cieco e sordo a ciò che ritiene una minaccia per la sua salute mentale? Per loro deve esserci sempre una spiegazione razionale anche dove non c’è…”.
“E’ un po’ come se quel pensiero fosse così assurdo da accettare, tanto da ergere un muro, come quando ti torna in mente un ricordo doloroso e vuoi rimuoverlo a tutti i costi, no?”.
“Sei sveglia piccoletta” - disse accarezzandomi la testa.
“ Questo comunque andò certamente a nostro favore perché così divenne sempre più facile contenere le isterie di massa e continuare ad essere i loro difensori invisibili. Ed è fondamentale che sia così: non dovranno mai sapere di noi”.
Per un attimo la mia mente vagò altrove.
“Io le ho viste quelle creature. La forza umana non può nulla contro di loro. Ci spazzerebbero via come mosche ed io non sarei qui se per qualche ragione non fossi stata risparmiata”.
“Non sono tutti uguali sai? Hanno anche loro delle regole e delle rigide caste sociali e proprio come noi umani sono suddivisi in diverse razze, ognuno con le sue peculiarità”.
“Ce ne sono alcune in particolare” - s’intromise Alarico - “con le quali non potremo mai competere per via della loro impenetrabile corazza”.
“I vampiri di marmo” - continuò Valerio - “Cavolo, come li odio”.
“Ma ognuno ha la sua kryptonite. Quella dei vampiri è la verbena, quella dei licantropi lo strozzalupo…”.
“Wow amico, cos’è una lezione di piante letali per esseri sovrannaturali? Mi sembra di sentire Miss Fiona!” - lo canzonò Valerio.
“Capirete meglio ciò che ti ho detto quando potrai assistere alle lezioni o consultare i libri della biblioteca del Castello” - continuò lui palesemente infastidito dalle interruzioni del suo compagno.
“Castelli? Io non ne vedo?” - dissi mirando in lontananza.
“Non si trova in questa dimensione” - mi rispose ridendo.
“Non credo di avere afferrato” - esclamai perplessa.
“Lo capirai tra poco”.
“Ehi piccoletta, la vuoi vedere una cosa?” - mi disse col sorrisetto stampato sulla faccia.
Io annui con insistenza.
Uscì dal percorso tracciato e mi fece segno di seguirlo. Mi portò davanti ad una roccia dall'aria non troppo leggera.
Esclamai: “ E' un sasso”.
“Grazie capitan ovvio” - scherzò Gabriel che ormai ci aveva raggiunto. Forse se gli andava di prendermi in giro, non era poi tanto arrabbiato con me.
“Valerio, hai deciso di fare il gradasso di fronte a due ragazzini? Non farti riconoscere subito”.
Valerio lo ignorò e infilò le dita alla base della roccia. Prese un respiro e cominciò a sollevare. Cercando di non fissarmi troppo sui muscoli tesi delle sue bellissime braccia, Valerio teneva allegramente per aria quell'enorme macigno.
“Wow, voglio farlo anch'io!” - esclamò un entusiasta Gabriel.
“Un giorno potrai farlo anche tu, piccolo” - disse Alarico.
“Come hai ben detto tu” - continuò Valerio rivolgendosi a me - “quelle creature sono molto forti”.
“E questo” - disse Alarico beffeggiando la messa in scena di Valerio - “non sarebbe possibile se non fossimo stati “benedetti”“
“Che cosa vuol dire?” - chiese Gab.
“Sono tutti tuoi” - disse Alarico lavandosene le mani.
A quel punto intervenne mio zio.
“Vuol dire che la forza, la velocità, i riflessi in battaglia ci sono stati donati dai medjai originali: Gassan e Majak. Loro hanno benedetto il loro popolo condividendo, in parte, il potere di sconfiggerli. Loro scelsero di lottare per i più deboli, al nostro fianco, contro chi minacciava di portarci all'estinzione”.
“Anche voi potete manipolare gli elementi?” - chiese Gab speranzoso.
“Molto tempo fa sì, ma tale potere è andato perduto con Odetta, l’ultima medjai. Non preoccuparti ce la caviamo lo stesso” - e Valerio gli schiacciò l'occhiolino.
“Come facevano a condividere il potere elementale con gli altri?” - riflettei ad alta voce.
“Grazie all’energia pura, l’elemento in grado di inglobare tutti gli altri armonizzandoli in un equilibrio perfetto: la quinta essenza. Alcuni la chiamano Akasha, altri filosofi come Aristotele, etere. Non è possibile avvertirne la presenza con i nostri sensi, è una forza spirituale e intangibile, che scaturisce dalla mente, in grado di plasmare la realtà a proprio piacimento. Era così che i medjai infondeva coraggio nei cuori dei loro sudditi: agendo nel loro inconscio, potevano renderli simili a loro in tutto e per tutto. Un tale potere, però, non era cosa facile da gestire, era così grande che un semplice corpo umano non avrebbe mai potuto essere il ricettacolo adatto ad ospitarlo. Fu a tale scopo che vennero create le reliquie, gli unici oggetti, nati dal nucleo della terra, in grado di incanalare quel potere in tutta sicurezza…”.
“Avete finito di  raccontargli tutte queste scemenze?” - sbottò Alarico.
“Non fatevi abbindolare. Queste sono solo dicerie, ovviamente. Io non credo ai medjai” - affermò ancora.
“Dove sono stati per tutto questo tempo? E non venirmi a raccontare quella ridicola congettura della maledizione, Marcellus. Noi siamo veri. Non dobbiamo dire grazie proprio a nessuno se non a noi stessi. Noi, ogni giorno, scendiamo sul campo di battaglia a rischiare la vita, nessun fantomatico medjai  ha mai lottato per noi. Se sono mai esistiti, adesso è acqua passata. Noi proteggiamo gli umani da quegli abomini della natura, non loro. Ma guarda tu, dannazione, come mi sono infervorato per qualcosa di così sciocco” - disse mettendo una gran distanza fra lui e noi con qualche lunga falcata.
“Non mi sorprende che tu non abbia la ragazza, bello. Tutta questa rabbia repressa non ti fa bene. Tutto quello di cui hai bisogno è una cenetta romantica e una bella donna che ti fa gli occhi dolci. Rilassati un po’” - lo pizzicò Valerio.
“Forse dovrei diventare un stupido dongiovanni come te?” - lo sfidò Alarico.
“L’invidia è una brutta bestia” - confidò piano a Gabriel per farlo infuriare ancora di più.
“Invidioso di te? Hai voglia di scherzare?”.
Continuarono a battibeccare per tutta la strada senza mai riprendere fiato. Nel frattempo proseguii il mio viaggio fiancheggiando lo zio mentre Gab sembrava più interessato alla discussione fra quei due.
“Non temere, piccola” - mi rassicurò lo zio - “siamo quasi arrivati”.
“Zio Mark? I protettori hanno il compito di proteggere gli umani da quelle creature ma non c'é la possibilità che non siano tutti cattivi? E' possibile che al mondo non esista un solo vampiro, buono?”.
“Non capisco, dopo quello cui hai assistito, come puoi farmi una domanda del genere?”.
Sospirò profondamente: “Hanno perso la loro anima per sempre. Devi capire che non sono persone come noi, ne hanno solo le sembianze. E questo devi ricordartelo per tutta la tua vita se non vuoi morire per mano loro: I vampiri bramano una cosa sola, il sangue. E credimi non esiteranno a farti fuori per ottenere ciò che vogliono”.
Così dissolse ogni dubbio che turbinava nella mia mente. Non volevo credere che esistessero creature fatte di solo odio e istinto ma mi resi conto che avrei dovuto farci l'abitudine. Di una cosa ero certa: se nel volto di ogni vampiro avessi rivisto quello di quei mostri che avevano provocato la morte dei miei genitori, non avrei esitato un solo istante a ricacciarli all'inferno da cui provenivano.
“Cos'é questo rumore?”.
“Credo che oltre quei cespugli ci sia una cascata, avverto lo scorrere della corrente”.
“Esattamente Leona. Questo vuol dire che siamo arrivati”.
“Leona” - pronunciò pensieroso Valerio.
“Che nome interessante!”.
“Mamma ci raccontava che l’hanno chiamata così perché, appena nata, aveva un sacco di capelli, come la criniera di un Leone. Io, piuttosto, l’avrei chiamata Scimmia” - mi canzonò Gabriel.
“Vieni qua! Te la do io la scimmia!” - gli gridai rincorrendolo con una voglia matta di picchiarlo.
Oltrepassando il fitto strato di verde, sbucammo fuori alle pendici di una cascata, come avevo ben intuito. Il flusso del fiume si riversava furente e senza pietà infrangendo lo specchio d'acqua sottostante. Non ne ero certa ma doveva essere piuttosto alto. Mi accoccolai su di una roccia ma fu Gabriel a dar voce al dubbio che mi attanagliava il cervello.
“Dov'é il campo di addestramento, non lo vedo! Da qui, non é possibile proseguire. C'é solo questa stupida cascata”.
“Oh cavolo, sono proprio in ritardo per la lezione di tiro con l'arco!” - disse Valerio sbattendosi la mano sulla fronte. 
“Non vi dispiace se vi precedo, vero? Miss Fiona non ne sarà contenta. Ci vediamo dall'altra parte ragazzi. E ricordate: Nulla può sconfiggere la luce!”.
Tutto ciò che sentimmo dopo, fu l'urlo di eccitazione di Valerio. Prese la rincorsa e, sull'orlo del precipizio, allargò le braccia, come un angelo, per tuffarsi da quell'altezza spaventosa senza neanche una ruga di terrore a scavargli il viso. Lo seguii col cuore in gola fino a che non sparì, inghiottito dalle creste del lago. Pensai che fosse pazzo. Quel tizio era sicuramente folle. Aspettai che riemergesse con la paura che mi contorceva le budella.
“Perché l’ha fatto? Dobbiamo salvarlo, qualcuno faccia qualcosa!” - gridai ai miei compagni di viaggio.
“Stai tranquilla Leona. Quel deficiente sta benissimo. Gli piace solo fare lo spaccone. Per rispondere alla domanda di Gabriel…” - rimasto pietrificato a bocca aperta a fissare il punto dove Valerio era scomparso - “é quella l'entrata del campo. Lo chiamiamo Specchio. Una volta immersi in acqua vi ritroverete proprio li. Non so come spiegarvelo, capirete molto di più se lo vivrete sulla vostra pelle. Coraggio, consideratela la prova d’ingresso per entrare a far parte dei protettori. Prima regola: essere temerari”.
“Cosa? Non ci penso nemmeno a tuffarmi da qui, saranno almeno venti metri, voi siete tutti folli. Sapete che c'é? Non so nuotare!” - esclamai mentre lo zio se la rideva sotto i baffi.
“Invece sì che puoi” - mi disse Gab - “Tu puoi eccome. Mi dispiace per le parole che ti ho detto prima Lea, sono stato uno sciocco. E' stata la rabbia a farmi dire quelle cose orrende, ti prego dimenticale”.
Lo guardai dritta negli occhi: non stava mentendo, lo sapevo e basta. Connessione fra gemelli.
 “Lo so che sei una fifona, cavolo se te la stai facendo sotto. Il tuo nome non ti si addice per nulla”.
“Non é vero!” - gli risposi alzando la voce di qualche totalità.
“Allora dimostramelo. Se tu non ti butti, allora nemmeno io lo farò”.
Sbirciai nuovamente, sperando che per miracolo quell'altezza fosse meno spaventosa, ma era tutto inutile.
“Mi fido di te” - disse Gab, offrendomi la sua mano.
Gliela afferrai e la strinsi forte fra le mie dita. Specchiandomi nei suoi occhi cerulei ritrovai il coraggio, quello che non sapevo nemmeno di possedere, la consapevolezza che avrei seguito Gab ovunque fosse andato. Deglutii rumorosamente, con l'adrenalina alle stelle, e strizzai gli occhi.
Allora dissi: “Al mio tre. Uno, due... “.
“Nulla può sconfiggere la luce!” - gridò a pieni polmoni Gab.
Poi ci ritrovammo sospesi in aria mentre assaggiavo il vuoto con i miei stessi piedi. Ero certa di una sola cosa: che le dita che tenevo intrecciate alle mie erano quelle di mio fratello. E ciò' mi bastava.

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Capitolo 6
*** IL CAMPO BETELGEUSE ***


Capitolo 3 - Il Campo Betelgeuse 

Non ne conoscevo il motivo, ma, fin da piccola, le profondità degli abissi mi avevano da sempre intimorita. Il solo pensiero di buttarmi in acqua senza sapere esattamente cosa ci fosse al suo interno per me era inconcepibile. Eppure amavo trascorrere le giornate in spiaggia insieme alla mia famiglia, ma restavo sempre sotto l’ombrellone appollaiata fra le gambe di mamma, ricoperta di crema solare, ad osservare papà e Gabriel mentre giocavano allegramente spruzzandosi sabbia e acqua a vicenda. Quanti vani tentativi di coinvolgermi delle loro piccole guerre in riva al mare!
In quell’istante, completamente circondata da migliaia di frizzanti bollicine, il crudele gelo che penetrava la pelle e la sensazione di pesare poco meno di una piuma, non mi dispiacevano per niente e mi facevano rimpiangere di non aver preso parte a quella gioia prima di allora. Una gioia che non avrei potuto più condividere con i miei cari.
Istintivamente spalancai gli occhi col proposito di combattere e sconfiggere, per sempre, quell’insensata paura. Blu. Blu ovunque, di milioni di tonalità diverse. Fluttuavo leggera aspettando con ansia quella familiare stretta allo stomaco che mi aveva irrazionalmente convinto che ciò che non conosci e che non puoi controllare fosse tuo nemico. Nonostante non riuscissi a percepire né l’inizio, né la fine, tutt’altra era la sensazione. Non mi ero mai sentita così libera, così in pace, così sicura che nulla avrebbe potuto nuocermi. Avevo completamente dimenticato chi ero e perso la percezione del mio corpo. Ero un tutt’uno con l’acqua.
Poi una voce mi raggiunse, forte e chiara: «Guardami Lea!» mi disse un ragazzino smilzo dall’aria divertita. I riccioli neri danzavano sinuosamente attorno al suo viso serafico mentre mi salutava a testa ingiù. Spontaneamente mi venne da ridere e lui rise festoso insieme a me.
Aspetta un attimo, riflettei.
Per quale razza di motivo ero stata in grado di sentire la voce di Gab così chiaramente?
Come potevamo ridere sott’acqua?
Io ero sott’acqua?, pensai mentre l’aria abbandonava i miei polmoni. Mi resi conto di aver respirato fino a quel momento e quella consapevolezza mi fece gelare il sangue nelle vene. Così l’ossigeno lasciò l’alloggio all’acqua all’interno dei miei polmoni. La sentì bruciare lungo trachea e ardere dentro ogni singolo alveolo.
Stavo annegando.
Volsi il mio sguardo alla superficie ma era troppo distante da raggiungere. Una forza spietata mi trascinava sul fondo del lago senza che io potessi muovere un solo muscolo. Pensai che fosse finita, che non ci fosse più nulla che potessi fare per me e mio fratello fino a che un bagliore accecante sbucò dalle profondità inghiottendo completamente l’oscurità.
«Lasciati andare, non opporre resistenza. L’acqua è tua amica» mi consigliò Gabriel, prima che il lago lo sputasse fuori come un siluro.
Forse stavo sognando o forse ero già morta. Che cosa avevo da perdere. Mi abbandonai completamente riponendo fiducia in quello che mi aveva detto mio fratello e lasciai che la corrente mi trascinasse con sé. Tutto accadde così velocemente da non riuscire a capire se avessi sputato via il lago dai miei polmoni prima di schiantarmi sul terreno o viceversa.
Mentre Gab veniva in mio soccorso, qualcos’altro sbucò fuori dall’acqua e atterrò elegantemente vicino a me.
«E’ successo qualcosa?» chiese allarmato zio Mark.
«Sto bene» riuscì a dire fra un colpo di tosse e un altro.
«Certo che sta bene» confermò mio fratello. «È la solita testarda, irritante scimmia di sempre».
«Dove siamo?» domandai gettando i capelli perfettamente asciutti all’indietro.
Gab mi poggiò una mano sulla spalla ed esclamò in brodo di giugiole: «Benvenuta al campo Betelgeuse, sorellina!».
Contenta di esserci lasciata alle spalle il tanfo terribile della pescheria del porto, presi una profonda boccata d'aria pulita e mi godetti, in tutta tranquillità, il paesaggio che mi circondava. Alberi colossali, che quasi sembravano solleticare il cielo, di un verde brillante, si stagliavano imponenti sopra di noi facendomi credere di essere l'essere più insignificante del pianeta. La distesa macchia verde si spandeva a perdita d'occhio, era incredibile come fossero disposti uno dietro l'altro, in fila indiana, come i soldati di un esercito. Era quasi innaturale, una composizione geometrica perfetta, stentavo a credere che fosse opera della natura, la quale non faceva che stupirmi. Sentivo con tutte le mie forze che quello era il mio posto. Appoggiai il palmo della mia mano sul tronco, quello che più aveva attirato la mia attenzione: gli agenti atmosferici avevano solcato nella robusta corteccia il viso di una donna, potevo distinguere gli occhi, il naso dalle larghe narici, le ciocche di capelli che le coprivano il viso. No, doveva essere stato qualcuno a farlo, era per certo opera umana, di qualche artista, ma non ero abbastanza razionale da pensarlo.
Distratta più che mai da quello scherzo della natura, avvertì a malapena il solletico alle dita. Un paio di bruchi strisciarono fuori oziosamente da uno degli occhi della figura per capire quale fosse la causa di tanto trambusto. Gli uccelli, fra le fronde dei rami, cantavano della loro libertà facendomi desiderare di essere anch'io una di loro. Poi uno scoiattolo fece capolino dal suo nascondiglio con le guance ricolme di gustose ghiande. Invece di essere terrorizzato, accolse il mio messaggio silenzioso che lo invitava ad avvicinarsi. Dapprima titubante zampettò discretamente lungo il mio braccio trovando riposo sulla mia spalla. Deglutii la sua colazione per poi strofinare delicatamente il muso paffuto contro il mio zigomo.
 «Grazie» gli sussurrai. Era tanto tempo che non mi sentivo così: compresa nel mio profondo dolore. Potevo sentire l'energia scorrermi dentro le vene come lo sciabordio della linfa all'interno dei vasi legnosi, potente come le correnti dell'oceano. Ero sull'orlo di una crisi di pianto ma qualcosa, qualcuno mi sussurrava che la tristezza non mi avrebbe avvolto per l'eternità, che il dolore mi avrebbe reso più forte, che io ero artefice del mio destino, libera di scegliere se piangermi addosso per tutta la vita o combattere per chi amavo e avevo il compito di proteggere. Gabriel mi fissò, impotente di fronte a tanta solitudine interiore. Gli sorrisi mentre una lacrima mi bagnava le labbra. La vita non sarebbe stata clemente con noi: eravamo solo dei bambini e già potevamo vantare di una sofferenza indicibile. Sì, eravamo orfani ma avevamo l'uno l'altra e questo era più che sufficiente.
«Guarda Lea» esclamò mio fratello mentre lo stupore gli dipingeva il volto. Seguì il dito di Gabriel e rimasi stupefatta. Migliaia di farfalle bianche volarono sopra le nostre teste privandoci della vista del cielo. Sibilai fra le labbra un siete bellissime. Mio fratello rise ancora saltellando qui e lì mentre cercava di afferrare al volo una di quelle meraviglie dalle candide ali. E non potei non pensare che fosse un dono.
«Che cosa sta succedendo?» disse Alarico.
«La cosa sta sfuggendo di mano» rispose lo zio.
«Che hai detto?» ridomandò l’uomo lambendosi l’orecchio.
«Che dovremmo affrettarci per la cerimonia di benvenuto» si affrettò a concludere zio Mark fingendo un tremendo attacco di tosse.
Alla fine del sentiero alberato, puntando il mio sguardo dritto all’orizzonte, intravidi le alte guglie di un castello. Una muraglia imponente, lunga diversi chilometri, divideva il bosco dal resto del campo. Stropicciai per bene gli occhi e chiesi a Gabriel di darmi un pizzicotto, non potevo crederci. Ero finita forse in una fiaba?
«Fantastico» mormorò Gab impaziente di oltrepassare i cancelli di ferro, di fronte a noi. Una ragazza dai lunghi capelli castani e un uomo muscoloso tanto quanto Alarico sorvegliavano l’entrata impassibili come due statue. A un cenno dello zio aprirono le porte e varcammo la soglia oltrepassando le mura. Zio Mark poggiò le sue grandi mani sulle nostre spalle dicendoci: «Questa è la vostra nuova casa».
Non era male. Non sapevo cosa aspettarmi in realtà e forse proprio per questo ne rimasi estasiata. Col cuore che batteva forte nel petto, inseguì lo zio e Alarico. “Campo” non era di certo il termine giusto per descrivere quel posto, piuttosto l’avrei definita come una città immersa nel bel mezzo della natura. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, l’architettura si sposava perfettamente col circondario forestale, come se le strutture fossero sbucate da terra insieme a quella meraviglia botanica che vantava di migliaia diverse specie di fiori e piante provenienti da tutto il globo.
Raggiungemmo in fretta la piazza principale scendendo dalla collina, e facemmo a gara a chi fosse arrivato per primo. Era gremita di gente armata come se dovessero andare in guerra da un momento all’altro, grandi e piccoli, uomini e donne senza alcuna discriminazione. Gli edifici erano tutti dipinti con colori accesi, intensi: gli affreschi narravano le gesta di grandi eroi del passato e dell’eterna battaglia con il mondo del sovrannaturale. Gab si precipitò dentro un negozio d’armi, accompagnato da Alarico, mentre lo zio mi fece da guida turistica tra le vie di quel bizzarro centro urbano.
Zio Mark affermava che il campo  Betelgeuse dei Protettori di Firenze era uno fra i più sofisticati al mondo, soltanto secondo in grandezza a Sirio, il campo dei protettori romani. Adoravo tutto di quel luogo, dai fastosi elementi architettonici degli edifici ai deliziosi giardini che li costeggiavano. Ogni campo di addestramento era dedicato a particolari e specifiche attività. Ovviamente non vedevo l’ora di poter entrare nel famoso castello di cui mi aveva parlato lo zio lungo il tragitto. Al suo interno avrei trovato una delle librerie più fornite e finalmente avrei potuto documentarmi di più. Inoltre non fungeva solo da punto di raccolta del sapere, il castello ospitava anche i congressi internazionali delle alte cariche dei Protettori ed era anche il luogo, dove si svolgevano le lezioni teoriche comprensive dell’addestramento. Una sorta di accademia per i piccoli guerrieri del domani. Infatti, in quel momento, non era possibile visitarlo poiché si stavano svolgendo le lezioni e le varie attività quotidiane. Speravo, con tutta me stessa, di avere l’occasione di restare ore e ore in quella libreria paradisiaca a spulciare ogni tomo che mi sarebbe capitato sotto il naso. Euforica più che mai ci dirigemmo verso l’area di ristoro, dove lo zio, durante il pranzo, avrebbe presentato me e mio fratello all’intera comunità. In effetti, avevo un certo languorino allo stomaco, non mettevo qualcosa sotto i denti dal giorno precedente.
Trovai Gab e Alarico al limitare di uno dei campi coinvolti in una tifoseria da stadio. Dei ragazzini se la stava dando di santa ragione ma gli adulti restavano in disparte per i fatti loro, non curandosi della pericolosa rissa che si stava svolgendo in quel momento come se fosse una cosa di poco conto.
«Sì, fagli vedere chi sei. Vogliamo vederlo col culo a terra» inveiva Gabriel carico di eccitazione.
«Gabriel!» dissi rimproverandolo prontamente, imitando inconsciamente la voce di papà.
«Che c’è?» sbottò senza scollare gli occhi di dosso dall’incontro.
«Non si dicono le parolacce» continuai sconcertata dalla sua maleducazione.
«Ok, va bene» rispose mogio. Decisi di lasciar correre e osservai anch’io quella lotta disperata fra bambini. Non sembravano essere molto più grandi di me e Gab ma si muovevano con una maestria e un’agilità degna di un adulto fatto e finito.
In mezzo a tutti quei calci, pugni e polveroni notai una figura seduta su un masso piuttosto massiccio. Era assorto fra i suoi pensieri mentre faceva scorrere con precisione la fredda lama di un coltello contro un bastone appuntito. Fra la ribelle frangia castana, due occhi splendenti come zaffiri erano incastonati fra folte sopracciglia. Non avevo mai visto uno sguardo così intenso ma allo stesso tempo gentile. I lineamenti del viso erano delicati, al contrario delle mani piene di ferite e calli.
Quel ragazzino sembrava in un mondo tutto suo, le urla e gli schiamazzi non lo scalfivano nemmeno. Senza che me ne accorgessi restai alcuni minuti a fissare le sue mani che levigavano incessantemente quel pezzo di legno. Poi a un tratto sollevò il capo e i nostri occhi s’intrecciarono per qualche secondo. Abbassai immediatamente lo sguardo e arrossì violentemente per la vergogna. Lui sbatté ripetutamente le palpebre come se stesse cercando di capire cosa mi frullasse per la testa e mi rivolse un caldo sorriso sollevando una mano a mo’ di saluto. Avrei tanto voluto rispondere a quell’improvviso gesto amichevole ma ero troppo timida, perciò mi nascosi dietro zio Mark, rossa come un peperone.
«Fabiano cosa stai facendo, non hai fame? Andiamo o perderemo i posti migliori» lo raggiunse la voce di una ragazzina dai capelli biondi e gli occhi verdi.
«Arrivo» rispose Fabiano mentre spostava la testa a destra e a sinistra in cerca di qualcosa o qualcuno.
Più ci pensavo su, più le budella si contorcevano: non era mai stata così ansiosa. Per qualche strano motivo mi preoccupai che i capelli fossero al loro posto. Che speranze avevo? Erano così folti e lunghi che spesso non riuscivo a vedere nemmeno fra le ciocche. A volte li usavo perfino come nascondiglio, quando non mi sentivo particolarmente socievole. Se mamma fosse stata lì, avrebbe saputo sicuramente metterli in riga come solo lei sapeva fare. Ed ecco una fitta al cuore al solo pensiero che non avrebbe pettinato più i miei capelli.
Sarei diventata più forte, questo lo sapevo. Dovevo solo darmi più tempo.
 
Giungemmo all’area di ristoro. Tavoli lunghissimi in legno d’acero occupavano l’intera area. Il dito dello zio m’indicò due posti a sedere vicino al tavolo dei bambini della nostra età, mentre lui si sarebbe diretto al tavolo “dei pezzi grossi”. Trovai posto accanto ad una ragazzina dall’aria molto timida. Il suo viso era tempestato di lentiggini e due trecce, color carota, le scendevano fino al bacino.
Guardò me e mio fratello sgranando i piccoli occhi nocciola da cerbiatta fingendo di esserle indifferenti.
«Ciao io sono Gabriel, ma puoi chiamarmi Gab se vuoi» disse raggiante Gab allungando il braccio nella sua direzione.
All’inizio sembrava titubante: era indecisa se ignorarlo completamente o esibirsi in una smorfia di disprezzo, ma era chiaro come il sole che moriva dalla voglia di presentarsi. Gli afferrò decisa la mano scuotendola leggermente e gli rispose: «Io sono Morgana. E tu sei?» asserì rivolgendomi un timido sorriso.
«Lei è mia sorella Leona, siamo gemelli» mi presentò Gab prima che potessi aprir bocca.
«Lo avevo notato, vi assomigliate molto» constatò lei cortesemente. Poi ci fu un attimo di silenzio imbarazzante, sciolto da quell’abile conversatore di mio fratello. «Quello è il marchio dei protettori?» chiese lui indicando il tatuaggio che la ragazzina aveva sul polso.
«Cosa? Dici questo?» rispose sovrappensiero come se fosse una cosa ovvia.
«Non lo avevate mai visto prima?». La sua perplessità era lecita. Lo zio mi aveva detto che raramente accettavano nuovi membri dall’esterno, anche perché soltanto chi aveva sangue di protettore poteva entrare all’interno delle mura. Morgana, allora, avvicinò il polso mettendo il marchio in bella vista così che io e Gab potessimo osservarlo da più vicino.
«Quest’occhio simboleggia che noi protettori vegliamo sempre sugli esseri umani e le spade dietro, invece, indicano che dobbiamo difenderli fino al nostro ultimo respiro».
«In effetti, ha senso» concordò Gab tenendosi il mento fra le dita come il pensatore.
«Come mai voi non ne avete uno, è la prima volta che venite al campo?».
Io e Gab annuimmo all’unisono.
«Capisco, infatti, non vi ho mai visto agli allenamenti».
«Fa male?» chiese Gab impaurito.
«Solo un po’. E' un piccolo prezzo da pagare in confronto a quello che ci aspetta là fuori» e aggiunse per cambiare discorso «Da quale famiglia discendete? Io provengono da una delle più antiche tribù dei protettori: i Cacciasciacalli. La mia famiglia dà la caccia ai lupi mannari da intere generazioni, siamo tutti specializzati in questo tipo sovrannaturale».
Notai mio fratello gonfiarsi leggermente il petto per darsi un tono autoritario: stava per combinarne una delle sue.
«Noi invece discendiamo dall’ancestrale stirpe dei Medjai, quelli con i superpoteri».
Dapprima Morgana lo guardò sconcertata, poi scoppiò a ridere come una matta. Volevo sprofondare nella mia sedia. Mi sembrò una buona idea chiudere il sipario fra me e quella situazione tremendamente imbarazzante spostando i capelli a mo’ di tenda.
«Buona questa» disse Morgana mentre si asciugava le lacrime agli occhi. Poi, rendendosi conto dello sguardo serio di Gab, tentò di darsi un contegno.
«Dici sul serio Gab? I medjai non esistono, è solo una leggenda, una favola della buona notte che ci raccontano a noi bambini! Non crederai di avere i poteri dei medjai soltanto per il fatto di avere una gemella! Vedi quei due ragazzi laggiù? Sì, proprio quelli col codino. Quelli sono i gemelli Marchetti. Sono famosi per molte cose, come riuscire a cantare il nostro inno a suon di rutti, ma non sicuramente per essere dominatori degli elementi naturali. Non sono nemmeno sicura che quei due usino acqua e sapone, detto in tutta franchezza. Oppure le sorelle Tally? Quelle stupide, smorfiosette, biondine sono in trasferta da Londra per compiere l’anno di apprendistato qui al nostro campo. Le hanno nominate controllori del nostro dormitorio e da quando sono qui, non fanno che rendere la mia vita un inferno. Solo il cielo sa cosa farebbero se avessero il potere dei medjai, non voglio nemmeno immaginarlo» ci spiegò rabbrividendo. «Cosa ti fa credere che siete veramente loro? I medjai?».
Decisi di interrompere subito mio fratello o ci avrebbe messo in un guaio più grosso. «Devi sapere che a Gab piace scherzare. L’ha sentito dire prima a qualcuno e ha pensato bene di strapparci qualche risata, non è così Gab?». Gli pestai un piede in modo tale che non mettesse in discussione ciò che avevo detto.
«Sì, sì è vero era solo uno stupido scherzo» rispose mio fratello trattenendo le urla di dolore.
«Dai parlavo sul serio, discendete Martinelli? Ho visto che siete stati accompagnati dal vice-Sire».
«Quello in realtà è il cognome dello zio. Il mio nome per intero è Gabriel Massimiliano Braveheart».
«Braveheart? Siete figli di Arianna e David Braveheart?» esclamò lei con stupore.
Non appena pronunciò, come un eco, quella parola, alcuni ragazzi che ci stavano seduti accanto e di fronte cominciarono ad impallidire e a spostare impercettibilmente le sedie lontano da noi, abbassando lo sguardo.
«Che problema ha quel tizio li?» grugnì Gab particolarmente offeso.
«Forse sarebbe meglio non dire ad alta voce chi siete davvero, non è un cognome molto popolare fra noi. Arianna, vostra madre, è ricercata per aver tradito la legione dei protettori e vostro padre è stato bandito con lei per aver preso le sue difese. Per di più non sapevo che avessero avuto dei figli». Per qualche ragione ritenni opportuno non informarla della morte di mamma e papà, era evidente che la voce non si era ancora sparsa e se lo zio non ne aveva fatto parola aveva avuto i suoi buoni motivi.
«Fino a qualche giorno fa nemmeno noi eravamo a conoscenza di tutto questo. I nostri genitori l’hanno tenuto nascosto» m’intromisi nella discussione. «Alla luce di queste informazioni la cosa non mi sorprende. E di quale crimine è stata accusata?» domandai a pel di carota. Gab mise la sua mano sul dorso della mia perché temeva che stessi per perdere le staffe e forse era così.
«Io, io…». Morgana cominciò a balbettare impaurita come un coniglio.
«Fate silenzio laggiù, arriva il Sire» ci rimproverò  una di quelle che sedeva al nostro tavolo.
«In piedi» urlò Alarico.
E un concerto di sedie striscianti e tintinnio di posate ebbe inizio. Gli unici rimasti al nostro posto eravamo noi, ignari di quella strana usanza. Lo zio, dal tavolo opposto, ci fece cenno di alzarci tirando su col mento e non avemmo altra scelta che unirci alla massa.
Sporgendo le nostre teste oltre i corpi allineati, notammo un tizio, dalla corporatura robusta, avanzare elegantemente fra i tavoli da pranzo. Portava una fascia scarlatta con due denti affilati cuciti in filo d’oro sopra una semplice tenuta da combattimento in cuoio nero. I capelli castani, un po’ brizzolati sulle tempie, erano stirati per bene all’indietro con della brillantina e qualche rada ruga gli scavava la fronte. Sostò per qualche secondo al centro esatto e gridò a gran voce: «Protettori!».
E tutti in coro risposero: «Lux Omnia Vincit!».
Poi il Sire continuò: «Sono lieto di annunciarvi che lo squadrone anti-vampiro, stanotte, nei pressi di Firenze, ne è uscito vittorioso!».
I protettori esultarono festosi all’unisono (ma quanto erano rumorosi?).
«Abbiamo stanato tre dei vampiri della congrega di Attilus il sanguinario.  I nostri si sono battuti valorosamente, ma alcuni fra loro hanno perso la vita combattendo con coraggio e proteggendo il genere umano fino all’ultimo».
A quel punto il Sire snocciolò una serie di nomi, fra maschi e femmine, seguita dalla loro età. Il mio volto impallidiva al solo udire che fra loro vi erano anche giovanissimi protettori: uno aveva persino sedici anni. Un numero di perdite spaventosamente grande per un bottino così piccolo, non c’era alcun paragone. Eppure nessuno sembrava mostrare la ben che minima emozione, non una lacrima, né una smorfia di dolore o disappunto. Forse c’era un addestramento che ti aiutava a diventare una macchina da guerra spietata senza cuore, chi lo poteva sapere. Oppure significava che la morte era soltanto una nota dolente, all’ordine del giorno. In parole povere ti addestravano per diventare carne da macello. Come pretendevano di digerire il pranzo dopo quella lunga parata di cadaveri? I protettori diventavano sempre più strani ai miei occhi.
Non appena ebbe finito di parlare, trovò posto accanto allo zio. Lui gli confidò qualcosa all’orecchio affinché il resto non potesse ascoltare e guardarono entrambi nella nostra direzione. Poggiando il suo mento sulle nocche rifletteva su quanto riferito dallo zio. Da quella postazione non riuscivo a leggere il labiale ma avevo intuito dalla faccia di zio Mark che erano in disaccordo su qualcosa.
Dopo il mio sconsiderato eccesso di collera, Morgana non ci rivolse più la parola per tutto il tempo del pranzo (che a proposito era sorprendentemente squisito).
«Mi sa tanto che l’hai spaventata a morte» osservò acutamente Gab.
«Non dire sciocchezze, non faccio paura a nessuno. Volevo solo saperne di più, non è certo un mio problema se ho urtato la sua sensibilità».
«Avevi quello sguardo» mi fece notare immusonendo l’espressione. 
«Quale?» domandai sinceramente colta alla sprovvista.
«Quello sguardo» mi rivelò infine, cercando di imitarmi, con scarsi risultati. Aggrottò le sopracciglia a forma di V e incupì gli occhi.
«Vuoi smetterla con questa storia». Poi lo guardai per un attimo: aveva un’aria vagamente triste. «Ah, ah» lo motteggiai scrutandolo di sottecchi.
«Che c’è?» ruggì prevenuto nei miei confronti.
«Lei ti piace» affermai con una linguaccia.
«Non è vero, non dire stronzate» esclamò, punto nel vivo.
«Dove hai imparato questo linguaggio!» gli risposi prendendolo per l’orecchio. Mentre ci prendevamo a sberle, una ragazza con una lunga coda di cavallo castana e la corporatura esile sbucò fuori dal nulla e silenziosamente ci sbarrò la via.
«Che cosa state facendo voi due?» chiese lei incuriosita evidentemente dal vedere facce nuove al campo. «Oh che maleducata» trillò la svampita «Io sono Mariana, la sovraintendente dello squadrone anti-vampiro, squadra rossa».
«Avete avuto modo di fare il giro del campo, conoscete già tutte le strutture?» continuò lei sorridendoci da guancia a guancia.
«Sì, è tutto fantastico. Non vedo l’ora di cominciare! Quand’è che mi darete un’arma?» rispose mio fratello con entusiasmo smoderato.
«Frena, vacci piano piccolo. Sono qui per mostrarvi il dormitorio junior» disse lei scompigliandogli i capelli.
«Seguitemi» ci invitò Mariana.
Mariana ci fece strada verso i dormitori. Lungo il tragitto ci disse che ci saremmo dovuti separare perché erano divisi in maschi e femmine. Non ne eravamo particolarmente entusiasti: almeno la prima sera avremmo voluto dormire insieme, non avrei abbandonato mio fratello e invece dovetti arrendermi all’idea.

***********

Ero una povera illusa. Avevo davvero sperato di avere una stanza a disposizione tutta per me. I letti erano disposti su due file, a destra e a sinistra; vicino ai bagni c’erano degli attacca-panni e alcuni separet per cambiarsi d’abito ma la stanza era come se appartenesse a tutti. Se non fosse stato per le foto e le varie decorazioni appese sopra ogni letto, sarebbe stato un ambiente completamente spoglio ed anonimo. Accanto al mio futuro letto qualcuno aveva lasciato un baule. Lo aprì e trovai alcuni indumenti sobri dalle tonalità scialbe e degli anfibi che avrei, probabilmente, indossato durante gli allenamenti. Non c’era nessuna traccia delle mie sciarpe colorate o dei miei vestitini merlettati, nessun fiocco né chiffon. Sospirai sconsolata.
Poi vidi Morgana sfrecciarmi allato, sperando di essere invisibile. Teneva la testa bassa e le spalle ricurve mentre le trecce le oscillavano da entrambi i lati a ritmo dei suoi passi.
Mi resi conto che, forse, e dico forse, prima avevo leggermente esagerato con lei. Poteva essere la prima e l’unica amica che avrei avuto in quel posto che in futuro avrei potuto chiamare casa. E poi Gab sembrava particolarmente allegro quando parlava con lei. Se non per me, avrei provato a fare amicizia per lui, tentando di rimettere a posto le cose.
«Ciao, vicina di letto» provai a dirle, ma mi uscì fuori una specie di rantolio incomprensibile.
Lei, seduta di spalle dal lato opposto del letto, mi trafisse con uno sguardo accusatorio.
Ero davvero pessima con quella roba, l’amicizia. L’unico amico che avevo avuto in tutta la mia vita era Gab, quindi non potevo vantare di chissà quale esperienza, giacché, oltre che con lui, parlavo spesso alle mie piante. Questo però magari lo avrei tenuto per me.
«Ascolta» - decisi di parlarle con franchezza - «prima non volevo aggredirti, non ero arrabbiata con te. È solo che sono… siamo ancora molto tristi, Gab ed io. Non sappiamo ancora un bel niente di questo mondo. Devi sapere che i nostri genitori non ci sono più…».
Mi veniva ancora difficile dirlo ad alta voce.
«Io, io… mi dispiace, non lo sapevo» ammise sinceramente dispiaciuta.
«Non preoccuparti» la rasserenai.
Rimanemmo qualche secondo in silenzio. Poi aggiunsi: «Siamo soli, non conosciamo nessuno e tu sembri l’unica persona gentile a rivolgerci la parola. Ti chiedo, se non è troppo per te, di ricominciare da capo» le proposi porgendole una mano in segno di pace.
Sorprendentemente lei cominciò a sorridermi e la strinse. «Sono io a dovermi scusare, è stato indelicato da parte mia parlare con tanta leggerezza. In fondo quelli sono sempre i tuoi genitori».
«Già» risposi amareggiata.
«Di certo i tuoi non erano autorizzati a parlarti di questo posto, c’è il divieto assoluto sull’ubicazione dei campi dei protettori. È di fondamentale importanza che rimanga segreto, molti dei nostri nemici vorrebbero distruggerci».
«E perché mai?» le chiesi poiché non ne vedevo la necessità.
«Be’…perché noi gli diamo la caccia, immagino» arzigogolò la rossa, tentennando.
«Perché proprio noi? Insomma, voglio dire, dobbiamo necessariamente seguire le orme dei nostri antenati? Non possiamo scegliere di condurre una vita tranquilla e serena come semplici persone? Non tutti siamo dotati di uno spirito così bellicoso, magari qualcuno vorrebbe frasi una famiglia e vivere in pace, che so io!».
«Puoi avere una famiglia anche qui, nessuno te lo vieta» mi fece notare Morgana. «Anzi a sedici anni il consolato ci impone di trovare al più presto un buon partito per contrarre matrimonio. Anche se per le famiglie dalla nobile discendenza non c’è molto da scegliere» mi confessò arrendevole a quella tradizione che non pareva piacerle particolarmente.
«Mi stai dicendo che anche qui c’è l’usanza del matrimonio combinato? E’ un’assurdità. La pace e la quiete ottenuta a che prezzo? Vige pure la pena di morte per chi non è d’accordo con la legge, non c’è spazio per chi vuole esprimere i propri pensieri e aspirazioni. La gioventù è utilizzata solo per scopi bellici e le donne come sforna bambini. Questo è un governo totalitario non molto differente da quello di Mussolini».
«Non ho capito la metà delle cose che hai detto. E chi è Mussolini?».
«Fai finta che non abbia detto nulla» sospirai.
«Non dovresti trarre conclusioni affrettate comunque» disse dandosi un’aria da saputella.
«Non è proprio così che funziona. Anche per noi la famiglia è importante. Partiamo in missione senza avere la certezza di far ritorno. La domenica, quando nessuno di noi ha l’obbligo di obbedire agli ordini, é libero di scegliere di rimanere con la propria famiglia e trascorrere del tempo insieme. Per questo sono sacre. La maggior parte di noi è orfano o ha già perso qualcuno. Chi non ha legami affettivi e niente lo lega a questa terra, molto spesso sceglie di dedicarsi totalmente ed essere un protettore a tempo pieno. Li chiamiamo mystios, i mercenari. Sono i più forti fra noi, di questo puoi stare certa. Si dice che siano sottoposti a un allenamento speciale. Una volta lasciato il campo non se ne ha più traccia. Vagano per il mondo senza una meta fissa. E chiunque richiedesse il loro aiuto lancia un messaggio di fumo».
«Come si diventa un mystios
«Perché t’interessa? Non vorrai mica diventare una di loro?» si accigliò la ragazza.
«No, certo che no, io ho mio fratello. Era sola pura curiosità». Eppure l’idea mi stuzzicava.
«Sono spiacente, non so altro» se ne rammaricò facendo spallucce.
«So a cosa stai pensando»  provò a indovinare con un sorrisetto appena accennato.
«Il compito che grava su di noi non è cosa di poco conto. Qualcuno deve pur rischiare la vita se è per raggiungere uno scopo più alto, non credi?» cercò di convincermi.
«Non ho ancora deciso se siete tutti dei matti da internare» le confidai in tutta sincerità.
Morgana rise di cuore.
«L’abbiamo nel sangue, siamo nati per combattere. Nessuno desidererebbe qualcos’altro al di fuori di questo. Certo qualcuno finisce col farsi ammazzare, ma non c’è onore più grande nell’offrire i nostri cuori per realizzare il nostro sogno. Perché, sì, non è soltanto un obiettivo da raggiungere ma un sogno condiviso che ci rende tutti fratelli» fantasticò con un cipiglio sognante.
Parlava esattamente come una che aveva subito il lavaggio del cervello.
«E gli anziani? Cosa ne fate di loro? Una volta assolta la loro missione, che ne è di loro?» le domandai ancora.
«Sei ancora nella piena sindrome del perché, non è vero?» mi fece notare accarezzandomi la testa.
«Non è così! Sono solo curiosa, per me è tutto così nuovo…»  la rimproverai.
«Avrai di certo notato che, da queste parti, non se ne vedono molte persone avanti con l’età. Potrai tranquillamente immaginarti il perché. Per rispondere a ciò che mi hai chiesto, beh, sono semplicemente congedati, sempre se sei così fortunato da arrivare alla vecchiaia. Alcuni di loro, i discendenti delle famiglie più nobili, possono entrare a far parte del consiglio dei sette, la mano della giustizia dei protettori. Sono loro a dettare la legge e a ristabilire l’ordine nel nostro mondo. Mio nonno è un membro dei sette già da prima che nascessi. Non l’ho mai conosciuto, perché, una volta che entri, non puoi più sottrarti agli obblighi che implica, come non avere contatti con la propria discendenza, affinché il giudizio sia sempre imparziale e il meno possibile offuscato dai sentimenti personali».
«È così…crudele» non trovai un altro termine per descrivere quell’ingiusta imposizione.
«Dici?» Morgana ci pensò su. Evidentemente avevamo punti di vista differenti. Magari col tempo avrei cominciato a pensarla come lei.
«Certo che ne sai di cose per essere così giovane».
 «Presto molta attenzione alle lezioni e poi, essendo una Cacciasciacalli, mio padre non mi permetterebbe mai di non essere educata a dovere».
«Non sei mai uscita, là fuori, nel mondo esterno?» le chiesi di punto in bianco. Lei mi guardò come se avessi detto una parolaccia.
«Non c’è permesso a noi bambini di farlo, almeno non prima di…».
«Almeno è consentito respirare in questo posto?» sbottai ormai esasperata. Non ero di sicura di poter seguire tutte quelle regole, mi sentivo già soffocare.
«Non vi sembra di vivere in una gabbia?» continuai un po’ accalorata «Sì, è vero, vi permettono di vivere in questo posto idilliaco, è garantita la pace, vitto, alloggio e istruzione, ma ne vale la pena se poi  trattati come bestiame alla mercé dei nostri carnefici?».
«Parli in questo modo perché non hai mai visto un protettore in azione. Noi non siamo le prede, Leona, noi siamo i cacciatori. Col tempo lo capirai».
 «E comunque, prima non era così, sai?» aggiunse malinconica. «O almeno così è quello che mi hanno detto i miei genitori. Nella nostra famiglia si tramandano racconti di generazione in generazione come quella della nascita dei prototteri. La vera versione della storia, quella che va contro la dottrina odierna».
«Noi protettori siamo sempre stati un popolo libero, fortissimi guerrieri che decidevano di lottare per il bene dell’umanità. Non c’era nessun Consiglio dei sette, nessun comandante, nessun Sire. Al contrario di ciò che si possa pensare, non c’era traccia di disordine. Si condivideva tutti come fratelli, ognuno era considerato come loro pari. Nessuna cerchia che godeva di diritti speciali. Avevano un’unica guida: i medjai. I più potenti protettori mai esistiti. Loro, però, non erano assetati di potere. Agli albori erano per lo più nomadi, viaggiavano di città in città, di paese in paese. Questa versione della storia però non è accettata dalla comunità erudita. Si parla di fatti e avvenimenti ignoti perché non c’è alcuna documentazione al riguardo».
«É la versione censurata della storia insomma» riassunsi in parole povere.
«Qualcosa del genere, sì» conformò la ragazzina con le lentiggini.
«La vera storia comincia dalla fondazione di Hijir, la capitale perduta degli antichi protettori. La città era organizzata in circoscrizioni e in caste sociali. Soltanto i soldati più forti potevano scalare la gerarchia monarchica. Il solo a comandare era il re di Hijir. Anche i medjai erano costretti a sottostare alla sua supremazia». A un certo punto smise di parlare e mi guardò con compassione.
«Posso chiederti quanti anni hai?» domandò con un pizzico di timidezza.
«Fra non molto ne compirò sette».
«Sei molto saggia per la tua età e penso tu possa capire. Dovresti stare attenta con chi parli di queste cose. Io sento che di te mi posso fidare, perciò te ne parlo. Questo luogo ha orecchie in ogni dove, devi credermi» disse sottovoce, ancora con fare circospetto.
«Mio Dio, mi sento come dentro a un romanzo di George Orwell».
Morgana provò a replicare ma abbandonò immediatamente l’idea. Poi lasciò il suo letto e venne a sedersi accanto a me, così vicine da toccarci le spalle. Le brillavano stranamente gli occhi.
«Tu vieni da oltre lo Specchio, giusto?». Cercai di non farmi distrarre troppo dai suoi capelli rossi, accesi come una braciere.
Immaginavo che con “specchio” intendesse il lago da cui eravamo sbucati magicamente fuori.
«Ti prego, dimmi com’è!» mi supplicò «Mi basta solo immaginare!».
«Non che abbia visto chissà che» le risposi con un certo imbarazzo «Gabriel ed io siamo nati nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, perciò abbiamo trascorso i primi anni sigillati dentro a un bunker…».
«Sì, ne ho sentito parlare di questa guerra fra uomini» sembrava delusa.
«Nostro padre ci ha portato in America, nella sua terra natale, una volta finito il conflitto».
«Ricordo ancora la sensazione. Il viaggio dalla Sicilia era stato lungo e sfiancante ma noi eravamo così impazienti che saltellavamo da un punto all’altro del ponte. Avanti e indietro, da poppa a prua. Eravamo così eccitati, forse perché papà ci aveva rifilato tutti quei cioccolatini. Quando oramai eravamo giunti nello stato del New Jersey, al porto di Manhattan, papà ci prese in braccio e con la sua testa incastrata fra quella mia e di Gab ci suggerì di guardare in alto.  Proprio al centro della baia ci accolse la statua enorme di una signora tutta azzurra. La donna indossava una toga e una corona. Con una mano sorreggeva fieramente una fiaccola e con l’altra un libro. Papà ci spiegò che la fiaccola simboleggiava il fuoco ardente della libertà». Era facile parlare con Morgana, era una brava ascoltatrice. Non avevo mai discusso tanto a lungo con una ragazza della mia età o forse non avevo mai parlato così tanto in vita mia in generale.
«Wow, spero che anch’io un giorno abbia la possibilità di vederla» sembrò estasiata all’idea.
«Un giorno la visiteremo insieme, se ti va» le proposi, non mi sarebbe dispiaciuto viaggiare con lei, anche se la conoscevo praticamente da qualche ora.
«Certo che mi va! Purtroppo, però, soltanto i primi dieci migliori cadetti sono spediti in missione all’estero».
«Faremo che questo si realizzi, te lo prometto». Non sapeva ancora quanto ero competitiva…
«Non fare promesse che non puoi mantenere!» esclamò sconsolata.
«I cadetti della fazione rossa sono fra i più promettenti della nuova generazione e, spesso, sono loro a dominare le classifiche».
«Fazione rossa? Perché quante ne esistono?». C’erano ancora così tante cose da scoprire.
 «Quattro: rossa, blu, verde e gialla» elencò lei.
«Che fantasia… come si fa a entrare in una di queste fazioni?».
«C’è un esame. E in base al punteggio ottenuto, ti assegnano a una fascia. Sono valutate la capacità strategica, le abilità combattive, i riflessi, il coraggio, la risolutezza…tutte qualità che un buon protettore dovrebbe possedere. Il punteggio è valutato in centesimi: da ottanta in poi, rientri nella fascia rossa, da settantanove a cinquanta, fazione blu, da quarantanove a venti verde, da diciannove in giù…gialla ma non c’è nulla di definitivo! In base alla tua condotta possono decidere se farti retrocedere o aumentarti di grado».
«E tu a quale fazione appartieni?» le domandai.
«Alla rossa» sussurrò timidamente divenendo rossa come i suoi capelli.
«Se tu sei nella fazione rossa, vuol dire che non sei niente male» constatai stupita.
«Non è così. Sono finita qui soltanto per via della mia famiglia. Non sono particolarmente talentuosa». La sua modestia mi parve sincera.
«Non ci credo neanche per un attimo». Le sorrisi per incoraggiarla.
«In cosa consiste l’esame?» volli sapere. Dovevo pur prepararmi a dovere o no? Morgana fece una croce con gli indici e li appoggiò sulla bocca. «Questo non posso proprio dirtelo, è un segreto! Se lo facessi, finirei in isolamento» disse piagnucolando.
«Uffa! Come dovrei affrontare un esame se non so nemmeno di cosa tratta!» trillai sconvolta.
«Non posso aiutarti. Fidati del tuo istinto, andrà bene. Ne sono certa». Da come mi aveva sondato lo sguardo, doveva già aver capito molto di me, ma la sua fiducia nelle mie capacità non era comunque una garanzia. Già mi vedevo derisa da tutti con un punteggio di zero punti. Che avevo fatto di male, cavolo! Io e la fascia gialla non ci saremo mai separate.
«Posso farti una domanda?» ripresi per rompere il silenzio. «Prima, quel ragazzo, Valerio, diceva che esistono altre creature oltre a quegli esseri con gli occhi rossi…e tu stessa me lo hai confermato parlando del tuo lignaggio. Stento a credere che esistano umani in grado di trasformarsi in animali, per me è tutta una follia. Anche se dopo aver visto quell’individuo dal pallore mortale…».
«Hai visto un vampiro e ne sei uscita illesa? Alla tua età?» esclamò Morgana stupefatta con gli occhi sgranati, incerta su quanto avessi affermato.
«Sembri invidiosa del mio incontro con quel mostro. Io invece muoio di paura al solo pensiero». Ed era così, ero letteralmente terrorizzata. Scacciai via quel ricordo. Con quale faccia sarei diventata una cacciatrice?
«Eri da sola, non c’erano i tuoi genitori, tuo fratello ad esempio?» continuò lei.
«Che cosa avrebbe potuto fare? In ogni caso non volevano farmi del male».
«Volevano? Scusa non era un vampiro? Quanti vampiri hai incontrato?».
«Smettila di ripetere quella parola, ti prego» mi si erano torte le budella in un grumo di nodi.
«Scusa io non volevo…» prese a scusarsi.
«Stai tranquilla, non è niente» tirai su col naso. Dopo aver confermato ancora una volta la mia incapacità a intrattenere un discorso senza farlo precipitare nell’imbarazzo, il suono di una campana venne in mio soccorso.
 «È ora di andare. Che ne dici di partecipare al tuo primo allenamento? Mettiti qualcosa di comodo, ti aspetto fuori» m’invitò facendo finta di nulla.
Apprezzavo enormemente lo sforzo di Morgana di essermi amica, non era affatto semplice avere a che fare con me. Le avevo appena chiesto di cominciare da capo e stavo per rovinare tutto, di nuovo. Avevo paura che iniziasse a pensare che stessi nascondendo qualcosa ma forse ci stao rimuginando troppo su, la solita paranoica. Indossai gli indumenti contenuti nel baule e mi avviai verso l’uscita.
Stavo per raggiungere Morgana quando, senza che me ne accorgessi, finii a terra in mezzo a un coro di risate. Guardai in faccia la ragazzina che mi aveva dato lo spintone. La riconobbi subito con quel fastidiosissimo ghigno stampato sul viso. La biondina che stava appiccicata a Fabiano.
«Scusa, non ti avevo visto» si finse dispiaciuta. Mi squadrò dalla testa ai piedi mal celando un certo disgusto.
«Marlena, lasciala stare!» le urlò contro Morgana interponendosi fra noi due.
«Oh, che carina pel di carota ha adottato un cagnolino» se la ridacchiò. Le sue amiche cominciarono a starnazzare come oche insieme a lei.
«Sì, sì ridete pure. Siete soltanto delle bullette schifose che per stare bene dovete sottomettere gli altri, per sentirvi più forti ma in verità non lo siete, avete soltanto paura che qualcuno possa essere migliore di voi». La povera Morgana aveva radunato tutta la forza interiore che aveva a disposizione per difendermi, aveva del fegato nascosto dietro la sua indiscutibile timidezza.
«Wooh!» esclamarono tutte le amiche di Marlena. La bionda fece segno alle ragazze di calmarsi.
Poi fissò Morgana con sguardo truce, perdendo nelle pieghe della sua espressione corrucciata ogni traccia della sua bellezza. Le afferrò una delle trecce e gliela sventolò sotto il naso.
«Stai attenta pel carota, scegli con più cura da che parte stare. Fino ad ora ti ho lasciato in pace per via dell’ammirazione che la mia famiglia ha nei confronti della tua. Se decidi di stare con la feccia, anche tu sei feccia e ti becchi le conseguenze» la avvisò con tono intimidatorio.
Detto questo, fece segno alle ragazze e ci lasciarono sole.
Mi porse una mano per aiutarmi a rialzarmi ma io la ignorai dicendole che stavo bene, anche se era chiaramente una bugia. Non era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere, ne avevo conosciute molte di bullette come lei, ma non capivo perché fossi così arrabbiata. Forse semplicemente non accettavo che qualcuno senza conoscermi nemmeno provasse tanto odio.
Morgana mi assicurò che faceva così con tutti i nuovi arrivati. Qualcosa, però, nei suoi occhi mi suggeriva che la questione era personale.
I dormitori erano lontani dai campi di addestramento, perciò avemmo l’occasione di chiacchierare un po’ sulle dinamiche di quel posto. Mi spiegò che gli allenamenti e le lezioni duravano dal lunedì a sabato e, come mi aveva già annunciato, la domenica potevano tornare a casa, alla cittadella, dai propri cari. Erano obbligatori fino all’età di sedici anni. Da lì in poi, avremmo prestato giuramento alla causa. Dopo aver superato gli esami finali, sia teorico sia pratico, i più meritevoli avevano la possibilità di beneficiare di un anno all’estero per acquisire competenze extra. Compiuta l’età, noi tutti avremmo dovuto partecipare a una cerimonia particolare dove ci saremmo dovuti immergere, da capo a piedi, nel fiume delle anime guerriere per ricevere la benedizione degli antenati protettori. Ci avrebbero battezzato con un nuovo nome in codice, da utilizzare durante le battaglie. E non era tutto, c’era una scelta da compiere: decidere su quale tipo sovrannaturale specializzarsi. Morgana avrebbe seguito certamente le orme della sua famiglia e sarebbe finita col combattere i licantropi. Io avrei potuto scegliere fra Licantropi, Vampiri, Stregoni e Druidi, fate, Pixie, raccolti in un’unica categoria, e Creature mitologiche. Sapevo benissimo che non avrei avuto dubbi quando sarebbe stato il momento. Il mio destino sembrava già segnato, avrei speso la mia intera esistenza a combattere, non avevo altre prerogative. Suonava più come una condanna a morte ma che possibilità avevo? Di sicuro mio fratello si sarebbe buttato a capofitto in ogni scontro e si sarebbe allenato duramente per raggiungere la sua bramata vendetta. Dal canto mio avrei fatto lo stesso, per proteggerlo da qualsiasi cosa avesse provato a torcergli un solo capello.
Giunti al campo dei carrubi, così lo aveva chiamato Morgana, cercai subito fra la folla di bambini mio fratello. Lo trovai completamente circondato. Non aveva perso tempo, nel giro di qualche ora, al dormitorio, si era fatto un sacco di amici. Stava al centro a parlare mentre gli altri ridevano alle sue battute. Riuscì a scovare un po’ di serenità nel suo volto, per cui misi da parte la mia gelosia e decisi di non rovinargli la festa.
«Futuri Protettori» sbraitò l’addestratore non appena varcò la staccionata, insieme a zio Mark.
E noi rispondemmo solerti in coro: «Lux omnia vincit». Ormai lo avevo imparato anch’io.
«Mettetevi in riga, su, banda d’indisciplinati. Non fatemelo ripetere due volte» ordinò l’istruttore albino dall’aria minacciosa. I suoi capelli cortissimi erano biondi tendenti all’argento, aveva occhi verde acqua e un naso aquilino gli invadeva completamente la faccia ricoperta da una folta barba della stessa tonalità del cuoio capelluto. Assomigliava tanto a uno di quei generali promotori della supremazia della razza ariana, un vero discepolo del cancelliere tedesco, Hitler.
«Come potete vedere oggi avremo la supervisione del nostro vice-sire, non ridicolizzate il mio lavoro fatto fin ora » continuò con il suo fastidiosissimo accento straniero.
«Non è necessaria nessuna cerimonia, Hans, fate come se non ci fossi» rispose lo zio tentando di placare il suo entusiasmo.
«Va bene, dividetevi in gruppi e facciamo come sempre. Si parte dall’albero e si arriva giù lungo il fiume, alla coda del boa. Carmine e compagnia, potreste smetterla ridire per piacere! O volete che vi appenda a testa in giù? In riga!».
Lo zio all’improvviso si schiarì la voce con qualche colpetto di tosse. Hans non gradì per niente l’interruzione, ma dovette suo malgrado prestare attenzione.
 «Ci sono due nuovi membri, arrivati freschi dall’esterno proprio questa mattina. Non conosco ancora bene le nostre usanze» lo redarguì zio Mark.
«Per la barba di Mayak. Non si vedevano estranei da un bel pezzo. Devono essere i due mocciosi che erano con te stamattina. Forza su non siate timidi, venite fuori e presentatevi!».
Intercettai lo sguardo di Gabriel sperando che avesse la mia stessa remora ad avanzare invece, con fierezza, era quasi giunto di fronte ai due esaminatori.
Morgana accanto a me tentò con maldestra discrezione, rivolgendomi delle semplici boccacce, di incitarmi a farmi avanti come mio fratello. Costatando che avevo gli stessi riflessi di una statua, decise di darmi una piccola spintarella.
Mentre mi facevo largo fra gli sguardi curiosi degli altri cadetti, mi tremavano le gambe: odiavo stare in primo piano. Perché lo zio non si faceva gli affari suoi?
Poi lo vidi di nuovo, quel ragazzino che tanto mi aveva impressionato. Fabiano, lo aveva chiamato quell’oca stizzosa. Portava attorcigliato sul polso un nastro rosso, delicato, che non avevo notato prima. Quell’improvvisa esplosione di colore scarlatto mi sembrò stupefacente e rassicurante allo stesso tempo, in contrasto agli indumenti, privi di personalità, indossati da tutti noi. Non mi toglieva gli occhi di dosso, sentivo il suo sguardo su di me seguirmi come un’ombra e la cosa non faceva che mettermi ancora più a disagio.
Affiancai Gab rimanendo a testa china a fissarmi gli anfibi.
«Allora?» ci incalzò l’istruttore, roteando la mano in aria.
Gab chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e disse: «Sono Gabriel, Massimiliano…» fece una breve pausa. Le sue labbra si erano ridotte a una fessura come se volesse trattenere a tutti costi, quella parola. Quel cognome che tanto aveva suscitato sdegno senza conoscerne il reale motivo. Poi, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, la sputò fuori, consapevole che stava per rovinarsi definitivamente la reputazione.
«Braveheart» finì senza indugio o tentennamenti.
Com’era prevedibile, alle nostre spalle, il chiacchiericcio diventò sempre più forte, più assordante ma lui rimase impassibile. Quella valanga di cicalecci non turbò la sua fermezza. Non ero mai stata più fiera di Gabriel. Stava gridando al mondo intero la sua appartenenza alla nostra famiglia, senza vergogna alcuna.
«Silenzio!» urlò Hans sputacchiando. Provai una soddisfazione segreta nel vederli diventare bianchi come un lenzuolo. «Braveheart, eh?» continuò Hans rivolgendo uno sguardo malizioso a zio Marcellus.
«Questa poi non me lo aspettavo. Voi siete la progenie dei traditori, il frutto di un albero marcio fin dalle radici. Avete una bella faccia tosta a farvi vedere qui; non importa, non mi aspetto nulla di buono, dall’altra parte: la mela non cade mai lontana dall’albero, no?».
«Non conosco le ragioni che li hanno spinti agli atti estremi di cui parlate» risposi sovrappensiero al mio nuovo istruttore. «Non so cosa abbiano fatto per essere ricordati con tanto odio. Se li avesse conosciuti un po’ meglio si sarebbe sicuramente reso conto del loro immenso valore e non avrebbe mai messo in dubbio la loro fedeltà alla causa. È così facile giudicare qualcuno senza conoscere realmente come stanno i fatti. Chi può stabilire se siano stati davvero dei traditori, dei codardi?  Una cosa è certa: sono morti da eroi. E se avessimo ereditato solo la metà del loro coraggio, non potrei che esserne più orgogliosa. La prego, quindi, di non giudicarci per il nostro retaggio, di cui non siamo degni, ma per le nostri azioni presenti e future».
In seguito al mio soliloquio, calò il silenzio. Soltanto il vento sibilò strisciando fra i fili d’erba e le cicale cantarono squarcia gola al quel cocente pomeriggio estivo, mentre Gabriel ed io rimanemmo immobili all’ombra del carrubo come dei veri soldati.
Notai lo zio alzare un angolo della bocca e l’espressione sbalordita sul volto di Hans. Era evidente che non era ancora a conoscenza dell’accaduto e ciò lo aveva profondamente turbato. Subito dopo fece finta di nulla, forse perché temeva di perdere di credibilità di fronte ai ragazzi. Con il mio comportamento avevo involontariamente minato la sua autorità al primo giorno di addestramento.
«Come ti chiami?» mi domandò puntando i suoi due occhi di ghiaccio sprezzanti su di me.
«Leona Elena Braveheart» risposi atona con le braccia incrociate dietro la schiena.
«La prossima volta, ti suggerisco di non parlare senza che ti sia stato accordato il permesso o sarai punita per insubordinazione, sono stato chiaro, Leona?» mi gridò direttamente in faccia riempiendomi di saliva.
«Sì, Signore!» risposi trattenendo il forte impulso di asciugarmi.
«Dovresti addomesticarli meglio i tuoi animaletti Marcellus» lo rimbeccò seccatamente.
«Va bene signorinella, visto che ti piace tanto blaterare vediamo cosa sai fare» e fece segno in direzione dell’albero accanto a noi.
«Vai, puoi farcela» m’incoraggiò Gab sottovoce.
Deglutii il groppone e mi avvicinai al carrubo. A giudicare dall’aspetto e dagli anelli impressi nel tronco, doveva aver visto trascorrere interi secoli davanti a lui. Mi voltai indietro e Morgana era lì che si faceva spazio a forza di gomitate per vedere più da vicino. Mi sorrise e mi mostrò entrambi i pollici all’insù.
Ok, dovevo scalare solo un albero. Cosa mai poteva andare storto, pensai fra me e me.
Spostai un po’ i capelli dalla faccia e infilai un piede nel primo solco visibile, poi affondai le dita nella corteccia e cominciai a salire con estrema prudenza.
«Oh santa pazienza! Non abbiamo mica tutto il giorno! Hop, hop!» m’incitò il perfido istruttore.
«Idiota» imprecai pianissimo.
«Che hai detto?» vociò imperioso.
«Sto facendo del mio meglio».
«Beh se questo è il tuo meglio, allora non voglio vedere altro». E i ragazzi scoppiarono a ridere.
Al colmo dell’umiliazione, giunsi nel punto di biforcazione dei rami e mi misi a cavalcioni su uno di essi.
«Molto bene, cosa vuoi fare? Hai intenzione di cavalcare quell’albero? In piedi!».
«Come in piedi?» chiesi agitata per quell’ordine assurdo.
«Devi lanciarti di lì fra trenta secondi o giuro che ti mando in isolamento!».
Perché sti tizi avevano il vizio di lanciarsi da per tutto? Che problemi avevano? Facevano a gara a chi aveva più ossa rotte?
Non avevo altra scelta: provai a tirarmi su lentamente e feci l’errore imperdonabile di guardare giù. I capelli mi dondolavano in faccia occupandomi la visuale ma proseguii ugualmente nel tentativo di scendere da quell’albero infernale.
La fretta mi giocò un brutto scherzo, misi un piede in fallo e scivolai come un sacco di patate. Pensai: ecco, non c’è modo migliore di mettersi in ridicolo e procurarsi una bella ingessatura in un solo giorno!
Invece di schiantarmi sul terriccio qualcuno mi aveva afferrato e mi teneva fra le sue braccia. Ripetei quel gesto perpetuo di spostare i capelli davanti agli occhi e scoprì chi era il mio salvatore.
Rimasi pietrificata. Mi ritrovai col viso a qualche centimetro da quello di Fabiano e il cuore cominciò a tamburellarmi ferocemente.
«Stai bene?» mi chiese lui preoccupato con la sua voce gentile.
«Io sto bene. Tu come stai?». Che razza di domanda era? Davvero geniale Leona, molto brava. Povera me, com’ero inebetita!
Fabiano doveva essersene accorto perché si mise a ridere.
«Non c’è male» rispose garbatamente poggiandomi a terra allato dell’albero.
«Non ho mai visto una scena più pietosa di questa, sei un vero disastro!» ci interruppe Hans mentre i ragazzi si prendevano gioco di me sghignazzando come iene.
«Se il nostro Fabiano non fosse intervenuto prontamente, avremmo assistito alla tua rovinosa caduta, almeno ci saremmo fatti qualche risata e ti saresti rotta un braccio o una gamba. Magari avresti imparato qualcosa! E tu vorresti diventare una protettrice? Bah! A proposito Fabiano, ottima presa. Non mi sarei aspettato niente di meno dal figlio dell’ammazza vampiri». Il ragazzo dagli occhi azzurri non poté nascondere l’imbarazzo.
«E’ ingiusto! Era soltanto la prima volta» mi difese mio fratello.
«Allora parlare quando non si è interpellati, è un vizio di famiglia! All’albero anche tu, ora!».
«Va bene» rispose seccatamente e si avvicinò come una furia al carrubo.
Di certo non avrei immaginato l’esibizione di un acrobata, restai comunque senza parole. A una velocità impressionante e con un’agilità degna di una scimmia, Gab, raggiunse la vetta e, rimanendo in perfetto equilibrio e camminando elegantemente sul ramo dai lineamenti irregolari, si esibì in una capriola che lo fece atterrare silenziosamente sul prato.
I ragazzi scoppiarono in applausi e fischi di approvazione mentre mi chiedevo dove diamine avesse imparato a fare quelle cose.
«Sì, sì, bravo. La fortuna del principiante! Sempre meglio di quel sacco di patate di tua sorella. Anzi, siete sicuri di essere gemelli?» chiese Hans. Certo, non poteva proprio farne a meno di paragonarmi a lui.
«Ok, la festa è finita! Forza tutti in fila, fategli vedere cosa significa essere un protettore».
I ragazzi obbedirono e cominciarono, uno dopo l’altro, veloci come saette, a ripetere lo stesso esercizio di Gab. Com’era prevedibile, non c’era uno solo fra loro che sembrava sgraziato o inesperto in ciò che faceva. Persino Morgana, che prima di proseguire fece spallucce come per dire “ci hai provato”, aveva il suo stile. Non tutti però mi guardavano con disprezzo come quella presuntuosa di Marlena. In alcuni, lessi un po' di compassione e ciò mi era di conforto. Quando la fila stava per terminare, l’istruttore si lanciò all’inseguimento dei ragazzi inveendo contro di loro a pieni polmoni.
«Non stavi andando così male» mi confortò ancora il ragazzo. Perché mi rivolgeva la parola? Ero un disastro…
«Sì certo, come no. Vi sarò sembrata un dinosauro con la parrucca in un circo che tenta di fare l’equilibrista».
«Che strano paragone» esclamò porgendomi la mano.
«Grazie» gli risposi afferrandola e scuotendomi polvere e terra dai vestiti.
«Mi dispiace per i tuoi genitori». Non mi aspettavo così tanta disarmante sincerità. I suoi occhi erano come un libro aperto e mi trasmettevano con violenta intensità l’afflizione che c’era dietro quelle parole, come se fosse l’unico a capirmi, il solo a comprendere quello che stavo passando. Non volevo piangere, perciò mi limitai a guardare il cielo mentre mi mordevo il labbro inferiore.
«Posso darti un consiglio?» richiamò la mi attenzione cambiando discorso. Gliene ero grata. Mi afferrò una ciocca di capelli e la sistemò dietro l’orecchio senza preavviso. Quel gesto così intimo mi fece andare il viso in fiamme.
“Dovresti legarli i capelli durante gli allenamenti. È importante osservare ciò che ti circonda, specialmente quando combatti. Devi sempre rimanere vigile e pronta a reagire perché non sai mai che intenzioni avrà il tuo nemico» mi raccomandò pensieroso, come se fosse normale sistemare i capelli di un’estranea.
Non mi sentii infastidita o arrabbiata, anzi. Glielo avrei lasciato fare altre mille o migliaia di volte senza capirne il perché.
«Io odio i miei capelli» dichiarai apertamente afferrando un ciuffo, «sono ingombranti e impossibili da domare, forse dovrei tagliarli una volta per tutte». Lo dicevo tanto per dire, non avrei avuto mai il coraggio nemmeno di tenere una forbice in mano…
«A me piacciono i tuoi capelli, non c’è nulla che non va» affermò genuinamente. Non c’era traccia di malizia in lui, era semplicemente così, diceva ciò che gli passava per la testa. Quel complimento mi mise in seria difficoltà. Poi rimase un attimo a fissarmi tenendosi il mento.
«Mmm, vediamo…» sussurrò sovrappensiero. Cominciò a sfilarsi il nastro scarlatto dal polso e poi mi chiese di girarmi. Fece scorrere i miei capelli fra le sue dita tentando di raccoglierli e li legò con quello stesso nastro.
«Ecco così dovrebbe andare, così potrai riprovare tutte le volte che vuoi» disse soddisfatto.
«Io non posso accettare, è il tuo…» feci per dire.
«Sta tranquilla, apparteneva a una delle persone più coraggiose che conosca. E tu non sei da meno. Hai mostrato molta determinazione poco fa, sono certo che diventerai un’ottima guerriera. In più non mi dispiace che lo abbia tu, so che ne farai un uso migliore. Non saprei che farmene io» si giustificò facendo spallucce. Quel dono, per quanto apparentemente semplice, mi commosse. Non aveva nulla se non quel nastro e me lo aveva dato soltanto per tirare su di morale una sconosciuta che non significava nulla per lui. Ebbi il forte impulso di abbracciarlo ma non era il caso, sarebbe stato parecchio strano perciò mi limitai a ringraziarlo con gli occhi lucidi.
«Giovanotto, non dovresti unirti ai tuoi compagni? Non vorrai indispettire il tuo addestratore?» s’intromise inaspettatamente zio Marcellus. Avevo completamente dimenticato la sua presenza.
«Sì Signore, vado immediatamente» rispose rispettoso Fabiano. Poi, prima di andare, mi rivolse un sorriso e mi disse: «Non mollare mai».
«Ce la metterò tutta» gli gridai, ma era già diventato una macchia all’orizzonte.
«Leona?». Sospirai e mi voltai lentamente verso lo zio.
 «Vieni, andiamo via di qui. Devo mostrati una cosa».

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Capitolo 7
*** MR BROWN ***


Capitolo 4 – Mr Brown

Non immaginavo minimamente che avrei potuto visitare il castello così presto ma, per mia fortuna, lo zio doveva mostrarmi una cosa importante che, guarda caso, si trovava nella sua stanza da lavoro, all'interno di quella fortezza. Prima però, lo supplicai che mi facesse dare una breve occhiata alla biblioteca di cui aveva fatto cenno quella mattina. Non condividevo gli stessi gusti degli altri bambini della mia età e non m’importava.
Per me aveva lo stesso fascino di un luna-park.
L’aula era di forma circolare e il soffitto terminava con una cupola maestosa costituita interamente da vetri. Era come se il tetto fosse formato da spicchi triangolari di cielo. A ogni libreria, realizzata in legno massiccio e incassata nel muro, si alternava un mosaico dai colori vividi e sgargianti, anch'essi in vetro. Attraversati dalla luce del sole, coloravano il pavimento come se fosse la tavolozza di un pittore. Estrassi uno dei libri da una fila ordinata e aprii una pagina a caso. Lasciai scorrere le mie dita sulle parole incise su quei fogli per assaporarne la ruvidezza sotto i miei polpastrelli. Poi, tenendo in equilibrio sul palmo della mia mano il dorso della copertina, lo avvicinai al viso e lo annusai delicatamente. Niente era magico come l’odore di un libro. La fragranza d’inchiostro e carta m’inebriava a tal punto da darmi le vertigini. La voce afona dello scrittore, la sua storia, i suoi pensieri, i suoi desideri, la sua stessa anima erano imprigionati fra le pagine di quel libro con la promessa di essere custoditi per l’eternità. Sarei rimasta li ore ed ore. Avrei trovato un angolo e realizzato un fortino con tende e cuscini. Avrei trascorso l’intera notte lì con una torcia alla mano e in compagnia di un buon libro.
Purtroppo sapevo benissimo che la mia fantasia galoppava senza freni e che tutto ciò sarebbe rimasto un effimero sogno.
Infatti, lo zio, rimasto appoggiato allo stipite del portone d’entrata, spostava impaziente il suo sguardo da un punto all’altro dell’aula. Riposi, sconfitta, il libro al suo posto e seguì lo zio nel suo “ufficio”.
In quella stanza si respirava solo polvere e regnava incontrastato il disordine: aveva necessariamente bisogno dell’intervento di Camilla. Rimpiansi immediatamente la mia amata biblioteca delle meraviglie. Trovai posto su una pila di libri malconci vicino la scrivania dello zio mentre rovistava frettolosamente dentro la sua borsa. Mi aspettavo una specie di ramanzina per la mia carente performance di prima ma non sembrava interessargli più di tanto. Col naso ancora infilato dentro la ventiquattrore mi chiese: “Ti hanno insegnato a leggere?”.
“Certo, mamma trascorreva con me interi pomeriggi quando poteva, il nostro libro preferito era Orgoglio e pregiudizio” - dissi facendo spallucce.
“Non è proprio una lettura leggera per una bambina”.
“A tre anni sapevo già leggere quella noiosissima favola su cappuccetto rosso”.
“Hai sempre avuto una marcia in più, proprio come tua madre, la cosa non mi sorprende”.
“Puoi dirlo forte, non come quello zuccone di Gab” - gli risposi stizzosa.
“Non è che sei gelosa di lui perché è riuscito a saltare da quell’albero”.
“Assolutamente no. Posso farcela anch’io, l’istruttore mi ha preso in contropiede”.
“Confido che ci riuscirai” - disse distrattamente - “eccolo qui!” - aggiunse.
Con un tonfo sbatté sul tavolo un pezzo di stoffa, vecchio, ammuffito e leggermente giallognolo. A uno sguardo più attento mi accorsi che quel pezzo logoro e maleodorante non era altro che un papiro dell’antico Egitto. Perché lo zio si portava dietro un oggetto di antiquariato del genere? Saltai giù dalla mia sedia improvvisata e cadde accidentalmente un giornale sotto il tavolo. Lasciai perdere e osservai attentamente quella raffigurazione bidimensionale.
Due figure, per metà umanoidi e metà aquiline, erano prostate, con le braccia volte verso il cielo, in adorazione. Sull’altare, davanti a loro, erano presenti due oggetti splendenti in oro massiccio. Non avrei saputo dire con certezza, ma per analogia delle forme, fui indotta a pensare che fossero degli ornamenti per le braccia. In ognuno di essi erano incastonate quattro pietre preziose: uno zaffiro, un rubino, sul bracciale di destra ed un diamante e uno smeraldo su quello a sinistra.
“Che cosa vedi?”.
“Due imbecilli vestiti da pennuti che adorano dei pezzi di metallo”.
“Su via Leona, un po’ di rispetto”.
“Il mio rispetto è rivolto al solo ed unico Dio e ti assicuro che non se ne va in giro con quella ridicola maschera. Non so se te l’hanno detto, ma la nostra famiglia non è politeista”.
“Ti rifaccio la domanda: cosa vedi?”.
Forse il tono di voce o forse perché avevo deciso di bandire il mio atteggiamento scontroso, capì cosa mi voleva dire in realtà. Sul muro retrostante, vi erano incisi dei simboli e li lessi ad alta voce. Soltanto quando terminai l’ultima riga mi resi conto di aver pronunciato parole che non conoscevo. Lo zio sembrava sconvolto e stupefatto allo stesso tempo.
“Sapevo che ne eri in grado”.
“Cosa mi è successo?” - ero del tutto consapevole di quello che avevo fatto, ero riuscita a decifrare quel messaggio perché ero certa di poterlo fare, come se avessi parlato quella lingua arcaica per tutta la vita. Rimasi comunque sbigottita al suono della mia voce che, senza indugio, recitava quella strana cantilena.
Guardai lo zio dritto in faccia dicendogli che ero assolutamente certa che a scuola, per quel poco che l’avevo frequentata, non mi avessero insegnato l’egiziano.
“Khun ka ‘cha lha medjai” - disse improvvisamente.
“La me… memoria dei medjai?” - tradussi con esitazione.
“Esattamente. Tu e anche tuo fratello ne siete in possesso. Questo non è egiziano, Leona. È l’antica lingua dei protettori: l’hijriano”.
“Com’è possibile tutto questo?”.
“Voi conservate la memoria di tutti i medjai vostri predecessori. Avete accesso ai loro ricordi, esperienze, abilità e grazie all’effetto “osmosi” le vostre coscienze si fondono divenendo un’unica entità. Per questo riesci a farlo. Solo che non ve ne rendete conto finché non vi trovate nelle circostanze che ne sbloccano il meccanismo”.
Mi misi a giocherellare, nervosa più che mai, con la penna che avevo trovato sul tavolo.
“Leona” - mi chiamò con tono serio zio Marcellus.
“So che ci avete sentiti, quel giorno in macchina. L’ho capito poco fa quando hai risposto in quel modo al tuo istruttore. Avrei voluto preservarvi da tutto questo, i vostri genitori hanno fatto di tutto per proteggervi e tenervi lontano da questo mondo. Ma sembra che il vostro destino non ne voglia sapere di starsene buono in disparte. Vi reclama come legittimi eredi del potere dei medjai. Non è necessario che capiate tutto subito, so che è dura da assimilare ma col tempo le cose diventeranno più chiare. Parlo con te perché so che, nonostante tu non abbia ancora compiuto sette anni, sei più matura di quello che vuoi far credere. Sarà tuo compito educare tuo fratello”.
“Perché tu e la mamma volete addossare tutto sulle mie spalle?” - dissi lanciando la penna fuori dalla finestra.
“Ti ha detto qualcosa, non è così? Prima che…”.
“Prima che morisse? Prima che mamma e papà ci lasciassero soli a questo mondo? Ti prego zio, basta fingere. Io ero lì”.
“Cercavano questi i vampiri allora?” - domandai indicando i bracciali disegnati sul papiro.
“Credevano che mamma e papà li avessero nascosti da qualche parte in casa, ma non li hanno trovati. Avevano ricevuto una telefonata quella mattina: papà sembrava preoccupato. Non so chi si trovava dall’altro capo del telefono ma li convinse a lasciarci soli in casa con Camilla. Ho visto mamma sfilare una scatola da sotto il parquet, nello studio di papà. E poi sono andati via”.
“Ti ricordi i loro volti?”.
“No, erano incappucciati e indossavano delle maschere dorate”.
“Non è possibile” - esclamò lo zio. “I cavalieri della mezzanotte” - sussurrò piano assorto fra i suoi pensieri.
“I cavalieri di che?”.
“Leona sei certa che non fossero interessati a te o a tuo fratello?”.
“No, non credo. Uno di loro ha mostrato l’intenzione di uccidermi ma è stato fermato da quella donna con i capelli d’argento”.
“Ascoltami bene: tu e tuo fratello non vi dovrete più allontanare dal campo, salvo che non siate accompagnati da qualcuno. Hai capito?”.
“Perché? Chi sono in realtà?”.
“Tu promettimelo”.
“Va bene”.
“C’è un motivo se da decenni ormai non ci sono più medjai. Non conosciamo la motivazione che ci sta dietro, ma loro, i Cavalieri della mezzanotte, riescono a percepirne la presenza. Vagano di notte in cerca dei famosi bambini prodigio destinati a possedere il potere della natura stessa. Abbiamo provato a fermarli ma è stato tutto inutile, sono sempre riusciti nel loro intento: scongiurare la nascita e la perpetuazione di una nuova generazione di medjai”.
Volevo vomitare. Non potevo nemmeno lontanamente concepire l’idea che qualcuno potesse uccidere, a sangue freddo, dei piccoli pargoletti dormienti, sereni nelle loro culle, sotto il naso degli ignari genitori.
“Non capisco cosa centri tutto questo con me e Gab”.
Sentii lo zio soffiare dalle narici e passarsi una mano fra i capelli brizzolati.
“Se non dirai la verità a tuo fratello, lo troveranno. Vi troveranno” - si corresse lo zio.
“Ormai non c’è più alcun dubbio su chi siete davvero”.
Strizzai gli occhi e ritrassi le dita a pugno focalizzandomi sulle scartoffie che stavano sul tavolo da lavoro immaginando che prendessero fuoco. Sbirciai con un occhio solo se stava funzionando.
Nulla.
“Cosa stai facendo?”.
“Ti sto dimostrando che non siamo affatto dei medjai”.
Provai a scuotere le mani e ad agitarle per aria. Magari il contatto era necessario perciò presi quelle carte e ci riprovai.
“Fuoco!”.
Lo zio si lasciò andare a una risata liberatoria.
“Non credo che funzioni così” - suggerì lo zio senza smettere di ridere.
“La verità è che non abbiamo nessun potere. Io e Gab siamo dei semplicissimi bambini che hanno perso i loro genitori. Tutto qui. Se fosse vero quello che dici, le nostre capacità avrebbero dovuto manifestarsi fin dalla nascita e così non è stato. Non poteva rimanere inosservata una cosa del genere”.
“ Ne sei proprio sicura? Lo stesso fatto che tu riesca a sostenere, senza sforzi, una discussione con un adulto ne è la prova invece. Sei indubbiamente intelligente, non voglio dire il contrario, ma è l’effetto osmosi, di cui ti ho parlato prima, che influisce su quello che sei. Non ti è mai successo di leggere qualcosa su un libro per la prima volta e di conoscerne già il contenuto? Questo perché nella tua memoria sono presenti i ricordi dei tuoi antenati”.
“Vedi, piccola, tua madre, Arianna, ha infranto più volte le regole affinché vi tenesse nascosti al mondo intero. È scesa a patti con un potente stregone per questo. Tu e Gabriel non avete dato prova di essere i nuovi medjai fino a quel giorno perché eravate protetti da un potente scudo di proiezione. Grazie ad esso i vostri poteri si sono mantenuti quiescenti dentro di voi. Lo scudo era potente. Non riesco a capire come abbiate fatto ma adesso non é più integro. Anche quella singola breccia può rappresentare un pericolo. Siete vulnerabili ed è solo questione di tempo: i cavalieri riusciranno a percepire la vostra aura”.
Poi avvertimmo delle voci al piano di sotto.
“È il Sire! Nasconditi presto” - m’incitò zio Mark.
M’infilai dietro la scrivania in mezzo a una miriade di foglietti volanti.
Mi parvero decine di passi ma alla fine riuscì a distinguere soltanto altre due voci sconosciute.
Si scambiarono dei saluti formali e brevi convenevoli. Cominciò un uomo dai modi pacati: “Marcellus, sei stato via più del previsto. Ci sono stati problemi nel regno delle due Sicilie?”.
“Sembra che i traditori abbiano subito un attacco in pieno giorno”.
I traditori? Ancora con questa storia. Da che parte stava lo zio?
“Siete riusciti a recuperare le reliquie?”.
“I Braveheart le hanno consegnate ad una terza spia. Non sappiamo chi sia, non conosco il suo pseudonimo, ha lasciato solo questo biglietto” – disse consegnandolo nelle mani del suo superiore.
“Sono venuto fin qui da lontano affinché le Reliquie non cadessero nelle mani sbagliate, mani che non comprenderebbero il loro immenso potere. Resterò in attesa del loro ritorno, perché il tempo è ciò che non mi manca” - lesse incredulo il Sire.
“Il Signore del Tempo…” – disse infine in un moto di rabbia.
“Si può sapere che cos’è questa pagliacciata?”
“Chi diavolo è questo folle che le ha rubate! Come hanno osato…”
“Provvederò a raccogliere informazioni sulla sua identità, domani mattina lo comunicherò al vice sire di Siracusa” – lo rassicurò lo zio.
“Voglio che troviate i Braveheart immediatamente! Che ne è stato di loro?”.
“Sono morti nell’incendio” – gli comunicò.
Il Sire non proferì parola, la delusione gli dipinse il volto.
“Bene, una seccatura in meno. Una degna fine per chi ci ha tradito alleandosi col nemico! Mi dispiace soltanto che non siamo stati noi a giustiziarli” - disse soddisfatta l’altra voce.
Seccatura. Erano soltanto questo per loro.
“Bada a come parli, Gomez, non eccedere nello zelo come tuo solito” - lo rimproverò il Sire, quasi come se avesse ascoltato i miei pensieri.
“E che ne è stato dei vampiri?” - continuò imperterrito.
“Uno è deceduto con loro.  A quanto pare, però,  non era solo”.
“Da quando la congrega di Attilius è interessata alle reliquie? Che collegamento c’è con questo Signore del Tempo? Cosa se ne dovrebbero fare?” - riprese il terzo uomo.
“La questione più importante è: perché i Braveheart li hanno rubati? Erano solo degli intermediari, degli adepti di Attilius, o avevano un altro scopo? Ha forse a che fare con i due ragazzini che mi hai indicato oggi a pranzo?”.
Quindi erano accusati di essere in combutta con i vampiri. Non riuscivo a trovare un senso logico, nutrivo gli stessi dubbi del Sire. E se fosse quell’uomo che ho intravisto fra la folla… “I gemelli sono dei semplici bambini, ho verificato io stesso. Saranno addestrati esattamente come tutti gli altri protettori”.
Non capivo perché lo zio avesse spifferato tutto omettendo che lui credesse fermamente che noi fossimo i medjai.
“Se lo dici tu” - affermò seccatamente il Sire.
“Sai bene che l’immunità ti è stata concessa per la mia magnanimità. Non sprecarla per il tuo labile attaccamento agli affetti familiari. I gemelli saranno tenuti sotto osservazione da alcuni dei miei sottoposti e se dovessero riferirmi qualcosa di strano sappi che ne risponderai tu”.
“Ne sono consapevole” - rispose sprezzante lo zio.
“Il sire è stato più che misericordioso con te, se fossi stato al suo posto non solo ti avrei destituito dal tuo incarico ma ti avrei anche esiliato” - si intromise Gomez.
“Ma non sei tu il sire, dico bene? Stai cercando di paragonarti a lui?” - lo battibeccò lo zio.
“Che sciocchezza è mai questa. Vuoi mettermi contro suo Clementissimo? Hai la stessa dannata lingua biforcuta di quella poco di buono di tua sorella Arianna. Forse anche a te piace andare a letto con i vampiri, non è così?”.
“Adesso basta Gomez! Non hai pietà nemmeno per i morti?” - disse il Sire ironicamente.
Non riuscivo a vederli ma non potevo credere che lo zio restasse inerme di fronte a tutto questo.
Mi raggomitolai su me stessa e affondai le unghie nella carne per reprimere l’impulso di urlare. Mi misi a leggere, per distrarmi, i documenti disordinati dello zio. Sotto la scarpa notai un foglio di giornale stropicciato, attirata dalla fotografia in bianco e nero che ritraeva l’immagine di una casa in fiamme.
Sussultai e sbattei la testa contro la scrivania.
A caratteri cubitali, poco sopra,  c'era la descrizione dell’accaduto e la data. Sentivo ribollirmi il sangue nelle vene al solo ricordo. Perché proprio adesso? Avrei dovuto fermarmi, mi sarei risparmiata altro dolore. Ma non potei fare a meno di proseguire nella lettura del trafiletto che gli avevano dedicato. Nell’esplosione erano stati coinvolti diversi vigili del fuoco. Alcuni erano feriti gravemente. All’improvviso sentii come se un masso stesse gravando sulle mie spalle. Sotto il suo peso mi era impossibile respirare. Non volevo fare del male a nessuno. Con foga andai in cerca del necrologio di quel giorno. Nessun altro aveva perso la vita. Era una magra consolazione ma sapere che non mi ero macchiata del sangue di innocenti mi rincuorava.
“Cos’è stato?” - chiese Gomez.
Avevo fatto troppo rumore, cavolo!
“Io non ho sentito nulla, forse è soltanto la tua fervida immaginazione”.
“So quello che ho sentito e proveniva giusto da lì”.
Il rumore dei suoi passi erano sempre più vicini. La tensione era così forte che cominciai a sudare freddo. Se mi avessero scoperto, lo zio ne avrebbe pagato le conseguenze. Non volevo che gli accadesse nulla. Anche se non conoscevo le sue reali intenzioni, sembrava l’unico a essere dalla nostra parte. Voleva bene a mamma, ne ero certa. Non avrebbe mai tradito la sua fiducia. Pregai con tutte le mie forze. Ormai vedevo l’ombra di Gomez proiettata sullo scaffale. Trattenni il respiro.
Poi, improvvisamente, ci fu un tonfo alla finestra.
Un pettirosso picchiettò insistentemente sul vetro.
“Tanto allarmismo per un volatile. L’età avanza per tutti Gomez, non te ne fare una colpa” - esclamò sarcastico lo zio.
Gomez stava per prepararsi a una sfuriata colossale ma il Sire lo fermò trattenendolo per il braccio.
“È ora di andare, non abbiamo ancora incontrato i membri del consiglio per il progetto Nemesi”.
“A proposito come procedono le ricerche? Avete scovato il nascondiglio degli adepti di Attilius?”.
“Siamo sulla buona strada ma occorrono altre risorse. Con le perdite che stiamo subendo e l’imminente crollo della barriera, non sappiamo come portare avanti la nostra causa. Sottoporrò la questione al consiglio: dobbiamo abbassare l’età minima per l’evento delle cerimonie al dodicesimo anno di età”.
Che cosa avrebbero potuto fare dei semplici bambini contro uno di quei disgustosi abomini?
“Eccellente idea signore. Se lei lo desidera, posso fin da subito ordinare che siano raddoppiati gli allenamenti. Sono certo che i membri del consiglio approveranno la vostra sensata richiesta” - riprese lo zio.
“Procedi pure Marcellus, sono anch’io fiducioso. Questo non distoglierà la mia attenzione da ciò che potrebbe minacciare la mia quiete. Qualsiasi cosa accada farai rapporto a me esclusivamente. Non voglio che sia coinvolto nessun altro al campo protettori oltre alla mie sentinelle”.
“Sarà fatto signore”.
Si congedarono e i due lasciarono la stanza.
Diedi una rapida occhiata per accertarmene e restituii il giornale allo zio che sospirò amareggiato.
“Quindi prima eri tu il sire di questo posto, non è così?”.
Rise sconsolato.
“È seccante che una mocciosa della tua età sia così perspicace”.
“Quello è un usurpatore, non gli importa nulla dei protettori e delle loro vite. Siamo solo vittime sacrificali. Perché ti comporti come se fossi il suo cane da riporto?”.
“Ci sono cose di cui al momento non devi occuparti”.
“Io e Gab avremo gli occhi puntati su di noi ventiquattro ore su ventiquattro e non sarebbe affare mio?”.
“C’è sempre una scappatoia Leona. Dovrai essere paziente ma troverai una soluzione. E poi non sarà sempre così. Fategli credere che non rappresentate una minaccia e vi lasceranno in pace. Adesso torna al campo del carrubo e avvisa tuo fratello”.
Lasciato il castello, decisi di fare una passeggiata. Dall’altra parte l’allenamento non era ancora finito, c’era tempo.
Fui attirata da un cartello che diceva: “Giardino delle ninfe”. Capii subito perché: a ogni angolo vi erano delle statue di graziose ragazze mezze nude ricoperte da foglie e fiori. I dettagli erano stati curati con tanta attenzione da sembrare quasi reali. Qua e la erano stati piantati fiori di ogni tipo: rose, orchidee, girasoli, gelsomino, violette, primule, garofani, silene, papaveri, ortensie e molti altri. Avevo voglia di prendere il mio taccuino e disegnarli tutti ma era rimasto carbonizzato fra le macerie di casa.
Percorsi il sentiero fino a uno stagno ricoperto da fiori di loto. Dalle rocce sgorgava un gentile rivolo d’acqua che scendeva lentamente sulla superficie dello stagno. Mi sdraiai sull’erba, lì vicino, ascoltando il fragore dell’acqua e il gracidio delle rane.
Quando riaprii gli occhi, era già buio. Li stropicciai per bene mentre con la mano coprivo lo sbadiglio. Tutto era come l’avevo lasciato prima che perdessi i sensi, ma avevo una strana sensazione, un fastidioso formicolio lungo la nuca. All’improvviso udii qualcosa muoversi fra gli alberi. Avrebbe potuto essere qualsiasi animaletto notturno, ma non ne ero del tutto sicura perciò mi avvicinai verso la fonte di quel rumore. Lo osservai per bene senza trovare nulla di sospetto. Eppure ero convinta che ci fosse qualcuno appollaiato fra le fronde dei rami come una civetta. Forse ero solo paranoica oppure gli scagnozzi del Sire erano già all’opera.
Poi un altro rumore sospetto.
Mi accorsi che era soltanto il mio stomaco che reclamava del cibo.
Ma sì, pensai, potevano seguirmi dove gli pareva li avrei fatti morire dalla noia. Lo zio si preoccupava troppo, ero convinta che sarebbe andato tutto bene.
Corsi più veloce che potevo fino alla zona di ristoro pregando che non avessero già servito la cena.
In lontananza vidi Gab, Morgana e Fabiano discutere vivacemente. Cercai di attirare la loro attenzione incrociando le braccia in alto e gridando i loro nomi. Fabiano fu il primo a notarmi e avverti gli altri due. Li raggiunsi in un batter d’occhio col fiatone corto. Ancora piegata sulle ginocchia per la fatica esclamai: “Cosa c’è per cena? Sto morendo di fame”. Non ricevendo alcuna risposta sollevai la testa e incontrai i loro occhi terrorizzati.
“Cristo Santo, Leona! Si può sapere dove eri finita?” - sbottò Gab infuriato.
“Ti abbiamo cercato da per tutto! Abbiamo temuto il peggio. Guarda come sei conciata” - disse Morgana indicando i miei capelli. Sicuramente avranno avuto un aspetto orribile dopo il riposino pomeridiano.
“Ti sei fatta male? Sei ferita? Non ti abbiamo più visto dopo gli allenamenti e sono stato così male. Pensavo che avessi preso il mio consiglio troppo sul serio e che provando ad arrampicarti nuovamente fossi caduta sbattendo la testa”.
Scoprii che Fabiano era ancora più carino quando era preoccupato per me, anche se era umiliante la scarsa fiducia che nutriva nei miei riguardi.
Non che credessi che Fabiano fosse carino. Affatto. Forse un pochino.
“Su rispondi cosa è successo?!” - riprese Gab distogliendomi dai mei pensieri.
“Ragazzi, ragazzi, state tranquilli sto benone” - risposi imbarazzata.
“Mi sono appisolata nei pressi di uno stagno, vicino a quella collina laggiù. C’era così tanta pace e serenità che non mi sono accorta proprio di nulla” - gli confessai semplicemente.
Alle mie parole Fabiano e Morgana si rilassarono immediatamente. Mentre Gab, col viso color porpora rimase lì impalato a fissarmi come se dovesse esplodere da un minuto all’altro.
“Sei una stupida, una stupida idiota” - disse con voce tremante.
Stavo per ribattere ma Gab non me ne lasciò il tempo. Mi strinse così forte che percepii le costole incrinarsi.
Mi sentii tremendamente in colpa. Non avrei voluto farlo preoccupare a tal punto, non era mia intenzione. Risposi al suo abbraccio accarezzandogli la schiena, proprio come faceva mamma.
“Adesso lasciami però, non vorrai uccidermi con la tua puzza di ascelle, spero!” - dissi per sdrammatizzare.
E Gab mi tirò i capelli alle mie spalle. Io risposi pizzicandogli il naso con le dita: “E non provarci mai più”.
Fabiano e Morgana cominciarono a ridere.
“Siete proprio strani voi due” - disse Morgana ancora ridendo.
“E non hai visto nulla” - le risposi senza smettere di picchiare giocosamente mio fratello. Non so come, finii con la testa infilata nella sua ascella maleodorante mentre strofinava energicamente le sue nocche.
“Ok, Ok, mi arrendo! Lasciami andare! Voglio solo mettere qualcosa sotto i denti” - gli urlai.
“A dire il vero noi ci stavamo dirigendo giù al falò” - mi riferì Fabiano rammaricato, indicando i suoi amici poco più avanti.
Non potei nascondere la mia immensa delusione e il mio stomaco che ruggiva come un dinosauro era d’accordo.
 “Ciao” - esordii un ragazzino in leggero sovrappeso dall’aria spaventata, dietro Morgana.
“Non volevo ma per sbaglio, ho origliato la vostra discussione. L’avete trovata quindi? Grande!”.
“Oh scusa non mi sono presentato, io sono Patrizio”.
E strinsi la sua mano sudaticcia.
Poi sfilò qualcosa dalla tasca del suo pantalone: un tozzo di pane un po’ sbriciolato. Mi sorrise e me lo porse supplicante, proprio come un cucciolo di cane.
Immaginavo che se lo avessi rifiutato sarebbe scoppiato a piangere, era palese quanto gli costasse quel gesto. E poi non potevo mica ignorare che, nonostante l’aspetto non fosse stato invitante, avessi una tremenda fame da lupi.
“Davvero non so come ringraziarti”.
“Se mai avessi bisogno di qualcosa, ho una riserva di merendine nascoste nel mio nascondiglio segreto. Sarò felice di dividerle con te” - e si girò di spalle per consultarsi con i suoi compagni lì vicino pensando che noi non lo notassimo.
“Credo che questa sia la cosa più carina che mi abbiano detto oggi, quindi grazie?” - gli risposi titubante.
“Non devi ringraziarmi ancora, ho sentito che avevi fame e so cosa si prova” - mi disse serissimo come se si trattasse di un caso di Stato.
“Fabiano, allora? Amico quanto ci metti?” - disse un ragazzo dai lineamenti duri e i capelli castani.
“Arrivo subito Ascanio!” - gli rispose di rimando Fabiano.
Poi girandosi verso di me: “Perché tu e Morgana non vi unite a noi? Ti posso presentare i miei amici e le ragazze sono simpaticissime”.
Sì, pensai, come un’ape in un occhio non appena avvistai che uno dei membri era proprio Marlena, la bulletta che prima aveva attaccato briga.
Non aveva menzionato mio fratello. Ovvio, lui era già stato incluso in quel club esclusivo di bambini-super-guerrieri.
Osservai poi la faccia da funerale di Patrizio e provai un leggero senso di colpa.
Morgana si mise subito in agitazione: “Cosa? Noi andare al falò con VOI?! Non me lo aspettavo, cioè voglio dire, non che sia una gran cosa dopo tutto e…”. Ormai non la smetteva più di farfugliare.
“No, ti ringrazio andremo con Patrizio e i suoi amici” - dissi con un morso di pane in bocca e salutando gli increduli compagni di Patrizio.
“Che cosa?” - disse una Morgana infuriata, risvegliatasi dal suo soliloquio.
“Magari un’altra volta” - e feci l’occhiolino a Fabiano. Da dove veniva tutta questa sicurezza?
Gab spostava lo sguardo da me a lui con aria criptica.
“Va bene ci conto” - disse sinceramente dispiaciuto. Poi fece cenno a Gabriel di andare e lui lo seguii a ruota mentre mi minacciava puntandomi contro l’indice e il medio e riportandoseli subito dopo agli occhi.
“Wow è fantastico, due ragazze come voi nel nostro gruppo! Chi lo avrebbe mai detto? Vado a dirlo agli altri” - e Patrizio li raggiunse.
“Ti odio. Profondamente” - mi rimproverò Morgana.
“Scusa” - le dissi ridendo.
“Lo sai che la via più veloce per conquistare passa per lo stomaco” - e finii quello che rimaneva del mio panino.
Così io, Morgana, Patrizio e i suoi tre amici che mi presentarono come Guglielmo, Figaro e Ludovico, giungemmo al falò sul lago. Morgana mise il broncio per tutto il tragitto, io invece scoprii che quei ragazzi non erano così male. Dopo tutto, erano degli emarginati come noi per quanto ne avevo capito.
Arrivati al famoso falò, restai affascinata dalla danza delle fiamme e dal loro dolce crepitio. Erano tutti riuniti attorno al fuoco e intuii subito che si trattava di un rito funebre. Si tenevano tutti per mano e, intonando canti tristi e melanconici, commemoravano i morti di quel giorno. Lontano dagli sguardi dei capi, vidi qualcuno abbandonarsi a qualche lacrima sfuggevole e qualche viso contrito dal dolore per la sua perdita. Finalmente un briciolo di umanità, non erano delle fredde macchine da guerra come avevo pensato. Erano soltanto vittima di una spregevole e ingiustificata obbedienza all’autorità di un capo che non si curava dei propri commilitoni pur di ottenere ciò che voleva.
Finita la commemorazione, l’atmosfera si fece meno tesa e i ragazzi di tutte le età scherzavano e bevevano attorno al falò come se nulla fosse.
Pensai ai miei genitori. Nulla avrebbe potuto cancellare quello che provavo ma non avrebbero mai voluto che ci crogiolassimo nel dolore, nonostante tutto, dovevamo continuare a vivere proprio come facevano quelle persone.
Mio fratello sembrava felice. La confessione di quel pomeriggio non aveva avuto gravi ripercussioni sulla sua popolarità, anzi, sembrava fosse nato per stare al centro dell’attenzione, in questo eravamo del tutto differenti. Le ragazze gli ronzavano intorno senza lasciarlo respirare, immaginavo che ai loro occhi dovesse essere piuttosto carino. Aveva soprattutto legato con Fabiano. Quei due si comportavano come se fossero amici da una vita, la loro complicità era tangibile e inequivocabile. Ed ero più che certa che Gab non avrebbe potuto trovare amico migliore.
 Anche Morgana, prima inizialmente rigida, discuteva con i nostri nuovi amici. Di tanto in tanto, però, la beccavo a lanciare qualche sguardo malinconico su Gab. Non potei fare a meno di sorridere al pensiero di quei due insieme. Certo lei aveva otto anni, un anno in più di lui, visto che ne avremmo compiuto sette entro la fine del mese, ma lo cosa non aveva granché importanza.
Fabiano aveva la stessa età di Morgana, non sarebbe stato così strano se io e lui… ma cosa mi frullava per la testa. Mi schiaffeggiai per riprendermi. Allontanatomi dal resto del gruppo, passeggiai lungo le sponde del lago. Sciolsi la coda e strinsi al petto quel nastro rosso. Poi lo arrotolai al polso, presi una pietra e la feci rimbalzare sulla superficie di quello specchio d’acqua.
Non c’era molta luce, ormai eravamo all’imbrunire, ma studiai attentamente il riflesso di quella ragazzina dalla pelle diafana e i capelli corvini. Erano lunghi, così tremendamente lunghi e folti tanto che era difficile scorgerne i lineamenti del viso. Niente, però, poteva nascondere quei grandi occhi blu identici a quelli del padre. Molti mi definivano “graziosa” o “caruccia” e non ero per nulla d’accordo. Buttai un’occhiata alle mie coetanee. Erano belle e in salute, forti e vigorose. Il mio fisico mingherlino era ridicolo al loro confronto.
Qualcuno poi mise una mano sulla mia spalla. Cercai di non mostrarmi troppo delusa quando vidi il volto nervoso di Patrizio.
“Perché stai qui tutta sola? Torna con noi al falò, Valerio sta per raccontarci una storia!”.
Mi sedetti vicino a Morgana e gli altri mentre Valerio si schiariva la voce. Ero contenta che fosse ancora tutto intero.
 “Conoscete la storia di Odetta e Sibilla?” - disse quando tutti fecero silenzio.
“Odetta la traditrice?” - esclamò Patrizio accanto a noi.
 “Esatto proprio lei. Lei e la sorella sono le ultime medjai di cui si ha memoria”.
“Si narra che Odetta fu l’unica medjai nata priva di poteri. Al contrario della gemella che invece sembrava avere un talento naturale come dominatrice degli elementi”.
Valerio scandiva ogni parola con cura e cambiava tonalità all’occorrenza in modo da tenere alta l’attenzione di tutti i presenti.
“Tutti acclamavano Sibilla come legittima erede del trono di Hijir, l’antica terra dei protettori.  Ma Odetta bramava il trono del padre tutto per sé e così un giorno, accecata dalla gelosia nei confronti di Sibilla, vendette la sua anima e divenne un vampiro, così che anche lei avrebbe potuto combattere ad armi pari con la sorella.
A quei tempi, così come oggi, come ben sapete, è un disonore per un protettore commettere un crimine tanto crudele, diventare ciò che noi stessi cacciamo. Il padre, scoperto ciò che la figlia aveva fatto e che aveva intenzione di fare, la esiliò dal suo regno e ordinò ai suoi guerrieri di portargli la sua testa”.
“Sapete cosa accade a un medjai che si trasforma in un vampiro? Pensate alla forza e alla velocità di un vampiro combinato allo straordinario potere degli elementi naturali. Odetta sterminò l’esercito del padre senza battere ciglio, macchiandosi del sangue della sua stessa gente.
Non passò molto tempo e la sua ira si abbatté anche sul genitore, che non poté far altro che soccombere al suo cospetto. Udite le voci strazianti del padre, Sibilla si recò sul luogo del parricidio trovandolo in un bagno di sangue fra le braccia della sorella.
Era quasi fatta, aveva raggiunto il suo scopo. Soltanto un ostacolo la divideva dal suo trono”.
All’improvviso Patrizio mi afferrò la mano stritolandomela come un boa. Provai a sfilarla via ma la stretta era troppo forte. Lui dal canto suo aveva a mala pena percepito i miei disperati tentativi di svincolarmi. Fissava immobile e terrorizzato Valerio con la bocca aperta come uno stoccafisso. Mi guardai intorno per accertarmi che nessuno ci vedesse, sarebbe stato troppo imbarazzante. Per fortuna tutta l’attenzione era concentrata su Valerio. Perciò mi limitai ad ascoltare come facevano tutti.
“Odetta sfidò Sibilla per ottenere il tanto agognato trono di Hijir. Con la morte nel cuore, Sibilla accettò e combatté contro la sorella” - continuava con tono drammatico Valerio, con le stesse movenze di un attore.
“Lo scontro fra le due fu strabiliante, epocale o così ci tramandano le storie. Fuoco contro acqua, terra contro aria, ghiaccio contro lava, l’intero ecosistema era stato sconvolto.
Nonostante la furente rabbia di Odetta, Sibilla ebbe la meglio.
L’amore per la sorella, però, le offuscò la mente e commise l’errore più grande della sua vita: decise di risparmiarla perché voleva credere che fosse rimasto qualcosa di buono in lei. Odetta, invece, ferita nell’orgoglio, utilizzò il suo incommensurabile potere per punirla. Unendo l’energia dei quattro elementi creò un’immensa esplosione e lei e la città di Hijir furono inghiottite per sempre nel nucleo della terra insieme a più della metà dei suoi abitanti”.
 
Non sapevo quanto ci fosse di vero in quella storia. Per come la vedevo io poteva anche essere stata studiata a tavolino per indottrinare le nuove generazioni, qualcosa che avrebbe spiegato la vera essenza del protettore e che indirettamente avrebbe inculcato le regole ferree che gestiscono questo mondo. Mentre tornavamo ai dormitori, riflettei sulle parole di Valerio e m’immedesimai in Sibilla. Gab discuteva allegramente con i suoi nuovi amici poco più avanti e pensai: se fosse cambiato, se fosse diventato lui il mio nemico, un giorno, avrei avuto il coraggio di…non potevo nemmeno concepire una cosa del genere. Anche se si fosse macchiato dei crimini più impensabili, nei suoi occhi avrei rivisto sempre quelli di mio fratello, la mia famiglia. Non potevo condannare Sibilla, potevo biasimarla per non aver avuto il coraggio di uccidere il sangue del suo sangue? Come lei avrei lasciato egoisticamente tutto nelle mani del fato, non avrei alzato un dito contro di lui. Piuttosto avrei preferito morire.
Circondato com’era, mi era impossibile attirare la sua attenzione. Non avevo dimenticato il compito affidatomi dallo zio: dovevo a tutti costi metterlo in guardia, nessuno doveva sapere di noi. Decisi che gli avrei lasciato un biglietto. Quale luogo sarebbe stato più sicuro? Ammesso che ci stessero davvero spiando, come avrei raccontato tutto a Gab senza essere scoperti?
“Guardateli i piccioncini, non sono così teneri?” - disse improvvisamente Marlena riferendosi a me e Patrizio. Quell’arpia ci aveva sicuramente visto mentre ci tenevamo per mano durante il falò.
“Allora è proprio vero che Dio li fa e Dio li accoppia” - si lagnò la sua amica Carlotta.
“Fra perdenti ci s’intende” - finii Lilia.
“Ma come Leona, sei arrivata ancora da poche ore e già ti sei data da fare?” - continuò a canzonarmi Marlena.
Le tre si pararono di fronte a me ed ai ragazzi con sguardi arroganti e sicuri di sé.
Marlena sogghignava per provocarmi mentre le altre due si scrocchiavano le nocche alle sue spalle. Erano palesi le loro intenzioni. Attendevano solo che facessi un passo falso.
Non le avrei dato questa soddisfazione.
“Che cosa vuoi Marlena?” - la sfidai.
“Su via, non metterti sulla difensiva, volevo solo congratularmi con te per la tua nuova conquista” - disse Marlena sorridendo maliziosamente.
“Non dire stupidaggini, Patrizio è un amico. Lascialo fuori da tutto questo, non prendertela con lui”.
“E chi te lo tocca il tuo ciccione? Fai la voce grossa per una che è figlia di due vigliacchi traditori. Non dovresti essere nemmeno qui, non ne sei degna. Sei soltanto un ridicolo sgorbietto incapace di fare qualsiasi cosa. Ma l’avete vista agli allenamenti di oggi? Patetica” - disse rivolgendosi alle sue amiche che cominciarono a ridere.
“Soltanto un altro perdente come lui poteva interessarsi a te. Siete perfetti insieme, a quando il matrimonio?” - disse fra altre risate maligne.
“Senti tu…” - cominciò Patrizio camminando verso di loro.
Carlotta con un colpo secco allo stomaco lo stese per terra a pancia in giù.
Patrizio boccheggiò carponi in cerca di un po’ di ossigeno.
Trattenni Morgana per la spalla, nessun altro doveva farsi male al posto mio.
Mi affrettai ad aiutare Patrizio cercando di farlo rialzare.
“Sai, mi fai proprio pena” - le risposi senza nemmeno guardarla in faccia.
“Se il tuo unico spasso è prendere in giro la gente, la tua vita deve essere vuota e insignificante. Non m’interessano i tuoi inutili tentativi di farti notare a tutti i costi. Fatti da parte e lasciaci in pace”.
L’odio sprizzava dai suoi occhi. Continuava a muovere le dita nervosamente. Non ricordo bene cosa successe dopo. Il braccio si mosse involontariamente all’insù. Parai prontamente quell’ingiustificato gesto violento. In teoria non sarei mai dovuta riuscire a bloccare quel pugno: troppo veloce, troppo potente per le mie capacità.  Eppure eravamo lì, occhi dentro occhi, mentre applicavamo una forza uguale e contraria per respingerci a vicenda. Se solo mi avesse preso in un punto diverso, magari mi avrebbe frantumato le ossa ma in quel momento non sentivo nulla. Ormai parlavamo la stessa lingua, condividevamo la medesima sete di violenza. Nessuna delle due aveva intenzione di cedere. Fino a quando il suo sguardo non cadde sul nastro rosso che le svolazzava sul naso. La sua espressione cambiò improvvisamente. Cos’era? Delusione? Tristezza? Non m’importava. Approfittai della sua distrazione per allontanarla da me.
“Quello non è tuo” - sussurrò piano.
“Dove lo hai preso?” - disse alzando un po’ la voce.
“Che t’importa?” .
“Rispondimi chi te lo ha dato?!” - mi urlò più furente che mai.
Non capivo perché era così importante per lei quella risposta.
“È un dono di Fabiano” .
“Non è vero. Fabiano non te lo avrebbe mai dato” - disse con lo sguardo perso nel vuoto.
Sciolsi il nodo dal polso e raccolsi i capelli in una coda.
“Adesso è mio” - dissi per farle un dispetto.
“Sai a chi apparteneva almeno? Non sai nulla, non è così? Stupida ladruncola”.
“Io non sono una ladra!”.
“Certo come no, tanto a te cosa importa. Non capisco nemmeno perché lo abbia dato proprio a te, è assurdo. Non se ne separerebbe mai, è l’unico ricordo che ha di lei”.
“Lei chi?” - chiesi con un nodo alla gola.
“Era di Sara. Sua sorella maggiore. E scommetto che non sai nemmeno com’è morta! Beh, nessuno lo sa. È un segreto che Fabiano ha confidato solo a me, perché lui si fida ciecamente”.
Restai di sasso. Non sapevo che avesse una sorella, lo conoscevo a malapena. All’improvviso quel nastro cominciò a farsi pesante.
“Ho visto come ti comporti quando c’è lui nei paraggi. Non farti tante illusioni, Fabiano  ha un gran cuore, non sopporta vedere qualcuno soffrire. Ha soltanto avuto pietà di te. Non potrai mai occupare il mio posto. Lui è mio”.
“Fabiano è libero di scegliere le sue amicizie. Non appartiene a nessuno, sa cosa è bene per lui”.
Risentita dalle mie parole, girò i tacchi insieme a quelle due inette senza spina dorsale.
Mi rivolsi subito a Patrizio: “Non provare mai più a difendermi”.
Patrizio non trovò alcuna risposta adatta e preferì restare in silenzio con il terrore che gli si leggeva in viso. Grazie a quella scenata avevo perso di vista mio fratello e la possibilità di raccontargli tutto. Dissi ai ragazzi e a Morgana che sarei tornata al dormitorio da sola, non mi andava di socializzare con nessuno in quel momento.
Avevo soltanto voglia di urlare. Quell’idiota di Gab, inebriato dalle sue nuove conoscenze, si era completamente dimenticato di me, non aveva nemmeno avuto la briga di augurarmi la buona notte. Lo aspettai all’entrata del dormitorio per un po’ con la flebile speranza che mi stessi sbagliando. Fino a quando la responsabile del dormitorio mi prese letteralmente di peso blaterando qualcosa sulle regole da rispettare, orari e tante altre cose di cui non m’importava un fico secco. Non mi restò che indossare la camicia da notte e aspettare il mio turno infinito per il bagno. Morgana tornò con del ghiaccio e mi consigliò di applicarlo sul braccio, dove una macchia violacea era comparsa dal nulla. Se non me lo avesse fatto notare, probabilmente non me ne sarei accorta nemmeno.
Quando quasi tutte avevano preso sonno, in punta di piedi e con una torcia tascabile, sgattaiolai in bagno. Il ghiaccio si era sciolto quasi completamente fra le mie mani perciò pensai che fosse una buona idea mettere il braccio sotto l’acqua fresca. La contusione pizzicava leggermente quando facevo pressione con le dita, ma era sopportabile. Un paio di giorni e sarebbe guarita. Mentre mi rinfrescavo il viso, la gonna della camicia da notte si sollevò come se ci fosse stata una folata di vento improvvisa. La finestra in alto era sigillata. La porta del bagno alle mie spalle cigolava tetramente.
“C’è qualcuno?” - dissi piano.
Andai a verificare ma non c’era nessuno al suo interno. Chiusi l’acqua del rubinetto che continuava a scorrere. Alzai il mio sguardo dal lavandino e rimasi pietrificata. L’urlo di terrore mi morì in gola e lasciai cadere la torcia a terra. Rimasi completamente al buio. Ero sicura di ciò che avevo visto nel riflesso dello specchio. Non avrei mai potuto dimenticare quei due occhi rossi, iniettati di sangue, che danzavano nell’oscurità. Respirando a malapena caddi in ginocchio e cercai tentoni la mia torcia più in fretta che potevo. Il momentaneo sollievo di saperla fra le mie mani tremanti non poteva di certo frenare il mio cuore che tamburellava furiosamente dentro il petto. Dopo qualche tentativo trovai la leva, la spinsi all’insù e puntai il fascio di luce dritto davanti a me con la consapevolezza che la mia vita poteva finire da un momento all’altro.
Pazza. Ecco cosa mi diceva il mio subconscio. Stavo perdendo completamente il senno.
Il bagno era vuoto. La lampadina rivelò soltanto uno squallido gabinetto e un rotolo di carta igienica sopra la cassetta dello sciacquone.
I muscoli, tesi come corde di violino, si rilassarono e presi una boccata d’aria. Abbassai lo sguardo e vidi l’enorme macchia scura e umidiccia alla base della camicia da notte. Non facevo la pipì addosso da quando ero neonata. La osservai, avvilita, mentre si allargava inesorabilmente senza poterla fermare.
Indossai nuovamente la tuta di addestramento e poggiai la testa sul cuscino. Controllai se i battiti erano tornati regolari, ma era tutto inutile. Non avrei preso sonno quella notte. Provai a cambiare posizione e mi girai nervosamente dall’altra parte. Morgana dormiva beatamente con un piede penzoloni fuori dal materasso e la bocca aperta. Era davvero buffa. Poi il mio occhio cadde su un foglietto bianco, ripiegato più volte su se stesso, che fuoriusciva dal secondo cassetto del comodino accanto al letto.
Come avevo fatto a non vederlo prima?
Lo sfilai silenziosamente e lessi il contenuto:
Vediamoci a mezzanotte vicino al dormitorio dei capi, devo parlarti.
Tuo fratello.
Guardai l’orologio appeso al muro: segnava le undici e cinquanta, ero ancora in tempo. Cercai di non rimanere sorpresa dal fatto che Gab riuscisse a scrivere un’intera frase senza nemmeno un errore grammaticale e saltai giù dal letto. Il portone del dormitorio era semi chiuso. Dalla fessura intravedevo la ragazza inglese, che poco prima mi aveva sbraitato contro, appollaiata sulla sedia in coma profondo. Approfittai del suo stato d’incoscienza e me la filai alla svelta tentando di non fare troppo rumore.
Fiera del mio tentativo di fuga, raggiunsi il punto d’incontro indicatomi da mio fratello e aspettai pazientemente nascosta fra i cespugli.
Tuo fratello, pensai fra me e me. Da quando Gabriel era diventato così formale? E cosa voleva dirmi? Sorrisi perché avevamo avuto la stessa idea del biglietto. Chissà, forse lo zio alla fine era riuscito a dirgli ogni cosa e Gab voleva consultarsi con me su come agire in futuro. O semplicemente voleva scusarsi del suo comportamento di oggi. Era più probabile la prima opzione. In caso contrario avrei potuto temere che si stesse per scatenare un’apocalisse di proporzioni catastrofiche.
“Pretendo massima discrezione da parte tua” - disse una voce profonda. Ancora lui il Sire. Che cosa faceva nel cuore della notte a zonzo per il campo?
“Certo signore, spedirò i cadetti nei luoghi da lei richiesti”.
“Deve sembrare tutto naturale”.
“Sarà fatto” - confermò l’altra figura, nascosto fra le ombre.
“Se qualcuno dovesse scoprire qualcosa, mettili a tacere”.
“Clementissimo” - salutò infine l’altro.
E si allontanarono entrambi.
Perché gli atteggiamenti di questo tizio si facevano sempre più sospetti? Certo, avevo origliato soltanto una parte della discussione, non potevo sapere a cosa si riferissero ma il mettili a tacere mi dava i brividi sul serio.  Se lo zio non ne sapeva nulla, gli avrei riferito tutto per filo e per segno, non mi fidavo di questo “Sire”.
Qualcosa poi mi afferrò dal coletto della maglietta e mi tirò fuori bruscamente dal mio nascondiglio cespuglioso. Per poco non finì a mangiare terra e sassolini.
“Ma come ti viene in mente?” - dissi pulendo la lingua dai detriti.
“Sei proprio un’ingenua. Leona Braveheart” - mi rispose la ragazzina bionda che avanzava verso di me. Ancora lei! Aveva proprio deciso di darmi il tormento!
“L’unica cosa buona che potevi ereditare dai tuoi genitori doveva essere la furbizia e l’innato talento per l’inganno invece sei stupida come una capra”.
“Dov’è mio fratello?” - chiesi brucia pelo.
“Tuo fratello?” - Marlena fece finta di pensarci. E rise come una iena.
“Pensavi davvero che per tuo fratello contassi qualcosa? Cos’è? Sei cieca forse? Ti ha dimenticato, è chiaro. Era stufo di trascinarsi dietro un peso morto come te e ha deciso di trovarsi amici migliori. Non preoccuparti ci prenderemo cura noi di lui”.
“Non capisci?” - disse girandomi attorno - “Non ha bisogno di te, non riuscirà mai a diventare un buon protettore se ci sei tu a rallentarlo. Se gli vuoi davvero bene stagli lontano, sarà meglio per entrambi”.
“Povera piccola, non piangere” - disse Lilia con un filo di voce - “non sei sola, ti rimane ancora il tuo orsacchiotto”.
Lilia tirò fuori un orsacchiotto di peluche e me lo lanciò dritto in faccia.
Prestavo a malapena attenzione alle loro risate e ai loro insulti. Non era un orsacchiotto qualunque: aveva due bottoni al posto degli occhi, uno nero e l’altro azzurro, proprio quelli che Camilla aveva cucito al posto dei precedenti. Gab li aveva strappati quando eravamo più piccoli. Non c’era alcun dubbio, era proprio Mr.Brown.
“Dove lo avete trovato?” - chiesi ancora sotto shock.
“Sul tuo letto. Sei proprio una bambina, vuoi che ti canti la canzoncina della buona notte?” - disse Carlotta.
Sopra al mio letto! E chi lo aveva messo? Comincia a sudare e a tremare di paura. Ero certa che fosse bruciato nell’incendio.
“Ora basta Carlotta, non vedi com’è impaurita? Che ne dici se facciamo un gioco?”.
E si scambiarono uno sguardo complice con Carlotta.
“Intendi quel gioco?” - rispose Carlotta portando una mano al fodero in cuoio appeso alla cintura.
Poi, con sorriso tetro, espose la lucente lama di un coltello al chiaro di luna.
Marlena puntò il dito contro il mio polso, dove il nastro di Fabiano era attorcigliato con un fiocco.
“Dammi quel nastro, ora” - disse Marlena con un tono che non ammetteva repliche.
“Puoi scordartelo! Fabiano l’ha dato a me, non a te. Fattene una ragione!” - le gridai.
“Ti volevo dare una possibilità”. Così dicendo si fece passare il coltello dalla sua amica.
Le tre si prepararono all’assalto. Era come se il tempo si fosse congelato. Sul collo di Marlena la carotide pulsava vistosamente. Carlotta e Lilia si accingevano a bloccarmi ogni via di fuga. Non avevo altra scelta che fare ciò che mi riusciva meglio.
Correre.
Correre veloce.
Più veloce che potevo. Fino a esaurire l’ossigeno nei polmoni.
Il vento fischiava dentro le orecchie e mi gelava le gote. Un passo dopo l’altro, sfiorando appena il terreno, proprio come se stessi volando. Era l’unico talento che avevo. Nemmeno Gabriel riusciva a starmi dietro. Era l’unica arma in possesso contro le mie cacciatrici. Mi fiondavo giù per le ripide discese e poi di nuovo su, scalando le colline. Calpestavo, celere come una saetta, erba e terra, sassi e polvere. Mi faceva stare bene. Con l’adrenalina alle stelle e l’acido lattico che mi bruciava i muscoli, scavalcai il recinto del campo del carrubo. Tentai disperatamente di arrampicarmi approfittando della distanza che si era creata fra noi, per mettermi al sicuro. Mi sarei nascosta fra le fronde degli alberi. Ovviamente, non aveva fatto alcun progresso da quel pomeriggio, anzi. Con la fatica che avevo accumulato, mi arrampicavo ancora più lentamente. Quando stavo lì per lì per raggiungere il ramo, la mia unica salvezza, qualcuno mi afferrò la caviglia e mi trascinò giù con sé.
“Prendetela” - sentì dire a Marlena.
Carlotta e Lilia mi bloccarono un braccio ciascuno e Marlena mi colpì il poplite con un calcio dall’alto, mettendomi in ginocchio. La presa d’acciaio delle ragazze ai lati m’impediva di divincolarmi, ormai ero in trappola.
“Pensavi di farla franca, eh? Devo ammetterlo, sei veloce. Non me lo aspettavo da un’inetta come te”.
“Ultimo avvertimento. Dammi il nastro” - mi avvertì Marlena agitando il coltello.
Sollevai la testa da terra e le dissi guardandola dritta negli occhi: “Mai”.
“Va bene” - mi rispose melliflua.
“Vorrà dire che farò il modo che non ti serva più”.
Chiusi gli occhi mentre Marlena mi acciuffava i capelli da dietro. La lama squarciò l’aria con un debole sibilo. Una massa nera e lucente cadde ai miei piedi.
Per la prima volta sentì freddo alla nuca, era come se la mia testa fluttuasse. Raccolsi una ciocca da terra fra le risate incessanti di quelle streghe e le bagnai con le mie lacrime.
“Puoi anche tenertelo quel nastro, prova a legarti i capelli!” - disse Carlotta soffocandosi con la sua stessa risata.
“Adesso sì che sei identica a tuo fratello” - la appoggiò Lilia.
Con l’espressione seria, invece, Marlena si avvicinò a me e sussurrò: “Stai lontano da Fabiano”.
E le tre mi lasciarono in compagnia di Mr. Brown ai piedi del carrubo.
Era pulito, l’imbottitura era rimasta intatta. Nessuno avrebbe detto che stava per fare la fine di un pollo arrosto. Più lo osservavo, più mi veniva da vomitare. Non avevo nessuna voglia di toccarlo, puzzava di cadavere in putrefazione. Ormai era stato profanato dalle stesse mani che avevano tolto la vita a mamma e papà. Non potevo tollerare la sua vista ancora a lungo. Trattenendo il respiro, presi un legno e gli strappai selvaggiamente la cucitura. Raccolsi i capelli da terra e li infilai dentro insieme al cotone bianco che riempiva il peluche. Mi ripetevo: “ Non è più lui. Non è lo stesso orsacchiotto che mi ha regalato mio padre”.
Dovevo sbarazzarmene al più presto. Era scampato una volta all’incendio, la seconda non sarebbe stato così fortunato. Sapevo dove sarei dovuta andare, le gambe si muovevano solerti per conto proprio. Del falò di quella sera non erano rimasti che tizzoni ardenti e cenere sparsa qua e là. Lo guardai un’ultima volta. Non sapevo fossi capace di provare tutto quell’odio. Immaginai che fosse lei, la ragazza dai capelli d’argento, e lasciai cadere Mr brown al centro del focolare estinto. Ogni ricordo legato alla mia infanzia doveva bruciare insieme a lui. Sollevai la mano e, fra le calde lacrime che mi solcavano le guance, ordinai:
“Fuoco”.
Mi sedetti accanto a quel braciere, a gambe incrociate, aspettando che non rimanesse più nulla del simbolo della mia defunta innocenza, godendomi il tepore delle mie figlie, le fiamme, che ondeggiavano per la loro creatrice.

 

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Capitolo 8
*** IL SOGNO ***


Capitolo 5 – Il sogno

“Gassan muoviti o faremo tardi! Il sole è alto su nel cielo”.
“Sai che mamma non è d'accordo, vorrebbe che andassimo a lavorare al campo con lei e Sahim. Non è più lo stesso da quando nostro padre è via”.
“Ci andremo domani, nessuno si accorgerà della nostra assenza al villaggio”.
“Va bene, va bene ma solo per oggi”.
Col muso ancora sporco di latte di capra, lasciammo le scodelle nel lavello, già stracolmo dei piatti del giorno precedente. Me ne sarei occupata al mio ritorno. Mio fratello mi prese per mano e ci precipitammo fuori di casa. Piantonai improvvisamente perché avevo dimenticato di nutrire le galline, perciò, prima di passare dal cortile, raccolsi due pugni pieni di mangime e li sparsi frettolosamente nel terreno senza aspettare che quegli odiosi pennuti ci si fiondassero sopra. Tutti gli altri bambini erano già al fiume, dovevamo far presto, o anche sta volta ci avrebbero esclusi.
Salutammo Ago, il cane del fabbro, che ci scodinzolava attorno felice mendicando un tozzo di pane. Nelle tasche avevo ancora del mangime, si  sarebbe accontentato, e poi corremmo subito giù al mercato. Al villaggio tutti sapevano che nostro padre era partito verso le terre sacre del faraone per consegnare il grano, anche se quell'anno scarseggiava. Non mancavano giornalmente di chiedere notizie di lui e noi, come sempre, rispondevamo che presto sarebbe tornato. In qualità di capo del villaggio aveva molte questioni da risolvere.
Ci aveva promesso dei regali dalla capitale ed eravamo impazienti di riceverli. Come il cavalluccio di legno che aveva comprato da un venditore ambulante di cianfrusaglie alla valle dei Re. Poi qualcuno ci sbarrò la strada: nostra sorella Aia era già infuriata dalle prime luci dell'alba.
“E voi due dove credete di andare? Non avevate promesso che avreste aiutato la mamma?”.
“Ma Aia ci aspettano tutti giù al fiume, vogliamo andare a giocare!”.
“Anche ieri hai detto così, Majak. Che cosa potrebbe pensare nostro padre? Non ci pensate a lei? Sta per avere un bambino. Filate dritti a lavorare” - disse Aia prendendo Majak per un orecchio.
Dovevo agire in fretta. Stava per afferrarmi il braccio ma la scansai all’ultimo secondo e le passai sotto la gonna. Nel tentativo di riacciuffarmi lasciò la presa su Majak e ne approfittò per svignarsela. Ci rincorse fra tappeti, stoffe e le grida infuriate dei mercanti del luogo. Fino a che non perse totalmente il fiato e lasciò perdere. La osservammo in lontananza mentre ci urlava che non l’avremmo passata liscia.
Il turchese del fiume scintillava quando colpito dai raggi del sole e una brezza leggera soffiava sulla nostra pelle. Con le mie amiche giocavamo con le bambole di stoffa e i piedi immersi fino alle caviglie nel fiume, dove la corrente era più debole. I maschietti, invece, si facevano la guerra con i soldatini di legno. Il cavallo di Majak era il più bello di tutti, era il giocattolo più invidiato. E lui ne andava così fiero, ogni particolare era stato meticolosamente curato. Sembrava si stessero divertendo finché Abdul non glielo tolse dalle mani dicendogli che voleva giocarci lui. Mio fratello, geloso del suo tesoro, tentò di riprenderselo ma Abdul, che era più alto di lui, lo teneva lontano dalla sua portata e lo spinse via con un calcio. Fino a quel momento il cielo era stato limpido e sereno. Poi un carico di nuvole minacciò di rovinarci la giornata. Sembravano fossero sbucate dal nulla, guadagnavano terreno, veloci, per spegnere ogni colore del sole. Tutto diventò scuro, eravamo intrappolati dalle ombre proiettate su di noi e il vento cominciò a soffiare forte. Invitai tutti a tornare alle proprie case ma nessuno prestava attenzione. Majak e Abdul continuavano a litigare animatamente. Mio fratello alzò la voce e un fulmine cadde ai suoi piedi. La terra cominciò a tremare ed a creparsi fino a che un solco profondo non ci divise. Molti, impauriti, cominciarono a fuggire di li e anch’io, come loro, avrei voluto. Cercai disperatamente di richiamare Majak ma lui voleva a tutti i costi il suo stupido cavalluccio di legno. Abdul, incurante della tempesta che si stava scatenando intorno a lui, continuava a prenderlo in giro. Majak, allora, con un salto oltrepassò la faglia neoformata e si scagliò su di lui. I due cominciarono a prendersi a pugni e a rotolarsi nella polvere.  La mia voce non riusciva a raggiungerli, era coperta dal fragore della burrasca in arrivo. Nella confusione e nell’impeto d’ira, Majak colpì forte Abdul tanto da farlo cadere stordito all’indietro. Mollò la presa sul cavalluccio e finì prigioniero della corrente del fiume. Il mio gemello non ci pensò due volte e si tuffò per recuperare il suo adorato giocattolo. In preda alla disperazione, inseguii lungo la riva mio fratello che veniva trascinato dal violento flusso d’acqua. Correvo ma non era abbastanza, non riuscivo a tenere il passo. Inciampai lungo la via e guardai mio fratello che si allontanava da me. Era come se mi stessero strappando il cuore via dal petto. Urlai il nome di Majak contro il cielo nero battendo i pugni a terra. Nello stesso istante il terreno tremò ancora, accompagnato da una potente esplosione. Un mulinello d’acqua vorticante s’innalzò dal fiume e si riversò sulla sponda restituendomi un Majak fradicio ma illeso. Rannicchiato in una pozzanghera di fanghiglia, stringeva forte a sé il suo cavallo preferito. Ringraziai qualsiasi divinità fosse intervenuta. Evidentemente, per mio fratello, non era ancora giunta l’ora di intraprendere il lungo viaggio verso la Duat.
Abdul sembrava non essersi accorto di nulla, così, dopo averlo ridestato, lo trascinammo fino al villaggio per trovare rifugio dal mal tempo. Pesava un sacco ma con l’aiuto di Majak riuscimmo a raggiungere il canneto che delimitava i confini del villaggio.
Mi accorsi immediatamente che qualcosa non andava. Avevo un brutto presentimento. I campi erano disseminati di falci e attrezzi agricoli abbondonati, non c’era anima viva. Era soltanto un temporale, alla fin fine, perché non riporre tutto al proprio posto? E poi il silenzio. Un silenzio terrificante. Non un cane che abbaiava, non un solo mercante che sguainava la voce per vendere i suoi prodotti alla metà del prezzo.
“Sento puzza di morte” - esclamò con voce tremolante Majak.
“Majak” - dissi e indicai il muro dipinto col sangue.
Una mano insanguinata che aveva tentato a tutti i costi di aggrapparsi all’ultima speranza di vita.
Seguimmo quella terrificante striscia vermiglia fino al cortile senza proferire parola. Mio fratello si coprì la bocca per frenare un conato di vomito. Si girò dalla parte opposta perché ciò che aveva visto era fin troppo doloroso, inaccettabile, fuori da ogni logica. Io rimasi impietrita, senza inalare alcun respiro, con gli occhi fissi al mucchio di cadaveri sbudellati e sanguinolenti. Il rombo di un tuono, alle nostre spalle, ci fece sussultare e distrarre per qualche secondo da quell’orribile spettacolo. Abdul, che fino a quel momento ci aveva seguito, non c’era più. Mi avvicinai a quel cumulo di corpi esanimi per vedere se fra loro qualcuno era sopravvissuto. Spostai la donna dai capelli ricci e lo sguardo latteo fisso all’insù, la bocca contratta in una smorfia di dolore e il collo esile tempestato da venuzze blu-violacee. Rivoli di sangue raggrumato scendevano lentamente dal polso forato di un ragazzo magrolino. La veste bianca di un anziano signore aveva completamente perso il suo candore. Sollevai con difficoltà il rigido corpo del vecchio e afferrai la mano di una ragazza per sottrarla al gravoso peso della morte, con la speranza che, almeno per lei, non fosse finita.  Aia aveva chiuso gli occhi prima di morire. Il volto beato beffeggiava le gesta del suo assassino. Se non fosse stato per lo squarcio nella gola, avrei pensato che se ne fosse andata nel sonno.
“Riposa in pace sorella mia” - le sussurrai all’orecchio. La sua anima, da qualche parte, avrebbe ascoltato il mio ultimo saluto.
Le grida di giubilo del Traghettatore, quel giorno, vibravano intensamente nell’aria, coperti soltanto dai versi straziati di Majak che, da qualche parte, aveva trovato nostra madre e nostro fratello Sahim. Lo sentivo singhiozzare sconsolato. Lo trovai piangente sul ventre rigonfio della mamma mentre teneva per mano Sahim.
Poi un rumore viscido, un liquido denso che viene risucchiato, come quando termini ciò che rimane del tuo brodo nella scodella.
Davanti a noi, dove prima non c’era, un uomo alto, bianco come il latte, si asciugava con un braccio la bocca, mentre goccioline di sangue scarlatto gli colavano dal mento. Gettò via la sua preda, Abdul, come fosse spazzatura e ci osservò incuriosito, con la testa inclinata. Un sorriso terrificante ci mostrava due canini aguzzi e affilati come coltelli. Sogghignava allegramente socchiudendo appena le palpebre. Fra esse si intravedevano due pupille di un colore rosso acceso.
Da dietro una mano accarezzava sensualmente i pettorali di quell’individuo sconosciuto. La sua compagna, col passo delicato di una gazzella, gli girava attorno leccandosi il labbro superiore.  Parlava una lingua straniera, incomprensibile, ma non era difficile immaginare cosa significassero le sue parole. Eravamo noi il suo obiettivo, gli ultimi rimasti.
Presi per mano Majak e chiudemmo gli occhi.
Pesai: “Fa che questo sangue, il sangue della nostra gente, non sia stato versato in vano”.
Forse lo avevo detto ad alta voce. Majak ripeté con me all’unisono mentre quelle bestie si avventavano su di noi.
Anche nelle avversità, quando tutto sembra perduto e impossibile da risolvere, non perdere mai la speranza, gridava il mio cuore. Alcune cose non torneranno mai come prima ma rinasceranno a vita nuova.
Dal riflesso di quella pozzanghera scarlatta che bagnava i nostri piedi, nacque un fiore dalla bellezza indescrivibile. Ne sbucò fuori un altro e un altro ancora. Era scomparsa ogni traccia di sangue. Milioni di fiori profumati e vigorosi ci circondavano. La forza della vita che vince sempre. I petali si librarono in volo e per un attimo non vedemmo più quelle creature dai denti affilati. Il vento li portò via con sé, lontano, dove non avrebbero fatto più alcun male.
Poi, finalmente, cominciò a piovere. Le gelide lacrime del cielo mi sfiorarono gentilmente il viso e trovai la pace.
***
Mi svegliai quando ormai la pioggia aveva inzuppato tutti i miei vestiti, confusa e con la testa dolorante. Avevo l’impressione di aver dormito per giorni. Mi sembrò così reale. Ero stata davvero lì con Gassan e Majak?
Del fuoco della sera prima non era rimasto più nulla ma non sentivo freddo.
Improvvisamente la pioggia cessò. No, qualcuno mi copriva col suo impermeabile.
“Cosa ci fai qui fuori tutta sola? Ti prenderai un raffreddore!” - disse Valerio evidentemente preoccupato.
“Immagino che volessi un po’ di tempo per me” - gli risposi laconica.
Valerio mi guardò con aria compassionevole e mi offrì la sua mano. Aspettai che facesse qualche commento sconveniente sul mio nuovo taglio di capelli o sui miei lividi mentre mi accompagnava al dormitorio, ma non disse nulla. Strano per un tipo eloquente come lui, pensai fra me e me.
Davanti al portone mi rassicurò che la Tally non mi avrebbe creato grossi problemi, aveva pensato a tutto lui. Inoltre mi suggerì, dando una sbirciata al suo orologio da polso, di riposare ancora un po’, erano ancora le cinque del mattino. La campana sarebbe suonata fra un’ora.
Prima di coricarmi avrei dovuto cambiarmi i vestiti per l’ennesima volta ma non mi andava. Portai istintivamente le mani ai capelli per tamponarli e rimasi di stucco. Non sapevo se urlare di paura o piangere di gioia. Tenevo fra le mani una foltissima ciocca di capelli neri e umidicci. Li tirai per verificare se erano davvero i miei. Che male cane. Che diavolo stava succedendo? E se quello che era accaduto quella notte fosse stato soltanto un altro terribile incubo? Forse ero sonnambula ed ero arrivata lì in un totale stato d’incoscienza. Improbabile, se fosse stato vero, mio fratello Gab se ne sarebbe sicuramente accorto e mi avrebbe preso in giro fino alla morte.
Il braccio. Andai alla ricerca di quella macchia violacea e dolorante, non poteva essere sparita così in fretta, avevo la certezza che quello fosse successo davvero, c’erano anche i testimoni e Morgana mi aveva persino portato del ghiaccio. Nessuna traccia del livido, il braccio era bianco e intatto, nessun segno di violenza. Controllai l’altro per sicurezza ma anche quello era illeso.
Fu allora che mi chiesi cos’ero veramente. O meglio, cosa stavo diventando. Per qualche strano motivo non ero impaurita. Avrei dovuto esserlo? Chi lo sa. Mi sentì pervadere da una rassicurante consapevolezza: non ero debole come pensavo. Potevo ordinare alle fiamme di danzare e alle ferite di guarire. Non ero sicura di come funzionasse ma allenandomi duramente e con molta pazienza l’avrei scoperto. Avevo tutte le carte in regola per diventare una protettrice formidabile, o più precisamente una medjai. Avevo visto con i miei occhi di cosa erano capaci i miei antenati. Ciò mi rese oltre ogni modo felice. Era la mia chance, una volta pronta, sarei stata in grado di dare la caccia a quelle immonde creature, riversando su di loro la furia della natura stessa.
Affondai la faccia sul cuscino e inspirai l’odore di biancheria pulita. Aspettai trepidante che quella campana suonasse, scandendo ogni secondo. Non avrei chiuso occhio comunque. Il cervello correva a mille all’ora. Trastullandomi nel mio letto mi resi conto di una cosa: se Marlena e le altre mi avessero visto quel giorno cosa avrebbero pensato? I miei capelli erano tornati esattamente come prima. Ero più che certa che, anche fra i protettori, non fosse una cosa del tutto normale. Avrei dato qualsiasi cosa per vedere le loro facce mentre agitavo la mia folta chioma nuova di zecca ma mantenere il segreto aveva la priorità. Scesi giù dal letto e sperai che Valerio non fosse andato lontano. Lo vidi sotto un albero vicino al nostro dormitorio intento a scrivere, pensieroso, quello che mi sembrò il suo diario.
“Ancora tu, piccola?” - mi disse fingendo di rimproverarmi.
Era carino quando mordicchiava sovrappensiero la penna fra  denti. Tra le pagine, faceva capolino la foto in bianco e nero di una giovane ragazza.
“E’ bellissima, chi è? La tua fidanzata?” - gli chiesi.
“Non è nessuno” - mi rispose mettendola sbrigativamente via.
Che strano, non pensavo fosse un tipo così riservato.
“Scusa non volevo impicciarmi”.
“Volevi dirmi qualcosa?” - disse, tornato improvvisamente di buonumore.
“Al dire il vero… Senti, so che ti suonerà strano ma ti sarei grato se non mi facessi domande".
Ho bisogno del tuo aiuto, posso contare su di te?”.

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Capitolo 9
*** LUPUS HOMINARIUM ***


Capitolo 6 – Lupus Hominarium

“Spezzate le righe” - sbraitò Hans quando l’ultimo di noi tagliò il traguardo.
L’aria del mattino era ancora frizzantina e non capivo perché avessi già la maglietta zuppa di sudore.
Oh già dimenticavo. Hans ci aveva obbligati a percorrere cinquanta chilometri di corsa, per non parlare degli impossibili esercizi di preparazione atletica militare. Alle sei del mattino. Colazione? Pff, cos’era la colazione?
“Serve a temprare l’animo da guerriero” - aveva detto sparando l’ennesima delle sue frasi a effetto. Che avevano effetto solo su di lui, sia chiaro. A me sembrava che avesse tutta l’intenzione di provocare la nostra prematura dipartita.
“Stanca?” - chiese ironicamente Gab lanciandomi un asciugamano.
“Neanche per sogno, potrei continuare per tutto il giorno” - mentii spudoratamente mentre mi asciugavo il sudore dal collo.
Morgana mi diede un calcetto allo stinco. Per poco non implorai l’intervento di un medico. Mi distesi a terra a forma di stella.
“Tutto il giorno, eh?” - mi canzonò lei. Aveva le guance arrossate e i cappelli incollati sulla fronte.
“Sì, altri cinque minuti e vi raggiungo” - le risposi mentre la mia voce si spegneva.
“Hai dormito stanotte? Hai certe occhiaie” - domandò preoccupata Morgana.
“Certo che no” – rispose Gab – “Gli è venuta la felice idea di tagliarsi i capelli. Per la cronaca, ti stanno da schifo”.
Non potevo biasimare le pessime qualità di Valerio come parrucchiere, non era il suo forte. Aveva fatto quello che aveva potuto con la sua spada.
Gli feci la linguaccia.
Non avevo detto a nessuno quello che era successo la notte precedente e, visto ciò che c’era in gioco, nemmeno Marlena e le altre avrebbero fatto parola. Sarebbe stato buffo se fossero venute a chiedermi spiegazioni sui miei capelli magici. Lo zio, però, mi aveva chiesto prudenza e io, fino a quel momento, non avevo fatto altro che essere totalmente indiscreta considerato lo spettacolo pirotecnico della scorsa sera. Sarebbe stato come sbandierare ai quattro venti il mio segreto. Anzi, il nostro segreto.
“Gab” - lo chiamai mentre stava andando via.
Lo raggiunsi e gli afferrai la maglietta sudata: “Devo parlarti”. Decisi che avrei usato il linguaggio segreto di papà. Gab mi guardò con la faccia da pesce lesso grattandosi la testa. Lui, dapprima concentrato, non seppe trattenere le risate. Si era piegato in due con le lacrime agli occhi.
“Hai una  patata nell’ascella?” - tradusse senza smettere di ridere.
Mi schiaffeggiai da sola. Ero inetta anche in questo ma non mi persi d’animo e riprovai ancora.
“Ok, adesso andatevi a lavare e poi tutti al Castello per le lezioni” - disse Hans e persi l’ennesima occasione per parlare con Gab.
Dovetti lavarmi con l’acqua fredda perché, secondo il giudizio di Hans, anche stavolta avevo fatto pena, per cui mi beccai l’ultimo turno alle docce.
Promisi a me stessa che, prima che fosse calata la sera, avrei ucciso quell’uomo detestabile.
In fretta e furia Morgana ed io corremmo in aula e ci sedemmo agli ultimi banchi. Una donna alta in tailleur scriveva sulla lavagna la provenienza etimologica di due parole in stampatello: LICANTROPO e LUPO MANNARO.
“Cacciasciacalli” - disse ancora girata di spalle.
“Sì, Miss Fiona” - rispose Morgana disperata.
“Sei di nuovo in ritardo. Potresti ricordare anche alla tua amica che trovo irrimediabilmente maleducato chi non rispetta gli orari delle mie lezioni. E che non è consentito mangiare”.
“Certo Miss Fio… che cosa?”.
Con Patrizio nascondemmo nello stesso istante la cioccolata dietro la schiena. Deglutì piano ciò che rimaneva del mio quadratino di cioccolato e chiesi a Patrizio se quella donna avesse gli occhi anche dietro la nuca. Morgana ci squadrò con sguardo severo e mi lanciò una gomma sulla testa.
Due banchi più avanti Fabiano se la rideva sotto i baffi. Sfortunatamente quella mattina ci avevano divisi e purtroppo io e lui facevamo parte di gruppi diversi.
Mi sorrise e mimò la parola “ciao”. Mi strofinai la bocca, per controllare che non avessi ancora residui del mio spuntino, e mi maledissi: perché il mio cuore galoppava in quel modo? Mi aveva solo detto ciao, per la miseria!
Miss Fiona, poi, posò il gessetto e cominciò a spiegare: “ La parola “lupo mannaro” deriva dal latino volgare lupus hominarium, cioè lupo mangiatore di uomini. Mentre lykos e antropos, dal greco, sta per licantropo…”.
La lezione continuò senza particolari interruzioni. Facendo avanti e indietro fra le prime file, Miss Fiona ci spiegava minuziosamente tutto quello che poteva essere utile per affrontare un lupo mannaro nel momento in cui ce lo fossimo trovati davanti. Pensai a quanto fosse bizzarra quella situazione: parlare di creature sovrannaturali così, a cuor leggero, come se fosse pane quotidiano. Come se fosse davvero reale. M’immaginai degli uomini muscolosi, super pelosi e puzzolenti. Non avevo nessuna voglia di imbattermi in uno di loro.
Improvvisamente mi venne un’idea. Chiesi a Fabrizio di prestarmi un foglietto. Così, fingendo di prendere appunti, scrissi tutto quello che avrei dovuto confidare a Gab, che nel frattempo stentava a tenere gli occhi aperti. Vedevo anche da dietro la sua testa che dondolava in avanti.
Punzecchiai Morgana con il dito.
“Che vuoi?” - mi rispose seccatamente.
Le porsi il foglietto con il nome del destinatario: “X GAB”.
“Scordatelo. Mi farai rimproverare ancora”.
“Lì in fondo, volete smetterla di chiacchierare?”.
Morgana sospirò amareggiata.
La guardai con occhi da cucciolo e giunsi le mani sotto il mento.
Prese il biglietto e lo passò alla ragazzina davanti a lei. Avrebbe dovuto darlo a sua volta a Fabiano ma per qualche strana ragione tenne il foglietto fra le mani con le orecchie rosse come pomodori. Che cosa stava aspettando? Tentò diverse volte di richiamare la sua attenzione ma quando fu lì per lì a toccargli la spalla, si tirò indietro imbarazzata.
“Lo prendo io” - sentì dire a una voce familiare.
Cavolo, questa non ci voleva. Il nostro segreto era finito nelle grinfie di Marlena, non sarebbe potuto cadere in mani peggiori. Mi trafisse con il suo solito sguardo malizioso e nascose il biglietto. Ovvio, non aveva la minima intenzione di darlo al legittimo proprietario. Una volta aperto sarebbe stata la fine, dovevo intervenire immediatamente. Come mi era venuto in mente di mettere su carta tutto ciò che avrebbe potuto metterci nei guai. Scivolai dalla sedia e mi avvicinai lentamente cercando di far piano. Stropicciò la carta frettolosamente, non avrei fatto in tempo, stava per aprirlo.
Poi Fabiano le afferrò gentilmente il polso.
“Cos’hai li?” - le chiese sottovoce. Rimasi immobile a quattro zampe, dietro di loro, col fiato sospeso.
Marlena cominciò a balbettare: “Non è nulla”. Era stranissimo vederla impacciata.
“Posso vedere?” - disse rivolgendole un accenno di sorriso. Il viso le diventò paonazzo. In quel caso la compresi appieno. Uno di quei sorrisi micidiali avrebbe provocato un’aritmia cardiaca anche a me.
“C-certo” - e glielo passò incerta.
Per un lungo momento restò a fissare il biglietto ancora chiuso. Poi smosse col piede la sedia su cui era seduto Gabriel, nel pieno del suo pisolino.
Gab, riavutosi dal profondo coma, cominciò a oscillare la testa, a disagio, per controllare che nessuno avesse notato la sua “assenza”.
“Questo è per te” - gli sussurrò all’orecchio Fabiano.
Finalmente potevo rilassarmi. Missione compiuta!
Tornai al mio posto e Fabiano mi fece l’occhiolino, contento di essere stato mio complice.
“Pensavate che non mi fossi accorta di nulla?” - cominciò a dire la nostra insegnante. Chiuse il libro rumorosamente e lo poggiò con un tonfo sulla cattedra. Si avviò dritta nel posto di Gabriel.
“Braveheart, sai dirmi qual è la differenza fondamentale tra un lupo mannaro e un licantropo?”.
Gab restò a bocca aperta nel disperato tentativo di dare una risposta sensata.
Dopo una breve pausa di silenzio, Miss Fiona disse: “Cacciasciacalli?”.
“Sì, Miss Fiona!” - rispose Morgana alzandosi velocemente dalla sedia.
“Potresti spiegare tu al nostro bell’addormentato quale sia questa benedetta differenza?”.
“Il lupo mannaro è una creatura di natura brutale, guidata dal puro istinto animale, con attitudini antropofaghe. Non può scegliere a proprio piacimento quando trasformarsi, perché schiavo del plenilunio al contrario del licantropo, detto anche muta-forma, che può assumere le sembianze di un lupo quando lo desidera, senza perdere il senno. Anzi, riesce a conservare la propria identità”.
“Molto bene Cacciasciacalli” .
Gab la guardava con evidente ammirazione. E come dargli torto, Morgana ne sapeva davvero tanto di licantropi.
“Allora” - continuò miss Fiona.
“Vuoi condividere con la classe il contenuto di quel biglietto?”.
“Non particolarmente, no” - rispose Gab impertinente.
“Non te lo sto chiedendo” - disse Miss Fiona con falsa pacatezza.
Da quella prospettiva non vedevo la faccia di mio fratello ma ero sicura che stesse grondando sudore per la paura. Lo avevo messo nei guai, era tutta colpa mia.
Gab allora tirò fuori un foglietto accartocciato dalla tasca dei pantaloni e lo consegnò a Miss Fiona.
Non potevo crederci. Perché glielo aveva dato così, senza nemmeno trovare una soluzione. Ormai era fatta. Affondai il viso fra le mie braccia conserte e aspettai che lo leggesse davanti a tutti.
“E questo cosa sarebbe, eh???” - urlò Miss Fiona, con gli occhi di fuori, mostrando a tutti noi il disegno di una donna pelosa con un gessetto in mano mentre scrive alla lavagna.
“Ho pensato che mettere su carta la mia idea di licantropo mi aiutasse a comprenderne meglio le fattezze. E lei, Miss Fiona, è stata la mia Musa ispiratrice”.
L’intera classe scoppiò a ridere. Quella che era una lezione seria e pedante, si era appena trasformata in una goliardica esperienza scolastica.
“Sapevo che tu e tua sorella sareste stati due piantagrane fin dal vostro arrivo. Vai subito in isolamento!”.
“Ma…” - provò a dire Gab.
“Ma un tubo! Vacci immediatamente, screanzato che non sei altro. E il prossimo che sento ridere, lo seguirà!”.
Pensai che in fin dei conti una punizione non gli avrebbe fatto male, anzi se la meritava proprio. Non dovevo colpevolizzarmi per così poco e poi in isolamento avrebbe avuto tutto il tempo di leggere e rilegge quel biglietto con calma, vista la sua inguaribile pigrizia mentale. Anche se dovevo ammettere che quello scambio era stata una idea geniale. Forse non era del tutto tonto.

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Capitolo 10
*** LEZIONE DI TIRO CON L'ARCO ***


Capitolo 6.1 – Lezione di tiro con l’arco

Dopo neanche cinque minuti dall’inizio della lezione seguente, diventai lo zimbello del campo. Miss Fiona oltre ad essere la nostra insegnante era anche un’arciera formidabile, non sbagliava un solo tiro. Dal canto mio ero davvero senza speranza. Non poteva esserci qualcosa, una soltanto, in cui ero brava? Per poco non mi linciavo il naso nel tendere l’arco all’indietro!
“Non hai ereditato per nulla il talento di tua madre, eh? Lei avrebbe centrato quel bersaglio ad occhi chiusi” - disse con tono deluso Miss Fiona.
Nonostante non fosse un elogio per la prima volta, qualcuno non stava dicendo qualcosa di spiacevole su mia madre, potevo considerarla una vittoria. Perciò non la presi a male, avrei continuato a provare.
Un fischio proprio vicino al timpano. Se mi fossi girata anche di qualche millimetro, la freccia mi si sarebbe conficcata dritta in fronte. Non riuscì a distogliere lo sguardo dal bersaglio di fronte a me: la freccia aveva trovato posto al centro esatto del cerchio rosso più interno, il più piccolo di tutti.
Morgana sogghignava con aria soddisfatta ancora in posizione di tiro. Chissà se ne era consapevole.
“Ti sei già stufata di me Morgana?”.
“Stavo soltanto sperimentando i miei limiti”.
“Sarei più tranquilla se non fossi l’oggetto dei tuoi esperimenti, grazie”.
Lei m’ignorò e tese l’arco ancora una volta con fermezza assoluta. Portò lentamente la corda all’indietro poggiando le dita delicatamente sulla guancia. Inspirava ed espirava silenziosamente, si poteva capire dai movimenti della bocca. La sua chioma agitata dal vento, si accendeva di un rosso brillante al tocco del sole e i suoi occhi, ridotti a delle fessure, ardevano come bracieri olimpici. Ebbi la sensazione di osservare una dea in miniatura: la degna figlia di Artemide. Non c’era più la ragazzina timida con le trecce e la faccia tempestata di lentiggini. Scoccò e la freccia trafisse l’etere a velocità supersonica. Vidi quanta bellezza, quanto ardesse in lei il desiderio di voler raggiungere i suoi obiettivi, quanto volesse rendere fiera la sua famiglia, quanto si sforzasse di essere degna del nome che portava. Se solo l’avesse vista Gabriel…
“Allora?” - mi chiese.
“Adesso ho paura di te”.
Si rilassò con una lieve risata e tornò la solita Morgana di sempre.
“Come sta andando la tua prima lezione di tiro con l’arco?” .
Fabiano si era avvicinato a noi senza preavviso, non lo avevo nemmeno sentito arrivare.
“Questa qui mi uccide l’autostima” - e puntai il dito su Morgana.
“Quando tende l’arco, seppellirebbe l’amor proprio di chiunque. È la migliore fra noi”.
Morgana arrossì immediatamente.
“Sono sicuro, però, che diventerai brava anche tu” - affermò con smoderato ottimismo.
Poi lo vidi indugiare sui miei capelli corti.
“Alla fine hai deciso di tagliarli?” - disse velando un po’di tristezza nella sua voce.
“È stata una decisione difficile da prendere ma se questo mi faciliterà gli allenamenti, che ben venga”.
“Già” - affermò educatamente.
“Ehm, Fabiano?”.
“Sì”.
Cominciai a srotolare con fatica il nastro rosso che avevo al polso. Lui mi afferrò le mani e le strinse fra le sue. In un altro momento mi sarei paralizzata, ma non m’importava granché. Sapevo soltanto che le sue mani, poco più grandi delle mie, erano calde, ruvide, callose in alcuni punti ma così rassicuranti.
Gli dissi: “Non credo che dovrei tenerlo io. È un oggetto troppo importante. Mi sento in colpa solo ad averlo indossato”.
“Ma io voglio che lo abbia tu”.
Tentai di ribattere ma lui continuò: “Hai saputo vero? Di mia sorella…”.
“Perché non me lo hai detto?”.
“Non volevo spaventarti”.
“Spaventarmi? Ma cosa dici? Non è questo il motivo per cui te lo sto restituendo” - e ci staccammo l’uno dall’altra.
“Hai tagliato i capelli così che avresti avuto la scusa per ridarmelo, vero?”.
“Assolutamente no. È assurdo, non centri nulla con la mia decisione. Fabiano è l’unico ricordo che hai di tua sorella, non voglio privartene”.
“Non mi hai tolto proprio nulla, ho scelto io di dartelo e i regali non si rifiutano. Dovranno ricrescere e ti sarà di nuovo utile. Mi hai appena dimostrato che quel semplice nastro ha un valore, sai perfettamente cosa significa per me. Perché tu sai cosa vuol dire perdere qualcuno di caro”.
“Ma…”.
“Io non lo voglio indietro, fine della storia” - m’interruppe repentinamente.
“E poi se lo indosserai…” - disse mentre lo risistemava al suo posto - “non lo avrò perso per sempre, perché noi ci vedremo ogni giorno di qui in avanti” - terminò sorridendomi.
“È una minaccia?”.
Lui rise.
“Forse”.
Non mi dispiaceva per nulla l’idea di vederlo ogni giorno. A dirla tutta era un futuro cui non avrei rinunciato per nulla al mondo.
Entrambi ci accorgemmo che Morgana era rimasta li per tutto quel tempo ad ascoltarci. Lei distolse lo sguardo e se andò fischiettando facendo finta che la cosa non le importasse.
E non era la sola. In lontananza, come due coltelli sulla schiena, gli occhi di Marlena non ci mollavano nemmeno per un attimo. Tese rudemente l’arco e tirò la freccia. Immaginai che avrebbe preferito colpire un altro bersaglio.

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Capitolo 11
*** UNA RISSA OGNI TANTO NON FA MALE A NESSUNO ***


6.2 – Una rissa ogni tanto non fa male a nessuno

La lezione successiva sarebbe piaciuta parecchio a Gab. Combattimento a corpo libero. Dopo gli allenamenti di base, assistetti ad alcuni scontri abbastanza equilibrati dove nessuno dei due avversari aveva la meglio sull’altro. Ciò che più mi stupiva era l’intensità dei loro colpi: ogni mossa, ogni parata, ogni attacco a sorpresa era ben calibrato ma di una potenza inaudita. Ed io ricordavo bene il pugno di Marlena. Come facevano dei semplici bambini a essere così esperti e forti? Ricordai le parole dello zio: “…ciò non sarebbe stato possibile se non fossimo stati benedetti dai nostri avi, i medjai”. La cosa non mi era ben chiara ma in qualche modo i protettori erano di certo un popolo ben superiore degli esseri umani, valicavano un confine impossibile che li metteva in condizioni di fronteggiare qualsiasi pericolo. Già sin da piccoli avrebbero persino potuto affrontare il migliore dei soldati senza versare una sola goccia di sudore. Veloci come Ermes, forti come Ercole, astuti come Atena.
Io fui annoverata far i novizi, cioè coloro che ancora dovevano affrontare quel fantomatico  e segretissimo esame. Ancora nessuno di noi era stato assegnato a una fascia ma potevamo comunque partecipare agli allenamenti.
Poi fu il turno di Fabiano e Ascanio.
“Stavolta non ci andrò leggero con te” - lo schernì Ascanio.
“Non trattenerti” - lo sfidò di rimando Fabiano.
E i due avanzarono l’uno verso l’altro. Fabiano con uno scatto quasi felino raggiunse Ascanio con poche falcate e si lanciò contro di lui con un pugno sulla spalla che lo sbilanciò per qualche secondo. Ascanio evitò il secondo colpo e si fiondò con l’intero peso del suo corpo sul ventre di Fabiano. Lo circondò con la sua presa d’acciaio e i due finirono ad azzuffarsi a terra.
“Sei morto” - disse Ascanio mentre si preparava al colpo di grazia.
Fabiano, però, lo afferrò e con un calcio lo fece volare in aria all’indietro. Ascanio con un triplo salto mortale cadde in piedi perfettamente illeso e si preparò al nuovo attacco. Cominciarono una cascata di colpi invisibili evidenziati soltanto dal polverone che si era alzato attorno a loro e dal suono delle loro percosse.
Erano entrambi veramente abili e capaci nonostante Ascanio fosse di tutt’altra stazza. Era un paio di centimetri più alto di Fabiano e molto più imponente per quanto possa esserlo un ragazzino di otto o al massimo nove anni. Da quando ero al campo, il concetto di bambino era stato completamente sconvolto, assolutamente diverso dall’immagine di un infante che tira il vestito della madre per farsi comprare lo zucchero filato. I protettori non potevano permettersi questo lusso: erano costretti a crescere in fretta, alla prematura dipartita dei loro cari, al fatto che potrebbero loro stessi morire da un momento all’altro, una scommessa a chi fra loro sarebbe riuscito a diventare anagraficamente adulto. Non c’era tempo per giochi infantili e capricci ingiustificati. Erano obbligati a vivere in un mondo privo di pietà e comprensione. Tutto questo traspariva da ogni loro espressione o gesto e dalle loro tormentate lotte.
Quando sembrò che per Fabiano non ci fosse più alcuna possibilità la situazione si capovolse. Ascanio era potenza e forza bruta ma questo aveva un costo. Pian piano i suoi colpi si fecero sempre più lenti e meno precisi. Fabiano aveva attuato una guerra di logoramento: aveva portato il suo avversario allo stremo delle forze e subito finché non fosse giunto il momento. Con una falciata secca alle gambe lo mise in ginocchio e con un armonioso calcio rotante lo stese definitivamente al suolo.
Lo trovai semplicemente perfetto. Un giorno, sarei voluta diventare brava anche un quarto di quello che era lui adesso. Fui colta dall’assillante desiderio di provarci anch’io a mia volta, volevo combattere a tutti i costi, era come se quel campo di battaglia stesse invocando il mio nome ma la lezione era terminata quindi dovetti rinunciare.
Morgana ed io facemmo strada insieme a Fabiano e Ascanio per raggiungere il prossimo campo di allenamento.
Proprio mentre mi stavo congratulando con loro, qualcuno mi colpì la testa con uno schiaffo.
“Ehi, vi sono mancato?” - esordì mio fratello.
“Non direi. E poi era proprio necessario?”.
“Stai zitta tu, te lo sei meritato”.
“Che odio!” - esclamai sottovoce a Morgana.
“Di certo la lezione di combattimento non è stata la stessa senza il tuo incoraggiamento” - gli rispose lei.
“Oh no, che cosa mi sono perso” - disse disperato con le mani in faccia.
 “Guardate c’è un annuncio sulla bacheca” - disse improvvisamente Ascanio.
Ci radunammo tutti per leggere le novità del giorno. In breve c’era scritto che era richiesta la nostra presenza all’arena per un annuncio importante da parte dei capi. Sapevo già di cosa si trattava ma preferii starmene in silenzio. In teoria non ne avrei dovuto sapere nulla. Avevo quasi dimenticato la discussione dello zio con il Sire: per proseguire con il progetto Nemesi avevano bisogno di molte più risorse e per questo motivo avrebbero abbassato l’età media per prestare giuramento.
“Dove si trova quest’arena? Non ce l’hanno mostrata quando abbiamo fatto il giro degli edifici” - chiese Gab.
“Questo perché non si trova alla cittadella. È lontana dai campi di addestramento, un po’ più a nord, dopo lago” - chiarì Fabiano.
“L’appuntamento è dopo pranzo, non vi preoccupate vi ci portiamo noi se non conoscete la strada. Ora affrettiamoci o faremo tardi per la lezione di piante letali per creature sovrannaturali” - ci incitò Morgana, la solita secchiona.
“Ciao, ragazzi” - richiamò la nostra attenzione Marlena, seguita dalle sue scagnozze (non so perché mi piaceva pensarle così). Che cosa voleva adesso? Tutti la salutarono felicemente tranne me e Morgana, ovviamente.
“Avete letto la bacheca?” - continuò.
“Sì, proprio poco fa” - gli rispose Ascanio.
“Chissà cosa vorranno dirci, sono proprio curiosa. Ho visto passeggiare per le vie della cittadella alcuni dei membri dei sette, non è vero ragazze?” - disse Marlena cercando conferma in Carlotta e Lilia, le quali annuirono ubbidienti come cagnolini.
“Sarà qualcosa d’importante di sicuro!”.
“I sette?” - esclamò stupefatto Ascanio. “Mio fratello ha detto di averli visti soltanto una volta quando era piccolo. Credo che non vengano qua da anni. La cosa deve essere seria allora. Non si scomodano dai loro troni per nulla”.
“Non è vero che siedono sui troni, è soltanto una stupida bufala” - lo rimproverò Morgana.
“Questo vuol dire che tuo nonno è qui alla cittadella, vero, Morgana?” - chiese Fabiano.
“Suppongo di sì. Non parlo con lui da molto tempo” - rispose titubante.
“Qualcuno potrebbe spiegarmi chi sono sti sette?” - domandò mio fratello corroso dalla curiosità.
“Vedi mio caro Gab” - disse Marlena mettendogli un braccio attorno al collo – “posso chiamarti così giusto?”.
“Certo che puoi” - rispose lui tronfio di orgoglio.
Morgana vagava meditabonda nel suo mondo, nervosa più che mai. Di sottecchi la osservai: stava digrignando i denti?
“La coorte dei sette è un gruppo di anziani appartenenti al nostro popolo che agisce come mano della giustizia dei protettori. Ogni decisione, ogni scelta, qualsiasi cosa, non viene approvata se non prima vagliata dal loro saggio giudizio. Loro rappresentano la saggezza e la memoria della storia dei protettori. Sono loro che ci tramandano le leggende della nostra gente. Persino il Sire è costretto a sottostare alle regole imposte dalla Coorte. Chiunque vi si oppone o viola la legge, è condannato a morte”.
“Questi tizi sono gente importante, quindi”.
“Sono gli eroi dei tempi passati. Hanno sconfitto i mostri più terribili e affrontano le sfide più pericolose, impavidi come pochi fra noi. Sai é una rarità che un protettore raggiunga un’età avanzata. La nostra aspettativa di vita si aggira intorno ai trent’anni se si è fortunati. Solo i più forti sopravvivono “.
“Anche i più astuti se la cavano bene” - s’intromise Patrizio che era appena arrivato.
“Scusa qualcuno ha chiesto il tuo parere?” - disse Carlotta che fino a quel momento era rimasta in disparte.
“A me farebbe piacere sapere come la pensi” - dissi prendendo le difese di Patrizio.
“La cosa non mi sorprende, in fondo è il tuo ragazzo” - rispose Lilia fastidiosa come una spina sulla pianta del piede.
“Che cosaaa?” - esclamò inorridito mio fratello.
“Quante volte dovrò ripeterlo? Noi due non…”. Cercai aiuto in Fabrizio ma lui era già partito con la fantasia.
Gli diedi una gomitata nelle costole: “Insomma vuoi dirgli tu come stanno le cose?”.
“Sì, certo noi stiamo…” - gli pestai il piede - “noi NON…” - mettendoci particolarmente enfasi – “Non stiamo assolutissimamente insieme, neanche per sogno. Niente. Nothing. Rien. Nada…”
“Ok, penso che l’abbiano capito. Come siamo arrivati a questo punto?” - sussurrai schiaffeggiandomi la fronte.
“Vuoi smetterla di darci il tormento, una buona volta?” - dissi a Lilia.
“Oh povera me, cosa ho detto di male? Non ti sembra esagerato aggredirmi così per nulla? E comunque volevo dirtelo da prima: la nuova acconciatura ti dona molto, assomigli a tua madre”.
Non visti più nulla. Fui completamente colta da una rabbia accecante. Mi lanciai contro di lei e cominciai a prenderla a pugni alternando la destra con la sinistra. Forse qualcuno, una voce mi diceva “basta” - ma era troppo lontana.
Alla fine riuscirono a separarci. Avevo le nocche grondanti del sangue di Lilia.
“È impazzita” - diceva lei con la mano sul naso per tamponare le perdite.
“Ma cosa ti è preso?” - mi gridava mio fratello.
“Lasciatemi” - dicevo a lui e Fabiano che mi trattenevano.
“Ti prego, Leona, smettila di fare così, le fai male” - mi disse piano Fabiano.
Detto questo, le forze mi abbandonarono, caddi a terra fissando, disgustata da me stessa, le mie mani piene di sangue incandescente. Gabriel se ne accorse e le coprì con le sue. Mi aiutò a rialzarmi e mi disse: “vieni, andiamoci a lavare” - mentre alcuni dei capi venivano in soccorso di Lilia.  

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Capitolo 12
*** IL FIGLIO DELL'AMMAZZA VAMPIRI ***


Capitolo 6.3 – Il figlio dell’Ammazza-vampiri

Me la cavai con poco anche perché le risse al campo non erano chissà quale novità. Dopo avermi costretto ad andare in infermeria per chiederle scusa, tornai al campo per continuare le lezioni. La voce si era sparsa e tutti non facevano che fissarmi: alcuni si giravano dalla parte opposta, altri mi guardavano con ammirazione - Lilia non stava antipatica solo a me – altri ancora pensavano che fossi uscita fuori di cervello.
Trovato un tavolo di legno rotondo, solitario, mi sedetti insieme a mio fratello per fabbricare armi anti-lupo utilizzando radici di strozzalupo. Le mani non sfrigolavano più. Ero fortunata che non le avessi ustionato la faccia, che spiegazioni avrei dato?
“Devi mantenere la calma” - disse Gab improvvisamente.
“Parli proprio tu che sei il più litigioso della famiglia?
“Da quando sono qui non ho partecipato a nessuna rissa”.
“Per ora” - dissi piano per non farmi sentire.
“Hai trovato un modo per controllarlo?”. Non c’era bisogno che si spiegasse ulteriormente, sapevo cosa intendeva.
“No, si attiva quando gli pare e piace. Non riesco a capire quale sia il fattore scatenante”.
“Lo zio non ti ha detto niente?”.
“Non abbiamo avuto il tempo. Sei bravo con le frecce”.
Quel giorno dovevamo intagliare delle frecce nel legno e preparare una mistura di strozza-lupo da mescolare in seguito all’argento fuso, preparato dai fabbri.
“Grazie” - disse contento - ma continuò col discorso di prima. “Di certo, lui saprà come si fa. Dobbiamo imparare subito a gestire la cosa o potremmo provocare dei disastri”.
“Da dove ti viene tutta questa saggezza?”.
“Lo sono sempre stato in realtà” - disse dandosi un’aria da professore.
“Comunque è solo un’ipotesi ma credo che quella cosa” - e si guardò attorno – “ è successa perché eri incazzata”.
“Arrabbiata, Gabriel, arrabbiata. Non so più come farti capire che non devi usare un certo tipo di linguaggio”.
“Fammi capire: tu puoi andare in giro a picchiare chi vuoi ed io non posso dire le parolacce?”.
“Io non vado in giro a…” - sospirai – “Senti, lascia stare”.
“Comunque hai un gancio destro temibile. Mi complimento con te sorella”.
“Credi che ci stiano spiando anche adesso?”.
“Non ne ho la più pallida idea. Ieri ho avuto come la sensazione che qualcosa, un'ombra mi stesse seguendo. Alla fine, però, ero sola”.
“Stai diventando più paranoica del solito”.
“Può darsi ma non dobbiamo abbassare la guardia”.
“Ehi” - disse timidamente Morgana – “possiamo sederci con voi?”. Con lei c’erano anche Fabiano e Fabrizio.
“Certo tranquilli la bestia si è calmata, per ora siete salvi” - gli rispose Gab.
“La vuoi smettere” - lo rimproverai sottovoce.
Nel frattempo Fabiano si era seduto accanto a me, mentre Morgana e Fabrizio, visibilmente scontento, vicino a Gab.
“Io ti devo delle scuse” - cominciò Fabrizio. “Ti metto sempre nei guai, finisco sempre per farti litigare con tutti, sono un pessimo amico”.
“Non dire così, non è colpa tua. A volte non si può tenere la testa bassa e restare in silenzio. Dobbiamo avere il coraggio di reagire e dire ciò che pensiamo”.
“Anche a suon di pugni” - concluse Gab.
“Se non la smetti stavolta, te ne riservo uno anche a te, visto che ti piace tanto”.
“Uuh che paura! Quella li è una mammoletta, è stato facile per te. Io sto su un altro livello, non puoi battermi”.
“Ciao Massimaluccio” - dissero due ragazze dal tavolo opposto che guardavano nella nostra direzione.
Lui le salutò con la mano imbarazzato.
“Questo lo vedremo, Massimaluccio e ti prego di non dirmi perché usi il tuo secondo nome con le ragazze” - lo canzonai.
Gab mise il broncio e continuammo i preparativi per la creazione di quelle frecce letali per Lupi Mannari.
Fabiano lavorava velocissimo e con molta precisione. Ci sapeva proprio fare. Era questo che attirò la mia attenzione su di lui la prima volta. Rimasi, infatti, ancora una volta affascinata dalla sua bravura a intagliare il legno.
Ero così distratta che non mi accorsi nemmeno di essermi tagliata un dito.
“Stai attenta ti sanguina il dito” - disse lui con la fronte corrucciata. Prese un fazzoletto dalla tasca e me lo girò intorno al dito ferito.
“Grazie. Corri sempre a salvarmi”.
“Non sempre dopotutto”.
Lasciai cadere la discussione li. Non volevo assolutamente che prendesse quella direzione.
“Non devi tenere il coltello così. Se vuoi, posso aiutarti io. Conosco un metodo che ti farà risparmiare la metà del tempo ed è molto più sicuro”.
Prese l’altra mano e la guidò sul legno che stava lavorando lui. Ogni tanto mi dava indicazioni del tipo “tienilo fermo in questo modo” - oppure “non così forte” - e in un batti baleno avevamo creato già una dozzina di frecce.
Purtroppo avevo prestato attenzione alla metà delle cose che mi aveva detto. Non potevo resistere al fascino della sua fronte concentrata o al ciuffo castano, con riflessi color miele, che gli ricadeva sull’occhio. I suoi capelli sembrano lisci come la seta, avrei voluto accarezzarglieli tutto il tempo. E poi i suoi occhi. Ogni santa volta che s’incontravano coi miei era un colpo al cuore. Erano azzurri come il più bello dei cieli sereni. Pregai che la smettesse di guardarmi in quel modo o sarei morta d’infarto. Per non parlare di quanto era adorabile quando rideva di gusto: si creavano delle spontanee e dolcissime fossette ai lati della bocca.
Dovevo smetterla di pensare quelle cose. Perché mi faceva questo effetto? Perché aveva tutta questa influenza su di me? Non mi ero mai sentita così prima d'ora...
“Posso chiederti una cosa?” - disse improvvisamente.
“Dimmi tutto”.
“È successo qualcosa fra voi?”.
“Non so di che cosa tu stia parlando”.
“Intendo con Marlena e le altre. Ti hanno fatto del male?”.
“No” - risposi subito a freddo. Non volevo che pensasse fossi una debole succube di quelle tre idiote senza cervello. E poi come gli era venuto in mente? Marlena non avrebbe certo avuto motivo di raccontarglielo, con quale coraggio.
“Me lo diresti se fosse così? Prima sembravi un’altra persona…”.
“Che cosa vuoi dire?” - cominciai a stare scomoda sulla sedia.
“Voglio dire non sembri il tipo di persona che si scalda per così poco. Lilia non aveva detto nulla di male. Apparentemente potrebbe sembrare che tu...”.
“Pensi che io sia pazza?”.
“No, è quello che sto cercando di dirti. È solo che tu non sei così, lo so e basta. Non faresti del male a nessuno”.
“E tu che ne sai? Non mi conosci nemmeno. Forse sono così e basta. Hai qualcosa in contrario?” - risposi senza nemmeno pensarci. Me ne pentii immediatamente. Era insito in me: tutte le volte che mi sentivo a disagio, avevo il brutto vizio di trasformarmi in una detestabile sputa-sentenze e mettermi subito sulla difensiva.
“Scusami, non volevo…”.
“Non riprendere più il discorso per favore”.
“Certo” - rispose mesto.
“Guardate il Sire sta parlando con il professor Lucio” - disse Morgana.
“Starà impartendo un altro dei suoi ordini assolutistici privando della libertà qualcuno, come sempre. Che persona spregevole e senza scrupoli, agisce solo per i suoi interessi. Non dovrebbe ricoprire quel ruolo. Chi ha dato il potere a questo folle?”.
Non capì perché Morgana e Gab continuavano insistentemente a fare segno di smetterla.
“Che cosa avete voi due. Non ho certo paura di lui. Io dico soltanto la verità. È un viscido”.
“Ha ragione” - disse Fabiano apparentemente per appoggiarmi.
“Ognuno è libero di dire ciò che pensa veramente”.
Cos’era quel tono serio? Non lo avevo mai sentito parlare così. Poi il Sire, dopo aver concluso la discussione con il nostro professore, si avvicinò al nostro tavolo. Non poteva avermi sentito da laggiù, era assurdo! Cos’era un mostro? Beh, avrei anche potuto aspettarmelo col carattere che aveva. Ero pronta a rispondergli a tono, non mi sarei fatta calpestare da lui.
Lui, però, ci guardò a malapena, era diretto alla postazione di Fabiano. Si fermò dietro di lui mettendogli le mani sulle spalle e disse: “Figliolo, potresti venire nel mio ufficio. Devo parlarti immediatamente”.
Che cosa voleva questo qui da Fabiano? Perché aveva messo le sue luride zampe su di lui?
Fabiano restò come pietrificato, i suoi occhi persero ogni colore e vivacità. Spinse via la sedia e si alzò in piedi.
Avrei dovuto prestare più attenzione ai segnali. Avrei dovuto avere più cura dei dettagli: non mi sarei aspettato niente di meno dal figlio dell’ammazza vampiri.
Fabiano, docile come un agnellino, gli rispose: “Sì, padre”.
Il perfido sguardo del Sire si fermò su di me e, per un attimo, sul mio polso. Storse la bocca in una smorfia di rabbia e disgusto.
Al suono del corno che ci avvisava dell’imminente pranzo, entrambi si allontanarono da quella folla di bambini affamati che facevano a gomitate per occupare i primi posti a tavola.
Rimasi muta per qualche secondo in preda alla confusione.
“Abbiamo provato ad avvisarti ma tu sei testarda come un mulo”.
“Io non potevo saperlo” - riuscì a sbiascicare appena.
“Stai tranquilla, non è un tipo che se la prende facilmente. Gli passerà”.
Avrebbe potuto dirmi qualsiasi cosa, ormai non c'era più speranza per me, la mia attività celebrare era pari a zero.
“Tieni, spero ti tiri su di morale. L’ho fatto per te”.
Gab mi consegnò, allegro, l’oggetto cui stava lavorando da quando eravamo arrivati a lezione.
Bastò una breve sbirciata per capire di cosa si trattava: tenevo fra le mani un piccolo cavalluccio di legno, identico a quello di Majak.

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Capitolo 13
*** SARA ***


Capitolo 7 – Sara

“È suo padre” - ripetevo all'infinito, ciondolante per la strada. Non sapevo a chi volessi svelare quel segreto ma dirlo ad alta voce mi rendeva più consapevole di quell'assurda parentela. Non che fosse un segreto, a quanto pare ero l’unica idiota al campo a non saperlo. Di certo dopo la lunga lista di epiteti che avevo rivolto a suo padre, non ero sicura che volesse avere a che fare con me. Ancora una volta con la mia lingua velenosa, ero riuscita a rovinare tutto. Così come dalla nostra labile amicizia, cosa pretendevo da un castello di sabbia e dalle sue fragili fondamenta? Sarebbe bastata un’onda e tutto sarebbe andato distrutto.
Con quale faccia avrei potuto rivolgergli nuovamente la parola?
“Andrà tutto bene” - mi rasserenava Morgana, con scarsi risultati.
Riuscivo solo a scuotere la testa senza alcuna convinzione.
Ero così concentrata sui miei problemi che in un batter d’occhio Gabriel e Morgana mi lasciarono indietro, immersi in un’intensa discussione sui lupi mannari.
Erano davvero adorabili, ma non glielo avrei mai detto o si sarebbero vergognati da morire. Mentre fantasticavo su un loro ipotetico matrimonio, quando sarebbero cresciuti, qualcuno mi sbarrò la strada. Ascanio mi mise con le spalle al muro circondandomi con le sue braccia. Da vicino era ancora più grande e grosso di quello che credevo. Gli avrei fatto capire subito che non ero dell’umore giusto per farmi insultare. Gli avrei fatto assaggiare un po’ dei pugni che avevo riservato a Lilia se fosse stato necessario.
“Leona, asc…” - stava per dirmi ma lo battei sul tempo.
“No, ascolta tu, Ascanio. Sono stanca di voi bulletti, ma chi vi credete di essere? Perché l'avete tutti con me?” - diedi un morso al suo braccio e una ginocchiata allo stomaco per poi fuggire via.
“Ti prego, aspetta! Non voglio farti del male”.
“Dite tutti così, sparisci maledetto”
“Volevo parlarti di Fabiano. È importante”
Arrestai la mia marcia furiosa e aspettai che mi raggiungesse.
“Certo che sembri tanto piccola ma hai un bel caratterino, da dove la tiri fuori tutta quell'energia? A proposito bel colpo” - disse massaggiandosi la pancia.
“Che cosa vuoi?”.
“Dritta al punto, eh? Mi piace. Non farò molti giri di parole: non so cosa tu gli abbia fatto o detto, ma continua così”.
“Non capisco…”.
“Sto parlando di Fabiano. Beh, non lo vedevo così da tanto. È stato sempre un buon amico ma da un po’ di tempo non era più lo stesso, da quando sua sorella è venuta a mancare. Lui da quel giorno è cambiato, ha cominciato a isolarsi, a parlare soltanto quando interpellato, anche vedere un accenno di un sorriso, era diventata una rarità.
Oggi mi ha davvero sorpreso. Non credevo che avrebbe messo tutto se stesso nel nostro scontro, è stato come quando eravamo più piccoli, quando tutto era più semplice. Era da più di un anno che non riusciva a battermi. Aveva smesso di lottare.
Potrei sbagliarmi, ma non ho potuto fare a meno di notare che da quando sei arrivata tu, qualcosa in lui si è riacceso; è come se i suoi ingranaggi fossero tornati funzionanti”.
“Non credo proprio di poter esercitare un’influenza tale su qualcun altro. E poi l’ho ferito, l’ho visto nei suoi occhi, non aveva nemmeno più il coraggio di guardarmi. Come avrebbe potuto? Non dopo quello che ho detto di suo padre”.
“Il rapporto fra loro due è… complicato. E la morte di Sara non ha fatto che accentuare il problema. È diviso in due: da un lato vorrebbe renderlo fiero e fare di tutto per sopperire alla perdita di un membro della famiglia così importante. Dall'altro sa, in cuor suo, che i suoi metodi possono risultare spesso ingiusti ed estremi. È stato un padre eccessivamente severo per Fabiano. Sara, invece, era la figlia prediletta, tutto quello che avrebbe voluto da un figlio lei lo incarnava alla perfezione. Era abile, eccelleva in ogni campo, risoluta come una guerriera, bella come una dea. Sara era tutto per suo padre. Una delle cacciatrici di vampiri più promettenti della nuova generazione, degna erede della reputazione del padre. Era ammirata da tutti”.
“Che cosa è successo a Sara?”.
“Questo nessuno lo sa. La sua morte è avvolta nel mistero”.
“Da quel momento in poi il Sire si è incupito ancora di più e ha riversato tutta la sua frustrazione sull'unico figlio rimasto. Non oso pensare la pressione cui è sottoposto il povero Fabiano”.
“E sua madre?”.
“Lei non ha voce in capitolo. Dopo aver perso la vista, suo marito l'ha fatta interdire”.
"Come é diventata cieca?"
"Quando gli strateghi l'hanno visitata era delirante, aveva appena perduto sua figlia... Mio fratello mi ha raccontato che i suoi occhi erano intatti ma come se ricoperti da un velo opacizzato. Un sortilegio insomma. Ripeteva parole strane che non avevano alcun senso".
“È davvero terribile".
"Quanto deve aver sofferto. Sarei dovuta stare più attenta, non meritava di sentire quelle tremende parole”.
“Non è facile sentirsi spiattellare la cruda verità in faccia, ma non è troppo tardi. Sai perché sono convinto che tu sia la risposta a tutti i problemi di Fabiano?”.
“Quella risposta sta appesa al tuo braccio. È davvero incredibile che lo abbia dato a te”.
“Non è la prima volta che lo sento. Mi fate sentire come se non ne fossi degna”.
“La sua precedente proprietaria è un duro modello da seguire. Solo il tempo potrà dirci se ne sarai all’altezza”.
Si avvicinò per scrutarmi il viso.
“Forse ho capito cosa trova Fabiano in te. Da quando ti sei tagliata i capelli non si fa che dire in giro che assomigli a un maschietto, ma si sbagliano. Non sei così male come dicono. Anzi sei proprio carina”.
Gli afferrai il naso e cominciai a strattonarglielo.
“Non ti avvicinare ancora o giuro che te lo stacco”.
“Ok va bene, non ti scaldare”.
“Per curiosità, chi sarebbero questi bulletti?”.
“Non sono cose che ti riguardano”.
“Marlena ti ha dato filo da torcere eh?”.
“Ah quella ragazza non cambierà mai. Ma non è come sembra. Se la conoscessi, scopriresti che non è così male. Sta solo difendendo ciò che ritiene suo”.
“Fabiano non è di sua proprietà”.
“Se hai così tanta voglia di spiegarglielo, accomodati. L'anno scorso mi sono dichiarato a lei ma, purtroppo, ha solo occhi per Fabiano”.
“Secondo te i tuoi fallimenti amorosi possono avere alcuna attrattiva su di me?”.
Mi mise una mano sulla testa e mi scompigliò i capelli.
“Puoi smetterla di metterti sulla difensiva. Io vorrei essere tuo alleato”.
“E quale vantaggio dovrei trarre da quest'alleanza? Sentiamo”.
“Il tuo compito è molto semplice. Devi passare più tempo con Fabiano così che prima o poi Marlena si renderà conto che non ha possibilità con lui e magari ripenserà alla mia proposta.
Così facendo avrai Fabiano tutto per te e vincono tutti”.
“Che premio sarebbe, io non sono innamorata di lui” - dissi indispettita dalla sua affermazione pretestuosa.
“E chi ha parlato d'amore?” - chiese con tono malizioso.
“Quanto sei odioso. E tu cosa farai in tutto questo? Resterai a guardare?”.
“Ti darò una mano a conquistarlo”.
“Ma sei proprio cocciuto, ti ho già detto che...”.
“Allora siamo d'accordo, conto su di te. Ciao principessina”.
E andò via dandomi un pizzicotto sulla guancia.
Quando ci sedemmo a tavola, di Fabiano non c’era neanche l’ombra. Controllai anche nel tavolo di Ascanio e Marlena ma non era nemmeno li. Ero in pensiero per lui soprattutto dopo quello che mi aveva detto Ascanio. E se lo stesse punendo proprio in quel momento?
Non riuscivo a stare ferma un attimo sulla sedia come se sotto di me avessi un puntaspilli. Giocavo con gli avanzi dello spezzatino punzecchiandolo con la forchetta per ammazzare il tempo.
“Lo mangi quello?” - mi chiese mio fratello.
“Non ho fame”.
Lui non se lo lasciò dire due volte, lo infilzò con il suo coltello e se lo mangiò in un sol boccone.
Mi limitai a osservare i gemelli Marchetti che venivano portati in isolamento per aver dato inizio ad una battaglia di cibo.
“Arrivano Fabiano e suo padre” - disse Gab con la bocca piena.
Come sempre, la presenza del Sire non passava inosservata. Avevano smesso tutti di pranzare e calò il silenzio. Mentre annunciava l’imminente incontro all'arena, Gab faceva segno a Fabiano di sedersi nel posto accanto a lui che aveva conservato con tanta premura. Lui si girò dalla parte opposta facendo finta di non vederlo e affiancò una gongolante Marlena. 
Ignorare me era un conto ma cosa gli aveva fatto il povero Gabriel? Dovevo avere un confronto prima che cominciasse la riunione.
Morgana ed io ci lavammo i denti di corsa e raggiungemmo gli altri. L’atmosfera era tesa ancor prima del nostro arrivo. Gabriel si manteneva a debita distanza da Fabiano, con le mani in tasca e calciando qualche sassolino con la scarpa. Fabiano rideva cordialmente ai suoi amici ma si vedeva lontano da un chilometro che fingeva.
“È ora di andare. Ricordatevi stupidi marmocchi: questa non è una gita! Forza salite sulle jeep”.
Decisi di farmi coraggio: “Fabiano?”.
Lui non poté fare a meno di guardarmi, lo avevo chiamato chiaro e forte.
“È successo qualcosa con Gab?” - gli chiesi mentre entrambi lo osservavamo salire sulla jeep.
“Nulla” - rispose pianissimo.
“A me non sembra nulla”.
“Faremo tardi” - disse sbrigativo.
“Non crederai mica di svignartela così?”.
“Non posso parlare adesso”.
“Non puoi parlarci o non vuoi parlarci?” - insinuai prepotentemente.
Si morse il labbro inferiore, abbassò la testa a terra e corse dagli altri senza nemmeno degnarmi di una risposta. Non ne avevo bisogno, avevo fatto centro.

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Capitolo 14
*** COMPROMESSI ***


Capitolo 7.1 – Compromessi

Arrivati nel luogo designato, scendemmo dalle jeep in fila indiana e attraversammo quegli enormi archi all'entrata. Non mi aspettavo che esistesse una struttura del genere da quelle parti, non ne avevo mai sentito parlare. Ed era ovvio, quasi dimenticavo che ci trovavamo in un’altra dimensione, era dura da digerire. Non ero mai stata a Roma, avevo visto il Colosseo soltanto poche volte in qualche documentario in televisione e letto qualche libro illustrato a riguardo. Presumevo che non fosse molto differente da questo. Oltrepassai quei lugubri cancelli di ferro e fui accecata da un raggio. Abituata alla luce, sollevai le palpebre infastidite e, proteggendomi con un braccio la fronte, rimasi stupefatta di quanto fosse grande quell'arena dalla forma ellittica. Provai un senso di inquietudine di fronte alla maestosità architettonica dell’antichità classica. Al centro esatto era stato costruito un soppalco di legno, grande alcuni metri quadri. Tutt'attorno, all'arena vera e propria, si sviluppava la cavea, un insieme di gradinate in muratura, dove avremmo trovato posto io e i miei compagni. Ogni gradinata era divisa in settori, apparentemente senza alcun motivo valido. Intuì subito che, anche fra i protettori, ci fosse una gerarchia da rispettare, o comunque che, ancora oggi, quella storia delle caste sociali non fosse del tutto finita.
Pulì gli stivaletti dalla sabbia e seguì mansueta e taciturna la fila. Ci introdussero alla cavea attraverso apposite porte poste su vari livelli; da essi avevamo accesso a scale e corridoi che, settore per settore, davano su ingressi esterni differenti, i vomitoria. Dagli spalti l’arena non aveva lo stesso effetto, quella sensazione era sparita del tutto e buona parte del merito andava al fatto che ero circondata dai miei amici, una parola che non avrei mai pensato di pronunciare. Mi fiondai a capofitto in una breve spiegazione sugli anfiteatri che conoscevo già, nel mondo esterno, con Morgana. Lei, affamata di sapere, mi riempiva di domande con espressioni cariche d’entusiasmo, mentre Gab era ancora di malumore. Sapevo benissimo quanto fosse sensibile Gab e sapevo anche che l’unico modo per fargliela passare era molto semplice: ignorarlo. Dal lato opposto al nostro, il pulvinar, una tribuna riservata alle autorità, si ergeva sopra le comuni gradinate riservate ai protettori di rango inferiore. Lì sedevano sette figure vestite con una tunica bianca e una grossa collana dorata dall'aria greve. Dovevano essere i famosi membri della coorte dei sette, di cui avevo sentito parlare. Restavano impassibili, con lo sguardo fisso davanti a loro, come pietre marmoree, come se facessero parte di quel luogo. E se a qualcuno fosse venuto prurito al naso, cosa avrebbe fatto?
Nel giro di qualche minuto ogni protettore aveva trovato il suo posto, ricoprendo buona parte delle gradinate, ma fu l’ultima fila a partire dal basso ad attirare la mia attenzione. Una lunga successione di uomini e donne in abiti blu cerimoniali chiacchieravano concitati fra loro, sembrava quasi una riunione esclusiva dei membri di una congrega ecclesiale.
“Quei tizi in blu, non hanno caldo con quei vestiti ridicoli?” - sentì dire a Gabriel.
“Non sai che darei per indossare una di quelle. E poi gli strateghi non possono sottrarsi ai loro doveri in quanti alti funzionari dei ranghi superiori dei protettori” - spiegò Fabrizio sollevandosi, con un gesto intellettuale, gli occhiali all'insù.
“Avete degli strateghi qui?”.
“La guerra non è pur un’arte in sé? Dove andremo senza una strategia?” - esclamò Fabrizio.
“Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali…”.
“…Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia” - concludemmo io e Gab insieme.
“Conoscete Sun Tzu?”.
“Era il motto preferito di nostra madre” - rispose Gab.
“Ce lo leggeva prima di dormire” - confermai, come se fosse soltanto un lontano ricordo.
“È anche il mio. Un giorno, diventerò uno di loro” - disse Fabrizio con la testa da un’altra parte.
“Sei un tipo sveglio. Ce la farai” - lo incoraggiai.
“Dici sul serio?”.
“Perché dovrei mentirti? Se è quello che vuoi, lotta con tutte le tue forze e realizza il tuo sogno”.
“Tu sei sempre così gentile” - disse piano con le guance arrossate.
“Deve essere stata dura ambientarvi qui, avete vissuto credendo di essere dei semplici umani”.
“In realtà non è stato strano, è come se qualcosa dentro di me l’avesse sempre saputo” - intervenne Gab.
“Eravamo semplicemente fuori posto ma adesso siamo a casa”.
Sentire Gabriel chiamare casa quel posto completamente nuovo e ignoto, dopo neanche qualche giorno, mi sorprese. Eppure capivo perfettamente cosa volesse dire, provavo anch'io la stessa cosa. Non era il campo in sé ma era la gente che ci abitava. Essere incompresi, per noi, era diventato pane quotidiano, non ci meravigliavamo più di nulla. Parlavamo alle persone ma non ci ascoltavano davvero, la nostra voce era un suono incomprensibile, come quando non riesci a sintonizzare un canale radio. Adesso era come viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda. Appartenevamo a quel popolo stravagante e bizzarro, non c’era alcun dubbio. In fondo anche noi non siamo mai stati del tutto normali.
Facevano tutti parte di una grande famiglia e noi ne eravamo membri a tutti gli effetti. Morgana, Fabrizio, i suoi amici, Valerio, Ascanio… Fabiano. Lo avevo perso di vista dall'ultima volta che mi aveva parlato.  Lui più di tutti mi aveva ricordato che non eravamo soli, il tocco gentile delle sue mani era la casa dove avrei voluto vivere. Non avrei rinunciato così facilmente alla nostra amicizia.
Tutti i capi della legione dei protettori sedevano al centro del palco dandoci le spalle. L’unico pubblico che volevano compiacere erano i sette fantasmi che li scrutavano dalla loggia.
Il generale dei licantropi, Romeo, il padre di Morgana, stava alla destra del sire dei vampiri, quello degli stregoni, un uomo con la coda di cavallo, alla sua sinistra. Accanto a Romeo c’era una donna dalla statura imponente e dalla lunga chioma dorata, doveva essere il generale del mondo fatato, mentre vicino all'uomo con i capelli legati, stava seduto un tizio attempato con i baffi dall'aria vagamente familiare. Bernardo, il falso commissario, tentava di sistemarsi goffamente la tunica che gli stava leggermente stretta sul panciotto.
Il sole picchiava sulle nostre teste quando il sire cominciò a parlare. La sua voce, amplificata dalle mura dell’arena mi vibrava nelle ossa.
Dopo il solito motto d’apertura, il padre di Fabiano riversò un fiume di parole su quanto fosse importante portare avanti il progetto cui stavano lavorando da un paio d’anni. In caso di riuscita, ciò li avrebbe portati sicuramente un passo avanti verso la disfatta dei vampiri della congrega di Attilius il sanguinario, la minaccia più preoccupante che incombeva su tutti noi. Era troppo tempo ormai che la congrega seminava morte in tutto il mondo, privando anche loro degli affetti più cari. Era giunto il momento d’intervenire. Senza escludere la ricerca del covo dei temuti Volturi.
“A tal proposito” - continuò ponderato il Sire – “Vorrei chiedere, formalmente, qui davanti a questa numerosa assemblea come testimoni, di abbassare l’età media dei cadetti che si accostano al giuramento. Compiuti i tredici anni, diventeranno protettori a pieno titolo e saranno inviati in missione”.
 Aveva suscitato una valanga di polemiche. Chi poteva biasimarli? Chi avrebbe voluto spedire i propri figli incontro ad una morte tanto crudele? I protettori urlavano e battevano i piedi a terra senza riprendere fiato. Il sire aveva appena gettato un fiammifero in un pagliaio.  Uno di quei vecchi bacucchi, vestito di bianco, si affacciò dalla balconata e, sollevando un braccio, mise a tacere la folla.
L’anziano parlò: “ Se gli altri generali sono d’accordo. Noi non abbiamo ragione di opporci”.
“Allora la questione è concl…”.
“E quando avrei dato il mio consenso, eh? Tiziano” - lo sfidò il padre di Morgana chiamandolo per nome anziché appellarlo con il titolo onorifico.
“Quando abbiamo avuto diritto di dire la nostra? Non sapevamo nulla di questa tua decisione. Come non sappiamo chi ti abbia eletto come nostro Sire, clementissimo” - disse ancora prendendosi gioco di lui.
“Non trovo alcuna attinenza con le questioni che si stanno discutendo quest’oggi nella tua impertinente insinuazione” - rispose pacato il Sire.
“Sarà ma, visto e considerato che chi sta più in alto di te, ci ha concesso la possibilità di scegliere, non vedo perché tu debba abusare del tuo potere e dare per scontato che nessuno di noi si opponga alle tue scellerate idee”.
“Non scorre buon sangue fra tuo padre e il sire, vedo” - commentò divertito Gab rivolgendosi a Morgana.
“A mio padre non è mai andata giù l’elezione a sire di Tiziano. Avrebbe dovuto esserci lui al suo posto, è quello che dice sempre”.
“Per quale motivo?”.
“Sapevate che circa otto anni fa il Sire era vostro zio? Quando successe quella cosa con i vostri genitori… fu destituito immediatamente dal suo incarico e il posto di Sire rimase vacante. Non molto tempo fa era di comune accordo che, ogni cinque anni, a rotazione, quel ruolo dovesse essere ricoperto da uno dei quattro generali in carica in quel momento. Il prossimo doveva essere mio padre ma per qualche ragione non fu così. Tiziano fu eletto per portare a termine il mandato del suo predecessore senza che nessuno potesse opporsi. La decisione proveniva dai sette in persona, la questione non poteva essere discussa” - ci spiegò in breve Morgana.
“Non capisco, il suo mandato adesso dovrebbe essersi concluso da un pezzo. Perché è ancora lui il Sire?”.
“Da allora i sette cominciarono a cambiare la legge tendendo sempre di più alla preservazione del potere che avevano conquistato”.
“Devono avere qualche specie di accordo fra loro”.
“Shh… non dirlo ad alta voce” - mi rimproverò la mia amica.
Nel frattempo il dibattito fra quei due non si era ancora interrotto.
“Ritengo inopportuno e oltremodo offensivo il tuo linguaggio, ricordati a chi ti stai rivolgendo”.
“Sono solo dei bambini!” - gli urlava contro ancora il generale dei licantropi.
“Che importanza ha la loro età se il loro destino è lo stesso? Sono nati per servire e proteggere il mondo, non dimenticarlo” - gli rispose il sire senza scomporsi.
“Che ne è dei protettori scomparsi? Inviati chissà dove non hanno mai fatto ritorno! Perché non risolviamo prima le questioni più importanti?”.
La folla si inferocì ancora di più. Gridava: “Sì, dove sono i nostri figli?” - “ Se sono davvero morti, dove sono i loro corpi?”.
“Vi prego di calmarvi. Sapete benissimo cosa andiamo incontro quando lasciamo queste rassicuranti mura”.
“Non sono più rassicuranti per nessuno se continueremo a perdere membri della legione” - disse uno degli strateghi.
“Molto presto saremo in inferiorità numerica e dovremmo lasciare il campo di Firenze. Anche le nostre barriere anti - vampiro si stanno indebolendo” - lo sostenne il generale degli stregoni.
“Ieri abbiamo avuto uno sfarfallamento nella zona est. Se ci fosse stato un attacco a sorpresa, probabilmente il nemico si sarebbe potuto infiltrare senza sforzi. Abbiamo rischiato grosso”.
La mia mente correva a mille. Dunque, c’era la remota possibilità che quello che avevo visto allo specchio…
Romeo si alzò dalla sedia. Quel titano dai capelli rossi era molto più alto di quanto non sembrasse già. Capì immediatamente perché Morgana non volesse in alcun modo disobbedire a suo padre, non era una mossa furba.
“Mettiamola ai voti” - disse incoraggiando gli altri suoi colleghi seduti.
“Amadeus. Tu più di tutti dovresti essere d’accordo con me. Sai che meno protettori avremo a disposizione più velocemente si disintegrerà la barriera. È un suicidio” - disse Romeo all’uomo dal naso adunco seduto alla sinistra del Sire.
“In questo concordo con te Romeo, certamente. Non posso, però, sottovalutare l’idea che sia il giuramento stesso a tenere in piedi ciò che rimane del nostro sigillo. Un aumento del numero di cadetti che presta fedeltà alla causa non potrà che essere un beneficio per tutti noi”.
“Ti senti? Questa la chiamo contraddizione!  Come potremmo trarre beneficio dalla scomparsa o peggio, dalla morte dei nostri ragazzi?”.
Il padre di Morgana sembrava l’unico ad avere a cuore la nostra vita. Il suo parlare era fervoroso come quello della figlia. Era il solo che, fra loro, riusciva a ragionare lucidamente e a vedere il marcio che ci stava sotto.
“Stai dando per scontato che non ce la possano fare? Stai insinuando che siano deboli? Io ripongo molta fiducia nelle prossime generazioni. Appoggio la decisione del Sire” - disse Amadeus.
Era un due contro uno. Niente di definitivo. Restavano ancora i voti del generale delle fate e di Bernardo.
“Che ne pensa, invece, la nostra ambasciatrice presso la coorte delle Fate?” - le domandò il Sire.
Forse me lo ero immaginato ma, per un breve istante, Romeo e la donna spilungona si scambiarono uno sguardo complice, così intenso da avere l’istinto di lasciargli la loro intimità. Controllai se anche Morgana lo avesse notato. Stavo per chiederle spiegazioni ma me ne pentii subito. Ebbi come l’impressione, leggendo l’espressione triste nel suo viso, che non avrebbe né dovuto, né voluto assistervi.
Poi la donna parlò: “Io credo che sia più importante capire che fine abbiano fatto i protettori scomparsi invece di aumentare il loro numero ancor di più. Inoltre…” - aggiunse con un velo di presunzione – “Non ho alcuna intenzione di mettere il destino di questo luogo nelle mani di adolescenti immaturi sotto tutti i punti di vista. Molti di loro non sono ancora pronti. Non hanno ricevuto né l’istruzione, né un addestramento adeguato”.
“Il vice-sire ha provveduto già ad allertare fra i migliori addestratori provenienti da tutto il mondo e, fra non molto, sarà distribuito il nuovo programma di allenamento. Avremo soltanto il meglio per i nostri ragazzi” - si giustificava il Sire.
Romeo non seppe trattenere un verso di dissenso.
“Rimango comunque scettica a questa possibilità. Non cambierò la mia posizione” - rispose la donna.
“A quanto pare, caro Bernardo, il tuo voto sarà decisivo” - lo punzecchiò Amadeus.
Bernardo, inamovibile, si teneva il mento fra le mani, a occhi chiusi, e rifletteva su qualcosa che soltanto lui poteva sapere.
“In fondo cosa vuoi che siano tre anni? Protettori si nasce, non è qualcosa che puoi semplicemente insegnare ad un essere umano. Non mi trovi d’accordo con te cara Sheila. Quindi stai dicendo che tu a tredici anni non saresti stata capace di affrontare una fata oscura?”.
“Per le Moire, hai mai combattuto con una Lianhan Sidhe? Basterebbe una sola maledizione e per loro non ci sarebbe speranza. Bada a ciò che dici, Bernardo! Vuoi dire che lasceresti uno di quei marmocchi al cospetto di un Troll delle nevi? E poi come osi mettere in discussione la mia posizione. Io sono la legionaria dei protettori che ha sconfitto più fate oscure di chiunque. Nessuno può paragonarsi a me”.
“E chi lo dice che fra quei ragazzetti non si nasconda qualcuno con un talento superiore al tuo? O Al mio? O a quello di chiunque abbia il privilegio di presiedere quest'assemblea?”.
“Non stiamo parlando di talento o capacità…”.
“Perché non dovrebbe essere un fattore da tenere in considerazione? Senza tralasciare che sia un dato di fatto il crollo della barriera…”.
“Sappiamo già come gestire la cosa, non é di tua competenza. Ora basta! Prendi una decisione e falla finita”.
“Mi dispiace, Romeo. Immagino che tu abbia buone intenzioni, ma come ex-stratega so bene quali sono i pro e i contro di questa scelta. Dobbiamo puntare al futuro e lasciarci il passato alle spalle. Non smetteremo di cercare i protettori scomparsi, ma credo concorderai con me che questo non ci sarà d’aiuto contro il nemico. Le nostre forze si disperdono, invece di essere più compatte. Non possiamo farci cogliere impreparati, né tanto meno abbassare le difese in un momento come questo di crisi. Sarà un azzardo, è vero ma… Anch'io, come Amadeus, voglio credere in questi ragazzi”.
“Così sia” - pronunciò l’anziano della coorte dei sette.
Romeo sembro' affondare nella sua sedia con aria disperata. Non mi sfuggi' nemmeno l'occhiata comprensiva che gli riservo' Sheila. Mi aspettavo che da un momento all'altro il popolo si opponesse a quella decisione, invece rimase in silenzio soffocando il disaccordo dentro di loro. La parola degli anziani era legge. Nessuno era abbastanza temerario da affermare il contrario.
“Altro all'ordine del giorno?” volle sapere l'anziano.
“Come aveva annunciato il generale del mondo fatato, crediamo di aver trovato una soluzione temporanea al problema della barriera. Ce ne vuoi parlare tu Sheila?”  disse il Sire.
Sheila avanzò venusta al centro del palco, stando bene attenta a non dar alito all'insofferenza di quanto era stato appena deciso. Prese la parola.
“Oh nobilissima coorte dei sette” - disse con voce da seduttrice – “con il vostro benestare, vorrei proporre un’alleanza vantaggiosa con i sovrani delle fate. Io l’ambasciatrice, ho avuto un’udienza con la Regina e abbiamo disquisito del nostro attuale problema.
La sovrana fatata ritiene che con l’aiuto del suo popolo sarà possibile rafforzare la barriera. Come sapete, molti anni or sono, il nostro scudo invisibile è stato edificato da lei stessa con l’aiuto degli antichi medjai, segno che, da sempre, la nostra e la loro gente godevano di buoni rapporti. Per rinnovare il frutto dell’alleanza, però, la Regina richiede qualcosa in cambio. Proprio per questo, oggi, è giunta fin qui con la sua coorte per discutere i termini del patto”.
Ci girammo tutti in direzione del cancello che si sollevava lentamente. Dalla semioscurità otto persone fecero il loro ingresso nell'arena, proprio come dei gladiatori anche se non ne avevano minimamente l’aspetto.
I primi tre umanoidi alati aprirono il corteo fatato. I loro visi, dai tratti spigolosi, erano a dir poco bellissimi e le orecchie appuntite fuoriuscivano fra le ciocche di capelli dalla tinta policromatica come anche le loro ali. Avanzavano disarmati verso il centro dell’arena ma l’andamento dei loro passi era tutt'altro che pacifico.
Gli altri quattro, invece, trasportavano a spalla una lettiga di fiori su cui la Regina posava il suo regale fondo schiena. Avrebbe potuto anche lei usare le ali ma perché privarsi di un’entrata teatrale?
“E chi sarebbe quella sventola?” - esclamò Gab con la bava alla bocca.
“Un po’ di contegno per favore” - lo rimproverai.
“Quella è sua maestà Delilah, regina delle fate” - la presentò serio Fabrizio.
“È bella come una dea” - disse con fare trasognato Guglielmo.
“Stupenda come Afrodite in persona” - lo appoggiarono Figaro e Ludovico.
Morgana sospirò infastidita: “Ah, maschi”.
“Già, loro sì che sanno come essere disgustosi” - dissi pienamente d’accordo con lei.
“Ah, ah, siete solo delle invidiose” - ci canzonò mio fratello.
“Pff, ma per piacere”.
“Ed io cosa ho detto?” - si volle giustificare Fabrizio ma nessuno lo prese in considerazione.
Dovetti ammette, mio malgrado, che era una delle donne più belle che avessi mai visto. Non che fossi un’esperta di fate ma quella ragazza dai lunghissimi capelli dorati, intrecciati graziosamente ai fiori, dubitavo fosse la fata turchina di pinocchio. Perfettamente consapevole della sua incantevole beltà, salutava tutti con un sorriso smagliante.
I suoi servitori la accompagnarono delicatamente sul palco fino a che lei non li congedò. Restarono in disparte ma in allerta.
La regina si avvicinò all'ambasciatrice invitandola a prendere posto. Indossava un bianchissimo vestito trasparente che lasciava intravedere le forme.
“Grazie per le tue gentili parole, figlia mia” - disse soavemente.
“Prima che tu possa domandarmelo, sì, Sheila è la figlia illegittima della regina delle fate. Una delle sue tante relazioni extraconiugali con un protettore. Il re e la regina del mondo fatato sono… di larghe vedute” - mi anticipò Morgana.
“Come sapevi che stavo per…”.
“La tua faccia era un grosso punto interrogativo” - disse sorridendo.
“Piuttosto siete voi ad avere una movimentatissima vita sentimentale. Non ci si annoia mai!”.
Ahi. Forse non avrei dovuto dirlo. Dovevo per forza fare un’allusione all'ipotetica relazione clandestina fra il padre di Morgana e Sheila? Perché non tenevo a freno la lingua?
“Protettori, sono ormai millenni che svolgete egregiamente il vostro compito abbracciando serenamente le porte del vostro fato. Con le vostre gesta avete reso sicuro non solo il vostro ma anche il mio mondo. Un atto che merita, certamente, eterna riconoscenza.
I pericoli, però, sono numerosi e imminenti e avete bisogno di aiuto. Non è simbolo di debolezza riconoscere di essere in difficoltà. Con le vostre affilatissime spade uccidete dunque il vostro orgoglio e lasciate che noi, creature benevole, con la nostra benedizione, interveniamo in vostro soccorso. Insieme rinasceremo dalle ceneri come una bellissima fenice!
Io e il mio popolo possiamo rinforzare le vostre barriere con la nostra magia e in cambio chiediamo soltanto di risiedere in uno dei vostri campi. Spero che per voi non sia una richiesta esageratamente onerosa” - terminò la fata con voce squillante.
L’arena si riempì dell’eco di mille bisbigli fino a diventare un ronzio insopportabile.
“A cosa potrebbero mai servirle?” - chiesi a Morgana.
“Non ne è ho idea, Leona. La cosa non mi quadra un granché a essere sinceri. Ci sarà una valida motivazione dietro tutto ciò. Magari i loro raths sono diventati inospitali?”.
“Potrebbe essere. Ultimamente non si è fatto che parlare delle guerre intestine fra le Nixies, le fate dell’acqua, e le Slyphs, quelle dell’aria. C’è la possibilità che i Lianhan Sidhe si siano appropriati dei loro territori, con l’aiuto delle Driadi della terra e delle Fiammelle del fuoco” - ci spiegò Fabrizio con la sua accuratissima analisi sulle dinamiche belliche fatate.
“Credevo che le creature del mondo fatato vivessero tutte in armonia nel Raths Imperiale della Regina Delilah”
“Oh no, non direi proprio. Questo è quello che ci fanno studiare sui libri. E’ davvero molto più complesso di così. Le fate di ogni genere e specie sono essenzialmente creature egoiste e orgogliose. Sono un po’ come delle bandiere: sventolano dove il vento è più favorevole, non so se mi sono spiegato. Non servono la loro regina per pura lealtà, le fate non nutrono stima per nessuno, se non per loro stesse, e la loro volubilità le porta a schierarsi da una fazione all'altra servendo la sovrana che gli offre di più”.
“Aspettate, mi sono perso” – esclamò un confuso Gabriel.
“Insomma Gab, non ti ricordi la lezione di Miss Fiona? Ah, come non detto. Figuriamoci se hai ascoltato una sola parola”.
“Allora Gabriel, adesso ti spiegherò nel modo più semplice che conosco” – si offrì volenteroso Fabrizio.
“Spero che il tuo metodo sia a prova d’imbecille…” – commentai a denti stretti.
“Le fate si dividono in due grandi fazioni: le fate delle luce e le fate oscure”
“Fin qua non credo che ci sia nulla di difficile”.
“Bene. Le fate della luce, i Curatores noctis, sono governate dalla bella signorina che stai fissando a bocca aperta in questo preciso istante…” – Fabrizio gli schioccò le dita sotto il naso: “Ehi amico, rimani con noi”.
“Mentre le fate oscure, le Lianhan Sidhe, da sua sorella, la Regina oppositrice Frieda, anche se nessuna l’ha mai vista, molti studiosi dubitano ancora della sua esistenza perché…”.
“Fabrizio non divagare” – lo rimproverai annoiata.
“Ok, giusto. La guerra fra le fate della luce e le fate oscure dura da millenni ormai. Le Fiammelle, Le Siphilis, Le Driadi, Le Nixies e tutte le altre razze, che per lo più rimangono neutrali, hanno servito la Regina Delilah per molto tempo ma in realtà non sono mai andati d’accordo, anche loro sono soggette all’influenza maligna delle Sidhe, le Figlie di Frieda, dette anche le fate-vampiro, e passano al lato oscuro con molta facilità. Gli schieramenti mutano con la velocità con cui noi ci cambiamo i vestiti”.
“In che senso fate-vampiro?”
“Le Lianhan Sidhe sono le muse ispiratrici, incantevoli fanciulle che sussurrano agli orecchi di artisti, scienziati, sono le fate madrine dei più grandi geni che hanno solcato questa terra. Stimolano la creatività degli umani, gli promettono fama, gloria, ma è soltanto un gioco perverso di schiavo-padrone. Tutto ha un prezzo: in cambio del loro aiuto si nutrono del loro sangue, poco a poco, giusto per mantenerli in vita e farli spegnere lentamente. Ammesso che l’umano sia in grado di sostenere il peso di quel grande dono che gli viene offerto dalla sua benefattrice. Le leggende narrano però che se la fata s’innamora dell’umano sarà lei a pagarne le conseguenze e i ruoli saranno invertiti: l’umano diverrà il suo padrone e avrà il pieno controllo su di lei. Questo prima che la follia li colga, mai sottovalutare il potere delle idee.
“Wow, fico” – riuscì a dire Gab dopo tutto quel sermone.
“Gab, i Lianhan Sidhe sono i nostri nemici. Non c’è nulla di ‘fico’ in tutto questo” – rimanevo sempre più sconvolta dalla capacità di giudizio del mio gemello.
“Infatti Gab, la cosa è più seria di quanto tu non pensi. I protettori sono intervenuti in moltissime delle loro battaglie. Quanti troni rovesciati, quanti tradimenti e sotterfugi, quante crudeltà ha visto il popolo fatato nel corso della storia. Il fatto che la regina Delilah sia qui, non è molto rassicurante. Stavolta qualcosa di grosso bolle in pentola”.
“Se lo dici tu” – rispose Gab scettico.
Nel frattempo i sette si alzarono e formarono un cerchio discutendo della questione sottoposta dalla bella sovrana.
Conclusa la riunione, tornarono ai propri seggi e il più anziano si sporse nuovamente dalla balconata. Tradizionalisti com’erano, i protettori non potevano non rispettare una delle più conosciute usanze greco-romane. Alla fine dei ludes, i gladiatori si sottoponevano al giudizio dell’imperatore che, con un gesto della mano, decideva della loro vita: se il pollice indicava il cielo, allora il lottatore era libero di andare, in caso contrario, se il dito avesse puntato il terreno sottostante, il gladiatore era destinato a morire. O la gloria, o la tomba.
Allo stesso modo, l’anziano stava per esprimere il giudizio frutto del comune accordo fra i sette membri della coorte.
Allungò il braccio e l’intera arena si fermò. Non volava una sola mosca. Poi espose il suo rugoso pollice all’intera comunità.
“Accettiamo la vostra offerta. Trasferiremo i membri dei protettori di Roma qui, a Firenze. Darete il tempo necessario affinché sia tutto pronto, poi procederete come quanto accordato. Adesso, i sette si ritireranno auspicando che il nostro accordo sia duraturo e sincero”.
“Le fate non possono mentire” - rispose lei prima di lasciare il palco.
Poi intervenne Bernardo: “Prima di chiudere, vorrei ricordare a tutti i bambini che hanno compiuto sette anni che, dopo essere stati divisi in gruppi, sosterranno l’esame di ammissione a una delle fasce dei cadetti. L’esame avrà luogo, qui, ogni lunedì. Siete invitati a partecipare numerosi per sostenere i nostri futuri guerrieri”.
“Se non c’è altro, siamo giunti alla fine di questa riunione straordinaria. L’assemblea è sciolta” - disse infine il Sire congedandoci tutti.

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Capitolo 15
*** POLVERE E OSSA ***


CAPITOLO 7.2 – Polvere e ossa

La mia mente, sempre più affollata di domande, non mi permetteva di pensare lucidamente. Dopo cena non mi andava di scendere al falò, avevo bisogno di un luogo sicuro, un luogo familiare dove riprendere, anche solo per un attimo, il respiro. Essere bombardata di così tante informazioni in poco tempo non faceva bene alla mia sanità mentale. Dopo tutto, non ero solo una bambina?
In quel frangente non sembrava interessare a nessuno. Le cose stavano in quel modo, punto e basta. Dovevo semplicemente accettare la realtà dei fatti. Ma, qual era la verità? Da quale parte mi sarei dovuto schierare?
Mio fratello sbucò fuori da un cespuglio e mi fece prendere un colpo. Divertito dal suo scherzo perfettamente riuscito, cominciò a saltellare qui e lì. Chi lo capiva a quello? Il suo umore era come le montagne russe. Senza dubbio era bravo a incassare e ad adattarsi a nuove situazioni, non come me.
“Che ne dici se ci troviamo un nostro posto segreto per poter provare i nostri poteri?”.
“Sei impazzito? Abbassa la voce. Potrebbero sentirti!”.
“Giusto, lo avevo dimenticato” - esclamò tappandosi la bocca.
“Non adesso per lo meno, lasciamo calmare le acque. Con tutto il da fare che avranno con la storia delle fate, la nostra situazione passerà in secondo piano. Soprattutto dopo che si renderanno conto che siamo due normali protettori”.
“Dovremmo comandare noi questo posto”.
“Non dire sciocchezze Gab, non sapresti nemmeno da dove cominciare” - dissi ridendo.
“Che dici, io sono un leader nato!”.
“Non è che ti stai montando troppo la testa?” - insinuai spingendogli la spalla.
“Nahhh” - si lamentò lui.
“Come mai non sei con gli altri?”.
“Non ne avevo voglia”.
“Gabriel, guardami negli occhi?” - gli domandai afferrandogli il mento.
“Tu adori stare in mezzo alla gente. Non me la dai a bere”.
“Non c’è nessun motivo particolare, non fare la rompiscatole”.
“La cosa riguarda Fabiano?”.
“Perché ha fatto qualcosa anche a te?” - chiese preoccupato.
“Non ha fatto nulla Fabiano” - e poi aggiunsi senza farmi sentire – “ e forse é proprio questo il problema”.
“È solo che non è quello che pensavo che fosse”.
“Ha cominciato a ignorarmi e anche gli altri fanno lo stesso. Fanno tutto quello che lui gli dice”.
“Non credo sia stato lui a ordinarglielo. Non mi sembra il tipo. La cosa ti sorprende? È il figlio del sire, chi non vorrebbe accaparrarsi il suo favore”.
“È per questo che hai cercato di essergli amica?”.
“Non dire assurdità! Non sono una persona così spregevole”.
“In ogni caso mi dispiace di averti lasciata sola ieri”.
“Stai tranquillo Gab, non ero sola”.
“Già sei sempre in buona compagnia. Morgana sembra un tipo ok”.
“È più che ok a mio parere. Dovresti vederla come è brava con l’arco. Ti suggerisco ti passare più tempo con lei”.
“Sei strana stasera” - affermò perplesso Gab.
“Sono sempre stata strana, te ne accorgi solo adesso?”.
“La verità è che questa storia di Fabiano ha fatto più male a te che a me. E la cosa non mi piace per nulla”.
“Certo che ci sono rimasta male. Perché dovrei raccontarti una bugia? Tanto lo scopriresti comunque. Io lo sento quando sei giù”.
“Ed è lo stesso motivo per cui so esattamente come ti senti”.
“Una ragazza mi ha detto che da quella terrazza la vista è mozzafiato, sarà deserta adesso. Tutti sono al falò” -  m’invitò Gab prendendomi per mano.
Entrammo nell’edificio a luci spente. Gab tirò fuori dalla tasca un fiammifero e lo accese strisciandolo sul muro. Ne diede uno anche a me e feci la stessa cosa. Poi seguì mio fratello su per le scale. Arrivati quasi alla fine, notammo che la porta che dava sulla terrazza era socchiusa. Due respiri affannati provenivano dall’esterno. Mio fratello, davanti a me, la aprì per primo e restò impalato. Lasciò cadere il fiammifero che si spense non appena toccò terra. Lo raggiunsi immediatamente per vedere cosa lo avesse turbato.
Una donna dai lunghi capelli biondi stava seduta sul cornicione con la camicetta aperta mentre un uomo dalle spalle larghe le baciava appassionatamente il collo, per poi  passare alle labbra. L’uomo aveva i capelli rossi. Non avrei mai voluto avere ragione ma ciò che temevo, la passione proibita del padre di Morgana, si stava consumando proprio davanti a me. Tappai d’istinto gli occhi a mio fratello e lo strascinai via di lì prima che Sheila ci scoprisse. Per nostra fortuna non ci avevano sentito e fuggimmo via da quella situazione sgradevole. O meglio, io fuggì via trascinandomi Gab che continuava a farfugliare qualcosa su un reggiseno rosa.  Quando fui sicura di essere fuori pericolo mi assicurai dello stato di Gabriel.
“Ho visto le tette di una donna” - diceva atono e con gli occhi che gli roteavano.
“Due tette enormi e un reggiseno rosa”.
Lo schiaffeggiai per bene. Se ce ne fosse stato bisogno, lo avrei annegato in un secchio d’acqua.
“Datti un contegno! Sei incredibile! Non hai visto nient’altro?”.
“Io…” - ci pensò su per un lungo istante.
“Porca put…”.
Gli diedi un altro schiaffo.
“La vuoi smettere? Mi fai male!”.
Cominciai a fare avanti e indietro.
“Dannazione, sapevo che la cosa non mi quadrava. Promettimi, giurami che non lo dirai per nessuna ragione al mondo a Morgana. Sono stata chiara?”.
“Perché dovremmo nascondergli una cosa del genere?”.
“Vuoi ferirla? È questo che vuoi? A volte è meglio rimanere all’oscuro, si soffre di meno”.
“Se un giorno dovesse scoprire che tu lo sapevi, ti odierà a morte!”.
“Correrò il rischio. Non dobbiamo immischiarci negli affari degli altri. Abbiamo altro a cui pensare”
Gab si massaggiò la guancia dolorante.
“Tutta questa rabbia repressa non ti fa bene. Dovresti trovare un modo per sfogarti”.
Ora che me lo aveva fatto notare, ero diventata molto più irrequieta. Ero una bomba a mano pronta a esplodere.
Mi sedetti a terra e nascosi la faccia fra le mie braccia, raggomitolandomi in un angolo. Cominciai a piangere. E raccontai tutto quello che avevo dentro a mio fratello. Di come mi sentissi frustrata a essere un’inetta in tutto. Di come mi sentissi impotente di fronte alla ferrea educazione del Sire e di come tiranneggiasse sul figlio. Di quanto odiava quelle tre stronze che mi avevano maltrattato. Di come non mi sentissi degna del potere che albergava dentro di me. Quanto mi mancavano mamma e papà.
Gab era rimasto li accanto ad ascoltare tutto quello che gli dicevo, in silenzio. Di tanto in tanto mi accarezzava la testa  e mi asciugava le lacrime. Anche se io e lui non eravamo mai stati affettuosi l’uno con l’altra, sapevamo nel profondo che il nostro legame andava oltre ogni difficoltà, più forte di ogni prova che la vita ci avrebbe posto dinanzi.
Non c’era bisogno di carezze o abbracci. A volte credevo di essere connessa a lui in tutto e per tutto, come se potessimo comunicare con il pensiero. Due caratteri così diversi, eppure com’era possibile, essere congiunti al tal punto da sentire le stesse emozioni?
All’improvviso si alzò di scatto e marciò come una furia in direzione del falò. Corsi di fronte a lui e sbarrai la via con tutto il mio corpo.
“Dove credi di andare?”.
“Non la passeranno liscia, gliela farò pagare per quello che ti hanno fatto”.
“No Gab, tu non lo farai. Non voglio che se la prendano anche con te”.
“Pensano che noi Braveheart siamo soltanto dei ragazzini indifesi, incapaci di reagire, figli di traditori? Si sbagliano di grosso!”.
La fontana accanto a noi tremò e cominciò a sgretolarsi. La pressione dell’acqua aumentò bruscamente ed esplose distruggendo in mille pezzi la statua della ninfa che teneva sulle spalle la brocca di ceramica. Gli schizzi ci arrivarono addosso  ma restammo asciutti.
Ci guardammo negli occhi sbalorditi.
“Sei stato tu?” - chiesi a Gab.
“Credo di sì” - rispose perplesso.
“Wow, che figata!” - esclamammo insieme ridendo.
“Non ne vale la pena Gabriel” - gli suggerì.
“La miglior rivincita sarà sconfiggerli in quello in cui sono più bravi. Niente fa più male dell’orgoglio ferito. Ci alleneremo senza sosta e duramente, diventeremo i migliori protettori che ci siano”.
“Avranno ciò che meritano, dobbiamo solo avere pazienza. Agire d’impulso ci porterà solo a fare qualche sciocchezza” - conclusi indicando i resti della statua.
Raccolsi il naso di marmo che era finito vicino la mia scarpa e mi misi a giocherellarci.
“Una cosa la so. Non voglio arrendermi con Fabiano. È nostro amico e non possiamo abbandonarlo. Lui non ha finto con noi”.
“Lo so, anche se sono arrabbiato con lui, penso che tu abbia ragione: il Sire lo ha costretto ad allontanarsi da noi. Troveremo un modo per salvarlo da suo padre”.
“Me lo auguro, davvero Gab”.
“La sai una cosa?” - mi disse poi cambiando tono di voce.
“Quel giorno, prima che iniziasse tutto questo casino, ho esagerato davvero con te. Non avrei mai voluto che tu morissi al posto di mamma e papà”.
“Io… quando lo zio mi disse che non c’erano più, pensai che non ce l’avrei fatta, che non sarei sopravvissuto.
Poi ti ho visto, avvolta in quell’orribile coperta, con gli occhi inespressivi e la faccia di chi aveva visto la morte in persona. Ma eri lì, non eri andata via con loro. E ammetto, anche se me ne vergogno, di aver provato un’immensa gioia. Tu eri viva.
Leona, io sono felice che tu non sia morta con loro. Non voglio perderti. Mai”.
“E non mi perderai, resterò sempre al tuo fianco. Qualunque cosa accada, io ti proteggerò”.
Mi offrì il mignolo ed io lo agganciai con il mio.
“Finché di noi non rimarranno polvere e ossa. Resteremo sempre insieme”.
“Sempre” - gli promisi convinta, ignorando ciò che il destino aveva in serbo per noi.

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Capitolo 16
*** IL PROTETTORE SCOMPARSO ***


Capitolo 8 – Il protettore scomparso

La prima settimana al campo fu davvero dura. Con l’imminente trasferimento dei membri del campo di Roma e la nuova e frenetica lista di addestramento, il clima diventò sempre più teso. Fra un allenamento e l’altro non perdevo occasione di rifugiarmi in biblioteca alla spasmodica ricerca di qualche indizio che sarebbe potuto tornarmi utile per l’esame. Il nostro compleanno era alle porte e ancora non avevo la più pallida idea di come affrontare questa difficile prova. Assolutamente inutile risultò raccogliere informazioni in giro: era un tabù rispettato da tutti e, con scarsa la popolarità di cui godevo al momento, nessuno si sarebbe sognato comunque di dirmi niente. I capelli, dopo quel giorno, non crebbero più perciò non si presentò il bisogno di tagliarli di nuovo. Un po’ ne rimasi delusa ma dedussi che, come anche negli altri sporadici eventi in cui ero riuscita a manifestare i miei poteri, doveva esserci un fattore scatenante.
Nel frattempo il numero dei protettori scomparsi cominciò a diminuire lentamente e la cosa, anziché rincuorarmi, m’insospettì ancora di più.
Se per puro caso fossi stata un “rapitore”, di nome Frank – sì, Frank avrebbe potuto essere l’ipotetico nome di un tizio losco della malavita – dopo essere stato accusato degli atti commessi, la mossa più logica sarebbe stata quella di correre ai ripari al più presto finché le acque non si fossero calmate. Per far cadere ogni sospetto, insomma, un breve periodo d’inattività avrebbe fatto comodo.
La domanda era: chi avrebbe potuto rapire dei guerrieri così forti ed esperti? Tutto erano fuorché dei sprovveduti. Le statistiche, purtroppo, non andavano a favore della mia teoria.
Perché erano così sicuri che fossero stati rapiti piuttosto che pensare che fossero semplicemente morti?
Con tutta probabilità, un vampiro, magari un collezionista maniacale di cadaveri, li aveva semplicemente prosciugati e imbalsamati da qualche parte nel suo tetro castello degli orrori, mettendoli in vetrina, così che i suoi ospiti avrebbero potuto ammirare i suoi souvenir. Questa però era solo la congettura di una ragazzina che aveva decisamente trascorso troppo tempo chiusa in quella polverosa biblioteca a leggere storie terrificanti sui vampiri.
Forse un branco di lupi mannari aveva banchettato con i loro resti o ancora le fate oscure, facendo uso di alcuni sortilegi, stavano formando un esercito di zombie ed erano pronti a dichiarare guerra al nostro campo.
Più ci rimuginavo su, più la storia degli zombie non mi convinceva.
Poi mi tornò in mente un’immagine. Degli uomini vestiti di stracci, con i volti coperti, in sella a una mandria di Mustang neri come la notte, che cavalcano fieri nel bel mezzo di una tempesta coi fiocchi. La caccia selvaggia, i cavalieri fantasma, i rapitori di anime. Anche questa possibilità non era del tutto plausibile: se davvero fossero stati loro i rapitori, la gente rimasta al campo non avrebbe dovuto serbare alcun ricordo delle persone scomparse. E non era questo il caso.
Se non la smettevo con la mia ossessione per i casi irrisolti, questa storia mi avrebbe condotto alla follia.
Un giorno poi, Morgana mise totalmente in crisi tutte le mie fantasie. Mi raccontò, durante una delle nostre passeggiate, della grotta del giuramento, il luogo dove, un giorno non molto lontano, si sarebbe svolta la cerimonia che ci consacrava alla vita da protettori. Lì avremmo lasciato un segno del nostro passaggio e un simbolo del nostro impegno: l’impronta della nostra mano destra. Una volta terminato il giuramento, l’impronta si sarebbe accesa di un colore brillante e avrebbe continuato a splendere fino all’ultimo dei nostri giorni.
Ecco come facevano a sapere che, da qualche parte, quelle persone erano ancora vive. La luce delle loro impronte non aveva ancora perso il suo splendore.
Rimaneva, dunque, una sola possibilità. La talpa si trovava proprio sotto il nostro naso e il primo sospettato era il Sire. Purtroppo non avevo alcuna prova concreta per avanzare un’accusa del genere. Ero giunta a un vicolo cieco, perciò decisi di chiudere momentaneamente i battenti della mia indagine.
Trascorrevo le mie giornate tra muscoli sofferenti e pagine ingiallite dal tempo. Gab, come al solito, metteva a dura prova la mia pazienza. Apprezzavo la sua buona volontà e ancor più il suo entusiasmo, ma non poteva pretendere da me la luna. Mi ero appena affacciata a questa nuova realtà e quei ritmi assurdi, impossibili da sostenere, cominciavano a starmi stretti. Se non ci fosse stata Morgana a mediare fra noi avremmo finito sempre col litigare come solo due bravi fratelli sanno fare.
La compagnia di Fabrizio, al contrario, diventava sempre più piacevole. Scoprì che quel ragazzetto era, senza ombra di dubbio, uno delle menti più geniali che avessi mai incontrato. Un pozzo di conoscenza da cui attingere quando ne avevo bisogno, data la sua incondizionata e spassionata disponibilità nei miei confronti. Forse stavo approfittando un po’ troppo della sua gentilezza? Fra un pezzo di cioccolata e l’altra – lui si che sapeva come comprarmi a dovere – il mio maestro personale allestì una specie di corso avanzato del sovrannaturale. Nel giro di poco tempo avevo recuperato il programma di quasi metà anno. Probabilmente potrebbe suonare presuntuoso da parte mia, ma questo poté realizzarsi grazie anche alla mia straordinaria capacità di apprendimento, assorbivo tutto come una spugna. Evidentemente a Gab erano toccati i muscoli, a me il cervello. La mente e il braccio. Non che fosse una magra consolazione, il fatto era che non potevo fare a meno di invidiarlo. In quella settimana, gli stessi progressi che avevo ottenuto con lo studio, lui li aveva conseguiti in quasi tutte le discipline fisiche dando del filo da torcere persino a quelli che già da tempo si allenavano al campo. Ben presto il “bambino prodigio” non sfuggì all’attenzione dei cani che ci stavano alle calcagna e la loro presenza si fece sempre più pressante. Nascosti dietro a un albero o fra viottoli bui, continuavano a starci col fiato sul collo nonostante avessero altre questioni molto più importanti di cui occuparsi.
Le cose precipitarono il giorno che Gab, per fare colpo su delle ragazze, sollevò senza alcuno sforzo una palla metallica di oltre cento chili. Perché non indossare una maglietta con scritto: “Hey, sono il vostro amichevole medjai di quartiere”, il nostro segreto sarebbe stato meno a rischio. Discutemmo a lungo di quella sua bravata ma non ho la minima intenzione di stare qui a raccontarlo.
Mentre la frustrazione per la lontananza di Fabiano cresceva, Marlena ne aveva approfittato per stargli più appiccicata del solito, se ciò era possibile. Erano diventati inseparabili, la iena aveva circuito la sua preda e non l’avrebbe lasciata andare. Lui dal canto suo non glielo impediva mica, magari gli stava bene che gli ronzasse attorno tutto il santo giorno. Se era quello che voleva, chi ero io per obbiettare. C’era soltanto una cosa che non riuscivo ad accettare ed era proprio l’atteggiamento accondiscendente che riservava al padre, sembrava quasi che lo telecomandasse con gli occhi. Lui impartiva un ordine e Fabiano gli obbediva prontamente senza fiatare. Cosa lo spingeva a essere così servile, perché lo aveva in pugno? Gli inesistenti sensi di colpa? Lo stava ricattando? Questo non potevo saperlo perché ogni disperato tentativo di approccio svaniva come fumo tra le dita. Stava attentissimo a non incrociare il mio sguardo e agli allenamenti, quando poteva, si faceva spostare di gruppo pur di non far parte dello stesso. E ciò mi feriva mortalmente. Una volta mi tagliai perfino apposta mentre lavoravo il legno pur di attirare la sua attenzione. All’inizio notai una reazione spontanea: girò impercettibilmente la testa dalla mia parte ma tornò subito a occuparsi delle sue cose.
Quel sabato mattina mi alzai molto presto per andare a correre nei boschi in piena solitudine. Non c’era modo migliore di cominciare la giornata. La macchia verde degli alberi mi sfrecciava ai lati e la frescura dell’aria mattutina mi aiutava a restare sveglia. Dopo aver percorso alcuni chilometri, mi riposai su un tronco abbattuto ricoperto di muschio e licheni. Una timida palla infuocata faceva capolino all’orizzonte mentre le creature del bosco si risvegliavano. Porsi il mio orecchio alle mille voci della natura: mamma passero che nutre i suoi piccoli, un fiumiciattolo che scorre fra gli interstizi dei ciottoli, il ticchettio di un insetto, fra tappeti di foglie marce, un fruscio frettoloso, come di fuga, il gemito cupo, soffocato di una volpe, un refolo improvviso di un vento viaggiatore che piega dolcemente i rami con uno scrosciante cigolio, l’odore di terra bagnata, un battito d’ali, il mio respiro, un cuore pulsante in lontananza. Degli zoccoli furiosi che rompono lo specchio di una pozzanghera melmosa, sempre più vicini. L’eco di un nitrito. Un cavallo bianco e nero con un balzo elegante volò sopra la mia testa. Completamente imbizzarrito, batté i suoi zoccoli sul terriccio solidificato nitrendo a più non posso. Mi avvicinai senza alcun timore afferrandogli le briglie di cuoio e tentai di ammansirlo con dei versi.
“Non hai nulla da temere, ci sono qui io” - gli sussurravo per evitare che si spazientisse.
Quasi come se fosse stato confortato dalle mie parole, appoggiò il muso sulla mia guancia e chiuse gli occhi sputando sbuffi caldi dalle narici.
 Gli accarezzai la mascella e gli dissi: “Che cosa ha potuto spaventarti così tanto?”.
Spostai il palmo della mia mano al centro fra i suoi occhi. Non riuscì a trovare una valida motivazione a ciò che accadde dopo: immagini frammentate, come fotogrammi, troppo veloci e intense per riuscire a ricordarli. Non erano ricordi miei. Ebbi la netta sensazione di aver visto attraverso gli occhi di quel cavallo. Un terrore strisciante mi attanagliò le viscere e mi tolse il respiro. Il cavallo, ormai calmo, nitrì ancora una volta.
“Non cosa, ma chi. Non dovrebbe esistere, un abominio fra tutto ciò che è vivente, mia Regina” - rimbombò una voce femminile nella testa.
“Regina? Ma che cos…”.
“Oh, grazie al cielo Calliope!” - esclamò una ragazza minuta con i capelli ricci.
“Vieni qua bella” - continuò rivolgendosi alla sua giumenta.
“E tu chi sei?” - mi chiese mentre mi rimettevo in piedi.
“Leona Braveheart. Piacere di conoscerti”.
“Veronica Monteblu. Cosa ci fa una ragazzina come te sola nel bosco?”.
“Stavo…”.
“Non importa, devo correre al quartier generale. Vuoi un passaggio?”.
Galoppammo in groppa a Calliope fino alla cittadella poi mi fece scendere da cavallo e chiamò i capi dicendo: “È vivo, è vivo. Felice è vivo, l’ho visto con i miei occhi”.
“Calmati Veronica. Dove lo hai visto? Perché non è con te?” - disse Danilo, uno dei capi della fazione dei licantropi.
“L’ho incontrato oltre lo Specchio, sembrava smarrito. Ho cominciato a tempestarlo di domande ma lui in preda a un gran mal di testa non è riuscito a rispondere a nessuna di esse. Continuava a dire soltanto “tieni lontana quella cosa da me, vattene” ma a dire il vero non ho capito a cosa si riferisse. Non aveva un bell’aspetto, io ho provato ad aiutarlo. Poi Calliope si è innervosita ed è fuggita via, non so per quale motivo e quando mi sono girata, Felice non c’era più”.
“Che sia preda di un sortilegio di una fata oscura?” - disse una donna.
“O peggio se è stato morso da un lupo mannaro?” - disse un’altra.
“Io non lo so ma dobbiamo trovarlo!”.
“Che cosa sta succedendo qui?” - intervenne il sire con Gomez al suo seguito.
Accorsero anche Romeo con la madre di Morgana, Hans, Miss Fiona, lo zio e Bernardo incuriositi da tutto quel baccano proprio al centro della piazza.
“Veronica ha ritrovato Felice” - li informò Danilo.
“Questa è un’ottima notizia, e dov’è?” - chiese Miss Fiona.
Mentre Veronica raccontava brevemente l’accaduto, vidi il Sire e Gomez impallidire sempre di più.
“Hans, chiama a raduno gli strateghi per decidere sul da farsi”.
“Certo, clementissimo”.
“Danilo, corri in armeria per preparare le armature. Chiederò aiuto ai protettori di Roma. Dobbiamo prepararci all’eventualità di uno scontro. Non sappiamo che intenzioni abbia Felice o cosa sia rimasto della sua coscienza”.
Stava per impartire un altro dei suoi ordini ma si fermò immediatamente quando notò la mia presenza.
“Si può sapere cosa ci fa la mocciosa qui?” - esclamò Gomez dando voce ai pensieri del suo Sire.
“Ho visto Leona tutta sola nel bosco e l’ho portata con me” - rispose Veronica per me.
“Se non fosse stato per lei, chissà Calliope dove si sarebbe andata a cacciare”.
Calliope nitrì in segno di assenso e mi scompigliò i capelli col suo sbuffo.
“La cosa non ha granché importanza, non dovrebbe essere qui ad ascoltare! Vai via e vedi di non ficcare il naso dove ti pare. Tse, ragazzini”.
“La accompagno al campo di addestramento” - intervenne lo zio.
“Sarà meglio”.


Note dell'autrice: Ciao a tutti lettori silenzioni! Vorrei fare una comunicazione di servizio che non c'entra nulla col capitolo. Mi sono appena accorta di aver scambiato l'ordine del capitoli 8.1 LA GUERRA DEI COLORI  con l'8.2 EFFETTO OSMOSI O...O  Spero mi perdonere per questo errore imbecille dato che uno (il capitolo che ricorda una partita di paintball XD) é la conseguenza dell'altro! (il capitolo dove Fabiano e Gabriel non sembrano andare esattamente d'accordo). Ho sistemato tutto e chiedo umilmente venia per questa svista, che non si ripeterà mai più, promesso. Quindi ricordate: prima leggete la guerra dei colori e poi l'effetto osmosi se no non si capisce una mazza. Buona lettura!

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Capitolo 17
*** LA GUERRA DEI COLORI ***


CAPITOLO 8.1- LA GUERRA DEI COLORI

Non mi rivolse la parola per tutto il tragitto. Soltanto quando arrivammo alla staccionata, mi chiese se avevo visto qualcosa. Io risposi di no, non sapevo cosa era successo, ero ancora troppo confusa. Poi chiamò anche mio fratello e ci condusse nel suo studio con la scusa che ci avrebbe rubato solo qualche minuto. Ci annunciò che Bernardo era riuscito a dare degna sepoltura ai nostri genitori e che quando ci sarebbero state le condizioni adatte, ci avrebbe dato la possibilità di salutarli per l’ultima volta. Poi ci disse che di lì in avanti sarebbe stato il nostro tutore e ci mostrò i documenti del nostro affidamento. Lesse alcune parti del testamento di mamma e papà a bassa voce e lo ripose nel cassetto. Si avvicinò alla cassapanca e tirò fuori una lunga e magnifica spatha luccicante. La affidò a mio fratello con fare solenne. L’arma di bronzo era lunga quasi quanto Gab. Il fodero, invece, riccamente decorato, era stato realizzato con una lega di rame e minio, un metallo molto resistente simile all’oro. Lui vacillò nell’impugnarla con una sola mano, aveva sottovalutato il suo peso ma, trovato il baricentro, sembrò quasi che gli appartenesse da sempre. La spada era di origini celtiche, risalente all’età del bronzo, al 60 a.C. Nostro padre l’aveva trovata sepolta nella radura scozzese di Culloden durante una delle sue spedizioni. Zio Mark sfoderò la sua e fece toccare le due lame. Symphony, quello era il suo nome, produsse un dolce tintinnio cristallino, che si propagò in tutta la stanza. Gab, incantato da quel suono melodioso, colpì nuovamente l’altra spada e rimase in ascolto. Era come se cantasse per lui. Era la sua sinfonia.
Purtroppo le Kopis di mia madre non erano più nelle condizioni adatte per essere usate in battaglia, l’incendio e l’ultima lotta le avevano irreparabilmente distrutte. Solitamente le armi dei genitori venivano tramandate al primogenito ma noi eravamo gemelli e l’unica eredità rimasta era Symphony. La decisione stava a noi. Avevo un ricordo ben diverso di quella spada, il solo pensiero di toccarla mi dava i brividi. Non lo diedi a vedere, però, e volsi il mio sguardo da un’altra parte. E comunque Gab e Symphony erano fatti l’una per l’altra, non avrei avuto il cuore di separarli, perciò decisi di tenermi le Kopis della mamma anche se praticamente inutilizzabili. Avrei potuto farle riparare dal fabbro del posto dopo l’addestramento.
Mentre Gab faceva un paio di flessioni, Morgana ed io ci riscaldavamo i muscoli in vista della lezione dell’odioso Hans.
Fabiano entrò al campo, ciondolante come un morto vivente, con due appariscenti borse nerastre sotto gli occhi.  Chissà quella notte qual era stata la causa della sua insonnia. Accortosi di noi, come sempre, trovò posto il più lontano possibile seguito da Marlena, Ascanio e gli altri. Ovviamente Marlena non perse l’occasione di mostrarmi la più credibile espressione trionfale che conosceva. Pensai seriamente che fosse più antipatica degli altri giorni e comincia ad escogitare un piano per fargliela pagare nell’immediato. La sera precedente, c’era stata una lieve pioggerellina sufficiente ad inumidire il terreno. Con la scusa di osservare le armi esposte nella teca del casolare, mi avvicinai furtiva alle spalle di Marlena. Feci finta di essere un’esperta di lame e quant’altro, anche se ero del tutto ignorante in materia, con Morgana e Gab, e per puro caso ascoltai un pezzo della discussione.
“Mio padre ha detto che oggi dovrebbero avvenire i primi trasferimenti dal campo di Roma. Al momento alloggeranno nelle tende” - stava raccontando Fabiano ai suoi amici. Anche la sua voce, come il suo aspetto, era spenta.
“Figurati, quelli vivevano sotto terra, gli sembrerà un hotel a cinque stelle”.
“Dove precisamente?”.
“Nella prateria dopo i boschi, li ci sarà spazio a sufficienza per tutti”.
“Non è che la cosa mi vada a genio. Questa è un’invasione bella e buona”.
“Suvvia Carlo, sono protettori esattamente come noi. Dovremmo essere solidali con loro”.
“Infatti, mio padre ha ordinato che fossero costituiti degli squadroni per l’accoglienza e l’assistenza per evitare che si creino episodi spiacevoli”.
In ogni sua frase non faceva che dire mio padre, mio padre, mio padre. Un insopportabile disco incantato.  Poi anche qualcun altro notò lo stato pietoso di Fabiano.
“Hey amico, ieri sera hai fatto baldoria fino a tardi, eh?”.
“Magari. Mio padre…” - lo nominò per la trecento quarantaduesima volta – “ha deciso di incrementare il numero degli allenamenti individuali e l’unico momento disponibile, beh, è di notte. Ho davvero dormito pochissimo” - disse sconsolato.
“Wow, già sei passato agli allenamenti individuali? Deve essere fantastico essere figli del sire. Riceverai un addestramento speciale”.
“Questo è niente per chi come lui è destinato alla grandezza. Fabiano diventerà il più fenomenale cacciatore di vampiri che si sia mai visto, non è vero Faby?” - disse Marlena accarezzandogli la guancia.
Faby? Blé, ripugnante, avevo la carie ai denti. Quel gesto eccessivamente smielato mi convinse ancor di più ad attuare la mia piccola vendetta.
“Ciao ragazzi” - dissi salutando Fabiano e i suoi amici più increduli che mai.
Alcuni risposero per educazione al mio saluto, altri invece fecero finta di nulla. Fabiano, visibilmente intrigato, mi studiò attentamente, aveva capito che avevo qualcosa in mente. Sapeva benissimo che non ero miss socievolezza.
“Marlena, oggi sei più radiosa del solito e i tuoi capelli sono stupendi. Ah! Quanto t’invidio!”.
Mi guardò come se avessi detto qualcosa di sconcio. Dovetti trattenere le risate.
Immaginavo che morisse dalla voglia di riempirmi d’insulti ma non poteva farlo: non poteva mostrare il suo lato oscuro a Fabiano o cosa avrebbe pensato di lei, per l’amor del cielo!
Decise di difendersi utilizzando una spudorata falsa modestia.
“Non dire sciocchezze Leona cara. I miei capelli non hanno nulla di speciale. Sono una comunissima ragazza “ - disse facendo svolazzare volutamente al vento la sua chioma dorata, ravvivandola con un gesto della mano mentre i ragazzi le sbavavano dietro. L’aveva astutamente buttata su una banale conversazione fra ragazze.  
“Normale tu? Sei a dir poco straordinaria Marlena. Nessuna al campo è bella come te” - la adulò mio fratello, reggendomi il gioco.
“Ah, Gab. Che adulatore che sei! E comunque anche tu non sei niente male”.
“Non lo nego” - le rispose orgoglioso incrociando le braccia al petto con aria di superiorità.
“Certo i tuoi capelli sembrano quelli di una fata ma credo che mia sorella conosca un metodo per renderli ancora più favolosi”.
“Sì, sì, quando l’ha detto anche a me, non ne ho più potuto fare a meno” - disse Morgana abbandonando per un attimo la sua inguaribile timidezza.
“Se diventano belli come i tuoi non vedo l’ora di sentire di cosa si tratta” - disse Lilia ridendosela con Carlotta.
“A essere sincera, sono abbastanza fiera dei risultati. Magari dopo potrei darti anche qualche consiglio su come aggiustarti il naso” - la provocai facendole l’occhiolino.
Lilia stava per cercare la rissa ma fu fermata dalla sua amica.
“Allora Marlena, vuoi che ti sveli il mio segreto?”.
“Non ce n’è bisogno, sarai gelosa del tuo trucchetto”.
“No, Marlena. Insisto! Mi fa piacere aiutare una persona splendida come te. Perché non glielo dici Morgana?”.
Morgana le fece segno di avvicinarsi e Marlena non ne poté fare a meno. Tutti gli occhi erano puntati su di lei. L’avevo messa all’angolino, ormai non poteva rifiutare un gesto così gentile.
Non seppi mai cosa Morgana le confidò all’orecchio. Sapevo soltanto che quella era appena diventa la giornata più bella che avessi trascorso dal nostro arrivo.
Raccolsi da terra una po’ di fanghiglia e cominciai a spalmargliela sui capelli. Glieli massaggiai per bene fino a quando la sua testa non puzzò di sterco di maiale.
Lei, sbalordita più che mai, cominciò a balbettare cose senza senso.  Conservai gelosamente il ricordo della sua faccia scioccata e infuriata.
“E se vuoi la pelle liscia come quella di un bambino eccoti il resto!” - disse Gab lanciandogli una palla di fango in viso con una mira infallibile. Quello era un messaggio di guerra, chiaro e forte: “non sai con chi hai a che fare”. Ci fu un attimo di silenzio e poi Marlena cominciò a sbraitare senza ritegno. Io, Gabriel e Morgana ridemmo a crepapelle fino a che ci mancò il respiro e non eravamo i soli. Mi accorsi che Fabiano aveva sollevato leggermente un angolo della bocca. Non lo vedevo ridere da un po’.
Poi una voce gridò improvvisamente: “Lotta di fango!”. E si scatenò l’inferno.
Nel giro di qualche minuto quella febbre bellicosa si diffuse fra tutti i ragazzini lì presenti, nessuno escluso, senza alcuna differenza a dividerci. Persino la versione zombie di Fabiano non si tirò indietro.
Il fango cominciò a volare da per tutto e diventammo delle rivoltanti poltiglie marroni. E non c’era rabbia o violenza in tutto ciò. Si rideva di cuore. Per una volta la spensieratezza s’impadronì del nostro animo. Eravamo finalmente dei bambini.
Nella foga della battaglia nessuno si accorse che una figura alta e macilenta ci osservava con un ghigno sulle labbra. Interruppe quel tafferuglio melmoso applaudendo con mestizia.
Diventammo tutti delle statue di fango, irriconoscibili l’uno dall’altra.
Amadeus, il generale degli stregoni, tamburellava col piede sul terreno mentre schioccava fastidiosamente la lingua.
“Com’è che si dice in questi casi? Mettetevi sull’attenti?” - ci chiese lui dubbioso.
Formammo istantaneamente delle righe ordinate, gomito a gomito, sudici dalla testa ai piedi.
“Molto bene. Immagino che debba giustificare l’assenza del vostro insegnante. È stato richiamato per dare una mano con i protettori del campo romano, infatti, sarà impegnato per un paio di lezioni” – disse annoiato.
Ci guardammo tutti con visi raggianti: non avremmo avuto fra i piedi quell’impiastro almeno per un po’. Soffocai il mio spirito esultante.
“Adesso, chi sarebbe così gentile da riferirmi il colpevole di tutto questo?” - domandò emanando un’aura terrificante. Restammo tutti zitti e al nostro posto.
“Il primo che me lo dice salterà le lezioni per una settimana”.
E tanti cari saluti alle belle statuine. Un gruppetto, compresa Marlena e le sue amiche, additarono me e mio fratello in un battito di ciglia.
“Traditori schifosi”.
“Veduti!” - bisbigliammo io e Gab.
“Ovviamente stavo scherzando. Non ho l’autorità per farlo. Le spie s’intratterranno qualche minuto con me dopo la fine della lezione”.
“Oh, oh, ben vi sta!” - li motteggiò Gab.
“I gemelli possono farsi avanti fin da subito”.
“Merda”.
“Gabriel!”.
“Sì, scusa”.
Facemmo qualche passo avanti a testa bassa. Prima che potessi mostrare tutto il mio pentimento, Amadeus ci disse: “Mimetizzazione”.
“Cosa?” - esclamammo.
“Mimetizzazione, sarà il tema della lezione di oggi”.
“È scritto nella legge della natura. Alcuni esseri viventi si camuffano con l’ambiente per sopravvivere alle grinfie dei loro predatori. Basti pensare al geco dalla coda piatta, che ha un aspetto simile a quello delle foglie o l’insetto stecco che si nasconde fra la vegetazione o il piumaggio del gufo che gli consente di confondersi perfettamente con le cortecce degli alberi; altri utilizzano questa tecnica per non essere visti dalla preda per poi attaccare a sorpresa prima che fuggano, come il leopardo o il leone.
Oltre a distogliere l’attenzione per via dell’aspetto insolito, un contributo non indifferente è offerto, certamente, dal cattivo odore che scoraggia il predatore nella sua impresa. Non importano le dimensioni, se si ha la flemma giusta questo metodo può mettere in discussione la nostra sopravvivenza o meno. Applicare del fango sul corpo potrebbe risultare una mossa vincente, anche se non è l’unico modo per mascherare la nostra identità. Quindi mi congratulo con voi per lo spirito d’iniziativa, ne terrò sicuramente conto nella valutazione del vostro esame”.
Adesso sì che potevamo gongolare. Finalmente un colpo di fortuna!
“Dato che siete pronti, direi che potete indossare le tute che vi ho portato per la lezione di oggi”. Amadeus schioccò le dita e comparve dal nulla un baule pieno di vestiti. Mi guardai stranita con Gab e studiai la sua espressione per controllare che non stessi sognando. Quindi Amadeus era uno stregone? Cosa ci faceva al campo? Ricopriva anche un’alta carica all’interno della gerarchia dei protettori. Perché era il nostro insegnante? Forse mi facevo troppe domande. Non sarei mai guarita dalla sindrome del perché.
A me e Gabriel toccò distribuire le tute e tutto l’occorrente per completare il nostro look da piante. Mi sentivo piuttosto ridicola, come tutti gli altri del resto, ma non credevo che lamentarsi avrebbe portato a qualcosa di buono. Dopo di che lo stregone batté le mani e tutti noi imbracciammo dei fucili e un porta-granate avvolse il nostro torace. Solo che nei contenitori non c’erano bombe ma cartucce colorate di blu, altre di rosso. Ci divisero in due squadre: protettori contro vampiri. Io, Gab, Morgana e Fabrizio finimmo in quella degli protettori mentre Fabiano, Marlena e Ascanio in quella dei vampiri. Avevamo un’ora di tempo per trovare e salvare l’umano nascosto nel bosco prima della squadra avversaria. Chi veniva colpito almeno tre volte dalla fazione nemica, era eliminato. Scoprimmo solo più tardi che nelle cartucce colorate era stata aggiunta una soluzione orticante. Una simpatica sorpresa del nostro nuovo insegnante.
Non appena la battaglia ebbe inizio, l’aria si tinse di blu e rosso e aveva già mietuto le prime vittime. Fu la carneficina, un putiferio di colori. Tentai di aiutare Fabrizio che, inspiegabilmente, era già stato colpito tre volte. Col suo fare esageratamente melodrammatico mi disse:
“Vai, non pensare a me. Ho combattuto con onore, non piangere, no. Non ti fermerò se griderai vendetta!” - esclamò con una macchia rossa al centro della fronte.
“Fabrizio, sei pieno di pustole”.
Lui cominciò a grattarsi come un matto e a rotolarsi per terra per poi correre via a gambe levate in cerca di un rimedio per la sua prurigine.
Per un pelo non fui colpita  anch’io da una cartuccia di Marlena, grazie alla prontezza di mio fratello. Com’era prevedibile, mi aveva preso di mira.
“E adesso che facciamo?” - chiese una ragazza della nostra squadra.
“Dobbiamo perlustrare la zona” - suggerì Gab mentre correvamo fra gli alberi.
“No, prima dobbiamo trovare un rifugio ed escogitare un piano o saremo eliminati” - controbatté Morgana. 
“Non abbiamo tempo. Non troveremo mai l’umano se restiamo nascosti!”.
“Dobbiamo essere sicuri di essere soli ed utilizzare la mimetizzazione per muoverci in tutta sicurezza”.
“Baggianate, io vado in prima linea. Se voi femminucce avete paura lasciate il lavoro sporco a me”.
“Attenti!” - gridai. Un missile cremisi sfrecciò proprio in mezzo a loro. Che carini, fu il loro primo litigio. Peccato che non fosse assolutamente il momento adatto.
“Dannazione Paolo a cosa stavi mirando!” - disse una voce a distanza.
“Lì dietro quella roccia sbrigatevi!” - gli ordinai mentre premevo il grilletto. Anche il mio colpo andò a vuoto. Cosa mi aspettavo? Non avevo mai impugnato una pistola in vita mia, figuriamoci un fucile. Seguirono una pioggia di proiettili sulla superficie nel nostro nascondiglio. Tuonavano come le saette di Zeus e la polvere si disperdeva nell’atmosfera come granelli di sabbia rossa.
“Non respiratela” - gli consigliai ma era troppo tardi. Una delle nostre compagne tossiva come una malata terminale.
“Brucia, brucia” - piangeva mentre si strofinava gli occhi.
“Mantieni la calma, adesso ti portiamo al fiume. Morgana potresti…”.
“Chi hai chiamato femminuccia, eh? - disse Morgana puntando la pompa del fucile sul pomo di Adamo di Gab.
“Non c’è nulla di male ad avere paura” - cominciò a dire per poi finire a piagnucolare come un babbeo quando Morgana spostò l’arma sulla sua testa.
“Lea aiutami!”.
“Si può sapere cosa state facendo? Morgana mettila via, per favore, è nostro alleato”.
“Ecco, infatti!”.
“Lo puniremo dopo la lezione per ciò che ha detto”.
“Esatto… Che cosa?” - disse lui offeso.
“Che senso ha Lea.  Sono loro i più forti, non hanno mai perso una partita”.
Gab coprì la bocca del fucile con la mano e le disse: “Questo prima che arrivassimo noi”.
“Dobbiamo concentrarci sulla vittoria e Gab ci serve” - dissi a Morgana.
“Devi sapere che mia sorella odia perdere…”.
“Morgana porta Renata in riva al fiume e sciacquale la faccia, dovrebbe alleviare il bruciore. Io farò da diversivo mentre Gab andrà alla ricerca del nostro target. Ci vediamo ad est del fiume. Tieniti pronto a colpire” - incitai mio fratello.
“Ai tuoi ordini comandante!” - disse sorridendo.
“Ora!”.
Scattai in avanti e cominciai a correre verso di loro a zigzag per confondere la mira dei nostri avversari. Quella mattina avevo studiato il terreno di battaglia alla perfezione.
Uno esclamò: “Cos’è un fantasma?”.
L’altra invece disse: “Corre veloce come un vampiro!”.
Quando fui abbastanza vicina scivolai sotto le gambe del mio nemico e  lo tinsi di blu là dove non batte il sole. Gab gli tese un agguato da dietro e li riempì di vernice pervinca praticamente da per tutto.
Morgana e Renata erano riuscite a fuggire sane e salve.
Abbassai la guardia e quell’errore mi costò caro. Davamo la schiena a Marlena, Carlotta e Lilia.
“Lea attenzione!” - disse Gab mentre mi spingeva via e si beccava una pallottola sulla spalla.
“Fanculo Carlotta” - gli urlò Gab da dietro un albero.
Cominciai a sparare all’impazzata urlandogli “me la pagherete” - con lo scopo di intimidirle. Sentii un lamento strozzato, avevo beccato qualcuna di loro per lo meno.
Poi presi mio fratello e ci addentrammo ancora di più nel fitto del bosco approfittando del fatto che quelle stupide ci avrebbero seguito. Mi venne un’idea. Perché non sfruttare il nostro travestimento? Mi accovacciai all’interno della corteccia di un albero enorme ed esortai Gab a fare la stessa cosa. Lui trovò una tana fra un cespuglio di more. Limitammo i respiri allo stretto indispensabile e aspettammo pazientemente.
“Non li vedo più, dove sono andati?”.
“Non possono essere scomparsi nel nulla”.
“Fate silenzio, idiote. È chiaro che si sono nascosti”.
“Che roba, avete sentito cosa ha detto sul mio naso? Se la prendo gliela faccio vedere io a quell’insignificante ragazzina”.
“Chi se ne frega del tuo naso Lilia! Chi mi toglierà tutta questa melma dei capelli. Dannati Braveheart”.
Ci passarono davanti senza accorgersi di nulla. La mimetizzazione funzionava alla grande. Dovevo solo decidere se fuggire o attaccarle alle spalle. Stava andando tutto secondo i piani finché Gab, con qualche movimento di troppo, spezzò un ramoscello.
“Andate ci penso io qui” - gli disse, piano, Marlena.
Quatta quatta fece qualche passo verso il cespuglio di more, cercando fra le foglie. Era la mia occasione. Puntai il fucile dietro la sua schiena ma lei schivò il colpo abbassandosi e mi sparò a sua volta. Dapprima sentì una fitta dolorosissima alla gamba poi si trasformò in una potente orticaria. Lei sparò di nuovo ed io scappai, claudicante, dietro un altro albero. Trattenni il forte impulso di grattarmi.
“Non puoi sfuggirmi, sento l’odore di vernice fresca”.
“Devi avere un olfatto sopraffino, Marlena, perché io riesco solo a sentire la puzza nauseabonda dei tuoi capelli”.
Partì un altro colpo. Non mi sfiorò per poco il fianco.
“Hai poco da scherzare, ti farò a pezzi”.
Improvvisamente qualcosa sbucò fuori da un cumulo di foglie. Quattro ragazzi della squadra protettori sparavano a ripetizione contro Fabiano. Lui, con le foglie secche ancora fra gli indumenti, scansò ogni proiettile e li ripagò con la stessa moneta.  Con una serie di capriole acrobatiche scivolò fra loro come acqua da un ruscello e li colpì con la ferocia di un orso.  Li fece fuori tutti e quattro nel men che non si dica.
“Ora Gabriel, stagli addosso! Io me la caverò”.
Gabriel uscì dai cespugli e partì all'inseguimento di Fabiano, ferendolo alla schiena.
“Ti farò diventare tutto blu!” - disse mentre si rincorrevano.
Mi ritrovai Marlena di fronte e con il manico del fucile mi colpì la tempia facendomi perdere i sensi. Quando ripresi conoscenza, avevo la testa completamente sommersa. Qualcuno la tratteneva giù per evitare che riemergessi. In preda al panico annaspai e bevvi molta acqua. Dopo di che Marlena mi afferrò e mi tirò fuori da quello stato di asfissia, senza tante cerimonie.
“Buon giorno principessa” - e mi arrivò una pedata nello stomaco.
“Principessa dei perdenti” - mi canzonò Lilia dandomi un pugno in faccia.
“Adesso sì che ci divertiamo. Appendiamola a testa in giù e riempiamola di proiettili”.
Provai a difendermi ma ero ancora troppo intontita per reagire. Carlotta prese una corda e me la attorcigliò stretta attorno alle caviglie in modo tale che non potessi muovermi e m’issarono mollandomi a testa in giù, penzolante, da un ramo di un albero.
“Dovreste vergognarvi, riuscite a farla franca soltanto perché siamo tre contro uno. Non sarà sempre così, brutte deficienti” - dissi sputando il sangue che avevo in bocca.
“Noi facciamo gioco di squadra, cara Leona. E potrei benissimo batterti, anche se fossi sola. Adesso chiudi il becco e goditi l’esecuzione. Caricate i fucili” - ordinò alle sue compagne.
Nell’istante in cui finirono di alloggiare le cartucce nella feritoia d’immissione, tre ombre sbucarono dalla vegetazione. Ludovico, Guglielmo e Figaro, la più improbabile delle squadre di salvataggio, vennero in mio soccorso latrando come lupi. Visti arrivare i miei tre cavalieri del cioccolato fondente - li chiamavo così giacché condividevamo la stessa passione per i dolci – Marlena e le altre furono colte alla sprovvista e si prepararono al peggio. Aprirono il fuoco da ambo le parti e per un attimo, dove le cartucce s’incontrarono, esplose un pulviscolo dal colore violaceo che si depositò lentamente su di noi. Quando il polverone viola si dissolse completamente, erano sicuramente andati ben oltre i tre colpi a testa disponibili. Marlena contò disperata le due macchie blu sulla sua tuta e scelse saggiamente di battere la ritirata. Inciampando sui suoi stessi piedi finì per scontrarsi con la snella corporatura di Renata. A causa della reazione allergica, aveva la faccia gonfia come se fosse stata punta da uno sciame di api, ma era ancora possibile distinguere il suo sorriso maligno incorniciato dai capelli castani umidicci. Sollevò il fucile piegando il gomito all’altezza della spalla e, osservando l’espressione sorpresa di Marlena attraverso il mirino, le scaricò tutta la tintura che aveva nel caricatore proprio il mezzo alla faccia con una risata folle. Anche se ancora dondolavo sottosopra, mi godetti quella scena pietosa ridendo a più non posso con Renata.
Dopo che Morgana mi fece scendere da quell’altalena rovesciata, ringraziai i ragazzi per essersi sacrificati al posto mio e andammo alla ricerca di mio fratello.
Avevo corso a lungo. Tornai nello stesso posto di quella mattina, il tronco era ancora lì e tutto taceva come se fosse deserto. La cosa non mi convinceva per nulla. Lo scricchiolio dei rami sotto i miei piedi era l’unica fonte di rumore in quella radura verde. Indietreggiavo lentamente puntando il fucile davanti a me, mi tremavano le mani. Una tordela cinguettava allegramente e mi fissava con le sue pupille nere. Udì di nuovo una voce nella mia testa: “Guarda dietro di te”. La ascoltai. Il tocco del metallo era gelido tanto quanto il suo sguardo, lo avvertivo anche attraverso la maglia.
Fabiano puntava il fucile dritto allo sterno con respiri regolari. 
“Che cosa stai aspettando? Mi hai preso, sparami.” - gli dissi sconfitta.
Lui tentennò, abbondonò la sua ridicola sceneggiata da duro e allontanò adagio il fucile. Avvolsi le mie dita attorno alla canna e la riportai dov’era.
“Ho detto: sparami” - gli ripetei con più convinzione.
“Io, io…” - diceva mentre perle di sudore gli scivolavano dalla fronte corrucciata.
Deglutì: “Io non posso farti del male” - biascicava con sguardo disperato.
“Fallo, non puoi farmi più male di quello che mi hai fatto già”.
Per poco non lasciò cadere l’arma dalle mani.
“È solo un gioco”.
“No che non lo è. Cosa hai fatto al labbro?”.
“Non sono affari tuoi. E poi cosa vuoi dire?”.
“Carica!!!!” - strillò Gab seguito da Morgana, Renata e altri quattro superstiti della nostra squadra.
Sapevo che era tutto troppo innaturalmente tranquillo: in una frazione di secondo scesero delle corde dagli alberi e con loro una decina dei nostri avversari capitaneggiati da Ascanio.
“È una trappola” - li avvisai ma già si sparavano addosso senza pietà.
Fabiano mi tirò via con sé da quel massacro e finimmo in mezzo a un arbusto, con il suo corpo a farmi da scudo. Eravamo così vicini che le punte dei nostri nasi si sfioravano ma, bilanciando il suo peso con le braccia, stava bene attento a non spingermi a terra. Ci guardammo negli occhi e il sangue mi schizzò in testa. Ringraziai la pece nera che mi ricopriva la faccia, così non avrebbe notato il mio rossore.
Ti prego spostati, pensavo o sarei morta d’infarto fra tre, due, uno…
“Sta ferma”.
“Per favore” - cominciò a dirmi supplicante - “State attenti a quello che fate. Mio padre sospetta di voi, vi vuole fuori dal campo ma non so il perché. Per il tuo bene, stammi lontano”.
Uno schiaffo avrebbe fatto meno male.
“Adesso scappa” - mi sussurrò sotto voce.
“È andata di là, mi è sfuggita!” - diceva ai suoi compagni indicando la parte opposta.
Osservai da lontano cadere i miei amici uno a uno. Eravamo circondati da cadaveri pieni di vernice rossa pruriginosa. Li stavano schiacciando con la loro superiorità numerica. Non potevo lasciare che finisse semplicemente così, regalandogli una vittoria facile. Che cosa potevo fare? Pensa, pensa, pensa, dicevo a me stessa con dei colpetti alla testa. Contai quante cartucce mi erano rimaste. Soltanto sei. Ne presi cinque e con lo stesso fucile ruppi l’involucro e raccolsi la polverina in un fazzoletto, chiudendolo con un nodo ben stretto. Adesso avevo un solo proiettile a disposizione e dovevo sperare su tanta, tanta fortuna. Afferrai per l’estremità il fazzoletto e lo feci roteare con un movimento circolare del polso poi, quando fu abbastanza veloce, lo lanciai sopra le teste della squadra dei vampiri e pregai che le lezioni private di Morgana avessero sortito un effetto positivo. Anche se si parlava di frecce, quanto potevano essere diverse dai proiettili? Imbracciai immediatamente il fucile e sparai. La cartuccia, con una traiettoria longilinea, bucò il fazzoletto ed esplose a contatto con la polverina creando una fitta nebbia celeste.
Approfittando del vantaggio, Morgana si fiondò come un’aquila sulle lepri. Una schivata là, un calcio lì, un pugno qui e li mise al tappeto uno dopo l’altro. Li sollevava con una sola mano e li spiaccicava a terra come mosche e la cosa era davvero bizzarra, considerato che il suo braccio aveva lo spessore di uno spaghetto. Se ne stava lì la bambolina, a volteggiare con le sue carinissime treccine arancioni mentre tempestava di ginocchiate il povero Alfredo con lo sguardo di un’assassina.
 Oltre ad essere la regina del tiro con l’arco era anche maestra di kung fu? Quanti altri talenti nascosti aveva quella ragazzina?
“Tu sei a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e meravigliosa! Altro che femminuccia, è stato fenomenale” - esclamò sbalordito Gabriel.
Morgana farfugliò qualcosa d’incomprensibile, lusingata come non mai dal complimento spontaneo di mio fratello.
Era tutto molto romantico, ma dov’era finito Ascanio?
Fu il suono di una fucilata a interrompere quella scenetta smielata insieme alle mie grida di sofferenza. Lo avevo visto arrivare e pensavo di potermela cavare. Lui però mi giocò un brutto tiro. Partirono due colpi, vicini fra loro. Scansai il primo proiettile ma il secondo mi ferì la spalla. Ancora un’altra cartuccia rossa e avrei fatto la fine dei miei compagni.
“Morgana!” - disse Gabriel. La prima cartuccia non era destinata a me.
Lo trovai chino su di lei mentre le sorreggeva la testa.
Aveva una grossa macchia cremisi sul petto. Sapevo benissimo che non era altro che colore ma non potei fare a meno di avere la pelle d’oca. Lei strizzava gli occhi senza dare a vedere quanto male le facesse, pativa composta in silenzio.
“Dannazione!” - imprecò Morgana e non era certo per il dolore al petto. Non è facile lenire l’orgoglio ferito di un guerriero. Quella rappresentava la sua ultima possibilità, era fuori dai giochi.
“Scusami Lea, questo è per il morso dell’altro giorno” - disse Ascanio ridendo.
Come aveva fatto a colpirci entrambe in così poco tempo? Che razza di cecchino era?
Mi resi conto di essere disarmata, avevo bisogno di un altro fucile ma non c’era tempo. Dovevo dare la possibilità a Gab di scappare. Era l’unico rimasto in grado di vincere la partita.
“Gab, allontanati da Morgana e corri a cercare l’umano. Devi trovarlo prima di Fabiano e non ho alcuna intenzione di perdere”.
“Che cosa vuoi fare? Credi davvero di essere alla mia altezza? Finora abbiamo scherzato. Non mi va di picchiare una ragazza indifesa e carina come te, perciò sta ferma e non fare storie. Non prendertela sul personale”.
Se c’era una cosa che odiavo con tutte le mie forze, quella era la sconfitta, Gabriel aveva perfettamente ragione. Non importava quanto la situazione fosse difficile o quanto fossi in svantaggio, non me ne sarei andata senza combattere. E sì, probabilmente non avevo alcuna possibilità contro Ascanio, che era il doppio di me, ma ciò che importava era il risultato finale.
Si alzò il vento e con esso le foglie. Si formò un ciclone e senza pensarci due volte lo scaraventai su Ascanio. Capì soltanto in quel momento che il vento era sotto il mio controllo.  Dapprima barcollai all’indietro spaventata dal mio potere, poi simulai indifferenza per mettere a tacere ogni sospetto. Ascanio, ricoperto dal fogliame, girava su se stesso come una trottola per strapparsele di dosso. Alcune nella foga le aveva anche inghiottite. E tra fango e foglie avevo appena partorito un ributtante mostro delle paludi che correva alla cieca abbaiante e confuso. Che ridere. Eccitata com’ero, potevo sentire l’elettricità dal bulbo dei capelli fino ai polpastrelli delle mani. Era l’energia che fluiva irruenta dentro le mie vene e che mi faceva sentire viva. Il fardello che portavo dentro, la punizione per aver rinnegato la mia vera natura, non mi apparteneva più, non sfregava più sgradevolmente contro le mie costole stridendo come unghia su una lavagna. Il mio cuore era libero di pulsare, avrei quasi potuto volare. Ecco come mi faceva sentire essere me stessa, ciò per cui ero stata creata. “Io sono nata per proteggervi”, avrei voluto gridare al mondo. Cosa c’era di sbagliato in me?
Mio fratello doveva esser sparito lungo il sentiero alberato, non lo vedevo da nessuna parte. Ero riuscita a lanciare il mio ultimo proiettile ed ero sicura che non avrebbe fallito. Gabriel era testardo come un mulo e competitivo anche più di me, Fabiano non aveva idea di quello che lo attendeva.
“Che cosa stai aspettando, finiscilo!” - m’istigava Morgana tra un lamento e un altro.
Ispezionai velocemente l’area alla ricerca  di un fucile ancora carico.
“Prendi il mio!” - disse e me lo lanciò. Lo presi al volo e indirizzai il compensatore su Ascanio, ancora irriconoscibile, ma non reggevo nulla fra le mani. Era scomparso nel nulla.
Una nuvoletta di fumo mi solleticò il naso e starnutì.
Ascanio rise amaramente.
“Sei stata eliminata, non puoi più fare nulla. Sono le regole”.
Che idiozia! Ci riprovai ancora e ad ogni mio tocco le armi si fecero trasparenti. Detestavo i trucchi di magia.
“Non è possibile” - esclamai - “Sono stata colpita soltanto due vol… E questo da dove salta fuori?”.
Avevo una chiazza sanguigna anche sull’altra spalla. Dove me la ero procurata, chi mi aveva sparato? Me ne sarei accorta no? Sarebbe stato doloroso. Il colore, però, era distribuito diversamente rispetto alle altre due macchie: con molta fantasia era possibile distinguere il contorno di una mano. E sapevo bene a chi apparteneva. Prima, quando eravamo nascosti dentro quel cespuglio, Fabiano mi aveva sfiorato la spalla per impedirmi di muovermi…aveva fatto il modo che la polvere non penetrasse dentro la maglietta, per questo non avevo sentito nulla. Assaporai il gusto aspro del tradimento.
“Ci sono mille modi per uccidere cara Leona” - disse Ascanio e poi il corno suonò.
Fine dei giochi. Qualcuno aveva trovato l’umano e non vedevo l’ora di scoprire chi fosse il vincitore.

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Capitolo 18
*** EFFETTO OSMOSI ***


CAPITOLO 8.2 – Effetto osmosi

Al limitare del bosco, qualcuno stava strillando squarcia gola. Gab e Fabiano avevano un pezzo ciascuno di quella che una volta doveva essere una bambola di pezza, delle dimensioni di una bambina vera, con del cotone che strabordava dalla stoffa. Gab lo strattonava e gli urlava contro facendo valere le sue ragioni mentre Fabiano non reagiva alle sue offese, manteneva la calma pur tenendogli testa. Il nostro insegnante osservava l’alterco fra i due stoicamente, senza intervenire.
“L’ho toccata io per primo, lo sai bene!” - disse Gab.
“Perché non vuoi ascoltarmi? L’allenamento consisteva nel salvare l’umano e toccandolo non hai risolto un bel niente. Se ci fossimo trovati nel mondo reale ed io fossi stato davvero un vampiro, l’avrei già uccisa. Avresti dovuto contrastarmi” - gli spiegava pazientemente Fabiano.
“Oh finalmente sua maestà s’è degnato di rivolgermi la parola. Che cosa vuoi? La riverenza?”.
“Smettila di fare il bambino”.
“Che noia che sei, e tu chi saresti l’adulto?”.
“Questo è solo uno stupido gioco, la vittoria era mia, tu non lo hai accettato e hai dilaniato questa stupidissima bambola per ripicca, confessalo! Sei solo un figlio di papà!” - gli rispose Gab gettando a terra quell’ammasso informe di bambagia e pezza.
“E per quale motivo avrei dovuto farlo? Sei stato tu a insistere e a tirare con troppa forza, io sono rimasto lì dov’ero!”.
“Va bene, va bene. Adesso basta per favore. Non possiamo discutere qui tutto il giorno”.
Amadeus gesticolò raffinatamente con le braccia e i pezzi della bambola si sollevarono da terra per poi scomparire dalla nostra vista.
“Ha ragione Fabiano. È vero che sei stato tu a prendere la bambola per primo ma avresti dovuto anche portarla in salvo. Tuttavia, entrambe le squadre si sono battute bene. Oggi avete imparato qualcosa di molto prezioso: il gioco di squadra. Se vi foste trovati in una situazione del genere, si sarebbe potuta considerare una vittoria per i protettori, per il semplice fatto che la maggior parte dei vampiri sono stati eliminati. Il nostro compito non è per nulla facile e non sempre riusciamo a salvare tutti, tenetelo bene a mente. Non dovete farvene una malattia, vi capiterà spesso di fallire. Avere cura dei propri compagni è importante tanto quanto salvare gli umani. Ho notato che ci sono molti elementi validi, proprio come speravo, e l’esercizio era proprio mirato alla vostra valutazione. Io direi che possiamo chiudere la partita con un pareggio”.
“Sei contento adesso? Come ci si sente ad essere privilegiati, eh? Come ti senti a essere il figlio dell’ammazza vampiri e a guardarci tutti dall’alto come se fossimo scarafaggi?”.
“Io non sono speciale e non mi è stato rivolto nemmeno un trattamento particolare, perché vuoi vedere a tutti costi il male dove non c’è. Non hai sentito quello che ha detto? È un pareggio”.
“Che cosa me ne faccio, io voglio giustizia!” - disse Gab e si alzò un coro di approvazione da parte della sua squadra. Dove voleva arrivare quella testa calda?
“Silenzio” - ci zittì il Sire arrivatoci alle spalle tacitamente.
“Posso sapere cosa è successo Amadeus? Che cos’è tutto sto frastuono? Non riesci a contenere una banda d’indisciplinati?”.
 “Sire, è appena terminata la lezione. I ragazzi si stavano dirigendo a pranzo, tranne alcuni di loro che dovranno intrattenersi ancora per un addestramento extra”.
Ci diede una rapida occhiata e poi disse: “Quale squadra ha trionfato?”.
“Nessuna, clementissimo. Entrambe le parti hanno dimostrato spirito di collaborazione e grandi capacità d’improvvisazione. Sfortunatamente non si è potuto stabilire chi ha vinto in modo definito. I cadetti hanno preso l’umano quasi nello stesso istante e nel pieno della frenesia l'hanno fatto a pezzi. Non ci sono vincitori “.
“ Sciocchezze. Come può mio figlio, essere paragonato a un novizio? Tutto questo è ridicolo” - affermò stizzito.
“Vuoi ingozzarli di gentili menzogne? “ - chiese sarcasticamente al nostro magico istruttore.
“Chi avrà pietà di loro là fuori? Il nemico se ne infischierà delle loro sventolanti bandiere bianche. Non esiste resa. La visione della missione che li attende deve essere più realistica possibile. Nessun vampiro batterebbe la ritirata o si farebbe intimorire da uno di noi. Sono creature egoiste e vendicative e anche se in modo contorto tengono molto ai membri del loro Clan. Una volta iniziata la battaglia, quelle sanguisughe vorranno sicuramente avere l’ultima parola”.
Sollevò le maniche della tunica scura e si diresse nell’armeria all’aperto. Impugnò due semplici bastoni e li spartì ai due protagonisti della lite.
Fabiano, spaventato a morte dal padre, si aggrappò all’arma che gli era stata consegnata e la strinse al petto. Gabriel, invece, con aria di sfida lo tenne al suo fianco per lungo.
“Combattete” - dispose il Sire.
Gab si acquattò come una pantera, i riccioli neri gli ricadevano sulla fronte danzandogli davanti agli occhi. Prese un respiro profondo e attaccò Fabiano. Non aspettava altro, era la sua occasione per confrontarsi con quello che era considerato il più forte. Quella del pareggio era solo una scusa, non lo aveva ancora perdonato per il suo voltafaccia. Il sire gli aveva offerto su un piatto d’argento la possibilità di vendicarsi del figlio e non si sarebbe mai tirato indietro. D’altro canto, Fabiano non avrebbe mai accettato se non fosse stato messo con le spalle al muro. E così, mossi da motivazioni diverse, duellarono come gli era stato ordinato. Fervore da un lato e timore dall’altro si abbracciarono in un vortice di brutale violenza. Anziché rispondere alle aggressive stoccate di mio fratello, Fabiano restava sulla linea difensiva parando all’occorrenza qualsiasi punto d’infiltrazione. Gab non gli lasciava nemmeno il tempo di respirare, calava il bastone su di lui come se ognuno di essi fosse l’ultimo dei suoi colpi. Di quel passo avrebbe finito col mostrare a tutti chi era veramente.
Una rabbia ardente lo logorava da dentro e non riuscivo a capire quale fosse l’origine di tanto odio immotivato. Non poteva essere Fabiano la causa del suo tormento. C’era in ballo qualcos’altro…
E se quella storia della vendetta stesse offuscando la mente di Gab? – mi balenò all’improvviso. Sospettai che facesse solo finta di aver dimenticato gli assassini dei nostri genitori. Adesso era tutto più chiaro. Questo combattimento per lui rappresentava molto di più di una semplice ripicca nei confronti dell’amico che l’aveva ferito. Era la conferma che poteva farcela, voleva dimostrare a se stesso di essere il migliore. Fino a che punto si sarebbe spinto pur di ottenere ciò che voleva? Era solo un bambino e già covava delle emozioni che non gli appartenevano. Quanto egoista potevo essere da non accorgermi delle fragilità della persona che contava di più per me?
Continuai a seguirli con lo sguardo, impaurita che uno dei due si facesse male sul serio. Era perfettamente compressibile che nutrissi questo sentimento per Gab ma Fabiano ci aveva voltato le spalle, in fondo se lo meritava. Eppure ogni volta che il mio gemello riusciva, anche se per pochi secondi, a penetrare le sue difese, il cuore mi balzava in gola. Non m’importava più ciò che mi aveva fatto, sapevo che avrei sempre trovato una valida ragione per giustificare ogni suo gesto.
Mi trovavo fra l’incudine e il martello.
Dovevo fare qualcosa.
Se avesse vinto Gab, la sua superbia lo avrebbe inorgoglito a tal punto da credere di poter dare la caccia ai vampiri dalle maschere dorate e, inarrestabile come un treno, sarebbe andato incontro a una morte terribile. Dall’altro lato, essere sconfitto da un novizio non avrebbe giovato per nulla all’autostima già inesistente di Fabiano, per non parlare del fatto che lo avrebbe umiliato di fronte ai suoi coetanei e allo sguardo severo nel padre che non gli avrebbe più dato tregua. Se solo avesse voluto, avrebbe messo fuori gioco Gab fin dal principio. Si stava trattenendo, non voleva fargli del male. Adesso lo vedevo. Fabiano stava gridando segretamente aiuto e noi eravamo troppo sordi da ascoltare il suo messaggio.
Il desiderio di renderlo libero dalla schiavitù che lo opprimeva, era più forte di qualsiasi altra cosa, avrei fatto di tutto per riportare alla luce colui che mi aveva salvata dalla mia oscurità. L’ombra della sorella non l’avrebbe eclissato più. Magari ci sarebbe voluto del tempo ed io sarei rimasta al suo fianco, senza chiedere il contraccambio.  Aveva bisogno solo di una spinta.
Sapevo che il piano che avevo in mente mi sarebbe costato l’incolumità di Gab - a quello avrei pensato dopo - ma non c’era altro modo di salvarli entrambi.
“Reagisci, Fabiano. Attaccalo! Dagli una bella lezione!” - gridai in mezzo alla folla dando vita a una tifoseria da stadio.
 L’ira funesta di Gab si placò, il suo bastone si fermò a mezz’aria a qualche centimetro dalle costole di Fabiano. Non dimenticherò mai il dolore che lessi nei suoi occhi quando capì che non stavo dalla sua parte. Non aveva idea di quanto mi costasse dire quelle cose, avrei preferito morire piuttosto che pugnalarlo così alle spalle, ma non potevo dirglielo.
“Forza Gab, fagli vedere chi sei!” – si alzò una voce, più forte delle altre, creando un vero e proprio scisma nel coro sostenitore di Fabiano. Era naturale che Morgana pensasse che stessi dando di matto, per questo aveva deciso di rompere il suo timido guscio per dimostrare a Gab che almeno lei non lo avrebbe lasciato solo.
Guardai Fabiano e gli dissi mimando: “Ti prego, fallo”.
In lui scattò qualcosa. Si rialzò da terra e sta volta combatté davvero, aveva abbandonato il suo scudo per passare all’attacco. La tenacia di mio fratello non era più sufficiente, l’abilità e l’esperienza di Fabiano portarono alla luce l’immaturità tecnica di Gab. Le sorti dell’incontro si ribaltarono nel giro di qualche minuto e Fabiano passò in vantaggio. Gab, come un pesce fuor d’acqua, aveva totalmente perso la sua spavalderia, non poteva che indietreggiare e proteggersi dagli assalti del suo rinnovato e inarrestabile rivale. Fece l’ultimo disperato tentativo, prese la ricorsa e azzardò un affondo laterale. Fabiano lo bloccò e l’incontro fra i due bastoni produsse un suono acuto e tremolante. Rimasero in tensione contrastandosi a vicenda per quella che sembrò un’eternità. In una prova di forza non c’era dubbio su chi potesse uscirne trionfante. Per Gab, quella poteva rappresentare una concreta possibilità per mettere fine all’incontro.
Era stato il primo fra noi a sperimentare la memoria atavica dei medjai, per questo imparava così in fretta rispetto a un comune protettore. Sfruttando i ricordi dei nostri antenati, dopo aver appreso una sola volta una qualsiasi nozione, lui era in grado di riprodurla fedelmente, come un imprinting istantaneo. Il suo corpo, inconsapevolmente, conosceva già ciò che invece avrebbe dovuto costituire una novità. La maggior parte delle volte non sapeva nemmeno quello che faceva, era l’effetto osmosi, spiegatoci dallo zio, che prendeva il sopravvento su di lui con uno schema del tutto simile al processo fisico che avviene all’interno delle nostre membrane biologiche. Così come l’osmosi tende a trasportare particelle submicroscopiche dalle regioni in cui vi è una più alta concentrazione a un'altra dove invece è più diluita, con lo scopo di bilanciare le soluzioni, è come se in un solo corpo coesistessero molteplici coscienze insieme a quella del possessore dell’anima, che costituirà il ricettacolo finale del flusso d’informazioni, e che per ritrovare l’equilibrio, e quindi fonderle in una sola entità, avvenisse una sorta di condivisione di ricordi. Le memorie che entrano nella mente di quest’ultimo, però, riguardano esclusivamente capacità e conoscenze teoriche, non eventi di una vita precedente che si sovrappongono a quelle del soggetto in questione. O avremmo sicuramente sofferto di effetti collaterali quali disturbi da personalità multiple e realtà congiunte. Concetti troppo machiavellici, per essere compresi da uno come mio fratello e nonostante ciò, accedere a quel potere, per lui era facile come bere un bicchiere d’acqua.
Non quella volta però. Troppi pensieri gli affollavano la testa. Pervaso da una profonda delusione, non era abbastanza motivato da osteggiare Fabiano. Il bastone scivolò e permise all’erede del Sire di disarmarlo. Gabriel cadde in ginocchio sotto il peso di quell’umiliante scacco matto e nascose la faccia a terra. Fabiano riprese fiato e tentò di consolarlo ma il padre con un sonoro ceffone, demolì il suo gesto rappacificatore.
“Non è finita”.
“Ma… padre, si è arreso. Non può più combattere” - si giustificò Fabiano indicando l’arma del suo avversario lontana da loro.
“Devi finire ciò che hai iniziato. La pietà ti porterà alla morte, figlio mio” - ripeté il sire con un tono tutt’altro che amorevole.
“Colpiscilo”.
Il campo si riempì del mormorio della folla. Gab sollevò gli occhi su Fabiano per analizzarne l’espressione.
“ Fallo adesso, a parti inverse non avrebbe esitato un attimo! Sii ciò che sei destinato a essere. Dimostrati degno di essere il migliore fra i protettori”.
“Non posso farlo” - si tirò indietro Fabiano.
“Tuo padre ha ragione. Ho perso, merito una lezione per la mia debolezza” - lo incoraggiò Gabriel.
“Ascolta il barlume di saggezza del perdente. Finisci il tuo avversario o preparati alla stessa sorte!”.
Fabiano impugnò il bastone con entrambe le mani, scosso da brividi. Non era incertezza, avevamo assistito tutti alla sua risolutezza nel combattere. Glielo leggevo negli occhi: detestava infierire sui suoi amici. Perché, in fondo, non avrebbe mai smesso di essere suo amico. Stava cercando di proteggerlo dalle follie del padre ma ci sarebbe riuscito fino in fondo?
“Tu adesso vedi il volto di un tuo compagno. Un giorno, quel volto potrebbe essere quello del tuo nemico, colui che distruggerà la serenità di intere famiglie, che spezzerà decine di vite per la sua sete di sangue, colui che ti porterà via tutto ciò che ami”.
“Che onore troverei nel colpire chi è indifeso?”.
“Quale onore può essergli riconosciuto a chi dimora nell’oltretomba? Stai dimostrando ai tuoi compagni di non avere la stoffa del leader. Un leader sa che è necessario prendere decisioni anche nei momenti più disperati e difficili, senza curarsi della moralità. Chi credi ti sia più grato: il soldato che hai lasciato morire per la tua inappropriata misericordia? O il soldato che, grazie alla tua audacia, può gioire del resto dei suoi giorni? Noi salviamo vite, a qualsiasi costo”.
“A qualsiasi costo” - ripeté Fabiano come un pappagallo mentre si preparava a colpire mio fratello.
Ne avevo abbastanza delle sue sciocchezze. Mi feci spazio a gomitate fra i miei compagni e raggiunsi in fretta il patibolo interponendomi fra Gab e il suo boia.
Fabiano diventò una scultura di sale.
“E’ questo che vuoi?” - gli domandai.
“Cosa?” - mi chiese confuso.
“La decisione è tua? Vuoi davvero fare del male a Gabriel?”.
“Che stai facendo? Torna al tuo posto se non vuoi essere castigata anche tu!” - mi rimproverò il sire.
Feci finta di non sentirlo e interrogai ancora Fabiano: “ Un vero leader scaccia la pulce dal suo orecchio ed è perfettamente capace di decidere cosa è meglio per i suoi soldati. Ciò che conta non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza infliggergli alcun danno.
Se stai solo eseguendo un altro degli ordini di tuo padre, il debole sei tu. Se invece è il tuo spirito a volerlo, se credi sia giusto così, non mi opporrò perché mi fido di te. Sappi però che se colpisci lui dovrai prima passare sul mio corpo”.
“E sia! Non lasciarti ammaliare dalle sue parole. E’ lei che ti sta implorando, accontentala! Dimostragli che non hai paura di niente e…”.
“No, padre”.
“Che cosa hai detto?”.
“Hai sentito benissimo. Non lo farò” - lo sfidò per una volta senza fissare il pavimento.
Prese la ricorsa e lanciò il bastone oltre il recinto. Poi senza degnarci di una sola parola marciò dritto verso l’esterno del campo.
“Dove credi di andare? Chi ti ha concesso il permesso di voltarmi le spalle?” - urlò il sire fuori di sé con le vene pulsanti sul collo.
Si fermò giunto in parallelo alla staccionata. Sorrise maliziosamente e disse: “Vado a punirmi da solo”.
Quell’atto di ribellione scatenò incredulità e stupore in tutti i suoi amici.
“Andate via tutti, ORA!” - strillò il sire perdendo ogni traccia della sua impareggiabile pazienza.
I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte, si dileguarono prima che potesse sbraitargli qualcos’altro contro.
“Tranne te” - disse puntandomi il dito dritto in faccia.
“Leona?” - mi chiamò impaurito Gab tirandomi la manica della tuta.
“Va via, Gabriel” - gli risposi sottraendomi alla sua fragile presa.
“Dà retta a tua sorella. Hai già combinato abbastanza guai” - lo riprese Amadeus trascinandolo via da quella spiacevole situazione.
Restammo solo io e il sire, faccia a faccia avvolti da un silenzio macabro. Non gli tolsi gli occhi di dosso nemmeno per un attimo.
Doveva capire che toccare il mio punto debole non mi avrebbe piegato. Avevo rispetto dell’autorità fino a quando essa non limitava la libertà altrui e non sfidava il buon senso.
“Pensi che non sappia chi voi siate veramente? Mi credete uno stolto forse? Il vostro regno è tramontato da molto tempo e mai risorgerà. Qualsiasi cosa tenterete di fare, io starò sempre un passo davanti a voi. Non avrò pace finché non sarete spezzati, te lo prometto. Non riuscirete a fare il lavaggio del cervello a mio figlio” - mi minacciò il Sire.
Si avvicinarono un ragazzo e una ragazza trafelati, stremati dalla corsa.
La ragazza si accostò al gomito del suo comandante e gli riferì qualcosa in segreto.
 Dal sire, inizialmente, non trasparì alcuna emozione.
“Me ne occuperò personalmente. Siete congedati entrambi” - disse vagamente soddisfatto.
“Ma prima prendete la ragazzina, lasciatela senza cibo per tre giorni in isolamento. Incaricate qualcuno di tenerla d’occhio. Non uscirà fino al giorno del suo esame”.
Sollevò il cappuccio del mantello e se ne andò, appagato, come se avesse schiacciato un insetto fastidioso.

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Capitolo 19
*** L'ISOLAMENTO ***


Capitolo 9 – L'isolamento

Avete la più pallida idea di cosa si prova a sentirsi fuori dal tempo e dallo spazio? I secondi si confondevano con i minuti, i minuti con le ore, le ore con i giorni. I miei occhi si spegnevano lentamente, ormai avvezzi alla semioscurità. Chiusa in quell’angusta costruzione di pietra, grande neanche paio di metri quadri, fui sopraffatta da un’attanagliante ossessione: fuori era ancora giorno? Quando avrei potuto godere, di nuovo, del dolce calore dei raggi del sole? Oppure era già calata la sera? Che ne era del brillante sfavillio delle stelle? Non mi restava che sognare di esser baciata dal niveo candore lunare. Che brutale nostalgia. Sembrava quasi che avessi dimenticato i riflessi dorati affrescati dal sole all’alba e il rossore soffuso dei cieli al crepuscolo, promessa che il domani sarebbe stato sereno. Mi sarei accontentata di una piccola finestra, non chiedevo molto ma sapevo di dover scontare la mia pena per la mia ingestibile insubordinazione.
Gli spifferi fra i mattoni facevano oscillare la lampada a olio appesa al soffitto da cui scaturiva un fioco bagliore. Non illuminava granché e dovevo pure stare attenta: quando si muoveva, gocce di cera bollente traboccavano dalla lanterna di ottone e mi scottavano la pelle. L’aria si faceva sempre più rarefatta, i miei polmoni erano pieni di polvere, a ogni respiro era come se ingoiassi dei coltelli e la mia razione di acqua stava per finire. Non avevo nemmeno lo spazio per riposare perché condividevo il posto con la mia latrina personale. Questo sì che era lusso. Ero costretta a tenere le gambe appoggiate al muro per distendere la schiena a terra, non potevo di certo starmene raggomitolata per tutto quel tempo o mi sarei atrofizzata i muscoli.
Già da un po’ mi portavano da mangiare, quindi, sicuramente, erano trascorsi tre giorni ma a giudicare dalla frequenza con cui mi garantivano il pasto, fra l’altro freddo e avariato, non si erano sforzati più di tanto, circa una volta a dì. Avevo smesso di dar retta ai lancinanti dolori allo stomaco da un pezzo ormai. Nemmeno al peggiore dei randagi era riservato un tale trattamento. Non volevo pensare a cosa potesse aver fatto a Fabiano. Mi aveva sorpreso con quell’atto di ribellione al suo generale, a suo padre, ma che prezzo avrebbe pagato per il suo coraggio?
Pregai che almeno fosse stato clemente con suo figlio, non meritava il mio stesso castigo.
Odiavo fare la vittima, non mi sarei messa a piagnucolare, non avrei dato soddisfazione a quel mostro senza pietà. Forse avevo esagerato a soprannominarlo esplicitamente “pulce” ma chi avrebbe potuto negarlo? Ero stata oltremodo gentile.
Non dovevo prendermi in giro, c’era ben altro dietro questa esemplare punizione: un avvertimento. Aveva promesso che ci avrebbe spezzato e delirava su un regno alla fine dei suoi giorni. Lui sapeva più di quello che voleva far credere. Non potevo fare a meno di pensare che la sua minaccia fosse dettata solo dalla più primordiale delle emozioni: la paura, un terrore incontrollabile celato con maestria dalla sua maschera da imperturbabile perbenista.
La verità era una sola: l’ammazza vampiri temeva il ritorno dei medjai. E perché mai? Non costituivamo una risposta a tutti i suoi problemi? Non siamo stati creati proprio per questo: difendere il genere umano? Non era il suo stesso obiettivo?
Era ormai palese che i sospetti che nutrivo nei suoi confronti fossero più che fondati. Ma cosa stava tramando alle nostre spalle?
Cominciai a detestare quel tremendo silenzio che si era trasformato in un insopportabile ronzio alle orecchie.
Anche se mi bruciava la gola, poco m’importava, canticchiai il primo motivetto che mi passava per la mente. Feci il coro al ricordo della calda voce di mio padre, vellutata, avvolgente come un abbraccio. A differenza delle altre volte, non ero più triste, anzi quella melodia mi restituiva la pace che avevo perduto. Pian piano guarì la mia raucedine facendo vibrare dolcemente le corde vocali, intorpidite dal quel mondo afono, privo di suoni. La canzone parlava di un addio fra due amanti ma non c’era sofferenza o malinconia perché l’incalzante ritmo della melodia, ricco di speranza, suggeriva che non si trattava di una separazione eterna. Si sarebbero incontrati in un posto migliore, più felice, dove avrebbero potuto amarsi per sempre.
Inaspettatamente si aprì la finestrella da cui mi passavano il cibo.
“Perché ti sei fermata? Ho aperto così avrei potuto ascoltarti meglio. Non mi aspettavo che avessi una voce talmente incantevole”.
Lo riconobbi subito.
“Valerio, sei tu? Cosa ci fai qui?”.
“Erano un paio di giorni che non ti vedevo al campo, cominciavo a preoccuparmi. Così ho chiesto un po’ in giro…e cosa scopro? Che ti hanno infilato in una di queste prigioni infernali “ - disse rabbrividendo a un ricordo non esattamente allegro.
“Non appena ho saputo, ho fatto il modo di farmi assegnare l’ultimo turno di guardia. Sai com’è? Sono un tipo piuttosto popolare qui. Ma basta vantarsi, non parliamo di me. Cosa può aver fatto di male una dolce ragazzina come te?”.
“Quello che ritengo giusto”.
“Questa è una risposta vaga e assolutamente arbitraria”.
“Hai ragione, ma dovrai fartela bastare”.
“Vedo con piacere che non hai perso la tua vivacità”.
“Ci vuole ben altro per zittirmi”.
“Non ho dubbi”.
“Da quanto tempo sono chiusa qui dentro?”.
“Otto giorni circa”.
“Davvero? Così poco? Mi è sembrata un’eternità”.
“Anch’io avevo la sensazione che lì il tempo trascorresse in modo diverso. Una volta, proprio questa fatiscente torre di pietra, era la mia seconda casa. Non sono stato un bravo bambino “.
“Non mi è difficile crederlo. Come sta Fabiano? E mio fratello?”.
“Mi sembra di averli visti entrambi di sfuggita agli allenamenti”.
“Come ti sono sembrati? Hai notato qualcosa di strano in Fabiano? Cioè voglio dire, aveva l’aria afflitta, era triste? Aveva dei segni su…”.
“Non lo so Leona, non ho potuto fargli i raggi X onestamente. Ho come l’impressione che t’importi più del figlio del sire che di tuo fratello. Ci tieni molto a lui, vero?”.
“Sì” - risposi spontaneamente ma me ne pentì subito.
“Ma non c’è nulla più importante di Gabriel e comunque non sono affari tuoi”.
“Come vuoi ma è inutile negare l’evidenza. Anch’io non molto tempo fa avevo una persona a cui tenevo”.
“Un donnaiolo come te?”.
“Ehi, così mi ferisci! Va bene, lo ammetto, le donne sono la mia debolezza ma quella ragazza era davvero speciale per me”.
Non ebbi la forza di ribattere alla sua affermazione assoluta. Era incredibile come in una frase riuscisse a passare dallo scherzo alla più completa serietà.
“E perché adesso non state insieme? Come ha fatto a rimanere indifferente al tuo irresistibile fascino?”.
“Infatti, ha ceduto. Mica rimanevamo a guardarci negli occhi! Ma queste non sono cose da raccontare a un’innocente bambina”.
“E nemmeno le voglio sapere, grazie”.
“ Lei…” - continuò ignorandomi.
Lo avevo messo in difficoltà.
“È lontana” - stava tentando di trovare le parole giuste.
“Non avrebbe mai funzionato, in ogni caso” - rispose rassegnato.
“Per quale motivo?”.
“Il mio lignaggio non era abbastanza nobile da essere intrecciato al suo con una proposta di matrimonio. La sua famiglia non avrebbe mai approvato. Suo padre, in particolare, si è sempre opposto con fermezza”.
“Che idiozia è mai questa!”.
“Qui la casta sociale è tutto. Non dirmi che fuori, nel mondo degli umani, funziona diversamente”.
“Non ho detto questo, i matrimoni combinati sono comunissimi, pensavo solo che almeno voi foste più progressisti da questo punto di vista. Perbacco vi ostinate a vivere sotto un regime oligarchico, filo-totalitarista, quando persino l’Italia si è affacciata finalmente all’avvento repubblicano”.
“Progressisti! Perbacco! Che cosa hai ingoiato: un vocabolario? Certe volte mi fai paura. Tutta questa polvere deve averti dato di volta il cervello. Uno scricciolo della tua stazza non può dire certe cose. Non mi va di parlare di politica con te, sta al di fuori dell’ordine naturale! Non so il significato nemmeno di un quarto delle parole che hai detto! È umiliante”.
Poi riprese: “Lasciamo stare, prima di perdere completamente il senno. Se fossi un buon amico, ti metterei in guardia. Devi prestare più attenzione a chi frequenti e non farti strane illusioni”.
“Che cosa intendi?”.
“Lo capirai molto presto”.
“Comunque ti sei persa una bella festa. Da quando sono arrivati quei barbari del campo romano è scoppiato il putiferio”.
“Che cosa sta succedendo?”.
“Le cose stanno davvero cambiando sta volta. Nel men che non si dica, hanno abbandonato le loro tende e gli è stato accordato il permesso di edificare nel nostro sacro suolo. Hanno costruito una seconda cittadella e si sono impadroniti delle nostre terre. Ci divide solo il fiume coda di boa, adesso, il campo di Firenze è stato spaccato in due. Ci è stato detto di collaborare ma non facciamo che litigare fra noi. Non capiscono a cosa stiamo andando incontro? Siamo sull’orlo di una guerra civile ed è l’ultima cosa che ci serviva in questo momento. Hanno pensato solo alla barriera e questo è il risultato”.
“Vado via solo per qualche giorno e mi ritrovo nel bel mezzo di una rivoluzione”.
“Già. Come ti hanno trattata?” - mi chiese cambiando discorso.
“Vuoi una risposta sincera?”.
“Non credo di essere pronto, potrei impazzire e cominciare a picchiare chiunque voglia farti del male. Il tuo genio va preservato”.
“Grazie”.
Poi restammo in silenzio per qualche minuto.
“Ti va di cantare per me?”.
E lo accontentai. Valerio era l’unico spettatore del mio concerto e sembrava apprezzarlo molto. Terminata la terza o la quarta canzone, ormai avevo perso il conto, mi presi una breve pausa.
“Che voce angelica, non avevo mai sentito niente del genere. Dovresti vedere che luna spettacolare che c’è sta sera”.
“Mi piacerebbe tanto ma la fessura non è abbastanza grande”.
“È scoccata la mezzanotte”.
“E allora?”.
“E allora? E allora, dici?”.
“E allora: buon compleanno, Leona!” - gridarono un coro di voci.
“Gabriel, Morgana, ragazzi? Siete tutti qui!” - dissi commossa.
“Pensavi che ti avremmo lasciato sola in un giorno speciale come questo?” - esclamò Fabrizio fingendo di essere offeso.
“Auguri Leona!” - continuavano a intonare Ludovico, Figaro e Guglielmo.
“Sentite bambocci, non dimenticatevi che è anche il mio compleanno!” - li rimproverò il mio gemello.
“Sì, sì, certo, ma non farti prendere la mano dalla tua solita mania di protagonismo” - lo ammonì Morgana.
“Non dire cazzate Morgana!”.
Da un momento all’altro stavo per riversare tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel momento. Poi spuntarono due occhi grandi e blu dalla piccola porticina che dava all’esterno.
“Mi aspettavo che dicessi una cosa del tipo: “Gabriel, non si dicono le parolacce!”“ - disse imitando la mia voce. “Sicura che non ci sia nulla che non va?” - mi domandò aggrottando le sopracciglia.
“Sì, è tutto perfetto. Sono solo felice che siate qui”.
“Non dirlo nemmeno per scherzo. Spostati Gabriel, è il momento di spegnere la candelina” - e Morgana mi mostrò un pasticcino ricoperto di una strana glassa rosa con una candelina accesa sopra.
“L’ho fatto io!” - mi avvertì Fabrizio.
“E noi abbiamo dato una mano” - reclamarono i suoi tre aiutanti.
“Forza voi due, esprimete un desiderio! “ - ci incoraggiò Morgana.
Prima di soffiare su quella piccola fiammella tremolante, Gab ed io ci fissammo a lungo. Era un gioco che facevamo quando eravamo più piccoli, fingevamo di leggerci nel pensiero. E a volte era davvero così.  Chi poteva sapere se in quel momento stessimo desiderando la stessa cosa? Non potevamo dirlo o il nostro desiderio non si sarebbe avverato. Infine strizzammo gli occhi e spegnemmo la candelina.
Il pasticcino a dispetto delle apparenze era a dir poco delizioso e ripieno di cioccolato, proprio come piaceva a me. I ragazzi restarono a chiacchierare con me un buon quarto d’ora, poi Fabrizio e gli altri si ritirarono nei loro dormitori, accompagnati da Valerio, perché non amavano trasgredire le regole.
Si accomiatarono con un: “Torna presto. L’allenamento non é più lo stesso senza di te” - e corsero ai ripari prima che qualcuno si accorgesse che bazzicavano in giro dopo il coprifuoco.
Quando fummo soli, allungai le mani attraverso la finestra e ne offrì una a Gabriel e l’altra a Morgana.
“Mi siete mancati” - mormorai con voce rotta.
“Non dovresti esserci tu qui dentro. Odio quando prendi le mie difese, come se non me la sapessi cavare da solo” - disse Gabriel mentre stringeva le dita attorno al mio polso.
“Sei arrabbiato con me?”.
“Per diversi motivi, sì. Questo non è posto per te, le pareti sono umide, potresti ammalarti. Non capisco perché lo zio non sia ancora intervenuto, ecco cosa mi fa infuriare! Ci tratta come se non contassimo nulla per lui, se ne sta lì sommerso dalle sue scartoffie e non muove un dito per aiutare la sua famiglia”.
“Zio Marcellus non ha l’autorità per tirarmi fuori di qui, Gabriel”.
“Ha ragione, se la decisione è stata presa dal Sire, vostro zio non può farci niente. Resisti Leona, manca ancora un giorno” - mi supportò Morgana.
“E tu che ne sai?”.
“Ho sentito dire a mio padre che fra due giorni avrà luogo il terzo girone degli esami e tu e Gab siete nella lista”.
“ Siamo agli sgoccioli non è vero?” - sospirai.
“Gab? Spero che almeno tu ti sia allenato a dovere…”.
“Allenarmi? Io non ne ho bisogno, sono già forte così come sono. Se non ti fossi immischiata quel giorno, avrei sfigurato davanti a tutti il tanto vantato talento di Fabiano”.
“Non avete ancora fatto pace?”.
“Beh diciamo che lo tengo a distanza, non l’ho ancora perdonato del tutto”.
“Ma se siete sempre insieme!”.
“Zitta Morgana non fare la spia! Sto con lui solo perché è l’unico in grado di tenermi testa”.
Risi insieme a Morgana.
“Si dispiace per non essere qui, credo che abbia preso accordi con suo padre per rabbonirlo un po’”. Poi Morgana mi aprì la mano col palmo all’insù e lascio cadere un piccolo sacchetto blu.
“Certo a lei tocca il regalo…” - si lagnò Gab.
Sfilai la cordicella dorata e scoprì il contenuto del sacchetto. Ebbi un nodo alla gola. Non mi ero accorta di averlo perso, doveva essermi scivolato durante l’ultima lezione, prima che venissi portata nella mia prigione di pietra. Il nastro scarlatto, in un modo o nell’altro, avrebbe sempre trovato la strada per tornare da me. Nemmeno poteva immaginare il valore che gli attribuivo, era il dono più prezioso che mi potesse fare: era il simbolo della nostra amicizia. Provai una fitta al cuore, temevo che pensasse che lo avessi buttato via. Mi crucciavo al solo pensiero che lo avessi ferito, ancora una volta. Sotto la stoffa rossa trovai un biglietto: “Lo indossò per la prima volta mia sorella il giorno del suo esame. Da allora non ha più perso una battaglia. So che il futuro che ti attende è ancora più radioso di quello che pensi. Credo in te”.
“Cosa c’è scritto?” - chiese curioso Gab.
“Niente di che” - e lo misi via.
“Dai su, dimmelo!”.
“Davvero, non è nulla”.
“Che palle! E poi perché lo ha dato a te e non a me? Quando è successo? Avrei potuto consegnarglielo io a mia sorella” - domandò a Morgana.
“E’ stato durante il funerale. E poi che me lo chiedi a fare? Fabiano sapeva esattamente che te ne saresti dimenticato”.
“Per il funerale? Il funerale di chi?”.
Gab e Morgana si guardarono per un istante.
“Il giorno che sei stata portata qui, hanno ritrovato il corpo di Felice…”.
“Felice? Il ragazzo che era scomparso… “ - dissi pensierosa.
“Sì proprio lui. Un gruppo di strateghi ha rinvenuto il cadavere in una grotta non molto lontana dalla Specchio. A quanto pare, si rifugiava lì dentro per qualche motivo”.
“E come è morto?”.
“Il Sire ha dichiarato che gli artefici dell’omicidio sono per certo gli adepti di Attilius ma ho sentito parlare mio padre con alcuni dei protettori che erano presenti al ritrovamento di Felice…Il corpo era freddo ed esangue. Qualcuno gli aveva strappato via i denti, infatti, credono che sia stato torturato, e aveva delle scottature sulle braccia”.
“Magari l’assassino voleva coprire le sue tracce e ha tentato di bruciare il cadavere del povero Felice” - suppose Gab.
“Si trattava di un’ustione più lieve, come quella causata…”;
“…dai raggi del sole” - finì la frase di Morgana.
“Come lo sapevi?”.
“Credo di aver capito perché si fosse rifugiato in quella grotta”.
“Pensi che volesse ripararsi dalla luce del sole? Solo un vampiro lo farebbe”.
“Esattamente”.
“ Ma non ha alcun senso!  Se lo fosse stato, non avrebbe avuto un aspetto così…umano. Sai benissimo che l’unico modo per uccidere un vampiro è la decapitazione”.
“O una bella stilettata al cuore…” - aggiunse Gab.
“Non posso credere che Felice sia un vampiro”.
“Era…” - la corresse mio fratello.
“E poi perché avrebbero dovuto privarlo dei canini?”.
“Non lo so”.
“Conosco quello sguardo, cosa ti frulla in quella testolina?” - indagò mio fratello.
“Veronica ha detto che, quando ha trovato Felice, era confuso e gli faceva male la testa. Ha tentato di allontanarla dicendole che poteva essere pericoloso. Non per lei, c’era qualcosa che lo infastidiva. Sapete perché Veronica si trovava al di là dello Specchio quel giorno? Aveva raccolto della verbena ed era intrisa del suo odore”.
“Non saprei come venirne a capo. Potrei parlare con mio padre…”.
“No!” - esclamammo insieme Gab ed io.
“Credete che sia coinvolto?”.
“No”
“Sì” - disse Gab in disaccordo con me.
“Non mi fido degli adulti, finché non capiamo cosa succede, acqua in bocca”.
“Hai un buon intuito Leona, voglio avere fiducia in ciò che dici”.
“Adesso lasciamola riposare, non mettiamole altre strane idee per la testa o non chiuderà occhio”.
“Tanto non ci sarei riuscita comunque”.
“Gab?”
“Sì, sorellina?”
“Mi prometti che non farai sciocchezze?”
Dapprima restò in silenzio, forse riflettendo su ciò che si nascondeva dietro la mia richiesta.
“Te lo prometto” - dal tono sembrava aver capito a cosa mi riferivo.
“E poi sai che adoro fare le sciocchezze insieme a te, no?”.
Ridemmo entrambi.
“Va, prima che ti scoprano. Non si sta molto comodi qui dentro”.
“Aspetta. Cantami una canzone”.
“Ti sembro un giradischi?”.
“Ti prego! Quella della mamma”.
Non mi lasciò altra scelta e mi arresi alla sua richiesta. Cantilenai accompagnata dai respiri profondi del mio fratellino che dormiva sodo dall’altra parte della prigione. Morgana aveva provato a convincerlo ad andare via con lei ma non voleva saperne di lasciarmi da sola, anche a costo di rimanere all’aperto tutta la notte. Quanto era testardo quel moccioso! Eppure gli volevo talmente bene. Un muro ci divideva, ma sentivo perfettamente la presenza di Gab proprio accanto a me e pensai che ce l’avrei fatta, quella notte non sarebbe stata tremenda come quelle che l’avevano preceduta.
Stavo per prendere sonno anch’io quando capì che qualcosa non andava. Un urlo soffocato. Pietrificata dalla preoccupazione, mi affacciai dalla porticina e vidi Gab, stretto fra le braccia di una figura vestita di nero che gli tappava la bocca, affannarsi in cerca di libertà. Dove stavano portando mio fratello?
“Lasciatelo andare, lasciatelo andare” gli gridavo. Un secondo rapitore gli avvolse la testa in un sacco e chiuse la finestra per impedirmi di dare l’allarme. Subito dopo fece scattare la serratura e mi raggomitolai contro il muro. Aperta la porta, penetrò una ventata d’aria fresca e istintivamente respirai a fondo. L’uomo mi afferrò il braccio e bruscamente mi tirò fuori da quella gattabuia coprendomi il volto con un altro sacco. Mi trasportò sulle sue spalle per un lungo tragitto per poi lanciarmi a terra come se fossi fatta di gomma. Con le ginocchia sbucciate e completamente avvolta dalle tenebre, andai in cerca di Gab invocando il suo nome. Lui, però, era proprio accanto a me e mi restituì la vista sfilando via il sacco dalla mia testa. Era bello poterlo vedere di nuovo senza nessun ostacolo a separarci, ma non era il momento di festeggiare. Quattro uomini vestiti di scuro ci osservavano dall’alto in basso con solennità. Alle loro spalle ardeva un braciere, dalle fiamme ispide e aguzze, che proiettava le loro ombre tremanti sul terreno bagnato. Abbassarono nello stesso momento i cappucci svelando le loro identità: zio Marcellus al centro, affiancato da Valerio, Bernardo e Mariana, la guida che Gab ed io avevamo incontrato il primo giorno al campo. Di lì a breve, in seguito a una rapida spiegazione, prendemmo parte al rito d’iniziazione, dato che, avendo compiuto sette anni, eravamo pronti per entrare a far parte di questa grande famiglia. Dopo aver giurato sulla nostra stessa vita di mettere dinanzi sopra ogni cosa la salvezza del genere umano, marchiarono col fuoco il simbolo dei protettori sulla nostra pelle. Portai il polso vicino al viso per osservare meglio quella figura incandescente. Un occhio spalancato mi osservava incessantemente da ogni angolatura, sembrava quasi che dicesse: “io ci sarò sempre”. Nessun turbamento, era uno sguardo sereno ma imperativo, come quello di una madre che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenere al sicuro suo figlio. Mi sentì forte, decisa, consapevole delle mie capacità e non era frutto della mia mente. Era la pura verità. Gab invece sfiorava, intrigato, i contorni fumanti delle lame incise fra i solchi delle vene. Adesso eravamo ufficialmente dei protettori cadetti, prossimi al giuramento definitivo che ci avrebbe accordato il permesso di intraprendere il nostro viaggio verso la disfatta dei vampiri e di tutte le creature malvage che avremmo incontrato lungo la via. C’era ancora molta strada da fare e tanto duro allenamento ma il bello doveva ancora venire e ci aspettava a braccia aperte all’orizzonte.
***
Era giunto il giorno. Ormai poche ore mi separavano dall’attesissimo esame segreto che tutti temevano e l’ansia era alle stelle. Decisi di riscaldarmi un po’ al campo di Artemide perché sapevo che quel giorno non ci sarebbero state lezioni. Incontrai tante facce nuove in piazza ma mi defilai in silenzio pur di passare inosservata. Volevo stare sola, avevo bisogno di riflettere e concentrarmi al massimo per essere pronta ad ogni evenienza. Non sapere cosa mi attendesse mi dava sui nervi, mi lasciava con l’amaro in bocca la consapevolezza che non c’era assolutamente nulla che potessi fare per prepararmi psicologicamente e fisicamente al superamento della prova. Non avevo armi, non sapevo come difendermi, era come se mi esponessi nuda di fronte all’intera assemblea aspettando l’inesorabile destino che mi era stato riservato. Ma io credevo poco al fato, me ne prendevo beffe e così avrei continuato a fare. A grandi linee supposi che quasi per certo avrei dovuto combattere, considerando che la prova si sarebbe svolta all’arena. Quindi, decisi di ripassare le mosse base delle arti marziali cinesi e giapponesi: percussione, immobilizzazione, controllo, presa e proiezione. Molti preferivano utilizzare il calcio come arma offensiva, come ad esempio Morgana, che amava prendere a calci chiunque, e spesso era l’arma vincente visto che ogni parte del corpo che aveva la sfortuna di scontrarsi con la sua tibia durissima non poteva che fare una fine spiacevole. Al contrario io, essendo particolarmente snodata, lo utilizzavo a mo’ di protezione contro altri calci, com’era di uso comune nel Wing Chun. Passando da una figura a un’altra, il tempo scorreva velocemente e sfuggiva sotto il mio controllo. Mai e poi mai mi sarei aspettata di innamorarmi dell’arte del combattimento, eppure avrei trascorso giorni a provare e riprovare tutte le mosse delle più disparate categorie appartenenti a stili completamente diversi fra loro, fino a raggiungere la perfezione. Proprio io che non facevo che rimproverare Gab quando si acciuffava con i suoi amici per qualche sciocco dispetto. Non mi riconoscevo più. Oppure stavo solo scoprendo la mia vera natura e ciò m’impauriva da un lato e mi divertiva dall’altro. Assecondai il mio desiderio di volteggiare libera come un’aquila nel cielo, e tentavo e ritentavo ignorando il dolore che, anzi, mi rendeva più forte e mi spingeva a oltrepassare i miei limiti. Calcio, schivata, assorbimento del colpo del mio avversario immaginario e contrattacco e così continuavo a ripetizione fino allo sfinimento.
“Sei precisa, ma troppo delicata. Non devi temere di fare del male, è pura autodifesa”.
Ripresi un attimo fiato e risposi al mio interlocutore: “Allora, insegnami, maestro”.
Fabiano si avvicinò lentamente ponendosi di fronte a me.
Quanto fu difficile fingere che non fossi al settimo cielo. Colui che popolava i miei sogni ogni notte era proprio davanti ai miei occhi con un adorabile sorriso da burlone. Andai in cerca di qualche segno di violenza ma il suo viso era candido, in salute, roseo sulle guance. La paura mi abbandonò, bastava un solo sguardo per cancellare ogni preoccupazione che mi affliggeva. Era questo il suo superpotere, oltre ad essere fantastico in ogni cosa che faceva, ovviamente.
“ Su, in posizione”.
“Non temi che qualcuno ci veda parlare e lo riferisca a tuo padre?”.
“Questo è un colpo basso” - mi fece notare lui.
Mi mossi veloce, sperando di coglierlo di sorpresa, e tirai un calcio mirando alle base delle gambe.
Lo schivò con un salto per un pelo.
“Caspita” - sospirò.
“Questo è un colpo basso” - lo corressi con un'intonazione diversa.
“Ma non abbastanza potente. Voglio che tu mi colpisca sul serio”.
“Che cosa stai cercando di dirmi?”.
“Colpisci” - ripeté severo.
“Fai sul serio?”.
“Tu colpisci e basta”.
Mi guardò come se mi stesse implorando di ferirlo, per scontare i suoi peccati.
Sferrai un pugno ben assestato. Non perché nutrissi del rancore ma perché lo avvertì più come un bisogno che una richiesta. Mi resi conto all'improvviso che il mio pugno si trovava al centro del suo petto.
La mia mano era nel suo petto.
Potevo sentire, sotto la maglietta, la sua pelle, la durezza del suo sterno, il battito del suo cuore. Diventai paonazza e feci per levare la mano. Lui la afferrò al volo.
“Come immaginavo. Non avere paura di farmi del male”.
Dubitai fortemente che sapesse quello che stava accadendo dentro la mia testa...
 “Riprova e più forte”.
Riprovai ancora e ancora.
Mi rilassava dare pugni e Fabiano, piano piano, mi metteva a mio agio, era facile con lui. Andava tutto alla grande, diventavo sempre più veloce, poi, però, mi partì un colpo incontrollabile. Fu come se avessi accumulato così tanta energia in eccesso che se non l’avessi rilasciata sarei esplosa come un petardo. Fabiano finì con la schiena a terra un paio di metri più avanti.
Corsi in suo aiuto, dispiaciuta.
“ Scusa, scusa, scusa. Non volevo, giuro che non l'ho fatto apposta”.
“Wow è stato fantastico! Era proprio quello che volevo. Impari in fretta. Dai riproviamo”.
“Fabiano, perché lo stai facendo?” - gli domandai a testa bassa.
“Ci stiamo allenando, nessuno lo può vietare. Sto semplicemente aiutando un’amica, non ci vedo nulla di male”.
“Nemmeno io, sempre se tu mi consideri tale: un’amica”.
“Non ho mai smesso, Leona. Non lo capisci? Volevo proteggervi, nel modo sbagliato forse, ma l’intenzione era quella. Sono molto rammaricato per quello che è successo con Gab e ammetto che la cosa mi stava sfuggendo di mano. Ma tu mi hai aperto gli occhi e non potrò mai ringraziarti abbastanza per questo. Davvero io voglio aiutarvi, se solo capissi il motivo…”.
“Non capisco”
“Tu sai perché mio padre ce l’ha tanto con voi? Non l’ho mai visto così nervoso per qualcosa, per qualcuno. Vi avverte davvero come una minaccia e ciò va fuori dalla mia comprensione. Con tutto quello che sta succedendo con le fate, la barriera, il trasferimento del campo di Roma, il ritrovamento di Felice…Immagino che tuo fratello te ne abbia parlato”.
Annuì.
 “Ti prego, dimmi se mi nascondi qualcosa o lo scoprirò da solo”.
Avrei tanto, tanto voluto confessargli tutto ma era rischioso, lo avrei messo in pericolo.
“Guardami” - dissi indicando tutta me.
“Ti sembro una minaccia?” - conclusi ridendo come a ridicolizzare il mio aspetto.
Mi osservò tristemente e disse: “ Le nuvole possono offuscare il sole ma i suoi raggi troveranno sempre il modo di mostrare la loro luce. Hai ragione, capisco che non ti fidi di me, ne hai tutte le ragioni. Ci sono delle cose, però, che non possono passare inosservate e che prima o poi verranno a galla”.
“Non so di che stai parlando, davvero. Io e Gab siamo due protettori qualunque, non c’è niente di speciale in noi “.
“Dimentichi che ho affrontato tuo fratello e non ho mai visto nessuno attaccare con una potenza del genere. E c’era anche lui…”.
“Smettiamola di parlare per metafore, credo che tu ti sia fatto qualche idea a riguardo, non è così?”.
“Sarebbe più semplice se mi dicessi ciò che sai”.
“Se fossi stata speciale, non credi che avrei protetto i miei genitori?”. Mi disgustava puntare sulla pietà e strumentalizzare, per i miei scopi, mamma e papà ma non vedevo altra via d’uscita da quel labirinto di Dedalo.
Mi bastò una sola occhiata per capire che non si era bevuto nemmeno questo meschino tentativo di mentirgli. Non l’avrei spuntata facilmente, troppo arguto per farsi prendere in giro da me o semplicemente deciso a scoprire la verità ad ogni costo. E ciò mi lusingava perché significava che ci teneva a noi, voleva davvero essere d’aiuto.
Sospirò e sorrise comprensivo. Questo non voleva dire che avrebbe mollato, si trattava di una semplice tregua.
Si avvicinò pericolosamente e sollevò una mano. Tremavo da capo a piedi quando afferrò, leggero, uno dei miei riccioli neri e se lo attorcigliò attorno al dito.
“Stanno ricrescendo velocemente” - disse sovrappensiero.
Avrei voluto bussare sulla mia cassa toracica per chiedergli gentilmente di smetterla di fare tutto quel rumore, mi metteva in imbarazzo. Deglutì piano e gli dissi: “Già, non riesco a trattenerli!”. Ci voleva un applauso infinito per la mia inettitudine a intrattenere una conversazione.
“So che sei nervosa”.
“Davvero? E’ così evidente?”.
“Sta tranquilla, andrà tutto bene. Sei più forte di quello che pensi, ce la farai oggi, non ho dubbi. Non è mai morto nessuno durante un esame, vedilo come un test di valutazione delle tue capacità. E poi adesso sei ufficialmente una di noi” - terminò facendo cenno col capo al mio marchio.
“Ah, sì certo l’esame”.
“Se vedranno quello che vedo io… beh, credo che rimarranno stupiti. Spero che faremo parte della stessa fazione”.
“Non sono sicura di poter puntare così in alto”.
“Non sottovalutarti, colpisci come hai fatto prima e non avrai problemi”.
“Sei troppo buono con me”.
“Perché? Dico solo quello che penso”.
“Leonaaa!” - qualcuno mi chiamava in lontananza.
“E’ Gab. Oh mamma, è già ora di andare?” - dissi in preda al panico.
Fabiano mi prese la mano e mi disse: “Tu puoi fare qualsiasi cosa, basta volerlo”.
Mentre mi specchiavo nei suoi occhi, dimenticai persino il mio nome. Volevo rimanere solo un altro po’ con lui. Non volevo che lasciasse la mia mano, non ero pronta. Ma mio fratello continuava insistentemente a chiamarmi quindi dovevamo salutarci.
“Mi racconterai tutto dopo l’esame, ok? Promesso” - disse allontanandosi da me, accarezzandomi il palmo.
“Sì certo… Che cosa? No! Non ho promesso proprio nulla!”.
“Invece sì!” - affermò convinto.
“Leona?”.
“Fabiano…”
“Quasi dimenticavo: Buon compleanno”.

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Capitolo 20
*** L'ESAME ***


Capitolo 10 - L'esame

Quel giorno dodici ragazzini provenienti da entrambi i campi avrebbero sostenuto l’esame, queste erano le nuove disposizioni. Dalla galleria giunse l’assordante scalpore di una folla impazzita, mille voci che si sovrapponevano fra loro, una più forte dell’altra. Dal soffitto scendeva leggero del pulviscolo marroncino che si depositava sulle nostre teste. Aiutai mio fratello a indossare l’armatura e mi sdraiai sulla fredda panchina di pietra per calmarmi un po’. Mi tappai le orecchie così che mi sarei potuta concentrare meglio. E ci sarei riuscita se Caterina, la ragazzina mulatta del campo romano, non avesse continuato a passeggiare avanti e indietro come una furia.
“Ti consumerai tutte le scarpe così” - la punzecchiò Gab.
“Vedi di farti gli affari tuoi, novellino”.
“Datti una calmata, carina, qui siamo tutti alle prime armi e tu non costituisci un’eccezione”.
“Non so come siete abituati voi mammolette del campo di Firenze, carino, ma noi a Roma facciamo sul serio. Siamo addestrati fin dalla nascita in vista di questo momento fatidico che deciderà l’appartenenza ad una delle fazioni. Se non vuoi farti la bua, tornatene dalla tua mamma” - lo provocò agitando il folto cespuglio riccioluto.
“Insomma voi due, volete darci un taglio?” - disse il ragazzino biondo, compagno di Caterina, tentando di mettere pace fra i due litiganti.
“Non vedete che siamo tutti sulla stessa barca” - li rimproverò indicando tutti i presenti. C’era chi si mangiava le unghie, chi tremava terrorizzato, chi fingeva una spavalderia che non gli apparteneva, alcuni piangevano, altri restavano immobili senza dire una parola.
“Infatti, dovremmo collaborare fra noi in modo tale da avere più chance”.
“Non ci penso nemmeno a collaborare con voi, feccia di Firenze, io lavoro benissimo da sola”.
“Caterina…” - sospirò il ragazzo biondo.
“Norman la vuoi smettere di fare il volta bandiera? Da che parte stai, si può sapere?”.
“Dalla parte di chi vuole rimanere vivo…” - e continuarono a battibeccare.
“Dai Gab, lasciala stare, siediti accanto a me” - dissi cercando di calmarlo.
“Che arroganza, ma chi si crede di essere?”.
“Hai cominciato tu Gabriel e comunque non ci riguarda. Dobbiamo rimanere lucidi e dare del nostro meglio”.
“Sì, lo so. Non vedo l’ora che si aprano i cancelli, non sto più nella pelle”.
“Ragazzi, temevo di non fare in tempo” - disse zio Mark richiamando la nostra attenzione. Aveva i capelli scompigliati e si sorreggeva alla colonna per riprendere energie. Fra le mani teneva Symphony, la spada di Gabriel.
“Non credevate mica che vi avrei lasciato affrontare l’esame a mani nude” - spiegò consegnando l’arma al legittimo proprietario.
“Questo vuol dire che posso usarla?” - domandò Gab carico come una pila elettrica.
“Certo che sì, dovete prendere confidenza con le vostre armi, saranno le vostre compagne di vita. Ho qualcosa anche per te Leona”.
“Per me?” - chiesi perplessa.
“E queste sono la causa del mio ritardo” - disse sfilando due lame ricurve, di un bianco immacolato, come se fossero fatte di ghiaccio, da dietro la schiena.
Le impugnai dal manico e le osservai in contro luce: non avevo mai visto delle spade del genere.
“Sono le Kopis di Arianna, o ciò che rimane di loro. Il fabbro le ha sostituite con un materiale molto raro, famoso per la sua incorruttibilità. E’ stata realizzata con frammenti estratti dal nucleo di una stella cometa”.
“Sono fredde” - dissi toccando la punta della lama. Nel farlo mi punsi un dito e lasciai scorrere piccole goccioline di sangue a terra.
“E molto taglienti a quanto pare” - osservò Gab.
“Grazie zio”.
“Consideralo il tuo regalo di compleanno. Adesso sei pronta anche tu ad affrontare ciò che verrà. Portate con orgoglio il nome della nostra famiglia”.
“Questa storia che fanno regali soltanto a te deve finire” - si lamentò Gab contrariato.
“Piccoli protettori, siete pronti?” - disse Bernardo, comparso in quel momento dietro lo zio.
“Lux omnia vincit” - risposero i sei del campo di Roma in coro.
“Mai stato più pronto di così “ - puntualizzò mio fratello, fendendo l’aria con Symphony.
“Da quest’anno le regole cambieranno. Considerando i tempi che corrono, il consiglio ha deciso di mettere a dura prova i bambini che si affacciano per la prima volta a questa realtà. Abbiamo bisogno dei guerrieri più valorosi che ci siano per poter affrontare una volta per tutte, senza colpi di esclusione, la congrega di Attilius il sanguinario ed è per questo che darete testimonianza delle vostre virtù combattendo contro una delle creature più pericolose conosciute nel nostro mondo. In realtà non è nulla di nuovo, sono state ripescate le antiche usanze dei nostri antenati in occasione di questo evento. Verrete catapultati direttamente nel bel mezzo di una vera battaglia e sopravvivranno solo i più forti, i più determinati, i più astuti. I più deboli soccomberanno” - continuò ancora Bernardo.
“Aspetta, che significa soccomberanno?” - domandò Norman, il ragazzino biondo dalla corporatura minuta.
“Entrate pure piccoletti” - disse Bernardo ignorando la domanda di Norman.
Dall’arcata principale comparvero delle graziosissime testoline. In fila indiana, una dozzina di bambini si disposero uno di fianco all’altro in silenzio religioso. Erano così piccoli, non avranno superato nemmeno i quattro anni, eppure sembravano talmente educati, composti, disciplinati. Ne contai dodici, proprio come noi, e ne fu affidato uno per ogni cadetto. Bernardo ci spiegò che il superamento dell’esame dipendeva dalla salvezza dei dodici pargoletti umani che ci erano stati assegnati. Durante la prova, gli esaminatori avrebbero valutato le nostre capacità quantificandole con un punteggio, proprio come mi aveva avvertito Morgana giorni prima. Qualcosa non tornava. Dove avevano trovato questi bambini? Se era così pericoloso come dicevano, quale genitore dalla mente sana li avrebbe lasciati andare? Per di più gli umani sapevano della nostra esistenza?
Domandai il nome al mio piccolo protetto. Lui si limitò a guardarmi con disinteresse per qualche secondo per poi tornare a fissare il muro. Non era particolarmente chiacchierone. Pensai che fosse impaurito, in fondo chi non lo sarebbe stato in una situazione del genere. In fine ci fu consegnata in dotazione una scatolina contenente l’oggetto che avrebbe fatto la differenza nella riuscita della prova o nel nostro più che probabile fallimento. Bernardo ci avvisò che ne avevamo soltanto una a disposizione e che avremmo dovuto usarla con saggezza. Appesi la scatolina alla cintura e aiutai Gab a fare lo stesso.
Richiamarono i dodici bambini all’ordine e ci lasciarono soli in attesa del suono del corno che non tardò a squillare.
“Hai paura?” - mi domandò Gab.
“Dammi la mano” - gli chiesi con gli occhi ancora chiusi.
 E lui obbedì.
“Ecco” - esclamai respirando profondamente.
“Ecco cosa?”.
“L’abbiamo divisa, un po’ per me e un po’ per te. Così avremo metà della fifa” - gli dissi sorridendo poco prima che aprissero i cancelli.
L’accoglienza fu più che calorosa. L’arena era ancora più enorme da laggiù e ogni via d’uscita sembrava lontana chilometri. In realtà era soltanto un’impressione, avevo studiato la pianta dell’edificio in ogni minimo dettaglio. Facendo quattro semplici calcoli, l’arena misurava all'incirca 76 m in lunghezza e 44 m in larghezza.
Raggiungemmo gli altri bambini e aspettammo che ci dessero il via per cominciare l’esame. Per pura curiosità sbirciai dentro la scatola per scoprire quale fosse l’oggetto misterioso.
Rimasi scossa, fu come se mi avessero gettato cubetti di ghiaccio nelle vene.
“Cosa c’è Leona?” - domandò preoccupato mio fratello.
“Non è possibile, non possono farci questo” - sbiascicai.
“Di cosa stai parlando, cazzo, Leona, mi stai spaventando”.
“Io non sono pronta a tutto questo” - cominciai a indietreggiare.
“Fa bene ad aver paura” - disse Caterina giocherellando con una pallina rossastra dall’odore acre.
“Questa è una bomba allo strozzalupo”.
“Voglio la mia mamma” - piagnucolò una bambina.
“Ci stanno prendendo in giro?” - esclamò Norman - “Deve essere uno scherzo”.
Seguì un ululato straziante.
Il sire si affacciò alla balconata e presentò i giudici all’assemblea. Dopo aver spiegato ampiamente lo svolgimento della prova, la folla diventò irrequieta. Come noi, anche tutti gli altri protettori erano all’oscuro delle nuove regole per l’ammissione alle quattro fazioni per effettuare il passaggio da novizi a cadetti. Perciò, in onore delle antiche tradizioni, i novizi avrebbero dovuto affrontare dei licantropi in carne ed ossa lottando fino all’ultimo per la propria sopravvivenza ma soprattutto per quella dei piccoli umani che ci erano stati assegnati. Chi non era degno, sarebbe morto nell’arena. Questo brutale sacrificio era necessario per una scrematura preliminare dei guerrieri delle nuove generazioni.
“Licantropi? Ma non erano quei tizi pelosi che si trasformano con la luna piena?” - rifletté Gab ad alta voce.
“Quelli sono i lupi mannari, idiota! Lo sanno tutti, che cos’hai segatura nel cervello?” - lo rimproverò Caterina.
“Probabilmente si tratta di licantropi maledetti, state pronti pivelli”.
“Qualcuno mi spiega per favore?” - disse Gab, palesemente innervosito.
“Sono quelli che, una volta effettuata la trasformazione, non riescono a tornare più indietro, rimangono imprigionati per tutta la loro vita dentro il corpo di un lupo e perdono ogni briciolo di umanità” - gli risposi dissolvendo ogni suo dubbio.
“Vi avevo sottovaluto a voi di Firenze, devo ammettere che ci sapete fare col divertimento” - disse Caterina puntando la lancia in direzione dei cancelli che si stavano sollevando pigramente.
Chiusi gli occhi. Non voglio morire, continuai a ripetere nella mia testa.
Uno sparo nell’oscurità.
Il passato si perse nello spazio e il presente si congelò al solo latrato del lupo.
Odore di sangue, urla di dolore, rumore di ossa che si spezzano e poi ancora sangue, sangue, sangue da per tutto.
“Mamma” - gridò un bambino prima che un lupo gli fracassasse il cranio fra i denti.
“Aiuto” - implorò un mio compagno mentre due lupi gli squarciavano il ventre nutrendosi delle sue viscere. Non vedevo né mio fratello né Caterina, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal mucchio di cadaveri sparsi per l’arena, proprio come nel sogno. Ancora lei, la morte, stava bussando alla mia porta, bramava la mia anima più di ogni altra cosa. Restavo nel limbo, immobile come una pietra senza degnarla di una risposta. Provai del puro dolore, mi mancava il respiro. Era vero, non li conoscevo, non gli dovevo nulla eppure ogni volta che li accerchiavano senza via d’uscita, che gli staccavano un braccio, ogni morso era come se lo ricevessi in prima persona. Quegli animali stavano facendo a brandelli i miei fratelli, era una vera strage d’innocenti.
Demetra correva trascinandosi la gamba con la carne lacerata. Tese una mano in cerca di aiuto, provai ad allungare la mia, a mia volta, ma le dita erano troppo intorpidite. Un lupo, alle sue spalle, con un guizzo fulmineo la atterrò e caddero ai miei piedi. Il sangue di Demetra mi schizzò sui vestiti, sul viso, sulla bocca. Ne assaporai anche il suo gusto metallico, di ferro arrugginito. Il famelico puntò alla nuca, la circondò con le sue fauci e le spezzò il collo. Ascoltai i suoi gemiti disperati prima che inalasse l’ultimo respiro. I suoi occhi fissarono il vuoto, privi di espressività.
Dovevo essere punita per questo. Non meritavo neanche un secondo di più della mia miserabile vita.
La bestia, dalle dimensioni colossali, sollevò la testa e, ringhiando cupamente, mi minacciò mostrando i canini sporchi di sangue. Fra i denti erano rimasti incastrati pezzi freschi della carne di Demetra.
Caddi sulle mie stesse ginocchia. Non riuscì a capire cosa vedessi in quegli occhi così gialli. Rimasi in balia della luce che emanavano, come un cervo accecato dai fanali di un’auto. M’infransi in milioni di pezzi come un bicchiere di cristallo che tocca il suolo. Cosa avrei voluto in quel momento? Nemmeno io lo sapevo con certezza. Era come se fossi la passiva spettatrice della mia vita e che guardassi da un altro punto di vista il mio corpo piccolo, insignificante al cospetto del mastodontico licantropo che proiettava la sua ombra su di me. Si acquattò con tutto il peso distribuito sulle zampe posteriori e aspettai pazientemente la fine. Pregai Dio affinché avesse pietà di me.
“Leona, no!” - disse la voce di Gab prima di gettarsi addosso al licantropo con Symphony sguainata al vento.
Il lupo scansò l’improvviso fendente della spada e indietreggiò di qualche passo dandoci la possibilità di fuggire. Ci stava alle calcagna, non ci dava un attimo di tregua, attendeva solamente che finissimo il fiato, fino a che non avremmo più avuto la forza di correre.
Mio fratello capì le sue intenzioni e mi disse: “Vai, corri più veloce che puoi”. Roteò su se stesso e lanciò la bomba allo strozza-lupo dentro la bocca dell’animale. Esplose e lo lasciò stordito per qualche secondo. Gab portò la sua spada dietro la schiena accompagnandola con il movimento del corpo e quando il lupo fu vicino, ormai indebolito e sofferente, gliela conficcò in gola con un affondo laterale. Cadde a terra senza vita, sgozzato malamente. Guardai Gab senza riconoscere chi mi stava accanto. Seppur piccolo di statura, era riuscito con un solo colpo a far fuori una bestia che era il triplo di lui, senza batter ciglio. Symphony, tinta di un rosso cremisi, gli tremava fra le mani ma il suo sguardo era duro, impassibile, come se sapesse perfettamente che ciò andava fatto. La folla esultò e non riuscì a sentire più nulla. Nessuno si fermò a pensare, per un solo istante, che un bambino di sette anni avesse ucciso qualcuno, un uomo, anche se non ne aveva la forma, per la prima volta. Nessuno si lamentò del fatto che un bambino fosse costretto a lottare per avere salva la vita a discapito della sua innocenza. Gab, però, conosceva il suo compito e lo stava portando a termine egregiamente. Mi accorsi come mai prima d’ora che, seppur gemelli, non ci assomigliavamo affatto. Non sarei mai stata in grado di fare ciò che lui aveva fatto con tanta fierezza. Era nato per essere protettore, io ero soltanto una sua pallida e inverosimile imitazione. Ero anche peggio: una vigliacca.
Vedevo le labbra di Gab muoversi senza capire nulla. Stavano arrivando altri due lupi, allora, Gab mi circondò le gambe per poi poggiarmi sulla sua spalla e corse con foga in cerca di un riparo. Gab era davvero forte, riusciva a trasportarmi e correre allo stesso tempo senza alcuno sforzo. Marlena aveva ragione: ero letteralmente un peso per lui, una zavorra che gli impediva di spiccare il volo. Se non fosse stato così occupato a prendersi cura di me, molti quel giorno non sarebbero morti, sarebbe stato un eroe. Demetra non sarebbe morta, avrebbe trovato una mano tesa pronta ad aiutarla invece di un’inutile ragazzina pietrificata dalla paura. Lo era comunque, era il mio eroe e non potevo fargli questo.
“Forse li abbiamo seminati, dove sono finiti?”.
“Non li abbiamo seminati, hanno cambiato obiettivo…” - dissi con appena un filo di voce.
I lupi che prima ci inseguivano, avevano circuito un piccolo umano scoppiato in lacrime. E mi sentì così meschina.
“Lasciami qui, Gab!” - gli urlai.
“E’ inutile, almeno uno di noi si salverà” - continuai.
“Che cosa stai dicendo? Smettila di dimenarti in questo modo o cadremo entrambi”.
“Lasciami ho detto!”.
Mi sbilanciai da un lato trascinando anche Gab con me, rotolammo per un bel pezzo e andammo a sbattere contro una roccia. Avevamo alzato un bel polverone, non riuscivo a vedere nemmeno a un palmo dal mio naso. Quando si dissolse, trovai mio fratello disteso a terra con una brutta ferita alla testa e la sua spada poco lontana dal suo corpo.
“Gabriel!” - esclamai distrutta, scuotendolo con forza.
“Gab, ti prego rispondimi” - dissi piangendo. Tentai di tamponargli la ferita con la mia maglietta.
“Mmm…” - muggì debolmente.
“Grazie a Dio” - sussurrai riconoscente al cielo.
“Alzati, presto, dobbiamo andare”.
“No, dai, altri cinque minuti per favore”.
“Non è il momento di scherzare Gabriel. Ora!”.
Ci fu uno squittio, come quando pesti qualcosa di viscido, gommoso. Delle goccioline cadevano a terra. Il lupo riprodusse un suono gutturale, di dolore profondo. Poi una folla acclamante entusiasta urlò selvaggiamente. Caterina aveva passato da parte a parte con la sua lancia appuntita il licantropo che stava per azzannare me e mio fratello.
“Non pensate che l’abbia fatto per salvare le vostre chiappe, idioti. Con questo il mio punteggio schizzerà alle stelle” - precisò altezzosamente.
“Grazie, ciò non cambierà la natura del tuo gesto”.
“Smettila d’infastidirmi” - rispose sventolando le mani come per cacciarmi via.
“Piuttosto vi siete chiesti dove siano finiti i vostri protetti?” - ci domandò mentre rideva di gusto.
“Attenta, alle tue spalle!” - l’avvisai prima che il lupo la prendesse di sorpresa. Gab si era alzato alla velocità della luce e lo aveva respinto con un potentissimo calcio sul muso.
“Correte!”.
Riuscivo a sentire solo il fragore delle bombe allo strozzalupo che esplodevano qua e là.
I lupi erano troppo impegnati a godersi il loro pranzo, così,
facendo slalom fra i cadaveri dei nostri compagni e dei piccoli umani, raggiungemmo la parte opposta dell’arena dove, dietro un grosso masso, un gruppo di bambini si era nascosto. Fra questi trovammo i nostri protetti e uno sconvolto Norman che dondolava tenendosi le ginocchia al petto.
“Non può essere vero, tutto questo non è reale, non è reale” - continuava a ripetere completamente impazzito.
“Norman, che stai facendo! Ti avevo detto di tenere d’occhio gli umani” - lo rimproverò Caterina mentre ci raggiungevano gli ultimi due superstiti.
“Sono morti tutti, dannazione” - disse Teodora portandosi le mani in faccia.
“Ho perso anch’io il mio protetto” - disse sconfitto Claudio.
“Ragazzi, niente panico, adesso…” - cominciò mio fratello.
“Adesso cosa?” - urlò Caterina - “ Siamo in trappola, non vedete?”.
“Già, siamo un ammasso di carne che cammina” - disse Norman.
“Stai zitto, deficiente!” - s’innervosì Gab.
“Non ti rivolgere così a lui, questa è tutta colpa vostra! Avreste dovuto fare da esca” - disse Caterina dirigendo la punta della sua lancia fra gli occhi di Gab.
“Esca? Ma di che diamine stai parlando?”
“Si capisce da sé che con degli avversari del genere è quasi impossibile, se non del tutto, uscirne tutti vivi. Qualcuno doveva pur sacrificarsi, mentre gli altri facevano fuori tutti i membri del branco” - spiegava lei.
“E ci stavamo quasi riuscendo, se tu non avessi cambiato il piano.  Diamola in pasto a quei luridi cani” - disse indicandomi col dito - “ne attirerà qualcuno su di se e quando sarà il momento noi…”.
Gab sguainò Symphony e colpì ferocemente la sua lancia con una penetrante vibrazione metallica.
“MIA SORELLA NON E’ SACRIFICABILE! SONO STATO CHIARO”.
“Ma davvero? Guardala, demente! Non riuscirebbe nemmeno a fare del male a una mosca, figuriamoci ferire un licantropo di quelle dimensioni. Non capisci, è già morta! Non può farcela, è debole e se non ce ne sbarazziamo subito, periremo con lei!”.
“Questi non sono affari tuoi, perché non ci vai tu lì, eh? O forse hai paura?” - e colpì nuovamente la sua lancia.
“ Ehi, così la scheggi. Non osarlo rifare o saranno guai”.
“Cosa non dovrei rifare?” - chiese Gab, impertinente, riproponendo lo stesso gesto con un fendente dalla parte opposta. La lancia le schizzò all’indietro e rimase salda su un piede solo.
“Ora mi hai stancato, brutto idiota!” - e cominciarono a scontrarsi fra loro.
“Per favore, basta, basta” - li pregai.
“Siete impazziti? I lupi ci sentiranno, smettetela immediatamente” - esclamò impaurita Teodora.
Ma non volevano sentire ragioni. Gab ruotò Symphony ad una velocità impressionante anche se la sua avversaria non era da meno: Caterina e la sua arma oblunga erano una cosa sola e la maneggiava con destrezza e una straordinaria sicurezza. La folla era in delirio, riempirono l’intera arena di schiamazzi e fischi al contrario dei giudici che sembravano invece disapprovare la situazione. Caterina era molto forte e ben addestrata ma Gab era su un altro livello. Quando accadeva “quella cosa”, i suoi occhi diventavano vitrei e assumevano un’espressione che sembrava non appartenere al suo volto anche se restava limpido ed estremamente concentrato. I movimenti erano fluidi, precisi ma di una potenza sovraumana come la furente corrente di una cascata che si riversa nel vuoto. La spatha di nostro padre gli scivolava fra le mani leggera e sinuosa per poi riafferrarla come se fosse attratta da una forza magnetica. Non c’era proprio nulla da dire, mio fratello era stupefacente, i suoi movimenti, secchi e brutali, non lasciavano alcuna via d’uscita. Il suo corpo gridava libertà ed era in perfetta armonia con ciò che lo circondava. Era tremendamente consapevole di cosa fare, come farlo, quando farlo, era scritto nel suo DNA. Ferì Caterina ad una spalla e lei rispose con un affondo dritto, schiavato a malapena.
Era tutto profondamente sbagliato. Per come stavano andando le cose, nessuno di noi avrebbe visto le luci del giorno seguente anche se la nostra squadra vantava di componenti strabilianti. Una rabbia, un odio profondo s’impadronì del mio animo. L’oggetto del mio disprezzo ero proprio io, la mia inettitudine, la mia debolezza, la mia codardia. Perché non riuscivo a muovermi? Perché non avevo fatto altro che piagnucolare? Perché era stato donato un potere così grande a un essere inutile come me che non sapeva nemmeno che farsene? Non lo meritavo.
“Lasciati andare”.
“Cosa?” - domandai frastornata. A chi apparteneva quella voce?
Una piccola manina gravava sulla mia spalla. Il bambino che mi era stato affidato parlò di nuovo come se la sua voce provenisse da un’altra dimensione: “Lasciati andare. Lascia che fluisca in ogni singola cellula del tuo corpo. Non tingere d’odio la tua anima, non opporre resistenza. E’ ciò che sei, è dentro te. Liberati da queste catene che ti opprimono e fa ciò che devi. Non sei sola e non lo sarai mai ed è insieme che vincerete”.
Dopo questa esperienza trascendentale, il bambino tornò nel suo angolo e non mi degnò più neanche di un’occhiata.
Provai un brivido dalla nuca fino alla punta della spina dorsale. Le kopis erano spietatamente gelate sulla schiena. Incrociai le braccia all’indietro e le tirai fuori, nello stesso istante, dai loro foderi. Scintillarono alla luce del sole, bianche come la prima neve al mattino. M’interposi fra Caterina e mio fratello e disarmai da un lato l’una e bloccai, con l’altra kopis, Gab. Il bacio fra le nostre lame provocò un’onda d’urto devastante e zittì tutta la gente seduta nelle gradinate. Vibrarono nell’aria soltanto le note acute e penetranti della melodia di Symphony.  Il suono si dissolse soffuso, lentamente, nell’etere e regnò la pace. Respirai.
Gab mi osservò attonito.
“Leona…” -  pronunciò il mio nome come se si fosse ridestato da un sonno profondo.
“Ricorda chi è il tuo nemico”.
Abbassai le kopis con le lame che sfioravano la sabbia e voltai le spalle ai lupi e ai corpi maciullati dei miei compagni.
“Caterina, perché sei venuta al mondo? Qual è la tua missione?”.
Le tremò il labbro, la sua espressione perse ogni briciolo di arroganza e insolenza.
“Noi tutti, che cosa siamo?”.
“Ve la do io la risposta: siamo fratelli. Sì, tutti noi, non è solo il sangue che ci rende tali ma qualcosa di più prezioso, più forte, più profondo è il legame che ci unisce. Se veniamo da luoghi diversi, Firenze, Roma, Siracusa, New York, cosa importa?
Noi difendiamo chi non ha il potere di farlo, noi siamo lo scudo del mondo contro le forze del male. Noi combattiamo l’odio, la perdita, la sofferenza, il dolore, la morte. Ognuno di noi è la risposta al grido di aiuto di un debole, di un indifeso. E se già da soli riusciamo a smuovere le montagne, pensate soltanto a cosa potremmo fare insieme”.
Presi le mani di Gab e Caterina e le strinsi fra le mie.
“Non riuscite a sentirlo? Siamo conduttori di energia, insieme la nostra forza è triplicata, è come se un po’ di te scorresse in lei e viceversa” - dissi spostando l’indice dal cuore di Gab a quello di Caterina.
“E in te, in te e anche in te” - dissi infine a Teodora, Claudio e Norman.
“Dobbiamo salvare questi bambini, è il nostro dovere. Non considerateli ognuno come il vostro, condivideremo anche loro. Lo scopo è di portarli al di là di quei cancelli. Se restiamo uniti possiamo farcela, io ci credo”.
“Sono rimasti nove lupi e noi siamo solo in sei. Come faremo?”.
“Dobbiamo fare fuori l’Alpha” - intervenne Caterina.
Tutti la guardarono scioccati.
“Con lui fuori dai giochi, il branco perderà l’orientamento e avremo più possibilità di isolarli e abbatterli uno dopo l’altro”.
“Senza sacrificare nessuno” - specificò porgendo a Gab una mano in segno di pace.
“Per una volta sono d’accordo con te” - disse Gab con un ghigno sfacciato.
“Quindi qual è il piano?” - chiese Caterina.
“Non c’è nessun piano. Pensatela come se ci fosse una rete fitta di informazioni immaginaria da condividere istantaneamente. Ognuno si adatterà all’altro. Ad ogni azione corrisponderà una risposta, una catena di azione e reazione. E noi rappresentiamo quella catena, come se fossimo una cosa sola”.
“Dovremmo leggerci nel pensiero? Ci vorrebbero anni prima di raggiungere un’affinità del genere in battaglia. Non ci conosciamo nemmeno” - puntualizzò Norman in un breve accenno di lucidità.
“A me basta sapere che abbiamo in comune lo stesso obiettivo e che sei dalla mia parte, è sufficiente. Non vi lascerò soli”.
“No, non lo farai” - rispose convinto Norman guardandomi dritta negli occhi.
 “Questa è la nostra prova di fiducia. Abbandoniamoci l’uno nelle mani dell’altro e oltrepassiamo quella barriera di lupi assassini. Tanto vale giocarsela, no? O preferite morire senza nemmeno aver lottato?”.
“Allora avete sentito? Raccogliete le armi e scriviamo la parola fine a questo stupido esame” - li persuase mio fratello.
“ E se la morte bussa alla nostra porta, noi cosa le rispondiamo?”.
“Non oggi!”.
 La tregua era finita, i lupi cominciarono a ronzarci intorno famelici più di prima. I loro ringhi diventarono pian piano un brusio tenebroso mentre guadagnavano terreno.
L’Alpha ululò seguito dai membri del branco. Era il loro urlo di guerra. Mi chiesi se avremmo dovuto sfidarli anche noi.
“Prendete gli scudi, fate come vi dico. Movimenti lenti”.
Eseguirono tutti il mio ordine senza ribellarsi e agguantarono ognuno il proprio clipeo.
“Gab? Fa suonare la tua spatha più che puoi”.
“Ulalalalalalalala” - schiamazzai agitando la lingua contro il palato. Poi percossi tre volte il clipeo con la kopis di ghiaccio.
Din, Din, Din.
Gli altri, senza preoccuparsi che fossi andata fuori di cervello, fecero lo stesso. Questo era il nostro inno bellico, un inno che annunciava il nostro imminente attacco.
I licantropi, infastiditi dal rumore delle spade e degli scudi, iniziarono a scuotere le teste e tentarono di coprirsi le orecchie con le zampe. Vagarono disorientati, senza alcuna meta, come se si fossero strafogati con una giara di vino. Loro indietreggiavano, noi avanzavamo facendo oscillare sempre più intensamente gli scudi.
Era il nostro varco, dovevamo agire subito.
“Dammi la lancia” - comandai a Caterina - “non preoccuparti, sarà di nuovo tua”.
“Cerca di non rovinarmela”
Riposi lo scudo dietro e strinsi il pugno attorno al legno dell’arma. Il lupo dalla folta pelliccia nera colse il mio austero e imperscrutabile cipiglio, i suoi occhi, gialli, come oro fuso, saettarono veloci, turbati dall’intensità di quello scambio.
“Pagherai per tutto ciò che hai fatto” - dissi a bassa voce mentre correvamo l’uno incontro all’altra comprendo una distanza immensa in pochi istanti. Ormai a qualche passo dalle sue fauci, collocai la lancia in un punto specifico del terreno, con un’angolazione di quarantacinque gradi, e sollevai le mie kopis al cielo. Gridai per incutergli timore e, proiettandomi con tutto il corpo in avanti, gettai lo scudo a terra dalla parte concava, con lo scopo di utilizzarlo a mo’ di slitta. Mi raggomitolai al suo interno con le braccia in parallelo alla testa e ingannai il mostro facendogli credere di volerlo attaccare. Cadde nella mia trappola e con un balzo lungo mi scavalcò gettando la sua ombra su di me. Sperai che avesse messo troppa forza sulle zampe posteriori per potersi slanciare in avanti e così fu. Resosi conto del suo errore, mugolò tristemente prima di pagare con la sua stessa vita. La punta della lancia di Caterina gli aveva trapassato la gola con la precisione di un chirurgo. Il secondo lupo non fu più fortunato del precedente: rallentai la corsa configgendo le lame a terra e, sollevandomi con uno scatto, calciai lo scudo che finì dritto sul muso della bestia. Rimase confuso dalla botta. Approfittando della sua distrazione, sgusciai sotto il suo addome mentre con le spade gli squarciai la pelliccia color onice riversando le sue interiora sanguinanti sulla sabbia bollente. Claudio e Teodora, dietro me, finirono ciò che avevo iniziato mozzandogli la testa. Come sotto effetto di una droga, m’affrettai a raggiungere il mio terzo obiettivo, ancora chino sulla sua preda. Visualizzai l’enorme macigno che occultava la scena di quel banchetto sanguinario, presi la ricorsa e, sfruttandolo come trampolino, gli piombai dall’alto accecandolo con le mie lame affilate. Il licantropo latrò per il dolore e scosse velocemente la testa per liberarsi di me ma cementai la mia presa attorno all’impugnatura delle kopis mentre venivo sballottolata come una bambola di pezza. Quando il lupo reclinò la testa indietro,  portai le ginocchia al petto poggiando i piedi sul naso di quel cane rabbioso. Sfilai le spade dai suoi occhi e con una capriola mi ritrovai a cavallo del suo morbido dorso. Ululava in preda alle atroci sofferenze inflitte dalle lacerazioni ai bulbi oculari. Ma non c’era spazio per la compassione, avrebbe significato condannare tutti a morte e non potevo permettermelo. Così gli trafissi il costato da ambo le parti augurandomi di aver beccato perlomeno qualche organo vitale.  Il lupo cadde di lato privo di vigoria ed io rotolai di fianco per non finire bloccata sotto il suo peso. Ma non era ancora finita: per qualche ragione era vivo. Ricordai che i licantropi possedevano il potere delle rigenerazione rapida che gli consentiva di guarire le ferite e recuperare le energie nella metà del tempo che sarebbe occorsa ad un semplice essere umano.
“Finiamolo” - gridò Gab. E senza aggiungere altro io e mio fratello passammo a fil di spada uno degli assassini dei nostri compagni. Senza lasciarci nemmeno il tempo di riprenderci, altri due nemici ci chiudevano ogni via di fuga. Schiena contro schiena, incrociammo le nostre spade e dal tintinnio della loro unione scoppiò il pandemonio. Gli occhi di Gab erano i miei, e i miei erano i suoi, il cuore che gli batteva in petto e pulsava il sangue in tutte le vie periferiche del corpo era anche il mio, condividevamo ogni respiro, ogni movimento. Eravamo l’uno lo specchio dell’altro e senza scambiarci neanche una parola  sconfiggemmo i nostri avversari con la furia di Achille. Accompagnava ogni mia mossa mettendo a disposizione il suo corpo come se fossimo un tutt’uno ed io ricambiavo a mia volta. Questo era il mio mondo.
Poi un bambino urlò: un lupo gli aveva afferrato il piede mentre Teodora cercava disperatamente di strapparglielo dalle grinfie. Così Gab corse in loro soccorso. Il solo pensiero mi tranquillizzò, avevo completa fiducia in lui.
Continuai ad occuparmi del mio problema che non aveva esattamente le dimensioni di un chiwawa.
Era la prima volta che le impugnavo ma io e le mie spietate kopis ci facevamo strada verso la vittoria. Era tutto scritto nella mia mente: ogni mossa, ogni stoccata, ogni parata ed era straordinaria la sincronia e l’equilibrio che avevo raggiunto, come se fossero un prolungamento delle  mie braccia, saldate nei punti dove le tenevo strette fra le mie mani.
Era una strana sensazione: credevo che quel potere si sarebbe impadronito del mio corpo e che mi avrebbe guidato senza alcuna partecipazione attiva da parte mia. Ma non era quello l’effetto osmosi, non avevo compreso nemmeno una minima parte del suo vero significato. Non avevo perso il mio libero arbitrio, non si sarebbe mosso un solo muscolo se non fossi stata io a volerlo. La mia coscienza era rimasta intatta come anche le mie emozioni. Era il potere stesso, quella memoria innata a supportare le mie decisioni. Seppur vero che il mio cervello era continuamente bombardato di informazioni, toccava a me coglierle al momento giusto e così le sinapsi collaboravano armoniosamente con quel sapere dal valore inestimabile.
“Ehm, sorellina se non sei troppo indaffarata, sarebbe gradita una mano qui”.
Effettivamente il lupo che aveva assediato Teodora era straordinariamente grande anche per la sua razza, un vero e proprio mostro peloso che ad una sola sbirciata te la faceva fare nei pantaloni. Gab continuava a trafiggerlo con Symphony ma era come colpire un muro di pietra.
Gli dovevo un bomba allo strozzalupo, dato che l’aveva già usata per salvare me, e decisi di ricambiare il favore.
“Prendi” - e gli lanciai l’unica bomba che avevo.
Gab non si preparò a riceverla: chiese a Teodora e al bambino di allontanarsi, brandì la sua spatha con entrambe le mani e aspettò che l’ordigno volasse proprio sopra di loro.
Boom!
Gab la tagliò in due ed esplose con un gran fragore. Il lupo venne sbalzato via e crepò una delle colonne portanti degli spalti schiattandovisi contro. Nella deflagrazione rimase coinvolto anche mio fratello. Incrociò le braccia al petto per proteggersi dalle schegge e grazie all’onda d’urto pattinò fino a dove mi trovavo io, scavando due lunghi solchi nella sabbia. Lo afferrai per la manica al volo e lo feci roteare come una trottola attorno a me. Acquistata l’energia centrifuga necessaria, lo scagliai contro il lupo dal manto marroncino che mi stava attaccando. Gab piroettò elegantemente per aria e precipitò, insieme a Symphony, su di lui affettandogli la nuca.  La testa volò lontana dal resto del corpo.
“Wow, bel colpo fratello”.
Nel frattempo Teodora era riuscita a dare il colpo di grazia al lupo di cui si era occupato Gab e Caterina  e Claudio ne avevano fatti fuori altri due. Caterina, col suo sguardo folle da guerriera, maneggiava la lancia con l’agilità di un’amazzone. Avevamo bisogno disperatamente di una come lei per chiudere la partita.
“Leona è il momento”.
“Hai ragione” - confermai.
“Claudio, Teodora, Norman! Attraversate i cancelli e portate i bambini con voi. Adesso che siamo in vantaggio!”.
“Che ne sarà di voi ?”.
“Io, Gab e Caterina sappiamo badare a noi stessi, andate e non discutete”.
“Caterina vieni qui, facciamogli da scudo” - la richiamai.
“Ehi, brutte palle di pelo schifose, siamo qui!” - si sbracciò Caterina per attirare l’attenzione su di noi.
“I vostri aliti sono così puzzolenti! Che cosa avete mangiato prima di venire qui? Letame?”- li insultò Gab.
Le loro provocazioni andarono a segno.
Ci fiondammo su di loro inarrestabili pur di tenere impegnate quelle bestie e consentire ai nostri compagni di portare tutti in salvo.
Il clangore delle nostre spade, i latrati  e le zampate selvagge dei lupi, la sabbia che ci annebbiava la vista sollevandosi da terra, la presenza dei miei compagni che combattevano al mio fianco, l’adrenalina nelle nostre vene. Tutto questo ne sarebbe valsa la pena. Non chiedetemi come ma trovai un angolo di pace in tutto quel caos. C’era solo il presente. Io ero lì a dare tutta me stessa per i miei fratelli e non pensavo soltanto a Gabriel. Sapevo che ciò era giusto così. Non me ne fregava nulla se sarei morta in quell’arena.
Non esiste morte più degna se non quella per i propri amici.
Mi voltai per accertarmi che tutto fosse andato per il meglio. I cancelli stavano per chiudersi. Incontrai lo sguardo triste di Teodora, strattonata da un Claudio disperato che la invitava ad entrare. Il suo silenzio mi comunicava il suo forte desiderio di restare accanto a noi.
“Non farlo” - le dissi come se lei  mi potesse sentire.
Inspirò ad occhi chiusi e si abbandonò nelle braccia di Claudio.
Poi ebbi di nuovo quella sensazione come se stesse per accadere qualcosa di terribile.
Norman e la bambina che teneva in braccio non avevano fatto in tempo a raggiungere i cancelli. Inciampò lungo la via su un cadavere maciullato. E cominciò a strillare in preda ad un attacco di panico. Ebbi la pelle d’oca. All’angolo, nascosto dietro una roccia, uno dei licantropi era rimasto in attesa di un occasione del genere. E non era un lupo qualsiasi. Pensai erroneamente che se ne fosse occupata Caterina, dal momento che lei stessa aveva proposto la sua uccisione.
L’alpha era rimasto in disparte per tutto quel tempo a tirare le fila di tutto il teatrino, era lui a guidare l’attacco di tutti i lupi. Il raccapricciante burattinaio si leccò i baffi e puntò le sue prede.
Forse fu solo frutto della mia immaginazione, ma prima di avventarsi su Norman e la piccola umana mi rivolse un’occhiata soddisfatta, di sfida.
Lasciai la mia postazione e corsi più veloce che potevo, fino a far scoppiare i polmoni. Norman restò pietrificato, immobile come un pezzo di marmo e bianco come un lenzuolo. Temetti sul serio di non farcela ma ci provai comunque. Mi ritrovai proprio di fronte  all’alpha, quando ormai aveva spiccato il balzo. Consegnai le kopis a Norman nel caso avesse dovuto difendersi e agì d’istinto.
Il sangue, caldo, mi colò lungo il braccio. Zampilli di un rosso vivo sgorgarono dal palmo, trafitto da uno dei canini della bestia. Tentai con tutte le forze di respingerlo trattenendo la chiusura della bocca ma capì che avrei fallito.
“Scappa” - singhiozzai mentre le ossa del braccio scricchiolavano sotto la sua morsa devastante. Non ebbi altra scelta: non opposi più resistenza. Il braccio si curvò con un’angolatura innaturale e restò intrappolato nella bocca del licantropo. Lo masticò con gusto. Tentai di non vomitare per i forti dolori che mi causava. Sperai che gli si conficcasse un pezzo delle mie ossa nella gola mentre strappavo via ciò che restava del braccio.
“Usa la spada” - mi suggerì la bambina.
Norman non aveva nemmeno preso in considerazione di lottare, aveva la faccia di chi si era arreso. Raccolsi la spada di ghiaccio, eredità di mia madre, e trafissi dal basso la mascella del mio aggressore, trapassandogli il cranio. Gab, offuscato dalla collera, infierì con Symphony su di lui e anche Caterina contribuì ferendolo fino a farlo diventare un colabrodo. Infine una freccia, dalle piume gialle, gli cavò l’occhio destro. Cadde a terra privo di vita. L’arco di Norman era ancora in tensione. Mi ero sbagliata: era stato lui a scoccare la freccia. Andai da Norman e gli abbassai l’arco.
“Adesso puoi lasciarlo, è finita” - gli dissi accarezzandogli la guancia.
Mollò la presa.
Fissava qualcosa.
Seguì il suo sguardo: c’era una mano sommersa dalla sabbia.
La mia mano.
Il licantropo l’aveva sputata via poco prima di morire.
Scoppiò a piangere.
“Shhh, non è niente. Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo vinto” - gli ripetevo ma Norman continuava a disperarsi sulla mia spalla. Gli sfiorai i capelli, ingarbugliati da grumi purpurei.
“Stai perdendo troppo sangue” - riuscì a dire, tirando su col naso.
“Stai tranquillo. E’ finita”.
“E’ finita”.
“E’ fin…”.
Poi scorsi il cielo: azzurro proprio come i suoi mesti occhi.
Mi ricordavano quelli di mio padre.

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Capitolo 21
*** EDNA ***


Capitolo 11 – Edna

Osservai quei cerchi concentrici incresparsi fino a perdersi nel nulla, come se non fossero mai esistiti, come se quel sassolino non avesse turbato la  perfezione della superficie del fiume.
Lo invidiai. Avrei voluto poter dire lo stesso di me ma ogni singolo attimo della mia vita lasciava profonde cicatrici e niente tornava più come prima.
Mi arrampicai sul supporto di legno per poi accomodarmi sulla ringhiera del ponte.
I passi leggeri di qualcuno fecero cigolare il pavimento. Fabiano aveva preso posto al mio fianco.
“Hai visto la classifica?”
“Già. Terzo posto: niente male, eh? Non capisco comunque come sia rientrata nella fazione rossa e Gabriel insieme a Caterina no. Non so tu ma direi che, per una che ha perso un braccio e che per la metà del tempo se l’è fatta sotto, è più di quanto potessi aspirare”.
 “Tu hai guidato alla battaglia sei ragazzini di sette anni che non avevano niente in comune fra di loro e li hai spinti a combattere per la salvezza comune e credi di non meritarti il pieno punteggio? Nemmeno il migliore condottiero riuscirebbe in una tale impresa”.
“Non lo so, forse ho solo avuto fortuna a trovare le parole giuste”.
“Quella è tutto fuorché fortuna. Hai toccato i loro cuori, gli hai dimostrato che avresti dato te stessa, che tu saresti stata la prima a mettere in gioco la tua vita per difenderli. Per questo ti hanno seguito”.
Le sue lusinghe mi imbarazzavano un po’. Non ero abbastanza forte da fronteggiare la sua disarmante sincerità.
“E’ stato parecchio umiliante” - confessai.
“Come fai a scherzare su una cosa del genere?”.
“Perché è così che mi sento: umiliata, presa in giro. Forse uno dei termini coloriti di mio fratello sarebbe più adatto, per una volta”.
“Non hai nulla di cui accusarti, ti saresti comportata allo stesso modo se avessi saputo la verità?”.
“Probabilmente no, non penso proprio”.
“E’ stato…incredibile” - Fabiano rimase senza altro da aggiungere.
“Non ho mai visto qualcuno combattere con tanto ardore, qualcuno disposto a sacrificarsi per i suoi compagni”.
“Scommetto che lo avresti fatto anche tu”.
“Perché così mi è stato insegnato. C’era qualcos’altro in te, non saprei come spiegarlo, è come se tutt’ad un tratto ti fossi incendiata. Tuo fratello era la polvere da sparo, tu la miccia”.
“Ma era tutto una finzione, non c’era nulla di vero”.
“Per me lo era, era tutto vero, ogni evento che si è consumato in quella arena era reale. Il generale Amadeus potrà essere uno dei più grandi illusionisti mai esisti, senza dubbio, ma voi gli avete reso le cose difficili. Ormai non si fa vedere da giorni, dicono che sia caduto in un sonno profondo. Succede quando i maghi dissipano una grande quantità di mana”.
Il mana era il nome che si attribuiva alla forza interiore necessaria a dare vita agli incantesimi degli stregoni. Questo potere spirituale poteva essere accumulato anche durante il combattimento e sprigionato contro il nemico.
“ Vedere i corpi dei miei compagni, quei poveri bambini innocenti, immobili, tutto quel sangue…Dio mio. Quando ho scoperto che erano ancora vivi, stavo quasi per impazzire dalla gioia. Mi chiedo come ci sia riuscito, a ingannarci tutti. Immagino che non sia stato facile creare dal nulla dei lupi mannari come se fossero lì, in carne ed ossa”.
“Affatto, nessun’altro illusionista sarebbe in grado di mettere in scena un incantesimo così potente. Pochi conoscono bene le creature sovrannaturali come lui, ci vuole una gran esperienza per poter concretizzare un’immagine che esiste solo nella tua testa”.
Più ci riflettevo su, più montava la rabbia. Avevo dato tutta me stessa, avevo sofferto per la morte dei miei compagni ed non era altro che una messa in scena. Amadeus, il generale degli stregoni, specializzato in illusioni, aveva studiato in ogni minimo dettaglio cosa sarebbe successo quel giorno. Con la sua magia aveva plagiato le nostre menti affinché vedessero ciò che lui voleva: degli enormi e disgustosi mostri affamati e senza pietà. Era chiaro, anche un cinico come il Sire non avrebbe pubblicamente giustiziato degli innocenti, non avrebbe rinunciato alla sua popolarità ed ai suoi sostenitori. Voleva dare spettacolo però e lo aveva fatto in grande stile. Aveva regalato al pubblico i suoi gladiatori dandoli in pasto ai leoni. Anche i bambini non erano altro che uno dei suoi miraggi ben riusciti, non c’era mai stato nessun umano da proteggere, nessuno era rimasto ferito o aveva perso la vita. In quell’arena c’eravamo solo noi. Avevamo combattuto creature astratte, frutto della mente di un pazzo.
“Che esibizionista! Avrei scommesso la mano che quei dannati cani randagi orripilanti ci stessero attaccando sul serio. Oh, aspetta, ma l’ho già fatto” - dissi pensandoci su.
Fabiano rise spensierato.
“Ho perso l’occasione di andarmene in giro con un uncino e una benda sull’occhio spolmonandomi come un vecchio corsaro: corpo di mille balene!”.
 “Sono felice che tu ce l’abbia ancora” - disse appoggiando la sua mano sul dorso della mia. Arrossì come al solito. Come faceva a rendere semplice e innocente un gesto che mi provocava il batticuore istantaneo?
“Mi ha fatto molto male” .
“Lo so. Ho avuto tanta paura” - bisbigliò pianissimo.
Si schiarì la voce: “ Ho avuto paura di perderti. Ho già perso mia sorella, se fossi morta anche tu o Gab, io…”.
Fu come se fossi stata investita da un treno e tremai, riflettendo sul significato di quella frase. Non voglio che tu vada via, resta con me. Cominciai a credere di occupare un posto speciale nel cuore di Fabiano. Avrei voluto dirgli anch’io che mi terrorizzava il pensiero di stargli lontano ma temevo che avrebbe frainteso. O che avrebbe capito davvero cosa lui stava diventando per me. Non ero ancora pronta ad espormi e a mettere in gioco i miei sentimenti.
“Non sei venuto a trovarmi in infermeria” - lo accusai.
“Sapevo che non saresti rimasta sola. Morgana si è presa cura di te e di tuo fratello con grande affetto. Fabrizio e i ragazzi non hanno perso nemmeno un occasione per farvi visita. E poi c’era quel ragazzino del campo romano, non ha mai lasciato la tua tenda, è rimasto lì tutto il tempo della tua convalescenza”.
“Chi? Norman? Credo che fosse logorato dai sensi di colpa…”.
“…O riconoscente, tu gli hai salvato la vita. Molti tengono a te, Leona. Sei una persona speciale, non puoi nasconderlo. Non dopo quello che è accaduto il giorno dell’esame” - disse sorridendo.
“Non è una giustificazione. Pensavo che avessi chiuso con gli ordini assurdi di tuo padre”.
“A volte i compromessi sono necessari”.
“Perché gli disubbidisci se poi  non vuoi andare fino in fondo?”.
“Ti prego non parliamo di lui, ok?” - mi supplicò garbatamente.
“Vieni facciamo una passeggiata, voglio mostrarti un posto”.
Saltammo giù, attraversammo il ponte e raggiungemmo l’altra sponda del fiume Coda di boa.
“Hai sentito?” - mi chiese sottovoce.
“Non girarti, fai finta di nulla. Mi stanno seguendo”.
“Andiamo nel bosco, lì sarà più sicuro”.
Prendemmo una scorciatoia per la poscondola al di là della collina e, nascondendoci fra un cespuglio e l’altro, gli inseguitori persero le nostre tracce.
Sbucammo fuori dal sentiero tracciato, ai piedi di una montagna che si affacciava su un piccolo laghetto. Era un posto incredibile, una radura protetta dalla caratteristica flora del luogo.
“Fabiano, è bellissimo”.
“Ancora non siamo arrivati”
“Come scusa?”
“Dobbiamo scalare la montagna”.
“Non ci penso neanche”
“Non avere paura, ci sono io ad aiutarti. E poi mi sembra un ottima occasione per allenarti come si deve. Hans finirà finalmente di torturati”.
“Ma è altissimo”
“Ti fidi di me? Ne vale la pena”.
Non ricordo nemmeno io come riuscì a persuadermi ma grazie a lui sconfissi una volta per sempre la paura dell’altezza. Non avevo più le vertigini, mi bastavano soltanto i suoi occhi e la sua presenza rassicurante per dimenticarmi del pericolo a cui sarei potuta andare incontro.
La vista da lassù era letteralmente mozzafiato, aveva ragione, ne valeva assolutamente la pena.
Riuscivamo a scorgere l’intera vallata del campo del protettori mentre il cielo si tingeva di un rosso appena accennato. L’aria era incredibilmente fresca e delle martagoni, un fiore tipico dei faggeti, di un colore roseo vinoso, mi titillavano le caviglie. La verzura di quella piattaforma volante era davvero strana, niente era al suo posto, e questo mi conquistava ancor di più.
“Bel panorama, eh?”.
“Sono senza parole, non riesco a descrivere come mi sento in questo momento”.
“Questo è il mio posto. Dove posso essere completamente me stesso, dove ritrovo la serenità. Passo molto tempo qui a riflettere. E’ il mio rifugio: il cielo è il mio tetto, l’aria le mie pareti, l’erba il mio pavimento…” - aprì le braccia e inspirò profondamente.
“E’ il tuo luogo segreto?” - gli chiesi celatamente compiaciuta che mi avesse mostrato qualcosa di così intimo, come se stesse mettendo a nudo una parte di se stesso.
“Tutti abbiamo dei segreti, non credi?”.
“Alcuni però è meglio che rimangano tali”.
“E quello?” - domandai per sviare il discorso.
“In realtà siamo qui proprio per questo. Avviciniamoci”.
Sull’orlo del precipizio, cullato incautamente da un ramo radicato nella roccia, c’era un nido fatto fili d’erba, stoffa, ramoscelli, piume e foglie secche.
“Mi aiuteresti a spostarlo di lì?” - mi chiese con dolcezza.
A giudicare dalla dimensioni e dall’altezza a cui era collocato, si trattava quasi certamente di un nido d’aquila.
“Non credo che mamma aquila sarà così entusiasta della nostra idea”.
“Purtroppo lei non c’è più. Dei ragazzi l’hanno infilzata con delle frecce per puro divertimento…”.
“Ma è riprovevole. Sono dei mostri! Non meritano nemmeno di fregiarsi del titolo di protettori”.
“Lo so, ma non esiste nessuna legge che ci vieti di cacciare gli animali”.
“Cacciare, uhm” - sospirai sconvolta - “questa è una carneficina”.
“Non sono riuscita a proteggerla” - disse Fabiano con la voce rotta. Un velo di tristezza scese su di lui avvolgendolo nell’oscurità della sua mente. Ebbi la netta sensazione che non si riferisse soltanto a mamma aquila.
“Tienimi per la maglietta”.
“Ne sei sicura?”
“Assolutamente”.
Poggiai un piede sul tronco per saggiarne la stabilità e proseguì pianissimo, un passo dietro l’altro,  con le braccia alzate per non perdere l’equilibrio.
Ed eccomi di nuovo sospesa su una voragine, in attesa di un errore fatale che mi avrebbe inghiottita per sempre nel suo freddo abbraccio. Non era come il primo giorno, sentivo che ce l’avrei fatta. Fabiano se ne restava zitto alle mie spalle, misurando ogni respiro pur di non alimentare il minimo rumore. Dentro il suo saldo pugno stringeva un lembo della mia casacca nera, di cotone leggero. Il vento s’insinuava fra i miei riccioli d’ossidiana. Con lui accanto a me avrei anche potuto camminare sulle nuvole, se solo me lo avesse chiesto.
Va tutto bene, va tutto bene, ripetevo come una cantilena.
Mi accovacciai, afferrai il nido e lo sollevai delicatamente per paura di rompere qualche uova. Non potevo fare movimenti bruschi, non mi rimaneva che indietreggiare alla cieca con estrema prudenza lasciandomi guidare da Fabiano.
Poggiandolo a terra, scoprì che quasi tutte le uova erano andate distrutte.
“Non è colpa tua, Leona. Ci sono molti avvoltoi qui intorno”
“E questo cos’è?” - dissi sollevando il guscio di un uovo di medie dimensioni, nero, come se fosse caduto in una pozza di petrolio.
“Non ne ho idea, speravo me lo dicessi tu. So che ti piacciono molto gli animali perciò ho pensato che avresti potuto svelarmi di cosa si trattasse”.
“Vedi? Sono i resti di uova di aquila reale ma questo…” - provai a strofinarlo per rimuovere inutilmente lo sporco. Lo adagiai al centro del nido e continuai a fissarlo incuriosita.
“Dovremmo tenerlo sotto osservazione, secondo me non manca molto alla schiusa”.
Ci sdraiammo a pancia in giù con le mani sotto il mento in attesa che accadesse qualcosa.
“Come sapevi che mi piacciono gli animali?”.
“Me lo ha detto tuo fratello, parla spesso di te”.
“Deve essere una noia mortale, mi scuso da parte sua”.
“A me non dispiace affatto. E’ l’unico modo per scoprire qualcosa su di te” - lui mi sorrise.
“Anche Ascanio non fa che elogiarti dalla mattina alla sera, devi andargli proprio a genio”.
Quel dannato impiccione, perché aveva deciso di rovinarmi la vita? Feci finta di nulla.
“Non c’è molto da sapere: mi piacciono i libri, le storie di avventura, sono totalmente affascinata dalle piante. Nel mio taccuino avevo creato una sorta di enciclopedia ma è andata distrutto nell’incendio di casa mia. Mi prenderai per svitata ma a volte gli parlo sai, spesso sanno ascoltare meglio delle persone”.
“E loro ti rispondono?”
“Sì, con i loro colori accesi, i profumi intensi, le loro forme fantasiose”.
Diventai rossa. Perché gli stavo confidando una cosa del genere?
Lui rise.
“Pensi che sia fuori di testa, lo so”
“No, non è per quello. Quando sei imbarazzata, le tue guance si infiammano come se avessi la febbre. La tua timidezza è così genuina”.
Fui tentata dal confessargli ogni cosa quando mi accorsi che la sua maglietta si era sollevata leggermente e senza volerlo il suo fianco era rimasto scoperto. Avrei dovuto distogliere lo sguardo ma ero troppo attratta dal quella cicatrice lattea, disegnata sulla sua pelle delicatamente abbronzata.
Istintivamente mi sollevai facendo leva sui gomiti e sedendomi sulle gambe gli scoprì la schiena.
Lui non disse nulla, non era arrabbiato, offeso o imbarazzato. Mi arrivò un pugno dritto nello stomaco, qualcuno stringeva le mie interiora in una morsa brutale mentre gli accarezzavo le migliaia di cicatrici gemelle incise sulla sua pelle.
“La tua mano, scotta” - disse imprigionandola dentro il suo palmo.
L’immagine di lui non era più nitida, ormai offuscata dai miei occhi ricolmi di lacrime, anche esse bollenti. Non volevo perdere il controllo ma mi era sempre più difficile, non potevo sopportare la vista dei segni che gli aveva lasciato la frusta.
“Scusa, non volevo che lo scoprissi così”
“Ti stai scusando?” - gli domandai senza riuscire a trattenere la rabbia.
“Gab lo sapeva?”
Rimase a bocca aperta, nell'assordante ma melodioso silenzio del creato.
“Certo che lo sapeva” - dedussi e feci per andare via.
Fabiano mi rincorse e mi cinse nel suo abbraccio.  Nascose il viso nell’incavo del mio collo e le nostre guance si sfiorarono a vicenda. La sua era fredda come la neve, la mia rovente come la lava. I suoi capelli mi solleticavano le orecchie.
Mi aveva circondata incrociando le braccia sul mio petto e aggrappandosi alle spalle, non riuscivo a scappare e forse non volevo.
“Che tepore. Sei così calda”.
“Dovresti starmi lontano, non voglio farti del male. Non ho il pieno controllo di me stessa”.
“Non mi farai del male, Leona”
“Come fai ad esserne così sicuro?”
“Perché la tua anima è gentile e pura. Non può concepire nemmeno l’idea di ferire qualcuno”
“Eppure l’ho fatto. A causa mia molte persone hanno sofferto, compreso tu”.
Lui allentò la presa su di me, mi mossi dentro il suo abbraccio e voltandomi riuscì a guardarlo negli occhi.
“Che razza di padre frusta il figlio per punirlo? È inscusabile!”
“Un genitore dovrebbe baciare la fronte e carezzare la guancia del proprio figlio, fargli sentire tutto il suo amore” - dissi ricordando i volti angelici di mamma e papà prima di metterci a letto.
“Ti ho mentito. Ho tentato di fare visita alla tua tenda. Volevo vedere con i miei occhi che tu e Gab non eravate feriti, che stavate bene dopo che siete svenuti al termine dell’esame. Le spie di mio padre mi hanno trovato e non ho potuto nulla contro di loro, se mi fossi ribellato non so cosa sarebbe potuto accadere”.
“Non merita un figlio come te” - affermai ancora fra le lacrime.
“Non ho rispettato il suo volere ed è per questo che forse mi sono meritato la sua ira. Ma sapevo soltanto che volevo delle risposte a tutti i costi, dovevo dare una spiegazione a quello che avevo visto. Iniziano a girare delle strane voci su di voi, la gente di questo luogo non si fida degli estranei, tanto meno dei figli di due ex protettori banditi dal campo. Molti anni fa, uno dei più brillanti strateghi del campo di Firenze, un certo Igor, ha cominciato a fare degli esperimenti umani per incrementare le capacità fisiche dei protettori, ossessionato dal renderci sempre più simili alle creature sovrannaturali. Ma oltrepassò ogni limite. Tramite la tortura e il dolore riusciva a stimolare il corpo a sopportare sempre di più a discapito della degenerazione mentale. Non hanno mai trovato le prove dei suoi misfatti perciò si pensava che fosse solo una leggenda. Fino al vostro arrivo. In quell’arena avete dato prova di avere qualcosa di straordinario, qualcosa che non può essere semplicemente insegnato. Siete qui soltanto da poco più di un mese e avete appreso più velocemente di chiunque altro. Eravate sicuri, inarrestabili, come se niente e nessuno sarebbe riuscito a fermarvi. In molti pensano che voi due siate frutto dei test scellerati di quel folle, lasciato in eredità ai suoi discepoli. Hanno cominciato a dire che la vostra famiglia facesse parte di quella setta e che vi avesse dato in sacrificio per perpetuare la causa dei discendenti di Igor”.
“Tu gli credi?”
“Non puoi essere una cavia di laboratorio” - disse sorridendo.
“Piangi e soffri per ciò che ingiusto” - cominciò a dire asciugandomi le lacrime con i polpastrelli.
“Hai un cuore che batte e che lotta per le persone a cui vuole bene. Non c’è niente di più umano di questo. Ma…credo che ci sia molto di più, non quello di cui blatera la gente. In voi arde la forza, la tenacia, la fierezza dei veri guerrieri, ciò a cui aspiro da quando ho cominciato l’addestramento”.
“Io non so spiegarlo ma se tu soffri, sto male anche io e mi cruccio nel trovare una risposta a tutta questa assurdità”.
Rimase in silenzio.
Forse avevo esagerato ma le parole uscivano sole come un fiume in piena ed era l’unico sollievo al dolore sordo al petto.
“Non sei stanco di far soffrire chi ti sta intorno?”.
“Gab…” - balbettò Fabiano.
Gab, con il sudore che gli imperlava la fronte, ci osservava con malcelato disprezzo.
“Allora eri tu a seguirci…”
Indugiò un istante sul mio volto angustiato e piangente.
“Fatti da parte” - mi disse altero e deciso.
“Gab, non è come pensi. Mantieni la calma…”.
Non considerò nemmeno il mio monito, mi afferrò il polso e mi allontanò da Fabiano senza troppi sforzi. Gli agguantò la maglietta sollevandolo da terra e gli tirò un gancio destro.
“E’ solo un traditore! Una spia di suo padre e i suoi scagnozzi, vuole solo farti parlare”.
“Ma di cosa stai parlando? Non lo farei mai! Io voglio solo pro…”.
“Non raccontarmi cazzate. So benissimo cosa avete in mente, non ti permetterò di fare del male a mia sorella, non me la porterete via come me avete fatto con gli altri”
“Continuo a non capire a cosa tu riferisca”
“Gab, cosa ti prende? Non ho alcuna intenzione di andare via! Fabiano sta dalla nostra parte”
“Parli così soltanto perché ti piace!”
Ebbi le farfalle allo stomaco. Come aveva osato quel brutto mostriciattolo a dire una cosa del genere davanti a Fabiano?
“ Ti ho visto spiarci fuori dalla tenda, hai fatto un sacco di domande a Teodora e poi sei corso da paparino a raccontargli tutto non è così?”
“Cosa c’entra Teodora con questa storia” - gli chiesi preoccupata.
 “Tu e la tua famiglia ci perseguitate soltanto perché avete paura di noi e del nostro potere! O forse perché lo volete tutto per voi!”
L’aria diventò elettrica intorno a lui. I suoi occhi erano dardi fiammeggianti e le sue braccia ricoperte da vene pulsanti. Le articolò con movimenti sinuosi per poi colpire il vuoto, sporgendole in avanti come se stesse spingendo un muro invisibile. Seguì uno schianto pauroso. Levammo gli occhi al cielo e restammo a bocca aperta. Un enorme frammento di roccia si staccò dalla montagna e fluttuò in aria contrastando la forza di gravità.
“Ecco di cosa siamo capaci. Credo che adesso tu abbia capito” - gli disse mentre la sua voce si affievoliva.
Era troppo anche per un duro come lui, non aveva mai esercitato il potere elementale su così larga scala prima d’ora. Si prostrò  in ginocchio per sostenere il peso di quel blocco di roccia gigantesco. Cominciò a respirare a fatica e gli sanguinò il naso. Lo stava schiacciando, non era ancora pronto per un tale sforzo, dovevo fermarlo ad ogni costo.
“Gabriel, fermo!”
Ripetendo le stesse movenze di mio fratello ridussi il masso in piccoli frammenti di pietra e lasciai che l’energia sgorgasse dal mio corpo. Piovvero pietre dal cielo e ricoprirono l’intera radura, altre finirono sul fondo del laghetto. Corsi a sostenere Gabriel ma lui  rifiutò il mio aiuto e disse - “Questo è quello che brama tuo padre: il potere dei medjai”.
Fabiano rimase sbigottito dall’accaduto, la sua espressione era indecifrabile.
“Voi siete, voi…” - balbettò.
Poi si ricompose e sospirò.
“Era questo che mi stavi nascondendo” - disse lui.
“Non sai quante volte ho pensato di dirtelo, ma temevo che ti avrei esposto a un pericolo troppo grande, non volevo che condividessi con noi un tale fardello che ti avrebbe costretto a mentire a tuo padre”.
Fabiano si coprì il volto con le mani e cominciò a gironzolare in torno.
“Ma certo!” - esclamò improvvisamente - “Quindi non è tutta una menzogna. Siete davvero voi, in carne ed ossa. Avrei dovuto saperlo, non potevate essere che voi. Adesso tutti i tasselli vanno al loro posto, questo spiega perché mio padre sia così ossessionato da voi. Studia da quando era bambino gli scritti hijiriani per scoprire di più sul vostro conto”.
Ci scrutò avidamente come se avesse davanti a lui la risposta ad ogni sua domanda.
“Come siete riusciti a sfuggire alla maledizione?”.
“Per volere di mamma, un incantesimo ci ha protetti per tutti questi anni, annullando la manifestazione dei nostri poteri e della nostra aura. Credo che i cavalieri della notte fossero interessati esclusivamente alle reliquie, non erano lì per noi”.
“Hai incontrato i cavalieri della notte?”.
Annuì.
“Che razza di incantesimo avranno utilizzato su di voi? Come è possibile che non vi abbiano riconosciuti? Non esistono magie così efficaci che io sappia, nessuno sarebbe in grado di contenere il potere dei medjai. Anche se…”.
“Anche se?” - lo aiutai.
“Non riuscite ad utilizzare a pieno il potere elementale, o sbaglio?”.
“Forse perché non abbiamo le reliquie con noi”.
“Senz’altro ma non è solo questo. Gli antichi elementali del fuoco, dell’acqua, della terra e dell’aria, sono rimasti dormienti per lunghi anni. La vostra energia dovrebbe provenire da loro, i Primordiali. Ma il loro spirito è stato corrotto dai cavalieri della notte, per scongiurare la nascita dei nuovi medjai. Senza di essi prima o poi i vostri poteri scompariranno”.
“Cosa?”.
“Già in questo momento è come se viveste di luce riflessa, piccole briciole residue scaturite dall’effetto osmosi immagino” - rifletté da solo. Sembrava letteralmente su di giri. Non lo avevo mai visto così infervorato per qualcosa.
“Conosci l’effetto osmosi?” - era praticamente un nostro fan.
“Certamente, so tutto sui medjai. Ho letto ogni libro sui vostri antenati. Mio padre teneva nascosti gelosamente i suoi scritti ma io conoscevo il suo nascondiglio. Ecco perché quel giorno…l’intreccio delle anime…” - disse infine.
“Cos’è?”
“Il giorno dell’esame Teodora mi ha raccontato, prima che i suoi genitori la portassero via dal campo, di aver avuto l’impressione di essersi connessa a te, come se tu fossi stata la sua fonte inesauribile di mana, il faro di luce che la guidava lungo la via. Suscitavi in lei coraggio, forza, determinazione. Non riusciva a spiegarsi bene il perché ma sapeva che quell’energia, quella sensazione di completezza proveniva da te. La sua anima era agganciata alla tua e i vostri cuori battevano all’unisono. Questo è lo straordinario potere dell’intreccio delle anime manifestato dagli antichi medjai. Era così che scendevano in battaglia i medjai e il loro popolo, come se fossero un’unica cosa. Di norma, però, l’intreccio delle anime applicato a un intero battaglione richiedeva grossi sforzi, impossibili da sostenere da un corpo umano. Era possibile utilizzare la condivisione del potere elementale al massimo con una decina di individui, se non di meno. Per questo i medjai indossavano le reliquie degli elementali. I primordiali, ridotti alle dimensioni di pietre preziose, venivano incastonati nelle reliquie e non solo amplificavano il potere del fuoco, dell’aria, della terra e dell’acqua nei medjai stessi, ma anche la condivisione di quest’ultimo di migliaia di volte. Ogni protettore che era legato alle loro anime, diventava esso stesso un baluardo del potere elementale. Era un esercito invincibile”.
Le parole di Fabiano aprirono le porte della mia mente, infransero ogni parete che mi divideva dalla realtà. L’effetto osmosi si mise in circolo e seppi che quello che mi aveva detto era davvero la verità. Non temevo più che Fabiano sapesse, forse avevo sottovalutato il forte legame che ci univa. Lui doveva sapere.
“Avete finito di sparare tutte queste boiate assurde?” - ci interruppe Gab.
Guardai per un attimo mio fratello.
“Che c'è?” - si lagnò.
 “Come mai non mi hai dato ancora dell’idiota, ho spifferato il nostro segreto”.
“Di lui mi fido”.
“Ma è il figlio del sire. Quel bastardo ti ha rinchiuso per giorni in quel tugurio senza cibo e ha sguinzagliato le sue spie per scoprire quanto più possibile su di noi e sfruttarci per il suo tornaconto”.
“Fabiano non è come suo padre, Gab. Nessuno lo deve costringere ad essere ciò che non è”.
“Perché ce l’hai tanto con lui?” - gli chiesi senza tanti giri di parole.
“Io volevo solo mettergli paura” - disse Gabriel addolorato come mai prima d’ora.
“Volevo allontanarlo da te. Io non voglio che ti porti via, lui non ti conosce, non sa quanto sei fragile, non saprebbe proteggerti come farei io. Non voglio che prenda il mio posto, perché so che tu mi abbandonerai e non so che farei se…”
Fabiano corse da lui e lo abbracciò.
“Gabriel mi dispiace se ti ho fatto soffrire” - gli disse. Lui rimase pietrificato, sorpreso dal quel suo inaspettato gesto affettuoso.
“Mi dispiace per ogni cosa che ti ho fatto, soprattutto quel giorno che ti ho umiliato davanti a tutti, non potrò mai perdonarmelo” - disse allontanandosi da lui.
“Sono stato meschino e crudele, poco importa se la mia intenzione era quella di distogliere l’attenzione di mio padre su di voi, per mettervi in salvo, non avrei dovuto scendere così in basso. Avrei dovuto lottare fin da subito e me ne pento, mi detesto per non avere avuto la forza di farlo”.
Fabiano mi guardò ricolmo di vergona.
“Gabriel non ti ha detto nulla, vero?” - disse con un sorriso amaro.
“Ricordi cosa ti dissi quella volta?”
“Va via, non ti conosco. Non voglio che la gente mi veda insieme a te. Non so cosa te lo abbia fatto pensare, ma non siamo mai stati amici, non potrei mai fare comunella con il figlio di chi ha infangato il nome stesso dei protettori. Tornatene da dove sei venuto e non infastidirmi più” - recitò Gab col tono di una tragedia shakespeariana.
Non potevo credere che quelle crudeltà fossero uscite dalla bocca di Fabiano.
“Non sono quello che tutti pensano che io sia, il “ragazzo delle meraviglie”, il degno erede dell’ammazza vampiri. Sono tutte un mucchio di sciocchezze. La mia anima è sporca. Io odio il mio nome, odio tutto di me, sono un debole, incapace di decidere con la propria testa, pilotato da un padre che non si potrebbe definire nemmeno tale. Quel giorno ebbi davvero paura…di diventare come lui. Meritavo ogni singola frustata per ciò che ho fatto”
“Ma che stai…” - esclamai sconcertata ma mio fratello frenò il mio impeto col suo braccio.
“Fallo finire”.
“Tutto ciò che volevo era una sguardo gentile che non pretendesse da me la perfezione, che non avesse costantemente incommensurabili aspettative, che ogni singolo dannato giorno non mi ricordasse quanto fossi lontano dall’essere come Sara. Qualcuno che mi vedesse semplicemente per quello che sono. Lo cercavo disperatamente negli occhi della gente, senza mai riuscirci. Nessuno mi ha mai chiesto come mi sentissi. “E’ un protettore, se la caverà”, “E’ abbastanza forte da sopportare il dolore” mi dicevano. Col tempo mi convinsi che fosse giusto così, dovevo soffocare il mio vero io o non avrei mai trovato approvazione in lui, pensavo che era tutto ciò che rimanesse. Lo avrei reso fiero, proprio come faceva lei. 
Ma la notte il suo solo ricordo mi toglieva il respiro, era tutto per me. Lui non mi capisce, non l’ha mai fatto. VORREI SOLO URLARE A MIO PADRE CHE NON SONO PERFETTO!”.
“Tu non sei affatto perfetto” - gli disse Gabriel con voce aspra, pungente.
Fabiano era sul punto di scoppiare ma per un attimo i suoi occhi si velarono di gratitudine.
“Lo so” - gli rispose sollevato come se Gab gli avesse tolto un peso dalle spalle.
“Sei solo un arrogante che finge un’umiltà che non ha. Sei perfettamente consapevole delle tue capacità, della tua forza ed è un vanto per te. Ti piace essere adulato dalla gente, ami essere il numero uno, è inutile che ti nascondi, riesco a vedere ogni singolo desiderio che ti passa per quella stupida testa bacata. Ti nascondi dietro a quel faccino da bravo figlioletto e menti costantemente alle persone che ti circondano. Ti sei beccato le frustate dal paparino per difenderci? Forse non è abbastanza, forse te le meriti per quanto sei codardo, non riesci nemmeno a dire la verità a te stesso, come puoi pretendere comprensione dagli altri? Potrai imbrogliare tutti, potrai anche ingannare lei “ - disse Gab indicandomi - “ ma non puoi mentirmi. Io ti vedo”.
“Ti prego, colpiscimi se ti fa sentire meglio…”
Gab non ci pensò due volte, scattò come una molla e colpì Fabiano ancora. Cadde a terra tamponandosi il naso sanguinante. Non volevo più guardare, mi faceva male il petto.
“Adesso basta. Siete due idioti, così va bene?” - gli gridai.
Restammo tutti e tre zitti. Gabriel era chino su Fabiano pronto a dargli il resto ma si fermò. Dissetava la terra con le sue lacrime.
“Nessuno di noi è perfetto, hai capito?” - disse Gabriel infrangendo il silenzio.
“Non ho mai voluto un amico perfetto, volevo solo un amico che per una volta non mi guardasse come se non fossi un mostro. Che fosse sincero, che mi accettasse per la testa calda che sono, con tutti i miei difetti. Qualcuno che non mi conficcasse un pugnale nelle spalle come un lurido traditore”.
A causa della sua indole irascibile e impetuosa, non era mai riuscito a farsi degli amici. Ero l’unica in grado di comprenderlo e accettarlo per com’era, in fondo lui era una parte di me. Era nell’ordine naturale che ci sarei stata sempre per lui, ero la sua famiglia, nel bene o nel male, il mio amore era più grande di qualsiasi cosa lui potesse dire o fare.  Sapevo, però, che ciò non bastava. In me avrebbe trovato la colonna che lo avrebbe sorretto anche nelle situazioni più difficili ma era in cerca di qualcos’altro, era come se gli mancasse qualcosa. L’ambizione di sentirsi accettato da qualcuno che non facesse parte del suo mondo lo tormentava da sempre.
“Perdonami, scusa se ti ho ferito”
Gabriel sollevò la testa da terra.
 “Lo so che non è molto ma è tutto ciò che ho. Non voglio rinunciare a te e nemmeno a Leona. Siete gli unici che mi fanno sentire vivo, che la mia vita non è stata costruita su una grossa bugia. Gli unici in grado di comprendere il mio dolore, quello che ho dentro. Perché il mio dolore è uguale al vostro. Siete voi ciò che cercavo e l’ho capito dal primo istante che vi ho incontrato.
Non ho mai detto a nessuno queste cose. Con voi non provo vergogna, posso finalmente smettere di fingere che vada tutto bene, perché nulla è al suo posto. Ma se lo condividerete con me, crederò che forse un giorno la tempesta passerà, non può piovere per sempre”.
Come avevano potuto essere così ciechi? Entrambi erano in cerca di qualcosa apparentemente diversa ma non riuscivano a vedere, invece, che i loro desideri erano simili, si completavano a vicenda. La meta era la stessa ed era ciò che li aveva fatti incontrare. 
“Adesso che conosci il nostro segreto, fai parte della nostra famiglia” - gli dissi.
Fabiano mi offrì il sorriso più bello che avessi mai visto, rimasi incantata.
“Gabriel, sono onorato che tu me lo abbia svelato. Forse una parte di te, inconscia, lo desiderava. Ti dimostrerò che non ti sei sbagliato” - gli disse Fabiano a testa china.
Gabriel lo aiutò a rialzarsi.
“Spero davvero che tu stia dicendo la verità”
“E’ una promessa” - gli confermò stringendogli la mano.
“Non voglio portarti via Leona, Gab. Ma devi sapere che le voglio bene”.
Il mio cuore mancò un battito.
“Lo so, è difficile non volere bene a quella scimmia insopportabile”
Gli risposi con una linguaccia.
“Non voglio che ci siano altri segreti” - cominciò Gab.
“Tuo padre è coinvolto con le sparizioni dei protettori e la morte di Felice” - gli confessò.
“Gab, non abbiamo ancora le prove!” - lo rimproverai.
“Ma lo hai sentito tu stesso quel giorno dire quelle cose” - disse avventato come sempre.
“Leona, sta tranquilla. So che mio padre sta tramando qualcosa, non sono uno sciocco”.
“Non deve essere stato facile convivere con questa verità…”
“Scopriremo insieme cosa sta dietro alle sparizioni, possiamo riuscirci”.
Feci segno a Fabiano di avvicinarsi e li tenni entrambi per mano.
“Ascoltate: abbiamo commesso tutti degli errori, siamo stati precipitosi, egoisti, orgogliosi ma ciò non conta più. Dobbiamo avere fiducia l’uno nell’altro ed avere la forza di perdonarci a vicenda”.
“Fabiano è andato contro suo padre pur di rimanerci accanto, ha lottato contro il suo connaturato istinto di compiacerlo e non immagino quale sforzo gli sia costato. Tu, Gab, sei stato fin da subito un buon amico, non posso credere che tu abbia dimenticato le motivazioni che ti hanno avvicinato a lui. Siamo legati da un profondo affetto e non dobbiamo permettere mai a nessuno di distruggere la nostra amicizia, è qualcosa di prezioso da preservare con cura”.
“Leona ha ragione. Voglio che sappiate entrambi…” - disse Fabiano - “Che non vi tradirei per nulla al mondo, il vostro segreto è al sicuro con me. Lo custodirò a costo della vita, finché un giorno non vi sentirete pronti a rivelarlo alla nostra gente. Non sono interessato a voi per il vostro potere ma per ciò che siete, devi credermi, Gab. Io vi proteggerò da mio padre e da chiunque voglia mettere le mani su di voi”.
Poi Fabiano fu interrotto da uno strano scricchiolio.
Allora io e lui esclamammo: “ L’uovo!”
Ci accovacciammo tutti e tre vicino al nido per assistere alla nascita del piccolo aquilotto orfano.
L’uovo continuò a muoversi a singhiozzi ed a linearsi sempre di più, finché una zampetta non bucò il guscio.
“Ma che diamine…”.
Il piccolo ruppe completamente il fragile involucro che lo aveva accolto fin dal suo concepimento. Si guardò intorno fino a quando non posò lo sguardo sui suoi osservatori curiosi.
Produsse uno strano verso a metà tra un cinguettio e un ruggito.
“Credo di aver visto molte stranezze in vita mia ma questo le batte sicuramente tutte” - esclamò mio fratello ancora sconvolto.
Restai ad osservarlo per alcuni minuti ma non riuscì comunque a trovare una valida spiegazione a ciò che mi si presentava davanti.
“E’ una…Chimera?” - suppose timidamente Fabiano.
 Ricordavo di essermi imbattuta in questo termine durante una delle mie tante letture pomeridiane sulla mitologia greco-romana ed ero quasi certa che fosse un mostro leggendario composto da parti del corpo di animali diversi.
Il nostro piccolo amico era piuttosto bizzarro ad essere sinceri. Era decisamente più grande dell’uovo che lo aveva ospitato, mi chiesi come avesse potuto starci comodo: aveva il corpo di un leoncino, la coda variopinta di un pavone, il becco affilato di un aquila e le orecchie paffutelle da coniglio. Ci fissammo a vicenda e non potei non trovare tremendamente adorabili quei suoi occhietti bicromatici: uno blu come il mare, l’altro splendente come l’oro.
Lo prelevai dal suo nido e lo sollevai per controllarne il sesso.
“E’ una femmina”.
L’avvicinai al petto e lei si accoccolò grata di quelle attenzioni.
“Qualunque cosa sia, è davvero brutta”
La piccola, dapprima beata fra le mie braccia, irrigidì le piume della coda e con uno scatto felino balzò sulla testa di mio fratello, beccandolo ripetutamente.
“Levatemela di dosso!” - gridò disperato Gab.
“Non avresti dovuto insultarla, ben ti sta!”
“Ti prego aiutami” - piagnucolò.
Sbuffai dalle narici e la richiamai: “Adesso smettila, basta! Torna qui!”.
Lei drizzò le sue buffe orecchie da coniglio e lasciò in pace mio fratello, trovando nuovamente posto in braccio a me.
“Si è affezionata subito, dovresti darle un nome” - mi suggerì Fabiano.
“Perché abbiamo intenzione di tenere quella cosa?” - domandò allarmato Gabriel.
L’animale cominciò a soffiare, ostile come un gatto. Faceva strano sentire quel suono dal becco di un uccello, era così innaturale.
Poi il suo sguardo tornò tenero come quello di un cucciolo e strofinò la sua testolina sul mio collo, cinguettando dolcemente.
“Dice di chiamarsi…” - iniziò mio fratello.
“…Edna” - conclusi io.
“L’hai sentita anche tu?”
“Riuscite a capirla?” - chiese curioso Fabiano.
“Già, per me è la prima volta ma per quella svitata di mia sorella non dovrebbe essere una novità”.
“Edna?” - mi preparai a scagliargliela contro.
“Ok, va bene. Scusa, scusa”.
Dal torace di Edna spuntarono due candide ali piumate e si gettò ancora su Gab per torturarlo.
“Bene, sa volare! Buono a sapersi” - e ridemmo insieme a Fabiano.
“Guarda, il crepuscolo”.
Contemplammo taciturni lo spettacolo che la natura ci offriva. Non rimaneva ormai che uno spicchio incandescente, lì, al confine fra cielo e terra, che proiettava la sua luce, intensa e calda. Il cielo tinto di diverse sfumature di rosso, era in netto contrasto con i contorni  cerulei delle nuvole, disegnati dagli ultimi raggi morenti del sole. Esso lasciava il posto alla sua pallida sorella, la luna, pronta a dissolvere, ancora una volta, le tenebre della notte.
“Senti, per quella cosa che ha detto prima mio fratello...”
“Un giorno voglio provarla anch’io quella sensazione”
“Quale?”
“Un giorno, vorrei sentire anch’io il calore della tua anima”.

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Capitolo 22
*** IL VAMPIRO ANOMALO ***


SEI ANNI DOPO…

Capitolo 12 – Il vampiro anomalo

Londra, 1952
"Preparati Edna, farà un gran baccano".
Al rintocco echeggiante del carillon, la lancetta puntò a ovest.
Bighellonavo sulla sommità del Great Bell, la torre dell’orologio del palazzo di Westminster, in attesa che la caotica Londra finisse con l’essere inghiottita dall’oscurità della notte, alla vigilia dell’incoronazione della nuova sovrana d’Inghilterra. Non si poteva certo dire che fossi una ragazza a cui piacesse stare coi piedi per terra.
Trangugiando il naso nella panna liquefatta del mio cono gelato, assaporavo chiotta, chiotta, il delizioso gusto della libertà, dopo essermela data a gambe da Andromeda, il campo dei protettori della capitale britannica. Tutte quelle regole non facevano per me. Giurai a me stessa che il mio esordio come cacciatrice di vampiri avrebbe costituito il temmirio del mio valore. Se solo zio Mark lo avesse saputo, sarebbe andato di certo su tutte le furie, ma queste erano le condizioni: prima avrei mozzato qualche testa, prima sarei potuta tornare a casa, perché ero davvero stufa marcia di tutto quello sfoggio ostentato di carinerie e garbatezza da bon ton.
“Ne vuoi un po’ anche tu, eh golosona?” – domandai a Edna, che quel giorno aveva le sembianze di un gatto nero, offrendole la mia cena. Edna, la mia chimera domestica, poteva assumere qualsiasi forma animale desiderasse. Raramente mi dava retta, quella capricciosa finiva sempre col far sempre di testa sua.
“Miao” – miagolò nostalgica di punto in bianco.
“Lo so, mancano anche a me” – le risposi facendogli i grattini dietro l’orecchio.
Ormai era trascorso più di un anno dall’inizio del mio apprendistato all’estero, ottenuto a caro prezzo dopo anni di allenamento sfrenato e sudatissime carte. Al torneo degli under quattordici, soltanto i primi dieci migliori cadetti che avevano già prestato giuramento e scelto il tipo sovrannaturale in cui specializzarsi, avrebbero potuto usufruire di questa importante opportunità. Fabiano, Morgana, Ascanio, Marlena, Carlotta, Fabrizio, Caterina, Norman, mio fratello ed io riuscimmo ad occupare tutti i primi dieci seggi, classificandoci come i migliori protettori della nostra generazione. Soltanto il primo però aveva il diritto di scegliere la destinazione e l’allenatore che lo avrebbe seguito lungo il percorso di formazione. Avendo ottenuto un meritatissimo primo posto nelle discipline teoriche e un terzo posto in quelle fisiche, perché Fabiano e Gabriel mi precedevano in classifica, decisi, senza consultarmi con nessuno, di sfruttare l’occasione di partire lontano, per essere istruita dal leggendario maestro delle arti combattive: lo Zoologo, chiamato così perché in grado di riprodurre tutte le tecniche combattive ispirate ai movimenti istintivi degli animali. Non si parlava molto bene di lui ultimamente, si diceva che fosse uscito di senno (tutto vero, accidenti!), ma voletti ugualmente fidarmi della sua brillante reputazione da insegnante. Dovevo affinare le mie tecniche ad ogni costo, non potevo rimanere una cacciatrice mediocre per l’eternità, o peggio una medjai mediocre. Gabriel avrebbe dovuto appoggiarmi invece di tagliarmi fuori dalla sua vita.
Lui e lo zio mi avevano pregato di restare e sapevo benissimo il perché di tanta preoccupazione ma il campo Betelgeuse non aveva più nulla da offrirmi. Gli promisi persino che Edna avrebbe vegliato su di me e nemmeno questo fu sufficiente a tranquillizzarli, credevano che non sarei sopravvissuta a lungo, là fuori, dove i voraci cavalieri della notte avrebbero potuto stanarmi. Non avrei vissuto nel terrore, era fuori discussione, sarei dovuta diventare molto più forte di così se un giorno avessi incontrato sulla mia strada quei vigliacchi mascherati.
“Fabiano” – pronunciai il suo nome con un sospiro.
La mia mente indugiava su di lui come spesso accadeva quando rimanevo sola con i miei pensieri. Immaginai più e più volte come sarebbe stato il nostro incontro, a cosa gli avrei detto, quanto fosse cresciuto…
Fu l’unico a schierarsi dalla mia parte, insieme a Morgana, visto che anche lei non vedeva l’ora di evadere dalle quelle asfissianti mura  e dalle continue pressioni del padre che l’avevano imprigionata dalla sua nascita. Quando seppe che il suo apprendistato si sarebbe svolto nella città dell’amore, Parigi, svenne dalla gioia. Ci scrivevamo quasi tutti i giorni, non volevo perdere i contatti con nessuno dei miei amici, compresi Fabrizio e Norman.
In effetti, ora che ci riflettevo su, le parole dell’ultima missiva di Fabiano mi avevano turbata più di quello che volessi ammettere.
Cara Leona,
oggi abbiamo imparato una nuova tecnica per catturare le Silfidi. Sapevi che adorano nascondersi fra i cespugli di rose bianche? Tuo fratello si è messo a cercare fra gli arbusti e ha distrutto alcuni dei loro fiori. Le fatine si sono parecchio arrabbiate e hanno gettato un incantesimo su di lui. Adesso sta bene, ma ha vomitato carpe di acqua dolce per una settimana. Dice che gli è rimasto ancora il sapore di pesce in bocca e che per questo, Dania la sua ragazza, lo ha lasciato. Credo che sia tornato dalla sua ex, Giada, o Carola, adesso non ricordo, ho davvero perso il conto.
Ci sono nuovi sviluppi sul fronte protettori scomparsi: ho scovato una chiave cucita dentro il cuoio della copertina di “Cinquanta ricette per il tuo stufato di Troll” nella libreria di casa mia. Non ti sembra sospetto? Chissà cosa apre?
Un mese fa hanno anche vietato l’ingresso alla grotta delle impronte e al tempio dei trofei, ricordi quel luogo dove teniamo esposti i bottini di guerra? Zanne di vampiro, saliva di lupo mannaro e tutte le altre cianfrusaglie. Inizialmente pensavo che fosse per via dei lavori di ristrutturazione ma hanno finito da un pezzo, per quale motivo lo tengono ancora chiuso? Ci mancano le tue geniali intuizioni.
Comunque, prova a scrivere a Gabriel. Non lo ammetterà mai, ma gli farà sicuramente piacere. Dovrete riappacificarvi prima o poi!
Adesso devo lasciarti, Marlena mi sta aspettando per l’allenamento. Aspetto con ansia una tua risposta.
Con affetto,
Tuo Fabiano.

La tenevo proprio in quel momento dentro la tasca posteriore del mio pantalone di pelle nera. Finsi che non m’importasse più di tanto che “Marlena lo stesse aspettando” da qualche parte, loro due da soli. A dire la verità m’infastidiva e come! Dovevo immaginare che quella psicopatica avrebbe approfittato della mia assenza per potergli stare accanto e fare la smorfiosa con lui. D’altra parte però me l’ero meritato.
Dovevo darmi una mossa a tornare o lo avrei perso.
Quando la falce argentea trafisse il velo nero notturno seppi che era giunto il momento.
Edna si trasformò in una civetta e lasciai che mi sorvegliasse dall’alto mentre io aprì la mia prima battuta di caccia.
Mi assicurai che avessi tutte le armi con me e che il sacchetto con la polvere di verbena fosse traboccante. Indossai la mantellina scura, mi coprì il capo col cappuccio e nascosi il mio volto con una benda. Soltanto i miei occhi blu dardeggiavano nell’oscurità, in agguato, pronti a scorgere il nemico. Strofinavo circospetta i pomoli delle mie inseparabili kopis, alloggiate nei loro foderi lungo i fianchi, i coltelli, imbevuti di veleno, nascosti dentro gli stivali di cuoio. Ricordando gli insegnamenti dello Zoologo, dosavo ogni singolo passo come una creatura digitigrada, limitavo i respiri, acuivo i miei sensi restando in ascolto dei rumori della città e mi muovevo fra le ombre, evitando i coni di luce proiettati dai lampioni.
Passarono ore, sembrava che nessun vampiro londinese avesse intenzione di attaccare briga. Che noia mortale! Dov’era finito tutto il divertimento? Decisi di visitare il cimitero, magari lì, con un po’ di fortuna mi sarei imbattuta in qualche uccellino nascente, neonati in cerca del primo sangue, non pretendevo mica di incontrare immediatamente un Drakulia. Controllai qualche tomba ma nulla, era un vero mortorio.
Feci un giro per i vicoli bui, cercai persino fra le rive del Tamigi, sotto i ponti, ma gli unici esseri che li abitavano erano per lo più vecchi ubriaconi e prostitute che si scaldavano attorno al fuoco.
“Non se ne parla brontolona che non sei altro, non me ne andrò a mani vuote stanotte, fosse l’ultima cosa che faccio” – rimbeccai Edna appollaiata sulla mia spalla.
“Dannazione, è possibile che in questa città non ci sia nessuno che abbia bisogno del mio aiuto?” – imprecai pugnalando per la rabbia una locandina affissa al palo nella luce.
La punta della lama si confisse sulla lettera “N”. Tre idioti ballavano e cantavano sotto la pioggia, con dei ridicoli impermeabili color giallo canarino.
“Singing in the rain” – lessi ad alta voce.
Non avevo mai assistito ad un musical. A dirla tutta, non avevo nemmeno messo mai piede dentro a un cinema. Potevo farne a meno pensai, anche se non ci credevo fino in fondo. La curiosità, come sempre, ebbe la meglio su di me. Chi aveva stabilito che avessi dovuto privarmi di qualsiasi esperienza umana per quanto superflua potesse essere?
“Edna, ti va una serata alternativa?”.
Lei inclinò la testa da un lato per assicurarsi che i fumi di Londra non mi avessero dato di volta il cervello. Mi rivolse tutti gli epiteti più volgari che conosceva quando la infilai nella tasca della giacca sotto forma di porcellino d’india. Mi liberai del cappuccio e sciolsi i capelli sulle spalle. Ignoravo il perché avessi il cuore così colmo di gioia quando varcai la soglia del teatro, camminare su quel tappeto rosso mi regalava emozioni sconosciute. Attraversai in fretta l’atrio inondato dall’invitante profumino di pop corn e burro di arachidi. Avevo l’acquolina in bocca. L’ultimo spettacolo era già iniziato da pochi minuti ma desideravo ugualmente entrare in sala con tutta me stessa. Guardai, angosciata, la biglietteria, non avevo una sola sterlina con me.
“Buon uomo, due biglietti per Singing in the rain, per favore” – disse il giovane davanti a me dalla voce calda e suadente. Era solo, non lo accompagnava nessuno. Perché ne aveva presi due? La sua figura slanciata, muscolosa, raffinatamente elegante, era avvolta in una giacca color kaki che gli cadeva a pennello sulle spalle larghe. I capelli bronzei, tendenti al ramato, un po’ spettinati, gli solleticavano dolcemente la nuca.
Avvicinò guardingo una banconota da cinquanta sterline e intimò al venditore di tenersi il resto.
Lui meravigliato da tanta generosità, gli fornì immediatamente ciò che gli aveva chiesto.
Il ragazzo si voltò e rimasi folgorata dalla sua inumana bellezza.
Caddi sul fondo delle sue pupille nere come il carbone arso dalle fiamme. Le folte sopracciglia e la mascella leggermente squadrata rendevano il suo viso maturo sebbene i suoi lineamenti, dritti e regolari, palesassero la sua giovane età. La sua pelle era di un bianco innaturale, pallida come quella di un cadavere. Sotto la giacca indossava una camicia azzurrina e un blazer lungo.
Mi passò accanto ed ebbi la pelle d’oca. Aveva un ottimo odore. Edna squittì agitata dentro la tasca. La mia mano la raggiunse in fretta per tranquillizzarla e mi morse un dito. Non mi sentivo più le gambe, in quel momento la mia carnagione assunse la stessa tonalità del giovane che mi osservava in tralice. Lasciai la mano dov’era e tamponai il taglietto come potei. Chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni sollevando impercettibilmente un angolo della bocca. Una piccola e incantevole fossetta gli scavò dolcemente la guancia. Era un sorriso sghembo strepitoso. Poi entrò in sala, sbattendosi la porta alle spalle. Stropicciai il biglietto che aveva “accidentalmente” fatto cadere dentro la tasca.
Il vampiro, chiaramente assetato, non era caduto nella mia trappola, non era interessato al mio sangue. Raccolsi il guanto di sfida e lo seguì. La caccia era appena iniziata.

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Capitolo 23
*** AL CINEMA ***


Capitolo 12.1 – Al cinema

La sala era piena di ricche famiglie londinesi dell’alta borghesia. Il fascio luminoso sprizzato dalla cinepresa, proiettava un fotogramma dopo l’altro ticchettando allo scorrere veloce della pellicola. Non era affatto come guardare un programma alla televisione. L’immagine era grande quanto tutta la parete, era come se potessi entrarci dentro e ballare insieme ai protagonisti, come se potessi toccarli allungando una mano. La scena aveva monopolizzato il mio interesse e così mi accomodai nelle ultime file, vicino a un uomo solitario, col cappello, che profumava disgustosamente di acqua di colonia. Solo dopo notai Lui, il vampiro. Sedeva nella poltrona davanti alla mia. Da lì avrei potuto tenere sott’occhio la mia preda.
Era molto furbo, circondandosi di tutta quella gente, non sarebbe stato facile coglierlo di sorpresa. A giudicare dall’aspetto, doveva essere un osso duro, uno di quei vampiri di marmo. Forse non avevo abbastanza verbena con me da poterlo rendere vulnerabile ma non me lo sarei lasciata scappare. Era molto carino, mi dispiaceva decapitargli quel bel faccino. Niente di personale, avrebbe trovato posto in uno dei miei gloriosi piedistalli.
Rise sommessamente. Che cosa c’era di così divertente?
Avvicinai la mia bocca al suo orecchio e gli domandai: “Perché non mi hai attaccato prima? Cosa vuoi da me?”.
“Niente” – rispose infastidito.
“Come hai fatto a resistere al richiamo del sangue?”
“Il tuo sangue non ha alcun odore e probabilmente non avrà nemmeno un buon sapore”.
Quelle parole mi offesero e m’innervosirono più del dovuto. Edna squittì rabbiosa come me.
“Non piaccio alla tua amichetta”
Poteva sentire Edna? Pensavo che io e Gab fossimo gli unici in grado di farlo.
“Ma come…”.
Il giovane sibilò, con le labbra a beccuccio e poggiandovi l’indice sopra.
“Sta a guardare. Questa è una delle scene più importanti del musical”.
Guardai lo schermo. Don Lockwood, il protagonista, uscì fuori sotto la pioggia, assaporando le gocce d’acqua sul palmo della sua mano, l’ombrello era diventato soltanto un insulso oggetto di scena. Non gli importava di rovinare i suoi vestiti eleganti, sorrideva estasiato al cielo grigio di Hollywood.
Inizialmente pensai che fosse stupido, poi lo invidiai. Era un uomo innamorato e sorrideva all’idea dell’amore. Era libero di scegliere di farsi una passeggiata e beccarsi un bel raffreddore piuttosto che viaggiare comodamente nel caldo abitacolo di un’auto. Libero dagli sguardi della gente che lo osservava esterrefatta cantare nel bel mezzo di un temporale.
« What a glorious feeling, I’m happy again. I'm laughing at clouds so dark up above.The sun's in my heart and I'm ready for love » - canticchiava allegro mentre con uno slancio aggraziato si arrampicava sul lampione.   
Il vampiro faceva il coro all’attore.
Rimasi confusa dal suo entusiasmo. Mi aveva contagiato con la sua stravagante interpretazione della canzone, avevo quasi dimenticato che ero lì per ucciderlo.
“E’ una delle performance più strabilianti di Gene Kelly, non trovi anche tu? Che ballerino eccelso, la sua energia è impareggiabile. Questo é soltanto uno dei suoi più fenomenali capolavori. Hai già visto Un americano a Parigi?”.
“Perché hai comprato quel biglietto?” – gli chiesi diretta.
“Perché, mi chiedi, eh ragazzina? E’ il minimo che possa fare per te”.
“Non ha alcun senso ciò che dici”
“Volevo che anche tu sapessi cosa si provasse. Lo desideravi. E’ già molto grave che tu non abbia mai messo piede dentro a un cinema e ancor di più che non tu abbia mai visto un musical di Kelly”.
“E tu cosa ne sai?”
Si limitò a fare spallucce.
Ormai non avevo più alcun dubbio: era un anomalo, dovevo prestare molta attenzione. Vuoi giocare a fare l’umano? Lo sfidai nella mia testa. Giochiamo.
“La trama non ha molto senso ma…Credo che questo spettacolo sia la forma più espressiva della gioia di vivere che abbia mai visto”.
“Non potrei essere più d’accordo con te, eppure non riesco a comprendere a pieno la sua felicità. Kelly é un rivoluzionario, un luminare di questo genere. Evade dagli schemi di una società ingessata, impiantata al solo scopo di far carriera e soffocata dallo stereotipato attore del cinema muto che non conosce nemmeno lontanamente cos’é l’umorismo. Ci insegna a trovare la felicità anche nei più piccoli gesti della vita quotidiana, riesce a sorridere anche sotto la pioggia. Ma cosa lo spinge?”.
Lasciai che la sua mente vagasse alla ricerca di una risposta che lo soddisfacesse e ci godemmo il resto del film ridendo sporadicamente a qualche battuta o qualche episodio esilarante.
Poi, improvvisamente, il suo umore si fece nero. Non aveva più voglia di commentare il film con me. Mi guardai attorno senza riuscire a capire cosa lo avesse impensierito. Lo sentì ringhiare cupamente quando una bella donna, involtata in una pelliccia rosa, si avviò concitata verso l’uscita del cinema. Infilai presto la mano dentro lo stivale, tirai fuori il pugnale avvelenato con la verbena liquida e glielo puntai alla gola bloccandolo da dietro. Edna diventò ancora più nervosa e cominciò a rosicarmi la tasca.
“Non muovere un muscolo o ti decapito qui seduta stante”.
“I suoi pensieri sono disgustosi” – sputò impetuoso.
“Di cosa stai parlando?”
“Non è ancora giunto il momento, non è qui che mi ucciderai. Tu non capisci, lei è in pericolo”.
“Capisco e come. Non ti azzardare a fare un altro passo falso”.
“Guarda quell’uomo laggiù” – disse con la voce strozzata.
L’urgenza nel suo tono mi costrinse a voltarmi. L’uomo che aveva notato prima, seduto nella mia stessa fila qualche poltrona più avanti, armeggiava sbrigativo con la cintura del suo pantalone.
Si coprì col cappotto, guardò a destra e a sinistra circospetto e si alzò dalla poltrona in tutta fretta, abbandonando anche lui la sala.
“Ti prego lasciami, prima che sia troppo tardi”.
“Cos’è? Farai tardi per la cena? E’ maleducato da parte tua non finire il film…”.
“Scusami, non mi lasci altra scelta. Mi troverai nel vicolo più buio di King’s road, sotto l’insegna lampeggiante sul retro di un vecchio bar”.
“Come scusa?”
“Aiutatemi vi prego! Aiuto, aiuto! Ha un coltello” – disse ad alta voce. Rimasi sbigottita e non feci in tempo a nasconderlo.
Tutte le teste presenti in sala scattarono in direzione della disperata richiesta d’aiuto di quel vampiro.
Si accesero le luci e cominciarono le urla di terrore alla vista del mio pugnale puntato sulla gola del ragazzo.
Il vampiro si allontanò da me in soffio, dietro di sé la scia del suo dolce profumo tracciò la mappa per raggiungerlo ma non ebbi il tempo per seguirla. Fuggì in mezzo alla folla inferocita che mi additava come assassina. Quando seminai i due uomini della polizia, avevo perso di vista il ragazzo dalla bronzea chioma setosa.
Ero nel panico, non sapevo se avere fede nelle sue parole, ma era la mia unica pista. Scaraventai per aria quella cricetina bisbetica di Edna dalla mia tasca mentre le spuntavano le piume sul dorso dal cinereo manto e andai a cercarlo.
Il vicolo era deserto. Le lampade dell’insegna lampeggiavano pietosamente a intermittenza, indicando che, oltre quella porta, vi era l’ingresso per il paese dei balocchi degli alcolici scadenti, pronto ad accogliere i più patetici beoni della città.
Cosa mi aspettavo? Mi sentì così stupida e ingenua, come avevo potuto lasciarmelo scappare da sotto il naso.
Se non fosse stato per quel lesto trapestio di tacchi, non sarei rimasta un minuto di più in quell’angusto e lugubre angiporto da incubo.
Riconobbi subito quella pacchiana pelliccia rosa, i suoi lunghi guanti a gomito bianchi, la sua acconciatura fresca di parrucchiere. Mi mimetizzai fra le ombre degli edifici e divenni l’apatica spettatrice di quella scena da film dell’orrore.
Il mascara le era colato sulle guance, i gemiti soffocati e inconsolabili della donna le impedivano di gridare aiuto. Riuscivo a sentire quella zaffata insopportabile di acqua di colonia anche da quella distanza. L’uomo del cinema l’aveva presa per il collo e aveva cominciato a denudarla, strappandole il vestito. Alcune perle della sua collana avevano saltellato giocosamente fino ai miei stivali. Conobbi solo allora quanto putrida poteva diventare l’anima di un uomo. Desiderai fortemente la sua morte ma il mio codice morale da protettore me lo impediva. Avremmo protetto indistintamente tutti gli umani da esseri sovrannaturali, senza mai interferire nelle loro faccende, imparziali e impassibili, perché la nostra forza era superiore alla loro. Quello però, non era affatto un uomo: era una bestia, della più brutta specie, ancor più di qualsiasi lupo mannaro o vampiro. Non potevo lasciare che quelle sordide e ipocrite leggi del mio popolo avessero la meglio sul mio senso dell’onore, su ciò che il mio spirito ritenesse giusto. Nel momento in cui decisi che le sue ceneri avrebbero insozzato l’aria che respirava quella povera donna, come giusta punizione per le azioni di quel mostro, il vampiro comparve dal nulla alle sue spalle, con sguardo folle e tempestoso. Gli spezzò le gambe e lo lasciò in ginocchio, boccheggiante per il dolore.
“Corri via di qui, non ti farà più del male” - ringhiò alla ragazza mezza nuda e impaurita.
Le sue parole mi colpirono come una frusta, anche se non erano rivolte a me. Quanta violenza e ingiustificata crudeltà stava infierendo alla sua vera natura? Non aveva senso: perché stava rinnegando se stesso per una semplice umana? Quanto gli era costato pronunciare quella frase in preda all'inestinguibile sete che gli ardeva dentro gola?Non hanno un’anima, sono le creature più spietate della terra e bramano una sola cosa e farebbero di tutto per ottenerla: il sangue. Era questo il caposaldo del mio credo; ma non era ciò che vedevo.
Per quale motivo il mio castello di certezze stava crollando, pezzo dopo pezzo, ed io rimanevo schiacciata dalle sue macerie?
“Grazie” – continuava a ripetere la donna al suo eroe, fra le lacrime, mentre si lasciava alle spalle il brutto ricordo di quelle luride mani empie.
Un eroe. Stavo davvero delirando.
Il vampiro la seguì con lo sguardo finché non voltò l’angolo, poi si abbandonò ai suoi istinti e squarciò la pelle dell’uomo che aveva in pugno, dissetandosi col suo sangue.
“Lascialo andare, ripugnante creatura”.
Il vampiro trangugiò l’ultimo sorso di plasma e mollò la presa sulla sua giacca. Il suo cappello cavalcò un refolo di vento, abbandonando il suo proprietario che stramazzò sul marciapiede con un tonfo sordo, come se fosse una scatola vuota.
Gli angoli della sua bocca erano ancora sporchi del suo sangue.
“Volevo che le cose andassero esattamente per il verso giusto, senza interferire con il mutevole volere del destino…” – disse sommessamente.
“Allontanati da lui e vieni sotto la luce, lentamente. Sta volta non mi scapperai”.
Ascoltai il suono legnoso delle sue suole calpestare garbatamente il cemento. Rimasi accecata dall’intenso riverbero che la sua pelle diafana generava quando colpita dal fascio luminoso del lampione. Brillava di luce propria, come un diamante dalle mille sfaccettature. Nessun occhio umano avrebbe potuto percepire quell’esplosione di luce. Ad esclusione del mio, io riuscivo a vederlo per ciò che era: la pelle di un bevitore di sangue. Si pulì col pollice osservando con rammarico la macchia scarlatta.
“E così sei tu. Finalmente é arrivata. Colei che mi risparmierà altro dolore, che dissolverà le mie atroci sofferenze, che metterà fine a questa ributtante vita da demone.
Lei sapeva già del tuo arrivo…”.
“Che cosa stai farfugliando? La tua epopea su quanto la tua vita faccia schifo non susciterà pietà in me. Dovresti darci un taglio con questa patetica autocommiserazione”.
“Questa è la mia vita dopo la morte, il mio inferno personale, imprigionato in questo corpo che mi disgusta. Almeno vorrei guardare negli occhi colei che mi elargirà finalmente la pace eterna cui anelo da sempre e ringraziarla”.
“Mi stai prendendo in giro? Avevo intenzione di farla finita in fretta ma sei davvero irritante, credo che ti lascerò morire molto lentamente”.
“Sento bruciare il tuo odio così intensamente. Sento urlare la tua vendetta nella mia testa. Non dovrai più soffrire, io sono la risposta a tutte le tue domande, i nostri bisogni sono corrisposti. Uccidimi e troverai anche tu quello che cerchi” – disse col viso in agonia.
Lo raggiunsi dentro l’abbagliante cerchio che metteva  a nudo la sua beltà e ci guardammo negli occhi. Il mio algido sguardo dentro le sue iridi, non più nere ma calde e rosse come la sabbia del deserto.
“Come osi interpretare i sentimenti di una sconosciuta? Tu non sai nulla di me, non fingere di conoscere ciò che provo. Con me i tuoi giochetti ammaliatori non funzionano. Non tergiversare, stai solo perdendo il tuo tempo”.
Le kopis gli baciarono la gola perlacea senza penetrare la sua pelle tempestata di diamanti.
I suoi occhi scarlatti mi parlavano senza mentirmi. Mi sentii pervadere da un irrazionale timore. Non perché avessi di fronte il predatore più pericoloso del mondo ma per come mi leggesse perfettamente la mente. Temevo che tirasse fuori tutto quello che avevo dentro, che sguinzagliasse i fantasmi del mio passato, che pronunciasse ad alta voce i loro nomi, nomi che sarebbero dovuti restare prigionieri dell’oblio per sempre.
“Non è un favore ciò che ti concederò. Ti scardinerò la testa dal collo perché giustizia sia fatta. Hai ucciso quell’uomo, poco importa se non meritasse un solo respiro di più. E’ sbagliato”.
“Hai ragione, i crimini di un uomo non legittimano la sua condanna a morte” – concordò con me.
“Sono reo tanto quanto lui. Non avevo il diritto di bere il suo putrido sangue da stupratore”.
“Fallo, ti prego. Strappami via da questa inutile esistenza se ne sei capace”- mi supplicò prostrandosi in ginocchio.
“Ti prego uccidimi”
Le sue parole mi raggelarono il sangue. Aleggiavano ridondanti nella mia mente: Uccidimi, Uccidimi – mi pregava la voce di una donna.
“Ma prima, tu o Dea della morte che vesti le umili spoglie di una mortale dalla bellezza angelica, rivelami il tuo nome” – recitò delirante i versi di una poesia che non conoscevo.
M’incantò la sua voce sonora e gentile.
 Cosa mi prendeva? Non dovevo perdere di vista il mio obiettivo. Era lui il mio nemico.
Anche sul punto di morire aveva deciso di farmi saltare i nervi a fior di pelle.
“Io non sono una dea, non c’è nulla di divino in me…” – gli risposi adirata.
“Leona…”.
La ferrea impugnatura sulle mie daghe glaciali vacillò e feci un passo indietro. No, scossi la testa, non stava accadendo veramente.
“Come diavolo fai a sapere...?”
“Hai paura” – affermò preoccupato come se si fosse dimenticato di qualcosa di fondamentale importanza.
“Il tuo respiro, i battiti del tuo cuore stanno accelerando, le tue pupille sono dilatate”.
“Sei un mostro” – lo condannai.
“Sì, lo sono” – disse e mi turbò con la sua risata argetina.
“Lo pensi davvero?” – mi chiese nonostante fosse palese che conoscesse già la risposta.
Non potevo ignorare il fatto che fosse venuto in soccorso di quella ragazza, che quell’uomo, giacente esangue ai miei piedi, fosse la feccia più ripugnante sulla faccia della terra e come i suoi pensieri fossero lerci e sacrileghi. Probabilmente desiderava ardentemente il sangue della ragazza con la pelliccia rosa, con tutto se stesso, e anche se colto dalla frenesia, era riuscito a soffocare il suo istinto più primordiale. Più lo guardavo, più mi rendevo conto che fosse molto lontano dall’essere un mostro. Era ammirazione quella che provavo nei suoi confronti?
E se mi stesse solo facendo il lavaggio del cervello per farmi abbassare la guardia? Quel bastardo non l’avrebbe fatta franca.
“Poco importa ciò penso. Non ho altra scelta. E’ il mio destino, uccidere tutti i vampiri che incontrerò sulla mia strada. Ho giurato di difendere gli esseri umani e non mi sottrarrò al mio dovere. Io devo farlo” – dissi provando a intonare tutta la convinzione di cui fossi capace ma mi tremò la voce.
“Chi lo ha stabilito? Il futuro può sempre cambiare” – mi ammonì, severo come un padre.
“Non il mio” – insistetti.
“Hai fatto ciò che dovevi” – disse tutto a un tratto. Fra le sue palpebre non restarono che delle fessure, era come se cercasse di trattenere lacrime che non sarebbero mai arrivate.
“Cosa?” – domandai dubbiosa.
“Tu non hai colpe”
Sollevai lo sguardo su di lui e seppi, non so come, che vedeva le stesse immagini che scorrevano davanti ai miei occhi. Osservava, insieme a me, l’uomo incappucciato fuggire dalla finestra dopo aver bevuto il sangue della mamma, l’inconfondibile elsa di Symphony abbattersi furiosa sulla testa di Sam, gli occhi di ghiaccio di mio padre incupirsi fino all’opacità, il suo corpo accasciarsi fra le braccia della ragazza dai capelli d’argento, le mie mani raccogliere Symphony da terra, mia madre agonizzante su un pavimento ricoperto di sangue. E sussurrava qualcosa…
“Scusa” – alitò distrutto.
“Sta zitto! Esci fuori dalla mia testa!” – strillai con tutto il fiato che avevo in gola.
Non sopportai quell’immorale comprensione, la compassione, la tristezza che lessi dentro i suoi occhi da assassino. Mi stava giustificando? Quel dolore mi apparteneva, era solo mio. Non aveva il diritto di profanare quel vortice maledetto di ricordi che custodivo gelosamente nell’angolo più remoto e protetto della mia mente. Nessuno avrebbe dovuto vedere il vero colore della mia anima.
La mia ira lo travolse come un uragano.
Le mie lame bramavano la sua testa.
 

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Capitolo 24
*** GLI ABOMINI ***


Capitolo 13 – Gli Abomini

Minuscoli granelli di verbena volteggiarono liberi nel vicolo buio di King’s Road.
 Dov’erano finite le kopis?
“Alice, Jasper! Cosa avete fatto!” – li rimproverò esterrefatto il vampiro dal ciuffo bizzarro.
Mi mancava l’aria e il dolore alle costole non aiutava di certo. Nonostante fossi un protettore, e quindi molto più resistente dal punto di vista fisico rispetto ad un semplice umano, subì le inevitabili conseguenze dello scontro con l’inviolabile pelle granitica di quei due velocissimi e vigorosi vampiri di marmo nel pieno delle loro forze.
Affondai la testa in segno di resa sulla morbida pelliccia della mia amica che aveva miracolosamente attutito l’impatto. Tossì e rantolai del sangue nero e denso sul palmo della mia mano. Il ruggito rabbioso della pantera risuonò ancora più minaccioso dentro il mio orecchio.
“Non mi hai lasciato altra scelta Edward, ho dovuto farlo. Stava per ucciderti” – gli strillò la piccola ragazza dai corti capelli corvini. Oro liquido nei suoi occhi, intensi, penetranti. Tutto di lei gridava delicatezza, raffinatezza. Ogni singolo gesto era aggraziato e posato. Tacchi alti, guanti neri di velluto, un invidiabile vitino da vespa. Indossava un vestito nero con la gonna a campana su cui era stampata una scacchiera bianca e nera. Le sue spalle scoperte non temevano le rigide temperature invernali, il suo collo era esile come la sua corporatura, e mostrava una fragilità che non si addiceva ad una della sua razza. Il suo viso dai tratti delicati era di una bellezza indiscussa.
“Lo so, l’ho visto nella tua visione”
“E’ per questo che le sei andato incontro a braccia aperte? Volevi suicidarti?”
La vampira seguì lo sguardo spiritato del compagno rimasto imbambolato sul cadavere dell’uomo dissanguato.
“Edward” – sospirò comprensiva.
“Non di nuovo”
“Questi non sono affari tuoi. E poi senti chi parla, hai appena colpito una adolescente, ti senti in diritto di giudicarmi?”
“Oh no, non puoi dire sul serio. Quella adolescente, come la chiami tu, sai bene quanto sia pericolosa”.
“E tu non potevi fare a meno di coinvolgere tutta la famiglia, non è così?" – disse squadrando con disprezzo l’alto ragazzo biondo accanto all’elfa magrolina.
“Famiglia. Mi sorprende che esca dalla tua bocca questa parola. Perché sei così egoista? Se ci considerassi tali non andresti in giro a farti macellare come un animale. Hai minimamente pensato a Carlisle o peggio ancora Esme? Le avresti spezzato il cuore!”.
“Alice, stai calma. Tanto non serve a nulla” – la rassicurò il biondino dall’aria tremendamente tormentata, poggiandole una mano sulla spalla. Mi fu chiaro con quel tenero segno di affetto che fra quei due c’era una relazione. Era alto almeno il doppio della minuscola e irritate vampira, dalla voce fastidiosamente squillante, impegnata nella sua terribile ramanzina. Due ciuffi di capelli biondi e ondulati gli coprivano gli zigomi levigati e marmorei e lasciavano ammirare la sua liscia fronte spaziosa. Il suo viso era candido come la neve, solcato appena da qualche cicatrice trasparente sul mento e sul collo, visibili soltanto alla luce. Le sue labbra sottili erano serrate come saracinesche, il suo sguardo, dorato come i suoi capelli da leone, era incorniciato da due profonde occhiaie violacee. Mi guardò per un breve istante e dimenticai cosa fosse la rabbia, era come se me l’avesse gentilmente strappata via, senza nessuna coercizione da parte sua. Infranse ogni briciolo della mia ardente ira dentro quegli occhi spendenti. Forse gliela avevo consegnata io stessa, nelle sue mani, di mia spontanea volontà.
Ero certa che fossero anche loro dei vampiri, ancor prima che mi scaraventassero via al di là della strada, il mio istinto non sbagliava mai. Non riuscivo a comprendere, però, quei profondi occhi dorati.
Edward. Allora era quello il nome del vampiro capace di leggermi nel pensiero.
L’ho visto nella tua visione gli aveva detto ad Alice. E ricordai ancora: Lei ti ha visto arrivare. Anche se ne ignoravo le modalità, sospettai che la piccoletta vedesse nel futuro. Era una veggente, una qualità un po’ scomoda per poterla sopraffare in combattimento. Anche l’Adone dai capelli rossi avrebbe potuto prevedere le mie mosse.
Stavo alla presenza di tre anomali, un’occasione più che rara tanto quanto pericolosa.
“No sai che c’è, ho capito le tue intenzioni” – strillò improvvisamente  la vampira di nome Alice.
“Volevi che pensassimo che fosse solo un malcapitato incidente. Chi avrebbe potuto credere alla storia del tuo suicidio? In fondo Londra offre pericoli dietro ogni angolo anche per quelli come noi. Non posso pensare a quanto tu sia subdolo, saresti uscito di scena con le mani pulite, tutti avremmo pianto la tua morte senza sapere che te la fossi andata a cercare”.
“Sono già morto, stupida”
“Sai cosa intendo, Edward.”
“Non ho più voglia di scherzare, hai sfruttato me e le mie visioni per i tuoi scopi. Sapevi che quella ragazzina ti avrebbe giustiziato! Non avrei dovuto lasciare che tu la vedessi, c’è mancato davvero un soffio” – disse colma di rimorso.
“Alice, ascolta, ho sbagliato. Non è più quello che voglio”.
“Mi sembra un po’ tardi per le scuse. Non so se sarò capace di perdonarti”.
Edna ruggì ancora più forte e interruppe la loro toccante riunione familiare.
“E il micetto da dove salta fuori?” – la schernì Jasper.
“E’ la sua chimera” – li informò Edward.
“Una chimera? Non è possibile! Non c’era nella mia visione.” – esclamò Alice.
Edna ne aveva abbastanza delle loro chiacchere. Si gettò vendicativa sui miei assalitori con le fauci spalancate. Le sue zanne sbrindellarono la camicia di Jasper, interpostosi fra lei ed Alice per proteggerla. Jasper la tratteneva per la giugulare ignorando l’incredibile forza di Edna che lo fronteggiava con fierezza. Vani erano i suoi sforzi di spezzarle il collo, sotto la sua calda pelliccia nera da pantera, la struttura ossea era ricoperta da un fitto strato muscolare duro più dell’acciaio. Edna dal canto suo tentava in tutti i modi possibili di assaggiare la sua carne ma Jasper era molto veloce. Il vampiro biondo aveva tre profonde fratture sul petto in corrispondenza dell’artigliata che Edna gli aveva riservato. Nonostante ciò la riuscì a respingere esaurendo però le ultime energie che gli erano rimaste. Indebolito da tutta la verbena che aveva respirato, stava per perdere i sensi.
Alice lo tirò a sé e lo strinse fra le sue braccia, nascondendo il viso nelle sue ferite.
“Non c’è più tempo Jaze, stanno per arrivare!” - lo richiamò lei ansiosa. Edna tornò alla carica più spietata di prima, Alice spinse via il suo compagno e attese immobile che la chimera ci si attorcigliasse addosso sotto forma di anaconda. Allora Edward le afferrò la coda attraendo su di sé il furore del grosso rettile che stava per inghiottire la piccola vampira.
“Ti prego, Leona” – invocò il mio nome trattenendo la morsa viperina di Edna.
“Lasciali andare, loro non c’entrano nulla. Prenditela con me se devi”.
Ne rimasi sconvolta. Si difendevano a vicenda proprio come una famiglia. La famiglia che io non avevo più. Nessuno voleva che l’altro si ferisse. I sentimenti che nutrivano gli uni nei confronti degli altri andavano oltre l’obbligo morale di difendere il proprio clan. Non potevo non vedere come quei tre fossero uniti da un sentimento più forte, quasi umano. Avrei dovuto ucciderli. Tutti. La loro morte non solo avrebbe significato un biglietto di sola andata per casa ma mi avrebbe anche garantito di essere ricordata nei secoli come la cacciatrice di vampiri più giovane della storia. Un titolo più che ambito fra quelli della mia generazione.  Ma la vanità non è altro che un’illusione, appaga l’animo dei fragili e ti svuota dentro. E ci voleva ben altro per colmare il vuoto della mia anima, non era la fama ciò che cercavo. Sapevo che se l’avessi fatto avrei vissuto nel rimorso di non avergli dato la possibilità di spiegarmi come tutto quello fosse possibile.
Gattonai per un po’ fino alle mie kopis, reggendomi il fianco dolorante.
“Fermati Edna” – le ordinai.
Il serpente reagì prontamente al mio comando e strisciò via lontano da loro tornando a quattro zampe.
 “Chi sta per arrivare?” – domandai ad Alice mentre si massaggiava il collo, sorretta da Edward. Non ero abituata ad assegnare dei nomi ai succhia sangue, non ne valeva la pena.
“Come se non lo sapessi” – rispose velenosa.
“Alice, lei è all’oscuro di tutto. Non sa nulla” – le riferì Edward.
“Cosa non so? Parlate Cristo santo!” – sbottai.
“Prima dii alla tua bestia di stare accuccia”.
Edna le rispose con un ringhio.
“Prima di tutto si chiama Edna, non bestia. Secondo: é sempre così acida?” – chiesi a Edward.
“Come reagiresti se qualcuno provasse a uccidere tuo fratello?”
“Sei la stessa persona che prima mi pregava dantescamente di farti fuori?” – obbiettai.
Alice lo trafisse con lo sguardo. Lo sguardo di una sorella tradita.
“Non sarebbe qui per raccontarlo, per rispondere alla tua domanda”.
 “Lui ti manca” – affermò.
“Devo rassegnarmi all’idea che tu mi legga ogni singolo pensiero che mi passa per la testa?”.
“Col tempo te ne farai una ragione, vedrai” – scherzò Jasper.
“Ehi bello, non viaggiare con la fantasia, questo è un time out. Non ho ancora deciso se avrete ancora del tempo” – dissi marcando l’ultima parola.
“Voglio solo delle risposte e non provate a scappare. Sono in grado di seguire le vostre tracce, vi troverei. Voi e tutta la vostra famiglia”.
“Ne hai fegato signorinella. Potresti essere una degna avversaria ma con noi non la spunteresti, siamo in sette…”.
“Jaze!” – lo sgridò la folletta.
“Dovresti dare retta alla tua ragazza visionaria”.
“Allora sottospecie d’indovina, si può sapere chi verrà a guastarci la festa?”.
“Tutta Londra ne parla ormai. Dove sei stata chiusa in una bolla? Tornatene nella tua casa delle bambole”.
“Adesso mi stai stancando”
“Li chiamiamo gli abomini da queste parti” – spiegò Edward per mettere fine a quel battibecco - “Sono comparsi da qualche anno in questa città ma molti testimoni affermano di averli avvistati anche altrove. All’inizio pensavamo che fossero quelli della vostra razza, i protettori. Qualcosa in loro, però,  non andava, erano diversi”.
“Diversi come?”
“Pochi sono sopravvissuti per raccontarlo. Avevano una forza e una velocità fuori dal comune, pari se non superiore alla nostra.  Le loro bocche erano devastate da scadenti punti di sutura e avevano…le zanne”.
“Come le zanne? Intendi…?”.
Edward arricciò il labbro superiore esibendo due canini acuminati come rasoi.
“Questo non è possibile, qualcuno deve averli trasformati”.
“No, erano umani, in tutto e per tutto. Il loro cuore batteva ancora.” – confermò Alice.
“Quel marchio, quello che avete sul polso, era appena riconoscibile per via delle deturpazioni.  Mio padre, Carlisle, si è imbattuto in uno di loro pochi mesi fa. Stavano per catturare lui e mia madre Esme e ce l’hanno fatta per un pelo. Londra non è più un luogo sicuro per noi. Hanno persino attirato l’attenzione dei Volturi, alcune delle loro guardie non sono sfuggite all’assalto”.
“Non vedo come questa possa essere una cattiva notizia” – commentai incrociando le braccia al petto.
“Non hanno più una coscienza, sono stati manipolati, qualcuno deve averli soggiogati. Hanno seminato il caos. Sono indiscreti, violenti, non hanno paura di essere riconosciuti, molti non distinguono nemmeno ciò che giusto da ciò che è sbagliato: hanno attaccato anche comunissime persone. Non mentire ragazzina, ti si legge in viso quanto tu sia preoccupata. Sai bene che qualcosa non va e non sopporti che la cosa sia fuori dalla tua portata”.
“Interpretazione eccellente, tesoro, cosa vuoi un premio? Sono una maniaca del controllo, ok? Voglio sapere esattamente cosa succede, credo sia un mio diritto”.
“Allora perché non chiedi ai tuoi superiori? Ti ho già detto che appartengono alla tua stirpe di cacciatori”.
“E perché dovrei credervi?”.
“Ne hai già visto uno. Sospettavi già qualcosa…”.
“Prova a leggermi un’altra volta la mente e giuro che ti ammazzo”.
“Perché non ci diamo tutti una bella calmata, eh?” – s’intromise Jasper.
“Ho una mia teoria, è vero. Ma non ho abbastanza informazioni per affermare che sia esattamente così. E mi auguro di cuore di non avere ragione” – continuai pacificamente.
“Fantastico, adesso possiamo andare?” – disse Alice.
“Se li temi così tanto devono essere davvero spaventosi” – mi presi gioco di lei.
“Non stanno cercando noi…vogliono te e non ho alcuna intenzione di farmi coinvolgere in questa storia”.
“E’ ridicolo, perché dovrebbero volermi morta? Sono una di loro, nella nostra cultura assassinarci a vicenda è un crimine imperdonabile, punibile con la morte stessa”.
“Credo che tu sappia benissimo il perché…” – concluse la vampira. Presa la mano del suo ragazzo, fece per andare via.
“Edward vieni con noi. Anche Emmet e Rosalie hanno lasciato la città. Ci siamo trasferirti in una piccola cittadina dello stato di Washington” – provò a convincere Edward.
“Molto tranquilla, pochi abitanti, nuvole in quantità. Forks è la casa dei nostri sogni, credimi Edward” – lo invitò la sorella.
“Non avevi detto che non mi avresti più perdonato?” – chiese sinceramente contrito.
“Infatti, a me non importa”
“Lo faccio solo per Esme e Carlisle. Sai quanto stanno soffrendo in questo momento per la tua lontananza. Carlisle si sente perfino in colpa, crede di essere stato troppo rigido con te, di aver sottovalutato il fatto che, come Jasper, tu non fossi pronto ad abbracciare il suo stile di vita. Se sapesse quello che stavi cercando di fare…”.
“Sarò io stesso a raccontarglielo. Voglio che conoscano tutta la verità”.
“Questa è una saggia decisione, Edward, vedrai che non te ne pentirai. I vicini che vivono nella riserva lì accanto non sono un granché, ma non si può avere tutto nella vita” – commentò pungente Jasper.
“Chi i Quileute?”
“Scusate, io sono ancora qui” – richiamai la loro attenzione schioccando le dita.
“Ahuuuu” – ululò una voce, chiaramente umana, imitando il verso del lupo.
“Non è che ve ne siete portati un paio dietro?” – domandò Edward.
“Adesso è troppo tardi” – sussurrò Alice.
Sollevammo tutti e quattro i menti sperando d’incontrare la notte stellata e non una ventina di ombre scrutarci dalle terrazze degli svettanti palazzi che circondavano quella stradina senza via d’uscita.
Piovvero dall’alto in un baleno atterrando silenziosamente sul freddo suolo asfaltato. Osai deglutire nonostante avessi la gola inaridita e fu come se avessi ingoiato carta vetrata. Saettai all’indietro per osservare meglio i nuovi arrivati, rimasti inerti sul posto ma vigili. Intuire le loro intenzioni mi era impossibile, non riuscivo a pensare ad altro che alle loro sembianze, per metà umanoide per l’altra ferina. L’occhiataccia che Alice gli riservò non mi convinceva del tutto: la sorpresa balenò dentro l’oro fuso dei suoi occhi. Non li stava aspettando? Fratello e sorella s’ispezionarono il viso a vicenda e l’espressione di Edward si corrucciò. Interpretai facilmente il loro linguaggio muto, fatto di svelti cipigli: non era l’incontro che aveva previsto, non erano loro gli ospiti indesiderati. Questo significava che le sue visioni avevano delle falle e che con molta probabilità il futuro era cambiato.
Il piccolo gruppetto di sconosciuti ignorò i tre vampiri cui davano le spalle, sarebbe bastato questo come campanello dall’allarme ma non mossi un solo dito. Uno di loro, quello che una volta doveva esser stato uomo, anche se di lui non rimanevano che tracce, arcuò la schiena in avanti piegandosi su se stesso e mi raggiunse come quadrupede con le ginocchia curvate al di fuori dell’asse del torso. Il venticello s’infranse tiepido sui suoi pettorali nudi, arricciolandosi sotto forma di ondeggianti ghirigori invisibili, mentre la sua villosa testa da lupo, attaccata al resto del corpo da umano, si sporse per annullare la distanza fra noi. Arricciò il tartufo nero per annusarmi. Contenni con un cenno del capo il fermento di Edna sul nascere prima che si avventasse su di loro senza un valido motivo. Non avevo mai visto né avevo sentito parlare di esseri del genere. Scongiurai il cielo di non trovare sul suo polso flesso, il marchio del mio popolo forgiato dalle fiamme, l’emblema della nostra civiltà, il significato nascosto del nostro mantra da guerrieri: proteggi gli umani a qualsiasi costo.  Un singhiozzo di sgomento nacque insopprimibile dal profondo dell’esofago, non feci in tempo a strozzarlo stringendo le dita attorno al collo. Adesso non c’era che un astruso scarabocchio a deturpargli la pelle sottile, attraversata da vene bluastre. L’Abominio mi alitò sul viso e respirai della vomitevole ma potente magia oscura, della peggior specie. Prima di sfoderare le spade, disfeci il nodo che mi fasciava il polso, tirando la stoffa purpurea fra i denti, e raccolsi quella tremenda cascata di capelli neri in uno chignon improvvisato.
Il fiocco che Fabiano mi aveva donato era ancora lì, dopo tutti quegli anni e non me ne sarei mai separata per nulla al mondo.
“E’ lei. La ragazza con il nastro scarlatto” – disse con un tono di voce profondo e gutturale.
“Uccidiamola e compiaceremo la nostra padrona” – intervenne un altro.
Allora era vero, mi stavano cercando. Ma per quale motivo? Chi era la loro padrona?
La mia sicurezza vacillò. Erano ancora protettori? C’era un modo per annullare gli effetti di quel sortilegio? Non conoscevo il mio nuovo nemico, non sapevo di cosa fosse capace e quanto in là era disposto a spingersi pur di ottenere la benevolenza della sua misteriosa padrona.
“Stai fermo lì dove sei, cagnaccio. La ragazza è nostra! Il padrone reclama il suo sangue” – disse una voce femminile dietro di me.
“Brittany!” – esclamai.
Conobbi Brittany il giorno che mi trasferì a Londra per la prima volta. Era una ragazza gentile, solare e sempre col sorriso in bocca, con uno spiccato senso della giustizia. Era l’unica che non mi guardava dall’alto in basso come facevano tutte le altre dal mio arrivo. Gestiva gli allenamenti dei cadetti della fazione rossa ed era ben voluta da tutto il campo. Mi aveva raccontato del suo ambizioso sogno: diventare il generale dei cacciatori di vampiri di Andromeda. Poi sparì misteriosamente dalla circolazione dopo essere stata richiamata per un’importante missione in Galles e non si seppe più nulla di lei.
Era difficile credere che fosse davvero lei, eppure mi stava dinanzi, insieme a altri abomini come lei, col viso irriconoscibile, pallido, di un colore che le dava l’aria di una in fin di vita e con delle orribili cicatrici rossastre sulle labbra. Due lunghi canini appuntiti da vampiro le pizzicavano il mento e non volevo immaginare quanto le facessero male, si vedeva da un miglio che quello era un corpo estraneo che non le apparteneva. Il suo cuore però batteva ancora.
“Che cosa ti hanno fatto?” – le chiesi sinceramente addolorata.
“Cos’è quella faccia da funerale Lea? Mi guardi come se avessi visto un fantasma” – rispose lei offesa sistemandosi una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. Un gesto che era solita fare di continuo.
“Chi ti ha ridotto così? Rispondimi!”.
“Non compatirmi tesorino mio, non sono mai stata meglio. Mi hanno dato quello che desideravo di più e che con il mio fragile corpo non avrei mai potuto raggiungere”.
“Tu ci hai traditi, hai infangato il nome dei protettori!”
“I protettori sono solo dei poveri illusi, sono destinati all’estinzione, come fai a non accorgertene? Siamo noi il futuro. Non capisci, non sarete mai alla loro altezza. Il cambiamento è necessario. Il padrone ci ha offerto un’ancora di salvezza e noi l’abbiamo saputa cogliere. Adesso sono più forte, più veloce, non temo nessuno. Non vi è più alcuna disparità fra noi e i vampiri, possiamo affrontarli a testa alta. Ci hanno reso invincibili”.
“Se ti reputi ancora una cacciatrice di vampiri perché adesso vuoi me?”
“Perché il padrone ha bisogno del tuo sangue. E quando avremo finito con te, andremo a cercare tuo fratello”.
“Basta! Lei appartiene alla padrona!” – urlò l’abominio metà lupo, metà umano. Balzò rapidamente nella mia direzione con movimenti che ricordavano quelli di un animale e non di un uomo, mentre Brittany sfoggiò la sua tagliente sciabola.
Edward mi fu vicino in un attimo. Con la sua pallida mano mi afferrò la mantellina e mi portò via con se’ sottraendomi alla furia di quei due. Il metalupo azzannò la gamba di Brittany e lei gli conficcò la spada nella schiena.
“Lasciami idiota! Potevo occuparmene da sola!” – dissi a Edward.
“Un grazie sarebbe stato sufficiente” – rispose lui caustico.
Da quella singola scintilla scoppiò una guerra fra gli Abomini. Guardai allibita come quegli ex protettori si facevano a pezzi a vicenda.  Vampiri e Licantropi erano sempre stati in conflitto, forse il sortilegio che avevano lanciato su di loro era più potente di quello che pensassi. Probabilmente la loro parte sovrannaturale aveva preso il sopravvento e li rendeva rivali ai loro occhi, o almeno fu quella l’unica spiegazione plausibile che riuscì a darmi.
“Questo è un disastro, gli umani potrebbero vederli!” – disse Alice angustiata. Lei e Jasper ci avevano affiancato pochi secondi dopo l’esplosione del finimondo.
“Che facciamo adesso? Jasper, devi intervenire!” – lo incitò Edward.
“Ci sto provando ma non riesco a contenere la loro rabbia, sono completamente impazziti”.
Nel frattempo un meta-lupo aveva schiacciato un meta-vampiro contro un muro che cominciò lentamente a fratturarsi. Le fondamenta dell’edificio tremarono.
“Dobbiamo portarli lontani di qui e alla svelta o distruggeranno tutto il quartiere”.
“E’ me che vogliono” – affermai risoluta.
“Cosa hai intenzione di fare?”
“Li condurrò nella foresta vicina al cimitero, lì potrei contenere i danni”.
“Non puoi affrontarli tutti da sola!” – puntualizzò Edward.
“Vuoi scommettere?” – gli risposi beffarda.
Inspirai, collocai l’anulare e il mignolo fra le labbra semichiuse e facendo passare l’aria ad alta velocità dai polmoni alla bocca produssi un fischio acuto.
Quell’armistizio sonoro bastò a far cessare tutte le ostilità.
Poi mi schiarì la voce con brevi colpetti di tosse: “Signori, un po’ di contegno per favore. Non avevate detto che volevate il mio sangue? Io sono qui, venitemi a prendere, se ne avete il coraggio” – li sfidai.

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Capitolo 25
*** IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA ***


CAPITOLO 13.1 – Il rovescio della medaglia

Girai i tacchi e corsi a gambe levate senza preoccuparmi delle conseguenze che mi lasciavo dietro mentre una giumenta dal manto color del miele galoppò veloce al mio fianco. Acciuffai al volo la criniera di Edna, le saltai in groppa e fuggimmo insieme da quella banda inferocita di abomini.
“Corri Edna, corri”- la spronai. Correva così veloce che le sue crine chiare mi fustigavano il viso, preoccupata di mettere una distanza sempre più ampia fra noi e i nostri inseguitori.
Le ungule scalpicciavano ostinate alla velocità della luce lasciando un turbinio di polvere al suo passaggio. I suoi chiassosi pensieri in subbuglio mi assordarono il cervello: temeva per la mia sorte più di ogni altra cosa ed ero perfettamente consapevole che mi avrebbe protetto col suo stesso corpo se si fosse presentata l’occasione, così mi sussurrava il suo cuore pompandole violento il sangue nelle vene.
“Andrà tutto bene, piccola” – le bisbigliai all’orecchio.
Quel piccolo incoraggiamento non rallentò il suo furioso zoccolio frenetico anzi, aumentò il passo a tal punto da diventare nient’altro che una macchia sfocata nella notte.
Ma gli abomini erano altrettanto veloci, ci tallonavano senza alcuna pietà. Edna nitrì quando uno di loro infilò gli artigli nel suo posteriore. La sua testa da lupo sbavava come un cane rognoso e digrignava gli incisivi ad ogni tentativo fallito di addentarmi. Ruotai il bacino e lo rintronai prima con un calcio da destra e poi una falcata da sinistra. Cavalcando Edna al contrario, sfoderai i pugnali e provai ad accoltellarlo ma l’abomino schivava ogni mio fendente. La cavalla mi offrì il suo dorso continuando a galoppare come se stessimo partecipando al Palio e mi sollevai in piedi per sovrastarlo dall’alto. Il meta-lupo seguì il mio esempio e ci scontrammo in bilico sulla schiena di Edna proprio come due acrobati da circo. Il nostro peso però rallentò il trotto della mia amica e permise ad altri abomini di raggiungerci. Mentre mi menavo pesantemente con quella bestia rabbiosa, pensai che non avessi altra scelta se non scendere da cavallo e combattere su un solido terreno, o per Edna sarebbero stati guai. Ma poi mi ricordai di quella via piena di negozi annunciati da pomposi cartelloni che invitavano i clienti a curiosare dentro i loro locali.
“Edna gira a destra” – le urlai mentre massacravo con un pugno lo stomaco dell’abominio.
A causa dell’alta velocità, fece appena in tempo a eseguire il mio ordine e dovette frenare bruscamente di colpo: i suoi zoccoli frizionarono a contatto con l’asfalto e produssero piccole scintille.
Nessuno dei due scivolò dalla schiena di Edna, eravamo entrambi dei protettori, ci avevano addestrati anche per questo.
Svoltato l’angolo, seppi che le mille escursioni per le vie di Londra non erano state vane.
La mappa della città che avevo ricreato nella mia mente era fedele, avevo indovinato la via.
L’abominio si azzardò per l’ennesima volta a conficcarmi le sue luride unghie nella pelle ma con un salto mortale all’indietro svolazzai sopra l’insegna dondolante di una bottega di scarpe e restai in equilibrio sull’asta di ferro su cui era appesa la pubblicità. Il meta-lupo, invece, non ebbe il tempo di scansarsi e si beccò in pieno tutti i cartelli fino a che, completamente intontito, Edna lo disarcionò senza tanti complimenti. Zompando da una sbarra all’altra, la raggiunsi alla fine della strada montandola dall’alto.
Le strattonai la criniera spingendola a incanalarsi nella galleria sulla sinistra per trovare rifugio nella stazione ferroviaria del London Victoria. Accompagnati dall’eco dei suoi zoccoli trotterellanti, curvammo all’ultimo secondo imboccando la rampa di scale che ci avrebbe portato alla fermata dei treni. Un gruppo di meta-vampiri ci stava alle costole, la stazione, però, a quell’ora era praticamente deserta così,  pungolando i fianchi del mio destriero, oltrepassai la linea di sicurezza consentita e con un lungo balzo planammo sulle rotaie metalliche. Avanzammo, dritte davanti a noi, guidate dal rettilineo dei binari senza mai sconfinare le traverse.
“Ciuf, ciuf” – folleggiai onomatopeizzando lo sbuffo della locomotiva a vapore.
Mi sorpresi a provare un dissennato piacere nel rischiare la vita. Il pericolo mi divertiva a tal punto che mi era così arduo rinunciarvi. Una volta conclusa la faccenda, se e solo se fossa finita bene, promisi di rivalutare quali fossero le mie priorità.
E poi eccola lì.
Quell’inverno una coltre di nebbia, densa e maleodorante si era abbattuta inclemente sulla vita dei cittadini. La nebbia era così spessa che persino la viabilità automobilistica era divenuta impossibile, la gente, imbavagliata come rapinatori, doveva appoggiarsi ai muri per poter camminare. Penetrava inarrestabile anche dentro gli edifici. Le manifestazioni teatrali, i concerti e le proiezioni cinematografiche furono sospese, poiché la scena o lo schermo non erano visibili al pubblico.
Avevano scelto un nome appropriato per quella foschia infernale.
Il Grande Smog.
Fu proprio la gelida bruma invernale a costringere i londinesi a correre ai ripari nelle loro case ed aumentare i consumi di carburante per potenziare i riscaldamenti domestici. I fumi di combustione rimasero prigionieri di quella densa massa di aria frigida, originata dall’inversione termica, e inquinarono tutto ciò che toccavano. Molta gente perse la vita, altrettanti si ammalarono gravemente. Anche quella notte, memore di un dicembre catastrofico senza precedenti, uno strato di aria fredda e stagnante aveva intrappolato, dentro i suoi imperscrutabili fumi, le case, i palazzi, i ponti, i monumenti della bella capitale, madre della rivoluzione industriale, privandomi delle sue meraviglie.
La scarsa visibilità non sarebbe stata sufficiente a fermare gli abomini. E tanto meno me.
Durante l’anno di apprendistato non avevo soltanto imparato a combattere. Il mio maestro sapeva perfettamente chi ero, magari per questo si era offerto di addestrarmi. Ero lontana dall’essere una dominatrice degli elementi esperta, c’era ancora così tanto da scoprire, e lo Zoologo non faceva che ripetermi che non fossi ancora pronta.
L’aerocinesi mi dava ancora qualche problema, soprattutto dopo l’ultima volta che ne avevo fatto abuso nel disperato tentativo di salvare Londra da quel gas malsano. Il numero dei decessi continuava a salire vertiginosamente. Io non potevo restare a guardare, consapevole di avere il potere di mettere fine a quello sterminio. Non avevo bisogno della riconoscenza di nessuno, ritenni mio dovere intervenire tacitamente per scongiurare la catastrofe ambientale che aveva colpito Londra. Quando la città fu finalmente libera da quella prigione gassosa, tutti pensarono che fosse semplicemente passata, che la natura avesse fatto il suo corso, e mi stava bene anche così.
Quell’atto eroico mi costò caro. La sera del 9 dicembre, quando dissolsi tutta la nebbia nel nulla, ebbi delle gravi ripercussioni sulla mia salute: rimasi in coma per diverse settimane, febbricitante e disabilitata su un fondo di letto. Infatti, erano due mesi ormai che non riuscivo nemmeno a spostare un piccolo sbuffo leggero d’aria, forse perché non ne avevo più il coraggio.
“Puoi farcela” – m’incoraggiò la mia amica equina.
Sfruttando l’influenza che esercitavo sulle molecole d’aria, disorganizzai la struttura molecolare delle particelle gassose, allontanandole ognuno dalle altre e diradai lentamente la nebbia davanti a me. Apertoci un varco fra le nubi, le riaddensai alle mie spalle, lasciando vagare nel vuoto i meta-vampiri che ci inseguivano. Una volta dentro quella nuvola di gas biancastro fornì una gran quantità di energia, ionizzai gli atomi presenti, strappando da essi gli elettroni. Il gas ionizzato produsse del plasma ricco di particelle cariche generando una fitta nube di scariche elettriche al suo interno. Così buona parte dei miei nemici rimase folgorata dall’elettricità che attraversava i loro corpi.
“Sì!” – esclamai prima che una figura sfocata mi sbalzasse dalla groppa di Edna. Ad attenderci le fredde e nere acque del Tamigi. I bagliori della città si specchiavano fra le onde spumose del fiume in un arcobaleno di colori tremolanti.
Vorticammo per qualche secondo nel vuoto, avvinghiate l’uno all’altra, tuffandoci ai piedi del London’s Bridges.
Brittany ed io continuammo a lottare sott’acqua, senza che la pressione della corrente del fiume rallentasse i nostri movimenti, senza aver alcun bisogno di una sorsata d’aria. Ammiravo Brittany, per questo al campo di Andromeda non aveva mai avuto il fegato per affrontarla. Temevo che mi avesse schiacciato, umiliata con la sua enorme esperienza e la sua incredibile risolutezza di guerriera. Ormai però, quella Leona non c’era più, si era spogliata delle sue frivole insicurezze ed era diventata più che una degna avversaria per lei. Era vero, Brittany era molto più potente del normale, al pari di un vampiro di marmo, ma io giocavo in casa: l’acqua era mia fedele compagna, risanava le mie ferite, e ogni secondo che passavo dentro il suo abbraccio mi rendeva sempre più forte.
Dopo averle assestato un colpo micidiale sul petto, la allontanai con una propulsione mulinante e tornai in superficie. Non vedevo Edna da nessuna parte. Poi cominciarono una serie di tonfi. Dal fumo bianco che aveva circondato i binari, i meta-vampiri caddero come pere cotte, sfiniti dalle scariche elettriche in cui li avevo catturati. Non avevo valutato però che i loro corpi fossero degli ottimi conduttori di elettricità.
“Oh merda!” – esclamai quando il primo abominio sfiorò il fiume. Gab sarebbe andato fiero della mia imprecazione poco fine.
Il Tamigi si ricoprì di sfolgorii luminosi, divampanti di qua e di là ogni volta che un nuovo membro si univa alla combriccola degli elettrici meta-vampiri svenuti. Ci fu il blackout generale, tutto si fermò, i battelli, le attrazioni, i negozi. Avevo combinato un bel casino. Isolai tutte le cellule del mio corpo e mi sbracciai per raggiungere in fretta la riva, nuotando serenamente fra le folgori.
“Si può sapere cosa diavolo è successo qui?” – chiese fuori di sé Edward. Da dove era saltato fuori?
“Sta calmo, era tutto calcolato” – non era affatto vero.
“E poi cosa sei la mia babysitter?”- gli risposi fradicia dalla testa ai piedi.
Lui schioccò la lingua in segno di disapprovazione.
“Ho sistemato quel gruppetto laggiù, non è che tu e i tuoi fratelli potreste raccogliere quei corpi galleggiati e allontanarli dal fiume, mentre mi asciugo? Non sono un bello spettacolo e gli umani farebbe un sacco di domande. Attenti perché mordono” – aggiunsi sarcastica.
“Ma sentila come ci dà ordini la bambina. Il disastro è tuo e te ne occupi tu” – disse Alice seccatamente.
“Non sono una bambina, ho tredici anni. Scansa fatiche” – dissi sbuffando.
Dovetti concentrare tutto il mana appena rigenerato dal contatto con le acque sui palmi delle mie mani, preparandomi a sostenere il peso di una enorme massa di fluido. Poi come se stessi muovendo le fila di un burattino, le correnti del fiume oscillarono seguendo la direzione delle dita, destra-sinistra, avanti-indietro, come riscaldamento. Quando fui sicura di averlo sotto il mio controllo, scatenai un’onda anomala di piccola portata (una cosuccia da niente), riversando i corpi sull’altra sponda, nascondendoli sotto un pontile.
“Dobbiamo andarcene di qui, fra non molto si sveglieranno. Brittany è ancora in circolazione, potrebbe spuntare da un momento all’altro” – gli spiegai mentre assorbivo tutto il bagnato dal mio corpo. Detestavo i capelli umidi, mi pesavano come un macigno.
Li trovai tutti e tre tramortiti, con gli occhi spalancati per lo stupore.
“Oh giusto, quasi dimenticavo” – risi fra me e me, per quanto fossi sbadata.
Strofinai le mani energicamente attraendo su di me tutta l’elettricità residua dalle sudicie acque del fiume, facendo bene attenzione a proteggermi, per poi lanciarla sul quadro elettrico poco distante da lì, con lo scopo d’innescare un effetto a catena e ristabilire tutto com’era prima di quel piccolo disguido. Potevo permettermi ogni tanto qualche errore di calcolo.
“Che c’è?” – domandai a quei tre vampiri stoccafissi come se non fosse successo nulla di particolare.
“Non li avete solo voi i superpoteri” – dissi facendo spallucce.
“Superpoteri” – ripeté divertivo Edward scambiandosi uno sguardo complice con Jasper.
Risi anch’io con loro per un attimo. Poi mi chiesi cosa stessi facendo: fraternizzavo col nemico, lottavo contro i protettori, i miei presunti alleati. Il mio mondo era stato messo completamente sottosopra ed era tutta colpa sua. Guardai ancora il sorriso del vampiro, quel sorriso così tremendamente bello, umano, spensierato in un momento che aveva del grottesco. Mi sforzai ma non riuscì a vedere nulla di sbagliato in loro. Il solo fatto che fossero dei vampiri avrebbe giustificato la loro condanna, avrei potuto staccargli la testa senza alcun rimorso, senza pensarci due volte. Eppure tenevo il mio istinto omicida ben lontano dalle kopis.
Avevo pure mostrato i miei poteri, avevo rivelato il mio segreto, senza sentirmi a disagio né tanto meno in pericolo. Cosa c’era che non andava in me?
“Allora era vero ciò che Alice aveva visto sul tuo conto. Sei una dominatrice degli elementi…E’ straordinario ciò che hai fatto, come ci riesci?”.
“E tu come riesci a leggermi nel pensiero? Nemmeno tu sai darti una spiegazione. Forse è così e basta”.
“Sei stata svelta a capire di cosa fossimo capaci, molto sveglia” – commentò Jasper.
“Non è che vi siete impegnati così tanto a tenerlo nascosto. Rosso malpelo non sa trattenersi dal farsi gli affari suoi e tu nanetta hai mai pensato di giocarti i numeri alla lotteria? A conti fatti, l’unico che non sono riuscita a inquadrare sei tu, biondino”.
“Beh diciamo che sono estremamente empatico” – disse come se gli fosse capitato e non potesse farci nulla.
“Questo è davvero un eufemismo, tesoro” – s’intromise Alice con un sorrisetto vispo.
“Jasper riesce a influenzare le emozioni di chi gli sta intorno e allo stesso modo, lui non è immune alle gioie, ai tormenti o alle sofferenze altrui. Anche lui ne è condizionato”.
“Così sono riuscito a placare la tua rabbia” – spiegò Jasper.
“Quindi, plasmi le emozioni a tuo piacimento. Che dono interessante. Pensavo fossi stato tu. In effetti, un attimo prima ero accecata dalla rabbia, quello dopo non sapevo nemmeno più perché fossi così furiosa, o meglio lo sapevo ma ogni motivazione perdeva di validità. In qualche modo, anche se mi secca terribilmente ammetterlo, te ne sono riconoscente”.
“Non c’è di che. E’ stato facile entrare in sintonia con te. Non volevi davvero ucciderlo” – disse sorridendomi.
Edward ed io ci guardammo negli occhi, avrei voluto scusarmi ma ero troppo orgogliosa per farlo.
“Chi sei in realtà? Riesco a vedere chiaramente il tuo futuro un po’ più in là quando…” - s’interruppe improvvisamente.
“Non importa…” – aggiunse in fretta.
“Ma non capisco cosa sei” – mi domandò, visibilmente curiosa.
“Io sono Leona, semplicemente Leona, piacere di conoscerti Alice in Wonderland. Scusa se non ti dò la mano, detesto la necrofilia”.
Poi sospirai, non mi andava più di essere scorbutica con lei.
“Mio fratello ed io siamo gli ultimi medjai. Sì non fare quella faccia, i medjai esistono ancora”.
“I medjai?”.
Annuii.
“Credo di non aver mai sentito questo nome prima d’ora”.
Mentre Alice parlava, udì lo sfreccio di un coltello, la sua lama viaggiava spietata con l’intenzione di spappolarmi il cervello.
Piegai la schiena all’indietro e afferrai a mezz’aria il manico dell’arma.
“Bel tentativo Britty, ma ci vuole ben altro per spedirmi all’altro mondo”- le urlai prima che una pioggia di frecce calasse dal cielo notturno.
I loro dardi avvelenati si spezzarono sullo scudo d’aria che avevo generato attorno a me ed ai vampiri.
“Diamine fanno sul serio questi!”
“Dobbiamo andare nella foresta, Leona” – disse Alice prendendomi per mano.
Chi lo avrebbe mai detto che quella notte avrei corso insieme ai vampiri con i protettori al nostro inseguimento.
Edward era il più veloce fra noi e ci precedeva, seguito da Jasper da me ed Alice. La sua mano era fredda come il ghiaccio ma morbida e liscia, facevo fatica a tenere il suo passo fulmineo da vampira, dovetti dislocare il mana tutto sulle gambe per evitare che si disintegrassero. Il paesaggio divenne soltanto un miscuglio di luci e di colori informi, ero troppo impegnata ad evitare gli ostacoli per godermelo a pieno e non potevo permettermelo: se solo avessi rallentato di un pochino ad Alice sarebbe rimasto solo il mio braccio. Eppure non mi ero mai sentita così viva, lucida, euforica.
“Qui va bene” – li avvertì.
“Sì, è qui che avverrà” – confermò Alice con lo sguardo perso nel vuoto.
Sprigionai le kopis dai loro scrigni di cuoio e ripetei nella mente il mantra per una vittoria certa: saper giudicare il nemico, calcolare le distanze e valutare i rischi.
Scegliere il terreno di battaglia costituiva una strategia di fondamentale importanza per assicurarsi anche una sola possibilità di vittoria. Il primo requisito era l’isolamento: un posto in cui i danni a cose o persone fossero irrisori e che avessero il minimo impatto sulla vita degli umani. Combattere in pieno centro urbano mi avrebbe impedito non solo di usare meno del cinquanta percento della mia forza ma avrebbe anche ridotto l’attenzione e i riflessi: è più facile concentrarsi in combattimento quando devi pensare solo a te stesso e non a come una semplice mossa sbagliata possa mettere a rischio preziose vite umane o il crollo di un edificio.
Il terreno non dovrebbe essere mai completamente aperto o accessibile poiché la forza dell’attacco è pari sia per l’offensiva che per la difensiva e non risulterebbe vantaggioso per ambo le parti. Alberi, foglie, rocce, erba, terreno bagnato erano lo scenario migliore per mettere in piedi la mia ecatombe di Abomini. Questo soddisfaceva anche un’altra condizione: il campo di battaglia sul quale sia tu che il nemico avanza con difficoltà è non risolutivo. Su tale terreno, anche se il nemico ti offre un vantaggio, non bisogna avanzare. Invece, è opportuno indietreggiare e indurre la metà delle forze nemiche a venire avanti. Dopo sarebbe giunto il momento di passare all'attacco che ci avrebbe portato alla vittoria. Così predicava Sun Tzu. I suoi lungimiranti e sempre attuali insegnamenti mi erano di conforto anche in momenti disperati come quelli. Soltanto un’altra cosa mi raccomandava il fantasma del generale delle truppe cinesi che aleggiava nella mia testa: non far esitare la tua spada.
“Sei sicura?” – disse Edward interrompendo il vortice dei miei pensieri.
Sapeva perfettamente quanto il mio cuore fosse in tempesta.
“Non importa cosa gli hanno fatto, quella è la tua gente. Non sei costretta a farlo”.
“Hanno davvero ferito degli innocenti?”.
Edward non si scompose, cosciente che la risposta mi avrebbe fatto troppo male.
“A questo punto mi è stata tolta la facoltà di scegliere. La legge parla chiaro: un protettore non può trasformarsi in un essere sovrannaturale, qualunque sia il modo in cui è avvenuto o la sua forma, tanto più se ne era consapevole. Non si fermeranno finché non avranno ciò che i loro padroni gli hanno chiesto. Cosa debbano farci col mio sangue da medjai? Non ne ho idea. Ma ho una responsabilità più grande e devo custodirlo ad ogni costo se voglio mettere fine a queste atrocità”.
“E cosa più importante, devo tornare a casa. Non posso permettere che prendano mio fratello”.
“Va, sei libero, tornatene dalla tua famiglia”.
“Non ti lascio sola” – disse fra i denti. Anche Alice e Jasper si prepararono a combattere, attendendo che sbucassero dalla pineta.
Lo stridio di un’aquila riverberò nella volta celeste, annunciando l’imminente massacro. Edna, alla guida di quella fiumana di abomini, discese in picchiata su di noi per poi bruire ferocemente sotto le sembianze di un grosso grizzly.
Versai le ultime lacrime, poi i miei occhi blu si fecero freddi e le mie lame si tinsero del loro sangue. Mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta, se prima o poi qualcuno sarebbe venuto a salvarmi da quell'orrendo incubo.

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Capitolo 26
*** Con gli occhi di Edward ***


Il tocco delle sue lame era così ingannevolmente dolce, leggiadro, elegante, i suoi sibili quasi inudibili. Li accompagnava gentilmente verso la morte, prendendoli amorevolmente per mano. Non avevano nemmeno il tempo di rendersene conto, un attimo prima era lì a terrorizzarli con il suo sguardo, palpabilmente autoritario, l’attimo dopo era alle loro spalle a infliggergli il colpo di grazia. Persino per me, un vampiro, mi era incomprensibile come ci fosse arrivata. La mente era svuotata, nessun pensiero la sfiorava o poteva distrarla. Il suo piccolo giovane corpo, tonico e armonioso, era agile e saettante come un fulmine. Ne affrontava due, tre, quattro, sette alla volta. Le sue tecniche erano temibili e devastanti e non contemplavano il fallimento. Gli abomini cadevano ai suoi piedi come sanguinanti foglie d’autunno.
Lei e la sua avversaria si battevano con la forza irreprensibile di guerriere, era come se danzassero fino a quando Leona falciò la gola di Brittany, incrociando le kopis al petto. Le sue gelide spade riversarono un fiume di sangue ma non le permise di accasciarsi da sconfitta, frenò la sua discesa adagiandola delicatamente su quella lettiera di foreste aghifoglie. Brittany, sprizzando sangue dalla bocca come una fontana zampillante, cercava di dirle qualcosa. Lei inclinò la testa e avvicinò l’orecchio alle sue labbra per ascoltare le sue ultime parole. Poi chiuse le sue palpebre al mondo dicendo con fermezza: “Lux omnia vincit”.
Arse i cadaveri degli abomini per assicurarsi che non potessero tornare dal regno dei morti e ricompensò le loro ceneri trasformandole in humus per la terra. Sospirò profondamente per liberarsi di quel magone che le opprimeva il petto e sciolse i suoi capelli come per calare il sipario su quella tragedia. Il lustrino rosso le sventolava fra le dita.
La sua chioma, nera come quella notte che volgeva al termine, era una fiammeggiante e vaporosa cascata ornata dagli argentei bagliori della luna che si frammentavano fra le sue ciocche. Era facile tentennare nel suo ovale viso di porcellana: grandi occhi blu, brillanti come pietre preziose, profondi come l’oceano; sguardo violento e assoluto, velato da folte ciglia nere, capace di bucarti l’anima irreparabilmente; le sopracciglia sottili erano modellate in un arco che abbracciava la curva dei suoi occhi e, il naso, piccolo e grazioso, le dava un’aria da bambina; le labbra erano morbide, carnose e rosee, la mascella era appena pronunciata, gli zigomi alti e ampi, la fronte proporzionata, il suo mento deliziosamente rotondo. Quando ebbe finito, ci intrappolò dentro lo sguardo blu più bello che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Fu la prima volta che ebbi davvero paura.
~Pensieri di Edward~
 

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Capitolo 27
*** I CULLEN ***


Capitolo 13 – I Cullen

Jasper dava l’idea di essere un tipo riservato e incurante di ciò che lo circondava. Pensai che fosse buffo che proprio lui avesse il dono di percepire nel profondo e interpretare alla perfezione le emozioni e i sentimenti altrui, così strano da essere in antitesi con la sua personalità da stoico incallito. In realtà non lo conoscevo e non potevo permettermi di sentenziare in quel modo. Dovetti anche accettare il fatto che fosse un combattente eccellente e che se la fosse cavata piuttosto bene. Non era la prima volta che veniva coinvolto in una situazione del genere, sapevo riconoscere un bravo comandante quando lo vedevo. Era il ruolo che gli si addiceva di più soprattutto col potere che lo contraddistingueva.
Posò il suo triste sguardo metallico su di me, ma non avvertì nessun cambiamento. Mi stava chiedendo il permesso.
“No, non voglio Jasper. Starò bene. Devo assumermi la responsabilità di ciò che ho fatto”.
Edna mi spinse piano col suo grande e peloso muso da orsa.
“Dico sul serio”
Jasper annui impercettibilmente.
“Sei molto coraggiosa”
“Ho appena ucciso i membri del mio popolo e risparmiato voi, dei vampiri. Credo di aver combinato abbastanza casini per questa notte”.
“Hai scoperto qualcosa?” – chiese Alice.
“Dovresti essere tu a dirmelo, non sei tu la veggente?”
La vampira si mosse a disagio raggiungendo il suo bel ragazzone biondo.
“Non riesco a vedere bene ciò che accadrà. Ho più familiarità con i vampiri perché sono una di loro, vedo discretamente il futuro degli umani perché anch'io lo sono stata. Quando hanno deciso di catturarti erano ancora umani”.
“Ecco perché prima eri così sorpresa”.
“Nessuno è onnipotente. Non fartene una colpa. Spero che tu sappia di essere molto fortuna. Non sai che darei per poter dare anche solo una piccola sbirciata nel mio futuro ed evitarmi seccature tremende”.
Lei rise riconoscente fra le braccia di Jasper che la consolava premurosamente. Si alzò in punta di piedi come una ballerina di danza classica e gli sfiorò la guancia con un delicatissimo bacio.
“Ah Jasper, scusa per la tua camicia, spero non sia firmata. Edna è molto dispiaciuta, non è vero?”
L’orsa poggiò il suo enorme fondoschiena su quella distesa di aghi di pino lamentandosi come una bambina capricciosa.
“Tutto quello che mi fa indossare Alice è firmato” – rispose modesto.
“Non che la cosa mi disturbi” - rettificò subito dopo l’occhiataccia da serial killer di Alice.
“Comunque, ho esaminato i loro cadaveri e sono rimasta sorpresa. Studio da quando ero bambina le lingue antiche ma quei simboli che avevano sul polso… non li riconosco, probabilmente sono antecedenti alla storia della mia stirpe. Se solo il mio amico Fabrizio fosse qui”.
“Forse avremmo potuto risparmiarne qualcuno, magari avrebbe confessato”.
“Non mi piacciono i prigionieri di guerra. E poi non avrebbero parlato, sono stati marchiati col sigillo del silenzio. Magia delle fate”.
“Non ho mai visto una fata” – disse Alice stuzzicata dall’idea.
“La cosa non mi sorprende, la loro forma mortale è del tutto simile a quella degli umani, è quasi impossibile distinguerli. E poi abbandonano molto difficilmente i loro raths.”.
“Credi che siano coinvolte?”
“A questo punto non posso escludere nulla. Anche se mi viene difficile pensare che possano essere arrivate a tanto. Non amano immischiarsi nei nostri affari e non offrono i loro servigi gratis.
E’ inutile rimuginarci su. Adesso non ha importanza, devo avvertire tutti e scoprire chi li ha corrotti”.
Jasper sollevò un sopracciglio’ a mo’ di punto interrogativo, lasciando trapelare il dubbio nel suo volto smorto.
“Stavano per ucciderti. Sei sicura di poterti fidare ancora di loro?”.
“Se voglio saperne di più su questa storia, non credo di avere altre alternative. Non posso nemmeno biasimarli, stavano solo ubbidendo fedelmente ai loro padroni”.
Dovevo allontanare quel senso di colpa che quasi mi toglieva il respiro.
“Vi ringrazio, almeno voi non mi avete mentito”.
Ed ero più che sincera.
Edward non si era più mosso di un centimetro. Immobile e bellissimo come una marmorea statua greca riletta in chiave moderna.
“Piuttosto noi dovremmo ringraziare te, ci hai salvati prima al fiume. Scusaci se io e Jasper ti abbiamo fatto del male”.
Sbruffai come un cavallo: “Che vuoi che sia qualche costola incrinata. Adesso siamo pari” – e feci spallucce.
“Perché lo hai fatto? Perché hai protetto anche noi col tuo scudo?” – domandò Alice.
“Per una domanda” – era una bugia solo per metà.
“Una domanda…” – mi fece eco sospettosa.
“A dire il vero forse è più di una”
“Vuole sapere perché i vostri occhi sono dorati e non cremisi come i miei…” – mi anticipò Edward.
“Ma come fate a sopportarlo?”
“La loro… è una dieta un po’ diversa” – continuò ignorando il mio disappunto sulla sua incredibile invadenza.
“Carlisle, mio padre, fin da quando era un neonato non ha mai accettato la sua natura di vampiro. Tanto era il suo disgusto per ciò che era diventato che decise di isolarsi e di ignorare la sua sete”.
“Impossibile”
“Invece lo è, ma non durò a lungo. La sete e la sua vita di eremita lo spinsero ad attaccare un branco di animali e scoprì che il loro sangue poteva placare i suoi istinti e appagarlo quasi come quello umano. Come conseguenza di questo insolito regime alimentare” – rise mestamente mostrandomi quella piccola fossetta appena accennata – “i nostri occhi diventano ambrati”.
“E’ stato lui a insegnarcelo”.
Sbattei velocemente le palpebre come le ali di un colibrì, scombussolata dalla sua glossa più che dettagliata.
 “Ok, frena un secondo. Quindi mi stai dicendo che voi cacciate animali?”
Avrei tanto voluto, ma non seppi trattenermi dal ridacchiare di gusto.
“Lo trovi divertente?”
“In realtà sì. Ne ho davvero sentite tante ma questa mi sembra davvero patetica e assurda come scusa. Direi che su di te non ha dato grossi risultati. Ti ho osservato mentre risucchiavi avidamente fino all’ultima goccia di sangue come se fosse una sorsata di limonata fresca”.
“E perché non mi hai fermato allora?”
La risposta restò incastrata in gola e m’imbronciai. Le mani cominciarono a sudare e l’epiglottite si restrinse dolorosamente lasciandomi la bocca secca. Ricambiavo innervosita lo sguardo accusatore di Edward. Una leggera raffica di vento giocò con quel bronzeo cespo ribelle e mi osservò con le sopracciglia aggrottate da divinità adirata.
“Infatti, come pensavo” – rispose camuffando senza successo la soddisfazione nella sua voce. Ero letteralmente un libro aperto per lui. Aveva captato l’impeto omicida che covavo nei confronti di quella spregevole persona.
"Leona, Edward lo ha fatto solo per attirare la tua attenzione, non lo capisci? Lui non farebbe mai del male ad un innocente" - lo giustificava Alice.
“E comunque è più facile a dirsi che a farsi. All’inizio è molto difficile soprattutto per chi ha già assaggiato il sangue umano e conosce i benefici che derivano”.
“Si riferisce a me” – disse Jasper alzando la mano come uno scolaretto.
“Ci vorrà ancora tempo per perfezionare il mio autocontrollo” – sussurrò dispiaciuto.
La piccola vampira dai capelli corvini, un po’ spettinati, raccolse il suo mento fra le sue minuscole mani delicate avvolte dai guanti. Sembrava una modella uscita da una copertina di un giornale di moda all’ultimo grido.
Lo guardò con tenerezza e gli disse: “Vai alla grande Jaze, non permettere a nessuno di dire il contrario”.
“Già, non mi sembra che ti costi tutto questo gran sacrificio starmi accanto” – lo incoraggiai. Perché lo stavo facendo?
I due si voltarono nella mia direzione e Jasper esclamò: “Ora che ci penso…”.
Il vampiro abbassò le sue lunghe ciglia sulle gote, completamente assorto, e arricciò il naso annusando l’aria intorno a lui.
“Alice” – la chiamò ancora concentrato a captare il mio odore – “tu riesci a sentirlo?”.
I suoi occhi ambrati ritornarono a brillare in quella selva buia ma incupiti dall’incredulità.
“Ho le narici intasate dal profumo del suo shampoo alla rosa canina ma il suo sangue…”.
Edward scoppiò a ridere fragorosamente. Ascoltai la risata calda e spontanea di quel non morto freddo come il marmo. Edna lo guardò malissimo, pensava fosse impazzito.
“Te lo avevo detto”.
“Deve essere una sorta di autodifesa, un camuffamento scaturito dalla mia natura di medjai” – riflettei ad alta voce.
Alice dapprima aggrappata alle spalle di Jasper, si accasciò al suolo con uno sguardo lattiginoso. Il vampiro la teneva stretta a sé con fare esperto, calmo e impassibile, come se stesse eseguendo una prassi di routine.
“Che cosa vedi Alice?” – le domandò mellifluo Jasper.
A dispetto del suo chiaro stato catatonico, Alice mugugnò: “Un ciondolo blu”.
“Chi lo indossa?” – la interrogò ancora.
“Io, io… non riesco a vederlo”.
“Ha il potere di fare cose terribili” – disse come se fosse sul punto di piangere.
“…ma anche cose grandiose” – terminò poco dopo.
Sul volto di Edward sfilarono tutta una serie di espressioni diverse fra loro, concentrato su qualcosa che solo lui poteva vedere. Alice rimase incosciente per una manciata di secondi per poi ridestarsi fra le braccia del suo amato, rannicchiata sul suo petto.
“Si può sapere che le è preso? Sembrava più morta del solito…”
“Una visione” – mi rispose Edward con fare sbrigativo.
“Sei riuscita a distinguere qualche volto?”
“Jaze, Edward dobbiamo andare a Forks, ora. Voglio passare il tempo che mi resta con le persone che amo…” – pronunciò quelle parole lapidarie come se stesse profetizzando l’apocalisse.
“Alice sai che il futuro può sempre cambiare”.
“Lo so fratello, me lo ripeti continuamente”.
“Anch’io ho fiducia in lei” – le rispose Edward senza che gli avesse posto alcuna domanda.
Le sfuggì uno sguardo torvo su di me.
“Sentite, non ho tempo di stare a sentire le vostre stramberie. Qualunque cosa abbia visto, io non vi tratterò. Anch’io sono assillata dal forte desiderio di riabbracciare mio fratello, lo capisco. E tu, Edward, non fargli mai più una cosa del genere. Sai quanti vorrebbero avere una famiglia pronta ad accoglierli? Non te ne rendi conto? Tu hai qualcosa per cui lottare, qualcuno che ci tiene a te. Come fai a calpestare sotto i piedi un dono così grande? Andatevene, il vostro banchetto di conigli vi aspetta ”.
I tre vampiri risero della mia allusione alle battute di caccia.
“Ascoltami Leona, mi sento in dovere di metterti in guardia…”.
“No, Alice” – la zittì pacatamente suo fratello.
“Permettile di vivere la sua vita come più le aggrada. Non influenzare le sue scelte. Sono i nostri errori, le nostre esperienze e ciò che impariamo da essi a definire quello che siamo. Ci sono futuri, anche se nefasti, è bene che abbiano il loro corso. Quindi lascia che sbagli, che rida, che pianga, che si arrabbi ed esploda come un vulcano, che ami fino a farle scoppiare il cuore, che soffra tanto da desiderare di morire…Non importa cosa accadrà, sarà una sua scelta. Il suo cuore saprà cos'è giusto per lei. Oggi, questa ragazzina ha insegnato a un immortale che questa vita, anche quella di una ripugnante creatura come me, vale la pena di essere vissuta fino in fondo”.
Gli permisi di accarezzarmi la testa. Sulla destra, aveva un bracciale di cuoio nero con uno stemma gentilizio argentato, di forma ovale, identico a quello di Jasper. Lo stemma raffigurava una mano, un leone e un trifoglio ma ne ignoravo la simbologia. Sotto vi era incisa la parola “Cullen”. Immaginai che fosse il nome del loro clan. Anche Alice portava al collo lo stesso blasone della loro famiglia legato a un delicato nastro azzurro.
“Quella luna è carica di presagi non credete?” – quella vampira sapeva come mettermi i brividi.
“Già, queste notte dovrà pur finire… Dobbiamo andare prima che sorga il sole”.
Alice e Edward si scambiarono altri messaggi silenziosi, poi prese per mano Jasper.
“Hei, Cullen! Ci rivedremo?”
“Questo dipende da te…” – disse con viso funereo.
“E’ stato un piacere conoscerti piccola medjai, grazie per avermi restituito mio fratello”.
Jasper si esibì in un inchino profondo, cavalleresco e carico di gratitudine: piegò leggermente il torso in avanti e portò la mano destra al petto nudo.
“Leona” – pronunciò il mio nome come una carezza.
“Edna” – salutò la scodinzolante Setter inglese accucciata al mio fianco.
C’eravamo solo noi due in quei verdi boschi incantati, strappati dalle pagine di una fiaba. Le mie spade erano ancora sporche del sangue di quelle abominevoli creature.
“Vorrei non averti mai incontrato, Edward Cullen. Sarebbe tutto molto più facile” – gli confessai fissando, impavida, il cremisi dei suoi occhi da vampiro.
“Non mentire a te stessa” – disse lui comprensivo, svelando le bugie ingarbugliate fra i miei pensieri.
“Hai ragione, con te non c’è gusto. Adesso dovrò fare i conti col mio castello di menzogne” – sospirai rassegnata mentre mondavo le lame su quel tappeto di foglie.
“Sappi che io non ti giudicherò per ciò che hai fatto, sarei un ipocrita” – sogghignò sfoggiando un sorriso sghembo.
“Rimarrà il nostro segreto”
“Me lo prometti?”
“Ti prometto che un giorno, non proverai più vergogna per quanto accaduto. Ne andrai fiera piuttosto” – sussurrò mentre il suo sguardo ardeva dentro il mio.
“Corri dalla tua famiglia, prima che cambi idea”.
Il vampiro si mosse in un sfruscio di fogliame vorticante e lambì compassionevolmente la mia guancia, ferita dal suo gelido tocco, dentro il palmo della sua mano esangue.
"Alice ha visto il tuo futuro. Ti troverai di fronte a una scelta molto difficile. Qualunque essa sia, fa ciò che ritieni giusto".
"Non è un po' come barare? Lei ha già visto tutto"
"No, non le è dato sapere cosa sceglierai".
“Vai fino in fondo in questa storia, so che ne verrai a capo anche senza il nostro aiuto. Questa non è la mia guerra ma la tua. Prenditi cura di te, piccola tempesta” – m’intimò, premuroso come un fratello maggiore.
“Anche tu” – rantolai timidamente con un magone in gola.
Soffrì tremendamente quando gli voltai le spalle, ma quello era un addio.
“Leona?”
“Sì, Edward?” - gli risposi senza voltarmi.
“Adesso va, il Flagello di Dio ti aspetta ai cancelli del cimitero di Highgate”.
 Cercai ancora un’ultima volta il suo volto sperando che fosse lì per me a dissolvere ogni mio dubbio ma lui non c’era più.
“Andiamo, Edna” – dissi al mio segugio.
“Abbiamo ancora dei conti in sospeso”.

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Capitolo 28
*** FLAGELLUM DEI ***


Capitolo 14 – Flagellum Dei

Le inferriate rugginose del cimitero abbandonato di Highgate erano già spalancate. Ammirai a bocca aperta l’ingresso orientale di uno dei magnifici sette, lasciato incustodito da parecchi anni. La facciata si stagliava maestosa e iconica, inghiottita da felci e rampicanti, ma non aveva ancora perso il suo fascino monumentale. Quell’incredibile ingarbuglio verdeggiante e selvaggio scalava audace le colonne in stile vittoriano, corrose dal tempo e devastate dal precedente conflitto mondiale. Le foglie, trascinate da un vento ululante, si affrettavano a rintanarsi in quel mausoleo fatiscente, invitandomi a seguirle fra le ombre mentre una coltre di nuvole minacciose si appropriava della luce naturale della luna. C’era odore di terra bagnata, era in arrivo un temporale. Sai che novità. Il binomio Londra- pioggia era famoso in tutto il mondo.
Quella codarda di Edna guaiva con la coda fra le zampe e mi lanciava supplicanti occhiate di sbieco. Scorsi in egual modo l’orrore nel suo occhio turchese e in quello ambrato. Chiunque avrebbe rinunciato alla vista di una Chimera intimidita da quattro innocue rovine, infatti, la tremarella alle gambe non accennava a cessare. Non potei rimproverarmi di nulla, avevo un appuntamento non programmato con Il Flagello di Dio, avevo il diritto di farmela sotto. Conoscevo soltanto un uomo che corrispondeva a quel soprannome che tanto suscitava sgomento. Dubitavo che fosse l’originale, colui che si era appropriato di quel titolo vanaglorioso doveva essere un usurpante stolto di proporzioni colossali. Mi morsi a sangue il labbro per smorzare l’adrenalina che m’infuocava le vene e richiamai il mana sulla punta dell’indice.  Manipolare un elemento era un conto, crearlo dal nulla era un altro, soprattutto riuscire a contenerlo e limitare i suoi confini. Dovevo tenere bene a mente l’immagine di ciò che volevo materializzare. Avvertì un piacevole calore attraversare la pelle e scivolare dalla nuca alla mano, diramandosi fra le dita. La temperatura stava raggiungendo il suo picco sull’unico dito che puntava il cielo. Piccole vampe arancioni e rosse si allacciarono e si fusero fra loro in una danza turbinante, sfiorando appena il polpastrello.  Un gemito di sollievo sgattaiolò fuori dalle labbra dischiuse. Avevo la mia torcia fai-da-te, una cagnolona paurosa al mio fianco, due kopis ben arrotate, tutti gli ingredienti per fare una bella gita al camposanto nel cuore della notte.
L’odore stantio e nauseabondo di muffa e morte impregnava quelle pareti inverdite dall’umidità. Erano tappezzate da intrecciate ragnatele filamentose e popolate dagli esoscheletri mummificati delle sfortunate prede dei ragni.
Detestavo i ragni.
Tornata a cielo aperto, m’incamminai sul viale dei ricordi scrutando ad una a una quelle sepolcrali lapidi commemorative a malapena scorgibili fra edere, alberi e arbusti. Fra alcune spiccavano delle croci, fra altre dei marmorei angeli piangenti, rannicchiati in posizione fetale su un freddo letto di pietra, altre ancora, semplicemente incise da frasi strappa lacrime e seguite da data di nascita e morte. Molte delle tombe che circondavano me ed Edna erano andate distrutte. Durante la seconda guerra mondiale, la capitale britannica fu bombardata dai tedeschi e nemmeno Highgate poté sfuggirgli. Una di esse, vicino al cancello principale, era malamente aperta e si potevano vedere i resti di uno scheletro strappato dalla bara, fra le falangi teneva stretta sulla gabbia toracica, ricoperta da terra e stracci, la corona di un rosario.
Un tuono illuminò i cieli imbiancati dalle nubi e il suo rombo mi fece trasalire. Di solito li sentivo arrivare…come aveva fatto a cogliermi di sorpresa?
Poi un canto lacerò il silenzio dei morti, disturbando il loro sonno eterno. Una voce stridula e bianca intonava le note  di una vecchia filastrocca per bambini e il suo eco rimbombava fra le tombe.
Mi fece raggelare come un pezzo di ghiaccio, le ginocchia erano diventate di pastafrolla. La fiamma tremolò furiosa prima di lasciarmi al buio. Anche la melodia cessò. Quando si spense, fu come se mi fosse mancato l’ossigeno. La tasca improvvisamente si fece pesante. Edna aveva ripreso la tanto odiata forma di criceto e si era involtata dentro la stoffa della mia mantellina. Temevo un attacco alle spalle. Appoggiai la schiena contro le mura di una cripta dopo essermi assicurata che al suo interno non ci fosse qualche specie di zombie e il fuoco divampò più forte sul palmo della mia mano. Il battito del mio cuore pulsava nelle orecchie creando appena un velo di sordità e lo stomaco faceva le capriole acrobatiche attorcigliandosi su se stesso. Rimpiansi amaramente la compagnia di quei tre vampiri.
Una bambina smagrita, tutta gale e pizzi, sedeva composta sul ciglio di una tomba canticchiando a bocca chiusa la stessa canzoncina di prima. Il suo gracile corpicino indossava un bellissimo vestito verde smeraldo in pendant con la flora incolta che la attorniava. I suoi lunghi capelli biondi erano raccolti in una lunga treccia da cui sfuggiva disordinato qualche ciuffetto. Pettinava con un’espressione buffa la già liscissima capigliatura color grano turco della sua bambola di porcellana che indossava il suo stesso abito. Era inquietante quanto le somigliasse.
La bambina della casa degli orrori, no! Non potevo accettarlo. Cazzo (ancora una volta l’influenza negativa di Gabriel aveva il sopravvento).
“Ciao” – disse interrompendo il suo canto muto.
 “Ti piacciono i cimiteri?” – mi chiese innocentemente con un garbato accento inglese.
 Non so dove, trovai il coraggio di risponderle.
“No, direi di no”.
“Nemmeno a Hilde” – affermò parlando di lei in terza persona- “Fanno tanta paura. Ma papà mi ha chiesto di accompagnarlo”.
Oh grazie al cielo, la piccoletta si era solo persa e stava aspettando suo padre. Quanto era stupida. I muscoli si sciolsero piano piano.
“Vuoi che ti aiuti a trovare tuo padre?” – le domandai con voce rassicurante.
M’inginocchiai accanto a lei per osservarla da più vicino. Il fuoco che ondeggiava sulla mano la illuminò e mi rivelò la brutta bruciatura che le deturpava il viso tanto angelico con gli occhi leggermente a mandorla. Chi poteva averle fatto una cosa tanto crudele. No, pensai. Il fuoco. Ormai le fiamme avevano già ipnotizzato il suo sguardo, inspiegabilmente un po’ triste.
“Come avete fatto a spezzare il sigillo? Hilde si era impegnata così tanto”.
Mi s’asciugò la saliva in bocca.
“Co-co-co- sa?” – balbettai come un ebete.
Allontanati da lei, mi urlava Edna. E’ una strega.
Interrogai imperterrita la bambina: “Ci siamo già incontrate?”
“No, ma ricordi a Hilde una persona a cui voleva tanto bene”.
Hilde riprese a cantare come se niente fosse mentre le sue note si facevano sempre più familiari. Stavolta la canzone ripescò dalla mia memoria un ricordo ben netto e distinto e mi sforzai di ignorare il bruciore agli occhi. Tentai di distogliere lo sguardo e mi soffermai su un dettaglio che non avevo notato prima. Il fermaglio a forma di coccinella. Il fermaglio che mi aveva regalato mamma quando ero piccola. Nella mia mente si liberarono un tumulto di pensieri contrastanti, ero totalmente scossa da brividi.
“Non sai quanto ti ho atteso, Leona Braveheart” – ci interruppe una forte voce baritonale, graffiata.
Un uomo dai lunghi capelli drappeggiati di nero comparve alle nostre spalle, avvolto da vesti scure. Era scalzo. L’erba intorno a lui appassiva lentamente, ad ogni suo passo. La sua statura bassa era compensata da un largo torace e una testa leggermente sproporzionata rispetto al resto del corpo; i suoi occhi erano piccoli e a mandorla, come quelli della bambina, la sua barba sottile e brizzolata, aveva un naso piatto e una carnagione avorio, che svelava la sua provenienza.
“Tu chi sei?” – chiesi ancora in preda allo shock.
“Mi chiamo Etzel. Ma mi sono stati affibbiati molti altri titoli nei secoli, appartenenti per lo più alla mia vita da mortale”.
“Attila il re degli Unni, Attila il flagello di Dio” – elencò annoiato - “e chi più ne ha, più ne metta”. “Credo, però, che tu mi conosca meglio con il mio nome da vampiro”.
“Attilius il sanguinario” – pronunciai il suo nome in un soffio.
“Bentornato papà”
Non appena lo vide, Hilde si aprì in un sorriso a trentadue denti. Gli corse incontro buttandogli le braccia al collo e accolse il sovrano dei Barbari con un candido bacio sul suo pungente volto.

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Capitolo 29
*** IL CONTRATTO VINCOLANTE ***


CAPITOLO 15 - IL CONTRATTO VINCOLANTE 

Quella era appena diventata la notte più lunga della mia vita. Etzel mi osservava con avidità come se fossi un prezioso oggetto di antiquariato. L’ultimo suo avvistamento risaliva a prima che nascessi, molti si erano avventurati per dargli la caccia riuscendo a collezionare solo una misera serie d’insuccessi. I più famosi cacciatori di vampiri avrebbero ucciso pur di trovarsi nei miei panni, eppure io avrei voluto essere dovunque, fuorché lì insieme a lui, Attilius, uno dei vampiri genocidi più spietati al mondo, colpevole della morte di migliaia di persone, protettori compresi. Istintivamente cercai le mie spade.
“Metti via quella stupida ferraia bambina, non ne avrai bisogno qui” – si lagnò seccatamente.
Mise giù sua figlia Hilde con sguardo amorevole di padre e le disse: “Hai fatto la brava?”
“Sì! Hilde è stata bravissimissima! Hilde le ha fatto prendere un gran spavento” – aggiunse con una risatina birichina.
 “Lo vedo mia adorata”.
“Su Leona, rilassati. Ma ti sei vista? Sei persino più bianca di me!” – disse con una risata teatrale.
“Adesso basta con queste sciocchezze e rispondi alla mia domanda: lei é…” – la parola s’inceppò sulla lingua.
Ci riprovai dopo aver preso un bel respiro: “ Lei è mia sorella…?”.
“Oh no, per la barba di mio zio Rua, come ti viene in mente?”
Il cuore riprese a battere normalmente.
“Credevi che io e tua madre…” – roteò gli occhi per non far capir nulla alla piccola Hilde.
“Senza offesa ero un uomo sposato. Bellissima donna coraggiosa tua madre…davvero, a proposito tu le somigli molto, ma come dite voi? Non era il mio tipo? E poi come la mettevi con tuo padre? Uomo particolarmente protettivo e geloso…” – disse con una smorfia facciale.
“Lei ha il fermaglio di mia madre. Ed è chiaro che la conosce e sa anche del sigillo. Com’è possibile?”.
“Forse è meglio se ti siedi mia cara…Accomodiamoci nel mio salotto. Puoi portare con te anche il tuo animaletto se vuoi”.
La testolina paffuta di Edna fece capolino dalla tasca e sgranò i suoi piccoli occhietti neri da criceto. Le offrì la mia mano, si accomodò sul palmo e la trasportai sulla spalla, nascosta fra i miei capelli. Sentivo le sue vibrisse solleticarmi le guance ma quel contatto di dava conforto.
“Bel posticino Highgate, non trovi? Ed è ancora più suggestivo di notte” – commentò Attila.
“Qui riposano le membra di molti personaggi illustri” – continuò imputridendo una radice con quel suo tocco maledetto per aiutare Hilde a proseguire lungo il cammino.
“Sulla destra, troverai le spoglie di Faraday di Southwark, grande mente quella di Micheal, pace all’anima sua” – disse con profondo rispetto.
“A Hilde piace il leoncino che dorme!” – esclamò la bambina facendo oscillare la sua treccia come un pendolo.
“E’ il suo preferito” - sussurrò il padre a bassa voce mettendosi una mano davanti la bocca.
“Questa è la tomba di quel folle e rivoluzionario di Karl Marx, che le sue ossa possano marcire in eterno in questo buco, sporco comunista!”
Non potei dissentire sta volta ma da quale pulpito veniva la predica…
“…sua moglie Jenny sì che era una donna a modo, davvero deliziosa” – continuava a straparlare.
Quel deliziosa non mi convinceva del tutto.
Seguì la mia guida turistica e sua figlioletta nell’erba alta facendo slalom fra le tombe. Era facile capire da dove fossero passati, bastava seguire la scia di piante morte e rinsecchite ed era fatta. Almeno per una volta i libri di storie non raccontavano solo dicerie. Cercai di non pensare troppo a quanto fosse surreale quella situazione o avrei dato di matto.
I due si fermarono davanti una fastosa costruzione di pietra malandata assalita dai rampicanti. Il nome della famiglia era stato cancellato dagli agenti atmosferici.
“Prima le signore” – disse con galanteria invitandomi ad entrare nella sua personalissima cripta-suite spettrale a cinque stelle. E chi si sarebbe aspettato tanta raffinatezza da un Unno?
“E’ un po’ buio qui, me ne scuso. Ti dispiacerebbe…” – chiese indicando le candele posizionate in punti strategici della stanza funeraria.
“Se proprio devo…” – e restituì a quell’ammasso di cera colante la sua utilità.
I ratti abbandonarono le loro tane e fuggirono alla luce soffusa di quei moccoli informi. Attila ne afferrò due poco prima che guadagnassero l’uscita e affondò i denti nel loro pelame unticcio.
“Bleee che schifo papà!”.
Concluso il suo pasto frugale, gettò le loro carcasse fuori dalla porta e sorrise biecamente a Edna, con i denti sporchi. Lei squittì come una disperata e la spalla su cui poggiava le zampe cominciò a vibrarmi.
“Che carino! Ho sempre voluto un criceto, posso giocarci? Ti prego, ti prego, ti prego!” – mi supplicò Hilde con le mani giunte sotto il mento.
Non potevo negarglielo se metteva quell’adorabile broncio.
Scusa Edna - le comunicai con lo sguardo ma lei continuò a squittire più forte di prima mentre la trattenevo a testa in giù per la coda.
“Linguaggio! Piccolo cricetide maleducato! Dove hai imparato a dire queste cose!”.
Consegnai Edna alla ragazzina che cominciò a spupazzarla come un giocattolo di gomma. Le brillavano gli occhi.
“Tè e biscotti mia cara?” – mi offrì come un tipico padrone di casa inglese.
Attila prese la scatola poggiata sopra l’altare di famiglia e controllò il contenuto.
“Hilde dove sono finiti i biscotti?”
“Scusa papà, li ho mangiati tutti” – si autodenunciò la bambina.
“Avevo fame!” – si giustificò allo sguardo severo di Attila.
“Non è un problema, sono a posto così, grazie” – rifiutai educatamente.
“Dai insisto! Questo Oolong è importato direttamente dalla Cina, ti assicuro che non ne rimarrai delusa!”.
“Ok…” – gli risposi fra l’imbarazzo e l’incredulità per quella situazione.
Attila tirò fuori da non so dove, tutto l’occorrente per preparare il tè, sfoggiando un set da fare invidia persino alla regina d’Inghilterra e a tutto Buckingham Palace messo insieme.
“Non è un problema se stiamo qui?” – mi domandai – “insomma…mi sento come se gli stessi mancando di rispetto”.
“Sono morti Leona! Non possono sfrattarci di qui giusto? Quindi non preoccupartene”.
A velocità vampiresca mi ritrovai con una teiera di porcellana bianca fra le mani. Aggrottai un sopracciglio. Padre e figlia mi comunicarono con il loro entusiasmo tutte le aspettative che avevano nei miei confronti.
“Sei serio? Vuoi che usi i miei poteri per riscaldarti l’acqua per il tè?”.
“Fammi vedere un po’ di cosa è capace un Medjai, renditi utile” – disse schiacciandomi l’occhiolino. Dovetti fare appello a tutta la pazienza di Giobbe per non lanciargli la teiera in faccia.
“Oh sì, che emozione” – esultai laconicamente all’idea che fosse il massimo a cui potessi aspirare.
Il re degli unni si tolse il lungo cappotto e lo appese fuori sul ramo di un alberello, trasformandolo in un attaccapanni. Sotto indossava dei calzoncini che facevano molto corte del Re Sole, un gilet di velluto di un pregiato color blu elettrico e una camicia bianca con le maniche a sbuffo impreziosita, all’altezza del collo, da un jabot merlettato. Alla faccia del barbaro.
I suoi occhi avevano assunto la tonalità dell’oro proprio come quelli di Alice e Jasper.
“Conosci i Cullen?” – gli chiesi senza pensarci troppo.
“Cullen…” – rifletté ad alta voce - “Parli del dottor Cullen?”.
“Dottor…credevo fosse un vampiro”.
“Infatti lo è, uno di quelli di marmo, come li chiamate voi protettori”.
“Un vampiro che fa il dottore? Con bisturi e pinze sterili? E come fa a resistere?”.
 “Già, deve avere un autocontrollo notevole…Bah, contento lui. Tipo singolare Carlisle, ma è davvero una brava persona. Gli sono riconoscente sotto molti aspetti”.
“Ti ha insegnato lui a…bere sangue animale?”.
“Sì, esatto, mi ha aperto un mondo. Non avevo mai considerato minimamente l’idea eppure funziona. Certo il sapore non è lo stesso ma poi ti ci abitui, non è così male. I topi non sono i miei preferiti, decisamente. L’altro giorno ad esempio è passata una volpe dall’aspetto invitante…” – stava cominciando a vaneggiare.
“Stai dicendo che non…”.
“Non tocco un umano da molti anni ormai. Lo faccio per Hilde, a lei non piace che beva il sangue degli umani” – disse sospirando.
“Tu come conosci i Cullen?”
“Così, ne ho sentito parlare” – mentì.
Avevo assolto al mio compito di boiler umano e distribuì a tutti i partecipanti una tazza fumante di Oolong bollente. Iniziò a piovere. Lo scroscio della pioggia picchierellò sul tetto della cripta dove avevamo trovato riparo. Attila sorseggiò rumorosamente con aria soddisfatta il suo tè e dichiarò: “squisito!”. Gli sorrisi di rimando solo per cortesia e lo assaggiai anch’io.  Non era male, ma per i miei gusti quattro zollette di zucchero non avrebbero guastato. Hilde insisteva nell’offrire il tè anche alla sua bambola e a Edna, ormai rassegnata all’idea che non avrebbe superato la notte sotto le cure di quella bambina. Poi Attila si sporse in avanti e si schiarì la voce.
“Allora. Dimmi ciò che sai e sarò felice di chiarirti le idee” – disse godendosi il tepore della bevanda. Nel farlo alcune treccine caddero davanti ai suoi piccoli occhi distanziati e soggiacenti sotto due sopracciglia sottili che sembravano curvarsi come una naturale estensione nel suo naso, ampio e adunco. Con tutto quel capellame a disposizione, acconciare i capelli di papà doveva essere il passatempo preferito di Hilde. Mi si scaldò il cuore a quel pensiero di avvolgente tenerezza paterna.
“Mia madre è stata esiliata molti anni fa per aver aiutato un vampiro a scappare da uno squadrone di ricognizione di protettori strateghi. Lo zio mi raccontò che davanti la coorte lei non negò, anzi cerco di persuaderli ad una resa. Ovviamente fu accusata di patteggiare col nemico e di infedeltà alla causa. Questo è tutto quello che so. I documenti con il verbale della sua inquisizione sono andati perduti e nessuno ha mai voluto dirci nulla”.
“Vuoi sapere se sono io il vampiro che l’ha portata alla rovina?”.
“Adesso ne ho la certezza. Voglio sapere perché mia mamma ha rischiato la vita e si è giocata la sua posizione per uno come te. Un assassino senza anima che lascia morte e disperazione al suo passaggio. Uno squallido sterminatore di popoli che ha sventrato i corpi dei suoi fratelli protettori fino a poco tempo fa”.
Scelsi con cura quei terribili aggettivi per far comprendere che non approvavo la sua condotta e mai lo avrei fatto.
“Hai idea di quante perdite abbiamo subito a causa tua e dei tuoi adepti in tutti questi anni? Siete forse impazziti? Tutti quei morti, le sparizioni misteriose, non avete più limiti, siete soltanto un branco di cani sciolti. Pensavo che ci teneste alla vostra segretezza. Beh, notizia dell’ultima ora: persino gli umani iniziano a farsi delle domande, si stanno diffondendo miti e leggende sui vampiri…”.
“Ellak che cosa hai fatto” – disse affondando il viso fra le sue grandi mani callose. Hilde lasciò andare Edna per un attimo e fissò il padre con gli occhi sbarrati sopraffatti dal terrore.
“Chi è Ellak?”
“Il mio primogenito, fratellastro di Hilde”. Hilde sussultò ancora una volta al suono del nome di suo fratello.
“Non voglio santificarmi ai tuoi occhi ragazzina. Non potrò mai mondare la mia colpa, come hai ben detto prima, ho strappato troppe vite a questo mondo sia da umano che da immortale. Ma persino a uno come me Dio ha offerto una possibilità di redenzione e mi ha fatto dono del più prezioso fra i gioielli” – disse accarezzando con lo sguardo la figlia.
“Io merito di essere bloccato in questo purgatorio, non lei”.
“In che senso, bloccato?”
“Credo che sia più opportuno partire da quando tutto questo ha avuto inizio”.
“Conobbi sua madre circa quindici anni fa. Io, i miei adepti, con mio figlio Ellak al mio fianco, ci preparavamo ad attaccare i territori degli Ordo Draconis per mettere fine al loro dominio una volta per tutte prima che la congrega rumena ci mettese le sue schifose grinfie. Avevamo scoperto il loro covo, ci serviva solo un buon piano”.
“Gli Ordo Draconis, intendi i vampiri bulgari?”
Attilla confermò con un cenno del capo.
“All’epoca ero alla ricerca disperata di un indovino, sono un gran superstizioso e non comincio mai una guerra se non so di poterla vincere. Ormai deluso dall’infinita lista di ciarlatani che avevo incontrato sulla mia strada, incontrai Zelina. Un Troll dei fiumi le dava la caccia e si accaniva su di lei schiacciandola con la sua clava spinosa. Era in fin di vita, tingeva le acque del Danubio con il suo delizioso sangue. Il Troll l’aveva allevata fin da bambina per le sue abilità di padroneggiare l’arte divinatoria delle predizioni di morte. La stava punendo per essersi rifiutata di compiere il suo dovere. Non voleva profetizzargli l’esito della battaglia con i Troll delle montagne. Devo essere sincero, io e il mio primogenito lo uccidemmo soltanto perché avevamo origliato le parole del gigante. Decisi di tenere Zelina con me e sfruttare il suo dono a mio vantaggio”.
“Vinceste la guerra?”
“Oh, li schiacciammo come insetti” – disse compiaciuto.
“Nessuno dei due, persino lei, poté prevedere che ci saremmo innamorati l’una dell’altro e la sposai anche contro il volere di Ellak, che la detestava con tutto se stesso. Tanto la amavo che volevo farle dono dell’immortalità ma contro le aspettative di tutti, Zelina rimase incinta”.
“I vampiri possono avere figli?”
“Che io sappia non quelli di marmo ma a quanto pare per quelli come me che conservano sangue umano nelle vene, è possibile”.
“Quindi Hilde è la tua figlia biologica.”
“E ha ereditato alcuni talenti della madre ma è molto più potente. Mi ricorda così tanto lei…”.
“Che ne è stato di Zelina?” – gli chiesi e il suo volto si coprì di ombre. I nostri silenzi erano intervallati dal rumore della pioggia.
“La notte che Hilde nacque, il pianeta Marte proiettò i bagliori rossi della sua terra sulla luna, vestendola di un rosso fiammeggiante. Quella luna di fuoco faceva persino invidia al sole per la sua bellezza. Secondo le credenze del popolo di Zelina, i bambini nati sotto la luna rossa segnavano la fine di qualcosa, il termine di un’era e l’inizio di una nuova. Colmo di gioia per la nascita della piccola Hilde e sotto le continue richieste di Zelina, decidemmo insieme di abbandonare gli adepti e lasciarci tutta quella scia di cadaveri alle spalle per cominciare quella nuova vita che la luna ci prometteva. Ellak andò su tutte le furie, continuava a ripetermi che la donna che avevo sposato era maledetta e che il frutto del mio amore plagiato doveva morire con lei. Era accecato dalla gelosia, così tanto da dare fuoco alla cameretta di sua sorella con l’intenzione di lasciarla morire lì, soffocata dalle fiamme. Ecco come si è procurata quella bruciatura” – disse Attila addolorato per la ferita che sfregiava il volto della figlia.
 “Tua madre e tuo padre erano lì vicino in missione. Lei la salvò e non la benedirò mai abbastanza per ciò che ha fatto”.
 “Il buon Carlisle medicò le sue ustioni ma non poté fare nulla per la cicatrice”.
“Anche nel momento più buio, Arianna mi difese persino dai protettori suoi alleati e si prese cura di Zelina e Hilde come io non potevo fare poiché mio figlio ci dava la caccia”.
“A Hilde manca tanto Arianna” – gemette la piccola.
“Era diversa da tutti i protettori che avevo incontrato, l’unica a vedere oltre ciò che appare. Oh e com’era testarda” – rise al ricordo – “tuo padre non era d’accordo con lei ma l’amava troppo per contraddirla. L’avrebbe seguita fino in capo al mondo se fosse stato necessario”.
“Era molto saggia e trascendeva le regole imposte dalla sua gente, agiva secondo il suo codice morale. So che sei cresciuta credendo che i tuoi fossero dei traditori, gli altri non hanno fatto che assillarti con le loro menzogne. Io voglio che tu sappia che, per quello che vale, tua madre è stata una delle persone più straordinarie che abbia mai incontrato. Tu e tuo fratello dovreste essere fieri di essere i loro figli”.
“Non ho mai dubitato di loro, né ho mai creduto a una sola parola di quello che mi raccontavano sul loro conto. Ora so qual è la verità”.
Mi sentii più leggera, come se fossi stata investita da una ventata d’aria fresca. Quella verità mi consolò nel profondo. Non volevo piangere davanti a lui perciò gli chiesi – “Cosa successe dopo?”.
“Hilde mostrò sin da bambina i suoi poteri da sensitiva e avvertì una potente aura aleggiare attorno a Arianna, qualcosa che però non le apparteneva direttamente. Ancora non sapeva di portare in grembo due bambini prodigio. Ricordo che quando seppe della gravidanza scoppiò in lacrime, non perché non vi volesse ma perché temeva la maledizione che colpiva i piccoli medjai, fin dalla nascita. Sebbene ancora giovane, la mia Hilde vi impose il sigillo per proteggervi dal flagello mortale che incombeva su di voi”.
“Sei stata tu allora a proteggerci con quello scudo di proiezione” – esclamai rivolgendomi alla diretta interessata.
“Ma c’è qualcosa che non mi torna. Hilde è nata prima di me e Gabriel, come è possibile che adesso sia poco più che una bambina di sei anni?”.
“Hilde il mese prossimo compirà quindici anni” – asserì allegramente. 
“Hilde cresce più lentamente rispetto agli altri bambini” – chiarì mentre continuava a sbaciucchiarsi la povera Edna.
“La magia in lei è amplificata dalla sua natura di mezza vampira” – aggiunse Attila.
“Come avete fatto a nasconderla ai Volturi? Avrebbero potuto credere che fosse uno dei bambini immortali. Si dice che li temano in particolar modo e che nel corso dei secoli si siano occupati della faccenda a…modo loro”.
“Hilde non beve sangue come un normale vampiro, lei per metà è una banshee, come Zelina”.
Restai di stucco e guardai Hilde con un rinnovato timore reverenziale. Era la prima volta che vedevo una banshee in carne ed ossa e non mi aspettavo avesse un aspetto così gradevole. Ricordai a me stessa di non farla arrabbiare per nessun motivo. L’urlo di una banshee poteva ridurti in briciole.
“E comunque conosco Aro, è un mio carissimo amico di vecchia data. Sa che non si tratta di una bambina immortale”.
“Chi è Aro?”
“Dimentica questo nome, per favore” – si affrettò a dire.
“Non ho alcuna intenzione di lasciar cadere la questione in questo modo”.
“Ho fatto un patto con lui, non parlerò nemmeno sotto tortura” – concluse incrociando le braccia.
“E poi non mi hai lasciato finire”.
“Prego” – sospirai.
 “Le cose peggiorarono. Ellak convinse tutti i miei adepti che li avessi traditi e che dovevo pagare per l’onta di cui mi ero macchiato. Così anche loro si unirono contro me e la mia famiglia e sostennero i suoi insani propositi. Dopo che Hilde impose il sigillo a tua madre, i tuoi genitori si rifugiarono in Sicilia per sottrarsi alla pena di morte per il loro tradimento e noi rimanemmo senza protezione. Una notte Zelina, stanca di quella persecuzione, mi disse di aver escogitato un piano ma era troppo pericoloso. Scegliemmo comunque di rischiare. Trovammo asilo qui ad Highgate, dove il mana di Zelina era più forte, e costruì una barriera magica che avrebbe tenuto lontano qualsiasi vampiro. Io e Hilde ci trovavamo già dentro la barriera quando Ellak la trovò…”. Il manico della tazza si ruppe sotto la sua morsa d’acciaio. Fece una lunga pausa. La bambina gli si fece vicina e lo abbracciò singhiozzando sulla sua spalla.
“Da allora” – riprese – “ siamo bloccati qui.”.
“Ma sono quasi quattordici anni…” – esclamai allibita.
“Hilde non potrebbe distruggere la barriera?”.
“Ogni barriera porta il sigillo di chi l’ha creata, se la creatrice muore, allora la magia dura in eterno”.
“Se tu sei rimasto qui dentro allora, tutti quei disastri…non erano opera tua ma di tuo figlio Ellak”.
“Se tornassi indietro da loro, mi taglierebbero la testa senza nemmeno lasciarmi parlare. Ellak ormai è nelle loro menti e li guida mostrandogli i suoi folli progetti. Lui però è troppo sconsiderato e inadatto per controllare un gruppo di vampiri fuori controllo”. 
“Questa storia ha davvero dell’assurdo e sono dispiaciuta per tutto quello che vi è successo, soprattutto a Hilde”.
“Ma?”
“Non credo tu me l’abbia raccontata soltanto per fare della piacevole conversazione davanti a una tazza di tè”.
La risata di Attila ebbe un crescendo, iniziò con dei piccoli e leggeri singulti, quasi come colpi di tosse, per evolversi in un incontenibile sghignazzare.
“Non sai quanto le somigli in questo momento”.
“Dimmi cosa vuoi Attilius, Etzel o come diavolo preferisci essere chiamato” – lo spiazzai mentre esploravo senza molto interesse il fondo della tazza.
“E se ti dicessi che esiste un modo per liberarci una volta per tutte da questa prigione?”.
“No, ma dai, questa non me la aspettavo” – lo stuzzicai con la mia irriverente ironia.
“Voglio proporti un accordo, non ti chiederei mai un favore se non in cambio di qualcosa”.
“Ok, va bene, parliamo d’affari. Cosa può offrirmi un vampiro rimasto rinchiuso per più di un decennio in un cimitero abbandonato?”
“Prima devo sapere fin dove sei disposta a spingerti, l’impresa che sto per affidarti potrebbe costarti la vita”.
“Non funziona così, sua maestà. Devo sapere cosa c’è in ballo oppure me ne vado e la storia finisce qui…”. Successe tutto molto in fretta. Attila mi spinse a velocità impensabile e mi ritrovai la schiena contro il gelido granito delle bare con il viso del vampiro molto più vicino di quello che desiderassi. Il suo alito sapeva ancora di tè Oolong. Con la punta del mio paletto di bianco spino gli scucì un bottone del gilet all’altezza dello sterno. Spostò il suo sguardo meravigliato sull’arma di legno che minacciava di sfondargli la cassa toracica. Non avrei avuto problemi a farmi strada verso il  suo vecchio cuore imbalsamato.  Lo stupore che lo prese in contropiede balenò via dalla sua espressione per lasciare il posto a un sorrisetto di celata ammirazione.
“Io posso darti ciò che nessuno potrà mai offrirti” – continuò incurante del pericolo.
Spostò una ciocca dei miei capelli dietro l’orecchio e mi sussurrò quello che volevo sentirmi dire.
“La tua vendetta”.
Quella parola risuonò più dolce di un canto di una sirena.
“Ti ascolto” – risposi remissiva.
“Bene, sapevo che avresti capito” – affermò convinto.   
“Oh,oh” – strepitò Hilde – “il criceto è diventato un cagnolino!”.
“Edna, cuccia” – imperai sul rottweiler con la schiuma alla bocca e appesi il paletto di bianco spino alla cintura.  Una medjai e una chimera contro un vampiro secolare e una banshee, chi l’avrebbe spuntata?
Attila si ricompose e si diede una fugace pettinata passandosi la mano fra i capelli.
“Conosci le sovrane delle Fate?”
“Ovviamente. La regina dei Curatores Noctis è una che non passa inosservata”.
“Come darti torto. E cosa sai di Frieda?”.
“Non molto, in verità. Si dubita persino della sua esistenza”.
“E’ molto più reale di quello che pensi, mia cara”.
“Le leggende e i miti sull’origine delle Fate sono molti e diversi, spesso contraddittori. La mitologia norvegese vuole che Delilah e Frieda siano nate dal cadavere della gigantessa Ymir insieme a tutto il popolo fatato e che al loro risveglio abbiano estratto dagli occhi della madre la pietra rossa del sole e quella blu della luna e ne fecero dei ciondoli”.
Restai pietrificata. Il ciondolo blu. La visione di Alice cominciava a prendere forma sin da subito?
“La regina Delilah porta ancora quello rosso del sole al collo. Quel ciondolo è molto potente oltre a costituire un’arma molto pericolosa, le permette di cambiare la sua forma umana come più le aggrada, può diventare chiunque, potrei essere persino lei in questo momento. E’ quello che le dà il diritto di regnare come sovrana del mondo fatato” – lo avvisai.
“Sono lieto di sapere che non dormivi fra i banchi di scuola. Ma cosa sai invece della pietra blu?” – disse sarcastico.
“Mi trovi impreparata” – gli risposi mortificata.
“Il potere di quello blu, è molto singolare e assai più prezioso della sua gemella rossa”.
“Può comandare sul mondo sovrannaturale indiscriminatamente. Immagina di poter far fare ai vampiri, ai licantropi, agli stregoni, alle fate stesse quello che vuoi tu, mettere la pace fra loro, disseminare zizzania, renderli mortali... Basta soltanto un puro e chiaro desiderio”.
“Baggianate, non può esistere un oggetto del genere, sconvolgerebbe l’universo”.
“Non ho detto che il suo potere è illimitato. Sembra che il ciondolo ascolti solo la sua legittima proprietaria, Frieda, e che per questo Delilah lo ha tenuto nascosto al mondo, per non farlo cadere nelle mani sbagliate. A quanto pare non ha effetto sugli esseri umani. Alcuni credono che l’uomo possa essere un possibile utilizzatore, proprio per questo motivo. Pensa in grande Leona, cosa ci faresti se avessi fra le mani un potere così grande? Potresti salvare il mondo dalla malattia più grave che l’appesta, potresti trovare una cura per gli Abomini…non saresti più costretta a uccidere i tuoi simili”.
“Tu sai degli Abomini?”
“Non c’è nulla che mi sfugga di questa città”.
“Guardami Leona! Tu potresti eliminare dalla faccia della terra qualsiasi vampiro, compresi gli assassini dei tuoi genitori!”.
“Ma è una supposizione!”.
“Una scommessa” – mi corresse.
“Prima che morisse, ho promesso a Zelina che avrei dato una vita migliore a nostra figlia e non voglio che marcisca qui in questa lugubre riserva di morte. Voglio condividere con te, l’immenso potere del ciondolo perché so che ne farai buon uso. Ma mi servono entrambi se voglio una volta per tutte uscire da questa prigione”.
“E come pensi di ottenerli?” – gli feci la domanda cruciale.
“Felice che tu me l’abbia chiesto. Ti mostrerò nel dettaglio il mio piano solo se deciderai di accettare e dovrai scegliere chi ti accompagnerà, non puoi farcela da sola. Ma decidi in fretta, tuo fratello potrebbe essere in pericolo in questo preciso istan…”.
“Accetto” – pattuì tutto d’un fiato.
Il vampiro si aprì in un sorriso così ampio tanto da mettere in mostra persino le gengive di un colore bianco smorto.
“Hilde, prendi il contratto” – le ordinò senza sciogliere il contatto visivo.
Hilde aprì ubbidiente una cassettiera dalla parete e prelevò l’urna cineraria al suo interno. Sollevò il coperchio e tirò fuori una vecchia pergamena ingiallita. La srotolò oculatamente e me la porse con gentilezza.
“E questo cosa sarebbe?”
“Questa è la mia garanzia. Il vincolo si scioglierebbe nel caso in cui non dovessi assolvere al tuo compito”.
“Cioè nel caso in cui dovessi morire…?”.
“Oh no, tu non morirai. Hilde mi ha già ragguagliato sulla tua presunta data di morte. E’ solo una precauzione nel caso decidessi di svignartela con le pietre, lasciandoci marcire qui dentro per l’eternità”.
“Non lo farei mai!”
“Scusami tesoro, non si è mai troppo prudenti”.
“E poi cos’è questa storia della data di morte?”.
“Hilde riesce a percepire stando a stretto contatto con le persone quanto sono vicine alla morte. E’ uno dei doni delle banshee. Ovviamente non posso garantire per i tuoi amici o sulla tua incolumità”.
“Per quello non c’è problema, una volta ho perso un braccio. Posso sopravvivere. Ma cosa succederebbe se non rispettassi l’accordo?”.
“E’ vincolato alla tua vita”.
Dovevo aspettarmelo.
“Allora, vuoi firmare?”
“Devo tornare al campo Betelgeuse e non posso muovermi da Londra adesso, non ho il mio lascia passare. Se non porto un “bottino” che appuri che sia uscita vittoriosa dalla lotta con un vampiro, la comunità non mi accetterebbe”.
“Rimediamo subito. Dammi il tuo coltello”.
Lo guardai palesemente sbigottita: “cosa vuoi farci?”.
“Una mano dovrebbe bastare, no?”
“Credo di sì ma questo che c’entra?”
“Dammi il coltello”- ripeté.
Avevo le mie remore ma lo prelevai dal manico e glielo consegnai, sebbene estremamente dubbiosa.
“Preferenze? Destra o sinistra?”.
Ero troppo rimbecillita per rispondere a quella domanda.
“No? Va bene, faccio io” – disse arrendevole.
Capì tardi che stava per mutilarsi un arto. Era già diventato monco. Raccolsi la sua mano, sanguinante, da terra e la fissai con disgusto. Era quella che portava l’anello con lo stemma del clan dei sanguinari.
“Credo che sto per vomitare…”
“Ma papà, la tua mano!” – lo rimproverò la figlia frenando l’emorragia con delle bende. Il suo sangue era in uno stato di decomposizione avanzato, quasi nero come la pece. La bambina raccolse il sangue del padre in una boccetta.
“Non preoccuparti piccola, me ne farà una tutta nuova al suo ritorno”.
“Non sono ancora brava a plasmare gli oggetti dalla terra, figuriamoci creare una mano” – mi lamentai.
“Be, cerca di allenarti allora!” – mi ribatté seccatamente.
Infilai il mio bottino nel sacchetto e strinsi forte la cordicella per evitare che evaporasse quel terribile tanfo di pesce marcio.
“Possiamo procedere?” – mi domandò porgendomi il calamaio contenente i suoi luttuosi liquidi corporei.
“Edna dammi una delle tue piume”.
Non farlo - mi supplicò la mia chimera.
“Non te lo sto chiedendo, è un ordine!” – tuonai con voce tremante.
I suoi occhi malinconici erano come se prendessero a pugni il mio cuore, ma non avevo altra via d’uscita.
Edna acconsentì a malincuore mutando la sua forma in un meraviglioso gufo dal candido piumaggio. Sussultò piano quando gliela strappai dall’ala.
Il vampiro si girò di spalle offrendomi la sua schiena come appoggio.
Accolsi la piuma fra le dita e intinsi la punta in quell’inchiostro improvvisato. M’imposi di non tremare, deglutì piano quel bolo amaro come il fiele e tracciai le lettere del mio nome sulla pergamena.

Leona Elena Braveheart

“Adesso, non si torna più indietro” – sospirò soddisfatto Attila, il re degli Unni.
 
NOTE DELL'AUTRICE: Salve, mi scuso profondamente per gli spiegoni contenuti in questo capitolo ma purtroppo ogni tanto sono necessari :) Nonostante questo, spero vi piaccia quanto é piaciuto a me scriverlo. A prestissimo per un nuovo capitolo! Sciaooo <3
 

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Capitolo 30
*** UN FIDANZATO INDESIDERATO ***


CAPITOLO 16 - UN FIDANZATO INDESIDERATO

Quando seppi di essere una medjai, credetti davvero che nulla avrebbe più potuto sorprendermi. Mi sbagliavo di grosso. La mia vita non era altro che un susseguirsi di meraviglia e sgomento e niente, proprio niente si mostrava alla luce del sole per ciò che era davvero. Imparavo quotidianamente a non giudicare un libro dalla copertina, poiché una volta sollevata, perdeva puntualmente di ogni coerenza. Mai come in quel momento desiderai di essere la protagonista scialba e indolente di una noiosissima realtà da semplice umana. Non avevo chiesto io di far parte di quel mondo adombrato dall'oscurità. Non volevo quel potere né la responsabilità che implicava soprattutto se non ero destinata ad essere l’eroina. Maledissi nel profondo il sadico autore delle pagine della mia vita, che mi aveva prima trasformata in un assassina e adesso pretendeva di macchiare la mia anima con il più vile dei peccati.
Io non ero una ladra.
Ma lo sarei diventata e lo avrei fatto senza ripensamenti perché la lauta ricompensa che mi attendeva prometteva di spegnere le fiamme del mio più recondito desiderio di vendicare la mia famiglia. Era più un impulso involontario e irrefrenabile, come il respiro o il battito di un cuore. Ci avevo convissuto così tanti anni con quell’odio implacabile che ormai faceva parte di me e forse, anche se mi disgustava ammetterlo, era diventata la mia stessa essenza. Senza mio fratello o Fabiano tenere lontano da me quel cancro era diventato impossibile. Noi ci leccavamo le ferite a vicenda come poveri cani randagi ma almeno non eravamo soli e quello ci permetteva di sopravvivere. Mi mancavano così tanto che provavo quasi dolore fisico nel stargli lontano, quello alle costole non altro che una insulsa caricatura. Il bisogno dei loro sguardi, delle loro voci, del loro tocco si era impadronito di ogni singola cellula del mio corpo. Dovevo ricongiungermi a loro al più presto, sentivo che le forze mi stavano abbandonando, non potevo più reggere quel peso. Di qualunque cosa fossero state fatte le anime, le nostre erano fatte della stessa cosa, pensai appropriandomi di una citazione di Emily Brontë, come se fosse stata scritta per noi. Mi aggrappai a quell’amore totalizzante, pieno e vero, che nutrivo per loro pur di non cadere in quel baratro senza via d’uscita. I pensieri che mi avevano tenuta impegnata per tutto quel tempo mi avevano guidata come un automa davanti la grande quercia di Hyde Park, l’ingresso segreto del campo di Andromeda. Mi punsi il dito con la punta di una delle mie kopis, famose per le loro taglienti lame, segnai col sangue la corteccia della quercia e mi aprì un varco all’interno dei suoi vasi linfatici oltrepassando il confine magico. Le sentinelle sorvegliavano i cancelli d’ingresso, perciò avrei raggiunto la mia stanza dalla botola sul tetto del mio dormitorio. Edna volò via da me senza rivolgermi la parola. Era tremendamente preoccupata. Il suo risentimento per il torto che le avevo serbato mi avvelenò il sangue. Non sapevo ancora se avrei avuto il coraggio di coinvolgerla nel grande furto che ci aspettava ma non potevo accettare il pensiero di affrontare una prova così rischiosa senza lei al mio fianco. Forse una bella svolazzata prima di partire le avrebbe fatto bene. Decisi che avrei fatto le valigie con calma concedendole un po’ di tempo per stare da sola. Mentre mi arrampicavo, saltellando da una finestra all’altra dell’edificio, ripassai il piano, studiandone ogni possibile lacuna. L’ubicazione del ciondolo blu era ancora ignota, l’unica a saperlo era la regina delle fate, quindi, prima le avrei estorto con l’inganno l’informazione e dopo le avrei rubato la pietra rossa del sole. Semplice, no? No, non c’era nulla di semplice in tutto questo. Avevo giusto dimenticato qualche piccolo dettaglio riguardante la nostra improvvisa e più che probabile morte.  A detta di Attila quella sarebbe stata la parte meno rischiosa, il bello veniva dopo. Il ciondolo blu doveva essere ben protetto se nei millenni nessuno era riuscito a scoprire dove diamine fosse finito. E poi c’era ancora la questione dello spartito.
Attila, prima che lasciassi il cimitero, mi aveva consegnato la complessissima partitura di uno dei più incredibili compositori mai esistiti, la cui melodia era conosciuta persino dai muri. Il coinvolgimento di Johann Sebastian Bach non aveva alcun senso, come tutta quella folle situazione del resto. Mi scervellai spremendomi le meningi al limite del possibile ma non riuscì comunque a capire in quale stravagante occasione delle note su un pentagramma avrebbero potuto aiutarmi a scovare il nascondiglio di quel fottuto ciondolo. Sì, avete sentito bene, stupidi bigotti, ho appena detto FOTTUTO ciondolo (potevo sentire l’applauso fiero di mio fratello). Cominciai a immaginarmi gli scenari peggiori ma non dovevo arrendermi, non potevo perdere l’occasione di prendere due piccioni con una fava.
M’intrufolai al dormitorio senza grossi problemi anche perché la maggior parte dei protettori non erano ancora rientrati dalla caccia, il resto dormiva tranquillo nei loro letti. In punta di piedi raggiunsi la stanza che mi aveva accolto durante tutto l’anno trascorso lontano da casa.
Chiusi la porta e mi barricai, sigillandomi dentro con il catenaccio. Non ero sola. Accarezzai il fodero del pugnale e attorcigliai le mie dita attorno all’elsa. La lama sfrecciò al centro del materasso.
“Ethan, Dio mio, si può sapere cosa ci fai nella mia stanza, avrei potuto ucciderti” - dissi al ragazzo disinvoltamente sdraiato, con la camicia aperta, sopra il mio letto a baldacchino. Il pugnale per poco non gli aveva sfiorato le parti basse.
“Mi piacciono le ragazze aggressive”
Ethan era il figlio della Sire di Andromeda, nonché il ragazzo più bello e amato dell’intero campo inglese. Fin dal mio arrivo lì non aveva fatto che rendermi la vita impossibile con le sue avance insistenti, appassionate e spregiudicate. Per questo le ragazze del luogo non facevano che odiarmi: lo scapolo più ambito del campo mi sbavava dietro ed io me la tiravo come se fossi chissà chi. Era davvero incredibile come mi cacciassi sempre nello stesso tipo di guai. Avevo già per la testa un altro figlio di un Sire a cui pensare, due erano davvero troppi. Perché proprio a me?
“Hai dieci secondi per uscire da qui o giuro che ti trascino io con la forza”- lo minacciai invitandolo ad accomodarsi fuori.
L’impronta del suo corpo caldo rimase impressa nelle lenzuola quando mi raggiunse. Lasciò cadere a terra la camicia e batté la porta privandomi di ogni via di fuga. Si pettinò i capelli color biondo cenere all’indietro con una mano e cercò il mio sguardo incatenandomi con i suoi profondi occhi color cioccolato.
Leona ripeti con me: non fissargli gli addominali, non concentrarti su quella specie di perfetta scacchiera marmorea che si ritrova… oh, porca miseria!
“So che non lo vuoi davvero”
“Credi davvero di sapere cosa voglia? Mi leggi anche tu nel pensiero?”
“Anche tu?” – rimase perplesso.
“Lascia stare”
“Mi fai impazzire quando fai la misteriosa. Sei ancora più bella, se questo è possibile”
Le sue dita si avvolsero delicate come piume attorno al collo e quel tocco mi diede i brividi, poi si fece strada verso i capelli  e armeggiò con il nastro rosso di Fabiano che legava la mia lunga coda nera e ondulata, ciondolante oltre il bacino.
“Ti ho già detto più o meno un milione di volte che non voglio che lo tocchi” – gli dissi bloccandogli il polso.
“Lo so, lo so, ho capito. Per te è speciale” – mi scimmiottò.
“E poi puoi metterti qualcosa addosso se non ti è di troppo disturbo”
“Guarda che non m’imbarazzo, puoi restare qui ad ammirarmi tutto il tempo che vuoi”.
“Sì, figuriamoci” – lo battibeccai scettica.
Avvicinò ancora di più il suo corpo al mio, mi accarezzò il viso, incendiato da quell’inaspettata intimità, seguendo la curva dello zigomo fino al mento. Strofinò la punta del naso contro il mio e si mise a giocherellare con una ciocca dei miei capelli con le sue labbra sottili e vellutate a pochi centimetri dalle mie.
“Perché ti ostini a resistermi mia bellissima Leona? Sarebbe più facile se ti lasciassi andare, proprio ora. Tanto è scritto nel destino che prima o poi ti innamorerai di me”.
“Punto primo, non sono né tua, né di nessun altro. Punto secondo  non credo che ne avrò il tempo” – dissi e sgattaiolai via da quella prigione erotica aggrappandomi al suo bicipite teso e granitico come la pietra.
Aprì tutti i cassetti e gli armadi e cominciai a preparare con urgenza le valigie. Non avevo molte cose con me, constatai con dispiacere, per cui riuscì ad acciuffare il mio guardaroba in poche manciate. Ovviamente soltanto tute comode, tenute da combattimento e magliette scolorite da troppi lavaggi, niente a che vedere con la raffinatezza degli abiti di Alice. Corsi in bagno alla ricerca del mio shampoo preferito alla rosa canina. Quando lo trovai frugando nella cesta, non potei trattenere un sorriso.  Ethan si era seduto sul letto a gambe incrociate con la fronte aggrottata, forse finalmente il suo cervello aveva registrato che qualcosa non andava.
“Che stai facendo?”
“Non è evidente?” – dissi mentre piegavo con cura maniacale le calze.
E aggiunsi per fugare qualsiasi dubbio: “Me ne vado, anzi aiutami a incastonare per bene i pezzi dell’armatura”.
“Dove stai andando?” – mi domandò più deluso che mai.
“Che t’importa?”
“M’importa dove va la mia ragazza”
“Ethan è stato solo uno stupido, innocente bacio privo di sentimento. Non vuol dire che stiamo insieme, ok? E per la cronaca mi avevi pure drogata con quella diavoleria fatata, non ero nemmeno consenziente”
“Ammettilo quella sera ce la siamo spassata con Iris”.
“Non nominarmi quella fata svergognata e disinibita”
“Sei gelosa? – chiese eccitato – “Sai che ho occhi solo per te”.
Buttai gli occhi al cielo. Annusai al volo la mia maglietta portando il girocollo vicino le narici. L’orrendo puzzo che impregnava i miei vestiti, mi sbatté in faccia tutti i ricordi di quell’interminabile serata. E io avevo decisamente bisogno di dimenticare.
“Devo cambiarmi, potresti almeno girarti dall’altra parte, per favore?”
“Perché? Non mi vergogno mica!”
Lo punì con l’espressione più perfida di cui ero capace.
“Come vuoi” – e si girò lentamente con lo sguardo da pervertito.
Mi liberai fulminea della giacca-mantello sbottonando una fibbia alla volta e afferrai la biancheria pulita dal mucchio disordinato e malamente abbandonato sulla sedia che aveva creduto di essere un armadio. Scelsi una vecchia maglietta a caso scoprendo a miei spese che l’ultimo giro di lavatrice l’aveva irrimediabilmente rimpicciolita. Adesso era così attillata da soffocarmi.
“Quello è sangue?” – sbottò Ethan.
“Ehi! Avevi promesso che non avresti guardato!”.
I muscoli del collo si irrigidirono, scattò come una molla dal letto e fu subito al mio fianco per aiutarmi a srotolare la maglia che si era inceppata sul ferretto del reggiseno.
“Ce la faccio” – sputai al limite della frustrazione anche se non accennava a sbrogliarsi.
Mi ignorò, infilò due dita nell’insenatura fra le coppe e la tirò giù con un colpo secco. Sul suo viso era sparita ogni traccia di ilarità. Le folte sopracciglia gettavano un’ombra inquietante sulle sue palpebre.
“Non dirmi che sei stata lì fuori Leona”
“E anche se fosse?”
“Sei impazzita forse? Tutte queste sparizioni non ti spaventano?”.
“Sai che so badare a me stessa”.
“E questo cosa c’entra? Mia madre mi ha proibito di uscire, specialmente sta notte… e credo abbia le sue buone ragioni”.
“Siamo cacciatori, Ethan. Pretendi che i vampiri ti servano la loro testa su un piatto d’argento?”;
“Di chi è questo sangue?” – esclamò sull’orlo della disperazione.
 “Ho ucciso un vampiro” – gli mentì.
“Tu cosa?” – chiese preoccupato.
Gli lanciai il sacchetto con dentro la mano di Attila. Dopo aver slegato la cordicella, diede una rapida sbirciata prima di richiuderlo frettolosamente e tapparsi le narici utilizzando le dita a mo’ di pinze.
“Oh misericordia, questo era anche bello anziano, eau di paleolitico se non erro”.
“E’ una lunga storia. Devo tornare al più presto a casa mia, al campo Betelgeuse. Ho delle questioni in sospeso da risolvere”.
Raccolsi la camicia che aveva abbandonato sul pavimento e gliela sbattei in faccia.
“Su muoviti, non ho molto tempo” – lo sollecitai chiudendo la cerniera della valigia.
Non aveva alcuna intenzione di muoversi di lì così feci un bel nodo alla coda e guadagnai l’uscita, trascinando l’unico bagaglio che avevo.
“Leona!” – gridò lui in mezzo al corridoio.
“Non urlare imbecille o sveglierai tutti!”
“Tu non puoi lasciarmi così…”
“Ok, Ethan, ascolta. Non volevo arrivare fino a questo punto ma credo che ormai sia costretta…” – gli cinsi le spalle e presi un bel respiro.
“Sono innamorata di un  altro”
Lui rimase disorientato per qualche secondo.
“Lo so, è dura da digerire” – gli dissi comprensiva – “ma è solo un cuoricino spezzato, ti passerà, niente che un po’ di borbon non possa guarire. Arrivederci a mai più, hasta la vista!” e mi fiondai giù per le scale.
“Aspetta”
“Che c’è ancora?” – ormai stavo perdendo la pazienza.
“Vengo con te”
“Ma se ti ho appena detto…”
“Hai già pensato a cosa dirai alle sentinelle lì fuori? Credi che ti lasceranno andare così facilmente?”
“Beh se li prendo tutti a calci…” – considerai sul serio l’idea.
“Oppure potresti aspettare fino a domani mattina e partire con me e mia madre senza dover ricorre a stratagemmi assurdi. Mia madre ha una riunione speciale con il Sire italiano”.
“Di cosa si tratta?”
“Non ne ho idea, poco fa era fuori di sé mentre era al telefono con Gomez. Non l’avevo mai vista così”.
“Detesto quell’uomo”
“A quanto pare adesso è il sire di Barcellona…”.
“Chi quello schifoso arrampicatore sociale? Da non credere.”
“Perché lo odi tanto?”
“Questioni personali” – gli dissi per lasciare in sospeso l’argomento.
 “Cosa dirai a tua madre? Come giustificheremo il mio rientro in patria?”
“M’inventerò qualcosa, essere il figlio della sire dovrà pur valer qualcosa. E poi adesso hai anche il tuo lascia passare, no? Non possono negarti nulla, ne hai il diritto”.
Ero ancora dubbiosa.
 “Dai Leona, cosa ti costa aspettare ancora qualche ora?”
Ci riflettei su.
“Se scopro che mi stai mentendo…”
“Lo so, lo so. Morirò di una morte cruenta”
“Ci puoi scommettere”
“Che ne dici se ci andiamo a distendere un po’, sarai stanca dopo aver affrontato un vampiro. Ancora nemmeno ci credo!” – disse accompagnandomi con un braccio attorno alle spalle sulla soglia della mia stanza.
“Ci farà bene recuperare un po’ di energie, magari però prima di addormentarti fra le mie braccia…”.
Interruppi la frase con una gomitata secca allo stomaco.
“Va bene, va bene. Ognuno nella sua camera” – disse rassegnato senza fiato.
Fece per andare via ma indugiò.
“Leona, non m’importa se ami già qualcun altro. Ti farò cambiare idea, adoro le sfide! E poi ho sempre voluto visitare l’Italia”.
“Non c’è speranza che tu mi lasci in pace, vero?”
Ci pensò su.
“No” – negò, confermando i miei sospetti.
Ripensai allo spartito di Bach. Ci doveva essere per forza un motivo se Attila me lo aveva dato. Ethan era ancora lì a fissarmi le tette. Era invadente, sì, ma aveva una specie di superpotere quando le sue dita sfioravano i tasti bianchi e neri del pianoforte. La sua bravura come musicista era indiscussa e io ero innamorata della sua musica. Forse poteva tornarmi utile…
“Ethan ti andrebbe di suonare un pezzo al pianoforte?”.
Lo ridestai dal suo sonnambulismo lussurioso e sorrise, felice come un bambino al parco giochi.
“Dici adesso?”
“Adesso, adesso” – avvalorai la mia richiesta.
“Saresti capace d’insegnarmi questo entro domani mattina?” – gli dissi mostrandogli quel pentagramma tempestato di note e pause.
“Toccata e fuga in Re minore” – enfatizzò accompagnandolo con un fischio.
“Questa è roba seria, bambolina. Ma il paparino è qui per te, non temere” – e mi schiacciò l’occhiolino.
“Credi sia fattibile?”
Sperai che nel repertorio dei miei antenati medjai ci fosse almeno un bravo pianista. Sarebbe stato più facile apprendere con l’aiuto dell’effetto osmosi dalla mia parte.
“Non lo so, ma vedrò che posso fare. Non voglio deluderti”.
“Tu non mi deludi mai” – dissi e gli ghermii il braccio – “allora andiamo!”.
Il figlio della Sire restò piantato lì come un albero e le sue gote si fecero scarlatte.
 “Ti raggiungo fra dieci minuti. Prima però avrò bisogno di una doccia fredda per…ehm, dare una calmata ai miei bollori” – disse con un filo d’imbarazzo.
“E ho visto solo le spalline del tuo reggiseno, non oso pensare se…” – Ethan si perse nei meandri di un’estasi mistica.
“Ethan, cancella la mia nudità da quel cervello pervertito che ti ritrovi!”
“Scusa” – disse fingendosi mortificato.
“Sei proprio incorreggibile” – e mi sfuggì una risata.
 “Ma quanto sei bella quando ridi” – esclamò alimentando spietatamente la mia vanità.
I suoi occhi erano capaci di farmi sentire una dea e non potevo nascondere a me stessa quanto la cosa mi piacesse.
“Ti aspetto, eh? Non è che mi pianti in asso?”.
“Non lo farei mai” – affermò serio per una volta. E fece strada verso la sua stanza.
Mi avviai tutta contenta verso la sala della musica, pervasa dal dolce pensiero che l’indomani avrei rivisto, finalmente, le persone che amavo di più al mondo.



 

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Capitolo 31
*** AD OGNI SERRATURA LA SUA CHIAVE ***


CAPITOLO 17 – Ad ogni serratura la sua chiave

 
7 Febbraio 1952, Campo Betelgeuse
POV Fabiano
“Nevica” – esordì mia madre, con un verso sommesso, lasciando l’impronta della sua mano sulla condensa del vetro.
Con il solito sguardo vacuo e assente, schermato da una patina alabastrina, contemplava, attraverso le imposte della finestra, il mondo che tanto amava imbiancarsi. Il sorriso le morì su quelle labbra storpiate da uno sberleffo di sconforto, dal retrogusto acre. Sapevo quanto l’affliggesse la sua cecità, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di osservare con i propri occhi ancora una volta il vorticare dei fiocchi di neve precipitarsi adagio come manna dal cielo. Le sue dita, colte da gesti convulsi, tornarono a tracciare i contorni di quei bislacchi scarabocchi sulla fredda tempra dei vetri rivestiti di ghiaccio. Una nuova ruga di preoccupazione le solcò il mesofrio come se un fantasma gliela avesse disegnata con una matita, mentre la sua bocca screpolata dal rigido inverno pronunciava quella parola a cui si era aggrappata dal giorno della disgrazia: “Linkage, linkage, linkage” – mormorava instancabilmente.
 La avvolsi nella sua coperta di lana preferita strofinandole le spalle per confortarla con un po’ di calore mentre lasciavo ricaderle sulla schiena la sfibrata chioma castana striata da qualche rado ciuffo grigio. Avrei dovuto pettinarglieli, avevano ancora la forma del cuscino. Le mezze lune ombrose che le scavano gli occhi, frutto dell’ennesima notte insonne, gli orrori del suo passato e i segni del tempo, non erano ancora a riusciti a rubarle la sua  fulgida bellezza.
“Fa molto freddo, oggi. Perché non viene a scaldarti vicino al fuoco?” – le chiesi modulando la voce con la sua mano nodosa fra le mie. Un fugace sguardo, una scrollata di spalle e tornò a fissare il chiaro scuro. Era decisamente uno di quei giorni. Mia madre non era lì con me, stavo solo parlando al suo involucro. Feci per andare via e disse: “Fabiano sei andato a raccogliere la legna? Ravviva un po’ il camino, tua sorella Sara sta per rincasare, non vorrai farle trovare la casa gelida?”.
Un serpente strisciante di dolore si avviluppò attorno allo stomaco, strangolandolo nella sua morsa letale. Mi inginocchiai ai piedi della sedia a dondolo e ignorando il bruciore alla gola le ricordai: “Mamma. Sara è morta”. Il suo nome riaprì la ferita che come sempre cominciò a sanguinare. A volte credevo davvero di sentire la densità liquida del sangue sgorgare dalle membra frastagliate del mio cuore.
“Ma che dici, bimbo mio” – disse lo spettro della vecchia Barbara, con le nocche sbiancate sotto il mio mento.
“Sarà da qualche parte a passare a fil di spada qualche orrendo demone della notte, con sguardo fiero e mano salda” – sostené non riuscendo a contenere l’orgoglio nel suo tono.
“Hai ragione” – affermai arrendendomi a quella menzogna. Pentesilea e Ippolita, le sue flamberghe esposte nella teca sopra il camino, riflettevano la luce con un baluginio metallico, quasi liquido, come se scivolasse sul piatto della lama.
“Non essere triste piccolo mio, quando sarai grande diventerai anche più bravo di lei, ne sono certa. Non ti dimenticare che in te scorre il sangue dei grandi re di Hijir. Ricorda che sei figlio dell’ammazza vampiri”.
Ammazza vampiri, quel dannato titolo che aveva quasi rimpiazzato il mio cognome. Non ero sicuro di voler portare il peso di quell’eredità che torreggiava su di me come un gigante pronto a schiacciarmi sotto i suoi piedi.
Lo sbatacchio ostinato all’uscio di casa mi dissuase dallo zibaldone soffocante della mia meditazione e mi affrettai a rivelare l’identità dell’ospite che attendeva oltre la porta.
“Ciao, bello. M’inviti a entrare?” – mi salutò Gab con l’aria da teppistello strafottente. Era stranamente in anticipo, di solito la domenica non riusciva mai a schiodarsi dal letto prima di mezzogiorno. La sua pigrizia aveva sempre irritato a morte Leona. Si era appoggiato col gomito allo stipite della porta con un ghigno furbetto stampato sulla faccia. Lo pregai di fare silenzio mentre si scrollava la neve sciolta da quella zazzera d’ebano riccioluta e indomita. I suoi occhi, ingrigiti dalla nuvolaglia addensatasi su Betelgeuse, rispecchiavano il blu di un mare in burrasca.
“Oh giusto, tua madre è in casa” – provò a bisbigliare compassato.
“Chi era tesoro?”
“Niente, solo il vento mamma”
Gab sgusciò dentro ondeggiando le braccia come a emulare una raffica di vento. Che cretino che era ma riuscì a malapena a trattenere le risate.
Era letteralmente elettrico all’idea di fare il detective per scoprire il mistero dei protettori scomparsi anche perché finalmente dopo tanto tempo avevamo una buona pista. Ultimamente era parecchio demoralizzato, il ritrovamento di quella chiave aveva riacceso la scintilla nei suoi occhi ormai spenti da un po’. Potevo capire la sua frustrazione, Leona mancava anche a me.
Non ci restava che scendere in cantina e approfittare dell’assenza di mio padre per completare le nostre ricerche. Il congresso con la Sire di Londra e i Siri di Barcellona e Berlino lo avrebbero tenuto impegnato per un po’ quel giorno. Gab prese una caramella al limone dal centro tavola scartando rumorosamente l’imballo di plastica che lo avvolgeva e se lo infilò in bocca. E meno male che gli avevo raccomandato discrezione. Doveva aver colto il disappunto nella mia espressione perché fece spallucce dicendo sottovoce: che c’è?
“Fabiano perché non mi presenti il tuo amico vento, eh?”
Gab ed io ci fissammo come due pesci lessi ad occhi sbarrati e cominciammo a incolparci a vicenda gesticolando.
“Guarda che tua madre è cieca, mica sorda”.
“Signora mamma di Fabiano, perdoni la mia irreparabile maleducazione, non avevo alcuna intenzione di fare irruzione in casa sua così prepotentemente” – disse Gab inginocchiandosi  davanti a lei e baciandole la mano.
“Fabiano non mi aveva detto di avere una madre così bella. Sono davvero dispiaciuto, spero mi possa perdonare”. Che adulatore sfacciato.
Dopo un breve silenzio mia madre scoppiò a ridere, rise di cuore come se tutti i problemi fossero spariti in una nuvola di fumo.
“Avvicinati giovanotto” – gli ordinò la mamma e lui obbedì. Sfruttò il tatto per esplorargli il viso e frugare in quel cespuglio di boccoli neri caotici. E gli tirò una piccola sberla affettuosa sulla guancia.
“Mi piace il tuo amico” – dichiarò con quella risata che tanto le addolciva l’espressione, quasi perennemente arcigna per via delle sofferenze.
“Non posso biasimarla signora. La natura è stata molto generosa con me” – rispose Gab, modesto come Narciso. Me lo diceva sempre che se avesse potuto si sarebbe sposato da solo.
“Come ti chiami?”. Forse fu solo una mia impressione ma sembrò esitare.
“Gabriel Braveheart, ma lei può chiamarmi Gab” – aggiunse fieramente.
“Figlio mio…” – mi redarguì mia madre con lampante disapprovazione nel suo tono di voce, fissando un punto impreciso del salotto.
“Un Braveheart a casa nostra…” – si pronunciò scurendosi in viso.
Diventai un monumento di pietra, terrorizzato al solo pensiero che quel tiranno di mio padre venisse a sapere…
“No, mamma ti prego…”
“Sai bene come stanno le cose, sai che tuo padre non approverebbe. Non posso tenerglielo nascosto”.
“Ma…” – provai a giustificarmi.
“Fabiano” – mi riproverò Gab facendo uno strano verso con la lingua – “rispetta il punto di vista di tua madre…”.
Lo guardai allibito.
“D’altra parte però” – aggiunse riflessiva – “io non posso vedervi, perciò…” – terminò facendo spallucce. Io e il mio amico tirammo un sospiro di sollievo. Mi sorprendeva che a mia madre andasse di ironizzare sulla sua condizione. Adoravo il modo in cui Gab la faceva sorridere ripescando la sua vecchia spensieratezza.
“Grazie, signora. Lei è la migliore, sapevo che è di larghe vedute ”.
“Gab!” – esclamai sbattendomi una mano in fronte.
“Allora, noi andiamo di sotto a…ehm, a studiare” – la informò Gabriel inventando la scusa più patetica che aveva nel suo repertorio.
“Sì, sì, abbiamo tante cose da leggere, siamo sommersi dai compiti, Miss Fiona non vuole darci tregua” – sostenni Gab concitatamente.
“Non mettete troppo disordine” – si raccomandò mia madre.
“Allora arriveder… ehm alla prossima” – la salutò mentre lo tiravo per il colletto giù per le scale.
Ci sorrise un’ultima volta e giunse le mani in grembo.
“…d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente…” – gorgogliò tutt’a un tratto.
“Cosa…?” – eruppe Gabriel corrugando la fronte.
“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza…” – disse ancora concentrandosi su ciò che non poteva vedere.
“Bruto? Pensavo di piacere a tua madre…” – disse con una maschera facciale ferita.
“Mamma, è tutto a posto?”. Lei abbassò le palpebre e sulla sua bocca si abbozzò un sorrisetto sprezzante.
“Tuo padre è insopportabile anche quando dorme” – sentenziò asciutta.
“Non fa che ciarlare nel sonno… adesso andate, sono molto stanca” – disse sfinita appoggiandosi sullo schienale. Gab non riuscì a celare la sua perplessità.
Quando fummo a metà scala, gli dissi: “Studiare, eh? Quand’è l’ultima volta che hai aperto un libro” – gli chiesi scuotendo la testa.
“Oh non ricordo, di solito era Lea quella che studiava e poi io utilizzavo l’effetto osmosi su di lei per rubarle le informazioni per sfruttarle negli esami e nelle interrogazioni”.
“Che classe…adesso capisco perché i tuoi voti sono calati a picco” – commentai.
“Sei solo invidioso perché tu non puoi farlo” – disse con una linguaccia.
“Non dovresti sprecare il potere dei medjai così”.
“Io invece credo sia un enorme spreco non farlo. Wow, che lusso” – esclamò stupefatto dall’arredamento. Io c’ero stato così tante volte che ormai non mi faceva più né caldo né freddo.   Ad accoglierci la familiare stanza da parata ottagonale che ospitava una libreria invidiabile. Ogni angolo era espressione di magnificenza, dinamismo ma anche di gradevolezza e comodità.  Lo sguardo incredulo di Gab si spostava febbrilmente dall’articolato tessuto broccato dei tappeti al sofisticato canterano a bambocci in tipico stile genovese per le sue intarsiature pregiate. Sembrò anche apprezzare il tavolo di legno di noce, intagliato da uno dei migliori artigiani della cittadella, cosparso da pile di documenti disordinati. Sprofondò nell’imbottitura di cuoio della poltrona concedendosi un sospiro di gradimento. Poggiò gli stivali sopra la scrivania e lanciò un’occhiata sardonica all’arazzo ritraente un eroico Tiziano che stringe nel suo pugno di ferro la testa mozzata di un vampiro, la spada lungo il suo fianco e una tempesta alle sue spalle. Il corpo smembrato del malcapitato succhia sangue stava ai suoi piedi in una pozzanghera sanguinolenta.
“Forse il tuo paparino è persino più vanitoso di me”.
“E sarebbe tutto dire…” – dissi piano per non farmi sentire.
“Un po’ gli somigli, sai”. Feci un verso colmo di scetticismo. Innervosirmi era diventato il suo passatempo preferito da quando il suo bersaglio prediletto, sua sorella, era volato via da lui. Tolleravo a malapena questo suo atteggiamento ma sapevo che lo faceva a posta per cui non gli davo mai la soddisfazione di stare al suo gioco.
“Anche se mio padre è impegnato, non vuol dire che non possa rientrare da un momento all’altro, sarà meglio sbrigarci. Dividiamo la libreria in due parti, tu ti occuperai di quella”.
“Pronto? Abbiamo una chiave, dovremmo cercare una serratura”.
“Quando ho seguito mio padre qui sotto, gli ho visto infilare la chiave dentro un libro, la serratura che apre il passaggio segreto deve trovarsi lì. Purtroppo non sono riuscito a vedere da dove lo ha preso…”.
“Davvero molto utile Fabi” – si congratulò ironicamente il mio amico.
E poi aggiunse con aria crucciata: “Io odio le librerie!” – disse guardandola con disgusto.
“Dai mettiamoci all’opera” – lo incoraggiai con un sorriso.
Gab borbottò qualcosa d’irripetibile che avrebbe fatto arrossire persino uno scaricatore di porto e si avviò con la grazia di uno scimpanzé nella sua fetta di libreria.
 Ripensai a tutte quelle volte che avrei voluto mostrargliela a Leona…le sarebbe piaciuta da matti. Cominciammo dai piani bassi e rimanemmo in silenzio mentre dietro di noi si stava edificando una torre di libri. Gab li lanciava alle sue spalle dopo essersi accertato che non si trattava di quello che cercavamo.
“Ieri notte ti ho sentito uscire dalla tua stanza di soppiatto. Dove sei stato?” – chiesi a Gab sfogliando le pagine di un libro.
Lui sobbalzò e per poco non cadde dalla sedia.
“Mi hai sentito eh? Credevo di aver fatto piano” – rise nervosamente.
“Mi dispiace se ti ho svegliato. In quanto a quello che ho fatto beh…”. Ci pensò a lungo. Si stava preparando a rifilarmi una scusa, ormai lo conoscevo come le mie tasche.  
“Sono andato  a trovare Dania nel suo dormitorio” – dichiarò cercando uno sguardo d’intesa fra uomini.
“Ma non ti aveva mollato dopo la storia dei pesci?”
“Sai com’é. Gabriel Braveheart è irresistibile, nessuna può dirgli di no” – e si strinse nelle spalle con fare melodrammatico.
Non volli indagare ulteriormente. Se non voleva parlarmene, aveva sicuramente le sue ragioni.
“A proposito di ragazze. Come vanno le cose con la tua fidanzata?” – domandò improvvisamente tossendo per aver inalato troppa polvere.
“Bene” – risposi senza pensarci a lungo.
“Bene?” – ripeté lui diffidente.
“Bene? Amico voglio più dettagli. Marlena è una gran bella ragazza, dovresti fare le capriole per la gioia. Molti al posto tuo lo farebbero e poi lei è completamente pazza di te”.
“E’ fantastica”
“Non ne sembri molto convinto”.
“No, davvero, sono felice di stare con lei”.
“Ne sei sicuro? Sembra che tuo padre te l’abbia appioppata senza nemmeno chiederti il consenso”.
Davvero Gab? Grazie per esserti finalmente accorto di come mio padre piloti la mia vita, nel minimo dettaglio, fin dal mio primo vagito.
Questo fu quello che partorì di getto la mia mente in quel momento.
Io però non potevo permettermi quel tipo di pensiero. Dovevo ricacciarli nel profondo, dove non sarebbero più riemersi, per paura che quell’uomo vestito di oscurità li ascoltasse. Sentivo ancora lo schiocco della sua frusta.
Marlena sarebbe diventata mia moglie un giorno e mi sarei preso cura di lei come un buon marito dovrebbe fare. L’avrei trattata sempre con gentilezza e l’avrei protetta dalle sue fragilità. Non volevo assolutamente ferire i suoi sentimenti, non me lo sarei mai perdonato. Dovevo ignorare quel pungente dolore che mi lacerava le viscere, causato dalle bugie che ripetevo come un disco incantato. No, Fabiano, non sono bugie.
Ne sei sicuro? Replicò flebilmente la voce della mia coscienza sepolta chissà dove nei meandri del mio subconscio. Quella voce così simile alla sua.
La voce della mia Leona.
Ecco, un’altra fitta espandersi sul petto. Dovetti uccidere la sua immagine evocata dal ricordo dei suoi occhi blu. Lei non era mia e non lo sarebbe mai stata. Nessuno poteva possederla. Lei era puro spirito libero.
Glielo avevo promesso: non mi sarei mai dovuto innamorare di lei o me l’avrebbe portata via per sempre. Io le volevo bene, era mia amica. Nient’altro mi suscitava il mio cuore. Così stavano le cose.
“Insomma com’è quando la baci? Le hai già palpeggiato le…” – le domande impertinenti di Gab mi riportarono alla realtà.
“Gab, non ha alcuna intenzione d’intraprendere questa discussione con te. Concentrati sui libri per favore” – lo rimproverai giocosamente.
“Va bene, va bene, signor casto e puro. Leona comunque s’incazzerebbe da morire se sapesse che state insieme tu e Marlena”.
“Perché?” – gli chiesi inarcando un sopracciglio.
Il viso di Gabriel s’imporporò come un pomodoro e bofonchiò qualcosa d’incomprensibile, sembrava sanscrito.
“Lo sanno tutti che quelle due sono come il cane e il gatto, si detestano per natura. Non sopporterebbe vedere il suo carissimo migliore amico avvinghiato come un polpo alla sua acerrima nemica”.
Aveva decisamente messo troppa enfasi sulla parola migliore amico.
“Chissà cosa starà facendo adesso…” – mi sfuggì dalle labbra.
“Chi se ne importa” – disse Gab rabbuiandosi, con la fronte aggrottata, come faceva spesso quando si tirava in ballo la sua gemella. Non l’aveva ancora perdonata per essere partita senza di lui a Londra.
“Gabriel…”
“Non cominciare, ne abbiamo già discusso. Non c’è alcuna speranza per noi due di fare pace. E’ una stronza colossale”.
“Gab, sapeva che l’avresti fermata se te lo avesse detto, ha dovuto farlo”.
“Possiamo cambiare discorso? Non hai ancora risposto alla mia domanda”.
“Non c’è molto da dire”
Gab, in equilibrio su un in piede solo, sopra la sedia della scrivania di mio padre, aveva allungato il braccio per afferrare un altro vecchio libro polveroso dallo scaffale più alto.
“Ok, forse non mi sono spiegato bene” – riprese quando lo ebbe fra le mani. Lo aprì, ispezionò il contenuto scrupolosamente e lo gettò, con fare arrendevole, alle sue spalle in cima alla piramide di libri che aveva già controllato.
“Merda non è nemmeno questo” – imprecò fin troppo rumorosamente.
Per un attimo i nostri sguardi s’incontrarono e lessi perfettamente nella mente a cosa stava pensando.
“Gab, non si dicono le parolacce” – motteggiammo all’unisono Leona.
Il sorriso riaffiorò nelle sue labbra ed io risi complice insieme a lui.
“Quello che volevo dire è: ci tieni a lei?”
“Certo che ci tengo, ci conosciamo da quando eravamo bambini, siamo cresciuti praticamente insieme” – lo rassicurai mentre sfilavo da un pila metodicamente disposta in fila, l’ennesimo tomo voluminoso dalla copertina ingiallita e decorata con del rigoglioso fogliame intrecciato di colore verde pastello. “La divina commedia” annunciava il titolo sopra il disegno di un vecchio Dante Alighieri dal naso adunco.
“La ami?” – insistette.
Serrai gli occhi ed ebbi un piccolo tremore alla mano. I versi che aveva recitato mia madre prima… era un canto dell’Inferno. Il libro mi scivolò dalle dita, cadde e si aprì una pagina a caso non appena sfiorò il parquet.
“Tesoro, tutto bene la sotto?” – urlò mia madre preoccupatissima dal piano di sopra.
“Sì mamma, non preoccuparti” – la tranquillizzai.
“Fabiano, guarda!” – disse con esagerato entusiasmo il mio amico.
Al centro della pagina, qualcuno aveva ritagliato la forma di una serratura.
“Bingo!” – esultò Gab.
“Prendi la chiave! Cosa aspetti?”.
Infilai la mano in tasca e rabbrividì quando i polpastrelli vennero a contatto con il freddo ottone di cui era fatta la chiave. Il cuore mi era arrivato in gola, aspettavo questo momento da molto tempo. Ma volevo davvero svelare gli arcani segreti di mio padre?
Gab saltò giù dalla sedia, raccolse la divina commedia dalla rilegatura e me la porse soppesando ogni mio gesto. Nonostante fosse calato il gelo, mi asciugai il sudore dalla fronte, ingoiai il groppone e girai la chiave nella serratura. Produsse un click metallico come se avesse innescato una specie di circuito a ingranaggi e la libreria si spaccò in due come le acque del mar rosso rivelando un lungo corridoio in discesa alla penombra delle torce che ardevano nei bracieri.
 Il mio cuore tamburellava come se dentro il petto stesse avendo luogo un rito tribale.
“Fabiano, questo è un passaggio segreto, è un cazzo di passaggio segreto, avevi ragione!”
“Lo vedo anch’io Gab” – gli risposi con poca convinzione.
“Che facciamo stiamo qui a fissarlo? Entriamo!” – e mi spinse dentro.
Mentre Gab trotterellava giù per i gradini colto da un’irrefrenabile eccitazione, io mi trascinavo i piedi come se avessi delle pesantissime zavorre. L’entrata si allontanava sempre di più e laggiù la temperatura continuava a scendere fino a che i nostri denti non risuonarono come nacchere. La delusione miniò la curva della bocca di Gabriel quando alla fine nelle scale incontrammo un muro di mattoni disadorno, affrescato unicamente da qualche numero romano. Inumidì un dito con la saliva e sollevai il braccio all’altezza degli angoli del muro. Fra i mattoni vi era qualche spiffero e a conferma di ciò anche l’ondeggiare del fuoco nelle torce era più instabile. Questo voleva dire che dall’altra parte c’era un’altra uscita. 
“Canto XXVI dell’Inferno”.
“Che?”
“E’ il verso che ha recitato mia madre prima, quello che mio padre continua a ripetere nel sonno. Gab, vedi che i mattoni non sono tutti allineati, dobbiamo premere il numero giusto”.
“Il XXVI? Ne sei proprio sicuro? Cosa succede se sbagliamo?”
“Sta tranquillo ne sono abbastanza sicuro”.
“Abbastanza? Non è molto rassicurante”
“Fallo e basta, fidati di me Gab, non ti metterei mai in pericolo”
Lui sembrò aver creduto alle mie parole e fece come gli avevo chiesto. Il muro si aprì come una porta scorrevole e a Gab cedettero le ginocchia per la tensione. Lo aiutai a rialzarsi, attraversammo la soglia con lui aggrappato alla mia schiena e accendemmo l’interruttore. Nessuno dei due sapeva cosa aspettarsi. Soprattutto non un’innocua stanza da lavoro sotterranea dallo stile molto semplice. Moquette grigio topo, pareti imbiancate, qualche mobile qua e là e un baule con un lucchetto.  
“Io mi occupo del lucchetto, ci so fare con la manipolazione del metallo” – si offrì Gab.
“Ok io do un’occhiata in giro”.
Mi fiondai immediatamente sulla scrivania alla ricerca disperata di qualche inizio, qualsiasi prova che avrebbe inchiodato l’artefice delle sparizioni e che avrebbe finalmente risolto il mistero. In cuor mio sperai che, a dispetto delle evidenze, mio padre non c’entrasse nulla con tutto quel marasma da film horror. Gab trafficava con il lucchetto e sentì lo scatto dei primi due pistoncini, ci stava dando dentro il ragazzo.
“Non sforzarti troppo Gabriel, sai che soffri di epistassi”.
“Sono ancora stabile, tranquillo”
Mentre mi preoccupavo per la salute del mio amico, utilizzai la chiave di prima per aprire i cassetti della scrivania. Con i primi due non attecchì, invece il terzo cassetto…la serratura scattò con un solo giro di chiave. Una volta aperto, lo feci scorrere lungo le scanalature e lo estrassi dal mobile riversando il contenuto impazientemente sul tavolo. Trovai un dente di vampiro legato a una cordicella di caucciù e un mucchio di lettere rilegate con un filo dorato. Mi disfai dello spago e cominciai freneticamente a smistarle. Ovviamente per motivi di segretezza era tutto siglato e la cosa lo rendeva ancora più snervante. Si trattava di un regolare scambio epistolare con un certo S. ed era nominato anche un misterioso D. Quando lessi il testo delle lettere, ne rimasi sconvolto soprattutto perché si trattava dell’inequivocabile calligrafia di mio padre. Stavano eseguendo degli esperimenti umani sui protettori. Il cervello stava per scoppiarmi, la leggenda di Igor diventava sempre più reale mano a mano che avanzavo nella lettura dei rapporti dettagliati che forniva mio padre sull'andamento dei test. Riuscì a registrare soltanto alcune frasi, era tutto davvero surreale.  Parlavano di super guerrieri di un laboratorio sotterraneo, di un patto con le fate e della concessione del campo Sirio in cambio di un sortilegio, di enormi traffici di denaro con i grandi vertici mondiali dei protettori, di un impianto di organi corrotti…gettai un’occhiata torva al dente che avevo trovato nel cassetto. A piè di pagina vi era anche il timbro della coorte dei sette. Tutti i pezzi stavano andando al loro posto.
“Gabriel la situazione è peggiore di quella che credevamo” – mi tremava la voce.
“Credo che mio padre e alcuni collaboratori, fra cui le fate, stiano facendo degli esperimenti umani sui protettori. Li torturano e usano gli organi, gli apparati e le appendici di vampiri, licantropi e altre creature per fonderli in unico essere ibrido dall’incredibile forza e velocità tramite un sortilegio…E non è tutto, li vendono in cambio di denaro come se fossero delle bestie, come se fosse una lurida tratta degli schiavi” – dissi disgustato dalle mie stesse parole.
Gabriel distolse lo sguardo dal baule: “Mio Dio” – esclamò sconvolto.
“Ma questo infrange la legge! I protettori non possono trasformarsi in creature sovrannaturali”.
“Qui non parla di nessuna trasformazione…è solo un trapianto di organi coadiuvato dalla magia delle fate. In un certo senso, rimangono sempre loro stessi…”.
“Tutto questo solo per dello stupido sporco denaro, non posso credere di fare parte di una feccia del genere. Dobbiamo dirlo a Leona, subito. C’è altro nelle lettere?”.
“Il sigillo dei sette, quindi credo che in qualche modo siano coinvolti anche loro” – dissi mentre rovistavo ancora fra la posta – “Ecco qui c’è un’altra lettera da parte della Sire di Andromeda e…”.
Quella rivelazione mi colpì in pieno, le parole che lessi s’impressero a fuoco nella mia mente bruciando ogni terminazione nervosa. Non mi sentivo più le ossa, fu come se mi dovessi sciogliere da un momento all’altro, liquefacendomi sul pavimento, macchiando la fibra sintetica della moquette e mescolandomi con polvere e pulviscolo.
“Allora cosa dice?” – domandò Gab quando riuscì a sbloccare l’ultimo pistone.
“Nulla”- risposi automaticamente infilando la lettera nella tasca dei pantaloni.
“E’ fatta, apriti per me bambolina!” – stava dicendo Gab al baule.
Il mezzo busto di Gab scomparve dentro la bocca della cassapanca ed emerse fuori dopo pochi istanti con in mano un paio di fascicoli.
“Fabiano…credo che dovresti venire a vedere” – m’invitò Gab titubante.
Mi scrollai di dosso le sensazioni che mi bombardavano da quando avevo varcato la soglia del nascondiglio di mio padre e mi affrettai ad affiancare il mio amico.
Mi porse uno dei fascicoli ma poi con guizzo rapidissimo sembrò ripensarci.
“Promettimi che sarai forte” – aveva gli occhi lucidi. Mi stava spaventando a morte.
Annui debolmente. Non poteva essere peggio della lettera che sembrava ardere dentro la tasca.
Ancora una volta ero in errore.
Era la cartella clinica di uno dei soggetti sottoposti all’esperimento. Quando lessi il nome e diedi una breve sbirciata alla foto della ragazza dai lunghi capelli castani che mi sorrideva con il più puro fra i sorrisi, le lacrime m’imperlavano le guance.
La cartella riportava, in fondo alla pagina, la firma e una breve autodichiarazione del soggetto che si assumeva le responsabilità delle conseguenze dell’esperimento.
Nome del soggetto: Sara Maria Barbara Spadarossa
Codice esperimento: Linckage
Organo trapiantato: Denti di vampiro
Esito dell’esperimento: Fallito
Fallito. Fallito. Fallito. Lo lessi così tante volte con la speranza che lo potessi cancellare con la forza di uno sguardo. Mia sorella non era che un esperimento Fallito. A quel punto credetti di morire, bruciato dalle fiamme dell’odio.
Poi un rumore remoto al piano di sopra, uno scalpiccio svelto di suole sul pavimento.
“E’ tornato tuo padre! Fabiano dobbiamo andare via, alzati, alzati, ti prego!” – m’implorava Gab. Più mi scrollava, più la sua voce diventava ovattata, si allontanava da me, s’impastava divenendo incomprensibile. Come se fossimo separati da una superficie insonorizzata ed io stavo dalla parte opposta del vetro.

 
 

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Capitolo 32
*** RITORNO A CASA ***


Note dell'autore: Ciao a tutti, nei prossimi capitoli provero' più spesso a cambiare punto di vista in modo tale da fare conoscere meglio i personaggi principali della storia. Spero non vi faccia girare la testa o risulti troppo noioso. Buona lettura!

CAPITOLO 18 – Ritorno a casa

POV MORGANA
Soffoco pensai mentre le pareti si stringevano attorno a me. Gli spazi angusti erano da sempre il mio tallone d’Achille. Quasi come se fossi aggrappata alla cartina, esaminavo timorosa la mappa del labirinto alla ricerca del percorso migliore che mi avrebbe riportato in superficie, alla luce del sole. Sentivo già la mancanza dell’odore mattutino di baguette appena sfornata e lo specchiarsi dei tramonti gotici sulle vetrate della cattedrale di Notre-Dame. Un’altra fitta nostalgica al ricordo delle notti stellate al marais de loup-garou e le lunghe battute di caccia con il vento fra i capelli, le dita solleticate dall’impennaggio delle mie frecce variopinte e il rassicurante amplesso dell’arco in legno di frassino sul petto. L’arco donatomi da mio padre, tramandato da suo padre prima di lui, era l’unico oggetto in grado di spazzare via la tremante e insignificante Morgana che tanto detestavo. L’unico capace di farmi sentire una vera guerriera, impavida e coraggiosa all’inverosimile. Le zanne d’avorio del mio ultimo avversario tintinnavano sbeccandosi fra loro appese alla cintura di cuoio nero. La mia freddezza nell’affrontare i lupi mannari aveva sbalordito tutti al campo Antares di Parigi, molti credevano che fossi posseduta da qualche spirito belligerante, poiché cozzava in modo lampante con la mia inguaribile timidezza da ragazzina taciturna, timidezza che fra le altre cose mi aveva isolata dal resto dei miei coetanei. Ma a me non m’importava un granché di quella gentaglia con la puzza sotto il naso.
Proseguendo lungo il rettilineo della galleria, le mie emozioni facevano a pugni. Stavo tornando a casa. Avevo sognato per così tanto tempo di varcare quei familiari confini che conoscevo a memoria e adesso, ironia della sorte, non vedevo l’ora di tornarvici. E sapevo anche il perché. Casa era dove c’erano i miei amici. Dovevo farlo per Leona. Se Leona aveva bisogno di me, non avevo altra possibilità se non correre da lei in suo soccorso, come avevo sempre fatto in tutti quei anni. Il giorno che si trasferì al campo era così piccola e gracilina, con gli occhi spauriti e innocenti segnati dal dolore. A primo acchito credetti che fosse simile a me e mi fu facile entrare in sintonia con lei ma mi sbagliavo. Lei non era un povero cucciolo ferito, come suggeriva il suo aspetto, era una leonessa, travestita da coniglio, pronta a balzare. Trovai affascinante quell'ossimoro di personalità che la caratterizzava. Mi era d’ispirazione. Lei sapeva come spronarmi e tirare fuori il meglio di me, mi era complice in tutto, e mossa da quella profonda gratitudine che covavo nel mio cuore, mi sono fin da subito affezionata a lei. Quella mattina bastò la preoccupazione nel tono della sua voce, all'altro capo del telefono, a scuotermi dal mio torpore, non esitai nemmeno un secondo a lasciarmi alle spalle le bellezze della ville lumière. Qualcosa di sconvolgente era accaduto a Londra, era giunta voce persino ad Antares: pericolose creature sconosciute vagavano per le vie della città creando scompiglio nel mondo degli umani. Al telefono era stata molto criptica ma immaginavo che non fosse sola e che non potesse parlarmi liberamente. Una cosa era certa Leona ne sapeva decisamente di più.
“Non manca molto alla sala delle porte” – disse Jacque, il tutor che si era offerto di accompagnarmi dentro il labirinto di Pan.
Il labirinto era un dono della congrega dei potenti stregoni bianchi di Salem agli antichi medjai che li avevano difesi durante la grande guerra del deserto. Grazie ad esso i protettori di tutto il mondo potevano spostarsi da un campo all’altro in tempi brevi e in questo modo riuscivano a fronteggiare prontamente le emergenze aiutandosi a vicenda. Non impazzivo all’idea di avventurarmi in quel circuito folle dai mille vicoli ciechi ma era l’unico modo per raggiungere in fretta luoghi fra loro distanti nella dimensione umana.
“Bene” – balbettai un po’ imbarazzata. Era così silenzioso che avevo dimenticato la sua presenza dietro di me.
Jacque sollevò la lanterna per illuminarci il cammino e così facendo gettò delle ombre sinistre sul suo viso, spaccandolo a metà.
“Sarai felice di tornare a casa dopo tutto questo tempo. Finalmente potrai riabbracciare il tuo ragazzo, comment ça s’appelle? Gabrièl?”
Il suono del suo nome mi arpionò il cuore e mi rubò il respiro. Quel malessere non era certo da imputare alla mia claustrofobia. Doveva essermi scoppiato un piccolo incendio in faccia, perché le guance cominciarono a scottare come due soli ardenti.
“Si chiama Gabriel” – gli corressi l’accento – “e non è il mio ragazzo” – finì col brontolare.
“Vraiment? Non la smettevi più di parlare di lui”
“Non è vero!” – m’affrettai a smentire.
L’uomo esplose in una risata rimbombante mormorando qualcosa sugli amori adolescenziali e ormoni impazziti. Poi mi tolse la cartina dalle mani e accelerammo il passo.
Gabriel. Il gemello della mia amica Leona solo per aspetto. Di certo lei non poteva vantarsi di essere boriosa, arrogante, narcisista, superba tanto quanto il fratello. Il suo umore mutevole mi faceva venire il mal di testa, passava dall’essere gentile all’accanimento nei mie confronti in un batter d’occhio. Non ero mai riuscita a capirlo e nonostante tutto quando pensavo a lui il cuore faceva le capriole. Anche i battiti in quel momento si erano fatti irregolari. Cosa ci trovavano mai le ragazze in lui, in quei cappelli arruffati a regola d’arte, neri e lucenti come pietre d’ossidiana, nel suo sguardo dolce, penetrante e a tratti accigliato, nelle sue labbra piene e carnose, succulente come un frutto maturo, tutte da assaggiare…Stupida, stupida, stupida Morgana ripetevo a me stessa schiaffeggiandomi da sola. Io ero diversa dalle altre, non sarei caduta nella sua trappola. Jacque, osservandomi in tralice, sembrava seriamente preoccupato per la mia salute mentale ma si limitò a prendermi il polso e ad imboccare una scorciatoia che ci avrebbe fatto risparmiare un po’ di tempo. Il tetto della galleria si avvicinava sempre di più al pavimento perciò fummo costretti a strisciarvi sotto a pancia in giù. Dovetti farmi forza e ignorare il tremendo fischio che mi assordava i timpani e l’impellente bisogno di vomitare la colazione. Lo so, era ridicolo che un protettore come me fosse pronto ad affrontare i denti aguzzi di cani giganteschi ma temesse l’ostruzione e la mancanza di libertà di movimento. Mio padre disprezzava questa mia malattia tipicamente umana che di fatto m’invalidava e si era sempre chiesto se ne fosse stato lui la causa scatenante, come se si trattasse di un difetto genetico. A volte però la paura è irrazionale, no? E’ istintiva, un riflesso atavico, faceva parte di me e il pensiero che ci fosse qualcosa in me che mio padre non approvasse, mi aveva sempre fatta sentire come un giocattolo rotto, perché ero incompleta ai suoi occhi. Io volevo essere come lui. Un guerriero forte e coraggioso ammirato da tutti. Strinsi forte al petto il mio bottino di guerra e trepidante di gioia quel giorno glielo avrei mostrato, trionfante, dimostrandogli che si sbagliava sul mio conto. Il giudizio della comunità non mi scalfiva nemmeno, volevo soltanto che mio padre fosse fiero di me, che riempisse il suo sguardo di orgoglio e non con la solita delusione che gli si leggeva per aver concepito una fragile femminuccia per di più scioccamente schiva e introversa. Non me lo aveva mai tenuto nascosto: lui avrebbe voluto un maschio. E faceva male, molto male. E forse fu proprio quel dolore a plasmare l’aggressività che mi distingueva in battaglia. Ero spaccata in due tanto che Leona credeva fossi la personificazione di dottor Jekyll e mister Hyde.  
Col fiato corto per aver attraversato quel tunnel dalle dimensioni di una tana di talpa, mi distesi sulla rovente pietra lavica della pavimentazione. Il viso aderì  all’acciottolato, chiusi gli occhi e rimasi in ascolto degli scoppiettii vorticanti del magma incandescente che come sangue lezioso scorreva fra le arterie del cuore del vulcano. Il forte attacco d’emesi era passato, raccolsi le forze e mi ricomposi dispiegando l’orlo della mantellina sgualcita, contenta di trovarmi di nuovo a mio agio. Intorno a me, la sala delle porte prese vita in tutta la sua magnificente bellezza.  La volta del soffitto si avvolgeva sulla sala titanica come una cupola sferica, il cui culmine  si estendeva a perdita d’occhio, infatti non era ben visibile per via della foschia, e i mosaici che costellavano i muri descrivevano gli eventi salienti del nostro popolo come un libro illustrato per bambini.  Le statue granitiche degli antichi medjai del passato mi soppesavano dall’alto con il loro sguardo temibile e privo di pupille, Majak con la lunga e ispida barba e Gassan leggiadra e fiera con la lancia dello spirito al suo fianco. Anche Leona quella mattina era passata di lì, mi chiesi quale fosse stata la sua reazione alla vista di quelle sculture.
Era facilmente intuibile perché si chiamasse ‘sala delle porte’, ne ero circondata. Porte di ogni forma e colore ognuna con la sua targhetta identificativa. Guardai torvamente la porta bianca di Antares con tanto di pomello in ottone interrogandomi sul perché mi avessero costretta ad attraversare quel labirinto infernale. Ma poi ricordai che le porte erano a senso unico, non potevi raggiungere la sala attraverso di esse, poiché nella nostra dimensione erano incorporee.
“Quella è la porta de Florance, mademoiselle” – la indicò Jacque con fare assente. Una porta lussuosa, rosso mattone con le bordature dorate e le intarsiature tipiche della falegnameria all’italiana.
“A breve riceverai i tuoi bagagli e tutta la tua roba. Credo che il mio lavoro qui sia finito. Sii prudente ma chérie, è in corso una guerra civile fra les champes de Roma e de Florance. Italiani, e chi li capisce!” – asserì scuotendo la testa.
“Merci Jacque” – lo ringraziai.
“Spero ne valga la pena. Bon chance mon ami!”
“Ho come la sensazione che ne avrò bisogno” – bisbigliai riempiendomi i polmoni ingordi d’ossigeno. Feci leva sulla maniglia e, lasciandomi trasportare dal cigolio nei cardini, varcai l’uscio della sala abbandonando il suo avvolgente calore per scambiarlo con il freddo pungente della neve. Un fascio di luce abbacinante mi ferì gli occhi e mi strinsi nel mio cappotto per proteggermi da quello sbalzo di temperatura improvviso. Mi sentivo nuda senza il mio arco ma la sala delle porte era un luogo sacro e non era permesso portare armi. Il fiato si condensò in una nuvoletta bianca quando mi resi conto, aguzzando la vista, di stare osservando i tetti imbiancati della cittadella e le alte guglie del castello. La porta alle mie spalle non c’era più e con essa era sparito anche il fido Jacque. C’era qualcosa però che in quel paesaggio, dopotutto, non mi era così familiare. Quella muraglia che tagliava a metà il fiume coda di Boa c’era sempre stata?
Ebbi una stretta al cuore. La guerra civile.
Roma e Firenze si erano sempre odiati fin da quando, circa sei anni fa, i primi si erano trasferiti qui, per lasciare Sirio nelle mani delle fate. Scelta dalla dubbia efficacia strategica che non ero mai riuscita a capire.
Dovevo smetterla di perdere tempo, mi precipitai giù dalla collina da cui ero sbucata magicamente fuori, direzione cittadella. Se Leona era già arrivata l’avrei trovata sicuramente lì.
La cittadella era esattamente come la ricordavo. Era domenica, per cui la piazza era festosa e gremita di gente, non popolata come una volta ma l’atmosfera che si respirava ti scaldava ugualmente il cuore. Un paio delle mie vecchie conoscenze corsero a salutarmi e a tempestarmi di domande sul campo francese, congratulandosi con me fino allo sfinimento. In fondo era bello essere di nuovo a casa, non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa. Non tutti però sembravano felici di vedermi e bisbigliavano fra loro, ronzando come uno sciame d’api.
E’ la figlia dicevano, perché è tornata qui? Credo che abbia sbagliato lato poveretta, continuavano a ridere alle mie spalle. Cominciai a sentirmi a disagio, trafitta da tutti quegli sguardi ingiustificatamente colmi d’odio nei miei confronti.
Tanti volti scorrevano davanti ai miei occhi ma nessuna traccia dei miei amici. Magari prima di partecipare alla cerimonia dei bottini con Leona avrei potuto fare una salto da mamma e papà, per vedere come stavano. Ma la nostalgia e il brio lasciarono ben presto il posto ad un prorompente sconforto quando imboccai la via di casa. La villa dei Cacciasciacalli, una volta famosa per i suoi lussuosi e rigogliosi giardini verdi, adesso verteva in uno sconcertante stato di abbandono e desolazione. I cancelli chiusi da un vecchio catenaccio arrugginito, avvolto più volte su se stesso attorno alle sbarre dell’inferriata sormontata dal  noto stemma raffigurante un lupo trafitto da una freccia, non consentivano più l’ingresso all’interno dell’abitazione. Le vene pulsavano furiose sulle tempie, ticchettando come una bomba ad orologeria nella mia testa. Non capivo…Cos’era successo?
“Sapevo che ti avrei trovata qui” – disse l’unica voce che desideravo ascoltare il quel momento.
E lei era lì, bella come non lo era mai stata prima d’ora, i lunghi capelli neri raccolti in una coda ordinata, e le labbra rosee aperte in un sorriso carico d’emozioni. La mia amica.
Leona non mi lasciò nemmeno il tempo di pensare che già mi era saltata addosso, lanciando un urlo di gioia, con le sue gambe arpionate attorno ai mie fianchi. L’accolsi facilmente in braccio, non sembrava molto più pesante dell’ultima volta che ci eravamo salutate, e mi riempì la fronte di baci.
“Dio quanto mi sei mancata carotina mia!” – esclamò strofinandomi dolorosamente le sue nocche sulla mia cute fin troppo delicata.
“Anche, tu Lea, non sai quanto”.
Mi arresi alle lacrime, tanto non sarei mai riuscita a ricacciarle indietro. Lei le asciugò premurosa come sempre e trovai ancora una volta conforto nel suo abbraccio. Lesse nel mio volto tormentato le domande mute che le mie espressioni le trasmettevano.
“I tuoi stanno bene, se sei preoccupata per loro, anzi, stanno più che bene” – mi rassicurò sciogliendo il nodo doloroso che mi opprimeva il petto.
“Non c’è più la Betelgeuse di una volta, te ne sarai accorta” – disse con un sorriso amaro.
“I Cacciasciacalli non vivono più qui ma dall’altra parte…sono successe molte cose quando noi eravamo via. A quanto pare i due campi non sono riusciti a superare le loro ostilità ed è scoppiata la rivoluzione e hanno costruito questa, questa…” – aveva difficoltà a trovare le parole giuste – “…cosa, per evitare che si facessero a pezzi fra di loro” – terminò facendo riferimento all’enorme muro che non sembrava apprezzare molto.
“Come se non avessimo già abbastanza problemi” – aggiunse sprezzante.
“Tuo padre e Tiziano hanno avuto uno scontro molto accesso e i protettori sono stati costretti a schierarsi dall’una o dall’altra parte. Adesso Betelgeuse vanta un primato mai accaduto nella storia dei protettori: siamo governati da due Siri contemporaneamente. Almeno finalmente qualcuno ha avuto il fegato di opporsi a quel viscido di Tiziano…”
“E chi è l’altro…” – stavo per chiederle ma la sua faccia impertinente la diceva già lunga.
“Mio, mio padre?” – rimasi a bocca aperta – “ma come è possibile? E i sette?”
“Vox populi. E’ stato eletto da quella parte dei protettori che ancora non si è completamente bevuta il cervello. E per inciso, io tifo per il tuo paparino. I sette non sono invincibili” – disse con una malsana soddisfazione.
“Mi sento confusa” – dissi massaggiandomi le tempie ancora doloranti.
“Lo so, io ho saputo tutto sta mattina. Anch’io sono rimasta turbata quando ho visto tuo padre avviarsi verso la riunione speciale dei Siri. Faresti bene a chiedere chiarimenti a lui stesso”
“Credo che tu abbia ragione…” – sospirai.
“Ma guardatati” – le dissi allontanandomi abbastanza da avere una ampia panoramica su di lei. Indossava indumenti non molto pesanti, forse perché anche lei non si aspettava tutta quella bufera di neve.
“Quanto sei diventata bella e…” – sgranai gli occhi sulle gambe elegantemente lunghe e slanciate, sui muscoli definiti delle braccia e sulle sue curve da montagne russe, e sul suo…
“Leona Elena Braveheart! Come hai osato farti crescere le tette senza il mio permesso!” – la rimproverai morendo d’invidia per la sua tonica terza abbondante che si ritrovava.
 “Non è giusto! Sono illegali!”
Lea rise a crepapelle – “Con queste purtroppo non ci ammazzi i vampiri”
“Ma potrebbero essere un’ottima distrazione…”  
“Non essere sciocca. E poi a Parigi non ne avevano specchi? Sei una bellissima ragazza anche tu. Aspetta che ti vedi Gabriel”.
“E cosa dovrebbe importarmi di cosa pensa Gabriel?” – mormorai a labbra strette.
“Non lo so, dimmelo tu” – disse schiacciandomi l’occhiolino maliziosamente.
“Voi piuttosto avete fatto pace?”
“No, non ancora” – rispose con vocina strozzata, fissandosi gli stivali.
“Che cosa aspetti? Corri a cercare tuo fratello!”
“Ogni cosa a suo tempo. Devo parlarvi di una cosa importante e vorrei che ci foste tutti voi”. D’un tratto si fece più vecchia della sua età. Mentre parlava i suoi occhi blu si accesero come due bracieri, brillando nell’oscurità come fari di saggezza.
“Di cosa devi parlarci, eh? Spero non si tratti delle tue solite lagne”
“Caterina!!” – esclamammo io e Leona.
Lei e Caterina si esibirono in quella ridicola danza/saluto per non dimenticare la spensieratezza di quando erano bambine.
“Ciao Rossa, hai lasciato il tuo bell’arco in Francia?” – che gioia, si era accorta anche di me. 
“Ah, ah” – le feci il verso. Non eravamo mai andate molto d’accordo, il nostro era un patto di tolleranza per rispetto di Leona che era amica di entrambe.
Leona ignorò il gelo che era calato fra di noi. “ Come fai ad essere qui?”
“Intendi per quella storia del muro? A noi studenti è ancora permesso bazzicare qua e là, a loro non sembra importare un granché” – disse con noncuranza.
“Capisco, hai visto gli altri stamattina? Fabrizio, Norman, Fabiano, mio…fratello?”
“Fabrizio e Norman? Mi sembra di averli visti da qualche parte, non saprei. Quelle mezze seghe non appena hanno saputo che eri tornata stavano facendo quasi a botte per venirti a cercare, disgustosi. Tuo fratello e Fabiano non li vedo da ieri all’allenamento…Chi è quel bel bocconcino che ci sta salutando?” – chiese Caterina strabuzzando gli occhi.
Non appena lo vide, Leona divenne paonazza. “Per l’amor del cielo…” – farfugliò rimpicciolendosi su se stessa.
Il ragazzo che correva verso di noi era a dir poco carino. Alto, biondo, muscoloso, il classico belloccio per cui perdere la testa. E giudicare dai languidi sguardi che lanciava a Lea, fra i due doveva esserci qualcosa. Gettai una breve occhiata dubbiosa alla mia amica che sembrava desiderare il dono dell’invisibilità sopra ogni cosa. Dietro di loro, Fabrizio e Norman cercavano affannosamente di mantenere il suo passo. Leona colse l’occasione al volo e corse ad abbracciarli affettuosamente. Li raggiunsi anche io e da li in poi fu tutto un vortice di saluti, racconti nostalgici e di pacche sulla spalla. Fabrizio e Norman non levavano gli occhi di dosso da Lea nemmeno per un attimo, ma lei non sembrava fare caso a quelle svenevoli attenzioni che i suoi vecchi amici le riservavano. Cosa che invece aveva palesemente infastidito il nuovo arrivato che li guardava in cagnesco. Caterina fissava ingorda i suoi pettorali con la bava alla bocca, senza alcun ritegno. Fu lei a dissociarsi per prima da quella rimpatriata per cui non nutriva alcun interesse.
“Allora Lea, perché non ci presenti il tuo nuovo amico?” – li interruppe continuando ad esplorargli gli addominali con le sue occhiate peccaminose.
Leona s’infuriò come se fosse stata morsa da una tarantola e forzatamente fece come gli era stato detto: “Ragazzi lui è Ethan, il figlio della Sire di Londra” – a quelle parole, il coinvolgimento di Caterina sembrò divampare ancora di più. “Ethan loro sono Fabrizio e Morgana, del campo Betelguese, e Caterina e Norman, ex campo Sirio” – finì annoiata.
“Piacere di conoscervi. Gli amici della mia Leona, sono anche amici miei” – sostené convinto con quell’accento inglese sexy da paura. E le mise un braccio intorno al collo quasi sovrappensiero. Lei glielo lasciò fare malvolentieri. Norman strinse i pugni e distolse in fretta lo sguardo come se quella manifestazione affettuosa gli fosse insopportabile.
“Sei sparita in mezzo alla folla, non riuscivo più a vederti. Mi hai fatto preoccupare, piccola” – le confidò ignorando il resto del gruppo.
“Ti avevo detto che sarei andata a cercare i miei amici” – gli sussurrò celando a malapena la rabbia. I due si guardarono e, a un cenno di lui, per un attimo, vidi Leona costringersi ad addolcire l’espressione.
“E cosa porta qui il figlio di una Sire, Ethan?” – Fabrizio pronunciò il suo nome come se stesse sputando veleno.
“Accompagno semplicemente mia madre e la mia fidanzata” – gli rispose con altezzosità.
A Caterina sembrò caderle il mondo addosso. “Ah la tua fidanzata…”. Ma non demorse: “e dove l’hai lasciata?” – lo rimbeccò in mala fede.
La sua risata tintinnò fra noi: “Ma è proprio qui!”
Per un attimo mi sembrò di partecipare ad uno di quei film gialli dove tutti i protagonisti, chiusi nella stessa casa, si guardano attorno in cerca del colpevole dell’assassinio.
“Su diglielo” – la incitò il ragazzo. Leona cercò disperatamente la mia comprensione ma non riuscivo proprio a guardarla negli occhi.
Sentì deglutire la mia migliore amica mentre ci annunciava: “Sono io. Io e Ethan ci siamo fidanzati”.

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Capitolo 33
*** LA CERIMONIA DEI BOTTINI ***


Capitolo 19 – La cerimonia dei bottini

POV GABRIEL
“La prossima volta avvisami quando hai intenzione di farti un sonnellino improvviso. Se tuo padre ci avesse beccato lì sotto, mi avrebbe ucciso. Già mi immaginavo appeso per le mutande al pinnacolo più alto della torre del castello a sostituire la bandiera del campo”.
Il mio amico non aveva ancora ripreso il suo colorito, sperai in vano di tirarlo su con qualche battuta. A quanto pareva gli scivolavano addosso, restava seduto come se fosse stato saldato sul tronco accanto a me. Si morsicò a sangue il labbro inferiore e raccolse in due stretti pugni la stoffa dei pantaloni all’altezza delle ginocchia, conficcandosi inconsapevolmente le unghie nella carne.
Avrei dovuto ascoltare quello stupido grillo parlante della mia coscienza che mi gridava di far sparire quella robaccia scientifica dalla portata di Fabiano.
Adesso mi sentivo tremendamente in colpa.
Non meritava di sapere in quel modo che fine orrenda avesse fatto la sua amata sorella. Io al suo posto, se avessero soltanto osato sfiorare Leona, io, io…cacciai via quell’ondata di rabbia, anche se ormai la distesa bianca attorno a me si era sciolta, evaporando in una calda foschia lattescente. Tracciai dei piccoli cerchi immaginari con l’indice, approfittando del fatto che fossimo soli, e modellai una piccola palla di neve indirizzandola sulla faccia di Fabiano. Addentai la lingua pur di non ridere alla vista di quell’espressione da Bigfoot che le sue sopracciglia congelate mi suggerivano. Si limitò a scrollarsela di dosso, nessuna sfuriata, nessuna lamentela, nessuna eccesso di collera, piuttosto mi ripropose per la milionesima volta quel suo sorriso gentile, il suo tratto distintivo: il sorriso di Fabiano.  Io lo odiavo quel sorriso, mi faceva imbestialire, perché sapevo che gli angoli della sua bocca facevano uno sforzo immane per scolpirgli quella curva che avrebbe dovuto donargli un aspetto allegro. Io vedevo solo sofferenza, lontana, irraggiungibile, chiusa a chiave nel suo cuore, e lui non mi lasciava mai entrare, non lo permetteva a nessuno, se non a mia sorella. In quel momento ero ancora più incazzato con lei, la sua assenza bruciava fra di noi come un arto fantasma.
Poco prima, quando stavamo mettendo a soqquadro la libreria di suo padre, c’era mancato davvero pochissimo. Merda, merda, merda, boccaccia mia perché non ti chiudi una buona volta? Leona mi avrebbe torturato per l’eternità se Fabiano avesse intuito qualcosa. Certo però lui, tanto intelligente, tanto bravo e perfettino, come faceva a non accorgersi dei suoi sentimenti? Anche lo scoiattolo che s’ingozzava di ghiande sopra la nostra testa sapeva che mia sorella era irrimediabilmente innamorata di lui, probabilmente glielo aveva confidato lei stessa, dato che le piaceva così tanto parlare a qualsiasi bestia le capitasse sotto tiro. Forse dovevo soltanto farmi i cazzi miei.
“Dobbiamo tornarci” – disse serio come non lo era mai stato. “Avremmo bisogno di quelle prove o non ci crederà nessuno”
“Non dobbiamo farlo subito, almeno non oggi. Ti serve del tempo per elaborare quel gran casino” – gli consigliai con una punta di inquietudine.
Fabiano si afflosciò su se stesso con le mani fra i capelli a conferma che quelle scoperte sconvolgenti lo avessero stremato. Non volevo trovarmi nei suoi panni. Avere le prove tangibili di quale razza di mostro sia tuo padre, doveva essere a dir poco devastante, così come lo era stato per me venire a sapere che i miei genitori avevano fatto comunella con dei schifosi succhia sangue.
Nella tasca posteriore aveva conservato una di quelle lettere nascoste nella scrivania del padre. Per quale motivo aveva preso solo quella?
Colto da un smarrimento insensato, mi guardai bene dal chiedergli spiegazioni.
Anch’io avevo i miei scheletri nell’armadio e avevo apprezzato molto la discrezione di Fabiano di prima. Conoscendolo, avrà sicuramente capito che gli stavo raccontando una bugia…temevo che se gli avessi confessato cosa era successo veramente la notte precedente, gli avrebbe raccontato tutto a Leona. Anche se guidato da buone intenzioni, io non potevo permettere che accadesse, mia sorella doveva rimanere fuori da quella faccenda. A volte non basta rivelare un segreto ad alta voce per far sì che le cose vadano per il verso giusto.
“Amore mio!” – trillò briosamente la biondina mozzafiato gettando le braccia al collo del suo fidanzato. Marlena ammiccò verso di me con gli occhi verdi accessi dalla eccitazione prima di risucchiare via l’anima del mio povero amico con un bacio sulle sue labbra inerti. Lei gli si accomodò sulle ginocchia e lui la ospitò nel suo abbraccio senza protestare, con la faccia da martire. Solo io pensavo che quella coppia fosse un crimine contro l’umanità? Per lo meno, uno dei due sembrava felice.
Parlò a vanvera come suo solito, senza preoccuparsi minimamente che il suo interlocutore prestasse attenzione o di come stesse costringendo il sottoscritto ad essere il terzo incomodo per l’ennesima volta. Avrei tanto voluto dei tappi per le orecchie. Quando era insieme a lui, Marlena sapeva trasformarsi in un vero mostro di dolcezze e vomitevoli smancerie. Come faceva a non accorgersi di quanto fosse sconvolto? Leona avrebbe fiutato il suo tormento a un chilometro di distanza, ancor peggio di un cane da tartufo. Nessuno era sensibile ai suoi cambiamenti di umore come Lea.
Volsi il mio sguardo altrove, non potevo tollerare oltre quelle orrende torture.
Come se avesse ascoltato le mie preghiere, il vento trasportò il debole eco di una folla inferocita. Stava accadendo qualcosa alla cittadella. Anche Fabiano sembrò accorgersene, finalmente il suo volto tornò a illuminarsi d’interesse.
“Sembra che stia per avere inizio l’ennesimo festino” – ironizzai.
“Quella marmaglia di romani non vuole proprio starsene al suo posto nemmeno di domenica! Da quando il padre di Morgana si è autoeletto a Sire, non ha fatto che fomentare la ribellione. A pensarci bene, é il capo perfetto per dei barbari come loro” – sogghignò malignamente Marlena.
“Saranno pure dei selvaggi ma almeno hanno davvero a cuore il fato dei protettori, che cosa ha fatto Firenze per tutte le persone scomparse?”
“I protettori muoiono ogni giorno, è invitabile, siamo guerrieri. Non vedo perché bisognerebbe farne un caso di Stato. E poi come osi opporti al volere del vero Sire di fronte a suo figlio?”
“Hey Fabiano, perché non porti a spasso la tua cagna da qualche altra parte?”
“Brutto verme schif…” – esplose ricoprendo di pieghe la fronte.
“No, Marlena, stop! Cuccia bella!”. Marlena digrignò i denti fino all’usura.
“E tu perché non te ne torni da quella troietta di Dania? Oh, giusto! Ti ha mollato per il tuo pessimo alito di pesce!”.
“Continua a giocare al riporto col tuo padroncino, tanto non potrai mai essere niente di più che una distrazione per lui. Non ti basterà farti i capelli come lei per assomigliarle…”.
Fabiano ci chiese di fare silenzio e chiuse gli occhi per ascoltare meglio il brusio confuso di voci che si era innalzato dalla piazza principale. Cinse i fianchi di Marlena per spostarla con delicatezza nel posto a sedere accanto a lui, e si fece sempre più vicino alla fonte di quel coro lontano.
“Non si tratta della solita rivolta. Stanno facendo…il tifo per qualcuno” – dichiarò certo della sua affermazione.
“Meglio starsene alla larga, comunque” – si affrettò a dire Marlena, tradendo un so che di sospetto. Si attorcigliò nervosamente una ciocca di capelli attorno al dito, facendo rimbalzare freneticamente le pupille da me al suo ragazzo.
“Io sono troppo curioso per restarmene qui con le mani in mano. Credo che lascerò un po’ di spazio a voi due piccioncini, o  al prossimo ‘pucci-pucci’ vomiterò addosso al tuo bel vestitino. Al mio ritorno, se farai la brava, ti porterò un osso”.
Lasciai Marlena sola appollaiata sul tronco, col terrore che Fabiano decidesse di seguirmi.
“Fabiano tu non vieni?”
“No, lui resta con me!” – replicò Marlena per coprire il mio invito. Ok, stava decisamente nascondendo qualcosa. Stavo per  preparare un’altra delle mie frecciatine quando una porta si materializzò in mezzo alla neve.
Spalancai gli occhi.
Una porta? Ma che diamine, avevano corretto il mio latte con del rum?
Eppure quella porta gialla era lì, in piedi davanti a noi, scardinata, priva di muri e con la maniglia abbassata. Dallo spiraglio s’infiltrarono vampate di calore tremanti, visibili soltanto per il loro moto ondulatorio perpetuo, ingannandomi sulla loro presunta concretezza.
Le orme dei suoi scarponi abbozzate su quella coltre nivea si fermarono a qualche metro di distanza da noi. Gli occhi castani dell’energumeno, fuggito da quel mondo invisibile, facevano fatica ad adattarsi alla chiarore di quel cielo argenteo, rivestito da nuvole di bambagia bianche come lo zucchero filato. Serrò le dita attorno alle spalline del suo zaino da campeggio, come se al suo interno custodisse sogni infranti e le speranze disattese. Lo sguardo liquido di Ascanio guizzò oltre le mie spalle, posandosi sul viso infuocato di Marlena che aveva istintivamente portato una mano al petto, un pugno premuto lì, dove batteva il suo cuore, se ne aveva davvero uno.
E lei ricambiava con intensità, mascherandosi, con mia sorpresa, di avvilimento e angoscia.
Poi le sopracciglia di lui si inarcarono, rigide, quando Fabiano tentò un disperato approccio riconciliatore muovendosi spontaneamente verso il vecchio amico, ma lui gli concedé solo la sua schiena e si ancorò ancora più forte al suo bagaglio tentando con tutto se stesso di relegare la collera e il rancore dentro i confini della buona educazione.
Io restai lì impalato senza sapere cosa dire. Nessuno aveva parlato, eppure l’aria sembrava odorare di ferite d’arma da fuoco e metallo ossidato.
Come se già non avesse assunto un’aria malaticcia, Fabiano piombò nello scoraggiamento e la sua pelle si confuse  col il candore della neve, il sangue sembrava non fluir più nelle sue vene, ormai consumato dai sensi di colpa nei confronti di colui a cui aveva rubato la ragazza.  
L’ingresso di Gomez e delle sentinelle al suo seguito, ci sollevò da quella bolla d’imbarazzo e gli sarei stato riconoscente se non si fosse trattato di quel viscido serpente a sonagli. Mentre si grattava compiaciuto quella barbetta incolta sul mento, ci salutò chinando la testa sul petto, gesto che ci costrinse a metterci sull’attenti ed onorare la sua presenza con il motto dei protettori.
Il suo mantello come un’ombra tenebrosa gli aleggiava attorno conferendogli un aspetto ancora più sinistro. Ma era tutt’altro che regale, quella specie di gnomo non l’avrebbe spuntata nemmeno con mia nonna Ferdinanda. O lei sì che faceva tremare la terra al suo passaggio, pace all’anima sua.
Gli occhietti iniettati di sangue del nuovo sire di Barcellona mi squadrarono dalla testa ai piedi come a dire perché sei ancora vivo brutta mosca fastidiosa ma sistemandosi il pettorale di bronzo si avviò a passo spedito verso la cittadella con le sentinelle a proteggergli i fianchi come le ali di un angelo.
Rimasi coinvolto in quel spaventoso triangolo delle bermuda, indeciso se dileguarmi e lasciargli un po’ di privacy ma alla fine optai per stemperare la tensione con una delle più infelici delle mie uscite: “Ascanio…sei bello grosso, ti sei messo a mangiare tutta la paella della Spagna?”. Ed ecco a voi il mago delle conversazioni! Basta, basta con gli applausi.
“Non ti sfugge niente a te, eh Braveheart” – mi apostrofò lui sciogliendosi in una risata.
E aprì le sue enormi braccia muscolose pronto a stritolarmi come faceva una volta.
“Bentornato Ascanio” – s’intrufolò una imbarazzatissima Marlena.
“Ciao amico” – la spalleggiò Fabiano ancora più teso di lei.
 “Amico” – lo schernì lui schioccando la lingua. Seguì quello che speravo non fosse un ringhio.
“Da quando usi le porte di servizio?” – gli chiesi cercando di non far degenerare quella situazione fin già troppo precaria.
“Da quando tua sorella mi ha chiesto di tornare con urgenza a Betelgeuse. Il labirinto è la via più veloce e ho approfittato della riunione speciale per scroccare un passaggio a quel babbeo del Sire. Farò tardi alla cerimonia dei bottini, dalle urla credo sia già iniziata” – disse toccandosi il canino che aveva appeso al collo robusto.
“Cosa?” – forse non avevo sentito bene – “Che cosa vuol dire che mia sorella ti ha chiesto di tornare?”
“Proprio quello che ho detto. A voi non vi ha avvisato nessuno su quanto è accaduto a Londra? Ops, forse avrei dovuto tenere la bocca chiusa.”
“Londra…” – un brivido corse lungo la schiena depositandosi sulla spina dorsale.
“Vi prego ditemi che é uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto…” – farfugliai in preda al panico. 
“Gabriel, Leona sta bene. Pensavo fosse già con voi sinceramente” – si affrettò ad aggiungere.
“Leona è qui?” – esclamammo in coro io e Fabiano.
“Direi di sì, la sua cagnolona non la lascerebbe mai sola” – disse con un sorriso calunniatore.
Drizzai la schiena oltre il promontorio dei suoi muscoli per vedere da dove provenisse quel latrato che non prometteva nulla di buono ma che, anzi, presagiva una pioggia di bava appiccicosa. Dietro Ascanio, un pelosissimo pastore maremmano galoppava in pompa magna con la lingua svolazzante da un lato della bocca.
Non mi diede nemmeno la possibilità d’imprecare che già rotolavamo divenendo una macchia indistinta di pelliccia bianca e neve, che a proposito si era infilata fin dentro le mutande, congelandomi…be, avete capito.
Non c’era un solo angolo del mio corpo che avesse risparmiato dalla sua densa saliva, avevo ancora la sua lingua inchiodata alla mia guancia, come una stalattite, quando mi aggrappai al suo collo affondando il viso nel suo caldo pelame candido. Non volevo mostrare a nessuno le lacrime che continuavano a pungere gli angoli degli occhi.  Restai così nascosto nel suo abbraccio mentre mi sfiorava l’orecchio con il suo alito canino pestilenziale e suoi pensieri urlanti di gioia nella mia testa che non smettevano di ripete: Sono a casa.
Edna sembrava aver portato con sé una scia arcobaleno di buonumore, anche Fabiano si era ruzzolato in quel pantano polare con noi, era riuscita a spezzare quelle catene malinconiche che lo tenevano prigioniero.
La sua presenza lì voleva dire solo una cosa ed io il mio amico lo sapevamo bene.
“Portaci da lei” – le disse sollevandole un orecchio peloso e umidiccio. Edna arruffò il pelo e scodinzolò, qual brava festaiola che era, per poi partire all’ultima carica con noi che riuscivamo a malapena a starle dietro.
“Dove state andando?” – ci urlarono Ascanio e Marlena a perdi fiato. Quattro giovani protettori che inseguivano un cane. Proprio un bel biglietto da visita.
“A cercarla naturalmente. Le devo ancora un cazzotto”
“Ed io a evitare che la picchi troppo forte” – specificò inquieto Fabiano.
Ascanio aveva ragione. Una mescolanza di protettori provenienti da entrambi i lati della muraglia si era riversata ai margini del campo di addestramento di mr Hans. Il suo naso oblungo sporgeva sulla bocca continuamente increspata e occultata da quel cespuglio biondo che si ritrovava per barba.  Dovemmo infilarci  nella calca per vedere meglio cosa aveva infervorato tanto quell’ammasso promiscuo di protettori.
Alcuni inneggiavano il nome dei Cacciasciacalli a gran voce, altri fischiavano e sputavano a terra come lama bavosi.
Dentro era stato allestito un tendone cerimoniale drappeggiato di blu notte e spolverato di stelle argentate. Al suo interno, il Sire di Betelgeuse osservava seduto dal suo scranno dorato, la figura longilinea e slanciata di una ragazzina i cui capelli, accesi come una fiamma ardente, venivano sospinti dalla bora invernale. Ripiegò la testa all’indietro e la studiò,  tediato da quelle formalità, attraverso le palpebre socchiuse.
Accanto a lui sedeva una donna dalla bellezza affilata. I suoi capelli di un colore biondo spento, sfibrati da troppi anni di tinture, le pendevano dritti in taglio angolare che le delineava la mascella pronunciata. Le labbra erano dipinte di un rosso brillante forse per mascherare, con scarsi risultati, la loro naturale sottigliezza.
A seguire quel pusillanime di Gomez, intento a bisbigliare le sue diavolerie all’orecchio apparentemente attento di quello che riconobbi come il Sire di Rigel, giunto qui al campo da Berlino. L’uomo sembrava più accattivato dall’esaminata, poiché non le schiodava le sue pupille nere di dosso. Lei però non aveva occhi che per il padre, alto e titanico anche da seduto.
Scandiva la voce dura di Hans, picchiettando sul bronzo del bracciolo, la pietra verde dell’anello che portava all’anulare. L’istruttore riempiva l’aria di elogi per la ragazza man mano che proseguiva nella lettura del documento che teneva fra le mani, interpretando così le parole piene d’orgoglio dedicatele dal tutor che l’aveva addestrata durante il suo apprendistato.
Terminata la cerimonia, la reputarono degna di essere proclamata protettrice ad honorem e ancora una volta gridi di esultanza e derisione si confusero fra loro increspandosi come onde sulla riva.
Le restituirono l’arco, il suo arco, e la ragazza sciolse il blocco rigido che pareva cementarle la postura principesca, come se le avessero reso il cuore che le era stato strappato crudelmente dal torace. Poi, come attratti da una forza magnetica illusoria, l’energia che trasudava dall’aria ricongiunse i nostri sguardi mettendo fine alla loro dolorosa separazione.
Morgana. Il pomo d’Adamo cominciò a fare su e giù come la pallina del flipper.
Senza nemmeno aspettare che la congedassero, si tuffò in mezzo alla folla per raggiungerci.
Fabiano le corse incontro e la abbracciò teneramente e Ascanio fece lo stesso. L’acido mi ribolliva dentro lo stomaco e bruciava come se qualcuno avesse acceso un falò. Era proprio necessario che la toccassero? Non potevano salutarla a distanza?
Morgana gli mostrò il sorriso più genuino e spontaneo che avesse nella sua artiglieria e mi accoltellò il cuore rigirando il manico della lama più e più volte, scavando una galleria, cuore che, a proposito, non la smetteva di galoppare come un purosangue da quando il mio sguardo si era posato su di lei.
Era una Morgana diversa.
Dove diamine era finita quella bambina lentigginosa e con le trecce lunghe, terrorizzata dalla sua stessa ombra? Aveva sempre avuto quei riflessi ambrati fra i capelli rossi? Erano incredibilmente lisci e sericei e le ondulavano sulla schiena ogni qual volta scuoteva la testa. La guardavo e non riuscivo nemmeno ad aprir bocca, arida come il deserto del Sahara. Deglutii piano per ritrovare la forza di rivolgerle la parola ma cominciai a grondare sudore dalla fronte. Che cazzo mi stava succedendo, in fondo era solo Morgana, la conoscevo da sempre! Osservandola attentamente non potevo esimermi dal fare i paragoni con il ricordo che avevo di lei ma che cominciava a sbiadirsi come una vecchia foto. Era molto più alta di come la ricordassi e, qui c’era sicuramente lo zampino dei geni di quel gigante di suo padre. La bambina ossuta e smunta aveva lasciato il posto a uno strepitoso corpo atletico e muscoloso al punto giusto, messo in risalto dalla tuta da combattimento modellata sulle sue curve gentilmente accennate. Risi costatando che almeno qualcosa della nuova Morgana mi fosse ancora familiare. Mentre aggiornava brevemente Fabiano sulle avventure del suo viaggio, seguì il mio sguardo e abbassò gli occhi sul suo seno, irrimediabilmente piatto come un’autostrada. Le sue guance presero fuoco e sgranò i suoi straordinari occhi nocciola da cerbiatta.
“Ciao Gabriel” – sputò furiosa come un’orsa dopo la stagione del letargo. Era bellissima quando metteva il broncio. Bellissima? Ma che mi passava per la testa, *%@!!!!?¤¤$$$!!!! (censurato, scusate per il disagio).
“Ciao Carotina, a me non lo dai un bel abbraccio?” – riuscì finalmente a dirle facendole l’occhiolino, fingendo disinvoltura. A Fabiano non era sfuggito quello scambio intenso di sguardi fulminanti e sospirò amareggiato, rimproverandomi con un’occhiata severa.
I capelli e il viso  di Morgana divennero un tutt’uno di rosso e la trovai adorabile da morire. Non riuscì a guardarmi quando si convinse a venirmi incontro. Era calda e morbida fra le mie braccia, odorava di lavanda e quell’ondata di freschezza scatenò una scarica di adrenalina in tutto il corpo, come se avessi preso la scossa. Mi pentì subito di quella richiesta avventata, non potevo immaginare che il contatto con la sua pelle mi provocasse quell’effetto che non avevo mai provato con nessuna. E ne avevo abbracciato ragazze. Molte, moltissime.
Ci allontanammo piano l’uno dall’altra e, occhi dentro occhi, riprovai ancora quel brivido. Lei si divincolò subito lontano da me, come se non vedesse l’ora di farlo. Quel breve ma intenso incontro mi lasciò delle scottature nei punti dove ci eravamo toccati.
 “Com’erano i mangia baguette di Antares?” – le chiesi accorgendomi di aver finito la voce. Lei, grazie al cielo, non sembrò farci caso.
“Le loro rinomate buone maniere sono sopravvalutate e ci odiano parecchio, quindi non è che abbia avuto vita facile”.
“Rosicano ancora perché abbiamo vinto il campionato mondiale di atletica due anni fa? Non sanno proprio perdere quelli lì”.
“Oppure semplicemente hanno annusato odore di fallimento e inesperienza e hanno pensato bene di girare alla larga, figlia di un barbaro” – la provocò Marlena. Morgana cacciò le mani in tasca per evitare di prenderla a pugni davanti a tutti. Un po’ ci speravo, sarebbe stato molto divertente.
“Ma chi ha invitato il barboncino? Dannazione Marlena ti avevo detto di stare ferma, Edna è più ubbidiente di te” – infierì scuotendo la testa. Fabiano fu costretto a trattenerla.
“E’ bello sapere che alcune cose non cambiano mai” – aveva detto Ascanio quasi come se avesse messo da parte il suo astio nei confronti dei due fidanzatini.
“Allora quale buon vento la porta qui, signorina? Anche tu, come Ascanio, sei stata richiamata all’ordine dal sergente Braveheart?” – pensai di recuperare in extremis con un po’ di galanteria.
“Non sapevo lo avesse detto anche ad Ascanio. D’altra parte a lei piace nascondere le cose alla sua migliore amica” – disse con un marcato sarcasmo.
“Se ha chiamato anche te” – si rivolse direttamente ad Ascanio - “la cosa deve essere più seria del previsto”. Poi Morgana abbassò i toni.
“Avete sentito di quelle strane creature che si aggirano per Londra e che nessuno protettore sembra aver mai visto?”.
“Credo che abbia scoperto qualcosa”
“Chi?”
“Leona Elena Braveheart” – annunciò altero Hans come se gli fosse finito un bastoncino di leccalecca in gola.
Era tornata veramente. Smorzai sul nascere quel familiare calore che senza permesso mi riscaldava il petto. Non che fossi ansioso di rivedere quella stronza traditrice.
Fra quella moltitudine, emerse un’ombra nera e rossa il cui viso era nascosto da un cappuccio. I boccoli neri le scendevano fin oltre il bacino e avanzava con una eleganza inaudita al centro del campo, lasciando dietro di se le piccole orme dei suoi stivali. Quella stupida doveva averla scambiata per una passerella. La riconobbi a stento, il ricordo che avevo di lei si logorava agli angoli, affievolendosi lentamente nella mia mente. Il suo corpo non era più quello di una bambina ed ebbi come l’innato istinto di farle da scudo per tenerla lontano da quelle occhiate disgustose che sembravano denudarla con gli occhi. Avrebbe potuto indossare qualcosa di più decente! Per la miseria aveva tredici anni e mezzo, non poteva andarsene in giro con quella scollatura e quei pantaloni attillati come se niente fosse.
Tiziano si raddrizzò subito e si irrigidì quando Hans la convocò. La sua ira, come magma incandescente, minacciava di fuoriuscire dal cratere del vulcano. La Sire di Londra invece la incoraggiava sorridendole amorevolmente.
Si liberò del cappuccio e riversò il resto dei suoi capelli vaporosi sulla schiena mentre sfidava segretamente Hans con uno sguardo che avrebbe mandato in frantumi il vetro, ricoprendolo con le sue schegge affilate.
“Lux Omnia Vincit Siri di Betelgeuse” – disse prostrandosi a terra.
Così dicendo, aveva riconosciuto l’autorità di entrambi e stava indirettamente parteggiando per la doppia sovranità.
“Ave Leona di Siracusa, cacciatrice di vampiri. Oggi il tuo apprendistato volge alla fine. Verrai sottoposta al giudizio dei Clementissimi e se verrai considerata degna, sarai onorata del titolo di protettrice ad honorem, come premio per le tue gesta eroiche e come inizio della tua nuova vita da guerriera. Mostra dunque alla comunità il tuo bottino, poiché con le spade della luce nulla rimarrà in eterno prigioniero delle ombre”.
“Giovane cacciatrice, cosa ci porti oggi?” – le chiese Hans con malcelata sfiducia nelle sue capacità. “Guarda che capelli e unghie non hanno alcun valore”. Il tedesco rise grottescamente.
 Leona non si lasciò intimidire, districò il nodo del sacchetto di stoffa che teneva in mano e lo lanciò in grembo al su ex istruttore dimenticandosi delle buone maniere. Hans, saggiandone il peso cominciò a impallidire.
“Aprilo Hans” – gli ordinò – “non ho tutto il giorno”. Le rughe agli angoli degli occhi si raggrinzirono in risposta all’odio che provava nei confronti di mia sorella.
“Per la barba di Mayak, vuoi che ti dia una mano? Non mi sembra così difficile…” – lo punzecchiò ancora lei.
“Sta zitta pivellina!” – le urlò contro. Facendolo le aveva riempito la faccia di saliva. Non si fece alcuno scrupolo a pulirsi con la manica della sua mantellina.
“Va bene, sta calmo. A saperlo mi sarei portata un ombrello...”
“Hans che sta succedendo? Ti ordino immediatamente di aprire quel sacchetto!” – lo richiamò infuriato il Sire. Hans balbettò come un lattante ma non si poté sottrarre alle disposizioni del suo superiore e fece come gli era stato detto. La sua espressione dapprima si rattrappì  per poi esplodergli in bocca, pronto a ricacciare giù il rigurgito che quel tremendo miasma, avvitatosi su per le narici, gli aveva provocato.
Arschloch!” – inveì spazientito. Per una volta avrei fatto a meno di tradurre.
“Linguaggio!” – esclamò Leona fingendosi offesa dalla sua scurrilità. Ecco e te pareva.
“Allora?” – chiese Gomez divorato dalla curiosità dall’alto del suo palcoscenico.
“E’ una mano…” – gli aveva risposto al sire spagnolo con lo stesso scetticismo di un miscredente.
“Sì, ma non è una mano qualsiasi” – ruggì mia sorella sottraendogli il suo prezioso bottino.
Infilò il braccio nel sacchetto ed estrasse, gloriosa, quel moncherino cadaverico. Sull’anulare scintillava un anello e lei lo sollevò come un trofeo alla mercé delle gazze ladre. Lo porse con una inaspettata gentilezza ad Hans.
Adesso se lo rigirava fra le dita, sedotto dalle sue sfaccettature placcate in oro mormorando fra sé e sé: «Non è possibile».
“Non esiste peggior cieco di chi non vuole vedere. Ve lo dico io cos’è, suo Clementissimo. E’ l’anello dei sanguinari, degli adepti di Attilius”. La folla esplose, incontenibile nel suo frastuono. Tutti si chiedevano come una ragazzina avesse potuto vincere contro una di quei mostri che i nostri ranghi tanto temevano. Nemmeno io potei astenermi dallo stupore, all’idea che quelle fragili manine delicate si fossero sporcate di sangue. Leona parlò alla sua gente con calma sovraumana, scrutandoli come un angelo vendicatore.
“La vostra sorpresa mi ferisce. Non sono pur sempre un protettore? Non sono una cacciatrice tanto quanto voi? O siete voi stessi, nel vostro intimo, a non ritenervi più all’altezza del compito che ci è stato affidato? Quanti fra voi si ritengono deboli, inutili, incapaci, terrorizzati al solo pensiero di incontrare un sanguinario, convinti di soccombere alla loro presenza?
Beh, sono in errore. Noi siamo la razza, l’arma più potente che il mondo ha scatenato contro di essi, noi siamo gli anticorpi della terra pronti a debellare il virus mortale che lo infetta. Non abbiamo bisogno di nessuna miglioria, di magie e fattucchieri.
La natura ci ha resi perfetti così come siamo e io sono qui, a dimostrarvi con questo anello, che a noi nulla è impossibile, persino a una come me, poco più che una bambina direte, eppure sono sopravvissuta. No, sopravvissuta. Vittoriosa. Ognuno di voi può tornare ad esserlo. Basta nascondersi, basta litigare fra di noi quando il nemico diventa sempre più forte là fuori. Io vi dico che possiamo batterli, lo giuro sul mio onore, dovessi essere colpita da un fulmine in questo momento se sto mentendo. Sono una protettrice e io sono fiera di esserlo. E voi?”.
Si unirono tutti speranzosi, Betelgeuse e Sirio concordi come mai prima d’ora, inneggiando un solo nome: quello di mia sorella.
In quel momento pensai che lei fosse una medjai fino al midollo. Non perché padroneggiasse il potere elementale, di quello ne ero capace anch’io, ma perché sapeva sussurrare al cuore del suo popolo, servendosi dell’Akasha come se la conoscesse da sempre. Ma perché proprio adesso quel discorso? A quale scopo?
Quando tornò la quiete, Tiziano si allontanò dallo scranno su cui era accomodato e assecondò l’esultanza della folla.
“Gioiamo con te cacciatrice per le tue prodezze. Nelle tue parole dovrebbe rispecchiarsi l’animo di ogni buon protettore che si faccia rispettare, in virtu’ del suo titolo”.
Cosa? Avevano drogato la colazione di tutti quella mattina? Che stava tramando quel pazzo…
“Ma…” – ecco la fregatura – “bensì io voglia credere ciecamente alla tua buona fede, la tua proclamazione ufficiale richiede un testimone o un documento scritto che avvalori la veridicità dei fatti narrati quest’oggi”.
Per la prima volta, da quando si era esposta nell’occhio del ciclone di quella cerimonia, la sicurezza le sdrucciolò via come sabbia fra le dita.
“Sei in possesso di una delle due?”
“Garantisco io per la ragazza”. La Sire inglese si espose al cupezza del cielo plumbeo, decisa a prendere le difese di Leona. “L’ho osservata durante i suoi allenamenti e nessuno potrebbe dubitare del suo inestimabile valore di combattente e mi faccio carico del peso delle parole che sto pronunciando in suo favore”.
“Quindi, mia cara Riley, eri presente quando ha assassinato il vampiro? Hai dato tu l’ordine? Le hai accordato tu il permesso di uscire da Andromeda?”.
“Ha importanza Tiziano? La ragazza ha talento e ti dirò di più, è un'ottima candidata per intraprendere la via dei mystios.”
La Sire aveva preso gusto a marciare contro il suo collega italiano. Un punto per lei.
“Non voglio mettere in discussione la tua autorità ma qui ci sono delle regole ben precise stabilite dai sette in persona, da cui ne io ne tu potremmo mai sottrarci. Uccidere un sanguinario converrai con me che non è una cosa da poco, non possiamo prendere con leggerezza il fatto. Per di più la ragazza era sola, si è avventurata fuori senza un permesso, con i tempi che corrono” – si finse preoccupato per lei. Gomez rideva felice come un maiale che si rotola nel fango.
“Mi auguro che non sia andata così e che in realtà lei stia usufruendo del lavoro di qualcun altro…”
“Mi sta accusando di aver mentito?” – intervenne furiosa mia sorella.
Gomez non seppe più trattenersi. “Non sarebbe la prima volta ragazzina, ci sono dei precedenti, in te scorre il fetido sangue della ribellione…”. Romeo lo zittì sollevando la sua grande mano da gigante.
“Tiziano nemmeno tu hai le prove per affermare il contrario, come puoi condannarla a prescindere senza nemmeno il minimo dubbio? Quella mano, quell’anello sono autentici!” – lo aveva rimbeccato Romeo con le folte sopracciglia rosse aggrottate.
“Questo lo vedo anch’io, non sono un falso ma non credo possa essere opera sua. Sto dicendo che ha soltanto fumo fra le mani, nulla di concreto. Non può giustificarsi e dovrebbe anche essere punita per insubordinazione e oltraggio all’autorità e questo implicherebbe mesi di reclusione. Ma, oggi mi sento magnanimo perciò te la caverai soltanto con due settimane di isolamento come monito per chi come te proverà a mentire di fronte a noi. Portatela via!”.
La sovrana di Andromeda guardò colui che e le sedeva accanto come se volesse incenerirlo.
“No, fermi!” – gridò un ragazzo. Era uno di quelli che non passa inosservato, dovetti ammettere che era carino, non quanto me ovviamente, ma comunque passabile. E stava tenendo per mano mia sorella. Mia sorella. E lei glielo lasciava fare.
“Leona non era sola” – aggiunse respirando a fatica. “C’ero io con lei. Ero presente quando abbiamo ucciso il vampiro.” Sperai di averlo notato soltanto io, ma Leona era sorpresa tanto quanto le persone che stavano assistendo a quella scena. E c’era anche uno spruzzo d’istinto omicida nel suo sguardo, ma quello lo aveva sempre avuto.
“Abbiamo?” – chiese il Sire.
“Cos’è Tiziano? Vuoi mettere sotto inchiesta anche mio figlio Ethan?”. La sire ormai non conteneva più il risentimento. Mai sfidare mamma orsa.
Fu solo un attimo ma sapevo cosa avevo visto: al sire stavano tremando le ginocchia e le sue labbra si erano illividite, tanto se le stava martoriando a morsi, come se avesse di fronte uno spettro Mannan a incutergli timore. Dissimulò il turbamento impetuoso che lo avevano colto di sorpresa, trovando posto nuovamente nell’amato sedile e si rilassò nel suo schienale senza smettere di guardare il ragazzo. S’agganciò ai pomelli della sedia a forma di leone come se volesse sbriciolarli nei suoi famosi pugni di ferro, bianco al pari di una di quelle creature che lui cacciava.
“Nonostante abbia solo quindici anni” – continuò l’ignaro Ethan – “sono già passato sotto giudizio, sono un protettore a tutti gli effetti. E io sono un testimone oculare più che valido. Certo, le ho dato una mano, ma il colpo di grazia lo ha sferrato Leona. E ha tutto il diritto di rivendicare questo bottino” – aveva terminato con la voce rotta dall’emozione.
“E’ vero ciò che dice? Tuo figlio ha già conseguito il titolo ad honorem?” – chiese Romeo alla madre.
“Certo che sì, per quanto ancora pensate d’insultare me, la mia autorità e la mia famiglia?” – aveva sibilato fra i denti, il rossetto sbavato a un angolo della bocca.
“Allora non abbiamo più che discutere. Procediamo con la nomina” – stabilì il sire emerito.
Ethan si lasciò sfuggire un fremito esultante e nascose Leona dentro il suo abbraccio soffocante.
Chi cazzo era quel tizio che si poteva permettere di toccare mia sorella in quel modo? Non fui l’unico ad essere irritato da quel contatto. Fabiano si mummificò, cristallizzando la scena dentro il suo sguardo vitreo, senza il minimo tentativo di nasconderlo. Oh, oh! Finalmente il signor «sono tutto d’un pezzo» stava rosicando dalla gelosia.  
O forse era qualcos’altro?

 

NOTE DELL'AUTRICE: Mi scuso, davvero. Il capitolo mi é venuto lunghetto! Purtroppo sono entrata troppo in sintonia con il personaggio di Gabriel e ci ho preso gusto a scrivere. In ogni caso spero vi piaccia, i rapporti fra i protagonisti iniziano a farsi un po' più complicati  e qualcuno sembra avere dei segreti ;) Al prossimo capitolo!


 

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Capitolo 34
*** LADRI DI BACI ***


CAPITOLO 20 – Ladri di baci

 
POV LEONA
Gli dovevo decisamente un gran favore a quel biondino sconsiderato. La sua entrata in scena era stata a dir poco provvidenziale e forse non c’era modo di ringraziarlo a sufficienza. A quel punto, fingere di essere la sua ragazza mi era tornato utile sotto molti punti di vista. Persino la mia nuova “suocera” mi aveva difesa a spada tratta per amore del figlio. E le facce di Tiziano e Gomez! Quanto avevo goduto, davvero impagabili. L’unica cosa che mi dispiaceva di tutta quella storia, era certamente di non aver detto nulla a Morgana sul falso fidanzamento.
Noi ci dicevamo ogni cosa, sapeva persino della mia tremenda cotta per Fabiano. Ero una pessima amica, mi dovevo far perdonare al più presto ma non potevo ancora scoprire tutte le carte in gioco, dovevo resistere ancora un po’.
Sotto il getto caldo della doccia incominciai a rilassarmi facendomi inebriare dal profumo del bagno schiuma al sandalo. Nutrivo la speranza che il discorso di prima fosse andato a segno, nei cuori dei protettori. Sapevo che non sarebbe bastato a far cessare l’arruolamento volontario nell’esercito degli abomini ma almeno avrebbe potuto costituire un piccolo deterrente, per temporeggiare.
Vagabondavo per la stanza con ancora l’accappatoio addosso e mi sdraiai a letto. Chissà quando avrei potuto gustare di nuovo quelle comodità.  Una volta raccontato tutto ai miei amici, la mia vita si sarebbe trasformata in una corsa disperata contro il tempo. Forse avevo sottovalutato il forte desiderio di trovare quei ciondoli, come se ne evadesse della mia sopravvivenza. Rimuginavo più e più volte sullo stesso chiodo fisso. Districai qualche nodo col pettine e, appagata dal mio riflesso allo specchio, mi diressi al piano di sotto vestita di tutto punto per il pranzo.
Arrivata a metà strada, accompagnata dal sottofondo brontolante del mio stomaco, avvertì un formicolio fra le scapole, come se qualcuno mi stesse osservando. Gli alberi erano un mistura di verde e bianco, riuscivo quasi a sentire il loro respiro, vivo, e gli animali che trovavano dimora fra i loro rami. Anche animali piuttosto grandi come…
«La tua furtività non è migliorata per nulla. Hai sempre la delicatezza di un elefante» - lo smascherai. Lo scroscio fra le fronde si fece più evidente dopo aver stanato il nascondiglio del mio inseguitore. La sua ombra non tardò a piroettare in aria e piombarmi alle spalle.
«Invece la tua stronzaggine è impareggiabile, hai seguito un corso avanzato lì ad Andromeda?» - mi chiese Gabriel con quella arrogante espressione sorniona da schiaffi.
«Ovviamente, ma non sarebbe mai abbastanza. Non potrò mai eguagliarti fratello, tu sei in assoluto il re degli stronzi, forse ti devo una riverenza» - ammiccai facendogli la linguaccia.
«Oh sì, striscia pure a terra vipera velenosa»
«E dai, smettila di fare il cretino, ti sembra modo di salutare tua sorella?»
«Faccia da babbuino» - insistette lui.
«Falla finita se non vuoi che mi arrabbi»
«Vacca da latte»
«Ok, l’hai voluto tu» - lo minacciai con sguardo torbido e tentai di travolgerlo in una valanga di neve, ma non lo raggiunse mai. Schermandosi con un turbine di calore, Gabriel aveva vanificato il mio attacco.
«Vediamo cosa hai imparato» - mi sfidò lanciandomi per aria con una tromba d’aria. «Oh ma per piacere, è tutto quello che sai fare?». Sollevata ancora da terra, congelai le molecole d’acqua attorno a me raggruppandole in unica sfera di ghiaccio e gliela sparai direttamente alle gambe e lui rispose con una palla di fuoco. Sentivo odore di peli bruciati, non aveva ancora imparato a isolare per bene la pelle.  Gli avrei dato una bella lezione di piro-cinesi a quel presuntuoso se quella voce non avesse invocato il mio nome con quella soavità disarmante.
Per poco le gambe non assunsero la stessa consistenza del miele.
Fabiano era bello oltre ogni immaginazione, lo era sempre stato ma adesso era diventato quasi impossibile notare qualsiasi altro particolare che non fosse la sua figura snella e muscolosa.  Quella creatura così ingiustamente bella come poteva guardare proprio me? Mi si mozzò il respiro, ringraziai che non ci fosse nessun Edward Cullen a leggermi la mente, anche perché non avrebbe trovato alcun pensiero coerente.
Vidi sfavillare la gioia nei suoi occhi celesti circondati da aloni violacei. La commozione che mi suscitò fu sostituita dalla paura, paura che qualcosa in lui non andasse. Gli sorrisi comunque e una folata di vento mi colpì in pieno. I capelli volarono attorno al mio viso come a formare una criniera di ossidiana.
Giuro su Dio, non c’entravo nulla con quell’effetto scenico.
Non lo vedevo da più di un anno e mezzo ma quei pochi metri che ci dividevano non riuscivo proprio a sopportarli, ormai lui non era più solo un sogno, potevo toccarlo e non c’era nient’altro che bramassi più di quello. Perciò demolì quella maledetta distanza e raggiunsi l’oggetto del mio desiderio. Mi prese in vita e roteammo insieme fino a farci girare la testa.
Quando mi mise giù, non ero ancora sazia di quel tocco e lo strinsi più forte che potevo, tanto che i nostri petti si sollevavano con la stessa frequenza e il battito del suo cuore mi scuoteva le ossa. Il respiro caldo di Fabiano mi solleticò la nuca, infilandosi fra i miei capelli. Ci separammo quanto bastava per guardarci a vicenda e mi sentì morire alla vista della sua faccia livida come quella di un cadavere. Era inequivocabile che gli fosse successo qualcosa e quel qualcosa mi stava mandando al manicomio. Lui decifrò le mie occhiate indagatrici e distese i muscoli facciali come se finalmente si potesse permette di smetterla con quella farsa.
Mi parlò sottovoce: «Non ora». Il suo volto si era indurito, si morse un labbro e quel gesto stava per distruggere anni di autocontrollo. L’impulso di baciarlo diventò insostenibile, era quasi doloroso. Gli ormoni ovviamente non aiutavano. Dovevo distrarmi o avrei fatto qualcosa di cui mi sarei pentita.
Strofinai il naso sulla sua clavicola e inspirai forte il suo odore. Almeno quello non era cambiato. Fu l’abbraccio più strano della mia vita, i nostri corpi non si riconoscevano più, erano come due estranei che s’incontrano per la prima volta. Non eravamo più dei bambini.
«Mi…» – dicemmo nello stesso momento.
«No prima tu» – ripetemmo ancora in sincro e scoppiammo a ridere.
«Lea giù le mani dal bocconcino o il tuo ragazzo andrà fuori di testa» - mi richiamò mio fratello.
Erano alla cerimonia entrambi quindi. Fabiano mi aveva vista con lui… «E questo cosa c’entra? Non credo che salutare il mio migliore amico sia un crimine».
«Dov’è finito il tuo fidanzatino inglesino cucciolo della mammina?». Stavo valutando la possibilità di riprendere lo scontro da dove lo avevamo interrotto.
«Si chiama Ethan e non lo so, mi starà aspettando per il pranzo»
«Quindi non lo neghi!»
«Gabriel che cosa vuoi da me? Prima mi respingi e adesso te la prendi con me perché non ti ho detto…»
«Ma quella è la tua specialità no? Tenermi le cose nascoste e non solo a me, a quanto pare, visto che quando Morgana ti guarda sembra che abbia ingoiato cacca di goblin. Prima fuggi a Londra e poi torni portando un damerino come souvenir»
«Io non sono fuggita, ne avevo bisogno, l’ho fatto solo per allenarmi»
«Immagino quanto vi siete allenati…»
«Basta Gabriel. Lei adesso è qui ed è questo quello che conta. Lasciati questa storia alle spalle» - lo ammonì il nostro amico.
«Ti ho visto come lo fissavi, non dirmi che non ha infastidito anche te».
Fabiano trattenne il respiro e strinse i pugni. «Perché dovrebbe darmi fastidio, se lei è felice, lo sono anch’io. Magari se tu non l’avessi aggradita te lo avrebbe detto lei stessa». Sarebbe stato inutile ammettere che quelle parole furono peggio di una coltellata.
«Io sono tornata per te Gabriel! Dobbiamo andarcene via di qui.» - esplosi tutto a un tratto stanca di quel litigio.  «Ci danno la caccia, lo capisci? Ci vogliono morti!».
«Chi vi vuole morti?» - mi chiese Fabiano scombussolato da quella rivelazione .
«Io non lo so…» - dovetti ammettere. «Leona che è successo a Londra? Ti hanno fatto del male?». Mio fratello adesso si era avvicinato di più. Scossi la testa con le mani fra i capelli. «So che fine hanno fatto i protettori scomparsi e mi sono cacciata in un bel pasticcio».
Era tempo di rompere la diga delle mie bugie. Decisi che non gli avrei lesinato alcun dettaglio. Li aggiornai su tutto quello che era successo la notte precedente omettendo la parte in cui risparmiavo la vita a dei vampiri.
Loro ascoltarono ogni parola senza distogliere mai l’attenzione. Fui interrotta soltanto da alcune imprecazioni sconvenienti di Gabriel ma ormai non ci facevo neanche caso. Dopo avergli spiegato l’episodio degli abomini, l’angoscia di Fabiano era arrivata alle stelle e non riuscì a trattenere ciò che aveva dentro. Lui e Gabriel mi raccontarono della stanza segreta del padre, della cartella clinica di Sara e degli altri protettori, dei documenti che inchiodavano Tiziano e persino il consiglio dei sette. Le nostre storie combaciavano come pezzi di un puzzle e stavano dando forma a una fiaba degli orrori.
«Credi sia stato mio padre a ordinare di…prendere il tuo sangue?»
«Chi altri conosce la vera natura mia e di Gab?». A Fabiano quella domanda non piacque.
«E che mi dici della Padrona invece?» - chiese Gab pensieroso.
«All’inizio pensavo si trattasse della madre di Ethan ma quella donna praticamente mi adora, non mi farebbe mai del male. E’ vero che sa molto di più di quello che vuole far credere, non è innocente, ma non è lei la persona che cerchiamo. Ci metto la mano sul fuoco. Non sappiamo quanto si sia allargata la rete dei contatti per il mercato degli abomini».
«Nell’elenco dei compratori c’erano anche esseri umani fra cui l’erede di re Giorgio VI d’Inghilterra. Usano i protettori corrotti come killer perfetti che non lasciano traccia, probabilmente per eliminare la concorrenza: in politica, nel mercato mondiale, per spionaggio industriale e chissà per quali altri vili motivazioni».
«Quei documenti sono molto preziosi. Quello che stanno facendo è molto grave, non solo stanno sconvolgendo l’ordine naturale con la magia oscura delle fate, che ci è proibita, ma stanno mettendo a rischio anche la nostra segretezza. Non possono svelare la nostra esistenza agli umani. Anche se c’era il sigillo della coorte magari non tutti e sette i membri hanno a che fare con questa storia o la approvano.
Non preoccupatevi, se riusciremo ad appropriarci di quel ciondolo potremmo guarirli, gli ordineremo di riportare le cose com’erano prima che cominciasse tutta questo disastro.»
«E tu ti fidi di Attila?» - sbottò un Gabriel diffidente - «E se non esistesse? Se ti avesse preso in giro?».
«Non è un santo Gab, ma nemmeno chi ci governa ha dimostrato alcun barlume di rettitudine. Io non credo in lui ma nell’amore che nutre per sua figlia Hilde, quello è autentico. Anche la mamma ha visto qualcosa di buono in lui o non gli avrebbe dato il suo appoggio. Il mio istinto mi dice che mi ha detto la verità. Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile se dobbiamo infiltrarci nelle terre delle fate, per questo voglio coinvolgere voi e gli altri. Gli racconteremo solo lo stretto necessario, non ci sarà bisogno di caricargli un peso più grande di quello che potrebbero sostenere. Se non vorranno essere coinvolti, li capirò ma andrò avanti per la mia strada con o senza tutti voi».
«Sei un’idiota se pensi che io ti lasci affrontare da sola una cosa del genere. Hai già rischiato la pelle una volta, non permetterò che accada di nuovo». Gabriel aveva buttato giù il suo muro d’odio. Mi abbracciò come se volesse spezzarmi le ossa e in quel abbraccio riscoprì tutta la dolcezza del suo amore fraterno, la nostalgia del nostro legame, la tremenda paura che avevo avuto di perderlo e sentivo che per lui era lo stesso.
«Questo non vuol dire che ti ho perdonato per avermi abbandonato». E mi diede una testata.
«Cosa vuoi che mi metta in ginocchio?» - gli domandai massaggiandomi la fronte.
«Sarebbe un buon inizio» - disse gradendo la mia proposta.
«Scordatelo» - sentenziai.
«Ci ho provato» - e fece spallucce.
«Sai che puoi contare su di me. Mio padre ha dato inizio a questa guerra e io voglio mettergli fine». Fabiano lo disse consapevole del peso delle sue parole, trasmettendoci una autorità che forse non si era nemmeno reso conto di avere. Aveva gli occhi lucidi.
La tenerezza deflagrò dentro il mio cuore, non sarei mai potuta rimanere indifferente alle sofferenze che i suoi sensi gli colpa gli procuravano. Lo confortai poggiando il palmo della mia mano sulla sua guancia con le dita premute sulla tempia e lui si lasciò cullare.
«Sei sempre il solito Fabiano. Tu non sei come tuo padre, un giorno lo capirai e vedrai la stessa persona buona, generosa, straordinaria che vedo io».  
Fabiano puntò il suo sguardo all’orizzonte e lo sentì lignificarsi con gli occhi serrati sulla presenza opprimente alle mie spalle. Si liberò rapidamente dalla mia carezza e cominciò a tremare.
«Merda» - strepitò Gab ancora più impaurito del suo amico mentre una Marlena furibonda si avventava, per la seconda volta, sui miei poveri capelli. 
***
Marlena guardò inorridita la chiazza rossa sul petto, densa, a tratti liquida e gocciolante sul suo grembo senza poter credere che le stesse accadendo sul serio.
«Come hai potuto?» - mi chiese sull’orlo di piangere a dirotto.
«La guerra è guerra» - le dissi disponendo le munizioni una dietro l’altra. Preparai la catapulta e questa volta la polpetta di sugo le si spiaccicò in fronte. I cucchiai non servivano solo a raccogliere le brodaglie. Caterina e Gabriel stavano per avere un malore, se avessero continuato a  ridere in quel modo si sarebbero trovati presto nella tomba.
Carlotta da brava servetta tornò con un mucchio di tovaglioli e cercò di pulirla alla bene e meglio. Nemmeno la candeggina avrebbe potuto salvare il suo bel vestitino bianco, pensai orgogliosa delle mie pallottole di pomodoro.
«La uccido a quella cagna! Prima ci prova col mio ragazzo e ora questo!» - strepitò la bionda piegandosi sul tavolo da pranzo per ghermirmi la faccia.  Norman e Fabrizio la presero al volo e la bloccarono sulla sedia mentre lei scalciava come una puledra. Fabiano si era chiuso nel suo bozzolo, un malinconico baco da seta, pur di alienarsi da quella scena a dir poco scabrosa. Avrebbe potuto scrivermelo in una delle sue lettere. Perché non lo aveva fatto? Non esisteva un modo sufficientemente delicato o adatto per dirmelo, di questo ne ero consapevole. Mi avrebbe comunque ferita ma almeno avrei apprezzato la sincerità.
Cercò di trasmettermi tutto il suo rammarico intercettando i miei sguardi ma qualcosa in me si era rotto. Aveva rovinato tutto. Sfogarmi su Marlena contribuiva a lenire il mio dolore.
Fra tutte, poi, proprio lei. Aveva tutta l’aria di essere un terribile scherzo del destino.  
«Marlena datti una calmata dai. Puoi biasimare il povero Fabiano? Hai visto quanto è sexy la ragazza» - disse Ascanio disegnando la forma delle mie curve in aria - «Se non fosse già impegnata ci farei un pensierino anch’io». La provocò come se già non fosse abbastanza ammattita di suo.
«Ascanio non ti ci mettere anche tu per favore»  - lo sgridò un Fabiano allo stremo della tolleranza.
Mi esibì in un sorrisetto falso: «Pensavo che Ethan fosse il peggiore a fare apprezzamenti volgari ma a quanto pare tu ci stai mettendo i mezzi per rubargli il primato».
«Parli del diavolo…» - mormorò Morgana attorcigliando gli spaghetti attorno alla forchetta con fare assente. Come c’era da aspettarselo, Ethan con il suo intervento alla cerimonia era diventato popolarissimo, tutti volevano parlare con lui e di certo anche questa volta si sarebbe pavoneggiato col suo inimitabile fascino britannico, il suo lignaggio ovviamente non aveva che ingigantito la cosa. 
«Quelle chiappe così sode sono una gioia per gli occhi» - commentò la lussuriosa del gruppo, facendo una radiografia al fondoschiena del mio finto ragazzo come se i suoi pantaloni fossero di troppo.
Ascanio rivolse un’occhiata sprezzante a Caterina. «E menomale che ero io quello volgare…». Caterina gli dedicò un gesto che non si addiceva a una ragazza per bene.
Nel frattempo Ethan si era avvicinato al nostro tavolo col suo vassoio. «Posso sedermi con voi?» - chiese amabilmente.
Quella semplice richiesta scosse Fabiano. Il baco si era liberato dal suo involucro sericeo e adesso osservava Ethan con sguardo accigliato e sfarfallante, intrigato da ogni minima sua mossa. Il ragazzo si accorse della sua reazione e ricambiò tentennante le sue occhiate eloquenti, quasi confidenziali. Il sorriso che si tracciò sulla sua bocca, valeva più di mille parole. 
Caterina saettò via in un baleno facendogli posto fra me e lei sulla panca. Tutti lo osservarono sedersi come se fosse un animale allo zoo, come se lo facesse in modo singolare.
Avevo davvero degli ottimi riflessi, li avevo sempre avuti, eppure quando Ethan strinse le mie labbra fra le sue, non riuscì a sottrarmi a quel morso famelico. S’intrufolò dentro la bocca senza chiedere il permesso e perlustrò la mia cavità orale intrecciando le nostre lingue. Avvampai colma di vergogna e lo allontanai pacatamente, nessuno doveva accorgersi della repulsione che provavo in quel momento. Non contento mi pizzicò il lobo sussurrandomi: «Questo secondo bacio è stato ancora più dolce del primo. Soprattutto davanti la concorrenza».
Per Ethan quella messa in scena si era appena trasformata in un’opportunità per giocare con quello che individuò come il suo avversario. Aveva capito tutto, non era di certo uno stupido. Peccato che a Fabiano non andava di partecipare a quella competizione, per qualche motivo che mi sfuggiva, sembrava più interessato a lui che a me.
«Voi due prendetevi una stanza» - ci canzonò mio fratello nauseato da quell’effusione plateale.
«Tu devi essere il fratello di Lea, mi ha parlato molto di te».
«E tu devi essere quello che si fa mia sorella» - lo etichettò Gab guardandolo di sottecchi.
Gli tirai un calcio sotto il tavolo indignata dalla sua sfrontatezza.
«Non posso negare che il pensiero di farmela non mi abbia sfiorato ma sai meglio di me che non si lascerebbe toccare nemmeno con una piuma. A volte sa essere molto rigida…».
«Succede a volte a chi non sa apprezzare ciò che ha» - precisò Marlena divertita da quello scambio di battute astiose fra Ethan e mio fratello.
Norman uscì dalla sua isola di silenzio e intervenne in mio sostegno: «Potreste smetterla di parlare di lei come se non ci fosse? Leona non è un oggetto».
«Grazie Norm» - gli dissi ricompensandolo con un risolino correo. «E voi due dateci un taglio, questa conversazione non è mai avvenuta. Chiaro?» –  li intimidì puntandogli addosso un’aletta di pollo. Ne addentai un pezzo e concedetti il resto a Edna che attendeva sbavando per via del riflesso pavloviano.
«Adesso che siamo tutti, possiamo andare al dunque?» - ci richiamò all’ordine Fabrizio, il mio compagno di studi preferito, pragmatico come lo ricordavo. Non amava perdersi in chiacchere inutili. Era dimagrito parecchio e gli occhiali adesso gli ricadevano sul naso. Era dolcissimo con quei capelli arruffati.
«Già, vogliamo sapere qual è sta notizia bomba» - disse Caterina masticando con gusto il suo polpettone con la bocca aperta. La ignorai quando puntò una forchetta contro quelle due oche che ridevano a viso aperto.
Aiutata da Fabiano e Gabriel gli raccontammo lo stretto indispensabile su quanto sapevamo sugli abomini. Non mancarono le domande e le esclamazioni di stupore e panico. Alcuni come Marlena e Carlotta stentavano a credere quanto gli stavamo riferendo ma, vedendo come Fabiano mi sosteneva, cominciarono a fidarsi anche loro. Una volta convinti tutti, gli illustrammo il piano a grandi linee.
«E’ terribile…Perché non me lo hai detto ieri notte piccola?» - disse Ethan.
«Non volevo darti pensiero e poi cosa avresti potuto fare?».
«Io vi credo» - asseverò Ascanio. «Volevano tenerlo nascosto ma anche a Barcellona ci sono stati dei casi simili».
«Anche a Parigi ma le apparizioni erano sporadiche, assolutamente poco frequenti. Di certo non come Londra» - lo sostené Morgana.
«Oppure semplicemente sapevano come gestire adeguatamente la cosa» - rifletté Marlena apparentemente coinvolta dalla discussione. «Sono accuse molto gravi quelle che muovi Leona, non te la caverai con poco».
«Lo so bene, anche con le prove presenti nella cantina del padre di Fabiano non abbiamo la certezza che ci ascoltino, sanno meglio di noi come aggirare gli indizi a loro favore. Per questo lo stiamo dicendo a voi, non ho la minima intenzione di testimoniare davanti la coorte, è troppo rischioso. Non voglio che ci vadano di mezzo Fabiano e mio fratello».
«Di questo non devi preoccuparti Lea, ne abbiamo già parlato» - intervenne Gab.
«Se invece mostrassimo le prove a mio padre e al campo di Roma? Basterebbe offrire una scusa all’opposizione per mettere sotto cattiva luce la supremazia di Tiziano» - si accalorò Morgana. Fabrizio scosse la testa in completo disaccordo con la mia migliore amica.
«Più ne parliamo e più mi sembra tutta una follia. Ci sono troppe falle nel vostro piano. Sta volta sono d’accordo con Marlena, c’è il rischio che possano manipolare le prove soprattutto se anche la coorte vi ha messo le mani in pasta. E poi è fuori discussione parlare del recupero del ciondolo. Se davvero esiste, è un oggetto troppo pericoloso».
«Non per niente tu sarai la testa del gruppo, tu sei lo stratega di cui abbiamo bisogno». Fabrizio gradì le mie lusinghe. «Nessuno sa muoversi nel mondo fatato meglio di te».
«Mi avevi già convinto quando mi hai detto che sarei stato la testa del gruppo» - mi sorrise con le gote arrossate. «Quello che verrà detto qui, dovrà rimanere fra noi se vogliamo salvare il futuro del campo. E dovremmo mettere anche da parte le nostre divergenze. Giuratelo tutti». Ci impegnammo tutti a mantenere quella promessa poggiando una mano sul cuore.
«Nessun sire verrà coinvolto, né Tiziano né tanto meno Romeo. Ma per poter partire insieme dovremmo farci nominare squadrone ricognitivo, adesso siamo tutti protettori ad honorem».
«Non è troppo tardi per tirarvi indietro» - li avvisai - «vi chiedo solo nel caso in cui vi ritiraste di non farne parola con nessuno».
«Capito Ethan?» - gli domandò maliziosamente mio fratello.
«Credi che mi vada a nascondere sotto la gonnella di mia madre, eh? Sarò cresciuto senza un padre ma ho imparato a mie spese cos’è la virilità. Ti farò cambiare idea cognatino”. Gabriel produsse un verso a metà fra l’indignazione e la diffidenza. Fabiano serrò la presa sul suo cucchiaio, restituendo il brodo al piatto.
«Io ti seguirò ovunque tu andrai» - mi dichiarò fedeltà Norman.
«Il tuo arco servirà la causa Norman, ma soprattutto sarà indispensabile qualcuno che conosce bene Sirio come te. E trattandosi di Sirio…».
«Ragazza non girarci intorno, se c’è da fare casino, io e la mia lancia siamo tutte tue bambola» - mi assicurò Caterina. La ringraziai silenziosamente.
«Non guardarmi in quel modo, io verrò solo per sostenere il mio ragazzo» - disse Marlena avvinghiandosi al braccio di Fabiano. «Verrò anch’io» - si aggiunse Carlotta.
«So che non andiamo esattamente d’amore e d’accordo, quindi lo apprezzo molto».
«Tu Ascanio?» - domandò Fabiano al più dubbioso della tavolata.
«Ma sì, ci sarà da divertirsi» - si convinse lui.
Avevo dato per scontato l’appoggio di Morgana ma il suo mutismo non mi convinceva. «Morgana io…» .
«Sta tranquilla Lea. Sarò al tuo fianco, non c’è bisogno di chiedere. Le amiche non si abbandonano mai e poi voglio davvero aiutare i protettori». Le misi una mano sul dorso della sua e lei intrecciò le nostre dita.
«Adesso non si torna più indietro» - dichiarò il nostro esperto di fate.
«Questa l’ho già sentita» - mormorai assorta fra i miei pensieri. Gab inarcò un sopracciglio. A lui e Fabiano non avevo detto nulla sull’accordo vincolante…
Poi Fabrizio cominciò  a spiegare. «Tre cose dovete tenere bene a mente se volete entrare nel regno delle fate.
Primo: qualsiasi offerta di cibo o di bevanda va rifiutata, perché potrebbe provocare una schiavitù perpetua.
Secondo: se vi invitano a ballare, declinate educatamente senza pensarci due volte, o danzerete per l’eternità fino a ridurvi a un mucchio di ossa.
Terzo: non mentire, mai in nessun caso, piuttosto eludete la verità, ma che non esca una sola bugia dalla vostra bocca. Mentre ad una fata costerebbe solo qualche cicatrice, per un mortale potrebbe essere l’ultima cosa che fa in vita sua».
«Facile: niente cibo, niente balli, niente bugie» - chiosò Caterina.
«Non è così facile resistere alle tentazioni, le fate sanno come manipolare le menti» - le disse Fabrizio con un tono volutamente macabro. «La regina non ci darà udienza a tutti, alle fate piace giocare, quindi ci metterà alla prova e soltanto uno di noi potrà accedere alle sue stanze personali».
«Lo faccio io» - mi immolai.
«Non se ne parla» - intervennero Fabiano e Gabriel manco se si fossero messi d’accordo.
«Io vi ho messo in questo casino e io vi tiro fuori, chiusa la discussione. Dio, ho bisogno di zuccheri». Fabrizio mi allungò una delle tavolette di cioccolato fondente che teneva nella sua borsa. «Ti amo» gli dissi e senza fare complimenti me la cacciai in bocca, godendomi il gusto del cacao puro che mandava in visibilio le mie papille gustative. Marlena mi fissò ripugnata.
«Che cosa guardi? Ho bisogno di mangiare schifezze quando sono nervosa, ok?»
«Tranquilla piccola, nessuno ti giudica qui» - disse un Ethan mieloso accarezzandomi la testa.
«Che tipo di prova richiederà la Regina?» - chiese Norman.
«Scommetto che sarà qualcosa di pericoloso» - disse Ascanio rilassandosi con le mani allacciate dietro la nuca. L’idea lo stuzzicava molto. Marlena si legò ancora più forte a Fabiano.
«E come credete di entrare nel regno di Delilah? Bussando alla sua porta?» - domandò Carlotta con un sarcasmo di cui non la facevo capace.
«Carlotta ha ragione, l’entrata principale del campo Sirio sarà disseminata di guardie. Anche se siamo in buoni rapporti con i fatui, come spiegheremo la nostra presenza lì?» - la sostené Morgana mentre risucchiava uno spaghetto con un sibilo serpentino.
Caterina e Norman si scambiarono un’occhiata d’intesa. «E chi ha detto che entreremo dalla porta principale? C’è sempre l’entrata di servizio» - disse Caterina grattandosi il cespuglio riccioluto.
«La tana del bianconiglio» - ci annunciò Norman tutto soddisfatto. 
«La cosa si fa interessante». Ascanio adesso impazziva letteralmente dalla curiosità.
«Al campo Sirio esiste un sorta di entrata invisibile agli occhi di qualsiasi creatura al di fuori di noi protettori. Nessuno sarà lì ad aspettarci perché gli unici a conoscerla eravamo soltanto noi abitanti di Sirio, nessun’altro Sire ne era al corrente».
«Brutti figli di una gargoyle. Mi piace!» - esclamò Gabriel. 
«Non vi fidate troppo del ricordo che avete della vostra vecchia casa. L’arredamento potrebbe essere un tantino diverso. Il campo non avrà più la sua antica funzione, lo avranno trasformato in un raths a tutti gli effetti. Niente di ciò che vedremo potrebbe avere senso, quindi cercate di non dare di matto. Una volta capito dove si trova il ciondolo di Frieda dobbiamo dileguarci in fretta». Come avrei fatto senza il mio Fabrizio?
«Adesso dobbiamo solo farci affidare una missione» - riflettei.
«A quello posso pensarci io. Mio fratello lavora all’ufficio di assegnazione, non sarà difficile procurarmi un mandato» - ci informò Marlena.
«Grazie Marlena, è fantas…» Si mosse più veloce di un serpente assonagli che azzanna la sua preda. Il coltello si conficcò al centro del mio piatto, fendendolo in due. La posateria d’argento trapassò anche il legno del tavolo, scintillando alla luce del neon. I suoi occhi verdi si infiammarono d’odio intenso.  «Ti ho detto che non lo faccio per te». Io rimasi impassibile e presi atto che nemmeno quella missione avrebbe potuto cancellare l’acredine che c’era fra noi.
«Che cosa le è preso alla bionda?» - domandò esterrefatto Ethan.
«Oh no, ci risiamo» - si lamentò Gabriel.
«Marlena, ti prego…» - la implorò il suo ragazzo.
«No Fabiano, non sta volta. Vuoi sapere cosa mi è preso? Perché non lo chiedi alla tua fidanzata perché sono così incazzata»
«Per le polpette di…sugo?» - tirò a indovinare lui chiedendo conferma a tutti i presenti. Loro fecero finta di nulla. Marlena gli prese il mento e lo avvicinò a una spanna dal suo viso.
«Perché quella troietta della tua fidanzata non sa tenere le mani apposto. A quanto pare non le basta un uomo solo, si annoiava la poverina».
«Marlena ti abbiamo già spiegato che fra me e Fabiano non c’è nulla, falla finita una buona volta».
«E mai ci sarà nulla. Noi siamo promessi, cerca di ficcartelo in quella testolina che ti ritrovi. E d’ora in poi ti proibisco di parlargli, stargli vicino, di guardarlo anche solo per un attimo se non sotto mia stretta vigilanza, visto che le circostanze non mi consentono di dettare regole più drastiche».
«Adesso non esagerare Marlena, Leona non ha fatto nulla di male. Lei è la mia migliore amica  e non hai il diritto di impormi tutti questi obblighi, ma soprattutto non ne hai bisogno. Io sto con te e non ci sarà nessun’altra fra noi». Adesso ci guardavano tutti, persino il Sire, da un tavolo lontano aveva sollevato la testa dal suo pasto.
Fabiano le cinse la schiena e le accarezzò il braccio fino a posarsi sul dorso della mano che impugnava il coltello. Con una lieve pressione la invitò a mollare la presa e tornarono a sedere sulla panca una di fronte all’altro. Lui fece scorrere le dita fra le sue ciocche dorate, la avvicinò a sé e le loro labbra si fusero in una cosa sola. La baciò con trasporto impetuoso ma allo stesso tempo fu soffice  e delicato, come se stesse maneggiando un bicchiere di cristallo. Marlena gemette fra le sue labbra e lo smeraldo delle sue iridi si velò di desiderio. Si lasciò andare alla passione e si slanciò verso il ragazzo prendendolo per il colletto della maglietta. Le loro bocche continuarono a danzare l’una sull’altra celando il gioco delle loro lingue agli occhi di noi increduli spettatori, fino a che non gli mancò l’aria. Lei si appoggiò alla sua fronte e i loro sguardi si isolarono dal resto del mondo ansimando affaticati.
Soltanto una persona in quel tavolo avrebbe potuto capire in quale terribile inferno mi avesse gettato quel bacio, costretta a patire per mille volte l’indicibile dolore di un tizzone ardente che marchia la pelle nel suo calore rovente, la rabbia irrefrenabile di fare a pezzi tutto quello mi circondava.
Ascanio sembrò udire il mio richiamo di straziante sofferenza e mi concedé un sorriso artefatto, ma pur sempre comprensivo, perché noi non potevamo dar sfogo alla devastazione che avevamo dentro. Le sue unghie scorticarono il legno in profondità, alla ricerca di chissà quale rimedio o scappatoia, ricoprendosi di gocce vive e scarlatte. 
 «Cos’è la sagra dei baci? Siamo invitati tutti? Morgana dobbiamo adeguarci alla maggioranza…» - s’impicciò mio fratello lanciando alla mia amica un’occhiata piuttosto significativa. Per poco la povera Morgana non sbuffò vampate di calore caldo dalle orecchie come i personaggi dei cartoni animati. Caterina gli fece segno di darci un taglio, decapitandosi per finta la testa. «Io ho ancora fame, voi non avete fame? Vado a prendermi una mela» e la rossa scomparve dalla nostra vista in un fruscio d’abiti.
«Mi sa che questo era un no» - constatò Gabriel visibilmente confuso dall’atteggiamento della nostra Carotina. Fabrizio e Norman lo lasciarono cuocere nel suo brodo quando lui provò a chiedere delucidazioni in merito.
«Io non ho più appetito». Anche Ascanio si alzò da tavola e s’intascò la mano ferita per non esporla ad occhi indiscreti. «Vado a casa a preparare l’occorrente per il viaggio».
Osservandolo in tutta la sua altezza mi ricordò una montagna. Era davvero cresciuto a dismisura quell’anno e incuteva un certo timore. Raccolse velocemente le sue cose e si defilò in gran carriera  senza degnarci di un saluto. Fabiano lo tenne d’occhio con una strana espressione corrucciata. «Ascanio, aspetta!» scattò in piedi e si lanciò all’inseguimento dell’amico che aveva quasi raggiunto l’uscita della sala da pranzo. I due cominciarono a discutere.
«Ma che sta succedendo? Sapevo che qui non mi sarei annoiato ma questo va oltre ogni aspettativa. Avete mai pensato alla terapia di gruppo?» - ci stuzzicò Ethan.
«Amico mio, nemmeno la migliore terapista riuscirebbe a risolvere questo casino» - si pronunciò Gabriel con un inappropriato spirito cameratesco.
Quei due ciarlarono per un bel pezzo con Norman e gli altri fino a quando qualcosa, uno scampanellio fragoroso di porcellana, sconvolse la loro chiacchierata. Mi girai subito verso la sorgente di quel trambusto per trovare Morgana a terra con il brodo che le inzuppava i vestiti. Le insudiciava i capelli, le colava dalla tempia, gocciolandole lungo il mento. La mela, rossa come il viso, non le era ancora sfuggita dalle mani. Un ragazzo con i capelli corti, anonimo e scheletrico, se la rideva con la sua amica brunetta con ancora il piatto rovesciato, sospeso sopra la testa di Carotina. L’ondata d’ira che provai fu a dir poco indescrivibile.
«Guarda dove cammini rossa» - disse con stizza il ragazzo e latrò con la sua compagna e il resto della sua combriccola d’imbecilli. Indossavano tutti indumenti scuri e una fascia rossa con lo stemma dei cacciatori di vampiri.
Gabriel, sull’orlo di una crisi nervosa, stava per gettarsi nella mischia ma lo fermai appena in tempo, aiutata da Ethan.
«Maledetti coglioni, sta volta li faccio a pezzi!» - si sgolò Gabriel con le vene pulsanti sulle tempie.
«Ma chi diamine sono quei bambocci?» - chiese Ethan insofferente alla vista di quei bastardi.
«Quelli sono i nuovi membri d’élite scelti da Tiziano in persona. Non dargli corda, sono solo dei stupidi presuntuosi che si credono meglio di chiunque altro qua dentro. Pensano di essere intoccabili e privilegiati per via di chi li protegge» - spiegò Fabrizio anche lui chiaramente infastidito dalla loro esistenza.
«Se la prendono sempre con noi del campo di Roma perché ci siamo schierati contro il loro clementissimo e perciò non meritiamo alcuna indulgenza da parte loro» - aggiunse impaurito Norman - «ovviamente non hanno mai preso di mira Caterina. Di lei hanno fin troppa paura».
«Che ci provino» - disse la mia amica con la pelle color caffelatte.
«E perché prendersela con Morgana, lei non fa parte di Sirio!».
«Ma è figlia del loro capo, a loro non interessa da che parte stia. La disprezzerebbero in ogni caso» - disse Marlena come se fosse una cosa facilmente intuibile.
«Tu ne sai qualcosa, vero Marlena?».
«Con te era diverso, anche allora stavi invadendo il mio territorio e io difendevo solo i miei confini. Io non ho niente a che fare con quei babbei, non saprebbero nemmeno lontanamente essere come me» - grugnì la biondina.
Intonando ancora quel coro di derisione, tornarono ai loro posti lasciando la mia amica sola con la sua umiliazione.
«Ti sembra il momento di farsi i capelli, Braveheart?» - mi chiese quando già avevo completato la mia acconciatura.
«Allacciate le cinture ragazzi!» - proruppe Ethan consapevole di quello che stava per accadere. Feci cenno a Caterina. Lei colse al volo le mie intenzioni e, dopo aver aiutato Morgana a rialzarsi, ci indirizzammo silenziose al tavolo degli stronzetti di Tiziano parandoci davanti a loro.
Il ragazzo si ricacciò il riso in gola e  ci perlustrò da cima a fondo senza camuffare la malizia nei suoi occhi.
«Scusa dolcezza, potresti farti più in là, mi fai ombra».
«Non preoccuparti tesoro, sarà rapido e veloce». Presi il vassoio ancora pieno della sua amichetta con i denti da castoro e glielo svuotai addosso. Con la faccia imbrattata di un composto eterogeneo di ingredienti vari, cominciò a surriscaldarsi ruggendo fra le labbra.
«A chi tocca pulire?» - li provocò Caterina.
«Ma che cazzo credete di fare? Lo sapete chi sono io?».
«Oh perdonami, pensavo che castorina avesse finito e stavo buttando tutto nella spazzatura».
La ragazza risentita dal mio nomignolo mi urlò contro: « A chi hai dato della castorina, stronza!».
«Abbassate la cresta coglioni» - ci aveva raggiunti Marlena - «solo io li posso bullizzare, sono stata chiara? Chiedete scusa a Morgana immediatamente».
«Brutte figlie di…». Gli ammaccai la faccia sul tavolo e quell’incontro gli costò qualche dente. Lo presi per la nuca e gli ridomandai: «Non ho sentito le tue scuse, potresti ripetere?».
«Fottiti» mormorò il poveretto con la faccia gonfia come un pallone. A quel punto mi rivolsi direttamente alla mia amica che gorgogliava come una caffettiera.
«Morgy, rispedisci a casa il dottor Jekyll, qui abbiamo bisogno di Hyde».
***
«Eravate le quattro amazzoni più cazzute della terra!» - garrì un eccitatissimo Ethan.
Sul far della sera, il freddo artico si inasprì mugghiando fra le montagne rosse, ingioiellate dal luccicore del tramonto riversatosi sulle sue vette. Ethan, da impeccabile Gentleman, mi accompagnò, prendendomi sottobraccio, al dormitorio femminile, perseverando con le sue domande scomode suoi miei compagni di Betelgeuse.
«E’ lui vero? Il figlio del Sire. Il ragazzo che tiene prigioniero il tuo cuore». Ethan lo chiese guardando dritto davanti a sé. Eludere il suo intuito era una partita persa in partenza.
«Non dovrai più preoccupartene a quanto sembra».
«Non mi piaceva il modo in cui mi guardava, come se mi conoscesse. Mi ha spaventato». E chi non se ne era accorto. Dopo quello che mi aveva fatto, come potevo starci ancora dannatamente male? Perché non riuscivo ad odiarlo? Mi tornava in mente solo la costernazione nel suo volto, lo sguardo addolorato e privo di alcunché sentimento benevolo, come se gli avessero sgomberato lo spirito di tutto ciò che lo aveva reso felice un tempo.
«Buonasera miei cari» - ci salutò la versione invecchiata di Fabiano ibernandoci col gelido ghiaccio  delle sue iridi scolorite. Il sire sembrava particolarmente di buon umore, si era persino sforzato di rivolgerci un sorriso, di cui avrei fatto benissimo a meno. Mia nonna mi diceva sempre che quando il diavolo riversa le sue lusinghe su di te, é perché vuole strapparti l’anima. E io non mi sarei mai lasciata affascinare dall'uomo che desiderava eliminarmi.
«E’ un bella serata per una passeggiata non credete?». Fu la sua aborrente gentilezza a darmi i brividi, non il vento che s’insinuò dentro le maniche del giubbino.
«Sì signore, ma stavamo per rincasare» - rispose educatamente Ethan.
«Allora non ti dispiacerà prolungare la tua escursione ancora per un po’. Gradirei scambiare qualche parola con te».
«Certamente clementissimo, lasci che la accompagni fino…».
«Sono sicuro che la tua incantevole fidanzata sappia raggiungere il suo dormitorio anche da sola. Adesso è una cacciatrice, non teme il buio né la solitudine».
«Come darle torto, suo clementissimo. La sua tempra è più forte dell’acciaio e sono felice di potere affiancare una creatura così stupendamente temeraria».
«Allora vi lascio soli, mi ritiro nella mia stanza, sono piuttosto fiacca. Con permesso suo Clementissimo» - mi congedai.
«A presto signorina Braveheart».
Prima di andare, baciai Ethan sulla guancia e gli raccomandai all’orecchio di non abbassare la guardia con lui.
Il sole era accucciato e ampio all’orizzonte, ma non così lontano da non poter scorgere nella vampa della suo semicerchio infuocato, le loro figure annerite che si confidavano segreti indicibili. Mi allontanai da loro pregando che non accadesse nulla al ragazzo che quel giorno mi aveva salvata dall’isolamento.
Il dormitorio si infagottava fra i boschi imbiancati dalla neve. I rami degli alberi non riuscivano ancora a scrollarsela di dosso. Qualcuna dentro aveva acceso una radio, rigorosamente rubata dal mondo degli umani, sintonizzandola su un canale che dava vecchi successi. Immaginai le mie compagne ballare a piedi nudi sul materasso, cantando a squarcia gola il ritornello delle loro canzoni  preferite, scambiarsi i rossetti fra di loro e a fantasticare sui ragazzi più belli del campo. Almeno a loro gli era stato concesso qualche giorno in più di spensieratezza giovanile. Io non avevo nemmeno la certezza di cosa ne sarebbe stato di me la settimana successiva.
«A cosa stai pensando? Vuoi riverniciare la facciata del dormitorio? Nemmeno a me piace un granché».
«Non mi dispiacerebbe tingerla d’azzurro» - come gli occhi di Fabiano, avrei voluto aggiungere, ma lo tenni per me. «Allora ti è sempre piaciuto».
A quell’esclamazione insolita e personale mi voltai e per poco non mi venne un colpo. Dov’erano le mie spade quando servivano.
«Tu, tu… io ti conosco! Che cosa ci fai qui? Come hai fatto ad entrare. Dove ti ho già incontrato?».
Il ragazzo alto, dal fisico asciutto e statuario si scollò dal muro e sollevò le braccia in alto in segno di resa. «Non voglio farti del male» - mi rassicurò. Indossava gli stessi jeans strappati a vita bassa, la stessa identica felpa arancione con la zip, aderentissima, che gli metteva in risalto i pettorali e le braccia tornite. Lessi il logo con la scritta gialla della sua maglietta rossa: Bazinga. Doveva essere il nome della setta a cui apparteneva quello strano individuo che non poteva nemmeno permettersi un paio di pantaloni decenti.
Calzava ai piedi delle insolite scarpe di tela che non avevo notato la prima volta.
«Abbassa quel cavolo di cappuccio, voglio vederti in faccia».
«Non posso, è rischioso. Non dovrei nemmeno essere qui». Non trovai nessun aggettivo adatto a descrivere le sensazioni che la sua voce mi comunicò. Fu come se avessi dovuta conoscerla meglio di chiunque altro, eppure era la prima volta che l’ascoltavo.
Provai a riflette con più lucidità. Se non avesse avuto sangue di protettore in corpo, non sarebbe mai riuscito a oltrepassare la barriera del campo e questo bastò a rasserenarmi un po’. Ma dov’era il marchio?
«E allora che cosa vuoi da me? Adesso ricordo…tu eri lì, durante l’incendio, il giorno che i miei genitori sono stati assassinati».
Il ragazzo piombò in un baratro di tristezza. «Mi dispiace, io non ho potuto salvarli…non potevo sconvolgere l’equilibrio degli avvenimenti più di quanto non lo sia già. Certi destini non possono essere cambiati, è la regola dei paradossi temporali». Stava…piangendo?
«Ma di che diamine stai parlando?»
Cadde in ginocchio in preda a un dolore che parve squarciargli il ventre. Strofinò la manica della felpa sul naso e si macchiò di sangue.
«Ascolta…» - si bloccò di colpo per correggere il nome che stava per sputare fuori come spinto dalla forza dell’abitudine - «…Leona. Il tempo sta per scadere, non resisterò a lungo. Sono qui per riferirti un messaggio» - mi passò un pezzo di carta ripiegato su se stesso. «Potresti aprirlo anche adesso se volessi ma non avrebbe nessun significato il suo contenuto in questo momento. Aprilo quando Delilah ti metterà alla prova e ti prego di farlo ad ogni costo o non sarà la tua sola esistenza ad essere messa a rischio». Le sue sofferenze non accennavano a cessare.
«Come faccio ad essere sicura che vuoi aiutarmi?»
«Ma quanto sei testarda e pensare che col passare degli anni non farai che peggiorare! Chi credi abbia detto a zio Edward dove ti trovavi? Non saresti sopravvissuta senza il suo aiuto e quello di zia Alice e zio Jasper, gli Abomini ti avrebbero uccisa».
«Zio Edward? Sei il nipote dei Cullen?». Lui sbiancò. Aveva parlato troppo.
«Li avresti dovuti conoscere molto tempo dopo ma ho dovuto cambiare il passato o sarebbe andato tutto perduto…non potevo permettere che tu morissi» - disse soffocando un singhiozzo atroce.
«Tu conosci me, ma io non conosco te. Sei un viaggiatore del tempo, non è vero?».
«E’ la mia abilità vampirica, sì. Lo sono solo per metà se te lo stai chiedendo».
«Voglio sapere il tuo nome».
«A cosa ti servirebbe?»
«Così quando nel prossimo futuro ti rincontrerò, mi ricorderò di te».
«Noi non ci siamo proprio incontrati. Ma fa lo stesso, non credo che questo possa sconvolgere la linea temporale più di tanto. Promettimi però che farai come ti ho detto». Glielo giurai su ciò che avevo di più caro: mio fratello Gabriel.
«Mi chiamo Noah». Il suo nome mi dette i brividi, mi scosse nel profondo e mi riscaldò il cuore.
«Noah» - ripetei il nome dello sconosciuto sigillandolo nella mia mente - «mi piace molto» - dichiarai infine.
«Adesso devo andare. Sta attenta a chi ti circonda, qualcuno dei tuoi potrebbe tradirti» - mi profetizzò. «E per favore tieni d’occhio quel combina guai di Gabriel» - lo disse con un sorriso che la sapeva lunga. Il sorriso si spense quando i dolori lo lasciarono trafelato e stillante sangue scuro dalla bocca. Lo soccorsi come spinta da un istinto innato, come se il mio corpo non mi avesse concesso  altra scelta.
Lo sfiorai solo con un dito. Un tocco leggero, quasi intangibile, appena accennato. E ne rimasi demolita, distrutta in mille pezzi. Il mondo cominciò a danzare, a tingersi dei colori più belli e brillanti come non li avevo mai visti, come un cieco che apre gli occhi per la prima volta.
Amore puro e incondizionato, nella suo forma più primordiale. Un amore ultraterreno, trascendentale, così forte da rendere insignificante qualsiasi altro sentimento umano, qualcosa che non avevo mai provato in tutta la mia vita. Dopo quell’attimo, l’unica cosa che desiderai  fu quella di interpormi fra Noah e il suo dolore, proteggerlo col mio stesso corpo da ciò che gli stava facendo del male. Le mie braccia si mossero sole e lo cullarono, poggiando la sua testa sul mio grembo. Lui mi sussurrò un “grazie” prima di diventare incorporeo, trasparente, senza lasciare nessuna traccia della sua esistenza. Tutto quello che rimase di Noah fu il vuoto e una parola, rimasta lì, sospesa fra il passato, il presente e il futuro, risuonando a tratti nelle mie orecchie.
Mamma.
Decisi che mi ero sbagliata, avevo sicuramente sentito male per effetto della distorsione temporale o di qualche stramba suggestione. Quel titolo non mi apparteneva, ma mi aveva comunque colmata di una dolcezza che forse non ero ancora pronta a comprendere fino infondo.  
 

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Capitolo 35
*** UN ASCIUGAMANO DI TROPPO ***


Capitolo 21 – Un asciugamano di troppo

Palpitai quando, rigirandomi senza pace dentro la trapunta verde acqua, mi sfregiai  accidentalmente la caviglia contro quella crudele lama tagliente, nata dal frammento meteoritico di una stella cometa, glaciale come il suo nucleo. E le fui grata perché mi aveva salvata da un mondo fatto di incubi e mostri urlanti.
La kopis doveva essersi attorcigliata fra le lenzuola, insieme alla sua altrettanto fredda gemella, mentre mi crogiolavo fra le braccia di Morfeo. La stessa spada che aveva disseminato la morte fra i boschi di Londra, col favore delle tenebre, soltanto la notte prima. 
Perle di sudore scivolarono giù, delineando i contorni della mia mascella, affollandosi sul mento.
Qualcuno aveva messo il riscaldamento a palla, ecco spiegate tutte quelle chiazze acquose sparse un po’ da per tutto sulla camicia da notte.  
Avevo già il nastro pronto, attorto sul polso, e intrecciai i capelli appoggiando il capo sul soffice capezzale del letto. Qualche boccolo fuggì dispettoso dalla treccia ma, d’altra parte, avevano sempre fatto ciò che volevano, erano indomabili. Il caldo mi stava soffocando.
Le mie mani slittarono sul copriletto alla ricerca delle mie compagne di battaglia, delle loro else metalliche, con la speranza di trovare refrigerio da quel contatto, libera di essere soltanto la ragazza psicopatica che condivide il suo giaciglio con le spade.
Esse istituivano un dualismo simbolico di salvezza e distruzione, di vita e morte, se eri abbastanza cinico da pensare che una vita valesse più di un’altra.
Una spada aveva il potere di far tramontare regni, di vincere guerre, di giustiziare il crimine e liberare città dall’assedio e dalla schiavitù e non potei non ammirarne la loro sottile bellezza, la sicurezza che m’infondevano, la serenità nel saperle accanto a me anche quando riposavo le membra.  
Ma gli incubi riaffiorarono dal loro buco nero, strisciando fra i miei pensieri, rivitalizzando le paure che avevano tormentato il mio sonno. E per quello non c’era rimedio, nemmeno le spade mi avrebbero difesa, perché non puoi combattere ciò che è invisibile. Non puoi proteggere chi ami di più al mondo da quello che non riesci a vedere.
La mantellina si trovava scomposta sul divanetto vicino la cassettiera, gli scarponcini accanto la testiera. Mi bastò solo un attimo di debolezza a far cedere il buon senso, il letto ormai non era che un rovo di spine di cui mi dovevo liberare, quella finestra restava in attesa, complice della mia fuga.
Scalare gli edifici ormai era diventata una abitudine quotidiana a cui era difficile rinunciare. Il dormitorio maschile non era molto distante dal nostro, dovevo attraversare solo un breve tratto di verde.
Gravitavo appesa al cornicione, rimirando la breccia fra le ante, disposte a regalarmi una concreta possibilità d’infiltrazione. Dalla sua stanza si propagava un chiarore miracoloso e abbagliate, come se al suo interno avesse custodito i cancelli del paradiso. Considerai l’idea di bussare ma non ne vedevo il motivo, mi bastava sapere che fosse sveglio, così mi arrampicai fino a destinazione ed entrai chiudendo la finestra una volta dentro.
Per essere un ragazzo era davvero ordinato, soltanto il letto a una piazza e mezza era sfatto, probabilmente perché anche lui aveva avuto un sonno disturbato. I libri erano riposti negli scaffali, ordinati per colore e grandezza, e sul comodino c’era un bicchiere d’acqua mezzo pieno, una abatjour in pendant con la tappezzeria,  ma non un solo filo di polvere.
Al centro della scrivania aveva lasciato una lettera col sigillo già aperto, un po’ ingiallita, forse perché datata. Non ci sarebbe stato nulla di strano se non avesse scaraventato la sedia a terra, cosa che mi fece temere che non fosse dell’umore giusto per una visita così inaspettata.
Ebbi appena il tempo di sentire lo stridore di un rubinetto che si avvita su se stesso, poi Fabiano aprì la porta del suo bagno in camera e ne uscì accerchiato da una coltre di vapore acqueo.
Colpita e affondata in un solo colpo.
Dapprima le orecchie andarono in fiamme, ma ben presto l’incendio divampò in tutto il corpo raggiungendo zone sconosciute e proibite. I migliaia di puntini neri che danzarono davanti ai miei occhi, annebbiandomi la vista, preannunciarono il mio imminente mancamento.
Il vapore si sparse in tutto l’ambiente e mi concesse una vista panoramica sul torso glabro ed erculeo del mio migliore amico. Il pensiero che lo avessi davanti a me completamente nudo con una sola asciugamano a cingergli i fianchi, fece inceppare il mio povero cuore che aveva preso a battere sulla cassa toracica col frastuono di un martello pneumatico.
Quegli occhi tremendamente azzurri si serrarono su di me, spalancati per lo sbalordimento. Non si aspettava di trovarmi lì a fissarlo come una deficiente. Adesso che erano umidi, i suoi capelli castani sembravano più lunghi e si avvinghiavano sul suo viso straordinario come i tentacoli di un polpo dalle punte gocciolanti.
La sua pelle bagnata era uno spettacolo. Le gocce d’acqua, come piccoli diamanti, gli irroravano il petto, gli addominali scolpiti, s’insinuavano viziose in ogni piega del suo corpo e tagliavano il traguardo sul suo bassoventre incontrando l’asciugamano bianco che le assorbiva come una spugna. Altra vampata di calore.
Non si poteva pretendere nient’altro da lui, aveva raggiunto la perfezione assoluta.
 A quel punto il paragone fra di noi era d’obbligo: camicia bianca da notte sgualcita, mantellina di lana della tenuta di combattimento, capelli scarmigliati ad hoc, perfetti per ospitare una famiglia di avvoltoi. Avevo il sex appeal di un bradipo.
«Leona?»
Ero così irriconoscibile da doversi accertare che fossi io? Afferrai il bicchiere dal comodino e lo trangugiai in una sola sorsata. Respirai a fondo. Isola le emozioni Leona!.
«Cosa ci fai qui? Sei entrata dalla finestra?» - mi domandò più sconnesso di prima, non ancora del tutto convinto che fossi lì in carne ed ossa. Poi si girò attorno palesemente imbarazzato dal disordine della sua stanza, credo. Rimise la sedia al suo posto anche se tutte le sue energie mi parvero focalizzarsi sul foglio di carta spiegazzato sopra il tavolo alla sua sinistra e tornò a guardarmi, un po’ più rilassato adesso che le faceva la guardia.
Pensava davvero che non me ne sarei accorta?
«Mi sembri deluso. Aspettavi qualcun altro? La tua Promessa ad esempio?» - insinuai aculeata come il pungiglione di un’ape regina.
«Marlena non viene mai qui. Specialmente di notte» - rantolò con una lieve tintura rosata appena sotto le borse livide che gli incupivano gli occhi. 
«Ah, ah. Certo. Pensavo solo…». Mi augurai che la mia allusione fosse abbastanza esplicita. Non capitava spesso di perforare l’armatura che si era costruito con tanta dedizione. Adesso le chiazze rosse gli risalivano lungo il collo. «Noi non…» - incespicò l’innocente.
«Tranquillo, non voglio un resoconto dettagliato di quante volte lo fate». Come si poteva  non amare alla follia un ragazzo che arrossiva di fronte a una riferimento al sesso?
«Perché sei venuta?» - chiese mentre la pozzanghera ai suoi piedi si espandeva a macchia d’olio. Il suo tono di voce mi incise come un coltello.
«Io non lo so, ho avuto la forte sensazione che tu avessi bisogno di qualcuno, che la solitudine ti stesse facendo soffrire. Ma forse mi sono sbagliata…».
«Anch’io ti stavo pensando». Ero già pronta ad aprire la finestra  quando strascicò fuori quella frase quasi sorpreso da se stesso. Si toccò un braccio, spremendolo come un’arancia. Si stava infliggendo quella che considerò una meritata punizione. «Sono felice che tu sia tornata per Gab» - aggiunse giustificando la sua equivoca premessa. Gli scappò la caricatura di una risata. «Se sapesse che ti trovi nella mia stanza…».
«Sappiamo che Marlena è stata sempre gelosa di me. Ma ha motivo di esserlo? Dopo lo spettacolo di oggi, non credo proprio».
«Avrei dovuto dirtelo, lo so» - proferì senza alcun timore.
« E perché avresti dovuto? Non voglio impicciarmi negli affari tuoi».
«Nemmeno tu però hai detto niente su, su…Ethan» - lo disse come se quel nome fosse impronunciabile.
Mi aveva colta in flagrante con le mani nel barattolo di miele.
«Non cambiare discorso».
«Gab aveva detto che ti saresti arrabbiata… ma non ne capisco il motivo».
«A me sembra che a mio fratello piaccia parlare un po’ troppo» - tuonai fuori controllo. Mi massaggiai le palpebre. Fabiano si appoggiò alla sedia, preoccupandosi di non lasciare scoperto ciò che aveva dietro.
«Da quanto tempo?».
«Dall’estate scorsa».
«Caspita, hai omesso il dettaglio del fidanzamento giusto un paio di volte nelle tue lettere». Non riuscivo a sopportare nemmeno io stessa il sapore del mio aspro sarcasmo. «Non sapevo nemmeno che ti piacesse» - dissi accomodandomi sul suo piumone ingarbugliato.
«Mi piace» - si sbrigò a chiarire. Preferì nascondere la mia espressione martoriata, ma non sapevo per quanto a lungo avrei continuato a mentire. «Immagino che tuo padre non c’entri nulla con questa storia, dall’altra parte è stato troppo impegnato a sguinzagliarmi contro un manipolo di assassini».
«Lui mi aveva promesso che non ti avrebbe fatto del male…».
«Beh adesso sai dove ti puoi infilare le sue promesse! Cristo…scusami non so che mi prende. E’ che quando ti vedo ridotto così vado fuori di testa».   
«Così come?» - chiese quasi mi stesse supplicando. Si era persino dimenticato l’ostaggio cartaceo che stava accuratamente proteggendo e si venne a sedere accanto a me, talmente vicino da riuscire a percepire il calore emanato dalla sua pelle nuda. Non lo avevo mai visto per così tanto tempo senza una maglietta addosso, non era facile mantenere la concentrazione.
Fu spontaneo allungare le mie mani sul suo viso bagnato, scrutandone ogni sfaccettatura. Gli scollai i capelli dalle guance e glieli raccolsi dietro le orecchie. Fabiano dal canto suo giocò con i ciuffi sfuggenti di quella che una volta avrebbe potuto definirsi treccia.
«La mia raperonzolo…» - sussurrò ridendo. Non potei assecondarlo, ero troppo impegnata a studiare le sue lividure.
Tutto di lui gridava “malsano”. Occhiaie scure, carnagione ingiallita, labbra secche…Lui abbassò le palpebre sugli occhi quando con il pollice gliele accarezzai delicatamente. Si dischiusero al mio tocco e soffiò fra i denti. Il suo respiro mi inebriò mandandomi in confusione. Il peggio venne quando l’azzurro fatale dei suoi occhi si fece umido.
«Che cosa ti succede Fabiano? Hai la minima idea di quanto mi faccia stare male vederti ridotto a uno straccio. Quasi non ti riconosco. Mi spieghi come fai a nasconderlo così bene? Come fanno gli altri a rimanere indifferenti di fronte a tutto questo?».
«Forse perché a nessuno gli importa davvero di me» - disse sollevando un angolo della bocca.
«A me importa» - dichiarai come se non ci fosse nulla di cui fossi più sicura al mondo.
«Nessuno può permettersi lontanamente di essere come te o avere la tua sensibilità».
«E’ per il fascicolo di tua sorella, non è vero? Deve essere stato terribile, non posso nemmeno lontanamente immaginarlo».
«Sara era già morta, il come ormai non ha più importanza». La freddezza con cui lo disse mi fece paura.
«Certo che ce l’ha!».
«Tu eri sola. Sei stata costretta ad uccidere per difenderti. E non c’è niente di più terribile di dover scegliere fra la tua e la vita di un altro. Non sono io quello che merita di essere consolato». Dicendolo aveva incastrato le sue dita fra le mie e aveva riabbassato le nostre mani sulle ginocchia.
«Questa non è una gara Fabiano. Vorrei che tu capissi che se c’è qualcosa che ti tormenta, io sono qui per te».
«Adesso non ce la faccio» - disse tornando alla sua vecchia postazione, come se desiderasse allontanarsi da me. Il suo cambio repentino di umore non faceva che accrescere di più la mia preoccupazione.
«Lo so che mi stai nascondendo qualcosa e non mi piace affatto». Iniziavo a perdere la pazienza.
«Ti prego, non guardarmi con quegli occhi…» - mi implorò celandomi i suoi.
«O se no cosa?» - lo provocai con un sopracciglio inarcato. Visto che lo infastidiva, non smisi di guardarlo. Ancor prima di un battito d’ali di farfalla, del balzo di una tigre, di un morso di un serpente, gli scivolai accanto e, in una danza vorticante, mi appropriai indebitamente della lettera.
Fabiano era sempre stato posato con me, non mi aveva mai dato modo di pensare che avrei potuto accedere alla sua ben sepolta indole feroce, se ne aveva una.
Eppure fu il primo ad attaccare. Io non mi tirai indietro e cominciammo a lottare per il possesso del suo segreto.
Balzai all’indietro sul suo letto e nel farlo la camicia da notte mi si gonfiò tutta attorno. Mi acquattai come una pantera, provocandolo a seguirmi. Provocazione del tutto inutile dato che lui mi aveva messa già con le spalle al muro. Le sue braccia erano velocissime nel tentativo di riprendersi ciò che era suo, la stanza si riempì dei fischi acuti generati dagli spostamenti d’aria, ogni volta che Fabiano ghermiva il vuoto. Comprendendo che non l’avrebbe spuntata, infilò la sua testa fra le mie gambe e con una presa mi sbalestrò ai piedi del letto roteando insieme a me. Lo allontanai con un calcio e gli dissi «Vieni a prenderla!».  
I suoi colpi sta volta erano ferrei, concreti, niente a che vedere con le nostre lotte quando ci allenavamo al campo. Avevo sempre creduto che si fosse trattenuto pur di non farmi male. Avevo ragione. Una perversa follia s’insinuò fra i miei pensieri: Fabiano finalmente mi stava prendendo seriamente, mi riteneva degna della sua forza. Non c’erano filtri di pietà o tenerezza fra noi.
Strofinando la camicia da notte con la sua pelle scivolosa, l’aveva resa trasparente in alcuni punti che avrebbero fatto vergognare una ragazzina a modo, ma quello non era il mio caso. Io non volevo che smettesse, quel gioco si stava facendo fin troppo interessante. Mi potevo permettere di toccarlo senza che nessuno potesse insinuare che dietro le mie intenzioni si celasse dell’altro se non difendersi dalla sua offensiva.
Quando sbattei contro la libreria, un mucchio di libri ci piovvero addosso ma lui non schiodò neanche per un attimo  i nostri sguardi. Eravamo entrambi in affanno, una mano sul mio petto, aggrappato alle clavicole, poco sopra il seno, l’altra a bloccare il polso che custodiva l’oggetto della nostra contesa.  Mi accorsi che stavo perdendo la testa. Ethan era stato un maestro fin troppo bravo e senza che me ne accorgessi mi aveva trasformata nella prima allieva della sua classe di perversi. Come una calamita attratta fatalmente dal suo magnete, perlustrai quel busto michelangiolesco fino ai solchi sui fianchi. Il nodo all’asciugamano minacciava di sciogliersi da un momento all’altro. Una parte di me, quella che avrei dovuto sculacciare per un mese intero, pensò che quell’asciugamano fosse di troppo, dall’altra parte non sarebbe stata colpa mia se… “ops”.  Ma riflettei anche sulla mortificazione che lo avrebbe afflitto e combattendo, dolorosissimamente, contro i miei desideri, gliela afferrai prima che cadesse giù. Un gemito gli grattò la gola e mi mostrò una smorfia che sarebbe stato meglio non interpretare se volevo mantenermi lucida.
«Adesso prendi una decisione: l’asciugamano o la lettera?».
I suoi zaffiri brillarono come stelle lucenti, tormentati da quella scelta. Per un attimo temetti che volesse quella lettera a tal punto da starsene in giro per la stanza come mamma lo aveva fatto, ma poi parlottò sbiasciando: «Per favore, non leggerla» e mi lasciò andare. Quello fu il KO tecnico.
«Io lo conosco questo sigillo, è di Londra». Lui si limitò ad annuire.
«Pensi davvero che possa fare qualcosa che possa dispiacerti? Non la aprirò se è questo che vuoi ma non puoi permettere a delle parole scritte su un foglio di carta di ridurti così, questo non lo accetterò mai. Perché non vuoi mostrarmela? E’ qualcosa che mi riguarda?».
«Non direttamente, no». Oh sì, certo adesso era tutto molto più chiaro.  «Credo sia meglio che tu vada. Non voglio dover mentire a Marlena»  
«Finisce sempre così non è vero? Continui a vivere a metà sballottolato fra il volere di un padre tiranno e di una fidanzata gelosa manco fosse Otello. E non fare quella faccia, lo so benissimo che il matrimonio te lo ha imposto tuo padre, non sono nata ieri. Ma ti sei mai chiesto cosa tu voglia veramente? Per una sola misera volta in tutta la tua vita hai avuto il coraggio di fare a modo tuo?».
Poggiai la lettera sul comodino. Lo afferrai per la nuca e gli abbassai la testa per premere la sua fronte contro la mia. I nostri fiati si mescolarono fra di loro.
«Te lo chiedo di nuovo: tu cosa vuoi?».
«Raccogli il coraggio e ammetti di aver bisogno di me stanotte, Marlena o non Marlena» sospirai rincarando la dose. Fabiano mormorò qualcosa di enigmatico fra le labbra che risuonò più come un lamento. Strinse i pugni penzolanti lungo i fianchi fino a che non gli sbiancarono le nocche. Ma non ebbi mai una risposta da parte sua.
«Codardo» scandii premurandomi che non ci fosse alcuna ambiguità. Interruppi quel contatto così intimo fra noi e, come una furia, raggiunsi le imposte della finestra.
«No!» esclamò. E riconobbi il suo calore. Lo avrei riconosciuto fra milioni. Andai a ripescare in quel nido di memoria, infondo all’anima, quel giorno che ormai sembrava lontano quando lui mi aveva stretta fra le sue braccia, la mia schiena contro il suo petto e il suo respiro fra i capelli. Allora eravamo solo dei bambini, ma i miei sentimenti non erano cambiati, anzi erano cresciuti a dismisura quasi da non riuscire a contenerli dentro di me.
«Resta con me» aveva ammesso infine, non da sconfitto ma perché smanioso di prolungare quel momento. Mi abbandonai sul suo petto ascoltando il battito del suo cuore, che cantava per me.
«Va bene» gli dissi col sorriso sulle labbra «ma solo se ti metti qualcosa addosso». Adesso rideva anche lui.
Quando tornò con la tuta del pigiama, irrimediabilmente bello anche da vestito, si immobilizzò, terrificato, sulla soglia del bagno.
«Tranquillo non l’ho aperta, sai che sono di parola» lo rincuorai rigirandomi la lettera fra le mani quasi fosse una patata bollente. «Se è questa che ti far star male, possiamo rimediare subito».
L’appallottolai senza pensarci due volte, accompagnata dallo scroscio della carta, e la tenni bene in vista sul palmo della mano. «A te l’ultima parola» lo incoraggiai.
Senza alcuna indecisione nel suo volto mi confermò «Fallo». La lettera bruciò e con essa le terribili parole che avevano messo in ginocchio colui che amavo di più. Rimase in contemplazione delle sue ceneri.
«Ti senti meglio adesso?».
«Un po’» ammise.
«Non ho mai pensato che tu fossi un codardo» cominciai. «Hai sfidato a viso aperto una medjai e ne sei uscito vincente, adesso potrai vantartene con i tuoi amici» gli dissi ammiccando.
«Sono abbastanza sicuro che quella medjai mi abbia lasciato vincere, ma potrei sbagliarmi» rispose ironico.
«Che cosa fai?» mi chiese tutto a un tratto bianco come un cencio. Sollevai lo sguardo su di lui quando era già giunta al penultimo bottone della giacca della tenuta. «Andiamo a dormire» gli ordinai, sfilandomela dalle spalle. Lui girò il collo di scatto e si mise a fissare la carta da parati, irremovibile come una statua. Avevo dimenticato che la camicia da notte era leggermente bagnata e inevitabilmente non lasciava quasi nulla all’immaginazione in alcune zone. «Insieme?» mi chiese rigido come un bastone mentre mi slacciavo gli scarponcini. «Se preferisci posso dormire a terra» mi offrì anche se non era esattamente quello che speravo.
«No, certo che no». Era l’esatto opposto di Ethan. Il biondino in questione non si farebbe fatto tutti i problemi che lui si stava creando nella sua testa, anzi ne avrebbe approfittato.
Fabiano non mi aveva mai guardata in modo irrispettoso, non c’era nessuno più galante di lui. Decisi di mettere fine al suo disagio, mi asciugai dalla testa ai piedi e mi infilai direttamente nel suo letto, tirandomi le coperte fino al naso. Battei qualche colpetto nel materasso nel posto accanto a me invitandolo a condividere il letto. Si voltò, un po’ titubante, e mi osservò come se non si fosse coricata la sua migliore amica ma una creatura mitologica dimenticata da anni.
«Stai sereno, non ti salterò addosso mentre dormi. Non mi approfitterò del mio amico o credo che sta volta Marlena mi ucciderà».
«A volte sei scema quasi quanto Gab» disse gettando gli occhi al cielo. Io gli risposi con una linguaccia. Quando ci avvolgemmo entrambi dentro il suo piumone gli chiesi di sciogliermi la treccia. Adoravo farmi carezzare i capelli da lui, mi faceva venire i brividi lungo tutta la schiena. Mi restituì il nastro rosso e poi inabissammo le nostre teste nell’unico cuscino che avevamo a disposizione. Rimanemmo occhi dentro occhi per un bel po’. «Visto, come quando eravamo piccoli».
«Non siamo più dei bambini, Lea» mi corresse con tono nostalgico mettendosi in posizione supina e un braccio poggiato sulla fronte. «Già prima non ti saresti fatto tutte queste pippe mentali, eri più spontaneo. Mi manca quel Fabiano».
«A volte le persone cambiano improvvisamente, non perché lo vogliono davvero ma a causa di questa vita  che non è abbastanza clemente da rispettare il corso naturale dell’evoluzione».
«A cosa stai pensando?» mi domandò in risposta ai miei silenzi.
«Sono un po’ preoccupata per Ethan» gli confessai.
«Per come potrebbe prendere…questo?» disse alludendo al fatto che dormissimo insieme.
Mi puntellai su un gomito. «Tuo padre ha chiesto di parlare da solo con lui. E non riesco a darmi una spiegazione. Non si erano mai visti prima di oggi…».
Fabiano contrasse la bocca e chiuse gli occhi. «Non gli farà del male»
«Come fai ad esserne così sicuro?».
«Fidati di me. Ma è meglio non sapere». Quella risposta non mi aveva affatto soddisfatta anzi aveva generato un’altra valanga di domande nella mia testa.
«Lea, non riesco a prendere sonno se i tuoi pensieri continuano ad essere così rumorosi. Dai su, cos’altro vuoi chiedermi».
Mi feci coraggio « Perché guardavi Ethan in quel modo oggi a pranzo?».
«Sono felice che lui abbia te. Sa perfettamente quanto tu sia preziosa, ha saputo riconoscere la persona straordinaria che sei e tu meriti una persona al tuo fianco che ti ami quanto ti ama lui. Per favore, non spezzargli il cuore».
Forse non se ne era reso conto, ma mi aveva appena asfaltata come bitume sulla strada rovente. Niente di ciò che aveva detto aveva un senso logico, mi aveva spiazzata.
Merda, non volevo  mica la sua benedizione, avrei voluto che ardesse di gelosia per me. Pensavo, o meglio speravo che avrebbe provato a convincermi con appassionate argomentazioni che Ethan non era quello giusto per me e che mi avrebbe supplicato rimanergli accanto.
Soltanto due parole avrei voluto che uscissero dalla sue labbra.
Due semplici parole. Le stesse che urlavano nella mia mente fin dal giorno che lo avevo incontrato.
Invece aveva appena tracciato un confine fra noi due ed ora, forse, non avevo più voglia di valicarlo.
La serenità che scorsi nel suo bel viso dormiente non mi consentì di odiarlo per ciò che mi aveva fatto. Il suo petto si abbassava e si rialzava lentamente quando gli scostai i capelli dalla fronte. Mi resi conto che non potevo portargli rancore, non potevo costringerlo ad amarmi.
Io non desideravo altro che vederlo libero, non sarei mai stata la causa della sua incarcerazione. Forse non saremmo mai stata una coppia ma almeno lo avrei continuato a proteggere da se stesso e dai suoi peggiori incubi che minacciavano di portarmelo via.
Gli baciai la tempia e lo strinsi a me per dare sollievo alle mie pene.
Era buffo che mi avesse chiesto di non deludere Ethan quando lui stesso aveva spezzato il mio cuore.
 
Non fu quel timido raggio di sole che riscaldava il vetro della finestra a svegliarmi quel giorno in cui tutto stava per cambiare, ma una voce carica di rabbia e dolore proveniente dal corridoio che dava sulla camera di Fabiano.
«Hai tre secondi per spiegarmi che cazzo ci fa Leona nel tuo letto!».
«Wow boyscout cerchiamo di darci tutti una calmata, ok? Possiamo risolverla in un altro modo, più pacifico?» stava intervenendo mio fratello Gabriel. La sua pessima carriera da paciere lo precedeva.
«Non ci sarà nulla di pacifico! Se il tuo amico non comincia a parlare lo apro in due! E tu sarai soltanto un effetto collaterale». Strabuzzai per bene gli occhi prima di mettere a fuoco. Ethan aveva messo con le spalle a muro Fabiano e mio fratello tentava invano di dividerli.
«Ethan lascialo andare seduta stante». Mi liberai delle lenzuola e saltai fuori dal letto con il cuore in gola. Io e Gab lo sollevammo di peso e lo scaraventammo contro la ringhiera. Avevamo svegliato tutto il dormitorio maschile, eravamo appena diventati lo zimbello del campo, ci mancava solamente che andassero a prendere i pop corn.
«Bene, almeno hai avuto la decenza di lasciarla vestita» postillò il ragazzo inglese.
«Si può sapere che ti prende? E che cosa sei venuto a fare nella sua stanza?»
«Questo non ti riguarda» mi aveva risposto sprezzante. «E hai anche il coraggio di chiedere che cosa mi prende? Ti trovo a letto con un altro e io dovrei restare calmo? Non so prendere un tè insieme a voi?».
In tutto questo Fabiano guardava la scena come se lui non ne fosse protagonista.
«Prendertela con lui non servirà a nulla. Se proprio devi arrabbiarti con qualcuno, fallo con me. Perché io mi sono infilata volutamente nel suo letto!».
«Lea non peggiorare le cose…» mi ammonì frignando mio fratello.
«Sta zitto Gab, non immischiarti!»
«Ethan» lo chiamò Fabiano tornato fra noi comuni mortali.
«Ti giuro sulla mia vita che non l’ho toccata. E’ stato un attimo di debolezza da parte mia, avevo bisogno di un’amica. Adesso è tutto finito e ti prometto che non succederà mai più. Mi dispiace, sul serio». Con quella veemenza avrebbe persino convertito un ateo incallito. I due si guardarono un istante, quanto basta per cancellare tutto quello che li circondava, adesso c’erano solo loro due. Ethan smise di divincolarsi dalla nostra presa e l’odio sembrò tramutarsi in qualcos’altro. Ebbi come l’impressione che stessero comunicando col pensiero, proprio come Alice e Edward.
Il tipico sguardo di due che condividono qualcosa di speciale: un segreto.
Anche in mio fratello s’instillò il seme del dubbio, assistetti alla sua nascita leggendoglielo in faccia. Ma non ebbi il tempo di porre nessuna domanda.
Dei protettori armati fino ai denti ci accerchiarono, bloccandoci ogni via di fuga, sia a destra che a sinistra. Riconobbi subito l’omone che si espose a nome di tutti, avanzando con passo pesante verso di noi, anche se aveva un po’ di barba in più.
«Leona Braveheart e Ethan Brightstars» disse Alarico con raccapricciante gravità. Valerio, accanto lui, non aveva alcuna intenzione di partecipare a quella che dava l’idea di essere una spedizione punitiva.
«Siete stati richiamati a processo dalla coorte marziale per rispondere alle accuse di cui siete incriminati, processo che sarà presieduto dai sette e da suo clementissimo. Avete il dovere di tacere fino a che non sarete interpellati dai vostri giudici. Arrendetevi pacificamente o saremo costretti a intervenire, anche a costo della vostra vita».
«Ma fate sul serio?» sbottò Gab, dimentico dell’aria pesante che ci era piombata addosso come un miasma velenoso.
«Andiamo, non vi sembra di esagerare?  Posso capire il coglioncello inglesino qui che sta facendo un po’ di caciara, ma Leona? Addirittura la coorte marziale poi! E di cosa sarebbe accusata mia sorella? Per la barba di Mayak, non sarà né la prima né l’ultima ragazza che s’intrufola di nascosto  nel dormitorio maschile. Avete idea di quante belle bimbe abbia portato qui dentro? Ma resto comunque umile».
«Braveheart questo non è uno scherzo, consegnaci tua sorella o verrai coinvolto anche tu».
«Gabriel, sta tranquillo» gli dissi con l’intenzione di consegnarmi spontaneamente.
«No, tuo fratello ha ragione» si era fatto avanti Ethan «Diteci di cosa ci accusate o nessuno si muoverà di qui».
Alarico ci punto' il fucile a elettricità statica contro e sentenziò lasciandoci col fiato sospeso: «Di omicidio, omicidio plurimo. Lei è l’assassina dei nostri fratelli e tu sei il suo complice».

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Capitolo 36
*** L'INTERROGATORIO ***


CAPITOLO 22 – L’interrogatorio

Ci dettero a malapena il tempo di renderci presentabili e di consegnargli in custodia le nostre armi in via cautelativa. Erano stati fin troppo zelanti  a legarci i polsi con delle corde per impedirci qualsiasi colpo di testa da ribelle, sentivo bruciare la pelle lì dove si era scorticata. Quella scenata di gelosia sembrava fosse accaduta mille anni fa e per poco non me ne rammaricai.
Ci avevano gettati e rinchiusi nella torre più alta del castello, in attesa dell’inizio del processo, come se fossimo i due più grandi malfattori nella storia di Betelgeuse. Avrebbe potuto essere l’incipit di una favola: la principessa in difficoltà imprigionata fra le mura di una torre, una foresta magica, l’integerrimo antagonista che vuole rovinargli la vita. Con il solo piccolo particolare che nessun principe azzurro l’avrebbe salvata, dal momento che era stato catturato anche lui e era destinato a subire la stessa triste sorte della sua amata.
I capelli di Ethan gli ricadevano in disordine sugli occhi castani, occhi che mi evitavano da quando ci avevano lasciati in quella polverosa gattabuia con la sola compagnia dello squittio dei ratti.
«Tua madre non permetterà che ti succeda niente. Se provassero solo a torcerti un capello credo che li farebbe fuori dal primo all’ultimo».
«Credi che m’importi del mio destino in questo momento?» non lo avevo mai visto così adirato. «Non puoi permetterti nessun atto di eroismo, ormai è fatta. Torna ad essere quello che eri una volta, l’egoismo e la sfrenata adorazione di te stesso ti donano di più» gli dissi con voce atonale e priva di qualunque intenzione offensiva. «Leona, io non ho detto nulla, non sono stato io a tradirti! Non me lo perdonerei mai». Adesso ero io che non avevo alcuna voglia di stare a sentire le sue giustificazioni.
«Merda Lea, guardami! Lo giuro su Dio, lo giuro su quello che mi è più caro a questo mondo, lo giuro sull’amore che provo per te». Il suo sguardo era folle e respirava come un asmatico. Mi alzai dal pavimento per sgranchirmi le gambe e camminai per un po’ attorno alla stanza con lui che seguiva ogni mio passo, rimbombante sul soffitto. C’era una fenditura fra le pietre, larga un paio di centimetri. Posizionai la faccia all’imboccatura e lasciai che entrasse nei polmoni quel poco di aria pulita che mi era concessa. Avevo il naso ghiacciato.
«Ethan quello non è amore. Tu vuoi solo scoparmi».
«E pensi che non conosca la differenza? Lo ammetto, forse all’inizio era così, e non ti nascondo che anche in un momento inopportuno come questo ti sbatterei al muro e non hai idea di quello che ti farei» feci una smorfia annoiata «Ma sei stata tu a insegnarmi cos’è l’amore, giorno dopo giorno, l’ho sentito crescere dentro di me, senza nemmeno sapere cosa fosse. Quando ti guardo ti desidero a tal punto da avere i brividi in tutto il corpo. A volte è talmente insopportabile che sento che il cuore possa scoppiare da un momento all’altro. E morirei per te, sarebbe la più felice delle morti».
Non stavo piangendo. Mi era entrato del pulviscolo nell’occhio, ecco tutto. Poggiai la testa sul suo petto e mi avvicinai a lui quel tanto che ci era consentito per via delle mani legate. Catturai una delle sue lacrime fra le mie labbra, premendole intensamente sul suo zigomo. Sapeva di sale.
«Guarda questo amore dove ti ha portato» gli sussurrai sorpresa del fatto che riuscissi ancora a sorridergli. «Mi dispiace che tu ti sia innamorato della ragazza sbagliata». 
«Lo rifarei altre mille volte» disse quasi soffiando. Gli tremava il respiro. Sussultammo entrambi quando l’eco di una marcia militare si propagò verso l’alto, lungo la scala a chiocciola che portava nella nostra prigione. Nonostante gli impedimenti, le nostre mani si trovarono per darsi conforto a vicenda. Aveva i geloni alle dita, viola come acini d’uva spremuti e raggrinziti. La stretta sui polsi non aveva che accentuato quel loro aspetto smunto e martirizzato. Gliele riscaldai producendo un po’ di calore sulla pelle.
«Posso chiederti cosa ho fatto di male per farmi odiare da te?» mi disse un po’ spaventato dalla mia risposta.
Avrei potuto dirgli la verità ma sarebbe stata l’ennesima crudeltà nei suoi confronti e lui non se la meritava. Ancora una volta mi ritrovai a detestare le mie schifose verità che tornavano indietro come un boomerang. Come potevo dirgli che qualcosa in lui, ogni tanto qualche espressione immusonita, qualche vezzo distratto, alcuni lineamenti mi ricordassero inspiegabilmente quelli del mio amato ma che poi, rendendomi conto che non fosse davvero lui, perché lui non avrebbe mai detto o fatto quelle cose, venivo pervasa da una profonda delusione come se mi avessero restituito un Fabiano difettoso e inattendibile? Perché dovevo per forza paragonarli quando era chiaro che non avessero nulla in comune se non il fatto di essere entrambi dei protettori? Ero stata ingiusta con Ethan e lo avevo trattato malissimo per qualcosa di cui non era colpevole. Mi promisi che non avrebbe più subito le conseguenze delle mie follie.
«Non sono stato io» singhiozzò avvilito fra i miei capelli. Gli sollevai le braccia per accostare la bocca alle sue mani per potergliele baciare. «Io ti credo, Ethan. Lo so che non ci hai traditi. E comunque non ti odio, non pensarlo nemmeno per un momento. Ti prometto che ti tirerò fuori da tutto questo. Diremo la verità e ti dichiarerai innocente. Tu quella notte non eri con me e non permetterò che tu venga giustiziato per qualcosa che non hai fatto. Sono le mie mani a grondare sangue. Non innocente, questo è vero, ma pur sempre sangue dei nostri fratelli e merito il patibolo».
«E’ stata legittima difesa! Non dovresti essere tu quella condannata ma i mandanti degli assassini!»
«Non ho prove con cui dimostrarlo»
«Al diavolo le prove! Tu oggi non morirai, sono stato chiaro? O mi costringerai a seguirti in qualsiasi fantomatico paradiso in cui finirai, e non sono sicuro che lasceranno entrare uno come me, non sono esattamente un santo». Risi come una pazza isterica, mi facevano male i muscoli facciali.
«Grazie per la tua risata» disse lui acquietato mentre qualcuno girava la chiave nella toppa.
Il Sire comparve sulla soglia del nostro carcere seguito dalle sue fedeli sentinelle. Se me lo avessero raccontato, non ci avrei mai creduto. La compassione si appropriò del suo viso, spaesato e perennemente accigliato, come un forestiero in terra straniera.  Quell’emozione per lui era nuova ed era chiaro che non sapeva come gestirla o contrastarla. Non per me, ovviamente, a volte sembrava odiarmi solo per il semplice fatto che io esistessi, ma per il ragazzo accanto a me che non ricambiava la sua inspiegabile empatia nei suoi confronti.
«Portate il ragazzo in piazza insieme all’altro prigioniero» disse distaccatamente acchiappandosi il setto nasale con l’indice e il pollice. Le sentinelle si mossero celeri in uno stridio metallico, corazzati come se stessero affrontando un esercito di vampiri di marmo, e gli agguantarono gli avambracci scortandolo fuori dalla cella sotto il suo sguardo inorridito.
Quando furono fianco a fianco lo pregò «Ti supplico Tiziano» da quando poteva permettersi di dargli del tu? «in nome di quello che ci siamo detti ieri, non farle del male. O mi perderai. Per sempre». Fu solo un breve guizzò che fece breccia nella sua anima avvizzita ma giurai di aver scovato la paura nel linguaggio muto del suo corpo. Non si diede pena di fornirgli alcun chiarimento, si limitò ad un insulso e vacuo gesto che ricordava una scrollata di spalle e le guardie lo portarono via, trascinandolo a peso morto. Ethan continuò a urlare il mio nome mentre lo obbligavano a scendere le scale.
Tiziano sbatté la porta con un calcio, innervosito da quel grido sovrastante.
«Qual è il tuo segreto?» mi domandò facendo scricchiolare il cuoio dei suoi guanti per farli aderire meglio. «Una pozione d’amore?» suppose con un tic nervoso all’occhio. Mi gironzolò attorno con le mani dietro la schiena studiandomi  con aria interessata. «Sono molto affascinato dalla tua capacità di instillare fedeltà  nella gente con delle sole semplici parole. E’ l’Akasha, non è vero? Il quinto elemento, quello in grado di racchiuderli tutti. Ah, quanta bellezza! Quanta perfezione e armonia nella natura di un medjai! Mi sono sempre chiesto come sarebbe stato avere quel potere…e devo ammettere che avrei giusto qualche idea su come potrei sfruttarlo».
Il boom sonico dello schiaffo rimbalzò sulle pareti.  Fece più male l’umiliazione di essere inerme. Potevo sentire, sotto la pelle, i vasi capillari spezzarsi come canne piegate dal vento.
«Il silenzio non è un lusso che puoi permetterti in questo momento» mi vomitò contro «sapevo che prima o poi mi avresti dato una scusa per ucciderti davanti a tutti. Prima cerchi di ammaliare mio figlio, infilandoti  persino nel suo letto, fattelo dire sei caduta davvero in basso, e adesso Ethan».
«Perché? Cos’è Ethan per te?» toccai le corde giuste. Il sire schioccò la lingua più volte scuotendo il dito. «Sono io che faccio le domande qui».
«Giusto perché tu lo sappia, qualcuno dei tuoi amichetti ha vuotato il sacco. Purtroppo non sappiamo chi, quindi, per tua sfortuna, non potrà testimoniare. Sei stata brava ad architettare tutto, molto brava, soprattutto il colpo di stato».
«Non so nulla del colpo di stato…»
«Ah no?» domandò falsamente sorpreso «Quindi non è stata una tua idea raccontare tutto sugli Abomini a Romeo».
«Stai confessando allora! Sei tu il padrone degli Abomini che volevano il mio sangue!».
«Stai vaneggiando. Certo sarebbe stato comodo, non mi sarei dovuto nemmeno sporcare le mani personalmente, allettante come prospettiva ma no, non sono stato io. Hai idea di cosa potrebbe succedere se il sangue tuo o quello di tuo fratello verrebbe utilizzato nell’incantesimo del Linckage? Non sono pazzo fino a quel punto, un conto sono quelle bestie ma non dissacrerei mai il sangue di un medjai con la magia nera sebbene disprezzi i suoi portatori» terminò come se lo avessi offeso.
«Se non sei stato tu allora…»
«Non lo so nemmeno io e la cosa mi dà alquanto fastidio. A chi altro hai spifferato il tuo piccolo segreto?».
«Nessuno che voglia uccidermi tanto quanto te» lo provocai. «E poi sai bene che non potrei comunque rivelare la nostra identità o i cavalieri della notte ci troverebbero…»
«Sei libera di pensare ciò che vuoi ma stai certa che mi sarei assunto le mie responsabilità» rispose con stizza.
«L’altro prigioniero…chi è?»
«Sai mi avevate quasi in pugno, stavate quasi per farcela. Se non mi fossi accorto che voi piccoli demoni vi foste intrufolati  in casa mia a curiosare fra le mie cose! Ho fatto appena in tempo a sbarazzarmi di tutto o Romeo e i suoi ci avrebbero messo in croce di fronte a tutto il popolo. Non vi siete risparmiati nemmeno quello eh? Avresti dovuto vedere la delusione dipinta sul volto di Romeo e i suoi rivoltosi quando si sono trovati davanti a un vicolo cieco!». Le sue labbra si arricciarono in un ghigno malefico. «Romeo è stato accusato dalla coorte di aver fomentato la rivolta, di aver dichiarato il falso e di aver complottato in segreto contro me medesimo, il Sire di Betelgeuse, e i membri dei sette, puntando il dito contro Silvestro Valchiria in persona, l’attuale capo degli anziani. Non andrà finire bene questa storia».
«No, lui non c’entra! Voleva solo aiutarci! Suo padre Gustavo Cacciasciacalli si opporrà sicuramente a questa ingiuria!»
«Oh non sai di Gustavo? Si è ritirato volontariamente, ha ceduto il proprio seggio…»
«Volontariamente? O è stato persuaso a cedere il seggio?» lo accusai.
«Ha importanza a questo punto? Romeo è spacciato, adesso è nelle mani dei sette»
«Sei solo un viscido! Un loro tirapiedi, un lacchè di quei vecchi imbalsamati, credi di avere il potere in realtà sei solo una loro marionetta! Sì, conosco il contenuto delle lettere e so che gli obbedisci ciecamente».
«Tu non sai niente ragazzina e non mi aspetto che tu capisca, non hai la più pallida idea di cosa abbia dovuto attraversare per arrivare fin qui o di cosa abbia sacrificato»
«Davvero? Mmm vediamo…tua figlia Sara ad esempio?» finsi una pausa riflessiva. Qualcosa in lui s’infranse e i cocci appuntiti lo dilaniarono dall’interno. Non era rimasto più nulla dei suoi occhi turchesi ma due lune piene nel bel mezzo di una eclissi.
«Non osare pronunciare il suo nome con quella bocca empia! E’ già tanto che ti permetta di portare il suo portafortuna. Ogni volta vederlo addosso a te mi dà una rabbia indicibile, tu non ne sei degna!». Temetti davvero che stesse per anticipare la mia condanna a morte e che nel suo raptus di follia mi avrebbe uccisa lì dentro, nella mia fredda prigione.
«Continua a insultarmi ma non farai che rendermi più forte. Non te la lascerò vincere facile. Testimonierò contro di te!»
«La tua parola contro la mia. A chi pensi crederanno: al loro beneamato Sire o a una presunta assassina?»
«Non sai quanto sia stato difficile togliere la vita a coloro che una volta consideravo il mio popolo, la mia famiglia…non permetterti di giudicarmi».
«Ma lo hai fatto, e questo non lo puoi cambiare. Dannazione sei una medjai ma non una dea onnipotente, dimmi come hai fatto a sbarazzarti di loro».
«Perché non ti avvicini così te lo spiego». Era chiaramente titubante ma il Sire si protese in avanti per ascoltare quello che avevo da dirgli. Gli sputai in un occhio fieramente. La saliva gli scese piano sulla guancia solcando la sua espressione divertita. Si asciugò in fretta e aggiunse: «Quanto sei stupida, volevo darti una possibilità di salvezza. Passare il resto dei tuoi giorni in isolamento mi sembrava un ragionevole compromesso ma date le circostanze credo che lascerò che il processo vada come deve andare. Credi che ti mostreranno clemenza perché sei una ragazzina? Illusa. Ovviamente il mio atto di misericordia era votato solo a una promessa che ho fatto a mio figlio Fabiano, nessun motivo personale»
«Come se t’importasse qualcosa di lui…»
«Non ti amerà mai Leona, non nel modo che desideri tu. Vedi io e lui abbiamo una sorta di…patto, chiamiamolo così, stipulato unicamente per il suo bene. Il bastone e la carota. Lui purtroppo non vede quanto tu e quello scapestrato di tuo fratello siate pericolosi  e io non volevo perdere anche lui. Non ho potuto nulla contro la vostra amicizia, il legame era già fin troppo saldo e comunque non volevo che perdesse la fiducia in suo padre, la concessione di quel legame avrebbe rappresentato la sua ricompensa. Ma ho aggirato il problema a modo mio, facendo sì che non si trasformasse in qualcos’altro. E sai qual è l’ironia di tutto ciò? Proprio l’affetto che nutre nei tuoi confronti è stata l’arma che mi ha permesso di reprimere il suo sentimento»
«Che cosa gli hai fatto?» gli domandai in preda al terrore.
«Arte della persuasione, nulla di nuovo sotto questo cielo. Tu hai i tuoi e io ho i miei trucchetti, medaji. In questo momento sarà sommerso dai sensi di colpa a causa tua. Crederà che la tua condanna sia in realtà tutta opera sua, perché lui ieri notte si è abbandonato ai suoi sentimenti. Perché lui crede che il suo amore sarà la causa della tua morte e lui farebbe qualsiasi cosa pur di tenerti in vita. Il tuo arresto non avrà rappresentato altro che la conferma a tutte le sue paure più recondite. Adesso avrà la certezza che avevano un fondo di verità e quella singola idea, sussurrata nel suo subconscio e forgiata dal dolore, prenderà forma nella sua mente e metterà radici. Tu hai portato a termine la mia opera come mai avrei saputo far io».
«Lui crederà che amarti sia la cosa peggiore che gli possa capitare».
Sarebbe bastato urlargli contro quale razza di mostro fosse? Come poteva aver fatto una cosa del genere a suo figlio. Quella confessione mi disgustò a tal punto da costringermi a vomitare la mia stessa bile.
«Ti prego, dimmi che mi stai dicendo tutto questo solo per farmi soffrire…»
«Ho fatto quello che ho ritenuto necessario per far sì che mio figlio non si perdesse. Il dovere e l’amore di un padre non può essere compreso da una come te, un padre che ha già visto dove quei sentimenti abbiano portato la sua amata figlia. Non commetterò lo stesso errore con lui».
«Ti scongiuro…».
« Se ti azzarderai a coinvolgere Ethan nel tuo fango, ti giuro che il prossimo ad essere reclamato dal patibolo sarà tuo fratello, ritieniti avvisata.
Adesso dobbiamo andare, alzati e cammina a testa alta. Guarda quel sole, perché sarà l’ultima cosa che farai. Alzati medjai, e vieni a scoprire quale sorpresa Gomez ha preparato apposta per te».

NOTE DELL'AUTRICE: Ciao a tutti spero che la vostra quarantena stia procedendo bene. Per quanto mi riguarda, scrivere questa ff mi sta aiutando molto a riempire le mie giornate e mi auguro che chi legge i miei capitoli si stia appassionando alla storia e ai personaggi. Mi rendo conto che é un po' lunghetta, ma vi giuro che sono già a più della metà della trama. Questo capitolo, in particolare, é più corto degli altri ma é ricco di rivelazioni importanti. Pubblichero' al più presto il capitolo successivo "Il tradimento di un popolo" strettamente collegato a questo, dove avrà vita il processo e FORSE qualcuno verrà giustiziato...ma niente spoiler. Grazie a chi mi sta seguendo e un bacio affettuoso.
PS. Fatemi sapere cosa ne pensate con qualche commento, anche se negativo. E' sempre apprezzato.
A presto :-* 

 

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Capitolo 37
*** IL TRADIMENTO DI UN POPOLO PT. I ***


CAPITOLO 23 – Il tradimento di un popolo pt. I

Traditrice. Bugiarda. Assassina. Non avrei potuto decidere quale fra questi nomi mi avesse fatto più male. Mi arresi a quegli insulti che mi piovevano addosso come meteoriti che devastano un pianeta.
La mia gente, non era più la mia gente, i miei fratelli, non erano altro che meri sconosciuti, la mia casa, non mi avrebbe più accolta.  Il mio sogno si stava sbriciolando, la realtà mi trapassava il cuore con una spada. Avanzavo fra grida di rabbia e pianti di dolore, consapevole che ogni mio passo sarebbe potuto essere l’ultimo.
Tutto intorno alla piazza vi era un cordone umano di protettori che ne delimitava i confini, cingendola come le mura di un regno. I tuoni ruggirono fra le nubi e il soffio di Eolo s’innalzò sfilacciandosi fra le tegole dei tetti della cittadella. M’inginocchiai sull’Omphalos ghiacciato fra i due miei compagni di sorte. Il gigante rosso e il ragazzo dai capelli ricamati d’oro. Genuflessi a terra, poco più avanti, una decina di protettori di Sirio, erano stati ammanettati come criminali di prima categoria. Le tuniche porpora dei sette saggi sventolavano violentemente come vessilli e stendardi sanguinanti al termine di una battaglia, mentre sedevano comodamente suoi loro seggi d’ebano e quercia. Le loro ali non erano fatte di piume, ma di abili arcieri e di frecce perforanti, incoccanti e minacciose e puntavano dritte il loro bersaglio. Le nostre teste. Come un Cerbero rabbioso, noi tre prigionieri levammo i nostri sguardi lacerati dall’ingiustizia, per rispondere a quell’affronto, per gridare la nostra innocenza.
I miei amici e mio fratello erano tutti lì ad assistere al processo, angosciati più che mai dal suo possibile esito. Fra di loro si nascondeva il Giuda che mi aveva venduta per trenta sporchi denari.
Morgana, piegata sulla spalla di Caterina, non riusciva a smettere di piangere. Aveva molto da perdere, forse più di tutti. Ma lei era forte, era la guerriera che ammiravo di più, sarebbe andata avanti come una fiera Cacciasciacalli.
 Gabriel stringeva nella sua morsa l’elsa di Symphony, senza svelare nessuna emozione nel suo volto. Se non avessi visto il movimento ritmico delle spalle, avrei pensato che non stesse respirando. Il mio fratellino incosciente. Dio, ti prego fa che non faccia qualcosa di avventato, fa che la sua vita sia più lunga possibile ma soprattutto che sia felice dissi supplicando il padre eterno.
Norman era un grumo di afflizioni. Dal giorno in cui gli avevo salvato la vita in quell’arena, c’era sempre stato qualcosa di speciale fra noi due. Non sapevo come spiegarlo, ogni volta che lo vedevo, dentro di me si scatenava una sorta di istinto che avrei quasi osato definire materno, per quanto possa essere bizzarro. Non sopportavo l’idea che qualcosa o qualcuno potesse fargli del male o contaminare la gentilezza del suo animo. Nemmeno adesso che soffriva per me, potevo accettarlo, volevo correre da lui e dirgli che sarebbe andato tutto bene. Se non ci fossi stata più, chi avrebbe difeso il mio Norm? La risposta stava accanto a lui, in quel viso luccicante di lacrime, nascosto da due grosse lenti da topo di biblioteca. Fabrizio si sarebbe preso cura di lui, anche se fra quei due era sempre stato un odio/amore. Accidenti, perché stavo inconsciamente dicendo addio a tutti?
Ascanio e Carlotta rimanevano silenziosi dietro una Marlena che riversava tutta sua preoccupazione sul fidanzato che le teneva la mano. Teneva era un parolone, non aveva nemmeno ripiegato le falangi sul dorso della sua mano. Fabiano non aveva l’aspetto di un essere vivente. Le guance incavate, le labbra ridotte a un striscia sottile, gli occhi incolori.
Mi faceva rabbia portare quel suo ultimo ricordo, il mio Fabiano ridotto in quel modo, senza poter intervenire nella lotta che stava avendo luogo dentro di lui.
Mi faceva diventare pazza non potergli urlare che quello che stava avvenendo non fosse colpa sua.
Mi faceva incazzare che lui non sapesse quanto fossi dannatamente  innamorata, di come avesse sconvolto la mia vita, quanto l’avesse resa straordinaria solo con la sua esistenza. Riuscivo unicamente a pensare a quanto lo amassi. Lo amavo con ogni singola fibra del mio corpo.
Non aveva più importanza. Chiunque mi avesse tradito fra loro, avrei continuato a considerarli come membri della mia famiglia.
Anche zio Marcellus, Bernardo, Amadeus e Sheila erano giunti appena in tempo per l’inizio del processo. Gomez invece era già lì, a sfregarsi le mani, pregustandosi il momento della nostra condanna. Qualcosa di fosco baluginò nei suoi occhietti porcini quando poggiò untuosamente la mano sulla spalla di una ragazza sparuta e tutt’ossa, spigolosa in ogni suo angolo, che non avevo mai visto. La sua sagoma era eterea e per nulla minacciosa se non per quell’artiglio lustro e argentato che le ornava il mignolo. La sorpresa. Rabbrividì.
«Che il processo cominci!» disse Valchiria, il capo degli anziani.
«Tutto questo è ridicolo! Liberate mio figlio!» ordinò la madre di Ethan.
«Taci Sire di Londra! Se verrà dichiarato innocente, tu e il tuo prezioso erede potrete tornarvene da dove siete venuti in totale sicurezza, ma fino ad allora non intervenire più o sarò costretto a farti espatriare immediatamente». La donna si quietò oppressa da quell’ammonimento. Ethan ringhiò per la collera.
«Iniettategli il siero delle fate» dispose il più anziano.
«Ma Signore, si dovrebbe usare solo in casi estremi…» gli ricordò Alarico sottomesso come un cane bastonato.
«E questo non ti sembra il caso opportuno? In un occasione del genere? Parliamo di omicidio! Di accuse molto gravi mosse contro il consiglio dei sette e il Sire del campo! Fa come ti ho detto!» si alterò.
Il siero delle fate non era altro che un intruglio che ti costringeva, come un membro del popolo fatato, a dire la verità senza alcun limite. Veniva spesso somministrato ai tempi dell’antica Hijir per le esecuzioni capitali dei condannati. Lui e Valerio si avvicinarono con delle siringhe colme di un liquido verde fosforescente e indirizzarono la punta dei loro aghi sulle nostri carotidi, in modo tale che il siero raggiungesse il cuore il più in fretta possibile per poter così esplicare il suo effetto a pieno. Bruciava maledettamente mentre si faceva strada fra i vasi sanguigni.
«Generale Cacciasciacalli» proseguì il dispotico Valchiria «di fronte all’imputata confermi la tua versione dei fatti? Ovvero che una tua spia ti ha riferito che i protettori scomparsi in realtà sono stati sottoposti a un sortilegio chiamato Linckage, sortilegio che prevede il trapianto di organi appartenenti alle creature oscure e la nascita di un nuovo individuo con forza e capacità nettamente superiori a un protettore, chiamato Abominio
«Sì, ve l’ho già detto, non c’era alcun bisogno di rifilarmi questa diavoleria da fata!» disse un Romeo esausto.
«Sostieni ancora che Tiziano, alcuni Sire delle capitali europee e oltreoceano, il sottoscritto  e altri miei confratelli della coorte siano gli artefici di queste nefandezze? »
Da Romeo sprizzò una risata astiosa che, con il suo forte tono baritonale, ricordò tanto un latrato. «Perché non t’infili quell’ago anche tu, eh? Tu dovresti confessare. Perché non gli dite che fine ha fatto mio padre? Ci risparmieremo un sacco di tempo e questo ridicolo teatrino da quattro soldi. E tu lurido impostore» disse puntando il suo sguardo su Tiziano «hai cancellato le prove prima che arrivassimo noi, non è così?» Lo zittirono con una percossa in pieno volto. «Bada a come parli selvaggio». Non riuscì a spegnere la sua risata.
Valchiria continuò impassibile il suo interrogatorio «Dichiari di essere il capo dei rivoltosi che hanno fatto violenta irruzione in casa del Sire?».
«E chi mai avrebbe potuto sostituirmi? Chi avrebbe avuto il coraggio di opporsi al sistema? Io sono il loro leader incontrastato» 
Uno dei prigionieri davanti a noi sollevò la schiena da terra e proclamò «Lunga vita a Romeo, vero Sire di Betelgeuse». Anche i suoi compagni, lo imitarono, inneggiando a gran voce colui che ritenevano il loro vero sovrano. Il vecchio diede il segnale e una accozzai di protettori armati di fucili elettrici si accanirono sui ribelli.
«Romeo si ragionevole, se continuerete con questo atteggiamento, avrò le mani legate, sai cosa ti aspetta…» gli aveva detto come se lo avesse costretto.
«Io non ho paura» tuonò il gigante sputando sul granito il suo stesso sangue.
«Bene. Confermi ancora la versione della tua spia secondo cui la cacciatrice Leona Braveheart si sia imbattuta in un gruppo di  Abomini che l’avrebbero voluta morta? E che lei sia stata costretta a difendersi?»
«Così mi hanno detto. E se fosse la verità, la ragazza avrebbe tutta la mia ammirazione» e mi rivolse un sorriso paterno «comunque io ci credo».
«Il siero è già in circolo. Sta dicendo il vero» s’intromise un altro membro della coorte.
«E’ ovvio che creda alle sue stesse menzogne» lo schernì un altro.
«Credo che tu sia stato informato male mio caro Romeo» disse Tiziano estraendo una pistola dalla sua fondina appesa al cinturone.
«Chi è il tuo informatore?» gli domandò mentre alloggiava le cartucce nei fori longitudinali del tamburo dell’arma da fuoco. Romeo strinse i denti in preda a un folle dolore che gli ardeva nelle vene a causa di quel veleno fatato. Voleva strappargli la verità dalle sue labbra e lui vi si opponeva con tutte le sue forze. «Non ve lo dirò mai, piuttosto morirei».
La madre di Morgana si era fatta spazio fra la gente e adesso fissava il marito con occhi ricolmi di lacrime. «Romeo, ritira le tue accuse, sei ancora in tempo, ti prego! Pensa alla tua famiglia! Torna a casa con noi!» gli urlò disperata. Morgana corse ad abbracciare la madre che non smetteva di singhiozzare. Ormai era più alta di lei, si erano scambiati i ruoli. Sheila li osservava da lontano con una freddezza inaspettata, senza tradire alcuna emozione. Non mi sarei aspettata  niente di diverso dalla figlia della regina delle fate.
«Forse è il caso di aumentare la dose?» domandò innervosito uno dei saggi.
«No, se mettiamo in circolo troppo siero, il suo cuore potrebbe non reggere» li avvisò mio zio emerso dal suo mondo fatto di silenzi.
«Sono io la sua informatrice!» dissi quasi senza riflettere.
«Leona ma che dici?» mi rimproverò Ethan.
«Gli ho detto io tutte quelle cose, sono io la sua spia…» il dolore mi offuscò la vista. Cacciai un urlo dal profondo dei miei polmoni, tanto era insopportabile la tortura a cui mi sottoponeva il siero. Sentivo Ethan da qualche parte chiamare il mio nome e la sua straziante preghiera rivolta al coorte ma sembrava lontano mille miglia. Invece mi fu chiara quell’esclamazione prorompente: «L’assassina sta mentendo!» anche se non sapevo da chi provenisse.
«Lasciatela!» riconobbi la voce di Gab.
«Vi prego, è solo una bambina, non può sopportare gli effetti del siero» li aveva ammoniti con veemenza Bernardo.
«Non avrebbe nulla da temere, se confessasse tutta la verità».
«Volete la verità?» dissi come se respirare fosse la cosa più difficile al mondo. «Liberate il figlio della Sire, lui è innocente! Eravamo d’accordo ieri  alla cerimonia. Ha mentito per me o non mi avreste mai accettato il titolo di cacciatrice se non mi avesse fatto da garante. Lui non era con me quella notte, nessuno al campo di Andromeda sapeva della mia fuga»
«No, non farlo» mi pregò Ethan.
«Lui mi ha protetto prima di sapere…» giocai un po’ con la verità «…quello che mi fosse capitato, non gli ho dato nulla in cambio, lo ha fatto per amore mio» gli rivolsi un’occhiata languida per rendere ancora più credibili le mie parole.
«Sta dicendo il vero adesso. Il siero non ha interrotto la sua confessione. Il ragazzo è innocente. Può essere accusato di essersi lasciato invaghire da una malfattrice, ma guardiamo in faccia la realtà chi non avrebbe ceduto di fronte a un bel faccino come quello? Prima che protettori siamo uomini fatti di carne e non gliene farei una colpa» stava parlando Tiziano in suo favore. Non so quale legame o segreti intercorresse fra quei due ma per una volta ne fui felice. Dovevo far liberare Ethan ad ogni costo.
«Il Sire ha ragione» lo appoggiarono diversi membri della coorte ma alla fine fu Valchiria ad emanare il verdetto «Accordato, rilasciate il ragazzo».   
Quell’armadio barbuto di Alarico si accostò al prigioniero per sciogliergli i nodi che gli bloccavano i polsi. Non appena fu libero Ethan si gettò su di me gridando a tutti che non mi avrebbe lasciata e che stavano commettendo un grosso errore.
Gli feci scivolare la mano dentro la sua e con una solida stretta gli sussurrai che sarebbe andato tutto bene, che non aveva nulla da temere, che saremmo tornati di nuovo insieme come lo eravamo una volta. E solo Dio avrebbe saputo quanto avrei voluto credere a quelle bugie, permesse dal siero forse perché il suo effetto si stava pian piano indebolendo.
Provarono a portarlo via ma lui continuò a sottrarsi alla loro presa. Poi catturò il mio viso e pigiò le sue bollenti labbra sulle mie imprimendo il suo sapore sulla loro superficie. La sua bocca umida  si muoveva morbida e carnosa sulle mia, dischiusa per la sorpresa. Sentivo il suo respiro caldo in bocca ma era piacevole e inebriante. Mi fece quasi sussultare quando poco prima che lo allontanassero da me con ferocia, mi addentò il labbro inferiore gustandoselo fino all’ultimo. Dovetti ammettere a me stessa che fu davvero intenso e che a una parte di me era anche piaciuto. Perché quello era il sapore del vero amore, un amore di cui non ero degna, che non potevo ricambiare. Ma dopotutto, anche se era un magra consolazione, avevo mantenuto la promessa fatta a Fabiano: non avevo spezzato il cuore di Ethan con un mio rifiuto.
Forse se lo avessi incontrato prima le cose sarebbero andate diversamente, ma ormai non aveva senso rinvangare il passato o le infinite possibilità che esso avrebbe potuto offrirmi.
Era salvo e non c’era cosa più importante di quella.
«Guardate fino a che punto ha plagiato quel povero ragazzo» disse una voce sprezzante.
«Adesso basta con queste smancerie. Il ragazzo non è più un sospettato! Ci avevi promesso una confessione».
«E la avrete» dichiarai col petto gonfio di un miscuglio di emozioni indefinite. «Anche se voi la conoscete meglio di me…»
«Anche lei come Romeo sta insinuando la nostra colpevolezza!»
«Non volevate la verità? Questa è la mia verità! E non differisce molto da quella del generale».
«Ascoltiamo cosa ha da dirci» mi incitò il Sire per placare il malcontento dei membri della coorte.
«Due notti fa, e ribadisco senza alcun permesso da parte della Sire, sono uscita da Andromeda di nascosto per andare a caccia di vampiri...».
Mi divertii molto a fornire minuziosamente i particolari di come erano fatti i meta-lupi e i meta-vampiri che avevo incontrato. Sottolineai all'esasperazione la loro mostruosità e il loro essere contro l’ordine naturale, peculiarità che gli avevano fatto guadagnare il nome di Abomini. Spiegai anche, grazie alle informazioni fornitemi da mio fratello e Fabiano che avevano consultato i documenti, come avveniva il processo, sputai fuori nomi e accusai chiunque ritenessi colpevole dell'abisso di schiavitù verso cui stavano conducendo i protettori. Condannai con ripugnanza il potere e il denaro che tanto li aveva allettati, quegli ignobili e ingiustificabili moventi che li avevano spinti ad azioni tanto aborrenti. Anche se ero stata tradita dallo stesso popolo che mi aveva accolta, gli avrei consegnato in mano la verità, sarebbe stato il mio ultimo atto d’amore.  Mi bastava che ci avessero riflettuto sopra e sperai di aver suscitato il minimo dubbio sulla presunta e infallibile sincerità dei loro governatori. Il resto sarebbe venuto da se. I dettagli erano davvero molti e scrupolosi nella loro descrizione, sarebbero riusciti anche questa volta a negare tutto? E come?
Tiziano rise. Rise come mai lo avevo visto fare, manco se avessi raccontato una barzelletta. Applaudì perfino, come a complimentarsi della mia superba esibizione. La sua risata malata contagiò  chi gli stava intorno e dalla piazza della cittadella si levò un coro che riverberò fra le raffiche di vento.
«Le mie congratulazione cacciatrice» disse asciugandosi le lacrime agli occhi «la tua fantasia va oltre ogni possibile aspettativa. Di un po’: fino a dove sei disposta ad arrivare pur di infangare i crimini di cui ti sei macchiata? Credevi davvero di aver nascosto le tue malefatte uscendone indenne? Sai però non giudico te, piuttosto mi meraviglio di chi ha creduto alle parole di una sciocca ragazza. Sul serio Romeo?» gli disse Tiziano piegandosi sulle ginocchia per potergli parlare a quattrocchi «Mi odiavi a tal punto da vendere tutto ciò che avevi, la tua posizione, il tuo incarico, il tuo retaggio, la tua famiglia… Mi detestavi così tanto da aggrapparti ai vaneggiamenti folli di una bambina che corre con i vampiri?» gli urlò incontrollabile. Mi gelò il sangue.
Ci fu un breve attimo di silenzio prima che scoppiasse il caos. I sette si alzarono dai loro seggi e proruppero in grida di spergiuri e gesti superstiziosi. Il popolo strepitò fuori controllo guaendo come animali, tanto che si rese necessario l’intervento dello squadrone antisommossa. Era più che logico che i protettori volessero un chiarimento più che esaustivo dopo un’affermazione così grave e talmente assurda da andare fuori da ogni logica. Anche Romeo cominciò a guardarmi con sospetto, persino i suoi compagni si voltarono con le facce corrugate per lo sconcerto.
«Che cosa stai insinuando?» sbottò zio Marcellus. Qualcosa nel suo tono di voce mi fece vergognare nel profondo. Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia.
«Quello che ha appena detto» confermò Gomez con la sua inopportuna euforia.
«Bene, adesso che hai finito di rifilarci le tue penose assurdità, direi che possiamo chiamare a testimoniare la ragazza del campo Vega di Barcellona. E’ tempo che tu venga smascherata per ciò che sei».
Tiziano invitò la testimone e il suo Sire ad unirsi a lui al centro del piazzale. Adesso che mi sfilava davanti in tutta la sua spaventosa magrezza innaturale con i vestiti che sembravano penderle sulle spalle, mi balenò nella memoria un episodio che avevo rimosso. Una volta le avevo sbattuto contro correndo per i corridoi del dormitorio. Anche allora avevo notato l’artiglio e le avevo fatto anche i complimenti per come le stesse bene. Ricordavo che avesse molta più carne addosso, forse per questo non l’avevo riconosciuta fin da subito, la ragazza di Barcellona che faceva l’apprendistato come me lì a Andromeda. I suoi grandi occhi marroni le si erano infossati nel cranio, i capelli castani un po’ crespi per l’umidità, si aggrovigliavano fra loro in balia del vento che, per quanto desse l’idea di essere fragile e leggera, avrebbe potuto trascinarla con sé come la sfera piumosa di un dente di leone.
Dei fremiti incontrollabili s’impossessarono di lei quando quel lurido porco le diede una piccola spinta. Non la smetteva di mangiarsi le unghie, non smise nemmeno quando cominciò a colarle il sangue dalle dita. Io le fissai il suo prezioso gingillo e lei inorridì come se le avessi arrecato una grave offesa. Lo nascose dalla mia vista infilandosi la mano sotto l’ascella. Quel gesto fece scattare una molla nella mia testa.
«Dichiara il tuo nome cacciatrice» le intimò Valchiria.
 Gomez gli sussurrò qualcosa all’orecchio, probabilmente per incoraggiarla. Non aveva molta voglia di parlare. «Miranda Mendoza, señor» si presentò infine con vocina stridula.
«Conosci questa cacciatrice, l’hai mai vista prima d’ora?»
«No quiero mirarla, señor, por favor, tiengo mucho paura. E’ un demonio!»
Le persone bisbigliarono fra di loro parole di conforto e solidarietà per la ragazzina che tremava come una foglia dalla testa ai piedi.
«Lo so che ti chiediamo troppo ma il tuo contributo è fondamentale per lasciarci alle spalle questo brutto incubo» le disse con una straordinaria gentilezza Tiziano. «Raccontaci come sono andate veramente le cose e potrai tornartene a casa tua. E’ una promessa». Gomez annuì per dare man forte al ex Sire a cui era disperatamente devoto.
« Erano all’incirca le siete de sera. L’avevo vista escapar fuori dal dormitorio» disse tirando su col naso «pero no querìa ser una espìa, non l’ho detto a nessuno. Esa noche partecipavo alla expedición de reconocimiento di gruppo insieme al mio tutor e los altres cazadores, visto che da un po’ di tempo a quella parte vi erano stati avvistamenti di alcuni membri della congrega di Attilius. In effetti trovammo dei vampiros pero non era quello che ci aspettavamo, non avevamo portato armi suficientes por affrontare tres chupa sangre de marmo» socchiuse gli occhi terrorizzata dal ricordo. «Non avevo mai visto tanta ferocidad, eppure erano lì a risucchiare via la vida a quel pobre hombre, in trappola in vicolo buio».
«Povero uomo? Era uno schifosissimo stupratore!» intervenni senza essere stata interpellata, nauseata da quella menzogna.
«Per la barba di Mayak, fatela tacere» disse Valchiria «Continua mia cara te ne prego, non ti darà più fastidio» la rassicurò dopo che mia avevano imbavagliata.
«Per lui non c’era più nulla da fare, non avevamo fatto in tempo. Erano mucho forti per noi così li lasciammo fuggire e chiamammo i rinforzi». Urlai senza sosta, non m’importava che il bavaglio soffocasse i miei tentativi di attirare la loro attenzione. Sapevo dove voleva andare a parare. Se avessero creduto alle sue bugie, per me sarebbe finita.
«Credevamo di averli arrinconado accerchiandoli nel bosco di Highgate, ma non erano più soli. C’era anche lei» mi additò senza guardarmi «e…e un oso. Sì, como dicen en italiano? Un orso muy grande» spiegò con plateali gesti delle braccia «Me sono nascosta detràs de un àrbol, non me avevano vista» Miranda s’interruppe sopprimendo un singhiozzo in gola, le lacrime le solcavano le guance. «Li ha protetti, stava dalla loro parte! Ha ucciso i cazadores con le sue espadas de hielo puro por defender le vampiros, l’ho visto con estos ojos» disse come se volesse strapparsi la pelle sotto gli occhi. Si cinse le braccia in preda ai brividi di freddo.
«Ma questo è un sacrilegio!» sfuriò il membro più anziano dei sette.
«E’ una bestemmia che va oltre ogni immaginazione!» disse un altro saltando giù dal suo seggio.
«Sta mentendo! E’ una di loro! E’ un Abominio! Controllate sotto l’artiglio che porta alla mano sinistra!» gli urlai una volta abbassato il bavaglio sul mento.
«No, l’artiglio, no» mormorò avventandosi nuovamente sulle unghie spezzate dai suoi stessi morsi. Nessuno comunque mi dava ascolto, troppe voci accavallate fra loro sprizzavano odio da tutti i pori. Non volevano sentire ragioni, li avevo traditi perché avevo combattuto i miei simili e  difeso il nemico. Il popolo unanime voleva la mia morte. Zio Marcellus si fece avanti e mi raggiunse in poche falcate interponendosi davanti alla mia figura inginocchiata come se volesse farmi da scudo. Preso un respiro profondo, urlò «Silenzio!» con le braccia dispiegate come le ali di un angelo. La platea si rimpicciolì di fronte a quell’invocazione così furibonda.
Camminò verso i giudici calcando violentemente ogni singolo passo «Non vi permetterò di condannare  mia nipote in questo modo senza che possa difendersi! Non senza un giusto processo!».
«Stai mettendo in dubbio il giudizio dei sette, Marcellus? Potrebbe spettarti la pena capitale per questo! Fattene una ragione una volta per tutte. Il seme della tua famiglia è malato! Non vedi come le colpe dei genitori si sono abbattute sui loro figli? E’ una maledizione! La storia si ripete. E’ proprio come Arian…» il resto fu un borbottio strozzato. Zio Mark aveva afferrato Gomez per il collo. Il viso di Gomez s’imporporò per la fatica e lo supplicò per un po’ d’aria aggrappandosi al braccio che lo aveva aggredito.
«Non ti azzardare mai più a pronunciare con la tua fetida bocca il nome di mia sorella o quelli dei miei nipoti! E pensare che saresti dovuto diventare mio cognato…non vi sarebbe stata cosa più disgustosa di questa. Se mai fosse accaduto mi sarei opposto con tutto me stesso, non avrei mai permesso che toccassi mia sorella, la mia straordinaria sorella, nemmeno col pensiero. Per fortuna ha incontrato David e si è evitata l’errore più grande della sua vita. Credevi di essere alla sua altezza? Non ne sei degno e mai lo sarai! Adesso torna a strisciare nel tuo buco, verme» gli sibilò a pochi centimetri dalla faccia.
Cosa? Gomez e mia madre? Oh per l’amor del cielo ma che schifo!
«Marcellus lascialo andare, per favore!» disse Tiziano e non glielo stava chiedendo. Lo zio sbuffò dalle narici ma allentò la presa su di lui e sciolse la sua stretta letale. Gomez capitolò di fronte alle sue occhiate molto più che furenti e indietreggiò timoroso aspirando dalla bocca sorsate d’aria fischiettanti.
«Vostra eccellenza» disse zio Mark con rinnovata condiscendenza «Perché non somministriamo il siero anche alla ragazza spagnola? Come potete crederle sulla parola!».
«No!» strillò lei cercando una via di fuga. Tiziano la prese al volo per un braccio e la strattonò per farla calmare.
«Sei impazzito! E’ una testimone, non una condannata» aveva stabilito Valchiria.
«E allora lasciate che Leona smentisca la sua versione! Se non avete nulla da nascondere, cosa avete da perdere?». Valchiria si accasciò sul suo scranno di legno, spazientito da tutto quel marasma, e si massaggiò le tempie mentre uno strano sorriso squarciò il suo velo di esasperazione.
«Molto bene. Perché non glielo chiedi tu stesso? Chiedile se Mendoza ha detto il falso, avrà ancora in circolo un po’ di quella robaccia spero…ma ponile le domande giuste» disse inverosimilmente annoiato.
Zio Marcellus adesso guardava me. La speranza che gli luccicò nel profondo dei suoi occhi mi fece male da morire. «Leona…» disse. No, ti prego, non lui. Non potevo fare questo all’uomo che mi aveva cresciuta, che aveva salvato me e il mio gemello dall’abbandono, che si era preso cura di noi e ci aveva dato una nuova casa e una nuova vita. Ma sapevo che non avrei resistito ancora una volta al dolore del siero delle fate, non avevo altra scelta. Sollevai la testa consapevole che le parole che avrei pronunciato di  lì a poco, sarebbero state più taglienti delle mie kopis di ghiaccio. Scusa zio.
«…hai ucciso tu i nostri fratelli di Andromeda?»
«Io ho ucciso degli Abomini. Quelli non erano più i miei fratelli…non si sarebbe fermati finché non avessero raggiunto il loro scopo. Ho dovuto farlo. E non me ne pento» dissi con orgoglio «anche lei è una di loro, ti prego almeno tu devi credermi!».
«Limitati a rispondere alle mie domande» urlò tremante di rabbia, delusione. Forse entrambe.
«Chi erano i vampiri di cui ci ha parlato la ragazza?»
«Appartengono a un clan a noi sconosciuto. Ma non rappresentano una minaccia, sono civilizzati. Non si nutrono di sangue umano, cacciano gli animali!».
«Avete sentito tutti, è eretica e pazza come la madre!»  esclamò un tronfio Gomez con i suoi soliti ridondanti vilipendi «per quanto ancora dovremmo insozzarci le orecchie con le sue bestemmie?».
«Se solo mi ascoltaste…».
«Abbiamo sentito già abbastanza»
«Non sono bestemmie, è la verità! Mia madre aveva ragione! Noi protettori ci ergiamo al di sopra di tutti come se fossimo le divinità salvifiche degli umani ma in realtà siamo solo degli ipocriti che non contemplano la possibilità di sbagliare. Non siamo sempre noi a ricoprire il ruolo degli eroi. A volte anche noi sappiamo trasformarci in mostri, tanto quanto loro, i vampiri».
«Adesso basta! Marcellus ponile la domanda fondamentale e finiamola qui!»
Lo zio pianse. Raccolto nel suo dolore, sempre dignitoso e composto. Non aveva pianto nemmeno quando era morta sua sorella…«Perché?» alitò pianissimo «Perché ci stai facendo questo? Non pensi a tuo fratello?».
«Zio ti supplico, non prolungare ancora questa agonia, fammela e basta» gli dissi con la voce straziata dalla commozione. Lui strinse un pugno e corrugò la fronte ricoperta da fili canuti, dritti come spaghetti. Mi guardò ancora ma questa volta era sereno. Aveva raccolto le sue emozioni e le aveva chiuse a chiave nel suo scrigno. «Hai davvero preferito combattere al fianco di quei tre vampiri piuttosto che difendere i tuoi compagni protettori?». Siero o non siero, gliela dovevo quella risposta. Non so per quale motivo lo feci, ma glielo confessai sorridendogli.
«Sì, l’ho fatto. E lo rifarei altre cento volte. Stavo assolvendo al mio compito di protettrice, quello per cui Gassan e Mayak mi avevano chiamata: difendere chi è innocente». Pensai che non avrei potuto deluderlo in modi più dolorosi di quello. Ma quella che vidi non fu delusione. Non riuscì a capire perché anche lui avesse risposto al mio sorriso.
I sette ci condannarono a morte all’unanimità e, a giudicare dai loro gridi esultanti, il popolo sembrò entusiasta di quella decisione. Prima però avrebbero giustiziato i compagni di Romeo per la loro infedeltà alla sovranità dei sette e del Sire. Gli arcieri si prepararono all’esecuzione e incoccarono le loro frecce infuocate. Poco prima che il Sire desse l’ordine, Romeo si alzò da terra, imponente come la colonna portante di un tempio e disse:
 «Sacrifice».
Le grida della madre di Morgana strapparono il grigiore dei cieli in due e ripiovvero su di noi sotto forma di fulmini folgoranti. Tiziano si mummificò con il braccio teso, ancora pronto a ordinare l’esecuzione. L’avevo soltanto letta nel libro della storia di Hijir quella parola, impregnata di leggende. Era nata per essere inchiostro su carta, non di certo per essere pronunciata ad alta voce. Già soltanto pensarla e ripeterla nella mia mente mi aveva dato i brividi. Ma lui l’aveva strappata dal passato e l’aveva evocata come un fantasma nel nostro presente.
Sacrifice. Era la massima espressione del coraggio e dell’eroismo  che un uomo poteva dimostrare negli ultimi atti della sua vita. Una antica usanza andata persa nei secoli che consentiva a chi la pronunciava di sacrificarsi, appunto, al posto dei proprio compagni condannati a morte, in cambio della loro libertà.
«Ne sei sicuro?» fu tutto quello che riuscì a dire Tiziano, anche lui scosso da quella parola.
«Ti sembra la faccia di uno che ha voglia di dissacrare le antiche usanze del nostro popolo?» gli domandò retorico.
«Sei molte cose Romeo, ma non un profanatore di tradizioni Hijiriane» e, dopo aver avuto il benestare della coorte, diede l’ordine di rilasciare i prigionieri.
«Fagliela pagare ragazzina che corre con i vampiri, conto su di te. Abbi cura della mia Morgana. Falle scoprire la bellezza della sua anima da guerriera e ricordale di portare sempre alto il nome dei Cacciasciacalli».
«Sono molto fiero di lei. Nessun figlio maschio avrebbe potuto rendermi fiero come lo ha fatto lei. Ho commesso molti errori di cui mi pento, ma lei ha dato un senso a tutto quello che è stato di me. Lei è stata la cosa migliore della mia vita».
«Ti prego…» aggiunse «Chiedile perdono da parte mia…».
Quelle furono le ultime parole che mi rivolse il generale dei cacciatori di licantropi prima che il suo petto esplodesse in un fiotto di coriandoli scarlatti. Sollevò gli angoli della bocca, dimostrando a colui che aveva premuto il grilletto che se ne sarebbe andato da eroe. Portò le mani sul suo cuore trafitto e si unsero di un liquido carminio, spargendosi sul suo pettorale come se fosse acquerello su tela. Il gigante rosso tramontò ai miei piedi quando ormai la vita aveva già abbandonato il suo corpo.
Trattenni il respiro quando la mia migliore amica invocò il nome del padre e, ancora in trans, seguì la traiettoria di quel proiettile fatale. La canna della pistola era ancora fumante, l’eco dello sparo mi ronzava nelle orecchie. L’impugnatura della l’arma tremò fra le mani opulente e sudaticce dell’assassino che  ridacchiava con ghigno folle.
 Gomez.
Tiziano, turbato tanto quanto me, fissava agghiacciato le dita arcuate attorno alla pistola che adesso non c’era più. Una pistola col caricatore pieno, meditai nel caos dei miei pensieri.
La sua bocca di metallo mirò alla mia testa. Gomez sparò una seconda volta.
Non credevo che la morte fosse così indolore. Non sentivo nulla. Ma ero ancora legata, il vento continuava a pungermi la pelle con le sue folate gelate.
Poi capì. Un’ombra aveva deviato il proiettile che mi era stato destinato e lo custodiva dentro la sua carne per impedirgli di raggiungermi.
Zio Mark si voltò e mi sorrise con qualche colpo di tosse.
«Tua madre non me l’avrebbe mai perdonato» sussurrò prima che le sue iridi diventassero opalescenti e sulla sua camicia fiorissero petali di papaveri.

NOTE DELL'AUTRICE: Ciao a tutti miei lettori silenziosi! Mi é costata non poca fatica scrivere questo papirone colossale perché la testolina non mi funzionava bene in questi giorni ma finalmente l'ho partorito (anche se non sono completamente soddisfatta; probabilmente fa pena, ma lo pubblico lo stesso). Tornero' il prima possibile a rompervi le scatole con il prossimo capitolo 'Il tradimento di un popolo pt. II' (che prometto sarà mooolto più breve di questo). Sta volta niente anticipazioni, soltanto abbracci virtuali e buon proseguimento di quarantena.
Sciaooo a presto!

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Capitolo 38
*** IL TRADIMENTO DI UN POPOLO PT. II ***


CAPITOLO 24 – IL TRADIMENTO DI UN POPOLO PT. II 

La terra tremò, sgomentata dallo sbercio acuto che traboccò dalle mie labbra. Il mio canto di dolore l’aveva scossa nelle sue profondità perché per lei, madre affettuosa, era intollerabile che qualcosa o qualcuno potesse nuocere la figlia.  Il terremoto fu solo lo specchio delle emozioni che mi dilaniavano dentro ed era stato implacabile nella sua fregola di devastazione.
L’ammattonato sotto di me  si era crepato in una fitta ragnatela di ricami pericolanti. Le intense oscillazioni avevano cancellato le storie del nostro popolo trasformando i mosaici in una caligine sabbiosa di color arcobaleno. Travi e architravi si erano spezzate sotto il peso dei detriti ed erano crollate sulle fondamenta delle abitazioni.
Come una mandria di cavalli imbizzarriti, la folla si confuse in un ginepraio di strilli e fughe infruttuose, poiché la calce e i mattoni sbarravano le vie non più sicure dell’antica cittadella. Le sue asperità ne ostacolavano il cammino.
Era successo di nuovo. Proprio come quella volta. Non ero riuscita a controllarmi. Mi ero svuotata di tutto ciò che addolorava il mio stato d’animo e lo avevo riversato all’esterno, manifestandosi in tutto il suo catastrofismo. Non ero altro che un recipiente vuoto, non sentivo più nulla, non c’era più rabbia, non c’era più dolore, il mio io era stato azzerato.
«Uccidetela!» gracchiò una voce quando la terra terminò la sua danza.
Ridestata dal mio forte istinto di conservazione, mi separai dal corpo inerte di mio zio, e mi preparai a combattere, per onorare il suo sacrificio.
I protettori e i loro ferri stridenti mi chiusero in un girotondo di spade e cappe nere e vermiglie. Il primo si contorse su se stesso gettando un grido di battaglia e tracciò un arco rifulgente con il piatto della lama all’altezza del mio collo, che evitai facilmente. Una volta compromesso il suo equilibrio, lo disarmai con un calcio rotante e lo colpì sotto il mento giungendo le mani in un gesto di preghiera. Lui si piegò in avanti ed io ne approfittai per saltargli sulla schiena per poi sbalzare all’indietro dove un altro sfidante attendeva il suo turno. Con la sua testa fra i miei anfibi, prillai il corpo dalla vita in giù e lo proiettai a terra assecondando il moto rotatorio delle gambe, l’unica arma a mia disposizione. Rotolai su un fianco e gli assestai un colpo secco sulla nuca, lasciandolo stordito sul pavimento. Nonostante il mio chiaro atto di resistenza ai loro attacchi, tornarono più perentori di prima con le lame sguainate.
Chiusi gli occhi e acuì l’udito in un totale stato di meditazione delle onde sonore. Quella tecnica, appresa a Londra, mi rendeva praticamente invulnerabile agli affondi e alle stoccate delle loro scimitarre, perché riuscivo a prevedere la loro direzione prima che si concretizzasse. Ma per quanto avrei potuto continuare senza l’uso delle braccia? I protettori continuavano a spuntare dal nulla come le teste di un’idra: ne abbattevo una e ne tornavano alla carica altre due.
«Arcieri, incoccate le frecce!» ordinò ancora quella voce sovrastata dal musicale trillo metallico di una spada. L’insostituibile melodia di Symphony si faceva strada a suon di vibranti note armoniche e cozzava contro le altre lame glissando come mazzuole sui tasti di un xilofono. Il suo proprietario la brandiva con padronanza di sé riconoscendone la sua letale bellezza. Il blu dei suoi occhi, incupito dalla rabbia, lanciava occhiate incendianti ai suoi oppositori infierendo su di loro privo di qualunque sorta d’indulgenza.
«Volevi fare la splendida da sola?» disse Gab disegnando con Symphony una mezza luna dal basso. Squarciò l’aria con un sibilo e le corde ricaddero a terra sfibrate. Ero di nuovo libera. Ignorando il bruciore ai polsi, m’affidai ancora una volta al mio istinto e risvegliai il mana dalla sua fonte con una sola ambizione: riavere le mie kopis. Il bronzo d’Hijir delle loro else rispose all’attrazione magnetica emanata dalle mani e attraversarono la piazza in volo per correre incontro alla loro padrona giusto in tempo per parare un colpo che calò dall’alto.
Chi vi assistette ne rimase sconvolto e sui loro volti si dipinse la paura. Per un attimo si fermarono tutti, troppo stupiti per proseguire in quella battaglia. Il desiderio di avere una risposta alle domande che gli tuonavano nella mente era più urgente di qualsiasi altra cosa. Quando ottennero quella risposta era troppo tardi.
Valerio, Fabiano, Ethan, Caterina, Norman e Fabrizio sfoderarono le loro armi e gli piombarono alla spalle. Di lì in poi fu tutto un caos di sangue e violenza. Fra stridii di spade e lance, riuscì anche a intravedere un drappo di capelli rossi come lingue di fuoco gettarsi nella mischia.
Morgana aveva lo stesso sguardo grifagno di un demonio belligerante, ma i suoi occhi gonfi e tumefatti dal pianto non le offuscarono la mira. Le punte aguzze delle sue frecce centravano i protettori che aleggiavano attorno a Gomez e Tiziano con una precisione, una velocità e una freddezza sovraumana. Apertosi un varco su quel codardo e ingrato assassino, non ci pensò nemmeno per un istante a tirarsi indietro e tese l’arco con un urlo straziante. Gomez arretrò impaurito, puntandogli contro la stessa pistola che aveva ucciso suo padre. Ma non partì nessun colpo dalla canna. Il dardo di Morgana sfrecciò prima che lui potesse premere il grilletto.
La pistola volò lontano e a Gomez non rimase che un palmo sanguinante trafitto da una freccia avvelenata dal dolore di una ragazza a cui le era stato strappato tutto il suo mondo. La mia amica d’infanzia, però, non era ancora soddisfatta, la vendetta la stava consumando come la testa di un fiammifero avvolto dalle vampe. Gabriel intuì ancor prima di me le sue intenzioni e, roteando la sua amata spada, si aprì la via per raggiungerla gridandole di fermarsi. Le si gettò addosso e finirono col rotolarsi fra le crepe del pavimento, denudati delle loro armi. Gomez, vigliacco fino al midollo, approfittò della situazione per fuggire via mentre Morgana strillava a Gabriel, con tutto il fiato che aveva in gola, di farsi da parte. Più lei gridava e si dimenava, più lui la stringeva forte a sé e le sussurrava parole all’orecchio, dondolandola fra le sue braccia.  «Mendoza proteggimi! Uccidi la ragazza!» ordinò Gomez alla protettrice di Vega, nascosta dietro le vesti del Sire.
Miranda lasciò la sua postura gobba e si morse a sangue l’unghia del pollice. Sbarrò gli occhi con le pupille che le danzavano su e giù fra le palpebre e reclinò la testa all’indietro poco prima che la licantropia s’impossessasse di lei.
Poi ululò. Il gioiello d’argento le scoppiò sul dito e rivelò la vera natura di quello che celava sotto di sé. La zanna conficcata nella giuntura della pelle, crebbe fino a raggiungere le proporzioni reali di quelle di un licantropo. Il simbolo del Linckage le pulsò sul polso e i muscoli cominciarono a risalirle come un rampicante dai polpacci. Il suo corpo ossuto stava mutando proprio davanti a noi in un tumulo di fremiti e guaiti divenendo sempre più grosso. La pelle si ricoprì di una folta peluria tramutandola in un mostro ringhiante dagli occhi neri di dimensioni gigantesche. Ululò ancora a una luna che solo lei poteva vedere e disse quasi in un mugghio cavernicolo: «Yo soy l’Alpha ». Io sono l’alfa.
Non si fece scrupoli quando azzannò la spalla di un protettore che sfortunatamente si trovava lunga la sua traiettoria. Con quella zampata, il ragazzo fece un volo di quasi cinque metri e andò a sbattere contro un altro gruppo di ribelli che stava lì impalato a osservare la scena. Altri provarono a fermarla, ma fecero una fine altrettanto spiacevole. Il meta-lupo gigante puntò la sua preda e incattivì lo sguardo. Con la forza di un carro armato iniziò a correre, disseminando feriti lungo la via.  Il mostro stava per raggiungere Morgana e mio fratello ancora stesi a terra l’uno sull’altra. Symphony era troppo lontana, non avrebbe fatto mai in tempo, né tanto meno io, circondata com’ero. Mi sentii morire.
Quando guaì per la ferita che la lancia gli aveva procurato, mi sembrò di vivere un déjà-vu. Ero così impegnata a difendermi dai fendenti aggressivi del corpo di guardia di Valchiria, che non mi accorsi nemmeno che Caterina aveva abbandonato la prima linea e si era precipitata in aiuto dei suoi amici. Quel diversivo permise a Gab e Morgana di riappropriarsi della spada e dell’arco ma Caterina non resistette abbastanza a lungo da mettersi in salvo. La mostruosità si sfilò la lancia dal fianco con estrema lentezza, grande quanto uno stuzzicadenti dentro la sua mano, e la gettò via. Lo sguardo rabbioso della Lupa cercò colei che l’aveva colpita e si fermò su Caterina, tesa come una corda di violino, indecisa se correre a riprendersi la sua lancia o, nella peggiore delle ipotesi, affrontarla a mani nude. Ma la Lupa la sgravò di quella scelta affettandola con il suo artiglio da alfa.
Norman, cha aveva visto tutto, corse da lei che, nel frattempo, si era piegata trattenendosi lo squarcio apertosi sul petto. Era ancora viva, ma perdeva troppo sangue. Norman la prese in braccio e tentò di trascinarla via di lì mentre Gab urlava alle bestia di farsi sotto e Morgana la riempiva di frecce allo strozzalupo.
«Dannazione uccidete quella mostruosità! Prendete lo strozzalupo! Arcieri pronti a mirare!» sputò Valchiria con la bava che gli colava sulla barba brizzolata.
«Ma Signore colpiremo i nostri! C’è mio figlio lì in mezzo!» gli urlò Tiziano dimentico del contegno e del rispetto con cui ci si dovrebbe rivolgere a un membro dei sette.
«Ha scelto di  stare dalla parte dei ribelli! Mirate ho detto!» e le frecce ascesero al cielo colorando di rosso il candore delle nuvole. 
Il tempo scorse a rallentatore, come granelli di sabbia all’interno di un clessidra, in attesa che quella pioggia acuminata ci trafiggesse dall’alto. Le lotte non cessarono, nessuno rinfoderò la sua spada. Respinsi una protettrice con una ginocchiata e mi guardai attorno.
Un gruppo aveva accerchiato Fabiano e Valerio, ma loro, schiena contro schiena, rispondevano abilmente ai loro attacchi. Ethan e Fabrizio aiutavano Norman a tamponare la ferita di Caterina, comprimendo l’emorragia con la cappa della ragazza. Gli occhiali di Fabrizio erano macchiati del suo sangue e gridava aiuto. Morgana afferrò la mano di Gab, sollevò il mento in su’ e chiuse le palpebre, come se stesse attendendo la morte insieme a lui.
Eccole lì,  le frecce, fare capolino fra le nubi, arse dalle fiamme, cominciare la loro discesa, e ognuna di esse mi minacciava di colpire qualcuno a cui volevo bene.
Adesso basta, pensai.
Nessun’altro doveva morire, non finché avrei potuto evitarlo.
Conficcai le mie lame ghiacciate a terra fra le fenditure e elevai le braccia al cielo qualche frazione prima che le frecce giungessero a destinazione.
«Ma cosa è successo? Dove sono finite le frecce?» si sfogò Valchiria con gli occhi fuori dalle orbite.
Piro-cinesi avrei dovuto rispondere. Ma non credevo avrebbe compreso in ogni caso. Le frecce erano state consumate dagli stessi tizzoni che le avevano accese ed erano scese su di noi sotto forma di cenere.
«E’ stata lei, l’ho vista alzare le braccia! Ha manipolato il fuoco!» aveva detto una donna. «Ma è impossibile!» disse un altro «Che cosa sei?».
«Non ci siete ancora arrivati?» risposi monocorde, con un pizzico di sollievo. «Basta nascondersi» dissi e mi impadronì delle raffiche di vento facendole ululare anche più forte della Lupa. Gli uragani che vorticarono al mio fianco furono la prova schiacciante. Anche i più increduli cominciarono a capire. Ma non ero lì per dare spiegazioni a nessuno. Intrappolati fra i vortici, vi erano pezzi di calcinacci, mattonelle e pietre appuntite. Non c’era bisogno di dire nulla, Gab aveva afferrato. Ripose Symphony nel fodero e mi aiutò a gestire le trombe d’aria fino a renderle stabili. «E’ l’ora di andare a ninna lupacchiotta!» le disse Gab alla Lupa prima di scagliarle contro quella bufera di mattoni e rocce. Miranda non riuscì ad evitarla e rimase travolta dal peso delle macerie, soffocando gemiti cupi fra le fauci.
Regnò il silenzio.
«Non posso crederci…» esclamò Morgan tramortita da uno stato di trans.
«Sapevo che quei due non me la raccontavano giusta…» mormorò una Caterina sofferente. Andai subito da lei «Non sforzarti, non dire una parola» le dissi esaminando la gravità della ferita. Norman, Ethan e Fabrizio mi guardarono come se fossi un aliena. «Caspita! E’ profonda e si sta infettando» imprecai. 
«E’ un taglietto, non dire cazzate…» minimizzò lei.
«Sta zitta, ti ho detto»
«Cos’è, adesso che sappiamo che tu sei una medjai fai l’autoritaria?».
«Lo sai che se continui morirai? Ti prometto che sentirai solo qualche pizzicotto».
«Tenetela ferma» feci cenno a Ethan e Norman. «Fabrizio, tu le gambe» e gliele indicai. Norman non se lo fece dire due volte e le immobilizzò il braccio destro immediatamente. Ethan, invece, esitò scrutandomi dalla testa ai piedi con sospetto. Gli lanciai un’occhiata supplicante e lui in tutta risposta arricciò le labbra. «Hai sentito cosa ha detto Leona, non muoverti per favore».
«Tesoro se sei tu a chiedermelo non posso rifiutarmi» lo assecondò Caterina, e i due si sorrisero. Avevo già raccolto un pugno di terra. Glielo spalmai delicatamente sul petto, massaggiandole quel grumo sanguinolento e trasferì la mia energia per modificare lo stato delle molecole, come mi aveva insegnato lo zoologo. «Ti prego, fa che funzioni…». La terra mescolata al sangue cominciò a sciogliersi per poi solidificarsi attorno alla ferita e pian piano si tramutò in muscoli e tessuti. Il processo mi stava affaticando molto e la tensione non aiutava per nulla. «Puoi farcela» disse quella voce gentile. La sua mano poggiata sulla mia spalla a darmi conforto. Fabiano aveva il viso tutto sudato ma riuscì a infondermi pace col suo sorriso. Annui e tornai a concentrarmi sulla ferita della mia amica.  «Un ultimo sforzo» sussurrai in affanno mentre ricongiungevo la pelle, rassembrandola come meglio potevo.
«Non sanguina più…» disse un Fabrizio chiaramente stupito «Come hai fatto a trasformare le molecole di carbonio, gli aminoacidi…».
«Te lo spiegherò un’altra volta» dissi asciugandomi il sudore che m’imperlava la fronte.
«Per tutto questo tempo…» cominciò una Morgana singhiozzante «…perché non hai fatto nulla? Tu avresti…tu…» non riusciva a smettere di piangere guardando il corpo senza vita del padre. «Avresti potuto salvarlo!» si rese conto in fine. «Morgana non…» ma non mi fecero finire.
«Ma questo è il potere dei medjai!» iniziò a bisbigliare la gente sottovoce in un passaparola senza fine. «E’ quello è un abominio, la ragazza e Romeo dicevano il vero allora» si confidavano fra loro altri. Valchiria e Tiziano si guardarono a lungo comunicando in silenzio con il loro strano linguaggio fatto di espressioni corrucciate.
«Discendenti di Hijir! Prestate attenzione per favore!» disse Valchiria scendendo dal palco facendosi strada fra le rovine della piazza. «Unitevi a me e combattiamo gli impostori! Questi ragazzini non possono essere i medjai, non proferiamo bestemmie. E’ tutto frutto di un illusione, è magia oscura! Sono loro i veri artefici di questo abominio e Gomez, ahimè, era un loro complice, lo abbiamo visto tutti come ha comandato alla creatura di trasformarsi» disse indicando la Lupa priva di sensi sotto un cumulo di calcinacci.
«E questa sarebbe una illusione?» urlò mio fratello innalzando una colonna di fuoco fino a sopra la sommità dei tetti. Molti, alla vista di quello spettacolo, insorsero furiosi aggredendo lo squadrone di contenimento personale dei sette saggi gridando «No! Siete solo dei bugiardi, ci avete mentito!» gridò il popolo ai suoi sovrani. Contro ogni aspettativa, fu Tiziano a prendere parola: «Siate ragionevoli! Anche se fosse vero, che cosa hanno fatto per voi questi medjai? Lo hanno tenuto nascosto per anni, hanno distrutto la nostra città sacra di Betelgeuse con il terremoto, hanno permesso a questa mostruosità di ferire i nostri fratelli! Dov’erano quando avevamo bisogno di loro?».
«Il Sire ha ragione!» lo sostennero alcuni.
«Avrebbero potuto impedire con il loro potere tutte quelle sparizioni e avrebbero potuto combattere al nostro fianco contro la setta di Attilius ma non hanno mosso un solo dito in nostro favore! E adesso che si sono rivelati, poiché messi alle strette, vorrebbero che ci inginocchiassimo al loro cospetto? Giammai! Forse un tempo i medjai erano i nostri alleati ma adesso non lo sono più! Preferiscono la compagnia di un succhia sangue a quella nostra e questa colpa non potrà essere mai cancellata!».
Si scatenò una vera e propria guerra. Una parte del popolo, i ribelli di Romeo, capitanati adesso da un Valerio dal rinnovato spirito rivoluzionario, si schierarono dalla nostra parte, un’altra invece si lasciò abbindolare ancora una volta dalle falsità del Sire e delle coorte. Il Sire e i sette si confusero fra la folla e non li vidi più. Ma avevano ottenuto quello che volevano: lo scisma definitivo che avrebbe portato alla rovina il campo di Betelgeuse.
Gridai a Norman, Fabrizio e Ethan di portare Caterina in salvo, ma non mi vollero ascoltare. Non mi diedero altra scelta, dovevo proteggerli. Con le ultime forze che mi rimanevano, ordinai alle radici di risalire dalle profondità della terra e di avvolgere i miei amici in una sfera di tronchi e rami impenetrabile. Qualcuno protestò al suo interno, ma il suono delle loro voci venne smorzato da quel folto intreccio alberato. Avrei voluto infilarci là dentro anche Fabiano e Morgana, ma erano troppo lontani.
Ancora una volta ci trovammo nel bel mezzo di una battaglia, in una spirale senza fine di armi e sangue. Mio fratello puntò i suoi fari blu su di me e capì fra le righe, attraverso quello sguardo carico di tristezza, che Betelgeuse non era più il nostro posto. Se volevamo ristabilire la pace, avremmo dovuto abbandonare casa nostra e fuggire lontano, lo zio avrebbe voluto questo.
Se pensavamo che le cose non potessero andare peggio di così, ci sbagliavamo di grosso. La Lupa si era risvegliata ed era molto più imbestialita di prima. Fissava Morgana, inginocchiata accanto al corpo del padre, insieme a sua madre, con i suoi occhi gialli opacizzati dalla follia. In mezzo a tutta quella marmaglia di protettori e ribelli non potevamo permetterci di utilizzare il potere elementale senza rischiare di ferire qualcuno.
Ma poi l’eco potente di un ruggito ci scosse fin dentro le ossa. Il ruggito inconfondibile del re della foresta richiamò a sé l’attenzione della Lupa in un chiaro atto di sfida. Esso riverberò fra le macerie e ci offrì per un attimo una piccola tregua da quel bagno di sangue, poiché tutti si fermarono a guardare quella creatura mitologica delle antiche leggende avanzare regalmente con passo felpato.
Non era affatto un re, era una regina, coronata da una criniera di un bianco immacolato.
Edna assumeva raramente la sua forma originale, ma adesso tutti potevano ammirarla in tutto il suo splendore. Il manto bianco da leonessa era bellissimo. La criniera le svolazzava attorno in un vortice di candore accecante e i suoi occhi risplendevano ancor di più di un topazio e uno zaffiro. Le squame sulla coda da rettile riflettevano la luce con un bagliore fioco risalendo fino alla testa triangolare di un drago. «Guardate! E’ una Chimera» la riconobbe qualcuno.
La titanica leonessa albina si acquattò sulle zampe e attese che la sua avversaria accogliesse la sua provocazione. L’abominio non poté sottrarsi al suo istinto ferino e ululò in risposta al ruggito di Edna correndole incontro a quattro zampe. Quando le due si scontrarono l’impatto fu devastante e riecheggiò come il rombo di un tuono mentre l’appendice squamosa di Edna saettava e sputava fuoco. «Forza bella, falle vedere chi comanda qui!» la incitò Gab.
La Lupa era nettamente più forte degli abomini che avevo incontrato a Londra ed era incredibile come riuscisse a tenere testa persino a una Chimera. Le due si sollevarono su due zampe e si azzannarono senza tregua, instancabili, si mordevano le rispettive pellicce,  affondavano i denti e fendevano il vuoto con le loro zampate. E avevo paura. Avevo una paura tremenda per la mia Edna, ma era l’unica in grado di affrontare quella bestia. In mezzo a quel tafferuglio, finirono col ruzzolarsi a terra, in alternanza l’una sopra l’altra, in quella perpetua giravolta di nero e bianco, mescolandosi come lo yin e lo yang.
«Tu e Gab dovete andare via, fuggite adesso che sono tutti distratti» mi aveva bisbigliato Fabiano avvicinatosi di soppiatto alle mie spalle. Aveva del sangue raggrumato che gli scendeva lungo il collo e delle escoriazioni sui gomiti ma per il resto non sembrava ferito gravemente.
«Ma Edna!» provai a protestare «Non c’è tempo! Andate» disse con assoluta fermezza cingendomi con un abbraccio che non potei ricambiare. Odorava di sudore, sangue e sapone liquido. Neanche il tempo di abituarmi alla dolcezza di quell’abbraccio che mi allontanò di scatto da lui con una spinta, con lo sguardo inorridito di uno che aveva appena commesso un sacrilegio.
L’odio che in quel momento s’impadronì delle mie terminazioni nervose mi diede la forza necessaria di afferrare il braccio di mio fratello, non molto distante da lì, e correre facendomi strada fra la folla a forza di gomitate.
Le guardie di Valchiria si accorsero di noi e ci inseguirono dentro il bosco.
Anche se in affanno e con il cuore che tamburellava nelle orecchie, Gab stese la mano sul fiume che ci scorreva accanto come un nastro azzurro scintillante e lo fece straripare sulla riva, bloccando la strada alle guardie che ci avevano quasi raggiunti, e attraversammo la barriera che un tempo divideva in due il campo, ormai crollata a causa del terremoto.  Lo sentì stringere la presa sulla mia mano quando il vento ci trasportò fin lì quel ruggito lacerante.
«Non voltarti  indietro fratellino, non farlo. Corri, corri!»  gli dissi a Gab ingoiando il dolore che mi ardeva nel petto. Continuammo a correre veloci fra gli alberi della pineta che tanto ci era cara, dove eravamo cresciuti, dove avevamo imparato a combattere, e fu tremendo lasciarsi assalire dalla malinconia dei ricordi, le amicizie che erano nate, gli amori sbocciati, fra risate, risse e bravate, tutte le emozioni forti che avevamo vissuto in quei luoghi sembravano ricordarci che avremmo lasciato per sempre una parte di noi stessi, dove tutto aveva avuto inizio. Il buio della boscaglia si stava diramando, la luce filtrava fra foglie, rami e le frasche e lentamente si snodavano lasciandoci il passaggio libero sulla rupe avvolta dalla nebbia.
«Saltate» risuonò una voce rassicurante nella mia testa. A giudicare dalla faccia sorpresa che fece mio fratello, anche lui doveva averla sentita. Un flusso ascendente d’aria fredda accompagnato da un fruscio d’ali, ci convinse di  quell’atto folle e saltammo insieme, ricolmi di fiducia, nel vuoto.
Atterrai su qualcosa di bianco, morbido e soffice. La creatura sbatté le ali squamose, di un color verde petrolio, e diradò la nebbia attorno a noi, facendola vorticare al di sotto di essa. Il lungo collo del drago si era avvolto sul corpo di Gabriel afferrandolo appena in tempo prima che precipitasse dal dirupo, e lo lanciò sulla groppa non troppo delicatamente. Acchiappai per la cappa mio fratello per evitare che scivolasse di nuovo. «Di tutte le chimere, proprio la più stronza ci doveva capitare!» sbuffò Gab.
Edna ruggì con una certa irrequietezza e Gab decise che non era assolutamente nelle condizioni di controbattere al rimprovero della sua salvatrice.
«Te l’ho mai detto che il bianco ti dona molto?» le aveva detto per farla calmare ma lei non si sarebbe mai lasciata affascinare dai suoi patetici tentativi di prendersi gioco di lei. Si sistemò a cavallo della leonessa alata dietro di me, accucciando la testa fra i miei capelli e cingendomi i fianchi quando già  cavalcavamo fra le nuvole.
«Non preoccuparti di quello che verrà. Qualunque cosa ci aspetta lì fuori la faremo insieme. Ricordi la nostra promessa?» mi sussurrò Gab all’orecchio. Come potevo dimenticarla.
«Insieme. Finché non saremo polvere e ossa» recitai con voce rauca.
«Finché non saremo  polvere e ossa» ripeté lui dolcemente.
«Qual è la nostra destinazione?» chiese Edna quando Lo Specchio era ormai vicino.
«Roma, mia bella leoncina» disse  Gab con un certo entusiasmo. «Andiamo a prenderci quel dannato ciondolo».

NOTE DELL'AUTRICE: Ciao a tutti Lettori Silenzioni e benvenuti nel mio piccolo angolo di sclero! Eccomi tornata come promesso con la parte conclusiva del capitolo precedente! Vi ho trollati purtroppo, vi avevo promesso che il capitolo sarebbe stato più breve, ma, per la barba di Mayak, come al solito mi sono lasciata prendere troppo la mano! Quindi le mie mille mille scuse! Ma d'altra parte 'chi tace acconsente' quindi pensero' che a voi non dispiaccia la piega che sta prendendo la storia in questo momento e che anche la sua lunghezza chilometrica vi stia bene. Sarebbe bello ogni tanto confrontarsi con qualcuno per parlare dei pregi e difetti di questa fanfiction ma soprattutto dei personaggi, anche per capire se c'é qualcosa che non va e cosa puo' essere migliorato. Rispetto ovviamente il pensiero di chi preferisce leggere senza esprimere la propria opinione. Nel prossimo capitolo i nostri medjai s'infiltreranno nel raths delle fate e chissà come andrà a finire? Ovviamente da brava autrice perfida che sono, non permettero' che tutto fili liscio come l'olio (muahahah *risata malefica*).
Stringiamo i denti che la quarantena sta per finire! Auguro a tutti i Silenzioni una buona domenica e a presto!

 

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Capitolo 39
*** LA TANA DEL BIANCONIGLIO ***


CAPITOLO 25 – La tana del Bianconiglio

 
«Chi sei tu? Esci fuori dal corpo di mia sorella!».
Quando ci si metteva, Gabriel era uno dei pochi in grado di estorcere dalla mia impeccabile raffinatezza, quello spruzzo di cafoneria repressa che albergava dentro me e a cui avevo riservato soltanto un piccolo angolino, giusto per non far mancare nulla alla mia già più che poliedrica personalità.
Fa un bel respiro Leona, non puoi picchiare a sangue tuo fratello in mezzo a tutti questi umani pensai. “Adesso sei una signorina a modo, fasciata dal tuo bel vestitino di velluto con tutti i merletti che hai sempre sognato di indossare” proseguì nel mio monologo interiore. Un vestito di una tonalità che fa risaltare il blu profondo dei miei occhi, come aveva suggerito la commessa del negozio da cui lo avevo soltanto preso in prestito, non rubato. “Glielo avrei reso presto” dissi più per convincere me stessa che altro. Volevo farci solo un giretto e sapere come ci si sente ad essere femminili per una volta. Come lo era Alice. Bella, aggraziata, delicata.
«La fai finita di guardarmi in quel modo! E’ solo un camuffamento per passare inosservati, tutto qua. O preferivi che passeggiassi per le vie di Roma conciata come una criminale e con le kopis in bella vista? Tanto valeva mettersi un cartello con su scritto: “sono una terrorista!”».
«Non so cosa intendi per passare inosservati, ma credo proprio che tu lo stia facendo nel modo sbagliato» dichiarò con un sopracciglio inarcato. Chiusi i pugni fino a fare sbiancare le nocche, imprecando in aramaico per la sua insolente scortesia. «Guarda che il mio voleva suonare come un complimento» disse stringendosi nelle spalle «Dannazione sorellina, sei diventata carina quasi quanto me» finì, un po’ imbarazzato, grattandosi i suoi boccoli vorticanti.
«Quasi, eh?» lo stuzzicai stirandogli una guancia di lato. Era inutile fargli notare che eravamo gemelli omozigoti.
«Ovviamente il più bello della famiglia rimango sempre io, non montarti la testa» continuò a parlare sbiasciando le parole come se avesse una caramella in bocca. «Se lo dici tu» gli concedei sistemandogli la piega della giacca color seppia. Mi prese sottobraccio e attraversammo insieme le strisce pedonali. Al nostro passaggio, un ragazzo con i capelli ben impomatati a cavallo del sellino della sua vespa rossa fiammante, ammiccò nella mia direzione facendo rombare il motore. «Ecco a cosa mi riferivo prima» esclamò Gab esasperato.
«Pensi che troveremo mai la tana del bianconiglio?» mi chiese quando raggiungemmo l’altra sponda del marciapiede. «Sono tre giorni ormai che gironzoliamo a vuoto! Avremmo dovuto portare almeno Norman con noi, potevamo risparmiare la metà del tempo» sbuffò sollevando un ricciolo che gli molleggiava davanti agli occhi.
«E’ vicina Gab, me lo sento. Non riesci a percepirla?»
«Percepire cosa? Non dirmi che ti sei data delle arie…». Allora voleva proprio morire? Lo ignorai. «L’energia convergente» spiegai «l’elettricità si fa più intensa in questa zona». Eccome se lo era, avevo il formicolio in tutto in corpo, il sesto senso che mi metteva in guardia nel caso in cui stesse per accadere qualcosa, non per forza di allarmante. «Per di qua».
La città eterna era qualcosa di incredibile. Oltre a trasudare storia, magnificenza e bellezza, era viva come un cuore pulsante. Ero cosciente di essere lì in missione, ma non potevo nascondere che me la stavo godendo un po’ come se fosse una vacanza. Dopo quello che avevamo vissuto pochi giorni prima, era proprio quello che ci serviva.
Gab si ostinava a non risollevare l’argomento. Anche se aveva sempre la battuta pronta e sembrava tirar fuori il suo pungete sarcasmo dal taschino accanto al bavero del suo elegantissimo blazer nei momenti meno opportuni, sapevo che era solo un modo per mascherare ciò che lo faceva stare male. Non che non soffrisse per zio Mark, in fondo ci si era affezionato anche lui, più di quello che voleva dare a vedere. Non volevo giudicarlo per il modo tutto suo con cui stava elaborando il lutto.
«Quello è il Colosseo?» disse con una punta di delusione «Me lo immaginavo più grande».  «Wow, comincio a sentirla anch’io!» aggiunse mettendosi una mano in testa come per placare l’improvviso animarsi dei suoi capelli. Bastò un mio cenno, e ci mettemmo a perlustrare tutto il perimetro. Le ricerche proseguirono per diverse ore e anche se ci eravamo alzati molto presto, dando un sbirciata al sole, constatai con sorpresa che si era fatto mezzogiorno inoltrato, e ancora dell’entrata del raths delle fate non c’era nemmeno l’ombra.
Con studiata prudenza osservai mio fratello, attardandomi su quell’espressione frustrata che  sfumava fra le pieghe della fronte. «Stai pensando a lei, non è vero?».
«Lei mi sembra un po’ vago» ribatté con un sorriso che nulla aveva di umoristico «Ti sei persa giusto un paio di cose quando sei partita per Londra. Ci sono molte lei nella mia vita, Lea. Dovrai essere più specifica…».
«Con me non attacca fratellino. Non metto in dubbio che quello che dici sarà vero, e non pensare che ne vada fiera» lui mi fece una linguaccia «ma sono più che certa che ci sia una sola Lei che conta davvero per te. L’unica lei capace di far sparire qualsiasi altra. E ho come l’impressione che assomigli a una Carotina che noi due conosciamo molto bene…».
«Hai la minima idea di quanto tu sia irritante in questo momento? Mi stai facendo arrabbiare» disse lasciando qualunque cosa stesse facendo per stagliarsi davanti a me col petto in fuori e un sorrisetto al quanto malizioso.
«Correrò il rischio» lo provocai e mi feci avanti. «Pensavi davvero che non lo avessi notato» adesso ridevo io «Nasconditi pure dietro quella maschera da giullare, prima o poi dovrai ammettere a te stesso che ti ha proprio fregato!». Bene. Stava arrossendo.
«Guarda che non c’è nulla di male ad ammettere di esserti innamorato…almeno potrò sperare che tu abbia  un cuore»
«Ma fammi il piacere, io non sono innamorato di Morgana» disse sventolando una mano come per scacciare quell’idea così assurda. «Ammetto che è diventata carina» confessò allentando il colletto della camicia che gli soffocava il pomo d’Adamo «questo glielo concedo. Ma non è abbastanza per me. Lo sai che a me piacciono quelle formose e lei beh…». Fece spallucce.
«Sei un imbecille» sentenziai. «Non capisco davvero come una persona coraggiosa e intelligente come Morgana possa essersi interessata a un stupido pallone gonfiato come te».
«Perché lei ti ha detto qualcosa su di me?» Gli occhi di Gabriel si accesero come petardi bramosi di sapere di più su quella affermazione.
«Tanto a te che importa, lei è una come tante, no?». Lo guardai di sottecchi per non perdermi la sua reazione. E quello che vidi non mi piacque. Si era tolto la giacca per gettarsela sulle spalle e rimase solo con la camicia bianca, in tensione per via dei muscoli che sembravano scoppiargli dentro il cotone in cui erano avvolti. Quei poveri bottoni chiedevano pietà. Mi spostai di lato nel caso in cui uno dei essi gli fosse saltato sfrecciando fra noi alla velocità di un missile. Fessurò gli occhi come feriti dai raggi del sole, o almeno avrei voluto credere che quella fosse la causa, e si lasciò cadere sulla panchina sospirando rumorosamente. Quando li riapri erano lucidi e arrossati, e si mordeva le labbra come se volesse spaccarsele in due.
Il mio fratellino.
Qualcuno stava di certo giocando a spillare una mia bambola vudu o se no non mi sarei spiegata il perché mi sentissi pungere da tutte le parti. Non ero abituata a vederlo così, non si arrendeva facilmente alle sue emozioni ed io avevo sempre ammirato quella sua impenetrabile ermeticità. Quando avevo avuto bisogno di uno dei suoi caldi sorrisi, lui non me li aveva mai negati. Anche quando toccavo il fondo, sapevo che ci sarebbe sempre stato Gabriel al mio fianco. Lui non mi avrebbe mai lasciata sola. Io invece lo avevo fatto, lo avevo ferito. E continuavo a farlo proprio in quel momento, sventolandogli sotto il naso dei sentimenti che ancora non poteva riconoscere.
«Hai ragione stavo pensando a lei» aveva borbottato con remissività. Ma non era tutto.
Ritenne necessario articolare ancor di più quella risposta tempestandola di particolari. «Ai suoi cappelli rossi come il sangue innocente che quel giorno è stato versato. Ai suoi occhi timidi e straordinari lacerati dal dolore. Alle sue urla e ai suoi pianti instancabili che le stavano strangolando l’anima. Alle sue mani che accarezzavano con una dolcezza sbalorditiva la barba di suo padre. Morto. Morto in nome di una giustizia utopica che tanto ci vantiamo di disseminare nel mondo». Gli sfuggì una risata canzonatoria. «Non sai quanto mi è costato trattenere Morgana dall'uccidere quel viscido di Gomez. Nessuno più di me avrebbe gioito nel vederlo infilzato dalle sue frecce, ma non potevo permetterle di macchiarsi le mani del suo sangue…So cosa vuol dire covare vedetta, anche se la mia e la sua non sono minimamente paragonabili. Adesso mi chiedo a cosa è servito tutto questo? Suo padre non c’è più comunque. Nostro zio non c’è più…Questa vita non si stanca mai. Sembra quasi che il suo unico scopo sia quello di renderci orfani, ancora e ancora e ancora…». Come spinta da un istinto atavico lo abbracciai, lo abbracciai forte come se fosse una panacea in grado di curare tutte le sue ferite.
«Noi però siamo qua» gli sussurrai «E non possiamo permetterci di pensare che il loro sacrificio sia stato vano. Hanno lottato per quella singola scintilla, una scintilla che ha fatto divampare il fuoco della rivoluzione e ha aperto gli occhi di molti a Betelgeuse, che siano di Firenze o Roma. Porteremo il loro ricordo con noi e saremo noi stessi a dare valore alle loro morti. Noi troveremo quel ciondolo e guariremo i nostri fratelli. Glielo dobbiamo Gabriel. Lo abbiamo giurato».
«Ma c’è dell’altro, non è vero? ». Gabriel mi scrutò con una severità tale da farmi venire la pelle d’oca. Accolse le mie mani fra le sue, stringendole un po’ più forte del dovuto. Se fossi stata una semplice ragazza umana, le mie ossa si sarebbero spazzate sotto quella pressione. «Io voglio dell’altro» si corresse. E la sentì, chiara e forte. Mi rimbombava nelle orecchie, mi esplodeva dentro il petto, mi bruciava le vene. Quel piacevole dolore che mi appagava l’animo era fin troppo familiare, fin troppo simile al mio. E in quell’istante cantò all’unisono nelle nostre menti, quella voce rivestita d’odio puro, amplificata di mille volte forse per la vicinanza con chi la condivideva con me in ogni sua sfaccettatura.
«Li uccideremo. Tutti. Chiederemo al ciondolo di distruggere ogni vampiro che abbia mai solcato questa terra. Ripagheremo con la stessa moneta i vampiri che hanno ucciso mamma e papà».
Una volta quelle parole sarebbero state dolce musica per le mie orecchie, un concerto di archi e violini, in un tripudio di note danzanti. Solo in quel momento mi resi conto che forse qualcosa era cambiata. No, non forse. Ne ero certa. Dentro di me qualcosa si era inceppato, magari per un difetto di fabbrica. Mi aggrappai al colletto della sua camicia e lo sgualcì per sentirne la levigatezza sotto le dita. O forse soltanto per fuggire all’immagine di quei occhi ambrati, screziati d’oro liquido, che vorticavano nell’oscurità in cerca di un padrone. Gli unici occhi, oltre ai miei, a cui avevo mostrato, se pur senza volerlo, la verità. E chi lo avrebbe mai detto che gli occhi di un vampiro sarebbero diventati i custodi del mio segreto. Edward Cullen era l’unico ad aver visto come fosse morta mia madre.
Gabriel mi sondò lo sguardo in profondità, insospettito probabilmente dal mio tentennamento «Perché è ancora quello che vuoi, giusto? O quei Cullen ti hanno fatto completamente bere il cervello?». La sua asprezza era sferzante.
«Clan Cullen o meno, sai che lo voglio anch’io». Pregai che la mia voce gli fosse risultata abbastanza sicura.
Il sorriso che sbocciò sulle sue labbra mi fece sentire un verme. Lui mi scoccò un bacio sulla fronte con affetto e mi scompigliò i capelli frizionandoci sopra le nocche. 
«Smettila Gab, mi fai male!» protestai ridendo insieme a lui. Annaspai, lieta che ci avesse tirato fuori da quelle nuvole uggiose in cui quella conversazione ci aveva convogliato.
«Vogliamo parlare di te, sorellina? Che fai tanto la santarellina, invece sei soltanto una tremenda seduttrice mangiauomini».
«Ma che ti salta in mente!» gli urlai schiaffeggiandolo da per tutto.
«Povero Fabiano» ridacchiò scuotendo la testa e con essa anche i suoi boccoli neri «Deve essergli venuto un infarto».
«Non è successo nulla, quante volte dovrò ripeterlo!»
«Guarda che nelle camere accanto hanno sentito tutto. Ci avete dato dentro voi due, eh? Potevate divertirvi lo stesso ma con più discrezione. Tutti quei rumori…» disse Gab fingendo di disapprovare «Manuel ha detto che sembrava stesse ristrutturando la stanza».
«Nessuno di noi due quella notte si è tolto i vestiti, ok? O per lo meno lui era mezzo nudo ma…». Allo sguardo più che eloquente di mio fratello, decisi saggiamente di non finire la frase prima di peggiorare ancor di più la situazione. Anche se non poteva essere più umiliante di così.
«Voglio morire». Soffocai uno strillo coprendomi la faccia, rossa fin sopra l’attaccatura dei capelli. Mio fratello scoppiò in una fragorosa risata senza riuscire a trattenere le lacrime agli occhi.
«Andiamo, Lea. Non c’è bisogno che mi racconti proprio tutto. Pensavo che saresti rimasta vergine per tutta la vita, o almeno questo è quello che ogni fratello spera. E’ già abbastanza strano che tu l’abbia fatto con il mio migliore amico, potrei rimanerne traumatizzato…».
Detonai come una bomba ad orologeria, cercando disperatamente di spiegare a quella testa bacata di Gabriel che non era affatto come pensava. Lui continuò ad annuire senza ascoltare nemmeno una parola fino a quando non posò un dito sulla mia bocca per zittirmi. Drizzò la schiena sul chi va là osservando, con la testa inclinata, qualcuno o qualcosa dietro di me.
Esclamò: «Ma quello è un coniglio?». Glielo avrei preso a morsi quel dannato dito ma mi limitai a scacciarlo via, afferrandogli il polso. «Ah, ah. Non ci casco».
«Dico sul serio, c’è un coniglio proprio lì vicino ai cespugli! E mi sta sorridendo!».
«Perché sei ancora così infantile? Cresci una buona volta Gabriel!». A quella considerazione, mio fratello mi prese il mento e mi costrinse a girare la testa ruotandola bruscamente a destra del mio collo.
«Oh, che carino quel coniglietto!» dissi intenerita dal quel batuffolo tutto da coccolare «E’ bianco» constatai sovrappensiero. Già, era proprio bianco. Gabriel ed io ci guardammo in faccia, uno più scioccato dell’altra.
«Il bianconiglio!» dicemmo entrambi prima di scattare all’inseguimento del roditore che si era già intrufolato in mezzo alla boscaglia.
 «Pensavo fosse solo un modo come un altro di fare una metafora su Alice nel paese delle meraviglie» rantolò Gabriel alle prese col fiato corto. Mi abbandonai ad una risata liberatoria.
«Noi combattiamo vampiri, licantropi e mostri di ogni genere e lasci che un coniglio innocuo turbi la tua sanità mentale? Più di sei anni fa siamo caduti nel libro degli orrori più raccapricciante che esista e ti ricordo che non ne siamo più usciti. Quindi non mi dispiace se per una volta do la caccia a un coniglio delle favole, magari più tardi se siamo fortunati sorseggeremo un po’ di tè col cappellaio matto» alitai tuffandomi a pesce per acchiappare quell’animaletto cotonato. Sfuggì dalla mia presa trasformandosi in fumo. Fantastico.
«Era un illusione. Ho rovinato il mio vestito per un pugno di fumo!» digrignai contenendo a malapena un forte attacco di nervi.
«No che non lo era».
Gabriel infilò il braccio in quella che doveva essere una tana per conigli e aspettai con ansia il verdetto.
«Lea, abbiamo trovato il passaggio!» disse e un sorriso gli invase tutto il viso. Fra le sue dita scorrevano granelli dorati-argentei di polvere fatata.
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«Va bene, allora giochiamocela. Pari o dispari?».
Era calata la notte. I diamanti incastonati in quel telo vellutato di nero, adornavano il cielo come una sposa prima del suo matrimonio. Molto probabilmente, nel raths fatato, il sole era appena sorto. Chi poteva saperlo. Fabrizio mi diceva sempre che il tempo lì scorreva diversamente, come se avessero una specie di fuso orario tutto loro. Motivo in più per non soggiornare in quel mondo incantato più del necessario. Peccato che nessuno dei due avesse voglia di fare il primo passo…
«Scordatelo Gab. Avevi promesso che saresti entrato tu per primo!».
«Devi aver battuto la testa forte, io non ho mai detto nulla del genere». Rimase a braccia conserte e imbronciato, aggrappato alla sua fidata spada, come quando era bambino. Non che mentalmente avesse fatto chissà quali passi da gigante. Assomigliava proprio a uno scolaro col suo zainetto in spalla, non pieno di libri di scuola, purtroppo, ma di provviste ed acqua nel caso in cui qualcosa fosse andato storto.
«Vuoi che gli dia una spinta, padroncina?» aveva suggerito Edna con un malizioso scintillio negli occhi. «Perché no?» riflettei, prendendo in considerazione la proposta dell’alano che ringhiava a mio fratello.
Gabriel provò a convincermi nel suo ultimo atto disperato: «No, no, no e poi no! Hai visto quant’è buio lì sotto? E poi dove è finito il prima le signore?».
«E’ un po’ tardi per fare il galante fratellino, non credi?» gli feci notare mentre mi legavo i capelli col nastro rosso. Edna ed io lo privammo di qualsiasi via di fuga e lo costringemmo a indietreggiare ridendocela sotto i baffi.
«Se dovesse succedermi qualcosa, mi avrete sulla coscienza per l’eternità!».
«Ce ne faremo una ragione» convenne Edna prima di incornarlo convertendo la sua forma in un ariete. Gab sparì ingurgitato da quella fossa per conigli come se fosse stato risucchiato da una forza invisibile. Durante la discesa, ci lanciò alcune delle imprecazioni peggiori che conosceva. Il solito cafone. Poi dalla tana risalì un tonfo sordo, come se della bambagia avesse attutito la caduta, seguito da una vibrazione molleggiante che m’incuriosì non poco.
«Oddio, sono morto, morto, stramorto! Che razza di roba è questa» sfuriò la voce lontana di Gab, scalando ancora una volta il cilindro di terriccio in cui era scivolato.
«Credo che sia sicuro, raggiungo Gab nell’aldilà. Sicura di non volere venire con noi?»
«Io non posso entrate, non ho sangue di protettore nel mio corpo. La tana si è aperta per voi e il coniglio vi ha indicato la strada. E poi qualcuno dovrà pur fare la guardia. Vi prego solo di essere prudenti, sono ancora più in ansia se non posso proteggervi».
«Sai già che non morirò…Hilde ne era abbastanza certa» le ricordai.
Lo sguardo di Edna si adombrò mostrandomi tutta la sua preoccupazione con un belato.
«Sta attenta Leona. Delilah è una delle creature più antiche che abbia abitato questo pianeta, è molto furba, non si lascerà ingannare facilmente».
Infilai la mano in tasca e feci scrosciare la carta al suo interno. Strinsi in un pugno il biglietto che mi aveva dato Noah, quello strano ragazzo che viaggiava fra le epoche. Al culmine della curiosità, non potei aspettare oltre, lo esposi alla luce delle stelle e spiegazzai il foglietto fra le miei dita tremanti.
Come mi aveva predetto, non ne colsi subito il significato. Ma ero certa che la verità avrebbe preso forma quando sarebbe giunto il momento.
«Devo andare, prima che quel deficiente esca fuori di testa» dissi raggiungendo l’entrata segreta del raths. Gab non aveva ancora smesso di lamentarsi.
Diedi un buffetto al quadrupede caprino che mi si era fatto vicino e mi lasciai scivolare dentro la tana del bianconiglio. Sfregando le braccia contro le pareti della galleria, la terra si polverizzò in pagliuzze finissime, emanando tenui ma istantanei luccichii argentati che scoppiettarono come fuochi d’artificio nelle mie orecchie. Prima di quanto mi aspettassi, fui fuori e la luce del giorno mi costrinse a chiudere gli occhi. Sentii lo stomaco schiacciarsi contro la colonna vertebrale quando alla schiena mancò l’appoggio sotto di essa. Le forti correnti ascensionali non mi permisero di sbirciare come si deve, riuscivo a malapena a tenere le palpebre socchiuse, ma non abbastanza da non capire cosa stava succedendo. Ciò che vidi mi fece andare in tilt il cervello. Mi libravo in un vortice azzurro. Il vento fischiettava acuto nei timpani e si intrufolava fra i vestiti facendoli schioccare come fruste. Mi terrorizzai quando capì che non sarei atterrata da nessuna parte. Continuavo a cadere come se fossi rimasta intrappolata in un loop temporale che non aveva mai fine. Sotto di me non riuscivo a scorgere nient’altro che non fosse cielo, dell’azzurro più bello e intenso che avessi mai visto. Poi, superato il primo strato, incontrai le prime nuvole che cominciavano ad affollarsi, simili a un gregge di pecore, e mi ci tuffai in mezzo. Attraversata la coltre di cotone vaporosa, intravidi finalmente un puntino nero, farsi sempre più vicino, ma non arrivai a formulare nella mia mente una valida spiegazione di cosa avrebbe potuto trattarsi, perché nel giro di un secondo, avevo smesso di volare nel vuoto.
Mi spiaccicai come un insetto sul parabrezza e mi mancò il fiato. La faccia si spalmò su qualcosa di morbido, sottile come nylon, deformandola in una smorfia degna di un clown. Quando mi chiesi il perché tutto fosse ancora così dannatamente azzurro e infinito, lo sentii chiaramente: lo scricchiolio di un elastico che ha raggiunto il limite di trazione. Una forza mi spinse all’indietro e mi fece rivoltare come una frittata che sta per raggiungere la sua padella. A quel punto la gravità mi riportò ancora giù, e sprofondai di nuovo in quello che mi sembrò un materasso ad acqua. Molleggiai per un po’ prima di riuscire a mettermi seduta.
Non c’erano precedenti. Quella era in assoluto la cosa più strana e folle che avessi vissuto in tutta la mia vita. Guardai ciò che avevo sotto, a destra e sinistra: il nulla. Distese infinite e chilometriche di cielo e nuvole. Adesso avevo il permesso di farmi prendere dal panico? Stavo per urlare, avevo già la bocca spalancata pronta a tirar fuori le note più alte e acute di cui fossi capace. Ma qualcuno cominciò a sghignazzare così forte da farmi sussultare.
«La tua…la tua…la tua…» altre risate incontenibili «La tua faccia!» esplose Gab divertito come mai lo era stato prima di allora. E rideva, rideva senza alcun freno, accasciandosi all’indietro sulla nuvola su cui stava levitando. «Giuro su Dio, avrei voluto una macchina fotografica per immortalare il momento esatto in cui ti sei resa conto di trovarti in mezzo al nulla» mi svelò asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi «Sei uno spasso sorellina».
«Vuoi vedere quanto sono spassosa?». Sfruttai l’elasticità di quel bizzarro pavimento fatto di cielo che ondeggiava sotto di me e saltai addosso a Gabriel. Lottammo a suon di calci e pugni affettuosi per un bel pezzo, rotolandoci e infossandoci in quella trapunta celeste che pareva avere una memoria tattile, fino ad arrenderci esausti in mezzo alla foschia delle nuvole. Nemmeno per un attimo avevamo smesso ridere o di darci pizzicotti. Sperai nel mio cuore che quell’attimo sfuggente di felicità non finisse mai. Quella era la dimostrazione che non importava il dove, il come o il quando, o quanto la nostra vita fosse stramba e senza alcun senso, per la maggior parte delle volte. Noi due, insieme, saremmo sempre riusciti a costruirci il nostro angolo di paradiso, nonostante la malasorte sembrasse volerci seguire come un’ombra. Qualsiasi altro sfortunato evento ci attendesse in agguanto nel futuro, si sarebbe dovuto arrendere all’idea che non ci avrebbe distrutto, anzi, ci avrebbe fortificato. Mamma aveva proprio ragione: insieme eravamo invincibili.
«Credo di aver trovato il raths della regina…» disse a un tratto, indicando un punto impreciso sopra di noi.
«E’ un mondo…rovesciato?»
Adesso tutto aveva un senso. Ovviamente non nel vero senso della frase. Fabrizio ci aveva detto che il campo non avrebbe assunto i connotati del classico territorio dei protettori, e che ci saremmo dovuti aspettare di tutto, ma non avrei mai pensato a un pianeta che avesse invertito il cielo con la terra e viceversa.
Eppure quella piattaforma capovolta galleggiava, al contrario, proprio sopra le nostre teste. Restai completamente stregata da quell’isola dalle fattezze di una stella, rivestita da una foltissima e verdissima flora amazzonica, avvolta da una nebbia sinuosa e argentea, come una collana tempestata di pietre preziose e brillanti luccicanti, che parevano farla trasudare di magia fatata da punta a punta. Era l’abito più bello che la natura potesse donarle. Fra le chiome degli alberi, i fiumi e i laghi scintillavano di un turchese così intenso tale da sembrare surreale. E non era tutto. Al centro di quell’oasi stellata, cinta da un cerchio aureo come una gemma dentro il suo diadema, cimavano le vertiginose cuspidi  d’oro colato di un palazzo reale, guarnito da mattoni bronzei e adamantini. La dimora suntuosa della regina delle fate e della sua corte fatata.
«Mi sembra un posticino niente male» commentò Gab fischiando come lo si fa vedendo una bella donna passeggiare per strada. «Ma come ci arriviamo?».
«Credo che siamo seduti sopra una barriera magica, simile a quella che abbiamo a Betelgeuse».
«E con questo che vorresti dire?». Gab aggrottò le sopracciglia in una lampante espressione di confusione.
«Che non è infinita come crediamo. Questo cielo non è reale, ha dei confini ben precisi, ha una sua forma» chiarii lasciando le impronte delle mie dita su quel tappeto elasticizzato. «Solo che noi ci troviamo dalla parte opposta. E’ come se la gravità funzionasse a doppio senso qui, due forze uguali e contrarie che si respingono in un punto d’incontro preciso, al centro di questo piccolo micro universo. Mi chiedo se…»
«Ci risiamo…».
«Ma sì certo! E’ tutta questione di prospettiva!» dissi strascinando Gab con me.
Se il mio ragionamento era corretto, soltanto in via teorica, ci trovavamo rinchiusi dentro confini magici ben definiti che potevano assumere svariate forme geometriche: una sfera, un rettangolo, un quadrato…bastava soltanto trovare la direzione giusta.
«Adesso andremo avanti finché non ci scontreremo contro un muro invisibile. Una volta delimitata l’area e la forma della barriera, dovremmo cambiare prospettiva, ovvero ci sposteremo sulla parete di fronte a noi e ci cammineremo sopra fino a raggiungere quella piattaforma»
«Tu devi aver inalato fin troppa polvere di fata…stai delirando».
«Hai idee migliori?» gli domandai osservandolo di sbieco.
«Stai parlando di camminare in orizzontale lungo una parete invisibile…credo di avere il diritto di preoccuparmi del tuo status mentale»
«In realtà non avrai la sensazione di camminare in orizzontale, questo luogo non è governato dalle regole della logica umana. Provare per credere» finì facendo spallucce.
«Ok, va bene. Farò come dici tu. Basta che la smetti di parlare di queste assurdità. Mi dai i brividi».
A quel punto, fu lui stesso a dare inizio alla marcia, portando le mani in avanti e aspettandosi di sbattere contro il muro invisibile di cui gli avevo parlato. Io lo seguì stando qualche passo dietro di lui. «Mi sento un cretino» sospirò sottovoce.
«Per una volta mi trovi perfettamente d’accordo con te». Gab mi fece il verso ma continuò a partecipare comunque a quello che lui stesso riteneva un piano folle e privo di senso.
«Sono cinque minuti che girovaghiamo senza meta. Direi che hai fatto un buco nell’acq…Ma che diamine?». Alla vista della sua mano avvolta come un guanto da quello strano materiale simile a lattice, il povero Gabriel diede in escandescenze. La ritrasse repentinamente indietro per paura che rimanesse intrappolata lì dentro per sempre. Poi mi lanciò un’occhiataccia aggrottando le sopracciglia e borbottando qualcosa di simile a “odio quando hai ragione”. 
Appoggiai prima uno stivale alle parete e poi, con una piccola spinta, anche l’altro e il mondo ruotò attorno a me così velocemente da non rendermi conto di aver cambiato prospettiva. Invitai Gab a fare lo stesso e sta volta lui non fece particolare opposizione, l’idea sembrava intrigarlo, e mi fu davanti con un unico saltello. Adesso una delle punte dell’isola era raggiungibile percorrendo la linea retta invisibile della barriera magica.  Gab mi guardò con l’eccitazione che gli attraversò come folgori i suoi occhi. «Chi arriva ultimo è una caccola di Troll!»  e scattò in avanti senza preavviso. Presi parte, senza rimuginarci a lungo, a quella gara e pensai a quanto adorassi il mio fratellino con la sindrome di Peter Pan.
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«Quando questa storia finirà…»
«Se, finirà…» puntualizzai con quella leggera vena di pessimismo. Gabriel non ci fece nemmeno caso.
«Potremmo chiedere asilo alla regina e venire a vivere qui» disse girando su se stesso per ammirare, nella sua interezza, le bellezze di quella giungla di alberi, piante e fiori animati.
«Oh sì certo, prima le rubiamo il ciondolo antico dal potere incommensurabile e poi torniamo da lei chiedendole di dimenticarsi tutto. Sono sicura che ci accoglieranno con un festino. Con molta probabilità saremmo la portata principale»
«Perché le fate sono cannibali?» si fermò di colpo, deglutendo vistosamente.
«Mai sentito parlare di cosce di protettore al rosmarino?» lo guardai accigliatissima.
«Cosa?» domandò con voce stridula e femminea.
«Sto scherzando, scemotto. Però sta attento, le piante mordono sul serio» lo avvisai prima che si avvicinasse troppo a quel fiore dai petali carmini, posati uno sull’altro come a formare una bocca, da cui spuntavano dei canini affilati e lucenti dentro cui secerneva del veleno rosella altamente paralizzante.
«Li senti anche tu?» disse Gab mentre si faceva largo fra le felci. Risi sottovoce della sua faccia perplessa. Era una canto muto, sommesso, perpetuo e ritmato da quei bonghi naturali fatti di tronchi, spogli al loro interno, e dal fruscio di liane danzanti, così lunghe da strisciare a terra. Alberi, alti quanto i giganti delle montagne, ondeggiavano le loro chiome emettendo suoni melodiosi, a bocca chiusa, per risvegliare le creature assopite fra le loro fronde e le ninfe dei boschi.   
«Sono gli alberi, stanno cantando, è il loro rituale mattutino»
Ovunque si posasse il mio sguardo vi era della bellezza sconvolgente. A quel dolce suono le querce presero vita, stiracchiarono i loro rami, e sbocciarono i primi fiori, accarezzati dalle luci del mattino. Le corolle si aprirono colorandosi, di viola, giallo e rosa, e rilasciarono dagli stigmi una leggera polverina verdognola luminescente calando sull’erba, irrorata dalla rugiada, come una benedizione. Le foglie si fluidificarono e si sciolsero in lunghe ciocche sericee avvolgendo le forme voluttuose di bellissime donne seminude, dalla pelle verde come linfa, con la parte inferiore terminante in una sorta di schinieri arabeschi che imitavano i tronchi degli alberi.
Gabriel non resisté al fascino delle Driadi e restò a fissarle, incantato, con la mente affollata, quasi per certo, da pensieri impuri. Ma loro non erano infastidite dal suo sguardo perlustratore, erano al loro agio con la loro nudità e anzi ridacchiarono fra loro, parlottando sottovoce e ricambiandolo con le loro occhiate divertite.
Dovetti trascinarlo di peso perché non aveva nessuna intenzione di mettere fine al quel gioco perverso che aveva innescato con quelle sgualdrine boscose. Potevo quasi sentire i suoi ormoni darsi alla pazza gioia. Disgustoso. «Andiamo di qua, campione» lo richiamai con una gomitata «non farti notare troppo, ti ricordo che siamo qua in incognito. E asciugati la bava per cortesia». Presi come punto di riferimento la guglia più alta del palazzo reale di Delilah, culminante con il simbolo del suo regno, la stella a sette punte, come le sette tribù fatate, e mi addentrai nel folto della foresta, impegnandomi a non attirare l’attenzione.
«Beh almeno sappiamo che Alice non si faceva di funghetti allucinogeni» commentò Gab riavutosi dai sogni erotici.
«Questo raths dovrebbe avere diversi ingressi sparsi in tutto il mondo. Non sarebbe così strano se una piccola umana ogni tanto ci cadesse dentro per sbaglio; quello che mi sembra inverosimile è come sia tornata indietro…» lasciai in sospeso la spiegazione proprio per trasmettere un po’ di inquietudine a quel credulone.
Era difficile rimanere vigile. Qualsiasi cosa di quel luogo poteva essere una fonte di distrazione: i boccioli azzurri maculati d’argento che risalivano lungo il tronco degli alberi, l’acqua cristallina di una piccola cascata, la nenia di una Silfide, il fruscio d’ali delle minute pixies, graziosissime nei loro vestiti colorati e…quello cos’era?
Il bacio assordante fra due lame mi risucchiò bruscamente nel presente e mi costrinse all’avida ricerca delle mie spade gelate. Lo zaino volò in mezzo ai cespugli. Sentii il calore della schiena di mio fratello contro la mia poco dopo il sibilo metallico di Symphony. Anche attraverso i vestiti, percepii i muscoli delle sue spalle indurirsi, tesi come fasci d’acciaio. Il suo respiro era lento e regolare e piano piano si sincronizzò con il mio.
Improvvisamente una figura emerse da una parete di rampicanti e con un lungo balzo atterrò in ginocchio sul crinale di una roccia con il piatto della spada a nascondergli il viso. Il guerriero che era appena sbucato fuori apparentemente dal nulla, aveva corti capelli lisci e biondissimi, occhi azzurro cielo, fisico asciutto ma non per questo esile, e una grande rabbia a corrodergli l’espressione della sua bocca digrignante. «Perché non la facciamo finita qui! Non hai speranze contro di me! Lei è mia, noi ci apparteniamo dal giorno in cui lei mi ha salvato la vita. Le nostre vite sono intrecciate».
Un altro clangore ridondante. Il suo nemico gli era arrivato alle spalle e aveva tentato di infilzarlo dall’alto con la sua spada, ma il guerriero dai capelli aurei aveva ruotato su se stesso tempestivamente e aveva respinto il suo attacco facendo cozzare le due armi in uno stridio di ferro e balugini argentati.
«Perché deve esserci per forza dietro a una cosa così semplice come l’amore qualche evento trascendentale o il destino?» gli diceva l’altro individuo, osservandolo tracotante attraverso le lenti degli occhiali in bilico sulla punta del naso. Nel farlo spinse l’impugnatura della sua spada contro quella del guerriero per avvicinarlo sempre di più sull’orlo del precipizio.
«Cosa vuoi saperne tu di quello che c’è fra noi due? Pensi davvero che il nostro amore sia più debole soltanto perché non è passionale o fatto di gesti plateali? Lei ha voluto questo perché sapeva che così non avrebbe più dovuto scegliere fra nessuno dei due e non sarebbe stata costretta a rifiutarti, non avrebbe mai avuto il cuore di dirtelo. Lei ama me, non te, non le susciti quel tipo di sentimento, ti vede più come un cucciolo da difendere. Quindi non avanzare chissà quale pretese, lei ha scelto me, mi ha nominato capo della nostra spedizione come simbolo della sconfinata fiducia che nutre nei miei confronti, quante altre prove vuoi del suo amore per me?».
A quelle parole vidi il guerriero incendiarsi ancora di più e rispondere con violenza come se potesse distruggerle con la sua spada. I due scesero dalla roccia e continuarono a battagliare ferocemente in un duello che avrebbe portato quasi sicuramente uno dei due alla morte.
«Ma quelli sono Norman e Fabrizio» li riconobbe Gabriel. «Che diavolo stanno facendo?»
 «Non lo so, ma qualunque cosa stia succedendo devo fermarli o rischiano di farsi del male».
Norman  prese a sferrare colpi furiosi a destra e a manca con una rabbia di cui non lo facevo capace e Fabrizio iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Parava con estrema difficoltà le saette taglienti che gli sfrecciavano a pochi centimetri dalla pelle. Allora il brunetto cercò un affondo laterale ma fece l’imperdonabile errore di lasciarsi il fianco scoperto. Norman lo evitò, fece ruotare l’arma per aria, riafferrandola dalla guardia, e colpì Fabrizio con la punta della sua elsa bronzea, lasciandolo prostrato e senza fiato ai suoi piedi. Quel duello si era appena trasformato in una esecuzione.
«Anche se fosse vero» disse Norman asciugandosi con la parte interna del gomito le goccioline di sangue che gli sgorgavano dalla ferita sulla guancia «Tu non meriti il suo amore. Non hai fatto che parlare di quanto lei veneri la tua persona, non capisci quanto possa risuonare egoista da parte tua? Mi dispiace che debba finire così, forse un tempo c’è stata dell’amicizia fra noi, ma dal momento che hai cercato di portarla via da me, il mio unico e vero amore della mia vita, non posso permetterti di andare oltre. Non devi preoccuparti, la renderò felice e la tratterò come merita di essere trattata una persona buona, straordinaria e dall'animo puro quale è lei. Resterò sempre al suo fianco, qualunque cosa accada. Io sono suo in tutto e per tutto» disse con una devozione assoluta e un velo di lacrime fra le palpebre. Norman chiuse gli occhi e brandì la spada con entrambe la mani giungendole a ponte sulla sua testa.
«Norman ti prego, fermati!» strillai più forte che potei. Lo raggiunsi proprio nel momento in cui stava per sferrargli la sua sentenza di morte, bloccandogli la lama fra le mie mani, all'altezza del mio petto. Il sangue sgorgò vivo dalle trafitture, radendo il piatto della sua lama. Norman, riconoscendo la mia voce, risollevò le palpebre e puntò spaventatissimo i sue due occhi celesti su di me. Si lasciò sfuggire l’elsa dalle mani e le lacrime cominciarono a rigargli le guance.
«Cosa credevi di fare?» gli urlai contro molto più che arrabbiata «Siete impazziti tutti e due?» proseguì spostando lo sguardo da lui a Fabrizio.
«Io non capisco…» disse il mio amico occhialuto, sporco e pieno di terra e graffi più o meno profondi.
«Cosa non capisci?» sfuriai voltandomi verso il diretto interessato.
«Ci hai chiesto tu di farlo…».
«Cosa?» domandai inorridita da quell’affermazione.
«Hai detto che soltanto uno di noi due avrebbe potuto avere il tuo cuore e che se volevamo dimostrarti fino a dove ci saremmo spinti per ottenere il tuo amore, avremmo dovuto scontrarci in un duello all’ultimo sangue…» spiegò Norman con la voce sottile, sempre più conscio delle assurdità che stava pronunciando.
«Il mio…amore?» esclamai ancora più confusa.
Una risata allegra e spontanea si avvitò in alto fra le tenebre della vegetazione. Una ragazza dai lunghi capelli corvini e ondulati si avvicinò a noi applaudendo con foga. «Bravissimi!» si complimentò una voce del tutto simile alla mia. «Voi umani sì che sapete farci con le tragedie di cuore» disse attraendoci col suo misterioso sguardo magnetico, blu come fosse oceaniche.
«Leona, perché quella fottuta tizia ti assomiglia così tanto? Dannazione, siete due gocce d’acqua!» disse Gabriel guardando prima me e poi lei con l’aria di uno a cui stava per esplodere il cervello.
La mia sosia rise ancora, mentre le sue corde vocali perdevano poco a poco la stessa intonazione della mia voce. I capelli neri le si arricciarono sulle spalle, schiarendosi appena di una tonalità più chiara del castano scuro, e le iridi si colorarono d’ambra. Ma la trasformazione non si fermò lì.  Alla base della spina dorsale, le spuntarono nove  morbide code di volpe rossicce e dalla testa le sbucarono fuori due orecchie pelose di forma triangolare che terminavano con dei ciuffetti bianchi e neri. Le vibrisse che le crebbero in mezzo alla faccia, completarono la sua vera essenza di fata mezzosangue.
«Quella non sono io…» sbiascicai a denti stretti cercando di rilegare la crescente rabbia che mi ribolliva come acido nelle vene.
«Non è vero? Iris?» asserì chiamandola col suo nome senza celare la collera che mi rodeva dentro.
La mezza fata dei miei incubi ridacchiò ancora e in un inequivocabile atto di provocazione mi schiacciò l’occhiolino.
«Ops, beccata!» disse  fingendosi mesta. Ma io sapevo benissimo che il rimorso non era qualcosa che sarebbe mai appartenuta alla sua natura. 

Ciao! eccomi ritornata dopo un tempo più o meno lungo d'intattività! Di solito cerco di aggiornare molto più velocemente di cosi', ma purtroppo sono stata colpita dal temuto 'blocco' e ho scritto e portato a termine con non poche difficoltà questo capitolo. Mi auguro proprio che non ne abbia risentito la qualità dei contenuti o la credibilità della trama. Nelle ultime battute finali é sbucato fuori un personaggio che era stato solo nominato di sfuggita nel capitolo 'un fidanzato indesiderato' (ricordate la fata disinibita di cui Ethan ricordava con Leona una seratina 'particolare' trascorsa insieme?) e che adesso prenderà forma in tutta la sua crudele sadicità. 
Spero che la storia stia continuando a piacervi e che non stia disattendendo le aspettative di nessuno.
Tornero' al più presto con un nuovo capitolo entro la prossima settimana. 
Un saluto affettuoso a tutti i Silenzoni che mi hanno seguito fin qui! Ciao <3
 

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Capitolo 40
*** IL LAGO DELLE NINFE DELL'ACQUA ***


Note dell'autrice: Ciao a tutti, scusate per il mostruoso ritardo ma sono stata molto indaffarata. Purtroppo non credo che in futuro riusciro' a pubblicare con la stessa frequenza con cui lo facevo prima ma prometto che cerchero' di rispettare almeno la cadenza settimanale, se tutto va bene! Senza altri indugi vi auguro buona lettura. Tornero' con il nuovo capitolo intitolato "Nessie", spero presto. 

CAPITOLO 26 – Il lago delle ninfe dell’acqua

Erano trascorse solo poche ore dal nostro ingresso a Sirio, eppure quel mondo parallelo senza sole cominciava ad ammantarsi d’ombre.
Fabrizio e Norman avevano rinunciato definitivamente a quell’assurdo contenzioso, ma non riuscivano più a guardarmi e non capivo se per via della vergogna, che si era manifestata nel loro vivo rossore, o perché temevano che li attendesse il mio sguardo funesto a incenerirli per ciò che avevano fatto. Norman aveva gettato l’arma a terra e giaceva accanto a lei con le mani incatenate dietro la nuca. Fabrizio, non molto distante dall’amico, si spannava le lenti alitandoci sopra, forse per ignorare l’elettricità che ci ronzava attorno. Pochi attimi prima non avrebbero esitato a farsi fuori l’uno con l’altro, come facevano adesso a fare finta che non fosse successo nulla?
«Che cosa gli hai fatto?» accusai chi ritenevo la responsabile dell’improvvisa follia dei miei amici.
Iris si lisciò i baffi, indugiando sulle punte, e mi osservò in tralice con una fossetta sospettosamente derisoria vicino la bocca.
«E’ un piacere anche per me rivederti, Leona» disse lei con vago risentimento.
«Oh, per favore, cancellati dalla faccia quell’espressione innocente. Voglio sapere quale delle tue velenose pozioni gli hai dato. Come hai potuto confondere le loro menti così! Loro sono amici, non avrebbero mai fatto una cosa del genere. Nemmeno se glielo avessi chiesto io!».
«Allora vuol dire che non li conosci abbastanza» rise della sua constatazione «Ma che vuoi saperne tu di quello che nasconde il loro cuore? Ti sei mai fermata a pensare che cosa passasse nelle loro menti?». Iris si incastonò fra i loro gomiti e gli accarezzò i capelli. Norman e Fabrizio rabbrividirono.
«Certo che no. Finché Leona Braveheart porta a spasso i suoi cagnolini disgustosamente fedeli che sbavano per lei, non c’è bisogno di porsi ulteriori domande. Perché non ammetti di sguazzarci nel tuo ego sconfinato?».
«Ego sconfinato…» ripetei silenziosamente. Per me era inconcepibile. «Ma di che diamine parli?».
«Potrebbero aver inalato accidentalmente…un po’ di gas dell’irascibilità» si discolpò rivoltando i palmi al cielo «ma la natura del loro odio era tutta farina del loro sacco. Loro mi hanno mostrato il loro punto debole e io mi sono solo divertita un po’. Mi annoiavo!» disse scuotendo tutte e nove le code.
«Leona, si può sapere perché conosci questa psicopatica?» mi domandò Gabriel soppesando quella creatura per metà umana e per metà volpe, nata dalla mescolanza di sangue di fata e sangue di mutaforma, chiamata Kiendjar. Le antiche leggende narravano che la volpe a nove code fosse la massima espressione del potere fra gli spiriti animali.
«E tu devi essere il suo fratellino! Non mi avevi detto che era così bello!» disse perdendo l’interesse per i miei amici e posando le sue iridi d’ambra sul nuovo giocattolino. La sua lingua le bagnò le labbra seguendo l’arcata superiore della bocca.
«Probabilmente perché è un po’ invidiosa» suppose giocosamente Gabriel. La battuta scatenò in Iris un’altra serie di risate soffocate.
«Voi Braveheart siete troppo simpatici. Mi sorprende che Leona non ti abbia parlato di come ci siamo divertite insieme a Londra».
Prima che Gabriel potesse chiedermi qualsiasi cosa lo fermai «Non ne voglio parlare, chiaro?». Rinfoderai le kopis combattendo il forte impulso di affettarla a julienne. Anche se l’idea era allettante, non ero esattamente nella posizione di mostrare ostilità nei confronti di un membro della coorte reale di Delilah, soprattutto se si trattava di una delle sue figlie illegittime, senza contare il fatto che non godevo di alcuna protezione da parte del Sire di Betelgeuse e non avevo neppure un mandato. Se avesse chiamato le guardie, addio all’effetto sorpresa e non avrei avuto alcuna speranza di richiedere un colloquio con la portatrice del ciondolo del sole. Anzi, per quanto mi costasse ammetterlo, la Kiendjar che in quel momento si dilettava ad arricciare i capelli di Norman, rappresentava il mio passepartout universale per la sala della regina.
«Non mi aspettavo di trovarti qui, credevo che non fossi in buoni rapporti con tua madre» mi mostrai sorpresa, mettendo a tacere il crescente fastidio di quelle dita che s’intrufolavano fra le ciocche del mio amico. Iris era compiaciuta di quel fiume di intolleranza e ripugnanza in cui le sue molestie mi avevano sommersa e gioiava di quell’energia perniciosa, trasudante dai miei pori, che la raggiungeva con piccole scariche fulminanti. 
Perciò la sua mano serpeggiò giù dalla nuca, sfiorandola in una carezza sensuale a cui i fremiti involontari del ragazzo non poterono sfuggirgli, e continuò a tracciare i contorni ossei della vittima dei suoi sortilegi esplorandogli la pelle al di sotto della maglietta. Norman serrò le palpebre con una violenza tale da raggrinzire gli angoli degli occhi, come se volesse resistere ai suoi istinti libidinosi e cacciare via, allo stesso tempo, la protagonista dei suoi incubi.
«Non ti conviene, iniziare questo gioco con me. Sei ancora troppo ingenua, bambina» sostené piccata. Lo sguardo subdolo che mi rivolse, mi scatenò un bollore incandescente sulla punta delle dita, ma divenne incontrollabile quando con la sua lingua umettata assaggiò il lobo cartilagineo nel biondo che non riusciva a mettere fine alle sue perversioni.
«Non sono qui per giocare, volpe a nove code. E ti avverto che non resterò a guardare un minuto di più le tue oscenità. Non costringermi a intervenire, allontanati da Norman!».
«Oh» esclamò delusa. Afferrò un lembo della cappa di Fabrizio per attirarlo a sé e, facendo leva sui loro avambracci, rimise in piedi entrambi senza staccare le sue dita che si avvinghiavano come ventose su di loro.
Il giovane protettore si impietrì quando il pollice di lei combaciò con la fossetta del suo mento e lo obbligò a guardarla negli occhi «I suoi lineamenti sono  per lo più anonimi, per nulla memorabili ma il suo sguardo, nascosto da questi buffi occhiali» disse riposizionandoli sul setto nasale «è molto intenso». Poi si avvicinò lentamente a lui «Profuma di libri, di carta, di legno…» disse respirando a fondo sul collo di Fabrizio «e pura conoscenza. Lo trovo molto…» indugiò in cerca della parola adatta per definirlo « virile a modo suo, non trovi? Pensavo che il brunetto fosse la tua anima gemella, visto che passavi tutto quel tempo in biblioteca».
Rifletté su quello che lei considerava un ragionamento più che logico continuando a spiarlo fra le lunghe ciglia, ma alla fine sospirò arrendevole dicendo: «Ma in effetti il tuo Norman è proprio delizioso, ha il tipico fascino di una divinità norrena e i suoi occhi di ghiaccio…mmm» commentò con quel verso mugghiante di desiderio «nemmeno io saprei chi scegliere».
«Non c’è proprio nulla da scegliere» le spiegai perdendo ogni briciolo della mia pazienza. «Hai preso una cantonata, noi tre siamo amici da quando eravamo bambini e c’è del profondo rispetto fra noi, ovviamente nulla che tu possa arrivare a comprendere, ma tranquilla non te ne faccio una colpa» dissi avvelenandola con la mia infida ironia.
«Non so come tu li abbia spinti a fare quello che stavano per fare» le ferite bruciarono al ricordo dell’incontro con la spada di Norman «ma ti assicuro che non saranno i tuoi sporchi trucchetti a mettere zizzania nel nostro rapporto. Fra l’altro, mi fa proprio ridere che proprio una viscida come te parli d’amore! Come se ne conoscessi il valore…».
«Leona, basta» fu la voce roca di Norman a frenare il mio sproloquio prolisso. Nel frattempo Iris lo aveva lasciato libero e adesso mi veniva incontro con brevi passi incerti nella mia direzione, con gli occhi arrossati dal pianto. «A questo punto non ha più senso nascondersi» disse con un sorriso a labbra strette. Fabrizio preferì distogliere lo sguardo perché aveva capito cosa stava per fare l’amico.
«E’ vero, forse lei ci ha raggirato, forse non eravamo completamente noi stessi» disse e poi per un attimo tornò a osservare Fabrizio ancora prigioniero di Iris.
«Ma certo che non eravate in voi» lo giustificai «non avresti mai fatto del male a Fabrizio se…». Norman scosse la testa con le spalle afflosciate. «Ti prego, fammi finire» mi chiese nascondendomi i suoi occhi celesti.
«Tu non vuoi vederlo, ho ragione? Hai paura dei nostri veri sentimenti. Se ne sono accorti praticamente tutti».
 «Confermo» asserì serio Gabriel. Gli scoccai un’occhiataccia delle mie per metterlo a tacere. Comunque Norman non sembrò farci troppo caso.
«E non posso credere che una ragazza intelligente come te non lo abbia notato.» recitò il mio amico con affetto e ammirazione «Sei sempre stata molto attenta all’umore di chi ti circonda, la tua profonda empatia è una delle qualità che più amo di te» mi confessò, e sta volta i suoi occhi cercarono i miei senza alcun timore. Forse non se ne rendeva conto, ma con quelle parole mi aveva gremito il cuore e lo teneva in pugno, cullandolo sul palmo della sua mano. E faceva male. Non volevo che proseguisse…
«Mi sento in dovere di ringraziarti Iris. Grazie a te, ho potuto finalmente cogliere la profondità dei mie sentimenti e quanto fossero radicati nel mio animo». Iris inarcò un sopracciglio, sconvolta dal fatto che per una volta qualcuno le fosse riconoscente.
«Ascolta Norman, potresti essere ancora sotto effetto del…» cominciai.
«Non sono mai stato così presente a me stesso in tutta la mia vita» detto questo le sue dita scorsero fra i capelli e la mascella, ed io gelai impercettibilmente al quel tocco freddo, ma glielo lasciai fare. «Dio, dovresti sentire come mi batte il cuore in questo momento» rise spontaneamente con la gioia incontaminata di un bambino. Con quelle gote rosee sembrava uno dei putti angelici affrescati nella cappella sistina.
«Ti ricordi il giorno del nostro esame quando ti sacrificasti per me senza battere ciglio? Il lupo aveva mutilato il tuo braccio, avevi le ossa spezzate, e sanguinavi copiosamente con i sensi accecati da dolori lancinanti. Nonostante ciò, ti preoccupasti per me. Proprio io che vi avevo messo tutti in pericolo con la mia codardia. E mi detestavo così tanto per quello che ti era successo, era come se fossi stato io a ferirti così brutalmente…e poi mi abbracciasti, in quel modo teneramente impacciato ma confortante, e dimenticai di essere lì, di tutte le persone che ci osservavano, di tutti i cadaveri che giacevano intorno a noi. Mi sentii al sicuro e protetto nel tuo esile abbraccio, inebriato dal tuo profumo delicato di rose appena sbocciate e sangue. Ero indegno delle tue attenzioni, avresti dovuto odiarmi, infondo ero io la causa di tutto quel disastro. Eppure tu non lo hai fatto, mi consolavi, ed io non potevo che gustarmi ogni singolo attimo delle attenzioni che mi stavi dedicando. Quando ci ripenso mi sento così “sbagliato”, come potevo essere felice in un momento come quello? Allora ero troppo piccolo per capire quello che si stava scatenando nel mio cuore…».
«So cosa ti spaventa» annunciò accigliato «ma non te ne devi preoccupare. Credo che possa parlare a nome di entrambi» disse riferendosi all’amico. «Noi non ti abbandoneremo mai, qualunque cosa accada, qualunque cosa io stia per dirti, non cambierà nulla da parte nostra».
«Norman, se lo fai, ci saranno delle conseguenze, è inevitabile. Lo sai bene anche tu» lo avvisai aggrappandomi al suo braccio proteso sulla mia guancia.
«Sono pronto anche a questo, all’imbarazzo dei nostri sguardi, alla vergogna e al dolore del rifiuto… anche se quello non sarà facile metabolizzarlo» considerò con un ghigno. «Ma non posso mentirti. Non qui nel regno delle fate».
«Cristo santo» sospirai angosciata.
«Io ti amo» disse con un candore disarmante.
«Oh, merda, l’ha detto» sentii imprecare a bassa voce Gab.
«Ti amo» ripeté come se fosse stupito da se stesso «il mio cuore è tuo, e così anche la mia anima ti è devota. E ti prego di non sentirti in colpa se non puoi ricambiare ciò che provo per te, fa parte anche questo dell’essere innamorati, no? Rendere felice la persona che sta al centro dei tuoi pensieri, anche se questo implica il non poterle stare vicino come si desidera veramente».
Mi mancava l’aria. Non stava accadendo veramente, il mio Norm non poteva provare davvero quelle cose, quel tipo di sentimento; lui era mio amico…Io non volevo ferirlo, per nessuna ragione al mondo. Perché mi stava dicendo quelle cose? Era davvero frutto di un sortilegio di quella pazza? O forse avevo sempre avuto quella spada di Damocle appesa a un labile filo sulla mia testa?
«Sono consapevole di non poter pretendere nulla da te, accetterò qualsiasi sia la tua decisione, ma se non è troppo, non allontanarmi Lea, mi ucciderebbe. Permettimi di starti accanto comunque, non voglio perderti. Continuerò ad esserti amico, come ho sempre fatto in tutti questi anni. Non negarmi la tua amicizia, è la cosa più preziosa che ho» mi stava supplicando.
«Norm…» dissi affranta dal tormento della sua confessione. «Io non posso, non voglio ignorare la bellezza dei tuoi sentimenti, non me lo perdonerei mai di calpestare tutto quello che è stato del nostro rapporto. E ti giuro, che conserverò per sempre le parole stupende che mi hai detto oggi, in un posto speciale nel mio cuore» a quel punto resistere al pianto mi era insopportabile.
«Ma…» proseguire alla vista della sua faccia trasformata dalla sofferenza e dalla delusione mi costarono tutte le energie che avevo in corpo. Gli spostai la mano dal mio viso e la pressai vicino al petto, come se potesse scongiurare l’imminente autodistruzione a cui stavo andando inconsapevolmente incontro. E guardai anche Fabrizio che fino a quel momento non era riuscito a pronunciare nemmeno una parola. Nel suo sguardo, rabbia e un fioco barlume di calore umano si facevano la guerra.
«Io vi voglio bene. Moltissimo. Per me siete in egual modo importanti, non potrei mai fare a meno di uno di voi due. Potreste mai vivere senza una parte di voi stessi? Io no, e mi rifiuto di farlo. Vorrei sparire in questo momento, perché mi sento l’artefice della rovina della vostra amicizia, se foste arrivati al dunque prima…non l’avrei mai superata. Io accetto i vostri sentimenti e li proteggerò per tutta la vita ma non posso darvi quel tipo di amore…non nel senso romantico del termine.
So che non potrei permettermi di chiedervi ancora favori, ma questo lo pretendo. Voi dovete promettermi che non accadrà mai più una cosa del genere. Voglio vedervi ancora sorridere insieme, scherzare, farvi i dispetti come due bambini ed io desidero fare parte ancora di quel mondo. Pensate di potercela fare?».
Norman e Fabrizio si scrutarono alleviandosi a vicenda le loro espressioni trafitte dal comune rifiuto alla segreta passione che nutrivano nei miei confronti. Forse anche quello li avrebbe uniti ancora di più, avevano qualcos’altro da condividere.
«Fa male, sai?» disse Fabrizio arrotolandosi nella sua morsa l’orlo della cappa «E’ un vero schifo» ammise in tutta sincerità « ma sono felice che tu non mi abbia ucciso Norm». I due scoppiarono a ridere.
«Non credo che sarei riuscito a convivere con un tale peso sulla coscienza. Il tuo fantasma mi avrebbe perseguitato per l’eternità» ci scherzò su Norman.
«Oh, ci puoi scommettere bello mio» gli confermò Fabrizio.
«Frenate tutti un attimo!» disse Iris staccandosi da Fabrizio «E quindi finisce così, vi lasciate abbindolare da due paroline dolci e vissero tutti felici e contenti?» strillò esasperata.
«Devi ammettere che le paroline dolci di mia sorella però ci sanno fare» mi concedé Gabriel stringendosi nelle spalle. «Adesso invece parliamo di cose serie…che diamine ci fate voi due qui? E’ venuto qualcun altro con voi in questo mondo di matti?» gli domandò Gabriel con il dorso delle mani poggiate sui fianchi. Iris drizzò subito le sue orecchie da volpe, molto più che interessata alla risposta che mio fratello si aspettava da quei due.
«Ci siamo tutti, Gab. Avevamo giurato. E poi Fabiano sembrava davvero fin troppo…autoritario. Non avrebbe concesso a nessuno di rifiutarsi» disse Fabrizio.
«Fabiano, autoritario?» chiesi mal celando lo scetticismo. Che stesse cambiando anche la sua personalità? «Era molto preoccupato per voi» ci informò Norman.
«Siamo partiti il giorno dopo della vostra scomparsa, dopo…be quello che è successo e la vostra…manifestazione» aggiunse  l’amico occhialuto con un certo scintillio negli occhi.
«Il sire e la coorte sono andati fuori di senno e hanno messo interi squadroni di ricerca  sulle vostre tracce. Per fortuna la spia non aveva raccontato nulla del nostro…» Norman lo picchiò con una gomitata intercostale, ma era troppo tardi: Iris aveva ascoltato fin troppo.
«No, ti prego continua, non fare caso a me» lo aveva invitato lei melliflua «E’ da quando vi ho visto girovagare per i boschi di Sirio che mi chiedevo per quale motivo un gruppo di bambini protettori si sarebbe dovuto infiltrare nel territorio delle fate. Un po’ rischioso, senza il dovuto permesso della Regina, convenite con me?». Iris si sedette a gambe accavallate a ridosso della biforcazione del ramo di un albero prostrato in adorazione della terra che lo nutriva, e restò in attesa che qualcuno mettesse a tacere i suoi dubbi lisciandosi tutte e nove le code a turno.
«Tu sapevi che loro erano qui da tempo?» le domandai a brucia pelo.
«Da circa una settimana, sì» intervenne subito, con un dito alzato, per smorzare la domanda che prendeva forma nella mia mente «Il tempo qui scorre più velocemente, Lea» spiegò frettolosamente come se non avesse alcun intenzione di approfondire l’argomento.
«Ma allora…» fece per dire Gab.
«Ti starai chiedendo perché non ho detto nulla» lo anticipò con un risolino trillante. «Beh…Perché non sarebbe stato divertente!» esclamò come se fosse ovvio. «E poi sapevo del vostro arrivo imminente. Quelle ragazze ciarlano fin troppo per i miei gusti…» disse la Kiendjar arricciando il naso.
«Che cosa le hai fatto?» sbottò Gab crucciatissimo. Immaginavo che il suo sgomento fosse dovuto al pensiero di Morgana in balia di una dozzina di fate dispettose e indisponenti.
«Cosa le hanno fatto, vorrai dire» roteò gli occhi, annoiata dall’insinuazione di mio fratello «Sono state le Driadi a…occuparsi di loro» disse cogliendo un bellissimo fiore rosa e avvicinandoselo al viso per odorarlo «sta tranquillo fustacchione, ho detto loro di andarci piano».
«Oh certo, allora non abbiamo nulla da temere!» rispose sarcastico.  
«Ho ordinato che le lasciassero in vita, è più di quanto si meritino» disse assottigliando gli occhi come quelli di una vipera. Dal suo tono piatto trapelarono dei possibili trascorsi non esattamente amichevoli fra loro.
«Dove sono adesso?» le chiesi senza tanti preamboli.
«Frena il tuo stupido spirito eroico, tesorino» m’impose austera «adesso siamo a casa mia e tu sei entrata senza bussare» terminò schioccando la lingua ripetutamente «davvero poco educato da parte tua. Mi chiedo perché ancora non abbia detto tutto al principe Kahel» finse di pensarci su.
«Mio fratello non gradisce gli estranei ma soprattutto chi s’imbuca alle sue feste sontuose, senza essere stato invitato. Sarebbe spiacevole se chiamassi il suo corpo di guardia» considerò allegramente.
«Va bene, dimmi che cosa vuoi» acconsentii alle sue non troppo velate intimidazioni. Non avevo altra scelta, non dopo che ci aveva esplicitamente raccontato di tenere in ostaggio Morgana, Caterina e le altre.
«Adesso, parliamo la stessa lingua!» disse applaudendo. «Prima di tutto» cominciò ad elencare saltando giù dalla sua sedia provvisoria «Voglio una dimostrazione».
«Una dimostrazione di cosa?» intervenne Gabriel.
«Le voci corrono più veloci di quanto voi non vogliate. Hanno le gambe lunghe e sono sempre pronti a sgattaiolare dentro orecchi indiscreti» disse con un’espressione enigmatica. Aforismi da fate. E chi li capiva?
«Io so perché siete qua» sentii Gabriel deglutire a quella affermazione. «Perché volete fuggire dalle grinfie di quei vecchi bacucchi che vogliono mettere le mani sul vostro potere di medjai». Quella parola aleggiò fra noi in tutto il suo significato leggendario.
«Ci hai scoperto» ammise Gabriel. Io e i miei compagni lo guardammo di sottecchi. Ci aspettavamo che da un momento all’altro mio fratello fosse colpito dalla maledizione delle fate per aver mentito spudoratamente ad una di loro ma…effettivamente non era del tutto una bugia.
«Siamo qui per chiedere udienza a tua madre sperando che lei ci offra asilo e protezione almeno finché le acque non si calmeranno e potremo trovare un’altra sistemazione sicura. Il campo non sarà più disposto ad accoglierci dopo il macello che ci siamo lasciati alle spalle» le confidò un’altra mezza verità. Eludere la maledizione diventava sempre più facile.
«E i vostri amici che c’entrano?» chiese sospettosa.
«Non puoi credere davvero che fossimo così sciocchi da venire da soli. Sappiamo perfettamente quanto possa essere pericoloso lo scontro con un gruppo di Curatores noctis, ci è sembrata una buona idea portare con noi il nostro piccolo esercito di protettori fidati» le spiegò lui.
«Ammettiamo per un momento che sia così. Cosa ti fa pensare che Delilah sia disposta a scendere a patti con voi? Come credete sia giunta la notizia del ritorno dei medjai qui nel nostro regno se la sovrana stessa non fosse stata in contatto con il campo di Betelgeuse?».
«La regina non ha mai simpatizzato per nessuno dei membri della coorte né tanto meno con il Sire, è risaputo questo. E’ logico che tenga alla diplomazia con quelli della nostra razza dal momento che noi» disse sottolineando quel pronome personale «vi abbiamo permesso di trasferirvi qui, in un territorio che prima ci apparteneva. Ma non c’è niente di più, il loro sodalizio non è fondato sulla fiducia reciproca».
«Quindi siete qui solo per un azzardo? Un sospetto infondato vi sembra più che sufficiente per far rischiare la vita a voi e ai vostri amici? Oppure siete così superbi da sopravvalutare le vostre capacità?». Iris non mollava l’osso. Era intenzionata a portare a termine il suo interrogatorio invadente nella speranza che ci sfuggisse qualcosa che potesse utilizzare come arma contro di noi.
«Sono sicuro che una possibile alleanza con dei medjai sia più appetibile di un accordo che, sicuramente le è risultato vantaggioso, ma, parliamoci chiaro, l’ha messa sotto scacco matto. Non può decidere più niente secondo le sue facoltà. Dovrà sempre rispondere a qualcuno che sta più in alto di lei. E che razza di Regina è una che si fa comandare a bacchetta da un gruppo di mummie imbalsamate? Pensa se ci presentassi tu all’udienza. Tua madre ti guarderebbe con occhi diversi non credi?».
Ero davvero sbalordita. Da un lato avrei voluto uccidere Gab per come stesse mettendo a rischio la sua vita camminando sul rasoio della verità, dall’altro ero affascinata dalle sue qualità nascoste di stratega, lui che tanto li disprezzava. Aveva colto nel segno il punto debole di Iris e lo stava utilizzando a proprio favore, ovvero la stava fregando al suo stesso gioco.
«Tu mi piaci Gabriel Braveheart» disse la mezza fata temporeggiando sui suoi muscoli ponderosi. «Forse potrei procurarvi un incontro con mia madre…non io direttamente ma potrei mettere una buona parola con mio fratello. Quel bamboccio non solo è il legittimo erede al trono ma è anche il cocco di mamma» disse con stizza.
«Non chiedo di meglio» replicò lui.
«Ma vi avverto siete arrivati nel momento sbagliato. Come vi dicevo prima, è in corso la celebrazione della Scao Leadh.  Ogni anno ricordiamo la cacciata dei Lihan sidhe dai territori di mia madre, in memoria della grande battaglia che ha visto vincere il popolo delle fate della luce contro le perfidie delle figlie di mia zia Frieda. E’ tutto un gran fermento a palazzo, la servitù è oberata di lavoro da settimane, mia madre vuole che sia tutto perfetto. E’ così snervante» commentò ad alta voce.
«Le Nixies però hanno rifiutato l’invito ufficiale al ballo di questa sera e potrete immaginare quanto in questo momento nessuno a corte sia in vena di festeggiamenti, soprattutto quella bisbetica di mamma. Per tutti i folletti! Nemmeno gli intrugli dei druidi l’hanno potuta sedare! Non ho mai capito perché tenga così tanto alla pace fra le sette tribù quando sa benissimo che ci tolleriamo a malapena». La guardai con circospezione. Perché si stava sfogando con noi? Per quale motivo non andava al sodo?
«Come mai le Nixies non vogliono partecipare alla vostra ricorrenza annuale?» chiese il solito curiosone. Mi faceva strano che ancora Fabrizio non avesse posto alcuna domanda. Iris si strinse nelle spalle «mi rincresce dirvi che non ne so molto. Di solito mi tengo lontana dalle questioni politiche che riguardano la reggenza di mia madre. So soltanto che farebbe qualsiasi cosa pur di riavere gli ambasciatori delle fate dell’acqua fra le sue fila, visto che si sono sempre dimostrati validi alleati ma soprattutto fedeli servitori della luce. Qualità molto rara da trovare in una fata, credetemi. I sidhe soltanto in poche occasioni sono riusciti a trascinarli dalla loro parte».
«Quindi vuoi che parliamo con loro per risolvere qualsiasi malcontento ci sia dietro?» supposi in fine.
Iris sbuffò poco elegantemente «Cielo, no! Vi affogherebbero sul fondo del lago delle ninfe. A proposito del lago Ludha» disse con un sorrisetto che pronosticava l’esposizione di una richiesta non del tutto fattibile.  «Se volete entrare a palazzo ed avere una possibilità di incontrare mia madre, vi serve un invito per il ballo di questa sera. Quest’anno hanno deciso che ogni partecipante dovrà essere in possesso di un amuleto di peltro coniato con la faccia di quel babbeo di mio fratello…che narcisista» disse in una smorfia di disgusto.
«Non sai quanto ti capisco» mormorai. Gabriel ne risentì e mi fulminò con lo sguardo.
«E dove troviamo questi amuleti?» domandò Norman.
«Purtroppo sono finiti, li hanno distribuiti in tutta l’isola e gli gnomi non sono più disposti a fabbricarne altri, dato che hanno dovuto attingere un’ingente quantità di quel metallo dalle loro miniere. Ma…» aggiunse briosa «E’ il vostro giorno fortunato!» disse sfregandosi le mani.
«Proprio ieri notte ho visto un gruppo di Nixies gettare i loro inviti nel lago Ludha, probabilmente come presa di posizione irremovibile per le questioni di cui vi parlavo prima, ed erano davvero tante. Magari sul fondo del lago ci sono inviti a sufficienza per voi e per i vostri amici!».
«Mi sembra perfetto. Dov’è la fregatura?» indagai.
«Avevo dimenticato quanto fossi sospettosa» si lagnò arruffando le code. «Perché non ci vediamo lì, così che io possa dimostrarvi la mia buona fede? Ma fate presto, il tempo sfugge». L’eco della sua risata si disperse nell’etere e si mescolò con la foschia fatata che ci volteggiava attorno.
«Dov’è finita?» esclamò Gabriel strabuzzando gli occhi.
«Ha detto che ci avrebbe raggiunto al lago» intervenne Norman «Io so dov’è, non credo che qualcuno qui dentro sia in grado di spostare una massa d’acqua di quella portata da un luogo a un altro…a parte voi due» si corresse subito.
«Fai strada, noi ti stiamo dietro» lo incoraggiai sollevando il mento. Norman annuì e mi sorrise prima di addentrarsi oltre la parete di rampicanti da cui era sbucato prima.
******
Lo scalpiccio dei nostri passi rimbombava fra quelle quattro mura di pietra che tenevano in piedi quella galleria impregnata di umidità. Norman sembrava abbastanza sicuro del percorso, perciò per un po’ lo seguimmo in silenzio. Poi, lungo il tragitto, Fabrizio tentò di adattare il suo passo al mio e non smise nemmeno per un attimo di fare domande a me e Gab su come funzionava il potere elementale ed io gli rispondevo volentieri, ero grata del suo sforzo di cacciar via l’imbarazzo fra noi per quanto successo prima.
Quando la vegetazione cominciò a infittirsi sempre di più, Gab fu costretto a estrarre Symphony e creare, a suon di fendenti, un sentiero improvvisato. Liane e piante variegate, che non avevo mai visto prima d’ora, ci circondavano con le loro corolle colorate, e uccelli esotici gracchiavano al nostro passaggio perdendosi nel fragore di una cascata in lontananza. Alberi altissimi, umanizzati e coscienti, si piegavano per sgomberare la strada e filtravano debolmente la luce naturale del giorno. Attraverso le loro cortecce nodose, sembravano respirare boccate d’aria incontaminata, e i fiori, intimiditi dalle nostre ombre, si rannicchiavano sui loro steli accartocciando i petali all’interno dei calici. Allora presi a sfiorarli con le dita, passeggiando a mio agio in mezzo all’erba, per dimostrargli che non avevano nulla da temere. E loro sbocciarono al mio tocco e tornarono ad affacciarsi dai loro cespugli tinteggiando quella tundra verde e rigogliosa. Dopo un buon quarto d’ora passato a incunearci fra le fronde legnose, udì delle voci umane, nonostante fossi stata assordata dal ronzio delle libellule e dal crepitio incomprensibile delle pixies che le cavalcavano. Mi allontanai quanto bastava dal trio per raggiungerle e mi nascosi fra rami scricchiolanti e fogliame camuffante.
. Una brezza leggera e profumata di fresie muoveva le foglie di un salice piangente con i rami flessi come a voler baciare lo specchio d’acqua sottostante.
Scorsi due giovani vicino le rive del lago che si estendeva, piatto e placido, per diverse decine di chilometri all’orizzonte, riflettendo il turchese del cielo. Il petto risuonò come uno strumento a percussioni a intervalli irregolari e schizofrenici, tanto da temere che potessero sentirlo.
«Da quanto tempo lo sai?» domandò il ragazzo con i capelli biondo cenere calciando un sassolino.
«Dal giorno che ci siamo incontrati. Ho letto la lettera di tua madre…» gli aveva risposto l’altra figura di cui riuscivo a vedere solo la schiena e un atlante di muscoli irrigiditi dal nervosismo. La sua voce, comunque, non mi lasciava alcun dubbio: l’avrei riconosciuta fra mille.
«Una lettera? Dici sul serio? E adesso dov’è?» chiese il primo prendendogli le spalle per farlo girare nella sua direzione.
«Leona l’ha bruciata» balbettò rammaricato, osservandolo con quegli occhi assaliti dall’angoscia.
«Bruciata?» esclamò furioso il compagno «E perché mai avrebbe dovuto farlo?». Ebbro d’ira, si portò le mani ai capelli e trattenne a stento un’imprecazione sottovoce «Era una prova!».
«Perché hai ancora dubbi? Hai detto che è stato lui  stesso a confessare…di quale altre prove hai bisogno?» disse il castano pacatamente, infilandosi le mani in tasca. Il suo sguardo rassegnato si perse fra le creste del lago che scintillavano come diamanti. L’altro, infastidito dal suo atteggiamento mogio e indolente, gli si parò di fronte puntandogli un dito sotto il naso «Non credere che questo cambi qualcosa fra noi due, sono stato chiaro? Non importa chi tu sia, per me varrai sempre meno di zero, non abbiamo nulla da condividere!».
«Io non so se riuscirò a ignorarti…» gli rispose a tono il ragazzo per nulla intimidito dall’indice minaccioso che gli levitava in mezzo agli occhi.
«Tu lo sapevi, è questo che mi manda fuori di testa. Ne eri al corrente e ti sei portato a letto Lea ugualmente!» lo rimproverò furibondo l’altro.
«Non ha significato nulla per me» disse convinto l’accusato, sforzandosi di sembrargli sincero.
«Forse per te no, ma per lei?»
I due si guardarono in cagnesco per un lungo istante prima di ricominciare a discutere.
«Lei non deve provare nulla per me, non glielo permetterò mai. Non voglio che si faccia del male a causa mia». La voce gli uscì come se qualcuno gli avesse infilato un coltello incandescente in gola.
«Tu non puoi controllare i sentimenti delle persone, Fabiano! Ma ti senti? Ti sei così concentrato a non assomigliare a tuo padre che hai finito con l’ereditare i suoi stessi deliri di onnipotenza!».
«Ragazzi, che coincidenza! E’ un piacere trovarci tutti qui. E tu Leona che stai facendo accovacciata lì in mezzo alla foglie?» si annunciò Gab vanificando tutti i miei tentativi di non farmi notare. Sperai sul serio che lo avesse fatto apposta o altrimenti non avrei minimamente potuto concepire una tale idiozia degna di un decerebrato. Mi toccò svestirmi del mio travestimento foglioso, mostrandomi a testa china ai due ragazzi, interrotti nel bel mezzo di una diatriba accesissima e rivelatrice. «Questa me la pagherai molto cara…» gli sussurrai al timpano di mio fratello strattonandogli un orecchio. Gabriel soffocò un piagnisteo decisamente poco mascolino mentre gli tiravo giù il lobo allungandoglielo come se fosse fatto di gomma.
Non appena mi feci avanti, i volti di Fabiano e Ethan sbiancarono come se avessero subito un lavaggio con la varechina.
«Leona…» mi chiamò Fabiano con la dolcezza di un soufflé. Quanto suonava bello il mio nome riecheggiando nella sua bocca…
«Tesoro alla fine ce l’avete fatta a venire!» disse Ethan tentando di dissimulare quella caligine d’imbarazzo che insozzava l’aria che ci circondava. Fabiano, invece, mi perlustrò velocemente col suo sguardo ansioso e, una volta accertatosi che fossi tutta intera, parve sciogliersi come il burro.
«Il tuo fidanzato dubitava di noi, l’hai sentito?» disse Gab.
«Ethan ascolta, credo che adesso possiamo darci un taglio con questa messa in scena. E’ rischioso mentire qui sotto, non voglio che ci accada nulla» suggerì al biondino che impallidì più di prima. Fabiano incrociò le braccia al petto aggrottando le sopracciglia.
«Che vuol dire messa in scena?» domandò Fabrizio alle nostre spalle. Norman sembrava ancora più curioso di lui.
«Vuol dire che io e Ethan non siamo mai stati una coppia vera. Si trattava di una soluzione temporanea. A me serviva un modo per tornare al campo. Ricoprire il ruolo della sua fidanzata mi ha facilitato le cose e ha reso sua madre disponibilissima ad accompagnarmi. Scusa Ethan, lo faccio per il tuo bene». Mi metteva a disagio dire pubblicamente quelle cose, soprattutto davanti a Fabiano che non dava l’idea di averla presa benissimo. Per qualche strano motivo trovai più interessante farmi le treccine alle punte dei capelli.
«E’ vero?» cercò conferma Fabiano rivolgendosi direttamente a lui.
Ethan ci osservò tutti come un topolino dentro la sua trappola, colto in flagrante a rosicchiare il suo agognato pezzo di formaggio «Beh sì ma…».
«Questa non me l’aspettavo proprio» disse mio fratello segretamente soddisfatto. Non era un mistero che non avesse mai tifato per noi due. «E quindi, voi…» si morsicò un labbro per non scoppiare a ridere.
«Sì, Gabriel. Non c’è mai stato niente fra di noi, mi sono approfittata solo della situazione. Abbiamo finto per tutto il tempo, sei contento?» gli diedi uno spintone disapprovando quel suo atteggiamento infantile.
«Abbiamo finto?» esplose Ethan con una vaga sfumatura d’incredulità nel suo tono di voce. Si grattò la guancia spruzzata da un velo sottile di lanugine che gli dava un aspetto decisamente meno da adolescente, e calciò un altro sasso facendolo rimbalzare sul pelo dell’acqua un decina di volte. «Perché non parli per te miss sincerità? Quanto ti piace spiattellare ai quattro venti la nuda e cruda realtà sempre e comunque? Cosa importa se ferisci i sentimenti altrui nel farlo, se puoi sventolare fieramente la bandiera della verità? Visto che hai tirato in ballo la tua scaramuccia degna di un cinismo senza precedenti, perché non gli dici anche come ti hanno disgustato i miei baci? A me non è sembrato che ti siano dispiaciuti così tanto alla fin fine!».
«Sei ingiusto! Non ti ho mai illuso sui miei sentimenti, sono sempre stata onesta con te, anche fin troppo forse. Solo adesso mi rendo conto che avevo ragione a tenerti lontano, prima che ne rimanessi troppo coinvolto…».
«Sai già che ho superato il punto di non ritorno da parecchio tempo. Te l’ho confessato quando eravamo imprigionati nella torre».
Scossi la testa «Questo non è il momento adatto. Sei arrabbiato e io lo capisco. Riprenderemo la questione un’altra volta» lo volli rassicurare. Forse ero stata troppo pragmatica nel gestire le faccende di cuore quel giorno, ma non avevo alcuna intenzione di dare corda ai suoi capricci, non adesso che ero a un soffio dal scoprire l’ubicazione del ciondolo della Luna.  
«Con te non è mai il momento…» si arrese con un sorrisetto amaro.
«Et…» fece per richiamarlo Fabiano posandogli una mano sulla spalla.
«Per favore, la tua compassione è l’ultima cosa che mi serve» gli disse liberandosi dalla sua presa. Sfrecciò in mezzo a Fabrizio e Norman senza preoccuparsi di evitarli, e scomparve nel fitto della giungla.
«Per le moire Leona, oggi non te ne va una giusta!». Dovevo aspettarmi che quella subdola si fosse goduta tutta la scena dalla sua alcova annidata fra le rocce.
«Sono contenta che le mie disgrazie ti siano di sollazzo, Iris. Vorrei essere risarcita per il puro intrattenimento che ti sto concedendo» le dissi incanalando tutta l’energia positiva per non aggredirla.
«Entro stasera avrai la tua ricompensa, cara» disse piroettando in un tornado di code. «Ma prima…» ammiccò al lago.
«La dimostrazione, dico bene?»  suppose Gab in trepidazione.
«Aspettate un attimo…Chi è lei?» domandò improvvisamente Fabiano.
La volpe a nove code affiorò dal buio delle ombre e si presentò al ragazzo dagli occhi azzurri, porgendogli una mano amichevolmente «Piacere biscottino, io sono Iris, una vecchia conoscenza di Leona» disse lei con uno sguardo fin troppo indagatore. La voglia di tirarle un pugno su per il muso era diventata a malapena contenibile.
Fabiano valutò prudentemente se accettare la sua offerta di pace anche se poi ebbe la meglio la sua inguaribile buona educazione e le strinse la mano a sua volta. Grave errore da parte sua. Iris lo prese in contropiede e, arpionandogli le dita attorno al polso, lo attrasse a sé con uno scatto felino. La rabbia travasò quando quella bestiaccia si permise di leccare  il naso del mio Fabiano.
«Mmm…Hai un buon sapore» disse lei arricciando le labbra.
Il fuoco divampò incontrollato. Sentii a malapena il calore pungermi la pelle della mano e del braccio. Iris rise della mia trasformazione in torcia umana. «Rilassati Leona, non me lo mangio mica» asserì lei strofinandogli le vibrisse in faccia.
Sgualdrina, sgualdrina, sgualdrina.
«Ehi volpina, guarda che ce l’ha già la ragazza. Se fossi in te non gli starei così vicino. E’ un tipetto nervosetto» la informò Gabriel.
«Oh, che peccato!» esclamò lei immusonendosi e si allontanò da lui controvoglia. Gabriel mi comunicò in un messaggio muto di spegnere la pira che mi ardeva nella mano destra.   
«Hai dei compagni di viaggio davvero interessanti» commentò lei divertita.
«Ok, qualcuno mi dice cosa sta succedendo?» chiese ancora Fabiano a disagio dalla vicinanza della Kiendjal.
«In parole povere? Ci serve un lascia passare per la festa dello Scao Leadh di questa sera per poter parlare con la regina Delilah, delle monete con la faccia del principe Kahel, il fratello di Iris, per intenderci, ma sfortunatamente gli gnomi hanno terminato l’olio di gomito e si rifiutano di farne altri. Così, adesso eccoci qui costretti a dover ripescare gli inviti riciclati delle Nixies che li hanno buttati nel lago perché, a quanto pare, non vanno più d’accordo con sua maestà fatata» riassunse Norman in un riepilogo particolarmente coinciso ma esaustivo. Fabrizio si esibì in un’espressione di approvazione, mentre Fabiano, dal canto suo, non sembrò convinto del tutto di quella spiegazione. I suoi capelli cominciarono a ingarbugliarsi come una manifestazione del suo stato confusionale interiore.
«Sta tranquillo amico» disse Gab arrotolandosi le maniche della cappa sui gomiti «ci pensa paparino a sistemare le cose».
«Me ne occupo io»  lo avvertì poggiandogli una mano sul petto per bloccarlo sul posto. Lui inarcò un sopracciglio, infastidito dal mio gesto.
«Sai praticare l’allomanzia come si deve?» gli domandai assolutamente conscia di ricevere un no come risposta. Dalla smorfia che si dipinse sulla faccia, fui certa che non avesse capito nemmeno di cosa si trattava.
«Tu sai come si manipolano i metalli?» chiese un entusiasta Fabrizio con i suoi occhioni marroni ingigantiti dalle lenti.
«E’ una delle possibili estensioni del potere della geocinesi» gli confermai annuendo.
«Quello so farlo anch’io, chi ti credi essere!» disse Gab sbuffando e riprovando a liberarsi di me.
«Oh davvero? Sai distinguere le diverse frequenze magnetiche attrattive di ogni metallo?»
«Sei la solita rompi balle Lea, perché devi sempre trasformare le cose più fighe in una delle tue diavolerie scientifiche?» disse Gabriel che cominciava a surriscaldarsi. Letteralmente. Il suo petto scottava come il coperchio di una pentola a pressione.
«Non sono diavolerie scientifiche, sono le leggi della natura, imbecille! Una frequenza sbagliata e ci uccidi tutti! Non ti rendi conto di quanto sia pericoloso!»
«Tua sorella ha ragione Gabriel» lo redarguì Fabrizio «Ogni metallo è unico e irripetibile e possiede specifiche proprietà che vanno dal punto di fusione, alla duttilità, fino alla frequenza magnetica di attrazione. Potresti usare un attrattore magnetico universale, è vero, ma pensa a cosa potrebbe succedere. Attireresti indiscriminatamente qualsiasi tipo di metallo nel giro di un chilometro e ci finirebbe tutto addosso…Non so tu, ma a me non piacerebbe morire spiaccicato da una lastra di ferro. Pensavo di lasciare questo mondo in maniera meno patetica e più epica».
Mi schiarì la voce «Grazie Fabrizio. Capisci perché devo occuparmene io? Ci sono voluti mesi prima che imparassi a distinguere i metalli fra di loro e ti assicuro che non è stata una passeggiata. Serve molta concentrazione e disciplina, cosa che al momento, lasciatelo dire, non possiedi. Quindi stai buono e non combinare guai».
«Va bene» sospirò ubbidiente.
Come? Cosa? Perché non faceva resistenza? Bastava una semplice glossa enciclopedica da manuale per mettere in riga quel piantagrane di mio fratello? Non ci avrei creduto nemmeno se lo avessi visto con i miei occhi.
Oh. Eccolo lì. Quel sorrisino furbetto tramare qualcosa di losco alle mie spalle. Quale razza di bizzarria stavano escogitando le tre scimmiette che si ritrovavano al posto del suo cervello?
 Poi la sentì. Una fredda mano invisibile avvolgersi attorno alla mia testa come un’aureola spinosa, darmi i brividi lungo la schiena. Quello stronzo stava provando a usare l’effetto osmosi su di me per carpire i segreti del potere allomantico! Come avevo fatto a non prevederlo!
In quanto gemelli, eravamo legati da una profonda connessione psichica che ci permetteva di avere accesso diretto ai pensieri, alle esperienze e ai ricordi l’uno dell’altra. La condivisione poteva avvenire in qualsiasi momento, quando lo si voleva, la congiunzione fra le nostre anime era così indistinguibile tanto da non percepire dove iniziasse una e dove finisse l’altra.
Stavolta, però, non mi avrebbe colta impreparata. Non mi ero dimenticata di tutte quelle volte in cui si era approfittato delle mie sudatissime ore di studio per prendere un buon voto nei compiti in classe, godendosi tutta la gloria alla faccia mia. Trattenni le risate, la vendetta, dall’altra parte, è un piatto che va servito freddo…
Quando  Gabriel cercò di farsi strada dentro la mia mente, il suo scudo gli rimbalzò indietro, lasciandolo a bocca asciutta «Ma che ca…» gli ci vollero un paio di secondi per afferrare che cosa era appena accaduto.
«Tu!» sputò fuori, collerico come un diavolo della Tasmania «io ti ammazzo» mi minacciò protendendosi in avanti con l’intento di acciuffarmi. Io mi abbassai e scivolai dalla sua presa.
«Te lo sei meritato! Non ti permetterò più entrare nella mia testa senza il mio permesso! Ho subito abbastanza le tue angherie, adesso dovrei arrangiarti da solo. Rimboccati le maniche se vuoi qualcosa e allenati, invece di approfittare di tua sorella!».
Fabiano cominciò a ridere. Una risata autentica e sincera, libero per un attimo dalle sue opprimenti costernazioni. Era magico il suono della sua risata.
«Ti ha tagliato fuori, bello» disse lui senza smettere di  sogghignare con il suo celestiale sorriso.
«Che cosa mi sono perso? Cosa c’è di così divertente?» s’intromise Ethan riemerso dalla boscaglia pluviale.
«Vorrei saperlo anch’io» sbuffò Iris  gonfiandosi l’interno guancia come due palloncini.
«Iris? Ma che ci f…» stava per chiederle ma noi tutti in coro gli dicemmo «E’ una lunga storia». A Ethan non restò che sollevare le braccia in segno di resa.
«Come hai fatto a creare il blocco?» riprese mio fratello.
«Se te lo dicessi, troveresti un modo per aggirarlo, non credi?».
Si gonfiò il petto come a prepararsi a intavolare la discussione più lunga della sua vita ma poi sembrò ripensarci e disse, infine, con aria critica: «Molto probabilmente».
«Viva l’onestà» esultai innalzando un pugno al cielo «Adesso fatti da parte e, per favore, silenzio» chiesi gentilmente.
Pochi passi mi dividevano dalla riva e la raggiunsi avvolta dal tanto desiderato silenzio. Mi scrocchiai le nocche e il collo, preparandomi a proiettarmi all’interno del mio io, nel tentativo di toccare la corda giusta con il mana raccolto ad adunanza lungo gli arti superiori.
L’elemento giusto, mi corressi da sola. Incanalai un po’ di ossigeno nei polmoni e stesi il braccio sul manto blu del lago. Attivai la risonanza, lasciando che inondasse tutti e cinque i sensi, concentrandomi sulla percezione delle papille gustative, ed esplorai il fondale lagunare alla ricerca del peltro. Ogni metallo aveva un sapore particolare che lo differenziava dagli altri. Quando venivo in contatto con uno di esso, captandone la frequenza magnetica, riuscivo a distinguerli saggiandone il gusto sulla punta della lingua. Le differenze erano appena percepibili all’inizio, sembravano tutti freddi e insapori ma poi, dopo tanta pratica e numerosi tentativi, riuscì a separarne all’incirca una decina di tipi, fra cui il peltro, uno dei più umili e semplici fra i metalli.
C’era un po’ di tutto. Mi sorpresi della vastità di ferraia che era stata abbandonata laggiù, quasi tutti impregnati del gusto acre dell’ossidazione. Poi riconobbi il sapore inconfondibile di umami, con un pizzico di retrogusto salato, tipico del peltro, ed ebbi una piccola scossa. Giocando con le forze magnetiche, potei anche stabilirne il peso, e una volta assicuratomi della leggerezza degli oggetti, relitti sul fondo del lago, aumentai la potenza attrattiva. Le monete risalirono a velocità supersonica, ignorando la pressione dell’acqua, e bucarono la superficie con l’unico scopo di ricongiungersi con il magnete che li stava chiamando, come se non avessero altra scelta.
Mi voltai e, vittoriosa, sollevai il braccio. Cinque amuleti, rifulgenti di un debole luccicore argenteo, brillavano fra le dita. Ne mancavano soltanto altri cinque.
Ma…perché non riuscivo a tirarli fuori?

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Capitolo 41
*** NESSIE ***


Capitolo 27 - Nessie

 Lo sentivo. Il peltro era ancora là sotto da qualche parte, le sue frequenze mi percuotevano tutto il corpo in un traballio di ossa, la sua inconfondibile sapidità mi aveva invaso la bocca e filtrato, pregnante, dentro la lingua. Aumentai ancora un po’ il magnetismo, con il rischio di attrarre anche altri metalli o loro leghe. Qualcosa, però, una forza oppositrice senza precedenti, spezzava di continuo il flusso di fotoni che gli lanciavo con insistenza.
Niente panico, pensai, passiamo alle maniere forti. Invertì la sorgente magnetica lasciando che io subissi l’effetto attrattivo delle monete, sfruttandoli come perno di trazione. Ormai era questione di principio: Leona Braveheart non conosceva la parola sconfitta.  Adesso ero io ad essere tirata dalla loro parte e non viceversa.
Non mi aspettavo certo di dare inizio a un tiro alla fune le cui possibilità di vincere rasentavano l’impossibile.
Il gancio virtuale tirò con un’irruenza inarrestabile, persi l’equilibrio e mi sentii sbalzare in avanti, leggera come la lamina di una foglia. Fu solo un attimo, ma mi mancò la terra sotto i piedi e cercai con foga di resistere a quella forza attrattiva, spingendo contro di essa, che mi trascinava con una violenza spaventosa verso di sé. Mi ancorai al terriccio paludoso scavando con gli scarponcini due solchi nel bagnasciuga.
«Lea sganciati!» disse qualcuno che a malapena riconobbi. Troppo concentrata in quel braccio di ferro invisibile. Poi delle braccia possenti mi si avvilupparono attorno alla vita e avvertii un corpo caldo incollarsi alla mia schiena come a volersi fondere con la mia pelle e con la mia carne, quasi come se volesse inglobarmi dentro di sé. Il filo magnetico che mi univa a quei piccoli oggetti oscillò, e si ruppe sotto la pressione a cui le due forze contendenti lo avevano sottoposto. In risposta alla potenza applicata nel trainare gli amuleti di peltro, caddi all’indietro rotolando insieme a malcapitato che si trovava nel mio cammino. Le cinque monete che mi ero conquistata, volarono lontano dalla mia presa, tintinnando sul selciato. Tutto sommato, per fortuna, era stato un atterraggio morbido. Avvampai quando mi resi conto di trovarmi distesa, in modo scomposto, sul petto di Fabiano con una gamba attorcigliata in mezzo alle sue cosce e la faccia fin troppo vicina alla sua, soffocata da lunghe ciocche dei miei capelli. Lui tossì facendo svolazzare alcuni ciuffi fra me e lui.
I miei capelli lo stavano uccidendo, grandioso.
Feci scattare la testa indietro, frustando quel manto nero sulle spalle e lo lasciai respirare «Oddio Fabiano! Ti senti bene?» gli domandai assalita dall’ansia. Il suo corpo, sotto di me, vibrò contenendo a stento le risate.
«I tuoi capelli non sono così male, forse un po’ troppo dolciastri». Ripresi a respirare «Ho pensato che ti avessero asfissiato».
«E’ sempre così no? Se non è una spada a farti fuori, ci penseranno i capelli della tua migliore amica. Adesso li temo anche più delle tue kopis» disse accigliandosi per fingersi impaurito. La bellezza dei suoi occhi azzurri, le sue lunghe ciglia flessuose, la linea morbida delle sue labbra arcuata in un sorriso letale, mi trapanò il cuore, strappandomi una smorfia gioviale specchio della sua.
Mio fratello si schiarii la voce «Non so, volete che vi lasciamo soli? Se preferite ci dileguiamo oltre il separet di piante» asserì indicando con un pollice oltre la sua spalla il fitto strato di vegetazione che attorniava la laguna. Sentii Ethan schioccare la lingua, esibendosi in un verso di insofferenza.
Fabiano inasprì subito l’espressione ed io mi accorsi, con mia somma vergogna, che il mio seno era ancora spalmato spudoratamente sulla sua gabbia toracica. Non volevo affatto sapere di quale colore si fosse tinta la mia faccia, mi scollai da lui rigidamente e gli offrì un aiuto per rimettersi in piedi. Lui lo accettò volentieri ma distolse lo sguardo da un’altra parte.
«Beh…» esordì scotolandomi il fango dai vestiti «qualunque cosa blocchi il resto delle monete lì sotto, è bella pesante persino per me». Nel frattempo Norman, Ethan e Fabrizio raccolsero quelle sparpagliate in giro.
«E’ stato stupefacente» commentò Fabrizio ancora chino a terra mentre si rigirava l’amuleto fra le mani.
«Già» confermò Norman con fare divertito «E almeno abbiamo la certezza che Iris non ci ha mentito».
«Ti prego» si lamentò lei «le fate non possono mentire…»
«Ma tu sei una mezzafata.» rimarcò impettito Ethan, giocando a testa o croce con la moneta che aveva trovato e aggiunse «Tu puoi mentire eccome». Iris assottigliò lo sguardo come se quella distinzione l’avesse offesa profondamente. Poi Ethan si avvicinò l’oggetto a una spanna dal suo viso per osservarlo meglio e corrugò la fronte «Tuo fratello Kahel ha un gran bel nasone» disse buffoneggiandolo. Gab diede una sbirciata insieme a lui e i due iniziarono a sghignazzare sommessamente. «Sai ho cambiato idea, adesso gli gnomi cominciano a piacermi, in fondo ce l’hanno il senso dell’umorismo» disse Gab senza smettere di ridere.
«Da qua, fammi vedere» gli ordinò lei ancora collerica, sottraendogli l’amuleto dalla sua presa.
«Oh, per le moire…Kahel farà uccidere tutti gli gnomi se li vedrà. E’ molto sensibile all’argomento».
«Comunque ne abbiamo solo cinque di questi inviti» li contò Fabrizio tastandone la durezza fra i denti «qualcuno rimarrà fuori…».
«Non sarà necessario. Andrò a controllare di persona cosa blocca il resto degli amuleti, non credo che ci vorrà molto. Dobbiamo riunire la squadra al più presto» dissi quando già ero rimasta soltanto con il pettorale addosso. Mi accostai alla riva lasciando che le gelide onde del lago m’inondassero le caviglie. E cominciai a tremare. Ma non per il freddo.
Ero terrorizzata. Non importavano le ore trascorse ad allenarmi con l’idrocinesi, o le ridicole lezioni di nuoto di mio fratello. Una distesa d’acqua, di qualunque genere, avrebbe avuto sempre un’arma da giocare in suo favore contro di me: l’ignoto di ciò che celava al di sotto di essa. Quella dannata paura che mi trascinavo da quando ero bambina, si era affievolita col tempo, ma era in situazioni di alta tensione come questa che tornava alla carica, gettandomi nuovamente in quel vortice di terrore paralizzante. Ancor di più sapendo che qualcosa di molto grosso lì sotto si era opposto alla mia allomanzia. A Londra era stato totalmente differente, non avevo programmato di tuffarmi nel Tamigi, nuotare in quel sudicio torrente, con la corrente a sfavore, si trattava semplicemente di puro istinto di sopravvivenza. Farlo di mia spontanea volontà andava ben oltre le mie capacità, ma non potevo più tirarmi indietro.
«Lea, che diamine hai intenzione di fare?» chiese mio fratello leggermente preoccupato.
«Li vado a prendere, genio. Che alternative ho?»
«Ma tu non sai…» esclamò con reticenza, lasciando morire lì la frase alla mercé della più probabile delle interpretazioni.
«Non ci posso credere!» disse Iris con un risolino fastidiosissimo «Una medjai che ha paura dell’acqua! Questo sì che è il colmo!».
«Io non ho affatto…» mi fermai subito e guardai la volpe a nove code negli occhi. Voleva portarmi a mentire…stava tentando di uccidermi.
«Cosa c’è tesoruccio? Vuoi che ti tenga la manina?» mi schernì lei. Non le avrei dato alcuna soddisfazione. Presi un bel respiro e ricacciai la rabbia da dove era venuta. Non avrei negato di aver una fifa tremenda di entrare lì dentro, gli avrei dimostrato il contrario piuttosto.
Arrotolai ancor di più gli orli dei pantaloni e fendetti le onde mentre s’infrangevano freddissime sulle mie gambe, affondando i piedi nudi sulla sabbia che abbracciava il loro contorno ad ogni mio passo.
«Leona!» urlò Fabiano alle mie spalle. Il suo grido mi scosse come una scarica elettrica nelle vene «Non andare…» soggiunse abbassando il volume di qualche tonalità. Il mio corpo si protese verso di lui in un gesto automatico, la sua voce era un richiamo a cui non potevo sfuggire.
«Che vuoi?» gli chiesi, un po’ scorbutica, inarcando un sopracciglio.
«Ti ho detto di non andare» affermò con più decisione «E’ una trappola, riflettici su» proseguì riassumendo il controllo si sé stesso «Hai notato quanto sia incredibilmente bello e incontaminato questo posto, ma nonostante ciò il silenzio tombale che lo circonda?».
«Che cosa vuoi dire?» domandai sinceramente perplessa.
«Guardati attorno. Dov’è la vita? Perché le ninfe dell’acqua non dovrebbero popolarlo e farsi il bagno in un paradiso del genere? E’ grande a sufficienza da poter ospitare intere generazioni di Nixies eppure loro si rifiutano di venire qui. Non ti sembra curioso che siano proprio loro ad avercela con la Regina? Qualcosa non mi torna…Esci subito fuori da lì» mi comandò non ammettendo alcuna replica. Stringeva così forte i pugni che credetti stesse affondando le unghia nei suoi stessi palmi, abbozzando delle mezze lune sulla pelle.
«Anche se così fosse, questo non cambia le cose. Gli amuleti ci servono a qualunque costo…» gli risposi rimpicciolendomi nelle spalle.
«Non fare un altro passo o giuro che vengo a prenderti di peso!» disse lui con una strana rabbia che gli ardeva nello sguardo celeste. Il tono, dispotico come quello del padre. No, non era rabbia. Era paura.
«Dammi una buona ragione perché io non debba farlo!» lo provocai baldanzosa.
«Perché io non voglio!» ammise tirando fuori tutto il fiato che gli era rimasto nei polmoni. Adesso gli tremavano le mani, stava perdendo il controllo, un evento più raro che unico. Si strofinò un palmo sulla fronte e si tirò un ciuffo di capelli castani all’indietro, serrando le palpebre. Lasciò andare i capelli, i quali gli si sparpagliarono in disordine sulla cute e mi guardò con lo sguardo più intenso che avessi mai visto. Avvertii quasi di andare in pezzi nel momento in cui riconobbi un barlume, uno scorcio sfuggente del vero Fabiano nei suoi occhi, per un attimo liberi da quella cancrena di sensi di colpa inesistenti. Rimasi a contemplarlo mentre inabissava gli stinchi dentro l’acqua dalla temperatura siberiana, inzuppandosi gli anfibi e i pantaloni fino alle ginocchia, segnati da una macchia più scura dove i cavalloni lo avevano ghermito. Quando lo ebbi davanti a me, avevo la gola secca e il cuore che tentava la fuga dal mio petto. Mi prese la mano fra le sue, straordinariamente calde e morbide, e dimenticai di trovarmi con i piedi a bagnomaria e la pelle intorpidita, ormai insensibile al gelo che la trafiggeva.
«Non andare» ripeté ancora in un tono supplicante. Le sue dita si compressero con più forza sulla mia mano «sento che ti succederà qualcosa di terribile» riuscì a malapena a confessarmi con voce strozzata, avvelenato da quel pensiero.
Di tutti gli strambi modi in cui avrei potuto o dovuto rispondergli, scelsi quello più spontaneo e fuori luogo e che sicuramente lo avrebbe portato a pensare che qualcosa, seriamente, in me non andasse. Ma io non potevo farne a meno, non potevo frenare quella gioia, contorta sotto molti aspetti e ingiustificata, che la sua profezia di sciagura aveva infuso in me.
Ebbene sì. Gli sorrisi, gli sorrisi come un ebete. E fu la cosa più vera che avessi mai fatto. Lui non poteva sapere cosa significassero per me quelle parole, alla luce di quello che suo padre mi aveva rivelato.
Eros e Thanatos. Amarmi significava morte.  
Se lui temeva per la mia vita, si traduceva nel fatto che il suo affetto nei miei confronti era andato oltre i limiti impostogli dai raggiri mentali che gli offuscavano le mente e ciò che lui stesso era. Provava qualcosa di molto più profondo di un sentimento di reciproca stima e ammirazione che dovrebbe esserci fra due amici. E lui era spaventato a morte da quel sentimento, glielo leggevo negli occhi. Forse era una contraddizione, ma intuii che tenesse così tanto a me che sarebbe arrivato ad odiarmi pur di tenermi al sicuro da quelli che lui considerava le sue emozioni maledette. Aveva detto che quella notte trascorsa insieme, per lui non aveva significato nulla, e la sua mente era anche in grado di accogliere davvero quel pensiero come se fosse vero, ma il suo cuore, ero certa, diceva ben altro. Forse volevo solo illudermi. A volte le illusioni sanno essere così accattivanti e seducenti al punto da rendere intollerabile la realtà e indurti a rifugiarti nella dolcezza che ti promettono le menzogne.
Sognavo da sempre che lui ricambiasse il mio amore per lui. E se quello era un sogno, non avevo alcuna intenzione di svegliarmi.
«Per…Perché stai sorridendo?» mi chiese un po’ frastornato. Ecco, si stava accorgendo di quanto fossi psicopatica…
«Niente» mi limitai a rispondergli, nascondendo il mondo che mi ero creata dietro quella semplice negazione.
Scosse la testa come per cacciare un brutto pensiero «Vieni via con me» aggiunse con molta gentilezza e tirandomi un po’ di più verso di sé.
«Se questo è l’unico modo per avere udienza con la regina, non posso tirarmi indietro…».
La sua presa si fece più ferrea «Ti imploro! Io…io…io non posso sopportare l’idea di vederti ancora un’altra volta in pericolo, non posso reggerlo» ammise mentre una scia di dolore gli attraversava l’espressione del suo volto. «Non voglio più vedere che rischi la vita, mi ucciderebbe…Lo farò io» decretò con una rinnovata sicurezza nella sua postura. La sua pelle in inverno diventava lattea e di una perfezione irraggiungibile, pensai mentre lui continuava a parlarmi. E quei bicipiti tesi che facevano capolino dalla maglietta a maniche corte…Era troppo vicino e io stavo per sentirmi male.
«…ma tu promettimi» continuò «che resterai a riva. Se fosse necessario dirò a Ethan di fermarti. Quindi ti prego, non fare sciocchezze».
Non potevo credere che stavo per arrendermi. Che razza di mistico potere esercitava su di me il ragazzo che mi stava davanti? In circostanze normali avrei mandato al diavolo chiunque avesse minimamente tentato di fermarmi e invece…
«Va bene, grande capo. Ma solo se tu vieni con me» gli concedei.
«E chi andrà a recuperare gli amuleti?»
«Ovviamente l’unico e inimitabile membro più forte e bello della squadra» si pavoneggiò mio fratello. Gettai gli occhi fra le nuvole, irritata dai suoi pretenziosi elogi. Fabiano mi fece segno di raggiungere la riva ed io lo seguì. Gab ci venne incontro.
«Anch’io non voglio che mia sorella rischi per l’ennesima volte le penne. Dio, non ne posso più! Puoi startene, buona, buonina, senza cercare di farti ammazzare per almeno cinque minuti?».
«Ma Gab…» dissi soffocata dalla mano di mio fratello.
«Lo sai che io ho più affinità di te con l’acqua. Ti prometto che non mi succederà nulla, ok? Ti fidi di me?».
«Ehm ricordo chiaramente che l’ultima volta che mi hai chiesto di fidarmi, siamo stati inseguiti da un branco molto, molto, molto arrabbiato di Ogre, quindi…» dissi con una smorfia.
«In effetti è difficile da dimenticare» mi sostené Fabiano con una mano dietro la nuca.
«Lasciate perdere gli Ogre…» sbuffò innervosito.
Pizzicai il naso di Gab e gli dissi: «Sappi che l’idea non mi piace, non mi piace proprio per nulla. Ma non credo che mi darai la possibilità di replicare…».
«Sei sempre stata quella più sveglia» tollerò con reticenza quella verità.
«Almeno però attingi da me, con l’effetto osmosi, alcune tecniche sull’idrocinesi che ho imparato a Londra».
«E che ne è del tuo blocco?» domandò con un sopracciglio inarcato e un ricciolo che gli molleggiava sul mesofrio.
Allungai una mano verso di lui e grugnì «Insomma lo vuoi o no?».
Non me lo fece ripetere due volte, congiunse il palmo della sua mano con il mio e gli permisi di entrare. Da quell’unione, scaturì un fioco balenio giallastro dalle sfumature abbaglianti che riverberò attorno a noi sotto forma di una calura accogliente. Gli mostrai ciò che sarebbe potuto tornargli utile, compreso il controllo del peltro nel caso in cui non avrebbe potuto raggiungerlo fisicamente. Quando la luce si spense, eressi nuovamente la barriera attorno a me per evitare che potesse esagerare con il furto di idee e abilità. Il braccio gli ricadde lungo il corpo ed esclamò «Questo sì che è strabiliante. Non vedo l’ora di usare questa tecnica…» gli afferrai il colletto della maglietta e lo avvicinai a me, dimentica della delicatezza di una ragazza a modo.
«Torna da me o giuro che ti vengo a prendere a calci del sedere anche nell’aldilà, sono stata chiara?» lo minacciai.
«In questo momento mi sento più al sicuro nel lago che con te»
«Tik tok, il tempo scorre» ci ricordò con una cantilena Iris.
«Sta attento Gab» si assicurò in tono serio Fabiano.
«Suvvia, che potrà mai esserci lì dentro! Non fate i musoni, stasera ci andiamo a divertire» disse balzando sul pelo vivo dell’acqua.
Nessuno credette ai suoi occhi. Cominciarono a chiedersi se fossero sotto effetto di una delle sostanze illusorie di Iris, ma non c’era né alcun trucco di magia, né inganno: Gabriel posava le suole sulla superficie del lago come se stesse passeggiando su un qualsiasi marciapiede o selciato. Sotto di lui, il fondale  traslucido e cristallino pareva soltanto una immagine nitida al di là di un vetro. Le circonferenze attorno ai suoi piedi, generate dalle vibrazione dei sui battiti non più regolari per l’eccitazione, si ingigantivano man mano che si allontanavano dal suo corpo per poi confondersi fra i picchi diamantini dei flutti.
«Va bene Gabriel ascolta, dovrai giocare con la tensione superficiale…» stavo per spiegargli «Sì, sì magari la prossima volta, eh?» mi liquidò malamente lui. Seguimmo i volteggi di Gab che pattinava sul lago Ludha, increspandone la superficie al suo passaggio, proprio come gli gerridi degli stagni. Procedeva a scatti e scivolava sinuosamente, sotto l'effetto della spinta propulsiva delle gambe, cambiando bruscamente direzione, attento a non rompere la forza tensioattiva della pelle dell’acqua. E com’era leggiadro…mi ci erano voluti mesi per camminarci sopra senza sembrare goffa e impacciata, peggio ancora imparare a stare in equilibrio su quella che era una superficie umida e in movimento. Arrossì ripensando a tutte quelle volte che mi ero spiaccicata di pancia e alle risate del mio maestro…Era decisamente un’ingiustizia!
Allontanai quella nuvoletta di brutti ricordi, e guardai Gabriel raggiungere il centro del lago e rimpicciolirsi sempre di più lungo la linea dell’orizzonte. Sollevò un braccio per salutarci, come a tranquillizzarmi che era tutto apposto, poi aguzzò la vista e si piegò sulle ginocchia perlustrando il fondale sotto di lui. C’era una pace e una quiete assurda, quasi innaturale. Il salice si rendeva presente nel suo scroscio delicato. Ospitava il venticello fra le foglie, facendole sfrigolare sotto la sua leggera corrente rinfrancante e non era da meno il gorgoglio schiumoso delle onde che filtravano dentro la consistenza porosa della battigia palustre, il profumo dolciastro ma mai stucchevole dei fiori, il cicalio degli insetti e il cinguettio degli uccelli della foresta alle nostre spalle. Sorpresi Fabiano ad osservarmi con un certo nervosismo e ricambiai quell’occhiata inquieta. Il respiro mi si cementò come un peso di piombo sul petto ripensando a quello che mi aveva detto poco prima. Dov’era la vita? Perché si teneva lontana da quel meraviglioso lago blu? Lo sguardo di Fabiano saettò altrove e si posò con asprezza sulla mezzafata, la quale appoggiata sul tronco rugoso del salice, giocava nervosamente con i suoi riccioli, la bocca serrata in una linea severa. Sembrò accorgersi di noi e in uno sfarfallio di palpebre disse «Mia madre mi ucciderà» ansimando furiosamente. Con quell’esclamazione ottenne l’attenzione di tutti.
«Perché cosa hai combinato stavolta?» le chiese Ethan pigramente, come se stesse avviando una normale conversazione.
La Kiendjar  allungò una mano verso il basso e si torturò un morbido ciuffetto di una delle sue nove appendici assumendo la posa di una bambina birichina che attende inesorabilmente il rimprovero del genitore infuriato.
L’elettricità mi pizzicò i polpastrelli «Ethan ti ha fatto una domanda, rispondigli».
«Avresti dovuto affrontare tu la prova, non lui» disse indicando la figura scarabocchiata di mio fratello in lontananza «Così aveva stabilito mia madre. Tuo fratello è troppo imprevedibile».
«Prova?» pronunciai flebilmente come se dei cocci di vetro mi avessero grattato le corde vocali. Perle di sudore mi bagnarono la fronte e il sangue mi si brinò dentro le vene, non riuscivo a muovermi né a dire qualsiasi cosa.
«Gabriel!» lo chiamò Fabiano con le mani a coppa sulla bocca «Vieni subito via di lì! Adesso!» aggiunse sperando che l’eco lo raggiungesse. La risposta di mio fratello si soffuse nel circondario che prese a tremare violento sotto i nostri piedi. Dal fondale del lago emerse un boato preistorico, un grido sofferente e a tratti stridulo, come se stesse raschiando le rocce, così spaventoso che nemmeno la pressione di una distesa d’acqua di quelle proporzione poté attenuare.
«Oh no, l’ha fatta arrabbiare» disse Iris per la prima volta sinceramente terrorizzata.
 Mi caddero le scaglie dagli occhi, spalancati come quelli di un nottambulo che ha fatto abuso di una quantità eccessiva di sostanze nervine.
E fu il silenzio. Quel paesaggio paradisiaco svelò la sua vera e ingannevole natura infernale, accartocciandosi come una cartolina lucida e patinata, ritraente un’oasi turistica. Avvertii il cuore appallottolarsi in una morsa dolorosa e smettere di pulsare, congelato nella sua ultima palpitazione. Una massa nera come la pece e oleosa risalì liquescente e fluttuante dall’ecosistema inabitato dei suoi abissi rocciosi e privò il lago del suo blu intenso e rincuorante. Il cielo rispecchiò la cupezza delle oscurità nascoste del lago Ludha, annuvolandosi con un grigiore soffocante, e le acque si ritrassero lentamente dall’arenile sabbioso. In quell’attimo capì, che niente, assolutamente nulla, nessun potere sovrannaturale sarebbe stato capace di trarlo in salvo. Anche la più grande abilità elementale, soltanto concessa in prestito da chissà quale entità divina, doveva fare i conti e confrontarsi con l’energia immensa sprigionata dalla natura e dalle sue creature, figlie del mare e della terra.
Il lago esplose e una colonna d’acqua colossale  scaraventò in aria mio fratello Gabriel con una brutalità mai vista. Il geyser incandescente scivolò, attratto nuovamente dalla gravità, lungo il collo coriaceo, scaglioso e serpentino della creatura titanica, spumeggiando attorno ad essa in un vapore opalescente e denso che ne lasciava intravedere solo scorci fuggevoli e tremolanti. Il lago ripiovve violento col rimbombo di una cascata e sollevò, rimbalzando su di esso, un muro d’acqua famelico pronto a inghiottire la riva e ciò che lo popolava. Poco prima che l’onda anomala si riversasse su di noi, mi concedé una breve occhiata all’ultimo atto di quella tragedia. La testa del mostro riaffiorò nel cielo, grigio come la sua pelle squamosa e in netto contrasto con l’azzurro del bacino lagunare che l’ospitava, e si preparò a dischiudere le fauci inumidite, puntando in alto il suo sguardo assottigliato e sperduto, lontano dal classico paesaggio scozzese di Inverness che un tempo le era familiare. Un ruggito stridente gli scalò la gola chilometrica e gli diede alito facendo scattare la mascella tirannica in un luccichio di denti affilati e giganteschi.
Gabriel urlò agitando scompostamente le braccia per aria, come un uccello che ancora sta imparando a volare. Ma lui era il mio Peter Pan, sapeva volare, no? Ciò che vedevo non era reale, non c’era nulla di vero, mi ripetei. Gabriel non gli stava piombando in bocca, non gli stava slittando sulla lingua, dritto e spedito dentro la trachea della creatura, non lo stava ingoiando, quella gobbetta che gli calava a picco dalla gola non era mio fratello, non poteva essere lui, per nessuna ragione al mondo, mi dissi negando ancora più convinta. Lui non era lì, era fuggito, stava volando da qualche altra parte, lontano dalla ferocia della bestia, verso l’isola che non c’è. La creatura marina era stata sconfitta, si stava reimmergendo, ritornando  negli abissi spettrali della sua tana, da dove era venuta. La guardai mentre affondava il collo fra le creste biancastre delle onde che l’avvolgevano, fino a che anche la punta della testa non fu sommersa. Lo tsunami si faceva sempre più vicino alla riva, allora scrutai i cieli, indagando fra le coltri di nuvole, ma di mio fratello neanche l’ombra.
Fu allora che dovetti ammettere che, dopotutto, Peter pan non era immortale.


Note dell'autriceCiao a tutti! Non vado esattamente fiera di come sia venuto fuori questo capitolo ma ho deciso lo stesso di pubblicarlo per dare un tocco diverso alla trama che, mannaggia, sta diventando davvero troppo lunga. Infatti mi sto impegnando davvero (ve lo giuro) a fare numerosi tagli e avvinarmi sempre di più alla fine della storia per non trascinarla troppo per le lunghe, nonostante le idee siano davvero tante. Prima o poi tutto deve avere una conclusione! E vi prometto che l'avrà al più presto. Non siete molti quelli che mi seguite, ma ognuno di voi é prezioso e mi spinge a portare avanti questa storia, decisamente un po' fuori dai classici canoni di una ff su Twilight, nata cosi' un po' per caso, attraverso un sogno. Quindi grazie a chi mi ha seguita fin qui e a chi continuerà a farlo e a chi ha abbandonato. Grazie a chi soltanto ha fatto un salto sbirciando i primi capitoli e grazie a quelli che hanno aggiunto la storia fra le preferite, le ricordate e fra le seguite.
PS. Ogni tanto sarebbe bello avere qualche recensione, ma capisco i silenzioni che preferiscono soltanto leggere in santa pace XD
A presto con un nuovo capitolo. Un bacio ;-*

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Capitolo 42
*** CHI HA SPENTO LA LUCE? ***


CAPITOLO 28 – Chi ha spento la luce?

 Che sensazione meravigliosa, pensai guardando il fondale cristallino sotto di me. Mentre caracollavo armoniosamente sopra il pelo dell’acqua, la brezza mi sferzava la pelle in un atto di sfida, e si trastullava fra i miei riccioli neri, ammassandoli in un cespuglio informe di ghirigori ingarbugliati. Era davvero indescrivibile la bellezza con cui il lago rispondeva alle carezze disegnate dai miei volteggi, il gorgoglio delle mie pennellate appena accennate sulla sua superficie, piatta, cheta, quasi immota, e l’incresparsi delle onde dietro di me. Come avevo potuto perdermi tutto questo? L’acqua e l’aria erano i miei elementi, come il fuoco e la terra lo erano per Leona.
Dannazione, stavo camminando sull’acqua! Ero così elettrizzato che stentavo a mantenere la concentrazione, cosa che non potevo assolutamente permettermi o sarei inciampato con un imbarazzantissimo flop. Finalmente riuscì a capire perché mia sorella fosse così morbosamente gelosa dei suoi segreti... Mi voltai come punto dal suo sguardo che mi grattava la schiena in cerca di un appiglio. Ah, quella ragazzina così tremendamente previdente, accorta in una maniera asfissiante, maniacalmente prudente!
Cazzo, poteva smetterla di prendere le sembianze di un grumo d’ansia solo per un istante? Anche da quella distanza riuscivo a percepire la sua angoscia, la paura per la mia lontananza…e lei mi tirava verso di sé inconsapevolmente, come se avessi un uncino piantato nella carne e tirasse con forza travolgente nella sua direzione. Non ce l’avrei fatta comunque ad avercela con lei a lungo. Quando avrebbe recepito il messaggio che io non ero più lo sciocco bambino bisognoso di essere protetto dal mondo? E poi ero il fratello maggiore, essendo nato dieci minuti prima di lei. Me l’ero guadagnato quel titolo!
Sospirai arrendendomi alle sue folli precauzioni. Mostrarmi le sue tecniche si aggiunse alla già infinita lista di tentativi di proteggermi da qualsiasi cosa ritenesse una minaccia. Cosa avrebbe mai potuto minacciare me in quei fondali inesplorati? Ridicolo! Come poteva solo pensare che esistesse qualcosa in grado di spaventarmi? A volte credevo dimenticasse cosa volesse dire essere un medjai e il potere che implicava ricoprire quel ruolo.
Piombai al centro del lago con una piroetta aggraziata e salutai i miei amici che attendevano a riva. Iris se ne stava appoggiata con aria annoiata sul tronco del salice. Quella specie di volpe pervertita e manipolatrice, poco importava se fosse vagamente carina, mi dava i brividi sul serio. Magari, meditai in un angolino del mio subconscio, se non fosse stata così psicopatica, ci avrei fatto un pensierino. Indugiai meditabondo in ascolto dello sciabordio delle onde che avevo generato. La mia mente stava vagabondando senza freni inibitori fra pensieri decisamente poco coerenti, mescolati fra loro, un miscuglio di facce, di voci, di…
Mi immobilizzai. Senza che gli avessi conferito alcun consenso, il mio cervello proiettò, come una cinepresa, l’immagine di quella donna che avevo incontrato quella notte…i lunghi capelli argentei, la bellezza sconvolgente, la pelle diafana al chiarore della luna, la cantilena dolce della sua voce che m’invitava a fuggire con lei, i suoi occhi magnetici, rosso cremisi, che m’ipotizzavano nelle sue screziature sanguigne…La rabbia riaffiorò incontrollata e con essa il forte istinto innato di uccidere quella creatura dall’anima dannata. E non solo per ciò che rappresentava, non solo perché fosse il mio nemico naturale, ma perché mi aveva privato di tutto quello che amavo di più. Con quale coraggio si era fatta vedere dinanzi a me? Con quale spavalderia si prendeva beffe dell’odio che mi ardeva dentro e si dimenava furioso nel mio petto, come un fuoco divoratore? Un fuoco spietato che bramava travolgerla, intrappolarla fra le sue spire, ed io sarei rimasto lì a osservare compiaciuto quel rogo giustiziere, mentre, lentamente, veniva consumata dalle fiamme trasformandola in insulsa cenere.
‘Un giorno, non molto lontano, imparerai ad amarmi’ mi ripetee il ricordo di quella voce seduttrice. Ebbi una fitta lancinante alla bocca dello stomaco: volevo vomitare al pensiero che potessi amare quella cosa che aveva ucciso i miei genitori. Piuttosto mi sarei conficcato Symphony nel cuore, se mai avesse cominciato a palpitare per lei…
Mi piegai sulle ginocchia per scacciare via quella nube di disgusto e disprezzo che mi stava avvelenando e cominciai le mie ricerche. Modulando la rifrazione della luce che si specchiava nel lago, fui capace di potenziare la vista, vigile e pronto a cogliere qualsiasi bagliore o luccichio sospetto. Non sarebbe stato difficile trovare il resto degli amuleti col nasone di quel damerino fatato…Mi sorpresi di quanto fosse profondo il lago in quel punto, scuro, inabissato. Nonostante i miei occhi fossero potenziati, la abnorme voragine offuscata dalle ombre che si estendeva sotto di me non accennava a schiarirsi. Inaspettatamente, con la coda dell’occhio scorsi qualcosa di nero e nebuloso, contornato da turbinii caotici, serpeggiare nelle profondità ignote, ma non riuscì a capire cosa fosse. Scossi il capo. Probabilmente avevo inalato qualche gas allucinogeno in mezzo alla giungla. Eppure c’era qualcosa in quella roccia che non mi convinceva del tutto. Provai la allo-cosa che avevo appena appreso da mia sorella e cominciai a tirare e…diamine! Quelle monete erano incastrate proprio per bene lì sotto. Tirai ancora più forte ma non andò esattamente secondo i piani.
Merda! La frequenza magnetica del peltro slittò su un’altra e un pezzo di ferro arrugginito emerse dalla sabbia e si schiantò contro la roccia d’ossidiana sottostante. Poi accadde tutto molto velocemente. La voce  echeggiante di Fabiano si perse nel fragore del terremoto, il lago si agitò, scosso da un urlo straziante, cavernicolo e assordante che mi lacerò i timpani, e la nebbia, sospinta dai venti, si avviluppò tutta attorno alla radura lagunare gettandola in un mondo privo di colori. In quel caos riuscì ad abbassare lo sguardo e… qualcosa, sta volta ne ero sicurissimo, di molto, molto grosso si stava avvicinando con furia verso la superficie. Infine l’esplosione.
Stavo letteralmente volando. Un attimo prima mi dimenavo fra le nubi, quello dopo piombai su qualcosa di viscido, molle e nauseabondo che non riuscì a definire, scivolando fra file di lance bianchissime e aguzze, addentrandomi in discesa lungo una galleria che si stringeva man mano che precipitavo giù fra il terribile miasma di alghe putrefatte e gas orticanti, ma…chi aveva spento la luce? Davvero, non avevo nessun’altra domanda sensata da porre in quel momento, me ne scuso. Dall’altra parte non mi capitava spesso di finire dentro lo stomaco di un mostro marino. A quanto pare c’era sempre una prima volta.
Guardiamo il lato positivo, pensai. Ero ancora vivo e i succhi gastrici non erano così male dopotutto, escludendo il fatto che mi stessero denudando della mia tenuta di combattimento. Gli scarponcini si erano già trasformati in una pappetta molle e appiccicosa e l’orlo del pantaloni aveva raggiunto le ginocchia. Bolle di gas vomitevole scoppiettavano un po’ da per tutto, ridondando sulle pareti della sacca digestiva del mostro, e l’ossigeno cominciava scarseggiare. Il succo cominciò a sfrigolare sulla pelle, perciò dovetti isolarla per evitare che venisse decomposta insieme agli indumenti. Sfoderai Symphony, spingendola verso l’alto, sopra la testa. Non avevo alcuna intenzione di dare in pasto la mia bambina a quell’orrenda belva.
Ben presto delle scarpe non rimase più nulla. Ero scalzo, il sudore m’imperlava la fronte e la maglietta si era appicciata al torso come un guanto. Là dentro faceva un caldo insopportabile, la via d’uscita più vicina non sembrava facile da raggiungere e l’alternativa, ovvero il passaggio sul retro, non era nemmeno da prendere in considerazione…Dovevo fare qualcosa. Feci qualche passo per raggiungere la parete più vicina e affondai la pianta del piede in quella melma untuosa e scivolosa sfregando accidentalmente contro dei piccoli oggetti freddi di metallo, smussati agli angoli. Affondai un braccio nei succhi e ne raccolsi una manciata, trattenendo i rigurgiti che mi bruciavano in gola.
Sorrisi. Non potevo crederci, erano le monete di peltro! Ancora una volta avevo portato con me la mia fortuna sfacciata, persino in una situazione disastrosa come quella. Il destino aveva voluto che gli amuleti fossero stati ingeriti da poco, dunque gli acidi non li avevano completamente corrosi, e il nasone di sua maestà per lo meno era ancora in bella vista. Ne arraffai due dozzine, non poteva mai sapersi, e mi riempì le tasche. Non vedevo l’ora di vedere la faccia che avrebbe fatto quella tontolona mia sorella di fronte a quel cospicuo bottino…
Ci fu un altro scossone improvviso e barcollai all’indietro finendo contro un muro di muco dal puzzo stomachevole che filava con uno squittio colloso e inquietante. L’intera sacca vibrò e, nel chiassoso ruggito della bestia, scorsi una nota di malinconia, di tremenda solitudine che mi intristì al punto da volerla confortare. Come avevo fatto a capirla? Stava provando a comunicare con me?
Con le mani ancora incollate alla parete, viscida come catarro, la accarezzai dall’interno, con movimenti lenti e cauti, anche se non avevo la minima idea di cosa stessi facendo. Ero il suo succulento spuntino, ma infondo non mi aveva masticato, cosa che non le sarebbe costato nessuno sforzo, né potevo biasimarla per avermi mangiato. Non era altro che un riflesso incondizionato. Poco prima l’avevo quasi presa a sprangate, avrei sfidato qualunque mostruosità marina a fare altrimenti. Potevo sentire l’effetto che quel contatto aveva su di lei, o lui…non avevamo avuto modo di conoscerci approfonditamente.
Lo stomaco aveva smesso di vibrare, ma il succo gastrico era risalito fin su nelle cosce, ribollendo con un crepitio frizzante. Considerando che non erano trascorsi nemmeno cinque minuti, se l’acido avesse continuato ad aumentare a quella velocità, non mi rimaneva molto tempo. Brandivo ancora la mia spada, stretta nel mio saldo pugno. La debole scintilla metallica che la lama irradiò, illuminò solo per un brevissimo istante l’antro oscuro che presto si sarebbe trasformato nella mia tomba. Con un pizzico di rimorso, presi una sofferta decisione dal momento che non riuscii a trovare alternative migliori: le avrei squarciato il ventre dall’interno.
«Scusa mia bella ragazzona» le dissi sinceramente rammaricato «non posso proprio permettermi di morire così o mia sorella non me lo perdonerebbe per l’eternità». Risaldai l’impugnatura sull’elsa con entrambe le mani, trascinando l’arma parallelamente al mio fianco. Il suo sibilo sottile risuonò fin troppo freddo e incolore quella volta. Symphony si era rifiutata di cantare ma sapevo che era pronta a vibrare un colpo deciso. Ma non io. Sentivo che la mia connaturata spavalderia stava scemando e così anche la mia irreprensibile arroganza si stava affievolendo. La belva emise un boato simile al sonar di un sottomarino e per poco la spada non mi sfuggì di mano.
Ancora quella solitudine. Era dentro me, la stava condividendo, si stava impadronendo delle mie emozioni come se fossero sintonizzate coi suoi pensieri. Ma c’era qualcos’altro in quelle frequenze sonore…una sviscerata nostalgia, nostalgia di casa, mi parlava di una separazione, una…cosa diamine mi stava succedendo? Leona era la rincitrullita che comunicava con le bestie, non io. No, no, no, nella maniera più assoluta. Ripresi il controllo della spada. Ignorai il formicolio alle dite, intorpidite per la morsa avvinghiante appena sopra la guardia, e ci riprovai. Espirai fuori quel miscuglio di gas malsani dai miei polmoni, madido di sudore che mi colava lungo le tempie, e chiusi gli occhi.  
«Cazzo non ce la faccio!» proruppi in quell’imprecazione esasperata. La testa mi ciondolò sul petto come se il collo non avesse più la forza di sostenerla.
«È assurdo! Non puoi chiedere pietà a uno che hai appena tentato di uccidere!» le strillai dall’interno del suo organo digestivo come se potesse sentirmi. Trovai ancora appoggio alla parete e mi ricoprì di muco, sentivo quel liquido denso insinuarsi  fra i capelli e colarmi sulle spalle, simile, per certi aspetti, alla bava di Edna.
«Perché?» mi domandai avvertendo la stanchezza piombarmi addosso, assopendo la rigida posa dei muscoli. Portai Symphony al petto e strinsi fra le braccia la sua lama affilata lasciando che mi sfregiasse la pelle. Quante volte non mi ero sentito degno di lei.
La spada leggendaria di mio padre che cantava nel bel mezzo delle battaglie infondendo coraggio al suo detentore. Quanti nemici aveva abbattuto, rimanendogli sempre fedele; quante epiche guerre aveva vinto con lui? E io? Ero solo un ragazzino, tremante e impaurito, dentro le fauci di un mostro.
Perché sì, lo dovetti ammettere. Avevo paura.
Non della morte, no, ci avevano addestrati fin da piccoli a non temerla per via del nostro sommo compito di proteggere l’umanità,  ma di ciò che essa avrebbe scatenato in quelli che amavo. A volte pensavo a come sarebbe stato divertente assistere al mio funerale per vedere chi sarebbe venuto a darmi il suo ultimo saluto.
A Morgana sarebbe importato di me? Sospirai confuso dai sentimenti contrastanti che mi rombavano come una tempesta nella testa. Avrei goduto nel vederla disperarsi sulla mia bara mentre rivelava ciò che il suo cuore aveva sempre tenuto nascosto. Ero davvero un sadico senza speranza. E se Leona avesse ragione? Se io la amassi? Sarebbe stato davvero così innaturale come credevo?
Comunque non ci sarebbe stato nessun corpo da vegliare sta volta…qualche ora e mi sarei confuso con il nulla. Il nulla eterno. E se dopo avessi smesso semplicemente di esistere? Non ero credente come mia sorella, rimanevo scettico all’idea di una vita post morte. Allora perché non accettavo le conseguenze della mia presa di posizione? Perché l’oblio mi suscitava così tanto orrore?
Avevo già la risposta. Temevo un mondo senza amore. Un mondo senza Leona. Noi eravamo una cosa sola. Separarmene avrebbe significato distruggere tutto ciò che di buono c’era nella mia anima. Lei era la mia ancora, la metà senza cui esistere avrebbe perso di significato. Ma non per lei. Se Leona fosse sopravvissuta, avrei accettato di buon grado di andarmene così indegnamente, perché un parte di me avrebbe continuato a vivere in lei.
Dio, avevo giurato che se mai mi fossi trovato in punto di morte non avrei ceduto a lagnevoli sentimentalismi. Eppure eccomi qua, a soffocare le lacrime. Un’altra delle promesse a cui non avrei mantenuto fede.
«Sono proprio un disastro amica mia, eh?» le dissi continuando imperterrito in quella discussione a senso unico «ma cos’era quello?». Stavolta il contatto con la creatura non si era limitato a farmi provare ciò che sentiva, c’era di più…delle immagini, sfocate e tremolanti, dai contorni indefiniti. «Fammele vedere ancora!» le chiesi con urgenza senza interrompere il contatto con la parete dentro cui mi teneva prigioniero. Nulla. Forse la paura mi stava facendo diventare pazzo.
Ma poi la sua storia prese a scorrermi davanti agli occhi. Vedevo un grande lago attorniato da fitte foresti di alberi e arbusti, ripide rocce scistose lungo la costa, piante acquatiche ondeggiare sinuose in balia delle correnti, alcuni sciami di trote e ciprinidi nuotarmi oziosamente attorno mantenendo una certa distanza e…
«Per la barba di Mayak» sussultai sottraendomi da quel contatto con uno scatto all’indietro. Per poco non mi venne un infarto. Strizzai la maglietta sudata in un pugno all’altezza del petto, alla ricerca della calma interiore. Poi ripresi, un po’ titubante, la postazione. Come se avessi messo in pausa, le immagini ripresero da dove avevo interrotto, mostrandomi nuovamente ciò che mi aveva turbato.
Una creatura preistorica dalla pelle nera e lucida giocava accanto a me, zigzagando fra i fondali rocciosi. Nonostante l’enorme mole della bestia, si muoveva con una fluidità impressionante, come se slittasse fra le correnti. Potevo sentire il suo collo liscio strofinarsi e intrecciarsi col mio, i suoi morsi affettuosi, i denti appuntiti solleticarmi le squame, l’esatta sensazione che quel contatto breve e fugace mi provocava…Non mi, riflettei rendendomene conto, le provocava. Ed era forte, naturale, innocente, senza sbavature, più di quanto avessi immaginato. Ed era amore.
«Quello era il tuo compagno?» le chiesi tornando a focalizzarmi sui suoi ricordi. Non era così spaventoso, anzi, lo trovai tremendamente buffo. Con quelle due protuberanze sporgenti sulla testa, ognuna terminante in una sorta di bulbo arrotondato, mi ricordava una lumaca più di qualsiasi altra cosa che potesse venirmi in mente.  
Poi la scena cambiò, ma aveva perso la sua nitidezza e la conseguenzialità di quella che l’aveva preceduta. Il mostro si districava fra le soffocanti mura di una grotta subacquea della giusta grandezza per essere attraversata da una creatura di quelle dimensioni. Ecco come facevano a spostarsi da un luogo a un altro, mi balenò in mente. Lei continuava a percorrerla lasciandosi guidare dall’odore del mare, snodandosi fra i labirintici tunnel di quella rete sottomarina che collegava i corsi d’acqua fra di loro. Era mossa da un unico desiderio: raggiungere la vastità dell’oceano dove il suo compagno aveva promesso di attenderla. Lo avrei trovato molto romantico se non mi fossi già immaginato il finale. Lei adesso era bloccata qui, nel regno delle fate, non avrebbe mai imboccato la via giusta, non sarebbe mai giunta a destinazione. In un altro breve scorcio del suo passato, assistetti al crollo dell’unica via di comunicazione fra il lago Ludha e la terra degli umani e con essa l’ultima speranza per la creatura di ricongiungersi con il suo simile. Rimaneva solo lei e il suo paradiso blu, a trascorrere le giornate condividendo il suo dolore fra la quotidiana angoscia del suo esilio e la disperazione per il suo amore perduto.
«Mi dispiace» riuscì a dire dopo una lungo silenzio «dico davvero». Che inutile frase di circostanza. Come se potesse bastare a lenire il suo dolore. Se solo avessi potuto aiutarla…Un momento. Io ero un medjai, io dovevo aiutarla.
«Forse mi è venuta una idea! Credo di poter risolvere il tuo problema signora Lumacona!» le rivelai. «Ma dovrai farmi uscire di qui o sarò del tutto inutile se tu dovessi trasformarmi in una poltiglia pronta per l’evacuazione…» mi sembrava giusto farglielo notare. La bestia emise una sorta di mugolio strozzato che fece tremare quel pavimento melmoso. Il mondo cominciò a girare velocemente tanto da farmi venire il volta stomaco. In quel violento turbinio di giravolte, mollai la presa su Symphony, lanciai una delle mie famose imprecazioni, e la spada cadde perdendosi nel viscidume di quella brodaglia bollente. Quando finalmente si fermò, mi gettai carponi alla sua ricerca ignorando la melma che mi ricopriva le braccia e il terribile tanfo di pesce andato a male. Symphony sembrava essersi dileguata nel nulla, incastrata chissà dove nel suo stomaco. Avevo già perso le speranze quando una ventata d’ossigeno penetrò nella sacca. Ne respirai un po’, lieto come non mai di poter ancora usare i polmoni come si deve, ma poi venni risucchiato inesorabilmente dalla fessura da cui ero entrato per poi essere vomitato fuori dalla bocca della creatura.
La prima cosa che feci, una volta smesso di girare come una trottola fra i flutti, mi tastai faccia e corpo per assicurarmi che fossi tutto intero. Infilai le mani in tasca per controllare che le monete ci fossero ancora. Erano molte di meno rispetto a quelle che ricordavo di aver raccolto ma ce le saremmo fatte bastare. Mi guardai attorno mentre fluttuavo a pochi centimetri dal fondale.
Il colosso respirava rumorosamente alle mie spalle e mi costrinse a girare su me stesso e a incontrare i suoi grandi occhi neri luccicanti di speranza. La creatura era identica a quella che avevo visto nella visione. Dal vivo però mi sembrava molto più grande e spaventosa.
Quando le diedi un buffetto sul muso squamoso, lei dischiuse le enormi fauci lasciando scoperta una lunga fila di denti acuminati e bianchissimi che prima avevo scambiato per lance. «È un piacere conoscerla, signora Lumacona». Non sembrò gradire granché quel soprannome, ne presi nota per il futuro.
Oh no. Non ci provare.
Feci appena in tempo a sollevare le mani sulle orecchie per proteggerle dal brusio stridente del suo ruggito subacqueo.
Va bene, va bene, rispetterò il patto. Siamo impazienti, eh?
Il mio sguardo vagò in perlustrazione dell’area circostante alla ricerca delle rovine della grotta sottomarina. Era una frana coi fiocchi. Ce l’avevo proprio sotto il naso, era difficile non notare quell’ammasso di rocce enormi incastrate all’imboccatura della spelonca. A dire la verità speravo che si trattasse di un lavoretto un po’ più facile. Misurando ad occhio e croce la grandezza dei massi, non ci sarebbe stato altro modo se non spostarle tramite geocinesi. Decisamente il mio punto debole fra i quattro elementi principali.
Accidenti. Probabilmente il naso mi sarebbe esploso in un fiotto di sangue, ma avrei corso il rischio. Ero troppo orgoglioso per correre sotto la gonnella di mia sorella a supplicarla di aiutarmi. Non era decisamente nel mio stile. Così lasciai che il mana scorresse nelle vene e lo accumulai su braccia, mani e gambe. Una scarica di adrenalina mi folgorò la spina dorsale. Potevo già avvertire il potere crescermi dentro ed espandersi a dismisura. Ero pronto. Mancava soltanto un ultimo ingrediente. Feci l’impensabile. Un attimo prima di sprigionare la forza della terra, puntai lo sguardo al chiarore evanescente delle superficie e pregai Dio, se mai davvero mi stesse ascoltando, che non rimanessi schiacciato dalle rocce.
*******
Non mi ero mai sentito così fiacco in vita mia. Fu una spossatezza tutta da assaporare,  ripagata lautamente dallo sforzo che c’era dietro e che in fondo mi ero guadagnato. Per una volta avevo abbandonato il mio solito ruolo di combina guai del gruppo e interpretavo fieramente la parte dell’eroe. Ero riuscito a scagionare il mostro dalla sua prigione. Era libera di andare.
La vista si annebbiò dissipando i contorni del paesaggio al punto che mi sembrava ancora di galleggiare in fondo al lago. Miracolosamente saltai giù dalla lingua del mostro senza perdere l’equilibrio, probabilmente perché mi ero appena infossato fino alle tibie con quel balzo sulla sabbia bagnata.
Lanciai un’occhiataccia alla signora Lumacona «scusa, potresti…» esordì avanzando la mia richiesta. Dalla bocca della lumaca nera gigante evase una specie di rutto gutturale. Symphony schizzò fuori, spinta dal rigurgito esplosivo del suo stomaco, e vibrò fra noi a velocità supersonica. La sua lama aveva centrato il tronco di un albero, scorticandogli la corteccia.
«Gab! Sei tutto intero?» mi domandò Fabiano sconvolto più dalla creatura colossale arenata sulla battigia che dal vedermi uscire ancora vivo e vegeto dalla sua bocca. In un attimo mi furono tutti attorno per osservare da vicino quello che aveva apppena rischiato la vita per salvare i loro flaccidi culi. Iris scrutava la bestia del lago con gli occhi sbarrati e il pelo delle nove code arruffato come quello di un gatto impaurito.
«Ho visto giorni migliori amico» gli risposi svuotando l’acqua che si era accumulata nelle orecchie.
«Gabriel…» esalò mia sorella in un inequivocabile verso di sollievo, leggero come un sussurro. Non si curò delle fauci spalcate del mostro alle mie spalle e corse decisa verso di me, finendo col seppellire il suo viso fra le pieghe della mia maglietta umidiccia, la sua testolina incassata sotto il mio mento e i capelli sciolti in volute vorticanti sulle spalle. Nel mio petto risuonarono i suoi singhiozzi sommessi. Con le dita artigliate nella stoffa bagnata e gocciolante, mi urlò stentoreamente un «Ti odio!» seguito da una scarica di pugni piuttosto violenti.
«Ti odio, ti odio, ti odio…ti odio!» reiterò senza riprendere fiato. Ripensando a quello che avevo appena passato, poterla riabbracciare non fu più così scontato, come neanche baciarle la fronte inspirando il dolce profumo di rose che emanavano le sue ciocche d’ossidiana. Mi sentivo completo e rinvigorito dentro il suo abbraccio. Non le avrei mai dato accesso ai miei veri pensieri, ma in quel momento era talmente tenera e indifesa, così, rannicchiata sofficemente fra le mie braccia, che avrei voluto stritolarla ancora più forte. Anche se conscio che quel gesto l’avrebbe irritata fino all’esaurimento, le offrì uno dei miei salaci sorrisi mentre ancora i suoi occhioni blu luccicanti di lacrime mi soppesavano reduci del precedente tormento che si era autoinflitta.
«Ti odio anch’io sorellina» le dissi stringendola a mia volta. «Ma che ne è stato dell’onda anomala?» Ricordai tutto a un tratto «Stava per abbattersi sulla riva, non capisco».
«Leona ci ha salvati tutti, è stata fantastica» disse Fabiano riempiendosi lo sguardo di affetto e orgoglio. La faccia di Leona come sempre si trasformò in un pomodoro.
«Oh amico avresti dovuto vederla!» lo appoggiò Ethan.
«Non avevo mai visto niente del genere!» si unì al coro Fabrizio.
«E quindi come ha fatto a fermarla?» chiesi incuriosito.
«L’onda era quasi arrivata a riva, quel cavallone colossale correva così dannatamente veloce verso di noi» cominciò a raccontare Norman «ma Leona ha sfoderato le sue kopis e ha affondato le sue lame sulla sabbia cristallizzandola in una fitta pavimentazione di ghiaccio che ha attraversato anche il lago e con esso anche lo tsunami, trasformandolo in una scultura ghiacciata!».
«Era davvero molto bella» si lamentò Fabrizio «ma poi Lea l’ha distrutta…» disse dispiaciuto.
«Evviva la nostra eroina» esultò priva di entusiasmo Iris, agitando le braccia in aria. Se lo sguardo di mia sorella avesse potuto ucciderla, Iris giacerebbe a terra in una pozza di sangue.
Ero molto fiero di lei, ma non potevo nascondere di invidiare almeno un po’ la sua bravura come dominatrice degli elementi. «E brava la mia sorellina» mi congratulai accarezzandole la testa.
«Non mi toccare! Puzzi come una discarica» grugnì lei esasperata e mi spinse via con la brutalità di un caimano, facendomi sbattere contro il muso della signora Lumacona.
 «Hai la minima idea di quello che ho passato? Dico sul serio idiota!» disse tirando su col naso.
Sbuffai e le presi uno dei suoi pugni serrati chiedendole di distendere quel intreccio nervoso di dita affusolate. Palpai le tasche dei miei pantal…, ehm facciamo pantaloncini, sotto il suo sguardo confuso, e raccolsi tutte le monetine che potei. Accartocciò la fronte in un’espressione meditabonda quando il mucchio di peltro dai riflessi argentati le tintinnò nella mano. Lei rimase senza parole.
«Wow Gab! Ma questo è fantastico! Hai recuperato il resto degli amuleti» si congratulò Fabrizio. «Ah! Che vuoi che sia, ordinaria amministrazione per un figo come me» mi elogiai compiaciuto.
 «Si può sapere che diamine è successo?». A mia sorella gli amuleti non le sarebbero mai bastati come giustificazione. La creatura le rispose al mio posto con uno dei suoi boati stridenti.
«Ha fatto cosa…? Ti ha colpito con un pezzo di metallo?» esplose inorridita la mia gemella scoccandomi un’occhiataccia furiosa.
«Certo, adesso fa lei la vittima! Come se l’avessi mangiata io! Mi sarei aspettato gratitudine dopo quello che ho fatto per te». Allora Leona le chiese di raccontarle il resto. La creatura continuò a comunicare con mia sorella con quei strani versi che sono lei riusciva a capire. Leona si limitò a cambiare espressione ed annuire di tanto in tanto in risposta al susseguirsi della storia.
«Davvero?» le diceva lei mostrandole il suo vivo interesse. Quando ebbe finito, incrociò le braccia e mi disse «sembra che tu ti sia guadagnato la sua fiducia».
«Ne dubitavi? Io e Lumacona ce la intendiamo» le risposi a tono con aria di sfida.
«Non si chiama Lumacona, babbeo. Sei sempre il solito offensivo! Ha già un nome, non è vero mia bellissima amica?» disse facendogli i grattini al centro fra le froge. Non finivo mai di stupirmi dell’impressionante capacità di mia sorella di scovare la bellezza dove io non riuscivo a vederla. Non cambierà mai, pensai con un pizzico di affetto. Potevo aspettarmi di meno da lei? A stento si erano rivolte la parola e già erano diventate amiche del cuore. Tipico di Leona. Perché fare amicizia con gli umani quando le mostruosità degli abissi sono molto più socievoli?
«Ragazzi questa è Nessie» la presentò con un evidente punta di orgoglio.
«Nessie…quella Nessie? Vuoi dire il mostro di Loch Ness?» esclamò Ethan a bocca aperta.
«Preferisce essere definita la Signora di Loch Ness se non ti dispiace» tradusse mia sorella il mugolio della bestia.
«E come diamine ci è finita qui? Ah…fammi indovinare, lunga storia?» chiese retoricamente Ethan inarcando un sopracciglio. Lea annuì con un cenno del capo e mezzo sorriso appena abbozzato.
«Molto bene mio prode Gabriel, hai superato al prova» disse la voce tagliente e melodiosa di una donna. Ma non una donna qualsiasi. Lei era La Donna, nonché la mia prima e vera cotta che riuscissi a ricordare. Da come il cuore prese a battermi nel petto supposi che anche lui doveva aver ricordato qualcosa.
Da quanto tempo la Regina delle fate stava origliando la nostra conversazione?
Dire che il suo viso angelico fosse bello, non poteva che essere un insulto, non era un aggettivo adatto per descriverlo. Indossava uno svolazzante mantello trasparente in cui l’intera foresta che la circondava sembrava andare a specchiarsi. Anche la tunica, sotto il mantello, era vaporosa e candida come una nuvola attraversata dai raggi del sole di primo mattino. La sua veste era eterea, morbida sulle sue curve, e trattenuta in vita da un tralcio di fiori, così come anche la corona che le adornava i fili dorati della sua fluente chioma. Accanto alla sua regale figura, vi era una graziosa ragazza dai lunghi capelli azzurri, indefinibile per età, che pareva respirare attraverso delle branchie situate sul collo. Una Nixies.
«Sua maestà fatata!» la adorò Fabrizio prostrandosi faccia a terra. Gli altri lo seguirono titubanti, condendole soltanto un semplice inchino formale. Mia sorella, invece, rimase lì dov’era, con lo sguardo indecifrabile fisso sul rubino rosso che le sfiorava la scollatura. Non si piegò nemmeno di un centimetro.
«Mamma! Io…io» esclamò sconvolta Iris.
«Taci figlia…» la zittì lei con tono stanco. «Ti avevo detto che avremmo trovato una soluzione Basilea» continuò lei, ignorando i capricci della Kiendjar. «Attraverso il potere degli elementi il medjai ha adoperato uno dei suoi miracoli» finì accecandomi col suo sorriso.
«Il popolo delle Nixies potrà tornare a casa finalmente, spero vivamente che potrai lasciare i nostri precedenti alle spalle e partecipare alla festa di questa sera. Spero ci onorerete con la vostra presenza».
«Mi spiace contraddirla sua maestà, ma il mostro non è ancora andato via. Il medjai avrebbe dovuto ucciderla! Io e le mie sorelle non vogliamo condividere la nostra dimora con quel mostro rivoltante! Il patto era chiaro: o noi o lei!» strillò la ragazza turchina imbronciandosi. Nessie ruggì per l’offesa recatole.
Leona si affrettò a intervenire «Sua eccellenza, posso rassicurarla che la creatura non si tratterà ancora a lungo. Presto si riunirà con i suoi simili. Lasciate che attraversi i canali sotterranei, non è affatto pericolosa come credete».
«Tu parli alla creatura…interessante» meditò la regina.
«Sarà meglio che sia come dici tu ragazza!» la rimproverò la Nixies.
«Le do la mia parola» disse mia sorella con ardore «e, sua maestà, se mi permettesse l’ardire di una richiesta…vorrei scambiare quattro chiacchere con lei. Questioni di fondamentale importanza che vorrei sottoporre alla sua attenzione». Era lampante il suo sforzo di mantenere un tono cordiale.
Gli occhi nocciola della regina si posarono sullo scintillio delle monete. «Avete gli inviti vedo. Sarebbe un piacere avervi con noi e celebrare insieme lo Scao Leadh. Ci sarà sicuramente tempo di discutere di tutte le questioni che vorrete, adesso che avete superato la prova».
«Ma mia bellissima signora il resto dei nostri compagni è tenuto prigioniero dalle driadi» le ricordai timidamente reclinando la testa in avanti. Lei mi sorrise lasciva ancora una volta, lusingata dal mio apprezzamento.
«Parli delle quattro protettrici e del vostro amico muscoloso? Si trovano già a palazzo» ci confidò lei candidamente «I miei servitori li stanno preparando per questa sera, presumo» disse fingendo una sbadataggine deliziosa che mi mandò fuori di testa.
«Che senso ha avuto tutto questo?» si adirò mia sorella indicandole il lago e Nessie. La regina non le rispose.
«Ci hai usati, non è così? Ti servivamo soltanto per risolvere i conflitti interni fra le tribù del tuo popolo».
«Lea, no!» la richiamò Fabrizio sottovoce. Delilah lo fermò con un gesto secco della mano.
«È solo un rito di passaggio mia cara. Volevo accertarmi della vostra essenza. Non nego che mi siete tornati utili ma a chi altri avrei potuto chiedere di affrontare un’impresa così ardua, se non a voi che dominate sugli elementali? Suvvia, io ve ne sono grata, mettiamo da parte i nostri dissapori!».
«La mia amica intendeva dire che forse avreste potuto domandarcelo, non ci saremmo mai rifiutati di fronte a una sua esplicita richiesta» osservò Fabiano venendo in soccorso di Leona.
Delilah lo osservò con aria divertita, come se fosse stata riaccesa dalla sua precisazione.
«Come ti chiami giovanotto?» chiese lei dolcemente.
«Fabiano vostra maestà».
«Fabiano» disse lei piano gustandosi il suono del suo nome « Figlio del sire di Betelgeuse, Sheila mi ha parlato di te. É galante da parte tua erigerti ad avvocato della tua compagna di viaggio. Forse però dovresti essere più prudente. Adesso sei un fuggiasco come loro, tuo padre non potrà più proteggerti…sei sicuro che ne valga la pena?» lasciò lì la frase in sospeso.
«Ad ogni modo, spero mi scuserete ma temo di dovermi congedare. Ci sono dei preparativi da ultimare e ancora così tanto da fare! Iris, conduci i nostri ospiti a palazzo così che possano indossare abiti più comodi per la celebrazione di questa sera. Sarete dei nostri, non è così?».
Delilah attese, carica di tensione, che Leona confermasse il suo invito. Mia sorella dopo aver indugiato a lungo sul ciondolo del sole che la regina portava al collo con tanta eleganza, si aprì in un sorriso enigmatico.
«Certamente sua maestà. Non potremmo mai arrecarle questo torto» si arrese infine accondiscendente. «Ma non dimentichi la promessa fatta» disse Leona accarezzando la bestia alle sue spalle.
«Lo giuro sul ciondolo del sole» proferì solennemente Delilah, sfiorando il taglio a cuore della fredda pietra rossa come il sangue che le baciava la candida pelle. Le due si sorrisero nuovamente a vicenda, celando a tutti noi un gioco misterioso di sguardi velenosi che solo un occhio attento avrebbe potuto cogliere.
Cosa mi stava nascondendo? Il nostro unico scopo era recuperare la pietra della Luna, giusto? Leona tornò a osservare il gioiello della regina incupendo di sfumature plumbee il blu dei suoi occhi. Fu solo un istante ma, in quel breve frangente, capì che mia sorella non ci aveva ancora raccontato tutta la verità.

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Capitolo 43
*** LA FESTA DELLO SCAO LEADH PT.I ***


Capitolo 29 – La festa dello Scao Leadh pt. I

Morgana osservò pigramente, attraverso le vetrate del rosone della camera padronale, la polvere di fata che turbinava e mulinava nell’oscurità della notte, mischiando i suoi tentacoli argentati come tinte su una tela. Si accigliò mestamente quando la Comeles che le pettinava i lunghi capelli rossi come vampate di fuoco, le strappò un nutrito ciuffetto con un colpo deciso di spazzola, senza chiederle nemmeno scusa. Morgana non poté soffocare un gridolino. La piccola e vorticosa creatura delle nebbie dai contorni eterei le scoccò un’occhiataccia grinzosa nel riflesso dello specchio e sgattaiolò oltre la porta in una nuvola di fumo bianca. Gli spiriti dell’aria non erano particolarmente socievoli e Morgana lo aveva imparato a sue spese.
Prese a ripercorrere la brevissima conversazione che avevano avuto in quel pomeriggio di intense preparazioni e non riuscì a scovare nulla che avesse potuto indispettirla in quel modo. Mi odiano tutti, si disse lei remissiva, ingoiando quella triste verità, spinosa come la lisca di un pesce. Era come se tutti sapessero quello che aveva fatto, come se ce l’avesse scritto in fronte e chiunque potesse leggere l’orrore delle sue azioni. Impugnò la spazzola e terminò il lavoro incompiuto della fata dell’aria rimirando allo specchio la sua faccia da traditrice. Si detestava con tutte le sue forze, soprattutto quello spruzzo di lentiggini sulla sua pelle bianca come il latte e…quegli occhi che le ricordavano suo padre. Le sembrò quasi di affogare nel suo dolore, sentiva i lembi dello squarcio sul petto allontanarsi sempre di più, lasciando il suo cuore vulnerabile e indifeso.
Se solo non avessi parlato…sarebbe ancora vivo. L’ho ucciso io. Morgana non poteva ancora credere che il corpo del suo amato padre si stesse raffreddando sottoterra. Era troppo tardi quando le lacrime le inondarono gli occhi. Il mascara le rigò di nero la guancia, trasformandola in una maschera di Pierrot.
«Pel di carota potresti passarmi il fard per favore?» le chiese distrattamente Caterina mentre si spalmava un lucente ombretto dorato, che si sposava perfettamente con la sua carnagione abbronzata, sfumandoselo con la punta del mignolo sulla palpebra socchiusa. Si voltò con uno scatto furioso nella sua direzione quando non ricevette alcuna risposta dalla protettrice. «Ma sei sorda? Ti ho detto…Morgana ma che…?» Si affrettò a raggiungerla e nel farlo strusciò le cosce nel suo attillatissimo tubino nero, come se si stesse muovendo goffamente dentro un cilindro, e per poco non inciampò nella piega del tappeto lungo il tragitto. Si appoggiò al mobile della specchiera e le sollevò il mento per incontrare il suo sguardo. Morgana fece fatica a non sbirciare la pelle mutilata dalla cicatrice che le aveva lasciato l’artiglio della Lupa. Dall’altra parte la scollatura del vestito non lo nascondeva granché, ma a lei non sembrava dispiacerle, anzi il simbolo di quella sua prima battaglia era motivo di orgoglio per la cacciatrice di licantropi.
«Oh merda, quella nuvoletta nervosa darà di matto quando vedrà il suo capolavoro andato distrutto» disse scuotendo la folta capigliatura riccioluta con disappunto «Si può sapere cosa ti prende?».
«Preparate le scialuppe! Fra poco annegheremo in un mare di lacrime» commentò Marlena appuntandosi la crocchia bionda con un fermaglio rosso come il suo lungo vestito affollato da fronzoli e volant inutili, a dir poco appariscente.  Carlotta che le stava stringendo i lacci del corpetto sogghignò alla sua battuta.
«Chiudi quella boccaccia Marlena! Suo padre è morto da poco per la miseria, puoi smettere di fare la stronzetta almeno per un attimo o è troppo complicato per te?». Marlena roteò gli occhi verdi, per nulla interessata ai crucci della sua compagna di viaggio, e tornò a tracciare col rossetto il contorno delle sue labbra.
Morgana tirò su col naso «Non è nulla Caterina, davvero. Mi passerà» disse lei stringendosi nelle spalle e tamponandosi le guance con un fazzoletto. «I veri guerrieri non si fermano a piangere i caduti in battaglia ma raccolgono le forze e continuano a lottare per loro, affinché il loro sacrificio non sia stato vano».
«Uhm, davvero delle belle parole, ma tu continui comunque a stare uno schifo» valutò Caterina sottraendole il fazzoletto dalle mani. Frugò nel cassetto dei trucchi acciuffando un paio di matite e qualche polverina e ricominciò a impiastricciarle la faccia da capo.
«Io ti capisco, davvero. Quando mia madre è stata sbranata  da un lupo mannaro, io ci sono rimasta davvero male. Insomma non che andassimo così d’accordo, ma era pur sempre mia madre» le disse arginando le sbavature attorno agli occhi. «E poi tuo padre se ne è andato nella maniera più onorevole possibile fra quelle con cui un protettore potesse lasciare questo mondo. Sacrificarsi al posto dei propri fratelli per sottrarli alla condanna della coorte marziale…Se ci ripenso ho ancora i brividi. Questa pratica fra i protettori era in auge ai tempi dell’antica Roma. Vederla dal vivo, be’, è stato qualcosa di unico. Sei stata fortunata ad avere una guida come lui».
Se solo gli assomigliassi un po’ di più, pensò la protettrice. Poteva continuare a vivere di rimpianti?
Furono interrotte da secchi rintocchi sul legno della porta. Qualcuno sulla soglia si schiarì la voce «É permesso?». Leona fece capolino entrando timidamente nella stanza. Si appoggiò allo stipite a braccia incrociate rivolgendo un piglio austero - mascella serrata e un sopracciglio inarcato - a Marlena che la stava squadrando dalla testa ai piedi con disprezzo. Aveva ancora la tenuta di combattimento addosso. Ma se bisognava essere franchi, si sarebbe potuta permettere di presenziare alla festa anche con quegli indumenti pratici, nessuna aveva quel portamento elegante e aggraziato indossando abiti neri, così semplici. Ne sarebbe servito anche solo un pizzico a Caterina che, dentro il suo tubino che le fasciava le forme, si muoveva con la grazia di un T-rex. Le due rivali distolsero lo sguardo l’una dall’altra con una smorfia. Morgana non ne era sicura ma credeva che Leona fosse certa della colpevolezza di Marlena, che fosse lei la spia del gruppo…Se solo avesse saputo…cosa avrebbe pensato di lei?
«Che cos’hai da guardare?» la rimbeccò la bionda.
Leona fece spallucce «Pensavo che partecipassimo allo Scao Leadh, non a un ballo in maschera. Quanti chili di trucco ti sei buttata addosso?».
«Molti meno di quelli che servirebbero a te per renderla almeno decente» le rispose Marlena con tono risentito «Cos’è questa puzza terribile!» continuò tappandosi le narici.
«Già sembra cacca di Troll, è disgustoso» esclamò Carlotta sfrusciando nel pavimento l’orlo del suo abito giallo canarino.
Leona si diede una fugace annusata «Oh deve essere l’odore di Nessie. Quella bestiolina ha davvero un’alitosi tremenda» si giustificò lei.
Caterina avanzò verso di lei «Già amica, sta volta sono d’accordo con loro. Ti serve un bagno» Caterina lo disse senza implicare alcuna sfumatura offensiva nella voce.
«Caterina, quel vestito ti sta benissimo, sei una bomba sexy!» apprezzò Leona.
«Cosa? Questa specie di bardatura soffocante?» fece lei accarezzando il tessuto. «Oh, sì, mi fa un culetto niente male non trovi? Non è che ti stai innamorando di me, eh?» la provocò schiacciandole l’occhiolino. Leona le uscì una linguaccia «Non ti garantisco nulla».
«Tu sì che hai buon gusto!» considerò soddisfatta l’amica.
«Come va con la cicatrice?» chiese Leona rabbuiandosi improvvisamente.
«Brucia un pochino ma per il resto non mi lamento, se vogliamo sorvolare sul fatto che mi hai ricucito peggio di Frankenstein» la accusò Caterina fingendosi scontenta «Per favore sorella, non fare mai il chirurgo»
«Me ne ricorderò» disse Leona fra una risata e l’altra. Poi tornò subito seria e guardò le sue compagne protettrici con aria solenne. «Vi dispiace lasciarci sole» esordì lei sistemandosi, un po’ a disagio, una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio «Ho bisogno di scambiare due parole con Morgana in privato» terminò indicando l’uscio per invitarle ad accomodarsi fuori dalla stanza. Sorprendentemente Marlena fu la prima a captare l’antifona e si avviò verso l’uscita picchiettando i tacchi sul pavimento, seguita dalla sua fedele Carlotta. La dama e la cortigiana, pensò Morgana.
«Be’, almeno potrò tornare a respirare» le disse prima di lasciare la stanza prendendo per mano Carlotta, la sua ombra «Andiamo a farci un giretto a palazzo» ci informò svanendo dalla nostra vista. Caterina si accodò a loro, prendendo qualche storta nel tratto che l’avrebbe portata all’uscita. «Vado a cercare Ethan» disse lei in fibrillazione. Sulla soglia lanciò a Leona uno sguardo comprensivo e lasciò le due amiche sole, chiudendosi la porta alle spalle.
Lei sapeva? Era qui per dirmelo, pensò Morgana sentendosi le budella contorcersi al suo interno. Aveva capito che ero la spia di mio padre.
«Alzati» disse lei affettuosamente «fatti vedere in tutto il tuo splendore». Morgana obbedì riluttante e lasciò la sedia lentamente, attenta a non far impigliare la gonna del suo meraviglioso vestito verde come uno smeraldo. Il corpetto merlettato, stretto in vita, si apriva in una gonna a ventaglio che le sfiorava le caviglie. Sulle sue spalle nude, un velo di seta finissimo l’avvolgeva delicatamente cingendole il collo. Le due estremità del velo erano trattenute da una gemma della stessa tonalità del vestito cerimoniale che le impreziosiva la semplicità della mantellina. I capelli lisci, dopo dure ore di lavoro da parte della servitù fatata della regina, le ricadevano sulla schiena facendo risaltare il verde dell’abito. Morgana ruotò su se stessa gonfiando la gonna in un turbinio di veli e merletti.
L’amica si aprì in un sorriso sincero, un sorriso che Morgana sentiva di non meritare. Sapeva di dover essere onesta con lei, ma temeva troppo la sua reazione, il suo giudizio era un peso che non era ancora disposta a  portare. La sua amica medjai, rifletté un po’ in ansia. C’era sempre stato qualcosa di speciale in lei e Gabriel, Morgana sentiva di saperlo da tempo eppure, quel giorno, si era ritrovata impreparata di fronte a quella rivelazione. Non poteva nascondere a se stessa che fosse risentita del fatto che Leona, la sua migliore amica, glielo avesse tenuto nascosto. Poteva anche comprendere Gabriel, nonostante la faccenda la ferisse per un altro aspetto, ma non se lo sarebbe mai aspettata da lei. C’era la questione della maledizione, va bene, ma ciò non giustificava il loro silenzio. Oppure sì? Cosa avrebbe fatto, si chiese Morgana, se avesse avuto quest’informazione fra le mani?
«Sei strepitosa» disse Leona nella sua consueta trasparente sincerità. L’amica arrossì a quel complimento. Non meritava nemmeno le sue lodi. Decise che le avrebbe detto tutto, costi quel che costi. L’avrebbe battuta sul tempo, non si sarebbe lasciata accusare «Lea io devo dir…» Leona sollevò una mano per fermare qualsiasi discorso lei avesse in mente. Fu un gesto così repentino e autoritario che si costrinse a richiudere la bocca, sigillando in essa il primo tentativo di rivelarle il suo segreto. Era un duello in stile mezzogiorno di fuoco e lei aveva premuto il grilletto per prima, il suo caricatore si era inceppato…
«Morgana io ti devo delle scuse, sono giorni che sono logorata dai sensi di colpa. Mi dispiace sul serio, io non volevo ferirti. Lo so, le mie parole ti suoneranno patetiche, adesso che non c’è più nulla da fare e che vi ho costretti a farvi bandire dal campo, la nostra casa. Accettale se puoi. Ma voglio che tu sappia che te l’ho tenuto nascosto per un motivo. Più persone lo avrebbero saputo e più il rischio sarebbe cresciuto, non solo per noi, anche voi vi sareste trasformati in un facile bersaglio e questa era davvero l’ultima cosa che volevo. Io ho visto i tuoi occhi quel giorno ed è stato come se mi fossi infranta. Vi ho scorto il tradimento, non solo per il mio silenzio ma anche per quello che tu pensi avrei potuto fare. Ti giuro non sapevo nemmeno io come sarebbe andata a finire con Caterina, non l’avevo mai fatto prima d’ora e pensavo davvero di non farcela. Non che sia un capolavoro, ma almeno è viva». Leona fissò le vetrate alle spalle di Morgana con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto.
«Non avrei potuto fare nulla per tuo padre» disse come se non avesse trovato un modo più delicato per rivelarmelo. «Anche mio zio è…andato, Morgana. Non pensi che avrei fatto qualsiasi cosa per portarlo indietro?».
«La magia, se vuoi chiamarla così, dei medjai, ha dei limiti. Possiamo ricucire le ferite, sì, ma non così in profondità. Se avessi estratto il proiettile con l’allomanzia avrei rischiato di perforare qualche altro organo interno e sai bene che non ho il pieno controllo dei miei poteri». Sorrise senza convinzione.
«Ho ridotto la cittadella in un cumulo di macerie soltanto perché non sono riuscita a controllarmi. C’è qualcosa di oscuro in me, e sento di non poterlo fermare. Le mie sofferenze non possono giustificare il male che ho fatto. A volte penso di non conoscermi abbastanza, forse non avrei mai dovuto ricevere i miei poteri» si guardò le mani inorridita da se stessa.
«Ho paura, Morgana. Ho paura di seguire a mia insaputa le orme di Odetta, la mia antenata. E io non voglio farvi del male…».
La rossa si mosse rapida in un fruscio di veli e prese le mani all'amica.
«È davvero questo che pensi di me, Lea? Credi davvero che io ce l’abbia con te perché non hai salvato mio padre con i tuoi poteri da medjai? So quello che ti ho detto, ed era dettato solo dal dolore, non pensavo davvero quelle cose. Non potrei mai incolparti per qualcosa che non potevi prevedere, e poi anche tu stavi per essere giustiziata sul patibolo. Sono stata crudele e vorrei davvero cancellare quel momento. Tu non hai proprio nulla di cui farti perdonare, piuttosto sono io a dover domandare scusa a tutti voi per quello che ho fatto…» Morgana strinse le labbra.
«Guardami Lea. Io non vedo oscurità in te. Tu sei amore, onore e sacrificio, tutto ciò che un buon protettore dovrebbe essere. Non ti permetto di offenderti a quel modo» si sentì in dovere di aggiungere vedendo l’espressione tormentata della ragazza. I suoi sensi di colpa non faceva che accrescere l’orrore per se stessa. Pensava di essere lei il problema…
Guardò Leona allontanarsi da lei per andarsi ad appollaiare con le ginocchia sotto il mento nella poltroncina accanto al letto, i lunghi capelli neri che avvolgevano come un mantello la sua figura rannicchiata.
«Tu non capisci io…» la ragazza scosse la testa «non credo più che sia una buona idea prendere quei ciondoli, non voglio dovermi trovare con quel potere fra le mani. Mi è stato predetto che presto mi sarei trovata di fronte a una scelta. E se prendessi la decisione sbagliata? E se li usassi per fini sbagliati?».
«Aspetta un momento…» esclamò Morgana corrugando la fronte. «Hai forse detto ciondoli?». Non era sicura di aver sentito bene, ma l’amica dissolse il suo dubbio annuendo decisa. Per la barba di Mayak…
«Vuoi rubare anche il ciondolo del sole alla regina?» esplose come un vulcano, sconvolta da quella dichiarazione.
«Abbassa la voce!» la riproverò Leona con un dito sulle labbra.
Morgana sospirò «Immagino che io debba sedermi…ha tutta l’aria di essere una lunga storia» disse trovando nuovamente posto nella sua sedia. Leona non dissentì e aggiornò l’amica su tutto il resto del piano che aveva tenuto nascosto persino a Fabiano e suo fratello. Le raccontò di Attilius e di sua figlia Hilde e di come tutto sia partito da quella sua folle richiesta di essere liberato da Highgate. Di quanto era successo quella notte e dell’incontro con quei vampiri. Delle sue emozioni contrastanti nei loro confronti, dell’empatia che provava per loro, della profezia della succhia sangue che vedeva nel futuro.
Non era sicura di cosa pensasse a riguardo. Insomma farsi amici dei vampiri per una cacciatrice come lei, che li aveva sempre odiati, suonava davvero strano. Ma si fidava del giudizio di Leona.  Morgana si trovò a dover digerire tutta quella mole di informazioni in un sol boccone, si sentì annaspare, rendendosi conto che, la ragazza che aveva di fronte, era molto più forte di quello che credeva. Come poteva sopportare il lutto delle zio, il peso di quegli eventi e allo stesso tempo riuscire a sorriderle? L’aveva investita della sua fiducia, come un re che nomina il suo fido consigliere. Quelle vesti le stavano strette. Quella fiducia cominciava a farle male. Leona aveva il diritto di sapere con chi aveva a che fare, specialmente dopo che l’aveva resa partecipe dei suoi segreti.
«È una follia Leona, lasciatelo dire» pronosticò Morgana.
«Lo sapremo soltanto dopo l’udienza con Delilah» disse lei un po’ sovrappensiero.
«Non potresti semplicemente chiederglielo? Insomma non farti ingannare dalle apparenze. Quella donna è potente e pericolosa, persino più di te nei tuoi momenti peggiori. E se qualcosa dovesse andare storto?».
«Per quel momento avrò un piano» la rassicurò lei.
La rossa inarcò un sopracciglio «E questo cosa dovrebbe significare?»
«Che saprò come dovranno andare le cose, fidati di me, è complicato. Ma ho già la risposta nella mia tasca». Morgana non poteva sapere che la protettrice avesse letteralmente la soluzione nella tasca dei suoi pantaloni.
«E se lasciassi perdere?» provò ancora a dissuadere l’amica.
Leona ormai si era stravaccata a suo agio con le gambe penzoloni sul bracciolo della poltrona «Ho firmato quel maledetto contratto, Morg. Sono fregata. O li prendo entrambi o morirò, atrocemente».
«Nessuno è mai riuscito a ingannare una fata o a batterla in furbizia. Specialmente Delilah».
«Forse non sarà necessario» disse la solita ottimista. Morgana lasciò che il silenzio s’impadronisse della stanza e le concedesse un trampolino di lancio per farsi avanti e finalmente liberarsi di quel peso opprimente, con la speranza che lei l’avesse compresa. Visto che era tempo di rivelazioni…
«Leona?» esordì Morgana a bassa voce, risuonando più insicura del normale.
«Uhm, sì?» disse dando l’aria di una che non stesse prestando molta attenzione, lo sguardo sperduto fra gli affreschi del soffitto.
Morgana arricciò la gonna del vestito nella sua morsa d’acciaio «Devo dirti una cosa, una cosa molto importante». Finalmente ottenne l’attenzione dei suoi occhi blu.
«Io…». Fu tutto quello che riuscì a dire quando qualcuno spalancò violentemente la porta facendo evaporare il tepore della camera da letto.
«Gabriel! Ti sei forse dimenticato di come si bussa?» lo apostrofò la gemella del ragazzo che aveva fatto irruzione nei loro alloggi seguito da tre driadi che gli ronzavano attorno nei loro abiti voluttuosi.
«È questa l’accoglienza che riservi al tuo fratellino tornato fresco, fresco dal regno dei morti?» disse con un ghigno mentre le driadi sospiravano svenevoli al suo fianco.
«Ma falla finita!» lo scacciò Leona con un gestaccio.
È così bello, si soprese a pensare Morgana contemplandolo nel suo completo nero che gli calzava a pennello. Ma quell’estasi durò ben poco. Non poté evitare di farsi travolgere da un’intensa ondata di gelosia alla vista di tutte quelle mani che si avviluppavano al suo corpo tornito e statuario. Soprattutto quella che in quel momento si intrecciava con i suoi riccioli morbidi e vorticosi, in modo così disinvolto. Era quello che aveva sempre sognato di fare, dovette ammettere con una punta di malinconia e mettendo a tacere per un attimo la sua pudica e inguaribile timidezza. Quel gioco innocente avrebbe significato così tanto per lei, eppure sapeva che non avrebbe avuto mai il coraggio di prendere una iniziativa del genere. Men che meno poggiargli una mano sulla camicia, sentendo sotto di essa la durezza dei suoi pettorali, come stava facendo quell’alberello insolente e sfacciato… Morgana a quel pensiero ebbe un piccolo mancamento, il suo mondo aveva cominciato a girare come una giostra. Poi la driade alla sua destra strusciò i suoi prosperosi seni sul braccio di lui, aggrappandosi come una ventosa, e la rossa ebbe l’istinto di cercare il suo arco e incoccare una freccia…
Gabriel stava per ribattere a sua sorella, ma qualcosa lo congelò seduta stante in una buffa posa: bocca spalancata e sopracciglia aggrottate. I loro occhi si erano intercettati in linea d’aria e da quel momento in poi non avevano smesso di scrutarsi a vicenda. Lo sguardo di lui la perlustrò con un cipiglio adorante, quasi sconvolto, come se fosse stato abbagliato da un raggio di luce. Morgana si sentì nuda in balia delle sue occhiate così intense ma lasciò che lui continuasse a guardarla con il desiderio che ardeva nel fondo dei suo occhi.
«Morgana…» disse lui deglutendo a fatica «Tu sei, tu sei…». Era raro vederlo incespicare in quel modo, lui che era sempre così arrogante e pieno di sé. Morgana però sapeva che la maschera che si era costruito non c’era più e attendeva ardentemente che terminasse la frase.
Sembrò costargli un grande sforzo ma alla fine le disse quasi bisbigliando «Tu…sei una visione». Morgana avvertì chiaramente qualcosa esplodergli nel petto quando le offrì quel sorriso spontaneo, unico nel suo genere. Aveva imprecato fra sé per il rossore che le aveva ricoperto la faccia e non solo, ma non le parve più così terribile rendere manifeste le sue emozioni a colui che, ormai ne era certa, amasse più di chiunque altro. E lei ci aveva davvero provato a non farlo. Ma adesso non ne vale più la pena: era stata sopraffatta dai suoi stessi sentimenti.
Tutto quello che riuscì a balbettare fu un «g-grazie».
Giurò di aver sentito l’amica ridacchiare soddisfatta ancora raggomitolata  nel suo morbido angolino di cuscini. Si affrettò a sferzarla con un’occhiataccia, ma lei si limitò a fare spallucce.
Gabriel riavutosi dal suo intontimento, spostò la sua attenzione su Leona, indurendo l’espressione. «E tu…» le disse con un tono di rimprovero «Sei ancora conciata così? Non hai avuto nemmeno la decenza di lavarti».
«Puzzo così tanto?» domandò lei imbronciandosi.
«Sì!» le risposero tutti all’unanimità. Lei parve voler confutare la loro opinione ma poi scelse saggiamente di battere la ritirata e arrendersi al fatto che non emanasse il suo solito dolce profumo di rose…
«Per fortuna ho portato le mie amiche con me. Affidati alle loro cure e ti rimetteranno a nuovo. C’è un abito niente male che la regina stessa sembra aver scelto per te…». Leona sollevò la testa dal cuscino sfidando le driadi ad avvicinarsi a lei, come una vipera pronta ad affondare i suoi denti velenosi.
«Pensavo fossero le tue dame da compagnia, fratello» lo provocò lei senza alcuna intenzione di scollarsi da quel divano.
«Oh no, sorella. Dovresti sapere che preferisco di gran lunga la compagnia delle rosse».
Detto questo, il giovane dai riccioli neri si fece avanti alla sua accompagnatrice, accarezzandola garbatamente con i suoi sguardi di apprezzamento alla sua beltà, e tremando visibilmente per l’emozione, le prese il polso scoccandole un bacio sul dorso latteo della sua mano scintillante di anelli.
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La nebbia fatata si rimestava fra le torri merlate del bastione d’oro, celando agli occhi di Fabiano il cielo stellato di Sirio. I venticelli formavano taciti flussi di un bianco sfavillante, come se fossero fiumi nell’aria. Tutte e sette le guglie del palazzo erano adornate di ordini curvi e serpeggianti di finestre colorate, collegate fra loro da camminamenti sopraelevati, popolati da schiere di scorribande di sentinelle reali dalle orecchie a punta. Il bagliore metallico delle loro armature illuminava gli angoli bui della fortezza di lievi balenii improvvisi che fulminavano la notte. Perché tutte quelle pattuglie di ronda? Si chiese il ragazzo, insospettito dal nutrito gruppo di fate-soldato che sorvegliava la sala da ballo dall’alto.
Fabiano cercava fra quella folla punteggiata da differenti creature fatate, i suoi amici dispersi in quella calca di visi sconosciuti. La lunga sala rettangolare, a cielo aperto, era un tripudio di decorazioni floreali e sfarzosi. Le colonne portanti dai capitelli corinzi, erano intervallati da spazi aperti che davano sul suntuoso giardino reale. Ormai quasi tutte le sette tribù principali presenziavano alla festa di quella sera, compresa una piccola minoranza di Nixies che aveva acconsentito alle insistenti suppliche di Delilah, la quale teneva all’unità delle tribù più di ogni altra cosa, in special modo per la ricorrenza dello Scao Leadh. Anche gli gnomi con i loro abiti vecchi, lisi e sporchi di fuliggine e sudore per il duro lavoro alle fucine, circuivano il banchetto rifocillandosi di dolcetti glassati e zuccotti zuccherati. Li trovava molto buffi con quelle brache tirate fin sul panciotto da delle bretelle e le camicie infilate dentro solo parzialmente. Nessuno comunque era incuriosito dal loro aspetto trasandato, erano semplicemente…gnomi. Niente a che vedere con gli abiti eleganti indossati dai membri più alti della coorte.
«Bella festa, eh?» lo stuzzicò Fabrizio giunto di soppiatto alle sue spalle nel suo tight blu scuro.
«Già la regina non ha badato a spese» assentì il protettore.
«Non di certo per la ricorrenza più importante dell’anno. Al raduno fatato partecipano tutte le tribù e anche i popoli minori. Scao Leadh nel loro antico dialetto significa  letteralmente, "liberazione dall'oscurità" in memoria dell'epica battaglia con le fate oscure di Frieda.
Vedi quelle signorine in abiti verdi e rossi? Quelle sono le Slyphs dell’aria. Hanno la capacità di tramutarsi in esili e leggiadre fanciulle, ma molto spesso preferiscono presentarsi nella loro forma di uccello. Quelle invece avvolte in vesti d’argento» proseguì indicando un altro gruppo «sono le Silfidi dell’acqua. Creature molto particolari: conoscono il futuro, il passato, ma non il presente per qualche strano motivo. È tradizione che aprano le danze con il concerto dello Scao Leadh, hanno delle voci davvero incantevoli».
«Le Driadi…be’, loro le conosciamo molto bene… ah e quelle laggiù, sì, quelle con dei bracieri al posto dei capelli, sono le Fiammelle. Assumono la loro forma mortale soltanto in questa occasione. Di solito si presentano come piccole scintille o palle di fuoco in grado di cambiare le loro dimensioni come più le aggrada. Si dice che sappiano trasformarsi anche in lucertole, ma potrebbe essere solo una diceria». Quando l’amico giunse alla descrizione delle Pixies, a Fabiano era venuto un gran mal di testa. Non era sicuro che dopo quella lezione sulle fate riuscisse a distinguerle con più facilità. Aveva ben altro per la testa.
Dalla balconata principale che dava sul giardino, la regina osservava i suoi ospiti in silenzio, i lunghi capelli dorati che ondeggiavano in balia del vento oltre il parapetto semicircolare di pietra. Due pire di fuochi danzanti, una alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, proiettavano curiose ombre sul suo volto estasiato e sorridente, lo sguardo nutrito dalla gioia del suo popolo che si godeva la festa da lei organizzata. Leona, oltre a vederla solo come un tramite per raggiungere i suoi scopi, sospettava fortemente di lei, ma il ragazzo non ne conosceva ancora le motivazioni. Trovò difficile dubitare di una persona che si rallegrava a quel modo del benessere del suo popolo. Non era il classico reggente tiranno che sfrutta la forza lavoro dei suoi sudditi, schiacciandoli sotto il peso di tasse esorbitanti, per poi goderne lei stessa dei frutti di quegli sforzi. Dall’altra parte, però, si fidava ciecamente dell’istinto dell’amica, quindi decise di non abbassare la guardia. Fabrizio non aveva ancora smesso di sproloquiare sul suo argomento preferito. Gli dispiacque molto interromperlo.
«Dovremmo riunirci col gruppo, sarà meglio se restiamo vicini. La festa ci garantisce l’immunità della regina ma sarebbe meglio se ci guardassimo le spalle l’un l’altro» ci ragionò su Fabiano.
Il protettore occhialuto annuì connivente «Hai ragione. I ragazzi sono lì, stanno per prendere posto al banchetto. Dovrò ricordargli di non toccare nulla…» disse roteando gli occhi, impaziente.
I due sveltirono l’andatura dei loro passi quando videro dei Curatores Noctis prender posto nelle panche disposte a ventaglio davanti a un palco affollato da Silfidi allineate ordinatamente a formare un coro. Gli sguardi di tutti i presenti erano puntati sulla scalinata bronzea che portava agli alloggi reali e seguivano l’andamento dinoccolato di un figura alta e regale che la percorreva con una sorta di sinuosa leggiadria tipica di un nobile. Il giovane principe indossava con regalità un completo bianco di giacca e pantaloni, ornato da una cappa dorata che gli pendeva lungo la spalla destra. Allacciata alla sua cintura per la guardia, vi era un fioretto la cui lama sottile era rivestita da un fodero anch’esso dorato come la cappa.
Sceso l’ultimo gradino, la gente lì intorno si produsse in inchini ossequiosi e il giovane dai lunghi capelli biondi, dritti appena sopra le spalle, ricambiò quella cortesia in un gesto di quella che pareva profonda umiltà. Chiunque l’avrebbe scambiato per un umano se non fosse stato per la punta delle orecchie che sporgevano fra le ciocche dei suoi capelli.
Quello era il principe Kahel, il fratello della Kiendjar che in quel momento piluccava oziosamente il suo antipasto, sedendo scomposta accanto alla sedia vacante a capotavola. Era stato facile riconoscere la sua identità per Fabiano, era una copia sputata della madre.
La sorellastra lo guardò con manifesta invidia, poiché mai nessuno le si era rivolto con tanto rispetto nei suoi confronti, pur essendo figlia di Delilah. Fabiano non se ne intendeva molto di discendenze reali e primogeniti. Trovava comunque ingiusto, sebbene la mezza-fata in questione non brillasse per virtù, che le fosse riservato un trattamento così diverso dal fratello maggiore.
Beccò i suoi compagni protettori, vestiti anche loro di tutto punto, a bisbigliare sommessamente fra loro in un angolo della sala, all’imboccatura fra due colonne. Si guardavano attorno vigili e circospetti evitando cautamente quei vassoi ricolmi di stuzzichini esotici che gli passavano sotto il naso.
Non devo né bere né mangiare nulla di quello che mi offriranno, si ricordò il ragazzo tenendo sempre caro quel promemoria nella sua mente. E quella era soltanto una delle regole più importanti se si voleva uscire indenni dal regno delle fate.
C’erano quasi tutti: Gabriel che finalmente si era deciso a flirtare con Morgana, Norman e Caterina che commentavano sottovoce l’abbigliamento bizzarro degli invitati, Ethan che civettava attorniato da un gruppetto di Driadi, Carlotta in disparte a ridosso di una colonna che si mangiucchiava nervosamente le unghie. Che cosa le prende, si arrovellò Fabiano, impensierito dal suo insolito atteggiamento scostante. E Lea dov’era finita?
Ascanio salutò i nuovi arrivati con un cenno del capo interrompendo la conversazione piuttosto intima che stava intrattenendo con la ragazza bionda che dava le spalle a Fabiano. Marlena non sembrò molto contenta di vederlo unirsi al loro gruppo. Da quando aveva scoperto della notte che lui aveva trascorso con Leona, non gli aveva più rivolto la parola, non faceva che evitarlo, non le importava se con l’amica si fossero limitati a dormire.
Quanto gli era costata quella singola notte con Lea, aveva perso tanto eppure non riusciva a pentirsene neanche per un momento. Fabiano si lasciò avvolgere dal pensiero dei suoi capelli corvini sparpagliati in disordine sul cuscino, dall’innocenza del suo viso in preda a un sonno profondo, il suo dolce profumo di cui si erano impregnate le lenzuola…Difficilmente avrebbe rivissuto un momento felice come quello, si rese conto lui, stretto in una morsa di inquietudine. Ma lui non doveva essere felice, lo tartassava la voce affilata del padre, non con lei. Era quella dannata felicità che l’aveva condannata a morte. Ancora oggi il protettore non riusciva ad associare la morte al sorriso di quella ragazza. Gli faceva troppo male. Per lui era inconcepibile un mondo senza di lei.
Come se avesse captato i suoi pensieri, Marlena lo spiò con discrezione, lanciando brevi occhiate  cariche di gelosia nella sua direzione. Lei lo amava ancora. Perché quell’amore allora non gli bastava? Perché quando aveva creduto di essersi affezionato a lei, Leona lo stregava col suo sguardo facendogli dimenticare ogni cosa, buttando alle ortiche la sua razionalità?
Era in errore. Ancora una volta, quella ragazza gli aveva sconvolto la vita e tutti i piani che aveva programmato. Se solo non fosse tornata da Londra…Non sapeva come, ma lui doveva dimenticarla, per il suo stesso bene.
Marlena era pur sempre la sua fidanzata, anche adesso che suo padre non era lì a ricordargli i suoi doveri. Si era ripromesso che non l’avrebbe ferita, e si detestava per quello che le aveva fatto passare.
«Mi piace il tuo vestito» le aveva detto bisbigliandole a un orecchio «Il rosso è il tuo colore, ti dona». Non mentiva, lo avrebbe giurato sulla luna piena che li stava guardando nel suo flebile chiarore offuscato dalle nubi. Fabiano poté sentire la giovane protettrice tremare al suono della sua voce. Allora lui le sfiorò la parte interna del gomito con un dito, avvicinandosi a lei piano per non spaventarla. I suoi occhi verdi si serrarono su di lui, non prima di aver apprezzato quel tocco leggero che l’aveva fatta trasalire. Colse al volo lo spiraglio, e approfittò della sua vulnerabilità per farle scivolare la mano dentro quella della bionda che in quel momento accennava un piccolo sorriso su quelle labbra scarlatte. Inconsapevolmente le loro teste avevano annullato la distanza, i due potevano sentire il calore dei loro fiati sulle gote.
«Sei ingiusto». Era stato il profondo risentimento della ragazza a parlare. «Sai bene che potere eserciti su di me, sai quanto diventi malleabile fra le tue mani. Io non voglio essere la tua bambola, non più». I suoi smeraldi erano ancora più lucenti quella notte rendendo pallide le stelle al loro confronto.
«Non ho mai voluto farti del male» le disse Fabiano cercando un approccio diretto. «Tutto quello che ti chiedo è il tuo perdono, non desidero altro». Marlena ampliò ancor di più il suo sorriso e prese a lisciargli i capelli sporgenti dietro la nuca «Lo vorrei tanto Fabiano, non hai idea di quanto vorrei crederti. Ma non posso aprirmi di nuovo a te, non posso consegnarti il mio cuore, quello che tu hai frammentato, ancora una volta. Potresti provare a rimetterlo a posto, ma quanto durerebbe? No, io non posso, non posso…». Fabiano ammirò la sua grande forza di volontà nel trattenersi da una scenata disperata di fronte a tutta quella gente.
«Perché?» ritentò lui. «Ti ho già raccontato come sono andate le cose, noi non abbiamo…» Marlena gli posò un dito sulle labbra.
«Anche se ci fosse stato effettivamente qualcosa e si sarebbe trattato di un’altra ragazza, non avrei esitato un solo istante, ti avrei concesso il mio perdono mille volte, sarei passata sopra le tue debolezze e ti avrei ripreso con me, per sempre».
«Ma sappiamo entrambi che lei per te, non sarà mai una semplice debolezza passeggera. Lei non ha avuto bisogno di ammaliarti col suo bel faccino come è stato con gli altri» strascicò con rabbia. «Lei ti ha preso l’anima, te l’ha strappata dal giorno in cui l’hai vista. Ed io l’ho sempre saputo e ho voluto semplicemente ignorare la realtà, negandomela più e più volte. Non so per quale razza di scherzo meschino del destino, voi due sembrate essere fatti l’uno per l’altra. Io non posso vivere più col pensiero che un giorno ti possa portare via, non voglio restare a guardare mentre quella strega si impadronisce del mio tutto. Io la odio, con tutta me stessa. La odio perché lei non ha dovuto faticare per conquistarti. La odio perché per te stare con lei è facile come respirare. La odio perché tuo padre non ti ha mai dovuto imporre di amarla» Marlena chiuse gli occhi come per evitare che quel livore incontenibile traboccasse fuori in tutta la sua animosità.
«Quindi…per una volta nella mia vita, scelgo me, e me soltanto» sospirò. La mano tornò a penzolarle lungo il fianco. La protettrice gli apparì irremovibile nella sua decisione, non l’aveva mai trovata più risoluta. «Il tuo posto non è con me, ma con Leona».
Non appena Marlena pronunciò il suo nome, Fabiano sentì il suo sguardo attratto da una forza insovvertibile, come tutto il resto dei presenti, che lo spinse a sbirciare la sommità della scalinata e la mano affusolata che accarezzava il corrimano di bronzo. Salì lungo quel braccio nudo, tonico, teso per l’emozione, ammirandone le sfumature olivastre della pelle, lucida per gli unguenti profumati che l’avevano nutrita. Attorcigliato al suo esile polso con un fiocco, vi era un nastro rosso.
Fabiano ebbe un tuffo al cuore.
Quando incontrò il viso della ragazza, si dimenticò di respirare. Ne restò devastato, annichilito, spazzato via dall’incantevole bellezza della cacciatrice dalla lunga chioma corvina che avvolgeva il suo corpo, snello e seducente, fin oltre il bacino in boccoli vorticanti come spirali che girano su se stesse. Saziò i suoi occhi ingordi di quella visione e la impresse nella sua memoria, pezzo per pezzo. I suoi pensieri, resi folli da quella creatura, divennero un pasticcio confuso e indistricabile di desiderio. Non aveva mai provato nulla di simile con tanta veemenza: la voleva tutta per sé. Il lungo abito celeste, che le cingeva la vita, velava le sue forme gentilmente, curvandosi sui fianchi, per poi scenderle a strapiombo sulle gambe, rese visibili dagli spacchi vertiginosi aperti sulle cosce. Il ragazzo a quel punto dovette riprendere fiato, sopraffatto dall’incendio che era divampato dentro di sé. Si lasciò distrarre dallo scintillio della catena d’argento posata sul capo e dal ciondolo a forma di stella che le dondolava sulla fronte, pur di scacciare quella strana sensazione che non gli permetteva più di essere padrone del suo stesso corpo. Si tenne per la fine i suoi occhi sinceri, quelli che fin dalla prima volta lo avevano quasi costretto ad innamorarsene.
Fabiano l’aveva sempre trovata bella, nella sua semplicità, persino coi suoi capelli arruffati al primo mattino o con i suoi camicioni troppo larghi. Non aveva certo bisogno di tutto quello per apparire favolosa. Adesso però, che sembrava esserne consapevole, con le sue movenze flessuose, quasi feline, non lasciava spazio a nessun fraintendimento, aveva convinto l’intera sala che l’ammirava percorrere la gradinata con la grazia degna di una dea.
Il fascino della bella protettrice non era sfuggito nemmeno al giovane principe delle fate che l’attendeva alla fine della scalinata con un braccio proteso pronto a scortarla sulla pista da ballo. Un cantuccio ben sepolto nella mente di Fabiano gli disse che avrebbe dovuto prendere il suo posto. Ma ignorò sulle prime, quella vocina assurda.
«Che incantevole creatura» si beò lui sfiorandole appena con le labbra il dorso della mano «mi è difficile pensare che nelle tue vene non scorra sangue fatato». A quel gesto, una nuova staffilata di dolore echeggiò nel petto di Fabiano, ma si rifiutò di darle importanza ancora una volta.
Leona scosse le lunghe ciglia dandosi un’aria da civettuola che non le apparteneva «Bè, mio signore, alcune leggende vogliono che i medjai discendano direttamente dalle fate, data la loro affinità con i quattro elementi».
«Deve essere così allora» le sorrise Kahel.
«Mi chiedevo se…» fece per dirle la fata «onorereste la tradizione insieme a me, aprendo le danze di questa sera».
Leona si accigliò, un po’ restia a concedergli la sua mano. In quel momento il protettore seppe che l’amica temeva d’infrangere una delle tre regole di sopravvivenza base che vigevano in quelle terre incantate. Se avesse accettato l’invito del principe, avrebbe danzato fino alla morte.
Kahel lesse fra le righe le sue paure e squillò in una tonante risata.
«Vedo che sei bene informata sulla nostra reputazione di abili danzatori instancabili…Ma non temere, concedimi questo unico ballo e ti prometto che non ti accadrà nulla. Ballare con il sottoscritto ha i suoi privilegi. Io sono il principe, figlio di sua maestà Delilah. Costituisco un’eccezione…».
I suoi tentativi di persuasione sortirono l’effetto sperato poiché Leona si decise infine, con un lungo sospiro sofferto, di correre il rischio. I suoi occhi temerari lo sfidarono con un piglio malizioso.
«Va bene» gli concesse lei «dopotutto ci sono modi peggiori di morire che piroettare con voi nel bel mezzo di una festa» disse lasciandosi guidare al centro della sala dal suo cavaliere.
A un cenno del loro principe, i clavicembali, le arpe e i violoncelli presero a vibrare le loro corde, sotto il leggero pizzico delle dita dei musicisti e il canto delle Sifilidi si rimescolò nella sala, sollazzando gli animi del pubblico, fatato e non. E i due cominciarono a ballare, seguendo i passi di quella danza folkloristica.
Fabiano non fu capace di dare un nome all’emozione, fuori controllo, che lo punse come un ago dentro le budella. Era consapevole soltanto del fatto che non sopportava, no, anzi, detestava che quel principe toccasse la sua Leona in quel modo così spudorato, anche se lei non sembrava esserne infastidita.
Istinti sconosciuti s’impossessarono di lui in un miscuglio di rabbia, possessività e paura, paura di perderla. Nonostante la sofferenza che gli infliggeva, Fabiano si sentì quasi sollevato.
Per la prima volta la voce di suo padre aveva smesso di urlargli nella testa.
«Ecco, adesso sai cosa si prova». Fabiano sobbalzò riconoscendo il sussurro del fratello.
La bocca di Ethan, infatti, era ancora a pochi centimetri dal suo orecchio. Si voltò verso il protettore inglese e intravide nel volto del ragazzo con cui condivideva il sangue dell’ ammazza vampiri, la stessa espressione dilaniata che doveva avere lui in quel momento.
Allora, seppe come chiamare quell’emozione.
Gelosia.

ANGOLINO PICCOLINO DELL'AUTRICE: Ciao a tutti ed eccomi tornata all'arrembaggio con un nuovo lunghissimo, chilometrico capitolo T.T Davvero, io non ce la faccio. Ci provo seriamente a non dilungarmi troppo ma poi alla fine mi ritrovo sempre con un papirone colossalmente prolisso...POTERE DELLA SINTESI VIENI A ME!
Mi ero ripromessa di terminare la storia nei prossimi sette capitoli ma di questo passo non ne sono più sicura, la stima non è molto accurata xD Ho dovuto addirittura dividere questo capitolo in due parti come è stato per il "tradimento di un popolo". Uff sono senza speranza! Prometto solennemente che dal prossimo effettuerò molti più tagli in modo tale da avvicinarmi il più possibile alla fine, riesco a vedere la luce... Va be', bando alle ciance, spero che questo cambio, necessario, da prima a terza persona vi sia piaciuto. Ovviamente è momentaneo, è mi è servito per avere una visione globale della scena. Nella seconda parte, ho intenzione di scrivere altri piccoli (lo giuro) POV di altri personaggi per avere un effetto più completo. Dunque alla prossima settimana con " la festa dello scao leadh pt II"!

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Capitolo 44
*** LA FESTA DELLO SCAO LEADH PT II ***


Capitolo 30 - La festa dello Scao Leadh pt. II

 Per quanto avrebbe voluto farsene una ragione, Ethan non riusciva ancora ad accettarlo. Con Leona sembrava andare tutto per il meglio, nonostante gli eventi tragici  che li avevano travolti in quel grande gioco di intrighi e misteri che pareva più grande di loro. E poi lei lo aveva scaricato, così, senza alcun rimorso, davanti a tutti. Il fatto che lei fosse una medjai non le dava il diritto di comportarsi con quell’aria di sufficienza e di falso buonismo.
Lei e il suo dannato cuore di pietra!, pensò il ragazzo in preda ad una furia senza precedenti. Una nixies dai lunghi capelli turchesi guardava in tralice verso di lui da dietro il tavolo del buffet. La bella ninfa dell’acqua, con quei seni sodi e prosperosi, gli stava lanciando un messaggio ben chiaro…Ethan si ritrovò a considerare l’idea che una buona scopata avrebbe risolto tutti i suoi problemi, che lo avrebbe aiutato a dimenticare, ma non era decisamente nel suo stile. Se proprio doveva portarsi una ragazza a letto non lo avrebbe fatto per ripicca, ma per puro divertimento. Di solito erano le ragazze a morirgli dietro e mai viceversa. Ethan non conosceva la delusione, il rifiuto e la sconfitta, per lui erano concetti astratti, lontani dal suo modo di pensare. Conoscere Leona lo aveva portato per la prima volta a riflettere su se stesso e sulle conseguenze delle sue azioni, aveva fatto sbocciare in lui emozioni che non credeva di possedere, lo aveva reso un Ethan ben diverso da quello che era prima. Forse era stato il karma a ribellarsi contro di lui, per punirlo della lunga scia di cuori spezzati che si era lasciato alle spalle.
Da qualunque angolazione vedesse la faccenda, non poteva non soffrirne. Leona era stata una punizione fin troppo severa persino per uno sciupafemmine come lui.
Poco male, si disse. Se non l’avrebbe avuta lui, allora nemmeno il suo nuovo fratello avrebbe potuto vantare chissà quale possesso su di lei. Fabiano era un idiota, questo era poco ma sicuro. Il ragazzo aveva giocato male le sue carte e aveva rovinato con le sue stesse mani qualsiasi possibilità di fare evolvere in loro rapporto ad un livello superiore. La parte migliore di tutta quella pagliacciata, fu quando si rese finalmente conto di non essere più padrone dei suoi sentimenti e di come la stesse lentamente perdendo. Non provava alcuna empatia per lui, lo odiava tanto quanto il loro presunto padre. Come poteva un citrullo come lui essere un suo parente? Non si somigliavano nemmeno!
Lui e sua madre si erano sempre bastati a vicenda. La sua coraggiosa, autoritaria, integerrima mamma lo aveva tirato su da sola mentre portava sulle spalle il peso di un intero campo di protettori e tutta quella noiosissima burocrazia che il suo ruolo di Sire implicava. Non gli aveva mai fatto mancare nulla, perché avrebbe dovuto desiderare un padre e un fratello al suo fianco, se si sentiva già completo? Ethan era disgustato. Non poteva descrivere la vergogna che aveva provato nello scoprire che quel dannato schiavista, dispotico e infedele di Tiziano fosse il suo padre biologico. Non gliene faceva una colpa per aver abbandonato lui e sua madre quando lei lo portava ancora in grembo, anzi gliene era grato, visto e considerato come aveva cresciuto quello smidollato di Fabiano. In fondo provava un po’ di pena per il fratello, nessuno, nemmeno lui, meritava un padre del genere. Ma i suoi sentimenti non sarebbero mutati, non sarebbero mai andati oltre la profonda pena che provava nei suoi confronti. Così come non aveva bisogno di un padre, tanto meno la compagnia di un fratello lo avrebbe allietato. Soltanto una cosa invidiava al ragazzo ed era proprio l’amore di Leona. Lui ne aveva avuto solo un assaggio, e anche se lei lo aveva pugnalato al cuore, non avrebbe mai rinnegato quei momenti, a costo di perdere la sua credibilità da inguaribile casanova.
Gettò un occhio alla tavola imbandita, e notò che il posto dove prima era seduta Iris adesso era vuoto. Frequentandola a Londra, aveva imparato che, se eri in cerca di divertimento, la Kiendjar era la persona adatta con cui trascorre una seratina particolarmente movimentata con tutti i guai che poi ne conseguivano. E il tanfo di guai era intenso e li attendeva proprio dietro l’angolo. Invece di irrigidirsi, a Ethan gli parve eccitante. La trovò finalmente aggirarsi circospetta al tavolo delle bevande. Il protettore era sicuro che stesse armeggiando con qualcosa di piccolo, l’ampolla di vetro fu tutto quello che riuscì a vedere da quella distanza. L’attenzione degli invitati era stata monopolizzata dai balli e dalla musica, nessuno prestava interesse in ciò che stava facendo. Iris sapeva perfettamente che Ethan la stesse osservando, e questo non fece che rinfocolare i suoi turpi propositi. Accennò un ghigno sotto le sue vibrisse da volpe e, senza perdere il contatto visivo con il protettore, versò il contenuto dell’ampolletta dentro la brocca di vino che quella sera avrebbero servito a cena. La mistura che colò giù, non appena si mescolò con il nettare degli dei, esplose in una piccola nuvola rosa che il ragazzo riconobbe come eros liquido, la pozione con cui quella sera Iris e Ethan avevano drogato Leona e lui era riuscito ad ottenere il suo primo bacio dalla bella cacciatrice, ancora vivido nei suoi ricordi.
La parte di lui che avrebbe voluto gettare nel caos il gruppetto inesperto di protettori italiani invischiati in quell’impresa assurda, stava godendo in vista di quello che stava per accadere. Ethan avrebbe dovuto avvertire gli altri, o almeno questo gli urlava quel briciolo di coscienza che gli era rimasto. Ma non voleva darle retta, il suo orgoglio ferito glielo impediva categoricamente.
Così, invece di dare l’allarme, sguazzò briosamente nella sua tacita omertà, e ricambiando il sorriso della Kiendjar, si augurò di ricevere presto in regalo la sua bramata vendetta.
*******
Ascanio non si era ancora dato una spiegazione. Cosa l’aveva spinto a partecipare a quella missione suicida? Più si soffermava sui dettagli della sala o sulla pelle dagli insoliti colori degli invitati, più si rendeva conto che Leona li aveva trascinati in un gran casino. Lui l’aveva seguita comunque, persuaso dalla personalità carismatica della ragazza e dalla sua inspiegabile attrazione verso fonti potenziali di pericolo.
I gemelli Braveheart sono i medjai, gli suggerirono i suoi pensieri aggrovigliati. Le leggende dell’antica storia di Hijir avevano preso vita, scacciando le ombre del terribile passato in cui li aveva gettati la maledizione. Non era certo che il loro ritorno significasse necessariamente qualcosa di buono. Ciò presagiva che una grande forza malefica era alle porte. L’unico modo per sconfiggerla risiedeva nel potere di quella ragazza che caracollava sulla pista da ballo col principe delle fate, e di quel dongiovanni di suo fratello che quella sera sembrava avere occhi soltanto per Morgana.
Conosceva bene quello sguardo. Non poteva fare a meno di guardare Marlena allo stesso modo. Lui l’aveva sempre amata, nonostante i suoi numerosi rifiuti, nonostante il suo amore non corrisposto per Fabiano.
Fabiano. Ascanio avrebbe tanto voluto odiare l’amico benedetto dalle attenzioni delle due ragazze più belle del campo. Come non poteva rendersi conto di quanto fosse fortunato ad essere la contesa del loro amore? Nonostante tutto, lui continuava a volergli bene perché conosceva i crucci profondi del ragazzo meglio di chiunque altro e non avrebbe mai potuto portargli rancore.
Lui sapeva delle percosse violente del padre e dei suoi malati giochetti psicologici che  torturavano la mente del suo povero amico. Ricordava come se fosse ieri, quanto la morte della sorella lo avesse straziato, spezzato in due. Ciò comunque non giustificava il suo atteggiamento nei confronti di Marlena.
L’aveva ferita a morte. Si rattristò per la sua incapacità di mitigare il dolore della ferita sanguinante della bellissima ragazza bionda dei suoi sogni. Non godeva certamente delle sue afflizioni, ma allo stesso tempo non poteva non sfruttare l’opportunità a suo vantaggio, non adesso che Fabiano pareva essersi risvegliato dal suo lungo sonno, sguinzagliando l’amore sopito per la protettrice dai capelli neri come il carbone.
Perciò Ascanio si fece coraggio e si avvicinò a lei, i passi ammutoliti dal suono della musica che si avvitava verso il cielo. Lo sentì comunque arrivare, i suoi istinti da cacciatrice di vampiri erano attivi e in allerta.
«Sapevo che prima o poi sarebbe successo» disse lei in tono sconfitto «ha vinto lei».
Ascanio la osservò di sottecchi «Non sapevo che voi due foste in competizione». La bionda si esibì in un verso gracchiante «In realtà non ho avuto mai speranze contro di lei. Era una partita persa in partenza. Sai per un momento ho creduto davvero che…» si interruppe e scosse la testa. «Adesso non ha più importanza» sibilò schiettamente puntando lo sguardo vorace sulla sua preda con le pupille dilatate. Proprio in quel momento, un folletto con la lanugine bianca a macchiettargli il mento pronunciato, sfilò davanti ai due nel suo bel completino verde foglia. Reggeva un vassoio di calici di cristallo sulla sua manina grassoccia tendendolo più in alto che gli era possibile per sopperire alla sua deficitaria statura. La trasparenza dei bicchieri lasciava intravedere un liquido dalle sfumature bluastre, tendenti al viola, che ad Ascanio ricordò del succo di more. Senza lasciargli nemmeno il tempo di replicare, Marlena rimestava già quella mistura color cobalto facendo oscillare il collo del calice fra le dita. Prima che la ragazza lo potesse portare alle labbra per degustarne il sapore, Ascanio le aveva arpionato il braccio. Il folletto si allontanò da loro saltellando mentre un sorrisetto lugubre gli scavò il viso compiaciuto.
«Vuoi davvero affogare il tuo dolore in questo modo? Rimanere schiava del popolo del fate per l’eternità ti sembra una buona soluzione?».
«Lasciami, tanto ormai non ho più nulla da perdere. È solo questione di tempo e poi quella sgualdrina ipnotizzerà anche te come ha fatto con il resto della squadra. Guardali come le sbavano dietro, è disgustoso. Si è persino accalappiata quel principe viziato…».
«Ti sbagli Marlena» le disse lui sommessamente, sottraendo il calice dalla sua presa.
«Lei non esercita quell’effetto su di me…l’ammiro, certamente per la sua forza e il suo coraggio. Insomma è davvero una tosta! Ma non sono mai stato legato a lei da alcun sentimento romantico. Come avrebbe potuto? La mia testa è totalmente da un’altra parte. Il mio cuore appartiene già a un'altra ragazza che a dire la verità è un po’ sciocca». Marlena a quel punto si voltò verso di lui rabbuiandosi. L’intimidazione che trapelava dal suo cipiglio lo fece sorridere.
«E perché questa ragazza sarebbe sciocca?» gli domandò lei altera e sprezzante.
«Be’ perché la sua ingiustificata invidia non le permette di vedere quanto sia fantastica e meravigliosa agli occhi di un certo ragazzo, anche lui un po’ tontolone. Lui non ha avuto mai il coraggio di andarsi a prendere ciò che voleva. Adesso però non è più così…quel ragazzo è cambiato ed è…pronto» spiegò lui scrutando il fondo delle sue pupille carbonizzate. Colto il chiaro riferimento, il viso di Marlena si arrossò e cominciò a soppesare la chiassosa festa della fate e l’atrio attorno a sé. Ogni elemento architettonico della tenuta pareva scintillare dei metalli più pregiati.
Il principe dai lunghi capelli sericei si congedò dalla sua dama con un mezzo inchino e salì lungo una piccola scala a chiocciola che portava su un pulpito semicircolare di bronzo. Scrutandoli dall’alto del suo piedistallo bronzeo, la fata li abbagliò col suo sorriso. Quando fece il suo pomposo discorso di apertura, Ascanio avrebbe voluto un coltello per staccarsi di netto le orecchie. Non gliene importava nulla delle loro futili usanze, lui come gli altri protettori suoi compagni avevano ben poco da festeggiare quella sera. A Betelgeuse infuriava la guerra civile, l’unità di un popolo dilaniata, dopo secoli di pace, da un infausto incantesimo che li trasformava in mostruosità ancor più feroci delle creature che cacciavano. Alcuni di loro avevano perso i loro cari, altri schiacciati dal mal d’amore, non potevano sottrarsi alle conseguenze che l’adolescenza comportava. Eppure nessuno di loro dava sfogo ai propri tormenti. Le loro maschere impassibili, frutto di un irreprensibile allenamento, li rendeva macchine da guerre indecifrabili. Ognuno di loro sapeva che mostrare le proprie debolezze al nemico gli avrebbe fornito un appiglio per farsi strada dentro il loro inconscio, instillando così paura e confusione nelle loro menti.
Perso nei meandri delle sue considerazioni, Ascanio si era accorto a malapena che il principe era stato rimpiazzato da una cantastorie. La macilenta creatura fatata aveva preso a raccontare la leggenda dello Scao Leadh accompagnata dall’arpeggio del suo ukulele. Il racconto narrato dalle note incalzanti della Silifide, sobillò le emozioni del ragazzo evocando scenari immaginari dai colori vividi. Non poté non paragonare gli orrori di quella battaglia a quella che lui stesso aveva visto con i suoi occhi pochi giorni prima alla cittadella, rasa al suolo dal terremoto scatenato da Leona. Far scorrere il sangue della propria gente doveva pur richiedere un conto salato. Faide e discordia fra famiglie e razze era stato il prezzo da pagare. Ora che la leadership aveva mostrato il vero volto della corruzione, cosa ne sarebbe stato dei protettori? Chi avrebbe protetto gli umani adesso che chi avrebbe dovuto difenderli aveva disperso le proprie forze? Ascanio si augurò vivamente che la storia del ciondolo blu fosse vera.
Terminata la canzone, esplosero gli applausi in tutta la sala. Kahel raggiunse il centro, ponendosi sopra l’intricato disegno runico sul pavimento, e diede il via alle danze.
Ascanio rimase sbigottito dalla fluidità con cui si agitavano i corpi leggiadri delle fate. Graziose fanciulle dalla pelle linfatica, facevano fluttuare le loro braccia come anguille che si districano fra le alghe di un fondale marino, esibendosi in una sorta di danza tribale; altre fate dai capelli fiammanti, oscillavano e piroettavano con movimenti circolari del bacino, formando un cerchio di fuoco il cui calore riverberava attorno a loro in un tremolio ondeggiante. I loro passi snodati, i loro respiri affannati, le loro movenze frenetiche, i loro veli che vibravano nell’aria come un schiocco fra le dita, il tamburellio dei loro talloni nudi che battevano sul freddo selciato di marmo, mandarono in estasi la razionalità di Ascanio.
Una potente scarica elettrica gli percosse la spina dorsale e lo costrinse ad imitare le movenze di quei balli bizzarri. Ormai attratto fatalmente dalla musica, poteva sentirsi scivolare verso di loro, doveva parteciparvi a qualunque costo. Aveva cominciato a sudare, la camicia gli si era incollata sul torso, i suoi muscoli improvvisamente indolenziti nel tentativo di resistergli, necessitavano di flettersi e contrarsi a ritmo della canzone irradiata dai flauti fatti d’ossa di animali boschivi.
«Dove credi di andare? Non hai mai ballato in vita tua, finiresti col ricoprirti di ridicolo».
Il palmo di Marlena era fresco contro la sua pelle febbricitante. Ascanio abbassò lo sguardo sulle loro dita intrecciate e trasse un respiro, ignorando i tonfi che gli rimbalzavano contro lo sterno.
«Credo che tu mi abbia appena salvato da una morte atroce» gli concesse il protettore.
«Mi ringrazierai più tardi, tontolone.» disse lei trafiggendolo col suo sorriso «dobbiamo unirci al banchetto del principe, non essere scortese». C’era dell’intesa fra i due o Ascanio stava fantasticando troppo?
«Lena…» la chiamò una vocina timida, quasi afona. Ascanio dovette placare la collera suscitata da quell’interruzione quando si ritrovò a fissare una Carlotta terrorizzata che stringeva fra le dita la stoffa color porpora del vestito della sua amica. Scambiò facilmente la rabbia con la preoccupazione alla vista di quegli occhi marroni offuscati da una lieve patina lucida. La ragazza tremava di paura.
Marlena con una rapida occhiata intuì che qualcosa non andava nella protettrice e, prendendola per il gomito, la trascinò lontano dagli altri. Ascanio si precipitò all’inseguimento delle due ragazze, mischiandosi fra la folla.
******
«Lena, io…» iniziò a frignare la bruna «io non so cosa mi è preso, mi dispiace non volevo farlo…me lo ha suggerito una voce». Carlotta affondò la faccia fra le mani e pianse calde lacrime singhiozzanti.
«Una voce…ma di che cosa stai parlando Carlotta! Che cosa hai combinato? Mi stai spaventando» la incalzò una Marlena fuori di sé.
«Io non ho potuto fermarmi. Era insistente, persuasiva, dolce…mi ha convinta che ne avessi bisogno e così l’ho presa» le confidò asciugandosi il volto lucido di lacrime.
«Carlotta, che cosa hai…» la protettrice s’interruppe quando l’amica cominciò ad estrarre dalla scollatura sul corpetto, al centro fra i suoi seni, una catenella d’oro. Carlotta notò che lo sguardo imbarazzato di Ascanio saettò da tutt’altra parte, ma per lei non c’era alcun problema. Marlena poteva permettersi qualsiasi cosa con lei. Scorgendo quello scintillio dorato, l’amica scattò subito verso la collana e la rinfilò con urgenza dentro il suo nascondiglio. Prese in rassegna i presenti che avrebbero potuto assistere alla scena, ma una volta resasi conto che nessuno li stava osservando, si rivolse nuovamente a Carlotta fulminandola con un’occhiataccia.
«Ma che diamine ti salta in mente? Siamo venuti per prenderci il ciondolo della luna di Frieda, non per rubare gioielli a caso! Dove lo hai trovato?» le disse soffocando gli strilli.
«Sai quando ti ho detto che mi serviva il bagno? Be’ in realtà non ci sono mai andata. Il corridoio dava sulla stanza della Kiendjar, la voce mi aveva indicato la strada. Sapevo perfettamente dove si trovasse così ho aperto il portagioie sul suo comò e l’ho preso…Adesso, però, non ricordo più perché l’ho fatto» disse tornando a nascondersi il viso.
«Dannate Pixies!» imprecò la bionda roteando gli occhi.
«Cosa c’entrano le Pixies in tutto questo?» domandò Ascanio.
«Oh, non farti ingannare dalle apparenze. Ti sorprenderesti di quanto siano infide quelle creaturine malefiche. Cazzo, perché sei così stupida! Se ci scoprono siamo fregati. Nelle terre delle fate il furto è considerato un crimine appena meno grave di mentire apertamente a membro della coorte di sua maestà Delilah. Ci taglieranno la testa» Marlena andò in iperventilazione.
Carlotta si guardò attorno «Potremmo gettarlo dietro qualche cespuglio!» propose lei.
«Ormai è troppo tardi, ci scoprirebbero e sarebbe ancora peggio…»la smontò Ascanio.
 Marlena allora le cinse le spalle e le disse «Tu non dirai nulla, intesi. Se la storia non salta fuori non abbiamo motivo di preoccuparci, giusto?».
«Amici miei!» li richiamò la voce tenorile del principe Kahel. «Perché state tardando, il banchetto non potrà cominciare senza che ognuno di voi abbia partecipato al rituale di iniziazione. Su non siate timidi, unitevi a noi!».
Carlotta non sapeva perché, ma alla parola rituale ebbe un fremito agghiacciante che le fece accapponare la pelle. Cercò gli occhi della sua amica Marlena e vi scorse delusione. Questo era il peggior incubo di Carlotta. Avrebbe accettato persino la decapitazione ma non quello sguardo carico di risentimento nei suoi confronti…non dalla persona che lei amava così disperatamente. L’avrebbe perdonata, no? Non sapeva cosa avrebbe fatto senza di lei, ne aveva bisogno…Ma Marlena non la degnò più di alcuna attenzione, girò su se stessa e si fiondò a passo spedito verso il banchetto insieme ad Ascanio, dove i suoi compagni avevano già preso posto senza di loro.
Prima di seguirli, con la morte nel cuore, gli occhi castani di Carlotta, offuscati da un velo opaco, s’incrociarono con i gorgheggi ondulati e vorticanti della foschia fatata che avvolgeva la sala da ballo come una cappa di nuvole argentate. La protettrice notò dei guizzi costellati da mille colori nei punti dove i raggi lunari penetravano quella nuvolaglia densa di polvere di diamanti. Aguzzò la vista e intravide quelle laboriose fatine in miniatura mietere a flotta i granelli luccicanti che si trovavano in mezzo alle nebbie opalescenti.
Allora la protettrice si chiese: perché le Pixies avrebbero dovuto raccogliere la polvere di fata?
********
La cera fusa e bollente, non appena s’incontrò col freddo ottone del candelabro, si solidificò in una lacrima madreperlacea sul viso metallico di una fata scolpita nelle volute ricciolute dei bracci del porta candele. La calura delle fiammelle tremolava in balia delle correnti d’aria. Qualche seduta più avanti, una ragazza con i baffi e le orecchie a punta brucava senz’enfasi la sua insalata come una capra di montagna, i suoi occhi giallognoli fissi su Leona che conversava allegramente col principe Kahel. Nel suo pugno stritolava il manico argentato di un coltello con la lama rivolta verso l’alto.
Caterina la giudicò patetica.
Non aveva mai invidiato la sua cazzutissima amica Leona, nemmeno adesso che sapeva la verità su lei e Gabriel. Magari all’inizio era stata un po’ gelosa di lei e Ethan, ma le era passata in fretta, non era certo il tipo di ragazza che si trastullava nei suoi insuccessi. E poi adesso il ragazzo in questione le stava proprio accanto con il suo bel musetto imbronciato che lei trovava così sexy.
 Quella sera la temperatura era insolitamente alta, ma Caterina non era certa che si trattasse di un dato di fatto o se semplicemente la sua pelle avesse preso a bruciare, rinfocolandosi nei suoi vasi sanguigni come se avesse il solleone all’interno delle sue membra. Ammosciò il mento sul braccio, torcendo in pieghe rugose la guancia spalmata sul palmo della mano, e rifletté sul tempo trascorso lì. Era sopravvissuta a malapena alle angherie di quei demoni alati dal faccino angelico, le avrebbe volute strangolare con le sue stesse mani se il suo codice non glielo avesse espressamente vietato. In effetti le sembrava che da un paio di giorni qualcuno stesse attizzando un braciere dentro il suo stomaco e che quel calore s’irradiasse in tutto il corpo come una nana bianca che sta per implodere. Si deterse la fronte con il fazzoletto ricamato che aveva trovato sotto la posateria d’argento disposta in ordine di grandezza, e suddivisa per portata, sentendosi segretamente in colpa per aver utilizzato un oggetto così delicato per assorbire i suoi liquidi corporei. Indugiò nuovamente sulle punte arrotondate di una forchetta.
Non ricordava esattamente se avesse dovuto cominciare dall’interno all’esterno o viceversa. Si accigliò, sforzandosi di ripescare quel particolare nella sua memoria. Il galateo non faceva per lei, si arrese sospirando. Preferiva di gran lunga le scazzottate ignoranti e i pomeriggi passati ad appuntire la sua lancia, attualmente nascosta in mezzo a un cespuglio di rose insieme al resto dell’armamento della sua squadra.
Al diavolo le buone maniere!, pensò in un moto illogico di rabbia, che da un po’ di tempo a quella parte la seguiva come un’ombra, pescando uno dei cucchiai di fianco alla forchetta che prima aveva esaminato scrupolosamente.
Ebbe un sussulto. Il contatto con l’utensile d’argento le provocò una fitta acuta di dolore che la costrinse a gettare la posata lontana da sé, catapultandola dentro il piatto dell’ospite seduto davanti a lei. Scottava maledettamente. Chiuse gli occhi come per resistere alla sofferenza che quel brevissimo tocco le aveva trasmesso. Non poteva essere stata un illusione. Guatò i suoi polpastrelli ritrovandoseli arrossati come se avesse teso le dita sulle spire di una fiamma. Una morsa di terrore istintivo montò dentro di lei, le ossa scricchiolanti come se fossero in procinto di spezzarsi, i muscoli e i tendini informicoliti come se li avesse messi sotto sforzo.
«Le posate» latrò «sono avvelenate!».
Norman, dall’altro capo del tavolo, squadrò, fra le folte ciglia di grano turco, il cucchiaio che lei gli aveva inavvertitamente lanciato nel piatto, con il turbamento a tingergli gli occhi azzurri. Lo raccolse con aria critica esaminandolo alla luce tremolante del candelabro senza battere ciglio. «Non c’è nulla che non va nelle posate, e poi ammesso che fossero avvelenate avresti subito sentito l’odore. Cosa te lo ha fatto pensare?» chiese Norman piuttosto incuriosito.
«Mi sono bruciata» ribatté sotto voce «guardate le mie…»la voce si affievolì come quando abbassi il volume di una radio. No, lei non era pazza, ma non sapeva spiegarsi il perché le sue mani fossero tornate esattamente come prima. Non vi era uno solo segno di una possibile scottatura.
Non è possibile, si ripeté. In preda alla frenesia, prese a tastare con le dita tutte le posate che aveva di fronte. Una goccia di sudore le si impigliò in un sopracciglio. Le posate erano fresche e dure come avrebbero dovuto essere degli oggetti di metallo.                             
Ethan le posò una mano sulla sua schiena nuda e disse «Caterina, sicura di stare bene? Sei molto accaldata». La cicatrice sul petto le bruciò così tanto da toglierle il respiro.
Gli rivolse un gran sorriso canzonatorio «Certo che sì tesorino, non c’è bisogno che ti preoccupi così per me. Ho la pellaccia dura» disse dissimulando la tensione che la stava mandando fuori dai gangheri.
«…non ho potuto fermarmi, era insistente, persuasiva…e così l’ho presa» le disse quella voce amplificata nelle sue orecchie, sovrastante la musica.
«Cosa hai detto?» domandò Caterina, incerta su quello che aveva appena sentito.
Ethan si fece paonazzo in volto e le rivolse uno sguardo cupo «Caterina io non ho detto nulla…». Oh, perfetto!, pensò Caterina, ci mancavano solo le voci nella testa!
A conferma della sua apparente follia la voce proseguì «Carlotta che cos’hai…».Sta volta la riconobbe: era senza dubbio Marlena.
Caterina perlustrò velocemente la sala e, anche in mezzo a tutta quella confusione di corpi danzanti, la trovò a parlottare con Ascanio e Carlotta. Allora trasse un sospiro. Erano troppo lontani da lei, non poteva averli sentiti da quella distanza, non aveva un udito sovrannaturale. Dopotutto era nel regno della fate, doveva esser preda di qualche stravagante illusione, sì era così, si convinse. Wow, se già dava di matto senza aver ingurgitato nulla, non voleva pensare a cosa sarebbe accaduto se si fosse tracannata quel buon vino dall’aspetto allettante che pareva aspettare solo lei…Forse un solo sorsetto, stava per concedersi, allungando il braccio verso la brocca.
«Ma cosa ti salta in mente? Siamo venuti  a prenderci il ciondolo della luna di Frieda, non per rubare…». Caterina tornò a guardarli e provò a leggergli il labiale.
«…Be’ in realtà non ci sono mai andata…la voce mi ha indicato la strada». Ciò che sentiva e  ciò che vedeva combaciavano alla perfezione. Un’altra vampata di calore. Si mise a perlustrare il fondo del piatto, ancora immacolato e privo di briciole, con la mani a mo’ di paraorecchie per mettere fine a quell’assurdità.
«…Cazzo perché sei così stupida…se ci scoprono siamo fregati» disse ancora la voce ovattata di Marlena, come se l’avesse al suo fianco e glielo stesse urlando nell’orecchio. «…ormai è troppo tardi…».
«Basta» esalò esausta. Non si era nemmeno accorta di averlo detto ad alta voce. Riaprì gli occhi e qualcuno le teneva la mano sopra il tavolo. Bastò quel semplice gesto a zittire le voci. Norman la guardava dritta negli occhi con un affetto che le ricordò di non essere sola. Lui non disse nulla. Norman era sempre stato al suo fianco fin da quando aveva memoria. Lui le infondeva sicurezza, solidità, era tutto ciò che le potesse somigliare ad un famiglia. Erano così diversi l’una dall’altra, non solo per il colore della pelle, che per entrambi non aveva alcun valore discriminatorio, ma anche e soprattutto caratterialmente si trovavano agli antipodi: lui dolce e posato, lei sfacciata e aggressiva. Eppure non avrebbe voluto un amico diverso, era come se Dio avesse creato su misura il suo angelo custode intimandogli di vegliare su di lei per evitare che si cacciasse nei pasticci. Gli voleva molto bene, soprattutto il quel momento. Lo conosceva come le sue stesse tasche, e non aveva mai avuto quello sguardo così…limpido, dov’era finita la sua timidezza? Cosa gli era successo?
«Caterina hai una pessima cera. Vuoi che ti porti da qualche parte?» si offrì Ethan volenteroso. Se si fossero trovati in circostanze diverse, Caterina non avrebbe esitato di fronte a quell’improvvisa gentilezza. Per dire la verità, non aspettava altro: rimanere da sola con lui era quasi sempre l’incipit della scena madre di tutte le sue fantasie su di lui, alcune delle quali sarebbe stato meglio censurare. Ma si rese conto che in quel momento non aveva bisogno di quello. Il conforto del suo migliore amico era tutto quello che potesse desiderare.
I suoi respiri si regolarizzarono e quella sensazione di caldo soffocante sembrò abbandonarla. «No» gli disse maledicendosi «Posso farcela». Strinse ancora più forte la mano del suo amico Norman con un sorriso burlone stampato sulla sua faccia.
«Amici miei! Perché state tardando, il banchetto non potrà cominciare senza che ognuno di voi abbia partecipato al rituale di iniziazione. Su non siate timidi, unitevi a noi!» li rimproverò il principe, impaziente di dare inizio al banchetto. E poi di che rituale stava parlando? Lanciai un’occhiata a Leona per chiederle spiegazioni, ma lei fece spallucce, ne sapeva tanto quanto me. Non appena i tre ritardatari si furono accomodati ai loro posti attorno alla lunga tavolata ricca di prelibatezze, Kahel schioccò le dita chiamando a sé una schiera di servitori. I suoi maggiordomi accerchiarono la tavola e cominciarono a servire la prima portata.
A Caterina le si chiuse lo stomaco. Che diamine era quella roba luccicante? Tentò di affogare il cucchiaio in quella polverina diamantina per poi rovesciare il contenuto nuovamente nel piatto. Ma questa era…
«Signorina, io non la mangerei se fossi in lei. Non credo che il vostro organismo sia in grado di digerirla» la avvertì il principe in persona ridacchiando.
«E di grazia, potrei sapere di cosa si tratta, esattamente?» lo sfidò lei con un’occhiataccia irrispettosa.
«Questa è polvere di fata» parlò inaspettatamente Carlotta con lo sguardo spiritato fisso sul suo piatto cose se fosse pieno di ragni «E’ da tutta la sera che le pixies la raccolgono dalle nebbie…».
«Che abile osservatrice che siete, milady» si complimentò Kahel. Carlotta non lo degnò nemmeno di un cenno di assenso. «E sapete anche perché ve l’abbiamo servita questa sera?». Lei deglutì trattenendo un singhiozzo. Scosse la testa.
«La polvere del bugiardo» sussurrò Fabrizio «E’ il secondo nome con cui viene chiamata la polvere di fata per la sua capacità di smascherare i bugiardi e i traditori» chiarì poco dopo sollevandosi gli occhiali sopra la gobba del naso.
«Vedo che siete il più saggio del gruppo. Prego, stasera lascerò a te la spiegazione» lo invitò il principe.
Fabrizio annuì ossequiosamente. «E’ una tradizione risalente a molti anni fa, precisamente poco dopo lo scoppio della battaglia dello Scao Leadh. Si narra che la guerra abbia avuto inizio dai complotti che Frieda ordiva in segreto contro l’attuale reggente, sua maestà Delilah. Grazie alle sue infide doti di ingannatrice, Frieda era riuscita a fare infiltrare delle spie all’interno della coorte della luce, quando ancora all’epoca vigeva la pace fra le due fazioni fatate, così da poter raccogliere più informazioni possibili in vista della grande congiurationes che seguì dopo».
«E’ pur vero che le fate non possono mentire, ma ciò non toglie che possano nascondere le loro bugie anche a costo della propria vita. Una bugia non è tale se non viene rivelata alla luce del sole. Quando la regina scoprì il complotto e i tentavi di Frieda di sottrarle il trono, era troppo tardi. Gli scontri avevano già avuto inizio, ed ambo le parti subirono molte perdite. Alla fine i Curatores Noctis, con l’aiuto di sua maestà, ne uscirono vittoriosi, ma il prezzo da pagare per il suo popolo fu molto alto: molti avevano perso la vita e il raths originale andò distrutto a causa di quella guerra brutale».
«Da quel momento in poi la Regina, addolorata per il destino del suo stesso popolo e ricolma di rimorsi, giurò che non sarebbe mai più accaduto e ne trasse un amaro insegnamento: chiunque avesse varcato la soglia del suo regno, sarebbe stato sottoposto al giusto giudizio delle polvere che tutto rivela, senza nessuna esclusione, poiché anche chi ti è più vicino, come un sorella, è capace di tradirti».
«Superba spiegazione, amico mio. Non avrei saputo esporlo meglio!».
«Dunque, mio signore, cosa vorrebbe che facessimo adesso?» domandò una titubante Leona.
«Immergerete le mani nella polvere e lei farà tutto il resto. Se il vostro cuore é puro e libero dalle tenebre della menzogna, non vi accadrà nulla. In caso contrario…» il principe lasciò intendere il peggio. I dieci ragazzi cominciarono a scambiarsi occhiate ricolme di muto terrore.
Ma non Caterina.
Lei cercò irrazionalmente la gelida luce della luna, l’unico occhio del cielo notturno che quella sera era pallida e bellissima. Ogni volta che faceva capolino fra le nubi, qualcosa, un impulso quasi ferino, le ispirava di cantare per lei, anche se Caterina era sempre stata  stonata come una campana. Ma aveva già dato fin troppo spettacolo per quella sera, così stroncò quel canto prima che potesse dargli alito.
Di una cosa però era certa, anche se ne ignorava il motivo.
Avvolta in quell’alone di mistero biancastro, la luna piena la stava chiamando, la attraeva a sé, destinandole lo stesso trattamento che riservava all’alta marea.
 

ANGOLO DELL'AUTRICE: Ciao a tutti, mi scuso per il ritardo ma a quanto sembra non riusciro' a mantenere lo stesso ritmo di pubblicazione di prima. Cio' non toglie che la storia continuerà fino alla fine. Spero che questi tre nuovi POV vi siano piaciuti! A presto per un nuovo capitolo: "La polvere del bugiardo"

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Capitolo 45
*** LA POLVERE DEL BUGIARDO ***


Capitolo 31 – La polvere del bugiardo

 
Marlena voleva tornarsene a casa sua, se pur cosciente di non avere più un posto in cui tornare. Un rivolo di sudore le colò dalla tempia, il tremolio alle mani nascosto con insuccesso. Quella zuppa argentata e luccicante che rimescolava sul fondo del piatto con un cucchiaio poteva smascherare i bugiardi…Lei di bugie ne aveva dette, anche se a fin di bene, ma non era per lei che temeva. Marlena sistemò il cucchiaio accanto al piatto e sbirciò alla sua destra. Carlotta sembrava un reperto archeologico, fossilizzata nella sua posa ricurva sul ciglio della sedia. La sua pelle era traslucida, di un pallore malsano, la mascella perennemente immortalata in una smorfia di sorpresa ma priva di alcun entusiasmo.
Perché mai quell’idiota sapientone non ci aveva menzionato un particolare così importante?, pensò adirata la ragazza. Non c’era più tempo per dargli una lezione, non le restava che tenere duro fino a quando quella cerimonia, che la protettrice trovava tremendamente noiosa, sarebbe finita.
Ma l’avrebbero fatta franca? Marlena sapeva che non avrebbe ceduto facilmente, doveva proteggerla. Carlotta poteva anche essere una sempliciotta che viveva della sua luce riflessa, ma le era sempre stata accanto, soprattutto quando Lilia se ne era andata, quando i suoi genitori l’avevano portata via dal campo…
«Mio Principe» esordì Leona «state forse dubitando delle nostre intenzioni? Credo siate stato accuratamente messo al corrente degli ultimi eventi che si sono consumati nelle nostre terre, non vedo la necessità di sottoporci a tale rituale. Se avessimo voluto attaccare Sirio, non pensate che l’avremmo già fatto? Ci conoscete, siamo protettori, non ci mancano né le risorse né il coraggio per farlo. E poi a che scopo? Perché dovremmo ordire qualcosa contro il vostro popolo considerata la nostra alleanza? A meno che voi non ci abbiate tradito…»
«Tradimento? Noi che siamo il baluardo della verità? Avete un bel ardire mia bella fanciulla, soprattutto durante una delle nostre celebrazioni più importanti. Adesso siete esuli in terra straniera, sarà mia madre a decidere che cosa farne di voi. La risoluzione della questione che sia o meno violenta dipenderà esclusivamente da voi».
«Voi avete un accordo con Betelgeuse, tutto quello che vi circonda in questo istante non esisterebbe se non vi fosse stato concesso dal nostro popolo. Come avete ben detto, noi qui siamo espatri in cerca di un rifugio, l’intera coorte ha messo sulle nostre tracce i migliori cacciatori che avevano a disposizione. Cosa ci garantisce che voi non ci vendiate ai nostri inseguitori?».
Il principe rise, facendo esplodere l’ilarità nel resto nei commensali. Iris  sollevò la testa dalla sua insalata scondita e guardò con sospetto il fratello, con un guizzo di terrore reverenziale nei suoi occhi. «Sapete, io adoro la vostra spontaneità. Di solito non permetto a nessuno che mi si rivolga con tanta sfacciataggine, è bene che lo sappiate. Con uno schiocco delle dita potrei ordinare di farvi tagliare la testa e porla al centro di quel vassoio» disse indicando la testa del caprino adagiata su un letto di lattuga «Ma si da il caso che io non sia un tiranno e immagino che voi stiate parlando per ignoranza…».
«Ignoranza…sua eccellenza?» chiese furibonda Leona con un sopracciglio inarcato.
«Ve l’ha mai detto nessuno che l’ira sul vostro volto vi dona a tal punto dal rendervi irresistibile? Avete il temibile sguardo di una dea. Se solo esistesse un artista, uno scultore abbastanza bravo da…» scosse la testa «Perdonate le mie divagazioni» si scusò sospirando con le mani giunte sotto il mento.
L’aveva appena minacciata di ucciderla. Marlena desiderò intensamente che il principe mantenesse fede alle sue intimidazioni…Credeva che nessuno meritasse di morire quanto lei, che era scesa a patti col diavolo, con il loro nemico giurato. Non riusciva a capacitarsi di come gli altri potessero starle accanto con tanta indifferenza, come potevano non essere orripilati dalla sua sola vicinanza? Non aveva neppure provato a negarlo: Leona si era schierata dalla parte dei vampiri. A Marlena non importava molto di tutte quelle fandonie sugli abomini, in fondo che male c’era se comunque portavano a termine il loro compito? Piuttosto trovava imperdonabile il suo volta faccia, per quanto le riguardava non la considerava nemmeno più una protettrice, non dopo le parole che aveva predicato a favore dei vampiri. Ciò però che la faceva letteralmente impazzire, era la sua celata natura di medjai. Lei e il suo detestabile fratello!
Marlena era una purista, rappresentava la massima espressione del tradizionalismo Hijiriano. La sua famiglia le aveva insegnato a seguire fedelmente i precetti e la sua devozione alle autorità della coorte era incontaminata. Per lei, infatti, era stato un grande onore poter essere concessa in sposa al figlio del Sire…
Non sarebbe stata piuttosto lei stessa la perfetta candidata per ricevere l’antica magia dei medjai?  Perché ad una traditrice del suo calibro era stato fatto dono di quel grande potere? Come poteva esserne degna, proprio lei che aveva calpestato senza alcun rimorso la sacra fratellanza dei protettori. Non le doveva nulla. Aveva ottenuto il suo aiuto solo esclusivamente perché Fabiano l’aveva supplicata…Lei non gli avrebbe mai detto di no, lei lo amava come mai avrebbe creduto di amare qualcuno, e non solo per la sua appetibile discendenza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, si sarebbe annientata, si sarebbe buttata giù da un dirupo se solo glielo avesse chiesto. Si convinse che se solo fosse stata lei la medjai, forse allora tutto sarebbe stato diverso. Ma in lei non c’era nulla di speciale, niente che avrebbe potuto infervorare il suo amore per lei. Mai come prima di allora, la odiò, odiò Leona con tutta se stessa.
Mentre continuava a cullarsi nella sdegno che provava per la medjai, osservò Gabriel e Fabiano. Se c’era qualcosa in cui Marlena eccelleva, quella era la scrupolosa attenzione a ciò che al circondava. Nessuno avrebbe potuto negare il suo indiscusso talento di attenta osservatrice, difficilmente potevano sfuggirle particolari dal suo infallibile radar. Notò la loro tangibile tensione, manifesta nelle loro carotidi pulsanti sulla giugulare. Anche Ascanio si era irrigidito al suo fianco, la protettrice avvertì il nervosismo attraversarli come una scia di elettricità che li univa in un unico essere pensante. Così agivano i protettori: contavano sulla forza del gruppo appoggiandosi l’uno sull’altro. Ciò che era importante per uno lo era anche per l’altro. O almeno così avrebbe dovuto essere. Loro però, erano un gruppo davvero male assortito, non avrebbero mai funzionato insieme, avevano troppi conti in sospeso, aspri contenziosi non facilmente sormontabili da futili scuse o pacche sulla spalle. I loro livori avevano radici ben più profonde nonostante la loro giovane età.
«E’ abbastanza ovvio che voi non sappiate nulla riguardo al patto stretto con i protettori di Betelgeuse» li stuzzicò con una lazzo ghignante.
A quel punto intervenne Fabiano «Sua eccellenza a quale patto sta facendo riferimento? Più che un patto quello di sei anni fa si è trattato di uno scambio. La nostra barriera magica per uno dei nostri campi».
«Questo è quello che vi hanno fatto credere» disse il principe attorcigliandosi sul dito un ciuffo di capelli biondi, segretamente compiaciuto di averli in pugno.
«Vi ho incuriosito?» aggiunse sfidando Fabiano col suo cipiglio dorato. Il ragazzo restò flemmatico, appoggiato allo schienale della sedia senza svelare alcuna emozione. A volte non se ne rendeva conto, ma somigliava molto al padre.
«Sono disposto a raccontare ciò che so, ma alla mie condizioni» li informò puntando il dito verso il basso, sul piatto stracolmo di polvere di fata.
«Noi non abbiamo nulla da nascondere» disse Gabriel fieramente. Il protettore riccioluto cominciò a sbottonarsi i gemelli sui polsi della camicia, arrotolandosi le maniche a metà braccio, e affondò le mani dentro la polvere del bugiardo. Morgana non ebbe modo di fermarlo e restò a fissarlo paralizzata sulla sedia accanto alla sua.
La sorella chiuse gli occhi. Sembrò guardare dentro se stessa. Immersa dell’oscurità delle palpebre, borbottò un pastrocchio incomprensibile che aveva tutti i connotati di un vernacolo arcaico. Probabilmente nulla che valesse la pena tradurre.
Gabriel si lavò le mani, lasciandosi scivolare la polvere fra le dita, con l’attenzione di tutti i presenti rivolta su di lui.
«Dichiaro di non avere cattive intenzioni, di non tramare nulla contro il regno delle fate, di non avere alcun interesse a farvi del male almeno che non mi trovi costretto e di non voler sottrarre alcun bene in vostro possesso. Sono qui solo in cerca di informazioni» spiegò impastandosi ancora di pagliuzze argentate. Terminata la sua dichiarazione se la scotolò via, illeso e sorridente. Leona tornò a respirare, rilasciando un lembo della tovaglia dalla sua presa.
«Siete contento adesso?» gli domandò rimettendosi apposto i polsini. Morgana si affrettò a dargli una mano, sussurrandogli rimproveri in sordina, con ancora la paura a scuoterla da capo a piedi.
«Non potevo aspettarmi niente di meno dal campione della prova. Mia sorella è rimasta colpita dal vostro coraggio nell’affrontare quella bestia. E ditemi quali informazioni cercate, mio prode amico? Quali segreti possiamo offrirti noi, popolo fatato?».
«Prima voi» lo rimbeccò Gabriel con la sua solita inopportuna spavalderia.
«Guardie…» pronunciò annoiatamente Kahel. E nel lasso di tempo di un respiro, un guarnito gruppo di sentinelle si fece attorno a Gabriel. I soldati fatati gli puntarono delle lance affilate sul suo collo, pronti ad infilzarlo ad un solo cenno del loro sovrano.
Il principe rise ancora una volta «Ah, protettori! Così forti da poter sopraffare un vampiro, ma così umanamente stupidi da non capire le circostanze e la posizione di sfavore che ricoprono» disse indurendo l’espressione «Non sei tu a dettare legge medjai, non in casa mia, ricordalo bene».
«Mio signore la supplico…». Leona si era sporta sopra il tavolo e teneva la mano del principe fra le sue. Lui batté le palpebre, confuso dal suo tocco gentile ma deciso.
«Mio fratello» continuò lei «è solo un sciocco impudente, non dovreste dar peso a ciò che dice. Sono sicura che ci sia un altro modo per fare ammenda, ma non fategli del male». Kahel la guardò prima dritta in viso, intenerendo visibilmente lo sguardo, poi si fece strada in basso, lanciando occhiate sconvenienti sul decolté della ragazza. Con un gesto accomodante scacciò via le guardie reali, deliziandosi gli occhi con le curve tondeggianti dei suoi seni. Fabiano, apparentemente in uno stato letargico, era divenuto una statua di gesso, ma chiunque lo avesse conosciuto bene, avrebbe potuto cogliere il fremito impercettibile nel suo intimo.
«In realtà un modo ci sarebbe…» acconsentì lui. Il suo dito accusatorio puntò contro Carlotta. Schioccò di nuovo le dita e le guardie lasciarono Gabriel per assieparsi attorno alla povera ragazza. La punta di una lancia indirizzata sulla sua nuca. «Procedi col rito» le intimò. «Ripeti le stesse parole del medjai».
Marlena poté quasi sentire il freddo sussurro del dolore della ragazza, straziata alla vista delle sue guance umide rigate dalle lacrime. Un Curatores Noctis avvicinò ancor di più l’arma alla pelle della protettrice sfiorandola con la punta metallica della lancia per metterle pressione. Marlena si ritrovò a stringere con forza e rabbia il bastone che minacciava di ferire la sua amica «Non c’è alcun bisogno di essere così brutali» sibilò molto più che furiosa sfidando la fata bardata di corazze e armatura.
Gli occhi arrossati di Carlotta per un attimo le furono riconoscenti, traboccanti d’amore osò pensare la protettrice, stordita da quell’intensità. Poi si fece coraggio e imitò Gabriel. Le sue mani erano sommerse dalla polvere. Col fiato sospeso, Marlena e Ascanio aspettarono l’inevitabile.
«Dichiaro di non avere cattive intenzioni» iniziò singhiozzando «…di non tramare nulla contro il regno delle fate» disse con una disarmante convinzione a cui era difficile non credere. Che avesse rinunciato? - temette Marlena - «di non voler più combattere e…». La ragazza gemette come se qualcosa la opprimesse dall’interno. Non proseguire, la pregò Marlena sperando che quel pensiero la raggiungesse. Se avesse pronunciato quelle parole…
«E di non volervi sottrarre alcun bene in vostro possesso» finì un’altra voce strappandole la frase di bocca. Caterina, con le mani dentro il piatto, sorrise solidale a Carlotta. Marlena si accorse che la protettrice mulatta le aveva schiacciato l’occhiolino, come se fosse complice di qualcosa.
«Per le Moire! Quanto siete piagnucolosi voi protettori! Possiamo andare avanti adesso? Sto morendo di sete!» disse Iris sollevando la brocca di vino.
«Non ancora, sorella» la ammonì il principe. Lei roteò gli occhi sbuffando.
«Mio signore» lo chiamò Fabrizio alzandosi in piedi «col suo permesso, potrei farle una domanda?». Il protettore era rigido come un pezzo di legno nel suo bel tight elegante. La sua timidezza, acquattata dietro il fondo delle sue enormi lenti da vista, gli conferiva un’aria da adolescente immaturo. Il principe imbronciato, lo invitò a proseguire.
«Come è vero che i generali si prendono il merito delle battaglie vinte dai propri soldati, non sarebbe moralmente giusto anche farsi carico e rendersi responsabili degli atti commessi dai propri sottoposti?».
Marlena non afferrò subito dove il protettore affetto da miopia volesse andare a parare.
«Be’…» rifletté Kahel picchiettando le nocche sul tavolo mentre si accasciava scompostamente sul bracciolo della sua sedia. «Nessun generale è mai stato così altruista, mio buon amico, nemmeno uno della vostra razza. Vedete il vostro più grande difetto è la vostra umanità. È vero, voi proteggete quei piccoli ed infidi egoisti parassiti della Terra, ma gli somigliate più di quanto pensiate. Vi vantate tanto della vostra imperturbabilità, ma…» disse facendo spallucce «raramente ho visto un protettore vincere una sola battaglia contro le proprie emozioni. Ah scusatemi, sto divagando ancora» finse di scusarsi. «Se vogliamo parlare di cosa è giusto e di cosa non lo è…credo che abbiate ragione. Un buon comandante dovrebbe essere responsabile del suo esercito, grande o piccolo che sia, nella buona e nella cattiva sorte…» terminò recitando un pezzo delle promesse che gli umani usavano scambiarsi durante il matrimonio. Il principe sembrava un gran cultore delle usanze umane…
«Sono lieto di aver incontrato il vostro favore, mio Signore. Perché in qualità di capo vorrei assumermi la responsabilità delle azioni dei miei compagni ed essere il loro garante. Non reputo necessario imporre il giudizio della polvere ad ognuno di loro. Sarebbe uno spreco visto che una volta assolto il suo scopo non può più essere riutilizzata. Perciò compirò io il rituale in vece loro e risponderò io della veridicità delle parole che pronuncerò».
Kahel parve contrariato alla proposta di Fabrizio, ma non ebbe occasione di replicare. Un fata rugosa, con un incipiente calvizie, emerse dalla folla per venire a bisbigliare all’orecchio del principe. Poi il consigliere si allontanò di corsa accennando un inchino.
Marlena vide Caterina ridersela sotto i baffi senza capirne il perché, quella ragazza diventava sempre più strana…
«Accordato» disse sbrigativo, drizzando la schiena in una posa regale. Il cambio repentino di atteggiamento non quadrava del tutto alla protettrice, ma non se ne fece di certo una malattia.
Fabrizio allora procedé, ripetendo e giurando solennemente le parole del rituale. La polvere si avvizzì, perse il suo vigore lucente spegnendosi in un fioco baluginio. Quando i camerieri vennero a ritirare i piatti, quella che parve più sollevata fu Pel di Carota. Per qualche motivo, Marlena si fece sospettosa nei suoi confronti, non le piaceva affatto che stesse nascondendo qualcosa. 
Il principe si schiarì la voce, ma non prima di aver lanciato un’occhiata alla balconata in alto, dove sua madre li controllava già da un po’.
«Be’ immagino che sia giunto il momento del brindisi…» annunciò titubante.
«Era ora!» cinguettò la sorella che non stava più nella pelle. «Non preoccupatevi» li rassicurò Kahel, «tutto il cibo e le vivande che vedete provengono dal mondo degli umani, non avranno alcun effetto collaterale su di voi». I protettori rimasero comunque scettici a quella dichiarazione.
«Vostra madre non si unirà a noi?» domandò Gabriel riempiendosi il calice di vino. «Non al momento, credo» spiò in alto come per aver conferma di quanto aveva detto.
«Allora su i calici!» propose Iris festosa. Marlena colse uno scambio intimo di sguardi fra Fabiano e Leona. La protettrice preferì guardare altrove e si concentrò sulle scanalature del bicchiere di cristallo e sui rilievi dorati nelle bordature. Non attese alcuna formalità, e si inondò la gola di vino, avvertendo, in seguito a quell’unica svelta sorsata, qualcosa, probabilmente l’alcool, darle alla testa. Si gustò sulla lingua il brio frizzantino, un po’ astringente sul finale, che la bevanda le aveva lasciato, leccandosi la patina che le inumidivano le labbra.
La vista le si offuscò per un attimo per poi ritornare nitida pochi secondi dopo. Anche fin troppo definita, constatò ebbra di vino la protettrice. I colori della festa si erano fatti più accesi, i suoni e la musica ancora più frastornanti, le voci attorno a lei urlanti come scimpanzé inferociti…Desiderò ancora del vino e se ne verso dell’altro.
«Vacci piano Lena, non voglio dover badare a te per tutta la sera» la rimproverò Ascanio ergendo una barriera fra lei e il suo bramato calice traboccante fino all’orlo. Lo sguardo della ragazza, dapprima inviperito per quella privazione, divenne lascivo. Si perse nelle sfumature color nocciola dei suoi grandi occhi da cucciolo, nel taglio deciso della sua mascella pronunciata, nei suoi muscoli così turgidi e duri più dell’acciaio. Marlena sognò irrazionalmente di sbottonargli la camicia per frugare le meraviglie sconosciute scolpite al suo interno, come se il confine onirico delle sue voglie segrete fosse stata abbattuta, senza alcun filtro a diluire l’intensità dei suoi pensieri più impuri. Voleva raggiungere le sue labbra, assaggiarle, morderle con forza, sentire il suo sapore sulla lingua, sfiorandolo delicatamente come una piuma. Avrebbe lasciato vagare volentieri le sue mani sulla sua schiena, sulle spalle fino a spingersi giù in prossimità della cintola, dove sapeva che una decisa linea di carne a forma di “v” la attendeva. Il calore sulla sua pelle cominciò a formicolare in punti che nemmeno lei immaginava fosse possibile, consumandosi in una vampa di desiderio.
Lei rise come se lui avesse fatto un battuta divertente, e fece baciare i loro calici in un tintinnio cristallino. Il braccio di lei si avvolse attorno a quello di lui, pelle contro pelle, e si lasciò travolgere dai brividi, una vibrazione soave che le riverberava lungo la schiena. Marlena lo guardò ancora, soffermandosi sulle sue gote arrossate dal vino e sfidò il ragazzo a tracannare ancora un altro sorso per ripulire i sedimenti sul fondo della coppa traslucida.
Lo sguardo corrucciato di Ascanio si distese e si fece incantare dai lucenti smeraldi della protettrice.
«Dio, quanto sei bella» le sussurrò piano. Poi, senza sciogliere l’intreccio delle loro braccia, avvicinarono i calici alle loro labbra fantasticando sul possibile incontro fra le loro bocche.
L’immagine onnipresente di Fabiano impressa nella mente di Marlena sbiadì lentamente, dissipandosi in volute irregolari di ricordi che un tempo l’avevano resa felice.
********
Il vino non raggiunse mai lo stomaco di Leona. Non si fidava abbastanza di Kahel, anche se si fosse davvero trattato di cibo da umani, era pur sempre il fratello di Iris ed aveva già ampiamente dimostrato di avere il suo bel caratterino, degno della perfida sorella. Per sua fortuna anche Fabiano le aveva dato retta, almeno due di loro dovevano rimanere lucidi in vista della tanto attesa udienza con la Regina…
Avevano semplicemente finto di berlo, non potevano sottrarsi a quel brindisi e peggiorare la situazione che già si presentava tesa di suo senza che dessero altri motivi al piccolo principe viziato di minacciarli di strappargli via la testa.
Il resto invece, compreso quel imprudente di suo fratello che poco prima stava per farla crepare d’infarto, già la seconda volta in un solo giorno, si erano concessi il lusso di consumare la cena per intero. I suoi compagni erano fin troppo euforici, avevano ceduto fin troppo facilmente alle rassicurazioni dell’erede del regno delle fate. Leona però volle comprenderli…Non mettevano sotto i denti un pasto decente probabilmente da giorni, erano lontani da casa, stanchi e avviliti dalle dure prove a cui quel mondo sconosciuto li aveva sottoposti. In fondo la protettrice non aveva ancora trovato nulla di sospetto ed era certa che quell’improvvisa ilarità nel gruppo fosse frutto di qualche bicchiere di troppo. O almeno si augurò che fosse così. Non era il momento di farsi assalire dai sensi di colpa. Se fossero riusciti nel loro intento sarebbero diventati gli eroi che avevano rischiato la pelle per salvare il campo. Il tutto stava nell’uscire vivi di lì…
«Non avete fame mia signora?» le chiese Kahel sorseggiando beffardo dal suo calice.
«Non ho molto appetito» si giustificò «preferisco di gran lunga conversare con sua eccellenza. Prima stavate parlando della vera motivazione che sta dietro l’alleanza fra noi protettori e voi del popolo della fate. Sarei interessata a saperne di più a riguardo. C’è molta oscurità attorno a questa faccenda, abbiamo mal riposto la nostra fiducia nel consiglio dei sette e nel Sire stesso». Leona cercò l’appoggio di Fabiano, il quale le sorrise debolmente, estremamente cauto a non esaltare più di tanto la loro complicità agli occhi del principe. «Siamo venuti a conoscenza di fatti terribili…».
«Parlate dei famosi Abomini? Mi piacerebbe tanto vederli in azione. Si dice siano il non plus ultra fra i protettori, davvero sorprendente» disse impugnando forchetta e coltello avventandosi sull'arrosto fumante davanti a lui.
«Be’ Leona li ha affrontati» s’intromise Fabiano con un velo di rabbia nel tono di voce. «Hanno cercato di ucciderla, senza contare i disastri provocati dalla Lupa. C’è un motivo ben preciso se sono stati battezzati con quel terribile appellativo…più nulla è rimasto di umano in loro e perdendo la loro umanità non potevano che trasformarsi in mostri spietati. Sappiamo che vostra madre è coinvolta in qualche modo, abbiamo le prove: uno scambio di lettere fra lei e il Sire».
Il principe sospirò assaggiando un boccone di carne «Non lo neghiamo, noi non potremmo mai mentire, è la nostra legge suprema. Ma sappiate che è stata soltanto una pura questione d’interessi. Mia madre non avrebbe mai voluto immischiarsi negli affari dei protettori, ha fatto solo ciò che riteneva più giusto».
Leona cercò disperatamente di contenersi in mezzo alle risate sguainate dei suoi amici. «Mi perdoni sua eccellenza, come può lodare un crimine del genere?  Ci avete dimezzato, ridotto i nostri ranghi, come potremmo mai garantirvi protezione se continuerete a trasformare i nostri in quelle creature senza cuore?».
«E’ stata costretta ad effettuare quell'incantesimo, non le hanno lasciato altra scelta. Cosa potete saperne voi dei doveri di un sovrano e del suo sacro compito di difendere il suo popolo? Se non fosse stato per quel patto non saremmo mai scampati alla morte…a volte è necessario compiere azioni riprovevoli se è per raggiungere un bene superiore». Il principe guardò per la prima volta in cagnesco la protettrice, non avrebbe tollerato oltre quel suo atteggiamento astioso nei suoi confronti e in quelli di sua madre, la regina.
«Perché non parlate apertamente, basta con i giri di parole. Chi mai avrebbe dovuto minacciarvi di morte? In nome di questo bene superiore avete mietuto fin troppo vittime fra i protettori, non vedo alcun collegamento fra le due cose».
«Questo perché non conoscete la verità, se solo mi ascoltaste, sono certo che capireste la posizione di mia madre e avreste persino agito come lei al suo posto».
«Ne dubito fortemente, ma sono disposta ad ascoltarvi» gli concesse Leona.
«Bene» asserì lui con tutta la calma di cui era capace. «Volete svelato un segreto?». Per un attimo fra i tre interlocutori calò il silenzio.
«Non esiste alcuna magia abbastanza efficace da riparare la vostra barriera magica contro i vampiri. E’ solo questione di tempo, ma presto crollerà, gli effetti sono irreversibili, e la vostra gente tornerà ad essere vulnerabile, alla mercé dei vostri nemici» gli confessò lasciando perdere completamente la cena.
«Quindi avete mentito» dedusse uno sconvolto Fabiano.
«Non è proprio così, mia madre ci ha davvero provato a riparare il danno ma è risultato tutto inutile».
«Ma allora perché tenere in piedi ancora l’alleanza, perché continuare ad offrirvi il nostro aiuto se non avevate nulla in cambio per sdebitarvi? E poi perché  impossessarvi proprio di Sirio?».
«Sirio è uno dei punti convergenti in cui la magia fatata è più forte. Grazie all'energia ricavata da queste terre, il nostro popolo ha potuto continuare a vivere. Vedete, circa sei anni fa il vecchio raths fu contaminato da una potente magia oscura a noi sconosciuta. La terra, le piante, cominciarono ad avvizzire e a non dare più frutto, le acque si macchiarono di fango e divennero putride, la polvere di fata svanì dai nostri cieli, l’intero ecosistema fu reso inospitale e gettato nel caos da questa grande piaga. Quando anche mio padre Urrah, il re consorte del mondo fatato, si ammalò, mia madre prese la sofferta decisione di abbandonare il raths per proteggere il suo popolo da quel male insaziabile che aveva persino messo in ginocchio un essere immortale. Non abbiamo mai scoperto da cosa potesse aver avuto origine. La servitù di mio padre raccontò di aver visto giacere il sovrano con una donna sconosciuta dai lunghi capelli argentati pochi giorni prima della diffusione del flagello, e che dopo quell'incontro, le sue condizioni presero a peggiorare».
Una donna con i capelli argentati…a Leona veniva in mente una sola persona che corrispondeva a quelle caratteristiche, e le sue vampate d’odio glielo confermarono. A quel punto anche Gabriel, dapprima coinvolto dai festeggiamenti di quella sera, sembrò stranamente interessarsi alla discussione, estraniandosi dalle moine di Morgana, ma solo per qualche istante. La sua lucidità fu breve come un lampo che squarcia il cielo nuvoloso. L’avventatezza del gemello la intimoriva ma non era la sua balia, avrebbe dovuto imparare a cavarsela da solo.
Leona volle sapere di più «Mio signore, come può una creatura fatata ammalarsi? Non ci è pervenuto in nessuno dei nostri scritti un informazione del genere».
«Nemmeno noi lo credevamo possibile. Ma ricordo molto bene la malattia di mio padre…e l’oscurità che l’avvolgeva. Del sangue nero come petrolio prese a scorrergli nelle vene, i suoi occhi divennero due pozzi bui e imperscrutabili, i numerosi anni costretto a letto…» ricordò il principe agonizzante.
Leona non ebbe più alcun dubbio. I sintomi erano simili a quelli della maledizione che colpiva i piccoli medjai ancora in fasce, con la sola differenza che quel sortilegio spezzò la vita immortale del re delle fate molti anni dopo dal primo contagio. Perché mai quel vampiro avrebbe fatto una cosa del genere?
«Non so quanto ci sia di vero o se si tratti solo di sciocche superstizioni, ma la piaga era reale, chiunque nel regno potrebbe confermarvelo» disse il principe sbottonandosi la giacca.
«Perché questa storia è stata taciuta per tutti questi anni ma soprattutto perché raccontarla adesso?» chiese Fabiano dando voce alle perplessità di Leona. Il principe spostò lo sguardo da Fabiano a Leona serrando le labbra come se non avesse intenzione di rivelargli altro.
«È volere di mia madre che sappiate» gli confessò restio. Leona e Fabiano si fecero ancora più curiosi. «Vuole dimostrarvi la sua innocenza».
«Una volta lasciato il vecchio raths in rovina, il nostro popolo si riversò per le strade del mondo in cerca di un’altra dimora».
«Questo spiegherebbe l’aumento dell’attività fatata e tutti quegli avvistamenti nel mondo degli umani» cavillò la protettrice. Kahel annuì.
«Pensavamo di poter condurre una semplice vita da nomadi confondendoci fra le gente ma non potevamo sapere a cosa stavamo andando incontro, tanto meno quanto la lontananza da un raths potesse nuocerci».
«In che senso nuocervi?» domandò Leona aggrottando le sopracciglia.
«Noi non…il tempo che ci è consentito trascorrere nel regno degli umani è limitato, non possiamo stare lontani da una fonte magica a lungo. Più tempo trascorrevamo fra gli umani, più la nostra gente s’indeboliva. A quel punto mia madre doveva agire, non poteva lasciar morire così il suo popolo. Così andò in cerca d’aiuto e i protettori vennero in suo soccorso ma la posta in gioco che le offrirono in cambio del loro sostegno andava contro l’antico codice fatato dei curatores noctis. Essendo la prima fata della luce, aveva giurato di non utilizzare mai la magia oscura, non avrebbe mai voluto macchiarsi di un crimine tanto dissacrante ma ha dovuto farlo o ci avrebbe condannati tutti. Sono stati i vostri capi corrotti a imporci questo fardello» disse con disprezzo «Il lickage è un antico incantesimo nato da esigenze negromantiche in grado di unire un corpo con uno spirito diverso che non gli appartiene, nonché comporre un nuovo essere con diverse parti del corpo. I suoi utilizzi però avevano svariate applicazioni  e mia zia Frieda ne è stata la promotrice. È stata lei la prima a sperimentare il linckage su un protettore, era lei che aveva preso accordi con i protettori e che gli aveva promesso un esercito invincibile. Ma mia zia è fatta così, agisce per puro diletto, quando qualcosa le risulta noiosa perde il suo interesse e passa al nuovo giocattolo. Una volta assaggiato il potere del linkage i protettori non potevano più farne a meno e l’unica in grado di poter esercitare un magia così potente era mia madre. Gli è bastato far leva sulle sue necessità per ottenere il suo coinvolgimento in quel pantano di orrori e le hanno offerto un luogo sicuro in cui poter ricominciare da zero in cambio delle sue arti magiche».
«Quindi è questa la verità. La padrona che voleva il mio sangue a Londra era tua madre!».
«Tieni a bada le tue accuse sciocca ragazzina! Mia madre non ha nulla a che vedere con questo» disse sbattendo un pugno sul tavolo. Le risate scemarono e l’intera tavolata si fermò ad osservare il dibattito. Il principe ispezionò la sala col volto imbarazzato e si passò una mano fra i capelli dorati per ricomporsi. «Vi prego, continuate a divertirvi. Non c’è nulla di cui preoccuparsi» disse candidamente il principe. Leona si stupì della facilità con cui i protettori e il resto della sala, incuranti di quella scenata, tornarono ai loro divertimenti. Che diavolo avevano messo in quel vino?, si trovò a rimuginare. Leona si accorse che Kahel la stava osservando prima che scoppiasse a ridere.
«Nessuna donna aveva messo a dura prova la mia pazienza in questo modo. Non saprei dire se siete molto coraggiosa o molto sciocca, di sicuro non avete peli sulla lingua e forse è questo che vi rende così affascinante».
«Pensate quello che volete di me» lo ammonì lei risoluta «Sono una cercatrice della verità e come vostra madre sono disposta a tutto per salvare il mio popolo e non mi farò certo fermare dalle vostre continue minacce».
«Oh dannazione, quegli occhi» disse Kahel trattenendo il fiato «il vostro passato è così oscuro, posso vedere la sofferenza nel profondo delle vostre pupille…voi avete già ucciso, non è così?».
Per un attimo la baldanza della protettrice vacillò ma riprese subito il controllo di se stessa, aveva imparato a tenere a bada i demoni del suo passato.
«È proprio così mio principe. E, se sarà necessario, lo farò ancora» disse con voce tagliente, quanto le sue spade di ghiaccio.
«Voi sareste una splendida, bellissima, spietatissima regina» la elogiò il principe delle fate.
«Regina, uhm» dissentì con una risata Marlena che sembrava aver seguito l’intera discussione. Con ancora il calice in mano si diresse verso di loro percorrendo il tavolo in tutta la sua lunghezza. Leona poteva sentire il tanfo d’alcol, e qualcos’altro che non riuscì a definire, evaporare dal suo alito per insinuarsi fra i suoi capelli.
«Sì certo, una regina» si trastullò lei sorseggiando ancora del vino «e di cosa esattamente, sua grazia?» aggiunse con un singhiozzo «Oh ma certo, la regina delle sgualdrine!».
«Marl…» cercò di riprenderla Fabiano.
«No, no, tu tappati quella bocca, hai già detto e fatto abbastanza» lo licenziò lei senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Kahel sembrò divertito da quel piccolo teatrino «Mia signora perché dite così, perché muovete una tale ingiuria verso la vostra compagna?» le chiese fingendo di disapprovare il suo atteggiamento. Marlena soffocò un risolino a denti stretti e si accomodò sulle gambe del principe. La protettrice bevve ancora.
«Spero non vi dispiaccia sua eccellenza» disse lei con gli effetti del vino scarabocchiati sul naso e sulle guance. Fabiano si fece teso come una corda di violino, si aspettava il peggio dalla sua ex fidanzata.
«Non rifiuterei mai una bella ragazza mia signora» le rispose Kahel di rimando.
«Credo che tu abbia bevuto abbastanza per questa sera, Marlena. Dammi subito quel bicchiere» le ordinò Leona.
Marlena lo portò in alto dove la protettrice non avrebbe potuto raggiungerlo «E perché mai? In vino veritas, no? Di cosa hai paura? Che dica qualcosa di sconveniente? O temi che ti porti via il tuo bel principino» la pungolò la ragazza strapazzando il muso di Kahel in un beccuccio d’oca.
«Così saremmo pari, no? Tu mi hai soffiato via il mio promesso sposo, quindi…»
«Dite davvero mia signora? La medjai le ha fatto questo?» si volle assicurare Kahel sbiasciando la domanda come meglio poté per via delle sue labbra arricciate dalla presa di Marlena.
«Oh, sì. Non fa che rovinarmi la vita da quando l’ho incontrata. Le avevo espressamente vietato di stargli vicino, lui era solo mio. Ma lei come sempre ha oltrepassato il confine che avevo tracciato e ha passato la notte con lui».
«Oh, per le moire!» esclamò Kahel assecondando i vaneggiamenti della ragazza ubbriaca.
«Come può una ragazza senza morale come te essere detentrice del potere dei medjai? Gli dei devono essersi sbagliati, deve esserci stato un errore. Come fai a guardarti allo specchio tutti i  giorni senza provare disprezzo per te stessa?».
Leona reagì a quelle provocazioni come mai si sarebbe aspettata di fare. Era indolente, e quello stoicismo la portò a ridere, ridere a crepapelle. Tutti, compreso Fabiano, la guardarono inorriditi credendo che la protettrice fosse impazzita.
Marlena si sentì punta nel vivo del suo orgoglio. Scattò verso la posata più vicina e gliela indirizzò contro alzandosi di fronte a lei. Allora Leona, sbrigliò tutta la collera repressa che aveva covato fino a quel momento, memore dei continui soprusi che la biondina le aveva riservato nella sua infanzia, e la fronteggiò facendo sbalzare la sedia all’indietro. I loro occhi cercarono di assassinarsi a vicenda, fendendosi nell’aria come in un duello di scherma. Leona abbassò per un attimo lo sguardo sui bagliori lucenti che la lama d’argento irradiava e non si trattenne più. Saggiò il metallo di cui era fatto il coltello sulla punta della lingua e attivò ancora una volta l’allomanzia, liquefacendone la struttura. La piccola arma improvvisata di Marlena si attorcigliò su se stessa, apparentemente sotto la spinta di una forza invisibile, ripiegando il metallo come se avesse la consistenza della cartapesta. Poi il manico si fece incandescente e Marlena mollò la presa, lanciandolo lontano da loro. Aveva ancora i segni delle scottature nei punti dove aveva impugnato il coltello.
«Giuro sugli antichi medjai Gassan e Mayak che questa è l’ultima volta che mi punterai un’arma contro. Non sono più la stessa bambina indifesa, distrutta dal dolore e incapace di reagire  alle tue immotivate perfidie che hai conosciuto. Ma cosa vuoi saperne tu di cosa significhi avere questo potere fra le mani? Ti sembra un gioco forse, è così divertente per te? Ti sbagli se credi che sia il potere elementale a rendermi forte. Ho dovuto affrontare sofferenze indicibili, ho perso chi amavo di più per diventare quella che sono oggi e non permetterò a una bambina viziata che non conosce la privazione di darmi ordini o accusarmi a viso aperto. Su una cosa siamo d’accordo, io non merito tutto questo» disse facendo danzare una palla di fuoco sul palmo della sua mano.
«Ma è capitato e ne ho dovuto prenderne atto, ho dovuto accettare questo fardello, perché essere medjai implica grandi responsabilità che né io né tu siamo in grado ancora di comprendere a pieno. Tu non sai come lo cederei volentieri, non sai che darei per poter essere normale…Credi sia uno spasso quando un manipolo di mostri ti dà la caccia in cerca del tuo sangue? O quando il tuo stesso popolo ti addita come traditrice e ti condanna a morte perché teme il tuo potere? O sapere di far parte di un progetto più grande di te e brancolare nel buio…Non saprai mai come ci si sente quando qualcuno ti odia per qualcosa che non hai fatto, semplicemente perché non meriti di esistere…No, tu non sai niente, non sai nulla di me, non sai nulla di cosa voglia dire avere completa fiducia in qualcuno che ami…»
«Se lo conoscessi bene, se lo amassi davvero, non avresti mai dubitato di Fabiano, non avresti mai contemplato l’idea che fra noi potesse esserci qualcosa. Dici tanto di amarlo, di struggerti per lui, ma non ti sei mai preoccupata di ciò che lui aveva dentro, non gli hai mai chiesto come si sentisse, non riesci a vedere l’effetto che le sue paure hanno su di lui…Tu dov’eri quando Fabiano aveva bisogno di te quella sera? Scommetto che non ti eri nemmeno accorta che ci fosse qualcosa che non andava, non importa quanto lui si sforzasse di tenerlo nascosto, avresti dovuto percepirlo nei suoi gesti, nell’inclinazione della sua voce, nelle sfumature cangianti dei suoi occhi. Avresti dovuto farle tue: il suo dolore come anche le sue gioie avrebbero dovuto appartenerti, avresti dovuto condividerle. Se avessi tenuto davvero a lui non ci sarebbero state barriere abbastanza solide da tenerti lontana, né le stupide regole imposte dai nostri capi avrebbero potuto fermarti. Anche se lui avesse continuato ad allontanarti avresti dovuto esserci, nonostante tutto e tutti».
«Guarda dentro di te Marlena e dimmi cosa vedi. Lui per te è soltanto il tuo bel giocattolino, l’ambito figlio del sire, da esporre su una teca, come un trofeo. Non riesci a capirlo? È questo il motivo per cui non riuscirà mai ad amarti, perché tu lo guardi senza vederlo sul serio».
Leona aveva la gola secca e le doleva come se le fosse andata una spada di traverso. Poi riprese poggiandole una mano sulla spalla «Invidiami, odiami quanto vuoi se ti fa stare bene. Sappi però che non sono io il tuo problema, non sono io a rappresentare un ostacolo al vostro rapporto. Se cerchi un colpevole sai dove trovarlo…» disse infine in un borbottio soffuso, come se avesse esaurito le batterie. Per Marlena invece quelle parole risuonarono forti come una tromba squillante dentro di lei e si mosse guidata dall’istinto spietato e impellente di punirla. Teneva ancora il calice in mano. In un gesto spontaneo glielo svuotò addosso macchiando di glicine il suo bell’abito azzurro.
Leona s’impietrì di fronte a quel colpo di scena inaspettato, osservando la chiazza violacea farsi spazio in ogni angolo della stoffa, gocciolandole ai suoi piedi. Si sarebbe aspettata che le urlasse contro o che l’avesse presa a schiaffi persino, ma non quello. Qualche gocciolina le era accidentalmente finita anche in faccia e sulla bocca. Lo assaggiò, succhiandosi il labbro inferiore e mentre lo faceva il suo sguardo guizzò casualmente fra la folla posandosi sul viso barbuto e divertito di un folletto. Scorse una nota floreale che le era familiare in quella singola goccia ma non riusciva ancora a capire, nonostante alcuni ricordi frammentati e confusi di una serata movimentata cominciavano riaffiorarle in mente.
«Che ne dite se alleggeriamo un po’ la tensione e diamo inizio alla vera festa?» disse Iris con un certo imbarazzo.
«Oh, è già l’ora?» chiese distrattamente Kahel. I due fratellastri stavano facendo di tutto per stemperare l’improvviso disagio che si era venuto a creare a causa di quel litigio.
«Ho aspettato abbastanza» le rispose lei scoccando un’occhiata di sottecchi a Ethan. Allora Leona tornò a guardare il folletto e notò qualcosa che prima le era sfuggito. Appeso fra le sue dita vi era un piccolo campanellino dorato. L’omino corpulento dalle orecchie a punta ghignò fra i baffi ricurvi e sporse il braccino lontano dal suo corpo grassoccio lasciando penzolare l’oggetto in balia del vuoto. Leona, a quel punto, ricordò ogni cosa.
Eros liquido.
La protettrice si maledisse per non aver previsto un colpo basso del genere da parte di quella megera volpina, ma ormai era troppo tardi.
«Cazzo no! non di nuovo…» si lagnò disperata.
«Avete sentito tutti!» esclamò il gemello «ha detto una parolaccia!» disse tracotante di orgoglio.
«Che cosa sta succedendo?» le chiese preoccupato Fabiano. Ormai non aveva più senso dargli spiegazioni. Il folletto aveva già agitato il suo piccolo strumento in un trillino metallico fragoroso. Lo scampanellio echeggiò nella sala e per un attimo il chiacchiericcio degli invitati si placò.
Poi fu il caos.                       
Il suono della campana risvegliò i loro sensi sopiti e spalancò le porte delle loro sepolte sensualità latenti. Leona sapeva come ci si sentiva: come un neonato che si affaccia al mondo per la prima volta. I primi effetti si riversarono nelle fate che volteggiavano in pista. I loro balli ebbero un crescendo, si fecero sempre più frenetici, i loro corpi si attraevano a vicenda avvicinandosi sempre di più gli uni agli altri. Non c’era più pudore, né vergogna, si facevano guidare da un puro e inviolato desiderio di avvinghiarsi ed amoreggiare fra loro, a coppie di due o tre anche per i più audaci. E fu un trionfo di mani danzanti sulla pelle nuda e di bocche che si mescolavano fra loro per assaggiarsi. Con orrore Leona si accorse che anche la sua squadra era preda dell’ebrezza della pozione d’amore. Non sapeva dove posare lo sguardo senza farsi cogliere di sorpresa dalla sua pudica timidezza e dall’imbarazzo. Al contrario di quello che molti pensavano, Leona non era mai stata toccata da un ragazzo, almeno non con l’intenzione di andare oltre qualche candido bacio.
Le sue viscere fremettero alla vista di suo fratello Gabriel e la sua migliore amica Morgana spalmati sulla tavola apparecchiata mentre lui baciava il collo di lei costringendola ad aderire al suo corpo, schiacciandola con il proprio peso. Lei gemette per quel tocco appassionato e affondò le dita nei riccioli di lui guidandolo con uno strattone a guardarla negli occhi, poi senza pensarci due volte premette le sue labbra contro le sue. Leona sentiva che era tutto sbagliato, non era così che doveva andare, sapeva che questo avrebbe rovinato tutto. Aveva sempre sperato che un giorno i due si fossero finalmente accorti dei sentimenti che provavano l’uno per l’altra, ma non così, non in questo stato d’incoscienza e in balia dei loro irrefrenabili capricci, nascosti in profondità nel loro subconscio. Quello non era amore, era solo un inganno, un illusione. La pozione rimuoveva i freni inibitori della passione per un tempo limitato di alcune ore o anche minuti, dipendeva molto dalle quantità che si erano ingerite. Iris era stata molto furba nel diluire l’intruglio con il vino, poiché in quel modo anche una piccola dose avrebbe potuto ampliarne e prolungarne gli effetti.
Il festival dell’amore non si fermò lì, dando una breve sbirciata agli altri commensali, Leona vide che si erano formate altre coppie improbabili, come Fabrizio e Carlotta, o Ethan e Caterina, per non parlare di Norman ed Iris o Marlena ed Ascanio. Le venne spontaneo cercare lo sguardo dell’unico in quella sala a cui ancora non era stata strappata via la coscienza. Ma Fabiano non stava guardando lei come era prevedibile. Marlena aveva sciolto i lunghi capelli biondi sulle spalle e, sollevandosi la gonna del suo abito rosso, si mise cavalcioni su Ascanio che la attendeva trepidante a braccia aperte sulla sedia. Il ragazzo prese a baciare lentamente la spalla lattea della bionda strappandole via i veli che fungeva da spallina. Poi prendendole delicatamente il mento fra le dita le disse che l’amava e la baciò dimenticandosi del resto del mondo.
Leona si sentì in pena per Fabiano, costretto ad assistere al tradimento della sua ragazza proprio sotto i suoi occhi. Ma non scorse tristezza nella sua espressione, né gelosia, né rabbia, come sarebbe stato giusto. Lui piuttosto sorrise, calando le palpebre sulle sue gote.
Leona non capiva, le venne improvvisamente da vomitare, per la prima volta si sentì impotente e inutile di fronte a una tale fatalità che non faceva che allontanarli e distoglierli ancora di più dal loro obiettivo, senza contare il disastro, i cuori spezzati che la pozione si sarebbe lasciata dietro una volta terminato l’effetto…
«Finalmente sarete mia» le disse una voce suadente al suo orecchio. Una mano si era avvinghiata attorno al polso a cui era legato il nastro scarlatto. Leona non permetteva a nessuno di toccarlo, era fin troppo prezioso per lei. Si divincolò senza tanti problemi dal suo assalitore per poi scoprire la sua identità. Non restò meravigliata nel vedere il volto paonazzo di Kahel ferito dal suo rifiuto, in fondo era stato sincero, aveva palesato le sue intenzioni fin dall’inizio. Comunque la protettrice non riuscì a giustificarlo, non poteva che provare solamente profondo disgusto.
«Voi, voi non avete bevuto…» Leona non volle ascoltare altro e fuggì via dirigendosi nei giardini della regina. Era una vigliacca, ne era consapevole, ma non riusciva a pensare a una soluzione in mezzo a tutto quel trambusto di amoreggiamenti. Si tolse le scarpe e restò a piedi nudi sul prato brinato dalla rugiada e respirò l’intenso profumo di rose e primule. Quello le sembrò reale, e si godette la piacevole sensazione dei fili d’erba che le solleticavano la pianta del piede e la frescura del vento che s’infilava nelle pieghe del suo vestito. Poi sollevò il capo e rimase a osservare le tenebre compatte, nessun fuoco che spezzasse la densità delle nebbie che parevano disegnare i tipici gorgheggi vorticanti delle pennellate di Van Gogh, come se il pittore impressionista avesse conosciuto i cieli stellati di Sirio.
«Leona…» la chiamò quella voce che non aveva che reso quell’atmosfera ancora più perfetta. Non c’era alcun bisogno di aprire gli occhi. Aveva riconosciuto al tatto i solchi della sua mano contro la sua, come se ne conoscesse la forma a memoria. Sulle prime la strinse forte fra le sue dita per trarne vigore ma poi si costrinse a lasciarlo andare poiché temeva di non essere padrona di se stessa in quel momento.
Oh, per la barba di Mayak, se avesse voluto baciarlo…il desiderio era così forte da straziarle le viscere, come se stesse cadendo a pezzi. La protettrice avrebbe voluto credere che fosse dovuto all’effetto di quell’unica goccia di eros liquido che aveva assaggiato, ma non poteva mentire a se stessa. Era lei a volerlo, non c’era nulla a costringerla o a condizionare le sue emozioni.
«Voglio restare sola…» gli mentì. La ragazza se ne andò senza mai voltarsi. Se lo avesse fatto, avrebbe liberato le lacrime prigioniere all’interno di quella patina liquescente che le rivestiva i bulbi oculari. Ogni passo lontano da lui non faceva che strapparle la carne di dosso, come se stesse tendendo al limite il filo invisibile che univa le loro anime. Lei però proseguì dritto davanti a lei fino a che il chiasso della festa non divenne che un leggerissimo eco nelle sue orecchie. Si era addentrata oltre la boscaglia, un letto d’acqua sorgiva le scorreva accanto silenzioso. Si lasciò cadere vicino la riva, distrutta e priva di forze, stanca di trattenere le lacrime.
«Mamma, non sai quanto mi manchi. Come vorrei che fossi qui» sussurrò al fiume scintillante di lucciole.
«Ma io sono qui, bambina mia» le disse una donna. Leona se ne restò lì immobile godendosi le prime manifestazioni della sua follia che sembravano in grado di ricreare dai suoi ricordi la voce di sua madre. Spalancò gli occhi per verificare che l’illusione si fosse concretizzata alle sue spalle e ne rimase folgorata.
Annaspò, non poteva credere a ciò che vedeva.
Sua madre era davvero lì in carne ed ossa, coi lunghi cappelli neri uguali ai suoi e con il suo bellissimo e caldo sorriso che le fece battere il cuore. Ma la razionalità della protettrice era sempre vigile, così le aveva insegnato lo Zoologo, il suo maestro. Tutti i sentori le dicevano che quella lì era davvero sua madre e che avrebbe dovuto approfittare di quel regalo inaspettato e correre ad abbracciarla e a ricordarle quanto le volesse bene. Anche quella volta, però, avrebbe ascoltato quella vocina così aspra, crudele e realista, che lei stessa aveva denominato puroistinto. Quella vocina le disse una cosa soltanto: tua madre non c’è più, è morta. Fu così che riuscì a sfuggire agli inganni della sua mente labirintica che stavano per spingerla ancora una volta nel baratro di quel ricordo così doloroso legato a sua madre che non osava rievocare.
Leona notò il curioso rubino rosso sangue e la catena d’oro legata al collo di sua madre. Allora seppe che ciò che vedeva era una menzogna. Sua madre sembrò cogliere il turbamento della ragazza e si rattristò per la facilità con la quale l’aveva smascherata.
La regina delle fate si mostrò nella sua vera forma, restituendo la madre di Leona al mondo di ricordi felici che la protettrice conservava gelosamente nel suo cuore.

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Capitolo 46
*** LA PROVA DELLO SCRIGNO ***


CAPITOLO 32 – La prova dello scrigno

«Ma guardati, una così giovane e bella ragazza ridotta ad un abulico involucro privo di emozioni. Pensavo che una figura a te familiare ti avrebbe messa a tuo agio, invece non fai che ingrigire i tuoi occhi ricolmi di sfiducia e odio…» pigolò la sovrana bivaccandosi elegantemente su una roccia incavata a ridosso di una rupe. La luna che imperava sul cielo color malva offuscato da un corridoio di nebbia, gettò fievoli lame di luci argentate sulle sue guance. Il profumo resinoso di abeti risvegliò l’olfatto di Leona, portandola ad acuire tutti i suoi sensi.
«Non hai forse gradito rivedere tua madre?» le domandò mellifluamente. Leona dovette fare appello a tutta la sua buona volontà per non scoppiare in lacrime di fronte alla sovrana. Rivederla non aveva che risvegliato in lei l’antico ricordo che solo lei e Edward conoscevano. Delilah, delusa dal suo silenzio, la incalzò ancora «Io non sono tua nemica, ragazza. E’ bene che tu lo riconosca» l’avvertì.
Leona sorrise forzatamente «Perdonatemi non è nulla di personale, non concedo facilmente la fiducia al primo che incontro, va guadagnata. E finora non credo che siamo partite col piede giusto» articolò tributandole un’occhiata velatamente malevola.
«Non dovresti abusare così della tua audace sfrontatezza, sul tuo cammino non incontrerai facilmente persone incline alla pazienza come me, ed io di pazienza ne ho accumulata nei secoli…»
Nel guazzabuglio di emozioni che oscillavano come la spola di un pendolo fra l’istinto omicida e il razionale impeto di autoconservazione, Leona piantò gli occhi nelle sue pupille all’essenza di nocciola cosparse di pagliuzze dorate. «Io invece l’ho esaurita tutta…» sfuriò la protettrice acquattandosi ferinamente con il fiume e la foresta che stormivano alle sue spalle. La protettrice sembrò scalfire la sua maschera d’imperturbabilità.
«I miei amici in questo momento sono schiavi delle loro passioni a causa di quella stupida pozione…È questa l’accoglienza che riservate agli stranieri? Mettete fine a questa assurdità ve ne prego».
«Iris…» la regina rise col nome di sua figlia in bocca «L’effetto svanirà fra non molto, acquieta il tua animo, non li stiamo mica avvelenando? E poi non trovo nulla di male nel divertirsi un po’. Per come la vedo io, è un’occasione più unica che rara per ritrovare il coraggio di svelare i veri sentimenti celati nel cuore umano». Nel dirlo, il viso lunare della regina non permise a nessuna equivoca espressione di riaffiorare in superficie, proprio come l’astro notturno avrebbe mostrato soltanto una delle sue facce quella sera.
«Mi permetta di dissentire sua maestà» la sferzò Leona lanciando frecce affilate fra le fessure delle palpebre «la pozione ha effetto sui nostri più reconditi impulsi che ci distinguono dagli animali. Quello» disse indicando la festa in lontananza «potrà valere per voi. I nostri concetti di morale sono ben diversi l’uno dall’altro. Una volta che sarà finito, non tornerà tutto come era prima, ne rimarranno devastati. Se solo potessero dimenticare come è accaduto a me…»
«Con le quantità che hanno assunto credo sia impossibile. A proposito» rifletté la bella Delilah ravvivandosi la chioma dorata per poi accavallare le gambe nude sotto la veste bianca in una posa seducente «Come avete scoperto il trucco di mia figlia?».
«Semplice» sminuì Leona incrociando le braccia «né io né Fabiano abbiamo bevuto dalla coppa. E anche se lo avessi fatto, il mio metabolismo accelerato lo avrebbe consumato in fretta».
«Sembra proprio che tu ne abbia avuto un assaggio mia piccola medjai». Ovviamente le sue illazioni erano più che corrette, ma Leona non volle sondare in profondità quell’argomento.
«E che mi dici del figlio del Sire? Non sarebbe stato più semplice se avesse bevuto? Non sarebbe stato più accondiscendente nei tuoi confronti?»
«Ritengo che sua maestà si stia facendo un’idea sbagliata. Fabiano ed io siamo buoni amici e compagni di caccia, niente di più. E poi lui è stato promesso ad un’altra».
Delilah derise quel dettaglio per lei irrilevante. «Oh mia cara, so riconoscere lo sguardo di una ragazza innamorata quando lo vedo, lo sono stata anch’io in un tempo così lontano che mi rincrescere ammettere, non mi alletta il pensiero di essere diventata così vegliarda» esclamò tastandosi il giovane viso immacolato alla ricerca di rughe inesistenti.
«Non c’è spazio per cose frivole come l’amore quando il mio popolo soffre a causa sua, mia signora» l’accusò apertamente. Leona risuonò burbera alle sue stesse orecchie. Pensare a ciò che provava per Fabiano le faceva troppo male, a volte l’intensità dei suoi sentimenti la spaventava a morte. Con lei era tutto così: o tutto o niente, bianco o nero, non esistevano inframezzi o zone grigie. In quel momento però, credeva davvero alle sue parole. Non c’era nulla di più importante di portare a termine la sua missione. Il cuore che le pompava il sangue nelle vene irradiandosi dal suo petto, profuse un fiotto di determinazione ad ogni palpitazione.
«Suonano davvero tristi queste parole sulla tua bocca». Il sorriso della regina sfociò in un lugubre ghigno. Lasciò il suo giaciglio di rocce e si fece più vicina alla ragazza facendo danzare leggiadramente i suoi piedi snudati sull’erba «Avevo incaricato mio figlio di rivelarvi tutto riguardo alla questione protettori…Non ha portato a termine il suo compito?» si volle accertare svelando finalmente la sua espressione dubbiosa.
«Questione…» la motteggiò Leona con la sua lingua acuminata come quella di una spada «Che cosa credevate? Che avrei discolpato con tanta leggerezza i vostri crimini? Posso comprendere le ragioni che vi hanno spinta ad agire in quel modo, ma ciò non giustifica il risultato. Vi siete fatta abbacinare dai membri corrotti del mio popolo senza nemmeno cercare un’alternativa, senza nemmeno valutare la possibilità di rivolgervi a chi ancora crede nell’istituzione dei protettori e nel suo credo…».
«Non avevo molto tempo e poi non sono in cerca della vostra assoluzione, bambina. Io sono una regina, non mi piego di fronte a nessuno. Tu non sei il mio giudice…». Il ninnolo che portava al collo cominciò a brillare di una luce polverosa e rubiconda, calda come i raggi del sole, segno che la regina faceva fatica a smaltire la rabbia per l’offesa recatole.
Leona non ne fu intimorita, ma non era nemmeno tanto sciocca da sfidare la sorte. Perciò decise di fare un passo indietro, in fondo non conosceva ancora bene il potere del ciondolo…
«Lo avete fatto ancora…» le disse con voce querula.
Leona inarcò un sopracciglio. «Cosa?» le domandò sinceramente confusa dalla sua affermazione.
«Il ciondolo. Anche questo pomeriggio lo fissavate intensamente» disse portando le mani a coppa sul gioiello come a volerlo proteggere dalle occhiate invasive della ragazza.
«Sbaglio o non mi avete rivelato ancora la vera ragione per cui voi tutti vi siete intrufolati nelle mie terre? Vi avverto, nessuno dei vostri poteri a disposizione potrà portarmelo via, ne è immune».
Leona tacque di fronte a quell’accusa, limitando i respiri allo stretto indispensabile.
«Trovo che sia molto bello» lo esaltò con una scrollata di spalle «ma non è quello di cui ho bisogno per salvare il mio popolo».
«Salvare il tuo popolo? Gesto encomiabile bambina mia, ma non sapevi che l’incantesimo è irreversibile? Non esiste nessun…». D’improvviso Delilah parve ricordarsi qualcosa d’importante e portò ancora una volta le mani al ciondolo, cullandolo fra le sue dita.
«Chi ve ne ha parlato? In pochi conoscono la leggenda». Non era necessario dirlo ad alta voce, le due si erano intese tacitamente.
«Che importa. Si tratta davvero di una leggenda oppure esiste davvero?». La bella sovrana arricciò le labbra sferzandola con uno sguardo malizioso.
«Oh esiste eccome, ma temo sia irraggiungibile al momento. Chi vi ha informato del potere del ciondolo della luna di mia sorella, vi ha anche detto di quanti nel tentativo di recuperarlo hanno perso la vita?»
«Se servirà a guarire la mia gente, non temo la morte mia signora».
«E tu getteresti così la tua vita per coloro che ti hanno tradita e ripudiata?»
«Tutti meritano una seconda possibilità e poi c’è chi non ha avuto scelta». Leona si compiacque di aver fatto virare la discussione a suo favore. Era stufa dei ghiribizzi di quella donnina viziata troppo cresciuta e dell’ampollosità dei suoi giri di parole, tipici delle fate. Quelle dannate creature non arrivavano mai al dunque!
«E così sei venuta da me mettendo in pericolo te stessa e i tuoi compagni per aver prestato ascolto alla voce di un mito…».
«Come si dice? Chi non risica…» ci scherzò su la protettrice. Delilah si specchiò nel riflesso del fiume ammirando a lungo la sua figura bellissima e longilinea.
«Sarà oltremodo pericoloso ma non posso certo impedirtelo. Sia chiaro non mi pento di ciò che ho fatto per il mio popolo, lo rifarei ancora e ancora. Per certi versi noi due siamo simili…Dall’altro canto però vorrei poter rimediare almeno in parte alla mia colpa, forse così dormirò sonni più tranquilli…». Leona si fece sospettosa, non credeva di convincere così facilmente la sovrana.
«Oh, per le moire! Non vado fiera di aver abusato della magia nera, è come se mi sentissi sporca dentro…quei sortilegi ti macchiano a vita, a volte credo di sentire il sussurro dell’oscurità che mi reclama nel suo mare di tenebre» rabbrividì la regina. «Il padre del tuo Fabiano è stato fin troppo convincente e poi provavo un gran pena per lui… quell’uomo è stato spezzato dal dolore».
Leona schioccò la lingua infastidita dalla incomprensibile tenerezza che lesse negli occhi di Delilah «É un mostro, lui odia per il gusto di farlo…» sputò d’un fiato. Non avrebbe mai perdonato ciò che aveva fatto subire al figlio, non le importava nulla se la morte di Sara lo avesse reso folle, non poteva essere cambiato a tal punto da accanirsi in quel modo su chi gli voleva bene e quasi lo ammirava…Il marcio in quell’uomo era preesistente, era nato con lui, o Leona non si sarebbe mai spiegata tutta la crudeltà e la facilità con cui aveva venduto come carne da macello i suoi stessi fratelli protettori. Il fatto che avesse trovato appoggio nel consiglio, non era stata che una sfortunata coincidenza. Era lui a muovere le fila di tutto ne era certa…
La regina guardò la protettrice con severità «Ci sono cose che nemmeno il tuo bel Fabiano conosce di suo padre. Non lo giudicheresti con tanta asprezza altrimenti».
«Il problema sta proprio lì, mia signora. Io non tollero giustificare gli atti scellerati di quell’uomo. Non è sempre possibile discolpare i nostri peccati. A volte sono così pantagruelici da non poter sperare in nessuna forma di perdono o misericordia. Non è possibile compatire chiunque, bisogna anche assumersi la responsabilità ed avere la forza di scrutarsi nel profondo e ammettere di aver sbagliato senza tuffarsi alla ricerca di una possibile spiegazione che possa aver motivato quella determinata azione. Una volta che il vaso è rotto, è sì possibile raccoglierne i cocci e ricongiungerli fra di loro ma resteranno sempre le crepe a ricordarti ciò che gli è accaduto. Perciò non importa cosa possa averlo turbato. Si ha comunque una scelta: o imparare ad essere migliori guardando quelle fratture o sfruttare l’eco di quel dolore per legittimare il nostro odio e generare altro male, proprio come un serpente che si morde la coda». Leona non sapeva perché avesse detto quelle cose a Delilah. Forse era solo stanca di tutta l’ipocrisia di cui gli adulti si servivano come scudo contro cui fra rimbalzare i propri errori. Avrebbe voluto lasciarsi mollemente permeare dai rumori del bosco e non pensare più a nulla.
«Pare che fra voi e il Sire non corra buon sangue» postillò Delilah vagamente divertita.
Leona ritenne superfluo rispondere a quella provocazione, si vedeva da un miglio che la regina tenesse in serbo per sé qualche succulento pettegolezzo di cui la ragazza era all’oscuro. Delilah si fece scura in volto una volta soffermatasi sulla macchia violacea spalmata sul bell’abito da cerimonia. «La cosa non mi sorprende più di tanto» aggiunse facendo molleggiare al vento i suoi liscissimi capelli d’oro.
Allora la protettrice le scoccò un’occhiata perentoria, invitando la regina a spiegarsi più dettagliatamente circa la sua affermazione.
«Oh cielo!» esclamò portandosi una mano sulle labbra «Voi non lo sapete?».
«Cosa dovrei sapere?» chiese esacerbata al limite del possibile pur mantenendosi distaccata.
«I primogeniti del Sire…sono morti quando ancora erano in fasce. Sua moglie Barbara era una Portatrice, proprio come vostra madre. Ricordo ancora la cerimonia della benedizione, poveretti che destino crudele». Leona stentava a crederle, ma la donna davanti a lei le parve sinceramente afflitta, come se avesse vissuto quella perdita in prima persona, sulla sua pelle. Oltre ad essere una regina, era anche una madre. Non c’era alcun bisogno di dilungarsi oltre, la protettrice sapeva perché i gemelli di Tiziano non erano riusciti a sfuggire alle grinfie di quel terribile destino, e si sentì stringere il cuore.
Smise per un attimo di esserle ostile e si fermò a riflettere «Volete dire che la madre di Fabiano partorì dei medjai?». Delilah assottigliò lo sguardo, sfarfallando le lunghe ciglia sulle gote rosee, e annui solenne. Gli ingranaggi all’interno del cervello di Leona presero a frizionare fra loro, inceppandosi. Fabiano non gliene aveva mai parlato, perché glielo aveva tenuto nascosto? Leona rimase ad osservare sbigottita le lucciole che attorniavo la loro bella regina indorando di un’aura lucente  la sua figura eterea stagliata nella notte.
«Be’ ora capisco perché ci odia…me e mio fratello. Noi siamo sopravvissuti, è questa la nostra colpa» concluse la ragazza, angosciata per quelle due innocenti vite spezzate.
«Non tediarti per il passato mia cara, non c’è proprio nulla che tu possa fare, siamo entrambe impotenti, non abbiamo alcun potere sul tempo». 
«Avete ragione vostra maestà» disse sbrogliando i pugni lungo i fianchi «ma posso sempre intervenire sul futuro, so di poterlo fare» si sentì fiduciosa.
«Credi di essere pronta per il ciondolo della Luna? Di resistere al fascino del suo potere?»
«No, probabilmente andrà tutto a puttane» rise lei stessa della sua insolenza. «Non posso attendere il momento giusto, non mi è stato concesso questo lusso. Io ho il dovere di provarci».
«Perché proprio tu? Pensi di essere stata investita di un compito superiore da qualche entità divina per portare a termine tale impresa in qualità di medjai?»
«So che si potrebbe pensare che pecchi di presunzione, ma non è così. La vera domanda è: perché non io? Qualcuno deve pur farlo. Prima di essere una medjai sono una protettrice ed è in nome di quella fratellanza che nonostante tutto voglio ancora proteggerli, perché è questo quello  che facciamo».
«Ho conosciuto pochi cuori puri e sinceri come il tuo» proferì Delilah soavemente rigirandosi fra le dita gli alamari della sua mantellina «Ma nell’ombra, un leone ruggente di oscurità risiede in te, eppure tu sei riuscita a domarlo. Per quanto a lungo terrai a bada la tua sete? Se prima non l’affronterai, se prima non conoscerai la creatura tenebrosa che alberga in te, non potrai mai trovare te stessa». Leona non seppe replicare le parole profetiche che la regina le aveva rivolto. Un sentore, un pulsazione sorda dentro di lei, sapeva che le stava dicendo il vero ed ebbe paura di se stessa e del potenziale mostro in cui si sarebbe potuta trasformare.
«Allora» esordì la regina battendo le mani per riportare l’attenzione su di lei «prima di condurti nel nascondiglio del ciondolo, dovrai affrontare una piccola prova». Ancora un’altra? Leona aveva l’indigestione a forza di essere messa alla prova, prima o poi i suoi poveri nervi avrebbero ceduto.
Delilah sorrise e schioccò le dita proprio come suo figlio durante la festa. Appostati dietro i cespugli si nascondevano degli gnomi con dei capelli così rossi che facevano venire in mente la fiammata di un caminetto. Si fecero spazio fra la vegetazione trascinando con loro un tavolinetto dalle volte ogivali placcato in bronzo e uno scranno con l’imbottitura di vermiglio vellutato. La regina prese posto come prima spettatrice dello spettacolo mentre i suoi servi allestivano un piccolo banchetto privato  in giardino. In realtà oltre alla tovaglia ricamata con motivi broccati, non vi erano che due scrigni, uno d’oro, l’altro di semplice ottone, disposti dinanzi alle due uniche commensali che si soppesavano vicendevolmente da un capo all’altro del tavolo. Leona credette erroneamente che una fosse per lei, l’altra per la sovrana, ma quest’ultima non accennava a scollarsi dal suo comodo trono.
«Adesso dovrai scegliere lo scrigno giusto. Rifletti bene mia cara ragazza, perché avrai una sola possibilità. Uno contiene una ampolletta con qualche goccia del mio sangue e  ti darà il potere di risvegliare il Divoratore di Segreti che sta a guardia della stanza dove è ubicato il ciondolo. Senza di quello non potrai mai accedervi. L’altro, invece, è la custodia di uno dei più velenosi serpenti esistenti nel mio regno. Un solo morso e avrai i minuti contati. Non esiste alcun antidoto e non ci sarà nulla che tu possa fare».
Il sorriso che nacque sulle labbra della ragazza dai lunghi capelli neri volle ridicolizzare quell’improvvisata da quattro soldi. Perché tutti quelle castronerie e  raggiri infantili? Si annoiavano così tanto alla corte nelle fate? Leona si arrestò di fronte a lei e finse di riflettere a lungo per darle sue nervi. Se aveva tanta voglia di baloccarsi con la vita altrui le avrebbe reso pan per focaccia. Lo sguardo sparviero della donna che mal si addiceva al suo volto serafico si fece inquieto come quello di una puledra pronta a scalciare. Nessuna delle due aveva intenzione di spezzare quel nodo gordiano di silenzio inestricabile.
La monarca dall’aria ingrugnata si mostrò stizzita. «Ebbene!» esplose perdendo del tutto la sua peculiare leziosità. Tamburellò nervosamente le unghia sul bracciolo abbellito da motivi ieratici aspettandosi una reazione dall’impassibile statua interrata su quel piedistallo d’erba.
La voce della ragazza si fece tetra «Solo del sangue? Niente di più? Perché rischiare quando posso risparmiarmi la fatica e prendermi ciò che mi serve con la forza» dedusse mostrandosi delusa a quella possibilità. «Cosa m’impedisce di tagliarle la gola, ora, seduta stante e fare riversare il suo sangue reale su queste mani?». 
Delilah la assecondò «Non ti reputo così sciocca da commettere una tale e inutile avventatezza che si concluderebbe inevitabilmente con la tua morte e quella dei tuoi compagni. Nessuno verrebbe a reclamare i vostri corpi nelle mie terre. Ma la tua perplessità è lecita. In verità ho taciuto un piccolo particolare proprio per gustarmi la tua reazione» disse puntellando i gomiti affilati sulle ginocchia e adagiando il mento sulle nocche.
«Il sangue deve essere ceduto col mio consenso o non funzionerebbe in ogni caso» le rivelò mordicchiandosi le labbra. Un’ombra sinistra tracciò il profilo del viso dividendolo a metà.
Leona si era aspettata una qualche clausola occultata accuratamente per indurla in errore, ma lei sapeva mutarsi all’occorrenza in una fredda calcolatrice ed era stata con quella provocazione che aveva costretto la regina a svelarle di più sul quel bizzarro gioco di scrigni. Un gioco che lei probabilmente avrebbe perso se non avesse avuto quell’informazione scritta frettolosamente con quella calligrafia bislacca su un fogliettino di carta spiegazzato dai numerosi tentativi di rimpicciolirlo.
Il bigliettino di Noah riportava una sola e semplice parola: oro, il più nobile fra i metalli. L’enigma era risolto, aveva vinto così facilmente che le parve fin troppo sospetto. La protettrice prese un bel respiro e si concedette il tempo necessario per compiere quella scelta difficile. Le prudevano le mani e una strana sensazione di  irrequietezza sgusciò fuori dal turbinio dei suoi pensieri contorti. Fidarsi ciecamente di uno sconosciuto non era di certo una delle mosse migliori per una paranoica patologica come lei. Le sue paure riguardo all’identità del viaggiatore del tempo la frenarono dall’aprire lo scrigno da lui consigliato. Perché Noah era così sicuro che Leona avrebbe scelto l’altro? Cosa avrebbe fatto senza il suo aiuto? Quale ragionamento infine l’avrebbe spinta a commettere l’errore che le sarebbe costata la vita? Leona guardò entrambi gli scrigni e ci rimuginò sopra. L’ampolletta contente il sangue di Delilah era un oggetto fin troppo indispensabile, e proprio per la sua preziosità era anche facilmente associabile ad un metallo altrettanto pregiato: l’oro. Ma cosa le diceva che non fosse tutto un raggiro di psicologia inversa?  No, non avrebbe aperto quello d’oro, sarebbe stato troppo scontato, aveva tutta l’aria di essere stato architettato appositamente per farla sbagliare. Alla fine avrebbe scelto l’ottone senza alcuna ombra di dubbio. Non aveva diffidato della sua predizione ma non poteva fidarsi di quel ragazzo, non era da lei eseguire un ordine senza farsi domande. Non poteva permettersi alcun margine d’errore. Allungò il braccio con calma studiata verso la sua scelta, combattendo la recalcitrante voglia di farla subito finita. Lo gnomo grassottello con il collo sepolto da una fisarmonica di menti le offrì la chiave d’ottone osservandola a malapena sotto quella foresta grigia di sopracciglia. I suoi occhi di un azzurro slavato erano passivamente fissati su di lei. Inserì la chiave nella serratura e un gelo crudele le fece accapponare la pelle.
Leona in genere riusciva ad entrare in sintonia con quasi tutti gli animali, ma i serpenti costituivano un’eccezione. Non aveva mai compreso il loro linguaggio criptico. Era una delle poche creature capace di farla tremare di paura. La ragazza non poteva fare a meno di farsi indebolire da quella fobia tipicamente umana, sebbene cosciente di quanto irrazionale fosse. Nessun problema con le bestie feroci quali puma, orsi, o perché no, un lupo mannaro o ancora addirittura una mostruosità marina come Nessie…quei rettili, però, erano tutt’altra storia.
Deglutì sforzandosi di apparire sicura di fronte alla regina aggrappata con forza ai braccioli della sedia col busto lontano dallo schienale e le dita dei piedi affogate nel terriccio.
Senza che si fosse appellata al suo istinto, Leona esitò. Per qualche assurdo motivo le tornò in mente l’incontro con Noah e indugiò sul ricordo della sua voce calda e preoccupata per la sua sorte, come se non ci fosse niente che contasse di più per lui.
Noah non era un ragazzo qualsiasi, quelle emozioni scaturite da quel semplice tocco erano state così intense e reali che non aveva dubitato nemmeno per un secondo della loro autenticità. La chiave le sfuggì di mano e cadde con un tonfo insonoro in quel tappeto verde sfilacciato da fili d’erba.
«Datemi la chiave d’oro» si decise infine. Leona non vide chi le avesse consegnato l’oggetto che pareva pesarle come un macigno nonostante le piccole dimensioni. Ruotò la chiave  e spinse il coperchio aspettandosi il viscido sibilo di un serpente.
Ma non accadde nulla.  Leona riaprì gli occhi, sbriciando cauta i volti inespressivi di chi la circondava, compreso quello disilluso della regina, e l’umile ampolletta che era adagiata su un soffice cuscino di crinolino. L’elisir color cobalto, raccolto dalle vene della fata, si adattava  al ventre rigonfio del vasetto di vetro risalendo lungo il collo stretto terminante con un semplice tappo di sughero. La protettrice fu grata per la lunghezza del vestito che aveva nascosto il pietoso tremolio delle sue ginocchia.
«Molto bene» si congratulò Delilah «il premio è tutto tuo giovane medjai». Il sorriso smielato che le mostrò le fece venire le carie ai denti.
«Ma…posso chiederti perché hai cambiato idea?» insistette.
«Puro istinto» si limitò a risponderle Leona. La spiegazione non soddisfò a pieno le curiosità di Delilah, anzi presero a frullarle ancora più domande di prima.
«E questo ha avuto altro scopo se non allegrare la vostra serata tediosa?» le domandò stavolta la protettrice. La regina ponderò avvedutamente la replica da rifilare a Leona, storcendo le rosee labbra nella forma di un cuore.
«Non posso nasconderti di essermi divertita» ammise afferrando l’ampolla dal suo cofanetto. Delilah si espose alla luce denudante della luna e Leona la trovò ingiustamente bella quando le consegnò il suo meritato premio. Poi, appropriandosi di un’inopportuna familiarità che la protettrice non le aveva ancora concesso, le sfiorò il viso così delicatamente da fare invidia alla leggerezza del battito di una farfalla e le disse sottovoce «volevo sapere quanto quel ciondolo fosse importante per te». Nel suo sguardo Leona lesse che aveva interpretato molto di più di quello che lei aveva disperatamente cercato di tacerle. Qualunque cosa avesse rubato dai suoi pensieri segreti, la regina decise i tenerli in custodia per sé. Tutto ciò che le disse fu «Un patto è un patto». E la regina ordinò alle nebbie  di avvallarsi in riva al fiume permettendole di abbracciarla fra le sue spirali incorporee. Sbuffi lattescenti punteggiati di diamanti le volteggiarono tutt’attorno per andarsi a depositare nello spazio che le divideva, strascicandosi in volute capricciose. Serpeggiarono svogliatamente fino a formare un cerchio perfetto, all’interno nel quale uno specchio tremolante rifletté per un attimo il profilo della protettrice. Il riverbero durò poco, e il riflesso della ragazza si opacizzò, increspando la sua immagine come se qualcuno avesse voluto cancellarla da quella superficie cristallina. La ragazza osservò quell’insolito fenomeno magico più attentamente, aspettando che il turbamento che aveva raggrinzito lo specchio passasse. Quando la bruma fatata si diramò, Leona avanzò sporgendosi in avanti per toccare il quadro nitido racchiuso all’interno della circonferenza, incorniciato da quella caligine lucente. Al di là di quello che pareva un dipinto, vi scorse un paesaggio completamente differente rispetto all’ormai familiare rigogliosa giungla viva e verdeggiante  del regno delle fate. Un altopiano sassoso, scosceso e ricoperto di sterpaglia ingiallita e bruciata dai cocenti e impietosi raggi del sole caratterizzava quel terreno arido, brullo e deserto. In fondo alla collina, per lo più spoglia e priva di verde o tracce di vita umana, si andava delineando all’orizzonte i contorni di una vecchia tenuta fatiscente e abbandonata.
«Ma come…?» si stupì Leona.
«A cosa credessi servisse la polvere di fata?» le domandò carica di un tono volutamente retorico la regina. Quello che aveva davanti a lei era un portale. La protettrice non ne aveva mai visto uno, ne aveva solo sentito parlare in qualche vecchia storia dimenticata sulle leggende delle fate. Era così che viaggiano i fatui, si ritrovò a cavillare colta da quell’epifania più che prevedibile.
«Lo troverai lì, il ciondolo» le spiegò «in quell’orrenda casa che ha tutta l’aria di cadere a pezzi da un momento all’altro. Ovviamente si tratta solo di un’illusione per scoraggiare le bravate di qualche teppistello umano, non è quello il suo vero volto».
Non poteva credere che per tutti quei secoli quel reperto dal valore inestimabile fosse stato proprio sotto il loro naso, nel mondo degli umani, lì alla portata di chiunque. In effetti qualunque cosa fosse davvero quell’ammasso di legna da ardere e instabili fondamenta, era ben camuffata. Contro ogni aspettative, la protettrice trovò che fosse un ottimo nascondiglio, di certo la bella regina non mancava di arguzia. «Niente è come sembra ragazza, dovrai fare molta attenzione. Il percoso è pieno di insidie e tranelli, non potevo permettere che non fosse adeguatamente protetto. Non è consentito l’ingresso a nessun essere sovrannaturale, ovviamente. La barriera che la circonda è persino più impenetrabile delle vostra» si inorgoglì lei, essendone l’autrice.
Leona rimirò il portale con il rinnovato interesse di un audace esploratore di rovine e cultore di misteri. Proprio adesso che era così vicina, a un soffio, dall’ottenere ciò che desiderava, le mancò il coraggio, rendendosi conto di non voler affrontare il resto del viaggio da sola.
«Sua maestà…io» fece per dirle prima di essere interrotta dagli schiamazzi di un trio di guardie reali,  anticipato dallo stridio delle loro maglie di cotta che cozzavano contro l’armatura.
«Sua eccellenza!» urlò uno dei tre con urgenza, affaticato e imperlato di sudore «tradimento, tradimento!» aggiunse la fata dalle orecchie smussate col fiato mozzo.
«Generale Zolfus, cosa è accaduto?» chiese lei limpidamente turbata. Non sarebbe mai potuta rimanere indifferente di fronte a quella parola che tanto la sovrana temeva per gli orribili trascorsi con la sorella Frieda.
«La festa…» esalò prima di ossigenarsi i polmoni «si è appena trasformata in una esecuzione. Una dei protettori ha derubato la principessa Iris! Vostro figlio si è adirato e ha condannato a morte l’autrice del furto, ha ordinato la decapitazione immediata».
«Cosa? Chi?» si affrettò a domandare Leona. Ma nessuno la degnò di risposta.
Una rabbia divoratrice si appropriò del viso d’angelo della sovrana illuminato dai fasci di luce vermigli irradiati dal ciondolo del sole «Voi…» sibilò basita, puntandole il lungo dito affusolato contro «Confiscatele l’ampolla e prendetela!» ordinò in preda ad un vortice di furie e sgomento. La protettrice, intontita e demoralizzata, non ebbe la possibilità di difendersi e lasciò che le guardie le portassero via la sua tanto ambita ricompensa.
«Conducetela alla sala da ballo, voglio che assista al processo e che dia una valida spiegazione a questo affronto! Siete venuti in casa mia a violare le sacre leggi del popolo fatato. Non resterete impuniti, nessuno di voi!» li minacciò sgolandosi come una cornacchia.
Leona però non aveva prestato attenzione alle feroci intimidazioni della regina della fate. Costretta in una morsa di preoccupazione asfissiante che non le dava tregua, voleva soltanto  scoprire perché, ancora una volta, la talpa che si nascondeva fra di loro stava tentando di ucciderli, uno per uno.

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Capitolo 47
*** IO NON TEMO LE FIAMME ***


Capitolo 33 – Io non temo le fiamme

 Il tempo dei balli era terminato e con esso anche quelle oscene effusioni d’un falso sogno d’amore. Gli strumenti non arpeggiavano più, la marea di chiacchiere borbottate di orecchio in orecchio si era placata, perfino il frinire delle cicale non avrebbe potuto spezzare quel silenzio sepolcrale. Gli avanzi della cena giacevano a terra in un mare di briciole e condimenti,  frammisti a cocci di vetri e porcellana frantumati. Gli effluvi allettanti della portata principale, la testa di cinghiale in crosta di miele e salvia ancora intatta sul vassoio,  effondevano una foschia speziata in tutto l’ambiente, ignari di aver perso la loro attrattività. E tutto era immoto, come in un lussuoso giardino di statue. Fate di razze diverse, mezze nude e con i capelli scarmigliati, si erano accalcate timorose e con volti cinerei a ridosso della scalinata che portava agli alloggi reali. Parevano insolitamente avvezzi ai continui capricci del figlio della reggente fatata dai capelli d’oro, sapevano esattamente quando era il momento di mettersi da parte e lasciare inesorabilmente che la sua tempestosa sfuriata si acquietasse. Non si erano mossi di un millimetro nemmeno quando la loro rispettabile sovrana aveva fatto il suo ingresso, seguita da una parata di Curatores Noctis. Le guardie della regina nelle loro panoplie sfavillanti avevano sfoderato le armi e sbarravano, solerti agli ordini del loro signore, tutte le uscite della sala. Iris affiancava il fratellastro, proteggendosi alla sua ombra, e restandosene fuori dalla portata del suo sguardo adirato e aguzzo come le lance dei suoi soldati. Stretto dentro il suo pugno luccicò una catenella d’oro.
Leona si chiese come diavolo le fosse venuto in mente di coinvolgere nel suo piano quell’accozzaglia di bambinetti immaturi. Comunque non si sarebbe mai aspettata che fra loro si nascondesse uno stramaledettissimo cleptomane. Carlotta interruppe quell’apparente tregua silenziosa con i suoi gemiti sommessi, la ragazza non faceva che piangere da quando aveva varcato la soglia del regno, era davvero troppo soprattutto per una protettrice, le dava tremendamente sui nervi. Sta volta però era diverso, notò Leona scortata con la forza da due fatui alati. I suoi occhi non facevano che zampillare di lacrime narrando un indicibile strazio. Non si meravigliò di trovare un cappio all’esile collo della sua acerrima nemica. Certo, non poteva che essere stata lei, pensò la ragazza. Ma perché rischiare la pelle per un insulso gioiello? Non era da Marlena, questo glielo doveva concedere. Stesa sulle ginocchia, avvolte dal tessuto cremisi e vellutato del suo vestito, si erse con sguardo fiero e spavaldo, la crocchia disfatta e le labbra arrosate dai baci. Il resto della squadra se ne stava in disparte alla sua destra, sotto continua minaccia delle spade affilate delle guardie. Avevano tutti quell’aria stralunata di chi si era appena risvegliato da un lungo sonno ed era alla disperata ricerca di una tazza di caffè fumante. Ad eccezione di Fabrizio. Il protettore era semi dormiente sul tavolo, privo di occhiali, ingarbugliato in un corredo di tovaglie ricamate mentre sussurrava parole dolci agli orifizi di un pollo arrosto. Leona avrebbe riso se la situazione non fosse stata tremendamente tragica. Soltanto Fabiano si era riuscito a creare un varco all’interno di quel cerchio di cavalieri dalle ali variopinte, in piedi davanti a lei. Le sue intenzioni erano palesi e assolutamente apprezzabili, ma la protettrice detestava il suo spirito eroico, soprattutto se significava mettere a repentaglio la sua stessa vita.
Sta proteggendo la sua fidanzata, è giusto così, si disse laconicamente Leona. Non accettava comunque il fatto che le lance fossero puntate su di lui e non sulla vera colpevole del furto.
Leona strattonò via i polsi con rabbia dalla presa delle guardie che l’aveva tenuta in ostaggio e tentò di avvicinarsi a Kahel per implorargli pietà, ancora una volta. La regina però la prese per la spalla affondandole le unghia nella pelle. Fabiano si accorse di lei ma si godette i suoi tempestosi occhi azzurri per pochissimo. Aveva lasciato la giacca da qualche parte ed era rimasto soltanto con la camicia appena sbottonata sul petto e gli orli arricciati sui gomiti. I suoi capelli castani erano ingarbugliati dal vento mentre alcune ciocche gli rimanevano incollate sulla fronte madida di perle di sudore.
«Oh madre, siete giunta giusto in tempo per l’esecuzione» esordì Kahel rivolgendole un mezzo inchino col capo. «Ve l’avevo detto che non ci si poteva fidare dei protettori, non sono altro che dei luridi ladruncoli. Disprezzare così l’ospitalità delle fate» disapprovò il principe mostrandole il tesoro della sorella. La regina avanzò verso i suoi figli e si fece consegnare il gioiello, un semplice cimelio tipico della stirpe reale, senza mollare la presa su Leona. La stella a sette punte indorò le mani della regina che osservava il prezioso oggetto tramandato a sua figlia, lasciando che ruotasse nel vuoto.
«Tu ne sapevi qualcosa?» domandò schietta a Leona. Ignorò il dolore alla spalla e le rispose senza pensarci «No, con tutto il rispetto non saprei che farmene. Sapete benissimo perché sono qui». La regina inarcò un sopracciglio manifestando i suoi dubbi malgrado la sua dichiarazione più che sincera. Non poteva mentire nel regno delle fate.
«La protettrice, madre!» esclamò Iris indicando Marlena, nascosta da Fabiano «E’ stata lei, ma non vuole confessare! Si è introdotta in camera mia, deve essere punita!» si lagnò facendo le bizze come una bambina capricciosa con le nove code irte attorno a lei.
«E’ stata plagiata da una pixies, sua maestà». Gli accusatori si voltarono verso la arruffata chioma riccioluta della protettrice dalla pelle scura. Era scalza ed aveva un generoso spacco su un lato della cucitura dove prima non c’era. «Le hanno suggerito all’orecchio cosa fare, sapete quanto possono essere persuasive…» le ricordò Caterina. Ethan le acciuffò il braccio risaldando la morsa sulle dita per indurla a non intromettersi ulteriormente. La ragazza digrignò i denti per la frustrazione, risuonando più come un ringhio cupo e sottomesso.
«Le pixies sono suggeritrici, ammaliatrici, sanno bene come districarsi nell’arte della persuasione, ma non impongono nulla. Sono state le sue debolezze a rinfocolare quest’atto ignobile. Per di più non ha alcuna intenzione di parlare, né di scusarsi. La legge parla chiaro, il nostro quieto vivere e la nostra indole pacifica ci dissocia dagli ardenti desideri perversi che spingono gli umani a uccidersi fra loro o a rubare. La ragazza deve morire!» la condannò Kahel.
«No!» urlò per la prima volta Fabiano «Non potete farlo! Vi è stato reso ciò che è stato rubato, non c’è alcun motivo di ricorrere a tanto».
Kahel inasprì l’espressione al punto da diventare una maschera rugosa di solchi raggrinziti «Come osi dire al principe cosa deve fare? Questo è un oltraggio, esigo la sua testa!».
«Fate di me ciò che volete ma non toccate lei, lasciatela andare. Mi assumerò io le sue colpe» lo implorò veementemente.
«Avevate già il vostro garante ma non è in condizione intavolare negoziati per voi» disse facendo cenno al protettore che si faceva il bagno nella salsa in agrodolce con due foglie di lattuga sugli occhi. Norman e Gabriel avevano tentato in vano di farlo scendere dal tavolo e rimetterlo in piedi per farlo rinsavire. Gli effetti collaterali della pozione stavano degenerando ogni minuto che passava.
«Fatevi da parte e potremmo anche dimenticare la vostra scellerata insubordinazione ragazzo» gli propose la regina per trarlo in salvo dalla furia del figlio che la sferzò con un’occhiataccia.
Marlena gli ghermì l’orlo dei pantaloni «Fabiano, no…» tentò di convincerlo a desistere col suo debole mormorio. Ascanio si raggomitolò su se stesso con la testa fra le mani, imprecando silenziosamente per la sua inettitudine. Avrebbe dovuto prendere lui le difese di Marlena e non se lo sarebbe mai perdonato.
Fabiano si fece sordo alla preghiera della ragazza posta sotto accusa. Si piegò in ginocchio davanti a lei e le baciò la fronte. Poi continuò tornando a farle da scudo «Se volete Marlena, dovrete prendere anche me. Ma se le darete libertà mi arrenderò placidamente alle vostre mani e mi prenderò ciò che mi spetta. Sarò irremovibile nella mia decisione e non ve la lascerò senza combattere, la scelta sta a voi» si pronunciò con quel nefasto ultimatum. Per Leona fu come se avesse ingoiato veleno.
Kahel si mosse sul piede di guerra fronteggiando il protettore a quattrocchi e snudò il fioretto dal fodero facendo stridere il ferro dell’arma.
«Sarei felice di accontentarvi» lo minacciò il principe con quel sorrisetto baldanzoso che Leona avrebbe voluto cancellare a suon di pugni. Era pronta a scattare e a scatenare un inferno infuocato se solo avesse tentato di sfiorarlo con quell’insulso giocattolino che si ritrovava in mano. La regina percepì il calore emanato dalla protettrice a fior di pelle e mollò la presa scostandosi lontano da lei.
«Adesso basta Kahel, sii ragionevole figlio mio. Non è saggio mettersi contro un protettore ben addestrato e non voglio che venga versato sangue in un giorno importante come questo» lo rimproverò Delilah. Leona guardò la regina inorridita cercando di capire cosa le avesse potuto far cambiare idea così radicalmente da un momento all’altro, visto che prima al fiume non pareva particolarmente magnanima e ben disposta nei loro confronti. L’aveva forse intimorita percependo la furia che le montava dentro? La sua plateale contraddizione non aveva alcun fondamento, non aveva mostrato di temere il potere dei medjai, poiché fiduciosa dell’arma micidiale che le adornava il collo. Allora perché fermare Kahel? Le sue intenzioni erano davvero quelle di scongiurare un inutile spargimento di sangue? Leona era scettica. Nonostante avesse passato poche ore nel regno delle fate, aveva imparato in fretta che dietro ad ogni gesto caritatevole di un fatuo si nascondeva qualcosa di più, che si sarebbe pagata a caro prezzo. Eppure non vi era alcuna malizia abbozzata nel suo volto, i suoi occhi erano tristi e si posavano delicati su Fabiano come una carezza.
Kahel si sgonfiò sconfitto «Ma madre! Non possiamo ignorare un tale crimine, non possono farla franca così!  La legge dice…».
«La legge sono io, figliolo» lo zittì lei «e non verrà infranta, solo modificata per la particolare occasione. Metti via quella spada per favore, ti ho permesso di portarla con te come ornamento, non per sguainarla ai quattro venti, per le sacre Moire!». Il ragazzo rinfoderò il fioretto mormorando fra sé e sé parole in una lingua incomprensibile fatta di stridore di denti e sibili.
«Ciò non vuol dire che resterete impenitenti. Una punizione esemplare avrà luogo comunque poiché non lascerò che si pensi di poter ordire serenamente alle nostre spalle senza che ci siano conseguenze, nessuno dovrà ridicolizzare le nostre usanze o mettere in discussione le leggi del mio popolo. Trovo la bontà d’animo del ragazzo lodevole e per questo accoglieremo la sua preghiera. Risparmieremo la protettrice e lui in vece sua verrà castigato. Sarà tua premura scegliere la penitenza che riterrai più opportuna per lui».
L’eccitazione brillò negli occhi del principe che trovò la proposta della madre degna di nota. Ordinò alle guardie di lasciare andare Marlena con il solito fastidiosissimo schiocco di dita. La ragazza raccolse le sue vesti e fuggì via dal patibolo allestito per lei senza nemmeno rivolgere un segno di gratitudine al suo salvatore. Carlotta le corse incontro e le due si strinsero forte l’una all’altra, consolandosi a vicenda. Il principe interruppe la loro commovente riconciliazione con secchi colpi di tosse «Voglio che tu assista in prima fila ladruncola, voglio che tu veda con i tuoi occhi le sofferenze che tu stessa infliggerai al tuo amato protettore». Il principe s’interruppe ripensandoci su per un attimo e rise «oppure ne godrai e avrai la tua rivincita su di lui per il suo vile tradimento» disse cercando d’incrociare i grandi occhi blu di Leona. «Sappi comunque una cosa. Sei stata salvata dalla benevolenza della mia dolce madre dei fatui ma le terre sacre su cui ti è stato permesso di vagare esigeranno un prezzo da te e per il tuo peccato». Quell’insinuazione fece riversare un fiotto di lacrime silenziose sulle guance di Marlena e accucciò nuovamente la sua amica Carlotta fra le sue braccia.
Lacrime di coccodrillo, pensò Leona adirata con la bionda più che mai. La sua brace d’odio si estinse in fretta alla vista dello sguardo malevolo e perverso del principe Kahel su di lei.
«Fiammelle venite a me! E’ il legittimo erede al trono che ve lo ordina» impartì Kahel. Gli acuti scheggianti del principe fecero tremolare i capelli fiammeggianti delle fate. La ragazza che osservava sempre più attonita gli eventi frenetici di quella sera, le scovò raffazzonate in mezzo ad una calca mista di creature fatate di ogni genere. Una di loro, una fra le più belle fiammelle del regno, si fece avanti alle sorelle prostrandosi al suo cospetto.
«Sì, mio signore» lo adulò la donna barbecue, come l’aveva soprannominata nella sua mente Leona. Trovava detestabile la sua remissività.
«Mostratevi nella vostra vera forma e voglio che il ragazzo cammini sui carboni roventi» disse lui sogghignando.
«Sì, mio signore» ripeté ubbidiente facendo cenno a un gruppo delle sue sorelle. Le loro chiome arsero in uno scoppiettio crepitante. Quando raggiunsero il centro della sala, incendiarono i loro corpi in un'unica vampata e sparsero le loro ceneri fumanti sul pavimento. L’odore acre di carne bruciata si mescolò al profumo dei fiori che abbellivano la sala in un connubio dolciastro dalle note speziate. Il risultato costrinse la protettrice a trattenere il respiro. Poi come se un spirito si fosse impossessato di quel cumulo disordinato di granella nera, le ceneri si raggrumarono formando una passerella di cubi ardenti. Le onde di calore che si contorcevano da quel tappeto di carboni sfrigolarono nell’aria avvitandosi verso l’alto.
La regina arricciò le labbra in segno di disapprovazione, come se scoprisse per la prima volta di quanta crudeltà fosse capace il suo stesso figlio. Dall’altro canto però gli aveva lasciato carta bianca e non avrebbe potuto intervenire in alcun modo su una decisione già presa.
Kahel era impaziente, come se non vedesse l’ora di godere delle sofferenze del ragazzo. Fabiano ormai era in balia di quel sadico, non poteva più tirarsi indietro e nemmeno Leona sarebbe potuta intervenire senza peggiorare la situazione. Non c’era esitazione in lui, fu come se sapesse già ciò che andava fatto. Strascinò una delle sedie e sedette sul ciglio per slacciarsi le scarpe, senza che nessuno glielo avesse ordinato. Come poteva essere così impassibile?, si chiese Leona. Arrotolò gli orli del pantalone e avanzò verso quella pira di carboni. Lanciò una breve occhiata al principe aspettandosi che gli fosse accordato il permesso di cominciare. Le guardie si affollarono attorno a lui, anche se non gli aveva dato modo di sospettare di una possibile fuga. Leona avrebbe tanto voluto sfruttare il dominio del fuoco per rendergli quel supplizio più sopportabile ma non aveva alcuna influenza sul potere elementale delle fate. Il fuoco delle fiammelle era indomabile, così era scritto nella legge della natura. Prima di poggiare la pianta del piede su quel pavimento rovente, Fabiano ripeté qualcosa a bassa voce, forse il suo mantra personale, e fece il primo passo. Il principe era pronto a gustarsi le urla di dolore del ragazzo, ma non ottenne nient’altro che silenzio. Leona era a dir poco basita. Scrutò gli occhi del suo amico e ciò che vide la fece impazzire. Il suo sguardo vacuo, le diede puro terrore. Fabiano continuò a marciare indenne sui tizzoni infuocati sotto le urla di sorpresa di tutti i presenti comprese quelle di Kahel, deluso dalla calma del protettore. Non una strizzata d’occhi, non un gridolino o un respiro affannato, nessuno spasmo di dolore. Era come se il calore lo sfiorasse da lontano, come se non stesse affondando i piedi in quel magma ardente. Fabiano era immune alle sue scottature? No, si rispose da sola la protettrice. La verità era molto più orribile e cruda di quella a cui avrebbe voluto credere, non c’era nulla di straordinario o sovrannaturale. Fabiano era già stato battezzato nel fuoco, un indicibile numero di volte. Quella tortura non era nuova per lui, la conosceva molto bene. Lo poteva vedere nella sua camminata aggraziata e prudente. Tiziano lo aveva già preparato a questo e quella consapevolezza fece infuriare la protettrice al punto di volerlo morto, senza nemmeno concedergli la grazia di un ultimo desiderio. Quell’uomo meritava l’inferno.
Fabiano avrebbe potuto correre per evitare danni permanenti, ma non accennava alcuna fretta. Ogni passo era controllato, studiato e paziente all’esasperazione. Leona poteva sentire l’odore di pelle bruciata, avvertiva come quelle fiamme maledette gli lambissero la carne viva. Il cuore le stava sanguinando alla vista di quello strazio. Lei lo amava, non poteva sopportare ulteriormente quell’ingiusta punizione. Non aveva fatto nulla di male, si disse con un nodo alla gola. Perché doveva essere sempre lui a rimetterci? La cosa peggiore era che lui pensava di meritarlo…poteva leggere nei suoi occhi azzurri il compiacimento nell’espiare il suo peccato, mondato dalle fiamme.
Tiziano era davvero consapevole di ciò che aveva fatto al suo stesso figlio? La violenza fisica era nulla in confronto a come lo avesse spezzato nel profondo. Lo aveva assoggettato al punto da poter plasmare la sua mente a piacimento, modellando i suoi pensieri e intaccando la sua stessa morale. Leona non poteva che colpevolizzare se stessa. Dov’era stata lei? Come aveva potuto lasciarlo a quel mostro senza cuore che si ritrovava per padre? Tiziano poteva averlo reso forte, invincibile di fronte alle sofferenze, un guerriero irreprensibile sempre pronto a sacrificare le proprie emozioni, ma dov’era la sua umanità? Lo aveva annullato, aveva spento la luce abbagliate del suo sole interiore che anni a dietro l’aveva rinfrancata col tepore dei suoi raggi. Leona non aveva mai dimenticato cosa Fabiano aveva fatto per lei, di come l’avesse sempre tenuta lontana dalla sua oscurità. Fabiano non era soltanto un compagno di caccia, come aveva detto alla Regina. Leona si accarezzò il nastro rosso, con un affetto che racchiudeva in sé anni di ricordi, fra gioie e dolori. Nonostante suo padre, lui c’era sempre stato, l’aveva salvata da se stessa e dalla triste vendetta che rivendicava per la morte dei suoi genitori. Infatti la sua lontananza era stata sufficiente affinché lei avesse perso di vista i suoi insegnamenti e avesse ceduto così facilmente a quel contratto che le prometteva ciò che per tutti quegli anni aveva cercato di sopprimere. Suo fratello ne era vittima più di lei, schiavo della sua bramata vendetta. Insieme erano riusciti ad affievolire quel sentimento malato che adesso nel gemello era fuori controllo. Non li avrebbe mai dovuti lasciare, Gabriel e Fabiano erano la sua famiglia e lei li aveva abbandonati soltanto per appagare il suo orgoglio. Era una abile combattente, forse molto di più di quello che credeva, ma a cosa le era valso tutto questo?
Leona si ripromise che una cosa del genere non si sarebbe mai dovuta ripetere. Non importava come, aveva deciso che avrebbe riportato indietro il suo Fabiano, avrebbe usato la forza se fosse stato necessario, avrebbe sfruttato qualunque mezzo per far riaffiorare in lui le sue emozioni, la sua vera e ben sepolta essenza. Forse non l’avrebbe amata comunque, non l’avrebbe voluta più al suo fianco, non le importava. Se ne fosse valsa la pena, se fosse davvero riuscita a far riaffiorare la sua anima da quel manto di tenebre, avrebbe accettato qualsiasi cosa, persino spingerlo di nuovo nelle braccia di Marlena se era quello che lui voleva. Nessuno avrebbe più avuto controllo su di lui, sarebbe stato di nuovo libero.
Fabiano aveva portato a termine il suo martirio. Kahel era fuori di se. Il suo stesso patetico teatrino degli orrori, si era preso beffe di lui. La dignità di Fabiano con cui aveva affrontato la sua punizione era stato uno schiaffo morale e lo aveva ricoperto di umiliazione. Il principe sprizzò d’odio puro e si protese verso Fabiano come se non fosse ancora sazio dei suoi vili tentativi di nutrirsi del dolore altrui. Ma fu stroncato dall’occhiataccia furente che gli riservò la madre, stanca di assecondare ancora una volta i suoi capricci terrificanti. La regina intimò alle Fiammelle, con un solo gioco di sguardi, di farsi da parte senza ringraziarle del servizio reso.
Non appena Fabiano si lasciò quel rovo infuocato alla spalle, Gabriel fu subito da lui per sorreggerlo. L’amico si avvolse il suo braccio attorno al collo permettendogli di appoggiare tutto il peso su di lui. «Sei stato grande» gli sussurrò Gab, con sincera ammirazione mentre lo sollevava da terra per evitargli un ulteriore sfregamento delle ustioni col pavimento. Lo adagiò delicatamente su una sedia per farlo riposare con le gambe sospese. Il ragazzo si sdraiò sullo schienale, socchiudendo le palpebre improvvisamente pesanti. Gabriel si accigliò osservando attentamente le sue vesciche carbonizzate, ricoperte di pus e sangue. Represse un forte attacco di vomito alla vista delle ferite dell’amico. «E’ un gran bel casino» gli fece lui scherzandoci su. Leona si fece spazio sgomitando fra quella folla di guardie e li raggiunse inginocchiandosi accanto a suo fratello, col viso sconvolto dalla preoccupazione. Fabiano la vide e nonostante i dolori lancinanti delle ustioni le sorrise. «Sto bene» le bisbiglio fradicio di sudore.
«Non sei mai stato bravo a mentire» gli fece notare lei trattenendo la rabbia che le esplodeva dentro. «Sei un pessimo attore, anche più di Gab». Il diretto interessato roteò gli occhi spazientito.
I suoi piedi erano una catastrofe dovette ammettere Leona. Le ferite e le ustioni erano molto più gravi di quello che si era aspettata, i tessuti epiteliali erano carbonizzati e pieni di vescicole, non si sarebbero cicatrizzati con facilità. Avrebbe potuto curarlo come aveva fatto con Caterina, ma non conosceva l’esatta composizione del terreno di Sirio, essendo suolo tipicamente fatato. Non poteva rischiare di aggravare il suo stato, così disse «Queste flittene andranno medicate subito con lavanda, menta e aloe vera o potrebbero non cicatrizzarsi correttamente». La ragazza fece per alzarsi per procurarsi tutto l’occorrente ma Fabiano glielo impedì afferrandole il polso «Ti prego, non te ne andare» borbottò con un suono a malapena udibile. La sua presa attorno al polso era così debole che la ragazza fu colta da un moto irrefrenabile di tenerezza mentre il protettore scivolava via nell’oblio.
Gab lo schiaffeggiò prontamente per evitare che svenisse « Ehi! non è ancora il momento della siesta. Resta fra noi» lo minacciò.
«Portate le erbe che ha richiesto Leona, delle bende e dell’acqua gelida per curare la ferite del ragazzo» ordinò Delilah alle sue ancelle. Leona la ringraziò tacitamente.
«Che sia chiaro» starnò Kahel «non verrà messo a disposizione nessuno dei miei druidi!».
«Sta calmo fratellino» disse pacatamente Iris poggiandogli una mano sulla spalla «non ce ne sarà bisogno. Leona è un’abile guaritrice» ammise con stizza, arricciando le vibrisse. Kahel si liberò malamente del monito della sorella e marciò come una furia lontano da loro come un vecchio leone ferito. Gab inarcò un sopracciglio «Suscettibile il biondino» commentò. Poi si rivolse a Fabiano: «Andrà tutto bene, quella testa di rapa di mia sorella sa quello che fa, anche se detesto ammetterlo» lo rassicurò Gab. Cercò l’approvazione di Morgana, ma lei distolse lo sguardo facendo svanire nel nulla la loro intesa tanto sudata. Il fratello s’imbronciò sconfitto. Leona non aveva tempo di occuparsi delle loro diatribe amorose quando Fabiano aveva disperatamente bisogno delle sue cure.
Fabiano ebbe uno spasmo acuto che lo fece ripiegare su se stesso. Con ancora gli occhi chiusi, gli disse offrendogli i palmi all’insù «Ho voi due, non mi serve altro. So di essere al sicuro». 
Leona e Gabriel si sondarono reciprocamente gli sguardi e sorrisero prima di intrecciare le loro mani con quelle dell’amico.
«Bello così mi fai commuovere, non mi va di farmi vedere piagnucoloso o perderò il mio fascino!» lo stuzzicò. Fabiano provò a ridere ma gli uscirono solo una serie di rantoli tossicchianti.
«Ti darò una mano» si offrì inaspettatamente Ethan «Ho studiato anch’io le erbe mediche e avrai bisogno di estrarre gli oli essenziali dalla lavanda…». Lei e il protettore inglese restarono prigionieri di una ragnatela di sguardi, studiandosi a vicenda.  Leona aggrottò le sopracciglia, non le era sembrato che Ethan nutrisse una particolare simpatia per Fabiano ma non fece domande. Una mano esperta in più le avrebbe fatto certo comodo e aveva già apprezzato in passato la sua abilità con le erbe officinali. Così maneggiando con destrezza ed eleganza pestello e mortaio, Ethan si rese degno della sua reputazione. Lenirono le ferite del ragazzo col balsamo all’aloe vera e le bendarono accuratamente con candide garze sterili. La mestizia e la scrupolosità con cui  Ethan si era preso cura delle sue bruciature e i sorrisi un po’ storpiati dal dolore di Fabiano che gli rivolgeva di tanto in tanto, le fecero tornare in mente il dialogo che aveva avuto luogo in riva al lago delle ninfe. Quei due stavano nascondendo qualcosa, Leona ormai ne aveva l’assoluta certezza e nella sua mente stava prendendo piede un’idea, un po’ folle condita con un pizzico di assurdo. Eppure per quanto ci avesse provato, non poteva scacciarla via, poiché pian piano aveva messo radici profonde. Non poteva ignorare i segnali, anche se avrebbe voluto. Aveva paura di dirlo ad alta voce…Pensava di conoscere entrambi come le sue tasche, più specificatamente credeva di aver compreso a pieno le loro inclinazioni sessuali…ma sarebbe stato così strano se i due avessero provato qualcosa l’uno per l’altra? Magari quelle sensazioni erano così nuove per loro che non riuscivano a carpirne bene il significato, non avendole mai provate per nessuno prima d’ora. In effetti Fabiano non si era mai mostrato particolarmente incline a corteggiare il gentil sesso, ma Leona lo aveva scambiato per profondo rispetto ed educazione da parte sua, non aveva mai contemplato la possibilità che potesse esserci dell’altro. Dall’altra parte Ethan si era dichiarato quando erano prigionieri nella torre…e se lo avesse fatto per mascherare quella nuova nascente attrazione per Fabiano? Ciò avrebbe dato un spiegazione alla repulsione che Fabiano provava nel toccarla o nei baci particolarmente sofferti con Marlena…Quell’idea continuava a ripercussione a rosicchiarle la testa mentre terminava il bendaggio. Non aveva il coraggio d’incontrare i loro sguardi, sarebbe arrossita all’istante e l’avrebbero scoperta, come se i suoi pensieri stessero urlando a squarcia gola quella terribile rivelazione a cui non voleva dare credito per il suo stesso bene. Scosse la testa amareggiata e levò gli occhi al cielo, accigliandosi con aria incuriosita. Le nebbie si erano fatte più rade, morendo in sbuffi di vapore nella notte, proprio come poco prima quando la Regina le aveva mostrato il portale ma…Delilah non aveva mosso un solo dito. Ammesso che sapesse padroneggiarle con la sola forza del pensiero, le veniva difficile credere che si fosse impossessata della bruma magica dal momento che stava conferendo con un drappello di soldati reali. Eppure le nebbie si erano abbassate nettamente di quota e i suoi tentacoli si rimestavano giocosi tutt’intorno alla sala, sgusciando silenziosi fra gli invitati. Non le piaceva affatto, non le sembrava naturale anche se si trovava in suolo fatato. Il suo istinto le diceva che qualcosa non andava, anche se apparentemente le parevano innocue. Passò in rassegna con lo sguardo ogni angolo in cui le nebbie si erano infiltrate e le sembrò curioso come stessero lambendo Marlena e incombendo, quasi minacciose, alle sue spalle.
Prima che chiunque potesse gridare, qualcosa luccicò in mezzo alle nebbie e Leona sapeva che non si trattava  di polvere fatata. L’ammonimento le affiorò sulla bocca d’istinto «Vieni via di lì!». Lei era fatta così, proteggeva indistintamente a prescindere di chi si trattasse, anche se l’odiava.
Il bagliore si fece più intenso e per una frazione di un secondo l’accecò.
Marlena giaceva a terra con il volto stravolto dal terrore e gli occhi fissi sulla sua amica Carlotta che l’aveva spinta senza capirne il perché. In quel momento la bruna si era avvolta le mani sul collo come una sciarpa. Sorrise e il sangue prese a ruscellarle lento fra i denti, colandole oziosamente sul mento macchiandole di rosso cremisi il bell’abito giallo canarino, il suo colore preferito. Marlena urlò e una cascata scarlatta sgorgò fra le dita dell’amica precipitando sul marmo del pavimento. La lama gelida che le aveva squarciato la pelle e reciso di netto la gola si stava nutrendo del suo sangue come un vampiro assetato e reso folle dalla lunga astinenza. Gli occhi castani di Carlotta si rovesciarono nascondendosi dentro le palpebre e snudò il collo dall’amplesso delle sue mani e s’inginocchiò nella sua stessa pozza di sangue. La spada non era sazia come anche la mano che la guidava e si fece strada dentro il suo cuore facendole assaggiare il gelo dell’acciaio. La polla sanguinolenta attorno a lei si espanse, allontanandosi sempre più dal suo corpo come se le stesse risucchiando via la vita. La spada che le aveva trapassato il petto attese che il cuore della protettrice emettesse le sue ultime pulsazioni. Poi emerse dalle nebbie insieme al guerriero e alla sua armatura lucida e bronzea. Al suo fianco un’altra spada era custodita nel suo apposito fodero. Lo straniero era abile nell’arte della doppia spada, proprio come la medjai. Bardato con tutto quell’acciaio addosso, era impossibile scoprire la sua identità. L’elmo sulla testa lasciava un’unica finestra su due occhi celesti turbati dalla rabbia e da qualcosa che Leona non seppe definire quando le sue pupille nere come il carbone si espansero puntandosi su di lei come fari annebbianti. Estrasse la spada dal cuore della giovane protettrice e avanzò senza guardarsi indietro, pulendo il piatto della lama sull’avanbraccio con una non curanza sconcertante, come se non avesse appena spezzato una vita innocente. Il vortice alle sue spalle schiarì il biancore del banco di nebbie scintillanti di polvere di fata e mostrò un portale attraverso il quale si riversarono all’interno della sala da ballo un intero esercito di protettori corrotti. Gli abomini sfociarono fra gli invitati dello Scao Leadh come una diga rotta, i corpi irrigiditi dalla frenesia che antecede il massacro, artigliati come avvoltoi sulle loro armi affilate. Erano almeno un centinaio. Leona non si era resa conto fino a che punto quel male fosse dilagato fra la sua gente e ne rimase inorridita. Capì che il guerriero mascherato aveva il potere di tenerli a bada da come reclinavano il capo sul petto quando venivano inceneriti dal suo cipiglio funesto e impietoso. Obbedivano solo a lui. La regina rimase impietrita di fronte a quell’inaspettata invasione nel suo regno. Il portale funzionava a due sensi?, pensò la protettrice. Quale protezione poteva fornirle allora? Doveva essere stata una svista da parte sua, ogni tipo di magia, per quanto semplice o complessa richiedeva un sigillo, esattamente come un ‘marchio di fabbrica’. E se prima quando le aveva mostrato quella visione lo avesse lasciato aperto?
Marlena strisciò fino al corpo esanime di Carlotta. Vederla come la cullava fra le sue braccia, ricoprendosi del suo sangue, squarciò il cuore di Leona. Carlotta le aveva salvato la vita. Non sapeva cosa provare esattamente. Carlotta, insieme a Marlena e Lilia, le avevano reso la vita un inferno, ed era stata vittima a lungo delle loro cattiverie. Non ne trasse sollievo, ma nemmeno riuscì a struggersi per quella perdita. Era una sua sorella d’armi, l’avrebbe vendicata per il suo sacrificio ma non riuscì a concederle altro.  Un po’ si sentì in colpa, meschina, ma non poté non pensare a come avrebbe reagito se al posto di Carlotta ci fosse stata la sua Morgana…
Non ebbe molto tempo d’indugiare su quella possibilità. Quel tamburellio di tacchi sul pavimento la distolse dai suoi pensieri e tornò in allerta. Una donna dalla bellezza cupa, gotica e sinistra entrò per ultima nella sala, chiudendo con un gesto della mano il portale da cui lei e il suo plotone di Abomini, capitanati dal guerriero mascherato, l’avevano preceduta. I suoi lunghi capelli ondulati di un bizzarro blu elettrico svolazzarono attorno al suo viso deturpato da cicatrici come onde impetuose d’un mare agitato. I suoi occhi, di un viola intenso, s’incontrarono presto con quelli della regina e si strinsero esaltando ancor di più i solchi delle sue cicatrici, il prezzo da pagare per una fata che pronunciava la menzogna. La sua pelle bianca come quella di un cadavere, era nascosta da intricati ricami runici cuciti appositamente nel suo lungo abito nero come quella notte.  Fra le labbra dipinte di nero, sporgeva un canino aguzzo e argenteo. I suoi occhi viola si fermarono per un attimo sulla povera Carlotta e scosse la testa, fingendosi dispiaciuta. Poi tornarono nuovamente sulla regina ed eruppe in una fragorosa risata. Allargò le braccia in un gesto plateale ed esclamò a gran voce: «Salve sorella mia! Ti sono mancata?».
Leona non aveva mai visto la regina perdere il controllo della sua tanto vantata imperturbabilità. Digrignò i denti  e mormorò sibilando pianissimo il nome di sua sorella Frieda.

 
Angolo dell'autrice: Ciao a tutti lettori! Purtroppo come avrete notato ho completamente sballato i ritmi di pubblicazione che avevo regolarizzato nel periodo della quarantena. Purtroppo l'estate, il lavoro e gli impegni, m'impediscono di scrivere con regolarità, non per questo ho intenzione di abbandonare la storia. Spero che stia continuando a piacervi e che la seguirete fino alla fine. Auguro a tutti un buon proseguimento delle vacanze! 

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Capitolo 48
*** IL GUERRIERO MASCHERATO ***


Capitolo 34 – Il guerriero mascherato

Il sorriso argentato della fata dai capelli blu era uno spettacolo terrificante. I suoi canini affilati e lucenti davano i brividi, sembravano essere fatti per squarciare la carne viva a morsi. La ragnatela di cicatrici sulle sue guance smorte disegnava una mappa d’intricati disegni tracciati dalle lacrime. Un tempo doveva essere stata molto bella, avvenente tanto quanto la sorella, ma non vi era più alcuna traccia di quella antica beltà, cancellata dalle sue bugie. Sotto molti aspetti, la fata ricordava un essere angelico, un po’ per le ali, un po’ perché nelle credenze popolari i fatui vegliavano sugli umani accompagnandoli nelle loro scelte di vita. Ma non Frieda. La fata girò su se stessa facendo vorticare l’abito nero che si adattava al suo corpo, di una magrezza innaturale, come una seconda pelle. Un ciclone d’inchiostro su un fiume di rame fulgido e scarlatto. Il sangue di Carlotta.
La giravolta fece levitarle attorno lunghe ciocche sinuose color cobalto lasciando scoperta la schiena bianca e scheletrica su cui si potevano facilmente contare le vertebre. Sulle scapole ossute sporgevano due protuberanze in cancrena, simili ad arti amputati. Ciò che rimaneva delle sue ali, la sua identità di fata.
«Tutto questo è per me?» sussultò con un sospiro portandosi le mani dove avrebbe dovuto esserci il cuore. Leona non era certa che ne avesse uno. Il suono della sua voce era come unghie che stridono sulla superficie di una lavagna. Danzò leggiadra fino al tavolo più vicino e passò in rassegna i piatti più succulenti esposti sui vassoi. Strisciò il dito sulla testa di cinghiale glassato umettandosi i polpastrelli «Ti sei data da fare in questi ultimi secoli con le tue frivole celebrazioni. E’ dolce come il miele la vittoria non è così?» chiosò leccandosi la glassa. La succhiò rumorosamente dal suo dito come un lattante che si ciuccia il pollice e chiuse gli occhi godendosi gli aromi speziati.
«Come osi» sillabò furiosa la Regina con le labbra arricciate per la rabbia e i pugni stretti lungo i fianchi «farti vedere ancora al mio cospetto? Sei stata bandita dalle mie terre, che tu sia maledetta!» strillò cacciando fuori tutto l’ossigeno residuo nei suoi polmoni.
La risata vertiginosamente acuta di Frieda rimbombò nelle colonne che sorreggevano il vestibolo «Sta calma, sorellina o ti verranno le rughe sul tuo bel faccino, non hai più cent’anni» disse con una calma maliziosa.
«Pensavo che finalmente ti fossi decisa a invitarmi al tuo famoso Scao Leadh, dall’altra parte hai lasciato tu la porta aperta…».
Nel frattempo Kahel, attratto da tutto quel trambusto, si era fatto largo fra la folla «Madre cosa sta…»  il suo viso divenne una maschera di orrori. Si fece piccolo di fronte all’armata di abomini che troneggiava sulla famiglia reale e si fece pallido ancor più di un cencio alla vista del cadavere che Marlena teneva stretto a sé. Un bavaglio di sangue le correva lungo la mascella, gli occhi rubicondi e gonfi di lacrime e i capelli biondi chiazzati di rosso.
Lo sguardo affilato di Frieda si concentrò sul nuovo arrivato ed esclamò più che entusiasta «Il lussurioso Kahel» lo titolò con un ghigno beffardo «Il mio nipotino preferito! Che piacere rivederti, l’ultimo ricordo che ho di te risale a quando eri ancora un fagottino in fasce. Già allora eri una piccola peste che piegava tutti ad ogni suo capriccio». Quel tenero ricordò d’infanzia non ebbe alcun effetto su Kahel che invece s’irrigidì sputando a terra.
«Che cosa sei venuta a fare qui zia Frieda? Non sei più la benvenuta nelle terre di mia madre già da prima che nascessi, cosa ti fa pensare che adesso qualcosa sia cambiato». Il principe fece cenno alle guardie che si precipitarono attorno a lui e alla sua famiglia, pronti alla guerriglia.
«Ritira il tuo insulso esercito giocattolo di Abomini finché sei in tempo o non ti mostreremo alcuna pietà».
Frieda gli sorrise malignamente «Sei stato modellato da tua madre come creta fra le sue mani, non mi sorprende vederti abbaiare al suo fianco come un innocuo cucciolo di ogre. La vita viziata di corte ti ha reso debole, persino le tue intimidazioni risuonano insulse come la pasta di cui sei fatto. Devi aver preso da quel adultero di tuo padre…».
«Non ti permetto di parlare di lui in mia presenza!» replicò il principe.
«Mi sbagliavo assomigli molto di più al re fantoccio di quanto pensassi. Non vedi la realtà dei fatti, nemmeno tua madre ha proferito alcuna parola in sua difesa». Poi si rivolse nuovamente a Delilah «Mi chiedo ancora come tu abbia potuto cedere così facilmente a un matrimonio diplomatico, sorella, soltanto per infilarvi in letti altrui fuorché fra le vostre lenzuola nunziali. La mia cara, bellissima, sorella, prigioniera di un matrimonio senz’amore, ah! Che delizia. Proprio tu che fin dalla giovinezza sognavi il vero amore, fra le braccia del nostro Mordred».
A quel nome la regina parve afflosciarsi, perdere gradualmente le forze come se gliele stesse risucchiando via. «Mordred era solo un bastardo» sfuriò con asprezza.
«Oh, senz’altro» concordò la sorella «Ma tu l’amavi, tanto quanto lo amavo io. Non riesco ancora a perdonarlo per aver distrutto il nostro rapporto, ma non mi pentirò mai di averlo sedotto alla vigilia della vostra sacra unione…Non capisci, non potevo lasciare che tu donassi il tuo immenso potere per vivere accanto a un semplice umano». A Leona non suonava nuovo quel nome, era quasi certa di averlo sentito prima di allora. Ricordò un lontano pomeriggio trascorso fra i mille scaffali polverosi della biblioteca del castello insieme a Fabrizio. Si rifugiò in quell’angolo di pace alla ricerca di quel particolare che le aveva stuzzicato la memoria, isolandosi per un momento da quella sala di sangue e orrori. Fabrizio conosceva molte leggende che avevano come protagoniste le fate e lei amava ascoltare le sue storie, sussurrate fra torri di libri. Poi alla fine mise a fuoco e collocò quel nome alla sua fiaba e seppe perché quell’ uomo fosse stato cancellato dagli annali. Un eroe che aveva sacrificato ogni cosa, persino l’amore, in favore dell’immortalità. Relegato solo come una stupida leggenda che poco aveva di veritiero, le vicende di Mordred, il guerriero che si era trasformato nel primo vampiro mai esistito, erano sopravvissute sulla bocca di pochi cantori che avevano continuato a tramandarle di generazione in generazione fino a diventare poco più che una superstizione nell’epoca odierna. Si diceva che Mordred fosse un uomo che si era distinto per le sue abilità di soldato, bello e affascinante, vissuto in un’era assai lontana collocata fra il cinquanta e il sessanta a.C. La regina Delilah si era invaghita del giovane tanto da volersi unire a lui in matrimonio e farne il suo re. Una regina delle fate che dona il suo cuore ad un umano è destinata a condividere con lui la sua stessa vita in pegno del suo amore per lui. Ciò valeva a dire che avrebbe rinunciato a metà degli anni che le restavano da vivere per rendere il suo compagno simile a lei. Ma non era l’unica che riservava delle mire sul bel guerriero. La leggenda narrava che anche la sorella oscura di Delilah fosse innamorata di Mordred, tanto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per averlo al suo fianco. Così lo sedusse promettendogli il potere lusinghiero dell’immortalità, e per un lungo periodo, all’insaputa di Delilah, il guerriero si crogiolò fra le braccia delle due fate. Il segreto, spifferato da colui che poi sarebbe diventato il re consorte del regno delle fate, malauguratamente per i due amanti ebbe vita breve, e attirò su di loro la terribile vendetta della allora futura regina. Delilah rubò il ciondolo del sole dal tempio prima della sua incoronazione ufficiale per poter sfruttare il suo potere e coglierli in flagrante smascherando davanti a tutto il popolo fatato il loro amore proibito alla vigilia del suo matrimonio. Quando Mordred e Frieda la notte prima della cerimonia si incontrarono nella tenda nunziale, non potevano sapere che dietro l’innocente viso dell’ancella che in quel momento prestava servizio si nascondeva la gongolante Delilah, trasformata dall’incantesimo del ciondolo del sole. Proprio mentre i due si apprestavano a compiere il rito di trasfusione del potere che consisteva nel bere il sangue di una fata ancestrale, Delilah  si manifestò nella sua vera forma poco prima che il rituale fosse completato. Frieda negò fino all’ultimo la sua colpevolezza ma i suoi futili tentativi di scarcerarsi dalle sue menzogne non le fecero che farle guadagnare le cicatrici che adesso le tratteggiavano i contorni del viso. L’ira di Delilah sfociata dalla sua anima brutalmente ferita da quel doppio tradimento, si riversò furente su entrambi: la sorella fu deglassata dal suo ruolo di principessa delle fate, privata delle sue ali e di ogni diritto che vantava sul ciondolo della luna, mentre Mordred conquistò sì la sua agognata immortalità ma non esattamente nel modo che lui desiderava. Grazie al sangue di Frieda, Mordred acquisì anche tutti i poteri vampirici: forza, velocità, invulnerabilità. Ma Delilah lo maledisse e lo rese schiavo del richiamo del sangue, rendendolo la sua unica fonte di nutrimento per sopravvivere e…
Leona fece ritornò dal dedalo dei suoi pensieri. Come faceva a conoscere tutte quelle informazioni così dettagliate? Non ricordava che Fabrizio si fosse dilungato tanto sull’argomento, non avrebbe potuto sapere in modo così specifico il susseguirsi di quegli eventi accaduti più di duemila anni fa a meno che…
Leona si rese conto di essersi immersa così profondamente nelle vie intricate della sua memoria, al punto da aver attinto inconsapevolmente ai reperti atavici dei suoi antenati. L’effetto osmosi si era messo in circolo e le scorreva nelle vene infondendole il suo misterioso potere, il prezioso potere della conoscenza. La ragazza ebbe paura di come avesse perso il controllo della sua mente nel bel mezzo di una lite fra fate isteriche…Strinse i denti affondandoli nella lingua e ricacciò indietro il sapore metallico del suo stesso sangue. Riacquistò coscienza di sé e l’effetto osmosi si dissipò lentamente lasciandole un vuoto nello stomaco, un gelo dietro la nuca per la sua assenza. Mentre faceva a pugni con la sua dipendenza, perlustrò la tensione immutata della sala che non si era accorta del suo piccolo blackout.
Il silenzio snervante che ne seguì fu colmato dallo scoppiettio dei raggi incandescenti provenienti dal sole che ardeva sul collo della regina, come se rispondesse ad ogni minimo sbalzo d’umore e denudasse le sue ingestibili emozioni. Il ciondolo prese ad oscillarle facendo tintinnare le catene a cui era legato, i bagliori rossi sgorgarono fluenti irradiandole la pelle e fecero infiammare i suoi occhi come braci fra le palpebre. Il vento infuriò attorno alla sovrana circondandola come un ciclone e creando il vuoto attorno a lei. Fra la folla serpeggiò il panico e lo stupore mentre la loro regina protendeva un braccio dirimpetto indirizzandolo verso la dama nera che nemmeno per un attimo si era lasciata intimidire da quello spettacolo di fiamme e raffiche violente, e pronunciò un’antica formula in una lingua sconosciuta.
Frieda le mostrò quella sinistra artiglieria di denti argentati bofonchiando fra le risate «Hai davvero intenzione di farlo? I tuoi servi valgono così poco per te? Sai bene che quando rilascerai il potere non sarò il tuo unico bersaglio, vuoi comunque correre il rischio?».
La sfida dardeggiò sul fondo dei suoi occhi viola prima di avventarsi veloce come un cobra sulla crocchia disfatta e sanguinante di Marlena, strappata crudelmente dal corpo ancora caldo della sua amica. Con ancora le dita artigliate fra le ciocche dei suoi capelli, Frieda la strinse a sé circondandole il petto con un braccio e pressandole le unghie sulla gola. Marlena soffocò un grido quando le leccò il sangue di Carlotta dalla faccia. Fabiano riemerse dal suo stato comatoso, pronto ad essere ancora una volta il paladino della protettrice ma venne trattenuto da Gabriel.
«Mmm» mugugnò in estasi «delizioso sangue di protettore…quanto spreco» disse volgendo lentamente lo sguardo alla pozza di sangue alle sue spalle.
Il ringhio di Delilah sovrastò gli ululati del ciclone rosso che le vorticava attorno e avanzò verso la sorella «Lascia andare la ragazza, battiti con me se ne hai il coraggio!».
Frieda scosse la testa come se fosse delusa «Non ci penso nemmeno, non sarebbe uno scontro ad armi pari, non credi?». Poi la sua voce divenne tagliente «Mi hai tolto ogni cosa» borbottò cupa.
«Le mi ali, il ciondolo della Luna, la mia bellezza…» cominciò ad elencare.
«Guardami sorella? Le mie cicatrici non ti disgustano?» le urlò con una rabbia che le stava divorando le viscere.
«Non rispondo io delle tue menzogne» sogghignò stavolta la fata della luce con un sorrisetto simile a quella di Frieda «e poi non ti ho tolto proprio tutto…Alla fine hai avuto Mordred». «Lo hai maledetto!» l’accusò la fata oscura accanendosi sull’innocente che teneva in ostaggio.
Mentre le sue sorelle continuavano a punzecchiarsi, Leona tornò a studiare di sottecchi il suo possibile avversario, l’assassino di Carlotta, chiedendosi più e più volte quale motivo lo spingesse a celare la sua identità. Di cosa aveva paura, qual era la sua debolezza se ne aveva una? Non dava certo l’idea di essere una attendente alle prime armi, né tanto meno aver la fragilità di un umano. Stava eretto come se fosse costretto fra pareti di cemento e gli occhi azzurri, freddi come una ghiacciaia, fissi su qualcosa o su qualcuno…Leona tentò d’intercettare la traiettoria e si ritrovò ad osservare Fabiano con il viso contratto dal dolore. Lui non sembrava essersi accorto delle attenzioni che il guerriero mascherato gli stava rivolgendo insistentemente, con intensità, come se con il suo sguardo affamato potesse attraversarlo da parte a parte. Leona strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. Se stava pensando di conquistarsi il suo prossimo bersaglio, lei avrebbe fatto l’impossibile per tenerlo lontano da lui, lo avrebbe difeso a qualsiasi costo.
«Ne ho abbastanza di rinvangare il passato, cosa sei venuta fare Frieda? Sei venuta a sfidarmi con le tue creature abominevoli? Non ti è bastata la sconfitta che t’inflissi tanti anni fa? Sappi che io e il mio popolo siamo pronti a batterci e questa volta la tua vita non verrà risparmiata…» l’avviso la regina.
«Mi chiedi cosa voglio?» disse adombrandosi con un ghigno crudele, il canino argentato in bella vista «voglio ciò che mi spetta di diritto, il mio trono» specificò la sorella.
«Non puoi comprarti la lealtà dei miei sudditi, Frieda. I tuoi guerrieri saranno anche abili ma saranno sempre in inferiorità numerica rispetto al mio esercito, non mi fai paura. Che ironia della sorte che tu abbia scelto proprio questo giorno in cui la storia si ripete…».
«Be’, questo lo vedremo» rifletté Frieda strofinando una guancia sulla testa di Marlena che aveva smesso di dimenarsi fra le sue braccia. Con la mano libera le prese il mento fra le dita e scrutò all’interno dei suoi occhi verdi distrutti dalla perdita. Non appena terminò di sondare fino allo strato più profondo della sua anima alla ricerca di chissà che cosa, esclamò senza velare l’insoddisfazione «Non è lei». Quindi prese Marlena per il braccio e la spinse via da lei gettandola come carta straccia sul pavimento. Leona le sentì borbottare il nome di Carlotta piano, con note basse, quasi insonore. Non aveva realizzato fino a quel momento quanto contasse per lei, e come avrebbe potuto? Marlena amava e venerava solo se stessa, troppo indaffarata a curarsi del suo ego per notare chi le orbitava attorno con pia devozione. Eppure poteva quasi avvertire la sua sofferenza danzargli sulla pelle, facendole drizzare i peli sulle braccia per la crudeltà con cui l’aveva trasformata. Qualsiasi insulto avrebbe voluto rivolgerle in quel momento si costrinse a ricacciarselo in gola.
«Non mi sorprende la tua arroganza sorella». La fata lasciò vagare i suoi occhi viola tutto intorno alla sala, indugiando sui dieci protettori mescolati fra la folla.
«Dormirei anch’io serena su un letto di piume se avessi fra le mie fila i leggendari dominatori degli elementi» la rimbeccò increspando la fronte. I gemelli deglutirono il groppone all’unisono senza essersi messi d’accordo, come se uno fosse l’immagine speculare dell’altro.
«Come sai…» cominciò a dirle Delilah.
«Non importa a chi è rivolta la loro realtà» proseguì ignorando l’obiezione della regina. «Alla fine avrò il loro prezioso sangue in ogni caso, non importa quanto siano potenti, il mio guerriero lo è di più».
«Ma davvero» esclamò una voce talmente familiare da poterla riconoscere fra milioni. «E cosa avrebbe di così speciale il tuo insulso abominio? Ne potrei abbattere dieci di quelli senza battere ciglio». La sfida che intonarono le corde vocali di Gabriel risuonarono ancora più sprezzanti del pericolo. Dannazione a te, fratello! Imprecò tra sé Leona in preda alla disperazione. Avrebbe voluto torcergli la lingua in una serie di nodi per impedirgli di cacciarsi costantemente nei guai, ma forse nemmeno quello sarebbe bastato. Gabriel era una vera calamita di disgrazie anche senza aver bisogno di aprir bocca.
Lo individuò in un batter d’occhio anche in mezzo a tutta quella calca e sorrise felice come una bambina che scarta il suo pacco alla vigilia di Natale.
«Eccola lì l’Akasha. La sento pulsare nella sala, viva, come un cuore che batte, talmente irruenta che potrebbe crepare gli affreschi» L’eccitazione incendiò gli occhi della fata oscura. «Sarebbe più facile darti una dimostrazione che spiegarlo a parole, mio caro medjai».
«Ti basti sapere che non è come gli altri, lei è diversa. Al contrario dei comuni abomini, il suo cuore non è più umano, letteralmente. Ed è per questo che ho pieno controllo su di lei» lo informò inclinando la testa di lato, soppesandolo dalla testa ai piedi.
Leona credette di aver capito male, non aveva mai pensato a quell’ammasso di acciaio e argento come a una lei e la cosa per qualche motivo la destabilizzò e rese la sua curiosità di sbirciare al di sotto della sua maschera ancora più morbosa.
«È incredibilmente raro trovare un cuore compatibile in grado di sopravvivere al rituale del Linkage, se non unico nel suo genere» disse fluendo fra il suo esercito come un fiume fra gli interstizi dell’acciottolato e lo strascico che la seguiva come una coda di petrolio portatrice di oscurità. «Cuori gemelli» spiegò ai più perplessi «Una coppia di cuori capaci di fondersi in una cosa sola, di battere all’unisono, questa è la condizione».
Delilah sbiancò «Allora era questa l’ingrediente mancante…due cuori innamorati».
«Non è necessario che l’amore sia corrisposto, basta soltanto che il donatore sia infatuato del ricevente affinché l’incantesimo abbia effetto. Il sacrificio dunque rimane indispensabile, e be’ dall’altra parte l’amore non è forse sacrificio?» domandò con un’insana ilarità.
«Uno sciocco vampirello che perde la testa per la sua cacciatrice, proprio come un agnello innocente che s’innamora della famelica leonessa».
Frieda raggiunse la guerriera mascherata e mise una mano sul cuore immoto del vampiro schermato dall’armatura. L’ex protettrice si piegò al suo volere trasformando i suoi occhi celesti in due covi tempestosi ed estrasse entrambe le spade. L’effetto domino si ripercosse fra i suoi fratelli d’armi e fu un baluginio di acciaio e bronzo. Come se si fossero specchiati, anche i curatores noctis si armarono per rispondere al riflesso di quell’offensiva. La tensione crepitò nell’aria circostante sotto forma di elettricità allo stato puro.
«Non deve finire per forza in questo modo» rimarcò Frieda inacidendo l’espressione «posso offrirti un’alternativa».
«Quando ti avrei dato il consenso di dettare condizioni?» ironizzò la regina ancora lambita dal tornado rosso.
«Credo valga la pena ascoltare la mia proposta, anche se, ovviamente, sono di parte. Non sono certo interessata ad inutili spargimenti di sangue, non vorrei punire il popolo di qualcosa di cui non è colpevole, anzi sono qui per offrirgli una scelta».
«Fammi indovinare la scelta sarebbe fra me e te?» domandò ripiegando la fronte in una serie di rughe intrise di  preoccupazione.
«Propongo una sfida simbolica fra due dei nostri migliori guerrieri per decidere le sorti della corona. Il tuo migliore campione contro il mio, invece che una guerriglia sanguinosa da cui entrambe ne usciremmo sconfitte. Il primo che verserà il sangue dell’avversario sarà proclamato vincitore e con essa verrà proclamata la nuova regina o riconfermata l’attuale reggente». Delilah considerò per un lungo istante la proposta della sorella, valutando se accettarla o meno per il bene stesso della sua gente.
«Avanti» la incitò Frieda «Non dirmi che non vedi l’ora di dare spettacolo».
 Delilah le offrì una smorfia salace: «Sei venuta qui solo per vantarti? E così una prova di forza, eh? Una gara a chi possiede il giocattolo migliore, proprio come eravamo bambine…».
Il viso di Frieda si colorò di presunzione «Oh, ma sta volta sono sicura che la mia bambola sia meglio di qualsiasi cosa tu possa metterle a confronto. Te l’ho già detto che non è come gli altri. Un normale abominio non sopravvive all’anno di età. Ma in lei…il linckage ha attecchito e ha messo radici nella sua mente, è il miglior esemplare mai riuscito».
«Questo lo vedremo» asserì la regina lasciando morire la tempesta rossa scaturita dal ciondolo.
La guerriera pilotata dalla volontà della sua creatrice avanzò facendo scricchiolare gli stivali sul pavimento di marmo ancora chiazzato di sangue secco e incrostato. I suoi fratelli abomini si allontanarono impercettibilmente da lei come sospinti da braccia invisibili che li costrinsero al margine della sala, a ridosso delle colonne, e si creò un vuoto circolare attorno a lei, un’arena improvvisata cinta da corpi di carne e ossa. Le doppie spade salde nell’impugnatura, pronte alla battaglia. Nei suoi movimenti c’era una sorta di grazia sbagliata, fluida ma allo stesso tempo asciutta, senz’anima. Delilah richiamò a sé il suo generale bisbigliandogli qualcosa all’orecchio. Leona straripava di potere ed eccitazione. Da quando la cerimonia aveva avuto inizio, non aveva smesso di accumulare il mana all’interno del suo corpo, come se si fosse aspettata che alla fine della serata si sarebbe giunti a quella conclusione. L’energia le scorreva sotto la pelle, insinuandosi fra  muscoli e tessuti, rinvigorendo il battito del suo cuore. Se lo avesse usato tutto in una volta, l’esplosione sarebbe stata incontenibile, era una bomba pronta a detonare.
Il fuoco nelle sue vene s’attizzò e per contenere le fiamme prese a giocare con le estremità sfilacciate del nastro che portava al polso.
Zolfus, una fata corpulenta, imponente come una montagna era il campione scelto dalla regina. Gli indicò di prendere il suo posto al centro della sala come avversario della guerriera che attendeva inquieta in posizione, dal lato opposto. La fata nerboruta dalle orecchie a punta deglutì e strinse le labbra, come se volesse provare a controbattere il comando della sua regina, ma in un caso o nell’altro sarebbe andato incontro alla morte per tradimento, per cui tanto valeva morire in un combattimento degno che da codardo.
Il filo rosso le circumnavigò il dito, la protettrice diede uno strattone e con un colpo secco sciolse il fiocco.
Le pareti del vestibolo sembravano tremare di terrore, tutti gli invitati trattennero il fiato in una perpetua apnea quando il Curatores Noctis trascinò pesantemente i piedi di fronte alla sua avversaria portando un pugno serrato al fodero della sua spada. Migliaia di paia di occhi erano focalizzati su di loro, accessi da quell’insostenibile attesa che li stava consumando da dentro, mentre le ciocche della ragazza come fiumi neri scintillanti alla luce della luna si abbracciavano e si attorcigliavano l’una dentro l’altra fra le sue dita in un intreccio complesso, soltanto per costringere quella spirale in un altro nodo di stoffa scarlatta.
Leona sentì Fabiano mormorarle deboli avvertimenti fra sospiri sofferti ma si decise a ignorarli, dipanandosi lenta e silenziosa, aggraziata come una pantera, fra le fate attonite e concentrate sull’incontro imminente che avrebbe deciso il destino del regno.
Per la prima volta la guerriera parlò, un suono freddo e metallico vibrò fra le sue labbra nascoste della celata: «No» proferì semplicemente.
La fata si mostrò offesa e inarcò un sopracciglio «No, cosa?» domandò con risentimento.
«No» ripeté oscillando il mento da destra a sinistra «Non sei all’altezza» articolò in seguito. Zolfus sferzato dall’umiliante giudizio del guerriero, s’irrigidì sul posto e digrignò i denti sguainando la spada dal fodero «Ma come ti permetti!» gli urlò gettandosi su di lei, caricando come un toro reso folle dal colore rosso. A pochi passi da lei la guerriera scartò di lato in un movimento incorporeo, quasi assente e distratto senza interrompere la corsa furiosa di Zolfus che inciampò rovinando sul pavimento. Rotolò dietro di lei e ergendosi in ginocchio annaspò come se una mano gli avesse strappato l’aria dai polmoni. Le sue pupille annerite si abbassarono lentamente sul ventre dove una falce vermiglia, densa e scura, era stata disegnata sulla sua cotta di maglia. Il colpo era stato inferto con il favore dell’invisibilità di un semplice scatto di polso veloce e impalpabile. Entrambe le spade dell’abominio erano di un fulvido colore argentato, immacolate, come appena uscite dalla forgia.
«No» ripeté una terza volta osservandolo impassibilmente mentre Zolfus si accasciava esausto su se stesso «Più forte» disse in un altro dei suoi monosillabi dalle molteplici interpretazioni. La ferita non era mortale, si trattava di un avvertimento, ma comunque il generale non sembrava più in grado di rialzarsi e  proseguire l’incontro, quindi strisciò lontano dal duello mortale, grato di aver riportato soltanto un taglio superficiale poco profondo. La maschera della guerriera si voltò verso la folla e incontrò lo sguardo denso di rabbia e follia della protettrice con l’abito azzurro che sgomitava fra la folla a piedi nudi.
Leona evocò il vento e piccole scie di fili invisibili si allungarono da ciascuna delle sue dita per poi raggrumarsi in folate ruggenti che le sgombrarono la strada fino ai confini del cerchio, curandosi a malapena del malcontento e lo stupore delle fate strattonate via brutalmente dal loro posto in prima fila. Si trovò ancora una volta a fissare il ghiaccio freddo e pungente degli occhi dell’abominio ricacciando in un piccolo anfratto della sua mente quel tarlo che continuava a ricordarle che lo aveva già visto prima d’ora. Si immaginò l’ombra di un sorriso farsi largo nell’unica porzione di viso visibile attorno ai suoi occhi, ma Leona non poteva esserne sicura. Il mana le stava trafiggendo ogni parte del suo corpo specialmente lungo le braccia e le mani dove il formicolio era più forte. Chiuse gli occhi immergendosi in quel vortice di introspezione per richiamare in superficie la sua allomanzia, alla ricerca del sapore del bronzo sulle sue papille gustative, ma qualcosa che odorava di rame ossidato si era avvinghiato al suo braccio e la forzò a riemergere dalla sua meditazione. Le dita di Marlena ancora umide e gocciolanti si erano impresse su di lei con la potenza stritolatrice di un serpente. Leona alzò gli occhi su di lei e si scrutarono per un lungo istante. Il suo dolore la investì facendo vacillare l’odio che come tronchi da ardere tenevano vivo il suo coraggio. Marlena smise di massacrarsi le labbra fra i denti e le disse l’unica cosa che la sua voce straziata e rotta le consentì di pronunciare: «Uccidi quella figlia di puttana». Quella preghiera disperata le diede una nuova carica, una nuova consapevolezza, la certezza che non sarebbe stata sola in quello scontro, i suoi amici erano con lei. Leona sganciò delicatamente la mano di Marlena dal suo braccio ribaltandole il palmo all’insù. Il sangue di Carlotta era ancora fresco e di un rosso acceso sulla sua pelle chiara. Ne raccolse un po’ con due dita e tracciò due linee parallele su ciascuna delle sue guance per portare un pezzo di Carlotta con sé quando avrebbe calato le kopis sull’abominio che le aveva tolto la vita. Prese un lungo respiro e le promise «Per Carlotta».
Marlena tirò su col naso e le fece eco «Per Carlotta». Poi Leona richiamò il bronzo a sé.
L’aria sibilò lasciando dietro una scia gelata di cristalli di ghiaccio che scese come neve su tutti i presenti. Le kopis le precipitarono come stelle comete sulle sue mani e danzarono elegantemente attorno ai suoi polsi emettendo nastri argenti di luce, prima di sentire il morso freddo del metallo sotto la sua pelle.
Frieda applaudì al limite dell’euforia e scelse un alcova da dove godersi l’incontro. Leona poté sentire il battito sordo del cuore di suo fratello sovrapporsi al suo, la sua rabbia corroderla come acido dall’interno. Sapeva che se solo avesse potuto, Fabiano avrebbe venduto la sua anima pur di tenerla lontana dalle spade della guerriera che minacciavano di portagliela via. Ma Leona non vedeva altro che l’abominio e l’elettricità statica che ronzava nello spazio che le divideva.
Leona si acquattò sulle ginocchia con i muscoli brucianti per la tensione e attaccò, il potere si avvolse a spirale attorno alle sue mani che impugnavano le kopis. Entrambe erano due danzatrici con due lame molto affilate, affamate l’una della sangue dell’altra. La velocità rendeva le loro armi solo ombre del passato, i loro movimenti copie duplicanti sospesi nell’aria come immagini residue. Presa in contropiede dal battito sovrastante del potere della sua avversaria, Leona restò prigioniera  di una raffica luccicante di pezzi d’acciaio, schiavati solo per un pelo.
Il clangore generato dallo scontro delle quattro spade viaggiava sulla brezza con stridii acuti, come campanelli distanti. L’abilità dell’abominio era sconcertante e sconvolgente, Leona non aveva mai visto nulla del genere in vita sua, in confronto gli abomini che aveva affrontato a Londra le parvero insulsi bambinetti che impugnano le armi per la prima volta. Le sue lame erano così intrise della sua volontà che in ogni colpo sferrato imprimeva loro sia la forza del lancio sia l’eleganza dell’esperienza. Combatteva con una grazia fastidiosa, la gestualità fluida della corrente di un fiume, nonostante la pesantezza della sua armatura. Per un attimo il suo viso illuminato dalla frenesia del combattimento si contrasse in una strana espressione divertita ma svanì troppo in fretta perché Leona riuscisse a coglierne le sfaccettature, e i suoi occhi ripresero a ricoprirsi d’ombre scure simili a pozzi vuoti di oscurità, inghiottendo le dolci sfumature celesti. Tutt’a un tratto l’abominio schizzò via dalla sua visuale ruotando su se stessa e tentò un affondo a rovescio con speranza di infrangerle la guardia.  La prima lama affettò l’aria sfiorandole il viso a pochi centimetri dalla sua guancia. Il morso dell’acciaio perdurò nell’etere e la privò di ogni senso, sepolta troppo in profondità per sentire nient’altro che le urla di suo fratello. La seconda, intercettata a mezz’aria scivolò sul piatto della kopis e nel breve lasso di distrazione Leona  rotolò con una capriola laterale che la fece atterrare in ginocchio sul tavolo più vicino. Il sudore le bagnò la fronte e le scese sugli occhi, il mana infuriava dentro le sue vene pretendendo di essere liberato. Ma non poteva, se gli avesse dato sfogo non le sarebbe rimasto nemmeno un briciolo di energia per contrastare la forza da vampiro delle sua avversaria, e tenere a bada quell’energia l’aveva tenuta in vita fino a quel momento. Arricciò le dita dei piedi nudi quando la guerriera la raggiunse senza nemmeno darle un attimo di tregua. Il respiro le si mozzò in gola e rantolò prima che l’ennesima scarica di fulmini argentati si abbattesse su di lei. E lei rispose col bronzo, facendo fremere il suo acciaio sotto le stoccate e le parate che vibrava, il potere delle stelle sprigionato dalle sue kopis ricurve. Ma per quanto a lungo avrebbe resistito? Non era mai stata messa alla prova da un avversario così forte, in grado di fronteggiarla o addirittura di sopraffarla. Leona sorrise di fronte a quella prospettiva, conscia che l’adrenalina in circolo le offuscasse il giudizio. La porcellana, una pioggia di forchette e cucchiai e i resti della cena volarono in mezzo a loro come coriandoli e il tavolo di legno protestò sotto i loro piedi minacciando di rompersi ad ogni scricchiolio ma nessuna delle due aveva intenzione di mettere fine a quel gioco appagante di acrobazie e scherma a doppia lama. Pochi riuscivano a maneggiare due armi contemporaneamente, si trattava di un arte che richiedeva anni di allenamento e inattaccabile concentrazione. Quelli che adesso per la protettrice erano gesti quasi automatici, dettati dalla foga del momento, le erano costati innumerevoli sacrifici e sudore, perché sebbene avesse attinto a quella tecnica grazie all’effetto osmosi doveva comunque mantenersi presente senza lasciare che la sua mente vagasse altrove fra i meandri di quell’incommensurabile memoria raccattata da secoli di medjai. Vedere quella donna rendere quegli stessi gesti così semplici e spontanei, ricamati da una leggiadra eleganza, le fecero provare una sorta di ammirazione nei suoi confronti, una vaga affinità che le legava. Arrivò persino a considerare l’idea che in un altro contesto magari le due sarebbero andate d’accordo. Leona si morse la lingua uccidendo quel ridicolo pensiero, ricordandosi che se avesse abbassato la guardia non avrebbe esitato a tagliarle la gola. Le due incrociarono le spade respingendosi con la sola forza che si irradiava dalle gambe e risaliva lungo le braccia. Doveva liberarsi in fretta prima di cadere all’indietro dove il tavolo finiva. Allentò la tensione sul lato destro di quelle croci di lame facendole perdere l’equilibrio, si accovacciò sotto la guardia e seppellì una gomitata nello stomaco dell’abominio per poi ruotare via dalla sua presa. Scivolò con un salto mortale all’indietro giù dal tavolo ma quando i suoi piedi si furono ben assestati sul pavimento e il suo sguardo saettò all’insù, dove avrebbe dovuto esserci la guerriera mascherata, non trovò nessuno. Un manto di gelo le deterse la pelle e si mise in allerta, pronta a parare qualsiasi colpo le avesse inferto quando sarebbe uscita allo scoperto dal suo gioco di prestigio. I suoi occhi perlustrarono in fretta il piccolo spazio riservato alla loro sfida e cominciò ad espellere lentamente l’anidride carbonica dai suoi polmoni.
Un taglio invisibile vibrò nell’aria accanto al suo orecchio e fece appena in tempo a scartare di lato con un rapido guizzo. Una ciocca di capelli neri svolazzò di fianco a lei planando sul pavimento con la stessa calma di una piuma. Leona detestava associare nella stessa frase forbici e capelli, perciò quando constatò che il ciuffo apparteneva alla sua chioma s’infuriò ancor di più e prese a roteare le sue kopis con una rinnovata furia divoratrice. Ma proprio mentre sembrava guadagnare un certo vantaggio sulla sua nemica, un’altra lama sibilò alle sue spalle e la costrinse a ripiegarsi a terra  prima che affondasse dentro la sua gola. Non si era nemmeno accorta che l’abominio di fosse spostato dietro di lei, come diamine aveva fatto!, si sorprese a imprecare. La risposta le morì in bocca non appena capì quello che era appena successo. Strabuzzò gli occhi per la sorpresa e cominciò a contare.
Un abominio mascherato a destra.
Un abominio mascherato a sinistra.
Due. Non uno. Due abomini spietati e invincibili.
Frieda non riuscì a frenare  le risate alla vista delle occhiate confuse che Leona rivolgeva alle due copie esatte e sputate del guerriero-abominio.
Merda, sbiascicò pianissimo per non farsi sentire. Non aveva considerato che anche un abominio potesse ereditare l’abilità vampirica del primo possessore che di per certo doveva esser stato un anomalo. Ma Frieda dopotutto l’aveva detto, quell’abominio in questione era un caso a parte. Avendo effettuato un trapianto di cuore, il suo potere doveva essersi accresciuto e conformato a quello del vampiro donatore.
Se le era risultato difficile battersi con uno solo di quelli, affrontarne due sarebbe stato impossibile. Leona non si scoraggiò, raccolse nuovamente le forze, raddoppiando la risonanza del mana, e menò un colpo per ciascuno di loro. Ma le servì a ben poco perché non solo entrambi i suoi avversari riuscirono a evitare i suoi fendenti con estrema facilità ma proprio mentre indietreggiava, un terzo e un quarto abominio cominciarono a prendere forma dai suoi fianchi, squarciandogli la pelle, sviscerando come ammassi di carne informi per poi trasformarsi in repliche esatte dell’originale. Leona trattenne appena in  tempo un conato di vomito. Ma sì certo Leona, offriti volontaria per confrontarti a duello con un cazzo di abominio micidiale che si duplica tramite mitosi, cosa ci sarà di male? Rifletté in mezzo ai pensieri in subbuglio che si rincorrevano fra loro nell’organizzazione caotica della sua mente da suicida.
La clonazione non terminò lì e altre tre copie si fecero strada attraverso di lei plasmandosi autonomamente una volta che quel miscuglio informe e viscido di carne, sangue e ossa si staccava dalla cellula madre in attesa di rielaborare le informazioni per dare inizio al processo di creazione. Sette replicanti e quattordici paia di spade in tutto la accerchiarono intrappolandola in una gabbia di lame taglienti e armature brillanti alla luce delle candele. Le sette guerriere ghignarono in coro preparandosi ad assestare la prossima mossa. Leona tremò, presto il suo sangue avrebbe bagnato il marmo su cui poggiava i piedi e avrebbe regalato una vittoria schiacciate a Frieda consegnandole su un piatto d’argento la sua tanto amata corona. I fendenti non tardarono a scattare come vipere in cerca di qualcosa su cui affondare i denti e infondere il loro veleno. La guerriera era dannatamente veloce e le sue stoccate terribilmente precise. Leona schivò e parò come poté ma quella pioggia di colpi che non le davano tregua, nemmeno un secondo per riprendere il fiato, cominciavano a sfiancarla. Ma avrebbe pianto con un occhio: se non avesse incanalato l’energia del suo mana probabilmente sarebbe morta molto tempo prima, ad appena pochi minuti dall’inizio dello scontro. Il mostro che si nascondeva dietro la maschera grugnì per l’esasperazione mentre la protettrice continuava a scivolare via dai suoi attacchi imitando la fluidità delle onde del mare. Ma non sarebbe bastato. Per combattere ad armi pari avrebbe dovuto evocare gli elementi naturali in suo aiuto. Una prospettiva allettante ma dalla dubbia fattibilità. Leona non controllava gli elementi, li assecondava e si muoveva con loro. Sentiva la loro energia, il loro battito vitale contro le ossa e vibrando sulla stessa frequenza divenivano una cosa sola. Ma come il suo mana, non poteva dargli la libertà, o poveri innocenti sarebbero stati coinvolti nella sua apocalisse di elementi. Avrebbe potuto imporgli dei confini ma a quale prezzo?
Il cuore le martellò nel petto mentre una delle lame lacerava la stoffa contro il suo fianco e mancava la carne del costato. L’unico e vero colpo di fortuna perché subito dopo un’altra spada calò dall’alto eclissandole la vista della luna. Quando lo schiocco di ossa rotte riempì la sala del suo eco, non urlò di dolore né la parte lesa s’inumidì del suo sangue. Una delle kopis le sfuggì dalla sua presa come se i nervi si rifiutassero di obbedirle e la spada di ghiaccio tintinnò a terra. Poco dopo un suono sgranocchiante si diffuse fra le costole dove l’elsa di una spada le era sprofondata nello stomaco. Il sapore metallico del sangue e bile si mescolarono nella sua bocca ma la ragazza si rifiutò di tracciare alcun segno di sofferenza nel suo viso e ringhiottì quel bolo aspro rintanandoselo in gola.  Non avrebbe versato alcuna goccia. Il cranio le pulsava frenetico mentre un dolore lancinante lo attraversava sfociando come martelli nelle sue tempie. In un attimo il pavimento si avvicinò e il freddo le intorpidì la schiena. Due mani per ciascun braccio si attanagliarono su di lei e uno schiniere argentato si posizionò sopra il suo petto per impedirle di respirare. Le due sfidanti cercarono ognuna lo sguardo dell’altra, uno trionfante, l’altro impertinente. Leona fu catturata dalla fredda raggiera di schegge celesti che coloravano le iridi della guerriera  e al di sotto di quella crudeltà, sepolta in profondità, le parve di sentire le urla di un’anima in trappola. Una risata vibrò contro lo schiniere che la soffocava vincendo il peso e la pressione di quella costrizione.
«Ce ne sono volute sette di te per mettermi al tappeto, io non la considererei una vittoria» riuscì a sussurrarle. Un ringhio riverberò dentro la maschera e la sua presa d’acciaio si fece più temibile. Una quarta figura danzò nella sua vista offuscata, un’ombra con due lunghe braccia sottili che si levavano verso l’alto.
«Devo ucciderli tutti» le rivelò l’abominio dando voce ai pensieri della sua padrona. Le palpebre di Leona scattarono per l’orrore di quelle parole e si spalancarono mostrandole il suo sguardo più adirato. Un calore rovente si espanse nel petto straripando dal suo cuore che batteva violento sulla cassa toracica. In un attimo si disperse come nitroglicerina nelle sue vene e prese a bruciarla formicolando da per tutto. Poco prima che il suo corpo prendesse fuoco insieme alle copie di quel mostro, un urlo si levò dal fondo della sala  e chiamò il suo nome con truce disperazione. Le lame restarono appese al cielo come se si fossero impigliate fra le nuvole e l’abominio barcollo all’indietro, trafitta e sgomenta dal suono della voce di Fabiano, e i contorni delle sue sei gemelle tremolarono nella notte. Il resto si susseguì a una velocità tale che ogni fotogramma si confuse con l’altro. La testa della guerriera scattò verso la folla alle sue spalle, verso la fonte della sua distrazione, e Leona esplose di energia, elevando un muro di fuoco fra lei e le sue assalitrici scaraventandole con la forza delle sue vampate che ardevano a centinaia di gradi Celsius. I bicchieri di cristallo vibrarono fino a scoppiare in migliaia di pezzi affilati e fiumi di vino, acqua  e succo di more si contorsero in aria come serpenti per poi disperdersi sotto forma di pioggia. Leona sentì risuonare dentro di lei il comando dell’acqua ma non era stata lei ad evocarlo. Suo fratello, poco lontano da quel caos con le mani protese verso il cielo, vibrava di potere. Sotto il tocco invisibile del dominio dell’acqua le gocce sospese in aria si brinarono trasformandosi in coltelli rossi e incolori. E con la stessa intensità con cui si mangiucchiava il labbro inferiore li sparse sull’esercito di Frieda colpendoli con le sue lame di ghiaccio. Molti non ebbero il tempo di correre al riparo, altri si gettarono nella mischia scontrandosi con le guardie della regina. E la battaglia infuriò e i due eserciti si scontrarono come due valanghe dai lati opposti delle montagne.
Leona si rimise in piedi con un salto e si fuse col metallo di cui era composto l’elmo della sua avversaria, ordinandogli di ripiegarsi all’esterno. Strinse le dita in un pugno ferreo lasciandosi trascinare dalle scricchiolio di metallo che stride su altro metallo. L’abominio trattenne con foga il copricapo sulla sua testa che minacciava di volarle via dalla sua presa pur di custodire la sua preziosa identità ma l’allomanzia di Leona ebbe la meglio e la celata si arrotolò su se stessa come la sottile lamina di alluminio di una scatoletta di tonno.
E Leona vide per la prima volta il suo viso, il suo vero volto, quello libero dal soggiogamento di Frieda, registrando ogni minimo particolare in quel fugace attimo che seguì. A parte le rughe di preoccupazione che si andavano disegnando sulla sua fronte e le ciocche color cioccolato che le rimanevano incollate sulle tempie e le scendevano sulle guance, non c’era alcuna traccia del Linckage su di lei. Il frastuono degli scontri che le avvolgevano fra grida e stridore di spade si ovattò alle orecchie della protettrice come se le fosse calato un velo insonorizzato sui timpani. Il fuoco che le danzava sulla pelle si estinse e i suoi muscoli divennero una statua di sale.
E allora capì perché quegli occhi azzurri le erano così familiari. La sua mente tornò a molti anni prima, in un lontano mattino piovoso d’estate. Un ragazzo si riparava all’ombra di un albero e scarabocchiava concentrato sulle righe del suo diario. Una fotografia faceva capolino fra le pagine e una bellissima ragazza le sorrideva. Una ragazza che sarebbe dovuta essere morta. Il suo cadavere disperso chissà dove, maciullato e dilaniato dai disperati tentativi di un incantesimo che non era andato a buon fine. La sala cominciò a vorticarle intorno e le tempie a pulsarle più forte di dolore.
«Prendi il sangue della medjai» le ordinò Frieda.
La ragazza guardò prima lei e poi i suoi occhi si piantarono sul ragazzo che si proteggeva alle spalle di Gabriel. Un singulto sofferto le risalì fino ai denti ma infine scosse la testa con decisione e disubbidì alla sua padrona.
«Non voglio» esclamò con non poca fatica come se qualcosa, una daga le stesse macellando le viscere dall’interno.
Leona non seppe dare voce alle mille domande che si affollarono nella sua mente che già la ragazza era scivolata via, inghiottita dalla furia dei combattimenti lasciandole in eredità le sue sei replicanti ferite. Tentò invano di riacciuffarla, per sincerarsi di ciò che aveva visto, ma suo fratello la riscosse dal suo intontimento dicendole alle prese con due tornado che si avvitavano a spirale dai polsi alle braccia «Leona! Siamo tutti disarmati!».
Leona imprecò fra sé per quella svista e rimediò immediatamente facendo appello alla sua geocinesi e riattivando la sua allomanzia sopita. Lance, spade e archi sfrecciarono lungo tutta la sala incontro ai loro proprietari. Ignorò il dolore sordo alle costole, sepolto dalla frenesia dell’adrenalina e raccolse la kopis che giaceva sul pavimento soffocando le punture che come aghi incandescenti le fecero tremare le articolazione del braccio. Vi concentrò il mana in modo tale da fungere da canale connettivo fra le ossa rotte e si ritagliò il suo piccolo spazio all’interno di quel vortice di violenza inaudita. La regina, irta nel suo mantello immacolato, sfiorò con un solo dito il ciondolo del sole  e punto il suo sguardo infuocato sulla sorella, che ancora una volta non aveva tenuto fede alle sue vane promesse. Fasci di luci rosso sangue riverberarono fra gli scontri ed esplosero come fuochi d’artificio fra le nebbie fatate che andavano diradandosi ad ogni fendente.
Nella sala da ballo dilagò il caos, i veli si squarciarono, i fiori appassirono, il vetro si frantumò, i candelabri incendiarono gli addobbi e le decorazioni sfarzose di quell’evento tanto atteso e conclusosi in tragedia. Una rappresentazione vivida, concreta, fin troppo reale dello Scao Leadh, come degli attori che perdono di vista la finzione del ruolo che interpretano, confondendo la realtà con la menzogna. Fiumi di rosso, azzurro, verde e bianco si mescolarono fra le armature scintillanti dei Curatores Noctis, i guerrieri della regina. Il popolo della sovrana rispondeva ai soprusi e alle minacce di colei che rivendicava il trono tutto per sé e del suo esercito di creature abominevoli. Gli attacchi elementali che brillavano di potere in punti diversi di quella folla combattente, ma qualcosa non andava. Le tribù dell’acqua e dell’aria attaccavano le proprie sorelle della terra e del fuoco, fazioni amiche che si trasformavano inspiegabilmente in nemiche. L’ennesima dimostrazione del connaturato opportunismo che caratterizzava le fate.
Leona individuò le sei figure intontite che strisciavano a terra come vermi e sbattendo forte un piede contro il gelido marmo crepò il pavimento e con esso spezzò le rune in esse tracciate mandando in frantumi i migliaia incantesimi di protezione che avvolgevano quel luogo mitologico. Quando fu certa che i suoi compagni protettori si trovassero lontani dalla linea di tiro, fece levitare per aria col controllo a distanza le macerie marmoree del pavimento e le scagliò con forza contro le sue avversarie lasciandole boccheggianti e sanguinanti. Decise di battere il ferro finché era caldo e le corse incontro gettando un urlo intimidatorio, le fiamme di un colore blu intenso che accarezzavano le sue kopis rendendole ancora più minacciose. Il freddo bruciante dei loro squarci aprirono la via a suon di stoccate imperversando con la furia che la sua proprietaria gli imprimeva. Una deliziosa sorpresa la fece ghignare di soddisfazione: le copie dell’abominio si facevano più deboli se allontanate dall’originale. Suo fratello intercettò il suo sguardo e accompagnato dalla melodia di Symphony la raggiunse fluttuando per aria sul flusso delle correnti come se stesse cavalcando un refolo ventoso. L’aria intorno a lui sferzava così celermente da rombare come un tuono e la pressione di quell’accelerazione inaspettata sgomentò i combattenti che scorrevano sotto di lui.
Le atterrò vicino con eleganza e le disse: «Vogliamo dare inizio allo spettacolo?» rise facendo vibrare la sua spada.
«Quando avevi intenzione di dirmi che avevi imparato a volare?!» lo rimproverò ferita nell’orgoglio mentre Symphony parava diversi colpi di un abominio inferocito.
«Vuoi davvero discutere ora di questo?» le rispose calciando in pieno viso un altro. Leona sbuffò d’invidia  prima di rovinare con i piedi uniti sul petto di un abominio, spingendo contro di esso e tornando al suo fianco tracciando un elegante arco perfetto, il vestito che schioccava al vento. Spostò con una scrollata la treccia che le ricadeva davanti e sfiorò la spalla di Gabriel con la sua scuotendo la testa.
«Io fuoco. Tu acqua» gli ordinò, rilegando la stizza dentro di sé, poggiando le kopis sul pavimento in rovina.
Gabriel seguì il suo esempio e coricò la sua symphony insieme alle sue kopis «Che cosa hai in mente?» le domandò allarmato.
«Tu fa come ti ho detto».
Proprio mentre i cloni dell’abominio riemergevano dal loro stordimento, emettendo ringhi cupi, il fuoco prese vita ancora una volta dalle sue mani sputando fiamme caldissime dalle dita. Leona seguì col pensiero il vorticare della vampate verso l’alto cercando di darle una forma. Sentendo su di sé il familiare calore di quelle onde roventi in un mescolanza di oro e rosso,  Leona di fuse con esse estendendosi con loro. La colonna di fuoco piovve dal cielo come un meteorite sui cloni e gridò «Adesso!».
Un fiume impietoso sgorgò dalle mani dell’altro medjai, infrangendosi sul fuoco evocato da Leona ed esplose in una nuvola di vapore incandescente. Il geyser di fuoco e acqua, elementi contrari e opposti, spazzò via tutto ciò che rientrò nel suo raggio d’azione e disintegrò i corpi delle loro nemiche. I due gemelli tornarono ad armarsi  con le lame donategli dai loro genitori e col favore dei vapori lattescenti del geyser si abbatterono sul resto degli abomini insieme agli altri protettori, nella loro prima e vera battaglia. Leona raggiunse Ethan che sorreggeva un Fabiano ancora instabile sui propri piedi feriti, offrendosi come spalla di ogni suo attacco, mentre Gabriel affiancò l’arciera rossa, fiera come lo era quel titano di suo padre. Il resto dei protettori si batté altrettanto valorosamente dal primo all’ultimo. Caterina era un tutt’uno con la sua lancia acuminata e sgomitava fra gli abomini sbaragliandoli come fragili birilli. La sua forza era a dir poco sbalorditiva, raddoppiata, no, quadruplicata, nessuno sembrava reggere al suo confronto e allo  stridore dei suoi strani guaiti. Norman le aleggiava attorno munito del suo arco coprendogli le spalle dai subdoli tranelli dei meta-vampiri. Marlena, urlante come una vedova afflitta dal dolore della perdita, affondava la sua lama squarciando la loro carne, traendone l’insano piacere della vendetta, i suoi occhi vagavano febbrili alla ricerca della guerriera mascherata per riscuotere la possibilità di farle assaggiare l’acciaio della sua arma, non le sarebbe bastata la punizione incandescente che Leona e Gabriel avevano inferto ai suoi cloni. Voleva veder soffrire la loro madre.
Ascanio orbitava attorno a lei come un satellite celeste circuisce la luna, snellendo il più possibile il fiume impetuoso di abomini che gli veniva contro. In tutto quel trambusto, col passo incerto e traballante di un ubbriaco, Fabrizio andava a caccia di lucciole perdendosi fra le nebbie che si condensavano simile a un vessillo spettrale avvallandosi ai margini della battaglia, con la Kiendjar a fargli da balia, evidentemente corrosa dai sensi di colpa per il suo stato.
Con l’aiuto dei protettori l’esercito della regina delle fate poté contenere i disastri che sarebbero derivati da uno scontro diretto con gli abomini della sorella e degli stessi traditori della sua corona.
Il fuoco bruciò, terra tremò, l’aria svaporò e l’acqua fluì violenta. Gli elementi furono allo stesso tempo alleati e complici dei medjai e nemici dei loro aggressori, si fecero guerra e si accoppiarono fra loro per dare vita a qualcosa di nuovo, nato dalle ceneri della distruzione, fino a quando la sorella codarda di Delilah non si decise  a battere la ritirata.
Frieda s’inoltrò dentro le nebbie fatate per fuggire alla furia rossa della regina e con un gesto frettoloso del polso aprì un varco dimensionale fra i mondi, affacciandosi su quello dei terrestri. Facendo slalom fra le saette rubiconde che il ciondolo del sole irradiava, raggiunse il portale gettandosi in avanti senza guardarsi indietro. Delilah urlò per la frustrazione e per poco non si decise a seguirla. Ma, conoscendola bene, non avrebbe mai potuto abbandonare il suo popolo che era sotto attacco, non poteva lasciare la sua bella isola alla mercé di quegli invasori senza scrupoli.
Mentre lanciava piroette infuocate dalle sue spade, Leona si scontrò con la schiena di Ethan.  I ragazzo non smise di sferragliare colpi decisi con la sua spada, ma facendosi più vicina alla protettrice le suggerì «Non resisterà ancora a lungo» disse riferendosi a Fabiano che continuava a combattere nonostante le ossa delle gambe traballassero come se non riuscissero più a sostenerlo, affogato in un mare di sudore, la pelle iridescente e pallida attorno agli occhi, accalorata e arrossata sulle gote, segno che l’infezione era sfociata in una febbriciattola che lo stava privando delle sue ultime energie. Leona sentì il proprio cuore sgretolarsi a quella vista.
«Che cosa proponi di fare?» domandò stringendo i denti.
«Possiamo farcela, l’esercito di Frieda si è assottigliato di molto, non sarà un problema tenerlo a bada per un altro po’. Ma sappiamo entrambi che ciò non risolverà il nostro problema, anzi non farà che rimandare l’inevitabile. Dovete impossessarvi di quel fottuto ciondolo e alla svelta»
«Ma come faremo? Il portale si è…» Symphony vibrò poco distante da loro conficcandosi nella testa di un abominio.
«Possiamo crearne uno noi» si offrì Gabriel spingendo con un calcio la spalla dell’abominio mentre sfilava via la lama incastrata nel suo cervello. La testa esplose in una fontana di sangue. Gabriel si asciugò le perle scarlatte che gli erano schizzate in faccia sulla sua camicia. «Siamo medjai in fondo» si giustificò.
«E’ una follia» lo rimbeccò Morgana nascondendo il viso dietro il suo arco, il cipiglio concentrato mentre sferragliava frecce a destra e a manca.
Gabriel le fece l’occhiolino «Io adoro le follie» le disse prima di volgere uno sguardo furbo verso le nebbie scintillanti d’argento. Il cuore balzò nella gola di Leona e della sua amica mentre suo fratello protendeva una mano sulla bruma fatata e con l’altra faceva a fette chiunque intralciasse il suo cammino. La nebbia come respinta dall’aura che irradiava si ritrasse dal suo tocco arricciolandosi sotto forma di onde vorticanti.
«Ho bisogno di vedere quel luogo» sembrò dire a nessuno in particolare. Ma Leona sapeva che lei era l’unica a condividere un legame tale con il gemello, l’unica in grado di lasciarlo entrare all’interno dei suoi pensieri. Leona infranse la barriera che le avvolgeva la mente e si sintonizzò con l’anima del fratello. Il battito del suo cuore che batteva nel suo. Cercò nel labirinto dei suoi ricordi quell’immagine e gliela mostrò. Gabriel spalancò gli occhi, raccolti in una concentratissima meditazione e ordinò alle nebbie di sciogliersi, dipanarsi e condurlo nel luogo da lui prescelto. Un vortice di ghirigori si disegnò attorno alla sua mano e si affacciò su un paesaggio nuovo, conosciuto soltanto nella memoria di qualcun altro. Gabriel rise «Te lo avevo detto!» esclamò con stupore.
Leona avrebbe voluto abbracciarlo fino a stritolargli le ossa, ma si sarebbe risparmiata quelle smancerie per quando avrebbe salvato le loro chiappe.
«Che cosa aspettiamo allora? Andiamo!».
Leona scosse la testa dissentendo «Andate avanti voi, porta via con te Fabiano, mettilo al sicuro, io devo prendere una cosa» disse perlustrando i rimasugli di quel bagno di sangue. Senza l’ampolla, non avrebbe raggiunto mai il nascondiglio del ciondolo della Luna, Delilah era stata molto chiara a riguardo. Con sguardo attento s’infiltrò in mezzo alla folla, cercando d’individuare disperatamente le guardie che l’avevano strascinata fin lì. Il caso volle che quella che le aveva confiscato il suo premio, stesse affrontando un abominio proprio sotto i suoi occhi. Ma lo scontro non stava andando esattamente a suo favore, il curatores indietreggiava impaurito di fronte al suo avversario che ghermiva l’aria fra loro con la sua ascia. Ascia che non tardò a trovar posto dentro il suo fianco, scavando dentro di lui fino a spezzargli la spina dorsale. La cintura a cui era appesa l’ampolla si slacciò dal suo fianco mentre il suo corpo veniva tagliato in due. L’ampolla volò, spinta dall’irruenza dell’ascia sul corpo della fata, e volteggiò in aria prima di posarsi sul palmo di una mano invece che rompersi sul pavimento.
Norman avvolse le dita sulla conca ricurva dell’ampolla e sorrise raggiante. Rotolò di lato qualche secondo prima che la stessa ascia che aveva smembrato il curatores noctis si abbattesse su di lui e corse via. Morgana si occupò dell’abominio centrandolo in piena fronte con una delle sue frecce. Scartando fra diversi cadaveri privi di vita disseminati al centro della sala, Norman li raggiunse gongolandosi «Cercavate questa?».
«Norm, sei stato incredibile» esclamò scoccandogli una bacio sulla guancia. Il protettore arrossì violentemente sia per quel tenero gesto di affetto che per il complimento.
«Bene, non so vogliamo farci una partitella a poker prima di partire o possiamo tergiversare altrove dove magari non possono massacrarci?» ironizzò Gabriel.
Leona gli rivolse una fugace occhiataccia delle sue. Gli diede le spalle e prese la mano di Fabiano con gentilezza conducendolo verso il portale. Ma, prima che potesse dare un altro passo, Leona cadde sulle ginocchia, divorata da un dolore lanciante che la fece boccheggiare al suolo. I polmoni gli si riempirono di sangue soffocandogli la gola e un bruciore folle cominciò a tracciare dei segni sul suo braccio, come se un uncino bollente le stesse scavando la pelle. Il dolore era così totalizzante che riuscì a malapena a capire cosa le stesse succedendo. Delle mani bollenti le scottarono le guance e due zaffiri limpidi si puntarono addolorati su di lei. Fabiano le urlava di restare con lui, continuamente, e lei avrebbe tanto voluto accontentarlo se quell’indicibile sofferenza glielo avesse permesso.
«Che cazzo sta succedendo?» sentì sbottare in lontananza suo fratello « Che cazzo sono quegli scarabocchi sul suo braccio?» domandò ancora più furioso. Avvertì le sue dita fredde sulla pelle contornagli i tatuaggi sanguinolenti che le erano comparsi sul braccio.
«Oh no» mormorò Morgana «Quelli non sono scarabocchi, sono le lettere del suo nome…».
«E questo che cosa vorrebbe dire? Parla! Cristo santo, mia sorella sta morendo». Morgana singhiozzò.
Le parole tentarono a fatica di farsi strada verso la bocca di Leona impastata dal sangue, sforzandosi di riemergere dal suo inferno personale «Il contr…il contratto» esalò vomitando un denso bolo rossastro sulla camicia di Fabiano. Le sue dita tremavano fra le ciocche dei suoi capelli.
«Il contratto» ripeté il gemello «Di che diamine di contratto sta parlando. Leona che cazzo hai fatto?» s’infuriò ancora di più.
Ma Leona non gli dava più retta, l’oscurità che danzava davanti ai suoi occhi  l’avvolse completamente cullandola in una pozza di nero cupo e senza speranza. Sentiva la sua vita scivolarle via dalle mani, reclamata dalla violazione di una promessa, dalla rottura di un contratto. Il suo nome inciso nella sua carne a garanzia della parola data in cambio di un favore.
Improvvisamente una voce la riscosse dal suo sonno eterno e le sbarrò la strada verso l’oblio. La afferrò per i capelli e la fece annaspare come se avesse finalmente ricordato come doveva essere respirare, fuori dalla polla di tenebre.
«Guida la mia freccia» pregò la voce della sua amica Morgana rimbombandole nell’orecchio.
Chiunque avrebbe creduto che quella preghiera fosse stata rivolta ad Artemide, la dea della caccia, ma Morgana non aveva mai creduto negli dei pagani. La vista tornò a schiarirsi quando Morgana scoccò la sua freccia, sibilando veloce nell’aria. Leona viaggiò con lei, risiedendo nella punta metallica di quel dardo. Prese il controllo della freccia puntando verso il suo bersaglio e virò poco prima che s’infrangesse nel petto della regina Delaliah. La punta si avvolse attorno alle catene del suo ciondolo e si staccò dal suo collo. La freccia curvò indietro e proseguì dritta davanti a sé finendo fra le mani di Leona. La gettò di lato estraendo il ciondolo del sole e lo tenne stretto vicino al cuore poco prima che un fiotto di energia vitale la riempisse come un vaso. Il dolore divenne solo un triste eco, un ricordo sbiadito come una cicatrice. La stessa forza la fece reggere nuovamente sulle sue gambe e afferrare Fabiano per il colletto della camicia e spingerlo all’interno del portale. Gabriel, indeciso se arrabbiarsi o abbracciare la sorella, colse l’attimo che non si sarebbe più ripresentato, prese il polso di Morgana e si precipitarono insieme seguendo a ruota l’esempio di Fabiano. Leona soppesando al tatto i due oggetti che si era conquistata con fatica e sacrificio, l’ampolla da un lato e il ciondolo del sole dall’altro, rivolse un sorriso sghembo ai suoi amici «Restate vivi». Detto questo, voltò le spalle alle ceneri morenti di quella battaglia e alla regina del regno che non smetteva d’inveire contro di lei, e attraversò il limbo fra i mondi richiamando a sé ancora una volta le sue fidate spade.
Le sue kopis di ghiaccio sigillarono il passaggio e Leona giurò di non fare più ritorno in quel mondo di creature incantate.

Angolo dell'autrice: Salve a tutti lettori! Mi rendo conto di esser diventata latitante negli ultimi tempi, ma ho compensato il ritardo della pubblicazione con la lunghezza del capitolo (moltooo lungo) e se siete giunti fin qua sotto avete avuto un bel fegato XD Chissà quanti di voi avranno capito chi si nasconde dietro la maschera del guerriero? Gli indizi sono molti e non sarà così diffcile capirlo ;) A presto per un nuovo capitolo! Baci :-*

 

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Capitolo 49
*** LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA ***


CAPITOLO 36 - La quiete prima della tempesta

Per un momento fu solo un turbine di polvere e detriti. Il calore cocente del sole le pioveva addosso perforandole la pelle fino a farla scottare, come se il freddo invernale si fosse rintanato altrove, in un altro pianeta, un’altra stagione. Macchie scure danzarono sulla visuale annebbiata di Leona che continuava a strizzare gli occhi feriti dalla luce pomeridiana e voleva solo giacere immobile a terra, dove nulla faceva male, soltanto un altro po’. Il canto di un rapace sberciò in un punto lontano sopra la sua testa, non sapeva esattamente dove.
Terra, guizzarono i suoi pensieri impastati, la sua terra, si ripeté affondandovici le unghie per reclamarne il possesso. La terra era calda, asciutta, accogliente sebbene sofferente a causa della siccità, assetata come un beduino perso fra le sabbie del deserto alla ricerca della promessa di un’oasi ristoratrice. Leona riusciva a capirla. Le ciglia sventagliarono un paio di volte per scrollarsi di dosso le pagliuzze polverose permettendo ai suoi occhi di vedere in mezzo a quella tempesta argillosa che le vorticava attorno. Quando fu pronta a rialzarsi, una scossa dolorosa le scalò il braccio depositandosi sulla spalla e il torace riprese a graffiarla dall’interno, il mana disperso fra le cellule del suo corpo, confinato in piccole isole irraggiungibili, incapace di radunarsi ancora una volta e infonderle forza. Il dolore rischiarò la foschia di intontimento che la ottenebrava e prese coscienza di ogni centimetro di pelle squarciata in tagli profondi e sanguinanti, delle sue ossa brutalmente spezzate, accartocciate, di ogni livido che le pizzicava il viso e che le pulsava come il battito di un cuore appena sotto il primo strato di epidermide. Affondò ancora più giù le dita nel terreno arido aggrappandovisi con tutto il suo essere e un picco di energia prese a fluire dentro le sue vene. Leona non voleva chiederle così tanto alla terra che gemeva straziata sotto di lei, così riarsa che nemmeno un ciuffo d’erba sarebbe cresciuto sotto le sue cure. Alla fine il suo bisogno disperato ebbe la meglio, la sua preghiera le era sfuggita silenziosa dalle labbra e lei, come sempre, era in ascolto. Era sempre stata premurosa. Leniva le sue sofferenza, la rinvigoriva, le ricuciva ogni taglio, riposizionava le ossa al proprio posto e riuniva ciò che era stato separato. L’aveva prosciugata di ogni dolore, persino il più debole e insignificante tanto da non ricordare nemmeno più com’era.
«Grazie» le sussurrò ricolma di riconoscenza. L’avrebbe ricompensata con una pioggia abbondante. Se un giorno le avessero chiesto di separarsi da uno dei quattro domini elementali, Leona sapeva che non avrebbe mai potuto rinunciare alla Terra. Cedere l’armonia del creato l’avrebbe mutilata mortalmente, l’avrebbe privata della parte più importate di lei e non voleva indugiare più del dovuto su un’eventualità simile. E poi c’era il fuoco. E be’ il fuoco…col fuoco aveva un rapporto decisamente complicato. Il contatto era ancora più immediato che con la terra se questo era possibile, ma Leona non era sicura di andarne fiera. Lo odiava…ma lo amava. Non riusciva a immaginarsi il suo mondo senza poter richiamare a sé quell’ondeggiare rovente di oro lucente e rosso cremisi sulla sua pelle. Nel giorno più brutto della sua vita aveva cercato dentro di sé quel qualcosa, quell’appiglio che le avrebbe impedito di crollare e le fiamme avevano risposto alla sua chiamata, le avevano teso prontamente la mano e l’avevano cullata fra le sue braccia caldissime e confortanti. Fondersi con le fiamme le era naturale come inalare una boccata d’ossigeno nei polmoni. Non si sottomettevano mai al suo volere, quello no, perché non aveva bisogno di imporsi su di loro. Lei era fuoco, lei era devastazione e creazione insieme e questo l’aveva sempre spaventata perché non sapeva mai quale lato della bilancia avrebbe ceduto sotto uno dei due pesi.
Un rumore pulsante, ritmico e incalzante poco lontano da lei, le voleva ricordare della sua presenza, come se andasse ghiotto delle sue attenzioni. Leona sentiva la sua eco riverberare nella sabbia profusa in raggi rossi che la baciavano delicatamente. La protettrice sollevò la testa e il ciondolo del sole occupò l’intera visuale. Il suo potere la stava chiamando, la stava supplicando di usarlo, di infondere l’energia nelle sue arterie per darle sfogo. Si sollevò sulle ginocchia tremanti e si sporse in avanti allungando un braccio verso la collana. La catena fu ghiacciò sulla sua pelle e la fece rabbrividire, ma la strinse comunque fra le dita e l’attirò a sé vicino al cuore, la pietra che le penzolava sul ventre. Con un gesto svelto e privo d’incertezza se lo infilò dalla testa facendolo scivolare sul collo e il ciondolo cominciò a brillare sotto le sue carezze. Le voleva mostrare trepidante ciò di cui era capace, voleva che ne prendesse possesso ripetendole all’infinito come un ronzio nelle orecchie di usare il suo potere, si era venduto a lei come se la sua precedente proprietaria non fosse mai esistita. Ammaliata dal suo canto, Leona voleva cedere alle lusinghe che quel potere le voleva concedere, voleva attingere dalla fonte dell’invincibilità e relegare in catene tutte le insicurezze che fino a quel giorno l’aveva massacrata, ma la litania che le sussurrava nella mente cessò non appena due braccia stritolatrici si avvolsero attorno a lei  facendola implorare per un po’ d’aria.
«Sei viva, sei viva, sei viva» piagnucolava la voce.
Leona sorrise e rispose a quell’abbraccio asfissiante cercando di non affogare fra le lacrime salate di Morgana.
«Lo sono grazie a te» ammise Leona immergendo la faccia fra i suoi capelli rossi profumati di lavanda.
«Non sai che paura che ho avuto, pensavo fosse troppo tardi e ho fatto la prima cosa che mi è passata per la testa…Oh Leona! Se non avesse funzionato, se il contratto avesse reclamato la tua vita senza che io potessi dirti che..»
«L’idea della freccia è stata geniale. Ho sentito la tua voce, quando tutto era buio». Leona strinse ancora più forte la sua amica fra le braccia. Fino a quando qualcuno non applaudì. Il suono si propagò fin giù nella vallata, perdendosi lontano dove cielo e terra si abbracciavano.
«Davvero commovente».
Gabriel la guardava con determinazione, nascondendo a malapena la sua voglia irrefrenabile di gettarle addosso una zolla di terra o affogarla sul fondo del mare. Il suo improvviso moto d’ira le fece male al petto. Allontanò Morgana da se e le asciugò silenziosamente le lacrime, la catapecchia fatiscente circondata da sterpaglia secca e macerie alle sue spalle era lì, come le aveva promesso la visione del portale, e non andava da nessuna parte almeno per il momento. Fabiano si era rimesso in piedi a fatica e la osservava con un misto di compassione e complicità. Entrambi sapevano che nulla avrebbe potuto fermare la furia incontenibile di Gabriel. Poi tornò a voltarsi verso il fratello, con l’eco della sua stessa rabbia a travolgerla.
«Gabriel io…».
«Sei guarita» considerò Gabriel accigliandosi. Leona si diede una rapida occhiata e a parte il vestito azzurro della regina fatto a brandelli, pareva completamente illesa, tremendamente sporca, ma illesa.
«Bene» esclamò senza nessuna traccia di sollievo. Poi l’aria sfrigolò con un riverbero sibilante. Il vuoto fra i due gemelli fu lacerato da una lama di vento che mancò Leona di qualche centimetro.
«Sei impazzito» lo rimproverò la gemella quando il sole cominciò a giocare a nascondino dietro enormi nuvoloni vaporosi, il calore dei suoi raggi che lasciava il posto al freddo pungente del vento e della burrasca in arrivo. Leona avvertì il ronzio dell’elettricità statica nell’aria ancora prima che il rombo spaccatimpani di un tuono rimbombasse nella valle brulla. Il temporale che minacciava di rovinargli quell’illusione di una giornata estiva. Presto il mondo attorno a loro si chiazzò di ombre.
«Sono proprio curioso. Sentiamo quale delle tue enormi cazzate hai serbo per me questa volta. E spiegami cosa diamine era quella scritta sul tuo cazzo di braccio».
«Era proprio per questo che non volevo coinvolgerti in questa storia del contratto, sapevo che saresti stato contrario».
«Be’, puoi biasimarlo?». Ci mise qualche secondo per capire che quella esclamazione risentita non era venuta fuori da Gabriel ma dal ragazzo accanto a lui. Leona lo linciò con lo sguardo ferito di chi si sente tradito. Aveva pensato che fosse dalla sua parte ma si era sbagliata: era un due contro uno.
«Sentite, non ho intenzione di chiedere scusa a nessuno di voi. So quello che faccio, dovete fidarvi di me».
Il verso scocciato di Gabriel riaccese la sua rabbia.
«L’ultima volta che mi sono fidato mi sembra che stavi sputando sangue sulla sua camicia». Gab indicò l’amico alla sua destra. «E poi da quando ti piacciono i tatuaggi?» ironizzò senza staccarle i suoi occhi blu di dosso.
Leona si passò una mano fra i capelli e si trattenne dallo strangolarlo, anche se in fondo una vocina fastidiosa continuava a ripeterle che stesse sguazzando nel torto.
«Attila non mi ha dato molta scelta, Gab. O li prendevo entrambi o non avrei avuto il suo aiuto, senza di lui non avremmo mai saputo del ciondolo della luna. E per essere sicuro che non gli giocassi un brutto tiro mi ha fatto firmare quello stramaledettissimo contratto, che il cielo mi fulmini». Ricordandosi dell’imminente acquazzone sopra di loro, si rimangiò subito quell’imprecazione. «Era un male necessario» continuò «a volte si deve cedere a piccoli compromessi per ottenere quello che si vuole».
«La tua vita ti sembra un piccolo compromesso? Ma ti senti quando parli?» sfuriò il fratello dispiegando le braccia in alto. Altri due fulmini schiarirono il grigiore del cielo burrascoso.
«Hai la minima idea di come ci siamo sentiti impotenti di fronte a quel sortilegio che sembrava risucchiarti via la vita dall’interno?» lo appoggiò Fabiano. Il viso era ancora più arrossato di prima. La febbre continuava a salire e Leona ripensò alle sue ferite. «Me lo avevi promesso Lea. Avevi giurato che non avresti più rischiato di…».
«Ma che assurdità!» s’intromise Morgana prendendo per mano la sua migliore amica per offrirsi come suo pilastro.
«Siamo protettori, per la barba di Majak, imbracciamo armi invece di giocare con le bambole, come potete pretendere di rinchiuderla in una boccia di vetro? I protettori muoiono continuamente. Una nostra compagna è morta».
Quella tremenda parola aleggiò fra loro portando con sé il dolore e l’odore del sangue. «E’ questa la nostra esistenza, votata al rischio e al sacrificio, come potete dopo tutto questo tempo non esservene resi ancora conto. Dovreste ringraziarla piuttosto, nessuno di noi avrebbe avuto il coraggio di prendere quella decisione».
«Be’ sicuramente non qualcuno con un minimo di sale in zucca» le rinfacciò Gabriel.
«Senti chi parla!» lo pizzicò Morgana «Hai una bella faccia tosta per uno che è diventato lo spuntino di un mostro marino? Leona, lascia perdere quell’idiota, non è in grado di capire quello che tu hai fatto per tutti noi».
Gabriel rise sottovoce «Certo, però quando l’idiota ti ha baciato, non mi sembra che ti sia dispiaciuto così tanto». Le ciglia di Morgana sfarfallarono veloci come quelle di un colibrì, e i suoi occhi castani s’inviperirono come mai prima di allora. Fece qualche passo verso di lui col viso così rubicondo che pareva che qualcuno le avesse gettato addosso un secchio di vernice.
«Quello è stato solo uno spiacevole incidente che non si ripeterà mai più». Scandagliò ogni parola con cura maniacale.
«Come? Non credo di aver sentito bene. Hai forse detto spiacevole? Io ricordo perfettamente come ti ho fatto urlare il mio nome mentre io…»
«Adesso basta!» urlò Leona interponendosi fra i due per impedire che Morgana gli puntasse arco e freccia contro. Ma i loro sguardi furibondi non smisero di cercarsi anche attraverso di lei. Nel frattempo Fabiano prese Morgana per un gomito trascinandola lontano da Gab.
«Io non so cosa mi sia successo» disse mentre la vergogna si faceva spazio nel suo viso tinto di rosso «Io…io».
«Vi hanno drogato» le spiegò Fabiano «Hanno corretto il vino con dell’eros liquido, una potente pozione d’amore che inibisce i freni del subconscio e confonde la mente».
Morgana si schiaffeggiò la fronte «Era nel vino…ma certo. Che stupida che sono stata!».
Fabiano scosse la testa comprensivo «Se non hai un fiuto allenato, è quasi impossibile accorgersene, di per sé il vino ha un odore coprente molto forte, per questo è la bevanda più utilizzata con cui creare un miscuglio»
Leona si accigliò «Tu allora lo sapevi…».
«Sara era una avvelenatrice esperta, per lei pochi intrugli e corrispettivi antidoti le erano segreti. Nostro padre l’aveva allenata sin da piccola a riconoscerli fra loro e lei voleva fare lo stesso con me…». La sua espressione si strinse in una smorfia di dolore, ma Leona non sapeva se gliele avessero provocate le ferite ai piedi o il ricordo di sua sorella…
«Anche dopo la sua scomparsa, non ho mollato gli allenamenti e ho continuato per anni. Era un modo per sentirla ancora vicina…».
Mentre il suo sguardo si faceva vacuo, Morgana arricciò le labbra come a trattenere un gemito sofferente, come se potesse sentire i crucci del ragazzo e gli poggiò la testa sulla spalla. Fabiano le sorrise debolmente come se quel gesto gli fosse di conforto. Leona scacciò via immediatamente quell’inopportuna fitta allo stomaco che si attorcigliava a spirale su se stesso e rilassò la postura delle spalle avvertendo che il peggio era passato. Il cielo però non era affatto d’accordo con lei e si inferociva ancora di più, pronto a dare sfogo alla nubifragio chiuso in quella gabbia di nuvole illuminate dai bagliori accecanti dei fulmini. Questo, pensò la protettrice, era esattamente un riflesso di quello che stava accadendo nella mente di Gabriel. E fu proprio quando la prima goccia le bagnò la guancia che comprese che l’origine di quell’imminente catastrofe metereologica fosse opera del medjai e delle sue forti emozioni in subbuglio. Lampi di gelosia e fulmini di rancore.
«E tu invece» la incalzò Fabiano risvegliandola dai sui pensieri «come lo hai capito?».
Leona dischiuse le labbra per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma l’imbarazzo la fece tentennare.
«Diciamo che purtroppo avevamo già familiarizzato in passato» ammise restia. «A Iris questi tipi di giochetti la mandano su di giri».
«E cosa ti è successo?» le domandò Morgana con la curiosità che traspariva da ogni poro.
«Io non ricordo molto». Leona sentiva le guance andare pericolosamente in fiamme. «Ethan è stato molto vago e godeva come un matto nel tacermi gli eventi di quegli attimi» stavolta la rabbia che prendeva il sopravvento.
 «Quindi tu e Ethan…» insinuò malizioso suo fratello. La ragazza non riusciva a guardare negli occhi Fabiano.
«Devo ammettere di non esserne sicura al cento per cento» lo sfidò con un’occhiataccia. Con la coda dell’occhio giurò di aver notato l’irrigidirsi di Fabiano o forse era stato soltanto frutto della sua disperata e fervida immaginazione. 
Gab schioccò la lingua in segno di dissenso «Prima Ethan, poi vai a letto col mio migliore amico» elencò con le dita ammiccando verso il diretto interessato.
Morgana non riuscì a trattenersi dallo spalancare la bocca scostandosi da Fabiano come se avesse preso la scossa.
«Non è successo nulla» smentimmo all’unisono io e Fabiano con foga.
«Ah, ah» ci ignorò proseguendo con quella conta ridicola « e per continuare Fabrizio e il povero Norman, il principe delle fate…chi altro ti è rimasto sulla lista dei cuori spezzati? ».
«Gabriel!» gli urlò.
«Che cosa c’entrano Fabrizio e Norman?» domandò sbalordita e confusa Morgana.
«Assolutamente nulla» si affrettò a zittire suo fratello.
«O be’ sì, certo, nulla. Si sono solo sfidati a duello per chi dovesse stare con lei. E’ stato davvero esilarante».  Sbirciò ancora una volta in direzione di Fabiano e il suo silenzio bruciò nell’aria per le parole non dette. La risata cupa di suo fratello la diceva sin troppo lunga. La stava volutamente mettendo in imbarazzo. Una delle sue stupide ripicche da moccioso immaturo qual era. Si credeva forse più furbo di lei? Si sarebbe pentito amaramente di averla provocata…
«Vuoi proseguire con questo gioco Gab, potresti farti male, sai fratellino?» riprese mentre un ghigno solitario si affacciava sulla sua bocca, il ciondolo del sole che si faceva sempre più caldo e pesante fra i suoi seni.
«Credo di aver omesso un piccolo particolare su quella sera. Quando ero preda del sortilegio dell’eros liquido» specificò. «E’ vero non ricordo granché, ma non penso di aver perso molto…dopo essermi accorta di avere la lingua di quel deficiente infilata dentro la bocca gli ho tirato un bel ceffone».
Morgana si accigliò «Come sarebbe a dire?  Non hai appena detto di essere stata sotto l’effetto dell’eros liquido?».
«Non più di cinque minuti, forse meno…» finì facendo spallucce. «Io sono una medjai, il mio metabolismo brucia le sostanze più in fretta di chiunque altro. L’effetto su di noi non dura così a lungo come negli altri». Leona pregò che la sua amica cogliesse prontamente quel suggerimento. Aggrottò le sopracciglia, persa in qualche strano calcolo mentale che solo lei poteva sapere.
«Cinque minuti…» si rimestò lentamente sulla lingua quelle parole. Poi il volto sembrò illuminarsi di qualcosa vicino allo stupore tramutandosi in un lampo in una ferocia bestiale.
Suo fratello deglutì, impossibilitato a smorzare quel rumore che svelava il suo terrore.
«Ma allora questo vuol dire che…» le mancò il respiro.
«Sei un porco Gabriel Massimiliano Braveheart! Come hai potuto approfittarti di me?».  
«Oh andiamo, non fare la santarellina con me! Non mentire a te stessa, lo volevamo entrambi» fece per giustificarsi Gab.
Le lacrime ripresero a scorrere calde sulle sue guance «Non è questo il punto, idiota! Ti sei servito del mio stato d’incoscienza per trasformarmi in uno dei tuoi stupidi passatempi, soltanto per aggiungere un altro pezzo alla tua interminabile collezione. Non doveva andare in questo modo, non così! Mi hai ferita Gab…hai violentato la mia volontà! » tirò su col naso.
«Morgana, non dire così, lo sai che non è vero. Tu non sei come le altre…non sei mai stata un passatempo»
«Risparmiami le tue patetiche scuse, non c’è nulla che tu possa dire per farti perdonare. Hai rovinato tutto. Come ho potuto essere così ingenua, dannazione. Credi che il tuo potere di medjai ti renda invincibile? Che possa giustificare la tua arroganza? Che possa permetterti di giocare con il cuore degli altri? Con il mio fottutissimo cuore? Non hai nemmeno idea di quante volte lo abbia immaginato…il nostro primo bacio.» Per brevissimo istante, un piccolo e timido sorriso fece breccia sul suo volto angustiato, ma si spense troppo presto, bruciato come una stella cadente che lascia una ferita luminosa nel cielo, rimpiazzato da qualcosa che nessuno dei presenti avrebbe voluto vedere. In fondo ai suoi occhi, la sua anima era stata spezzata, senza alcuna pietà. Leona si sentì ardere dall’odio per se stessa, che cosa aveva fatto?
«E be’» continuò lei con la vocina incrinata e soffocata dal pianto «L’ho avuto. E terrò questo ricordo con me per sempre. E ogni volta che ci penserò mi sentirò pervadere dalla nausea e dal disgusto, per il resto dei miei giorni. Ti odio Gabriel, io ti od…». Non riuscì mai a pronunciare per intero quella frase. Si portò una mano sulla bocca per mettere a tacere i singhiozzi e una sul petto dolorante. Nessuno disse una parola quando corse via, quando varcò i cancelli della tenuta dismessa  finché il suo vestito verde, l’unica traccia di vita in quel giardino maledetto dalla morte, non venne ingoiato da una fitta coltre di erbacce secche e alberi spogli e rugosi.
Poi si aprì una voragine sul cielo e le nuvole gli rovesciarono addosso mesi e mesi di piogge arretrate, finalmente pronto a saldare il suo debito. In un attimo furono tutti e tre zuppi d’acqua piovana, il fango che si avvallava attorno alle loro caviglie.
Gabriel tremava come in preda alle convulsioni. Ma Leona sapeva che non era per il freddo e l’umidità.
«Gab io…».
«Non ti riconosco più, Leona. Chi sei veramente?». Quella domanda gli arrivò forte e chiara nonostante il frastuono scrosciante della pioggia e i fulmini che esplodevo a intervalli regolari come fuochi d’artificio. La pelle attorno alle sue nocche era tesa e di un bianco quasi trasparente, le sue dita artigliate con forza sul palmo della sua mano.
«Fino a che punto i vampiri hanno affondato le loro putride zanne su di te? Mi chiedo davvero se mia sorella non sia rimasta a Londra con loro, un cadavere che si sta raffreddando lontano da qui. Che cosa aveva di tanto speciale questo Edward? Come ha fatto a plagiarti la mente così profondamente, come ha fatto a spingerti fino all’orlo del suicidio?».
«Edward mi ha salvato la vita, mi ha teso una mano nell’oscurità del mio passato». Le sue labbra erano inumidite dalla pioggia, ma la sua risposta fu secca e asciutta. Gabriel, grazie al cielo, non poteva capire cosa realmente Leona intendesse in quel momento.
«Ma lui non c’entra nulla con la mia scelta di suggellare il patto con Attila. Quella è stata una mia decisione. La posta in gioco era troppo alta perché io potessi rifiutarmi. E poi, finché la missione non sarà conclusa mi è stata garantita l’immunità, la banshee non mi ha vista morire nel tentativo di recupero del ciondolo».
«E che mi dici del dopo? Cosa ti fa pensare che una volta consegnato il bottino non si vogliano liberare di te?».
«Non lo faranno. Hanno un debito con nostra madre».
Il fratello prese un grosso respiro sollevando le spalle «E se mamma si fosse sbagliata?».
«Mi fido di lei Gabriel, con tutta me stessa…e tu?».
In tutta risposta torse il collo all’insù lasciando che la pioggia picchiasse violenta sul suo viso. La sua mano tremante si fece strada sulla schiena e si avvolse piano sull’elsa di Symphony, denudandola con un gesto fluido e incurante dal suo fodero. Mentre la tempesta lavava via il sangue dei suoi nemici, Leona fissò la folgore specchiarsi con una luce abbacinante sul piatto della lama. Leona si costrinse a non tremare e abbassò lo sguardo come se la vista di quell’arma fosse insostenibile. Il ricordo di quella mattina maledetta che si faceva spazio prepotentemente nella sua mente. L’avrebbe guardata con gli stessi occhi adoranti se avesse saputo che il morso gelido dell’acciaio di Symphony aveva ascoltato l’ultimo battito singhiozzante del cuore della  loro mamma? Che avesse spento per sempre la luce nei suoi splendidi occhi neri che tanto li avevano amati?
«Mamma non è qui per indicarci la via. E’ morta» disse rimirando la sua spada come se avesse riconosciuto in lei la colpevole della sua dipartita. Ma era soltanto un illusione. «Quindi no, non voglio fidarmi di chi mi ha abbandonato e gettato crudelmente in questo inferno…».
«E se anche tu hai intenzione di lasciarmi…sappi che farò qualunque cosa per impedirtelo. Non posso accettare di proseguire il mio viaggio senza te al mio fianco».
Lanciata la sua ultima minaccia, si voltò verso la villa abbandonata, custode inviolata del ciondolo blu, incespicando in mezzo alla pioggia da lui stesso creata. Si fermò con gli occhi fissi su quella dimora e la spada puntata verso il pantano fangoso.
«Ti rifarò la stessa domanda, ma sta volta voglio che tu sia sincera con me. Capirò se mentirai. Ho bisogno di sapere la verità».
Leona non voleva affatto alimentare la sua curiosità, non voleva piegarsi al suo volere. Misteriosamente si ritrovò a incitarlo con un “«Cosa?»”.
«Quando sarà giunto il momento, quando avremo il ciondolo della luna fra le mani, avrai il coraggio di avanzare la nostra richiesta? Riuscirai a chiedergli di spazzare i vampiri dalla faccia delle terra?». In principio Leona poté confondere i suoi silenzi colpevoli in mezzo agli ululati del temporale, ma poi la sua ferrea volontà svanì insieme al suo insito istinto di proteggere il suo gemello, la sua metà, da qualsiasi verità potesse ferirlo e fargli irreparabilmente del male.
Assaporando il diluvio sulla sua bocca, gli spalancò una finestra sulla sua mente, lasciandogli ancora una volta la possibilità di sbirciare al suo interno.
Proiettandosi dentro la sua anima, formulò la risposta nei suoi pensieri e concesse al medjai il tempo necessario di leggerla più volte, in modo tale che non ci sarebbe stato mai più nessun equivoco fra loro.
Leona non seppe mai quale effetto generarono le sue parole nel fratello, perché una volta incassato il colpo, la connessione fra i due si spezzò, un’interruzione netta come se l’avesse tagliata a fil di spada con la sua Symphony.
Lei non lo sapeva. Almeno però non avrebbe avuto alcun rimorso, non avrebbe potuto rimproverarsi nulla in futuro. Per una volta era stata completamente sincera con la persona che amava di più sulla terra.
**********
«Come ha fatto Edna a capire dove eravamo?» domandò Fabiano mordendo un quadratino di cioccolato offertogli da Leona, il sapore dello zucchero e del cacao che gli esplodeva nelle papille gustative.
Lei gli rispose a bocca piena, sperduta nel bel mezzo di una trans mistica indotta dal suo bramoso avventarsi su quella povera barretta «Ho sviluppato una connessione psichica, lei è i miei occhi e io sono i suoi, comunichiamo telepaticamente. Non importa dove ci troviamo, io e lei sapremo sempre come ritrovarci». Sorrise da lontano alla sua chimera che sguazzava con zampe da leone nel fango, come una madre che osserva il proprio bambino divertirsi al parco giochi.
«Mmm» mugugnò assorto nei meandri dei suoi ricordi, picchiettandosi il mento con un dito.
«Che c’è? Ti sembra impossibile?» sbottò pronta a dare sfogo a tutta la sua irritazione.
«Niente affatto» dichiarò «Penso soltanto che non sia comune, nemmeno fra i medjai. I menestrelli hanno sempre cantato dell’immenso potere dei quattro elementi naturali che regolano le leggi della natura e degli eroici medjai detentori di tale potere, ma mai di questa sorta di connessione con gli animali di cui parli tu, come se fossero un’estensione della tua stessa anima. E’ stato documentato soltanto un caso simile al tuo in tutta la storia. E credo proprio che si trattasse di Gassan ».
«La gemella di Majak?».
Fabiano annuì serio.
«Non ne avevo idea. Quando attingo dall’effetto osmosi, difficilmente riesco a individuare la fonte da cui ho tratto le informazioni, afferro quello che mi serve senza pensarci troppo, non sto lì a rimuginarci più di tanto. Accade tutto così velocemente, è istantaneo come un battito d’ali, e ti ritrovi a giocare con un potere di cui nemmeno eri cosciente di possedere, che sia una qualche specie di magia, uno stile di combattimento, una nozione scientifica. E’ come se avessimo a disposizione un’immensa enciclopedia costruita sull’esperienza dei predecessori».
«Credo di aver afferrato il concetto» asserì lui spostandosi i capelli appiccicaticci dalla fronte.
Per qualche ragione Leona non proseguì con quella che Fabiano trovava una interessantissima disquisizione sulle capacità dei medjai e aggrottò le sopracciglia pensierosa «Certo che ormai non ti sorprende più nulla eh? Non avevo intenzione di annoiarti».
Fabiano sgranò gli occhi pervaso dai sensi di colpa «Non ho mai detto che trovo noioso ciò che dici, anzi. Starei ad ascoltarti ore ed ore. Da quando ho scoperto che tu e Gab eravate molto di più di ciò che appariva, ho spolpato l’intero archivio di mio padre a caccia di informazioni sul vostro conto, per poter comprendervi meglio, per sentirmi più vicino a te… a voi» si corresse.
Un nerissimo ciuffo ondulato le ricadde sul viso e Fabiano trattenne l’impulso indomito di sistemarglielo dietro l’orecchio, un gesto che un tempo gli sarebbe risultato così facile e ora…Per sua fortuna Leona lo tolse da quell’impiccio, lo acciuffò, infastidita, fra le sue dita e lanciò all’indietro lasciando che fosse inghiottito nel resto di quella coltre corvina e lucente tanto lunga che da seduta sfiorava le assi del pavimento.  Le sue guance si imporporarono appena mentre si mordicchiava le labbra. Chissà se era consapevole di essere così…bella.
«Prima di addentrarci nella tana del bianconiglio» proseguì «io e Gab abbiamo allestito degli zaini di emergenza, abbiamo comprato un po’ di vestiti di ricambio, bende e medicinali e fatto provviste di generi alimentari necessari affidandoli a Edna. Non si è mai troppo prudenti, e in effetti ho avuto ragione, non potevo andarmene in giro con quegli stracci, ti pare?» gli strizzò l’occhio in un gesto confidenziale.
Se ne stavano entrambi seduti nel portico riparato dalla tettoia con le gambe penzoloni al di la della ringhiera di legno marcio e putrido a godersi il loro misero pasto composto per lo più da merendine confezionate, quelli che lei considerava “beni di prima necessità”. Fabiano scosse la testa divertito dalle sue bizzarre opinioni su ciò che lei riteneva fosse indispensabile per sopravvivere. Il suo amore per il cioccolato non aveva confini. Una volta gli aveva confessato che ci avrebbe fatto pure il bagno se avesse potuto. Al ragazzo sfuggì un sorriso involontario a quel pensiero  e alla serietà con cui glielo aveva rivelato.
 Avevano bruciato i loro vecchi e lisi abiti cerimoniali, in modo tale da non lasciare alcuna traccia di loro, rimpiazzandoli con indumenti comodi e pratici. Leona sembrava decisamente più a suo agio nella sua maglietta a girocollo di cotone nero, i pantaloni mimetici di diverse tonalità di verde e gli scarponcini da trekking color castagna, la stessa divisa che aveva anche lui in quel momento. Fabiano gliene era eternamente grato per il suo cambio di look. Era rimasto ben poco del suo bellissimo vestito azzurro indossato durante lo Scao Leadh, e la vista di tutta quella pelle nuda lo stava decisamente spedendo con un biglietto di sola andata al manicomio. Ogni volta che provava a sbirciare verso di lei, era un susseguirsi d’infarti a raffica e calore. Non che anche conciata in quel modo non avesse alcun effetto su di lui, ma contenere i suoi pensieri gli era sicuramente più semplice. Quei deliri dovevano essere stati causati dalla febbre, quella che gli sedeva accanto era la sua migliore amica e non doveva desiderare il suo corpo per nessuna ragione al mondo. Aveva un profondissimo rispetto di lei e non l’avrebbe mai voluta violare con pensieri peccaminosi. Ogni volta che sentiva sfuggirgli la situazione di mano, si autoinfliggeva piccole scariche di dolore, come un campanello d’allarme, perché il dolore era l’unica cosa in grado di riportarlo alla cruda realtà, così gli aveva insegnato suo padre. Oppure si rifugiava nel suo splendido viso, nel profumo dei suoi capelli, annegava nei suoi brevi e sporadici sorrisi, cercava d’intercettare ogni singola sfumatura di blu nei suoi occhi straordinari, o ancora si lasciava catturare dal suono della sua voce limpida e  a tratti soave…
Fabiano era sempre stato il migliore nel gestire le proprie emozioni, le pulsioni primordiali che ti rendono fragilmente umano. L’addestramento era stato così duro che oramai gli veniva naturale. A volte si sentiva quasi un automa disumanizzato in tutto e per tutto, e invidiava i visi altrui su cui scorrevano arcobaleni variopinti di emozioni, mentre lui pareva conoscere a volte solo l’amarezza del dolore, o ancora peggio il vuoto divorante dell’apaticità. Osservava i suoi coetanei vittima del soggiogamento degli ormoni senza capirne il perché, senza riuscire a cogliere cosa li potesse travolgere con tutta quella violenza. Lui non era immune alla bellezza, era semplicemente un tacito osservatore a una mostra d’arte, capace di comprendere l’espressività di un quadro senza aver bisogno di possederlo. Con Leona però era diverso e non riusciva in alcun modo a darsi pace per questo. Guardarla lo faceva semplicemente stare bene, lo faceva sentire giusto, sentiva di avere un posto nel mondo, lei era il suo piccolo centro gravitazionale che gli aveva impedito di diventare un involucro di carne e ossa senz’anima, strappandolo ai desideri perversi di suo padre. Lui sapeva che Marlena era bella e quanto i suoi amici gliela invidiassero, ma non sentiva il bisogno di saltarle addosso, di toccarla in modo sconveniente o andare oltre qualche bacio, complici certamente le dure lezioni impartitegli da Tiziano.
Quando i suoi pensieri vagarono sulla sua ex fidanzata, ogni battito del suo cuore si fece sofferto. La rivedeva più e più volte piangente e ricoperta del sangue della sua migliore amica, i suoi urli strazianti, la perdita di ciò che le era più caro nei suoi fragili occhi di giada. Poi vedeva Carlotta, immobile come non lo era mai stata, il freddo del suo corpo che si mescolava con quello del pavimento, l’assenza del sollevarsi ritmico del petto ad ogni respiro, bianca come Fabiano si era sempre immaginato la morte: priva di colore.
«Starà bene. Devi solo darle del tempo». Fabiano sollevò il capo, sorpreso di come Leona fosse riuscito a penetrare la barriera invisibile dei suoi pensieri.
«Non leggo nel pensiero come Edward» pronunciò quel nome delicatamente, come un riverenza astratta «Negli anni ho solo imparato a capire quando qualcosa ti tormenta, e poi…ci stavo pensando anch’io». Le tegole della tettoia sopra i loro scricchiolarono sinistramente accompagnati dai sibili di un venticello fresco lasciato in eredità da quel terribile temporale, ormai lontano all’orizzonte. L’aria era frigida, fresca al punto giusto e pregna dell’odore di terra bagnata. Il sole s’incamminava pigramente verso le tenebre. Mentre gli faceva quell’ammissione, il suo cipiglio si oscurò, ripiegato dalla fatica di una concentrazione meticolosa, fissando intensamente la pozzanghera sotto di loro. Fece un movimento assorto e inconsapevole con le dita senza spezzare il contatto visivo, e Fabiano non potette fare almeno di imitarla. La superficie dell’acqua s’increspò e qualcosa sbucò fuori dalla melma. Il germoglio si avvitò in una danza sinuosa verso l’alto per poi sbocciare fieramente in candidi petali venati di striature rosate. Ne restò incantato.
«Ti piace? E’ stato il primo fiore che sono riuscita a creare. Allora ero solo una bambina con soltanto l’idea abbozzata di cos’era un fiore nella mente. Dovevi vederlo, era assolutamente deforme e privo di ogni logica» s’interruppe con un risolino.
«Nonostante questo, mia madre continuava a sostenere che fosse la cosa più bella che avesse mai visto». Poi sentì un dito scivolargli sotto il mento, il suo dito, e lo costrinse a levare lo sguardo oltre la staccionata. Fabiano restò a bocca aperta. Lì, dove prima non c’era che sterpaglia raggrinzita dai troppi mesi di siccità e un paesaggio punteggiato da nient’altro che asperità e distese infinite di nulla, adesso si stagliava una maestosa prateria rigogliosa, un esplosione di verde intenso e  fiori dai mille colori.
«Ma come, quando?» balbettò senza riuscire a contenersi.
«Molto meglio, non credi?». S’illuminò di un sorriso mozzafiato per poi rabbuiarsi subito dopo.
«Vorrei provare di più, dovrei provare di più, ma semplicemente non credo di esserne capace. Carlotta non ha dato la sua vita in vano, ciò che ha fatto è stato a dir poco meraviglioso. Non credo che sia stato sciocco, perché se ci fosse stato uno di voi avrei fatto lo stesso. A volte non ti fa paura?».
«Che cosa?»
«Amare. Amare a tal punto che daresti tutta te stessa, tutto il tuo essere, fino al tuo ultimo respiro, ti annienteresti diventando nient’altro che polvere al vento pur di avere salva la vita di coloro che ami. Diventare niente per il tuo tutto, il tuo intero mondo».
«Non riesci a vederlo? Che è l’amore a muovere ogni cosa?» proseguì fervorosa «Ma…come si può in nome di qualcosa di così puro compiere crimini terribili che nemmeno ti saresti mai immaginato di commettere? Io ne sono terrorizzata. Sento che per Gabriel farei qualsiasi cosa…senza alcun limite». Si aggrappò con rabbia alle inferriate della ringhiera celandogli il volto fra i capelli.
Tirò su col naso e riprese la conversazione da dove l’aveva lasciata «Non so più chi sono nemmeno io, Gab ha ragione. Guardavo il corpo esanime di Carlotta, il corpo di colei che per anni mi aveva dato il tormento e non provavo nulla, non ci stavo male per lei, nemmeno un pizzico di rabbia o conforto. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in me, Fabiano. Il vuoto assoluto.
Il vuoto lasciato dall’aver creduto che mio fratello fosse morto. Io non riesco…non riesco a descrivere minimamente come mi sono sentita, le parole sarebbero inutili e inefficaci, non potrebbero mai rendere giustizia alla devastazione che aveva raso al suolo ciò che era rimasto del mio povero cuore. Come se fossi stata risucchiata in un eterno buco nero senza via d’uscita, dove niente aveva più senso di esistere. I colori, gli odori, i sapori non erano altro che fastidiosi accessori che stridevano nel mio nuovo mondo fatto di grigio e dolore e apatia».
Si vedeva visibilmente che soffriva, ma cercò lo stesso dentro di sé la forza per riappropriarsi di un contegno. La sua voce divenne fredda.
«Io non voglio mai più provare quelle cose, mai più» ripeté scrollando il capo.
Fabiano prese un respiro e senza rendersene conto le aveva afferrato la mano stringendola forte a sé.
«Leona» la chiamò dolcemente per ricevere le sue attenzioni. «Non trovo nulla di assurdo in ciò che mi hai detto. Ricordo benissimo quella sensazione» disse ripensando a sua sorella «Ma non devi temere. Il testone di Gabriel continuerà a renderti la vita impossibile ancora per molto tempo». Così dicendo le strappò una risata «Non devi pensarci più, hai capito?».
Leona annuì decisa e il ciondolo che portava al collo prese a oscillare come un pendolo. Fabiano si fece pensieroso e aggrottò le sopracciglia.
«A cosa potrà mai servigli il ciondolo del sole ad Attila? Perché vuole entrambi?» le domandò senza smettere di fissarlo. Leona frenò quell’ipnotizzante oscillazione afferrandolo con la mano libera e se lo portò vicino al viso sorridendogli biecamente.
«Dopo aver spezzato il sigillo della prigione di Highgate, vorrà avere qualcosa con cui difendersi, immagino. Non mi ha reso partecipe del piano completo».
«Secondo me c’è qualcosa sotto o non ti avrebbe fatto firmare il contratto vincolandogli la tua vita come garanzia»
Leona fece un verso stizzito «Comunque saranno affari suoi, io mi limiterò a svolgere il mio umile ruolo di corriere, niente di più. Dopo di che otterremo una cura per i protettori maledetti dal Linckage».
«Finalmente le farneticazione di mia madre hanno avuto un senso. Non smetteva di ripetere quella parola per giorni interi a volte. Lei aveva sempre saputo cos’era…ma allora perché non ne ha mai parlato? Non posso credere che volesse coprire mio padre, non lo avrebbe mai fatto».
«Credo che c’entri qualcosa la sua cecità. Rifletti. Tua madre deve avere intercettato i traffici loschi di Tiziano, magari è incappata in una delle famose liste di compratori che tuo padre teneva nascoste nella cantina di casa tua e dopo aver scoperto quello che avevano fatto a Sara ha tentato di ribellarsi.  A quel punto Tiziano non credo abbia avuto scelta, sua moglie si era trasformata in una testimone scomoda e dovevano metterla a tacere ad ogni costo o avrebbero perso tutto. Sono sicura che l’abbiano privata della vista e incoraggiato la sua follia per impedirle di denunziare i crimini della coorte  dei sette e poi hanno insabbiato tutto».
La sua mano si strinse involontariamente sulla sua come se fosse disgustato da quella possibilità.
«Credi che il ciondolo della Luna possa guarirla?» le chiese speranzoso.
Il volto di Leona si fece compassionevole «Non voglio illuderti, Fabiano. Anche la magia ha i suoi limiti».
Fabiano si accigliò ancora di più. Non riusciva a togliersi dalla testa quella terribile storia. La fame non faceva che aumentare, alimentata dall’ansia asfissiante dei loro discorsi. La liberò della sua stretta da boa e cominciò  scartare l’involucro di un’altra merendina.
«Posso farti una domanda?» si finse distratto. In realtà era molto più che curioso di conoscere la risposta al quesito che stava per porle.
«Come hai fatto a nasconderglielo? Credevo che giù al lago aveste condiviso i vostri pensieri. Intendo a Gab, perché non gli hai detto del contratto? Avremmo potuto aiutarti…»
Si cacciò un pezzo di cioccolato in bocca attendendo che si sciogliesse completamente sulla lingua. Sotto le palpebre, pareva prigioniera dei suoi sogni fatti di dolciumi e canditi. Lo ingoiò e arricciò ancor più giù la carta di alluminio che avvolgeva la barretta per poterci affondare ancora una volta i denti.
 «Memoria selettiva» spiegò sbrigativa leccandosi le dita. «E’ come se avessi milioni di cassetti contenenti un ricordo diverso e potessi scegliere solo io quale aprire».
«E perché mai avresti dovuto farlo? C’è forse qualcos’altro che non ci hai detto?».
Leona strinse le labbra. «L’effetto osmosi potrebbe diventare molto pericoloso se ne dovessimo abusare. Se Gab avesse libero accesso alla mia mente…non finirebbe bene».
A quel punto desistette dal godersi la sua triste merenda e la fissò, intimorito dalla piega che stava per prendere la discussione. «Allora ho indovinato, tu stai mentendo a Gabriel. Non sulla missione…è qualcosa che serbi da tempo nel tuo cuore».
«Tutti abbiamo dei segreti. Chi più chi meno. E se lui conoscesse il mio, credo che mi ucciderebbe senza pensarci due volte, non esiterebbe a decapitarmi con la sua Symphony. Peccato che sia l’unica in grado di vedere l’ironia della situazione» rise amaramente.
«Impossibile, sei sua sorella. Ti ama più di quanto sarebbe capace di ammettere» affermò con invalicabile decisione, come se non ci fosse niente capace di smentire la sua affermazione.
«A volte anche a me piace pensarla così» gli disse con lo sguardo perso in mezzo alla prateria. «Ma ci sono colpe che nemmeno l’amore di un fratello potrebbe travalicare».
Fabiano pensò a lungo alle sue parole senza riuscire mai a venirne a capo. Cosa aveva voluto dire? Cosa avrebbe mai potuto spingere Gab a desiderare la morte della sua gemella? Gli sembrava semplicemente assurda una idiozia del genere. Eppure gli occhi di Leona non aveva mentito, la sincerità che vi lesse vibrò come un coltello affilato fra loro.
Stesero in silenzio per un po’, godendosi l’uno la compagnia dell’altra. «Ti fanno ancora male i piedi?» gli chiese infine. Fabiano si era completamente dimenticato delle scottature sanguinolente che fino a poco prima lo aveva fatto contorcere dal dolore, ormai completamente cicatrizzate dagli straordinari poteri di guaritrice della sua amica. Proprio come aveva fatto con Caterina, aveva semplicemente applicato del fango sulla pianta del piede andando a rimarginare ogni ferita influenzando la composizione della terra. Uno strano calore si irradiava dalle sue dita, non così intenso da fargli male, anzi era quasi piacevole. Aveva dovuto trattenersi dal ridere perché le sue mani scorrevano così delicatamente sulla sua pelle che gli facevano il solletico. Mentre effettuava le sue miracolose medicazioni, gli aveva raccontato di aver scoperto per la prima volta il potere della rigenerazione quando Marlena le aveva tagliato i capelli. Si era addormentata  sulla sabbia, in riva a lago e i capelli le si erano allungati nel giro di una notte.
«Sto bene. Sto più che bene. Mi dispiace che vi siate dovuti fermare a causa mia. Adesso io…»
«Non ci pensare nemmeno» lo ammonì zittendolo con un dito sulle labbra «La febbre si sta abbassando ma hai bisogno di riposo. Ordini del dottore». Gli fece una adorabile linguaccia. «Domani mattina penseremo al da farsi».
«Sì capo, qualcosa mi dice che sia poco saggio contraddirla» ci scherzò su.
«Hai un buon istinto» gli confermò terminando ciò che rimaneva della barretta. Agli angoli della bocca, in quelle adorabili fossette che nascevano ai lati alle sue labbra, le si erano depositati dei residui di cioccolato. Il ragazzo si protese verso di lei per pulirle il viso ma alla fine gli mancò il coraggio e fece dietrofront.
«Sembra che tu voglia evitarmi. Mi dai come l’impressione che io ti disgusti» asserì intristendosi.
«Tu non mi disgusti affatto» si affrettò a correggere il tiro Fabiano. «Non potresti mai».
Qualcosa poi improvvisamente nei suoi occhi cambiò e il protettore avvertì chiaramente le farfalle danzargli in subbuglio nello stomaco. Troppo vicina, scattarono i suoi pensieri.
«Cosa faresti se ti dicessi che sono tutta tua?» gli sussurrò all’orecchio. Fabiano avvampò di desiderio.
«Toccami» gli ordinò la ragazza.
«Cosa?» domandò stordito da quell’invitante richiesta.
«Voglio che tu mi tocchi» gli ripeté soavemente per non dare spazio a nessun fraintendimento. Lei intrecciò le dita con le sue e gli offrì un sorriso d’incoraggiamento. Uno di quei sorrisi meravigliosi, spontanei e genuini che spesso riuscivano a spedirlo in paradiso. Poi gli baciò lentamente il palmo della mano.
«Non preoccuparti, non prenderò fuoco. Te lo prometto». Non ricordava esattamente se avesse risposto al suo sorriso. Era troppo ebbro della sua vicinanza per accorgersi delle reazioni involontarie del suo corpo che rispondeva in modo del tutto nuovo e sconosciuto. Sapeva che era pericoloso ma il suo raziocinio era sepolto troppo in profondità per obiettare con la voce petulante del padre.
Leona guidò le sue mani su di lei, e il protettore pregò che non si accorgesse di quanto tremassero sotto il suo tocco sfarfallandole sulla pelle, morbida e liscia. Le imprigionò le gote delicatamente come se stesse maneggiando del fragile cristallo e si gustò ogni piccola frazione del suo viso. Gli faceva quasi male stare lì a osservare tutta quella bellezza racchiusa nei palmi delle sue mani.
«Temi ancora di ferirla?» gli domandò con le palpebre socchiuse. Un rossore delicato le colorava le guance.
«Mi ha lasciato» sentì l’urgenza di rivelarle. Lei non chiese spiegazioni, e si limitò a sorridergli.
Disegnandogli piccoli ghirigori attorno alle nocche, lo convinse a scendere più giù, sfiorandole il collo, attardandosi sulla nuca. Il ragazzo avvertì i brividi di lei attraversargli la pelle e i battiti del suo cuore si fecero folli e indomabili. Eppure non riusciva a fermarsi. Proseguì nella discesa incontrando le spalle, e subito scivolò cautamente sulle braccia. Lo stomaco si arrotolò in una serie di nodi dolorosi. Serrò gli occhi autopunendosi per aver indugiato più del dovuto sulle rotondità prosperose che le sbocciavano sul petto.
No, s’impose il ragazzo. Avrebbe rispettato la sua femminilità, al contrario di molti uomini che non avrebbero esitato a deplorarla con meschini e languidi sguardi. Fabiano espirò, riconoscendo la vecchia amica farsi strada dentro di lui. Una vampata di gelosia, lo arse vividamente.
Quando risollevò le palpebre si ritrovò a scalarle le costole applicandogli una lieve pressione con le dita. Sgattaiolò furtivo come un ladro sotto la sua maglietta senza capacitarsi del perché e del come. Temette di avere le mani gelide, perché Leona gemette non appena fu libero di entrare in contatto con la carne rosea della pancia. Si prese del tempo per accarezzarle il ventre, gli addominali delicati ma decisi, per poi avvolgerle i fianchi lasciando vagare i pollici nei solchi sopra il bacino, dove la maglietta finiva e incontrava la pelle. Senza pensarci troppo le circumnavigò l’ombelico piano facendole il solletico e i due si abbandonarono alle risate.
Lui non l’aveva mai toccata così, non avrebbe dovuto trarre tutto quel piacere da quel contatto. Eppure nulla gli parve più giusto, più semplice e innocente della sua dolce risata.
Ma come tutte le cose belle anche il suo sorriso svanì, rimpiazzato da uno sguardo impossibile da sostenere senza rischiare di naufragare in quell’oblio blu.
Fu allora che le sue labbra si avvicinarono a pochi centimetri dalla sua, tanto da poter inalare il suo stesso respiro. Gli si aprì un cratere nel petto, lì dove il suo cuore fremeva in quella corsa capricciosa e scatenata, e attese. Ma non accadde nulla.
Un pensiero deragliò pericolosamente dai binari del buonsenso. Perché si era fermata? Quella maledetta attesa lo stava uccidendo, lentamente e inesorabilmente. Sì, era come morire sotto l’effetto sinergico dell’euforia e del terrore.
Baciami, continuavano a urlargli i suoi pensieri. Non aveva mai desiderato qualcosa con tanta intensità in vita sua. Anche se poi non ne avrebbe più avuto abbastanza, anche se la separazione sarebbe stata lacerante. Ne sarebbe valso il rischio.
«Io non morirò» gli alitò la ragazza, depositandogli un bacio sulla punta del naso. «E te lo voglio dimostrare. Tu non sarai mai la causa della mia morte». Fabiano colse il rifermento e distolse lo sguardo per la vergogna.
«Fabiano, guardami quando ti parlo…tuo padre, non ha smesso, non è così?» gli domandò seria prendendogli il mento, bruciando le ultime briciole di quella magica atmosfera che si era creata fra di loro.
«Sai già la risposta» mormorò sommessamente.
Leona abbandonò la sua posizione accovacciata e scattò in piedi. «Vorrei sentirla da te».
«Ha giocato con la mia più grande debolezza. Solo così ha potuto vincere» le rivelò lui, trapelando reticenza. Lei incrociò le braccia e s’imbronciò come se volesse invitarlo a proseguire. «E quale sarebbe?» chiese con voce tremante.
«Ancora una volta, conosci già la risposta». Lei sbuffò impaziente e palesemente insoddisfatta.
Così lui aggiunse «Tu. Tu sei la mia più grande debolezza».
Lo guardò con determinazione e si mordicchiò il labbro inferiore «Io non voglio essere la tua debolezza, Fabiano. Io voglio essere la tua forza. Voglio che tu ti fidi di me, che veda in me il motivo del tuo orgoglio, la ragione per cui vale la pena vivere questa vita di immensa sofferenza, che ci mette costantemente alla prova. Potrei essere la tua amica, la tua compagna, la tua amante, tutto quello che tu vorrai…Ma non la tua debolezza. Non posso accettarlo …».  E fece per andarsene.
«Lea, noi…».
«Non ci sarà nessun noi» disse con voce tagliente la ragazza. «Non finché non sarai completamente libero dalle catene che ti legano a tuo padre. Non posso accompagnarti sta volta nel tuo percorso, dovrai farlo da solo, per conto tuo. Sai quanto è difficile per me? Non voglio più che tu mi guardi come se fossi la tua più grande disgrazia. Rivoglio indietro il mio Fabiano, quello che ho conosciuto un tempo e di cui mi sono perdutamente innamorata».
Fabiano per un attimo non riuscì più a sentire i battiti del suo cuore, si erano fatti sordi e inudibili. Forse era morto?
quello che ho conosciuto un tempo e di cui mi sono perdutamente innamorata.
Aveva davvero pronunciato quelle parole? L’euforia gli crebbe dentro a dismisura fino a diventare incontenibile. Ma non riuscì a dire una parola, aveva la gola secca e la lingua impastata.
«Ma fino ad allora» gli ripeté la protettrice «Noi non siamo nulla».
Demolito in un solo colpo. Ricoperto dalle macerie di quella cocente delusione, la seguì con lo sguardo allontanarsi da lui, al limitare dei confini del casolare abbandonato.
Quella notte il protettore sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere occhio. L’amore per la ragazza che sviscerava dentro di lui così crudelmente tanto da togliergli il respiro non glielo permise. Non sapeva esattamente il perché, ma  la sua mente corse al giorno in cui la incontrò per la prima volta. E ripensò a come nonostante tutti non facessero che ricordarle quanto i suoi genitori fossero dei traditori, lei aveva continuato a lottare per fare emergere la loro innocenza, e si era schierata pubblicamente dalla loro parte sfidando e beffeggiando gli insulti di Hans. All’inizio pensava di nutrire niente più che una profonda ammirazione per lei e per ciò per cui lottava così ardentemente, perché Leona aveva toccato una vetta per lui impossibile da raggiungere: opporsi agli ingiusti soprusi di chi deteneva il potere. Non poté non paragonarlo al rapporto di sudditanza e integerrimo servilismo che aveva col padre ed esserne vergognato. E lei era fiera, diceva e agiva per ciò che riteneva più giusto senza preoccuparsi delle conseguenze. Ma lei non si era limitata a quello. Aveva dato prova del suo inarrivabile coraggio quando quel giorno aveva fermato il suo bastone prima che il colpo di grazia infierisse su Gabriel. Quello era stato il giorno in cui per la prima volta nella sua vita era finalmente riuscito a guardare negli occhi suo padre e disobbedito deliberatamente ai suoi ordini, consapevole che poco dopo ne avrebbe pagato il prezzo. Era stato il suo gesto a sbloccargli qualcosa dentro e ad averlo salvato. Aveva creduto davvero di poter godere per sempre di quella libertà conquistata poco per volta, a piccoli passi incerti, ma poi lei era andata via e il suo mondo sembrò resettarsi e tornare al punto di partenza, in quel piccolo angusto universo fatto di tenebre. Aveva perso la forza e la determinazione per opporsi al suo aguzzino e non gli restò altro che lasciarsi modellare come creta fra le mani di suo padre, che sembrava conoscere il solo linguaggio della violenza come unico possibile idioma universale per forgiare un guerriero.
Se solo Leona lo avesse visto…lui non voleva deluderla. Era un po’ come se l’avesse tradita come se avesse gettato via tutti gli sforzi che gli erano costati per ritrovare sé stesso. Come poteva soltanto osare amarla? Avrebbe dovuto essere migliore di così, per lei…Voleva tornare quello di un tempo, voleva poter essere di nuovo degno dei suoi dolci e intensi sguardi che lo facevano sperare in qualcosa di più…
Sapeva però che Leona si sarebbe opposta con tutte le sue forze, il movente che lo avrebbe spinto a riconquistare ciò che gli avevano strappato via avrebbe dovuto essere lui stesso. Fabiano la guardò con tenerezza frammista a rabbia. Se le cose stavano così, non poteva chiedergli di non amarla, non ne aveva il diritto. Come se fosse stato facile, come se avesse potuto semplicemente spegnere un interruttore e affievolire le sue emozioni. Era una sua scelta e se lui avesse potuto, l’avrebbe rispettata. Ma quello che provava per lei andava oltre ciò che lui era in grado di comprendere. Smettere di amarla? Era come chiedere al mare di prosciugarsi o al sole di spegnersi per sempre. Sarebbe dovuto morire, avrebbe dovuto smettere di esistere, ma forse anche nella morte avrebbe continuato ad amarla.
E i suoi occhi non poterono resistergli ancora una volta. La osservò fino a che gli ultimi bagliori del sole morente non si riversarono su di lei. Una macchia scura impressa contro le luci del crepuscolo.
«Perché lo hai fatto?». La domanda uscì fuori dalle sue labbra senza il suo permesso.
Leona continuò a dargli le spalle «Volevo solo capire una cosa». Nel sentire la sua voce incrinarsi, se la immaginò con un furbo sorrisetto stampato sul viso. Non esaurirono mai quell’argomento. Un rumore di scarpe che s’infrangono nella ghiaia e nel fango li distolse entrambi dai loro giochi di parole.
Gabriel li aveva raggiunti col fiatone in gola.
«Dov’è Morgana?» li aveva interrogati saltando qualsiasi preambolo. La gemella avvertendo la tensione in suo fratello gli corse immediatamente incontro.
«Pensavo fosse con te!» si discolpò col velato terrore che poteva leggersi fra le righe.
«Lo era prima di…cazzo» imprecò selvaggiamente stritolandosi i capelli in testa. I suoi occhi si accesero di pura paura. «Non dirmi che le hai dato l’ampolla con il sangue della regina?».
«Certo, perché non avrei dov…». Leona ebbe un corto circuito. I medjai non ebbero bisogno di usare la loro speciale connessione per capire entrambi che fine avesse fatto la loro amica.
La comprensione esplose nei loro volti e esclamarono all’unisono «E’ entrata in casa!».
Gab fu il primo a correre come un matto verso il portone d’entrata, tallonato da sua sorella e Fabiano.
Non erano ancora pronti ad affrontare i tranelli di quella dimora infestata dai fantasmi. Non avevano idea di quello che li aspettava.
Ma  niente sarebbe stato più importante di andare a salvare la loro migliore amica.

 

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Capitolo 50
*** TOCCATA E FUGA IN RE MINORE ***


Capitolo 37 – Toccata e fuga in re minore

Avevano ragione. Il portone d’ingresso era socchiuso, una lama di luce tremolante proiettava un cono sulle assi del pavimento del portico. Da dove proveniva quella luce soffusa? Avrebbe dovuto chiedersi suo fratello, invece di sgusciarci dentro oltrepassando con un balzo le scale. Lei e Fabiano non poterono fare a meno di stargli dietro e nemmeno la pavimentazione mancante riuscì ad ostacolarli. Il forte tanfo d’umidità e di legno marcio andato a male gli intasò le narici una volta varcata la soglia e si richiusero la porta alle spalle. Come era prevedibile, l’ambiente interno non era che uno specchio di quei giardini abbandonati in cortile. Una lampada a olio attaccata al muro da un supporto d’ottone risplendeva nella stanza adombrata disegnando sugli oggetti e sulle pareti crepate scene che si prestavano a molteplici interpretazioni. Quando la luce le catturava, figure indistinte fatte di oro e oscurità facevano capolino per poi fuggire assecondando il moto ondulatorio della fiammella singhiozzante per via degli spifferi che ululavano fra i vetri rotti delle imposte delle finestre. L’indistinto suono di uno squittio disperato fece sobbalzare improvvisamente Fabiano.
«Cos’è stato?» esclamò torcendo la schiena in direzione del rumore di una porta che sbatte con un cigolio sofferente.
«E’ solo Edna» lo tranquillizzò Leona dando una sbirciata al cincillà che le si inerpicava affannosamente su per la sua gamba. Il roditore continuò la sua scalata appendendosi ai lembi sfilacciati della sua maglietta fino a raggiungerle la spalla, dove si accovacciò rimpicciolendosi più che poteva con le guancette paffutelle tremanti. Edna si strofinò contro il suo collo soffiandole rapidi respiri sulla pelle e Leona inclinò la testa verso di lei, toccandole affettuosamente la testa col suo zigomo.
Fabiano le annuì con un mezzo sorriso di sollievo.
«Morgana!» si sgolò Gabriel, non appena ebbe messo piede nell’atrio. La sua voce si disperse fra i cumuli accatastati di mobili. Di Morgana nessuna traccia. Allora Leona giunse le mani a coppa sotto la lanterna e attese che la fiamma zompasse giù dalla sua candela. Con un timido saltello la piccola vampa si accucciò in quella culla improvvisata e prese a brillare più intensamente crescendo fra le sue mani. Si guardò lentamente attorno fino a individuare una stufa a legna costretta fra la morsa di una vecchia credenza e un cassettiera sulla cui superficie era stato intarsiato un delicato e sinuoso arabesco di fogliame rigoglioso. Gli si accostò a piccoli passi, per paura che il pavimento sotto di lei cedesse, e gli depositò il fuocherello, che si rimestava giocoso, all’imboccatura del caminetto.
 Le tenebre che si erano impadronite della stanza si ritirarono negli angoli più remoti e irraggiungibili fuggendo la luce del fuoco che scoppiettava piano come a non voler svegliare gli abitanti invisibili di quella casa abbandonata.
Quello che a Leona ricordò vagamente un salotto, era privo di qualsiasi calore o cura umana. A testimonianza di ciò, i precedenti abitanti avevano costruito torri di mobili addossandoli alle pareti, incastrandoli in modo tale da scongiurarne il crollo. La polvere regnava incontrastata ammantando ogni cosa riuscisse a ingurgitare con la sua sudicia patina grigiastra. Intervallato dal picchiettio rosicchiante dei tarli, l’eco della lancetta di un orologio a cucù incassato nel muro si accodava a quella cacofonia di suoni sinistri e snervanti. Una spola d’oro altalenava fedele al suo compito di scandire ogni singolo secondo trascorso lì dentro. Le bastò una attenta perizia per accertarsi che molti degli oggetti residenti  in quella camera da ricevimento avevano perso la loro integrità o la funzione per cui erano stati creati: tazzine da tè sbeccate, quadri che pendevano da un lato solo, sedie con tre gambe tenute in piedi da chissà quale scherzo della gravità, tavolini rovesciati a testa in giù, tende aggrovigliate confusamente ricoperte da ciò che rimaneva della tappezzeria esfoliata dalle pareti su cui la muffa si diffondeva come una macchia untuosa e verdastra, comodi divani dall’imbottitura lacera e malconcia cosparsi di piume, intelaiature scardinate dalle imposte e pezzi di vetro affilati sparsi su un pavimento di parquet pericolante. Raccolse da terra un samovar arrugginito e corroso dallo scorrere impietoso del tempo, sollevò il coperchio e avvicinò un occhio all’apertura per sbirciare al suo interno. Fu sorpresa di scorgere due occhietti neri e intelligenti luccicare nel buio del recipiente. Il topino gli squittì contro una serie di ingiurie petulanti che la fecero subito pentire di aver disturbato il suo riposino. Lo richiuse in fretta poggiandolo sul comodino più vicino, leggermente risentita dal linguaggio particolarmente colorito del roditore e stupita dalla vasta gamma di insulti di cui si serviva per intimorire gli ospiti più invadenti. Si spinse in mezzo a quel labirinto confuso di mobilio che di per certo doveva aver visto giorni migliori lasciandosi sporcare le dita dalla polvere. Se Morgana era entrata là, non aveva lasciato alcun segnale del suo presunto passaggio. Le uniche impronte che si sollevavano con sbuffi nebulosi di polvere erano le sue, di Gabriel e Fabiano. Un tremolio l’attirò e il suo sguardo sfrecciò dove terminavano le ombre delle fiamme del camino per depositarsi sull’unico telone bianco della stanza che non era ancora stato preso dal lerciume di quel luogo. Il lenzuolo appeso alla parete a mo’ di tenda avvolgeva i contorni di quella che a Leona parvero  le merlature di una torre di misure differenti che raggiungevano il picco più alto per poi scalare ai lati. Il resto che si trovava alla base e al centro non aveva idea di cosa si potesse trattare.
Era un’illusione davvero ben fatta, se ne sorprese la protettrice. Sembrava tutto così…reale e tangibile.
Attratta sempre di più da ciò che si celava dietro il lenzuolo, ballonzolò cauta fra le cassettiere evitando le assi mal messe, infracidite dall’umidità.
«L’hai fatta scappare di nuovo» constatò seccatamente.
Il fratello che si rigirava fra le mani un posacenere di vetro smerigliato, sollevò uno sguardo adirato su di lei ma non colse la sua provocazione. Si limitò a muoversi attorno al tavolo apparecchiato con un passo felpato che tradiva un certo nervosismo, alla ricerca di qualche indizio che potesse suggerirgli qualcosa di più sulla misteriosa sparizione di Morgana.
Di solito non perdeva occasione per controbattere con le sue infelici ma argute battute. Edna sbirciò attraverso i suoi lunghi capelli, tesa quanto lei per l’insolito silenzio del padroncino. Non lo aveva mai visto così preoccupato. Le sue sopracciglia erano così raggrinzite che al centro si era originato un crepaccio. Leona si sentì soffocare dalle stessa tensione che percorreva da un estremità all’altra il corpo del suo gemello. Nonostante tutto, non aveva desistito dal tacerle le sue emozioni o forse era così concentrato nel suo intento da dimenticarsi dello spiraglio di cui si sarebbe potuta servire per scrutarlo nel suo intimo. Ma lei non aveva alcuna intenzione di violare il suo domicilio mentale per paura di condividere la sua angoscia attanagliante.
Giunta a pochi passi dal suo obiettivo, si affrettò fin troppo coinvolta dalla sua curiosità e s’impietrì al rintocco del pendolo. Producendo un suono gracchiante e stridente lo sportellino impolverato girò sul cardine lasciando intravedere gli ingranaggi rotanti al suo interno. Poi qualcosa lacerò l’aria e Leona sollevò una mano tesa a combattere una tensione invisibile ad occhio umano. Una piccola lama dentata era sfrecciata dal ventre aperto dell’orologio e si era infranta sull’onda d’urto provocata dalla ragazza munita di riflessi infallibili. Seguì un secondo sfreccio dal lato opposto della stanza ma questa volta un bagliore argenteo si parò davanti a lei tracciando un arco luminescente.
Fabiano la stringeva ancora a sé con fare protettivo, il piatto della lama a pochi pollici dal suo petto. Leona dissipò il controllo del muro d’aria e il primo coltello cadde a terra con un tonfo. Deglutì per l’intensa scarica di adrenalina. Il cincillà tremava ancora di paura con gli occhi bicromatici nascosti fra le sue zampette.
«Questo deve essere il karma. Credo che mi deciderò a votarmi prima o poi a i precetti dei druidi » si beò quel deficiente di suo fratello. La ragazza roteò gli occhi infastidita dalla sua apparente insensibilità. Non si degnò nemmeno di rivolgergli la parola, piuttosto allungò una mano verso il suo salvatore per toccargli la spalla con fare rassicurante.
«Sto bene» gli disse per incoraggiarlo a mollare la presa su di lei anche se stava benissimo accoccolata contro il suo petto. Girò il mento per osservarlo da dietro la sua spalla commettendo l’errore  imperdonabile di incontrare i suoi occhi. Non poté far a meno di arrossire sotto la morsa crudele delle sue budella. Fino a pochi minuti prima si era dichiarata apertamente in un momentaneo lapsus di follia rivelatrice e non poteva tornare più indietro…forse non voleva. Meritava di sapere. Quando adorava inebriarsi del suo profumo…
Fabiano si accigliò ma non l’allontanò dal suo abbraccio come si era aspettata che facesse. Invece di darsela a gambe levate come era solito fare quando la sfiorava anche solo per sbaglio, abbassò piano la sua spada e fece scorrere le sue dita lungo il braccio quasi come ad accarezzarla, assicurandosi che fosse illesa come gli aveva detto.
«E’ dura e sfiancante starti accanto. Fai uno strano effetto all’universo: è come se volesse costantemente metterti alla prova. Tu vanifichi tutte le leggi statiche delle catastrofi» disse scuotendo la testa e con essa la frangetta castana.
«Già. Comincio a dubitare anch’io di questa mirabolante “immunità”».
«Tu non ne hai mai avuto bisogno» ridacchiò fra sé.
«Se è come dici tu, allora perché sei intervenuto?».
Lui si separò da Leona quel poco che bastava per guardarla in viso con gli zaffiri che splendevano dentro le orbite «So che sei forte abbastanza, anche più di quello che mi piacerebbe ammettere. Ma non posso restare semplicemente a guardare se qualcosa o qualcuno ha intenzione di farti del male».
Dall’altro capo della sala, suo fratello si schiarì la voce «Quando avete finito di flirtare, qui ci sarebbe qualcosa che potrebbe interessarvi».
Acciambellato e sonnecchiante sul cornicione di una finestra, una piccola figura eterea come un velo trasparente, li osservava dall’alto con palpebre pesanti che gli pendeva sugli occhi. Sul profilo corpulento del fantasma si andava delineando una collina lì dove avrebbe dovuto esserci lo stomaco. Al posto delle gambe, il suo corpo terminava a cono d’imbuto.
«Sta…dormendo?» si domandò Gabriel.
«Stavo» lo corresse una voce lontana e ibernante come un iceberg in mezzo all’oceano.
I tre protettori si guardarono sconcertati dall’indifferente indolenza che gli mostrava lo spettro.
«Oh! Per tutti gli spiriti malakhi, non guardatemi con quell’aria di sufficienza. Vi siete visti ultimatamente allo specchio? Be’, scommetto di no. Avete l’innocente aria arruffata di un troll che non si è alzato col piede giusto. Tze, come se quei orribili giganti conoscessero il buon umore».
Fabiano si avvicinò cauto verso la finestra e disse «Chi sei tu?» rivolgendosi al fantasma comodamente sdraiato sul cornicione.
A quella domanda gli occhi acquosi dell’incorporeo s’incresparono sotto forma di onde tremolanti «Chi sono io? Chi sono io? La domanda giusta da porre è: chi sei tu?» strepitò collerico il fantasma in sovrappeso. «Ragazzo, ti sei appena intrufolato in casa mia! Dovrei essere io chiedervelo, o tua madre non ti ha insegnato le buone maniere? Ah, protettori! Sentivo la vostra puzza già da quando avete iniziato ad appestare il mio giardino come  zizzania! Non avrete messo le vostre luride manacce sul mio set di gnomi mi auguro!»
«Che cosa volete, eh? Siete venuti per cimentarvi nel recupero del ciondolo blu? Mi dispiace deludervi miei cari ma oggi il museo è chiuso. Perché non provate a morire un’altra volta? Che so, giovedì? Sì, giovedì è un ottimo giorno per tirare le cuoia. La prossima volta siete pregati di prendere un appuntamento. Ora se non vi dispiace non vi accompagnerò all’uscio, confido però che sappiate come raggiungere la porta. Ciao. Baci. Ciao».
Il dispettoso padrone di casa si rivoltò dalla parte opposta mostrandogli la schiena trasparente attraverso cui si poteva benissimo osservare il suo viso imbronciato. Avvertendo chiaramente che nessuno dei tre si sarebbe schiodato da lì, si premurò di incitarli a raggiungere l’uscita con più fervore.
«Sciò, sciò» ripeté affettando l’aria con un gesto secco della manina paffutella.
Leona prese un respiro per respingere l’irritazione che le montava dentro e pensò di formalizzare le presentazioni «Siamo davvero spiacenti di averla disturbata. Io sono Leona, lui è mio fratello Gabriel e…»
Lo spettro bianco si puntellò sui gomiti simulando la sua illusoria attenzione sull’interlocutrice sotto di lui.
«Ah, davvero…interessante!» la frenò portandosi una mano sulla bocca come se fosse affascinato dalle sue parole. Poi tornò ad afflosciarsi, annoiato più che mai. «No, non me ne frega un ficco secco. Sono rammaricato deliziosa signorinella ma non farò eccezioni di alcun tipo. Sono stanco delle continue incursioni di voi poveri idioti orgogliosi che vi credete i padroni del mondo accecati dalla bramosia di potere. E’ impossibile impadronirsi del ciondolo, la mia signora è stata molto astuta nel costruirci attorno questa fortezza piena d’insidie. Sono morti a flotte di quelli come voi, e pensate che un quartetto di marmocchi mocciolosi possa riuscire nell’intento? Non ci crederei nemmeno se lo vedessi…».
Voleva sputare fuoco su di lui. Quell’insulso spettruncolo da quattro soldi era così indisponente che Leona stava meditando se demolecolizzarlo o spazzarlo via con una folata di vento.
«Scusi ha detto quartetto? Morgana è passata di qui?» lo interruppe Gabriel protendendosi verso il fantasma chiacchierone. Il ciccione si contorse nell’aria circolando circospetto fra loro e grugnendo per la frustrazione di aver rivelato troppo.
«Può darsi, non le ho mica chiesto la carta d’identità» uggiolò navigando a pancia in giù per aria con le braccia sotto la testa. «Devo dedurre che quella ragazzina col fuoco in testa al posto dei capelli appartenga al vostro patetico corteo d’imbecilli».
«Dove è andata?» lo fulminò con quella domanda. La stanza si riempì delle sue risate riecheggianti e ovattate dai suoi contorni indefiniti.
«Ah, voi medjai… Sì, so cosa siete!» aggiunse fiero, per rispondere alla perplessità dei tre. «Soltanto un cieco non noterebbe l’insegna a caratteri cubitali che pende sopra le vostre teste. Siete creature così cocciute! Complicate all’inverosimile! Un prodotto della natura così diabolicamente ingegnoso e apparentemente privo di qualsiasi difetto ma…d’altra parte c’è sempre una contropartita. Una volta tolto uno dall’equazione, è come prendere due piccioni con una fava» disse il fantasma suscitandole il suo interesse.
«E con questo cosa vorresti dire?»
«Come dico sempre: esiste un solo bene, la conoscenza e un solo male, l’ignoranza. Sembra quasi che qui nessuno di voi mocciosi abbia frequentato l’accademia dei protettori. Ah, quando capiranno che l’istruzione e l’organizzazione didattica stanno alla base per la coltivazione di una nuova classe emergente! Una negligenza simile non si sarebbe mai verificata nell’ordine scolastico degli alchimisti…L’ignoranza sui vostri antenati è incredibile».
«Va al dunque nuvoletta dispettosa» s’irrigidì lei. Lui la occhieggiò bruscamente, ma si decise lo stesso a proseguire.
«Be’…i medjai condividono un profondo legame che va oltre lo psichico e lo spirituale. Basta ucciderne uno per far fuori anche il gemello, perché la vita di uno appartiene anche all’altro».
«Quindi, se ho ben capito, se io muoio trascinerei mia sorella con me e viceversa? E’ questo il concetto?» sbottò Gabriel ancora incredulo.
Lo spettro lo ignorò, esacerbato dall’interruzione, e specificò ancora «I medjai nascono con un difetto genetico che ha del miracoloso. I vostri cuori sono incompleti, sono esattamente, dal punto di vista anatomico, divisi a metà. Il vostro legame però inspiegabilmente continua a farli funzionare come se aveste dei ventricoli fantasma, il destro sostiene il sinistro e viceversa anche se alloggiati in corpi diversi». Gabriel le parve più confuso di un groviglio di fili di lana.
«Perché nessuno ha mai pensato di dircelo!».
«La cosa sconcerta più me che te, credimi giovanotto» lo appoggiò lo spettro.
Leona si mordicchiò le labbra riflettendo su quell’assurdità che rasentava l’impossibile, anche se in fondo credeva di averlo sempre saputo «Ecco perché allora sapevo con assoluta certezza che non ti fosse accaduto nulla, intendo al lago quando hai scatenato la furia di Nessie…perché io lo sentivo».
«Cosa?» domandò Fabiano.
«Il battito del mio cuore. Proprio qui» disse Gabriel perforandosi il petto con un dito. I due gemelli si guardarono a lungo con occhi dello stesso colore dell’oceano. Avrebbero dovuto considerare che da quel momento in poi niente sarebbe stato come prima e le loro vite avrebbero assunto un significato completamente diverso. Il desiderio vicendevole di proteggersi si rafforzò e s’inspessì come il più duro acciaio di Hijir. Ogni scelta, ogni strada che avrebbero percorso in futuro non sarebbe stata imboccata a cuor leggero, spinta da incoscienza o dalla foga del momento. Dovevano percepirsi come un unico essere, sapendo che ciò che avrebbe nociuto ad uno lo avrebbe fatto anche all’altro. Sebbene quella scoperta avrebbe dovuto invalidare la coscienza di entrambi, erano sicuri del fatto che nessuno dei due avrebbe privato l’altro della libertà, né ora né mai. Erano medjai, e anche se non ci sarebbe mai stato nulla di più importante della loro sicurezza, non avrebbero smesso di lottare o di cacciarsi nei guai.
I due rimasero in ascolto nella ritmicità che gli rimbombava nella cassa toracica consci che quel suono non sarebbe stato più scontato, e che quella piacevole aritmia gli avrebbe costantemente ricordato di non essere soli. Ma, soprattutto, erano lieti che non avrebbero mai provato cosa volesse significare vivere l’una senza l’altro. Quando il momento sarebbe giunto, se ne sarebbero andati insieme, persino anche dopo la morte.
«Cosa ben peggiore però» petulò lo spettro indispettito con i pugni seppelliti fra i fianchi « è che voi non avete la più pallida idea di chi sono io…andiamo, la mia padrona non può avervi omesso la mia identità. Io sono il suo braccio destro, il suo servitore preferito» gongolò gettandosi in picchiata sulla ragazza. S’intrufolò fra i suoi lunghi capelli e sbucò all’altezza della spalla, vicino a Edna che tentava invano di rosicchiargli la guancia evanescente. Il fantasma la osservò a testa in giù in tutta la sua pinguedine.
«Il divoratore di segreti» bisbigliò con voce rauca la protettrice.
Vedendosi riconosciuto, l’ospite incorporeo piroetto allargando le braccia giovialmente.
«Allora non siete stolti come avevo pensato» disse incrociando le braccia al petto lattescente.
«La mia merce non è affatto economica» li redarguì esibendosi in quella danza fluttuante «Mi reputo un onesto venditore di informazioni, le mie contrattazioni sono alquanto vantaggiose per entrambe le parti barattanti. Benvenuti nel tempio dei segreti! Un luogo mistico di cui le pareti e le fondamenta stesse trasudano di parole non dette,  ed emanano rimpianti e verità nascoste. Sì, avete sentito bene, i vostri segreti equivalgono a moneta di scambio. Un segreto prezioso per un altro di pari valore. Se volete sapere dove è la vostra rossa amichetta, dovreste pagarmi adeguatamente» finì con un sorrisetto malizioso «In ogni caso, non ho alcuna intenzione di negoziare con dei piccoli monelli alla ricerca di un gingillo di cui non conoscono nemmeno lontanamente il potenziale. No, no, la vostra gitarella finisce qui».
«Forse sei un po’ duro di comprendonio. Ma non abbiamo alcuna intenzione di andarcene senza di lei» decretò Gabriel inamovibile come una roccia.
«E tu credimi quando ti dico che trovo più interessante le previsioni meteo che le tue insulse pretese e quelle di quell’ammasso arruffato di capelli neri di tua sorella. Cos’è ti è morto il parrucchiere? Ah, ma che m’importa. Sparite dalla mia vista, prima che la mia signora lo venga a sapere. E vi avverto, non è molto magnanima con gli intrusi».
«Noi non ce ne andiamo» ribatté Gabriel scandendo ogni parola.
«Oh, ma che scocciatura! E’ davvero così importante per te la rossa?» domandò avvicinandosi a un palmo dal naso di suo fratello.
Al culmine della rabbia, gli vomitò addosso un singolo monosillabo che bruciò nell’aria come mille soli ardenti «Sì».
Il suo interlocutore sbruffò, ricolmò di scetticismo «Sono sicuro che là fuori ci sia qualcosa di meglio che te la faccia dimenticare nel men che non si dica. Dall’altra parte voi adolescenti siete così volubili. Cresci ragazzo e fattene una ragione, la tua amichetta oggi ha varcato il portone sbagliato e ne pagherà le conseguenze».
«Nessuna» bisbigliò Gabriel.
«Cosa?» domandò lo spettro scavando cerume invisibile dentro il suo orecchio.
«Nessuna è come lei» chiarì Gab alzando la voce, chiara e stentorea «Potrei cercare all’infinito, avventurarmi fino in capo al mondo, fino a consumarmi le scarpe, ma non troverò mai un sorriso così sinceramente puro come quello. Non troverò mai nel volto di nessun’altra ragazza dei timidissimi ma vispi occhi da cerbiatta come i suoi da cui traspare arguzia e acuta intelligenza». Prese un lungo respiro e sorrise con aria sognante «Cazzo, niente brilla come i suoi occhi…Dove potrei mai trovare un’altra psicopatica del suo calibro capace in un attimo di trasformarsi da timorosa e impacciata mangiatrice di unghie in una brutale e violenta amazzone spacca ossa? Chi mai potrebbe sembrare più bella di lei quando la sua pelle si accende del colore del fuoco, simile a quello dei suoi capelli? Chi potrebbe mai animarsi così ardentemente come lei nel raccontare le antiche leggende del nostro popolo? Chi mai più di lei potrebbe venerare il sacro legame della famiglia, e guardare, nonostante tutto, con sconfinata ammirazione, un padre che l’ha fatta costantemente sentire inadeguata e indegna del nome che porta? Abbiamo tutti dei buoni motivi per lottare per lei. Morgana non teme alcuna umiliazione, non ha paura quando si tratta di venire in soccorso della sua migliore amica, si farebbe ammazzare piuttosto che tradirci, incoccherebbe senza esitazione i suoi dardi contro la creatura più invincibile del pianeta se significherebbe darci anche solo una possibilità in più…».
Gabriel strinse forte i pugni lungo i fianchi fino a far scrocchiarne le ossa. Il suo corpo era scosso da impercettibili tremori.
«Io non posso accettare di non poter più vedere le sue buffe smorfie, il delizioso arricciarsi del suo naso quando capisce che la sto prendendo in giro, o al rossore dei suoi imbarazzi o l’esplosione della sua testa calda…Potrei proseguire ancora a lungo, ma nessuna di queste motivazioni sarà mai sufficiente a descrivere quanta meraviglia sgorghi dal ogni poro della mia Morgana. Perciò non ne vale solo la pena. Se la lasciassi qui, se le voltassi le spalle ora senza prima essermi scusato per averla ferita…non potrei mai perdonarmelo».
Seguì un silenzio sepolcrale. Il vento sembrava timoroso di fare rumore sfrecciando fra i vetri rotti delle finestre, e anche i tarli parevano aver terminato l’appetito, cessando il loro perpetuo scricchiolio. Il blocco di pietra che gravava sul petto della sorella estinse ogni suo respiro. Conosceva Gab come se stessa…e nessuno poteva avere la più pallida idea di quanto avesse sofferto nel pronunciare quelle parole, sbrigliando finalmente la verità chiusa nel suo cuore. Sapeva anche, che un evento del genere, non si sarebbe ripetuto in un prossimo futuro tanto facilmente e se ne rammaricò che la protagonista di quegli elogi non fosse lì per ascoltarli. Suo fratello era un detestabile rompiscatole, un pazzo sconsiderato mosso solo dagli impulsi del suo innato istinto di andare a passeggio coi guai, ma,… in quel preciso instante, l’avrebbe stretto a sé più forte che poteva.
Al fantasma non restò che tossire, un po’ in imbarazzo, balbettando cose senza senso.
«…Ciò nonostante» emerse da quel borbottio sommesso «non posso lasciarvi entrare senza il permesso della signora, non senza avere la certezza che vi reputi degni di giungere nel cuore del tempio dove risiede il ciondolo della luna da più di mille anni…il fatto che la vostra compagna fosse in possesso di questo» disse esponendo alla luce del camino l’ampolla conquistata da Leona «non dimostra la vostra sincerità. Potreste anche, in una improbabile ipotesi, avergliela rubata o sottratta con l’inganno».
«Con la vostra signora…Vi riferite alla regina Delilah?» chiese prudentemente Fabiano.
Il fantasma si stizzì storcendo il naso paffutello «E a chi altri se no?».
«In tal caso, credo di poter fugare ogni suo dubbio» gli assicurò ancora il ragazzo. Detto questo, si accostò con fluida silenziosità verso Leona. In un attimo le sue dita le raggiunsero il collo facendole slittare i polpastrelli sulla pelle al di sotto del colletto della maglietta. Leona trattenne il respiro, sbalordita dall’audace sfrontatezza di quel ragazzo che per una vita intera non le aveva mai nemmeno lanciato un’occhiata provocatoria o lasciva, figuriamoci palpeggiarla davanti a tutti…Un irrefrenabile brivido la fece tremare come una foglia sferzata dal vento al ricordo del tocco delicato delle sue mani che poco prima l’avevano quasi condotta alla follia, e il suo cuore prese prepotentemente a galopparle contro le costole. Quando la sua mano si avvolse attorno alla catena del ciondolo per tirarla fuori dal suo nascondiglio, Leona imprecò fra sé per essere stata così imbecille da aver mal interpretato il gesto del ragazzo.
«La regina si scusa per non avervi avvisato del nostro arrivo, ma senz’altro comprenderete che l’invasione all’interno delle sue terre l’ha tenuta parecchio occupata».
«Un’invasione?» sbottò allibito lo spettro. Fabiano annuì.
«Nessuno si aspettava il ritorno della sorella della regina. La comparsa di Frieda e del suo manipolo di abomini, di cui avrà sicuramente sentito parlare, è stato un shock per tutti noi».
«Frieda? Per la barba di Merlino…ma è impossibile?».
«Vorrei sostenerlo anch’io» si accigliò con una posa meticolosamente triste il ragazzo. Leona restò in ascolto delle sue spudorate bugie come un serpente incantato dalle note di un flauto. Incantata e anche un po’ spaventata da come gli venisse facile recitare la subdola parte dell’ambasciatore che non porta pena.
«E’ stata la stessa Delilah in persona a consegnarglielo come prova del suo consenso alla nostra impresa». Senza sfilarglielo dal collo, Fabiano sollevò più in alto il ciondolo del sole che rosseggiava liquidamente ai riflessi scoppiettanti delle lingue infuocate del focolare e lo mostrò al guardiano del tempio. Il fantasma, visibilmente turbato da quella svolta inaspettata, frugò fra le pieghe della sua pancia con aria concentratissima. In mezzo ai rotoli di lipidi vaporosi, sbucò fuori un monocolo che non tardò a infilarsi in un occhio, indurendo l’espressione in una raccapricciante smorfia da scienziato pazzo. Fluttuò verso di lei e cominciò la perizia.
«Sembra autentico» chiosò sorreggendosi uno dei tanti menti fra le mani prive di dita.
«Certo che lo è» ribatté quasi offeso Fabiano. «Leona perché non glielo dimostri?».
La protettrice cercò nei suoi occhi qualsiasi cenno di follia, ma lui non tradiva alcuna emozione, tutto quello che vi trovò fu solo forte determinazione. Allora si arrese con un sospiro e decise di fidarsi di lui. Portò lentamente l’indice al centro della pietra rossa. Non appena l’ebbe sfiorata, uno strano calore le si irradiò nella carne e l’aria sfrigolò. Un raggio fotonico si propagò dritto davanti a lei vorticando in cerchi concentrici rossi come la gemma e si abbatté impetuoso sul primo mobile che incontrò nel suo cammino riducendolo in un’unica vampata in un cumulo di cenere. Leona non si accorse di aver spalancato la bocca finché Fabiano non le sistemò gentilmente la mascella al proprio posto.
Il gemello emise un fischio di approvazione «Bel giocattolino! Se avessi abbassato un po’ la temperatura, la cottura sarebbe stata perfetta» disse baciandosi la punta delle dita.
«Forse avresti dovuto attivare l’altro potere del ciondolo del sole» le suggerì innocentemente Fabiano pizzicandole il naso.
«Non c’è più alcun dubbio. Credo di dovervi delle scuse…» sbiascicò lo spiritello grassoccio.
«Nah! Parliamo subito di affari» lo interruppe Gab, tornato alla sua irritante versione originale. «Hai detto di volere un segreto? Tutto qui?» sminuì suo fratello. «Oh be’, sembra facile» esclamò scrollando le spalle. Il sopracciglio informe del fantasma guizzò all’insù per la sorpresa.
«Bene, tieniti forte fantasmino!» cominciò Gabriel strofinandosi le mani. Si arcuò con la schiena in avanti con fare cospiratorio e parandosi dagli sguardi curiosi dei suoi amici confidò piano al compratore di segreti:
«Be’ è un po’ imbarazzante in realtà…» fece per tirarsi indietro. «Ma…ogni mattina al campo, prima che mia sorella si sedesse a fare colazione, sputavo dentro la sua tazza di latte».
La sberla fu così potente che lo schiocco rimbalzò contro le pareti dell’atrio «Gabriel, che schifo!» sbraitò furiosa la sua gemella. Fabiano si mostrò costernato tanto quanto lei.
Il fantasma rise a crepapelle cercando di trattenersi all’insù le innumerevoli trippe che sfuggivano dalla sua presa come anguille. Si asciugò finte lacrime dagli occhi ed esclamò «Avevo dimenticato cosa voleva dire aver a che fare con dei bambini. No, mio caro medjai, se pensi che il tuo segretuccio possa bastare per appagarmi ti stai sbagliando di grosso. Su andiamo, la vita della vostra amica deve valere più di così».
Dopo gli episodi frenetici che si erano susseguiti in quella folle settimana di atrocità e sconvolgenti scoperte, Leona trovava inaccettabile le burlate puerili di quello sciocco cumulo di particelle gassose che si dilettava senza alcuna remora a spassarsela con una vita umana appesa a un filo. Per di più se si trattava di una vita a lei molto più che cara.
Era semplicemente stanca, stufa marcia di rimanere invischiata in quelle situazioni che sballottolavano dal grottesco al surreale, sentiva che da un momento all’altro i suoi nervi sarebbero semplicemente esplosi in milioni di pezzi lasciando ben poco di razionale in lei, cosa che non avrebbe fatto altro che far emergere la tanto celata oscurità che negli ultimi tempi riusciva a stento a tenere a bada. Più cercava di rimanere disperatamente a galla da quel mare di tenebre, più le sue vene si trasformavano in un condotto idraulico di puro odio  bruciando ogni singola terminazione nervosa. Non voleva gettare alle ortiche l’ultimo ed estremo tentativo diplomatico di Fabiano di accaparrarsi la fiducia di quell’etereo matto da internare ma alla fine non poté che far defluire tutta la sua frustrazione come un magma covato da secoli all’interno di un vulcano dormiente.
Lo zoologo gli aveva impartito numerose lezioni sull’arte della pazienza, lezioni che stava gettar via come spazzatura fra tre, due, uno…
 «Non so voi, ma per la miseria, qui ci siamo divertiti abbastanza. Davvero non capisco» sberciò pizzicandosi l’arco nasale con le dita «Ti abbiamo assecondato a dovere, mi sembra, ti abbiamo dimostrato le nostre buone intenzioni e il benestare di quella bionda psicopatica con le ali con un’insana ossessione per i giochetti» continuò stringendo in un pugno la gemma del sole che le penzolava sul petto «stavi per assassinarmi con quel fottuto coltello volante e perseveri con quell’atteggiamento sostenuto del cazzo? Dimmi immediatamente dove l’hai nascosta o giuro su quello che ho di più caro di farti crollare addosso il tuo bel tempio e sai che posso farlo».
«Non oseresti…non sacrificheresti mai la possibilità di arrivare alla stanza del ciondolo» la sfidò facendo evaporare sempre di più i suoi lineamenti.
«Alla peste quel ciondolo, rivoglio indietro la mia amica. Io non rischierei se fossi in te, ho un serio problema di gestione della rabbia e questa storia dei segreti è davvero l’ultima goccia che farà traboccare il vaso. Oh, no, no, no. Non voltarmi le spalle, se non vuoi che ti pianti una kopis in mezzo alle scapole».
«A che pro» rise sguaiatamente «mi passerebbe attraverso…».
 «So come renderti corporeo quel tanto che basta per infilzarti come uno spiedino» lo zittì.
«Stai bluffando»
«Se lo dici tu» disse agitando le dita come piccoli tentacoli «Ogni cosa vivente e non, è impregnata di materia, persino il mondo degli spiriti ha una consistenza. E tu panzone…»
«Ehi, questo è offensivo»
«Non costituisci un eccezione all’ordine naturale. E poi non sei un vero spirito, tu non sei morto»
«Ma cosa…» sbottò improvvisamente. Leona lo ignorò tenendolo ancora sulle spine e prese a sgranchirsi le gambe per la stanza sotto lo sguardo stupito di suo fratello e Fabiano.
«Se le mie reminiscenze non m’ingannano, quella che vediamo è soltanto una proiezione della tua essenza. La tua forma astratta è legata al nucleo del tempio e più specificatamente al ciondolo della luna. Una maledizione della tua sgradevole padroncina biondina, immagino, che ti sta usando come semplice guardiano del suo inestimabile tesoro. Una volta recuperato, avrai assolto al tuo compito e sarai finalmente libero di tornare nel tuo vero corpo. A giudicare da come ti vantavi così tanto dell’istituto degli alchimisti scommetto che eri un mago, e anche molto potente».
«Come hai fatto a capirlo?» strillò con il finto pomo d’Adamo che gli schizzava su per la gola.
«Ma come?» esclamò inarcando un sopracciglio. «Queste sono le basi del misticismo. Lo sanno tutti che i fantasmi hanno in tutto e per tutto una forma umanoide. E tu, senza offesa, assomigli più al bolo informe vomitato da un gatto» postillò lisciandosi i capelli, districandosi i nodi fra le dita. Edna squittì in segno di approvazione.
«Ma veniamo al dunque. Per poter estrarre l’essenza di un mago, si deve necessariamente legarla ad un àncora, un contenitore adatto che funga da recipiente per il vero corpo da umano, che suppongo tu abbia nascosto con estrema cura. Ma dove sarà?» si chiese picchiettandosi con un dito la guancia completamente assorta nelle sue elucubrazioni. Fu interrotta dalle risa singhiozzanti del fantasma.
«Mi hai proprio fregato ragazza mia, ti avevo scambiato per una stupida ochetta senza cervello. Invece ti sei dimostrata molto più fastidiosa del previsto. Ma le tue illazioni sono vane, mia bella signorina. Con tutti gli oggetti presenti in questa stanza dubito che tu riesca a trovarla prima che per la tua amica sia troppo tardi».
«Ah, quindi, l’ancora è qui?» domandò Leona.
«Dannazione» imprecò il fantasma mordendosi la lingua.
«Ingegnoso in verità, anche io la vorrei vicina, così la terrei costantemente sott’occhio e fuorvierebbe certamente l’attenzione altrove». Il fantasma cominciò a trasudare nervosamente gocce dense di vapore acqueo mentre lo sguardo di Leona vagava in lungo e largo attorno alla stanza. Si districò fra il colonnato diroccato attenta ad evitare i pezzi di calcinacci che cadevano dal soffitto e per qualche motivo perlustrò, particolarmente interessata, la natura morta di uno dei quadri che pendeva in diagonale dalla parete. Non soddisfatta di quello che vi trovò, passò in rassegna anche le altre opere esposte nella galleria, sgusciando da un dipinto a un altro con le mani dietro la schiena. Sgambettò decisa fino all’ultima arcata, un passo dietro l’altro, sbirciando ogni tanto in direzione del divoratore di segreti cercando di captare qualsiasi cambiamento conturbante che tradisse agitazione.   
E se fosse uno degli autoritratti? le suggerì Edna all’orecchio con uno squittio nervoso. Leona considerò seriamente l’idea. Nella galleria di destra ve ne erano appesi due, in quello dell’ala sinistra cinque, compreso quello poggiato dietro l’armadio di legno di frassino. Escludendo le tre donne…ne rimaneva soltanto quattro in tutto.
«Cosa ha detto Edna?» chiese Fabiano muovendo qualche passo verso di loro. Leona portò le braccia dietro la schiena e sfilò le spade dalle loro guarnizioni di cuoio facendole stridere con un secco suono metallico. E sorrise.
«Credo che abbia appena avuto un’ottima intuizione» disse tracciando un arco con le kopis, raggiungendo la sommità della testa. Osservò per l’ultima volta l’uomo arabeggiante seduto passivamente su un cumulo di cuscini e materassi, offuscato da nuvole di incenso,  e squarciò la tela vibrando le sue spade di ghiaccio al centro del quadro.
«Ti ha dato di volta il cervello? Hai idea di quanto valgano quei capolavori? Te lo dico io! Molto più delle tue chiappe da medjai! E sì, se te lo stessi chiedendo, sono degli originali!». Il fantasma si era decisamente agitato troppo per quell’atto di incauto vandalismo, perciò si fece sorda ai suoi rimproveri squillanti e decise di continuare a impersonare il boia. Fu il turno di un cavaliere dai lunghi baffi a manubrio ben impomatati, irto fieramente sulle ceneri di una battaglia, bardato di cotta di maglia. Leona fece ruotare l’elsa scoccando un’occhiata eloquente alle sue spalle e infierì anche su lui, facendo a brandelli il dipinto all’altezza del collo dello spadaccino serioso. Il vessillo della casata reale si afflosciò su se stesso.
«Ne mancano solo dueee» cantilenò con un tono irrispettoso la ragazza.
«Va bene, va bene. Hai vinto!» si allarmò lo spettro sbracciandosi come un naufrago su un isola deserta che ha avvistato un peschereccio in lontananza.
Leona, segretamente soddisfatta, rinfoderò le armi al proprio posto «Scelta saggia, mago».
Il fantasma ribollì di rabbia e prese a gonfiarsi come una mongolfiera borbottando frasi di scherno come diabolica, manipolatrice, e donnaccia da postribolo. Avrebbe volentieri risposto per le rime, rendendo la madre del mago la protagonista dei suoi oltraggi pittoreschi, ma non sarebbe caduta così in basso.
Poi lo sguardo turbolento dello spiritello si posò in cima al soffitto e pronunciò una formula magica sottovoce. Scintille di una forte tonalità di arancione gli lambirono il suo tozzo corpo informe e si aprì una voragine in cima alla tetto, dove un enorme octopode, nero e peloso, con i cheliceri piegati verso l’esterno, cercava di emergere da una polla nera senza fine. Li osservava a testa in giù da otto angolazioni differenti eppure tutte estremamente minacciose. La sua cuticola color del petrolio lucido era disseminata da milioni setole, simili a una raccapricciante pelliccia unticcia che andava a coronargli la testa terrificante. In mezzo alla fronte affioravano quattro paia di ocelli tenebrosi dentro cui potevi affondarci con la certezza di non far mai ritorno. Appeso a un labile filo setoso, il ragno si staccò leggiadro dalla parete zampettando a mezz’aria con le sue otto appendici filiformi. Vorticò a diversi metri delle loro teste. Dall’addome del mostruoso aracnide spuntavano quattro disgustosi tubicini grondanti di un rivoltante liquido bianco che a contatto con l’aria si solidificava all’istante prendendo la forma di un corda. L’apparato boccale scattò con un soffio e vomitò un bozzolo che si srotolò a partire dal suo apice sfrusciando con leggeri fischi. Quell’ingarbugliata trama di bava sericea che si avviluppava a spirale dal basso verso l’alto culminava con una fontana di ciocche rosse come una torcia accesa. Fra una benda e l’altra si riuscivano a scorgere a malapena scorci del viso di Morgana. Le sue urla erano soffocate dal fazzoletto che le correva da un orecchio all’altro, stretto con un nodo dietro la nuca.
Leona sentì svuotarsi le vene del suo stesso sangue. Attorno alle sue caviglie si erano materializzate delle zavorre pesantissime che le impedivano qualsiasi movimento brusco.
Il fratello accanto a lei scoppiettò iracondo come una teiera bollente, sbuffando come un comignolo sulla sommità di un tetto. «Che cos’è quella cosa?» sibilò in un misto fra rabbia e terrore.
«Quello è il suo famiglio. E ti sconsiglio caldamente di non darle della cosa una seconda volta, Gab » lo informò Edna facendo scattare gli incisi verso il mostro.
«E’ una vera fortuna che Gilda non l’abbia ancora digerita. La vostra amica deve essere piuttosto indigesta per i suoi gusti» ghignò malignamente il fantasma, strofinandosi le mani.
«Dio mio, Morgana! Stai bene?» le urlò Leona dal basso. L’amica languì fra i rotoli di seta appiccicosa.
«Che razza di domanda sarebbe? Come ti sembra che stia una che è appena stata mummificata da un ragno gigante? Vuoi fare a cambio? Magari ti chiarisce le idee!» sbraitò il gemello.
«Smettetela di litigare voi due! Avrete tempo di prendervi a sberle dopo. Abbiamo qualcosa di più impellente da risolvere al momento» s’intromise Fabiano.
«Oh grazie, amico. Senza il tuo intervento non me ne sarei mai accorto. Che sbadato!» ironizzò Gab con il veleno sulla punta della lingua.
Il fantasmino rise a bocca chiusa. Gli occhi si rimpicciolivano sempre di più in quella nuvola gassosa che contornava il suo corpo. «Allora, vediamo se adesso sarete più propensi a rivelarmi i vostri inconfessati in cambio del mio segreto. Qualcosa mi dice che siete più che interessati alla risoluzione pacifica della faccenda e che pagherete qualsiasi prezzo pur di ottenerla. Avanti su, un bel segretuccio e vi dirò come placare la fame del mio famiglio. Ovviamente non rifilatemi una quisquilia qualunque che non valga il mio prezioso tempo, anzi il suo prezioso tempo» disse lanciando un’occhiata in direzione del bozzolo che pendeva dai cheliceri del ragno mastodontico «E non pensare nemmeno per un attimo di fregarmi col trucco del quadro dolcezza. Se io dovessi morire, la mia Gilda finirà quello che ha iniziato. Non potrò trattenerlo ancora a lungo».
Gabriel s’inumidì le labbra passandovici sopra la lingua e deglutì. Non smetteva neanche per un attimo di sbeccarsi le unghie contro la stoffa dei pantaloni gettando sguardi inquieti verso il soffitto.
«Bene, un segreto…un segreto» si corrucciò al tal punto da scavarsi una voragine nel cervello, il sudore che gli imperlava la fronte e colava sugli zigomi, frutto di quella angosciosa concentrazione.
«Un segreto…» recitò Leona con i pensieri raccolti altrove. Nessuno dei due medjai riusciva a portare a termine quella richiesta, semplice in confronto alla ricompensa che li aspettava. Entrambi amavano la ragazza appesa a quel filo eppure né Leona né Gabriel parevano avere abbastanza ossigeno nei polmoni per poter parlare. Come se detestassero la vulnerabilità scaturita dal denudarsi dalle loro maschere bugiarde più di ogni altra cosa. Il fantasma non si sarebbe accontentato di un segreto qualunque e loro lo sapevano fin troppo bene. Lui voleva quei segreti che una volta pronunciati avrebbero mescolato le carte in tavola mettendo in discussione tutti i legami saldati fino a quel momento, vanificando tutta la fatica che gli era costata per costruirgli attorno quella corazza impenetrabile e incorruttibile pur di proteggerli. Proprio quelli che non ti avrebbero più permesso di tornare indietro.
Leona prese un bel respiro, ricacciandosi indietro le lacrime che promettevano di rigarle il viso. Guardò la sua migliora amica, quella che le era sempre stata vicina anche quando nessuno voleva farlo, quella che aveva curato le sue ferite e che aveva passato notti insonni ad ascoltare i suoi folli pensieri notturni, la prima persona in quel guazzabuglio di protettori ipocriti ad averle teso una mano sincera, quella a cui aveva promesso di girare il mondo con un solo zaino in spalla...La stessa ragazza di cui suo fratello era innamorato…Smise di pensare e scollegò la bocca dal cervello. Invece di rivolgersi al divoratore di segreti, ruotò la testa verso Gabriel. Il battito impennò e si preparò a perdere la cosa più importante della sua vita senza conservare un briciolo di coscienza.
«Gab io…» cominciò a dire senza avere mai la possibilità di finire. Anche il gemello stava per rivelarle qualcosa del suo passato, ma quella sincronia, quel fortuito tempismo li frenò come se avessero sbattuto contro un muro di mattoni. Le dita di Fabiano le strinsero forte la spalla e la fecero indietreggiare.
«Sono pronto a rivelare il mio segreto in cambio del tuo, spettro» dichiarò chiaro e tondo Fabiano, con una sicurezza di cui Leona non lo avrebbe fatto capace.
«Io ho un fratello» disse tutto d’un fiato, gli occhi sbarrati, acqua marina che dardeggiava nel nulla.
Gli occhi di Leona, invece, si strinsero in due fessure su di lui mentre Gab finì per grattarsi i riccioli con fare pensieroso.
Un fratello? Ma di che diamine stava parlando?
Il fantasmino distese la faccia nella smorfia più perplessa e delusa di cui fosse capace «Be’, tanti auguri. Mi fa piacere. Anch’io avevo un fratello prima che se lo pappasse un drago ma questa è la vita» disse facendo spallucce. Aleggiò intorno al ragazzo «Cosa dovrei farmene di questa inform…»
«Mio fratello è frutto di una relazione extraconiugale fra mio padre, il sire di Betelgeuse e Riley la sire del campo londinese. Nessuno è a conoscenza che Ethan è un discendente di mio padre, legittimo quanto me per ereditare il nome della nostra casata. Hanno taciuto questa verità per non incorrere in un incidente diplomatico che avrebbe messo in cattiva luce entrambi e avrebbe gettato un’ombra sulle loro carriere. All’epoca Riley non era nemmeno stata nominata sire e l’infedeltà di mio padre sarebbe risultata ancora più scandalosa».
Leona fu colta da un insano attacco di risate. Tentò con tutte le sue forze di respingerle dentro si sé, non voleva che Fabiano pensasse che i suoi drammi familiari fossero così divertenti per lei. Lei non rideva per quello, ma per il forte e meschino sollievo che la pervase. Ethan era suo fratello. E lei che aveva pensato che fra i due potesse esserci qualcosa che andava oltre una semplice e reciproca simpatia…Quanto era stata ridicola! Era la risposta che aveva sempre avuto al suo fianco ma di cui non si era mai resa conto. Ecco perché quella vaga somiglianza, il suo viso sofferente e il continuo ronzare di Tiziano attorno al protettore inglese. Adesso tutto aveva un senso e…come poteva pensare solo a ciò che provava lei e ignorare quanto quella rivelazione gli pesasse sulle spalle? In che razza di egoista si era trasformata?
«Quindi era questo il contenuto della lettera che hai portato con te dal sotterraneo di tuo padre. Ma perché non me lo hai detto? Non ti fidavi di me» chiese Gab con una profonda delusione a macchiargli la voce. In realtà, risuonò più come una affermazione laconica.
«Nient’affatto. Volevo solo tenerti lontano dagli stupidi impicci di mio padre, se mio padre avesse scoperto che tu sapevi qualcosa, si sarebbe accanito su di te».
«Lo sfido a provarci! Non ho paura di lui, Fabiano. Non mi sarei lasciato catturare facilmente e questo lo sai. Pensavo di essere tuo amico, credevo che ci dicessimo ogni cosa…»
«E tu sei certo di poter affermare lo stesso a parti inverse? Saresti disposto a raccontarmi ogni cosa che ti riguarda? I segreti fanno parte di noi, e non te faccio una colpa se vuoi tenermi nascosto qualcosa, so che hai le tue ragioni e questo mi basta. Rendere partecipi le persone a cui vogliamo bene non sempre si dimostra una prova di fiducia. Anzi a volte tacere per paura di ferire quel qualcuno è il più grande atto d’amicizia che si possa mostrare».
«Io non scambierei la compassione con l’amicizia».
«Non si tratta di scambiarle o sovrapporle, ma saresti in grado di confessarmi qualcosa di cui certamente sai che possa farmi del male?»
«Sì, perché non ti avrei lasciato solo in compagnia delle mie schifose verità. Sarei rimasto lì con te ad affrontare le tue paure. E’ questo che fanno gli amici». I due si scrutarono per qualche secondo, il primo a cedere fu Fabiano.
«Adesso sai, spettro. Fanne ciò che vuoi, ricatta anche mio padre se devi ma lascia andare Morgana».
«Be’» ci rifletté su «penso che sia un compenso più che adeguato».
«Un baratto, è un baratto. Quindi perché non sbirciate cosa c’è sotto il telone?».
Il medjai non perse nemmeno un secondo in più in chiacchiere e trascinò i piedi lì dove il fantasma gli aveva detto. Finalmente quella strana curiosità di Leona sarebbe stata soddisfatta, quella bizzarra attrazione avrebbe avuto fine. Il ragazzo afferrò il lembo del lenzuolo consunto vicino agli orli e tirò verso il basso con gesto svelto del polso.
Una volta tirato giù, i tre protettori si trovarono al cospetto del “mobile” più strano di tutta l’intera stanza. Strano perché non avrebbe dovuto essere lì, almeno che stessero solcando il suolo di una chiesa o una basilica. Leona si aspettò di udire un coro gregoriano rimbombare leggero contro il soffitto a volta della sala da un momento all’altro. Invece non giunse nessuna eco del genere.
Il monumentale organo si stagliava in tutta la sua sontuosità occupando gran parte della parete, soprattutto in altezza. Quello strumento propizio alla ricerca dell'armonia assoluta delle note, si componeva di  facciate costituite dall'alternarsi di canneti a triangolo e semicircolari e di statue dell’arte sacra e stucchi, tipica della tradizione tedesca. Le guglie che si intravedevano da sotto il lenzuolo non erano altro che canne d’ottone di lunghezze differenti, raggruppate in file ordinate dietro le due tastiere alla base dello strumento, con lo scopo di favorirne meglio l’acustica. I tasti di un bianco immacolato, brillavano alla luce del fuoco che esaltava il distacco dalle ottave di un nero opacizzato. Sembrava trasudare antichità ma non per questo si presentava malmesso, impolverato o rovinato. Leona non seppe decifrare i pensieri di suo fratello che era rimasto lì impalato a fissare quello che lui di per certo considerava un ‘pianoforte gigante’.
«E’ uno scherzo? Perché se è così, ammazzo il tuo stupido ragno e ripropongo la proposta di mia sorella di buttare giù questa baracca».
«Che testa calda che siete voi medjai! Frena la tua sete di distruzione babbeo, se non vuoi perdere la tua unica possibilità di salvare Morgana. Non è affatto uno scherzo. L’organo serve a placare i nervi della mia povera Gilda! Sono sicuro che qualche strimpellata possa convincere a lasciare andare quel insulso mucchietto di ossa».
«Dunque suono la ninna nanna e ce ne andiamo tutti a casa? Lo giuri divoratore di segreti?»
«Perché non provi?» lo provocò il fantasma. Gabriel parve incenerire i tasti con il solo potere dello sguardo.
«Non ho mai suonato questa roba, non ho la più pallida idea di come si faccia. Ma credo che la ragnetta non abbia gusti così difficili…» disse avvicinando cautamente le dita callose alla tastiera.
Il sorrisetto malevolo che bazzicò sul viso dello spettro fece immediatamente ricredere Leona, ma non fece il tempo a fermarlo perché già suo fratello si stava accanendo in maniera morbosa contro l’aerofono  pestando a casaccio i pedali e tirando a fantasia le leve. Quello che uscì dalle canne per poco non fece sanguinare le sue orecchie. Gab non aveva il minimo senso della ritmica, delle note e della pause, dava giusto l’idea di un polpo di mare che lascia scorrere le ventose sui tasti di un pianoforte. Era un vero e proprio assassinio efferato della musica. Da buon intenditrice qual era il famiglio del mago, a dispetto di quello che credeva Gab, urlò con un suono graffiante dal fondo del suo addome, un grido agghiacciante che scoraggiò il fratello nel proseguire ulteriormente in quel supplizio. 
Il ragno gigante prese ad agitarsi violentemente e con esso il bozzolo contente Morgana. Il soffitto cominciò a creparsi piano, una gara fra linee decise a tagliare il traguardo. Quando venne giù un intero pezzo di tetto, Leona chiuse istintivamente gli occhi, sperando di sopravvivere all’impatto. I rumori della notte si erano acuiti fra il canto cristallino delle civette e il fruscio delle foglie secche. Il profumo delle orchidee che aveva fatto crescere in giardino, si fece più intenso.
Niente però li schiacciò e nel momento in cui sbriciò fra le palpebre, tutto ciò che vide fu un’ombra. Fabiano era lì accanto a lei inspiegabilmente senza nemmeno un graffio e fissava sbalordito la schiena del fratello fare da pilastro con le sue stesse braccia sorreggendo il soffitto che gli era precipitato addosso. Non mostrava alcuno sforzo o fatica. I muscoli perfettamente definiti sotto la pelle delle sue braccia sembravano fatti di puro acciaio e luccicavano di sudore. Sulla sua schiena, dietro il fodero della spada,  il trapezio si era inspessito al punto da stringergli la maglietta in maniera asfissiante sul petto. Gli aveva detto che era troppo piccola per lui…
Non c’era alcun dubbio. Quella era la benedizione della forza, si ricordò Leona. Nemmeno tutto il suo mana concentrato avrebbe potuto reggere il confronto.
Con un gemito sofferto, Gab distese ancor di più le braccia verso il cielo, e con le vene del collo che parevano esplodergli da un secondo all’altro, lanciò le macerie del tetto dietro di loro, schiantandosi con un gran fracasso. Con i riccioli sparpagliati sulla fronte e il fiatone, piegato sulle ginocchia, guardò in su dardeggiando pericolosamente lo spettro ridacchiante. La sua maglietta era così sudata che non aveva più senso indossarla, delineava con precisione meticolosa ogni solco fra i muscoli, disegnandogli un gran bel esemplare di tartaruga. In un attimo fulmineo, impugnò Symphony.
«Seimortoooo» gli urlò sguainando fendenti a caso contro il fantasmino che faceva slalom fra un colpo di spada e l’altro.
«Certo Don Chisciotte, come se fosse colpa mia se sei un pessimo musicista!»
«Ci hai inculato!»
«Oh ma che boccaccesco! Sono innocente!»
«Bene allora, inizia a spiegare anche a me, perché iniziano a prudermi le mani e muoio dalla voglia di infilzarti» gli fece presente Leona.
«Va bene, va bene! Calma» sospirò «Diciamo che Gilda predilige soltanto un certo tipo di musica, in particolare quella classica»
«E ti sembra questo il momento di dircelo?»
«Ma non mi avete dato modo di finire!»
«Comunque musica classica è molto vago…» chiosò ancora la protettrice. «Quindi ti conviene parlare o io…».
«Tu cosa, Lea?» chiese Gab.
«Ma certo! Come ho fatto a non pensarci subito!» esclamò spiattellandosi un pugno sul palmo aperto.
«Ehm, sei sicuro che non gli sia finito qualche calcinaccio sulla testa?» domandò Gab in un bisbiglio a Fabiano.
Ignorando l’insinuazione di Gabriel, Leona si fiondò dritta verso l’organo. Si guardò a destra e a sinistra individuando uno sgabello che avrebbe potuto fare al caso suo e strisciandolo rumorosamente sulle assi del pavimento si piazzò davanti alla tastiera. Non aveva più lo spartito con lei, ma non ne aveva più bisogno. Durante quell’unica lezione di Ethan lo aveva imparato a memoria per intero, immagazzinandolo per sicurezza con l’effetto osmosi.
Gab lanciò un’imprecazione «Ma cosa hai intenzione di fare? Non hai mai suonato niente del genere in vita tua e…»
«Stai zitto»
«Ok, non fiato» si rimpicciolì all’aura minacciosa emanata dalla sorella.
Favorita dal silenzio che era calato sulla stanza, Leona si sfilacciò il nastro scarlatto dal polso e si legò i capelli in una coda bassa. Si scrocchiò le dita e si inebriò della frigida aria notturna che si era infiltrata dal soffitto mancante. I battiti del suo cuore le ronzavano nei timpani.
«Gilda» la chiamò Leona senza alzare la testa dal pianoforte. L’ottetto di occhietti di un profondo nero liquido le squadrò la schiena e si velò di eccitazione.
«Mi auguro che Johann Sebastian Bach sia di tuo gradimento». Si schiarì la gola e aggiunse «Toccata e fuga in re minore».
Sprofondata nel buio offertogli dalle palpebre, consultando il suo spartito interiore, stese le mani affusolate sulla tastiera e cominciò a suonare, sperando con tutto il suo cuore che la memoria non le giocasse brutti scherzi.

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Capitolo 51
*** SQUARCIO SPAZIO TEMPORALE ***


Capitolo 38 – Squarcio spazio temporale

Mentre le sue dita danzavano sui tasti del pianoforte, le note impattavano con cruda violenza negli animi di chi vi prestava orecchio. Si rincorrevano selvagge saltando da un capo all'altro della tastiera con un apparente moto casuale che tradiva un certo ordine, un’armonia in una galassia di caos. Non appena il mordente con cui si apre la toccata prese vita, Leona si sentì come una partoriente che sta dando alla luce il suo primogenito. Era come se le stesse dando forma con le sue stesse mani. Era proprio lì in un cassetto della sua memoria, ma lo stava scoprendo un accordo alla volta. Armonizzava prima veloce e poi si raddolciva con un adagio mostrando una infallibile accuratezza. Quell’appassionato susseguirsi di note toccava quelle più alte e quelle più basse con più dita di quante ne possedesse una mano e proseguivano instancabilmente  in questo modo impetuoso come se non riuscisse a trovare pace, come se volesse dare la possibilità a ciascun tasto della tastiera di cantare e plasmare quella sinfonia. Le canne d’ottone riverberavano al fluire della musica al loro interno, esplodendo dalle loro bocche come camini fumanti. Era la musica stessa ad esigere di essere portata a termine, stroncarla sarebbe equivalso a commettere il più efferato dei sacrilegi.
Si lasciò trasportare da quel lungo viaggio senza conoscerne la destinazione, con la sola consapevolezza che la magia, un’esplosione di luce e vita, scaturiva dalle sue mani, imbrigliata fra il suono e le dita, potente come un terremoto che rade al suolo una città. Avvertiva che le scorreva dentro e che lei non rappresentava altro che un umile veicolo per poterlo riversare nell’universo. Ignorava il sudore che le scivolava sulla pelle e le ossa che vibrano a ritmo con la musica. Non avrebbe potuto spezzare l’incantesimo che aleggiava indisturbato intorno a lei se si fosse fermata a rimuginare sui rumori e i tremolii che interferivano alle sue spalle. Una sola nota sbagliata e non sarebbe stata soltanto l’opera a pagarne le conseguenze. Non aveva dimenticato quella vita che dipendeva strettamente dalla sua esecuzione e proprio per questo non avrebbe riaperto i suoi occhi fino a che tutto non  fosse finito. 
L’ultima nota si polverizzò nell’aria come a voler sfidare il silenzio a riappropriarsi della sala. Teneva ancora le dita sospese a un soffio dai tasti immacolati, i polpastrelli arrossati e doloranti e il respiro rotto dall’affanno. Le falangi abbandonarono la posa arcuata simile a quella di un rapace e oziosamente  si ritirarono intrecciandosi in grembo. Volute di capelli neri le si erano incollati alla fronte fradicia di sudore, i polmoni tremarono di piacere nutrendosi della prima boccata d’ossigeno. Gli occhi si schiusero al suono di un click freddo e sonante che la costrinse a indietreggiare, spingendosi con lo sgabello all’indietro. I tasti come piccoli cassettini si aprirono verso l’esterno e, slittando uno dentro l’altro, presero a impilarsi ai lati opposti dell’organo rivelando uno spartiacque su un congegno meccanico di manovelle, viti e ingranaggi. I canneti d’ottone si avvitarono piroettando verso il basso, affondando dietro la facciata, seguite dalle altre decorazioni che abbellivano lo strumento. Esse si allungavano sempre più vicino ai lati della parete accompagnati da un costante ronzio di metallo che stride su metallo. Leona se ne stava perfettamente immobile osservando dal suo scanno senza spalliera il congegno sonoro farsi da parte e dividersi in due parti gemelle, soffocando il fastidio che le suscitava lo sfregolino metallico delle ruote dentate che girano l’una incastrata all’altra.  Lasciandosi alle spalle il ricordo della musica che aveva orchestrato in quella stanza fino a poco prima, scoprì quello che non si sarebbe mai aspettata. L’organo era il passaggio magico che dava su un corridoio lungo e stretto avvolto da un’oscurità perpetua. Un fremito le pizzicava la base della nuca, residuo del sortilegio che impregnava l’intera tenuta incantata.
Ad un tratto fu sicura di aver sentito uno strappo: il velo d’illusione che si squarciava sotto i loro occhi e mostrava ciò che nascondeva sotto di esso. Non appena i suoi lembi si furono dissolti nel nulla, distolse l’attenzione da quel varco che voleva risucchiarla dentro il suo covo di tenebre e cominciò a guardarsi attorno colta dalla meraviglia e lo sgomento. Dovette stropicciarsi gli occhi più volte prima di essere assolutamente sicura che non stesse sognando.
Dove si trovava? Che ne era stato di quel raccapricciante, fatiscente e polveroso atrio affetto da una grave inedia di premure domestiche? Dove erano quelle confuse costruzioni di mobili marci ammonticchiati qui e lì alla rinfusa? Era sempre stato così spazioso e arioso quel luogo? E il soffitto che gli era crollato addosso? Da dove saltavano fuori quei maestosi affreschi dai colori sgargianti talmente perfetti e privi di sbavature come se l’artista avesse appena messo via il pennello? Come aveva fatto a sottovalutare la grandiosità di quel tempio, come aveva potuto farsi ingannare così facilmente da quel semplice trucco?
Il giaciglio del manufatto più pericoloso al mondo, d’altra parte, non poteva che adeguarsi alla grandezza di ciò che custodiva.  La protettrice abbandonò la sedia e volteggiò su se stessa per poter avere una visuale complessiva di quel miracolo architettonico, sentendosi poco meno di un’infima formica. Le colonne marmoree, il raccordo curvilineo fra i capitelli risalenti all’epoca tolemaica, l’abaco con i lati modanati e leggermente incurvati in fiori di loto, le alcove concave dentro cui posavano figure classicheggianti nude e ponderate, tutto sembrava ostentare pura perfezione. Dagli architravi scendevano sudari di un intenso color porpora intrecciati da corde dorate, dai bracieri di ghisa si alzavano nuvole dolciastre d’incenso ed effluvi pungenti mirra. Sotto i loro piedi il parquet aveva lasciato il posto a una distesa di alabastro tassellato di turchese, risaltato da dettagli argentati che brillavano alla luce soffusa dei caldani.
Il silenzio che era tramontato su di loro era così spaventoso che i suoi passi riecheggiavano dando l’impressione di trovarsi da per tutto e da nessuna parte. Mentre si scioglieva la coda, aveva l’inequivocabile consapevolezza di essere voracemente osservata. Infatti non si stupì di ritrovare suo fratello, la sua chimera, il suo migliore amico e il fantasma cicciottello, fissarla terrorizzati, ad occhi sbarrati.
Il fantasma fu il primo a rompere quel contratto di incomunicabilità con un applauso «Per tutti i druidi merliniani, sei stata posseduta, ragazza?».
«Già, forse sarebbe il caso di chiamare un esorcista…» si mostrò al quanto preoccupato il gemello.
«Era così tanto tempo che non sentivo battere il mio misero cuore imbalsamato di mago che quasi ne avevo dimenticato il suono…Non vedevo qualcuno suonare in modo così aggraziato e intenso da tanti, troppo anni…» dichiarò ancora sconvolto il divoratore di segreti prima di scoppiare in lacrime. Leona inarcò un sopracciglio, irritata come non mai. La stava prendendo in giro? Perché era costretta a sorbirsi tutti quei volti stupefatti come se da lei non potesse provenire niente degno di nota o strabiliante? Perché le era stata preclusa la via della grandezza? Chi diamine lo aveva deciso?
Fabiano le sorrise. Sbollire la rabbia in quel frangente le sarebbe risultato molto difficoltoso se non avesse incontrato i suoi occhi gentili e carichi di qualcosa che non riusciva a interpretare.
Quel ragazzo era il suo sedativo personale.
Poi alzarono tutti lo sguardo verso quel viscido rumore di bava colante e i cinque secondi di fama di Leona finirono nel dimenticatoio, lasciandole un retrogusto amaro. 
Il bozzolo si aprì e Morgana precipitò in picchiata urlando. Si sarebbe schiantata sul pavimento entro pochi attimi.
Ma non successe.
Gab era già lì, pronto ad afferrarla ed accoglierla fra e le sue braccia possenti. Era sbalorditivo come quella spilungona rannicchiata docilmente contro suo fratello e la faccia nascosta nell’incavo del suo collo, potesse ricordare una fragile creaturina indifesa capace di suscitare un’indescrivibile tenerezza. Lui prese a baciarle i capelli freneticamente, stringendola così forte come se temesse che potesse svanire fra le sue mani. Lei ancorata alla sua nuca. Poi i due si isolarono dai nostri sguardi ingurgitandoci nel limbo del ‘fategli gli affaracci vostri’. E Gab ghignò.
«Qualcuno qui ci ha dato dentro col cibo, eh?» commentò il galantuomo aggiudicandosi una meritatissima scarica di pugni sul petto da parte della rossa. Ancora scosso dalle risate, la rimise in piedi privandola del suo abbraccio senza però perdersi un solo centimetro di lei. I suoi occhi lampeggiavano come stelle, affascinati come se non lo stesse ricoprendo di isterici insulti, uno dei quali finì incastrato fra le loro bocche che premevano disperatamente l’una contro l’altra. Una volta presole il mento per avvicinarlo al suo viso, era finito per scontrarsi con le sue labbra. A quel punto i parametri vitali di Morgana si erano già fatti benedire a sufficienza, quella era appena diventata la più lunga apnea della sua vita. Lei era lì che sbraitava furibonda e lui, sordo come un campana, si era semplicemente preso con la prepotenza quello che voleva.
Fu più una ferita che un bacio, troppo fulmineo perché ne potessero gustare il sapore. Aveva certamente contribuito il sonoro schiaffo che Morgana gli aveva rifilato per quell’avventatezza imprevedibile, il secondo, in verità, che si era guadagnato quel giorno. Gab non ne rimase particolarmente offeso, o almeno quel sorrisetto da sberle, per l’appunto, non glielo lasciò credere. Quello che però andò contro ogni pronostico possibile, fu la reazione di lei che seguì subito dopo.
Sta volta fu Morgana a baciarlo. Due pianeti che si schiantano sopravvivendo miracolosamente all’impatto.
Fu un bacio dolce, profondo, come se si fossero immersi in acque calde e cristalline e i suoni si ovattassero all’incresparsi delle onde. Le sue labbra che si muovevano affamate contro quelle di Gab, stavano sciogliendo come neve al sole la sua maschera di arroganza per accendere in lui una scintilla di desiderio che non si sarebbe estinta così facilmente. Non sapeva bene quando la dolcezza di quel bacio si fosse infranta e fosse subentrata una rabbia travolgente. Si stavano letteralmente assaggiando, lui le mordeva le labbra, lei lo graffiava. Nell’espressione di Gab non c’era altro che vulnerabilità, si era denudato della sua presunzione per lei, aveva appeso al chiodo tutto il suo orgoglio solo per compiacerla. Voleva solo nutrirsi di lei, come se non ci fosse nient’altro al mondo. Le mani, scosse da una inaspettata insicurezza, non sapevano dove trovare riposo, le accarezzavano il viso, poi capelli, affondavano giù lungo la sua schiena, si avvolgevano attorno ai suoi fianchi, la attraevano a se, e le dita si imprimevano sulla sua pelle come a volerne volutamente lasciare i segni. Lei, bisognosa tanto quanto lui della sua vicinanza, aderiva come un guanto, senza smettere di giocare con i suoi riccioli neri.
Assistere a quella scena avrebbe dovuto eleggere Leona a reginetta degli imbarazzati, ma per qualche strano motivo non la disturbò affatto. Anzi, fantasticava su questo dolce lieto fine da parecchio tempo ormai.
Morgana era finalmente presente in anima e corpo, c’era dentro fino al collo, non c’era più nessun eros liquido a diluire e distorcere i suoi sentimenti. Erano due cuori erranti che si cercavano e che avevano bisogno l’una dell’altra per guarire.
Senza sapere come, avvertì la sua presenza, il suo calore, il suo profumo di gelsomino e margherite scaldate al sole. E come quella scia fragrante le aveva preannunciato, Fabiano era lì accanto a lei, trattenendo a stento un sorriso che gli si arricciava nelle labbra. Ammiccò di sottecchi verso di lui sperando che partecipasse a quell’intesa, ma quando Fabiano se ne accorse, la protettrice capì che lui non ci riusciva, no, non voleva guardarla. Tenne gli occhi bassi e si voltò da un’altra parte, forse per nasconderle, troppo tardi, le guance che gli erano andate in fiamme. Scambiò un’occhiata perplessa con il cincillà accanto lei che si limitò a eseguire un gesto che ricordava una scrollata di spalle.
Che cosa gli passava per la testa? Leona avrebbe pagato oro per poter usufruire del dono di quel Cullen.
Tutt’altro che rabbonito da quelle effusioni, il fantasma probabilmente era andato alla ricerca di una pila dove vomitare il suo ultimo pasto, sempre che gli spettri avessero un apparato digerente, in effetti non si era mai posta il problema.
Nel frattempo i due si erano staccati l’una dall’altra sorridendosi a vicenda e sussurrandosi segreti all’orecchio. Il fantasma era stato tagliato fuori da tutto questo.
«Ma certo, ignoriamo pure colei che si è fatta venire i crampi alle dita per salvarti dalle grinfie di un ragno gigante, fai pure mia cara» asserì Leona fingendosi offesa.
Lei recitò il suo copione da ragazzina timida alla perfezione e arrossì.
«A proposito dov’è finito?»
Fabiano le tamburellò sulla spalla «È proprio lì accanto a te».
Per poco non le venne un infarto alla vista dell’aracnide gigante che le faceva le fusa in attesa di una carezza. Onestamente, con tutti quegli occhi, non sapeva dove mettere le mani. Edna, che aveva preso le sembianze di uno spaniel, le ringhiava a denti stretti.
«Su, non fare la gelosa!» la rimproverò.
«Graz-…» stava balbettando la sua amica. Morgana aveva poco fiato per via di quel bacio appassionato.
«Lascia perdere» disse lei mostrandole una linguaccia «Abbiamo tempo per i ringraziamenti. Questa non sarà né la prima né l’ultima volta che mettiamo a rischio le nostre chiappe, credo. Ma sappi che mi devi un favore!».
«Come vuoi, piccola Mozart!»
«Veramente era Bach…ma apprezzo il paragone».
«Dio, credo che sto per sentirmi male…» disse Morgana massaggiandosi il petto.
«Un effetto collaterale dei miei baci, ci farai l’abitudine» le disse Gab spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ipnotizzandola coi suoi occhi blu.
Leona spostò il peso su una gamba incrociando le braccia «Come se il tuo fosse messo meglio! Fra poco mi esce fuori dalla gola».
Morgana rise di Gab, compiaciuta che il suo cuore battesse per lei.
«Stupida connessione fra medjai» sbuffò lui.
Poi la gioia li abbandonò, senza preavviso, lasciandogli l’amara consapevolezza di non aver ancora compiuto il loro viaggio. Nessuno di loro però pareva aver voglia di attraversare quello stretto cunicolo così buio…
«Be’, ve lo siete meritato» li fece sobbalzare lo spettro «Potete proseguire, se ne siete ancora convinti» disse ancora sottintendendo che non avrebbe scommesso una lira su di loro.
«Una volta superato il secondo livello di sicurezza, il ciondolo sarà vostro». Lo spettro gli lanciò l’ampolla e Fabiano la prese al volo.
Leona non smetteva di fissare l’oscurità «Se fosse così facile, non penso che si trovi ancora oltre quel vicolo buio. Perché Delilah ha dovuto fare tutto questo…»
«Oh, adesso la chiamiamo per nome! Ma certo, cosa saranno mai mille anni di servitù! Arrivano quattro protettori formato bambino e la padrona li accoglie senza battere ciglio a sedere al tavolo con lei…che umiliazione».
Infine si decise a rispondere alla sua domanda «Ve l’ho già detto, per tenere alla larga i sicari di Frieda. Era facile, lanciava un sortilegio su di loro e li costringeva a fare qualsiasi cosa per lei…contemplando persino una missione suicida come questa. Il ciondolo blu non deve assolutamente finire fra le sue grinfie. Il seme del male che germogliava in lei può ancora essere risvegliato…e allora sarà la catastrofe, l’epopea della sua vendetta sulla sorella. E credetemi che nessuno vorrebbe che fosse lei a sedere sul trono. Ricordate l’era degli scambi dei neonati?».
«Quando i bambini umani venivano rapiti dalle loro culle e sostituiti con un bebè fatato?» ricordò Fabiano.
«Li ordinava lei quegli scambi, inevitabilmente una fata non può sopravvivere a lungo nel regno degli umani ma…non volete sapere che cosa ne faceva di quelle povere creature umane…».
Ci fu un attimo di silenzio che sembrò durare una eternità.
«Allora cosa stiamo aspettando? Andiamo!» si caricò Gab imboccando quel sentiero oscuro con fierezza.
«Un attimo Gab, non fare il precipitoso!» ma lui era già dentro quel tunnel senza fine.
Morgana e Fabiano la guardarono cercando di cavarle fuori il permesso. Sospirò «Seguiamolo» si dovette arrendere.
«Vi attendo dall’altra parte» ci avvisò il fantasma attraversando i muri.
«Gab, aspettaci!» gli urlò dietro Morgana prima di addentrarsi anche lei in mezzo al nulla. Leona imprecò fra sé e chiese a Edna di precederli per sicurezza. Stava per essere inghiottita dal corridoio degli orrori quando Fabiano la prese per mano. Si voltò verso di lui accigliandosi.
«Restiamo insieme, non è prudente separarci». Leona annuì «Sono d’accordo» e infittì ancor di più l’intreccio fra le loro dita.
«Andiamo» disse infine e abbandonarono il mondo della luce per varcare i cancelli di quelli delle tenebre, mano nella mano. E tutto fu buio, un buio così fitto che era difficile percepirsi come entità, credere persino di esistere, di essere vivi. L’unica cosa che l’ancorava alla realtà era la sua mano, calda contro la sua che invece era gelata per il precedente contatto con l’elsa della kopis. Il freddo cominciava a insinuarsi nelle ossa e la faceva rabbrividire. Non poteva usare il dominio del fuoco in quello spazio angusto o li avrebbe privati del poco ossigeno che avevano a disposizione e sarebbero morti soffocati dal fumo. Proseguiva a tentoni tastando le pareti, con l’umidità che le trapassava la pelle, ma non era certa se stesse camminando dritto o stesse imboccando una curva. Per fortuna c’erano i suoi respiri a spezzare quel silenzio terrificante. Era una vera e propria distesa infinita di nero, e vergognandosene profondamente, si accorse che forse aveva scambiato i brividi di freddo per qualcos’altro.
«Ti prego, parla, dii qualsiasi cosa. O credo che impazzirò…».
«Cosa vuoi che ti dica?». Leona si sorprese di quanto sollievo le procurasse il suono della sua voce.
«Non saprei, non mi viene nulla in mente…vediamo».
«Com’è stato scoprire di avere un fratello?».
Si rese conto troppo tardi di aver fatto un irrimediabile gaffe.
«Dannazione, dovrei tacere quanto sto così nervosa».
«Non fa nulla, Lea» disse lui, ma sapeva benissimo che l’aveva turbato.
«Credo…» cominciò a dire «io non lo so con certezza, non ho idea di ciò che provavo e di ciò che provo in questo momento. Io…sono felice di non averlo mai conosciuto prima, che sia cresciuto lontano da mio padre, di non aver condiviso con lui la sua perfida dittatura, che non abbia subito insieme a me il dolore per la perdita di Sara. Non avrei mai voluto niente di tutto questo per lui. Anche se non mi sarebbe dispiaciuta una spalla su cui piangere, qualcuno che avesse diviso con me il peso di tutti questi terribili anni. Sarebbe da egoisti non credi?».
«Ma Tiziano ha tradito tua madre…».
«Non è stato certo questo a togliermi il sonno. Cosa potrei aspettarmi di diverso da lui? Io non odio né Ethan, né la donna che lo ha cresciuto. Non potrei mai colpevolizzarli per qualcosa di cui mio padre è diretto responsabile, loro non c’entrano nulla. Ti sembrerà strano ma, ho provato subito affetto per lui e…tenerezza.
Sebbene mio padre non sia il modello di genitore ideale, crescere credendo di essere stato abbandonato e rifiutato è cosa ben peggiore. E mi sono chiesto quante volte si sia tormentato di perché la notte e mi sono rammaricato di non essere stato al suo fianco quando avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo capisse e lo rassicurasse. Leona, lui è mio fratello, non importa se di madre diversa, in lui scorre il mio stesso sangue. Io non voglio essere come mio padre, non voglio lasciarlo solo. Anche se lui mi odia e continua a respingermi, non posso arrendermi».
«Io non credo che ti odi… è complicato».
«Forse tu lo conosci meglio di me. La gelosia può fare brutti scherzi, sai? Sfoca la visione della realtà e non ti fa pensare lucidamente».
«Ne parli come se sapessi cos’è. Sei mai stato geloso?».
Alla protettrice parve di sentire i circuiti del cervello di Fabiano mettersi in funzione.
«Non di Marlena, magari avrei dovuto esserlo…ma non ne vedevo il motivo. Ma credo di poter capire Ethan, con te è davvero difficile non impazzire di gelosia. Comprendevo a pieno il suo sviscerale terrore. Prima o poi qualcuno, ora Fabrizio, ora Norman o il principe delle fate, si sarebbe accorto di quanto tu fossi meravigliosa, non solo esteriormente, e questo lui non poteva controllarlo. Non puoi nemmeno immaginare il potere che eserciti inconsapevolmente, e forse è proprio questa non curanza che ti rende ancora più irresistibile».
«Ma di quale fantomatico potere stai delirando?».
«Quello di strappare il cuore dal petto e di sbriciolarlo ancora pulsante sul palmo della tua mano».
Leona era corrosa dalla curiosità di esplorare affondo quell’affermazione, nel disperato tentativo di scoprire se quello valesse anche per lui, ma non gliene lasciò il tempo.
«Ethan è pazzo di te, e il pensiero che  potessi togliergli l’unica cosa che io non possedessi già ha inquinato ancor di più i suoi sentimenti. Mi sono detestato anche per quello. Perché mi sono reso conto che il mio cuore non avrebbe mai rinunciato a te, almeno non veramente. Ci ho provato sul serio…e credimi quando ti dico che non avevo alcuna intenzione di alimentare la sua invidia».
«Perché lo fai? Perché continui a caricarti pesi che non ti appartengono? Mi spieghi perché continui a metterti in mezzo? Prima con Ethan, poi con Marlena, adesso Morgana…».
«Perché è quello che mi hai insegnato tu. Sei stata tu a mostrarmi il vero significato nascosto del coraggio e del sacrificio. È semplicemente quello che avresti fatto anche tu».
«Non sono così buona come mi dipingi, non sono io l’eroina di questa storia…».
«Non mi prenderei mai il merito di qualcuno che sta più in alto di me. Dio ti ha fatta così, e chi sei tu per contraddirlo?».
Era abile nel sviare il discorso indirizzandolo su qualcos’altro. Questo doveva concederglielo.
«Mi prometti che non farai mai niente di sciocco per me?».
«No. Non ti farò una promessa che non sono in grado di mantenere. Almeno che tu non voglia che mi detesti per il resto dei miei giorni. È fuori discussione e poi non puoi impedirmelo».
«Sei irritante certe volte…» sbuffò seccatamente.
«Vuoi che passi avanti io?» la raggiunge la sua voce. Leona arrestò la marcia senza dire nemmeno una parola. Se avesse ammesso apertamente di aver paura ne avrebbe risentito pesantemente il suo orgoglio. Fabiano colse il messaggio muto di lei e fece per superarla addossandosi alla parete. Ma fu proprio in quel momento che i due intuirono che il corridoio era davvero, davvero troppo stretto per accogliere entrambi. Leona dimenticò improvvisamente cosa fosse il freddo. Con il corpo di lui premuto, quasi compresso su di lei credette di stare andando letteralmente a fuoco. Leona pensò che non fossero incastrati ma che combaciassero alla perfezione, che avrebbero potuto fondersi benissimo in un solo essere, che in realtà avrebbe accettato il buio eterno di buon grado se l’avesse ricompensata con quell’abbraccio…anzi a quel punto l’oscurità non la intimoriva più, era appena diventato un loro indispensabile alleato.
 Sentiva il suo fiato dolce irradiarsi sul viso, il calore della sua pelle attraverso i vestiti, i battiti del cuore di Fabiano le risuonavano contro lo sterno, e inevitabilmente avvertì anche qualcos’altro spingerle sull’anca ma non si fermò più di tanto a pensarci o il cuore le avrebbe detonato nella cassa toracica, esausto di sostenere quel ritmo impazzito. Chissà dov’erano le sue labbra? Le avrebbe potute raggiungere? Che sapore avrebbero avuto? Quelle domande le rimbalzavano nel cervello continuamente, le mozzavano il respiro, e le facevano traballare ancor di più le farfalle nello stomaco. Delle farfalle schifosamente ubriache a dirla tutta.
«Scusa» mormorò lui con corde vocali tremanti. Sembrava davvero afflitto. Temette quasi che ne fosse infastidito…
«Va tutto bene» mentì lei.
Andava molto più che bene. Ma non lo avrebbe mai ammesso.
«Siamo incastrati» aggiunse lui. Aveva davvero un perspicace spirito d’osservazione.
«Lo so. Proviamo a spingere ai lati opposti, d’accordo?»
Dov’era finito il pizzicorino del suo respiro? Aveva smesso di respirare? Perché stava esitando?
Leona si schiarì la gola «Allora al mio tre. Uno, du-…».
«Sei così calda…» bisbigliò toccandole la fronte con la sua. I muscoli dapprima rigidi per la tensione, se li sentiva sciogliere addosso come miele.
«Così non mi aiuti». Lo disse quasi ridendo. Fabiano sospirò.
«So che stai per scusarti per l’ennesima volta. Non farlo». Qualcosa le sfiorò il naso e si stava avvicinando alle sue labbra.
«Non so se mi va di aiutarti». Per la barba di Mayak, aveva intenzione di farla morire di crepacuore lì dentro?
«Non giocare sporco con me, adesso che sai…».
«Proprio adesso che so…» ripeté lui «Non riesco a togliermelo dalla testa». Aveva le sue dita bollenti sulla guancia. Se lo immaginò mordicchiarsi le labbra, un gesto che lo aiutava a smorzare il nervosismo. Lo avrebbe aiutato volentieri lei, se solo glielo avesse permesso…
«Non ricordi più? Io sono la tua maledizione. E spesso ho creduto che in fondo tuo padre avesse ragione. Tu non sai…non puoi sapere di cosa sono stata capace di fare con queste stesse mani, non mi guarderesti più allo stesso modo» non poté nascondergli la ferita ancora viva che sanguinava in lei.
Fabiano portò l’intreccio delle loro mani vicino alla bocca e riuscì a baciarle le nocche, con una lentezza che le diede i brividi.
«Non pensare a quello che queste mani hanno fatto…il passato è dietro le tue spalle e non puoi fare nulla per ciò che è stato. Pensa piuttosto a quello che potrebbero fare, quanto bene, quanta luce potrebbero portare in questo mondo. Queste mani sono le stesse che hanno salvato delle vite e che sono sicuro continueranno a farlo. Il passato di cui tanto hai paura non può dominarti, non può decidere ciò che sarai. Quella decisione spetta prenderla unicamente a te.
Vorrei che tu potessi vederti come appari ai miei occhi…Quando credo di sapere tutto quello che c’è da conoscere su di te, tu smentisci tutte le mie sicurezze. È incredibile come riesci a sorprendermi ogni singola volta, mostrandomi una nuova parte di te. Non basterebbe una vita intera per esplorare il tuo mondo e ciò mi infonde speranza…».
«Cosa c’è? Perché stai ridendo?» le domandò confuso. Leona posò il capo sul suo petto, la mascella di lui che le sfiorava i capelli.
«Mi sento nostalgica. Questo mi suona come qualcosa che avrebbe potuto dire il vecchio Fabiano» alitò con la bocca pigiata contro la sua maglietta che odorava di Lui. Come sarebbe stato bello rimanere lì ad ascoltare il solo suono che spezzava il silenzio di quell’oscurità. Il suo cuore…
«Sai la sua voce si è indebolita…sta perdendo vigore». Adesso aveva le sue lunghe dita affusolate infilate fra i capelli.
«Quale voce?»
«La stessa voce che continua a gridarmi che …sarai la mia maledizione».
«Ma vuoi sapere una cosa? Se davvero così fosse non ho più intenzione di opporgli resistenza. Non m’importa cosa accadrà, mi lascerò maledire ogni giorno se vorrà dire che potrò avere anche solo un pizzico di tutto questo» e così dicendo la strinse più forte.
«Allora! Cosa state facendo voi due sporcaccioni al buio! Se volete ancora diventare gli eroi della nostra gente, dovrete rimandare le vostra ‘tappe vietate ai minori’ in un altro momento!».
«Gabriel…» sospirarono all’unisono, racchiudendo in quel semplice nome tutta la loro frustrazione.
C’era troppo buio per guardarsi negli occhi, ma non ne avevano bisogno. Entrambi concordavano pienamente sul fatto che Gabriel fosse il più molesto rompi scatole del pianeta.
«Be’, mi sa che è ora di andare. Mi dispiace per, be’, questo» si scusò facendo riferimento ai loro corpi più vicini di quanto la buona educazione permettesse. Con una lieve spinta i due riuscirono a sgusciare ai lati opposti. Poi prendendole ancora una volta la mano per guidarla lungo il tunnel le disse «A me non è dispiaciuto». Sembrò ingoiarsi quell’affermazione deglutendola rumorosamente.
Leona sorrise all’oscurità.
L’intestino oscuro e labirintico del mostro dentro cui la protettrice fantasticava di trovarsi, le avrebbe dato l’impressione di terminare in un vicolo cieco se solo quella feritoia di luce, dapprima grande quanto un chicco di riso per poi ingigantirsi mano a mano che si facevano più vicini all’uscita, non le avesse fucilato la cornea senza preavviso. Più li strizzava, più gli occhi le lacrimavano copiosi sulle guance. Gli strofinò i polsi per raccoglierle riuscendo finalmente scorgere dietro quel velo umido la caverna rocciosa che dava all’imboccatura del corridoio da cui era sbucati.
 «Non ti emozionare sorella! Dovete scusarla, di solito non è così sentimentale».
«Taci idiota, o giuro che con un calcio nelle palle ti faccio cantare da soprano l’inno alla gioia di Beethoven».
«Cosa c’è laggiù?» li interruppe Fabiano. A pochi metri da loro si spalancava un baratro spaventoso circondato da una corona di nebbia, debole, non più spessa di una sottile foschia. Lo spettro veleggiò per aria fino ad affiancare le tre teste allungate oltre il precipizio. Leona, non particolarmente interessata, se ne era rimasta in disparte notando per la prima volta la testa gigante di un gargoyle, pietrificato nell’atto di un ruggito.
«Il nulla eterno» disse solennemente, e i brividi s’impadronirono del trio curioso.
Il fantasma si corrucciò sollevando un dito formato salsicciotto fra loro e il suo nasone, come una guida turista che vuole attirare l’attenzione su di sé «Si dice che non basti una vita intera per raggiugere il fondo, ma non posso parlare per esperienza. L’ultimo ha smesso di urlare soltanto un paio di anni fa…Non mi alletta neanche un po’ l’idea di scoprire cosa ci sia lì sotto».
Il nulla, si ripeté la protettrice col suono inceppato di una grammofono al posto del cervello. Avrebbe preferito sentirsi dire che ad attenderli alla fine della voragine vi avrebbero trovato un drago leggendario sputafuoco, una tana di gorgoni con i loro folti sciami di sibili al posto dei capelli, anche dei semplici zombie le sarebbero andati bene, ma il nulla…era più terrificante della morte stessa.
«Qui dentro i viaggiatori imparano una lezione molto importante» proseguì lo spettro «Riuscire a guardare dentro se stessi, oltre la coltre di bugie che li sommerge, il valore salvifico della sincerità e il putridume delle loro menzogne che come un velo opacizzato li separa dalla realtà. Per lo meno chi vi cade dentro ha tempo a sufficienza per riflettere sui propri errori. È un vero peccato che possano raccogliere i frutti di quest’insegnamento quando non hanno più una vita da vivere, quando non gli resta che confrontarsi soltanto con i loro compagni nell’aldilà. Ma mi sono dilungato abbastanza…Oltre quel portone» indicò in lontananza la sponda opposta del burrone «Vi è l’accesso al vostro tanto desiderato tesoro. Non vi resta che attivare il ponte per raggiungerlo».
«E come si attiva il ponte? Non vedo carrucole, argani a ruota, né contrappesi…nessun sistema di manovelle o ingranaggi come è stato per l’organo» elencò una Morgana pensierosa.
«Come se fosse scontato!» sberciò stizzito il fantasmino. «Questo è il luogo dove l’architettura è convolata a nozze con la magia, ormai dovreste esservene resi conto. Con un il solito ed unico prezzo da pagare».
«Fammi indovinare» ci provò Gab «Segreti?».
«Quando ti ritrovi  ad avere un “corpo” come il mio, i segreti diventano molto più succulenti di qualsiasi altra leccornia che un banchetto sontuoso potrebbe offrire».
«Secondo me i segreti stanno bene dove sono…».
«Hai paura piccolo medjai?» lo sfidò lo spettro.
«Paura è il secondo nome di mia sorella, non il mio»
«Come, scusa?» si alterò la ragazza.
 Fabiano mise a tacere la zuffa verbale dei gemelli con un’occhiataccia e si fece avanti «Per favore dicci come attivare il ponte, non abbiamo molto tempo. In questo momento il nostro campo potrebbe essere in pericolo».
«Il gargoyle è la chiave» s’illuminò Leona.
«Interessante. E cosa te lo ha fatto pensare?» la studiò il divoratore di segreti.
Superò i compagni con la chimera che le trotterellava a fianco dirigendosi svelta verso il guardiano del tempio. Quando gli fu dinanzi, saggiò sotto i polpastrelli quanto fossero aguzzi i denti a sciabola che la creatura sfoggiava all’arricciarsi del muso sulle gengive.
«All’inizio pensavo che fosse stato immortalato nel bel mezzo di un ruggito intimidatorio, ma quello sguardo…» rifletté solcandone il cipiglio di pietra con le dita «È affamato, non saprei descriverlo diversamente». Detto questo, lo spaniel le saltò in braccio guaendole disperato all’orecchio.
«Lo so Edna, ma non abbiamo altra scelta» la rassicurò picchiettandole sul tartufo.
Le sorrise. «E poi chi è la chimera fra le due? Sei molto più temibile di quanto credi. Se qualcosa dovesse andare storto ci sarai tu a proteggermi». In tutta risposta la cagnolina le leccò il mento affettuosamente. La padroncina la baciò in mezzo agli occhi e la invitò a scendere con un cenno della testa.
«Immagino che si attivi con la magia del sangue, o mi sto sbagliando?».
«Non  sbagli, medjai» confermò lo spettro.
Si ritrovò una gomitata amichevole di Morgana fra le costole «Non per niente è sempre stata la prima della classe, non ti smentisci mai».
La medjai le schiacciò l’occhiolino. Si fece passare l’ampolla con il sangue di Delilah da Fabiano e la stappò gettando il tappo di sughero direttamente sulla fronte del fratello. Tese il braccio infilandolo dentro la gola del difensore dalle corna caprine e gli versò il liquido di un densissimo color cobalto direttamente sulla lingua. Il potere del sangue fatato della regina non tardò a manifestarsi e si profuse in ogni poro rivitalizzando la pietra di cui era fatto, tramutandosi in carne ed ossa. Due occhi neri si focalizzarono su di lei facendola indietreggiare per la sorpresa e l’intensità di quell’intimidazione. Poi sgranchendosi le lunghe ali da demone le dispiegò in tutta la loro lunghezza e la imprigionarono dentro un mondo di ombre.
«Mio caro amico! Vedo che il sonnellino di bellezza non è servito a molto, vecchio caprone».
Il gargoyle belò contro l’insulto del fantasma sferzandoli con ruggenti folate generate dal lavorio delle ali.
«S-e-g-r-e-t-o» strepitò la creatura.
«Sa quello che vuole il ragazzone» considerò Gab spostandosi i riccioli dalla fronte per nulla intimorito dal suo aspetto.
Il mostro planò al centro del piazzale parandosi di fronte a lui con gli artigli che stridevano sulla pietra. Gli ruggì addosso spazzandogli via il sorrisetto dalla faccia. La vescica di Edna non resse più e insozzò l’aria di acido urico.
«Gabriel attento!» strillò Morgana, impossibilitata dalla tremarella ad avvicinarsi per soccorrerlo.
«Merda! Che devo fare?» chiese bianco come un cencio.
«Te l’ha detto. Vuole il tuo segreto. Infila la mano dentro la sua bocca» aggiunse mentre il gargoyle metteva in mostra una schiera lucente di zanne  e srotolava la lingua «e svelagli cosa nascondi nel profondo…ti suggerisco ti essere convincente se non hai intenzione di andartene in giro con un braccio solo».
«Ti prego Gab, non fare stupidaggini» lo avvertì il suo migliore amico.
«Wow, il tizio deve aver banchettato con lische di pesce marcio. Cazzo! questa storia sarà la mia rovina…» piagnucolò con il braccio a metà strada dallo sfiorare l’ugola del gargoyle. Col fiato corto, provò a non inalare più del dovuto i gas sulfurei emanati dalla bocca della creatura e i suoi occhi andarono alla ricerca di sua sorella. Una volta trovata non la lasciarono più.
«Per favore, non odiarmi…». La sua voce era sottile come un capillare, ma la colpì con impeto in pieno petto. Quel tono non pronosticava nulla di buono. Gabriel le aveva nascosto qualcosa di terribile…
«La notte prima che tu tornassi da Londra, io ho varcato i confini del campo, ho eluso le guardie ai cancelli d’entrata e ho attraversato lo specchio. Tu mi avevi abbandonato, non sapevo se e quando avresti fatto ritorno. Ti detestavo perché non avevi mantenuto fede alla tua promessa, sembrava che non te ne importasse più, che fossi l’unico dei due rimasto con quella dannata voragine scavata dentro al petto. La nostra vendetta era ancora un libro aperto senza un finale ancora scritto e…volevo essere io l’ultimo a impugnare la penna. E sono andato a cercarli… anche se sarebbe più corretto dire che lei ha trovato me».
Leona non aveva alcuna voglia di stare a sentire la confessione di suo fratello ma riuscì comunque a chiedergli, pur conoscendone la risposta, «Chi? Gabriel, di chi stai parlando». Tremava così tanto che credette che la colonna vertebrale le si stesse spezzando in due.
«Non chiedermi come, ma sapevo che fosse lei fin dall’inizio. Ricordo ancora quella inspiegabile sensazione…come se la conoscessi, come se l’avessi già incontrata. La ragazza con i capelli d’argento».
No, non poteva essere. Non poteva crederci che l’avesse fatto davvero senza di lei.
«Io volevo ucciderla. Riuscivo a stento a tenere a bada il mio odio. Mi ha sussurrato delle cose, mi parlava del destino come se venisse da un’altra dimensione, della resurrezione di un regno perduto, di come sarebbero dovute andare le cose… un sacco di stronzate! Mi ha chiesto di seguirla. Ovviamente io mi sono rifiutato. Ma non dimenticherò mai il suo sguardo. Io l’ho visto Lea. È inevitabile, sento che le nostre strade s’incroceranno un’altra volta». Esalate le ultime parole, Gab abbassò gli occhi ricolmi di vergogna, rifugiandosi fra le fessure del selciato. Poi un’aura biancastra evaporò dai contorni della sua figura come se una mano invisibile gli stesse strappando una seconda pelle. Il gargoyle l’aspirò nutrendosene dalla bocca e dalle narici. Si stava cibando del suo segreto. Gab ritirò il braccio dalle sue fauci prima che si sigillassero. Una volta ingoiato, il guardiano gli diede le spalle e ruggì al vuoto del baratro che stranamente non riportò nessuna eco indietro.  Quando ormai pareva che non accadesse più nulla, ci fu una piccola scossa tellurica che fece ondeggiare il pavimento sotto i loro piedi. Smesso di tremare, i quattro protettori osservarono la lunga e stretta piattaforma di pietra dall’aria pericolante che si andava formando sul sentiero che portava dall’altro lato del precipizio. Ma non era abbastanza lunga da toccare l’altra sponda, anzi ricopriva soltanto un terzo della lunghezza e un salto da lì sarebbe equivalso a un suicidio. Servivano altri segreti.
«Ingegnoso, no?» si vantò lo spettro. Leona però non lo stava ascoltando, né quel trucco di magia l’aveva impressionata più di tanto, per lo meno non quanto la confessione di suo fratello, rimasto contrito in un angolo, consolato da Morgana da un lato e Fabiano dall’altro. Lui credeva di averla profondamente delusa, ma non era affatto così. Pensandoci bene, forse anche lei si sarebbe fatta tentare da quella possibilità se ne avesse avuto l’occasione. Non poteva biasimarlo senza trasformarsi lei stessa in un’ipocrita di prima categoria.  Non poteva non pensare a quanto fosse felice che quella bastarda non gli avesse torto un solo capello, che l’universo non fosse riuscito a strappargli via l’unica cosa che amava dopo averle sterminato la famiglia al completo.
«Lea…» provò a dirle.
«Levati subito quella stupida faccia da martire, babbeo» gli rispose ridendo «Non mi sembri nemmeno tu. Ho sempre creduto che avresti preso a calci in culo il destino, senza preoccuparti minimamente delle conseguenze. O forse ti sei rammollito?».
«Ho messo a rischio le nostre vite anche se non ne ero cosciente. Pensavo che…».
«Be, pensavi male. Come sempre del resto. Solo non riprovarci mai più o sarò costretta a spezzarti il collo con le mie stesse mani, chiaro? Quel giorno verrà, te lo prometto ma lo affronteremo insieme. Qualunque cosa accada sarò sempre con te. Siamo legati, non puoi liberarti di me».
«Già, la mia dolcissima spina nel fianco». A quella frase il fantasma sbuffò sonoramente.
«Devo ammetterlo, siete meglio di una soap opera argentina. E mi piacerebbe molto sedermi su una poltrona a sgranocchiare popcorn se solo me ne importasse qualcosa. Volete quel ciondolo o no? Datevi una mossa e rimandate le vostre patetiche smancerie fuori da casa mia! Se avessi ancora le ginocchia, il latte colerebbe a fiumi».
Il quartetto rivolse un’occhiataccia al fantasma che manifestava apertamente di essere allergico ai sentimentalismi. Poi Morgana parlò: «Va bene, adesso è il mio turno». Richiamò con un fischio la bestia e lasciò penzolare il braccio nella sua direzione. Nessuno di loro la aveva mai vista così determinata o ansiosa di far qualcosa, men che meno sventolare davanti a un pubblico i suoi segreti, come se non aspettasse altra occasione per liberarsi di quel peso. Il gargoyle non declinò quell’invito a nozze, il segreto di Gab gli aveva appena stuzzicato l’appetito, e si catapultò subito da lei con le fauci ben spalancate. Quando il braccio fu dentro, Morgana inalò un bel respiro e chiuse gli occhi.
«So bene che questa verità potrebbe ferirvi ma non posso lasciare che marcisca dentro di me nemmeno un secondo di più. Devo correre il rischio e meritate più di chiunque altro di sapere».
Leona si preparò a incassare il colpo non troppo seriamente, in fondo conosceva praticamente tutto di Morgana, cosa mai avrebbe potuto tenerle nascosto?
«Sono io la spia» disse e il gargoyle si nutrì all’istante del suo segreto. Il ruggito si propagò nuovamente nella caverna e un altro pezzo del sentiero levitò dal basso per congiungersi con la passerella da poco emersa dalle profondità delle rocce. Mancava solo un piccolo tratto al traguardo.
«Che cosa?» sbottò incredulo suo fratello.
«Vuoi dire che sei stata tu a raccontare tutto a tuo padre?» domandò Fabiano, il corpo teso e sotto shock per quella rivelazione.
Gabriel infilò le dita fra i riccioli neri «Dimmi che stai scherzando…».
«E secondo te scherzerei su una cosa così importante? Potrei mai ridere di una cosa di cui mi pentirò per il resto della vita? Io volevo solo essere d’aiuto, non immaginavo minimamente che…» si bloccò a metà frase colta dagli spasmi dolorosi causatele dai ricordi di quel giorno che le aveva portato via sua padre.
«Tu avevi giurato, ti rendi conto di cosa hai combinato?» la accusò ancora Gab con la follia che attraversava i suoi occhi come nubi temporalesche.
Fabiano la prese per le spalle scuotendola «Morgana, perché lo hai fatto?».
«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace» prese a supplicarli fra le lacrime. «Non spero nel vostro perdono, so di aver perso per sempre la vostra fiducia ma credetemi che l’ho fatto con le migliori intenzioni. Se mio padre avesse scoperto i piani del tuo, i protettori si sarebbero schierati dalla nostra, lo avrebbero sostenuto, avrebbe conquistato il potere e avremmo avuto uno squadrone a disposizione per il recupero del ciondolo e non ci sarebbe stato alcun bisogno di rischiare la vita. Non potevo sapere che lo avrebbero giustiziato» singhiozzò.
«Sai quale è stato l’ultimo pensiero di tuo padre, prima di morire?» la interruppe Leona, atona, senza alcuna emozione a colorarle la voce. Fissava il baratro.
«Ha detto che nessun figlio maschio avrebbe potuto renderlo fiero come hai fatto tu e che eri sempre stata tu a dare un senso alla sua vita. Lui ti amava».
Morgana scoppiò in lacrime. Pianse così forte che chiunque sarebbe stato incapace di darle sollievo, persino Gab con le sue premure non sarebbe riuscita a fermarla. Mentre Gab la teneva stretta dentro il suo abbraccio massaggiandole la schiena, alzò lo sguardo verso la sorella, trovandovi nient’altro che una sconcertate abulia, una totale assenza di ciò che l’aveva sempre resa la più sensibile ed empatica del gruppo. Lui parve capire, e le mimò un ‘no’ con le labbra. Anche Fabiano captò l’improvviso cambiamento in lei e fece per afferrarle il polso, ma Leona non glielo permise.
«Ma non è tutto». Morgana tirò su col naso e sollevò di scatto la testa verso di lei, bramosa di sapere dell’altro sulle ultime parole lasciatele in eredità dal padre.
«Proprio prima che il proiettile lo colpisse, ha chiesto il tuo perdono».
«Il mio perdono?» domandò titubante. I suoi occhi da cerbiatta si incresparono.
«Leona, ti scongiuro non farlo» la pregò suo fratello.
«E perché non dovrei? È giusto che conosca chi era veramente l’uomo che era tanto fiero di lei…Ma non preoccuparti, il mio segreto non andrà sprecato. Ehi, faccia di capra!» lo richiamò Leona ignorando le suppliche della cagnolina che le grattava la gamba. Il gargoyle drizzò le orecchie e produsse un ringhio cupo.
«Credo proprio che questo ti piacerà» disse facendogli segno di avvicinarsi, il braccio pronto ad essere infornato giù per la sua gola.
Il suo sorriso si fece terrificante «A quanto pare ce l’hai nel sangue».
«Di cosa stai parlando?».
«Sembra che le cose si stiano facendo interessanti» gongolò lo spettro strofinandosi le mani paffutelle.
Leona si prese tutto il tempo per incrociare lo sguardo della sua amica «Il tradimento».
«Smettila immediatamente» la rimproverò Gab. Leona fece finta di non sentirlo.
«Vorrei che mi guardassi negli occhi mentre ti dico ciò che sto per dirti, Morgana. Nemmeno la più acuminata delle tue frecce avrebbe potuto farmi così male. E sai meglio di me che trovo imperdonabile chi tradisce la mia fiducia, specialmente se si tratta di una persona che mi è molto vicina. Non avresti dovuto farlo». La sua minaccia risuonò grottesca e graffio le pareti rocciose.
«Tu sai quanto bene ti voglio, non puoi pensarlo sul serio…» le gridò la rossa.
«Io penso che li abbia uccisi tu. Tuo padre, mio zio…» disse con asprezza «soltanto perché non sei riuscita a mantenere la bocca chiusa».
 Fabiano la affiancò ansimando «Leona, stai esagerando!». Lei gli fece segno di tacere. Puntò i suoi occhi blu in quelli neri del mostro e disse «Romeo si scopava Sheila. Sì proprio il tuo virtuoso paparino» confermò annuendo in direzione di Morgana.
«No» pianse la protettrice «Non è vero!».
«Nega quanto vuoi, ma se non fosse la verità, non pensi che il tributo non avrebbe attivato la magia?» disse mentre la creatura veniva sfamata per la terza volta con quell’ultimo pettegolezzo. Ancora un’altra scossa di terremoto e l’ultimo pezzo di camminamento allacciò le due coste, erte l’una di fronte all’altra, galleggiando sopra quel lago di tenebre.
Morgana si accasciò devitalizzata sulle sue ginocchia, singhiozzando disperatamente, il volto inondato di lacrime. A Leona fece male sul serio il cuore. Vederla in quello stato le avvelenava il sangue, soprattutto sapendo che era proprio lei la causa del suo dolore. Ma Morgana l’aveva tradita, aveva infranto il giuramento. Non meritava la sua pietà? Giusto? Ormai non era più sicura di nulla e nemmeno poteva rimangiarsi quello che le aveva detto. Forse la regina aveva ragione, in lei si celava, assopita, l’oscurità o non sarebbe mai stata capace di ferire la sua migliore amica in quel modo. Non avrebbero mai saputo quanto subdola e a doppio fine fosse stata la sua mossa. Rivelando le scappatelle di Romeo, si era risparmiata l’enorme fatica di svelare il suo di segreto, cosa che la rendeva ancora più meschina. Il tempo scorreva e soltanto pochi passi la separavano da quella dannata porta. Le sue nocche sbiancarono alle stretta feroce dei pugni e si diresse verso la passerella distogliendo lo sguardo da quello spettacolo straziante.
Era lei il vero mostro.
«Leona, no! Non sei lucida!» le urlò dietro Morgana. Ma ormai aveva già imboccato il ponte sospeso nel nulla. Edna le abbaio per darle man forte.
«No! Soltanto uno alla volta!» li aveva messi in guardia lo spettro. Guardare giù le fece rivoltare le budella nello stomaco ma si costrinse ad avanzare. Le orecchie non cessavano di ronzarle ed ogni respiro le squarciava i polmoni a coltellate.
«E ricorda di guardare dentro te stessa! O il ciondolo della luna non si manifesterà mai!». Quello fu l’ultimo suggerimento che il fantasma si era degnato di darle, enigmatico come sempre. Leona non aveva tempo per i giochetti quando in ballo c’era il suo equilibrio precario e il rischio di essere risucchiata dentro quella fossa che prometteva di inghiottirla in un sol boccone.
Non guardare giù, non guardare giù, non guardare giù, si ripeté finché le labbra non le fecero male. Era quasi arrivata a metà del ponte quando sentii uno spiacevole rumore di pietre che si sgretolano. La metà del suo cuore le batté follemente nel petto e sgranò gli occhi alla vista delle crepe che si diramavano come ragnatele dai suoi scarponcini.
No, non poteva morire così. Non senza prima aver fatto pace con la sua migliore amica, con il pentimento più sincero a schiacciarle il cuore. Non senza aver detto a Fabiano quanto lo amava. Ma soprattutto non poteva permetterselo perché non era la sola ad essere sospesa in quel burrone, e l’altra metà furiosa dei suoi battiti gli sbatterono quella cruda realtà.
Gabriel.
La morte era una grande puttana. Nessuna scusa avrebbe potuto ritardare la sua decisione, non sentiva ragioni quando reclamava a sé l’anima che aveva prescelto, specialmente se stava per prendersene due al prezzo di una. L’ultima cosa che udì furono le sue urla prima che il sisma le sbriciolasse il ponte sotto i suoi piedi, come tutti i suoi sogni e le sue speranze.
Il buio eterno era già lì, pronto ad accoglierla. Il freddo cominciò a scorticarle la pelle e congelarle le ciglia. Le lacrime le si brinarono sul viso sotto forma di gocce di cristallo. Era piombata nell’oscurità senza fine.  Continuava a ripetersi che se lo era meritato, ma non il suo Gabriel, non lui. Perché?, si chiedeva, ma non cessava di cadere, sempre più giù, sempre più in profondità.
Faceva così freddo. Non si sentiva più le dita dei piedi. I suoi pensieri si facevano sempre più incoerenti mano a mano che scivolavano nell’oblio…
Ma poi un lampo di un intenso azzurro stracciò l’oscurità e sentii chiaramente qualcosa avvilupparsi attorno al polso. Un’esplosione calda e rassicurante che durò solo una frazione di secondo. E la luce la inghiottì.
L’attimo prima precipitava nella voragine, quello dopo rotolava su un prato umido avvinghiata ad un altro corpo. Quando finirono a sbattere contro la corteccia di un albero, Leona si ritrovò piegata in due a vomitare la sua stessa bile.
E Noah era lì con lei, a sorreggerle la fronte, come due amici chiusi in uno squallido gabinetto di un bar a smaltire il dopo sbornia. Si asciugò la saliva che le gocciolava sul mento e si mise a fissare i suoi occhi blu nascosti dalle ombre che gli gettava il cappuccio della felpa. Anche lui era madido di sudore e non pareva avere un’ottima cera.
«Dove mi trovo?». La sua voce non era altro che un insulso gracidio.
«È bene che tu non faccia domande. Non potrei comunque risponderti» terminò colto da uno spasmo.
«Ma che diamine…» cominciò a dire poco prima di mettersi a urlare.
Due enormi occhi castani la stavano spiando da troppo vicino. Un gigantesco lupo dal manto rossiccio, al garrese alto quasi quanto un cavallo, si era piegato sulle zampe guaendo a orecchie basse.
«Un licantropo!» gridò puntando il dito contro la creatura che la dominava dall’alto anche da sdraiato.
Non ti sfugge nulla, eh? latrò quella voce nella testa carica di sarcasmo.
«Jacob! Smettila, la stai spaventando!» lo rimproverò una ragazza.
Non una ragazza.
Una vampira.
Leona indietreggiò, inciampando nei suoi stessi piedi.
«Non voglio farti del male» le disse allungando una mano verso di lei. Era bianca come la neve. Non sembrava interessarsi granché alla moda. Jeans attillati a fasciarle le forme, un semplice maglioncino blu di cashmere e scarpe da ginnastica consumate. I lunghi capelli color del cioccolato le ondulavano oltre il petto, non particolarmente pronunciato, e dondolavano soffici in balia del vento. I lineamenti del viso erano dolci, le labbra leggermente asimmetriche, con il labbro inferiore un po’ più pieno rispetto all’arcata superiore. E le sorrideva,  un sorriso delizioso che si estese anche ai suoi occhi, di un caldo colore ambrato.
Nel complesso Leona trovò che la vampira fosse davvero…
«Bella!».
Aveva riconosciuto la voce di Edward ancora prima che si precipitasse a velocità supersonica alle sue spalle. «Che cosa sta succedendo? Che cosa significa tutto questo? Noah, che cosa hai fatto!» li colpì con la sua raffica di domande.
«Zio Ed, sta tranquillo. È solo uno squarcio spazio temporale di pochi minuti. Appena avrò le forze la riporterò indietro».
«Edward che cosa ci fai tu qui?» chiese Leona.
«Lei lo conosce?». Stavolta era stata Alice a parlare, appena comparsa nel vivo di quella riunione di creature sovrannaturali. Due ragazzine, di qualche anno più grandi di Leona, la seguivano a ruota. Una con i capelli ramati, simili a quelli di Edward, e due intelligenti occhi castani, l’altra con una lunga chioma bionda, occhi che brillavano alla luce del sole come smeraldi, travestita da vera teppista, cosparsa da una marea di orecchini che le bucavano lobi, naso e mento. La prima si era inginocchiata accanto alla vampira dai capelli castani, e adesso che poteva osservarle da vicino, la somiglianza fra le due era lampante. L’altra si tenne lontana da loro e sgranò i suoi occhi verdi su Leona, come se non potesse credere che fosse davvero lì in carne ed ossa.  Ebbe un tuffo al cuore. Con quelle sopracciglia chiare aggrottate, era come guardarsi allo specchio e ricevere un’immagine distorta di se stessi…
«Certo che lo conosco, non ti ricordi più Alice? Il bosco di Highgate ti dice nulla?».
Alice ed Edward si scambiarono uno dei loro sguardi complici, oro che si fonde su oro.
Quando la loro conversazione muta terminò, Alice prese a massaggiarsi le tempie come se fosse in preda a un lancinante mal di testa.
«Noah, a quanto pare hai combinato un altro dei tuoi casini» disse la vampira veggente.
«Be’, zietta, dipende dai punti di vista. Se non l’avessi afferrata, lei, sarebbe morta».

Angolo della lettrice: Vi prego di perdonarmi per questi lunghi tempi di attesa fra un capitolo e l'altro! Spero in compenso che vi piaccia. Ci avviciniamo sempre di più verso la fine (siamo all'incirca a -4!). Buona lettura e alla prossima ;) 

 

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Capitolo 52
*** Parentesi ***


Angolo dell'autrice: Ciao a tutti ed eccomi eccezionalmente tornata con questo piccolo capitoletto chiamato 'parentesi', proprio perchè è un intermezzo che esce un po' fuori dai binari della trama principale e che antecede il vero e proprio capitolo che uscirà sperooo presto (quello intitolato 'il ciondolo della luna', ovvero l'ultima stanza che porterà Leona a trovare finalmente questo benedetto ciondolo...il problema ovviamente sarà il come xD). Spero che sia di vostro gradimento, buona lettura :)

Parentesi
 Leona non aveva mai avuto la testa così intasata di domande. Non riusciva ancora a capire come potesse essere lì, come ci fosse arrivata e perché. Nessuno dei presenti aveva la minima intenzione di soddisfare le sue morbose curiosità, e le loro occhiate indagatrici le facevano desiderare di accartocciarsi su stessa fino a sparire, soprattutto quelle inquietanti del lupo.
Ho qualcosa in faccia?, le chiese inclinando la testa di lato. Perché continui a fissarmi? So perfettamente di essere molto attraente, ma non è buona educazione.
«Ok, qualcuno potrebbe spiegarmi che cosa ci fa un lupo vanitoso e psicolabile in mezzo a un gruppo di vampiri? Fate parte dell’associazione cinofila? Ho sempre creduto che foste nemici giurati…E non ti avvicinare più di così» lo avvertì parando le mani davanti al suo grande muso «Ho avuto un trauma da piccola, quindi gira alla larga da me».
Il lupo scoperchiò le gengive ringhiandole.
Paura dei lupi, tu? Mi sembra un po’ ipocrita da parta tua visto che…
«Jacob!» lo sgridò Edward teso come un pezzo di marmo «Non è la nostra Leona, viene da un’altra epoca, ha altri ricordi. Non mi pare che sia molto difficile da comprendere, persino per uno come te…».
«Papà! Non parlare in questo modo a Jake» ribatté la ragazzina dai lunghi capelli ramati alla destra di quella che si chiamava Bella, prima di ammiccare dolcemente in direzione del cane dal pelo rossiccio. Il lupo ricambiò quelle attenzioni venerandola con i suoi occhietti da…innamorato? A quel punto le erano venuti i brividi. Edward era il suo papà? Come poteva un vampiro fatto e finito essere suo padre? I vampiri di marmo non possono avere figli!, stabilì categoricamente per dare pace ai suoi pensieri confusi. Decise di lasciar perdere prima di uscire fuori di senno.
«Ma si può sapere chi sei?» sbottò Leona lanciando una occhiata perplessa alla vampiretta.
Probabilmente la ragazza più bella e incredibile che abbia mai solcato il pianeta.
Era stato il lupo a farle quel complimento, accompagnato dal grugnito irritato di Edward. L’attrito fra i due era palpabile. Lei e Edward sembravano gli unici a capirlo, ciò nonostante Leona si sentiva piuttosto perplessa.
 Cogliendo gli sguardi affilati che entrambi avevano rivolto all’esclamazione del licantropo la ragazzina s’incuriosì «Cosa ha detto?».
«Non importa» tagliò corto Edward. Bella gli piazzò una gomitata fra le costole a mo’ di rimprovero.
Allora la ragazzina arrossì occhieggiando timidamente verso il licantropo con la lingua che gli pendeva dalle zanne. Poi le sorrise e le porse una mano.
«È il suo modo di comunicare» spiegò Bella con una punta di orgoglio.
Leona fu conquistata dalla sua candida gentilezza e anche se tutto in lei le gridava di non farlo, che non era prudente stringere la mano di una sconosciuta, ricambiò il gesto. La sua mano era così morbida, vellutata, ma ciò che la sconcertò di più fu il calore che le si irradiò da quel contatto. Era decisamente troppo calda per essere una vampira come gli altri e poi…vide qualcosa. Vide se stessa, ma era molto più alta e i lineamenti erano più decisi e stringeva al petto un delizioso fagottino dagli occhi color cioccolato che le sorrideva mentre lei le rivolgeva delle boccacce canticchiando il suo nome. La sua manina le stritolava il dito con forza e se lo portava alla bocca come se fosse un ciuccio. Nel petto le si profuse un fiotto infinito di tenerezza. A quel punto la ragazza mollò la presa e quell’immagine svanì come era venuta.
«Cosa è stato? Come hai fatto?»
Lei scosse la testa col viso contrito dal pentimento «Mi dispiace non avrei dovuto…».
«Ti chiami Reneesme, giusto?». Così l’aveva chiamata la lei più grande nella visione.
«Veramente a te piaceva di più chiamarmi Nessie…»
«Come il mostro di Lockness?» chiese un po’ scettica.
Il lupo produsse un strano latrato che le ricordò una risata.
«Questo è davvero un tasto dolente…» disse Bella rivolgendo uno sguardo severo ad entrambi.
Alice incrociò le braccia al petto, le sopracciglia arcuate come un accento circonflesso «Ma sì certo, a questo punto perché non ci mettiamo tutti attorno al fuoco a raccontarle la storia della sua vita!».
«Sarebbe un gran bello spoiler…» commentò caustico Noah. Indossava un’altra delle sue magliette bizzarre sotto la solita felpa. All’altezza del petto aveva disegnato un tizio con un casco nero che impugnava una spada fosforescente di colore rosso. In basso a destra lampeggiava la scritta I’m your father.
«Ma zia Alice ha ragione. Potremmo incasinare la linea temporale più di quanto non lo sia già…».
«Che cosa intendi per linea temporale? Qualcuno ha intenzione di rendermi partecipe o no? La mia pazienza ha un limite…».
«Lo sappiamo» dissero tutti in coro.
«Niente sfreccia veloce come le tue ciabatte. Un vero cecchino» aggiunse Noah massaggiandosi il ricordo di un vecchio dolore fantasma dietro la nuca.
«Ti ho tirato una ciabatta?»
«Anche più di una» la informò la bionda ghignando soddisfatta.
«Non importa» disse reggendosi a malapena in piedi «ho bisogno di risposte. Dove mi trovo? Perché sono qui? Io stavo cadendo nel vuoto…» poggiò una mano sul cuore «Gabriel!» soffiò sollevata di sentire il vibrare dei battiti del suo cuore. Leona non poté fare a meno di notare come i presenti avessero storto la bocca a quel nome, soprattutto la biondina. Non ci capiva più nulla.
«E tu» disse rivolgendosi direttamente a Noah «Come fai a sapere il momento esatto in cui mi trovo in pericolo?».
Alice, aggraziata come una ballerina di danza classica, le porse una vecchia agenda consumata ai bordi «Grazie a questo».
Leona, quindi, lo aprì in tutta fretta facendosi sfrusciare le pagine fra le dita «Ma questa è la mia calligrafia…è un diario. Io non ho un diario». Impallidì.
Edward si avvicinò cacciandosi le mani in tasca. Si era portato dietro tutto il fascino della sua pelle diafana baciata dal grigiore del cielo plumbeo sopra di loro. Un cielo nuvoloso che prometteva un acquazzone. «Quello non proviene dal tuo flusso temporale. Appartiene a un’altra te». Leona fece scattare un sopracciglio all’insù.
«È complicato» si limitò a dirle come se quella risposta potesse soddisfarla.
«E tu prova a spiegarmelo. Farò un sforzo».
I suoi occhi dorati saettarono su Bella cercando il suo conforto. Lei gli si accosto fianco a fianco, intrecciando le sue dita con quelle di lui. Insieme erano bellissimi.
«I cavalieri della notte…hanno fra le loro fila un vampiro con un dono molto particolare in grado di assorbire, soltanto toccandolo, il potere di un suo simile. Qualche tempo fa Noah gli ha dato la caccia da solo» i pugni del ragazzo si strinsero a quel ricordo «e…».
«Gli è stata sottratta la sua abilità vampirica» concluse Bella. Edward annuì.
«Hanno sfruttato il controllo del tempo di Noah per tornare indietro fino alla tua infanzia e recuperare le reliquie dei medjai, reclamandoli come se fossero i loro legittimi proprietari».
Noah allora intervenne. «Cambiando quell’evento hanno incasinato di brutto la linea temporale, una sorta di lacerazione del tempo stesso, è come se si fosse scissa producendone una parallela in cui i nostri Alter ego se la spassano indisturbati. Pensala come se fosse un eco della nostra linea temporale, una proiezione molto più che instabile rispetto a quella principale, che è la nostra. Ed è da lì che proviene il diario. La te di quell’universo parallelo non sa ovviamente che quello che vive non è reale, che è solo un’ombra astratta di un altro flusso temporale, ma le appaiono in sogno gli eventi di questo mondo e non fa altro che annotarseli prima che svaniscano dalla sua memoria».
L’altra Leona crede di star scrivendo un libro fantasy, commentò Jacob nella sua testa.
«Per nostra fortuna ha deciso di tenere questo diario ed è così che riusciamo a collocarci nel momento esatto che antecede uno degli eventi lì descritti» arzigogolò Alice per dare man forte a suo nipote.
«Ogni volta che Noah riesce a salvarti dal destino scritto fra quelle pagine, la linea temporale cambia e così anche il contenuto del diario» disse Bella mostrandole fra le righe  un paragrafo sbiadito e illeggibile.
Da quando il mondo aveva cominciato a girare? «Ok, credo che Edward avesse ragione. È decisamente complicato…e folle!» disse lei portandosi i polpastrelli alle tempie.
«Quindi sei anche capace di muoverti da un mondo parallelo a un altro?» dedusse sbriciando discretamente nella direzione di Noah.
«No, per quello ha bisogno di me» squillò la bionda con la schiena premuta contro la corteccia di un albero. Noah le fece una linguaccia.
«Davina possiede il controllo dello spazio, tanto quanto Noah detiene quello del tempo» spiegò Nessie mordicchiandosi le labbra «Il suo potere le conferisce il dono di muoversi a piacimento fra le pieghe dello spazio e ciò vale anche per il passaggio fra i mondi paralleli». Avevano tutti dei doni straordinari. In confronto il suo potere elementale non le sembrò più così unico nel suo genere.
«Ma perché i cavalieri della notte sono così ossessionati dalle reliquie? Cosa se ne dovrebbero fare? Solo un medjai può attivare il loro…a meno che…ma no, è assurdo».
«Ti sorprenderesti di quanto non sia così assurdo come credi» la rimbeccò Edward scrutandola fra le cupe e folte sopracciglia.
«Ma è sbagliato...se loro fossero veramente dei medjai come me e Gabriel avrebbero violato la legge. Sono dei vampiri, secondo i precetti del mio popolo sarebbero stati condannati a morte per il loro sacrilegio» Leona fece finta di non notare l’occhiata imbarazzata che Bella rivolse a Alice e proseguì «Anche se ciò spiegherebbe perché se ne vadano in giro a uccidere altri medjai. Non possono coesistere più di una coppia di medjai per ogni epoca, il potere in loro non sopravvivrebbe».
«E infatti è così» confermò Alice «Il loro potere è mutato, non sono più in grado di manipolare i quattro elementi naturali. In compenso sono altrettanto pericolosi e non bisogna mai abbassare la guardia con loro».
«Continuo a non capire quale sia il loro scopo…» rifletté Leona.
Edward fece un verso indignato con la lingua «Nessuno lo sa. Hanno preso anche lo scudo di Bella e mi è diventato impossibile scrutare nei loro pensieri». Leona non aveva la più pallida idea a quale scudo stesse facendo riferimento.
 «E che ne è…sì insomma, della me del vostro presente?» chiese cautamente. Si pentì subito di aver posto quella domanda alla vista del corteo funebre che sfilò sulle loro facce. Persino il lupo si era infilato istintivamente la coda fra le gambe e aveva riabbassato le orecchie sulla testa con un guaito sofferto. Per non parlare dei profondi solchi fra le sopracciglia di Noah o il singhiozzo impercettibile della biondina che non smetteva di mordicchiarsi le labbra. Si sentì profondamente a disagio. Quegli sconosciuti soffrivano per lei, stavano facendo l’impossibile per aiutarla e lei non sapeva nulla sul loro conto, non condivideva con loro alcun ricordo che potesse suscitarle la ben che minima empatia.
Leona deglutì e provò a respirare, ma tutto quello che le andò giù per la gola le pareva avere la consistenza di un sasso «Sono…morta?».
Bella fu scossa da immaginari brividi di freddo che non avrebbero dovuto scalfire la sua pelle. La guardò con i suoi occhi dorati velati dall’angoscia e disse «Non lo sappiamo. Sei sparita più di tre mesi fa senza lasciare traccia. Nessun biglietto, né un messaggio o una telefonata…Non abbiamo idea di dove tu possa essere in questo momento».
«Ma c’è Gabriel no? Lui è ancora vivo? Noi siamo collegati e se lui è qui questo vuol dire che…».
«Adesso basta, direi che abbiamo parlato un po’ troppo» la interruppe Alice con fermezza.  Ancora una volta si ostinavano a non voler fare nessun cenno a Gabriel.
«Ho bisogno di cioccolata!» ci annunciò improvvisamente la bionda con gli stivali borchiati e il giubbotto di pelle nera per sviare il discorso. Con quell’uscita aveva ottenuto tutta l’attenzione di Leona e ne approfittò per guardarla meglio. Sotto il giubbino portava una canotta bianca con le spalline sottili e un paio di pantaloncini di jeans corti come non li aveva mai visti, tenuti stretti in vita da una catena d’argento che tintinnava ad ogni suo spostamento. Le gemme verdi che le brillavano di curiosità negli occhi erano incupite da un ombretto nero spalmato generosamente sulle palpebre, le labbra erano dipinte di un innaturale colore livido e i capelli…mio Dio, i suoi capelli. In testa aveva una guerra di riccioli. Erano così arruffati che era facile pensare che non avessero mai incontrato una spazzola. Tutto di lei dava come l’impressione che cercasse disperatamente, travestendosi in quel modo così trasandato, di nascondere la sua naturale bellezza.
Senza altri preamboli frugò dentro la sua tasca posteriore, tirò fuori quello che cercava e si cacciò un cioccolatino in bocca dimenticandosi del resto dell’universo. Doveva essere rimasta a osservarla a lungo perché la ragazza sbottò «Che c’è? Quando sono nervosa ho bisogno di buttare giù qualcosa, problemi?».
Leona trasalì. Era qualcosa che avrebbe detto lei…
Poi sbuffò facendo levitare il ciuffo biondo che le molleggiava indisturbato in faccia.
«Ne vuoi uno anche tu? So che lo vuoi…o almeno l’altra te non ci avrebbe pensato due volte».
La ragazza tentò di avanzare verso di lei ma Leona scattò indietro d’istinto finendo per scontrarsi contro il petto di Noah. Si aggrappò alle tasche delle sua felpa e lui le cinse le spalle. La guardò dall’alto della sua imponente stazza ghignando compiaciuto.
La bionda si bloccò a metà gesto e le offrì un sorriso sprezzante e risentito « Merda. È stato sempre lui il tuo preferito e questa ne è la prova».
«Non fartene una colpa, Davina» le disse lui «Ti rendo atto che non deve essere stato facile per te crescere alla mia ombra, cioè insomma guardami» esclamò come  se fosse una giustificazione «Ma infondo un po’ di bene ne vuole anche a te».
Il gestaccio con cui si esibì le fece accapponare la pelle «Ma sta zitto, coglione!».
Dio, le sembrava di guardare lei e Gabriel litigare da un altro punto di vista…
Noah finse di essere turbato dalla sua scurrilità «Ehi sorellina! Ma ci baci la mamma con quella bocca?». Lui e Jacob risero della sua battuta.
Punta da quella provocazione Davina partì alla carica pronta a incornarlo, ma provvidenzialmente Bella e Nessie si pararono davanti a lei sbarrandole la strada.
«Tesoro, Davina, guardami, lascialo perdere» cominciò a dire la vampira trattenendola per le spalle «Conosci tuo fratello, cerca di mantenere la calma. Siamo tutti un po’ nervosi ma non serve a nulla azzuffarci fra di noi. Peggioreremo solo le cose. Qualcuno dovrebbe andare da Carlisle ed Esme a dirgli che è andato tutto bene e che Leona è sana e salv…».
«Come puoi scherzare sulla mamma?» strillò lei trattenendo a stento le lacrime.
«Vin» la chiamò Reneesme, con quello che le sembrò il suo nomignolo, prendendola per mano «Mia madre ha ragione perché non andiamo insieme dai nonni? Saranno preoccupatissimi, nonna Esme sarà fuori di sé per l’ansia e sai che poi non la ferma più nessuno. Adesso chiamo zia Rose e mi faccio dire dove sono d’accordo?».
Davina tirò su col naso, schiodò gli occhi da suo fratello di malavoglia per poi posarsi su Nessie, annuendo con aria assente. Strinse le dita attorno alla sua mano a sua volta. Nessie le abbozzò un sorriso sghembo simile a quello di Edward e le accarezzò la guancia.
«Jake accompagnale e fa che non le succeda nulla» si raccomandò Bella. Il lupo ululò in segno di assenso. Jacob trotterellò fino a loro e si lasciò fare i grattini dietro l’orecchio da Nessie. Poi voltò il muso in direzione di Leona.
Be’ vorrei dirti che stato un piacere rivederti ma…che diamine è successo alle tue mani? La voce dei pensieri di Jacob si era fatta piuttosto allarmata. Leona abbassò lo sguardo su di sé e provò a sgranchirsi le dita ma aveva perso tutta la sensibilità. Avvertì i cristalli di ghiaccio brinarle la pelle, il respiro risultò più come un rantolo doloroso e il sangue le affluì furioso nelle orecchie.
Urlò.
«Cosa sta succedendo, dove sono finite le mie mani?» strillò in preda al panico sollevando a mezzaria i due moncherini fatti da nient’altro che fumo. Edward s’impietrì alla vista di quello spettacolo.
«Sto scomparendo, sto scomparendo!» disse mentre l’invisibilità continuava a divorarle la carne lungo le braccia.
«Zia Bella, usa il tuo scudo presto! Prima che di lei non rimanga più nulla! È il tempo che la reclama, ha capito che è una estranea! Se la inglobi dentro lo scudo potremmo ingannarlo per un po’» le suggerì Noah con la voce rotta dalla preoccupazione.
Leona non capiva. Sapeva solo che stava per diventare incorporea come lo era il fantasma in sovrappeso del tempio dei segreti. Il diario scivolò dalle mani di Bella e si gettò su di lei ad una velocità sconcertante per un umano. Sebbene la sua pelle fosse impenetrabile come marmo tremava e strinse i denti contorcendo tutta l’espressione in volto. Le sue mani gelide le rinfrescavano l’incavo dei gomiti facendola trasalire. Per quello che parve durare un istante lunghissimo, le gambe smisero di sostenerla e Leona non aveva alcuna intenzione di guardare anche se si poteva intuire ugualmente che anche quelle si erano tramutate in stato gassoso. La trasmutazione era molto dolorosa, le incendiava le vene e le stirava i tendini al limite del possibile trasformandola nel nulla più assoluto, dispersa chissà dove nell’etere, allo strenuo di un piccolo granello di pulviscolo. Ma poi percepì qualcosa dalla dubbia tangibilità. Sommersa come da un velo invisibile, il dolore cessò improvvisamente. I suoi occhi per qualche ragione potevano vedere la fitta trama di cui era fatta quella bizzarra stoffa, i giochi di luce che si rifrangevano nella sua superficie inconsistente e inavvertibile ad occhio nudo che le sormontava a cupola sopra le loro teste, esattamente come una campana di vetro.
Uno scudo, intriso della personalità e della pelle di Bella, un’estensione di sé stessa.
Bella la aveva avvicinata a sé facendole scivolare le braccia sotto le ascelle per poter sorreggere il suo corpo ridotto alla stato di una bambola di pezza. Ciuffi di capelli profumati di lillà le sfioravano il viso mentre lei la adagiava su quello che era rimasto delle sue ginocchia cullandosela vicino al suo petto freddo che non emetteva più alcun suono. Eppure Leona non aveva mai visto una persona più viva di lei, che l’abbracciasse facendola sentire come se facesse parte della sua famiglia, aveva quasi dimenticato quella sensazione.
Lei l’aveva protetta con il suo dono, avrebbe potuto lasciare semplicemente che svanisse. Ancora una volta un vampiro non si era mostrato per ciò che era e aveva smontato le sue crudeli teorie su di loro una ad una. Dov’erano i suoi viscidi occhi cremisi assetati di sangue e intrisi di cinismo e collera? Dov’erano le sue zanne affilate pronta a penetrarle la carne e succhiarle via la vita, come se non contasse nulla? Cosa aveva fatto Leona per meritarsi la sua pietà e la preoccupazione nei suoi occhi?
Noah si rilassò visibilmente e si deterse il sudore della fronte con la manica della felpa «Ben fatto. Dammi ancora qualche secondo e saremo pronti per il salto temporale e riportarla indietro nella sua epoca. Ti prego, non mollare per alcuna ragione».
«Posso ancora reggere, ma c’è qualcosa che raschia contro il mio scudo. Sta tentando d’infrangerlo, non avevo mai visto nulla del genere» disse Bella.
In effetti in cima alla cupola invisibile c’era qualcosa che urtava contro la corazza facendo tremare la sua trama intessuta di invisibilità, delle onde d’urto soniche che si diffondevano fino alle fondamenta riverberando come un diapason. Funzionava esattamente come un elastico: si ripiegava all’interno per azione della forza applicatagli dall’esterno per poi ritornare allo stato originale, tremolando come un budino.
Edward fu subito da Bella, nemmeno finito di pronunciare la frase. Le teneva una mano lattea sulla spalla come se col tatto potesse infonderle la sua forza e la guardava con un ardore che fece vergognare Leona di trovarsi fra loro. Improvvisamente le braccia di Bella si erano fatte scomode, come se si fosse accoccolata contro una pietra ma non aveva di meglio in quel momento che assistere passivamente all’intimità fra i due.
«Leona, stai bene?» le sussurrò all’orecchio.
Lei le sorrise appena «Dici a parte il fatto che sono completamente sprovvista di arti? Ho avuto momenti peggiori». Invece Bella contrasse le labbra e aggrottò la fronte dove una piccola ruga di preoccupazione si andò a piazzare indisturbata fra le sue sopracciglia.
«Ti troveremo, te lo prometto». Dall’inclinazione della voce Leona intuì che non si riferiva a lei ma all’altra Leona del presente, quella che li aveva abbandonati senza una apparente spiegazione.
Edward annuì alla sua affermazione «E se non è troppo chiedertelo» aggiunse, «potresti tenerti fuori dai guai almeno per un po’? Da quando ti conosco non ho più trovato pace…».
«Ehi, se mi conoscessi bene, sapresti benissimo risponderti da solo…».
«Sei una totale catastrofe…» rise scuotendo la testa.
Alice inarcò un sopracciglio, spostò tutto il peso su una gamba e si tamburellò un dito sul mento in un chiaro gesto di riflessione «Già, ci risparmieremo un sacco di fatiche se la uccidessimo qui ed ora».
«Alice…» le sibilò contro Bella.
«Era per dire». Alice fece spallucce e rivolse una linguaccia a Leona.
Leona si sentì pervadere dal calore familiare, fra loro poteva quasi pronunciare la parola ‘casa’, ma un cantuccio della sua mente rigettò quella idea per quanto fosse folle. Lei era più razionale di così.
Nel frattempo Reneesme era salita in groppa a Jacob e tendeva una mano verso Davina invitandola a montare il lupo a sua volta, ma qualcosa sembrava cementarla lì come una statua.
«È il momento» gli annunciò Noah visibilmente provato dai suoi mostri interiori.
Fratello, sei sicuro di farcela? Il branco ha bisogno di te, uggiolò il licantropo.
«Dì a Sam e gli altri che fra non molto li raggiungerò, non appena la avrò portata sana e salva, anche se così si fa per dire, nel suo tempo».
La testa di Leona fece da pendola fra lui e Jacob «Il branco? Ma perché…».
«Tempo scaduto, dobbiamo andare» la zittì crudamente Noah penetrando lo scudo di Bella e prelevandola come una bambina dalle sue braccia. Lo shock termico la fece rabbrividire.
«Be’, allora addio…». Leona non sapeva bene cosa mai avrebbe potuto dirgli…
«Questo non è un addio. È solo un arrivederci…» la corresse Bella con la testa poggiata sulla spalla di Edward.
«Purtroppo» sbuffò lui, ma glielo leggeva negli occhi che non diceva sul serio.
«E ricorda quando attraverserai l’ultima porta di rimanere ancorata al presente. Non guardare né avanti né indietro. Conta solo il presente, sono stata chiara?» si volle assicurare Alice.
«Assolutamente no» ammise Leona in tutta sincerità. Alice gettò gli occhi al cielo ormai rassegnata dal suo fallito tentativo di metterla in guardia.
Sentì il petto di Noah tremare. Se la stava ridendo sotto i baffi.
«Sei pronta?» chiese a Bella «Al mio tre rilascia lo scudo».
«Uno, due…».
«Aspetta!». Era stata Davina a parlare. Con qualche lunga falcata si era diretta verso di loro, affannata come se stesse per perdere l’ultimo treno. Aveva gli occhi verdi velati di lacrime, ma i vampiri non potevano piangere, quindi…
Poi la abbracciò. Davina la stava stringendo così forte che poteva sentire le proprie ossa andare in frantumi. Si sorprese di quanto non le importasse. Strane consapevolezze le avevano invaso la testa da quando era lì e la più pazzoide di tutte stava prendendo forma proprio lì in quel momento, stringendo, come poteva meglio a sé, quella ragazzina bionda travestita da punk. Se qualcuno si era mai chiesto come sarebbe stato abbracciare l’universo, adesso lei credeva di conoscere quella sensazione. Era quello che si provava quando si tiene fra le braccia qualcuno che ami. E Leona amava quella teppista con tutto il suo cuore. Avrebbe ucciso a sangue freddo e senza rimpianti chiunque avesse provato a farle del male. Quella piccola detestabile immatura che non faceva mai quello che le diceva, identica per certi versi a suo padre…O non era lei ad amarla? Che stesse facendo confusione fra la lei del presente e quella del futuro?
Mentre veniva risucchiata da quel vortice di confusione, Davina le disse: «Io so che non sei davvero tu, ma…sento il bisogno di dirtelo lo stesso. Magari la mia voce giungerà lo stesso fino a lei, come se questo mondo non fosse più folle di così. Io…volevo dirti che mi manchi da morire, anche se non ho mai avuto il coraggio di farlo e mi dispiace per tutte le litigate» Leona fu attraversata da un lampo di conflitto, «per come ci siamo lasciate, per quello che ti ho detto…non lo pensavo sul serio. Torna subito da me, hai capito? Mangeremo tutta la cioccolata che vuoi ma ritorna da me…». Le ultime parole non furono altro che un sussurro sbiadito al vento, mentre quelle di Noah risuonarono chiare e forti nella sua testa «…e tre».
L’elastico dello scudo di Bella scricchiolò e quel mondo fu inghiottito da un lampo azzurro e luminoso.

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Capitolo 53
*** IL CIONDOLO DELLA LUNA ***


Capitolo 39 - Il ciondolo della luna

La scia turchese tempestata di pietre scintillanti serpeggiò contorcendosi in aria fino a che ciascuna particella non fece ritorno nel proprio universo quantico, dissolvendo per sempre il suo passaporto fra i mondi paralleli. Il viaggio non era stato turbolento come il precedente, non per questo però Leona si sentiva meno scombussolata. I ricordi le sfuggivano e andavano sbiadendo ogni volta che provava a riportarli alla sua memoria. La gioia che le scaturì dal poter di nuovo allungare le dita, sentire lo scricchiolio delle falangi, la commozione di poter ancora piantare i piedi per terra, la ripagò di qualsiasi contropartita che quella transizione tra presente e futuro avesse richiesto in cambio. Una volta terminati i capogiri, dischiuse le palpebre lentamente come se temesse di aver sbagliato destinazione, e quello che affiorò dalla sua vista appannata le fece mordere la lingua fra i denti. Il dolore non fu sufficiente a risvegliarla da quello strano sogno in cui credeva di vagare senza meta. Issò un braccio e agitò le dita come a voler emulare un timido saluto, portò un ginocchio al petto per poi respingerlo davanti a sé, la sua lingua, gonfia e arrossata dal morso, scivolò fuori dalle sue labbra e si esibì in una irrispettosa pernacchia, e le migliaia di Leona che la circondavano rifletterono ogni singolo movimento da diverse angolazioni.
Specchi.
C’erano specchi dovunque, senza cornice né smussature, sulle pareti, sul pavimento, sul soffitto. L’avevano chiusa dentro una scatola all’interno della quale era impossibile fuggire da sé stessi. Ciascuna delle sue sosia prigioniere dei riflessi, al di là della spessa lastra di vetro, sembrava aver fatto a botte con una schermaglia di scimmie urlatrici per la conquista di un casco di banane. Avevano tutte un aspetto orrendo e malaticcio, provate duramente quanto lei dal paese dove tutto ancora può accadere. Tentò in vano di ravvivare le ciocche che le ricadevano smorte sul viso paurosamente pallido. Un po’ del suo vomito le macchiava il colletto della maglietta, manco fosse stata una lattante. A quella vista disgustosa storse il naso. E quelle atroci borse sotto gli occhi, da quanto tempo non si concedeva un po’ di riposo? Si trafisse un labbro con gli incisivi facendo sbocciare un po’ di rosso, per colorare quel cadavere che la fissava di rimando. Gettò la testa all’indietro e rise pianissimo. Non era mai riuscita a guardarsi allo specchio per più del tempo necessario per paura di incontrare i suoi stessi occhi e trovarsi faccia a faccia con il peso dei suoi pensieri e per timore di vedere riaffiorare in essi la polla oscura dentro cui era precipitata molti anni fa, restituendole una persona che non riusciva più a riconoscere, nonostante le assomigliasse così tanto.
«Guardare dentro sé stessi, eh?» chiese a nessuna delle sue gemelle in particolare «Questa sì che è una bella fregatura, dannato fantasma del cazzo». Ormai non aveva senso fingere qualcosa che non era, per questo aveva deciso che qualche parolaccia in più non avrebbe sicuramente potuto scatenare una apocalisse peggiore di quella. Per lo meno era certa di trovarsi nel posto giusto. Il ciondolo che portava al collo vibrava di potere e le arrossava il mento coi suoi raggi caldi, proteso come se avvertisse che il fratello fosse vicino. Il ciondolo blu della Luna lo stava chiamando.
«Rimani ancorata al presente» le aveva avvertita qualcuno, ma non riusciva in alcun modo a ricordare chi e perché le avesse detto quelle cose. In ogni caso, se quello era il suo presente, pensò sbirciando un istante il suo riflesso, non è che la facesse impazzire di felicità. Decisa a non incrociare più il suo stesso sguardo, per quanto fosse impossibile, avanzò fra gli specchi ignorando i riflessi che la pedinavano in tutto ciò che faceva. Non c’era altro a cui potesse pensare se non a sé stessa e ciò la irritava oltre modo.
Il sole rosso che le grattava le clavicole non stava un attimo fermo, sobbalzava per un non nulla, irrequieto e recalcitrante quando imboccava la via giusta, e tornava ad essere un inerte e freddo gioiello buono soltanto ad ornare colli femminili quando si trattava del vicolo di specchi sbagliato. Fino a quel momento niente aveva inquinato la monotonia dello stridio dei suoi passi che pattinavano sul vetro e quando quel ritmo si tramutò negli strilli capricciosi di una bambina, il corridoio si affollò delle immagini riflesse di una Leona contrariata e dubbiosa. Da dove proveniva quel pianto a lei così familiare quasi come se glielo avessero strappato dalla gola? In effetti non c’era nessun altro che lei lì dentro, persino la marmocchia al di là dello specchio coi lucciconi agli occhi e una piccola finestra aperta fra i denti, lì dove avrebbe dovuto esserci l’incisivo, le somigliava. La piccola Leona col ginocchio sbucciato e sporco di pietruzze non voleva sapere di smettere di frignare, sguainando come una sirena. Non era tanto la sofferenza che le procurava l’escoriazione, ma la consapevolezza che le avrebbe lasciato una cicatrice, il segno dell’umiliazione, una di quelle che le avrebbe sempre ricordato quanto fosse stata maldestra e incauta a montare la bici senza le rotelle lontano dalle attenzioni dei suoi genitori o di Camilla. Ma lei non era sola, con lei c’era Gabriel, il suo fratellino con i polmoni gonfi pronto a soffiare sul taglio per ripulirlo dai detriti della strada. Accortosi che il suo soffio non le procurava alcun sollievo ma che anzi continuava a piangere a tutto spiano come la fontana che c’era in piazza, raccolse una pietra dall’acciottolato e stringendo i denti si aprì uno squarcio sanguinolento appena sotto la rotula cercando di disegnare una ferita identica a quella della sorella.
La gemella tirò su col naso e lo guardò con i suoi occhietti gonfi e arrossati. Non piangeva più.
«Ecco così avremo due cicatrici uguali» gli sorrise ancora più sdentato di lei, ignorando il dolore della ferita. Leona ebbe appena il tempo di lasciare l’impronta della sua mano sul vetro che quel sorriso sincero era già svanito, ritrovandosi nuovamente faccia a faccia con se stessa. Si concentrò sul gelo delle sue spade che le sfioravano la schiena e proseguì.
Poi delle risate.
Guidata da quella cantilena fanciullesca e spensierata girò l’angolo insieme al suo riflesso in cerca dello specchio che faceva al caso suo e trattenne il respiro. Riconobbe il dormitorio comune femminile del campo Betelgeuse. Due ragazzine,  lei e una con le lunghe trecce rosse e uno spruzzo di lentiggini attorno al naso, saltavano e affondavano i piedi nudi nel materasso riverso in un groviglio di lenzuola e piume bianche, sbattendosi senza alcuna pietà cuscinate in faccia.  Era così bello il suono del coro delle loro risate insieme. Quando la battaglia terminò lasciando nient’altro che due cadute di guerra sommerse da un mare di piume, Morgana allungò una mano verso di lei aspettandosi di essere ricambiata. Le due protettrici intrecciarono le dita e in un sussurro, dolce  e fresco come la brezza mattutina, la rossa le chiese: «Saremo amiche per sempre? Me lo giuri Leona?».
Il ricordo venne inghiottito dallo specchio prima che Leona potesse ascoltare la sua risposta. Ebbe una fitta intercostale che la fece annaspare di dispiacere. Come aveva potuto ferirla così?
Corse via alla ricerca di un altro ricordo in cui affogare la sua vergogna, disprezzando ancor di più le sue duplicanti con i loro lunghi capelli fatti di oscurità che si affannavano insieme a lei nel corridoio parallelo oltre la superficie riflettente. E corse così per un po’ anche se il petto le bruciava ardentemente ad ogni boccata d’aria, anche se la lingua le era rimasta incollata al palato per l’arsura e le gambe assalite dal formicolio obbedivano controvoglia ai suoi ordini. Non sapeva quanta strada si fosse lasciata alla spalle, né per quanto tempo si fosse persa in mezzo a quel labirinto di specchi. Persino boccheggiante, grondante sudore dalle tempie, piegata sulle ginocchia aveva incontrato i suoi occhi blu, esausti, che la osservavano al rovescio dal pavimento lustro e così lucido da rendere ancora più nitido il suo riflesso come se non ne fosse già nauseata abbastanza. Un urlo di frustrazione le graffiò le corde vocali e colpì forte la sua immagine furiosa alla sua destra. Il pugno sbriciolò lo specchio attorno alle sue nocche sanguinanti e una pioggia di vetri rotti tintinnò ai suoi piedi. Sotto di esso vi era ancora un altro specchio. Leona non aveva più fiato in corpo per esibirsi in un altro dei suoi gridi strazianti. S’infilò le dita fra i capelli aggrappandosi fino alla radice e si accasciò sul cumulo di vetri rotti che scricchiolavano sotto i suoi scarponcini.
«Bastardo, tirami fuori di qui! Non vedi che non ho alcuna voglia di guardare dentro me stessa? Non posso farcela, non sono destinata a impossessarmi del ciondolo, non ne sono degna. Forse non esiste nemmeno. Forse non sono nient’altro che una patetica cacciatrice di miti» piagnucolò appoggiando la nuca alla parete dietro di lei.
Sollevò gli occhi stanchi e carichi come una nuvola densa di pioggia da quel cumulo di vetreria frantumata e invece d’incontrare la patetica versione di sé stessa divorata dalla sconfitta di quella prova, trovò qualcos’altro.
La protagonista delle storie di quegli specchi era sempre lei ma sta volta Leona si trastullava beata fra i suoi amati e polverosi scaffali della biblioteca del castello. Non si era resa conto fino a quel momento di quanto le fossero mancati i giochi di colori proiettati dal mosaico di vetri colorati del soffitto sul pavimento, l’odore della carta, il mezzo busto del vecchio Nenè, uno dei più temibili cacciatori di vampiri della storia, che ti teneva d’occhio con il suo cipiglio inespressivo dalla sua nicchia marmorea, o quell’assurdo silenzio che ti faceva quasi credere di riuscire a sentire la danza dei granelli di polvere che aleggiavano in mezzo al pulviscolo. Accarezzava il dorso delle copertine scorrendo le dita fra gli scaffali stracolmi di libri allineati come soldati perché le piaceva la sensazione che quella ruvidezza le suscitava. I suoi polpastrelli indugiarono su uno di essi, conosceva a memoria tutti i difetti della rilegatura, il giallume delle sue pagine e persino il suo odore di vecchio e stantio, lo prelevò dalla sua fila e se lo trascinò sotto braccio per riprendere la lettura da dove l’aveva lasciata. Si sedette composta fra i suoi compagni, gomito a gomito fra Fabrizio e Norman tremendamente rispettosi di quel religioso silenzio, conscia della presenza di Fabiano acciambellato nel tavolo di fronte a lei, e aprì il tomo sulla caccia alle streghe, dove aveva lasciato il segnale, sbirciando verso di lui. Quando i loro sguardi s’incrociarono, un vago sorrisetto gli si incise sul viso, marcato ancor di più dalle fossette che si andavano scavando agli angoli della bocca, e indicò col dito verso il basso, come a volerla rimproverare di essersi distratta dal suo saggio ancora incompleto sul rogo di Salem del 1692. Leona fece roteare gli occhi, annoiata da quel inutile monito, come se quel piccolo contrattempo avrebbe potuto inficiare la qualità del suo compito, che sarebbe comunque stato il migliore della classe.
Ma quando i suoi occhi tornarono a posarsi sulla pagina le si formò un nodo in gola. In mezzo alla rilegatura provata da anni di svariate lacerazioni, si trovava una rosa blu coi petali venati di nero e accartocciati dal peso del libro che lo aveva ingurgitato fra le sue pagine. Leona non ci pensò due volte a restituirle la beltà di cui era stata privata, prese lo stelo fra le dita e si inebriò del suo profumo. Sotto la rosa c’era anche un bigliettino ripiegato più volte su se stesso. Con le mani che le tremavano lesse il su contenuto scritto anch’esso con un particolare inchiostro blu.
Mi ricordava il colore dei tuoi occhi e il profumo dei tuoi capelli.
Ha sofferto molto in attesa del tuo arrivo.
So che non è granché come dono e non voglio che mi ringrazi.
Mi farò bastare anche uno dei tuoi sorrisi, promesso.
Buon compleanno.
Il suo cuore prese a pomparle a tutto gas in mezzo a petto, le mancava il respiro, non sapeva esprimere a parole quello che provava. Allora alzò il mento verso di lui e gli offrì tutto quello che aveva: il suo sorriso.
Non era di certo un caso che lo specchio gli avesse mostrato le tre persone più importanti della sua vita, doveva per forza avere un senso. Che cosa voleva dire guardare dentro se stessi? Accettarsi per come si è fra le ombre e la luce? E come non poteva accettare se stessa dal momento che quei tre erano una parte di lei? Ciò che era lo doveva a loro. Se non era ancora uscita completamente fuori di senno, se non si era ancora trasformata in una tremenda macchina assassina, era soltanto perché loro erano rimasti al suo fianco. Conosceva davvero la persona prigioniera del suo riflesso, era davvero lei, era Leona? Chi era Leona? Sospettava che questa domanda non avrebbe mai avuto risposta. Non c’è peggior nemico di se stessi, diceva qualcuno. Ma era davvero così nociva per se stessa? Non poteva semplicemente essere diversa, tendere una mano verso il suo riflesso e amarsi così per com’era? Se gli altri riuscivano a trovare un motivo per volerle bene, perché per lei era così difficile? Lei avrebbe detto di sì solo alla Leona che amava incondizionatamente  suo fratello e i suoi amici, quella Leona non poteva essere malvagia. Ma per poter completare l’opera avrebbe dovuto tirare fuori dalle tenebre anche l’altra, quella Leona che restava rannicchiata in un angolo, nell’ombra gettata dai suoi demoni. Il viaggio per ritrovare se stessa era ancora lungo e tortuoso ma poteva cominciare dalle fondamenta, abbracciando il suo passato e il suo futuro, per imparare a vivere meglio nel presente.
Qual era il suo futuro? Cosa l’attendeva dietro l’angolo  spigoloso di specchi?
Ancora lei non sapeva quali conseguenze avrebbe pagato per quell’imprudente curiosità e come l’avrebbe tormentata le notti a seguire.
Si inoltrò ancora di più fra gli specchi, mossa da chissà quale spirito invisibile, in cerca di chissà che cosa.
Una voce melodiosa, soffice come bambagia, dolce come miele, scivolava lentamente riverberando sulla superfice dei vetri. Ancora la canzone di sua madre, quella che le cantava a lei e Gabriel prima di rimboccargli le coperte. Per qualche motivo però, sapeva che non si trattava di sua madre.
Una donna la canticchiava a bocca chiusa, accoccolata con una grazia scomposta su uno scranno dorato con le imbottiture di un velluto rosso cremisi. La testa e le lunghe e bellissime gambe nude penzolavano aldilà dei braccioli intarsiati d’oro. Una cascata vaporosa di capelli color inchiostro si riversava sul pavimento tassellato di mosaici fluendo in onde sparse come schiuma su una battigia. Il corsetto, di un bronzo sfavillante come anche gli alamari, era così stretto sul torace, dove le sbocciavano i seni, che pareva rubarle ogni respiro. La donna teneva la gonna arrotolata sulle ginocchia in una marasma confuso di pizzi e merletti neri su cui erano stati cuciti appositamente ghirigori floreali che riprendevano il bronzo del busto. La sua pelle candida come la luna, il profilo arcuato del suo naso, quelle labbra piene e carnose, accese di un rosso sanguinoso, le lunghe ciglia nere che sbattevano veloci come le ali di una farfalla, la linea delicata del suo collo, l’incavo fra le clavicole, facevano di lei una donna dalla bellezza ultraterrena. Con piccoli e impercettibili movimenti della gamba, attorno alla sua esile caviglia faceva ruotare, come un hula hoop, un diadema di puro argento tempestato delle pietre più preziose e scintillanti, talmente veloce che sembrava quasi che attorno al piede le orbitasse un cerchio argentato. Era sdraiata sulla schiena nel posto in cui avrebbe dovuto sedersi, regale come una regina. Invece le ricordava la personificazione della noia e dell’apatia. Alla sua destra e alla sua sinistra vi erano in tutto altri tre seggi vacanti, non ancora occupati da nessun re. In quella fastosa sala del trono sembrava esserci solo lei e la sua solitudine, che non pareva disturbarla più di tanto.
Non appena si accorse di lei, scattò  dal suo trono ad una velocità impensabile per un umano e si specchiò nel suo riflesso. Tutto ciò che sentì fu il fruscio dei veli della sua gonna. Il diadema roteava ancora in un moto perpetuo sul pavimento. Leona non riuscì più ad aprir bocca, il vetro si appannava ad ogni nuvola di fiato. Era lei, alta, snella, bella come non lo era mai stata, una bellezza quasi ingiusta, ma non c’era nulla di umano in quello che vedeva allo specchio. Non c’era niente di più terrificante dei suoi occhi rossi.
«No» alitò afflitta quasi senza pensarci.
La Leona-vampira le mostrò una schiera di denti di un bianco accecante.
Poi una porta cigolò alle sue spalle riversando nella sala un cono di luce frastagliato. Penetrò un’ombra, come un silenzioso ladro che sgattaiola furtivo nella notte. Accanto alla giovane donna comparve un altro vampiro dalle pelle diafana, quasi traslucida, come se fosse fatta di ceramica e che ad un solo tocco leggero potesse sgretolarsi. I suoi occhi erano velati da una patina opalescente che diluiva ancor di più il profondo rosso delle iridi. I suoi capelli, lunghi e dritti fino alle spalle, si confondevano quasi col candore della sua pelle lattea, lucidi e ordinati come se fossero appena stati pettinati.  I suoi abiti erano austeri e di un'altra epoca, drappeggiati di nero e rosso. Le depositò un lungo bacio casto a fior di labbra che sembrò durare in eterno. Lui era il suo pallido re, lei la sua bella regina. Senza smettere di scrutarsi negli occhi, il vampiro le avvicinò cautamente il polso alle sue labbra. Leona glielo strinse fra le sue dita pallide e affusolate, come se gli avesse offerto un coppa di vino della migliore annata.
Leona non capiva affatto ciò che vedeva.
Né perché l’altra Leona-vampiro avesse affondato i denti nella carne morta del vampiro risucchiandone avidamente qualsiasi fluido corporeo gli fosse rimasto nelle vene, né perché lei stesse ancora lì impalata ad assistere a quella scena scabrosa.
Chiuse gli occhi e si indirizzò lontano da quell’orrendo futuro che incombeva su di lei, augurandosi in cuor suo che nessun destino fosse già indelebilmente scritto nella pietra. Chi era quel vampiro che le stava accanto? Come aveva potuto cedere alle sue lusinghe? Ma non erano affatto queste le domande che non cessavano di picchiare contro la sua corteccia cerebrale, o almeno non le più importanti.
Perché in quel futuro lei era…lei era, non riusciva a dargli compimento, come se pronunciando la frase per intero quello che aveva visto potesse magicamente trasformarsi in realtà.
Gli specchi continuavano a non darle tregua, né a offrirle alcuna via d’uscita. Fino a quando non s’imbatté nell’ennesima finestra sul suo passato.
Eccola.
Quel ricordo la stava aspettando, come un lupo stremato da lunghi giorni di digiuno con la bava schiumante alla bocca, certo che nessuna preda potesse sfuggirgli poiché guidato dal solo istinto della fame.
La lei bambina canticchiava assorta nel suo giardino mentre si prendeva cura delle rose che aveva fatto crescere con tanta premura. I lunghi capelli neri gettati di lato su una spalla, il sole, talmente caldo e rovente che le bruciava la schiena anche attraverso la stoffa del vestito. L’ultimo ricordo felice della sua infanzia, prima che tutto il suo mondo cambiasse. Prima che lei cambiasse.
Casa sua era ancora lì, la porta laccata di verde smeraldo che dava sul retro cigolava insistentemente sul suo asse mostrandole dalle fessura semichiusa uno scorcio dell’arredamento all’interno.
Il vento soffiò forte e con esso s’innalzò il dolce profumo intenso del suo roseto. Leona se lo godette gelosamente in silenzio dentro le sue narici. Prima di allora nessun ricordo al di là del vetro aveva interagito con la lei del presente così vividamente.
Si accigliò pensierosa per un breve istante e trattenne il respiro. E se avesse potuto…
Non terminò il pensiero che già le sue dita si facevano sempre più vicine alla superficie vitrea di quel quadro bucolico. Sfiorò lo specchio e quello s’increspò come se il dito fosse sprofondato in una pozza d’acqua, l’immagine tremolò dall’epicentro da cui si erano originate le onde concentriche.
Continuò a immergersi fino al polso e cadde dentro il suo ricordo come se qualcuno l’avesse spinta da dietro. Dimenò le braccia per aria alla ricerca di un appiglio e finì con il fondoschiena spiaccicato su una moquette color sabbia a lei così familiare. Per un attimo lo stantuffo che le pulsava fra le costole rallentò pericolosamente fino a quasi fermarsi. Il vuoto e subito dopo riprese a pieno ritmo, acquisendo sempre più velocità.
Casa.
Si lasciò divorare da una nostalgia, crudele e impietosa, che non le lesinava alcun dolore. Le tremavano le labbra, i dotti lacrimali si riempirono straripanti fino all’orlo e le si serrò la gola in un nodo ben stretto che le concedeva a stento di respirare.
Casa.
La sua vecchia vita. Quella che, se pur imperfetta, le riservava sempre un angolo di paradiso fra le braccia dei suoi cari, colma dell’amore dei suoi genitori e suo di fratello.
E poi la rabbia, così ardente che non riusciva tenere a bada il suo fuoco interiore. La cruda consapevolezza che tutto stava per finire. Ancora una volta, qualcuno era lì in agguato a strappargli via tutto quello che aveva. Ma sta volta lei era pronta. Li stava aspettando.
Sta volta doveva lasciare che il ricordo straripasse dagli argini che gli aveva imposto, che prendesse forma e che la pellicola della sua vita scorresse fino alla fine dentro il proiettore.
La lingua metallica di una chiave si era intrufolata dentro la serratura della porta del soggiorno facendola scoccare sonoramente. Leona sobbalzò e strinse le labbra per imprigionare il suo stesso fiato nel palato. Non ricordava che fosse stata chiusa. La chiave piroettò su se stessa e prima che la mano al di là dell’uscio facesse leva sulla maniglia dal pomo dorato la cacciatrice impugnava già le else delle sue due spade gelate.
La porta si spalancò, Leona strinse i denti accucciandosi pronta a scattare come una molla. Poi le kopis le scivolarono dalle mani ghiacciando con il loro gelo eterno la moquette.
A quel punto il suo viso era già inondato di lacrime.
L’uomo alto quasi quanto il cornicione della porta srotolò la sua chilometrica colonna vertebrale e fece un passo esitante dentro il soggiorno.
«Papà» rantolò incespicando come se non ricordasse bene come pronunciare quel nome che le riempì il cuore.
Un meraviglioso, caldo sorriso gli sbocciò sulle labbra contagiando anche le grinze agli angoli dei suoi occhi blu. Gli corse incontro gettandogli le braccia al collo come quando era bambina. Non importava se le sua barba ispida le pungesse le guance, o se niente di tutto quello fosse reale. Poteva finalmente sfogarsi sulla spalla di suo padre. Le sue labbra premevano contro la sua tempia, poteva inalare il profumo di bergamotto, fresia e ciclamino direttamente dal suo collo facendone una scorpacciata che le sarebbe bastata per giorni, la sua voce scura e profonda la chiamava mia piccola coccinella e la faceva tremare di gioia. Le era stato permesso ancora una volta di nuotare negli oceani intrappolati dentro gli occhi del suo papà, copia fedele di quelli suoi e Gab e ridere insieme a lui, sentire la morbidezza delle sue ciocche dorate fra le dita.
Dio, quanto le era mancato tutto questo. L’acido le bruciò lungo la gola per quell’ingiusta privazione, per tutti quegli anni che le erano stati rubati al suo fianco.
Non avrebbe mai voluto separarsi ma non poteva trastullarsi fra le sue braccia all’infinito anche se era quello che desiderava di più al mondo.
La rimise giù, restituendola in punta di piedi alla moquette. Nonostante fosse cresciuta, suo padre continuava ad essere l’imperioso gigante che le concedeva qualsiasi capriccio le passasse per la testa. Come quella volta che avevano svaligiato insieme il negozio di caramelle e poi con Gab erano finiti inevitabilmente per trascorrere tutta la notte a gemere per il mal di denti.
Le sollevò il mento per scrutarla meglio e sospirò «Sei identica a tua madre». Abbozzò un altro sorriso.
«Papà…» ritentò provando ad abituarsi a quel suono che le si inceppava sulla lingua «tutto questo è…».
«Reale?» concluse lui aggrottando le folte e biondissime sopracciglia.
 Prima che potesse soddisfare la sua curiosità, allungò una mano verso la giubba nera di suo padre e la strinse fra le dita fino a farsi sbiancare le nocche «un regalo, stavo per dire. Il regalo più bello della mia vita».
Il suo papà si affrettò a tamponarle le lacrime «Già, un regalo. Ma non durerà a lungo mia non più tanto piccola coccinella. Guarda quanto sei cresciuta».
«Che cosa succede? Perché sono qui?».
«Perché bisogna che tu ricordi» li interruppe una voce nascosta all’ombra di suo padre.
Per poco non le cedettero le ginocchia. Leona si immobilizzò, incapace di aggiungere altro alla lista delle sue domande. Emozioni contrastanti la centrarono in pieno come un pungo seppellito nello stomaco.
Stupore. Gioia. Rimorso. Un profondo e buio senso di colpa…
Sua madre si fece avanti lentamente fino ad affiancare David, fino a che i suoi anfibi neri e lustri non si furono allineati con quelli del padre. Leona stava facendo di tutto per non incontrare il suo sguardo, sapeva che non era in grado di sostenerlo.
Stupore. Gioia. Rimorso…
«Guardami bambina mia» le ordinò la voce addolorata di sua madre. Quelle note strazianti le fecero più male di quanto pensasse potesse essere possibile. Una parte di lei avrebbe voluto abbracciarla come se fosse l’ultima cosa che facesse nella vita, l’altra, quella dilaniata dalla vergogna, quella che non credeva di meritare quel momento, la costringeva a serrare gli occhi altrove, lontani da lei e da quel rimprovero.
«Ti prego» la supplicò veementemente.
«Non dovrei essere qui» replicò semplicemente lei ancora priva di qualsiasi sorta di coraggio per sollevare il capo. I passi di sua madre risuonarono smorzati contro la moquette  «Invece è proprio questo il tuo posto» ribatté severa.
Finalmente i loro occhi si incontrarono, carbone contro cobalto profondo e rugiadoso.
Le parole sgorgarono incontrollate dalla sua bocca sopraffatta da un disperato bisogno represso da troppi anni di aridità dell’anima «Tu sapevi quanto ti amavo, quanto ancora ti amo. Come hai potuto chiedermi di…» le parole la soffocarono il respiro «Perché sono qui?» ripeté con molto più impeto di quello che aveva preventivato «Perché dovrei rimanere di nuovo a guardarvi morire? Non sono già stata punita a sufficienza per questo?».
«Oh mio amore. Mia coraggiosa coccinella» disse con le guance bagnate dalle lacrime «Se solo ci fosse stato un altro modo…». Le lambì una guancia dentro il palmo della mano e le accarezzò il viso fra i singhiozzi che la scuotevano da dentro. Suo padre giocò con l’estremità della treccia nera della sua mamma per concedergli quell’attimo di privacy.
«Tu sai che così deve essere. Il destino ha già subito troppe deviazioni, questo mondo è sull’orlo del collasso, non possiamo cambiare ancora gli eventi».
«Io non ci capisco più nulla» obiettò la cacciatrice tirando su col naso.
Il padre la guardò dall’alto con compassione «Questa è la tua prova. Dovrai accogliere il tuo passato come parte di te, rimanere ancorata al presente e non lasciarti sedurre dalla tentazione di poter evitare l’inevitabile».
«Ma voi morirete!» strepitò con foga, gli occhi appesantiti dalle lacrime.
Suo padre annuì serio gettando una fugace occhiata alla moglie «Noi lo sappiamo. Va bene così, coccinella».
Arianna non smise nemmeno un attimo di guardarla come se cercasse disperatamente di trasmettere tutto il suo amore dentro quel singolo sguardo «Smetti di tenere lontano da te questo dolore, questo odio che ti consuma da dentro, non è la vendetta ciò che vogliamo da te. È tempo che tu ricordi come sono andate davvero le cose. Accetta ciò che hai fatto nel tuo cuore, solo allora potrai proseguire nel tuo viaggio».
«Non voglio farlo senza di voi…non ce la faccio».
«Non è vero, e questo lo sai. Pensi che io debba biasimarti, che tu abbia bisogno del mio perdono, ma non c’è nulla di cui tu ti debba farti perdonare, nulla, nulla, hai capito?» la scosse prendendola per le spalle.
«Tu hai avuto il coraggio di fare quello che nessun altro al tuo posto avrebbe mai potuto compiere. E noi siamo così fieri di te, piccola mia».
Più si avvicinava quel momento più Leona era sull’orlo della disperazione. «Perché non Gabriel? Perché proprio a me è dovuta toccare questa terribile sorte?».
Lo sguardo blu di suo padre si fece distante milione di galassie da lì «Gabriel ha un'altra chiamata che a noi non è dato sapere, lui è un pezzo della scacchiera molto importante ma di cui non conosciamo le mosse. Lui non avrebbe capito e tu lo sai bene. Tu ancora non lo sai ma hai ritardato col tuo sacrificio la fine di tutto».
«Perché in lui non c’è oscurità, non è così? Mentre io…Nessun genitore dovrebbe chiedere qualcosa di così terribile al proprio figlio. Qualunque scopo abbia raggiunto, ho sacrificato troppo…».
«Oscurità?» domandò incredula sua madre «Tu sei la luce più pura e splendente di qualsiasi stella del firmamento, una luce calda e accogliente in cui tuo fratello ha trovato riparo e conforto. Senza di te non ce l’avrebbe mai fatta».
Poi continuò « tu hai sempre saputo di essere diversa. In nessun medjai l’Akasha si è manifestata così potente e fulgida, così come scorreva nella tua antenata Odetta».
«Ma Odetta non aveva poteri» obiettò la ragazza ricordando le leggende del suo popolo raccontate col sottofondo di un fuoco scoppiettante. La madre non le rispose.
«Non conosci i confini della tua essenza e al momento è bene che sia così».
Leona non poteva accettare ciecamente le parole della madre senza domandarsi se stesse davvero dicendo il vero, se tutto quello che stava accadendo fosse reale, se invece fosse semplicemente morta o rinchiusa dentro i suoi stessi sogni «Dimmi solo perché. Dammi solo un motivo per lasciare che le cose vadano come devono andare» le disse infine sebbene per nulla pronta a ricevere quella risposta che la tormentava da sempre.
Lei si limitò ad offrirle un bellissimo sorriso dietro cui si nascondeva la tristezza per l’imminente separazione «Quando ricorderai avrai la risposta. Preparati, la te di questo tempo non può incontrarti qui e ora senza innescare un effetto farfalla che si ripercuoterebbe nella linea temporale. E avrai un compito anche più difficile. Dovrai convincere te stessa a portare a termine ciò che deve essere fatto. E non ci riuscirai se non vedrà un volto familiare».
«Ma come farò? Hai appena detto che…» sua madre la interruppe poggiandole una mano sulle labbra.
«Cerca di ripescarlo nella tua memoria. Chi c’era quel giorno insieme a noi?» domandò sciogliendo il sigillo dalla sua bocca.
«Io non…». Leona si ricordò improvvisamente del peso che portava al collo. Quando lo strinse dentro il suo pugno, il ciondolo del sole le riscaldò dolcemente la pelle. Fu allora che capì.
«Camilla…» sussurrò in un borbottio sommesso. «Ma certo Camilla! La nostra balia» disse con più fermezza. Mentre invocava il suo nome, il suo corpo cominciò a brillare e bruciare come una supernova. Avvolta dal bagliore accecante profuso dal ciondolo, le ossa di Leona si allungarono tendendosi verso l’esterno, le sue cellule si scomposero e si ricomposero freneticamente quasi come se potesse avvertire il formicolio del loro moto che disegnava nuovi tratti genetici trafficando con il suo dna.
La luce sfocò rintanandosi nella sua fonte primaria e nella stanza calò il freddo. Sta volta per ironia della sorte non aveva alcun specchio in cui poter osservare il suo nuovo aspetto, ma non ce n’era alcun bisogno dato che abbassando lo sguardo su di sé aveva riconosciuto le mani ruvide, callose e piene di cicatrici della cacciatrice di licantropi che aveva vegliato su lei e Gab nei primi anni della loro vita.
«Il tempo sta per scadere, sono qui Arianna» l’avvisò il marito con voce dura e impenetrabile.
No, era troppo presto, non potevano andarsene via così. Arianna colta l’asprezza del suo volto le prese la testa fra le mani e le baciò la fronte mentre David le assemblò entrambe dentro il suo abbraccio. Tutti e tre accusarono l’assenza di Gabriel ma si godettero quel piccolo prezioso dono che gli era stato concesso.
Quando la tenerezza finì gli occhi neri di sua madre diventarono onice liquido, indistruttibile. Gli occhi di una donna consapevole di star sacrificando la sua vita. La separazione fu una lama crudele che gli si conficcò fra le costole ma era necessaria. Prima che i suoi genitori si chiudessero la porta alla spalle andando incontro alla loro morte, Leona gettò un’ultima occhiata verso di loro e pianse in silenzio le poche lacrime che le rimanevano, imprimendosi i loro profili nella mente, marchiati a fuoco per l’eternità.
«E adesso ricorda figlia mia».
Leona lasciò andare il ricordo e si andò a nascondere dietro il divano color crema in attesa degli ospiti che stavano per introdursi furtivamente. La sentì arrivare, non perché fosse stata in qualche modo rumorosa, ma perché il gelo dei cadaveri le fece drizzare il pelo delle braccia. Il fetore della morte la seguiva in ogni suo passo, lasciando la sua traccia buia, il suo potere privo di pulsazione, vuoto e truce. 
La vampira con i capelli d’argento.
Stavano già mettendo la casa a soqquadro, cercando in ogni angolo, affranto, dietro i mobili, sotto i tappeti, e Leona anche se corrosa dalla furia dovette restarsene in silenzio nel suo nascondiglio. La sua versione più giovane entrò nella stanza pietrificandosi sulla soglia alla vista del pesciolino che fluttuava senza vita nell’acquario. Di lì a poco il trambusto si fece più caotico, più violento e devastante. Erano cominciati i combattimenti. L’odore metallico del sangue dei suoi genitori le fece ronzare le orecchie. Sapeva che non avrebbe dovuto in alcun modo intervenire, ma quando la vide fuggire via dalla finestra del soggiorno non si poté trattenere. Scavalcò il divano con un salto e gettandosi su di lei la circondò per la vita scaraventandola contro la credenza. Il porcellanato gli piovve addosso scrosciando rumorosamente sul pavimento, ma  Leona presa per la gola la vampira continuò a sbatterle impetuosamente il cranio contro il mobile sperando di vederla sanguinare. I suoi capelli argentati si macchiarono di un liquido nerastro simile a inchiostro dall’odore acre. Resa cieca dalla furia ignorò le risate sguainate della sua avversaria e le puntò una kopis al petto. Ma lei continuava a ridere con i denti sporchi del suo sangue, nascondendosi dietro la sua maschera dorata e stringendo fra le dita il vecchio mr. Brown. Un rivolo di denso petrolio nauseante le colava agli angoli della bocca.
«Codarda combatti!» le urlò contro con la voce di Camilla.
«Sarei io la codarda?» disse sputacchiandole addosso «Non sono io quella che si è rannicchiata dietro un divano in attesa che qualcun altro facesse il lavoro sporco per me» terminò ridendo.
L’arma sibilò all’altezza della trachea della vampira tranciandole vestiti e pelle insieme. Altro sangue nero si riversò sul pavimento.
«Perché volete le reliquie, qual è il vostro scopo?» domando scandendo ogni sillaba. Spasmi di rabbia le facevano tremare l’impugnatura della spada. A quella domanda il sorriso della vampira si spense come se le avessero staccato la corrente elettrica.
«Non rivelerò proprio nulla a una profana come te, magari lo sussurrerò al tuo cadavere, chissà». Detto questo le sue dita le avvilupparono il braccio e strinsero forte la carne fino ad affondarle le unghie nerissime intrise di magia oscura. Il braccio, nel punto in cui era entrato in contatto con la sua pelle pallidissima, le stava andando in putrefazione, ogni fibra stava marcendo fino all’osso. Leona raccolse i pochi residui di mana che aveva accumulato, piegò l’altro braccio dietro la schiena verso la spada gemella.  
Il taglio fu netto, preciso, chirurgico.
Un fiotto di sangue nero le schizzò in faccia, ricoprendole occhi, naso e bocca. La vampiro urlò tremendamente piegando il gomito verso l’interno per osservare meglio l’amputazione. Leona aveva reso indietro la sua mano al mondo dei cadaveri. Entrambe la guardarono  sgretolarsi a poco a poco sulla moquette.
La vampira stava per sputarle fuori un’imprecazione, lesse la vendetta in mezzo allo scarlatto vivido dei suoi occhi, ma una forza invisibile spinse Leona contro la parete lasciandola senza fiato per l’impatto. La vista le si annebbiò. Il quel pasticcio di puntini neri che danzavano confusamente in orbita davanti ai suoi occhi, vide i contorni indistinti di una figura oscura macilenta avvolta da un mantello nero.
Era lui.
Il misterioso vampiro stoico accomodato nella poltrona nello studio di suo padre. Si mosse troppo veloce affinché Leona ne potesse cogliere la fuga. La finestra era spalancata, le tende ondeggiavano in balia del vento, e loro non c’erano più.
«Dannazione!» gridò sbattendo i pugni a terra.
«No mamma, ti prego…» piangeva una bambina nella stanza accanto.
Appoggiandosi a ridosso della parete, Leona raccolse le spade, si sollevò piano da terra con le ginocchia che le oscillavano e guadagnò l’uscita del soggiorno a fatica.
Un urlo di sovraumano dolore echeggiò in corridoio e la fece fremere di terrore per ciò che avrebbe trovato nello studio di suo padre. Le ci volle tutta la forza che aveva in corpo per riuscire a sbirciare oltre lo stipite della porta scorrevole dello studio. Ma lo fece, ignorando il suo cuore che andava in frantumi.
La scena era sempre quella dei suoi incubi e la faceva morire dentro una pugnalata alla volta.
Suo padre riverso in una pozza di sangue con gli occhi opachi che fissavano il vuoto, Symphony vicino al suo corpo esamine. Un dolore indicibile le raschiò il petto ormai vuoto e privo di qualsiasi vita.
Sua madre scossa dalle convulsioni, simile ad attacchi epilettici, anche lei sguazzante in un lago scarlatto. Le gambe non la sorressero più. Scansò la testa mozzata di Sam e strisciò come un verme fino al suo corpo agonizzante per piangere insieme alla piccola Leona la morte di sua madre. Per la seconda volta.
«Ti prego Camilla, fa qualcosa! La mamma sta soffrendo» singhiozzava lei. Aveva dimenticato che stava indossando ancora la pelle delle sua balia, perciò si sorprese quando l’altra Leona la chiamò così.
La madre, umida di sangue e sudore, farneticava delirante come una moribonda. Il dolore che le bruciava dall’interno sembrava così potente da non lasciarle scampo. Qualcosa non andava. Quando le afferrò il grembiule, imprimendole una macchia di sangue sulla stoffa, sua madre l’aveva strattonata verso di sé per poterle bisbigliare qualcosa «Guardami il braccio» esalò prima di ripiombare nelle sue sofferenze interiori.
Leona ascoltò quel delirio come se fosse il suo ultimo desiderio e le sue pupille si fecero strada giù oltre la piega del gomito dove la manica era zuppa di sangue. Con le mani robuste di Camilla le cinse il polso sistemandoselo in grembo e le arrotolò il tessuto attorno al braccio. Arrivata all’altezza del grumo di sangue che le si era incrostato sulla pelle, Leona si fermò e la testa le girò forte, sicura che non sarebbe mai scesa giù da quella giostra.
Lì c’era un morso. Due forellini equidistanti l’uno dall’altro si addentravano dentro la sua carne che ribolliva per il veleno. Inghiottì il groppone che le doleva in gola e disse «Ti stai trasformando». In risposta sua madre gridò ancora una volta inarcando la schiena contro il linoleum sanguinolento.
«Per favore…» la pregò stremata dalla fatica «Non voglio farti del male…ti ucciderò, io…».
Non sarò più me stessa, proseguì nella sua mente dando voce alle parole di sua madre. Leona le lasciò il braccio e si allontanò da lei. Sua madre si stava trasformando in una vampira, il veleno era già in circolo e stava adoperando le sue manipolazioni. Era troppo tardi. Stava per diventare ciò che lei cacciava, una non-morta che si nutriva di altra morte.  
«Diventerò un mostro, me lo ha predetto la madre di Hilde» le confessò risucchiando l’aria fra i denti per attutire il dolore.
«E ucciderò mia figlia…le darò la caccia»
«Che cosa stai dicendo mamma, non capisco!» strillò la piccola Leona strattonandole la giubba.
«Ora capisci perché va fatto…?» domandò a lei, ignorando la piccola «Tu devi vivere, questo mondo ha bisogno di te, non di me. Tu e Gabriel dovete fermarli…».
Non ebbe bisogno di specificare nulla, aveva capito a chi si stava riferendo, ma non perché, in quella sanguinosa staffetta, le avesse consegnato un testimone così terribile.
Ti voglio bene, mormorò fra le labbra rattrappite mentre si dirigeva verso suo padre. Lei sospirò, invasa da un improvviso sollievo che le diede un breve tregua da quell’inferno. Allargò le braccia proprio mentre la piccola Leona le ci si tuffava in mezzo.
Camilla-Leona sfiorò il dorso della mano di suo padre per dargli il suo ultimo saluto e gli chiuse le palpebre con dolcezza. Adesso sembrava che dormisse beatamente.
Lux omnia vincit, sussurrò alla sua anima, poi s’impadronì della spada. Sollevò Symphony ascoltando il suo canto metallico dirigendosi verso la piccola se, singhiozzante sul petto di sua madre. Doveva fare in fretta, prima che il veleno le raggiungesse il cuore.
«Leona» disse la voce di Camilla mentre le carezzava la testa. La piccola Leona con gli occhi gonfi di lacrime alzò la testa verso di lei e la fissò. Non lei. Symphony. Fece leva sulle ginocchia sollevandosi da terra e aggrottò le sopracciglia. Aveva le mani imbrattate di sangue.
Leona, travestita da Camilla, le porse l’arma e sebbene la piccola fosse confusa da quel gesto, si preparò a riceverla. Ma Camilla la guardò e ne ebbe pietà. Si bloccò a metà gesto e le disse «No, non questa volta».
Poi rivolse un ultimo sguardo a sua madre che annuì connivente, un barlume morente di fierezza nei suoi occhi neri.
«Grazie» le disse e chiuse gli occhi. Lo fece anche Leona impugnando l’elsa di Symphony con entrambe la mani. Con la lama rivolta verso il basso, sollevò l’arma sopra la testa «Addio mamma» e fece penetrare il freddo acciaio di Hijir dentro il cuore di sua madre.
Il suo corpo smise di tremare, o semplicemente di soffrire. L’espressione del viso si rasserenò, si raddolcì esalando l’ultimo respiro fra le labbra. Poi Leona si accorse di qualcosa che prima non aveva notato. Sua madre teneva stretto in pugno un oggetto. Dal suo pugno serrato, una luce di un profondo blu scuro cominciò a diffondersi nella stanza dandole come l’impressione di essere sommersa sott’acqua. Infine la stretta si rilassò e il pugno di sua madre, che aveva funto da scrigno, si aprì. Uno spicchio di luna blu legato a una catena d’argento giaceva sul palmo senza vita di Arianna.
A Leona manco l’aria, il cuore le si fermò in petto.
Era il ciondolo blu della leggenda.
Il ciondolo della luna di Frieda.

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Capitolo 54
*** IL NUOVO PROMETEO ***


Capitolo 40 – Il nuovo Prometeo

Dopo quei giochi di riflessi, Fabiano promise solennemente a se stesso di rompere tutti gli specchi di casa sua. Era decisamente la sala più infernale di tutte fra quelle presenti all’interno del tempio dei segreti, non vi era davvero nome più azzeccato. Ma non importava a quale prova dolorosa lo avesse sottoposto quella miriade di superfici invadenti, lui doveva raggiungerla, e sua sorella, la sua dolce sorella morta, gli aveva indicato la strada, non prima di avergli mostrato l’orribile cicatrice che i suoi aguzzini gli avevano scavato attorno al cuore, incidendogli brutalmente anche la pelle giù per lo sterno.
Gli era costato tutto quello che aveva non fare domande su quella ferita, ma sapeva che non c’era molto tempo. Non aveva alcuna intenzione di vedere di nuovo precipitare nelle tenebre la sua Leona, non avrebbe retto quella scena terrificante una seconda volta. Non era abbastanza forte.
Non capiva ancora quello strano dono che legava i gemelli l’uno all’altra così indissolubilmente, perciò non era sicuro di credere a Gabriel al cento per cento. Lui però gli aveva assicurato che, senza sapere effettivamente come, lei era sopravvissuta alla caduta, e molto probabilmente il suo salvataggio c’entrava  qualcosa con quel lampo azzurro che aveva squarciato il buio fittissimo della voragine.
Il suo cuore batte ancora, riesco a sentirla, gli aveva detto Gabriel, sollevato come se gli avessero levato un macigno dalle spalle, un sospiro profondo così simile a quello di Atlante, il titano che portava su di sé il peso del mondo intero.
Nel frastuono dei tonfi schizofrenici del suo cuore, spalancò le porte di vetro alla fine della spirale di specchi, radendo al suolo qualsiasi ricordo dei suoi riflessi che lo avevano perseguitato fino all’ultimo istante trascorso in quel labirinto psichedelico.
La prima cosa che notò fu la sensazione di gelo ustionante che calò sopra di lui non appena ebbe fatto il primo passo all’interno della stanza. Un odore pregnante, foriero di morte, si fece spazio dentro le sue narici, e grugnì per espellere quel miscuglio di gas nocivo. Fece uno sforzo per guardarsi attorno e riconobbe nonostante la devastazione e il decadimento, una replica della sala del trono di Delilah. Sul pavimento di pietra, uno sterminio di ossa umane di ogni genere, i resti di una battaglia che non era finita bene per nessuna delle due parti a giudicare dalla quantità di scheletri disseminati in ogni angolo dell’atrio. Si mosse furtivo rendendosi sordo allo scricchiolio di ossa rotte sotto le sue scarpe, anche se non voleva in alcun modo essere irrispettoso della morte. Gli dava i brividi. Non poté sfuggire allo sguardo assente del teschio di  un uomo con la mascella slogata che lo osservava attraverso le sue orbite vuote in cima al suo cumulo di femori e costole. Fabiano respirò a fondo e ringhiottì la bile, cercando di dirottare i suoi pensieri altrove. Ci riuscì senza molti problemi perché al centro del soppalco rialzato, raggiungibile soltanto attraverso una breve scalinata, c’era lei, in piedi, malferma sulle sue stesse gambe, con le mani entrambe occupate: una stretta in un pugno fermo risplendente di una fredda luce blu, con l’altra, invece, si accarezzava il fianco, lì dove la maglietta nera era zuppa di sangue. E Fabiano fece appello a qualsiasi divinità purché non fosse il suo sangue. Lo aveva sentito arrivare - come non avrebbe potuto in mezzo a quel concerto di ossa? - e lo intrappolò senza lasciargli scampo dentro il suo sguardo infallibilmente magnetico, se pur affogato da un fiume di lacrime. Come se quelle lacrime potessero lavare ogni traccia del suo dolore. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per strofinarglielo via dalle palpebre, distendere con le sue dita quelle rughe d’espressione che smascheravano la sua afflizione, baciargli senza sosta quelle labbra, riarse e screpolate dalle torture che si autoinfliggeva coi denti, per risucchiare via le sue sofferenze e lasciarle finalmente la pace che meritava. Le sue gambe si mossero prima del suo desiderio di raggiungerla, scavalcò i gradini con una sola falcata e l’afferrò per le spalle mentre le loro ombre giocavano a rincorrersi sul pavimento.
«Leona». Lei continuò a guardarlo con aria assente, forse non riusciva a vederlo sul serio. Allora lui ritentò con una domanda «Leona, che cosa tieni fra le mani?». Strizzò le palpebre per cacciar via gli ultimi residui di lacrime intrappolate fra le sue lunghe ciglia impastate dal pianto e abbassò gli occhi sul pugno che racchiudeva in sé la luce. Allentò lentamente la presa e una luna blu, impiccata ad una catenina d’argento, le scivolò dalle dita sporche di sangue ancora fresco.
Ce l’aveva fatta.
Come aveva potuto dubitare della sua forte, testarda, temeraria Leona? La vergogna gli colorò subito le guance per quella mancanza di fiducia nei suoi confronti, o forse era solo la sua vicinanza. Stavolta, senza alcuna esitazione, le prese il viso fra le mani e coi pollici le spostò i ciuffi umidicci e ribelli che le nascondevano quegli occhi così tremendamente belli anche con quelle lividure malsane che le macchiavano la pelle. Si costrinse a sostenere quello sguardo, non poteva lasciarla sola e correre via come un vigliacco dal suo dolore.
Era vero. Ce l’aveva fatta. Ma cosa aveva dato in cambio di quel bottino, cosa aveva dovuto sacrificare? Che cosa le era successo e perché non era con lei a sostenerla quando aveva più bisogno di lui? La mano di Fabiano scivolò dietro la nuca di Leona per avvicinarsi la sua testa al petto. Se la cullò come una bambina fra le braccia. Sapeva che non era sufficiente a tirarla fuori dai suoi incubi, ma era tutto quello che aveva in quel momento. Poggiò uno zigomo sulla sua testa, chiuse gli occhi e si concesse un lungo attimo da egoista. Finché Leona era fra le sue braccia, non gli importava nulla degli abomini che dilagavano per le strade a strappare preziose vite umane dalla terra, della barriera del campo di Betelgeuse che stava per crollare, delle imminenti battaglie in cui presto sarebbero stati coinvolti, o del fottuto mondo intero. Contava solo lei. Tutto ciò impallidiva al solo pensiero della sua morte. Ma nella sala degli specchi aveva vinto la guerra contro quel demone che gli aveva sguinzagliato suo padre, la sua Leona non era mai stata una maledizione per lui, come aveva anche solo potuto pensarlo?
«Come sta Morgana?» domandò lei, il suo fiato che gli riscaldava la stoffa della maglietta.
Fabiano sorrise. Era tipico di lei pensare prima alle persone che amava e poi, all’ultimo, se le rimaneva tempo, un po’ anche a sé stessa. Affondò le labbra nei suoi capelli, che nonostante fossero unti e lordi di fuliggine e cenere profumavo ancora di rose. Non indugiò più del dovuto sul perché avesse della cenere fra i capelli, forse non aveva molta voglia di conoscere la risposta o per lo meno non in quel momento.
«Ti sta aspettando, non vede l’ora di riabbracciarti» ci tenne a rassicurarla.
Leona soffocò un singhiozzo e si strinse ancora più forte a lui. Il suo cuore prese a balbettare rantolando come un motore inceppato. Il sangue gli affluì lì dove lei lo toccava, doveva fare ancora l’abitudine con quel tipo di contatto fisico dal momento che il suo cervello registrava sensazioni completamente diverse da prima, rispetto a quando ancora credeva di abbracciare la sua migliore amica. A quel punto ‘abbracciare l’amore unico e indiscusso della sua vita’ gli suonava decisamente meglio o forse era semplicemente più adatto e conforme ai suoi nuovi sentimenti.
«Dio, sarebbe bello rimanere così per sempre, ma dobbiamo andare». La voce gli uscì più roca di quanto avesse sperato.
«Sei pronta?» le chiese quando si fu allontanata da lui. Gli fece un semplice cenno col mento proprio quando lui si accorse di avere una macchia appiccicaticcia vicino all’orlo della maglietta. Raggelò all’istante.
«Leona ma tu sei ferita! Stai perdendo sangue!» squillò senza poterle celare il terrore che si era artigliato sulla sua gola.
«Non c’è tempo per le medicazioni» lo liquidò lei premendosi una mano sul fianco insanguinato «non è sicuro qui…». E nell’attimo esatto in cui finì di dirlo riverberò un coro di strilli spaventosi in tutta la sala. I due protettori si aggrapparono a vicenda, l’uno la colonna portante dell’altra, e sollevarono mal volentieri lo sguardo oltre il cornicione dell’abside sopra le loro teste. Fabiano non perse molto tempo a contarle, forse non aveva abbastanza dita per estrapolare una conta accurata di tutte le statue di gargoyle appollaiate lungo il camminamento sopraelevato. Le statue crepitarono, si frantumarono in piccole briciole, come un pulcino che buca col becco il guscio di un uovo. La pietra rivelò al suo interno una creatura di carne, il silenzio tombale che regnava nella sala si dileguò perdendosi fra le grida acute delle creature nascenti, che strepitavano, spiegavano le ali intorpidite dal lungo sonno, e affilavano le corna contro il soffitto e digrignavano i denti pregustandosi l’imminente pasto a base di protettori adolescenti.
Leona sollevò le mani sopra la testa in segno di resa «Ci dispiace! Ci dispiace! Non volevamo disturbarvi, dormivate come sassi…». I loro famelici occhi gialli, fessurati come quelli di un gatto, non apprezzarono per nulla l’umorismo inopportuno della ragazza. In  quegli occhi ferini Fabiano credette di scovare l’unico chiaro indizio del loro malcontento, l’unica spiegazione plausibile che aveva potuto disturbare il loro eterno sonnellino: stavano a guardia del ciondolo della luna e non avevano alcuna intenzione di lasciarli andare vivi di lì. Non ci voleva certo uno scienziato per trarre le somme di quell’ipotesi e comunque non la rendeva meno spaventosa. Improvvisamente le carcasse ossee ammucchiate sul pavimento dell’atrio acquistarono un significato tutto nuovo.
Doveva pensare velocemente e fare cieco affidamento sul suo istinto. E quello gli gridava una cosa soltanto: proteggila.
«Perdonami se puoi…» disse prima di trarla a sé e sottrarle il ciondolo della luna dalla sua presa. Con lo sbigottimento ancora in pieno atto, Leona sgranò gli occhi per l’orrore mentre veniva spinta giù dalle scale con una gomitata, tagliata fuori da quel combattimento.
«Che cosa fai stup…». Si raggomitolò su se stessa per la fitta bruciante della ferita al fianco. Prima che lei potesse rialzarsi e vanificare il suo disperato gesto di estrometterla, Fabiano aveva indossato la collana e invocato il potere della luna per tenerla lontana dalla loggia reale cinta da quel cerchio di demoni. Il ciondolo vibrò sul suo petto, freddissimo contro lo sterno, e irradiò lame di luce blu in diverse direzioni.
Prendendo forma dal suo desiderio, dal pavimento di pietra lavica e marmo emerse una barriera sottile ma scintillante e crebbe lentamente fino a baciare il soffitto. Leona ci si lanciò contro battendo i pugni fino a quasi spezzarsi le ossa delle mani. La barriera le era inaccessibile, era stata creata dai suoi pensieri proprio per tenerla fuori, lontana da quell’agguato.
Traditore, gli urlava, come hai potuto farmi questo. Fabiano si fece vicino alla ragazza furiosa e scalpicciante al di là della barriera, i capelli corvini che le aleggiavano sofficemente attorno. Forse il ciondolo pensava che quella trovata fosse divertente o esilarante, di certo non era stato lui a scegliere di che materiale dovesse essere fatta la muraglia, proprio come se avesse una coscienza propria. Era una barriera costituita da pannelli vitrei, riflettenti: specchi. Fabiano e probabilmente anche la protettrice ne erano nauseati, ma non lo diedero a vedere perché non scovarono loro stessi nel riflesso. Si specchiavano l’uno nell’immagine dell’altra, lui era lei e lei era lui, come se ciascuno specchio riflettesse la parte opposta della stanza. Sconvolti da quella miracolosa bizzarria si avvicinarono alla parete divisoria cadendo in ginocchio nello stesso momento, le loro mani sospese quasi come se si stessero toccando. Eppure Fabiano avrebbe giurato fino alla morte di esser riuscito a sentire il serico, caldo tocco del palmo della ragazza. Se il ciondolo aveva mostrato da un lato il suo crudele sadismo, dall’altro lo aveva accarezzato con la sua compassione: sarebbe morto beandosi nel volto di Leona. Teneva la spada lungo il fianco appena richiamata all’ordine dal suo comodo fodero, ma non riusciva ancora a convincersi che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta che la vedeva.
«Ho una richiesta da farti…».
«Non sei nella posizione di chiedere nulla» gli urlò frustrata. Lui la ignorò.
«Sopravvivi, fallo per me». Sperò che la sua preghiera non si fosse persa in quello svolazzio vorticante di ali e stridore di denti affilati.
«E allora spiegami come dovrei fare. Come potrei mai vivere in un mondo in cui…» scosse la testa frettolosamente.
«Ti prego non piangere, non voglio che le tue lacrime siano l’ultima cosa che…».
«E  allora non preoccupartene. Tanto appena avrai terminato d’interpretare la parte dell’eroe gradasso, sarò così incazzata con te che ti farò rimpiangere quegli stupidi gargoyle!» gorgogliò straripante d’ira. Gli strappò una risata e non avrebbe potuto mai ringraziarla a dovere per quel dono.
«Leona…»
«Ti amo. Mi hai sentito brutto idiota che non sei altro? Ti amo con ogni singola fottutissima cellula del mio corpo». I suoi polmoni smisero di funzionare, incapaci di procacciarsi altro ossigeno nell’atmosfera. Stava per morire e non ricordava di essere mai stato più felice di così in tutta la sua vita, né di aver mai pianto in quel modo, forse solo al funerale di sua sorella. Davvero. Non gli sarebbe dispiaciuto morire col suono della sua voce che gli diceva di amarlo. E allora perché non le rispondeva? Perché la gola improvvisamente si era fatta così secca? La sua fronte si scontrò contro la superficie del vetro. Dirle che anche lui l’amava non sarebbe bastato, sarebbe risuonato più come un addio e lui non voleva assolutamente, non poteva, non accettava di non poter più godere del suo sorriso.
Roventi ondate di aria torrida gli sferzarono il viso con una delicatezza disarmante, irradiandosi dai loro palmi congiunti apparentemente divisi da quella lamina sottile di vetro. Ma era come se non ci fosse più nulla fra di loro, era solo pelle contro pelle. Il calore di una stella in collasso s’infocò ancora più ardente fra le loro dita dove le loro anime si sfioravano e venivano cucite con ago e filo divenendo una cosa sola. Fabiano allora poté scavare oltre il significato di quel ti amo pronunciato come un grido d’addio disperato e riuscì a sentirlo. Letteralmente. Sentiva il suo amore avvolgerlo come una coperta e confortarlo dolcemente, lo comprendeva in ogni sua sfaccettatura perché così simile al suo, poteva quasi toccarlo e sentirlo come qualcosa di vivo che pulsava fra loro. Le loro anime stavano facendo ciò che ai loro corpi era impedito dalla barriera: si stavano abbracciando, amalgamandosi l’una all’estremità dell’altra.
Glielo aveva promesso. Un giorno avrebbe sentito il calore della sua anima.
Un calore che divampò famelico e lambì i contorni della sua mano. Un braciere acceso sul palmo della sua mano. I due ragazzi guardarono attoniti, scambiandosi sguardi confusi e sbalorditi, le lingue di fuoco che danzavano sulla pelle di Fabiano senza bruciarlo o ustionarlo.  Rivoltò la mano dalla parte del dorso e strinse forte le dita conficcandosele nella carne. Le fiamme morirono all’istante per poi ravvivarsi a suo piacimento.
Era un dominatore del fuoco, e ne erano consci entrambi per via di quella connessione, di quel ponte che si era creato fra le loro anime sotto il nome di Akasha. E lui, come un nuovo prometeo, aveva accettato il dono delle fiamme dalla sua dea, così amabilmente umana.
Disegnando la forma delle spire nella sua mente, il fuoco torreggiò sulla sua figura scoppiettando in vortici di scintille. Le creature alate si stavano già avventando su di lui quando li arse con la prima palla di fuoco. Il gargoyle rantolò per la scottatura e venne scaraventato contro la pietra. Dopo quell’attacco inaspettato, le creature si erano fatte più caute e lo circuivano volandogli attorno impaurite, lontano dalle lingue infuocate che piroettavano sinuose sulla sua mano. Il protettore afferrò saldamente la guardia della sua spada, si specchiò nel ferro della lama e facendo scorrere le dita infuocate come torce la rese incandescente. La più coraggiosa del gruppo si gettò all’attacco puntando decisa con gli artigli arcuati sulla sua schiena. I flussi di corrente prodotti dallo sventolio delle ali preannunciarono la direzione dell’attacco e diedero tutto il tempo al ragazzo di ripiegarsi all’indietro, piroettare su se stesso e tranciargli di netto l’arto con il piatto infuocato della spada, cauterizzando allo stesso tempo l’amputazione dell’ala. Il peso del gargoyle si sbilanciò da un lato e cadde di muso, strisciando sul pavimento.  Nei loro occhi si accese la rabbia per la sconfitta del fratello, e altre due creature si lanciarono in picchiata sul suo assassino. Quella più vicina emise un gracidio acuto quando il protettore scartò sul fianco, balenando ai lati del campo visivo della creatura iraconda. Parò un’artigliata tracciando un arco rovesciato con la spada e si aprì una feritoia sulla guardia della belva per potersi agganciare al corno d’avorio che gli sbucava dalla folta peluria sul capo. Con uno slancio aggraziato gli saltò in groppa e gli afferrò i ciuffi canuti a mo’ di redini, assumendo così il controllo della direzione di volo. Il mostro cercò di mordere il pilota indesiderato dietro di sé con le sue zanne affilate provando in tutti i modi possibili di scrollarselo di dosso, ma il ragazzo era un guizzo fulmineo impossibile da catturare e ad ogni boccone non gli restava che masticare aria e ardenti delusioni. Mentre era in volo, dentro a quel tornando di mostruosità, non perdeva occasione di sparargli addosso cannonate di fuoco o di infilzarli con il gelo della lama e il calore delle fiamme che lambivano l’arma. Aveva già tentato di chiedere l’ausilio del ciondolo contro quelle bestie, ma la luna che portava al collo sembrava ignorare inspiegabilmente la sua richiesta, forse perché generate dal potere stesso dell’amuleto. Ma infondo, si rassicurò sorridendo fra sé, non ne aveva alcun bisogno reale con il dominio del fuoco dalla sua parte, almeno fin quando sarebbe durata. Ascoltava i gridi del resto dello stormo di mostri, mugghiavano contro i geyser di fuoco che gli lanciava mentre planava sballottolato dalle folate turbinanti di vento del lavorio delle loro ali. Proprio mentre un altro nemico atterrava alle sue spalle, fece roteare sulla pancia il suo destriero volante, si appigliò con forza alla sua criniera bianca pregando che i bulbi della chioma della bestia reggessero, e attese il suono dello squittio degli artigli che affondano e squarciano le squame. Al loro passaggio seminarono una scia di goccioline calde sgorgate dalle ferita aperta sul ventre del gargoyle, ormai senza vita, e si lasciò cadere sul pavimento con un tonfo silenzioso, evitando con una capriola laterale di essere schiacciato dal peso del cadavere del mostro che precipitava in picchiata. Di lì in poi mise letteralmente a ferro e fuoco qualsiasi tentativo di approccio dello stormo di mostri che bramavano sgozzarlo, con i suoi affondi incendiari, le sue furtive stoccate infuocate e i suoi impietosi fendenti incandescenti. Ma si rese conto che non avrebbe retto a lungo, le sue riserve di mana cominciavano a scarseggiare. Lo sciame avvertì la sua debolezza e serrò i ranghi in quella zuffa di artigli e zanne. Impegnato a difendersi dalle raffiche di attacchi che lo avevano messo all’angolo,  perse di vista la spada. Una zampata lo colpì alla tempia e lo fece sbalzare contro il muro. Tutto diventò nero, menava colpi alla cieca e in cambio gli affondavano le unghie sulle braccia. Aveva i capelli imbrattati di un liquido denso e caldo che gli colava lungo lo zigomo. Le sue mani si erano raffreddate, non emettevano che insulsi sputi di scintille che morivano a contatto con l’aria. Ebbe paura.
Si avventarono ancora su di lui come un branco di squali attratti dalla scia di sangue. Non poteva fuggirgli, erano in troppi e le urla disperate di Leona al di là della barriera non lo aiutavano affatto. Poi ad un tratto tutto tacque e gli attacchi cessarono. Ma la paura ormai gli si era appiccicata addosso come una seconda pelle e non aveva molta voglia di scoprire cosa sarebbe successo dopo. Sbirciò  comunque da sopra il suo braccio dilaniato dagli artigli e quello stormo di avvoltoi barbuti era ancora lì e continuavano a volare compatti in cerchio inseguendosi fra loro. Che cosa stavano facendo? Non aveva senso. Strinse nel pugno la luna che gli dondolava sul collo per assicurarsi che fosse ancora lì e si asciugò il sangue dalla faccia. S’indeboliva sempre di più. Nonostante l’annebbiamento spinse le pupille lì su, da dove proveniva lo starnazzare graffiante dei loro gridi. Il loro comportamento gregario non aveva nulla di composto o lineare, anzi davano come l’idea che partecipassero forzatamente a quel girotondo, come ci fosse qualcosa dall’esterno che li tenesse aggregati lì tutti insieme, obbligati ad obbedire a quella forza immaginaria che li imprigionava dentro a quel vortice confuso di zuffe. E se…
Il suo sguardo guizzò incapace di trattenersi verso di lei. Teneva gli occhi chiusi, la bocca serrata, le braccia tese in avanti. La sua fronte era un cruciverba indecifrabile di rughe sulla cui superficie il sudore brillava come diamanti. Lei li stava controllando. Dopotutto, sebbene mostruosità, erano esseri viventi, animali esattamente come gli altri. Ma loro gli opponevano resistenza,  si stavano ribellando contro il suo comando. Le cedette un ginocchio per la fatica ma mantenne saldo il controllo su di loro, nonostante la ferita al fianco avesse ripreso a sanguinarle. Digrignava i denti cercando di sgombrare la mente dal dolore e focalizzarsi unicamente sui gargoyle affamati. Tutto per tenerli lontani da lui. Fabiano era sbalordito. Una ferita del genere avrebbe messo sotto scacco anche il più forte fra i protettori a lui conosciuti. E lei non batteva ciglio. La sua Akasha era talmente potente da permetterle di controllare una flotta accanita di mostri dai denti a sciabola e di condividere allo stesso tempo il potere elementale con lui. Quella potenza, irruente, abbacinante, intravista fin dai primi ricordi che aveva della ragazza, lo aveva sempre messo a disagio, quella sensazione di inadeguatezza quando la guardava non lo aveva mai voluto lasciare andare. E quel terrore muto di assistere alla sua morte non aveva che accentuato il suo disperato bisogno di proteggerla.
Ma persino la sua Leona non era invincibile come appariva, e non poteva lasciarle affrontare tutto quello da sola.
Aveva scoperto una parte di sé che non credeva nemmeno di possedere. Le sue vene era dotti incendiari pronti ad erompere dalle sue dita ignifughe. Conosceva ogni trucco per domare sapientemente il più indomabile e capriccioso degli elementi perché lei lo conosceva e quella condivisione non faceva altro che elettrizzarlo ancora di più. Adesso era pronto.
«Lasciali a me! Mi hai sentito? Lea, lasciali andare!» le urlò.
La ragazza spalancò gli occhi ricolmi di terrore, il terrore attanagliante di perderlo. Ma lei lo amava e proprio per questo aveva deciso di dargli fiducia. Fabiano giurò che avrebbe fatto qualsiasi cosa per non tradire quella fiducia a lui così cara.
Perciò quando l’ultima ondata, libera dal soggiogamento della medjai, svolazzò alla carica verso di lui, anche se dolorante e chiazzato di lividure, pensò al fuoco, pensò a Leona. La luce che affiorò nello spazio equidistante fra le sue mani crebbe fino a divenire un globo di lingue infuocate che si attorcigliavano frenetiche fra loro. La sfera di fuoco si ingigantì fino alle dimensioni di un planetario e arse a migliaia di gradi celsius. A quel punto il caldo gli sarebbe dovuto essere insopportabile, avrebbe dovuto scioglierlo come la cera di una candela, cancellarlo seduta stante. In realtà non era mai stato tanto meglio in vita sua. Fu quasi un dispiacere per lui lasciar andare la sua creatura fatta di fiamme roventi. Ma la luce esplose e con esso inghiottì anche i resti dei suoi avversari. Quando il fuoco si estinse, lasciando soltanto una scia di corpi carbonizzati e cenere, calò nuovamente il gelo. Fabiano si sedette sul freddo pavimento di marmo con ancora l’impronta del calore che marchiava la sua pelle. Era stremato, ogni respiro gli costava una fatica estenuante, i muscoli gli urlavano per il dolore, ma provava una gioia indescrivibile. Si stese supino e giacque così per alcuni secondi godendosi quella breve oasi di pace.
Aveva ritrovato sé stesso.
Aveva scarcerato i suoi veri pensieri dalla gabbia che la sua mente plagiata gli aveva costruito attorno.
Suo padre e le sue parole che gli ronzavano nella testa non aveva più alcun effetto su di lui.
Non temeva più la morte, né la sua né quella di nessun altro.
Era finalmente libero.
E sorrise per quella tenera sensazione che si era insinuata dentro di lui. Le loro anime si tenevano ancora per mano. Si era voltato verso di lei proprio mentre attraversava lo specchio, l’ennesima illusione di quel covo d’inganni e segreti. Lo raggiunse e torreggiò su di lui con le braccia incrociate al petto. La severità del suo sguardo gli fece allargare ancora di più il sorriso.
«Bene, bene, abbiamo un ladro qui» disse Leona scuotendo un piede sul pavimento come a scandire i minuti di un orologio.
Fabiano si puntellò sui gomiti e lei lo aiutò a rimettersi in piedi. I tagli sulle braccia bruciavano tantissimo e la testa gli pulsava spaventosamente, ma la sua attenzione era rivolta altrove.
«Ehi, a caval donato non si guarda in bocca» ribatté lui facendo spallucce. Anche quel semplice gesto gli procurava insopportabili sofferenze. E lei se ne accorse perché un lampo di tristezza fece capolino nei suoi occhi.
«Tu hai…tu mi hai…» prese a balbettare.
«Ti ho sentito» concluse per lei. «In realtà ti sento ancora».
«Ok, facciamo finta per un attimo che questo non sia tremendamente imbarazzante». Se pur nella pallidezza dell’anemia, la sua bellezza era un pugno dritto nello stomaco. E Fabiano sapeva che se non avesse perso tutto quel sangue, sarebbe arrossita all’istante e sarebbe diventata ancora più carina.
«Non lo è, infatti» le assicurò lui, serio come non lo era mai stato. La ragazza storse la bocca, scettica sulla sua affermazione.
«Allora come sono stato?» le domandò provando ad allargare le braccia. Le fitte lo fecero pentire subito.
«Be’, direi che ci possiamo lavorare su. Eri un po’ grossolano nei movimenti e la potenza di fuoco faceva alquanto pietà. Non si gioca con le fiamme, bambino» ci scherzò su lei schioccando la lingua, disapprovando la sua condotta. «Ma sembra che sia il tuo giorno fortunato, guarda caso hai di fronte a te la migliore insegnante che ci sia sulla piazza».
«Wow, mi inchinò di fronte alla tua umiltà. Quando cominciano le lezioni?». Si accorse troppo tardi che quel gioco fra loro era già terminato. Non aveva altre lacrime da piangere, ma se avesse potuto non le avrebbe trattenute a lungo. Avvertì l’insano bisogno di raggiungerla, di toccarla, adesso che finalmente non aveva più paura, e allungò una mano verso la sua guancia. Lei si scansò e tirò su col naso «Non devi farlo mai più». La sua voce fu una scheggia che gli penetrò dritta nel cuore. «Quello che è successo…non so se riuscirò a perdonartelo. Se tu fossi morto…» strizzò gli occhi per cancellare quell’immagine «giuro che se mi avessi lasciata sarei venuta a prenderti a calci in culo fino ai cancelli degli inferi, brutto figlio di puttana».
«Attenta, stai diventando come Gab» la redarguì senza implicare alcuna severità nel suo tono.
«Oh, ma facciamola finita, non sono mai stata una ragazza per bene» disse tamponandosi il sudore che gli gocciolava sulla tempia. Con lo sguardo andò in cerca dell’imbracatura e delle sue spade che giacevano sul pavimento, pur di non fissarlo.
Anche a lui sudavano le mani in previsione di ciò che stava per dirle. «Non ho nulla di cui pentirmi. Sarei morto per te, non m’importa, lo farei mille volte se servisse a salvarti la vita».
«Perché?»
«Perché ti amo con ogni singola fottutissima cellula del mio corpo».
Nel silenzio assordante della sala, quelle parole scossero il pavimento, creparono i muri, sembrarono quasi risvegliare i morti. Leona cadde in un torpore profondo, intontita, come se non potesse credere che lui le avesse pronunciate davvero. Parole che, da quello che poté leggerle negli occhi, aspettava da troppo tempo.
Prima che potesse accadere qualsiasi altra cosa, Fabiano assistette al più stupefacente dei miracoli. Il suo sorriso. Gli si fermò il cuore.
«Adesso ci mettiamo pure a rubare le batt…»
Aveva i capelli sporchi e in disordine, il viso contuso dai lividi e di un pallore allarmante. Non aveva mai visto niente di più bello. Lui non l’ascoltava più, non poteva essere solo una sua impressione, le loro labbra si stavano cercando. Doveva lenire ad ogni costo quella pena che lo stava logorando dall’interno. Non le diede nemmeno il tempo di prendere un ultimo respiro, le sigillò il fiato che sapeva di rose premendo intensamente la sua bocca contro la sua, mettendoci tutto se stesso. Quel bacio ebbe il sapore del fuoco e delle fiamme. Fu colto da un moto irrefrenabile di gioia. Una gioia che aveva colmato violentemente il vuoto lasciato dalla consapevolezza che non l’avrebbe più rivista. Chiuse gli occhi e si abbandonò a quel bacio. Fra le loro labbra esplose il calore, scivolavano l’una sull’altra, si mordevano, si fondevano in una cosa sola e non avevano alcuna intenzione di slacciarsi per nessuna ragione. La voleva così tanto che credette di morire di desiderio. Gli doleva il petto, gli faceva tremendamente male, non riusciva a contenere quell’ossimoro di emozioni in una sola cassa toracica. Le dita di Leona danzarono delicate sulla sua pelle, gli prese la mascella fra le mani e interruppe bruscamente il bacio. Presero un lungo respiro.
«E che ne è della maledizione?» gli domandò lei senza fiato.
«La verità è che non c'è mai stata nessuna maledizione. La verità » ripeté con più fervore «è che ti amo troppo per lasciarti andare. Ho mentito a me stesso camuffando la mia paura di perderti dietro il gioco sadico di un destino che non esiste, un modo per mascherare la mia dipendenza da te.
Mi ero convinto che standoti lontano, i miei sentimenti si sarebbe affievoliti ma non avevo capito che era una partita persa in partenza. Attraversare la sala degli specchi è stato…non saprei come spiegarlo. Rivelatorio.  Dopo averti vista morire ho capito una cosa. Tu non sei mia, non posso essere così presuntuoso da pretendere che la tua vita mi appartenga, io non potrò mai ostacolarti in ciò che sarai chiamata a fare. Un giorno morirai e per quanto il pensiero mi uccida, lo dovrò accettare. Non voglio più stringerti dentro le mie catene, io voglio soltanto che tu sia libera».
«Ti prego, dillo ancora»
«Dovrai essere più specifica, medjai, ho detto molte cose. A quale parte ti riferisci?» chiese riuscendo a stento a trattenere un sorriso. Lei gli pizzicò la guancia.
«Voglio sentirtelo dire ancora». Dovette aggrapparsi forte alla sua coscienza per non precipitare nell’oceano racchiuso dentro i suoi occhi che ardevano del suo stesso desiderio. Aveva le pupille paurosamente dilatate, d’ossidiana lucente, dentro cui riuscì a specchiarsi e intravedere scorci del suo stesso viso.
«Ti amo Leona Elena Braveheart. Io ti…».
Ma la bocca di Leona era di nuovo sulla sua. Si muoveva piano, con studiata cautela, quasi un solletico, nutrendosene a sazietà. Lo stava facendo impazzire. Allora Fabiano rispose con la sua stessa gentilezza, le prese il viso con una delicatezza straordinaria, come se volesse proteggerla da ogni male, poi le sue dita si persero nella fitta giungla nera nei suoi capelli, senza trovare più via d’uscita e il bacio si fece più profondo, consci che quello era l’unico rimedio al loro dolore. Le mani di Leona scesero sulla sua maglietta e gliela arpionarono, stropicciando la stoffa dentro i suoi pugni. Senza spezzare quell’incanto, emerse dalla notte buia della sua chioma, le sfiorò il collo e gli avvolse le nocche. Lei tremò, ma non di paura. Il suo tocco sciolse la sua presa nervosa, distese le sue dita affusolate e gliele guidò fino alla sua nuca invitandola ad allacciarsi più stretta a lui. Poi viaggiò ancora una volta sulla sua pelle trovando riposo sulle rotondità dei suoi fianchi soffici e annullò completamente la distanza fra i loro corpi attirandola a sé. Lei rise contro la sua bocca ma lui non mollò la presa, le sue mani correvano su e giù lungo la sua schiena in mezzo a quella cascata di ciocche corvine mentre con le labbra disegnava il contorno del mento e della sua mascella. Avevano entrambi gli occhi aperti adesso, volevano essere presenti, coscienti di quello che stava accadendo perché non si stavano abbandonando a un momento di passione passeggerà di cui si sarebbe pentiti in futuro.
Leona lo baciò, ancora e ancora. Giocava con il suo labbro inferiore fra i denti e poi glielo sfiorava con la lingua come a volerlo curare. Gli sussurrava che lo amava. Suo padre di sicuro su qualcosa aveva ragione: quella ragazza sarebbe stata la sua rovina. Ma aveva tutti i buoni propositi di cadere in quella fossa insieme a lei con i suoi stessi piedi. Quando si allontanarono, i due osservarono il groviglio di catene di cui i ciondoli della sole e della luna erano rimasti vittima. Si accesero entrambi e irradiarono con la loro luce blu e rossa tutta la stanza, trasformandola in uno splendido caleidoscopio di bagliori soffusi. Gli occhi della gigantessa Imir finalmente riuniti dopo secoli che li avevano divisi.
Era davvero tutto perfetto.
«Forse il ciondolo era in ascolto del mio desiderio. Forse è per questo che ci siamo baciati» disse il ragazzo senza distogliere lo sguardo dalle luci che danzavano sul soffitto.
«Credimi, quel dannato ciondolo non c’entra nulla sta volta. Non lascerò che si prenda il merito…» la sua voce si assottigliò, divenendo sempre più debole. Il sangue aveva ripreso a sgorgarle dalla ferita. A Fabiano gli si seccò la saliva.
«Lea…». Gli sollevò la maglietta ignorando le proteste della ragazza. Alla vista della ferita da arma contundente si pietrificò all’istante. Come aveva potuto non accorgersene? Lo squarcio era così profondo che aveva attraversato il suo corpo dall’interno, fino a sbucarle fuori dalla schiena. Una ferita del genere poteva soltanto essere stata inferta da una spada. Il protettore imprecò ad alta voce, come non aveva mai fatto in vita sua.
«Mi sento stanca…» annunciò con tono assonnato «Ho solo bisogno di un po’ di riposo…». La protettrice inciampò e cadde di peso addosso al ragazzo. Non riusciva a tenere aperte le palpebre. Fabiano cominciò a schiaffeggiarle piano la guancia.
«No, no, Lea, Lea, mi senti? Non puoi dormire adesso! Ok? Resisti, ti porto fuori di qui, ma tu non dormire, fallo per me…ti prego, non mi lasciare» le disse soffocato dai singhiozzi.
«Resta con me, ti scongiuro…resta».
Ma Leona non poteva più sentirlo. Aveva già smesso di respirare.

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Capitolo 55
*** L'AKASHA ***


Capitolo 41 – L'Akasha

 Quell’inverno un’insolita bufera aveva ammantato di bianco la città, un evento così bizzarro che poteva essere presagio dell'inizio dell’apocalisse. Ma quella era soltanto la più recente di quell’eccentrica serie di folli accadimenti. Infatti, nelle tutt’altro che placide stradine innevate di New Orleans, fra le sfuggenti note jazz proveninti da un locale illuminato, gli aromi speziati delle zuppe calde allo zenzero, e gli alberi spogli e rugosi dei mandorli, i tacchi di una donna con i capelli i blu risuonavo secchi e spietati sul marciapiede. Trapelavano una certa urgenza. Aveva smesso di nevicare soltanto due giorni prima, dopotutto non faceva abbastanza freddo. Nemmeno quella notte si riuscivano a scorgere le stelle, l’inquinamento luminoso dei lampioni e il chiasso delle viuzze ancora nel vivo delle preparazione del mardì gras, ne offuscavano la vista e il godimento di quell’incantevole panorama notturno. Un vegliardo signore con la barba nascosta fra le pieghe delle sua sciarpa di lana e il nasone arrossato dal gelo, ammonticchiava ai margini del lastricato ghiacciato i rimasugli della precedente precipitazione conficcando operosamente la sua pala in quelle bianche montagne che si avvallavano proprio sull’uscio delle abitazioni e dei negozi. Il povero vedovo baffuto fischiettava allegro a ritmo della jazz band che strimpellava poco lontano da lì, allietandolo dalle punture gelate di vento che s’infiltravano dispettose dentro le maniche del suo cappotto. Ma quell’umiliante lavoretto era tutto quello che gli restava, insieme alla promessa di un pasto caldo composto da una pagnotta, una brodaglia bollente per riscaldarsi le ossa, e qualche pinta schiumante di birra per dimenticarsi dei suoi guai. Una volta tornato nella sua catapecchia lercia e fatiscente, molto più alticcio di come un uomo della sua età si dovrebbe ridurre, lui e le sue articolazioni doloranti sarebbero crollate sul materasso, fra le lenzuola ormai troppe fredde e vuote senza la sua amata, ignorando il lezzo rancido del piscio di cui si erano impregnate le sue brache.
Frieda non avrebbe potuto immaginare un’esistenza più patetica di quella, e comunque quell’umano non le avrebbe cavato neanche un briciolo di pietà dal suo cuoricino fuori servizio da ben più di un millennio. Avrebbe potuto sciogliere la neve con un incantesimo, ma le sembrò solo un inutile spreco di mana fatato. Dall’altra parte, è solo un fragile umano pensò fra sé pronunciando quella parola nella sua mente come se avesse pestato qualcosa di spiacevole sotto i tacchi. Ma anche il suo Mordred era stato umano e…Scacciò quell’insopportabile pensiero che le soffocava il petto e si avvicinò all’uomo.
 Quando si schiarì la voce alle sue spalle, il vecchio sussultò e per poco non mollò la presa sul suo arnese da lavoro. Accortosi di lei, aggrottò le sopracciglia sale e pepe, si raddrizzò il basco sulla testa e tossicchiò timidamente un «Buonasera signorina».
Dalla sua inequivocabile espressione di detestabile compassione, Frieda intuì che le stava fissando il marchio delle sue menzogne, quell’intricata ragnatela di solchi che le deturpava il viso. Non aveva che farsene della sua commiserazione, anzi lo rese ancora più detestabile ai suoi taglienti occhietti viola intrisi d’odio.
«Cerco lo Zero RH negativo» domandò mentre il fiato si condensava in una nuvola di vapore nello spazio che li divideva. Forse era stata troppo diretta, la sua voce esageratamente squillante e affilata coma la lama di un coltello, ma il tempo a sua disposizione stava per scadere. Il freddo gli morse le guance ancora più affondo ma attese paziente la risposta dello spalatore.
«Mi perdoni miss, ma non conosco nessun locale con un’insegna del gen…»
«Ascoltateli. I figli della notte…quale dolce musica emettono» lo interruppe recitando con  stizza i versi della parola d’ordine. L’anziano la guardò appoggiando distrattamente l’avambraccio in cima al bastone della pala, i suoi intransigenti occhi azzurro ghiaccio la soppesarono dalla testa ai piedi con rinnovato interesse. «Mi creda, sono una visitatrice, non sono qui per portare guai. Ho un appuntamento importante e sono già in elegante ritardo». Lui si limitò a increspare le labbra sotto i baffi grugnendo qualcosa d’incomprensibile, poi le diede la schiena e affondò la pala nel mucchio di neve riprendendo il lavoro da dove lo aveva interrotto. «Il mio padrone non sarà contento di sapere che degli stranieri si aggirano per le strade della sua città alla vigilia del mardì gras, ben che meno se si tratta di fatui» aggiunse occhieggiando la piccola boccetta appesa al suo collo contenente della polvere argentata. Frieda si conficcò le unghie nel palmo della mano. Come osava rivolgersi con quell’aria di sufficienza a lei, futura regina del mondo fatato. Si sarebbe ricordata di quello sciocco, quando non le sarebbe più stato utile. Una sua Lihan sidhe si sarebbe occupata di lui più tardi. «Ma questi non sono affari miei» disse in tono rabbioso. «Prosegua dritto fino all’insegna dell’apoteca, poi svolti a sinistra e imbocchi  la viuzza fino alla fine. Trip sarà avvisato del suo arrivo».
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All’entrata del locale vi era un capannello di persone che spettegolava concitatamente. Oltrepassando con la sua vista magica la foschia di trasmutazione, Frieda intuì che si trattava di una congrega di alchimisti cialtroni che sussurrava i trucchi del mestiere a bassa voce, speculando sulla prossima truffa che avrebbero potuto rifilare a quei poveri giuggioloni degli umani. A New Orleans, misticismo e superstizione erano il pane quotidiano dei cultori delle arti magiche, trovatori umani con l’innata capacità di vedere oltre il velo della trasmutazione alchemica. La città era onesta con sé stessa, aveva fatto pace con l’idea che il sovrannaturale fosse in mezzo a loro e che ad ogni passante che avessero incontrato per strada si sarebbero dovuti domandare cosa si nascondesse dietro la facciata che appariva alla luce del sole. Un alchimista non poteva essere paragonato a uno stregone. Il primo era umanoide in tutto e per tutto. Chiunque con un po’ di affinità con l’oltremondo arcaico avrebbe potuto esercitare quel tipo di magia, sebbene meno di un quarto della popolazione mondiale ne risultasse essere effettivamente capace. La loro notorietà era dovuta principalmente alla scoperta della formula per fabbricare la pietra filosofale, il segreto dell’immortalità, o non sarebbero nemmeno stati citati a pie di pagina nell’almanacco delle creature sovrannaturali.  Gli stregoni stavano decisamente su un altro livello avendo in sé sangue elfico nelle vene. Si trovavano circa uno scalino più in basso rispetto ai fatui nella piramide gerarchica immaginata da Frieda. Lei comunque disprezzava entrambe le razze e non voleva in nessun modo averci a che fare o familiarizzare con loro. Li scansò come se fossero degli appestati e, fingendo che le ingiurie che le lanciavano in sordina non le interessassero, spalancò la porta del bar. Una folata di vivande succulente e calore misto a puzzo di pelame bagnato e cadaveri la costrinse a trattenere il respiro. Il campanellino avvisò il proprietario dell’ingresso della nuova arrivata. L’uomo con la petala lucente dietro al bancone le sorrise a mo’ di caloroso benvenuto, i suoi denti bianchissimi erano affilati come rasoi: un mezzo Ghoul.
Un ragazzino smilzo con le orecchie a punta, un giovane elfo, si fece avanti e si offrì di prendere in custodia il cappotto della fata delle tenebre. Teneva gli occhi bassi e stava bene attento a non fissarla in volto o a tracciare una mappatura delle sue cicatrici. Ragazzo sveglio, pensò la fata. Si fece scivolare la morbida pelliccia di ogre dalle spalle e lasciò che il garzone gliela sistemasse sull’attaccapanni senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Frieda indugiò sulla soglia e strinse i denti. Ancora quella dannata musica. La fata detestava quei bavosi trombettisti, le loro labbra umettate di saliva, e le loro dita grassocce e sudate che facevano sali e scendi sui tasti del sassofono, o peggio ancora i loro disgustosi occhieggi maliziosi che sembravano intrufolarsi dentro il suo decolté o prendere troppa confidenza con le rotondità del suo fondoschiena. Umani. Mordred non l’aveva mai guardata con uno sguardo tanto vomitevole. In realtà non l’avrebbe più potuta guardata in nessun altro modo. La sua anima non c’era più, era semplicemente andata, persa fra le pieghe del limbo in attesa di un giudizio che non sarebbe mai giunto. A insaputa di sua sorella Delilah, il suo corpo da vampiro era stato sepolto nella cava di ghiaccio di Brushelon, fra i fiordi della quinta punta dell’isola delle fate, precisamente in mezzo alla valle di Purogelo e i confini del bosco delle driadi. Se lo avesse scoperto, quella sgualdrina non ci avrebbe pensato due volte a sbarazzarsi del cadavere del suo ex. Anche lei avrebbe dovuto bruciare il corpo, ma quella speranza crudele che le ardeva dentro le impediva di farlo. La speranza che un giorno avrebbe potuto portarlo indietro dal suo inferno gelato.
Frieda si guardò attorno e notò una clientela molto assortita fra gli abituali frequentatori di quel locale. Dei licantropi che tracannavano allegri del whiskey scadente mentre giocavano d’azzardo, due vampiri, probabilmente dei Drakulia, rintanati nell’angolo più buio della stanza, che si contendevano il sangue di una sfortunata liceale a cui piaceva troppo scherzare col fuoco. Riconobbe pure qualcuna delle sue ancelle dal tipico sventolio delle loro ali nere come inchiostro, dalla loro pelle incolore ed da i loro occhi con la sclera completamente avvolta dall’oscurità. C’era persino un troll dei boschi solitario, piuttosto piccolo per la sua razza, intento a godersi ogni boccone della sua cena. La fata si domandò come avesse fatto a raggiungere il locale senza che nessuno notasse la sua pelle cadente, squamosa e verdognola, il suo odore insopportabile di melma, la lunga coda brulicante di arbusti, e quelle enormi palle da biliardo rosse che si ritrovava al posto degli occhi. Ma poi si ricordò che si spostavano di notte e che solo i cuccioli di umani potevano vederli. Gli adulti molto spesso tendevano a non credere alle fantasie di quei marmocchi o quando lo faceva si affrettavano a trascinare i loro pargoli dritti dal più bravo psichiatra del paese.
Frieda vagò ancora con lo sguardo alla ricerca del suo contatto. Non fu difficile trovarla. C’era una donna in eleganti vesti scure seduta al bar,  o meglio, arrampicata su un alto sgabello. Teneva i gomiti puntellati sul mogano del bancone, le labbra rattrappite attorno alla cicca di un sigaretto e aveva una maschera d’oro massiccio a nasconderle il viso. La donna non si poteva certo definirla come la tipica stangona, anzi,  Frieda la reputò piuttosto bassina per i suoi gusti. Anche se teneva le gambe accavallate, le sue scarpine col tacco a spillo laccate di nero riuscivano a malapena a sfiorare il pavimento. Questo ovviamente non le impediva di emanare un’aura di angosciante terrore  e spaventare chiunque avesse rischiato di avvicinarsi troppo al suo raggio d’azione. Non c’era da stupirsi se la ragazza se ne stesse lì tutta sola a rimestare il rosso sanguinolento della sua sangria con il tronco di un sedano. Ma c’erano davvero poche cose che potessero incutere timore alla fata, perciò si fece più vicina all’occupante della seduta e si accorse che i suoi capelli, un po’ sfrangiati sulla fronte, luccicavano di pura filigrana argentata alla luce delle lampade al neon appese al soffitto. Quando prese posto accanto a lei, la vampiretta sollevò lo sguardo, giusto un attimo per controllare chi fosse stato così audace da disturbare la sua bolla di quieta solitudine, e le soffiò in faccia una serie di anelli fumosi all’infuso di menta e tabacco, assottigliando gli occhi cremisi incastonati nella sua maschera d’oro.
«Sei in ritardo» la rimproverò lasciando accumulare un po’ di cenere dentro la ciotolina di vetro smerigliato a forma di galeone.
«Non te l’hanno mai detto che le persone che contano si fanno desiderare a lungo?». La vampira senza un nome trattenne un suono in gola che avrebbe potuto esser scambiato per un principio di risata. Le sue labbra sottili e delicate erano di un rosso vinoso simile alle sfumature vermiglie dei suoi occhi terrificanti.
«Trip?» chiamò il barista con voce melodiosa, tamburellando le unghie smaltate di un luttuoso nero pece sul mogano. Il mezzo ghoul pelato che stava servendo un cliente, inarcò un sopracciglio e una volta terminato di pulire i sedimenti acquosi sul fondo del boccale, si gettò lo strofinaccio sulla spalla ed elemosinò un po’ di pazienza al mannaro imbronciato che aveva ordinato la decima birra a giudicare dai passi di danza traballanti con cui si esibivano le sue gambe. Riusciva a sentire il fetore di yorkshire fradicio e il suo alito di alcol  penetrante anche da lì.
Nello squittio vorticoso della sangria che si avvita su per la cannuccia gli disse a mezze labbra «Ficca in mano alla mia ospite il miglior Bloody Mary di cui sei capace e mettilo sul mio conto».
«Così mi ferisci tesoro, offre la casa» rispose lui schiacciando l’occhiolino alla fata, per nulla disturbato dalle sue cicatrici. Poi il cannibale le sorrise con uno scintillio accecante di denti bianchi acuminati, perfetti per tranciare la carne umana a morsi. «Come lo preferisci?» chiese l’omone asciugandosi le mani sul grembiule con il motivo del locale ricamato sui bordi.
«AB RH positivo. Molto ghiaccio per favore, detesto il sangue caldo, e che possibilmente non appartenga ad uno che si è strafatto di anfetamine, il retro gusto mi rimarrebbe appiccato al palato per un mese. Senza emetico, ovviamente».
«Ovviamente» ripeté lui divertito. Fece un fischio alla cameriera impegnata a pulire un tavolo condito con i resti impiastricciati, sanguinosi e colanti della cena del cliente precedente. Il tizio non era stato audace come la fata e aveva fatto un abuso sconsiderato di emetico, per cui aveva finito con lo svuotarsi completamente lo stomaco, ripescando nella sacca del suo organo digestivo persino i rimasugli del cenone di natale dell’anno passato. Il ghoul e la graziosa cameriera sparirono oltre le porte a doppio battente per due buoni minuti. Frieda fu la prima a spezzare il silenzio.
«Non mi aspettavo un bentornata così caloroso, almeno non dopo il mio misero fallimento. Va davvero oltre ogni immaginazione».
«Credimi, non è stato un completo fallimento. Hai le silfidi e le ondine dalla tua adesso e la tua cara sorellina avrà dei gratta capi di cui occuparsi al momento. E poi almeno potrai andartene in giro a gloriarti della mia infinita misericordia».
«Sì certo, come no. E la maschera? Se la vista non m’inganna sembra di oro massiccio, niente di troppo appariscente insomma. Stai facendo le prove generali per il mardì gras o hai qualcosa da nascondere?» le domandò caustica la fata. In tutta risposta, la vampira le sollevò un dito medio con il moncherino dorato che aveva al posto della mano destra, perfettamente in pendant con la maschera.
«Se fossi in te mi guarderei allo specchio prima di sputare sentenze così pretenziose, servirebbe più a te che a me».
Lo sguardò della fata fu peggiore di una pugnalata alla schiena «Be’ almeno io sono viva».
«Touchez, cara». Prese un’altra boccata di fumo e le spiegò «E’ più difficile odiare qualcuno se non ha un volto, se non puoi dare una forma alla tua paura, se non puoi darle un nome» e spense il mozzicone dentro il posacenere.
«Non capisco proprio come qualcuno possa odiare una persona affabile come te» le disse col suo incurante sarcasmo.
«E che fine ha fatto la leggenda secondo cui le fate non possono mentire?».
«Mi stai dando forse della bugiarda? Non mi permetterei mai di giudicarti, lo sai bene. Anche se come puoi vedere dal mio dolce visino sono una recidiva in fatto di bugie» terminò facendo spallucce.
«Davvero è così lunga la fila di quelli che vorrebbero vederti morta? Quanto è lunga la lista?» ironizzò ancora  Frieda lisciandosi con le dita le ciocche blu notte. La ragazza con la chioma d’argento tracannò l’ultimo sorso di sangria e strinse gli occhi dentro la maschera che si sollevò leggermente al riflesso involontario del suo ghigno.
«Più di quello che mi piace ammettere». Nel frattempo il barista fece ritorno dal laboratorio con la sua ordinazione e la ragazza umana tornò ai suoi doveri con un taglio vermiglio tracciato su entrambi i polsi. Era molto pallida e si teneva a stento sui suoi piedi. Frieda prese un lungo sorso di bloody mary, i battiti del suo cuore accelerarono pericolosamente. Si leccò la patina rossastra dal labbro superiore ammiccando maliziosamente in direzione del barista.
«Comunque» riprese la fata «Non avevo capito che la posta in gioco era così alta. Mi sembrava un compito abbastanza semplice. Dopotutto una armata di potenti abomini, capitanata dal migliore esemplare che c’è sul mercato, sarebbe stata più che sufficiente a tenere a bada dei semplici cuccioli di protettori, avrei avuto pure il tempo libero per assicurarmi la deposizione della corona da quella testa di cazzo di mia sorella. È un vero peccato che ti sia tenuta per te il dettaglio più rilevante dell’intera faccenda. Che la ragazzina era una fottuta medjai! Per le sacre moire, come ho potuto essere così sciocca da darti retta? Capisco che sia orribilmente irritante coi suoi lunghi capelli neri svolazzanti, ma mi spieghi perché ce l’hai tanto con lei? E perché non vai a prenderti il suo sangue da sola?».
«La ragazza m’indebolisce…» sputò fra i denti restia a confessarglielo.
«La medjai? E come potrebbe? Che collegamento c’è fra te e lei…oh, dannazione, ora capisco» annuì fra sé la fata. «In effetti non ti ho mai domandato cosa fossi prima della tua trasformazione. Lo davo abbastanza per scontato, sai, gli occhi da brivido e tutto il resto». La vampira roteò le pupille molto più che annoiata.
«Bè questo spiegherebbe molte cose. E così anche tu, nella tua vita precedente, eri una medjai, eh? Una piccola paladina della giustizia che caga arcobaleni al suo passaggio? Deliziosa. Poi hai incontrato l’uomo nero e hai lasciato che affondasse i suoi denti su di te e che t’infettasse col suo veleno. È un vero peccato che il destino ti abbia fottuta per bene».
«Non ho a che fare con cose vili come il destino. L’ho scelto io di essere così, ho costretto io il mio creatore a trasformarmi in ciò che sono. Volevo soltanto proteggere il mio popolo. Per mio padre. Un popolo di ottusi, imbecilli, ignoranti che ha preferito qualcun’altra indegna al mio posto. Una persona che fino a poco tempo prima detestavano con tutto il loro cuore per essere una senza poteri». Le dita delle vampira si strinsero attorno al bicchiere così pericolosamente vicino dall’andare in frantumi in una pioggia di schegge.
«La tua storia non ha molto senso» dichiarò infine Frieda prendendo un altro sorso di Bloody Mary.
«E io non vedo perché tu debba ficcarci il tuo stupido naso curioso di fata» ribatté secca la sua interlocutrice.
«Vacci piano con me succhia sangue, non sono una dei tuoi accoliti bastardi, tienilo in mente. Ora» proseguì facendo poco caso all’indisposizione della vampira «ammettiamo per assurdo che tu sia chi dici di essere. Se in passato tu fossi stata una medjai e qualcuno ti avesse trasformata in vampira, allora qualsiasi altra generazione futura avrebbe annullato i tuoi poteri e quelli di tuo fratello. Ovviamente vi siete dati un bel da fare con quella brutta faccenda del delitto delle culle, o la maledizione dei medjai, chiamala come ti pare. Bada bene, non vi biasimo mica, lo avrei fatto anch’io, sai che non sono una tipa che si fa certi scrupoli. Ma allora, perché non uccidere quei due quando ancora non erano in grado di difendersi se rappresentano una minaccia così pressante per voi? Perché lasciarli acquisire altro potere? Non avevo mai sentito in tutta la mia vita una Akasha più potente di quella. Mi chiedo, dunque, perché correre il rischio?».
«Uno stupido incantesimo di protezione» disse lei scacciando la questione come se fosse una mosca fastidiosa.
«Ma davvero, non mi dire? I grandi cavalieri della mezzanotte messi in ginocchio da uno stupido sigillo? Perdereste di credibilità se qualcuno lo andasse a spifferare in giro».
«Credimi Frieda, non andresti abbastanza lontano».
La voce della fata si fece soprana «Osi minacciare me?».
«Cosa ti ha fatto credere che fossimo partner alla pari?».
«Senti, potrei prometterti che l’errore non si ripeterà più, ma non sono più sicura di voler negoziare con te. E poi non muoverò più un solo passo se tu non mi rendi partecipe dell’intero piano. Pretendo di sapere di più se vuoi che scateni una guerra contro il campo Betelgeuse in tuo nome. Oh che ironia, nome che non conosco affatto perché non ti sei degnata nemmeno di presentarti!».
«È un nome quello che vuoi?».
«Sarebbe un buon inizio».
«Sibilla»
«Come?» strepito una Frieda allarmata.
«Cos’è avevano finito il cotton fioc dalle tue parti?».
«Mi prendi in giro?».
«Sei tu la bugiarda patologica, non io».
«Che mi prenda un colpo. Quella Sibilla? La gemella di Odetta, la sterminatrice di Hijir? Oh per le sacre moire, sono confusa. Non dovresti essere morta? Ma allora questo vuol dire che…la leggenda è tutta una menzogna. Non è stata Odetta a trasformarsi in vampiro e reclamare il trono, ma tu! Ti sei bevuta tutta la gloria al suo posto, andando a raccontare in giro peste e corna della tua stessa gemella. Oh, mia cara tu sei davvero diabolica, quasi quanto me».
«Sapevo che nessun altra avrebbe potuto comprendermi più a fondo di te».
« Oh, per le moire, sì, farei anche di peggio a quella stronzetta di mia sorella. Accudirei un intero canile di randagi solo per vederli pisciare sopra la sua tomba. Scusa la domanda: e tuo fratello?».
«Quello non è davvero mio fratello di sangue».
«Io non… Ma è un medjai anche lui?». La vampira annuì.
«L’ho convinto ad uccidere il suo gemello. L’ho cresciuto secondo i miei precetti a mia immagine e somiglianza. Solo così si sarebbe potuto unire alla nostra causa, e a me».
«Frena solo un secondo, qualcosa non mi torna. Secondo la leggenda i medjai condividono un unico cuore, per cui se schiatta uno, l’altro lo segue inevitabilmente».
«Il legame non è indissolubile, o non sarei qui. Non credi?».
«Va bene, ma perché mi hai chiesto solo il sangue della ragazza e non quello del gemello? Qual è il discriminante fra lei e il ricciolino?».
«Cos’è, vuoi una lezione di storia? Miei dei, non mi pagano abbastanza per questo schifo! Apri bene le tue orecchie appuntite fata, perché non ho intenzione di perdere altro tempo in stupide chiacchere da bar. Quando Hijir sparì dalle mappe, di mia sorella Odetta non si ebbero più tracce. O almeno così credettero tutti. A quanto pare però il suo spirito non ha fatto la stessa fine del suo cadavere sepolto sotto terra. Bè non proprio la sua coscienza, bensì la sua essenza. L’Akasha è immortale, si può reincarnare in un nuovo corpo, e ha viaggiato nei secoli in cerca di un contenitore adatto fino a quando…».
«Non ha trovato quella puttanella di Leona» concluse Frieda. La vampira non provò a smentirla.
«Sono riuscita a percepirla soltanto quando si è infranto quel maledetto sigillo. A quel punto era troppo tardi e Leona si era già rifugiata dentro il campo. Bene, ora ti reputi soddisfatta, sono riuscita a dissolvere tutti i tuoi dubbi?».
«In buona parte, sì».
«Ora ascoltami bene, non lo ripeterò un’altra volta. Gabriel non lo devi toccare, sono stata chiara? Il ragazzo è tutto. Perché il nostro piano si realizzi, abbiamo bisogno di lui ad ogni costo. Ma finché Odetta sarà ospite all’interno di Leona continuerò a indebolirmi, la sua Akasha, mia sorella, reclamerà il mio posto insieme a lei nel suo cazzo di limbo! Per fortuna esistono più modi per spezzare il loro legame. Nel caso più improbabile, Gabriel dovrebbe uccidere sua sorella con le sue mani, solo in quel caso lui sopravvivrebbe al legame. Sappiamo entrambe però che il giovanotto non è disposto a compiere un simile sacrificio o per lo meno non ancora. Ma c’è ancora un’altra possibilità. Il ciondolo della Luna, il tuo ciondolo Frieda, non ti rifiuterà una richiesta simile».
«Impossibile, il mio ciondolo è…».
«Già nelle sue mani…»
«E tu come lo sai?»
«Frieda, sei con me o no? Userai il potere del ciondolo per il sciogliere il legame fra i due fratelli e poi solo allora ucciderai Leona e preleverai il suo sangue. Mi occuperò io del ragazzo. Se tutto andrà secondo i piani avrai la tua ricompensa».
«Dovrei fidarmi ancora di te, Sibilla?» esclamò incredula battendo un pugno sul tavolo «La formula del Linckage che mi hai rifilato non ha funzionato come avrebbe dovuto». Frieda si affrettò a informarla succintamente su tutto ciò che era accaduto durante l’attacco fallimentare nel raths delle fate con grandi gesti trafelati. La vampira non fece altro che annuire taciturna dal suo sgabello, prestando poco conto alla baruffa inscenata da un patetico gruppo di mannari in disaccordo su una falsa scala reale.
Finito il riassunto di quella sanguinosa battaglia, Sibilla chiuse gli occhi e poggiò il mento sulle nocche con aria meditabonda «Quindi la medjai era stata messa all’angolino? Non mi sorprende che il tuo abominio gliele abbia suonate di santa ragione. Ne ho viste poche più letali di lei. Il sangue di una protettrice mischiato a quello di un vampiro può fare davvero miracoli. Non mi aspettavo nemmeno che col trapianto ereditasse l’abilità vampirica di Pascal. Dunque cosa non ti ha soddisfatta?». Gli occhi viola di Frieda si incendiarono per la rabbia e si sporse più vicina alla vampira battendo fragorosamente, ancora una volta, un pugno sul bancone. Il tonfo fece impallidire i mannari coinvolti nella rissa.
«Ha disobbedito ai miei ordini, la ragazza ha disertato! Avevi promesso che se l’avessi legata a me mi sarebbe stata fedele come un cagnolino. Invece è bastata la lamentela di uno sciocco ragazzino per farla indietreggiare. Ah, dannazione, avrei dovuto lasciarla morire la prima volta che l’esperimento con i denti di Pascal fallì miseramente. Ma Tiziano era così disperato, mi gridava di voler salva la vita della sua bambina ad ogni costo. Non gli importava un fico secco se avessi scavato una voragine nel suo petto, colmando il vuoto con il cuore di un lurido vampiro, parole sue, non mie» si giustificò al cipiglio indispettito di Sibilla «e comunque l’alleanza con lui e il suo gruppo di sette babbei mi è stata di gran beneficio dopotutto».
«Interessante. Credo che la ragazza abbia sviluppato una coscienza al di là del maleficio. La sua forza interiore è molto più irruenta di quello che credevamo. Evidentemente il linckage ha lasciato intatti i suoi ricordi, ma non preoccuparti mandala da me e faremo il modo che non accada più. Ma rispondi alla mia domanda: quante possibilità c’erano che il tuo abominio abbia riconosciuto la voce di quel protettore?».
«Che vuoi che ne sappia? Non ho avuto il tempo di accertarmi del grado di parentela. Senti sono stufa di tutto questo. Sai bene quello che voglio: vedere la testa di quella puttana di mia sorella su una picca! Non la perdonerò mai per ciò che ha fatto a Mordred, e presto avrà ciò che merita con o senza il tuo aiuto. Non sono più sicura di voler accettare il tuo accordo. Mi basterà attaccare Betelgeuse con il mio esercito, quella baldracca non si lascerà certo sfuggire un’occasione così ghiotta. Mi riprenderò da sola il mio trono» dichiarò scendendo dal suo sgabello «E per quel che vale, grazie per il drink». Stava per richiamare con un fischio il garzone quando Sibilla, senza muoversi di un centimetro dalla sua distaccata stasi passiva, le propose «E se alzassimo la posta in gioco? E se ci fosse ancora un modo per riportare indietro il tuo Mordred? Ci riuscirei senza problemi col tuo ciondolo delle meraviglie…».
«Non osare…» la zittì, il tono di voce di mille sfumature di dolore.
«Non fingere che l’idea non ti abbia mai sfiorato. Conosci la mia abilità vampirica di negromante. Io posso, Frieda. O devo credere che la cosa non t’interessi più?».
«Continui a insultarmi…con quale diritto dubiti del mio amore per lui? È immortale» disse, il dolore che lasciava campo libero ad una furia montante.
«Ti sembra che abbia tempo da sprecare in giochetti con te?».
Un bagliore argentato s’insinuò nel sorriso della fata «Sei davvero una pessima bugiarda, stai forse cercando di spodestarmi anche da quel podio?». La vampira allungò furtivamente una mano verso la tasca interna del suo mantello e ne estrasse una scatolina placcata in oro come tutto il resto dei suoi gingilli. Si aprì con un scatto e ne tirò fuori un accendino e un sigaretto di ottima qualità. Se lo infilò all’angolo delle labbra scarlatte e incendiò la paglia. Nell’ambiente si diffuse subito un aroma di vaniglia e zucchero filato.
Sibilla le diede un ultimatum secco «Ci stai o no?» disse ordinando un altro giro al mezzo ghoul. La fata non avrebbe impiegato molto a girare i tacchi, acciuffare il suo caldo pellicciotto strada facendo e spalancare la porta di quel sudicio locale imboccando la via senza ritorno della guerra. Ma esitò. Inclinò la testa di lato e inspirò intenzionalmente il banco di nebbia dolciastro del suo sigaretto. I rintocchi dei suoi tacchi risuonarono affilati sul pavimento. Gli sfilò silenziosamente il sigaretto di bocca soltanto per il gusto di vederle aggrottare le sopracciglia in disapprovazione e se lo incastrò fra i denti.
«Avrai il sangue della ragazza» le giurò sputandole addosso una nuvola di fumo.
«Lo spero per te. Non abbiamo mai elargito a nessuno una terza possibilità».
Frieda ridicolizzò quella minaccia con una secca risata da soprano, si congedò con un inchinò teatrale e si diresse a lunghe falcate verso la porta. La vampira non la perse di vista finché non sparì nel freddo pungente dei vicoli innevati. Innalzò il suo boccale colmo fino all’orlo di sangria, brindando in suo onore.
«Addio, fata turchina. Mi auguro che tu possa raggiungere al più presto il tuo Pinocchio all’inferno» disse leccandosi il sangue dal mento. Chiuse gli occhi e se lo gustò interiormente attendendo pazientemente il giorno della sua vendetta non più così lontano.
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Fu tutto buio (Che cos’è il buio?). C’era così tanto silenzio, un silenzio innaturale (Che cos’è il silenzio?).
Lei era nulla (Lei?). Lei non era.
Una trama d’ombre distesa in un mare di oscurità. Non aveva più un corpo, non c’era un inizio o una fine. La sua identità si stava intessendo di tenebre. Non esisteva nessuna unità di tempo, non c’era più un ieri, un oggi o un domani, solo una eterna notte dipinta da mille sfumature di nero.
Era il nulla.
La sua pelle (?), le sue ossa (?), il suo sangue (?) indossavano anch’esse le vesti drappeggiate di oscurità. Stava immobile, se qualcosa era stato di quell’entità non ne serbava ricordo, la sua memoria frammentata in pezzi non più componibili.
Nulla.
Poi la luce esplose dentro di lei, calda, accecante, totalizzante. Una mano che afferrava la sua. E ricordò.
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Il passaggio da quelle lugubri tenebre al sole caldo e abbagliante al centro del firmamento, come a mezzogiorno, mi destabilizzò e caddi a terra impastandomi di sabbia rossa. La vista, tutt’altro che nitida, era un campo di macchie scure nebulose che pulsavano come il cuore di un cavallo al galoppo. Massaggiavo per bene le palpebre quando giunsero dei versi canzonatori, resi ancor più tremendamente intollerabili da quegli applausi scroscianti e da quei fischi acuti. Tentai di rialzarmi sorreggendomi al masso allato nonostante il fondo schiena dolorante. Mi tremavano ancora le ginocchia. Avevo la sensazione di avere urlato per via  di un vago prurito alla gola, ma non ne serbavo ricordo alcuno. Ripresi fiato e cercai di capire dove mi trovassi. Travolta dalla violenta bellezza del paesaggio che mi circondava, non potei che restare a bocca aperta. Un vento rovente mi colpì in pieno viso in un turbinio di folate calde e sferzanti, le stesse che, probabilmente, avevano corroso quell'immense sculture di terra rossa, dei veri e propri grattacieli di sabbia che si stagliavano in forte contrasto con l'intenso turchese dei cieli privi di nuvole. Le montagne ululanti di Hijir.
 La sabbia scottava perciò corsi veloce in direzione del lago, incurante degli sguardi curiosi che mi seguivano come ombre. Sollevai la gonna e immersi i piedi fumanti fra le creste rinfrescanti color cianite di quello specchio d'acqua. Un momento. Dove erano finiti i miei pantaloni? L'orlo mi scivolò fra le dita e rimasi a contemplare l'immagine riflessa sottostante.
Incontrai per la prima volta quegli occhi dorati nel riflesso di quell'acqua cristallina e pura.
Sembravano ardere di luce propria come una candela in mezzo a una stanza avvolta dalle tenebre. Non si curava delle solitudine, brillavano senza sosta, instancabili, come  un fulmine improvviso che squarcia il cielo prima della quiete. Un braciere di infinita speranza che sfida con prepotenza l'impossibile. Non si poteva rimanere indifferenti di fronte a quello sguardo, non si poteva non credere ciecamente alle sue promesse. Quelli erano gli occhi di Odetta, la traditrice, una possente guerriera imprigionata nel corpo di un'esile bambina. Si poteva pensare di poterla spezzare come un fragile fuscello, verde, privo di germogli, per via del suo aspetto, ma la sua anima da ribelle non poteva che essere degna di affrontare le impetuose correnti di un fiume in piena, gli gelidi monsoni stagionali, la furia distruttiva del fuoco e i fremiti devastanti della terra. In lei sopivano quiescenti i gemiti primordiali della natura. E così doveva essere per il bene di tutti. Una voce incorporea parlò «C’è ancora così tanto da fare, amica mia» disse la ragazza intrappolata nello specchio del lago.
«Chi sei?».
«Forse volevi domandare, chi siamo?».
Quando quelle parole presero forma, la mia coscienza si fuse lentamente con l’immagine della ragazza e un pugno di consapevolezza mi fece attorcigliare le viscere. Lei era la personificazione della mia Akasha, energia pura e incontaminata, ed io, adesso, ero la sua, ero dentro di lei. Vedevo ciò che vedeva lei, sentivo ciò che lei udiva, le nostre terminazioni nervose fittamente intrecciate non erano più distinguibili. Istintivamente cercai di richiamare il mana sulla punta delle dita, ma fallì.  C’era qualcosa che lo bloccava, qualcosa che lo spegneva sul nascere, un muro che m’impediva di raggiungerlo, un…sigillo. Odetta annuì per entrambe. Allora non era una senza poteri.
Inumidii i polpastrelli increspando la figura che ricambiava il mio sguardo. Nel bel mezzo di una crisi di identità, Odetta non sembrava rispecchiare il mio stato d'animo, così come il mio aspetto. La sua pelle color del bronzo era perfettamente levigata, la sua chioma onice posava indomita e riccioluta appena sopra le spalle ad esclusione del ciuffo che dondolava davanti al suo viso, sfiorandole lievemente la clavicola sporgente. Non si trattava di un viso particolarmente bello, forse per via di quell'espressione accigliata o per quelle guance profondamente scavate, segno evidente di una carente nutrizione, o ancora per quella voglia marroncino-rossastra che le circondava l'orbita oculare. Risvegliata da quel torpore, mi accorsi che non ero sola. La riva del lago, dove avevo barbaramente immerso i piedi, pullulava di donne intente al lavaggio dei panni sporchi. Avrei dovuto avvertire il chiacchiericcio, ma lo avevano evidentemente interrotto per via dei miei inusuali atteggiamenti. Indossavano tutte dei copricapo per proteggersi dall'insolazione e degli abiti lunghi arrangiati con gli scarti di stoffa che si trovavano al mercato. Una di loro lasciò i panni a mollo per raddrizzare la schiena. Col braccio destro tamponava la fronte imperlata di sudore, con l'altra accarezzava dolcemente il ventre rigonfio mentre mi rivolgeva un sorriso caldo, bianchissimo.
Adesso sai chi sono disse di nuovo la voce interiore. Adesso sai chi sei. E tu devi proteggerci da mia sorella, ad ogni costo. Fino al giorno in cui non sarò libera. Non c’è molto tempo prima che lei si accorga di noi, lei può ancora sentirmi. Avvertì il pericolo bruciarci le vene. Il nostro respiro farsi affannoso.
Ma come farò a riconoscerla?
Tu l’hai già incontrata, rispose Odetta. Il suo corpo non è più quello che era un tempo, la trasformazione l’ha profondamente cambiata perché ha giocato con forze che non dovevano essere risvegliate.
La ragazza coi capelli d’argento? É lei Sibilla? Odetta annuì ancora una volta.
Odetta, tutti credono che tu…
Lo so Leona, va bene così. Non ho bisogno della gloria, ma che venga ristabilito l’ordine naturale delle cose e delle creature.
Ma come farò?
Non conosco la risposta. Questo dovrai scoprirlo da sola. Adesso è tempo che tu torni nel tuo corpo. Io sarò lì quando vorrai. Ma non violare mai il potere della natura o questo si rivolterà contro di te. Sii sua amica, sua compagna, sua sposa. È una forza gentile e premurosa che non conosce il male, ma nelle mani sbagliate può distruggere il mondo. Custodiscilo e preservalo insieme a Gabriel. Solo con lui sarete finalmente completi. Dovrete difendere il vostro campo, la barriera ha i minuti contati. E allora sarà la guerra. Una guerra che dovrete combattere insieme. Tenetevi pronti.
Adesso va. E sta attenta al maestro delle ombre e alla sua Akasha corrotta.
Chi è il maestro delle ombre?
Odetta?
Odetta??
 Non ricevetti mai una risposta.
Poi un formicolo lungo la trachea, un bruciore mi avvolse gli alveoli. E l’ossigeno esplose finalmente nei  miei polmoni. Ripresi a respirare.
****
«Leona! Leona, mi senti? Oddio, respira ancora! Respira, respira, cazzo se respira! Il battito sta accelerando. Ce l’ho fatta!» tuonò una voce rimbombandole nelle orecchie.
«Ottimo lavoro Gab!» aggiunse un’altra femminile scossa dai tremori del pianto e dell’euforia insieme. «Bè, ottimo forse è un parolone…» continuò tirando su col naso «Probabilmente al suo risveglio vorrà ammazzarti» disse adesso con un alone sbiadito di risata.
«Ci farà l’abitudine con…bè questo. Oh, non guardarmi così. Era la mia prima volta!».
«È viva» disse infine una terza voce sommessa, quasi soffocata «Il resto non conta».
Leona era troppo debole per aprire gli occhi ma cominciava pian piano a registrare i rumori attorno a sé, a riprendere confidenza con la sua pelle e il suo stesso corpo intorpidito dal dolore e comatoso per la lunga ipossia. Al momento il suo mondo era fatto di piccole e impercettibili consapevolezze, di sensazioni che poteva soltanto immaginare con la sua mente.
Delle braccia erano avvolte attorno a lei.
Il calore di un altro corpo che premeva contro il suo per proteggerla dal freddo.
Delle dita tremanti che le spostavano i capelli dalla fronte.
Dei baci teneri e lenti sulla testa.
Profumo di gelsomino e margherite scaldate al sole. Il suo Fabiano?
Una mano che stringeva la sua. Quella mano credeva di conoscerla. Il suo Gabriel?
E poi un dolore incandescente lungo il fianco che minacciò di privarla di nuovo dell’aria nei polmoni. Ma fu solo un attimo, poi sparì come tutto il resto.
«Per la barba di Majak, guardate come trema» disse ancora Morgana incapace di nascondere la preoccupazione nei suoi strilli. «Edna vieni qui!». Delle zampate pesanti fecero tremolare e increspare il terreno. Un’ombra scura si stagliò sopra le sue palpebre semichiuse e inghiottì quel poco di luce che filtrava dalle fessure. Un ruggito mascherato da un miagolio riverberò nella vallata.
«Potresti riscaldarla un po’ col tuo fiato» suggerì la sua amica.
«Già potresti trasformarti in un bue o un asinello...». Quella pessima battuta non poteva che avere suo fratello come proprietario.
«Adesso non diventare sacrilego» sbuffò lei irretita.
«Come vuoi dolcezza».
«Non chiamarmi così, credi di avere a che fare ancora con Dania?».
«Va bene, dolcezza. Mi piace quando fai la gelosa».
Morgana soffocò un grido e poi tutto quello che Leona credette di sentire fu lo schiocco sonoro di un bacio. «Scusa non sono riuscito a trattenermi. Mi fai impazzire quando ti arrabbi». Leona non poteva vederli, ma a giudicare da quel silenzio si immaginò la sua amica aprirsi in un timido ma raggiante sorriso.
«Ehi, le smancerie fuori da qui per favore» ci scherzò su Fabiano.
«Parla per te ragazzo, e ricordati la minaccia. Dicevo sul serio, spezza il cuore a mia sorella e io spezzerò qualcos'altro a te». I tre scoppiarono in fragorose e spensierate risate. Anche Leona, nascosta nel petto accogliente di Fabiano, sorrise serena dopo tantissimo tempo.
Più tardi, quando quasi tutti si rimestavano nel torpore di un sonno ristoratore, la protettrice captò un bisbiglio. «Come si può amare così tanto una persona?» la stretta attorno a lei si fece più ferrea pur mantenendo la dolcezza di quell’abbraccio. Dall’alto, correnti discendenti d’aria calda le soffiavano fra i capelli.
«In realtà speravo che non te ne saresti mai accorto, anche se persino un tonto come te prima o poi lo avrebbe notato. Ahi! Ehi, fa male!».
«Perché dici così? Tu non vuoi che…».
«Non vorrei nessun’altra persona accanto a lei, chiaro? Lei non vorrebbe nessun altro. Diamine ti sbava dietro da quando ancora non sapeva distinguere la destra dalla sinistra! Fabiano, mi fido di te più di chiunque altro al mondo, metterei la mia vita nelle tue mani senza pensaci due volte. Non è questo che intendevo»
«E allora?»
«Allora dovrò convivere col fatto che me la porterai via». Delle labbra le sfiorarono gentilmente le nocche.
«Non potrei mai farti una cosa del genere, lo sai. Gab, non andiamo da nessuna parte»
«Ma lo hai già fatto». Stesero in silenzio per qualche minuto con soltanto un fruscio corale di foglie a spezzare quella monotonia. Qualcuno le stava toccando i capelli.
«Anche tu adesso hai Morgana al tuo fianco».
«E spero che non abbandoni mai il mio fianco» dichiarò suo fratello con un po’ di amarezza in bocca «Ma non è la stessa cosa. Leona ha il mio cuore, ed io ho il suo, intendo proprio fisicamente. Ma c’è molto di più, un qualcosa che non so né descrivere né quantificare e con la quale anche tu dovrai fare i conti. Hai idea di cosa abbia significato per me sentirla morire, strappata via dal mio cuore, ed essere trascinati insieme a lei nel buio? Non lo augurerei nemmeno al peggiore dei miei nemici. E quella ferita? Ho un’ idea che continua a ronzarmi nella testa nonostante non abbia alcun senso. Quello squarcio nella carne è stato  un colpo deciso e netto, è stata infilzata con una precisione quasi maniacale. Uno squarcio largo quanto il piatto della lama di Symphony… Lo so, lo so, non dirmelo è assurdo, ma non riesco a smettere di pensarci».
«Gab, Symphony non si è mai mossa dal suo fodero, è stata sempre con te».
«Vuoi che con conosca la mia stessa spada? L’ho provata almeno un centinaio di volte sui manichini, so quello che può fare…io. Non lo so forse sto solo andando fuori di testa» sospirò.
«È sì mia sorella» continuò poi «eppure quello che ci lega è ancora più forte se questo fosse possibile. Forse non lo scopriremo mai, forse non ne abbiamo bisogno. Ma c’è una cosa che riconosco, quelle sono le mie debolezze e io ho ancora bisogno di mia sorella per combattere i miei demoni».
«Né io né lei ti lasceremo mai Gabriel. Mai. Questa è una promessa». Suo fratello rise piano per non svegliare la ragazza coi capelli rossi che dormiva accanto a lui.
«Non fare promesse che non potrai mantenere. Te lo dico, come amico, come fratello, come medjai» disse infine mettendo un punto a quella discussione. Eppure qualcosa inquietò profondamente il sonno di Leona. Nelle sfumature delle voce di Gabriel, Leona percepì come se suo fratello avesse visto trascorrere il tempo a mille anni luce da lì e che si fosse – com’è che avrebbe detto Noah? – spoilerato la fine di tutto.
«Non sarebbe meglio se lo tenessi io il ciondolo?» chiese Gabriel prima di sprofondare in un sonno profondo. Non seguì nessuna risposta affermativa o  di diniego, ma il corpo di Fabiano sotto di lei si irrigidì aspramente. Non seppe come, doveva essere tremendamente esausta. Anche lei scivolò in un beato stato di incoscienza, nonostante le pulsazioni del cuore del suo Fabiano le tuonassero irrequiete nelle orecchie.
******
«Ma che diamine è questa roba?» urlò angosciata la medjai. Si era alzata alle prime luci dell’alba, in forze e sazia di sonno per almeno un paio di giorni. Per cui non fu complicato sbraitare con la delicatezza di uno scaricatore di porto addosso all’artefice dell’obbrobrio che le avevano cucito sull’addome. L’ombelico era posizionato decisamente fuori asse e sistemato molto più in alto di dove avrebbe dovuto essere. Anni a scolpirsi faticosamente la tartaruga, volatilizzati via come fumo e ridotti soltanto a un pallido scarabocchio di ciò che erano. Sembrava che qualcuno le avesse vomitato sulla pancia un pezzo di carne informe per ostruirgli alla bene e meglio il foro che si ritrovava sul fianco ferito. La leonessa bianca accanto a lei faceva le fusa a mo’ di consolazione, rassicurandola che non era poi così male. Leona la zittì fulmineamente con un’occhiataccia delle sue e il felino abbassò le orecchie con la cosa fra le gambe, impaurita dalle scintille che le sfolgoravano negli occhi blu.
Gabriel inarcò un sopracciglio «Oh, ma grazie Gabriel! Sei il mio salvatore, il mio principe, il mio re! Senza di te sarei schiattata malamente! Non so davvero come ripagarti, potrei cominciare dal prostrarmi in ginocchio e baciare il terreno dove cammini» cercò di interpretare il piagnisteo di sua sorella.
«Sì, ti piacerebbe. Giuro che la prossima volta preferisco morire piuttosto che farmi curare da te! Guarda che disastro».
«Dai non fare la melodrammatica. Ti rimane sempre il tuo bel faccino. Al tuo ragazzo piaci già così» disse calciando un sassolino con indifferenza. Leona roteò gli occhi spazientita.
«Menomale che esistono le cellule mnemoniche» borbottò sottovoce lei trattenendosi dal bruciacchiargli le chiappe. «Le cellule mimosiche?» chiese Gab allungando il padiglione auricolare in direzione del bisbiglio della gemella furiosa.
«Mnemoniche, non mimosiche idiota! Sono quelle che conservano la memoria e l'esatta sequenza amminoacidica del DNA originale, e che riescono ad eliminare del tutto la mutazione con una...Senti lascia perdere, faccio io, eh. Stai lontano da me un chilometro per favore». La ragazza si strinse l’orlo della maglietta con un nodo all’altezza delle costole e mentre prelevava del fango dal terreno per applicarselo sulla ferita mal rattoppata domandò a Fabiano: «Per quanto tempo ho smesso di respirare?». I contorni della pelle lambiti dalle sue carezze si fecero liquidi al suo tocco caldo, raggrinzò la fronte e si concentrò sulla ricomposizione del puzzle del suo torso.
«All’incirca quindici minuti, forse un po’ di più» le rispose il ragazzo rabbrividendo al ricordo.
«Ma è impossibile» esclamò stupefatta «Parliamo di ischemia cerebrale. Una condizione secondo cui il cervello non riceve abbastanza sangue da soddisfare i propri bisogni metabolici. La conseguente carenza di ossigeno può portare alla morte del tessuto cerebrale, e di conseguenza all'ictus ischemico. In parole povere, il mio cervello si sarebbe irreparabilmente danneggiato, avrei dovuto ridurmi alla stato di un vegetale…» rifletté mordicchiandosi le labbra.
«Bè su quel fronte non vedo margini di miglioramento. O comunque se anche ti fosse andato in pappa il cervello non avresti notato la differenza» commentò Gabriel con un sorrisetto elfico, affilato e malizioso.
«Ah, ah, ah» rise senza entusiasmo la sorella «Quanto mi sarebbero mancate le tue battute».
«Dici sul serio?»
«No» lo stroncò lei focalizzandosi ancor più diligentemente sulla sua guarigione «sarebbe stata l’unica motivazione per cui sarebbe valsa la pena di morire». Fabiano si fece cupo in viso. Il ragazzo non pareva voler più menzionare la morte nemmeno per scherzo.
«Ora sì che ci siamo» esclamò soddisfatta Leona terminato il suo capolavoro.
«Bene, gli addominali sembrano tornati alla vecchia gloria, scolpiti da Michelangelo in persona. Non è che ne hai approfittato per fare qualche modifica?» le chiese Morgana, riapparsa dopo la passeggiata mattutina in mezzo al prato di fiori creato soltanto il giorno prima dalla protettrice. Leona e lei si fissarono reciprocamente, occhi sbarrati e labbra chiuse ermeticamente. La ferita fra loro pulsava ancora di dolore e vergogna. Leona si coprì la pancia, avendo ormai perso l’interesse nella sua opera d’arte, e provò a rantolare qualcosa. Di solito era Morgana la timida balbuziente fra le due, invece la ragazza si fece avanti e le disse «Abbiamo davvero bisogno di altre parole noi due?». I suoi occhi nocciola da cerbiatta sembravano sorridere al posto suo, i primi impacciati raggi di sole le indoravano le ciocche sericee accendendole di un rosso ancora più luminoso.
«No» le confermò Leona «ne abbiamo dette abbastanza e per non peggiorare ancor di più la situazione direi che un bell’abbraccio potrebbe essere un ottimo premio di consolazione» e si preparò ad accoglierla fra le sue braccia. Le scrutò così avidamente il viso in attesa di un suo cenno, che sembrava quasi che le stesse contando le lentiggini. Gli angoli degli occhi della rossa si assottigliarono disegnando un’espressione di vera contrizione nel suo volto e senza stare lì a rimarginarci più del dovuto, si strinse a lei cercando riparo fra i suoi capelli neri, il profumo di boccioli di rose come se li avesse appuntati fra le ciocche ondeggianti.
«Rimane il fatto che sia stata una grande stronza» le sussurrò Leona all’orecchio per non farsi sentire da Gab.
«Su questo mi è impossibile smentirti, stronzetta».
«Va bene, va bene, ma non prenderci troppo gusto, ok?» e le due lasciarono le parole non dette al vento. In effetti si erano già chiarite con lo sguardo, un grido reciproco di scuse che aspettava solo di essere accolto. Si conoscevano da troppo tempo per perdersi in discorsi farciti da belle frasi d’effetto. A loro era sufficiente quello, esserci l’una dell’altra. Quale miglior modo per fare ammenda alle proprie colpe? Leona prese la sua mano e non lasciò più, aveva bisogno di sentire il tocco della sua amica contro il suo.
 «Stanno per attaccare Betelgeuse. Manca poco al crollo della barriera» annunciò tetra ai tre.
«E questo come lo sai?» sbottò Gab.
«Me lo ha detto…un’amica» ci pensò su per un po’ prima di scegliere accuratamente quella parola «potete fidarvi e basta?» chiese speranzosa. Gab annuì anche se contrariato.
«Cosa vuoi che facciamo?» domandò Morgana con fierezza, afflitta anche lei al pensiero di una possibile invasione nella sua terra natia.
«Io devo portare i ciondoli a Londra, avete visto cosa potrebbe succedere altrimenti…quando avrò terminato vi raggiungerò e spero che non sia troppo tardi».
«Non sarai da sola» la assicurò Fabiano.
«Allora io, tu ed Edna andremo a liberare Hilde e Attila e…»
«Sai che c’è un modo per mettere fine a tutto questo prima che inizi…» le fece presente Gab, sbirciando sempre più insistentemente verso il ciondolo della Luna appeso al collo di Fabiano.
«Gab dobbiamo rispettare l’accordo firmato da Leona, la sua, anzi la vostra, sicurezza ha la priorità su tutto. Penso che su questo non ci sia bisogno di discutere» disse il possessore del ciondolo aspramente. Non lo aveva mai sentito così tagliente e categorico, e questo intimorì un po’ Leona.
Gab s’infilò le mani in tasca e distolse lo sguardo «Certo» rispose secco. La sorella aggrottò le sopracciglia per la facilità con cui aveva ceduto.
«Ma come faremo ad arrivare in tempo?» cominciò Morgana «Noi non…».
«Si da il caso che il qui presente, abbia dei talenti nascosti» si vantò Gabriel con aria tronfia. Qualcosa luccicò dentro le sue tasche.
«Dove l’hai presa?» si sorprese la rossa incrociando le braccia al petto.
«Si è attaccata come colla sui nostri vecchi vestiti. Erano pieni zeppi di polvere di fata».
«Ben fatto Gab!» si entusiasmò Fabiano. Dopo aver distribuito una razione per ciascuno per fare un viaggio di andata e ritorno, i quattro protettori ultimarono i preparativi per la partenza. Non impiegarono molto tempo, visto che il loro equipaggiamento scarseggiava ed era men che meno adatto a quello che li attendeva. Leona si assicurò le sue kopis sulla schiena, benedicendole per il fresco che penetrava dentro le ossa, e proprio mentre accarezzava il fianco della leonessa albina con le ali di drago, Fabiano le si avvicinò di soppiatto.
«Mi hai fatto venire tutti i capelli bianchi» la rimproverò Fabiano accigliandosi, affondando una mano anche lui nella criniera di Edna.
«Io non ne vedo» finse di sbirciare sopra la sua testa. Fabiano si morsicchiò le labbra e abbassò le lunghe ciglia sulle gote. Leona rischiò ancora una volta l’infarto.
«È colpa tua se sono quasi morta» disse la protettrice gustandosi il suo viso paonazzo «O meglio dei tuoi baci» specificò lei e spinse affettuosamente una spalla contro la sua. Sulle labbra martoriate del ragazzo sbocciò un timido sorriso «Sei sleale, Leona Braveheart».
«Per evitare che si ripeta, credo che dovremmo fare molta, molta, pratica. Non vuoi che al prossimo bacio ti svenga fra le braccia, giusto?».
«Te l’ho già detto che ti amo?»
Leona ci pensò un po’ su «Giusto un paio di volte, ma non crederai mica che sia sufficiente? Hai un debito spaventoso nei miei confronti»
«Sono pronto a pagarlo in qualsiasi momento» asserì con una scrollata di spalle. Il suo gesto sbarazzino non attecchì sulla ragazza che aveva già intravisto un guizzo di desiderio balenare nei suoi occhi azzurri. Allora lei lo prese per il colletto e lo baciò appassionatamente. Adorava il modo in cui sospirava fra le sue labbra, il fiato caldo dentro la sua bocca, le sue mani ingarbugliate fra i suoi capelli, i brividi che le lanciava lungo la schiena quando sussurrava il suo nome, i suoi muscoli che si scioglievano come miele al suo tocco, completamente perso e conquistato dalla foga del bacio. Perciò quando il ragazzo si irrigidì e sciolse l’intreccio fra le loro lingue, Leona accusò duramente il colpo di quella brusca separazione. Le sue labbra si increspano e tentò di schiarirsi la voce «ehm, Leona…».
«Non me lo dire» si rassegnò la protettrice «È dietro di me, non è vero?». Scrutò i cieli furiosamente come se fra le nuvole si nascondesse quel burlone che aveva dato vita a quella creatura invadente e dispettosa.
«Devo ammetterlo, non so se mi ci abituerò mai a…questo. Vorrei poter dire che non mi faccia ribrezzo ma…prego continuate a limonare come se non ci fosse un domani».
«Sparisci, Gabriel!»
«Solo una domanda: hai intenzione di spuntare un’altra casella alla lista di eredi del sire che intendi farti oppure vuoi fermarti qu..». Gabriel si slanciò agilmente di lato evitando per un pelo il globo di fuoco lanciato dalla gemella. Gabriel scoppiò a ridere e Leona si lasciò contagiare dal suo buonumore.
«Gab dobbiamo andare, o non arriveremo mai ad avvisare l’avanguardia e gli strateghi in tempo per organizzare una strategia difensiva». Il protettore annuì, strinse i denti così forte da limarseli fra loro, e le sue dita si contorsero come fringuelli nell’aria. Le correnti si addensarono ai suoi piedi, crebbero, vibrarono e si contorsero, serpenti marini che spiralavano attorno a lui. I vortici si opacizzarono ad ogni spinta del suo diaframma, il petto che gli ansimava per la fatica, fino a quando una nebbiolina vaporosa sì condensò nell’ambiente che li circondava, celandogli la vista della vecchia villa abbandonata. Poi Gab raccolse un pugno di polvere argentata e la gettò in mezzo alla bruma e il portale si spalancò davanti ai loro occhi, mostrandogli il nevischio accumulato lungo le sponde del fiume coda di boa. Prima di attraversare il portale, Leona diede un pizzicotto alla guancia di Gab e poi stampò un bacio sulla fronte facendogli promettere che non avrebbe fatto niente di avventato. Il fratello la stritolò dentro il suo abbracciò sollevandola da terra e le bisbigliò di essere soltanto una povera illusa. Leona dovette arrendersi a quella verità e fu molto più difficile per lei lasciarlo andare. Ma c’era Morgana con lui e doveva convincersi che sarebbero stati bene, che avrebbero resistito fino al loro arrivo, che…non sapeva esattamente a quale santi rivolgersi. Quando la nebbia si richiuse alle loro spalle, Fabiano era già pronto con la sua porzione di polvere, Edna si era accoccolata fra le braccia di Leona sotto forma di cucciolo meticcio per poter occupare meno spazio possibile, ma una voce intralciò la loro partenza. Leona non riconobbe subito l’uomo grassottello con un turbante in testa e una lunga barba nera screziata di grigio che le stava davanti, sudato e col fiatone grosso. Abbigliato come un visir, i suoi drappi orientali e setosi, tinti di giallo paglierino e verde smeraldo, parevano scoppiargli addosso e riuscivano a coprire davvero poco il lardo che gli prosperava un po’ da per tutto. Ma quel sorriso furbo, oh, medjia, quel sorriso malizioso e impertinente eliminò qualsiasi dubbio.
«Sarebbe questo il tuo vero corpo?» domandò Leona con un sopracciglio inarcato. Il custode del tempio dei segreti la ignorò o forse non l’aveva sentita dal momento che non smetteva di grufolare come un maiale.
«A quanto pare ho perso la scommessa» disse ansimando «Davvero non pensavo che ce l’avreste fatta ma, eccovi qui».
«Che cosa vuoi?» tagliò corto Leona dritta al punto. Il sudore che gli irrorava la fronte aggrottata gli colò sugli occhi e fu costretto a strizzarli, poi rantolò «Tu piccola medjai mi hai ridato la libertà, quando hai superato tutte le prove, il mio vincolo si è spezzato e ho potuto far ritorno alle mie spoglie umane. Anche se detesto ammetterlo, ti sono debitore. Se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti e che rientra nelle mie facoltà, sono a tua completa disposizione» si offrì maledicendosi seduta stante per il suo sconsiderato asservimento alla ragazza.
«E cosa dirà la tua padrona?».
«Io non sono più suo, il vincolo è sciolto» ripeté «faceva parte del contratto. Non le devo più nulla. Come non devo più del dovuto a te, spero che tu non mi abbia scambiato per il genio della lampada signorinella perché ne rimarresti profondamente delusa. In via eccezionale, solo per oggi, potrai chiedermi tutto ciò che vorrai».
«Proprio tutto?»
«Bè, certo, non prop…»
«Voglio che ti unisci al nostro esercito e che combatta al fronte al fianco dei protettori. Sei un maestro alchemico giusto? Le tue capacità ci torneranno sicuramente utili». L’alchimista la fissò attraverso i suoi astiosi occhi porcini ma alla fine con un sospiro si arrese e le porse una mano «Puoi chiamarmi Candle, mia giovane alleata. E se è quello che vuoi combatterò per te». Leona suggellò il patto con un stretta di mano.
«E c’è anche un’altra cosa»
«Adesso non esageriamo…».
«Come te la cavi con le trasmutazioni?».
«Non ti degnerò di una risposta o dovrei riempirti di epiteti volgari fino a domani mattina, irritante ragazzina. Non mi lascerò insultare da te, io sono il Gran Maestro delle arti Alchemiche!».
«Bene» asserì la medjai con un ghigno «Voglio che tu faccia una cosa per me e tutto dipenderà dalla tua abilità alchemica. Dammi prova di ciò che vali, Gran Maestro, e avremo una possibilità in più per vincere la guerra».
Il sorriso burlesco che gli tese le pingue guance arrossate, fece sperare Leona di aver trovato l’uomo giusto. Candle si inumidì le labbra, bramoso di desiderio, si arricciò un baffo col dito grassoccio e lanciandole uno sguardo di sfida le disse «Di che cosa si tratta, piccola medjiai?».

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Capitolo 56
*** IL GRANDE BOATO DI LONDRA ***


Capitolo 42 – il Grande Boato di Londra

Attraversare un portale fatato è un’esperienze di cui nessuno mai chiederebbe il bis. Le fratture nello spazio, per quanto utili, ti cambiano pezzo per pezzo. Si trattava di piccole e impercettibili differenze che però Gabriel notava chiaramente, come se una parte di lui rimanesse incuneata nella terra di mezzo dove avevano transitato anche se soltanto per brevi istanti. La magia, anche quella più semplice, chiede sempre un tributo equo in cambio. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Afferrò al volo un lembo del cappuccio della mantellina di Morgana, dispiacendosi subito per il gesto impulsivo.  La ragazza spalancò gli occhi per la sorpresa e puntò i piedi sugli argini scoscesi per evitare di far franare il terriccio eccessivamente drenato dalla neve sciolta, a pochi passi dal precipitare nelle canalette scavate ai lati del fiume.  Sospesa a qualche metro del letto del torrente, si strozzò con la fibbia di cuoio serrata sulla gola e represse un gemito fra i denti. Gab la tirò a sé evitandole di inzupparsi dalla testa ai piedi, e lei gliene fu grata. Gli scoccò un bacio sulla guancia e lo osservò intensamente, uno sguardo così penetrante che lo fece arrossire. Morgana avrebbe potuto scorrazzare in giro a vantarsene. Nessuna, ma proprio nessuna, esercitava un tale potere su di lui, o per lo meno ci sarebbe voluto ben altro per farlo avvampare. E questo un po’ lo spaventava.
«Siamo…a casa» annunciò con un sollievo non troppo convinto. Gab capì che stava pensando al padre e s’intristì anche lui, non soltanto perché voleva essere solidale con lei ma perché sapeva cosa stava provando in quel momento. Dolore. Prima una leggera incrinatura, poi la frattura, un frammento del suo cuore che non avrebbe trovato più il suo posto, non sarebbe stato mai più completo. Abbandono. Milioni di domande esasperanti, tutte alla ricerca di un’unica risposta: perché? Rabbia. Urla represse nel profondo, visioni appaganti del mostro dei suoi incubi che soffre atrocemente ai suoi piedi, completamente in estasi, persa nella piacevolezza di quel colpevole delirio.
«Dove sono finiti tutti?» si chiese Morgana occhieggiando la desolazione su per la collina, oltre le mura di cinta della cittadella, una volta brulicante di protettori.
«Vieni a vedere » la invitò lui. Il tono serio del ragazzo le smosse la terra sotto di lei e la convinse a precipitarsi senza indugio dove le aveva indicato. «Che cos’è?» esclamò alla vista della lastra trasparente dai contorni smussati che Gabriel reggeva fra le mani. Lui deglutì la bile acida che gli era salita su per la gola e sollevò lo sguardo in su e così fece anche la ragazza. Erano consapevoli della presenza dello scudo che avvolgeva il luogo sacro dove avevano vissuto fin dall’infanzia, sebbene invisibile per loro, e non avevano mai dato molto peso alle dicerie sul suo possibile tracollo, ma le chiazze più scure che si andavano a delineare contro l’azzurro del cielo cominciarono a far vacillare quella salda certezza. «Il crollo» esalò funereamente «è già cominciato. Il campo è vulnerabile». Lasciò cadere il pezzo della barriera dalle dita, scosse dai brividi.
«Se mia sorella ha ragione, sarà un bagno di sangue. I nostri nemici faranno la fila per poter avere anche solo un tentativo di sterminarci dal primo all’ultimo. È questo il prezzo da pagare per essere stati gli eroi di chi non conosce nemmeno la nostra esistenza».
«Dobbiamo avvertire gli altri. Gli strateghi devono sapere, dobbiamo preparaci al peggio» suggerì Morgana mangiucchiandosi le unghia.  «Che cosa stai facendo?».
«Non c’è tempo per avvertirli, devo creare un diversivo. E questo li rallenterà». Gli occhi blu di Gabriel non smettevano di fissare il flusso delle correnti dentro cui nuotavano i pesci, beatamente ignari di ciò che stava per accadere. Strinse le labbra, assottigliandosele a tal punto dal renderle esangui. Poi guardò la tremante rossa con le braccia inforcate sotto le ascelle, come se volesse proteggersi dal freddo che le pungeva le guance accese di un chiaro color scarlatto.
«Non avere paura» le disse lui accarezzandole il viso con il dorso della mano.
«Sai che non è il mio forte» piagnucolò lei, rinfrancata da quel tocco caldo.
Gabriel sospirò e sottrasse gentilmente le povere unghie della ragazza alla tortura che gli stava infliggendo «C’è una cosa che devi fare per me, Morgana. Devo essere assolutamente certo che tu stia dalla mia parte».
«Non mi piace questo tono…» cominciò incerta lei ma lui la interruppe bruscamente.
«Sappiamo entrambi che questa storia potrebbe finire male per tutti noi. Non siamo abbastanza per affrontare un esercito di creature sovrannaturali incazzate con noi per tutte quelle volte che li abbiamo presi a calci su per il deretano. Ma abbiamo una scappatoia, che può porre fine a tutto questo».
Morgana annuì comprensiva «Leona non sarebbe d’accordo, la conosci meglio di me».
«Lo so, dannazione a lei e al suo cuore di panna. Ed è proprio per questo che quando ne avremo l’occasione dovrai prenderle il ciondolo blu e darlo a me. Io farò ciò che deve essere fatto. Non lascerà mai avvicinarmi a lei, è troppo furba, lo avrà già previsto perché sa cosa voglio. Ma tu, non se lo aspetterebbe mai da te, la coglieresti di sorpresa».
«No. Assolutamente no, non posso farle una cosa del genere, Gab. Non di nuovo».
«Preferisci vederla morire? Non lo capisci, la sua mente è offuscata da quei succhia sangue, ha perso completamente la bussola. Odierà anche me all’inizio, ma è un rischio che sono disposto a correre. Non potrà avercela con noi per sempre, prima o poi le passerà e magari ci sarà addirittura riconoscenti».
«Stiamo parlando della stessa Leona? Il rancore fatto persona? Continua pure a sognare l’utopica gemella che non esiste…».
«Non fingere di pensarla diversamente Morgana. So che sei d’accordo con me, sai che l’unico modo per spazzare via i nostri nemici è quello di usare il talismano di Frieda. Nessuno dovrà più soffrire, saremo liberi. Te lo immagini un mondo in cui non saremo più costretti a impugnare una spada per difenderci? Un universo dove il domani non è più incerto. Basterà un unico pensiero, una prigione creata su misura per loro e butteremo la chiave sul fondo dell’oceano». Morgana si morse le labbra e rifletté a lungo. Quando giunse al verdetto finale, Gab temette che le stesse per esplodere il cervello.
«La amiamo entrambi» aggiunse Gabriel cingendole le spalle «e faremo solo ciò che è meglio per lei e per tutti noi».
«Fermi lì!» tuonò una voce «Non date un altro passo!». Gab gettò un’occhiataccia ai nuovi arrivati. Tre protettori dello squadrone anti-vampiro. Le bocche dei loro fucili spara paletti puntate sulle loro teste pronte a vomitargli la morte addosso. I due ragazzi sollevarono lentamente le mani sopra la testa. Gab sentiva Morgana tremare al suo fianco.
«In ginocchio, ora!» gli urlò quello al centro, schiumante di rabbia e follia. Mentre si abbassavano, la neve gli inumidì la stoffa dei pantaloni, l’umidità che gli penetrava dentro le ossa. Osservò in tralice la sua Morgana. Non poteva difenderla dal gelo che le s’insinuava nella carne come spade di ghiaccio e si maledisse per questo.
«Sono il medjai e la troietta rossa, la figlia del bastardo!» li riconobbe il più giovane, accanendosi sulla presa dell’arma. Morgana sussultò all’improperio gratuito del cacciatore di vampiri irrispettoso della sua perdita. Gab divenne un fusto di legno nei cui vasi linfatici scorse furiosa una rabbia accecante.
«Suo padre un bastardo?» ghignò lui raccogliendo veleno a sufficienza sulla lingua per sputarglielo addosso «Piuttosto compatisco il tuo povero vecchio.  Non hai fratelli a quanto pare. Deve aver imparato la lezione il giorno che ha dimenticato di usare il preservativo con quella baldracca di tua madre!»
Il protettore tremò in preda alla collera e per poco non allentò il dito sul grilletto «Prova a ripeterlo se ne hai coraggio, coglione! O vuoi che ti zittisca conficcandoti un paletto al centro degli occhi?».
«Oh, avrei qualche suggerimento su dove potresti ficcarti il tuo amato paletto…».
«Stai calmo» lo placò quella accanto a lui. «Valchiria li vuole vivi. Gli servono per il sacrificio».
«Al diavolo Valchiria e il suo sacrificio! Sparo in bocca al moccioso così imparerà a tenere a freno la lingua» disse prendendo la mira.
«Io non credo che lo farai» suggerì qualcuno alle spalle dell’uomo. Ebbe appena il tempo di voltarsi e fare conoscenza ravvicinata con l’asta di legno di una lancia. Cadde all’indietro e la bocca gli si inondò di sangue. Sputò qualche dente in mezzo alla neve mostrando al suo aggressore la sua nuova dentatura a scacchiera.
«Che schifo! Tesoro, non sei troppo grande per la fatina dei denti? Non aspettarti la mancia sotto il cuscino stanotte» disse la ragazza assestandogli un calcio dritto nei gioielli di famiglia per scongiurare la possibilità di una probabile futura progenie. Il protettore pigolò con note acutissime, affondò nella neve e non riemerse più. Un sorriso provocatorio sbucò sulle labbra carnose di Caterina, la punta della lancia ancora incrostata di un rosso scuro e rappreso. Non aveva ancora avuto modo di pulirla dalla precedente battaglia. Dietro di lei, Ethan, Marlena, Ascanio e Norman avevano sguainato le loro armi, la tensione viva dipinta nel viso di ciascuno di loro.
«Marlena, mamma non sarebbe contenta di sapere con chi te ne vai in giro» l’avvisò il biondino al centro con un accenno di peluria sul mento.
«Molto probabile, Alessio. Ma lei non è qui adesso».
«Perché non l’hai seguita. Non è più sicuro stare qui».
Il vento soffiò e una trama di capelli biondi ingarbugliati le coprì il volto accigliato, chiazzato di sangue «È bastato che la barriera cigolasse appena per fargliela fare nei pantaloni. Lei e papà sono fuggiti via come il resto degli altri codardi, indegni di portare il nome di protettori.  Ma io sono qui e non ho intenzione di andare da nessuna parte».
«Cosa c’è che non va in te?» le domandò inorridito il fratello maggiore «Abbiamo fatto evacuare i bambini e gli anziani. Siamo rimasti in pochi, il campo è finito! Il consiglio degli strateghi è durato per ore e persino loro non sono riusciti a cavare un ragno dal buco. Hanno valutato tutti i possibili scenari e le probabilità vanno decisamente a nostro sfavore. Siamo preziosi! Se ci sterminassero tutti chi proteggerebbe gli umani? Non siamo codardi Marl, dobbiamo preservare la nostra specie. Ci massacreranno, non lo capisci?».
«Preferisco morire sapendo di aver almeno tentato di difendere la terra dei miei antenati, piuttosto che vivere una vita lunga da infida vigliacca e lasciare che il sacrificio di chi abbiamo amato vada sprecato». Ascanio la guardò con tenerezza e intrecciò le dita con le sue.
«Vaffanculo, fa come ti pare»
«Non ti stava chiedendo il permesso» la difese Ascanio grugnendo per l’irritazione.
La matematica doveva essere la specialità delle due sentinelle di Valchiria perché consci di essere schiacciati dalla superiorità numerica di quei cinque adolescenti armati fino ai denti, decisero di battere la ritirata defilandosi dall’alterco lanciando occhiate oblique alle loro spalle. Dovettero trascinarsi dietro il loro amico ormai eunuco che non la smetteva di lagnarsi del freddo della neve con vocina stridula.
«Che tempismo, non c’è che dire» si congratulò Gabriel. Morgana gli sfiorò il gomito e lo ringraziò silenziosamente per aver preso le sue difese.
«Dove sono Leona e…Fabiano?» domandò Ethan visibilmente angustiato.
«Vuoi dire la tua ex e il tuo fratellino?»
Ethan sgranò gli occhi su di lui e per un attimo smise di respirare «Tu…te lo ha detto lui?».
«Ci raggiungeranno» lo rassicurò.
«Spero prima che ci facciano a fettine» osservò Ascanio grattandosi la testa rasa.
«Che significa “fratellino”?» sbottò Marlena. Nessuno la degnò di una risposta, non ce n’era il tempo.
Morgana passò frettolosamente in rassegna i membri della sua squadra e la sua fronte si corrucciò «E Fabrizio? Lui…».
«Sta bene» sospirò Norman rinfoderando la spada nella guaina «Se così si può dire. Durante la cena ha mangiato un frutto proibito, un grappolo d’uva in mezzo alla cesta del centro tavola. Adesso è schiavo di una driade fino a nuovo ordine della regina».
«Non ci pensare» lo consolò Caterina piantandogli un pugno sulla spalla «Di certo quattrocchi se la passa meglio di noi». Norman si massaggiò con le lacrime agli occhi la contusione lasciata dalle nocche della sua amica. Ascanio cominciò a riflettere ad alta voce «Saranno rimasti più o meno una trentina di protettori in tutto il campo fra Sirio e Betelgeuse, più gli scagnozzi del consiglio dei sette. Potremmo resistere sulle prime ma non siamo preparati a rispondere all’attacco di ondate numerose. E adesso che facciamo?».
«Combattiamo» propose Marlena come se non ci fosse nulla di più ovvio al mondo.
«Per una volta quoto la bionda» disse Caterina con un ringhio «Devono smammare da casa nostra».
Morgana a quel punto intervenne «Immagino che Leona e Fabiano chiederanno aiuto a Londra, a tua madre» aggiunse rivolgendosi a Ethan «Ma noi dobbiamo temporeggiare finché non arriveranno i rinforzi».
«E qui ritorniamo al nocciolo della questione. Ci avrei già pensato io se non mi avessero interrotto. Ho io il diversivo che fa al caso nostro». Gab annuì fra sé con i pugni piantati sui fianchi e l’aria di chi ha progettato il piano del secolo.
«Norman, coda di boa percorre l’intera vallata, è corretto?» domandò lui.
«Sì, o per lo meno considerando il lato occupato da noi, taglierebbe fuori il bosco, l’arena, la radura, la pseudo metropoli dei Romani e tutto il resto. Ma l’antica cittadella e le altre strutture si trovano ad est del fiume. Perché?».
«È quello che pensavo. Bene, siete pronti ad assistere all’evento più spettacolare della vostra vita?».
«Non creerei così alte aspettative se fossi in te, Gabriel» lo punzecchiò Marlena.
«Be’, ti consiglio ti lavorare sulle migliori scuse di cui sei capace, perché penso proprio che ti lascerà a bocca aperta» disse chiudendo gli occhi, interiorizzando l’ambiente intorno a lui. Si sintonizzò sulle frequenze canore dell’acqua, sul suo mugghio fragoroso e scrosciante, sulle creature che vivevano in essa,  sulle singole particelle che lo componevano, e spinse col mana che lo bruciava dall’interno. E il fiume rispose senza opporre resistenza. Obbedì accondiscendente, riverente e ossequioso del suo potere, riconoscendo in lui il vero medjai. Dapprima impacciato e assopito come una creatura dei boschi nel pieno del letargo abbandonò il suo letto di acciottolato e alghe e si protese verso di lui. Caracollò in una danza sinuosa e fluida, e serpeggiando leggero si allungò verso l’alto, sempre più su, come se volesse crescere per toccare il suo fratello cielo. Ma proprio prima che potesse sfiorare le nuvole col suo bacio umido, si solidificò. Un’onda colossale costituita da centinaia di metri cubi d’acqua libranti leggiadri per aria, rinsaldati in un muro compatto di correnti impossibile da valicare. Tutto ciò che venne ingurgitato sotto la sua ombra divenne buio. Gabriel fece ciondolare le braccia doloranti lungo i fianchi, ricaricò le energie e ordinò ai venti gelidi d’infrangersi sul muro d’acqua. La bufera si abbatté su di essa e nei punti dove impattava il fiume si congelava, cristallizzando la muraglia in una immensa scultura di ghiaccio che luccicava fiocamente sotto i raggi del sole. Terminato il crepitio dei cristalli di ghiaccio nascenti, ci fu solo silenzio. Nessuno aveva più voglia di inquinare quella pace, o forse le loro mascelle si erano spalancate al punto di slogarsi per la meraviglia. Gabriel era esausto, prosciugato fino al midollo, e per poco non molleggiò sulle sue stesse gambe. Ma come aveva riflettuto prima, la prima legge della termodinamica, sgraffignata per sbaglio da uno degli innumerevoli cassetti della memoria di sua sorella, lampeggiò a intermittenza nella sua mente. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. L’entropia del suo potere elementale aveva richiesto energia e l’aveva risucchiata dall’ambiente che lo circondava. Aveva sottratto la magia dal sistema, aveva disintegrato le fondamenta della cupola invisibile che aveva protetto il campo per secoli. E così infierendo sulla sua invalidità, come a un zoppo a cui spezzi le ossa delle gambe, qualcosa sopra le loro teste esplose in un frastuono fragoroso di mille pezzi di vetro sfavillanti, quando trafitti dalle lame solari. Nessuno dei sette protettori rimase ferito perché ciò che è intessuto di invisibilità non avrebbe potuto scalfirli. Erano illesi, ma nudi in balia del mondo crudele tagliato fuori dalla loro oasi pacifica.
La barriera era finalmente crollata.
Una barriera magica edificata dai più grandi stregoni mai esistiti barattata in cambio di un muro di ghiaccio, costruito dalla mani di un medjai. Avrebbe potuto essere sufficiente, ma Gabriel non smetteva di chiedersi se avrebbe retto abbastanza a lungo.
*****
 «È questo il posto?»
La protettrice si strinse nella mantellina. Il ciondolo del sole pareva voler sfidare la coltre di nubi che si era addensata sulla perennemente uggiosa Londra. Le scottava sul petto. Non le lasciava mai spazio all’intimità delle sue emozioni anche se avrebbe voluto tacerle racchiudendole dentro di lei.
Le edere, le colonne e la cancellata arrugginita di Highgate non avrebbero potuto decadere granché nel giro di appena una settimana. Una settima. A Leona sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta che aveva incontrato l’antico vampiro a capo di una delle sette più pericolose al mondo e la sua apparentemente innocente figlioletta dai capelli d’oro, la banshee. Ed era lì per svincolarsi una volta per tutte da quel contratto. «Andiamo» disse al falco che volava sopra di lei e al ragazzo che la teneva per mano. Invidiava l’eleganza e la disinvoltura con cui indossava l’alter ego del suo gioiello, ma soprattutto come non mostrasse nessun segno di cupidigia nel voler approfittare illecitamente del suo immenso potere. Ormai padrona di casa, lo condusse in quell’intricata foresta di lapidi e felci sforzandosi di ricordare il percorso verso la cripta dove aveva “allegramente” sorseggiato dell’ottimo oolong.
Il falco si fiondò giù in picchiata planando sul terriccio poco prima della collisione. I suoi artigli mutarono in lunghe zampe pelose, il becco acuminato in fauci grottesche e le ali in un torso muscoloso e zebrato. La tigre avanzò aggraziata in mezzo alla sterpaglia come se fosse il suo elemento naturale, senza lasciare il fianco della ragazza. Fabiano si guardò velocemente attorno accarezzando l’elsa della sua spada appesa alla cintura «Questo posto mette i brividi».
Dovresti vederlo di notte, commentò sarcastica Edna. Leona sorrise alla tigre lasciando il protettore perplesso sul suo inatteso spruzzo d’ilarità.  Stava per chiedersi ad alta voce dove fossero finiti i due, ma il ruggito che riverberò nel cimitero le fece sbattere la domanda contro i denti costringendola a ritirarsi giù per la gola da dove era venuta. Edna balzò di scatto graffiando l’aria con un miagolio strozzato, la coda che le oscillava nervosamente irta sul suo posteriore.
«Micettooo!» cinguettò la vocina di una ragazzina cercando con foga di acciuffare l’appendice sfuggente del felino. Edna fece appena in tempo a riconoscere la piccola banshee prima di sfigurarle con una zampata il visino già abbastanza compromesso dai trascorsi con il suo fratellastro pazzo e omicida. Si arrese con delle fusa remissive che la dicevano lunga su quanto le irritassero le attenzioni morbose di Hilde, ma si lasciò sbaciucchiare sul muso senza protestare.
«Ciao piccolina» la salutò cordialmente Fabiano ignaro che la piccolina in realtà fosse più grande di lui. Leona non glielo fece notare e optò per non guastare quel suo tenero gesto educato. Hilde gli rivolse un sorriso raggiante sebbene deturpato dalle cicatrici dell’ustione. Con una stretta al cuore, Leona si sorprese a pensare a quanto sarebbe stata bella se non ci fossero state. La piccola marciò fino a collocarsi sotto di lui per poterlo osservare meglio dal basso della sua statura minuta. Se lo mangiò letteralmente con gli occhi poi, abbassando la voce, bisbigliò a Leona «È carino il tuo fidanzato!» e le fece l’occhiolino come se fosse sua complice. La protettrice sentì il calore esploderle sulle guance al solo suono della parola fidanzato e non riuscì a nasconderlo. Fabiano ridacchiò e in un gesto galante le prese una mano stampandole un bacio sulle minuscole nocche «Anche tu sei molto carina, signorinella». Inevitabilmente anche Hilde subì il fascino del brunetto spettinato con quei profondi occhi azzurri e arrossì come la protettrice. La ragazza apprezzò sinceramente la delicatezza con cui Fabiano evitò di concentrarsi sugli sfregi che le correvano dall’occhio destro fino all’angolo della bocca.
«A Hilde piace!» dichiarò tutta contenta «Hilde può tenerlo con se? Per favoreeee!» implorò Leona con un irresistibile broncio. I due giocarono di sguardi e poi acconsentì trattenendo a stento le risate «Immagino che una volta uscita di qui, potremmo dividercelo a turno». Ad un tratto la bimba si accigliò, i suoi occhietti a mandorla persi in un mondo di fantasie di cui lei era la indiscussa protagonista. Teneva ancora la mano di Fabiano fra le sue e scrutava avidamente le linee tracciate sul suo palmo quando le disse «Oh, come mi piacerebbe. Ma lui è il Signore delle fate. È destinato a portare la corona». La ragazzina scosse la testa e fece un singhiozzo sommesso. La scarica elettrica che le fulminò la spina dorsale in tutta la sua lunghezza l’avvertì che le parole pronunziate dalla banshee avevano tutto il tono solenne di una profezia. Leona si sentì soffocare i polmoni.
«Cosa hai dett…» provò a chiedere Fabiano.
«Hilde!» proruppe una voce tuonante e furiosa. Edna ringhiò cupamente per la sorpresa e si preparò a proteggerli. Attila era sfrusciato fuori dall’erba alta come una lince silenziosa. Il vecchio barbaro immortale incenerì la figlia con lo sguardo più fiammeggiante e intransigente che Leona avesse mai visto.
«Che cosa avevamo detto riguardo alla lettura?» continuò lui imperterrito scoraggiando implicitamente i due protettori a non interromperlo nel bel mezzo della sua lezione educativa. Fabiano indietreggiò furtivamente, misurando ogni passo con cautela.
«Ma papà! Hilde…»
«Ah!» la zittì lui «Non ho sentito!».
Hilde sbuffò dalle narici sollevando per aria uno dei tanti ciuffi dorati che le sfuggivano dalla treccia in disordine. Lasciò cadere la mano di Fabiano con reticenza e recitò petulante la filastrocca che sembrava ricordare a memoria «Non si deve leggere il futuro degli estranei a meno che loro non lo vogliano!».
«Molto bene. Ma non credere di esserti risparmiata la tua punizione, ne riparleremo dopo». Poi rivolgendo la sua attenzione su Leona applaudì «Tu, mia cara, sei davvero un fenomeno della natura. La ragazza che riporta in vita le leggende! Ma guardatela così fiera con i suoi bottini leggendari! Non mi sorprenderebbe se un giorno scoprissi l’ubicazione del Santo Graal. Non ti rendi ancora conto di ciò che hai fatto vero? Oh cielo, salve giovanotto! Se avessi saputo che avresti portato degli ospiti ci saremmo abbigliati come si conviene» squittì infine, galvanizzato dalla vista dei gioielli di Imir. Le sue occhiate erano fameliche. Accarezzando la schiena della sua tigre, Leona si fece coraggio «Attila, dov’è il contratto?».
Il drappo di trecce confuse che gli calava a tendina sul viso vibrò e  fu scosso dalle risate sguainate del vampiro. «Mia cara, hai mai sentito parlare di preliminari?».
«Credo che siano sopravvalutati. Preferisco andare al cuore del problema e affrontarlo immediatamente, soprattutto quando ho un impegno imminente altrove. Quindi spero tu possa perdonare la mia sgarbatezza, ma questa volta temo che non avremo tempo per il tè. La mia merce di scambio è esposta qui in bella vista, nel caso in cui avessi qualcosa da obiettare. Ora ti ripeto la domanda: dov’è il contratto? Voglio che lo stracci davanti ai miei occhi».
«Ha fatto male, non è vero?» disse il vampiro infilando l’unica mano che gli era rimasta nel tasca del suo cappotto. A Fabiano non sfuggì quel particolare e deglutì non troppo silenziosamente.
«Sarei felice di dartene una dimostrazione, così, tanto per fartene una vaga idea». Attila rise ancora, un latrato tuonante nel bel mezzo della selva. Poi, con un un gesto fulmineo, della carta sfrusciò dalla sua tasca e le srotolò la pergamena sotto il naso. Gliela porse abbassando riverente la testa sul petto, imitando un inchino «Vuoi avere tu l’onore? In segno della mia buona fed…». Qualcosa artigliò come un rapace il contratto che pendeva dalle dita annerite del vampiro, così velocemente che Leona faticò a capire di quale creatura si trattasse. In un attimo era già stato fatto a brandelli. Coriandoli di frammenti cartacei che si libravano senza peso davanti ai suoi occhi stupefatti da quell’improvvisa rapidità. Quando ebbe finito di ridurla in minuzzoli piccolissimi, Fabiano sospirò come se ne fosse abbastanza soddisfatto. Le vene che gli pulsavano sotto il sottile strato di pelle lungo il collo le suggerirono che stava cercando disperatamente di vincere la sua lotta interiore contro la rabbia. Neanche lui doveva essere un fan dei preliminari. I suoi occhi ingrigiti dal cielo nuvoloso la intimorirono.
«Bene» sputò tutto d’un fiato «adesso possiamo procedere con lo scambio». La sua voce era dura come una lastra d’acciaio.
«Suppongo di sì» confermò irretito l’ex capo della setta dei sanguinari «Oh no» lo fermò a metà gesto Attila mentre il protettore si sfilava dal collo il talismano blu «Non avrei alcun potere su di esso a causa delle mia natura. Vorrei, però, che fosse miss Braveheart a procedere con l’incantesimo, se non le dispiace» disse stringendosi nella spalle. Il ciondolo del sole già penzolava sul ventre della piccola Hilde, come se Leona non vedesse l’ora di liberarsi di quel peso. Fabiano si limitò ad annuire e fece delicatamente scivolare l’oggetto sul palmo della ragazza. Le sue dita si chiusero attorno alla pietra e  quel tocco gelido la ustionò.
«Pensavo che questo momento non sarebbe mai arrivato…» bisbigliò fra sé il vampiro spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio della figlia. Poi s’inginocchiò davanti a lei e le sfiorò la cicatrice con le sue labbra esangui da cadavere. «Hilde» la chiamò suo padre «È arrivato il momento di fare le valigie, mio amore. Ce ne andiamo di qui» terminò con disprezzo, con un livore così antico che solo un vampiro della sua veneranda età poteva esprimere. La ragazzina si esibì in un gridolino gioioso, spalancò le braccia e si precipitò dentro la cripta fingendo di essere un aeroplanino con tanto di mitragliatrice incorporata. La guerra non doveva essere stata facile nemmeno per lei. Attila la seguì poco dopo, i fili d’erba che si ritraevano da lui, arricciandosi su se stessi, come se il diavolo in persona stesse camminando in mezzo a loro. Di certo non aveva un futuro da giardiniere.
«Ehi, va tutto bene?» domandò Leona tastando il fascio teso dei muscoli di Fabiano, restio ad abbandonare quell’espressione austera che mal si addiceva ai suoi lineamenti.
Il ragazzo prese una delle sue ciocche corvine e si mise a giocherellarci con aria assorta «Cosa avrà voluto dire Hilde?». Era più che normale che quella profezia nebulosa lo avesse turbato.
«Non ne ho idea» gli mentì spudoratamente «Ma una persona mi ha insegnato che il futuro è nelle nostre mani e può sempre cambiare» disse ripensando un po’ a quello che aveva visto nello specchio. Un re e una regina, ma di regni diversi. Quel pensiero fu una spina conficcata nel cuore.
Proprio mentre gli si fece più vicina per poterlo baciare, sentì picchiettarsi sulla schiena. Hilde era già di ritorno con un grazioso cappello a fiori, dei lunghi guanti abbinati e l’immancabile bambola di porcellana sotto braccio. Dove poteva aver trovato degli oggetti così raffinati in un cimitero? La piccola fissava con morbosa curiosità il nastro scarlatto attorcigliato al suo polso come se lo avesse notato per la prima volta.
«Come è bello! Però questo non è tuo» disse afferrando l’estremità del fiocco, ma non appena lo fece fu impossibile non accorgersi come lo stupore avesse raggiunto ogni angolo del suo viso. Sbatté le lunghe ciglia come per scacciare un pensiero, si guardò alle spalle, probabilmente per controllare che il padre non fosse nei paraggi, e arricciò le labbra sigillando il segreto dentro di lei.
«Che c’è?» sbottò Fabiano con più impeto del necessario «Hai visto qualcosa?».
«Hilde non vede nulla. Hilde sente» ci tenne a correggerlo allontanandosi da lui chiaramente impaurita dal suo slancio. Fabiano capì l’errore e si affrettò a correggere il tiro vellutando la sua voce fino a renderla un leggero sussurro «Va bene, piccola. Allora, cosa hai sentito?».
La piccola scrollò la testa in segno di diniego, palesandogli la sua irreprensibile incorruttibilità.
«Ti prego Hilde» la supplicò lui ancora più soavemente «non infrangeresti nessuna regola se sono io a chiedertelo giusto? Puoi farlo per me?». Leona lo guardò inorridita. Stava cercando di corrompere una bambina? Che cosa voleva da lei? Perché era così importante per lui… Oh, merda!, comprese troppo tardi le sue reali intenzioni.
Leona tentò di sviare il discorso «Ma cosa dici Hilde, certo che è mio. È stato lui a regalarmelo». La bambina ormai troppo intestardita scosse energicamente il capo ancora una volta. Hilde le sventolò un dito accusatorio sotto il naso «Non ne aveva il diritto. Solo la legittima proprietaria avrebbe potuto farlo e si da il caso che non sia d’accordo».
«Sta a sentire piccola» cominciò pazientemente Leona posandogli le mani sulle spalle con fare rassicurante «È impossibile. Vedi, la sua proprietaria…» fece attenzione a non pronunziare il suo nome ad alta voce «non c’è più. Devi esserti sicuramente sbagliata…».
«Leona Braveheart» disse infine la banshee perforandola con un’occhiata carica di biasimo «Arianna non ti ha insegnato che non si dicono le bugie? Lei è viva!». Leona si congelò all’istante e perse la sensibilità delle gambe. Era rimasta senza nient’altro da dire, incapace di controbattere all’insinuazione capricciosa di una bambina. Le mancò il coraggio di girarsi verso Fabiano…
«Ecco» aggiunse fieramente, tenendo il nastro fra le dita «Hilde ha fatto un incantesimo di smarrimento. Quando sarà vicina, le andrà incontro, così potrai restituirglielo tu stessa».
«Hildeee! Dove è finito il mio set da tè del 1700?!» giunse lo strillo di Attila dalle profondità delle cripta. La bambina le sorrise e trotterellò ubbidiente in aiuto del padre. Ignara di aver sganciato una bomba nucleare alle sue spalle, scomparve oltre l’ingresso lasciandola sola con il protettore e ai loro scomodi chiarimenti.
«Mia sorella è…» lo sentì dire quasi in un bisbiglio «E il reperto allora? Ma come è possibile?» si domandò con la gioia e l’incredulità che facevano a botte dentro di lui.
«Per la barba di Majak, è…incredibile! Mia sorella è viva!» era a un passo dallo scoppiare in lacrime. Leona non aggiunse nulla né partecipò o condivise la contentezza di quell’incredibile scoperta con lui. Fissava per terra come se avesse perso da qualche parte la sua dignità. A Fabiano servì una semplice sbirciata per leggerle quello che le passava per la testa. Leona vide la sua gioia prorompente e incontenibile sgonfiarsi come un palloncino e trasformarsi in qualcosa di decisamente peggiore. Avrebbe voluto essere uno struzzo in quel momento e nascondere la testa sotto la sabbia aspettando che quella burrasca passasse. Invece incontrò i suoi occhi e, Dio, quanto le fece male.
«Ti prego. Dimmi che non è vero. Dimmi che tu non lo sapevi!». La protettrice si astenne dal rispondergli. Non voleva mentirgli, ma non aveva ancora abbastanza forza anche solo per pronunziare una parola. Pareva che qualcuno le avesse messo le mani attorno al collo e la stesse soffocando. Edna si accucciò sull’erba con le orecchie basse. «Da quanto tempo?» insistette lui incapace di nascondere il dolore nella sua voce. Leona strinse i pugni e sostenne il suo sguardo umido «Io non ne sono sicura…».
«E questo cosa significa? Pensi che sia uno stupido?». Quel tono astioso le fece rivoltare le viscere e la ferì più di un gancio destro nella mascella.
«No, certo che no» inspirò pesantemente.
«La guerriera in armatura. Nel regno delle fate» chiarì infine senza mezzi termini. Gli occhi di Fabiano gli uscirono fuori dalle orbite e serrò i denti.
«Io…sono riuscita a smascherarla. Ho visto oltre il suo elmo ma, Fabiano, ne ha solo l’aspetto. Non è più lei, non è più la Sara che vive nei tuoi ricordi. Ha ucciso Carlotta a sangue freddo. Perché mai avrei dovuto provocarti una sofferenza simile sapendo quanto ne saresti rimasto deluso?».
«Magari la decisione spettava a me, non credi? O non merito nemmeno tanta considerazione?» Leona non lo aveva mai visto così in collera e le fece ribrezzo quanto in quel momento avesse in comune col padre.
«Siamo d’accordo entrambi sul fatto che ho commesso un errore a tenertelo nascosto» ammise a capo chino e le guance in fiamme.
«Ne siamo proprio sicuri?» sorrise lui ma senza alcun accenno di spensieratezza. «Comincio a pensare che tu ci abbia preso gusto a tenere a caldo i tuoi segreti e persino quelli altrui. Non ne avevi il diritto Leona. Quella è mia sorella. Avremmo potuto fare qualcosa, avrei…tu sapevi esattamente quanto lei contasse per me e mi sei rimasta accanto tacendomi deliberatamente quello che avevi scoperto. Come hai potuto? Ma certo, nella sala degli specchi…Sara ha cercato di parlarmi mostrandomi quelle cicatrici». Leona fece per allungare le dita verso di lui ma non si lasciò nemmeno sfiorare. La guardò come se fosse disgustato al solo pensiero che potesse toccarlo ancora una volta. Qualcosa si ruppe dentro di lei, ma i suoi pensieri erano così in subbuglio e terrorizzati dal suo disprezzo che non riuscì a capire esattamente cosa in lei fosse andato in pezzi. Scosse la testa amareggiato «Credevo di poter contare su di te».
«Oh, andiamo ma che ipocrita!» ringhiò lei «Vogliamo davvero tirare in ballo tutti i nostri segreti? Proprio tu che non fai altro che chiuderti nel tuo impenetrabile guscio e tagliarmi fuori dalle disgrazie della tua vita? Tuo padre, Ethan e chissà quanto altro. Non mi pare il caso di continuare a giocare questa partita o nessuno dei due ne uscirebbe indenne. Pensavo sul serio di fare il meglio per te, come puoi anche solo concepire l’idea che possa esserci dell’altro?».
«Non lo so, in effetti. Dimmelo tu» la sfidò «C’è qualcos’altro che tu reputi, secondo tua coscienza, che io debba sapere? No so, ad esempio, qualcosa che riguarda Ethan! Chissà forse si verrà a sapere che a Londra vi siate divertiti più di quello che vuoi far credere. Magari era una messa in scena ed il mio letto non è stato l’unico in cui hai trascorso la notte» disse facendo spallucce «Be’ almeno io ho auto la decenza di rispettarti sotto quel punto di vista».
Leona era così furibonda che si accorse a malapena delle scintille emanate dalle sue dita. «Ma di che cazzo stai parlando? Cosa c’entra Ethan…Non puoi dire sul serio».
«Non ho più alcuna certezza in merito. Se mi hai mentito su qualcosa di così importante, non credo che ti faresti tanti scrupoli».
«Sai che ti dico? Che sono una povera idiota! Hai ragione, non avrei dovuto respingerlo, non avrei dovuto fare tanto la preziosa con lui. Magari davvero ho scelto il fratello sbagliato. Per fortuna non è mai troppo tardi, posso sempre rimediare». Ignorò il sussulto intellegibile delle sue spalle che fino a poco tempo prima le avrebbe suscitato tenerezza. Adesso era soltanto una perversa soddisfazione.
«Bene!» gli urlò lui.
«Molto più che bene!» lo rimbeccò piccata la ragazza. Poi con la rabbia che traboccava da ogni poro, si strattonò il nastro dal polso, quello da cui non si era mai separata, e glielo spiattellò sul palmo aperto «Non c’è più alcun motivo che lo tenga io. Usalo per andare a cercarla, fatti pure ammazzare se vuoi, sono convinta che sarebbe molto felice di accontentarti. Oh, ed è bene che tu sappia anche questo: se sarò costretta a scontrarmi ancora con il fantasma di tua sorella non me ne starò lì ad aspettare la morte, non mi tratterò più. Darò tutta me stessa e vincerò. Forse è stato meglio così, in fondo sapevo che questa cosa fra noi due non avrebbe mai funzionato». La protettrice pronunciò quelle parole con una spavalderia fuori dal comune. Fabiano non poteva sapere che per lei fu come se stesse masticando cocci di vetro dentro la bocca tagliuzzandosi la lingua. Non poteva minimamente immaginare quanto le fosse costato restituirgli il fiocco, il filo rosso che aveva unito i loro destini fin dal primo incontro. Niente di tutto questo. In fondo, anche se non lo avrebbe ammesso in quel momento, nutriva ancora fiducia in lei. E proprio per questo, si sarebbe bevuto in un solo sorso tutte le sue bugie.
«È successo qualcosa?» domandò la piccola Hilde col visetto curioso, risucchiandoli dal ring del loro dibattito. Un KO tecnico per entrambi.
«No, va tutto a meraviglia!» esclamarono entrambi come se avessero concordato preventivamente su quella risposta. Hilde scrollò le spalle e se la fece bastare. Si pizzicò con un dito la falda del cappello che le gettava delle ombre sugli occhi «Allora noi siamo pronti. Non è vero papà?». Hilde gli schiacciò l’occhiolino. Attila annuì senza aggiungere altro. D’un tratto si era fatto inspiegabilmente silenzioso, forse era molto più eccitato di abbandonare quel giardino incolto di cadaveri più di quello che voleva dare a vedere. Si trascinava dietro un solo trolley straripante di cianfrusaglie e  oggetti di antiquariato di ogni genere che per il vampiro dovevano avere un certo valore affettivo. Fu la prima volta che Leona intravide la speranza ardere nei suoi occhi color del miele, qualcosa che credeva non avrebbe mai potuto scorgere con tanta intensità nell’involucro di un uomo senz’anima. Leona gli fece cenno di seguirla e li scortò lungo il sentiero verde che li avrebbe portati ai cancelli d’entrata. Ma in prossimità della via di fuga, al confine tracciato dalla barriera eretta dalla madre di Hilde, qualcuno li stava aspettando.
«Esme!» esclamò Attila con un candore e un’innocenza che cozzò col suo aspetto terrificante da succhia sangue. Leona credette per un attimo che il vampiro stesse per slanciarsi verso la donna minuta con il graziosissimo viso a cuore che gli sorrideva amorevolmente dall’altra parte della barriera. Forse fu solo una sua impressione, ma l’occhiataccia che la piccola banshee rifilò al padre lo fece desistere dal suo improvviso ed eccessivamente espansivo impulso premuroso. La protettrice si soffermò sui suoi lineamenti dolci, i lunghi capelli color caramello e rimase conquistata dalla soavità del suo sguardo, uno sguardo che le fece quasi dimenticare di avere davanti a lei il suo peggior nemico. E avrebbe continuato a lasciarsi incantare ancora per molto se il bellissimo angelo dalla capigliatura aurea e la finissima pelle d’avorio che le stava accanto non si fosse schiarito la voce annunciandosi. Tutti i sensi supplementari della protettrice si attivarono suggerendole di classificare la coppia come vampiri di marmo. Le dorature screziate delle iridi, invece, li collocò come membri dell’unico clan di vampiri a lei conosciuto che si nutrisse di sangue animale piuttosto che umano.
I Cullen.
«Incantevole giornata per una fuga» disse l’uomo con un sarcasmo criptico e insondabile.
«Il vento è favorevole, ma le nuvole non sono mai un buon presagio» constatò Attila strascicando le parole con l’atteggiamento scettico di un lunatico.
«Ci troviamo in una delle città più piovose al mondo, non conta granché la divinazione magico propiziatoria in questo caso» borbottò Leona sottovoce roteando gli occhi. Poi aggiunse alzando la voce di qualche tonalità «C’è qualcos’altro che debba sapere sul tuo piano o devo aspettarmi altre sorprese? Immagino che lui sia il famoso dottore masochista di cui mi hai parlato. Cosa ci fanno lui e sua moglie qui?». Il vampiro non fece una piega alla provocazione di Leona e la lasciò profondamente delusa. Avrebbe voluto sondare più a fondo dietro quei gentili occhi dorati ma temette di perdersi e preferì non rischiarare d’incrociare le sue pozze d’ambra, del tutto simili a quelle di Esme e Alice. Setacciando nei suoi ricordi, rievocò la sfumatura di quelli di Jasper che erano  di una tonalità molto più scura e torbida. Un chiaro indizio di qualche sgarro alla sua ferrea dieta vegetariana?
«Precauzioni» chiarì limpidamente la bambina senza dissolvere alcun dubbio nella protettrice.
La vampira di nome Esme si aprì in un caldo sorriso «E tu devi essere Leona. Nostro figlio Edward ci ha parlato molto di te». La dolcezza nella voce della donna si incuneò nel cervello di Leona e le sciolse tutti i nervi. Fabiano inarcò un sopracciglio sul chi vive, facendo rimbalzare lo sguardo dalla ragazza alla coppia di vampiri.
«Spero solo cose buone». Leona rise beffardamente. «A proposito come se la passa il mio amico ficcanaso? È guarito dai suoi istinti suicidi?». La domanda spense come uno stoppino sulla candela il sorriso di Esme e per qualche misteriosa ragione la protettrice ne sentì la mancanza.
«Sì» le assicurò il dottore. Come aveva detto di chiamarsi? Carlisle? «E stando ai suoi racconti deve essere tutto merito tuo e te ne siamo profondamente grati» annuì seriamente.
Esme concordò col marito «Grazie di cuore per aver convinto il mio Edward a tornare a casa da noi» la gioia e la consapevolezza di suo figlio al sicuro le ricolmò il petto. Che vampira bizzarra…eppure fu quasi certa della sincerità del suo affetto materno.
«Sappiamo chi sei e il ruolo che ricopri, non deve essere stato semplice mostrare pietà verso uno della nostra specie». No, infatti.
«E avete fatto tutta questa strada solo per ringraziarmi? Non meritavo tanto disturbo».
«Sebbene potrei contraddirti su quest’ultimo punto, mi rammarica dirti che non hai torto. Conosciamo Attila e Hilde da quando sono rimasti bloccati ad Highgate, e in questi anni li abbiamo assistiti come meglio abbiamo potuto durante la loro prigionia, rifornendoli di quello di cui avevano bisogno. Ed oggi più che mai necessitano della nostra protezione una volta usciti di qui».
«Gli garantiremo un passaggio sicuro fino in America e potranno rimanere da noi tutto il tempo che vorranno» disse Esme piegandosi leggermente sulle ginocchia ponendosi all’altezza della piccola Hilde che la scrutava con attenzione.
«Dici sul serio?» domandò Attila con la speranza che tintinnava nella sua voce improvvisamente mielosa piuttosto che rude. La vicinanza di Esme lo aveva rinfanciullito in modo inquietante.
«Padre, forse sarebbe meglio procedere con l’incantesimo. Ogni minuto che passa può portare i nostri nemici sempre più vicini».
«Nemici?» domandò Fabiano strappato dai suoi silenzi riflessivi. Spostò il peso da una gamba all’altra come se fosse a disagio «Di chi state parlando?».
«Di mio fratello e dei suoi adepti naturalmente» rispose la piccola trattenendo la bambola di porcellana per un braccio. Attila lanciò un’occhiata alla figlia e rabbrividì, forse al pensiero che qualcuno, il sangue del suo sangue, potesse farle del male.
«Non c’è tempo da perdere allora» li incoraggiò Carlisle. Leona non pensava che le stessero mentendo su una possibile imboscata o non avrebbero chiesto i rinforzi. Ma poteva davvero fidarsi di loro? Non aveva molta scelta. Anche se del contratto non era rimasto più nulla di leggibile, e quindi tecnicamente era libera di lasciarli in quel cimitero terrificante per l’eternità, lei aveva dato la sua parola e non vi era nulla di più sacro per la protettrice che mantenere una promessa fatta.
«Allontanatevi per favore, non ho idea di cosa possa accadere» li avvisò chiudendo un pugno attorno alla mezza falce blu che aveva al petto. Leona strinse gli occhi e rintracciò una connessione con l’amuleto dentro di sé. Prima a Fabiano era bastato un semplice desiderio e, anche se a modo proprio, il ciondolo della Luna gli aveva prontamente risposto, per cui non vedeva il motivo del perché dovesse essere differente con lei, dato che le si era già mostrato ostile quando... scacciò subito il pensiero. Cercò di visualizzare il muro invisibile che correva attorno al cimitero, immaginandosi la sua tessitura, la sua consistenza come se fosse qualcosa che potesse toccare con mano e il desiderio prese lentamente forma nella sua mente. Un biancore accecante seguito da un trambusto esplosivo sfolgorò nel cielo plumbeo per abbattersi poco distante da lei e lacerò apparentemente il vuoto. L’artigliata delle folgori sfrigolò di elettricità statica nell’area circostante e volute di fumo presero ad attorcigliarsi verso l’alto. La faglia dorata zigzagante da cui fuoriuscivano i comignoli di fumo risplendette come un sole e per un breve istante li abbagliò. Poi la parete invisibile si crepò e venne giù con il tipico scroscio di una pioggia di calcinacci. Un simbolo luminoso, una antica runa di protezione, aleggiò in mezzo a loro fino a spegnersi lentamente lasciando nient’altro che una fioca ferita evanescente. Quello era il segno che il sigillo della Banshee era stato distrutto e con esso aveva messo fine alla loro eterna reclusione. La luce della luna si affievolì gradualmente ma fu inevitabile per la protettrice stupirsi della potenza di quell’oggetto e domandarsi cosa avrebbe potuto farne in seguito.
La prima a muoversi fu la bambina, deglutendo strada facendo per l’incredulità. Esme dalla parte opposta fece lo stesso. Leona non poteva credere davvero che Attila avesse lasciato che Hilde facesse da cavia di quell’esperimento, il suo istinto fu quella di proteggerla ma qualcosa, una strana consapevolezza che continuava a ronzarle nella mente la fece desistere e restò a guardare la scena stringendosi nel calore rassicurate della pelliccia di Edna. I passi della ragazzina erano lenti e prudenti, studiati, i tonfi sordi che producevano erano attutiti dalla sua andatura leggera e scelsero un percorso lontano dalle sterpaglie. Esme tese un braccio verso di lei, rivolgendole un sorriso così fiducioso che avrebbe fatto credere a chiunque che se si fosse gettato da una rupe sarebbe comunque scampato alla morte. Ormai entrambe era al confine, Hilde era pronta a fare il passo decisivo se non che aveva pressato così forte sul braccio della bambola che le si era frantumato fra le mani. Attila trasalì con gli occhi fissi sulla figlia, chiuso nel suo bizzarro silenzio.
«La faremo riparare e sarà come nuova» promise Carlisle più ad Attila che alla bambina «Ma adesso vieni avanti». I due si scambiarono una fugace occhiata d’intesa e annuirono all’unisono. Poi la scarpetta rossa della ragazzina oltrepassò il cancello e affondò la suola nel terriccio ghiaioso cosparso di aghi di pino e afferrando la mano bianchissima della vampira le si gettò fra le braccia.
«Ha funzionato» sospirò di sollievo Esme rivolgendosi a Leona. La piccola si divincolò dall’abbraccio e con un mezzo sorriso incerto disse a suo padre «Vieni». Il vampiro sbatté più volte le ciglia, nel suo vetusto sguardo languiva il terrore, ma sollevò il mento appuntito e si mascherò dell’espressione più dura che avesse provato alla specchio. La sua stretta si accanì sul manico del trolley e mentre il vento giocava con le sue trecce superò il prato e varcò i cancelli con la testa così pateticamente incassata fra le spalle che Leona pensò che si aspettasse di essere incenerito da un fulmine. Ma non accadde nulla di tutto ciò, ovviamente. La realtà era molto semplice: l’assassino più sanguinario del pianeta - e tutta la sequela di appellativi spaventosi che gli avevano ingiustificatamente appioppato nei secoli - si era rammollito con la paternità e la lunga astinenza dal sangue umano.
Carlisle gli andò incontro dandogli delle pacche sulla spalla «È bello rivederti vecchio mio» e mentre lo faceva le sue labbra si avvicinarono al suo orecchio disperso in quel drappo di capelli stopposi e si mossero così veloci da non riuscirne ad afferrare il senso di ciò che seguì.
«Forse dovreste rimandare le vostre riconciliazioni per il dopo» suggerì Fabiano con il suo improbabile tono acido del tutto fuori posto. Leona si ricordò che pur avendo davanti ai suoi occhi un trio di vampiri, non aveva pensato nemmeno per un attimo di fargli assaggiare la sua spada. Era rimasto in disparte lasciando che gli eventi scorressero nel flusso ininterrotto del tempo e quello era il peccato di omissione più grande che un protettore potesse commettere. Lo faceva per lei? Quanto autocontrollo doveva essergli costato? Ma con una fitta allo stomaco si convinse che non erano più affari suoi.
«Il ragazzo ha ragione» concordò Carlisle «Dobbiamo muoverci in fretta. Raggiungeremo il porto prima che il sole si affacci fra le nuvole».
«Leona» la richiamò Hilde mano nella mano con Esme «Grazie per tutto quello che hai fatto. Come promesso potrai tenere il ciondolo di Frieda e farne ciò che più ti aggrada. Non dimenticheremo mai il tuo coraggio».
«Immagino che in qualità di protettrice e medjai non dovrei andare molto fiera che dei vampiri abbiano dei debiti di gratitudine nei miei conforti in virtù dei favori che gli ho elargito. Ultimamente ho salvato più immortali che umani. Sono davvero pessima nel mio lavoro, forse dovrei farmi licenziare». A Carlisle sfuggì una breve risata.
«La tua compassione non è un difetto, Leona» disse il vampiro «Il tuo compito è di proteggere il genere umano da chi costituisce una reale minaccia per loro, quindi non penso che tu stia trasgredendo il tuo codice deontologico. Forse salverai più vite di quante ti immagini. Credi che il mondo si riduca a una semplicistica suddivisione in buoni e cattivi, soltanto perché ti hanno insegnato che bastano due denti affilati e inquietanti occhi rossi per scontrarti faccia a faccia con il male? Forse sei troppo giovane per comprenderlo. Con il tempo scoprirai che il peggior nemico dell’uomo è l’uomo stesso e che anche nelle sue deboli membra è capace di generare molto più odio di quanto uno di noi sia capace. E che ne è di tutti quelli che risiedono in quella zona grigia, non vi è riservata alcuna salvezza per loro? Coloro che nella loro lotta quotidiana contro i propri demoni sperano in cuor proprio di diventare persone migliori? È vero. Siamo creature ripugnanti, non c’è un solo giorno in cui guardandomi allo specchio non detesti ciò che vedo. Come tanti della nostra specie, però, non ho scelto di essere così. E con quale diritto siamo condannabili nei nostri tentativi di mettere a tacere la nostra sete? Non per questo la nostra colpa è meno grave o giustifica i nostri errori di percorso. Ho imparato che salvare vite però, può rendere più tollerabile questa misera esistenza, è il mio modo tutto inusuale per scontare la mia pena. Ed è ciò che fai anche tu. Credi che nonostante le ovvie differenze anatomiche fra noi, siamo così diversi noi due?».
«No» rispose Leona come se il vampiro avesse sciolto il nodo ingarbugliato dei suoi pensieri, la conclusione a cui anche lei era giunta senza essersene resa conto.
«Edward ha commesso un errore mettendoti a conti fatti di fronte a quello che senza dubbio è una giustizia fai da te del tutto ingiustificabile. E nonostante questo, sei riuscita a comprendere almeno in parte le sue reali intenzioni nascoste da un gesto così brutale come un omicidio. Non meritava di morire, mio figlio non avrebbe dovuto innalzarsi a giudice e carnefice sulla sua vita, ma quell’uomo era davvero migliore di un vampiro che spezza una vita poiché condannato ad ardere per la sete altrimenti?» le domandò adesso la donna accanto a lui. La ragazza si vergognò di non riuscirle a fornire nessuna risposta alla sua domanda. Pensava che avesse ragione. Eppure ammetterlo ad alta voce non avrebbe fatto di lei una traditrice dei precetti impartitegli dal suo popolo? Non gli stava ancora una voltando le spalle? Perché le sembrava tutto così inconciliabile? E non era la sola ad essere afflitta da quegli atroci dubbi esistenziali. Anche Fabiano sembrava esserne sopraffatto, come se la sua muta pacatezza stesse urlando a squarcia gola che anche le sue certezze stavano vacillando. Se avessero avuto davvero più tempo per filosofeggiare su quell’argomento, di certo non si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione. Ma proprio mentre parlavano, in quello stesso istante, le vite di coloro che amavano potevano essere in pericolo. Come se avesse avvertito il suo conflitto interiore, la vampira fece un passo verso di lei e allungò le dita pallidissime per sfiorarle la spalla. Ma Leona, intrisa nei suoi istinti primordiali, si ritrasse come se il tocco di quella gelida mano le potesse trasmettere quella malattia che l’avrebbe condotta a rifiutare in pieno tutte le consapevolezze che aveva custodito così gelosamente nel suo cuore, in particolare la promessa ristoratrice della sua vendetta. Una vendetta che ormai sembrava sbiadire come una macchia d’olio su un vestito che ha subito il candeggio. Quello screzio addolorò la vampira e curvò in giù il suo sorriso. Ancora una volta Leona si disprezzò per averla fatta soffrire, senza capire il perché quella donna le ricordasse così atrocemente sua madre, e perché, per una frazione di secondo, avesse desiderato che lo fosse davvero.
«Andrà bene» le disse senza mai perdere la tenerezza nella sua voce «riuscirai a salvare il tuo popolo». Leona abbassò lo sguardo, non voleva rimanere appiccicata nell’ambra gentile dei suoi occhi come una zanzara dentro una goccia di resina.
«Pensate che non ci abbia già provato?» il fantasma di un sorriso mesto aleggiò nelle sue labbra.
Fabiano la guardò dritta in faccia per la prima volta dopo il loro litigio «Vuoi dire che…».
«Che non è successo assolutamente nulla. Ho palesato il mio desiderio cullando l’amuleto fra le dita ma è rimasto freddo contro la mia pelle. Non ha prodotto alcun bagliore, ha ignorato la mia richiesta. Non esiste un modo per guarire i protettori dal Linckage. È stato tutto inutile» terminò con rabbia afferrando la catena come se  la volesse strapparsela via dal collo.
«Io non ne sarei così sicuro» intervenne Attila inclinando la testa di lato con gli occhi fissi sulla luna blu «Quell’arnese ha un umorismo tutto suo e agisce in modi incomprensibili per la psiche umana. Dipende molto da come tu abbia posto la domanda. Non credere che la sua magia sia complessa, è si antica, ma è ciò di più puro possa esistere, come la mente di un bambino. Tutto si riduce a concetti elementari, e più è contorta la richiesta o povera di particolari, più lasci libertà interpretazione». Attila le si era rivolto con estrema gentilezza, come se le importasse sul serio della sua delusione e questo invece che rinfrancarla la rese ancora più sospettosa. Se ne stava lì fermo nella sua zolla d’erba senza che essa fosse disgustata dalla sua vicinanza. Forse il mostro dentro di lui era stato messo a tacere e con esso anche quella sua strana capacità erbicida di cui tanto si vantava…
«Avete sentito?» strillò spostando la testa prima alla sua destra, poi alla sua sinistra. Le si drizzarono i peli delle braccia e un prurito le formicolò risalendole dalle spalle fino alla nuca.
«Stanno arrivando. Non siamo più soli» confermò Fabiano impugnando la spada in posizione di difesa.
«Presto prendete la bambina! Correte!» disse prima che l’ombra le saltasse addosso. Sbalzò un paio di metri più in là dal punto in cui era stata violentemente travolta, rotolando su un fianco prima che un pugno serrato calasse su di lei. Il colpo scavò un piccolo cratere nel terreno lì dove avrebbe dovuto esserci la sua testa. Si ritrovò faccia a faccia col vampiro che l’aveva aggredita, un orrendo Drakulia scheletrico coi capelli cortissimi e un sorriso troppo largo per la sua faccia. I canini erano sporgenti come chiodi, il contorno degli occhi venati da una sete rovente. Il viso di un demone. Sulla fronte recava il simbolo del clan dei sanguinari, inciso nella carne. Il disegno, ormai annerito dalla cancrena, raffigurava un corvo con un occhio solo.
«Non te l’ha insegnato nessuno che è da vigliacchi attaccare alle spalle?» lo provocò la cacciatrice, facendo leva sull’addome per rimettersi in piedi con la sola spinta degli addominali. Si protese verso la terra e la tirò verso di sé sollevando una tempesta di foglie contro il vampiro. Reso cieco da quella boscaglia vorticante, sibilò serrando la mandibola, ma prima che potesse fiondarsi di nuovo su di lei, degli artigli gli avevano scavato la schiena facendolo ripiegare all’indietro per il dolore. L’urlo si spezzò a metà esecuzione quando le fauci della tigre si chiusero attorno alla sua  faccia ributtante. Gli lacerò la putrida carne facendo penetrare le zanne fin dentro le ossa che scricchiolarono sotto la sua morsa d’acciaio. Metà del suo viso era riverso in un fiotto di sangue grumoso e puzzolente. Il tatuaggio sulla fronte era a malapena distinguibile.
«Prendi!» le ordinò Attila con urgenza lanciandole qualcosa che sfrecciò a velocità supersonica. Lo afferrò a mezz’aria e lo impugnò per il verso giusto, lasciando che il lato contundente sbucasse fuori dalla sua presa. Prima di scomparire insieme a Carlisle, Esme ed Hilde del fitto della foresta aggiunse «È un paletto di bianco spino». Proprio quello che faceva al caso suo. La protettrice sorrise fra sé e piantò l’arma dritta nel cuore del vampiro agonizzante riverso ai suoi piedi. Il cadavere si pietrificò all’instante, nient’altro che roccia liscia, marmorea e inerte. Estrasse il paletto dal suo corpo prima che ci si solidificasse attorno e lo appese all’imbracatura. Poi con un calcio frantumò la scultura in cui il Drakulia era stato immortalato con una mezza espressione di terrore. L’altra metà, quella sbranata dal morso di Edna, non aveva più alcuna forma per essere riconosciuta in mezzo a quel miscuglio lacero di muscoli, tendini e ossa.
Che schifo! Si lamentò Edna con ancora il muso sporco del suo sangue. Leona ruotò su se stessa in cerca di Fabiano e lo vide accerchiato da altri tre di loro. Nonostante se la stesse cavando egregiamente, non esitò a farsi saltare le kopis in mano e lanciarsi in suo aiuto. Edna ruggì mentre era in corsa, ma ormai le dava le spalle e non poté assistere alla disfatta della suo prossimo avversario. L’abitudine la indusse a toccarsi il polso ma impallidì quando incontrò nient’altro che pelle. Imprecò sottovoce coi capelli che le ricadevano in ciocche fluenti e foltissime sugli occhi. Scivolò nel fogliame intercettando il balzo di una quarta vampira che puntava alla giugulare di Fabiano e le divelse le gambe di netto sforbiciando le lame all’altezza delle sue ginocchia. Il suo sangue fioccò leggero come neve e spruzzò sul suo viso piccole lentiggini rugginose. La Drakulia rovinò a terra e prese a tastarsi freneticamente gli arti fantasma cacciando un urlo profondo e straziante con la bocca piegata in una smorfia grottesca. Proprio mentre riprendeva fiato, dovette scartare di lato per evitare l’iniziativa maldestra del compagno della vampira e scattò verso l’albero più vicino. Comandò ai suoi rami di attorcigliarsi attorno alle sue braccia per bloccarlo e ignorando la forza di gravità, si inerpicò su per il tronco scalandolo con la sola spinta dei piedi. Poi con un ultimo slancio roteò all’indietro e gli atterrò con un salto mortale sul petto. La kopis fece il resto procurando un taglio pulito alla gola del vampiro. La testa rotolò via dal campo di battaglia e Leona tornò a concentrarsi sull’altra Drakulia che aveva  azzoppato poco prima.
«Non è che potresti rifare la cosa del tempio? Non mi dispiacerebbe un piccolo aiuto» le chiese Fabiano piazzando una pedata ben assestata sul naso di un Drakulia, lasciandogli il ricordino dell’impronta del suo scarponcino.
«Oh sì, davvero geniale. Perché non ci ho pensato prima? Accendiamo un bel falò nel bel mezzo del bosco. La guardia forestale ci adorerà! Spiacente tesoro, tieni a bada i tuoi bollori».
Fabiano parò un altro colpo dall’alto «Ehi, bastava che mi dicessi che non ne sei più capace».
La ragazza grugnì esasperata. Poi molleggiò sulla tibia, caricando tutto il peso sulla caviglia per potersi dare lo slancio e terminare il lavoro incompiuto. Ma prima che potesse mettere fine alle sofferenze della vampira, si ritrovò Fabiano a bloccarle la strada e la spinse via con un movimento fluido. Qualcosa di bianco vibrò nella sua mano andandosi a conficcare nel petto di un’altra Drakulia celata all’angolo cieco a sinistra. Ed ecco aggiungersi un’altra statua di pietra alla collezione. Leona maledisse i suoi dannati capelli che le occultavano la visuale come i paraocchi di un cavallo. Si sbarazzò con impazienza delle due cortine nere che le piovevano in volute disordinate fino al bacino reclinando la testa all’indietro. Fabiano teneva ancora con sé la refurtiva che le aveva rubato dalla sua cintura quando la afferrò per il colletto della maglietta attraendola a sé con una violenza inaspettata. I loro visi si avvicinarono a tal punto che il suo cuore le impazzì dentro al petto al pensiero che nel bel mezzo di una battaglia lui volesse baciarla. Ben presto scoprì che le sue intenzioni erano ben altre. Sentì la cintura farsi nuovamente pesante quando il paletto trovo posto nel suo alloggio, poi il ragazzo le cinse le spalle e la fece piroettare su se stessa fino a dargli la schiena. Le sue dita armeggiarono svelte sui suoi capelli facendo attenzione a non strapparglieli dalla cute per la troppa fretta. Si era consumato tutto nel giro di pochi istanti. Quando si accorse che glieli stava raccogliendo dietro la nuca, fu facile ripensare al nastro scarlatto di cui poco prima aveva sentito la mancanza. Quel nodo familiare stretto alla lunga coda le fece luccicare gli occhi, ma non si concedette di dare sfogo a quel sollievo, non poteva certo permettersi di battere la fiacca in un momento come quello. Sollevò le spade e caricò un altro di loro scatenandogli le forze sopite del bosco contro.
Ne fecero fuori una dozzina, facendo piazza pulita nel giro di qualche minuto. Doveva ammettere che loro due e la tigre facevano una bella squadra. Purtroppo però non era di certo finita lì, e l’urlo di Hilde che riverberò nel fitto della foresta le fece temere che fosse in serio pericolo. Corsero a perdi fiato in direzione di quell’implicita richiesta d’aiuto senza pensare alle conseguenze. Nel piccolo spiazzo circondato da abeti, gli uccelli cinguettavano allarmati, disturbati da quella spiacevole intrusione nel loro territorio. Leona avvertì il terrore crescere dentro i loro corpicini e li convinse a migrare altrove, risparmiandogli il terribile spettacolo che avrebbe avuto luogo di lì a poco. Un giovane alto, mezzo nudo, tarchiato e dalla pelle bronzea girovagava con le mani dietro la schiena circuendo la piccola Hilde arpionata ai fianchi di Esme. Non assomigliava per nulla alla sorella, se non per il taglio degli occhi e la forma sottile delle labbra. I cappelli, un po’ raccolti a gomitolo sulla testa ma lunghi quasi quanto quelli di Leona, erano color dell’onice, identici a quelli del padre.
«…È stato facile trovarvi» stava dicendo «la vampira aveva detto che sarebbe accaduto».
«Ellak, non deve finire per forza così» tentava di farlo ragionare Attila. Spuntò un sorriso inquietante sul viso glabro del vampiro quando il genitore pronunziò il suo nome.
«Non vedo altri futuri possibili padre, conosci la profezia pronunciata dalla tua puttana, che possa marcire in eterno nel suo inferno! O me o la strega, non c’è posto per entrambi in questo mondo» lo smentì allargando le braccia come se volesse abbandonarsi nelle mani di un destino pianificato a tavolino da lui stesso.
«Le profezie non sono verità assolute e mutano continuamente».
«…Una bambina nascerà sotto la luce rossa di una luna lontana. In lei scorrerà il sangue dell’immortalità e servirà la verità come sua alta sacerdotessa. Sarà padrona della vita e della morte, e decreterà la fine del sangue del suo sangue. Come fai a non vedere, padre? Quella donna ha reso ciechi i tuoi occhi immortali con qualche sortilegio? Non rappresenta una minaccia solo per me ma anche per te! Io voglio strapparti dalle grinfie di questo crudele destino, non capisci? Non ricordi più il nostro sogno, è forse morto con quella cagna? Proprio adesso che siamo a un soffio dal vederlo realizzato, non senti che la vittoria è vicina? Unisciti a me, facciamo nostro quel covo putrido di protettori imbecilli. Acquisendo il controllo su Betelgeuse, i Volturi non potranno più ignorare la nostra invincibile autarchia, dovranno strisciare come vermi dai loro troni e implorare pietà ai miei piedi, schiacciati dall’onta dei loro fallimenti. Prenderemo possesso del loro esercito di super dotati e ci adoreranno come dei. Banchetteremo con carne fresca e succulenta e berremo da calici tempestati delle pietre più preziose.
Tutto quello che dobbiamo fare è uccidere la bambina e perdonerò il tuo annebbiamento padre, non desidero altro che regnare al tuo fianco. Dunque perché lasciare tutto al caso quando posso semplicemente dare una spintarella al fato nella direzione che più mi compiace? Adesso portate via la vampira» ordinò seccatamente ai suoi adepti.
«Non toccatela!» li minacciò Carlisle con viso teso e cinereo. Esme si avvinghiò ancora più stretta alla piccola spaurita e li supplicò «Vi prego non fatele del male, è solo una bambina!».
«Taci donna!» le ringhiò contro Ellak con furore. Il mento appuntito del figlio di Attila si mosse impercettibilmente ma bastò a far eseguire a due dei suoi adepti il suo ordine silenzioso, mormorato a labbra strette. Non importava quando la presa su Hilde fosse salda, i due nerboruti la sollevarono di peso afferrandola per i gomiti. Mentre la trascinavano via, un altro vampiro grosso quanto un cinghiale si gettò su Hilde acciuffandole i  capelli. La bambina strillò per il dolore e pianse.
«Che cosa credete di fare!» strepitò la protettrice satura di tutta quella violenza. Invano Fabiano tentò di fermarla.
«Restane fuori, Leona. Non sono affari che ti riguardano!» la ammonì Attila senza levare gli occhi di dosso dalla sua bambina martirizzata.
«Oh, mi riguarda eccome! Sono anni che diamo la caccia a questo reietto schifoso e ai suoi topi di fogna. È tempo di restituire le loro carcasse sotto terra!». Ellak scoppiò in una sonora risata che le fece rivoltare lo stomaco.
«Hai davvero un bel fegato protettrice, devo ammetterlo!» continuò a sghignazzare sommessamente «Ma mio padre ha ragione, non vogliamo altre rogne. Non è l’ora di dare la pappa al tuo micetto? Gira alla larga e farò finta di non averti vista» la scacciò con un gesto annoiato.
«E secondo te, dopo che hai appena minacciato di invadermi casa, potrei mai lasciarti andare?»
«Be’» rifletté il vampiro «Dipende da quanto tu tenga a questa deliziosa creatura immortale» disse indicando alla volta di Esme, costretta fra i corpi muscolosi dei due del clan dei sanguinari. Quando il ventò ululò sembrò trascinare con sé l’espressione divertita dagli occhi di Ellak «Fa un altro passo e ordinerò che le sia spezzato il collo».
«No!». Carlisle cercò di divincolarsi dal muro di vampiri che gli impediva di raggiungere la moglie.
«E se invece spezzassi il tuo di collo?» sussurrò appena, carica di rancore.
«Allora i miei ricambieranno il favore, nell’improbabile caso in cui tu ci riuscissi».
«Basta Leona» le sibilò all’orecchio Fabiano. Lei tremava di rabbia, incapace di contenersi. Avrebbe voluto strillare mentre li faceva a pezzi uno ad uno. Voleva sentire il rumore delle loro ossa scrocchiare sotto la morsa delle sue mani, voleva sentire la levigatezza della pietra quando li avrebbe infilzati con sul paletto di bianco spino. Il suo respiro accelerò, e l’antico odio si destò in lei. Fu come se il suo corpo si fosse mosso senza la sua volontà, come se avesse perso il controllo su di esso. Il tempo rallentò quando la kopis lasciò la sua mano e roteò verso la gola di Ellak. La lama fendette l’aria e attraversò il corpo che si era trovato sulla sua traiettoria, tanta era la forza che gli era stata impressa nel lancio. Non il corpo che voleva, uno degli adepti si era interposto fra la spada e il suo padrone, ma se lo fece andar bene comunque. Sentì il sapore dell’acciaio di Hijir sciogliersi sulla lingua e ne assunse il controllo ordinando all’elsa di scendere verso il basso, lungo il ventre scolpito dell’uomo. Attila trattenne un conato di vomito quando le budella del vampiro si riversarono sul terreno. Il vampiro cadde sulle ginocchia e la lama tornò ubbidientemente indietro come le era stato comandato, dando il cambio alla sua gemella. Fu talmente fulminea che persino con la sua vista da vampiro riuscì a catturare solo lo scintillio del metallo. Adesso gli occhi dell’immortale la fissavano spalancati da una strana angolazione. Leona fu percorsa da un brivido di piacere e inclinò la testa per poter ricambiare lo sguardo terrorizzato del capo mozzato del suo nemico. Assuefatta dalla frenesia, si scrollò di dosso le mani di Fabiano che cercavano di afferrarle la mantellina, e puntò dritta verso Ellak approfittando del suo sbigottimento. Si inumidì le labbra con la lingua pregustandosi il momento in cui avesse affondato il paletto nel suo cuore privo di pulsazioni. Ma proprio mentre le sue spade sferzarono la pelle granitica di due sanguinari, un disgustoso, viscido scricchiolio interruppe la sua estasi. Tutti i muscoli le si fossilizzarono per il terrore e si sentì gelare lo stomaco. Anche gli occhi dorati di Esme avevano perso il loro calore, proprio come quelli del vampiro. Giaceva a terra, immobile e fredda, il collo ancora attaccato al corpo ma completamente ruotato sul proprio asse. Poi tutto si chiazzò di rosso, o almeno credette che quello fosse il colore della sua rabbia incandescente. Le sue braccia si accesero come braci e pensò soltanto a come volesse incenerire ogni cosa. Di lì in poi fu tutto più confuso. Carlisle si scagliò su un sanguinario urlando di dolore. Edna balzò oltre la sua testa e  ne aggredì un altro con le sue zanne prima che si avventasse su Hilde dandole la possibilità di scappare. Con la coda dell’occhio notò anche Fabiano sguainare la spada, vegliando sul corpo inerte di Esme. Attila invece non si era più mosso e occupava il centro della baraonda con una mano posata sul petto, come se fosse preda di una sofferenza insopportabile. Poi qualcosa luccicò sulla sua guancia e Leona seguì la sua scia luminosa finché non rimase incastrata fra le setole pungenti della barba ispida.
Una lacrima.
Dannazione, pensò la protettrice, i vampiri non possono piangere!
Fu allora che capì cosa stava succedendo, ma non avrebbe comunque potuto fare più nulla. Hilde sfrecciò in mezzo agli alberi, correndo via da quel massacro sin troppo velocemente perfino per una mezza vampira come lei. Ellak la raggiunse in un soffio e le acciuffò la spalla per farla girare verso di sé. La piccola barcollò e cadde sulla schiena in mezzo ai ciuffi d’erba. Supina e puntellata sui gomiti indietreggiò scalciando le esili gambine sul terreno brinato dalla pioggia, ma nel suo viso non vi era alcuna traccia di paura. Edna, sotto le spoglie di una maestosa aquila reale, si precipitò in picchiata su Ellak e gli catturò  la testa infossando gli artigli dentro le palpebre. Fiumi di sangue sgorgarono dai suoi occhi feriti ma questo non gli impedì di spezzare l’ala dell’aquila e mandarla a schiantare con un manrovescio contro la corteccia di un albero. Il cuore di Leona mancò un battito alla vista dell’aquila malconcia, priva di sensi e col piumaggio insanguinato. L’ala era piegata con un’angolatura decisamente innaturale. Ma non ci fu tempo per piangere la sua chimera, Ellak aveva recuperato in fretta la vista e si stagliava imperioso sulla povera sorella a cui aveva sfigurato l’incantevole visino. Lui si beò della sua fragilità con un sorriso beffardo e svuotato di ogni sorta di compassione. Sollevò un braccio e dardeggiò un’occhiata infuocata su di lei, certo che questa volta non avrebbe commesso più alcun errore, conscio che lasciarle qualche cicatrice non sarebbe stato più sufficiente.
Fu la morte più silenziosa e dignitosa a cui Leona avesse assistito.
Le invidiò quel sorrisino birichino, appena abbozzato sulle sue labbra rosee non ancora pronte al biancore della morte, e completamente incurante della mano che le aveva sfondato la cassa toracica stringendole il cuore ancora caldo e pulsante fra le dita. Soltanto quando glielo strappò dal petto la luce nei suoi occhi si spense, e anche allora Leona giurò che lo sguardo vacuo del cadavere della piccola banshee fosse trionfante. Ellak lo gettò via, lontano da suo corpo, come se fosse terrorizzato al pensiero che il suo cuore potesse tornare al proprio posto per infonderle nuovamente fiotti di vita nelle vene esangui. Rise come un pazzo con le mani macchiate del sangue di sua sorella, e si crogiolò nella sua follia. Quando si voltò per festeggiare la sua vittoria col padre, lui chinò la testa per nascondergli le lacrime che non avrebbe mai dovuto vedere. Ferito nell’orgoglio gli urlò «Questo è per te padre, spero che un giorno tu possa perdonarmi». Poi svanì lasciandosi inghiottire nel verde della foresta. Lui credeva davvero di aver vinto a mani basse quella sfida contro il destino. Leona invece sapeva che il folle fosse beatamente ignaro di aver aggiunto il tassellò definitivo al quadro che avrebbe decretato la sua fine. Quindi non si scomodò a dargli la caccia, lui era già morto. Era solo questione di tempo e la sua clessidra avrebbe esaurito fino all’ultimo granello. Se solo non fosse stato così accecato dal suo orgoglio avrebbe notato le chiazze d’erba appassite che si espandevano a macchia d’olio dal corpicino della bambina. Nel giro di qualche secondo, il prato, gli alberi attorno a lei avvizzirono seminando la morte in tutta la piccola radura. Attila avanzò come uno spettro in mezzo alla battaglia, strascinandosi i piedi a piccoli passi, come unico partecipante di quel corteo funebre. Leona non attese che raggiungesse il corpo, corse a recuperare la sua aquila distesa ai piedi dell’albero, ringraziando segretamente Dio che respirasse ancora, e invitò Carlisle a fare lo stesso con Esme. Bastò guardare il dottore negli occhi per confermare i suoi sospetti. Lui sapeva fin dall’inizio, faceva tutto parte del piano. Ingoiandosi l’irritazione per essere stata estromessa,  chiamò a sé Fabiano facendo trapelare dal suo tono l’urgenza di allontanarsi al più presto da quel luogo e gli concesse come unica possibilità quella di fidarsi del suo istinto. Il ragazzo, sebbene non capisse, come il resto dei sanguinari orfani di Ellak che li guardavano allontanarsi con aria stupita, fu abbastanza furbo da non controbattere i suoi ordini. In effetti, come avrebbero potuto accorgersi dello scambio dal momento che Attila e Hilde avevano inscenato la migliore interpretazione di loro stessi? Solo un padre e una figlia avrebbero potuto conoscersi così profondamente da poter assumere uno l’atteggiamento dell’altro senza destare alcun sospetto nell’ignaro spettatore, complice certamente il potere muta-forma del ciondolo del sole di Delilah.
Anche se rallentatati dai feriti, abbandonarono il campo di battaglia senza mai voltarsi, augurandosi di mettere una distanza abbastanza ampia prima che fosse troppo tardi.
Gli umani, negli anni avvenire, ricordarono quel giorno come il Grande Boato di Londra. Il giorno in cui la foresta di Highgate e un intero quartiere del sobborgo della capitale furono cancellate dalle cartine geografiche, rase al suolo da una potenza feroce, simile ad un piccola esplosione di una bomba a idrogeno, a cui nessun scienziato fu in grado di dare spiegazione. Fra le centinaia di vite umane spazzate via come mosche, nessuno riportò nei necrologi i sette vampiri delle clan dei sanguinari coinvolti in quel disastro apocalittico.
In verità, se solo avessero approfondito le antiche leggende, avrebbero saputo che nessuna calamità naturale a loro conosciuta, ben che meno un’onda sonora fuori dalla scala dei decibel, avrebbe potuto provocare una tale devastazione. Ma Leona e Carlisle ne conoscevano la causa e aveva pure un nome.
L’Urlo della Banshee.
Dall’altra parte, ci si poteva aspettare niente di meno da Hilde, figlia di Attila, Re degli Unni, giardiniere improbabile e Flagello di Dio?
Persino a distanza di chilometri dall’epicentro della bomba sonica, dopo quel giorno, Leona e Fabiano furono privati di una parte dell’udito che non gli sarebbe stata mai più restituita.

Angolino dell'autrice: Ciao a tutti! Questa volta sarò di pochissime parole anche perchè di per sè il capitolo mi  è uscito davvero troppo lungo (chiedo ancora perdono!). Volevo solo dirvi di farvi coraggio! Siamo quasi giunti alla fine! Manca soltanto l'ultimo capitolo e l'epilogo (a -2!). Credo proprio che prima della fine di dicembre la fan fiction si concluderà, finalemente, dopo quasi un anno che pubblico. Quindi non perdetevi l'ultimo capitolo!
Ps. Spero vivamente di non fare pasticci e di concluderla nel miglior modo possibile ^-^ Baciiiii ;) 

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Capitolo 57
*** LUX OMNIA VINCIT PARTE I ***


Capitolo 43 – Lux Omnia Vincit Parte I

Nel salone della guerra, destinato all’elaborazione delle strategie belliche, lo scoppiettio del fuoco, che spiralava nei propri giacigli di braci, aveva sostituito il cicaleccio isterico dei dodici strateghi dalle lunghe vesti blu. Nessuno dei loro sproloqui si era rivelato risolutivo, nessuno si era mostrato speranzoso. Una volta conclusa l’udienza con il consiglio dei sette, non avevano lasciato altro che la sconfortante evidenza che presto sarebbero morti tutti, almeno che non avessero consegnato il campo nelle mani del nemico, fuggendo nei silenziosi tunnel del labirinto di Pan. Tiziano non riusciva ancora a capacitarsi di come fossero giunti a quell’inevitabile epilogo. La regina delle fate era rimasta per tutto il tempo della riunione con la faccia incollata alla vetrata a volta che dava sulla vallata, le mani intrecciate sopra il seno, dove prima il ciondolo del sole le decorava l’esile collo, e le labbra increspate come se fosse un riflesso del tormento dei suoi pensieri. Sheila, sedeva accanto alla madre lanciandole di tanto in tanto occhiate angustiate. Il dolore le aveva scavato il viso di porcellana, le aveva prosciugato le guance rosee e morbide, adesso incavate come se qualcosa le risucchiasse dall’interno, e le ombre sotto i suoi occhi ricordavano a Tiziano quelli di un vampiro assetato. Si era rintanata nei suoi appartamenti dal giorno in cui aveva tanto insistito, ancor più della moglie, affinché Romeo ricevesse giusta sepoltura nel giardino degli eroi come lo era stato per Marcellus. Ovviamente era impossibile accogliere la sua richiesta. Romeo era un rivoltoso e un traditore, e il caso di Marcellus era completamente differente. Mark si era sacrificato per la sua sciocca nipote intercettando il proiettile a lei destinato e questo faceva di lui un martire a tutti gli effetti. Il Sire odiava Leona più di qualsiasi altro al mondo per aver rivoltato contro di lui il suo stesso figlio dopo tutto quello che aveva fatto per tenerlo lontano da lei, e l’aver perso a causa sua un fido consigliere non l’aveva che resa ancora più detestabile. Il Sire guardò ancora Sheila con perplessità. Non conosceva le motivazioni che l’avevano ridotta a quel pietoso stato larvale, e se tanto meno la sua stessa madre snaturata se ne interessava, perché avrebbe dovuto farlo lui? Il resto dei partecipanti, fra cui Hans e Amadeus, si nascondevano all’ombra delle statue ed era quasi certo che in tutta quella confusione non avessero ancora avuto modo d’intervenire, mentre a quell’esaltato di Bernardo non era stato permesso di presiedere al consiglio, poiché imprigionato con le gravi accuse di parteggiare in favore dei medjai traditori. Quando nell’aula non risuonò nient’altro che l’eco dei loro respiri, decise di interrompere le meditazioni machiavelliche di Valchiria.
«Mio Signore, è vero, la barriera è crollata ma possiamo ancora resistere, deve esserci un altro modo, possiamo chiedere aiuto agli altri campi, rimpinguare i nostri ranghi. Non possono negarci il loro aiuto». Il vecchio sollevò una mano rugosa con espressione stizzita. Si pizzicò la barba sistemandosi meglio nel suo trono e borbottò «E Riley, secondo te, dopo che abbiamo pubblicamente processato suo figlio e dopo averlo accusato di alto tradimento, verrebbe in nostro aiuto in un’impresa che si preannuncia già in partenza suicida? Londra ci volterà le spalle e così faranno anche i protettori tedeschi e francesi. Da quando abbiamo interrotto il traffico commerciale di armi e del bronzo di Hijir, non abbiamo intrattenuto più alcun rapporto con loro. Si tratta di un evento senza precedenti a cui nessuno di noi era preparato. E poi non possiamo permettere ad altri che sappiano del Linckage, scateneremmo una corsa sfrenata al potere e chissà nelle mani di quale individuo ebbro di deliri di onnipotenza potrebbe cadere una magia oscura del genere. Non è mai accaduto che un campo di protettori sia rimasto scoperto e che sia soggetto ad invasione nemica. Le terre sacre dei nostri antenati verranno comunque violate e non possiamo permetterci più perdite di quelle che potremmo subire se…».
«Antenati che si rivolterebbero nella tomba se solo i loro fantasmi potessero assistere a tutto questo». La voce squillante e canzonatoria di Delilah si fece spazio fra loro. «Taci fata! Hai ancora il coraggio di proferire parola dopo che un gruppo scalmanato di bambini si è impossessato del tuo inestimabile amuleto? È colpa della tua inettitudine e dei tuoi ridicoli incantesimi se ci troviamo in questa rovinosa situazione. Avremmo dovuto rivolgerci ai maghi bianchi fin dall’inizio».
La veste vaporosa di Delilah si gonfiò attorno a lei quando si diresse tutta impettita di fronte al trono dell’anziano. La regina strinse i denti e puntò un dito contro Valchiria con la furia traboccante dai suoi occhi nocciola «I miei incantesimi non vi dispiacevano così tanto quando le vostre tasche si riempivano straripanti fino all’orlo vendendo la vostra gioventù come agnellini da mattatoio! Se solo il nucleo della mia isola non fosse collegata a Betelgeuse, se non andassero incontro allo stesso destino, la lascerei fare, sì, riderei a crepapelle sapendovi tutti sotto le grinfie di mia sorella e delle sue arcigne Sidhe. Mi gusterei ogni singola tortura mentale che vi infliggerebbero fino a che non implorereste la morte! E invece sarò costretta a difendere una terra che nemmeno mi appartiene per la vigliaccheria di vecchi esseri imbalsamati coi denti luccicanti di lurido oro rubato». Gli anziani presero a imprecare contro gli antichi dei, profondamente oltraggiati dalle invettive della fata dai capelli dorati.
«Non c’è motivo di discutere in un momento come questo» disse Tiziano cercando di placare gli animi «Avevi detto che c’era ancora una possibilità». Delilah dapprima rigida per la rabbia si sciolse in un sorriso enigmatico. Si arricciò una fluente ciocca dorata fra le dita e prese a circuirlo a passi lenti.
«Non credo che siate disposti a sacrificare così tanto».
Tiziano represse l’istinto di avvolgere le sue mani sul collo della regina e parlò pacatamente a dispetto del fuoco che ardeva dentro di lui «Questo lascialo decidere a noi. Non sottovalutare l’amore per la nostra terra, non sai nemmeno cosa siamo disposti  a fare pur di proteggerla. Perciò adesso illuminaci». Lei, più di chiunque altro avrebbe dovuto comprenderlo, avrebbe dovuto sapere fino a che punto era stato capace di spingersi. Prima gli capitava spesso di farsi sopraffare dai rimorsi. Elucubrava su tutti quei possibili se che avrebbero potuto concedere alla sua fiera Sara un futuro diverso. Se non le avesse impedito di sposare il ragazzo che credeva di amare, se non lo avesse minacciato di inscenare la rottura con lei, se non gli avesse impedito di raggiugerla dopo la sua fuga, se non fosse finita in quella tana di mannari, se accecata dalla rabbia nei suoi confronti  non avesse abbassato la guardia, se… a quel punto Tiziano non riusciva ad andare mai oltre quelle meditazioni senza odiare profondamente se stesso. Si odiava soprattutto per la gratitudine che nutriva per l’insana ossessione di quel meschino succhia sangue senza anima che si era invaghito della figlia al punto da barattare la sua immortalità per vita della sua Sara. Quel putrido cuore morto che ora pulsava nel petto di lei e che miracolosamente l’aveva riportata da lui…Schiava, ma pur sempre viva.
«Non funzionerà mai» decretò severa Sheila coi pugni stretti sulle ginocchia «E anche se ci riusciste, nessuno potrebbe essere tanto presuntuoso o folle da controllarlo. Non senza le reliquie o un medjai. E mi sembra che siamo a corto di entrambe le cose al momento».
«Non potete tenerlo in considerazione sul serio!» sbottò Amadeus riemergendo dalle ombre «Non possiamo risvegliare l’Antico, è una follia! Suo Clementissimo, ammesso che riesca a sbaragliare i nostri nemici, senza esercitare un controllo ferreo su di esso cosa gli impedirà di rivoltarsi contro di noi? Le perdite saranno incalcolabili. E cosa ancora peggiore sarebbe se sconfinasse nel mondo degli umani».
«Quale sarebbe il prezzo da pagare?» lo ignorò Tiziano rivolgendosi direttamente alla regina delle fate. Delilah inclinò la testa di lato corrucciando la fronte «Cento sacrifici umani dovranno gettarsi nella fossa dell’Antico. Disponete di un numero così alto di protettori felici di morire così atrocemente per risvegliare un mostro leggendario?» li motteggiò come se disprezzasse anche solo la possibilità che fossero disposti a così tanto.
«L’umanità è il diversificante che potrebbe limitare l’efficacia del sacrificio? E se fossero umani e…qualcos’altro?» chiese il Sire vaneggiando su quell’espediente. 
La domanda incuriosì non poco il capo del consiglio «Che cosa hai in mente?» sbraitò con l’arrabbiatura non ancora del tutto sbiadita. Il petto di Delilah prese a sobbalzare convulsamente prima ancora che il Sire intuisse che stesse sopprimendo una risata. Da come lo inchiodò con lo sguardo, Tiziano seppe che la reggente fatata aveva capito ogni cosa.
«Sei proprio senza scrupoli, mio caro. È grande il fardello della testa che porta la corona, come difficili sono le empie scelte che deve compiere per il benessere del popolo, soprattutto se la grandezza non ti è stata imposta dall’alto».
«Non ho tempo per i tuoi indovinelli da fata. È possibile o no?» domandò al limite dell’impazienza.
«Sì. La carne è carne dopotutto, ma non sarà quello l’ostacolo più insormontabile. Sto parlando di un cento più uno. Sacrificare qualcuno che non ha alcun potere decisionale è cosa di poco conto, ma chi fra voi sarà disposto a cedere volontariamente il proprio corpo affinché l’Antico si risvegli? Esso ha bisogno di un guscio pronto ad accoglierlo. Ma badate bene: una volta che il contatto tra l’immolato e l’Antico si sarà stabilito, non si potrà tornare più indietro». La fata aveva fatto breccia nelle paure più oscure dei loro cuori. Nessuno sano di mente o con un briciolo di amor proprio si sarebbe fatto possedere da una creatura leggendaria dormiente da millenni senza opporre resistenza. Il terrore sopraffece il Sire e prese a grondare sudore freddo dalle tempie. Era finita. Immolare i cento non lo turbava più di tanto, ma il solo pensiero di cedere la propria umanità…
«Mi offro volontario!». Un fiotto di speranza inondò le membra di Tiziano al suono di quell’invocazione inaspettata. La sua codardia non avrebbe macchiato la sua immacolata reputazione da veterano di guerra e sarebbe rimasta lontana dal giudizio spietato dei suoi simili. Si voltò per accertarsi che non fosse stato frutto della sua immaginazione e i suoi occhi si posarono sull’aitante cadetto della squadra anti-vampiro che aveva spezzato la linearità della barriera di protettori schierata a difesa delle porte della sala.  Per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Conosceva bene quel cadetto o più correttamente il familiare disprezzo che cresceva dentro di lui ogni volta che era costretto a guardarlo. Esplorò dalla testa ai piedi quello che lui aveva trasformato nel suo personalissimo capro espiatorio, colui la cui esistenza lo sollevava dalle terribili colpe che avevano portato alla rovina la vita di sua figlia. Si ripeteva fino allo sfinimento che se solo Sara non si fosse innamorata di quello sciocco e insulso ragazzo, lei oggi sarebbe stata al suo fianco e non schierata dalla parte sbagliata del conflitto. Il Sire strinse i pugni finché le nocche non gli divennero esangui mentre un sadico sorrisetto gli si delineava all’angolo della bocca, un leggero guizzo involontario celato nel folto della sua barba screziata di argento. Il suo capro espiatorio finalmente avrebbe avuto ciò che si meritava.
Valerio osò sfidarlo sostenendo le sue occhiate in tralice, ma non scorse alcun cedimento o crepa nella sua determinazione. Le viscere di Tiziano si attorcigliarono, bruciando d’invidia. Le gloriose vittorie che avevano costellato i suoi trentotto anni di battaglie sanguinarie contro la feccia della Terra, non lo avevano reso coraggioso o fiero tanto quanto appariva quel protettore in quel momento. E si rese conto per la prima volta, con immensa amarezza, della luce che Sara aveva visto brillare in quell’involucro di viscido donnaiolo. Lei aveva visto ciò che agli altri era impossibile vedere a causa dei loro ciechi pregiudizi e per una frazione di secondo quasi si pentì di aver intralciato con ogni mezzo possibile la loro unione proibita, poiché non avrebbe mai accettato la commistione delle umili origini del ragazzo con il sangue reale degli antichi re di Hijir che scorreva nelle vene della sua diletta prole.
Pensò che concedere al ragazzo quell’unico atto eroico lo avrebbe assolto da tutti i suoi peccati e avrebbe persino cancellato qualsiasi rancore nutrisse nei suoi confronti. Valerio non poteva saperlo, ma il grande Sire di Betelgeuse gli aveva appena fatto dono del suo perdono.
«Ragazzo, sei consapevole che la tua anima sarà imprigionata per sempre dentro il corpo di un mostro, che prenderà il controllo della tua coscienza, delle tue decisioni e che non potrai mai fare più ritorno?» lo mise in guardia Delilah addolcendo la sua espressione in quella di una madre amorevole. Era evidente che provasse pietà per il protettore e che si stesse maledicendo interiormente per aver offerto una così nefasta possibilità. Li aveva sottovalutati ancora una volta. Gli aveva mostrato quella via semplicemente perché non pensava che chiunque fra loro avesse abbastanza fegato per percorrerla.
«Lux omnia vincit, mia signora dei Fatui.  Non c’è onore più grande per un umile protettore come me di poter offrire la propria vita in cambio della salvezza della sua terra e il suo popolo» disse il ragazzo ammiccando verso la sovrana. Delilah non restò indifferente al fascinoso sorriso di Valerio, famoso perché in grado di sobillare la mente di qualsiasi donna, e lei, non costituì un’eccezione. La fata ricambiò il gesto annuendo nella sua direzione, arrendendosi con dispiacere di fronte alla sua incrollabile audacia.
«E così sia. Ma dovrai portare con te nella fossa anche un tributo, un oggetto che sia appartenuto a un medjiai e che porti in sé una traccia del loro potere, o l’Antico potrebbe non accettare il tuo sacrificio».
«Non sarà un problema procurarmi ciò che serve» la  tranquillizzò il protettore dai capelli rossicci. Poi chiuse gli occhi come a volersi concedere un ultimo istante di intimità prima di donarsi completamente all’oscurità, come a volersi scusare con se stesso del terribile destino verso cui stava correndo felicemente incontro. O forse pensava ancora a lei? Stava implorando segretamente il perdono della ragazza che amava? O semplicemente perché lo era già diventata, desiderava trasformarsi in un mostro esattamente come lei? Tiziano non seppe mai cosa frullasse nella testa di quel protettore e forse era giusto così. Quando li riaprì, il Sire cercò disperatamente di scorgere la paura dentro i suoi occhi, e ne rimase profondamente deluso. Tiziano incassò la sconfitta in silenzio e giunse le mani dietro la schiena con la remota speranza di vederlo scappare via dalla sala per salvarsi la pelle, soltanto per dare soddisfazione al suo ventre orgoglioso, per avere conferma che non si fosse sbagliato sul suo conto. Ma non lo fece. Invece, tutto quello che gli sentì dire fu: «Quando si comincia?».
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Gabriel e gli altri avevano radunato i pochi membri della resistenza che ancora non avevano lasciato Betelgeuse. Era stato più facile di quello che credeva convincerli a fare fronte unito contro il nemico ormai alle porte. Ben che meno non si aspettava che si inchinassero di fronte a lui adorandolo come un dio formato bambino. Non che tutte quelle adulazioni gli dispiacessero - Morgana aveva smorzato qualsiasi suo tentativo di gongolarsi con una sola occhiataccia - ma  era chiaro che parte del merito andava all’enorme muraglia di cristallo che si ergeva come un colosso alle sue spalle, quella che lui stesso aveva costruito per proteggerli. Quei protettori credevano in lui, si aspettavano che li guidasse verso la vittoria, che li salvasse con qualche altro bizzarro miracolo, e questo lo capiva da come ciascuno di loro pendesse dalle sue labbra. Ma lui non era affatto un dio, era un ragazzino di carne ed ossa come loro e anche se godeva di un indiscutibile potere non aveva la più pallida idea di quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Non sapeva che pesci pigliare né tanto meno tirar fuori un coniglietto paffuto dal cilindro. Le sue abilità non rientravano certo nei giochi di prestigio. Il fiume non avrebbe retto per sempre, magari sulle prime gli avrebbe fatto guadagnare del tempo, avrebbero impiegato un po’ prima di sfondare il lastricato ghiacciato creando una breccia attraverso cui avrebbero invaso il loro territorio. Temeva il peggio e desiderava più di ogni altra cosa che sua sorella fosse lì con lui ad assorbire tutte le sue insicurezze e che Fabiano gli offrisse la sua spada per combattere al suo fianco per potersi sentire ancora una volta invincibile. Ma meritava davvero il loro aiuto? Gli faceva male il pensiero di tradire Leona ma si trovava costretto a prendere le redini di quella spiacevole situazione, non poteva lasciare che la malia di un vampiro la conducesse fuori dal sentiero che avevano imboccato insieme quando ancora erano bambini, non adesso che il traguardo era così vicino. Lei voleva ancora la sua vendetta, doveva solo ricordarglielo.
Quando Morgana posò una mano sulla sua spalla, avvertì la sua tensione da come pressava i polpastrelli nella sua giacca. Sospirò mettendo il guinzaglio attorno al collo delle sue paure, rilegandole in un angolo nascosto della sua mente. Doveva essere forte per entrambi, non avrebbe permesso a niente e nessuno di farle del male.  E come se lo avesse avvertito, fu allora che si accorse che qualcosa non andava. Dapprima le oscillazioni erano tenui, vibravano appena contro le suole dei suoi scarponcini. Piano piano però le percussioni aumentarono d’intensità sostenendo un ritmo costante a intervalli regolari come il battito di un cuore, come se la terra emettesse delle pulsazioni. Si ripiegò sulle ginocchia e sfiorò il terreno con il palmo della sua mano. Non se lo era immaginato, la terra gli trasmise il tremolio ininterrotto di quei tonfi lungo le ossa delle braccia fino a raggiungergli il midollo. Le scosse non cessarono, anzi si facevano sempre più forti tanto che era in grado di avvertirne il rumore che emettevano alternandosi di qualche secondo l’uno dall’altro. Quando il battito divenne più vicino, distinse chiaramente il suono di uno sciame di passi cadenzati. Passi che la neve avrebbe dovuto attutire. Una marcia militare. Deglutì e sollevandosi da terra con uno scatto ordinò a tutti di farsi da parte. Quel giorno il sole era alto rispetto alla linea d’orizzonte e i suoi raggi caldi abbracciavano le curve delle colline innevate dove un esercito avanzava dritto verso di loro. In lontananza non erano che indistinguibili forme ombrose che percuotevano il terreno talmente sincronizzati da sembrare un corpo solo. Quando non rimasero che una cinquantina di metri a dividerli, i protettori esultarono di gioia, stupore e sollievo riconoscendo i volti familiari dei loro cari.
“Sono tornati a casa” dicevano, “Mio figlio è vivo!” esclamava un padre fra le lacrime correndo verso il figlio perduto da tempo per gettargli le braccia al collo. Gabriel non aveva fatto in tempo ad avvertirli. Non era l’esercito che stavano aspettando, non erano più i protettori che avevano conosciuto una volta, portavano solo una maschera di coloro che avevano amato. L’uomo si fece spazio fra le fila di soldati per raggiungere il suo ragazzo, preoccupandosi a malapena di aver interrotto la marcia. Lo strinse forte singhiozzando sulla sua spalla e gli domandò cosa gli fosse successo. Lo sguardo dell’abominio rimase glaciale e impassibile, indifferente di fronte alla gioia di quello non riusciva a riconoscere come suo padre. Gab glielo lesse negli occhi. Quello non era più suo padre: era uno ostacolo. Un ostacolo facile da rimuovere dal suo cammino, niente di più che un sassolino. Perciò quando il ragazzo gli cinse le spalle, il protettore non si aspettava che lo scaraventasse via con una forza disumana, senza nemmeno una ruga di sforzo o rammarico a segnargli la fronte, lasciandolo infreddolito a rotolarsi nella neve. Il medijai non trovò il coraggio necessario d’incrociare gli occhi dell’uomo distrutti dal dolore. Preferì seguire la direzione del corteo di abomini cercando d’intuire quali fossero le loro intenzioni.
«Perché non ci stanno attaccando?» domandò Ascanio, già infervorato in vista di una battaglia.
«Non pensavo che ce ne fossero così tanti» bisbigliò Marlena mentre una nuvola di vapore sgattaiola via dalla sua bocca spalancata.
«Sono cento abomini in tutto» li contò accuratamente Norman «Che cosa gli avranno comandato di fare?».
Caterina affondò la lancia nella neve e si concesse una breve risata «Perché non provi a chiederglielo? Mi sembrano di buon umore oggi, magari non cercheranno di ucciderti».
«Credo siano diretti a est, verso la montagna primordiale» suppose Morgana cercando involontariamente la mano di Gabriel. Quando gliela strinse, si accorse che ne aveva bisogno tanto quanto lei.
«È vero quello che si dice?» domandò Ethan col suo marcato accento britannico «In quella montagna riposa davvero l’Antico, una creatura spaventosa forgiata dall’acqua, dalla terra, dal fuoco e dall’aria? Quella che si dice che abbia donato i poteri elementali ai medjai?».
Marlena si pressò tre dita sulla labbra per mettere a tacere un risolino nervoso «Andiamo damerino! Non crederai alle frottole di una vecchia leggenda per spaventare i bambini?».
I sei protettori si girarono all’unisono nella sua direzione fissando la bionda con impazienza. Ognuno di loro, persino Ascanio, anche se non lo avrebbero mai ammesso, avrebbe voluto darle un sonoro ceffone sulla nuca. Qualunque protettore sapeva di non dover assolutamente ridicolizzare ad alta voce le storie delle antiche leggende a mo’ di gesto scaramantico. Se affermavi di non crederci, allora la leggenda tornava in vita per vendicarsi della tua miscredenza. Alla fine, Gab fu l’unico a dare voce all’indisposizione corale dei suoi amici.
«Marlena, non hai ancora imparato? Le leggende sono tutte vere».
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«Sappiamo tutti cosa va fatto» disse Rosalie scattando dal divano mentre soffici ciocche di capelli biondi le ondeggiavano sulla schiena «Eppure nessuno di voi mi pare stia preparando le valigie per l’Italia!». Edward aveva perso il conto di quante volte la sorella andasse in escandescenze per futili ragioni che avevano esclusivamente a che fare con il suo ego spropositato, un ego così grande che chiunque si sarebbe sorpreso di come riuscisse a stare tutto dentro a quel  favoloso corpo da bambola viziata e narcisista. Perciò ammettere in quel momento che, a rigore di logica, era l’unica in quel salotto ad avere un quadro chiaro della situazione, lo sconfortò. Il suo istinto di autoconservazione non era né criticabile, né fuori luogo dal momento che stava implorando la sua famiglia di vampiri di sopravvivere all’estinzione, ed Edward era costretto a concederle che, seppur contorto per certi versi, l’amore nei loro confronti era indiscutibile e che la sua furia del tutto giustificata fosse scaturita dallo loro inspiegabile inerzia di fronte alla faccenda.
«Andiamo Rose non ricominciare, ne abbiamo già discusso. I Volturi non possono essere la nostra ultima risorsa» cercò di farla ragionare Emmet prendendola in vita e avvicinandola a sé per poterla guardare negli occhi. Lei gli afferrò i polsi e lo scacciò via con un manrovescio. Lo schiocco di pietra su pietra riverberò come una frusta fra di loro. Emmet grugnì il più rumorosamente possibile roteando gli occhi come se cercasse sul soffitto la pazienza che aveva perduto.
Certe volte è esasperante! si sfogò interiormente conscio che il fratello telepatico fosse in ascolto. Edward sbatté una volta le palpebre, anche se non ne aveva alcun bisogno, soltanto per fargli sapere che lo compativa. Nel frattempo Rosalie aggirò il tavolo fino a trovarsi di fronte a Carlisle, seduto con una compostezza di cui solo un immortale era capace. Carlisle, al contrario degli altri, non era affatto combattuto, non c’era nessuna lotta interiore contro la sua moralità, sapeva esattamente di chi avrebbe preso le parti anche se questo significava mettere in pericolo tutti loro. Edward ammirò profondamente quella risolutezza e osò sperare che un giorno, se solo fossero sopravvissuti a quell’apocalisse, potesse averne anche solo un briciolo di quella che mostrava adesso suo padre.
«Abbiamo stabilito che non è nostro compito salvare l’esistenza di quelli come noi» evitò accuratamente di pronunciare ad alta voce la parola vampiri  «e mi sta bene,  ma se non possiamo coinvolgere loro o quanto meno lasciare che prendano una decisione, dovrei starmene qui buona, buona ad aspettare che il desiderio di vendetta di un adolescente arrabbiato con l’universo ci riduca in polvere?»
Vuoi davvero questo Carlisle? Urlò nei suoi pensieri risuonando nella testa di Edward carichi di angoscia e paura. Perché sì, Rosalie aveva una paura tremenda. Nessuno sembrava in grado di esorcizzare quell’infimo sentimento tipicamente umano che si era risvegliato in loro. E guidata ancora da quella paura Rosalie proseguì «Ti prego Carlisle, so che detesti l’idea di uccidere, nemmeno io faccio i salti di gioia all’idea, ma sii ragionevole. Siamo in sette, non dovrebbe essere un grosso problema mettere fuori dai giochi un piccolo protettore per di più distratto dalla foga della battaglia. Ovviamente non soffrirà, in mezzo a tutto quel trambusto non ci sentirà nemmeno arrivare…».
«È di un medjai che stiamo parlando, non di un comune protettore che in sé potrebbe anche darci qualche grattacapi. La fai facile, ma tu non sai di cosa sono capaci» ci tenne a farle notare Jasper, sempre rigoroso nelle sue valutazioni trattandosi di pianificare una strategia «Se è solo anche la metà di quanto è potente lei… E poi c’è quella sua Chimera!». Edward si ritrovò investito dalla profonda stima, nascosta in cantuccio non indifferente della mente Jaze, che riservava a quella piccola protettrice dai lunghi capelli corvini. La rivedeva danzare con le sue spade, agile e aggraziata come una gazzella ma allo stesso tempo spietata come un uragano. Jasper l’aveva studiata alla perfezione. Non solo temeva un confronto con lei, ma trovava fosse un terribile spreco togliere dall’equazione una creatura così straordinaria e unica nel suo genere, capace di domare la vastità degli oceani o placare la voracità delle fiamme. Semplicemente non lo trovava giusto o forse era talmente incuriosito da voler conoscere i limiti dei suoi poteri… ma non abbastanza da mettere a rischio Alice. Se fare fuori Gabriel avrebbe significato risparmiarle la vita, allora non avrebbe esitato. Quindi, anche se l’idea lo ripugnava, alla fine avrebbe appoggiato l’iniziativa di Rosalie.
Edward si immaginò una lampadina accedersi sopra la testa di Emmet «È davvero così forte?» disse inarcando un sopracciglio.
«Non ne hai idea» confermò Jasper sorridendogli con la sfida che aleggiava nell’aria. Persino più forte di te, si risparmiò di riferirgli anche se gli pareva piuttosto implicito.
«Allora voglio conoscere anche io questa Leona» affermò Em incrociando le enormi braccia tornite all’altrettanto spazioso petto muscoloso. Rosalie chiuse un pugno sul tavolo che cigolò sofferente sotto la sua forza. Esme al suo risveglio non ne sarebbe rimasta affatto contenta…
 Ci risiamo… esclamò Emmet nella sua testa.
«Possiamo evitare inutili divagamenti, per favore?» sibilò fra i denti. «Mi dite a che serve avere dalla nostra la capacità di vedere nel futuro, se non per prevedere le  mosse del ragazzo o cercare un’alternativa che faccia al caso nostro e che non implichi la tragica fine di tutti noi?» disse lanciando un’occhiataccia alla tromba delle scale dove Alice se ne stava chiusa nel suo silenzio con le ginocchia al petto.
«Vedo che se muore Gabriel, Leona morirà con lui. È strano, non ci sono né sangue né ferite su di lei. Quando il cuore del gemello smette di battere, si arresta anche il suo…É come se in qualche modo siano legati ma non riesco proprio a capire perché…»
«Bè mi dispiace che la ragazza sia solo uno sfortunato effetto collaterale, ma non vedo altra scelta»  ribatté Rosalie spiazzandoli tutti con la delicatezza di una mietitrebbia.
«Edward tu che ne pensi?» gli domandò Carlisle. Si sorprese di come suo padre fosse interessato alla sua opinione, ma ne fu lusingato. Edward più ci rimuginava, più soccombeva sotto il peso dei suoi pensieri contrastanti. Si passò una mano gelata in faccia giusto per schiarirsi le idee.
«Effetto collaterale…» mormorò sorridendo amaramente a quell’ingiusto aggettivo. Il vampiro pensò a quanto quel piccolo effetto collaterale dagli occhi blu gli fosse penetrato dritto dentro al cuore, rianimandolo dalla sua perenne aritmia senza nemmeno chiedergli il permesso. Aveva visto nelle visioni di Alice come li aveva difesi dalle accuse della sua gente, l’inguaribile speranza che ardeva in lei che i vampiri non fossero solo famigerati assassini dimenticati da Dio, ripensò al suo coraggio, a come fosse pronta a morire per la sua verità, a tutte le sofferenze indicibili che aveva patito senza meritarsene alcuna di esse. Lei sarebbe stata la loro avvocata fino alla fine, anche se avrebbe voluto dire mettersi contro suo fratello, colui che amava più della sua stessa vita.
«Rose guardami negli occhi e sii sincera. Pensi davvero che meritiamo questa vita più di loro? È stato proprio uno come noi a uccidere i suoi genitori, come credi che si senti? La vendetta di Gabriel è davvero così sbagliato o diversa da quella di cui tu hai potuto godere?».
Ed, ti prego non farle questo… lo richiamò la voce profonda di suo fratello Emmet. Ma Rosalie ormai era  un rebus di espressioni facciali incomprensibili che andavano dalla rabbia all’incredulità. Edward non scostò lo sguardo dal suo e non si pentì della domanda che le aveva posto.
E tu pensi davvero che io abbia mai potuto desiderare tutto questo? Pensi che rimanere appagata dal mio riflesso allo specchio sia una ricompensa sufficiente? O che mi rendano felice gli innumerevoli anni che mi aspettano nell’avvenire? In un mondo che non avrà mai fine, sempre uguale a me stessa, costretta a nascondermi alla luce del sole? Io amo Emmet, tu sai quanto, e non rinnego il tempo che mi è stato concesso di passare al suo fianco, ma conosci i miei pensieri meglio di me, e sai quante volte ho desiderato che Royce fosse una persona diversa dal mostro che era in realtà, se solo non fosse stato quel viscido e disgustoso omuncolo immeritevole anche solo di respirare. Ho assaggiato così bene la cattiveria umana da non santificarli come tu, Carlisle o Esme tendete a fare. Forse è vero non meritavo questa seconda possibilità, questa seconda vita, ma non la disprezzo, ho imparato con grande difficoltà ad accettare i benefici del mio corpo immutabile, sterile, e non puoi biasimarmi se voglio lottare per tenermela stretta perché è tutto quello che mi rimane. Non sono un insensibile, riesco a comprendere i sentimenti del ragazzo, forse anche meglio di quanto potresti fare tu. Ma so anche che ti reputi un mostro tale da non meritare di vivere, tanto da cercare la morte con le tue gambe, e  non lascerò che i tuoi istinti suicidi mi portino via tutto quello che ho faticato a costruire!
«Se me lo avessi chiesto poco tempo fa, probabilmente sarei stato dalla tua parte» disse Edward. Emmet lanciò un’occhiata confusa prima ad Alice e poi a Jasper per capire cosa si fosse perso. Entrambi scrollarono le spalle, perplessi tanto quanto lui.
«Ma sia io che tu, e chiunque qui dentro, dobbiamo troppo a quella ragazzina per non fidarci di lei. Non esiste un solo, unico e inevitabile futuro. Gli eventi cambiano in continuazione, basta anche solo un sassolino per discrepare la superficie dell’acqua e quella semplice perturbazione si ripercuote in un’infinita gamma di possibilità. Non sto dicendo che voglio che tu ti arrenda o che smetta di lottare, è un tuo sacrosanto diritto e non gioisco  di certo nell’immaginarmi la fine della nostra famiglia. Vorrei soltanto che tu ti fermassi a pensare che quella non è l’unica strada da percorre. Fermati» ripeté «e cerca un modo per far cambiare idea a Gabriel o sostenere Leona in questo proposito. Io penso che se possiamo in qualche modo fare la differenza, dovremmo fare un tentativo…».
   Inizio a intravedere quella possibilità, pensò Alice sorridendogli attraverso la ringhiera. La visione è ancora sfocata, sono così tante le variabili e gli elementi che ne confondono i contorni, ma sento che qualcosa è cambiato. Leona ha un piano, sta nascondendo qualcosa, l’ho vista complottare con quel bizzarro tizio corpulento vestito di sete orientali. Vedo noi, venire in suo aiuto, combattere al suo fianco in quel marasma caotico di fate, vampiri, abomini e…devo darle qualcosa, qualcosa d’importante. È una…scatola? Che cosa ci sarà dentro…
La voce penetrante di Rosalie interuppe il filo dei pensieri di Alice «…E unirci a una battaglia che non è la nostra?» stava strillando a tutto volume «Ma guardatelo si è affezionato alla bambina! Forse è giusto che ti rinfreschi la memoria: ha giocato con la vita di Esme! È egoista tanto quanto lo sono io, non ci penserebbe un solo attimo a difendere i suoi amici se noi costituissimo una minaccia alla loro sicurezza. Ha persino cercato di uccidere te, dannazione! Non posso credere che ti sia fatto prendere in giro da un bel faccino! Mi dispiace ma se non volete farlo voi andrò da sola, per il bene di tutti. Sono sicura che Aro sarà entusiasta di sguinzagliare la sua guardia nell’ennesima spedizione punitiva…». Non appena ebbe esalato l’ultima parola, Emmet si precipitò davanti la porta di casa a sbarrarle la via. Con le sue enormi spalle ricopriva la larghezza dell’entrata da uno stipite all’altro, deciso più che mai a sabotare quella follia. Edward era sempre stato in sintonia con Emmet, il fratellone che ricordava la stazza di un grizzly, nonostante avessero caratteri totalmente agli antipodi. Em aveva la battuta pronta per ogni circostanza e riusciva a trovare sempre il momento giusto per piazzare il suo umorismo glaciale, che a volte faceva ridere soltanto lui,  al contrario di Edward, decisamente più ombroso e riservato. Rosalie era abituata ad essere accontentata in ogni suo capriccio, detestava come gliela lasciasse sempre vinta, infatti i loro litigi si concludevano spesso in camera da letto, camera che puntualmente andava ristrutturata e riprogetta dall’inizio considerando la devastazione che si lasciavano dietro. Quindi, quando se lo ritrovò davanti, non si aspettava di certo quell’esuberante e inattesa presa di posizione da parte sua. Ma quella volta era davvero arrabbiato, come poche volte lo era stato.
«Levati dai piedi» gli abbaiò Rose soffocando un ringhio.
«Libera di andare» disse senza perdere il suo familiare ghigno derisorio «come anch’io sono libero di stare dove voglio» aggiunse piantando i piedi sull’uscio.
«Non posso crederci…nemmeno la conosci!».
«Non lo faccio per lei, lo faccio per te. Non posso permettere che la paura ti offuschi la mente e ti faccia fare qualche sciocchezza di cui potresti pentirti e che mi costringerà a fare a pezzi chiunque intralci la tua strada». Rosalie sbarrò gli occhi e spalancò la bocca come se Emmet avesse insultato sua madre. «Io non ho paura!» negò con foga, schiappandogli due pugni sul petto. Aveva afferrato solo la parte del discorso che l’aveva ferita. Emmet sospirò e avvolse le sue mani attorno quelle di lei facendole sparire dalla loro vista.
«Tutti l’abbiamo Rose, tutti temiamo di perdere le persone che amiamo. Ma noi ce la faremo. Dobbiamo soltanto fare un salto nel vuoto e avere fede che la ragazzina dia una bella ripassata al fratellino per farlo rinsavire, e se nel frattempo vuoi proprio prendere a pugni qualcuno, forse dovresti indirizzare la tua rabbia altrove. Noi andremo in Italia, ma non a Volterra, è fuori discussione». Edward colse la distrazione per lanciare una rapida occhiata a Jasper e indurlo a sedare i livori della loro sorella furiosa. Le mani di Rosalie sgusciarono fuori dalla presa di Emmet per piantarsi sui fianchi.
«Siete tutti degli ipocriti!» urlò, ma con meno enfasi di prima. L’effetto narcotizzante di Jasper iniziava a dare i suoi frutti «La verità è che la pensate tutti esattamente come me, solo che non avete il coraggio di ammetterlo».
«Non io» esordì una voce soave facendo il suo ingresso in salotto. Sua madre avanzò in mezzo a loro abbagliandoli con il suo dolce sorriso e Edward fu pervaso dal sollievo.
«Esme» sussurrò Carlisle andandole incontro. I due si fusero in un abbraccio così intimo e profondo da costringere tutti i presenti a voltarsi da un’altra parte. «Sto bene, non devi preoccuparti per me. È tutto passato» gli bisbigliò piano stampandogli un bacio dietro l’orecchio. Poi i suoi occhi d’oro liquido guizzarono subito oltre la spalla di Carlisle, posandosi compassionevolmente su Rosalie.
«Cara, so quello che provi in questo momento…»
«Ne dubito…» borbottò lei, incapace di alzare la voce con Esme.
«Ma non è come pensi» continuò fingendo di non averla sentita «Io e Carlisle conoscevamo i rischi che comportava il salvataggio di Hilde e sarebbe potuta finire molto peggio di così se Leona e il ragazzo non ci avessero aiutato. Hilde adesso è sana e salva con la protettrice che ha promesso di prendersi cura di lei. Voi non c’eravate e non avete visto quello che io ho veduto nei suoi occhi…Lei non merita tutto questo e io non permetterò che le facciano del male».
«Bene, ha ipnotizzato anche te, fantastico.» squittì incrociando le braccia «Non mi resta che metterla ai voti. Jasper, sono certa che tu sia l’unico qui dentro a cui sia rimasto un briciolo di cervello. Hai detto tu stessa che sono pericolosi, quindi perché rischiare quando…».
«Quando avrete finito di decidere a sorte della vita di mia madre, avrei una o due cosette da proporvi» disse una voce proveniente da un ragazzo seduto comodamente sul divanetto accanto al pianoforte. Per una frazione di secondo rimasero tutti impietriti.
«E questo qui da dove diamine è entrato?» esclamò Emmet, partendo alla carica. Edward scattò subito per bloccare il fratello poggiandogli una mano sul petto ed Alice saltò gli ultimi gradini con un balzo aggraziato, raggiungendo Jasper.
«Ancora tu!» lo accusò lei. Lo conoscete? Gli domandò Carlisle anteponendosi istintivamente di fronte a Esme con fare protettivo, facendo un cenno a Edward.
«Noah. È stato lui a farci incontrare con Leona a Londra» confermò lui, rimanendo pur sempre diffidente.
Emmet cercò di aggirarlo liberandosi del braccio che gli era d’impedimento «E chi diavolo sarebbe tua madre?».
«Quella che stavate progettando di uccidere attraverso mio zio» rispose guardandosi distrattamente attorno per ammirare l’arredamento.
«Meraviglioso, un altro pazzoide!» commentò Rose a denti stretti.
«Amico, non sarò di certo uno scienziato luminare, ma non ci vuole certo una laurea in matematica, per capire che quello che dici non ha alcun senso. Non pensi di essere un tantino cresciuto per essere suo figlio?».
«Lo so, è stranissimo, credimi! È un po’ come ritorno al futuro…» disse grattandosi il mento. Poi accorgendosi delle loro occhiate confuse, specialmente quella di Emmet, si schiaffeggiò la fronte «Oh Grande Giove, non siete ancora pronti per questo…avete ragione. Ma aspetta e vedrai zio Em, ti piacerà».
A quel punto Emmet si mise a riflettere sul mistero nascosto implicato dalla parola zio, borbottandolo sottovoce…«Che cosa vuoi Noah?» lo interrogò Edward cercando di filtrare i pensieri confusi della sua famiglia sconvolta da quella visita inaspettata. Lui sbuffò roteando i profondi occhi blu che pareva di aver già incontrato da qualche parte…Dannazione, aveva davvero i suoi occhi.
«Se mi lasciaste finire!» si lamentò lui gesticolando nervosamente.
«Edward! È la scatola della visione» lo interruppe Alice avvicinandosi all’intruso che nessuno aveva invitato ad accomodarsi nel loro salotto «quella con la “m” stilizzata incisa sul legno del coperchio!». E in effetti Noah teneva in grembo una scatola del tutto simile a quella che Alice aveva visto in quel possibile futuro. Il volto di Noah s’illuminò di sollievo «Oh, bene  sai cos’è allora! Mi farai risparmiare un sacco di inutili spiegazioni, così possiamo passare alla parte interessante».
«E sarebbe?» lo stuzzicò Jasper che ormai aveva raggiunto il fianco di Alice, inquietato dal fatto che si fosse avvicinata così incautamente allo sconosciuto.
  «Vi conviene sedervi» li invitò con un sorrisetto appena abbozzato all’angolo delle labbra, picchiettando nel posto a sedere accanto a  lui «Non sarà facile da digerire».

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Capitolo 58
*** LUX OMNIA VINCIT PARTE II ***


Capitolo 44 – Lux Omnia Vincit Parte II

Valerio

Tutto ciò che avrebbe ricordato Valerio sarebbe stato il pestilenziale lezzo di zolfo e altri gas sulfurei che non riusciva a distinguere con l’olfatto. L’antico aveva avuto a disposizione intere generazione per covare quel magma rovente e liquefatto che strisciava come un serpente fra gli interstizi della caverna. Aveva visto gli abomini precipitare uno dopo l’altro dentro a quell’immenso calderone di orrori senza nemmeno rendersi conto verso cosa stavano andando incontro. Non che avessero avuto altra scelta. La carne è carne aveva minimizzato la fata. Magari la morte era ciò di più misericordioso che gli si poteva concedere a dispetto della loro catatonia mentale di cui erano affetti. Non erano altro che succubi della volontà di qualcun altro. A differenza loro però, Valerio aveva scelto di sacrificarsi e quella scelta non era stata così difficile come si potrebbe pensare. In fondo non era così male. Non avrebbe più sofferto. Presto sarebbe tutto finito e l’immagine dello sguardo assente della sua Sara avrebbe smesso di torturarlo per sempre. Sì, gli sembrava un buon compromesso. Poco gli importava se avesse devastato ogni cosa. Lui era pronto anche a questo, poteva anche smettere di fingere di essere quello che non era. Un egoista, non un eroe, anche se quel segreto lo avrebbe tenuto solo per lui, non avrebbe permesso a nessuno di pensare il contrario. Avrebbe continuato a vivere nella memoria di tutti come una leggenda e questo lo appagava tanto da accettare tutto il resto. Ma questo non cambiava i fatti. Lui lo era fino al midollo e sarebbe morto come tale, pensò giocherellando con il cavalluccio di legno che aveva in tasca.
«Ne sei sicuro, ragazzo?» gli domandò il Sire con le mani infilate dentro le maniche e gli occhi glaciali che sembravano perforarlo da parte a parte.
«Con tutto il rispetto suo Clementissimo» si sforzò di mantenere un tono neutro «Capitano Augias, quattordicesimo squadrone anti-vampiro, se non le dispiace. Me lo sono guadagnato quel titolo, ora più che mai, e non ho alcuna intenzione di retrocedere a un passo dal tirare le cuoia» terminò sfiorandosi il petto con tre dita, giusto per utilizzare un’ultima volta il gesto del congedo ufficiale. Poi sogghignò sardonicamente alla vista del suo burbero cipiglio. Ormai non aveva più nulla da perdere.
«E comunque qualcuno doveva pur difendere la reputazione dei protettori italiani, e mettere a tacere qualsiasi ridicolo pettegolezzo sulla nostra presunta codardia. Non avrei permesso una tale fuga di notizie così denigranti. Non si angusti, potrà rendermi onore con una bella effige sulla mia tomba. Oh, e se accetta qualche suggerimento: “il più bello e figo di tutti” dovrebbe essere adeguato come commemorativo. Adesso, se le compiace, avrei un appuntamento improrogabile con un mostro che mi risucchierà l’anima per sempre, non vorrei farlo aspettare. Dicono sia parecchio irascibile» disse infine strizzandogli l’occhio confidenzialmente al suo quasi suocero. Non si fermò abbastanza a lungo per assistere alla sua reazione e marciò in silenzio verso il consiglio dei sette assiepato attorno all’abisso gorgogliante di lava. Il vecchio Valchiria gli allungò un coltello con il manico finemente intarsiato di simboli arcaici, scritti nella antica lingua di Hijir. I contorni del viso dell’anziano erano tremolanti per via delle ondate di calore che danzavano fra loro. I bagliori del magma riverberarono lunga la lama affilata. Impassibile come una statua, si incise un taglio sul palmo della mano lasciando che il sangue sgorgasse fuori dalla ferita e procedettero col patto, legandosi indissolubilmente alla volontà del capo supremo dell’intera guarnigione dei protettori di tutta Europa. A quel punto ripescò dalla tasca il giocattolo di legno rubato dalla stanza di Leona e lo strinse forte ignorando il liquido scarlatto che gocciolava sul pavimento.    
«Signore, signore, ci stanno attaccando. Stanno per sfondare la barriera di ghiaccio!». Il giovane protettore che era accorso a metterli in guardia al termine di quella maratona cacciava fuori ogni respiro con estrema difficoltà. Il Sire chiuse gli occhi riflettendo su quelle parole e borbottò qualcosa di simile a “non c’è più tempo”. Valerio si sorprese a voler temporeggiare ancora un po’, in memoria dell’ultimo briciolo di amor proprio che gli era rimasto, ma non poteva tirarsi più indietro. Guardò un’ultima volta il cavalluccio insanguinato di Leona e fu pizzicato da una strana elettricità. Non c’era alcun dubbio sull’autenticità del potere che trasudava. Si tamponò il sudore via dagli occhi con la manica della giacca e si mosse lentamente verso il suo destino. Aveva la bocca secca e il battito accelerato. Rise della sua paura. Poi rivolgendo un breve inchino al consiglio si avvicinò sempre di più al precipizio zampillante di lava «È stato un piacere signori…ma neanche più di tanto». Non avrebbe lasciato che quelle fossero le sue ultime parole.
Ti amo Sara, disse rievocando ancora una volta il sapore delle sue labbra, per addolcire la sua fine. Poi si gettò nelle braccia delle fiamme senza alcuna esitazione. Ma proprio mentre si lasciava avvolgere da quel tocco rovente, il rimbombo di un’arma da fuoco gli scoppiò nei timpani. Poco istanti prima di raggiungere il fondo, si rese conto di non essere stato l’unico a saltare nella fossa. Valchiria, il padrone con cui aveva suggellato il patto di sangue, lo stava accompagnando fin laggiù, nel ventre della montagna, con un bossolo incastrato fra le sopracciglia.
Il suo sorriso era spento. I suoi occhi contemplavano il nulla eterno.
Ma adesso che il suo padrone era morto, chi l’avrebbe fermato?

Tiziano

La canna della pistola era ancora calda e fumante quando sputò fuori altri sei proiettili. Il tiratore non aveva mancato un solo bersaglio, né le pallottole avevano dato prova di inefficienza alcuna. Il puro acciaio d’Hijir, fuso con una mistura di verbena e legno di biancospino, era sviscerato silenziosamente dentro le membra del consiglio facendoli lacrimare sangue sul pavimento. Tiziano osservò il loro ondeggiare incerto che s’interrompeva bruscamente sul baratro alle loro spalle, proprio mentre si accasciavano mollemente sulle loro gambe per abbandonarsi ai marosi bollenti della lava che beccheggiava nelle profondità di quella laguna infuocata. L’Antico era stato sfamato con una prima portata di innocenza, una seconda di eroismo e con un dessert di vecchie leggende indigeste, vanagloriosi dimentichi della sacralità del loro ruolo di anziani. Il consiglio era stato sterminato con le stesse armi che avevano impugnato con fierezza nella loro gioventù rocambolesca di cacciatori di esseri sovrannaturali. Tiziano ne avrebbe colto l’ironia se quelle morti, assolutamente non necessarie, soprattutto quella di Valchiria,  non avrebbero compromesso le già inesistenti possibilità di sopravvivenza del campo. Cubetti di ghiaccio tintinnarono nel suo stomaco, raggelandogli il sangue nelle vene: erano perduti. Tanto valeva partecipare a quel suicidio di gruppo e risparmiarsi il disturbo di assistere alla disfatta di un popolo che lui era stato incapace di difendere.
Se una occhiata avrebbe potuto ferirlo, allora Tiziano non avrebbe esitato ad azzannare il possessore della pistola con lo sguardo più cruento di cui era capace «Ti rendi conto di quello che hai fatto o sei stupido quanto credo che tu sia?».
L’assassino si umetto le labbra con la lingua, caricò le cartucce e gli sibilò come un serpente a sonagli di tacere, indirizzandogli la pistola sul petto «Ascoltalo. Gli ultimi gemiti del dormiente. Abbi rispetto, stai per assistere alla nascita di un dio ed io sarò colui che imbriglierà il suo potere» sbiascicò sghignazzando follemente. Le sue risate rimbalzarono sulle pareti rocciose e quegli echi giocondi sfrecciarono da tutte le parti sotto forma di dardi avvelenati.
«Sai io ti ammiravo» disse rivolgendo per un attimo la bocca dell’arma per terra. Tiziano sospirò piano per non farsi sentire e fissò con disgusto il suo ex braccio destro, sebbene timoroso di fomentare le sue follie, almeno fin quando si fosse trovato dalla parte sbagliata del mirino. Gli occhi lividi di Gomez e le gote flosce che gli pendevano sul mento sporgente gli parlavano celatamente di come gli eccessi delle sue manie di grandezza lo stessero corrodendo dall’interno. «Ma parliamoci francamente, non hai mai saputo pensare abbastanza in grande. E sono contento di questo o ci saresti tu a galleggiare in quella brodaglia incandescente al posto di Valchiria. Adesso mettiti comodo e goditi lo spettacolo».
«Non credo proprio, vecchio mio. La coppa da cui stai per bere contiene un nettare dalla dolcezza inarrivabile per il tuo modesto palato.»
 Gomez strinse gli occhi in due fessure «È sempre stato così non è vero? Non mi ritieni all’altezza? Be’ dovrai ricrederti mio clementissimo. La fortuna mi ha arriso quest’oggi e presto più niente potrà fermarmi. Sono io il suo padrone, lui obbedirà e risponderà solo a me. E ti consiglio di cominciare a piegarti sulle ginocchia se vuoi avere una speranza di elemosinare la mia pietà».
Tiziano si sollevò il cappuccio sulla testa centellinando la sua paura a piccole sorsate «Non me faccio nulla della pietà di chi è già morto. Hai appena firmato la tua fine e io non me ne resterò qui a sprecare fiato con te. Hai reso nullo il patto di sangue e hai dato libertà a un mostro che ci distruggerà tutti».
«Quale patto di sangue?» domandò mentre il rossore defluiva dalle sue guance.
«Io mancherò di immaginazione ma tu, mio caro hai ben altre deficienze con cui fare i conti» disse schermandogli la vista della sua espressione compiaciuta voltandogli le spalle. Un altro proiettile sfrecciò vicino al suo orecchio e per poco non sfiorò il tessuto del mantello.
«Era l’ultimo, eh? Comunque non avrebbe fatto la minima differenza. I nostri proiettili sono in grado di trasformare in cola brodo un vampiro di marmo ma con quello…».
«Non osare dare un altro passo! Esigo una spieg…» terminò la frase cinguettando come un allodola all’alba, la voce ridotta a uno stridulino pietoso prima che un enorme pugno fatto di rocce appuntite e arbusti selvatici lo riducesse a un mucchio di ossa spezzate e frammenti sanguinolenti sparsi per il lastricato. A distanza di pochi attimi un'altra mano colossale articolata in lunghe dita, da cui ruscellavano vagonate d’acqua torrenziale, si aggrappò forte conficcando le unghie fra gli avvallamenti incuneati nel terreno pietroso. Per ultimo affiorò con estrema lentezza una giogaia di dorsali frastagliati nelle cui depressioni si potevano intuire le fattezze di un volto antropomorfo. Il magma gli colava da ogni orifizio: dalle orecchie, dalle narici, agli angoli della bocca, lambendogli il contorno di una mascella appena abbozzata e gocciolandogli oziosamente sul mento. Le orbite vuote che si ritrovava al posto degli occhi erano illuminate da fiaccole olimpiche inestinguibili. Tiziano si assottigliò lungo la parete, smise di respirare e pregò che le tonalità scure del suo mantello lo mimetizzassero con l’ambiente circostante. Il mostro spalancò la bocca in uno sbadiglio annoiato e così facendo risucchiò tutto l’ossigeno disponibile in quell’atmosfera già di per se rarefatta. Poi, dopo un’interminabile sequela di attimi strazianti, rilasciò quel miscuglio di gas che era rimasto  incastrato in mezzo a quelle stalattiti aguzze che ricordavano di quanto più simile a dei canini. Una nube densissima di cenere vulcanica turbinò fuori dalle fauci offuscando completamente la vista del Sire ormai vicino all’uscita.
L’antico era sveglio e non avrebbe avuto più alcuna importanza l’imminente invasione che li attendeva.
Tiziano rimase immobile, rannicchiato con la testa ingoiata dentro al cappuccio come se potesse renderlo invisibile agli occhi dell’ormai vigilissima creatura elementale, con una domanda ad agitarsi furiosa dietro i suoi denti serrati come una ganascia: che cosa aveva fatto?

Gabriel

«Squadra uno: tenetevi pronti a sganciare le catapulte al  mio segnale. Squadra due: intingete le frecce nel combustibile e coprite il lato nord ovest…» Gabriel si concesse un attimo per strizzare l’occhio a Morgana mentre abbaiava i suoi ordini. L’angolo della sua bocca tremante guizzò in un mezzo sorriso. Gab osservò  affasciato le movenze aggraziate della ragazza mentre sceglieva alla cieca una delle frecce dalla faretra, le dita arcuate attorno alla crine dell’arco, invidiandogli il modo in cui  le sfiorava le labbra rosse come ciliegie mature, i suoi respiri lenti e concentrati, il vento che giocava con le sue ciocche infuocate…Dovette sforzarsi di mettere a tacere la sua tachicardia e tenersi per sè i suoi pensieri che bruciava di desiderio. «Squadra tre: voglio vedervi combattere come demoni, vibrate le vostre spade senza esitazione, dimenticatevi dei volti di chi avete amato perché quello che vedrete sarà solo un involucro vuoto che non esiterà a trapassare le vostre fottute gole» li mise in guardia passeggiando avanti e indietro fra i ranghi serrati. «Squadra quattro, voi…e tu chi diamine sei?»
L’uomo adiposo e baffuto che il medjai si trovò accanto prelevò il cappello dal suo nido confuso di riccioli castani trascinandoselo sul petto e si esibì in un inchino appena accennato. Aveva due macchie untuose sotto le ascelle sudaticce, un fiatone da fumatore incallito e i capelli appiccicati alla fronte. Gab non riuscì a scrollarsi di dosso quella vaga familiarità che provò alla vista del suo sorrisetto burlesco nascosto dai baffi arricciati. 
«Tua sorella ci è arrivata prima di te» lo stuzzicò lo straniero.
Gabriel non si astenne dal sollevare un sopracciglio «Ok, senti bello, o mi dici subito chi diamine sei e cosa ci fai qui o ti assicuro che la tua interruzione non resterà impunita. Se non te ne fossi accorto qui si fa sul serio e non abbiamo a disposizione barelle abbastanza larghe per soccorrere il tuo culone flaccido».
«Ti ho invaso il palcoscenico, eh?» gli disse grattandosi il mento «Continua a giocare al condottiero, mi faccio da parte. Sono qui per guardarti le spalle come chiesto dalla tua adorabile metà. Quando schermerò le illusioni delle sidhe della fata oscura ed eviterò che ti manipolino la mente allora forse mi ringrazierai di non esserti cavato gli occhi da solo o di non averti lasciato infilare le dita in qualche altro posto piuttosto sconveniente…non farmi fare certe allusioni di fronte a delle signore» terminò omaggiando le ragazze con occhiate lusinghiere.
«Candle? Che cosa ci fai qui?» lo richiamò una voce melliflua e leggera come una piuma.
Gabriel si produsse in un inchino formale «Sua Altezza, qual buon vento! Anche lei da queste parti?». Delilah intrecciò le dita in grembo e fece scivolare i suoi freddi occhi adirati prima su Gab e poi sull’ippopotamo baffuto vicino a lui. «Non vorrei minare la sua regale autorità ma la pregherei di rispettare la fila e aspettare il suo turno per le domande».
Delilah lo ignorò e si sporse in avanti per cingere le braccia grassocce dell’uomo «Tu sei…libero, allora questo vuol dire che…Ce l’ha la ragazza non è vero?».
«Non ti devo più nulla Delilah, il tempio è crollato, il ciondolo blu è stato depredato dal suo piedistallo, il vincolo è sciolto».
«Hai una nuova padrona a quanto pare» sibilò lei mitigando a stento la rabbia.
«Al momento il volere della giovane Leona, è il mio».
«Ehm, qualcuno potrebbe dirmi che diavolo sta succedendo? Non vorrai dirmi che tu…oh, cazzo. Sei quel cazzone del fantasma! Amico, dovresti cominciare a tenere giù le mani dalle ciambelle glassate…Qualcuno dia un insulina a quest’uomo!».
 Candle incrociò le braccia, soffiò piccole trombe d’aria dalle narici e i baffi presero a sventolargli sotto il naso  «Ce ne hai messo di tempo, eh ragazzo. Sei più tardo di quello che mi aspettavo…». Il battibecco fu interrotto da un sinistro e rude scricchiolio persistente dietro di loro.
«Merda, Merda, Merda» imprecò Caterina inforcando la lancia in direzione della lastra di ghiaccio. Qualcosa di ferino luccicò nei suoi occhi neri «Si sta rompendo, avevi detto che avrebbe retto ancora un po’! Se a letto le tue prestazioni hanno la stessa durata, sono felice di non aver mai diviso il materasso con te. Fatevi fottere tu e il fiume congelato».
«Se, ti piacerebbe. E porta rispetto al mio ghiacciolo gigante…ok, questa mi è uscita terribile» ci rifletté su Gab.
Marlena represse un urlo in gola risultando più come grufolo soffocato «È rimasto almeno qualcuno fra voi idioti a cui importi qualcosa di quello che sta distruggendo la barriera al di là del fiume? Siamo comunque spacciati ma almeno vorrei evitare a quei maledetti stronzi di lasciargliela vinta a tavolino».
«Qualcuno mi ricorda chi ha invitato la scrofa in calore lì dietro?». Anche questa volta toccò al povero Ascanio acciuffare la bionda sbizzarrita e pronta a scalciare come un castrone al rodeo, beccandosi un paio di gomitate intercostali del tutto immeritate.
«Gabriel attento…!». Norman si era lanciato appena in tempo sull’amico evitandogli di rimanere schiacciato sotto il peso di una placca di ghiaccio staccata dalle sommità delle mura.
«Grazie, bello. Per quel che vale, mi dispiace che mia sorella ti abbia dato due di picche. Ti devo un enorme favore» gli disse lui scompigliandogli i capelli.
Norman arrossì al ricordo del rifiuto di Leona e scacciò via la sua mano rimettendosi a posto la capigliatura ingarbugliata come meglio poté «Facci solo arrivare alla fine di questa stramaledetta giornata ancora tutti interi e siamo pari».
«Non posso farti una promessa del genere…»
Lo schiocco sonoro di una lingua sul palato fece sussultare tutti i presenti «Ma io sì mio caro giovanotto. Se cadete voi, così farà anche la mia isola. E noi non possiamo permettercelo» disse la fata risentita dalla sua arrendevolezza.
«Noi?»
Fu allora che la fata roteò gli occhi al cielo, non perché infastidita, sembrava che con lo sguardo volesse creare una breccia in quel denso gregge di nuvole soffici sopra le loro teste. Sciolse il nodo delle sue dita intrecciate in grembo facendole danzare per aria mentre una sottile scia fumante fluttuò dai suoi polpastrelli. La nebbia attorno a loro si fece sempre più fitta tanto da perdersi di vista l’uno con l’altro. Ma fu quando si diradò che Gabriel rimase davvero stupito.
L’intera guardia reale della regina prese forma dalle volute della bruma. Dapprima nient’altro che figure evanescenti, man mano che la nebbia si assottigliava lasciava al suo passaggio splendide sagome alate dalla bellezza sovraumana e regalmente bardate nelle loro luccicanti armature. Guardandosi attorno, il loro piccolo esercito si accese di una flebile speranza ma persino allora Gabriel si chiese se avrebbe potuto fare la differenza. O forse lui stesso temeva di illudere sé stesso e chi lo circondava con devozione. In ogni caso il ragazzo decise saggiamente di tacere e di non mostrarsi titubante, soprattutto per non offendere la generosità della regina. Era tutto quello che avevano, anzi più di quello che avessero mai sperato, e non gli rimaneva molta scelta se non schierarsi in battaglia e pregare tutti i santi in cielo affinché le sorti della guerra andassero in loro favore. Stava per urlare degli ordini quando una delle guardie si fece avanti fra la folla.
«Era destino che questa cosa la finissimo insieme» disse la voce attutita dalla celata dell’elmo. A Gab parve di riconoscere quella voce e spinto dalla curiosità provò a sbirciare all’interno del copricapo. Non tentò nemmeno di nascondere il sorriso quando scorse due grandi occhi marroni nascosti dietro due enormi lenti a fondo di bottiglia. Nel complesso gli donava sul serio quell’armatura, ma Fabrizio non lo avrebbe mai saputo.
«Ti stavamo aspettando quattrocchi, la festa non sarebbe cominciata mai senza di te». Ci fu un brusio generale di esultanza fra i loro ranghi che Gab non ebbe alcuna intenzione di placare. Se solo ci fosse stato un dopo, comunque non avrebbe avuto nulla da festeggiare. Riconoscendo l’amico, Norman corse al suo fianco e i due si salutarono sfiorandosi le nocche a vicenda. Quell’idillio però ebbe vita breve. Il fiume stava per collassare su se stesso entro qualche secondo. Soffiò un bacio in direzione di Morgana e la ragazza fece finta di afferrarlo al volo in tutta la sua deliziosa timidezza. Poi strinse i denti e lasciò che il mana fluisse nel suo corpo. La ghiacciaia prese lentamente a fluidificarsi crepando in più punti della muraglia, ma Gab era preparato a contenere le conseguenze catastrofiche di quel disgelo. Si immerse con la mente in quella costellazione di molecole d’acqua e prese coscienza di ognuna di essa. Quando quel muro d’acqua, che aveva osato grattare il cielo, perse abbastanza quota, il medjai mollò la presa sul fiume esercitando però un ferreo controllo sugli argini o entrambe la parti sarebbero rimaste coinvolte nell’inondazione. Il torrente stava per far ritorno al suo letto di ciottoli nel momento in cui l’aria crepitò di energia. Gab aveva sentito parlare almeno un milione di volte della grande battaglia del deserto, ma gli riusciva difficile credere che quella distesa di mostruosità non fosse tranquillamente paragonabile al numero di nemici che i loro antenati avevano affrontato nelle sabbie calde del Sahara. Fu allora che l’odio di  Gab bruciò più intensamente di una pira. Tratteneva ancora il torrente sotto il suo controllo quando notò quelle creature alate intessute da mantelli oscuri, alcuni volti familiari incattiviti dal sortilegio, il simbolo del Lickage che brillava sui loro polsi, e…i freddi occhi rossi del vampiro che affiancava Frieda. Pensò ai suoi genitori e non ebbe più alcun dubbio su ciò che doveva essere fatto. La sua vendetta. L’aveva repressa per così tanto tempo per amore della sorella che si era accorto a malapena di come lo avesse avvelenato dall’interno. Un veleno che ormai gli aveva raggiunto il cuore. E allora scaraventò con disperata violenza i flutti del fiume contro i suoi nemici immaginando che in esso si nascondessero le lame più affilate che la sua mente fosse in grado di partorire.
Quando il fiume si tinse di rosso, sorrise.

Fabrizio

La conoscenza era l’unica arma che Fabrizio credeva fermamente di maneggiare meglio di chiunque altro. Soltanto con un libro in mano aveva potuto assaggiare l’ebrezza del potere, nessuna spada lo aveva mai fatto sentire così vivo. Seppur superbo quel pensiero, era la cosa sola che gli impediva di farlo correre ai ripari, lontano dalla vista delle pozzanghere vermiglie che si erano accumulate ai piedi dei loro nemici. Aveva letto di numerose battaglie senza mai desiderare di partecipare a nessuna di esse. Eppure, eccolo lì a servire una regina che non era la sua, soffocato e compresso da tutto quel metallo che lo ricopriva dalla testa ai piedi. La sua fervida immaginazione non lo aveva preparato alle urla, all’odore del sangue, alla morte, ai suoni che gli esplodevano nel cervello facendogli girare la testa. Sbrodolare come un poppante non rientrava nelle sue intenzioni, eppure quell’olezzo ferroso che si era infilato su per le narici non gli aveva dato altra scelta. Che razza di protettore era? Una successione di schiocchi lo fece sussultare rendendosi conto troppo tardi che si trattava del fascio elastico delle catapulte che veniva rilasciato. Grosse balle ricoperte di un intricato garbuglio di foglie e rami secchi descrissero una parabola sopra le loro teste per andarsi ad abbattere nel lato opposto del fiume dove le schermaglie di chi era sopravvissuto all’onda avanzava dritto verso di loro. Fabrizio riconobbe l’odore caustico della verbena soltanto quando si polverizzò in una finissima caligine verdognola. Sollevò lo sguardo nel momento in cui la vista del sole fu oscurata e il freddo dell’armatura di fece più pungente. L’avanguardia dei protettori, munita di abili arcieri, si schierò in prima linea e i loro archi fremettero. Uno sciame di frecce infuocate vennero scagliate a lunga gittata dietro il primo battaglione in modo tale da infliggere più danni possibile nella retroguardia costituita per lo più da abomini vampirizzati o da mezzi licantropi. Si accorse proprio in quel momento di essersi pietrificato al centro di quella carneficina e non solo perché due fatue avvolte in vesti oscure aleggiavano su di lui come rapaci su un cadavere. Per qualche miracolosa ragione, non stavano circuendo lui ma qualcun altro che sferragliava agilmente la spada alle sue spalle. Quando capì che il loro obiettivo era Norman, le gambe di Fabrizio si mossero da sole e corse verso di lui per fargli da scudo prima che le illusioni di quelle arpie gli confondessero la mente. Infatti la sua armatura luccicante non era stata forgiata per proteggere il fante dai fendenti di una spada o dalle punte di una freccia, ma per fungere da “contro-riflesso” per gli incubi lanciati dalle sidhe. L’intera armata delle fate della luce era immune alle maledizioni dello loro sorelle oscure proprio grazie a tutta quella ferraglia ingombrante che si trascinavano dietro.
Colto dall’impeto della battaglia, si ricordò della frusta che teneva arrotolata lungo il suo fianco e se la slacciò dalla cintura con un gesto fluido. Non appena le sue dita si avvolsero attorno al manico, l’arma sprizzò di una luce calda e abbagliante lungo tutta la cinghia fino alla sua estremità. Tentò di portare alla memoria le brevissime istruzioni che il capitano della guardia gli aveva urlato contro prima di attraversare la nebbia, e andò alla ricerca delle ombre delle sidhe proiettate sul terreno. Le trovò assiepate attorno a quella del suo migliore amico quasi come se volessero divorargliela a morsi. Il cuore gli balzò in gola quando gli occhi di Norman si riversarono all’interno delle palpebre e la presa sull’impugnatura della spada si fece più debole. L’ombra ai suoi piedi si era trasformata in una voragine oscura senza fondo sulla quale lui barcollava incerto.
L’incubo era in pieno atto.
Non si diede pena di quali oscure fantasie stessero andando in scena nel subconscio del fragile Norm, non quando un abominio stava per approfittare del suo coma indotto per affondargli le zanne sul collo. Si gettò su di lui sottraendolo alle grinfie del ringhiante abominio che schiumava di rabbia, e prese a spalmargli la neve sul viso per ripescarlo dall’incubo. Le placche addossate alla sua schiena si surriscaldarono e Fabrizio seppe che la schermatura stava funzionando. Guardò le ombre che lo avevano ghermito, ritirarsi come una risacca sul bagnasciuga, ferite dalla luminosità della sua frusta prodigiosa. Il respiro si fece così affannoso che il vapore si addensò tutto sulla superficie delle sue lenti da vista, ma la sua mano non trovò nessun ostacolo e impugnò il manico della verga luminescente con un grido. Le sue dita si allungarono sul nevischio per catturare il lembo delle ombre delle arpie. La filigrana di cui erano intessute gli ricordava la sfuggevolezza del fumo ma allo stesso tempo, con un po’ di immaginazione, i suoi lembi erano serici come velluto. Una volta arricciatosi quel lenzuolo nero attorno al suo polso, strattonò verso di lui e srotolò la frusta. Le sidhe, belle e terrificanti con le loro sclere annerite, urlarono di dolore alla vista del fascio luminoso e sollevarono le braccia sul viso per proteggersi dalle lame di luce proiettate dall’arma in suo possesso. La frusta disegnò una circonferenza sopra la sua testa prima di avvinghiarsi come un serpente attorno alle loro ombre, stritolandole. Il buio soccombé alla luce e le ombre delle due streghe si sgretolarono silenziosamente mentre i loro corpi si riducevano in cenere.
«Bel colpo, cadetto!» si complimentò Sheila proprio mentre, con molta più maestria del protettore, disintegrava tre sidhe con un solo fendente della frusta.   
«G- grazie» balbettò Fabrizio arrossendo dietro la celata. Purtroppo non ebbe molto tempo per gustarsi quelle lodi inaspettate. Era rimasto così affascinato dalla leggiadria della figlia di Delilah che non aveva fatto caso che altre quattro di loro si leccavano i baffi al pensiero di banchettare con le loro paure. Fabrizio deglutì e le sue gambe traballarono come quelle di un alcolizzato.
«Non ho idea di che cosa sia» lo risvegliò la voce del suo amico Norman afferrandogli il braccio. Il terrore sgusciava ancora dentro i suoi occhi cerulei ed era zuppo di sudore. Questo non gli impedì sorridere  « ma continua a utilizzare quella frusta strafiga, ne avremo bisogno».      
     

Caterina

Caterina represse il forte impulso di grattarsi dietro l’orecchio che continuava a pruderle in preda ad una fastidiosa orticaria. Non poteva permettersi quel tipo di distrazioni, pensò mentre faceva roteare la lancia al suo fianco. Annusò l’aria attorno a sé e storse il naso, in fiamme per quel putrido fetore di cadaveri. Scrollò i riccioli scuri dalla sua visuale e caricò il primo Drakulia che si trovò davanti. Affondò la lancia sul fianco destro della creatura, scivolò le mani sul bastone fino a raggiungere il punto in cui aveva trovato la sua carne e gli assestò una gomitata su per il mento. Il cranio scattò all’indietro con uno scricchiolio inquietante di ossa. Poi sfilò l’arma e ripulì la punta affondandola nella neve. Mentre quella strana fame cresceva dentro di lei ad ogni uccisione, proseguì con una presa. Facendo leva sull’angolatura inquietante che aveva assunto il collo del vampiro, gli girò attorno fino a che non gli si staccò la testa dalle spalle mentre il corpo decapitato cadeva in ginocchio. Piroettò appena in tempo e raccolse la sua lancia, per metà ricoperta di argento, per l’altra intagliata nella corteccia di biancospino, piazzandola dritta nel cuore di un secondo vampiro. Il Drakulia si pietrificò all’istante e cadde come un sasso inerte sulla neve spruzzata di sangue. Quel languore che le ribolliva nello stomaco non accennava ad estinguersi, anzi non faceva che aumentare. Nonostante questo, il suo orecchio captò lo sferzo di un rapido spostamento d’aria, così chiaro che le parve di averlo accanto. I muscoli si irrigidirono e la bocca le si inondò di saliva come se avesse avvertito la sua presenza, il suo lezzo dolciastro e vomitevole. La protettrice e la vampira sollevarono le braccia e le loro mani si allacciarono a mezz’aria in una prova di forza.
Mentre spingevano l’una contro l’altra, Caterina si accorse con gran sorpresa di poter vincere facilmente quella contesa senza versare una sola goccia di sudore, come se le ossa della vampira fossero fatte di sottile cartapesta pronta da accartocciare sotto la morsa delle loro dita intrecciate. La mascella della vampira scattò in avanti ghermendo il nulla e Caterina rispose con un cupo e incontrollabile ringhio dal fondo della sua gola. Per quanto lo ritenesse assurdo, la protettrice non avrebbe potuto ignorare ancora a lungo quella fame che iniziava ad assumere un significato bene delineato: la sua mente era intasata dal forte desiderio di morderla, masticarla, e sentire il sapore della sua carne fra i denti. Con la bava che le colava dalle labbra, rinunciò a quell’istinto di cui aveva quasi terrore. Che diamine le stava succedendo? Cosa c’era che non andava in lei? La cicatrice riprese a pulsarle sul petto e le ricordò della sua presenza. Era naturale che desiderasse uccidere dei vampiri, ma non con quella viscerale intensità. Cancellò quei pensieri turbinanti e spinse più forte contro la non-morta. Le braccia della sua oppositrice si spezzarono come ramoscelli secchi mentre si contorceva per il dolore con gli occhi ricolmi di stupore.
«Che cosa sei tu?» le aveva sibilato prima che la sua testa svolazzasse altrove.
Non lo so nemmeno io, le aveva bisbigliato al suo corpo freddo tanto quanto la neve sotto le sue scarpe.
 Pregna di disgusto per se stessa, decise di cambiare il target delle sue prede. Un mezzo lupo, che un tempo era stato un protettore, la guardava da lontano con sguardo famelico misto a qualcos’altro a cui non riuscì a dare significato. Perfetto, disse fra sé. Mentre correva verso l’abominio, gridò a Ethan di prestarle una delle sue bombe allo strozza-lupo. Il ragazzo anche se impegnato in altre questioni altrettanto sanguinose, portò una mano alla sua imbracatura e distrattamente le lanciò al volo quanto le aveva richiesto. Caterina si sbilanciò verso la sfera rossastra che vorticava sopra la sua testa e la afferrò senza molti problemi. Il problema, in realtà, non fu affatto intercettarla, ma ciò che provò quando la bomba sfiorò il palmo della sua mano.
Di lì in poi la ragazza ricordò solo le sue urla, le lacrime che le inondavano gli occhi e il bruciore indicibile che le marchiava la pelle attorno ai suoi polpastrelli. Si raggomitolò a terra in posizione fetale, urlando, scalciando, seppellendo la mano che le andava a fuoco sotto metri di neve per trovare sollievo. Non aveva mai provato nulla di simile in vita sua. Il dolore era così forte che avrebbe fatto qualunque cosa affinché smettesse. E proprio mentre quella preghiera le usciva inconsapevolmente dalle labbra, qualcosa si strinse attorno alla sua gola rubandole il respirò, la sollevò dal suo cumulo di neve mentre i piedi le danzavano frenetici a un metro da terra in cerca di un appiglio. Gli occhi della protettrice sembrarono strizzargli fuori dalle orbite quando la presa sul suo collo si fece più stretta. La sua lancia era fuori dalla sua portata. Non sapendo dove altro posare lo sguardo, incontrò gli occhi vermigli del suo aggressore ricolmi di una sadica soddisfazione. Il vampiro col mento non ancora ripulito del sangue di uno dei suoi compagni la osservò con curiosità e si leccò libidinosamente il labbro superiore.
«Hai fretta, piccola cucciola della luna? Perché non giochiamo insieme?».

Ethan

Ethan non credeva di essersi mai divertito così tanto in vita sua. Era una vera battaglia, una carneficina con tanto di cappello e lui ne era protagonista. Non che gioisse della scia di caduti alle sue spalle, ma poteva finalmente dare prova di se stesso, riscattando la sua reputazione che lo declamava come un bel faccino e niente più. Perché lui era molto di più, anche più coraggioso di suo fratello, e poteva dimostrarlo. Abbatteva un nemico dopo l’altro senza nemmeno preoccuparsi se fosse un abomino, un vampiro o qualcos’altro. Non aveva importanza. Contava solo il terrore nello sguardo dei suoi nemici, il dolce clangore della sua spada, il sangue sulle sue mani. Trascinato da quella frenesia si addentrava sempre più nelle profondità della guardia nemica, quando qualcuno, con uno strano casco sulla testa, intralciò il suo cammino per nulla scalfito dalle sue grida intimidatorie. E quello lo fece inferocire ancora di più. Da come gli indumenti di pelle scura aderivano sulle sue curve mozzafiato, intuì che si trattava di una donna. L’idea di danzare con la bella signorina lo spedì dritto sulle stelle. 
«Vieni da paparino» la provocò lui, adescandola con un guizzo delle sopracciglia. Non riuscì a vedere la smorfia di disgusto che la ragazza nascose sotto il casco, ma anche a costo di svelargli la sua identità volle renderlo partecipe del suo disappunto. E fu così che inclinò la testa sul petto e lasciò scivolare a terra l’elmetto. Una cascata di capelli castani dritti come spaghetti le si riversarono sulla schiena e sollevando il mento all’in su in segno di sfida, Ethan poté ammirare la linea fiera e decisa della mascella volitiva, i contorni marcati delle sue labbra piene e rosee, e il ghiaccio dei suoi occhi che si scioglieva su di lui. La ragazza era così bella tanto da volerla incorniciare e appendere il quadro in camera sua per contemplarla in silenzio. Ma qualcosa, una vaga sensazione di inadeguatezza strisciò lungo il suo intestino.
«Ci siamo già incontrati da qualche parte? Mi ricordi tremendamente qualcuno di mia conoscenza…» domandò lui senza pensarci. Inaspettatamente una risata priva di gioia affiorò dalle sue labbra e la sensazione che il protettore aveva provato poco prima si fece più intensa. La somiglianza non lasciava alcuna indecisione, ma…non poteva trattarsi della stessa persona. La notizia della tragica morte della figlia del sire di Firenze era giunta fin lì ad Andromeda in tutto il suo alone di mistero, quando lui era molto piccolo. Eppure, Ethan non riuscì a darsi pace, doveva sapere. Perché questo voleva dire che la ragazza che le stava di fronte era niente di meno che sua…
 «Sara…?» disse lui facendo un timido tentativo.
«Non conosco nessuna Sara» rispose lei monocorde prima che i suoi contorni cominciassero a duplicarsi come quella volta nell’isola delle fate. Allora il protettore britannico fu costretto a correggersi mentalmente. Non ne aveva ritrovata una, ma ben sette copie perfette della sorella resuscitata dal regno dei morti.

Marlena

La scimitarra di Marlena non era mai stata più rossa di così, continuava a grondare sangue sulla neve senza sosta. Già da tempo si era dovuta arrendere all’idea che Leona avesse ragione su tutta la linea, questo comunque non faceva di lei una sua alleata. Aveva scelto i suoi avversari evitando accuratamente di imbattersi in uno degli abomini perché le rivoltava lo stomaco anche solo pensare di usare la sua scimitarra contro di loro, anche se non avrebbe potuto continuare a fare finta che non esistessero. Come lei, tanti protettori esitavano di fronte a coloro con cui un tempo avevano riso e scherzato, condiviso gioie e sofferenze, vissuto amori e tradimenti. Tutto questo cancellato dalle loro memorie plagiate. Ma per ogni spada o freccia che tentennava ce n’era un’altra che non conosceva rimorso. La breve, triste vita dei protettori si risolveva con un inevitabile comune denominatore: prima o poi sarebbe terminata con una morte atroce. Se l’ora di Marlena fosse suonata quel giorno, di sicuro chiunque avrebbe potuto testimoniare come lei avesse avuto tutte le intenzioni di metterci i mezzi. Se fino a quel momento era rimasta concentrata sull’obiettivo, bastò la vista dei sette cloni per farle salire il sangue al cervello. Dire che fosse furiosa quando si catapultò in mezzo a quella mischia di orrori, restando inspiegabilmente illesa, sarebbe stato un eufemismo bello e buono. Scelse la più vicina e senza tanti complimenti l’attaccò alle spalle, infangando su due piedi il suo codice d’onore. Avrebbe lasciato morire volentieri il suo orgoglio in un angolo se con quel sacrificio avrebbe potuto mettere le mani addosso a quella vigliacca che aveva sgozzato la sua migliora amica. Proprio mentre il clone si voltava per parare il suo fendente, Marlena s’immagino più di venti modi diversi con cui avrebbe potuto restituirle il favore. Fu quando indugiò più del dovuto sul quindicesimo scenario di decapitazione che la protettrice si ritrovò faccia a faccia con quello che reputò in assoluto come l’incubo più inquietante della sua vita. Era uno scherzo di cattivo gusto?
«Per la barba di Mayak, mi prendi per il culo?» imprecò la protettrice lasciando ricadere l’arma al suo fianco. Marlena aveva solo sei anni quando la sorella di Fabiano era stata dichiarata morta, e ricordava come se fosse ieri tutte quelle volte che aveva sorpreso il ragazzino a piangere convinto che non lo guardasse nessuno. Quel pensiero, la rese ancora più inferocita di prima. Così quando azzardò un nuovo affondo, pensò di fare una cortesia a chiunque gestisse il cancello degli inferi restituendogli l’anima che aveva tentato la fuga. Ovviamente conosceva la bravura di Sara, le sue tasche erano piene degli elogi che le rivolgevano quando era in vita, eppure continuò a sfidarla disconoscendo la paura di perire nello scontro. Forse fu proprio quella tenacia a spingerla a terminare ciò che aveva iniziato, una sciabolata dopo l’altra. Soltanto quando fu più che sicura che quella pessima imitazione di Sara fosse stata smembrata a sufficienza, ripulì il suo sangue strofinando la spada nell’incavo del gomito, come lei aveva fatto con quello di Carlotta, e disse: «Bene. Adesso ne mancano solo sei».   

Ascanio

Ascanio non riusciva a trovare Marlena da nessuna parte. Da quando quello scontro era cominciato, si era perso nella spasmodica ricerca della ragazza, perché era certo che avrebbe fatto qualcosa di stupido e irresponsabile. Ciò indeboliva la sua difesa e faceva vacillare i suoi pronti riflessi. Quel giorno aveva scelto una ascia dalla rastrelliera che, sì, gli rallentava i movimenti, ma non aveva bisogno di una seconda ripassata. Brandendola a due mani i suoi attacchi si facevano più lesti e ripetuti soprattutto se destinati a colpire le braccia o le gambe del nemico. Col senno di poi non era stata la più geniale delle sue trovate, considerando che i suoi avversari correvano veloci come il vento, e ne ebbe conferma quando mancò il suo bersaglio e la parte ricurva della scure si andò a conficcare nella fanghiglia dove la neve aveva cominciato a sciogliersi. Facendo leva sul manico, tirò con tutte le sue forze col panico che gli cresceva dentro. Se solo non avesse perso quei secondi preziosi e l’avesse lasciata perdere - visto che quella spada non sarebbe più servita a quell’abominio decapitato – avrebbe sicuramente notato come la sua ombra si fosse addensata attorno ai suoi piedi. Finalmente riuscì a liberarla e si voltò appena in tempo per assistere ad una magistrale cavazione con piroetta di una delle migliori schermitrici del campo. Non avrebbe voluto avere ragione, ma come sospettava Marlena stava decisamente danzando con l’abominio sbagliato. Quando la riconobbe, il cuore prese a pompargli più velocemente contro la gabbia toracica e i brividi gli scossero la spina dorsale. Per un attimo credette che la ragazza stesse avendo la meglio, il ritmo incalzante delle sue finte e suoi capitoni dava poco spazio alle iniziative dell’abominio che assomigliava in modo inquietante alla sorella di Fabiano. Ma se credete che ogni morte sia spettacolarmente preceduta da un colpo di scena intriso di suspense, che ti dia la possibilità di riflettere sui tuoi errori o ti lasci il tempo necessario di “dire le tue preghiere”, chiedendo l’indulgenza di qualsiasi divinità in ascolto, non funziona così nella vita reale. Quella stronza entra senza nemmeno bussare alla tua porta o chiedere il tuo permesso, proprio come la spada di Sara era penetrata dentro lo stomaco di Marlena infilzandole la lama fino all’elsa, proprio come il pugnale che le aveva tranciato la gola. Era durata meno di un secondo, silenziosa e insignificante. Non aveva nemmeno avuto il tempo di soffrire, ma per Ascanio era un magro premio di consolazione. Si chiese dove fosse in quel momento, ora che la luce nei suoi occhi verdi si era spenta, anche adesso che un lenzuolo di sangue continuava scorrere macchiandole i vestiti mentre la neve si nutriva di esso. E desiderando intensamente che il suo cuore si fermasse insieme al suo, guardò la mezza luna metallica della sua scure incrostata di rosso e seppe cosa andava fatto.

Morgana

Morgana non aveva mai dovuto scoccare tante frecce in vita sua. Le dita doloranti le pizzicavano per il freddo e  per la pelle lacera attorno alle unghie rosicchiate. Gettò un’occhiata alla faretra quasi vuota e pestò i piedi per terra. Sorvegliare Gabriel mentre infuriava con Symphony nel mezzo di un manipolo di Drakulia era un lavoro a tempo pieno che non le aveva lasciato nemmeno un attimo per riprendere fiato. Avrebbe dovuto fermarsi e recuperare un po’ di frecce dai cadaveri se solo quella testa calda le avesse dato tregua invece di continuare a sbudellare ad oltranza qualsiasi cosa gli capitasse davanti come un macellaio. La sua spada era così intrisa di sangue che aveva pure smesso di cantare. Se ne era reso conto? O la furia lo aveva reso sordo? In un gesto automatico, ignorando le braccia che le andavano a fuoco, incoccò l’ennesima freccia, scaraventandola dritta dentro l’occhio di un mezzo lupo che aveva provato a morderle le caviglie. Lo strozza-lupo fece il resto. Morgana si morse le labbra mentre seguiva la scia di morte che Gabriel aveva seminato per il campo. Si  teneva vicino agli argini del fiume per mantenere un dominio su di esso e servirsene come scudo dagli attacchi alle spalle mentre sferzava lame d’aria fendendo  la carne con gesti secchi delle dita. Per non parlare di come godesse nello sfruttare il potere della solidificazione per impietrire il sangue all’interno dei corpi fino al punto di farli esplodere in un mucchio di budella fracide.
Era inarrestabile, glorioso, bellissimo e pericoloso. La ragazza ne sarebbe rimasta ammaliata se solo la paura non le avesse fatto imbizzarrire le farfalle dentro il suo stomaco. Da quella postazione non poteva vedere i suoi occhi incendiati dalla vendetta e si disse che era meglio così. Morgana era titubante. E se non stesse pensando lucidamente? Di certo le grida che lanciava ad ogni affondo glielo lasciavano credere tranquillamente. Era davvero la migliore soluzione quella di rubare il ciondolo a Leona? Era davvero saggio lasciare il peso di quella decisione a quel ragazzo appena uscito da un bagno d’odio e disprezzo? Per un momento s’immagino di immedesimarsi in lui, di penetrare la corazza dei suoi pensieri. Ottenere la sua vendetta gli avrebbe davvero restituito la pace che tanto agognava? No, probabilmente no se quello era il risultato. Poteva leggergli in ogni suo movimento il sadico piacere che provava ogni volta che ghigliottinava senza alcuna pietà la testa del mal capitato vampiro di turno. Allora avrebbe dovuto fidarsi della sua migliore amica? Almeno lei, sapeva quello che stava facendo? La cosa che stava cercando di combattere non costituiva di certo la minaccia più preoccupante. Se alla fine avesse perso se stesso, avrebbe perso tutto. E lei si sentiva in dovere di salvarlo da quella parte di lui ormai obnubilata dai suoi demoni. Quella confusione, non le impedì di portare involontariamente una mano alla faretra alla ricerca di una freccia. Quando ghermì il vuoto, il terrore le provocò un conato di vomito. Ma quello che più le fece aggrovigliare la lingua fu la devastazione che la circondava. Si era così concentrata sul difendere Gabriel via aria che non aveva fatto caso al resto dei suoi compagni. Per quanto avrebbero potuto resistere? Un’ora, massimo due? Non c’era bisogno di un esperto per diagnosticare la loro pietosa disfatta. Se l’esercito di Delilah non fosse intervenuto, le conseguenze sarebbero state ben peggiori. Questo, però, non significava che non si fosse trattato di un terribile spreco di risorse. Sarebbero dovuti fuggire quando ne avevano la possibilità. La protettrice scosse i lunghi capelli rossi e strinse forte a sé il suo arco come palliativo per i suoi poveri nervi mormorando delle scuse allo spirito di suo padre. I Cacciasciacalli non sono dei codardi. Ripeté a se stessa sotto voce. Se lo infilò su per la testa e corse a recuperare un’arma cercando di evitare d’inciampare in mezzo ai cadaveri. Scelse un gladio corto non ancora del tutto zuppo di sangue. Mentre valutava le smussature dell’arma alla flebile luce del sole, qualcosa la afferrò per i capelli e la fece cadere in ginocchio. Poi un dolore acuto le esplose in mezzo alle costole e il sapore ferroso del sangue le inondò la bocca. Qualcuno si stava divertendo a prenderla a calci. Non erano abbastanza potenti da ucciderla, ma sembrava quasi che si stessero trattenendo per farla soffrire un poco alla volta. Muori cagna! Le urlavano sghignazzando.
Incapace di reagire, si raggomitolò in attesa che tutto la smettesse di fare così tremendamente male, fino a quando non sentì urlare il suo nome e la fronte cominciò a pulsare. Per un attimo, tutto sembrò fermarsi, proprio mentre sentiva chiaramente qualcosa crescerle dentro e farsi spazio dentro di sé. Qualcosa di caldo, delicato, amorevole che le chiedeva senza nessuna sfumatura di prepotenza di essere accolto. Morgana non sapeva cos’era ma non oppose resistenza. Quando quel qualcosa attecchì in lei, Morgana spalancò gli occhi e mormorò a voce così bassa che solo lei poté udire «Gabriel…».
In un lampo acquisì la consapevolezza di ciò che stava accadendo, prese coscienza della dolce catena a cui era stata legata. Lei riusciva a sentirlo. Con le gambe che ancora si aggrovigliavano fra loro, tentò comunque di rimettersi in piedi. I cinque Drakulia che l’avevano aggredita la guardarono a bocca aperta, quasi come se fossero terrorizzati alla sua presenza. Morgana non capiva. Si tastò la faccia per controllare se si fosse trasformata in qualche specie di mostruosità, ma naso, occhi e bocca sembrava al loro posto. Ma allora…la fronte continuava a scottarle come in preda a una terribile febbre e in quel punto la pelle non era più liscia come lo era sempre stata. Seguì con le dita i contorni dei solchi che le erano stati marchiati sulla pelle e cercò di intuirne la forma.
«Non può essere…» disse osservando l’energia che le crepitava fra le mani pronta ad essere rilasciata ad un solo cenno. Distese il braccio alla sua sinistra e quel semplice movimento generò una raffica di vento vorticante che andò a impattare contro l’abominio che la braccava da quel lato. Fece lo stesso con la destra e con un moto circolare del polso rilasciò un piccolo ciclone. Ebbra di quel potere, sfruttò le correnti ascensionali per sollevarsi da terra, strappando le migliaia di frecce piantate nei corpi dei caduti. Il vento le accarezzava il viso, s’insinuava dentro ai suoi vestiti facendole il solletico e la portava sempre più in alto coronandola di un schiera di frecce acuminate. Morgana portò entrambe le mani al petto lasciando che fili d’aria che si diramavano dalle sue dita si aggrovigliassero attorno a sé e poi spinse con  la forza del pensiero accompagnando i flussi d’aria con un gesto liberatorio. Il cerchio di frecce in balia delle correnti venne scagliato verso i loro nemici abbattendo e penetrando tutto ciò che incontrarono. La protettrice giocò ancora un po’ con i flutti finché non le fecero sfiorare leggiadramente il terreno ad un pelo della coltre di neve sotto di lei e stringendo i pugni risucchiò le folate dentro i palmi delle sue mani.
«Dio, Morgana! Sei tutta intera?» stava urlando un Gab fuori di sé mentre le prendeva la testa fra le mani e le baciava il viso un po’ da per tutto. La ragazza rise, soffocata dal tocco della sue labbra bollenti.
«Io…Io». La protettrice non stette a sentire i borbottii sommessi del medjai e gli afferrò i riccioli sulla nuca per avvicinarlo a sé e incontrare ancora una volta le sue labbra morbide.
«Grazie» gli sussurrò sfiorandola la punta del naso con il suo «Non sono mai stata meglio».
«Cosa diamine…» stava per imprecare Gab prima che una lama sfrecciasse fra loro, costringendoli ad allontanarsi l’uno dall’altra. Al suo passaggio, Morgana sentì le sopracciglia congelarsi. Seguì l’impronta glaciale che la spada aveva tracciato nello spazio che li divideva e la ritrovò confitta in mezzo alla fronte di un mezzo lupo che guaì accasciandosi senza vita. Poco prima che toccasse terra, qualcuno fischiò e la spada fece ritorno al suo padrone, liberandosi del sangue della creatura strada facendo.
Morgana avvertì il cuore esploderle dentro al petto.
«Una dominatrice dell’aria, eh?» annotò la protettrice dai lunghi capelli neri raccolti in una coda facendo roteare la kopis prima di rinfoderarla nella guaina «Impressionante».
Il fratello non si lasciò fuggire l’occasione di provocarla «Invidiosa, eh?».
Leona roteò gli occhi «Niente che non abbia già visto» concluse con un ghigno. Occhieggiò di sottecchi il protettore accanto a lei e gli fece l’occhiolino mentre gli consegnava sul palmo della mano una piccola fiammella incandescente. La fronte di Fabiano s’illumino di un bagliore rosso soffuso e attraverso la frangia Morgana intravide delineato fra le sopracciglia il simbolo elementale del fuoco. Il globo rovente crebbe fra le mani del ragazzo gettando sul suo viso delle ombre che si agitavano come fili d’erba al vento. Quando fu soddisfatto della grandezza, il suo sguardo s’inferocì, prese la rincorsa e lanciò il globo al centro di un gruppo di abomini che vennero sbalzati via come bambole di pezza ustionate.
«Uh! Hilde pensa che quello ha fatto molto male!» disse una vocina stridula nascosta dietro il mantello di Leona. Attaccata alla sua cintura, fece capolino la testolina bionda di una graziosa bambina sfigurata da una cicatrice.
«E lei chi è?» gli domandò Gabriel piegandosi sulle ginocchia per osservarla da più vicino. Poi inarcò un sopracciglio e si morse il labbro inferiore per non scoppiare a ridere «Non ditemi che vi siete già dati da fare? Non sono ancora pronto per diventare zio! Ah come passa il tempo!».
«È una lunga storia» tagliò corto Leona ripulendosi del rivolo di sangue incrostato che le scendeva dalle orecchie. «Corri a nasconderti dietro a quella conca di rocce e non uscire per nessun motivo, sono stata chiara?». La piccola annuì energicamente e la treccia le ballonzolò sulla spalla. Le due si scambiarono un breve sguardo e Hilde le fece scivolare qualcosa in tasca, ma nessuno sembrava essersene accorto a parte Morgana. Mentre la bambina correva ai ripari, Gab la incalzò ancora «E così una bambina è il meglio che sei riuscita a racimolare? Quando abbiamo chiesto dei rinforzi, non era mica una battuta…».
«Perché a te quelli che sembrano?» lo rimbeccò Fabiano facendo girare su sé stesso l’amico. Morgana guardò il punto indicato dal protettore e per poco non svenne ai piedi di Gabriel dalla gioia. Le urla dei protettori inglesi riecheggiarono per tutta la vallata fino a che non si mescolarono a quelli della battaglia ancora in corso.
«Quanti sono?» domandò Morgana con ancora la bocca spalancata.
«Non importa» disse Leona facendosi improvvisamente cupa giocherellando col gioiello blu che le pendeva sul collo «Non gli lascerò mettere le mani sul ciondolo». Stavolta furono lei e Gab a scambiarsi quell’intesa e Morgana sentì montare il panico alle stelle in vista di ciò che gli aveva promesso.
«Va bene, uniamoci alla mischia…»  
«Leona…» la interruppe Fabiano «Ti prego. Concedimi un tentativo, lascia che me ne occupi io». Leona fece di tutto per fargli credere che non lo avesse sentito. Ma poi stringendo forte i pugni lungo i fianchi, infine, incrociò i suoi occhi e sospirò.
«Come ti compiace». E così dicendo la ragazza fece qualcosa che Morgana non si sarebbe mai aspettata. Cominciò a sciogliersi i capelli e i boccoli neri le ricaddero fino a ricoprirle il bacino. Entrambi fissarono il nastro scarlatto attorcigliato fra le dita della protettrice, poi Leona lo portò vicino alle sue labbra e lo baciò. Morgana non riuscì a capire chi fra due gemelli avesse invocato il vento, sta di fatto che il nastro, raccolto a coppa fra le sue mani, si librò in volo sopra le loro teste. Il filo rosso s’infiltrò nel ventre della battaglia serpeggiando leggero in mezzo a quel marasma di risse cruente. Ad un occhio inesperto, poteva dare l’impressione che si fosse perso, confuso da quel bagno di sangue, quando invece sgusciava deciso fra le gambe dei soldati. Quando si fermò, intrappolato fra le dita di un abominio dai profondi occhi azzurri, allora Morgana comprese ogni cosa. Ce n’erano altre sei identiche a lei eppure soltanto una era quella vera. Soltanto una avrebbe potuto riconoscerlo. Così Fabiano, ignorando le sue replicanti, si fece inghiottire da quel fiume serrato di sangue e ferro e corse incontro a sua sorella Sara.     

Angolino piccino dell'autrice che non mantiene la parola data <_< : Un grande scusa a tutti. Era abbastanza scontanto che il finale mi sarebbe sfuggito dalle mani e non sarei riuscita a concludere in due capitoli o prima della fine dell'anno come avevo preventivato. Perciò niente più promesse, anche se credo che non ci sarà più di un capitolo (spero). Ho voluto dedicare un paragrafetto a ciascuno dei miei personaggi giusto per dargli giustizia. Comunque, Keep calm and wait for the finale!  

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Capitolo 59
*** LUX OMNIA VINCIT PARTE III ***


Lux Omnia Vincit parte III

Fabiano

«Sara».
Il fratello pronunciò quel nome con il gracidio di uno che aveva appena deglutito un rovo di spine ma allo stesso tempo fu come se stesse recitando una poesia solenne. Ricacciò indietro le lacrime, gustandosi la sensazione della ferita che si andava rimarginando nel suo petto, ogni  volta che riscopriva uno scorcio del suo viso equivaleva a un punto di sutura. Era esattamente come la ricordava l’ultima volta che lo aveva baciato sulla testa e l’aveva accompagnata con lo sguardo fino a che non si era richiusa la porta alle spalle per non riaprirla mai più. Allora era troppo piccolo, non poteva aver colto le righe salate e appiccicose che le correvano lungo le guance, né il sapore del suo addio. Averla lì di fronte a lui a un passo dal poterla sfiorare…si dovette conficcare le unghie nel palmo della mano per accertarsi che non fosse un sogno. O un incubo, dipende dai punti di vista. Adesso lei si rigirava il nastro, il suo nastro, fra le dita maneggiandolo come se fosse un ordigno esplosivo. Intravide il conflitto nel cielo limpido intrappolato nei suoi occhi e questo bastò a nutrirlo di false speranze.
«Bene, adesso l’allegra famigliola è al completo. Che faccio? Corro a prendere il cestino da picnic?» interruppe i loro dolorosi silenzi il ragazzo accanto a lui. Fabiano fece segno di tacere a suo fratello e Ethan si sigillò le labbra senza mollare l’impugnatura sull’elsa bronzea della sua spada. Se si fosse arrivati a uno scontro, non avrebbe potuto impedirgli di difendersi. Anche se lo voleva disperatamente, nemmeno lui si fidava completamente della ragazza che assomigliava così tanto a sua sorella Sara.
«Sara» ripeté lui più dolcemente. I suoi occhi guizzarono su di lui vigili come quelli di una gatta selvatica. «Sono io, Fabiano» deglutì, avanzando lentamente verso di lei e aggiunse «tuo fratello». Lei inclinò la testa verso il suono della sua voce, increspando le sopracciglia come se si stesse sforzando di ricordare quel qualcosa sepolto nelle profondità della sua mente plagiata. Fabiano, fiducioso, allungò un passo di troppo e ottenne come risultato l’irrigidirsi dell’abominio. Scattò all’indietro e mostrandogli i denti, ringhiò. Ethan aveva già sollevato l’arma quando Fabiano gli acciuffò la manica della giubba per placarlo. Il suo sguardo la diceva lunga su quello che pensasse di lui. Probabilmente aveva ragione, era un povero idiota, ma in fondo Ethan non poteva capire cosa significasse per lui quel momento. Si schiarì la voce, ormai rauca per l’emozione, e non demorse «Non voglio farti del male, come potrei? Sei al sicuro con me. So che hai sofferto, e detesto anche solo il pensiero di ciò che ti hanno fatto. Ma ti prego, ti prego, noi siamo la tua famiglia, vogliamo aiutarti». Il trio rimase in allerta, incerto sul da farsi mentre le crudeltà della guerra continuava a turbinare attorno a loro. I muscoli facciali della ragazza sembrarono rilassarsi a quelle parole e tornò ad esaminare il nastro che stringeva nel pugno.
«Te lo ricordi? Mi dicesti che lo rubasti dalle decorazioni della mia culla perché credevi che stesse molto meglio fra i tuoi capelli. Mamma ti rincorse per tutto il campo, ma tu eri veloce, e alla fine si arrese. Da allora lo portasti sempre con te, era il tuo portafortuna, pensavi che ti rendesse invincibile e che nessuno ti avrebbe sconfitto se non te ne fossi separata…». E faceva bene a crederlo. Fabiano ricordava ancora quel giorno, come aveva corso affannosamente dietro di lei, inciampando da per tutto, anche dopo che se n’era andata, per restituirle il portafortuna che aveva dimenticato. A quel punto gli bruciavano così forte gli occhi che dovette strofinarseli nella giubba per cancellare via le lacrime. Il ragazzo credette per un secondo che avesse abbassato la guardia, che gli prestasse ascolto, così decise di continuare su quella strada.
«E ricordi quando mi sono infiltrato di nascosto nel tuo laboratorio? Non avevi chiuso bene la porta e… Dio, combinai un casino con quelle provette, ti scarabocchiai tutte le formule dalla lavagnetta con i miei disegni e tu andasti su tutte le furie. Ma quando capisti che avevo ingerito uno dei tuoi veleni, mi prendesti in braccio e percorresti più di cento chilometri a piedi per portarmi dal guaritore più vicino. Nonostante alla fine mi avessi salvato la vita, mamma e papà furono molto severi con te. Papà ti…» picchiò avrebbe voluto dire ma per qualche ragione preferì mentirle «t’impedì di uscire di casa e di vedere i tuoi amici per un intero mese, non ti permise nemmeno di partecipare alla lezioni. Da allora mi dedicasti interi pomeriggi per spiegarmi quale fosse la differenza tra l’aconito e l’arsenico, m’insegnasti a distinguerli per l’odore, il colore…Io credo di non avertelo mai confessato ma in fondo, ne fui felice della tua punizione perché così avrei potuto trascorrere molto più tempo con te». Si fermò un attimo per sorridere a quel ricordo «Lo so, lo so è stato tremendamente egoista da parte mia, ero solo un bambino che vedeva in sua sorella l’eroina dei racconti leggendari. Tu…ti sei sempre presa cura di me ed io non ho mai potuto fare nulla per ricambiare il tuo affetto…perciò» si protese verso la sorella col palmo all’insù «per favore, lascia che sia io a salvarti per una volta, è tutto ciò che desidero». Dapprima l’abominio parve vestirsi di una maschera impassibile immune alle emozioni, sebbene le ciglia le sfarfallassero veloci, mostrando confusione. Poi agitando le dita  sulle cosce, si morse il labbro come a voler trattenere un timido sorriso sulle labbra, forse perché non era più abituata a farlo, finché non sbocciò completamente come i petali di un fiore scaldati al sole. Così quando intuì che la sorella voleva annullare la distanza che c’era fra loro tanto quanto lui, Fabiano si dimenticò della prudenza e le venne incontro, ricambiando il sorriso.
«F-Fabiano» tentennò lei sopprimendo un singhiozzo.
Tesero le braccia l’uno verso l’altra fino a sfiorarsi la punta dei polpastrelli, poi il ragazzo non ne poté più di quella freddezza fra loro e le si gettò fra le braccia. Fu tremendamente strano. I suoi capelli odoravano ancora di siero velenoso, le sue braccia attorno a lui, anche se un po’ più rigide, gli ricordarono la sofficità dell’infanzia, i suoi respiri erano leggeri e regolari e gli scompigliavano i capelli già di per sé in disordine, il cuore, non più suo, le batteva ad una velocità impossibile. La gioia di poterla riavere con lui fu a dir poco sconvolgente, ma non riusciva a levarsi dalla testa che mancava qualcosa, qualcosa di fondamentale che attendeva di rincontrare più di ogni altra. La sicurezza che, dentro il suo abbraccio, nulla avrebbe potuto fargli del male. Il corpo di lei contro il suo emanava un piacevole calore umano, perciò Fabiano non capì perché ebbe l’impressione di essere sprofondato nelle gelide acque di un laghetto ghiacciato. Ignorò quella sensazione, non avrebbe permesso a niente e nessuno di rovinargli quel momento.
Se solo il suo sollievo non fosse stato così sproporzionato da renderlo cieco come un topolino alla nascita.  Se solo avesse notato lo scatto delle sue mani che si agganciavano alla cintura, se solo si fosse accorto di cosa nascondesse dietro la schiena. Be’ allora non avrebbe commesso di nuovo lo stesso errore, e un altro dei suoi fratelli non sarebbe stato costretto a salvargli la vita.
Ricordò solo il sibilo della lama e il silenzio terrificante racchiuso nelle labbra di Ethan, macchiate di un viscido colore vinoso. Poi, lui che si piegava sopra Ethan in cerca del suo polso mentre con una mano gli tamponava la ferita sul costato. Non gli aveva inferto un colpo mortale e il battito, anche se debole, era perfettamente percepibile attraverso la sua pelle ormai cinerea. Sarebbe contato ben poco però se non avesse fermato l’emorragia. Si girò poco prima che Sara lo colpisse alla schiena. Costretto ad abbandonare suo fratello moribondo e annegato nel suo stesso sangue, sfoderò la sua spada e duellò con lei limitandosi a difendersi dai suoi fendenti, dubitava che avrebbe mai avuto il coraggio di infliggerle qualche danno volontariamente. Le loro spade cozzarono e stridettero l’una sull’altra senza sosta. L’abilità di sua sorella era devastante e si muoveva con una grazia di cui solo una danzatrice esperta era capace, specialmente adesso che non era più umana, e lui disconosceva i passi di quella coreografia. Allora sentì il fuoco crescergli dentro, il simbolo sulla fronte scottargli la pelle. Azzardò una finta, piroettò su se stesso e la allontanò interponendo fra loro una cortina di fuoco. Lei ringhiò e fece un passo indietro con gli stivali che le sciabordavano nella neve sciolta. Fabiano ne approfittò per lanciare un’occhiata e controllare le condizioni del fratello e in cambio ricevette un pugno nello stomaco.
Annaspò, incredulo.
L’impronta del suo corpo, la traccia di sangue era ancora lì impressa nella neve ma… Dove diamine era finito? Avrebbe voluto pedinare le orme che si addentravano nel bosco ma non ne ebbe la possibilità. Le fiamme erano soffocate e Sara preparava un nuovo affondo mentre le sue urla sovrastavano quelle della battaglia. Qualcuno parò il colpo, senza che Fabiano si spostasse di un solo centimetro.
«Padre!» esclamò mal celando lo stupore.
«Scappa!» gli disse con urgenza nella foga del combattimento «per tuo fratello non c’è più nulla da fare, un vampiro l’ha trascinato nel bosco. Ma tu devi vivere. Dovete fuggire tutti!».
La testa gli correva a mille, non era in grado di assorbire tutte quelle informazioni in una volta, non se ognuna di esse rappresentava una lama dritta nel cuore. L’unico balbettio che riuscì ad alitare inconsapevolmente dalla sua bocca fu «Perché?». Credeva che il padre non l’avesse sentito, ma poi lui si voltò e Fabiano scorse le terribili ustioni e le vesciche ribollenti di pus che chiazzavano metà del suo viso nascosto dentro al cappuccio bruciacchiato e logoro. Nausea e compassione che si agitavano nel suo petto.
Quando gli confidò sottovoce «Lui sta arrivando» con lo stesso tono utilizzato da chi narra storie dell’orrore, Fabiano si convinse della gravità della situazione e fuggì, obbediente ancora una volta alle parole del padre.
**********

Gabriel

Le kopis di Leona scintillavano in un vortice di argento trapassando i nemici come se avessero un’anima propria. Le sfiorava soltanto col pensiero e loro seguivano il suo volere: cani fedeli che vogliono compiacere il proprio padrone. Si muoveva veloce, impietosa come raffiche di vento che si accaniscono sui tetti delle case, e proprio come loro scardinava via con sé nel suo vortice tutto quello che riusciva a inglobare.
Venne sommersa da una marea di corpi lustri di sudore e sangue e Gabriel la sentì imprecare così forte che per un attimo temette di non riuscire a pareggiare i conti. Se messi a paragone, le contumelie lanciate da un vecchio pescatore amareggiato dal fatto che al suo amo non abbocca nient’altro che ciarpame sprovvisto di pinne e branchie, sarebbero risuonate più simili agli endecasillabi sciolti del Manzoni. Il suo serbatoio della pazienza si era prosciugato e la cosa non lo sorprendeva più di tanto. Era stato fin troppo distratto per notare il cambiamento, eppure era lì proprio sotto i suoi occhi. Si era caricata sulle spalle un macigno di cui non conosceva il peso, consegnato da un popolo che non ricambiava il suo amore. Non aveva nemmeno compiuto quattordici anni ed era riuscita a trascinare con lei in quel piano folle un’intera banda di inaffidabili adolescenti riuscendo lì dove anche i più audaci avevano fallito. E appeso al suo collo, oscillava convulsamente tutto ciò in cui Gab aveva sempre sperato. Una falce di luna blu in grado di esaudire i suoi desideri. La sua lampada di Aladino. Doveva arrendersi. La sua dolce e pacata sorella stava maturando in un modo tutto suo, lo aveva seminato da tempo e lui non faceva altro che mangiarsi la sua polvere. Per un lungo secondo straziante, non riuscì più ad adocchiarla in mezzo alla calca e l’ansia gli ghermì le interiora.
«Riesci a vederla?» domandò a Morgana oltrepassando un’orda di vampiri.
Morgana aveva racimolato frecce a sufficienza per poter continuare la sua infallibile carriera di arciera. I suoi dardi saettavano ovunque. «Gab, io…».
«Non è il momento dei rimorsi!». L’urlo sovrastò il canto della spada «Adesso o mai più. Vai ti copro io» le giurò mentre il piatto della lama recideva il collo di un mezzo licantropo. Morgana schivò il calcio di un vampiro e sgusciò nel vivo della lotta con una capriola. Gabriel la seguì a ruota senza mollare il suo fianco. Si spostavano all’unisono in quella gabbia di mostri, come due pappagalli Inseparabili. La trovarono accanto a un Ascanio non del tutto cosciente e privo di pupille proprio mentre dieci fiammiferi le ardevano sulla punta delle dita. Le ombre sotto il protettore si estendevano come una macchia d’inchiostro colato da un calamaio e sembravano pietrificarlo lì sul posto, incapace di reagire. Gabriel si guardò attorno in cerca del pericolo. E fu quando il fuoco di Leona venne scagliato verso l’alto che vide la sidhe volteggiare sopra di loro.
«Oh Dio, no!» urlò Morgana.
Le braci luminose di sua sorella avevano scacciato le tenebre su cui Ascanio era inginocchiato, ma credere che respingere la fata lo avrebbe salvato fu il suo più grande errore. Aveva sottovalutato l’ascia che il ragazzo brandiva verso di sé. I muscoli delle braccia di Ascanio guizzarono sotto la sua pelle quando caricò.      
Zac!
 Le schegge di legno si sparsero attorno a loro e la scure chiazzata di sangue ricadde pesantemente sul selciato innevato, recisa dal fusto. La scimitarra di Marlena le sfuggì dall’impugnatura e si gettò sul corpo irrigidito di Ascanio con un urlo. Scosso dai suoi singhiozzi, Ascanio riaprì gli occhi cisposi, impastati di sonno, e l’accolse nelle sue possenti braccia sfiorandole i capelli con cautela, come ad assicurarsi che non fosse un miraggio.
Poi la bionda gli mollò un ceffone così forte che lo spedì fra le stelle «Che cosa credevi di fare?» sbraitò con le lacrime che pungevano agli angoli dei suoi occhi arrossati.
Quando fece ritorno sul pianeta terra, bisbigliò senza smettere di toccarsi la guancia infuocata dal tocco non troppo gentile della protettrice «Sei viva…».
«Certo che sono ancora viva, idiota!».
«Eri vittima di un incubo» gli spiegò Leona «Se posso darti un suggerimento, tieniti lontano dalle ombre la prossima volta». Il ragazzo annuì osservando, avvilito, ciò che era rimasto della sua arma. Sua sorella sembrò perforarlo con i suoi occhi blu attraverso il cranio e a quel punto si chiese se non avesse intuito le loro intenzioni. In realtà si era solo scambiata un cenno con l’alchimista che faceva ruotare per aria i suoi criptici cerchi alchemici composti da successioni incomprensibili di glifi. Non aveva tempo per i loro sotterfugi, anche se i protettori di Andromeda si erano uniti a loro, l’insolita l’alleanza tra Frieda e i vampiri di Ellak era la combinazione perfetta che avrebbe potuto scrivere la parola fine sul campo Betelgeuse. Che interessi comuni avrebbero potuto condividere dal momento che entrambi ne avrebbero rivendicato il possesso? Una volta fatti fuori i protettori avrebbero rotto la tregua e si sarebbero dichiarati guerra fra loro? Che vantaggi ne avrebbero tratto?  Almeno che…
Gli mancavano troppi pezzi del puzzle per avere un quadro completo della situazione e se non avesse fatto nulla per cambiare le cose, non avrebbe vissuto tanto a lungo per scoprire la verità. E lui era abbastanza forte da accettare le conseguenze. Lei avrebbe capito…
«Morgana» le disse. Era il momento perfetto, impegnata in quella lotta sanguinaria avrebbe soltanto apprezzato il sostegno della sua migliore amica. Ma le mani di Morgana stavano tremando e lo spettro della confusione infuriava nei suoi occhi. «Che cosa stai aspettando?» le bisbigliò all’orecchio. Come se le avesse alitato aria gelida sul collo, lei rabbrividì e fece un passo indietro. «Non posso…» disse con la sua flebile vocina.
«Mi prendi per il culo?»
«Ho detto che non posso e non lo farò! Preferisco morire piuttosto che deluderla ancora!» ribadì con più decisione e gli afferrò il polso con una forza di cui non la faceva capace «e nemmeno tu dovresti…».
Si divincolò in fretta cercando di cancellare il suo volto ferito dalla mente «Dannazione…». Decise di tentare il tutto e per tutto e corse verso sua sorella con la spada sguainata. Lui sapeva che Leona lo aveva visto arrivare con la coda dell’occhio ma non lo fermò. Adesso gli dava volutamente le spalle ed era chiaro il suo messaggio: “Proteggimi, fratellino”.
Quella sua resa lo intenerì e lo fece vacillare per un attimo, il rimorso che lo divorava dall’interno. Ma il suo desiderio di vendetta era più potente di qualsiasi altra cosa lui avesse mai provato. Così scivolò al suo fianco fingendo di parare l’artigliata di un licantropo. I suoi capelli neri erano gettati confusamente tutti da un lato e le lasciavano metà del collo scoperta, la carotide pulsava in bella vista alla mercé dei vampiri. La collana era lì come se lo stesse supplicando di essere prelevata dalla sua proprietaria, come se lei volesse che le togliesse quel fardello. Quel pensiero lo rinvigorì. Lei stava dalla sua parte. Per cui fu quasi spontaneo allungarsi verso di lei, farle sgusciare la lama fra la nuca e la catena e rompere il gancio. Gabriel l’afferrò prima che si perdesse nella neve e tenne saldo il ciondolo nella sua presa. Sollevò gli occhi giusto il tempo di notare l’atterrimento di Leona, le sue dita che indugiavano sulla clavicola per poi arpionarsi il collo come a voler nascondere la nudità della sua pelle. Gabriel semplicemente non era pronto a fronteggiare quel dolore, guardare sua sorella, la fiducia che s’infrangeva nei suoi occhi…un ferro incandescente a confronto gli avrebbe appena fatto il solletico. 
Le disse soltanto «Lo faccio per noi» come se potesse giustificare ciò che le aveva fatto.
«Restituiscilo, Gabriel» lo raggiunse la durezza della voce di Morgana. Inalò un respirò, rilassando i muscoli delle spalle «Tu non capisci…».
«No, sei tu a non aver capito. Tutto ha un prezzo Gabriel, e non ho intenzione di stare a guardare come il tuo odio ti strappi l’anima a brandelli. Ho detto: restituiscilo» e la punta della freccia gli sfiorò il naso. Gabriel non riusciva a credere che Morgana, la sua Morgana, lo stesse minacciando col suo arco. Se solo suo padre l’avesse potuta vedere…comunque non sarebbe stato fiero di lei nemmeno la metà di quello che era lui in quel momento. L’amò così tanto che rimase senza fiato.
Lui non la meritava. Era troppo codardo per ammettere che le avesse affidato quel compito ingrato perché non voleva essere l’unico a ferire sua sorella. Era un bene che si fosse opposta. Non avrebbe sopportato il senso di colpa di averla trascinata con lui, in quel disgustoso tradimento, anche se necessario.
«Siete già così stanchi l’uno dell’altra da dover aggiungere un pizzico di pepe al vostro rapporto?» disse qualcuno con una risata squillante. A Gabriel gli si accapponò la pelle.
«Frieda…» stridette Leona serrando le labbra fino a farle sbiancare. La vista del ragazzo biondo cenere intrisi di sangue abbandonato fra le braccia della fata, ammutolì i tre protettori. Norman non sembrava del tutto cosciente, le ginocchia s’incrociavano fra loro e le braccia penzolavano morte dalla presa di Frieda che lo tratteneva in vita.
«Ti prego, lascialo andare…» la supplicò Fabrizio, strisciando a fatica nella neve.
Ellak gli piantò un calcio nello stomaco che lo fece rotolare su se stesso. «Sta zitto!» gli urlò. Fabrizio boccheggiò in cerca di aria ma riuscì solo a sputare un rantolo di sangue scuro.
«Già, non vi sembra che ci sia troppo brusio?» si domandò Frieda picchiettandosi l’unghia laccata di nero sul mento. Poi schioccò le dita e il cielo si oscurò lentamente. Non capirono subito cosa stava accadendo. Non avevano mai visto nulla del genere. Tranne uno.
«Siamo fottuti» rantolò ansando Fabrizio.
Le ombre si avvolsero tutte attorno alla vallata fino a raggiungerne i confini del campo di battaglia. Non assomigliavano per nulla a nuvole foriere di tempesta, no, magari si fosse trattato di una innocua pioggerellina. Gabriel fissò il cielo impiastricciato di un melmoso color petrolio e trattenne un gemito di sorpresa. Le sidhe avevano interrotto le loro maledizioni per riunirsi compatte come uno sciame ronzante di calabroni. Tenendosi tutte per mano, avevano dato vita a una vera e propria catena fatata portatrice di oscurità. Per un attimo si udì soltanto il battito delle loro ali e le cantilene melodiose che uscivano dalle loro bocche. Le ombre si espansero e guadagnarono sempre più terreno fino a che tutti i guerrieri non intinsero i piedi in quella pozza di tenebre. Poi seguì un fragoroso clangore scrosciate di lame. E fu la resa generale. Ogni protettore, dal più piccolo al più grande, gettò l’arma a terra senza emettere un solo lamento. Li avevano trasformati in monumenti di guerra, congelati in caratteristiche pose di attacco e difesa. Quando l’assembramento di sidhe s’infittì a tal punto da diventare  nient’altro che macchie scure indistinte l’una dall’altra, scese un gelido silenzio su di loro che li fece rabbrividire. 
«Così va molto meglio, non credete?» se ne compiacque Frieda. La fata gettò un’occhiataccia sprezzante al ragazzo che teneva stretto al petto come un burattino «Questo tienilo tu e per favore cerca di non prosciugarlo subito va bene?» disse al vampiro con una smorfia di disgusto. Norman era troppo debole per protestare o reagire. Ellak non parve gradire i toni bruschi della fata, ma andò a recuperare ugualmente il corpo del protettore che stava per sprofondare nella neve. Si tenne in caldo le sfuriate per il dopo. Sì, decisamente quei due sarebbero finiti col farsi a pezzi a vicenda.
«Allora» esordì Frieda trascinando l’orlo del vestito inzaccherato di fango «Tutto ciò è stato davvero divertente, ma adesso ne ho abbastanza. A dire la verità sono delusa, credevo che la mia dolce sorella avrebbe partecipato alla trattativa. Evidentemente aveva ben altro di più interessante di cui occuparsi. Accipicchia, è stato più facile di quello che mi aspettavo. Se avessi saputo che aveva intenzione di abdicare, mi sarei risparmiata tanto disturbo…».
«Oh per la miseria, fata» brontolò Ellak «attieniti al piano e fa in fretta. Il sangue del moccioso è fin troppo appetitoso…». Frieda s’infilò due dita nelle orecchie «Non amo che mi si interrompa, barbaro, fa parlare me». Lui le rispose con un ringhio profondo con il veleno che colava copioso dagli angoli della bocca. Gli occhi, due pozze di sangue vivo intrisi di ribollente rabbia.
«Se volete discutere con calma, non c’è problema. Magari passiamo dopo…» li interruppe Gabriel.
«Non così in fretta, medjai. Hai qualcosa che mi appartiene».
«Non direi, lo abbiamo trovato noi per primi…».
«Trovato?» rimarcò Leona inarcando un sopracciglio, sempre più sconvolta.
«Ok, tecnicamente…».
«So quello che vuoi medjai» disse Frieda «E io posso concedertelo in totale sicurezza. Quello che hai fra le mani è un oggetto potente, senza dubbio, ma se non sai come usarlo potresti farti male. Potrebbero esserci delle conseguenze disastrose e, contrariamente a quello che si pensa, non è nel mio interesse. Non ve l’ha detto il vecchio? Per ogni desiderio espresso, il ciondolo chiede un tributo in cambio. È questo il fondamento della magia, e il qui presente Candle potrà confermarvelo».
Candle s’impietrì sentendosi tirato in ballo e rigirandosi nervosamente il berretto fra le mani confermò «Farai bene a prestare ascolto ragazzo…». Frieda proruppe in una risata cristallina «Vedete, non sto mentendo, imparo dai miei errori. Guardami negli occhi medjai. Vuoi salvare i tuoi amici no? Certo che sì, non pensi anche tu che ci siamo lasciati troppi cadaveri alle spalle? A cosa sono servite tutte quelle morti…guardate in faccia la realtà, non potete affrontarci, ma ovviamente la scelta sta a voi»
«Quale scelta?» sputò sua sorella incollerita «ci uccidereste in ogni caso!».
«Come si vede che non mi conosci. Vi faccio una promessa, se accetterete a nessun altro protettore verrà fatto del male, compreso il vostro delizioso amichetto biondo» disse ammiccando verso il ragazzo stretto fra le braccia del vampiro «Sarà il mio primo atto misericordioso da retta sovrana qual sono. Acconsentirò a lasciarvi andare alle mie condizioni. Per prima cosa, dovrete abbandonare il campo. Ormai non c’è nulla che vi trattiene qui, non avete più alcuna protezione e non vedo perché sacrificare centinaia di vite inutilmente, soltanto per un capriccio».
«Secondo» s’intrufolò nella discussione Ellak, ghignando «dovrete giurare di smettere di darci la caccia dopo che i miei si saranno insediati qui. Vi spoglierete delle vostre armi, delle vostre corazze e tradizioni e vi mescolerete fra la gente comune, dimenticando ciò che siete stati». Frieda sospirò soffocando l’irritazione suscitatole dall’interruzione del nuovo capo della setta dei sanguinari.
«Terzo» continuò scoccandogli un’occhiataccia. La fata prese a frugare nervosamente fra le pieghe delle sue vesti e ne tirò fuori un contenitore di vetro. Dopo esserselo rigirato fra le dita, lo lanciò a Leona.
«Vuoi che mia sorella ci pisci dentro?» le domandò Gab.
Frieda scosse la testa, divertita dalla domanda. Leona invece rimase mortalmente seria. La spiò con sospetto tra le folte ciglia nere «Vuoi il mio sangue, non è così?».
«Perché il suo e non il mio, cos’ha lei di così speciale che io non ho?» chiese Gabriel tentando invano di nascondere l’infantilità nella sua voce.
«In realtà non è lei quella speciale, mio caro Gabriel. E se ti unirai a me, ti spiegherò ogni cosa. Ti dirò come usare correttamente il ciondolo, avrai ciò che hai sempre voluto, e non solo ti sarà concesso di vivere ma ti sarà riservato un posto speciale fra la più potente razza elitaria mai esistita, per ordine di sua Signoria in persona. Ti unirai alla guardia dei Cavalieri della Mezzanotte. Tutto quello che dovrai fare è consegnare in custodia il ciondolo a me e…».
«Non ha alcun senso» ribatté Gabriel «solo Dio sa quanti di quelli come noi non hanno avuto un futuro a causa loro…perché dovrei entrare volontariamente nella tana del lupo e lasciare che mi sbranino».
«Ai gemelli non servirà nulla il tuo cadavere. Loro ti vogliono al loro fianco».
Gabriel sbiancò all’istante «I…i gemelli? Ma cosa stai blaterando, fata?».
«Non hai ancora capito? Loro sono come te». All’improvviso fu come se gli fosse esplosa una bomba nel cervello. Ce n’erano altri come loro? Anche sua sorella pareva sconvolta da quella rivelazione e non la biasimava. Per anni li avevano messi in guardia, instillando in loro la paura anche solo d’incrociare la loro strada per sbaglio, e adesso volevano stringere un’alleanza con loro? Con lui, si corresse. Non aveva menzionato sua sorella, sangue a parte.
«E che ne sarà di lei? Dovrebbero sapere che noi le cose le facciamo insieme. O prendono tutto il pacchetto o si possono infilare la loro proposta su per il…».
«No!» urlò sua sorella a gran voce. Le schegge del contenitore si erano sbriciolate fra le sue mani «Questo sangue» disse stringendo il vetro con più forza «non sarà mai tuo».
Frieda roteò gli occhi al cielo e si pizzicò il setto nasale con l’indice e il pollice «Immaginavo che lo avresti detto…». Sua sorella urlò ancora. Questa volta, però, per la staffilata di dolore che la sfera oscura di una sidhe le aveva procurato andandosi a piazzare fra le sue scapole. Cadde in avanti con la faccia riversa nel nevischio e non si mosse più. Due vampire saettarono ai margini del suo campo visivo come ombre sfocate e la presero per le braccia. La scaraventarono con violenza ai piedi della fata e si fecero da parte. «Non toccatela!» gli intimò rabbioso col panico che gli serrava la gola. Sua sorella grugnì in preda alle atroci sofferenze ma raccolse le forze necessarie per levare lo sguardo su di lei. Frieda rise a denti stretti e sollevandosi l’orlo sudicio del vestito, gli sferrò un calcio in pieno viso. Gabriel sentì il rumore del setto nasale che si spappolava anche da lì. L’ira prese le sembianze degli artigli dell’arpia che si erano appena uncinati sul suo addome. Il petto di Gabriel avvampò di una rabbia così intensa e cruda da liquefare le viscere. Quando Frieda la fece rialzare da terra acciuffandola per i capelli, contemplò l’idea di un omicidio di massa per spegnere le fiamme che ardevano dall’interno.
«È un vero peccato rovinare un così bel faccino».
«Stronza» sibilò sua sorella soffocando nel suo stesso sangue. Frieda le afferrò una ciocca e la strattonò verso il basso con violenza. I capelli di Leona le rimasero in mano. Le grida di dolore gli perforarono i timpani.
«Ora ho la tua attenzione, giovane medjai? La generosità dei Cavalieri non si estende anche alla tua vivace sorella…».
«Dimentichi però chi ha il coltello dalla parte del manico…» disse Gab mostrandole l’oggetto della loro contesa «Cosa ti dice che io tema le conseguenze? Cosa ti da la sicurezza che io non farei qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che voglio?».
«Oh, sono sicura della tua caparbietà, ma conosco il tuo punto debole». Qualcosa luccicò fuori dalla manica dell’abito, qualcosa di molto affilato che in quel momento baciò la gola di sua sorella. Il gelo della lama la fece tremare e chiuse gli occhi inumiditi dalle lacrime. 
Il ragazzo si morse il labbro inferiore inconsapevolmente e cercò di non fare troppo caso a come la terra sotto di lui stesse ondeggiando «Non la ucciderai, sai benissimo come funziona. Se mi volete vivo…».
«Dammi il ciondolo, ragazzo! Non ti darò un’altra possibilità, a quel punto ordinerò ai miei di sterminarvi dal primo all’ultimo» disse affondando lievemente la punta del pugnale nella pelle di Leona. Un rivoletto di sangue si raccolse nell’incavo del collo.
«Ti prego…» lo supplicò Leona «Non farlo».
Come poteva chiedergli una cosa del genere? Dopo tutto quello che avevano passato e l’odio che avevano condiviso? Avrebbe voluto guardarla negli occhi e scavare dentro di lei, ma erano chiusi, come se volesse tenere fuori tutti quegli orrori che la circondavano, come se si rifiutasse di accettare la minaccia che la pungeva crudelmente la carne. E lo aveva lasciato solo. Solo con quella terribile decisione. Gabriel si fece catturare dai bagliori blu del ciondolo, ipnotizzato dal suo dondolio. Gli bastavano solo quattro parole, le stesse che gli pulsavano nella testa da quando i suoi genitori erano stati uccisi. Li voglio tutti morti. Solo un istante e tutto sarebbe finito. Era sempre stato così, l’odio per i vampiri non si era mai affievolito, anzi lo aveva coltivato con cura fino a che non era stato in grado di desiderare nient’altro. Si addentò la lingua pur di non pregare il ciondolo di esaudirlo all’istante, per dissetarlo, appagare e narcotizzare il dolore sordo che lo tormentava. Quel semplice gioiello poteva donargli il mondo che lui aveva sempre sognato, ma che senso avrebbe avuto se non poteva condividerlo con lei? Come avrebbe potuto sorridere di nuovo se lei non ne avesse fatto parte? No, non poteva farlo. Non voleva quel mondo se Leona non lo avesse abitato. E c’era di più. Nella improbabile ipotesi che entrambi sarebbero sopravvissuti, sapeva perfettamente che, adesso con molta più chiarezza, Leona lo avrebbe odiato per tutta la vita. Gli faceva male anche solo pensarlo ma non voleva più la stessa cosa. Lei lo avrebbe disprezzato quel mondo, non avrebbe voluto averci a che fare. Lui non la capiva, forse non lo avrebbe mai fatto. Non per questo soffocò il seme del dubbio sul nascere. L’idea che un vampiro potesse essere di più di un freddo assassino dall’anima dannata, era semplicemente ridicola, impossibile da accettare. Lei, però, aveva affrontato l’intero consiglio per quei viscidi, non si era piegata di fronte alle loro ingiuste accuse. Leona era tutto fuorché pazza e se lei ci credeva, allora una parte di lui, quella che avrebbe preferito morire piuttosto che farla soffrire, le avrebbe concesso la possibilità di dimostrargli come quella follia potesse essere reale.  
Ma come poteva anche solo pensare di arrendersi e consegnare l’amuleto? Cosa gli garantiva che Frieda mantenesse la parola data? Assolutamente nulla.
L’idea gli balenò all’improvviso fulminando il caos dei suoi pensieri tempestosi.
«Prendi il suo sangue finché puoi» gli disse infine.
«Gabriel che cosa stai facendo?» sbottò Morgana con gli occhi luccicanti di rabbia.
La fata gli sorrise «Hai scelto bene, medjia» disse allentando la presa su una Leona che si reggeva in piedi per miracolo. Lui non era affatto d’accordo, ma si limitò a deglutire mentre la osservava avvicinare la fiala alla ferita di sua sorella. Il taglio non era profondo, ma stillava ugualmente flussi abbondanti di quel liquido denso e carminio che adesso traboccava dalla fiala colandole giù  dalle dita. Lo sigillò frettolosamente con un tappo e se lo intascò.    
 «Adesso restituiscimi mia sorella ed io… ti consegnerò il ciondolo della Luna» sussurrò come se della cartavetrata stesse sfregando contro le sue corde vocali. Non credeva che sarebbe stato così difficile pronunciare quelle parole. Eppure…lottò con quella parte di lui che continuava ad urlagli che stava commettendo l’errore più grosso della sua vita e gli mise un bavaglio attorno alla bocca.
«Ma prima» aggiunse «lascia che faccia un’ultima cosa». Se avesse anche solo minimamente immaginato quanto quel silenzio avesse potuto squarciarlo così nel profondo, Gab ci avrebbe pensato più di una volta ad avanzare quell’assurda richiesta al ciondolo. Finché però sarebbe rimasto legato a lei, non avrebbe potuto attuare il suo piano senza coinvolgere sua sorella. E così andò alla ricerca di quel legame dentro di sé. Non fu difficile trovarlo, sentirlo a fior di pelle. Tutto il suo essere era permeato da quell’unione, le loro anime erano davvero fatte della stessa cosa. Ascoltò il canto del cuore di sua sorella imprimendosi il pentagramma di quella melodia nella sua memoria, prima di sussurrarle: «Scusami». Quello però che uscì dalla sua bocca furono ben altre parole e non erano rivolte alla sua Leona.
«Distruggilo» disse «Spezza il nostro legame».
Gabriel ripensò al dolore inferto da una spada, a quello causato da una pallottola conficcata nella carne, sprofondata nei polmoni, al suono di ossa che si spezzano in seguito a una caduta. Non era nulla di tutto questo, non si trattava di un dolore fisico…Non riusciva a sentire più nulla.
«Che cosa hai fatto?» disse lei, grato che almeno la sua voce gli suonasse ancora così familiare. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua come in quel momento. Guardò la luna blu impressa nel palmo della sua mano. Quel silenzio, quella solitudine…gli strapparono l’aria dai polmoni. L’ossigeno, comunque, di lì a poco non gli sarebbe più servito. Adesso che la vita di Leona non era più legata alla sua, con un unico sconsiderato colpo di spada avrebbe ucciso la più spietata regina che avesse mai solcato il pianeta Terra, liberato il suo popolo dalla morsa maledetta delle sidhe, e sottratto al nemico il pedone sacrificale più importante della loro scacchiera: se stesso. Affilò Symphony preparandola alla sua ultima canzone e scattò verso Frieda e la sorella, imitando la velocità di un vampiro. Leona riaprì gli occhi un secondo prima di capire quale diavoleria avesse in mente suo fratello, ma ebbe l’accortezza di farsi da parte catapultandosi in mezzo alla neve. Gab, allora, brandì la spada impugnando l’elsa con entrambe le mani, l’eco del metallo riverberava nella valle silenziosa come se stesse trattenendo il fiato. Credendo che stesse vibrando Symphony verso la sua testa, Frieda si accovacciò verso il basso convinta di averla fatta franca, ma non era la sua decapitazione ciò a cui il medjai puntava. Bloccando la finta a metà arcata, Gab piroettò elegantemente assecondando lo slancio della spada e si spinse con la schiena contro il petto della fata dai capelli blu. Caddero l’uno sopra l’altra spruzzando neve in ogni dove, i loro corpi combaciavano a tal punto che il ragazzo riuscì a tracciare nella sua mente una mappatura di tutte le ossa spigolose che pungolavano sulla sua schiena. Tralasciando i versi soffocati di Frieda che tentava di levarselo di dosso, il protettore ingoiò il suo ultimo lungo respiro, la gabbia toracica che si espandeva ingorda dell’aria fresca che era penetrata nei suoi polmoni, e fece ruotare la spada a doppio filo di suo padre fino a che la lama non fu collocata poco sopra lo sterno, perpendicolare alla metà rimanente del suo cuore. Prima di chiuderli definitivamente, avrebbe voluto godere della vista del cielo ancora un’ultima volta, ma la consapevolezza che dopo la sua morte il sole sarebbe tornato a baciare la pelle delle persone che amava lo rinfrancò in egual modo.
Senza ulteriori indugi o rimpianti, Gab tese le braccia verso l’alto raccogliendo tutti i residui di mana che vagavano solitari nel suo sangue e spinse l’arma verso di lui con una forza tale che se solo fosse riuscito nel suo intento avrebbe certamente trapassato il suo cuore e quello della donna che giaceva sotto di lui. Quando i pugni vuoti cozzarono contro il suo petto, il ragazzo ricacciò fuori tutta l’aria che aveva precedentemente inspirato con un dolore acuto che si irradiava fra le costole.
Symphony era svanita nel nulla e aveva soltanto lasciato al suo passaggio lievi escoriazioni sanguinanti fra le sue mani. Non fu quello a sconvolgerlo di più, ma il tuono pulsante che riecheggiò insieme ai battiti del suo cuore.
Sei un idiota Gabriel Massimiliano Braveheart, urlò una voce carica di rabbia che poté udire soltanto lui nella sua testa. La gioia infusa dalle vibrazioni accelerate del cuore di sua sorella lo lasciò paralizzato dalla testa fino all’estremità dell’alluce. Gab fece sprofondare le mani nella gelida massa ghiacciata che lo circondava per ritrovare la lucidità e si tirò lentamente su. Quando fece rimbalzare lo sguardo da una Leona all’altra, Gab considerò seriamente la possibilità che avesse sbattuto la testa da qualche parte. La prima era la stessa Leona con il naso imbrattato di sangue che conosceva, quella talmente indebolita che a malapena ricordava come mettere un piede avanti all’altro. La serica pelle di alabastro della seconda Leona invece, emersa da quella confusa folla di corpi impietriti dal sortilegio, risplendeva di luce propria fra le tenebrose ciocche corvine che si agitavano in balia dei venti attorno al suo viso adirato. Nella mano destra c’era Symphony. Le sue dita pallide ghermivano l’elsa come se volessero fondere il metallo in cui era stata forgiata. Le labbra barricavano fra i denti l’imprecazione che cercava disperatamente di evadere dalla sua bocca. Be’, aveva davvero pochi dubbi su chi fra le due fosse l’impostore.         
Quella distrazione gli impedì di notare la mano che era sgusciata da sotto la sua ascella intrufolandosi di soppiatto dentro la tasca della sua giubba.
«Finalmente! Dopo decenni di separazione sei di nuovo mio» stava sussurrando dolcemente Frieda alla collana che stringeva gelosamente in grembo come un neonato. A Gab mancò il terreno sotto i piedi. Frieda prese delicatamente il ciondolo lunare fra le dita e lo innalzò al cielo affinché tutti potessero vederlo. I suoi occhi viola bruciarono di pura follia.
«Adesso» disse a voce sempre più alta «inchinatevi a me». Il silenzio amplificò l’eco di quel comando dispotico senza produrre alcun effetto. Frieda cominciò a guardarsi attorno con l’aria di una che aveva smarrito la bussola e riprovò «inchinatevi ho detto!». Il volume si era innalzato ancora di qualche tonalità ma nessun ginocchio accennò a flettersi.
«Qualche problema?» domandò divertita la Leona col naso spappolato. Ma…perché si era accorto soltanto in quel momento che il sangue che le imbrattava la faccia fosse maledettamente blu?
Frieda digrignò i denti e si avvicinò il ciondolo a una spanna dal viso. Poi sollevò lo sguardo confuso e furioso sull’omone che si stava letteralmente piegando in due dal forte ridere. Candle si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto che aveva trafugato dal taschino del gilè «Sapevo che avevi un debole per le pietre, ma devi ammettere che ti accontenti di poco». Frieda restò in silenzio e i suoi occhi saettarono di nuovo sul…sasso liscio, bianco e discoidale che teneva sul palmo della mano. Sì, un semplice, inutile, sasso.
Quello che accadde dopo la trasmutazione del falso ciondolo della luna, Gab, in fondo, mica se lo ricordava così bene. Era sicuro di aver notato vagamente il sorriso della ladra di Symphony mentre i bagliori dei fondali marini si accedevano di un profondo blu attraverso la  sottile camicia bianca che indossava sotto la giubba, la maestosa aquila reale che precipitava come un mietitore spietato con gli artigli arricciati sulle spalle della fata dal viso sfregiato dalle sue bugie, e la malconcia caricatura di sua sorella che si slanciava verso l’alto e i capelli, dapprima nerissimi, sciogliersi in fluenti ciocche di un dolce color miele, gli ipnotici occhi blu macchiarsi di cioccolato. Poi il sole arse fra i seni della donna dalle lucenti ali dorate che aveva indossato le spoglie di Leona. La luce rossa esplose dal suo nucleo e impattò nel petto della sorella fatata a cui invece erano state strappate le ali.
Il sassolino che per lei era stato prezioso, scivolò fra le sue dita, ma il suo cuore ferito dal raggio incandescente dell’amuleto gemello non sanguinò. 
**********

Delilah

Delilah non poteva crederci. Il piano della ragazza aveva funzionato. Non contava nemmeno più gli anni che aveva trascorso a darle la caccia e finalmente c’era riuscita. Stava assaporando la vendetta sulla sua lingua ma…si accorse che non era dolce come si sarebbe aspettata, anzi era tremendamente amara, pungente e non aveva estinto la sua sete. Teneva ancora fra le braccia la sua moribonda sorella quando le sue adepte cominciarono a piovere dal cielo come corvi neri a cui erano state spezzate le ali in volo. I guerrieri ripresero a gridare e a stridere il ferro attorno al loro giaciglio funebre improvvisato.
«Sorella, tu…» gorgogliò piano Frieda aggrappandosi alla sua candida veste. Bolle di sangue nero scoppiarono sulla sua bocca contorta in una smorfia sofferente.
«Shhh…» le sibilò adagiandole la testa in grembo «Non parlare o sarà ancora più doloroso».
Perché la sua voce era così rotta e tremante? Era quello che voleva dopotutto…Eppure le sue dita continuavano involontariamente ad accarezzarle i lunghi capelli blu, quelli che adorava intrecciare e decorare di fiori quando erano soltanto delle bambine, quando nessuna delle due conosceva il subdolo significato dell’invidia o la bramosia di una corona sulla testa, quando ancora nessun uomo poteva giocare con i loro deboli cuori e metterle l’una contro l’altra.
«Hai rovinato tutto, lo sai?» cercò di dirle fra i convulsi colpi di tosse «Avresti dovuto lasciare il ciondolo a me…potevo portarlo indietro, potevo riportarlo indietro da noi…il nostro…Mordred» sospirò.
«Stai delirando sorella. Come è possibile…».
«Lui…» la interruppe sfiorandole la guancia delicatamente «il suo corpo…giace nelle lande ghiacciate, è lì che l’ho tenuto nascosto». Delilah s’interrogò su come fosse riuscita a nascondere il cadavere dell’uomo che avevano amato nelle terre di suo dominio senza che lei ne venisse a conoscenza, ma in fondo sapeva che persino in seno al suo consiglio più ristretto si celasse un covo di serpi. S’immaginò le loro lingue biforcute lappare l’aria attorno a lei infestandola con le loro velenose bugie, le stesse lingue che avevano sussurrato alle sue orecchie. In quel momento non era più rilevante. 
«Ma adesso non ha più importanza» convenne sua sorella sputandole il sangue sui vestiti «Ti prego, allegra la morte di tua sorella dissolvendo uno dei dubbi che l’hanno tenuta sveglia la notte per tutti questi secoli…quando ti sei accorta che Mordred non era il tuo legatio?».
Delilah non poté fare a meno di sorridere «A mio discolpa credevo sul serio che lui fosse il sovrano del mio cuore, colui a cui avrei ceduto incondizionatamente metà dei mie anni immortali, colui con cui avrei tirato l’ultimo sospiro allo stesso capezzale. Credevo davvero di essere innamorata, e che dopo di lui la felicità sarebbe fuggita da me come le tenebre fuggono la luce. Dall’altra parte quando una fata s’innamora è per sempre no? E forse è stato questo ad alimentare il mio odio verso di te…tu mi avevi negato la possibilità di un amore per il resto dei miei giorni, mi avevi condannata alla prigione più crudele che potessi costruire per me. Lui ti amava Frieda, ha sempre amato te e te soltanto. Era il tuo legatio, non il mio. Adesso lo so…e ti chiedo perdono per ciò che ti ho fatto…Sono stata io a plasmare ciò che sei diventata, sono stata io a distruggerci, adesso lo so».
«È successo, non è vero? Lo hai trovato alla fine…l’ho visto nei tuoi occhi. Be’, che tu sia dannata sorella, potrai attendere a lungo ma il piccolo protettore non ricambierà mai i tuoi sentimenti…sei destinata a soffrire come tu hai fatto soffrire me. E non c’è nulla che mi terrà più a caldo nell’aldilà che saperti col cuore infranto per il resto dell’eternità».
«È così crudele amare una volta e una volta soltanto e non avere la possibilità di scegliere. Immagino che me lo sia meritata dopotutto…».
«No Delilah, tutti meritano di essere amati…almeno una volta nella vita. Anche una sgualdrina come te».
«Questa è la cosa più dolce che tu mi abbia detto».
«Be’ forse hai ragione, sono i deliri di una moribonda…»
«Vai in pace, sorella» disse lei imprimendole le labbra sulla fronte tempestata di cicatrici.
«Fottiti…» mugugnò Frieda quasi sussurrando. Delilah sentì il corpo di sua sorella afflosciarsi fra le braccia. Un rigagnolo di sangue denso e scuro le colava dalla guancia ma, mentre calava le palpebre sugli occhi immortali di Frieda, seppe che in qualche modo non si erano odiate fino alla fine. Perché lei, stava sorridendo.
**********

Norman

Quando Norman riprese conoscenza si aggrappò forte alla vita, annaspando in cerca d’aria. Una spirale di dolore si attorcigliò lungo il costato e il gelo permeò le sue ossa. Tentò di mettere a fuoco ma gli sembrava impossibile oltrepassare quel nebuloso banco di nebbia affollatosi davanti ai suoi occhi. Le voci attorno a lui biascicavano trascinandosi una parola dietro l’altra con una lentezza quasi insopportabile. Soltanto una fra quelle fu in grado di scuoterlo. Di elettrizzarlo.
«Le…Leona» gracchiò. I denti gli vibravano in bocca senza il suo consenso. Faceva così freddo, come se stesse riposando fra le mura di una ghiacciaia. In effetti le sue supposizioni non erano poi così lontane dalla realtà. Le dita che stringevano sulla sua gola erano punture gelide sulla sua pelle arrossata. Allora ricordò e la paura si sciolse nel suo stomaco.
Debole com’era, non sarebbe comunque riuscito a fuggire da nessuna parte senza finire con la faccia a terra, eppure il vampiro serrò la presa su di lui, sordo allo scrocchio delle sue ossa che si piegavano. Era addossato contro il suo petto immobile, muto e privo di sospiri. Quella breve staffilata di dolore però rischiarò ai margini la nebbia che lo aveva accecato e colse un fulgore rosso campeggiare per aria.  Il lampo si scontrò sull’addome di Frieda. La fata rimase perfettamente immota, soltanto le sue pupille viola vagarono giù verso il foro fumante che il ciondolo del sole le aveva scavato dentro al petto.
«È una trappola!» gridò il suo rapitore, scuotendolo da capo a piedi «Quello vero lo indossa la protettrice! Prendete il ciondolo ad ogni costo!». Norman fece fatica a comprendere la sua preoccupazione ma gli fu tutto più chiaro quando Leona infilò una mano dentro la sua camicetta. Il ciondolo della luna, dello stesso colore dei suoi occhi, brillava di una luce accecante ballonzolando suoi contorni del suo viso. E vedere quel viso straordinariamente bello gli riscaldò il cuore come lo aveva sempre fatto. Poi la temperatura calò drasticamente quando vide sei figure fasciate in nero cuoio aderente gettarsi su di lei, il tempo che non accennava a rallentare. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì al suo fianco, circondarla fra le sue braccia e proteggerla da quello scontro impari e sleale. La ragazza, però, quella che un tempo lo aveva salvato dalle fauci di un licantropo, sorrise biecamente, come se non stesse aspettando altro.
Per anni Norman fu tormentato dalla scena che scorse davanti ai suoi occhi senza mai capire il perché di quel gesto folle e senza senso. Sensato o meno, Leona strappò la catena dalla giuntura a cui era appesa la mezza luna e la gettò alle sue spalle. Un attimo prima la falce blu luccicava fra le sue dita, quello dopo il suo bagliore venne soffocato dentro la bocca della ragazza. E con grande sorpresa di tutti lo inghiottì. I pensieri di Norman si aggrovigliarono confusamente.
Aveva davvero mangiato uno nei manufatti più potenti e pericolosi mai esisti sulla faccia del pianeta o Norman aveva sbattuto forte la testa durante una colluttazione?
Il vampiro lanciò un urlo dal profondo della sua gola, i suoi muscoli tremavano in preda alla rabbia che lo divorava. Qualcosa poi gli sfiorò la pelle e ci volle qualche secondo prima che il dolore esplodesse in tutta la sua impetuosità. Un respiro glaciale alitava sul suo collo, due pugnali scavavano dentro la sua gola. Norman restò in silenzio mentre gli veniva portato via un pezzo di sé una sorsata dopo l’altra, il sangue che abbandonava lentamente le sue vene in fiamme, i battiti del suo cuore che si facevano via via più flebili e distanti, il ronzio che gli assordava i timpani. Da un lato implorava che smettesse, dall’altro supplicava quella cosa che stava prosciugando la sua carotide pulsante di non fermarsi. Norman si aggrappò al braccio liscio e marmoreo che lo sosteneva prima che il mondo si chiazzasse di ombre e rimase in ascolto di quell’ululato straziante. Un ululato lungo, corroborante, che s’insinuò sotto pelle, fin dentro le ossa. Le ciglia sfarfallarono piano contro le guance, soltanto una sottile striscia di colore visibile fra le sue palpebre. Ma lo vide. Un enorme massa arruffata di pelo nero come la notte stava venendo per lui, stava venendo a prenderlo come accadeva nei suoi peggiori incubi. Voleva fuggire, il lupo era a un balzo da lui, ma le sue gambe non volevano saperne di dare un solo passo. E il lupo saltò, ringhiando come un demone. Non appena fu su di loro, il dolore cessò improvvisamente. Adesso giaceva prono in mezzo alla neve, ma non aveva freddo, non sentiva più niente.  Aveva sempre creduto che lo odiasse, che soltanto quando lo avesse sbranato l’ira che ardeva in quei profondi occhi scuri si sarebbe placata. Ma il lupo non era lì per lui, non era mai stato così. Se l’era presa con il mostro sbagliato. Il vampiro sibilava e vibrava pugni ponderosi, il licantropo guaiva e uggiolava, denti aguzzi che impattavano su pietra impenetrabile in cerca di una crepa. Fra ringhi e baruffe, il Freddo gli sfuggì dalle fauci e assestandogli un calcio su per le gengive del lupo sparì dalla loro vista nella foschia della nebbia. Prima di scattare all’inseguimento del fuggiasco, deglutì il suo bottino – tre dita intirizzite dalla morte ed esangui – e con la pelliccia irta sulla schiena, dedicò pochi istanti della sua attenzione al ragazzo che stava lentamente scivolando via nell’oblio. I suoi occhi luccicavano come la rugiada baciata dai primi raggi del mattino, e in mezzo all’inchiostro nero delle sue pupille, Norman intuì il perché di tutto il dolore che vi trovò dentro.
«Sai Caterina, dopo tutto…quelle orecchie pelose non ti stanno così male…» riuscì a sospirare fra un rantolo e un altro. La coda della lupa prese a sventolare frenetica mentre si accucciava su di lui leccandogli il sangue dalla faccia. Allora il ragazzo affondò le dita nel pelame caldo della sua amica e l'attirò a sé per premersi il suo tartufo contro la fronte. Si rese conto che non gli importava affatto cosa fosse, lui poteva vedere in quella creatura suddita della luna la stessa malizia giocosa, le stesse espressioni arcigne che celavano profonda dolcezza, la stessa lealtà che li aveva legati fin da quando erano bambini. Quella lupa era la stessa triste ragazzina orfana della madre che avevano accolto a casa loro quando non aveva più nessuno.  La stessa persona a cui aveva preso la mano e le aveva promesso che non sarebbe stata più sola. Non c’era nulla che potesse ferirlo di più che infrangere la promessa che le aveva fatto, ma l’oscurità lo stava reclamando, sentiva che le forze si dileguavano dal suo fragile corpo. Caterina gli spinse la testa ciondolante col muso soltanto per vederla ricadere pesantemente sul collo. Gli occhi del ragazzo non si riaprirono più. Era troppo tardi, aveva fatto ingresso nel suo inferno. Era rimasto prigioniero di una gabbia fatta di dolore e lei non poteva fare più nulla per raggiungerlo se non ululare la sua vendetta con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

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Capitolo 60
*** L'ANTICO ***


Hilde

A Hilde era stato ordinato di restare nascosta. Non poteva disobbedire al comando diretto di Leona, il loro legame non glielo consentiva. Non le andava proprio a genio, anzi, avrebbe preferito spazzolare i capelli della sua bambola piuttosto che farsi distrarre dagli orrendi suoni stridenti della guerra. Rintanata e protetta nella sua angusta spelonca infestata di rizomi, lasciò che la sua fantasia prendesse il volo associando ad ogni clangore di spada, una scena di battaglia diversa. Lei sapeva già che sarebbe accaduto, era tutto scritto nelle linee incise nel palmo della mano di Leona. Aveva letto la pelle della protettrice a sua insaputa, la pergamena su cui era stata abbozzata la sua storia per mano di qualche divinità. Attila non avrebbe approvato la curiosità della figlia, ma lei non aveva potuto fare a meno di sbirciare la linea della vita della ragazza, quella che s’interrompeva così bruscamente nel fiore dei suoi anni, quella il cui destino era stato eluso per ben tre volte. E s’interrogò sul perché anche quella del padre non avesse potuto scostarsi, deragliare dal fato che gli era stato imposto con la sua nascita.
 Le mancava così tanto, soprattutto intrecciargli quel guazzabuglio di capelli crespi, la sua barba spinosa e ruvida contro la sua pelle, le sue goffe risate che ricordavano isterici attacchi di tosse, l’imbevibile tè che le preparava tutti i pomeriggi e lo squittio che producevano le sue labbra sorseggiandolo quando ancora era bollente, e, ancora con più chiarezza, la sete impressa nei solchi del suo viso denutrito, i cerchi scuri sotto quegli occhi perennemente affamati, desiderosi di un liscio collo umano su cui affondare i denti e insoddisfatti dal fetido sangue di topo che  invece era costretto a ingollare per amore suo.
La storia lo aveva conosciuto come uno spietato sanguinario devastatore di regni, così terribile nella sua foga di distruzione da essere appellato flagello di Dio. Il suo papà non le aveva lesinato nessun dettaglio, desiderava che sapesse ciò che lui era stato perché era quello che lei non avrebbe mai dovuto essere. Per il suo ottavo compleanno aveva persino chiesto a Carlisle di regalarle una apologia interamente dedicata al suo turbolento passato. La piccola tracciava col suo ditino unto di pittura a olio - un generoso dono di Esme - il percorso invisibile dei suoi occhi che scorrevano frettolosi sulla pagina in cerca di un aggettivo o di un evento che combaciasse con l’immagine che lei si era fatta di suo padre, e si era sorpresa di come nessuno dei testi in suo possesso facesse cenno alla sua passione per i set da tè in ceramica o di come fosse praticamente imbattibile a giocare a nascondino. Gli storici che avevano scritto di lui non lo conoscevano affatto, quello di cui parlavano non poteva essere l’uomo che si era sempre preso cura di lei. Hilde non rimpiangeva nemmeno uno dei giorni della sua prigionia, le sue passeggiate fra le lapidi o le immaginarie chiacchierate con i morti che le tenevano compagnia persino nei giorni più piovosi.
Hilde era stata amata.
Da che aveva memoria, era sempre stato con lei e non perché fosse obbligato. Lui era morto con la consapevolezza di aver custodito il segreto, ma Hilde aveva scoperto da tempo che sua madre aveva creato la barriera per proteggere lei e che nulla di tutto questo avesse a che fare con suo padre. La barriera aveva lo scopo di tenere fuori i vampiri e trattenere Hilde al suo interno per impedirle di cacciarsi nei guai, ma se un vampiro si fosse già trovato dentro al momento dell’incantesimo, niente avrebbe ostacolato la sua evasione, nemmeno la barriera stessa. Era tutto un gioco fra loro. Attila era sempre stato libero di andare via, aveva semplicemente finto di essere il secondo detenuto di quella prigione pur di non abbandonarla alle fauci della solitudine e al silenzio spettrale delle tombe.  E  quando il destino di Hilde aveva preso in prestito le vesti di quella ragazza capace di far danzare le fiamme sul palmo della propria mano ed era venuto a scovarla perfino nel suo quieto cimitero, Attila aveva escogitato il suo piano più folle pur di consegnarle la chiave che l’avrebbe scagionata dalla sua cella. Nel momento in cui le aveva proposto di utilizzare il ciondolo del sole per scambiarsi d’identità, le era sembrato uno scherzo arguto e divertentissimo da fare ai due protettori che attendevano il loro ritorno, aveva capito troppo tardi che non si trattava dell’ennesima recita inscenata nel suo teatrino di burattini.
Quello da cui entrambi i suoi genitori aveva cercato di fuggire, nonostante i loro sforzi e il loro amore, alla fine li aveva colti in fallo. Non era possibile fuggire dalle profezie e sua madre, alla vista della luna sanguinante, avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Anche Ellak presto lo avrebbe saputo.
Hilde poteva sentire accrescersi in lei il richiamo del sangue, percepiva che suo fratello era vicino. Più vicino di quello che credeva. La banshee era nata per un motivo e non avrebbe lasciato che la profezia  restasse incompiuta. Era necessario o un giorno non sarebbe potuta divenire la Guardiana della medjai. Con la morte dei suoi genitori il suo potere si faceva sempre più intenso, sempre più difficile da contenere. Ma lo avrebbe tenuto al sicuro fino a quando le circostanze non avrebbero richiesto di metterlo al servizio della medjai dagli occhi blu. Una passo alla volta, Hilde, un passo alla volta, si ripeteva la ragazzina incessantemente. Adesso la sua attenzione era focalizzata sui passi che riecheggiavano nel suo piccolo rifugio. Tonfi leggeri che battevano sulla neve liberi dall’oppressione della gravità.
E poi lo vide nell’oscurità.
La sua vista si era affinata nel buio pesto che la circondava, perciò non fu difficile distinguere i bagliori bronzei della pelle del vampiro che la fissava con orrore. Gli mancavano tre dita alla mano destra.
Hilde osservò il fratello immortale che non solo l’aveva consegnata alla voracità delle fiamme e cancellato la sua bellezza; lui non l’aveva mai amata, il sangue che li univa non aveva alcun valore e Hilde non riusciva a comprenderlo visto che sentiva così chiaramente la sua presenza. Come non poteva essere così anche per lui?
Scorse lo stupore di Ellak in ogni suo minimo movimento nervoso, ogni lineamento corrucciato del suo viso che diventava sempre più umano. Azzardò un passo indietro e sbatté contro la roccia alle sue spalle. «Non può essere…» imprecò nella sua lingua madre. «Dov’è mio padre, piccola strega! Che ne hai fatto di lui?» le ringhiò.
 La bambina non si mosse dalla sua posizione accucciata, né fece scivolare le ginocchia raggomitolate contro il petto.
«Perché?» gli domandò lei sinceramente curiosa. La sua innocenza lo sferzò e lo fece barcollare, come se una lama invisibile gli avesse reciso le gambe. Hilde sentì la paura agitarsi dentro di lui quasi come se gli appartenesse. Il silenzio si prolungò a tal punto che la ragazzina dubitò della concretezza della creatura che le era davanti. Non poteva accettare che non esistesse alcuna risposta valida, non dopo che la mano di suo padre non era lì a rassicurarla. Doveva esserci una spiegazione…la rabbia che la stava soffocando si tramutò nel suono straziante che le uscì dalle labbra. Quando gli ripeté la domanda, le pareti rocciose tremarono e i frammenti presero a staccarsi dal soffitto. L’onda sonora fu così impetuosa che il vampiro fu costretto ad aggrapparsi alla roccia più vicina. I lunghi capelli gli si erano affollati sulla faccia, il ritmo incespicante del suo petto e il tremore delle sue mani la ingannavano sulla sua natura di Immortale.
Guardò dentro i suoi occhi rossi e vide ricambiato il suo odio. «Io ti ho vista morire. Ho stretto il tuo cuore fra queste mani» disse osservandosele con rinnovato disgusto. Impallidì. La consapevolezza che si faceva spazio nella sua mente.
Hilde non lasciò che i suoi occhi s’inumidissero. Tirò su col naso e arricciò le labbra sulle gengive «Vuoi sapere dov’è papà? È proprio qui» gli disse senza smettere di fissarlo. «È nelle tue mani. Nei tuoi vestiti. Ce l’hai ancora addosso…non senti il suo odore?».
«Basta con queste stronzate! Sei un’allucinazione, non sei davvero qui» le gridò Ellak raschiando la roccia su cui aveva conficcato le dita. Hilde si nutrì del suo terrore, le piaceva questo gioco.
«Ti sei affannato così tanto nei tuoi tentativi di sviare la profezia che hai finito con l’assecondarla. Ti sei trasformato nel più fedele dei suoi servi. Sei stato tu lo strumento che ha reso tutto questo possibile. E papà lo sapeva. Papà sapeva ogni cosa» disse abbandonando la sua posa difensiva «Se solo Hilde…» sospirò e affondò le unghia nelle braccia per non inciampare nuovamente nei suoi tormenti. «Bè, prima o poi sarebbe successo…solo che non credevo che si sarebbe preso gioco di entrambi».
«Che cosa stai…».
«Papà ti faceva più astuto, lui…ti voleva bene e Hilde sente che anche tu gliene hai voluto, quindi come hai potuto non riconoscere il suo cuore».
Ellak si ammutolì all’istante e si trasformò nell’ennesimo sedimento roccioso che stipava la caverna. Il sangue che si era raggrumato sulla sua pelle abbronzata, fra le ciocche dei suoi capelli, lo spruzzo scarlatto che gli punteggiava l’addome nudo e scolpito, lo stesso sangue che macchiava l’orlo dei suo gilè e che per lui aveva rappresentato un trofeo da sfoggiare ai suoi nemici, improvvisamente assunse un significato del tutto diverso. Col dito percorse i tratti della sua mascella volitiva anch’essa colorata di rosso e una volta raccolto lo sporco sulla punta del suo polpastrello lo fissò. Le sue ginocchia sfregarono contro il pavimento, le sue mani si aggrapparono alla sua chioma e le sue urla fecero tremare il cuore di Hilde.
«Come? La stregoneria delle fate…L’ho ucciso…sono stato io» disse battendo i pugni a terra, la faccia che baciava la pietra fredda della caverna e soffocava la sua agonia. Hilde si sorprese a non nutrire compassione per lui o per il suo improvviso impeto suicida. Se un tempo lo avrebbe consolato, adesso sapeva che si sarebbe appellata solo all’odio che l’appagava. E ne fu ancora più convinta quando non provò altro che disgusto per il dolore di suo fratello. Era un bene che fosse incapace di piangere. Attila non avrebbe saputo che farsene del suo rimorso.
«Tu…Saresti dovuta bruciare quando ne hai avuto la possibilità, il dolore che patirai non sarà minimamente paragonabile a nulla che tu non abbia già provato».
La banshee gli sorrise «Hilde sa che non esiste più niente che possa ferirla». Ed era vero. Niente avrebbe potuto straziarla come l’assenza inquietante di suo padre. Nonostante questo, Hilde non smetteva di pensare che il vampiro le dovesse ancora una risposta.
«Se non ci fosse stata alcuna profezia a dividerci, avresti amato Hilde?» Il vampiro era incredulo e sollevò su di lei lo sguardo più truce e sgomento che avesse da offrirle, come se la disperata richiesta d’amore della bambina fosse qualcosa di talmente ridicolo anche solo per essere pronunciata ad alta voce.
A quel punto si sforzò di ricomporsi, nascondendo la sua furia dietro lenti sospiri e il distratto vezzo di sistemarsi una ciocca dietro l’orecchio. Ma Hilde aveva intravisto luccicare il veleno all’angolo della bocca. Aveva smascherato la sua prossima mossa con la stessa facilità di una bambina che aveva condiviso il cimitero con uno dei più temibili vampiri che erano mai esistiti. Indistinti latrati, simili a risa, si liberarono dalla labbra dischiuse in un ghigno e le disse: «Piuttosto avrei trangugiato verbena fino a che non mi fossi fatto squagliare la pelle addosso. Non importa quanto tu sia difficile da uccidere, adesso non ci sarà più nessuna barriera o maleficio che potrà mettersi fra noi. Avrai corrotto la mente di Attilius il sanguinario, ma io vedo ciò che sei. L’ho sempre visto. Quando rivedrai nostro padre, saprà che suo figlio gli ha reso giustizia e che non c’è nulla che potrà fermare la sua ascesa a Volterra. In realtà mi ritengo un uomo fortunato. Non mi dispiacerà smembrare il tuo cuoricino ancora una volta fra queste mani».
Era ciò che le serviva per far svanire ogni rimpianto. Il predatore si piegò per darsi lo slancio con le zanne in piena vista e trafisse l’aria come una freccia. Hilde però aveva già caricato i suoi polmoni ed era pronta al suo debutto.
E così cantò, o almeno è così che in futuro lei e Leona soprannominarono l’arma che risiedeva nelle sue corde vocali. Il “canto” della banshee. Un acuto inarrivabile, limpido ma modulato, indirizzato con spietata precisione verso il fratello. Ellak non ebbe nemmeno la possibilità di avvicinarsi abbastanza da poterla sfiorare che fu sbalzato via dalla sua vista. Aveva percorso a ritroso il corridoio che lo aveva condotto nella sua tana, intrappolato nei flutti dell’onda sonora scaturita dalla bocca della banshee. Rinvigorita da un inaspettato coraggio, uscì allo scoperto per affrontare il vampiro, disponibile a concedergli un bis delle sue straordinarie capacità di cantante. Ma ciò che trovò una volta fuori dalle tenebre della spelonca, la terrorizzò. C’era un corpo contorto in articolazioni innaturali. Era nudo, talmente nudo che era persino stato spogliato della sua bellissima pelle bronzea. Adesso era tutto un fascio vivo di nervi, tendini e muscoli. Soltanto gli occhi cremisi, privi di palpebre, guizzavano da tutte le parti come se volessero sfuggirgli dal cranio, la dentatura da vampiro snudata, spalancata in un urlo muto. Lo stomacò di Hilde protestò, ma s’impose di non vomitare. Si voltò da un’altra parte, non aveva alcuna intenzione di indugiare ulteriormente su ciò che era rimasto di Ellak. Poi strinse forte le labbra. Se quello era il prodotto della devastazione che albergava dentro la sua bocca, allora sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe aperta. Stanca di sostenere il proprio peso, cadde sulla neve e si appallottolò su se stessa. Aveva freddo, ma almeno le lacrime che le rigavano le guance l’avrebbero riscaldata. Suo fratello non aveva ancora smesso di soffrire. Una parte di lei sapeva che lo meritava, l’altra invece le rimproverava di non aver terminato ciò che aveva iniziato.
Si girò di soprassalto in direzione dell’ululato che le aveva assordato i timpani. C’era un enorme cane che si nascondeva fra gli arbusti. All’inizio aveva pensato che si trattasse di Edna, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non la convinceva. Lei e la lupa nera si scrutarono a vicenda per lunghi istanti, mari d’odio che fluivano nelle sue pupille color del carbone. Era maestosa, fiera e bellissima. Non si scambiarono una sola parola o guaito. Eppure quel silenzio fra loro fu più significativo di qualsiasi altra cosa avrebbero potuto comunicarsi. La lupa piegò la testa sul petto e spostò lo sguardo sulla carcassa fumante poco distante dalla bambina. Le mareggiate d’odio interrotte da quella breve tregua ripresero a scorrere violente nei suoi occhi assottigliati. Hilde avrebbe potuto risparmiarselo, ma prese la sofferta decisione di non voler dimenticare per il resto della sua vita l’immagine del licantropo che si avventava con ferocia sul vampiro trasformandolo in nient’altro che brandelli di carne informi. Ellak morì nella maniera più atroce che la piccola Hilde avesse mai visto, eppure non riuscì a trattenere un sorriso cupo e consapevole.
….sarà la causa della distruzione del sangue del suo sangue…
La profezia era compiuta.
*********

Leona

Seppur nella sua breve vita, Leona ne aveva commessi parecchi di errori. Scegliere di inghiottire un amuleto leggendario rientrava sicuramente fra quelli, anche se chiamarlo errore probabilmente era indiscriminatamente riduttivo. Aveva comunque imparato una lezione importante da quella castroneria madornale: i gioielli non sono commestibili e mangiarli per tenerli al sicuro dal tuo nemico è una pessima idea.
Per lo meno adesso la furia delle sosia di Sara era tutta puntata su di sé e non su coloro che amava. Se lo sarebbe fatta andare bene se solo non avesse dovuto difendersi da ben dieci paia di flamberghe con una spada che sapeva a malapena reggere fra le mani. I palmi sudati non aiutavano affatto a non farsi sfuggire l’elsa dalla sua presa. Per di più aveva lasciato suo fratello disarmato. Un termine del tutto inadeguato, a ben rifletterci, se riferito a un dominatore degli elementi e nonostante questo non poteva smettere di preoccuparsi per la sua incolumità. Dopo quello che aveva cercato di fare, Leona era restia a restituirgli Symphony, ma in fondo erano pari. Lei lo aveva ingannato con quel trucchetto dello scambio dei ciondoli, lui, credendo di aver spezzato il loro legame, aveva progettato di sacrificare la sua vita.
Qualcuno ululò, ma Leona non gli diede molto peso, erano circondati da un branco di licantropi dopotutto. Ciò che più le premeva invece, era la punizione di Gabriel. Si era appena guadagnato una bella strigliata da parte sua, ma al momento era troppo occupata a schivare un fendente piuttosto tagliente per pensare prematuramente a come gliela avrebbe fatta pagare.
Ad ogni parata, Symphony non si risparmiava di cantare. Quello scampanellio le scuoteva le ossa, doveva concentrarsi con tutte le sue forze per non ripensare a quello che era successo nella stanza degli specchi, al dubbio che si era insinuato dentro di lei quando aveva visto…
No, non era il momento di perdere la testa. Avrebbe preferito che lo facesse qualcun altro, come ad esempio la Sara numero cinque che le stava dando filo da torcere. E questo le dava tremendamente sui nervi. Ma fu quando piroettò per piantare un calcio volante su una delle sue avversarie che vide Norman. Le palpebre chiuse, la smorfia sulle sue labbra, la sua immobilità innaturale, il colossale lupo nero che gli leccava la faccia uggiolando e lui che glielo lasciava fare senza indignarsi della sua saliva.
Il lupo ululò ancora e, scoperchiando le zanne con un ringhio, si lanciò all’inseguimento del vampiro che sfrecciava nel bel mezzo della battaglia. Leona non capiva.
Il suo sguardo tornò sull’amico sdraiato in un lago di sangue e fango e per poco non si fece infilzare il fianco dalla spada che le sibilò accanto. Si sentì proprio come se l’avessero afferrata per le caviglie e capovolta a testa in giù per svuotarle le tasche di tutti i sorrisi dolci che le aveva regalato quel ragazzo, della sua tenera timidezza e modestia, di tutte quelle volte che avevano riso a crepapelle per la stramba collezione di dentifrici di Fabrizio o per la sua ossessione per l’igiene orale,  del suo sogno di dimostrare l’esistenza degli unicorni, di tutte quelle volte che aveva preso le sue difese o che si era schierato dalla sua parte quando nessuno le credeva, della loro meravigliosa amicizia, dei suoi sentimenti per lei…
Non poteva credere che tutto questo fosse stato spazzato via, che fosse stato distrutto senza che lei avesse potuto fare qualcosa per impedirlo. Desiderava urlare fino a farsi esplodere i polmoni, piangere istericamente fino all’ultima delle sue lacrime, disintegrare tutto quello che le stava attorno, non sapeva bene in quale ordine e comunque nessuna di quelle follie avrebbero cambiato i fatti. Ma lei conosceva perfettamente il modo migliore per canalizzare il dolore che le pressava sulla gabbia toracica per filtrare dentro il suo cuore. E così nello stesso istante in cui scagliò Symphony verso suo fratello, ritrovò il gelido piacere delle sue kopis fra le mani. Poi urlò, pianse e distrusse. Tutto nello stesso confuso turbinio di attimi.
Il mana le scorreva fluente nelle vene, i suoi sensi erano talmente acuiti da non lasciarsi sfuggire nemmeno il più flebile ronzio. Le kopis attraversavano i corpi come una lama che fende l’acqua, le sue nocche s’infrangevano sulle mascelle come se volessero passarci attraverso, le teste delle sue avversarie esplodevano in fontane di sangue e le sue gambe danzavano svelte a ritmo di quella melodia di puro odio che le echeggiava nelle orecchie. Avrebbe potuto sbarazzarsi delle replicanti semplicemente accendendo una bella pira, ma per una spadaccina come lei era una questione di orgoglio. Le avrebbe sconfitte facendo affidamento unicamente sulle sue capacità. Non poteva farsi battere una seconda volta. E adesso ne rimanevano solo due. Il fatto che il suo nemico portasse la faccia della cognata non era granché come deterrente per smaltire la collera. Mentre affondava una ginocchiata nello stomaco di una di loro e le disegnava con il filo della lama un tetro sorriso sulla gola, era conscia del fatto che il piacere che ne traeva non fosse dovuto alla sua momentanea perdita di lucidità. Quel volto era la causa di tutti i tormenti di Fabiano ed era troppo poco razionale in quel momento per giustificarla con tutte le attenuanti del caso. Sapeva che era ingiusto nei suoi confronti, sapeva che anche lei aveva sofferto, ma niente le sembrava più giusto da quando i suoi occhi si era posati sul cadavere del suo amico. Quell’immagine terribile pareva che le fosse rimasta appiccicata all’interno delle sue palpebre e che ogni dannata volta che chiudeva gli occhi fosse costretta a rivivere quel momento all’infinito. La rabbia continuava a cuocere a fuoco lento nel suo stomaco e questo non faceva che rendere più inesorabile ognuno dei suoi affondi. Ma quando si stava per preparare a sferrare il colpo definitivo, si aggiunse un terzo partecipante dai scarmigliati capelli biondi alle ultime battute di quella danza sanguinaria.
«Volevi prenderti tutta la gloria, stronzetta? Lasciala a me, me lo devi» sentì dire a una sarcastica  Marlena alle spalle dell’abominio. L’ultima gemella di Sara si voltò verso la protettrice nello stesso momento in cui Leona rinfoderò le sue spade e con una falciata bassa fece impattare lo stinco contro le sue gambe. L’abominio incespicò in avanti genuflettendosi involontariamente ai piedi di Marlena. A quel punto la medjai le acciuffò un braccio e glielo ripiegò dietro schiena compiacendosi del suo rantolo di dolore e proprio mentre le immobilizzava la testa strattonandole i lunghi capelli umidi di sudore, la sciabola di Marlena si fece strada attraverso il suo collo. La testa di Sara penzolò dalle sue mani per qualche istante prima di disintegrarsi seguendo l’esempio del suo corpo decapitato.
Leona e Marlena, entrambe doloranti, ricoperte di sangue fresco e senza fiato, si squadrarono a vicenda, una più accigliata dell’altra. Nonostante tutti i tagli profondi disseminati per la sua pelle, la tenuta di combattimento lacera in più punti e la massa pagliosa color granoturco che le incorniciava il viso in una acconciatura tutto fuorché all’ultimo grido, Leona provò un profondo rispetto per il coraggio che ancora ardeva negli occhi verdi della sua acerrima nemica. La bionda si fece raschiare i polmoni dal gelo prima di avvertirla che «Questo non fa di noi amiche per la pelle, continui a farmi schifo, e il solo pensiero che un giorno potremmo scambiarci i vestiti e spettegolare sui ragazzi mi fa vomitare».
«Non essere ridicola Marlena» disse Leona sorridendole «scambiarci i vestiti? E cos’altro? Metterci lo smalto alle unghie?». Scosse la testa mentre si riappropriava delle kopis.
«E poi il mio guardaroba non è affatto della tua taglia. No, questa amicizia fra noi non può funzionare». Marlena fece roteare gli occhi, ma non avrebbe preso in giro nessuno con la sua falsa arroganza. Non aveva fatto in tempo a nasconderle che aveva ricambiato il suo sorriso. 
«Attenta!» le gridò poi Marlena.
Leona aveva già notato l’abominio che le stava venendo contro dal fianco sinistro, ma non il nerboruto vampiro che si era gettato su di lei con tutta la sua mole spaventosa di muscoli. Aveva battuto la testa ed era rimasta senza un briciolo di fiato. Questo però non le impediva di scalciare, graffiare e spingere sotto il suo peso che la schiacciava contro il terreno umido e vischioso, poco le importava se fosse come picchiare i pugni su una roccia. Si fermò soltanto quando scorse le iridi dorate dei suoi occhi, gli stessi che tentava di cavargli dalle orbite. Aveva ancora le unghie conficcate su metà della sua faccia quando gli domandò  «Sei un Cullen?».
«Nessuno mi aveva avvertito che avrei avuto a che fare con un micetto inselvatichito» sospirò il vampiro mentre le sganciava uno ad uno gli artigli dalla sua fronte «E comunque mi chiamo Emmet, e non sono sicuro che sia un piacere conoscerti».
«Per me potrebbe esserlo se non stessi cercando di soffocarmi».
«oh, scusa!» esclamò l’omone lasciandola aggrappare al suo possente braccio per tirarla su con sé. Per la repentinità del gesto le vennero le vertigini e andò a sbattere contro il suo petto marmoreo, cosa che la intontì ancora di più. Reggendosi a lui mise lentamente a fuoco il vampiro che con quel ghigno fuorilegge si stava prendendo gioco di lei. Avrebbe voluto acciuffargli quei riccioli neri dalla testa e strapparglieli uno ad uno ma dovette rimandare perché qualcosa di freddo e metallico le pizzicò la parte interna del braccio.
Sta volta perse davvero la capacità di respirare.
Aveva creduto che non sarebbero mai stati nient’altro che linee di un disegno su vecchie pergamene ammuffite o grafiti sulle cavità rocciose delle caverne. Solo dei sussurri tramandati dai suoi antenati. Una succulenta diceria per i più superstiziosi. La medjai sfiorò con polpastrelli incerti il parabraccio ambrato che aderiva alla sua pelle dal polso fino all’incavo del gomito, seguì i rilievi geometrici sulla sua superficie liscia, priva di ammaccature, come se non avesse mai visto nemmeno una battaglia, scavò dentro i due bulbi vuoti che li rendevano così disadorni, incompleti. 
«Dove sono le gemme?»
«Non guardare me, non sono stato io» disse il vampiro sollevando le mani in alto.  In quella sinistra stringeva il pezzo mancante delle reliquie, quello che avrebbe dovuto appartenere a suo fratello. «A dire la verità, non ricordo bene se avrei dovuto darvelo prima o dopo…» disse perdendosi in qualche complicato calcolo mentale «tuo figlio non ci ha dato molti dettagli».
«Mio figlio» sbottò Leona increspando le sopracciglia.
«Suo figlio?» s’inserì Marlena nella discussione col viso pallidissimo dall’incredulità.
«Roar!» ruggì la tigre albina che zoppicava verso di loro.
«Edna, ferma! É dei nostri. O almeno credo. E no, se avessi appeso il fiocco azzurro alla mia porta saresti stata la prima a saperlo, fidati mia cara». Emmet guardò il felino senza nascondere la sorpresa o il suo interesse. Leona ne aveva abbastanza dei suoi sorrisetti saccenti. Il vampiro parve accorgersi dell’ostilità della ragazza e le lanciò la reliquia pochi attimi prima che due suoi simili gli arrivassero alle spalle. Emmet scrocchiò le ossa del collo con fare disinvolto, prendendosi tutta la calma che aveva a disposizione. Poi si girò e torreggiò sui due mal capitati che avrebbero dovuto temere quella montagna di muscoli. Non ebbero nemmeno la possibilità di urlare che le teste dei due Drakulia finirono per spappolarsi l’una contro l’altra. Il gigante si asciugò con disgusto il loro sangue nauseante sulla sua camicia e grugnì per la frustrazione.
«Dannazione Jasper! Avresti potuto avvertirmi!».
«E allora dove stava il bello?» sghignazzò il vampiro dalla capigliatura leonina volteggiando abilmente fra tre abomini.
«Ops, non è la camicia che ti ha regalato Rose?» ridacchiò Alice.
«Infatti» disse, digrignando i denti, la vampira bionda più bella che avesse mai visto. Non pensava fosse possibile intravedere il terrore nella faccia dell’energumeno che spostava nervosamente il peso da un piede a un altro, ma dall’altra parte la ferocia nello sguardo della bionda intimorì persino lei.
«Suvvia, puoi sempre comprargliene un’altra, ormai dovresti esserti abituata alla velocità con cui le riduce a brandelli». Quella voce le fece mancare un battito.
«Edward» disse senza fiato. «Sei… sei tornato».
«Sai com’è, ho sentito dire che ti eri cacciata in un bel guaio e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere se avessi fatto un salto da te» terminò disintegrandole definitivamente il cuore col suo sorriso sghembo. Aveva bisogno di quel sorriso.
«Be’ se per guaio intendi che casa mia è stata invasa da una setta di sanguinari, dal suo folle capo che ha disseminato la morte fino ai confini del mondo, e se aggiungi una fatina dispotica, crudele e assetate di potere e le sue graziose adepte intessitrici di incubi al calderone…oh quasi dimenticavo il pezzo forte! Non so se hai notato la fiumana di protettori traviati che ci sta massacrando. Allora in quel caso possiamo concordare sulla stessa definizione di guaio universalmente conosciuta».
«Posso constatare che la tua lingua funziona ancora benissimo»
«Nemmeno la morte può ridurmi al silenzio, prima o poi se ne farà una ragione» disse schiacciandogli l’occhiolino. Improvvisamente s’incupì «Dove sono Carlisle e…».
«Sono qui, Leona» la rassicurò Esme «Carlisle si sta occupando dei feriti a riparo nel bosco».
«Cristo, Esme…» disse cercando di reprimere il magone in gola «mi dispiace così tanto che…tu…io».
«Shhh. Non hai nulla di cui scusarti bambina mia» le soffiò accarezzandole la guancia scottante. Stavolta Leona lasciò che il ghiaccio e il fuoco si toccassero senza alcuna barriera a dividerli. Scoprì che non vivevano per distruggersi a vicenda, ma che miracolosamente in qualche modo potevano coesistere.
«Leona, si può sapere che cazzo stai facendo?».
Le si gelò il sangue. Gabriel non stava guardando lei, forse era troppo nauseato per farlo. Symphony sudava gocce scarlatte sulla neve e il suo padrone era impegnato in una lotta furibonda di sguardi con la famiglia di vampiri dagli occhi dorati. Il silenzio di Fabiano, teso al suo fianco, non era dei più incoraggianti.
«Io ci ho provato, giuro che l’ho fatto, ma non riesco a capirti. Saranno civilizzati come dici, ma allora perché i suoi occhi sono rossi come gli altri?» domandò indicando Edward, la voce incrinata dalla rabbia «e non venirmi a raccontare stronzate. Come puoi aver dimenticato quello che hanno fatto a papà…sono stati quelli della loro razza ad uccidere la mamma».
«No, questo non è vero» disse la sorella senza riflettere.
«Cosa hai detto?» tuonò lui. Una lieve sfumatura d’incertezza s’insinuò nel suo tono già di per sé incrinato.
«Non è stato un vampiro a uccidere la mamma…» borbottò piano. La vergogna le colorò le guance.
«Leona non è il momento» li interruppe bruscamente Edward «devi dare a Gabriel la reliquia ades…».
«Sto parlando con mia sorella, dannata sanguisuga! Non intrometterti più di quanto tu non abbia già fatto».
«Ringrazia il tuo Dio per la connessione che condividi con Leona o non potresti reggerti sulle tue gambe» gli ringhiò Edward.
«Questo è tutto da vedere. E comunque non ho alcuna intenzione di torcerti un solo capello dal quel cespuglio informe che ti ritrovi in testa. No, so essere molto paziente sai, e non ci troverei gusto nel fare a modo mio, adesso e ora. Farei un bel macello e non sono sicuro che di te rimarrebbe nulla e non voglio rischiare che mia sorella mi odi per tutta la vita. Aspetterò. Aspetterò che lei si stufi di te, che capisca quale sadico demone nascondi dietro quel patetico faccino da perbenista, quale schifoso assassino immeritevole di esistere tu sia. E allora sarà lei stessa a sbarazzarsi di te, nel modo più cruento che conosce, sarà lei a seppellire le tue ceneri e quando accadrà sarò ben felice di svuotarti il contenuto della mia vescica sopra».
«Adesso basta. Basta con tutto questo!» esclamò Fabiano. La sua espressione era un intricato grumo d’ira, gli occhi incavati nelle orbite erano esausti e straziati dal susseguirsi degli eventi che correvano a mille lasciandolo indietro. Prese suo fratello per un lembo della giubba per farlo voltare verso di lui con un’irruenza che non gli aveva mai riservato.
«I nostri fratelli stanno morendo e voi perdete tempo in sterili minacce che non portano a nulla. Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile! Lo capite? E se questo è tutto quello che abbiamo, non me ne starò di certo qui a interrogarmi se sia moralmente giusto accettarlo o meno. La nostra disperazione è il muro su cui si schianta l’etica delle scelte che stiamo per prendere, ma abbiamo tutto il tempo di saldare i conti dopo se adesso ci buttiamo alle spalle questa inutile faida che non ha motivo di esistere. Oppure vuoi che tutti questo finisca, eh? Perché se è così non vedo perché dovrei considerarti diverso da quelle bestie!» disse riferendosi agli abomini. Anche se il rimprovero era indirizzato tutto sul fratello, Leona non poté fare a meno di sentirselo rimbalzare addosso. Fabiano allentò la presa e lo spinse via privo di qualsiasi delicatezza per poi andare alla ricerca dell’elsa dell’arma che gli ballonzolava in vita. Leona osservò il ragazzo che per la prima volta era riuscito ad ammutolire l’irrefrenabile chiacchera di suo fratello mentre si avvicinava ad Edward con il filo della spada rivolto di fronte a sé. Deglutì il veleno amaro secreto dai profondi dubbi che infuriavano dentro di lui e gli domandò «Che dobbiamo fare?».
Fabiano era ancora lì a demolire mattone dopo mattone le impenetrabili difese che si era costruito attorno. Allora Leona si rese conto del perché lo amasse così tanto.
Lei sapeva che era saggio abbastanza da farsi da parte quando le circostanze lo richiedevano, nonostante l’orgoglio che era stato instillato in lui fin da bambino continuasse a ricordagli che stava tendendo la mano al peggiore dei suoi nemici.  Lui però aveva ignorato l’umiliazione di quella resa per il bene del suo popolo e Leona per un attimo se lo immaginò sul serio con una fascia da Sire a circondargli il busto e si riempì la vista di quel sogno.
«Per prima cosa sarà bene che tu consegni quell’affare a tuo fratello, Noah è stato molto convincente su questo punto» suppose Emmet grattandosi distrattamente la nuca. Leona annuì e fece segno a Gab di avvicinarsi.
«Spero che tu abbia il vaccino contro la rabbia, a quanto pare morde» commentò causticamente Edward.
Leona fu costretta a lanciarsi per frenare l’impulsività del fratello e non perse l’occasione di scoccare un’occhiataccia al vampiro. Gli avvolse le braccia attorno alle spalle per tenerlo fermo.
«Edward, no» lo redarguì con tono perentorio con l’aria di una che non aveva la minima intenzione di ripetersi. Poi si dedicò nuovamente al suo gemello, cercando anche solo un appiglio di buon senso nei suoi occhi.
«Guardami, guarda me» gli ripeteva dolcemente raschiando la sua fronte contro quella di lui non facendo minimamente caso al sudore che gliela imperlava. Gliela baciò delicatamente, la sua pelle che portava in sé il sapore del mare, la salsedine che le rimaneva appiccicata sulle labbra.
«Devi fidarti».
Gab si accigliò.
«Ultimamente non mi hai dato molti motivi per farlo».
«Nemmeno tu se è per questo. Ma sta volta è diverso. Niente più bugie fra noi, te lo prometto e se me ne darai la possibilità te lo dimostrerò, costi quel che costi. Solo…fidati di tua sorella».
Gab si morse un labbro e sospirò «Spero che questo non abbia niente a che fare con i tuoi insoliti appetiti…non sapevo che andassi ghiotta di pietre preziose».
«Credimi non è qualcosa che muoio dalla voglia di rifare. E se dovessi ricadere in tentazione, posso contare sulle sberle del mio fratellino?».
Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso «Di quelle ne ho quante ne vuoi».
«Bene» disse seccatamente. Poi lo afferrò per il gomito e gli chiuse senza tanti complimenti la reliquia dei medjai attorno al braccio opposto a dove teneva la sua controparte.
«Ahi! Mi hai fatto male!» piagnucolò il ragazzo.
Leona tirò su col naso con alterigia «Questo è per aver provato a spezzare il nostro legame, per aver tentato di…» strinse gli occhi per non ripensare al suo scampato suicidio. Quando li riaprì, lui era lì a fissarla con aria di sfida.
«Ti odio!» sputò fra i denti.
«Il nostro odio è reciproco, mia cara coccinella» le disse Gab non riuscendo ad esprimere il vero significato della parola ‘odio’ nel suo tono mieloso, come se intendesse tutt’altro.
Una volta indossate le reliquie, Leona sperava segretamente che accadesse qualcosa che avrebbe cambiato per sempre le loro vite, qualcosa di talmente epico da essere ricordato nei secoli avvenire. E invece si ritrovò a domandare al gemello «Senti qualcosa di diverso?».
«Dovrei?» si giustificò Gab facendo spallucce.
Alice si schiarì la voce dietro di loro «Non è così che funziona, almeno non senza le quattro gemme degli elementi».
«Fantastico quindi questa ferraglia è inutile!» dedusse Gabriel.
«Forse non del tutto» suppose Fabiano accogliendo il mento fra le sue dite. Con quell’aria meditabonda Leona lo trovava fatalmente irresistibile e dovette pizzicarsi per non smarrirsi fra i suoi pensieri. Solo lei poteva scartarsi i momenti meno opportuni per lasciarsi travolgere dall’attrazione che provava per lui.
«È solo una supposizione» continuò il protettore ignaro delle fantasticherie che Leona si era fatta su di lui «ma le reliquie fungono da amplificatore dei vostri poteri e come suggerisce la compartimelizzazione dei vari alloggi per le gemme ognuna ha una specifica funzione. Vedete questo simbolo quassù, sì proprio quello sopra il ghirigoro di foglie di acanto, è scritto nella lingua antica, ma ogni buon protettore sa riconoscerne la traduzione».
«L’akasha» lesse automaticamente Leona. Fabiano le abbozzò un sorriso invece di annuire.
«Non potete condividere il potere elementale con tutti i protettori ma potreste infonderci la vostra forza, condividere i vostri pensieri, accordarci tutti sull’unico obiettivo che conta…».
«Fabiano ha ragione ma…». Leona avvertì l’esitazione di Alice.
«Ma…» la incoraggiò la ragazza.
«Alice, no!» tuonò Edward.
«Di cosa state parlando?»
«C’è un modo per salvarli» disse infine. «Gli abomini. Quale è stato l’ultimo desiderio che hai espresso al ciondolo prima di ingoiarlo? Le parole esatte».
Il cuore di Leona cominciò a pomparle nel petto come una furia, le vene le pulsavano visibilmente sulle tempie «Io…io credo…Dona il potere alle miei mani di farli tornare come erano prima, donami il privilegio di annullare il sortilegio, o qualcosa del genere». 
«Be’ adesso la mia visione acquista un senso. Credo ti abbia proprio preso alla lettera, Leona. Nella mia visione tu…li toccavi e loro guarivano quasi istantaneamente, ma non sai quello che ti aspetta dopo…»
«Non m’importa» disse frettolosamente, fregandosene delle conseguenze «Qualcosa non torna, ho combattuto contro gli abomini però…Ma certo!».
«Non so, vuoi rendere partecipi anche noi della tua illuminazione?» le domandò Rosalie fingendosi zuccherosa e accondiscende in un modo che alla medjai fece prudere le mani «Ho capito perché ti piace tanto, Edward. È insopportabilmente sibillina proprio come te». Lui si limitò a roteare gli occhi al cielo. Leona ignorò entrambi.
«Tecnicamente credo che non sia mai entrata a diretto contatto con loro perché le mie kopis intermediavano fra me e le loro. Dio, se solo lo avessi saputo prima, avremmo potuto salvarne molti di più!».
«Dove stai andando?» chiese un preoccupatissimo Fabiano.
«Be’ non mi resta che provare, no?».
«Aspetta, non fare precipitosa…ah! come non detto». Leona era già corsa ad infiltrarsi nel fitto assembramento della battaglia seguita a ruota da suo fratello.
«Non avresti dovuto dirglielo» sibilò furioso Edward a sua sorella.
«È così che devono andare le cose» disse semplicemente lei.
«Non era obbligata a farlo!».
 
Era vero. Non aveva vincoli. Lei lo voleva comunque e più di ogni altra cosa.
Era una fortuna che, proprio mentre sgomitava nella calca, il vento avesse cominciato a soffiare trascinandosi via il terribile tanfo di carogna e sangue. Le sue mani smaniavano come fringuelli desiderando di aggrapparsi al gelo familiare delle sue kopis. Le sue mani, però, servivano ad altro. Individuò in mezzo alla baruffa un interessante duello fra un meta-vampiro e un protettore inglese di cui non ricordava il nome. Il meta-vampiro era aggressivo e ringhiava come una belva della selva, il protettore aveva un serio problema con la gestione della paura. Leona attribuì l’inesperienza del protettore ai suoi lineamenti giovanili, a quell’accenno di peluria che gli punteggiava la mascella a chiazze disomogenee. Da come impugnava la spada, temette che il ragazzo non avrebbe mai raggiunto la virilità. Infatti non passarono nemmeno dieci secondi da che aveva formulato quel pensiero, che la spada roteò in area conficcandosi nel terreno lasciando il giovane protettore disarmato. Quando fu più vicina ai due, poté sentire i balbetti del giovane che imploravano la creatura di ricordarsi chi era, cosa erano stati loro due, quanto si erano amati. Il meta-vampiro non accennava a ricordare da come si era fiondato sulla sua giugulare.  Fu allora che Leona s’interpose fra i due e strinse le dite attorno al polso dell’abominio. Non appena la sua pelle entrò in contatto con l’inchiostro magico scarabocchiato sopra il vecchio simbolo dell’occhio vigile e delle spade incrociate, il meta-vampiro si contorse urlando. Una luce blu si espanse dal petto di Leona, lì dove c’era stato il pendolo. L’incantesimo del linckage intrappolato sotto la carne dell’abominio prese lentamente a coagulare come un grumo nero di pittura a tempera schizzato distrattamente su una tavolozza. Quello che però non si aspettava, è che quel grumo prendesse vita traslando da un punto a un altro della pelle del mostro fino a che non s’infiltrò dentro quella della medjai. La punta delle sue dita si macchiarono di nero. Fu tremendamente doloroso per lei ma trattenne quella cosa dentro il suo corpo. Quando il dolore smise di assillarla, si accorse che l’abominio non gridava più. Sotto la sua morsa il battito si regolarizzò. Allora sollevò lo sguardo su di lui e lo lasciò andare. Per un attimo ebbe paura che non avesse funzionato. Le sue fattezze da vampiro non avevano subito alcuna mutazione e il simbolo dei protettori era andato perduto per sempre. Ma dentro i suoi occhi…tutto era cambiato.
L’ex-protettore prese un lungo respiro come se fosse il primo della sua vita, si scostò le ciocche nere madide di sudore dalla fronte e i suoi caldi occhi marroni si spostarono da Leona al protettore inglese alla sue spalle. La ragazza che lo aveva salvato smise di esistere per lui quando lo riconobbe.
«Connor?» gracchiò con voce incerta. Sulle loro facce esplose la gioia, una gioia così travolgente che Leona dimenticò quanto le facessero male le dita. Non voleva rovinargli il momento, così si fece da parte e lasciò che le loro labbra si trovassero e che i loro corpi esplorassero l’uno quello dell’altro.
«Tocco da cupido?» ci scherzò su Gab appoggiando un gomito sulla spalla della sorella «Potremmo diventare ricchi».
«Sta zitto!» gli disse burbera, ma niente avrebbe potuto strapparle il sorriso dalla faccia.
O quasi.
«Cos’hai alla mano?» le chiese Gab accigliandosi.
«Non è nulla» mentì. «C’è ancora molto da fare» e corse alla ricerca di un altro abominio. Gab le copriva le spalle, lei diffondeva il suo tocco miracoloso fra i meta-vampiri. Per i meta-lupi il processo era un po’ più complesso avendo subito una stato di mutazione avanzato. Di quello se ne sarebbero occupati dopo.
Vedere riaffiorare nei loro occhi l’umanità era grande motivo di soddisfazione per la medjai. Un polso dopo l’altro stava in buona parte estirpando alla radice quell’antico sortilegio fatato che li aveva soggiogati, restituendo alla natura l’equilibrio che era stato scombussolato. Ma per ogni simbolo che disfaceva, c’era un prezzo da pagare. Era ancora a metà dell’opera e il dolore diventava sempre più annebbiante e le macchie nere che prima si erano limitate a localizzarsi sulla punta delle dita adesso le avevano raggiunto il metacarpo. E nonostante le lancinanti schegge dolorose che le immobilizzavano la mano, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Il tributo che il ciondolo le chiedeva era davvero irrisorio in cambio del potere di guarigione che le aveva conferito. E non vedeva l’ora di sperimentarlo su un abominio in particolare.
Lei e Marlena avevano fatto letteralmente a pezzi le sue sette replicanti e per almeno un paio di ore Sara non avrebbe avuto forza a sufficienza per generarne delle altre. E questo era un vero peccato: se fosse riuscita a guarire la sorella di Fabiano, altre sette letali assassine come lei le sarebbe fatto comodo.
Ma come in uno degli antichi proverbi che la sua saccente nonna soleva ripeterle nel suo tagliente dialetto siciliano, non si può avere “a vutti china e a mugghieri ‘mbriaca”, ovvero non poteva avere entrambe le cose, c’era sempre qualcosa da sacrificare.
Quando pensava che più niente potesse sorprenderla, scovò padre e figlia impegnati in una contesa all’ultimo sangue. Reprimendo un po’ di stizza, dovette riconoscere che Tiziano sapeva il fatto suo e che le voci sulle sue eccelse qualità di spadaccino non esageravano affatto. Qualità però che entrambi i suoi discendenti avevano ereditato. Lo stile, le movenze, le spazzate e gli affondi erano straordinariamente somiglianti fra i due e danzavano come se uno fosse lo specchio dell’altro.
Era stato un maestro fin troppo severo e la sua allieva fin troppo lesta a far suoi quegli insegnamenti. Quindi non sgomentava il fatto che gli si stessero ritorcendo contro. Sara era in netto vantaggio non solo per le sue capacità potenziate da abominio, ma soprattutto perché, al contrario di suo padre, non aveva alcuna remora nel vederlo sanguinare per mano sua. E quell’unica debolezza lampeggiava sul viso di Tiziano come un faro che illumina il porto.
Tiziano fendette il vuoto con la spada.
Sara si dileguò fin troppo velocemente dalla sua offensiva, poi si ripiegò con una mezza piroetta e lo mandò gambe all’aria piazzandogli una gomitata sul mento. Leona si ritrovò a parare il colpo che discese dall’alto.
«Hai bisogno di una mano?» domandò al Sire rispondendo alla forza bruta di Sara con le sue kopis incrociate nel punto dove la flamberga dell’abominio si era fermata.
«Non il tuo» le ringhiò con disprezzo.
«Oh, andiamo, è questo il modo di trattare tua nuora? Pensavo che potessimo…» s’interruppe per respingere un altro temibilissimo dritto sgualembro «riappacificare i rapporti» riprese ansando «dopotutto un giorno potrei cominciare a chiamarti paparino». Quella provocazione gli diede la spinta giusta per rimettersi in piedi e trasformare il duello fra le due in un triangolo di spade. Fra clangori, dritti, rovesci e schivate i tre si affrontarono senza esclusione di colpi.
Leona inarcò la schiena all’indietro fino a quasi toccare terra per scansare un’insidiosa imbroccata alla gola «Non è certo l’incontro che avevo sperato con la famiglia del mio ragazzo ma…» disse ruotando alla sua destra col bacino e facendo sforbiciare le gambe per aria.
«Che cosa vuoi medjai? Sei venuta qui solo per gongolare?» latrò abbassando la guardia all’altezza delle ginocchia usando la posa del dente di cinghiale. Poi respinse un montante «piccolo patetico scarafaggio che non vuole scollarsi dalla suola della mia scarpa…».
«Ahi, questa ha fatto male!» mugolò la medjai «Oh, non tu, Sara, continua pure a giocare a mosca cieca, tesoro» rassicurò l’abominio che non sembrava avesse preso bene la battuta.
«Senti, so perché mi odi…ho saputo dei tuoi gemelli…» disse abbandonando l’atteggiamento di scherno.
«Non so chi te lo abbia raccontato, ma ti assicuro che il mio disprezzo per te è del tutto puro e disinteressato. Sai, dovresti cominciare a pavoneggiarti di meno. Ci sarà sempre qualcuno che non riuscirai ad ammaliare coi tuoi trucchetti e che ti vedrà per quello che sei…un’irritante, indisciplinata, inetta, infantile, insolen…».
«Ehi, avvertimi quando stai per finire gli insulti con la i, esiste un ampio vocabolario che potrebbe fare al caso tuo…».
«E tu dovresti stare al fianco di mio figlio? Deliri come una che ha sbattuto la testa!».
«In effetti, quando eravamo piccoli Gabriel mi ha fatto cadere dalla culla». Tutto a un tratto delle radici affiorarono dal terreno come gli artigli arcuati e ritorti di un mostro. Strisciarono silenziosi fino al loro bersaglio e le immobilizzarono le gambe avvinghiandosi attorno ai suoi polpacci. Sara era letteralmente fuori di sé. Sbuffava, ringhiava, si dibatteva come una forsennata e tranciava i rami che le aveva raggiunto metà coscia con colpi violenti di spada. Ogni volta che ne distruggeva uno, Leona lo rimpiazzava con altri tre. Da quando indossava il parabraccio la differenza nell’attingere il potere elementale era nettamente più immediato, più amplificato. Lasciò sfogare le sue urla strepitanti e si rivolse ancora una volta al Sire «Io posso guarirla». La ragazza allungò il braccio verso il polso dell’abominio ma fu bloccata a mezz’aria. Le dita del Sire la strinsero così forte che sicuramente dopo sarebbe stata ricompensata con dei lividi.
«Padre, lasciala fare!».
Entrambi si voltarono verso la voce di Fabiano ma si fermarono solo per poco su di lui. Dopo aver sbirciato la mano chiazzata di nero fin oltre le nocche della medjai, il Sire se ne compiacque. Le labbra del Sire si accostarono piano al suo orecchio e il bisbiglio che le confidò a voce così bassa che solo lei poté sentire la fece rabbrividire.
«Lui sa che questo ti porterà alla morte?».
Annuì comprensivo al figlio come se non avesse pronunciato quella sentenza e la liberò dalla sua presa. Gli occhi blu di Leona, dentro cui per un attimo era lampeggiata indisturbata la paura, lo sfidarono. E non si tirò indietro. Non di fronte alla sua vecchia amica.
Non riuscì  comunque a toccare quel polso.
La terra stava tremando. E questa volta né lei né suo fratello avevano causato quel terremoto.
I tremori le stavano squarciando il ventre facendola gemere dalle profondità degli abissi. La faglia si estese fin oltre il confine visibile. Chi in quel momento ci si trovò sopra cadde dentro la sua bocca socchiusa. Un pennacchio fumoso denso di cenere e scorie incandescenti s’innalzò dal cratere della montagna evaporando in una spirale grigia verso il cielo. Seguì un esplosione che fece fremere ogni singola foglia del bosco. Uno stormo si alzò in volo, avvertendoli dell’imminente catastrofe. Pochi si erano accorti che l’eruzione era tanto bella quanto pericolosa.
Il vulcano si era destato dal suo lungo letargo e la lava zampillava copiosa dal suo covo infuocato. La lingua di lava che colava dal fianco della montagna era uno spettacolo stupefacente di cui né protettori, né vampiri, né abominio e fate si vollero privare. Le scosse però non diminuivano d’intensità e si facevano sempre più frequenti  mano a mano che l’enorme frammento roccioso rotolava giù dal pendio del vulcano.
Leona e Gabriel si guardarono per un lungo momento: provarono lo stesso nodo alla bocca dello stomaco. Qualcosa si stava risvegliando in loro come il vulcano dormiente. Un qualcosa che si stava avvicinando a grandi passi, qualcosa che fendeva in due il sentiero di abeti proprio come un pettine forma la riga al centro del cuoio capelluto, qualcosa che faceva agitare il placido letto del fiume con i lucci che saltellavano fuori dalla superficie, qualcosa che aveva fatto infuriare i venti che si rincorrevano rocambolescamente facendogli schioccare le vesti, qualcosa da cui i gemelli si sentivano terribilmente attratti come falene in balia della luce. Fuoco, aria, terra e acqua si sprigionarono involontariamente dalle loro mani. I due, più che sconvolti, non avevano intenzione di evocare alcun elemento, eppure eccoli lì, levitare indisturbati sui loro palmi senza alcuna possibilità di disfarsene o di esercitare un controllo su di essi. Erano così spaventati che sembrava quasi che i loro due cuori facessero a gara a chi palpitasse più velocemente. Poi il vulcano eruttò una seconda volta in un boato silenzioso che solo i medjai poterono cogliere. Il cielo si oscurò a tal punto da imitare la notte e qualcosa tracciò un arco fra le nubi cariche di zolfo e solforati tossici la cui traiettoria era riconducibile al cuore della montagna.
Leona percepì il calore del magma ancor prima che il bolo di fuoco si abbattesse sul campo e sollevò in alto le mani in un gesto disperato. L’involucro magmatico restò sospeso fra il cielo e la terra ma ardeva troppo voracemente per restarsene sotto di esso a rimuginare su cosa stesse accadendo o sul senso della vita. Leona avrebbe voluto urlare a tutti di allontanarsi, ma lo sforzo di sostenere quel peso e il contenimento di millequattrocento gradi Celsius ad un’area circoscritta le strappavano la forza e la volontà di parlare. Faceva troppo caldo persino per una divoratrice di fiamme come lei, non voleva pensare a cosa stessero provando gli altri. Avvertì molto più chiaramente la presenza della reliquia sul suo braccio e rammaricandosene si rese conto che senza di essa non sarebbe riuscita a fermare l’impatto e a far guadagnare un minuto in più alla sua gente e alle persone che amava.
Perché se ne restavano tutti così immobili? Pensò. Le sue energie non era inesauribili, lei non era invincibile, da un momento all’altro avrebbe potuto cedere. E Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto lasciarla andare…Il senso di colpa la schiacciò più della palla di magma di cui sopportava il peso.
Non può finire così, dannazione!, urlò interiormente, non dopo tutto quello che aveva fatto per arrivare fin lì. Che senso avrebbero avuto allora la morte di suo zio, di Romeo, di Carlotta, di Norman e del resto degli altri martiri di quella schifosa guerra? Che senso aveva avuto il sacrificio dei suoi genitori? Non voleva accettare che tutto riconducesse a quel momento, che alla fine sarebbe state lei a distruggere tutto per non essere stata abbastanza forte, la medjai che i protettori si meritavano.
Qualcosa le sfiorò la spalla…
«Prendi la mia forza, usa l’akasha» le diceva Fabiano.
No, lei non poteva, non voleva… se non avesse saputo gestire il travaso, avrebbe potuto prosciugare fino all’ultima goccia del suo mana vitale, avrebbe potuto ucciderlo. Non se lo sarebbe mai perdonato. Utilizzò gli ultimi residui della sua connessione per dirgli…
È troppo pericoloso.
Tutto quello che facciamo è pericoloso, controbatté la sua voce nella testa.
Ogni singola parte del suo corpo urlava di dolore per gli effetti della disidratazione, ma era conscia della sua presenza accanto a lei.
Te l’ho già detto Leona, non ho alcuna intenzione di guardarti morire. Non puoi farmi questo.
Se non te ne fossi accorto, non credo che riuscirà a sopravvivere qualcuno…
No, se non ti servirai dei mio mana. Prendilo, è tuo. Sarò sufficiente a respingerlo?
Sì, ma…Potrei ucciderti.
Non lo farai.
Come fai ad esserne così sicuro?
Non è la prima volta che metto la mia vita nelle tue mani e non mi hai mai deluso, e non lo farai nemmeno se non…dovessi farcela.
Non posso farlo.
Vuoi condannarci tutti? Non sarò una grande perdita.
Non sarai…Fabiano. Se ancora non ti fosse chiaro, per me sei Tutto. Tu sei il mio tutto. Farei in briciole la Terra per te, farei esplodere le stelle e l’intera galassia se servisse a salvarti la vita…
Non ti facevo così romantica e fatalista.
Sentii la mano di Fabiano scivolare dentro la sua. Il suo tocco fu rigenerante come una boccata di aria fresca, un tocco gentile che anestetizzava il suo dolore e glielo rendeva sopportabile. Le sue scintille di mana si riversavano dentro di lei, il flusso era intenso e regolare.
Avevi detto che fra noi non poteva funzionare, riprese lui conversando tranquillamente come se lei non gli stesse prosciugando la linfa vitale.
E non avevo ragione? Ci si è messo in mezzo pure un enorme ammasso di lava, mi sembra che l’universo ci stia inviando un messaggio molto chiaro.
Credo proprio che l’universo una volta ogni tanto debba andare a farsi fottere.
Fabiano! Hai detto una parolaccia?
E da quando è una prerogativa di Gabriel?
Be’ non so, è lui il sovrano delle cafonerie…
I suoi muscoli dapprima afflosciati dallo sforzo, adesso erano tesi e turgidi, traboccanti di acido lattico, galvanizzati dalla quantità supplementare di mana che si riversava dentro di lei eccitandole le cellule. Da un lato la temperatura stava lentamente calando mentre il bolo si restringeva. Dall’altro le particelle del mana di Fabiano stavano rallentando la corsa, il flusso si faceva via via sempre più intermittente, perdeva sempre più di fluidità.
Leona.
Non voleva sentire oltre, non se utilizzava quel tono di voce con lei…
Leona, ripeté lui cosciente che lei lo stesse ignorando volutamente.
Non ti azzardare a dirmi addio, non ne abbiamo già avuto abbastanza?
Giurami che starai bene, giurami che vincerai questa guerra. Devi farlo per Gabriel.
Bastardo, pensò lei. Sapeva esattamente che nominare il fratello fosse la leva giusta per renderla schiava di tutte le sue volontà.
Posso concederti solo il secondo giuramento. Niente di più.
Un giorno incontrerai una persona che…
Smettila con queste stronzate, sai benissimo che non me le bevo. Sappiamo entrambi che rimarrò difettosa, non proverò mai più qualcosa di paragonabile a quello che ho provato per te, per il resto dei miei miseri giorni. E poi non capisco perché devo essere l’unica qui a fare promesse…
In effetti posso fartene una anche io
E quale sarebbe?
Ti amerò in ognuno dei singoli miseri giorni che ti restano, ogni giorno sempre di più. Amerò ogni tuo gesto, ogni tua parola, ogni tuo battibecco affettuoso con Gab, ogni tuo successo, ogni tuo fallimento, ogni tua scelta, ogni errore, ogni volta che inciamperai per rimetterti in piedi più forte di prima…
Di la verità, ti mancheranno i miei litigi con quella testa di rapa di Gab più di ogni altra cosa, eh?
Non puoi minimamente immaginare quanto…
C’è qualcosa che vorresti in questo momento? Sì, insomma, un ultimo desiderio…
Dall’altra parte non ricevette alcuna risposta.
Fabiano? Lo chiamò con strazio, come se una tenaglia le stesse avviluppando il cuore.
Sono… qui, disse l’eco lontano della sua voce.
Vuoi del tempo per pensarci?
No, so cosa voglio. É che…
Dai non essere timido, sai che non potrei mai giudicarti
Vorrei baciarti.
Stavolta fu lei a restare in silenzio. La tenaglia si era addentrata troppo in profondità e la stava facendo sanguinare.
Sì, credo che le tue labbra saranno la seconda cosa che mi mancherà di più.
Solo la seconda? Gridò lei indignata.
I litigi con Gab hanno la precedenza, mi dispiace
Anche io vorrei baciarti, più di qualsiasi altra cosa.
SE AVETE FINITO CON QUESTO MELODRAMMA, IO AVREI UN’IDEA DA PROPORVI, COSÍ POI SARÓ LIBERO DI ANDARE A VOMITARE DIETRO QUEL CESPUGLIO
Quella terza voce fuori dal coro li fece sobbalzare, tanto che per poco Leona non mollò la presa sul magma. Nessuno dei due seppe che replicare.
VA BENE, HO CAPITO. CI PENSA IL VOSTRO EROE A SISTEMARE LA SITUAZIONE.
Leona ebbe pochi attimi a disposizione per chiedere spiegazioni a Gab, ma rimase così interdetta che se li lasciò sfuggire. Il gelo e l’umidità che subito dopo le penetrarono dentro le ossa, bè quelli erano davvero complicati da ignorare.
Si rese conto di essere bagnata fradicia dalla testa ai piedi. I lunghi capelli le si erano incollati alle guance e i vestiti grondavano acqua sul terriccio fangoso dove i suoi stivali squittivano con un risucchio. Non poté negare l’improvviso sollievo che provò e il piacere che ne trasse la sua pelle inaridita dal calore, ma nemmeno la rabbia aveva molta voglia di rimanersene in disparte.
Che diamine aveva combinato questa volta quel mentecatto?
Sollevò lo sguardo su quello che era stata la massa incandescente che incombeva minacciosa su di loro pronta a ridurli in mucchi di ceneri e vi trovò un mastodontico frammento lavico di pura ossidiana dalla conformazione amorfa. Sentiva lo sciabordio del fiume che si ritirava all’interno degli argini… Poi guardò suo fratello.
«Cosa c’è? Ho sbagliato qualcosa?» le disse.
 Come aveva potuto non pensarci? Il segreto stava proprio nell’idratazione e nel raffreddamento rapido! Uno dei possibili modi per solidificare il magma vulcanico stava proprio nell’abbassare il suo punto di fusione attraverso il contatto con l’acqua grazie alla quale la temperatura scende fino a raggiungere il valore inferiore critico. La cosa che però le premeva di più non era tanto il fatto che lei non se ne fosse ricordata, ma piuttosto che suo fratello, quell’essere che allevava soltanto una manciata scarsa di neuroni dentro il suo cranio, ci fosse arrivato prima di lei e che fosse completamente asciutto!
«Bè che cosa aspetti, distruggilo».
Se Gab avesse continuato a rimarcare l’ovvio prima che lei lo battesse sul tempo, era sicura che sarebbe scoppiata a piangere per la frustrazione. Comunque non aveva argomentazioni abbastanza valide per contraddirlo e procedette con la polverizzazione della roccia che si disperse nel vento.
«Fabiano!» urlò poi suo fratello.
Aveva completamente dimenticato delle loro mani ancora intrecciate e del flusso di mana che non era stato interrotto. Lei si sottrasse subito dalle sue dita e fece appena in tempo ad afferrare il ragazzo, zuppo d’acqua tanto quanto lei, che le sveniva tra le braccia. Lei e il fratello lo fecero sdraiare per terra in una pozza di fango, non avendo un posto migliore dove soccorrerlo, e procedette col massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Il respiro era assente tanto quanto le sue pulsazioni e Leona temette che il protettore avesse ingollato troppa acqua al momento dell’esondazione. La ragazza gli spostò i capelli bagnati dalle tempie e vi posò delicata i polpastrelli in ciascun lato adoperando il processo inverso di trasfusione del mana mandando impulsi diretti al cervello.
E pregava. Pregava senza sosta desiderando di poter rivedere quel magnifico azzurro dei suoi occhi. Sul suo viso era impossibile distinguere le lacrime del fiume da quelle che sgorgavano agli angoli degli occhi.
Soffocava le urla, non poteva accettare che rimanesse così maledettamente immobile. Si piegò su di lui e pigiò le labbra su quelle del ragazzo, ma quelle non rispondevano alla passione del suo bacio come avevano fatto in passato. Poi lo mise seduto e se lo strinse al petto come se potesse riparare il danno irrimediabile che le aveva provocato. Il suo nemico non ingaggiava più battaglia, come se di fronte a quel dolore persino il mondo intero non avesse più ragioni di girare attorno al sole. Non le importava molto della loro finta pietà, non era abbastanza forte da pensare a nient’altro che al cuore fin troppo silenzioso del suo Fabiano.
Non si rese conto per quanto tempo rimase lì avvinghiata al suo corpo che andava raffreddandosi, ma ricordava perfettamente quanto fossero stati interminabili gli attimi che precedettero il sollevamento impercettibile delle spalle del ragazzo che si cercava di aggrapparsi con tutto se stesso alla vita.
Vomitò un bozzo d’acqua dalla bocca e prese a tossire fuori tutti i residui del fiume che gli avevano allagato i polmoni mentre Gab imprecava in tutte le lingue a lui conosciute. Leona rideva e lo baciava da per tutto senza nemmeno dare il modo al ragazzo di riprendersi.
«Gab…» fu la prima parola che disse. «Non dirmi che stai piangendo per me?». Gab si affrettò a tamponarsi le guance con la manica della giubba.
«Non ci penso nemmeno fratello, la tua ragazza mi ha fatto andare la cenere negli occhi. Brucia sai?».
Mentre i tre si godevano quella breve tregua, il vento riprese a sferzare irruento ululando come se al suo interno trasportasse i gemiti delle anime dannate, dal fiume si contorsero verso l’alto tentacoli d’acqua che terminavano con delle chele, la terra prese a crivellarsi di crateri da cui fuoriuscivano sbuffi caldissimi di vapore cinereo. Al confine est delimitato dall’annosa quercia rugosa che portava i segni dei secoli impressi nel suo poderoso tronco, una catasta di rocce male assortite brulicante di arbusti e gocciolante di lava li osservava paziente frugando pensierosa tra le foglie e i rami dell’anziano albero. Un osservatore più attento avrebbe sicuramente notato le braci che ardevano dentro le cavità vuote dei suoi occhi, i rivoli d’acqua che scivolavano dall’incavo fra le rocce vaporizzandosi istantaneamente a contatto con l’aria per celare la creatura alta cento piedi all’interno di una densa coltre di nubi. Nubi che però non lesinavano di diffondere il terrore in chi aveva la sfortuna d’incrociare il suo sguardo pregno di un odio antico tanto quanto il mondo.
La creatura urlò sradicando con rabbia la grande quercia che non gli raggiungeva nemmeno metà bacino e gliela scagliò contro.
Leona non gli permise di essere travolta.

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Capitolo 61
*** LASCIA CHE PRENDA IL TUO DOLORE ***


AVVISO PER I LETTORI: Ciao a tutti! Volevo avvertirvi che, tecnicamente, questo sarà l'ultimo capitolo della fanfiction, ma non la fine di questo viaggio. Questo perchè manca all'appello il PROLOGO che chiuderà la storia. Vi consiglio, ovviamente, di non perderlo perchè sarà ricco di rivelazioni! Quindi ci rivediamo per il Prologo e gli ultimi saluti. Godetevi la lettura, a presto!
 

LASCIA CHE PRENDA IL TUO DOLORE

Il tronco si smembrò in una pioggia di legname e foglie poco prima che impattasse su di loro. Milioni di minuscoli pezzetti di corteccia restarono sospesi in aria, ruotando su se stessi. Le dita della medjai si contrassero e tagliò i fili invisibili che li mantenevano in orbita. I resti della vecchia quercia si mescolarono col fango e la neve sciolta. La creatura fece ardere le sue braci su di lei e caricò protendendosi in avanti, spazzando via nella foga della ricorsa chi intralciava il suo cammino. Ogni passo scuoteva la terra sotto di loro e sbuffi di vapore acqueo si attorcigliavano attorno al suo corpo colossale avvolto da un calore perenne.  Dalle fenditure dei massi che lo componevano, sbucavano fuori spruzzi d’aria roventi che liquefacevano la neve. Le sue impronte lasciavano  dietro di sé pozzanghere larghe quanto piscine, dentro cui galleggiavano i cadaveri di quella strage. La loro superficie, tinta di rosso, s’increspava in risposta ad ogni scossa di terremoto.
Era folle di rabbia e famelico di distruzione. L’antico urlava e la lava zampillava dalla sua bocca spalancata, sostituendosi al cratere del vulcano. E quando terminava di vomitargli addosso il magma, soffiava su di loro raffiche di vento che ustionavano la pelle, mentre comandava al fiume di affogarli, avvolgendoli nelle spire dei suoi tentacoli acquosi. Nugoli fumosi s’innalzavano dal bosco languente, divorato dalle fiamme che inghiottivano le chiome degli alberi. Leona non voleva ascoltare i gemiti disperati delle creature intrappolate fra quelle mura di fuoco.  Non voleva il peso di tutte quelle vite sulla sua coscienza.
Si paralizzò. Cosa poteva lei contro le forze della natura stessa? Come poteva anche osare pensare di placare la furia degli elementi a cui l’uomo aveva recato offesa? Lo stesso uomo, tanto inorgoglito da credersi un dio, che aveva dato vita alla più abborrente delle creature soltanto per poter sfiorare i confini dell’invincibilità e assaggiare i contorni dell’onnipotenza. Era quella la loro giusta punizione? Le urla di dolore del suo popolo non le rendevano più semplice accettare quel verdetto. Mentre cercava di contenere gli attacchi della creatura insieme al fratello, al massimo delle loro capacità, si rese conto, riportando alla memoria le predizioni di Odetta, che dopotutto quella conclusione era inevitabile. Non poteva esserci perdono per chi calpestava così impunemente le leggi della creazione e per chi spezzava l’equilibrio naturale. E loro, poveri sciocchi, che si contendevano la supremazia di un fazzoletto di terra che di certo non avrebbe mai potuto riscattare il prezzo di tutti quei morti!
Schivando una raffica di pietre, Leona cercò di captare, con scarsi risultati, le urla confuse di Morgana che morivano fra gli ululati del vento. Le giungevano solo sillabe incomprensibili e spezzoni di frasi a cui non riusciva ad attribuire un senso compiuto. Non si trovava esattamente a portata di udito. Richiamò l’akasha dentro di sé e si protese verso l’anima della amica, agganciandosi saldamente.
Dicevi?, le disse quando ebbe stabilito una solida connessione con la sua mente.
Morgana si accovacciò per terra con le mani sopra la testa, evitando di essere incenerita dai tizzoni che straripavano dalle mani del distruttore.
«Leona? Sei nella mia testa o sono i primi sintomi della schizofrenia?» Domandò lei, guardandosi attorno in cerca dell’amica.
«Uno, due, tre, prova…» commentò la medjai sbuffando d’impazienza.
«Ehi, guarda che ti sento!».
«Bene! Allora rispondi alla mia domanda e alla svelta! Non posso mantenere la connessione così a lungo».
«Mi stavo chiedendo chi fosse l’immolato».
«L’immolato? Di cosa stai parlando?», le domandò Leona, lanciando schegge di ghiaccio ai piedi del mostro. L’ennesima scossa fece barcollare Morgana. La ragazza saltò appena un secondo prima che le si spalancasse una voragine sotto di lei. Il cuore di Leona le era schizzato in gola.
«Lo vedi il bel ragazzone a cui stai cercando di fargli venire i geloni alle dita dei piedi? Be’, ho l’onore di presentarti l’Antico».
«Giusto, perché le leggende non restano mai delle stracazzo di leggende…Il tizio se non ricordo male doveva avere il sonno pesante! Mi spieghi allora perché è qui? Non erano sufficienti le nostre disgrazie?» se ne lamentò Leona.
«È imparentato con te, dovresti dirmelo tu!», protestò Morgana.
«Sai com’è, ultimamente ci siamo persi di vista…ehi! Stai insinuando un somiglianza con quella COSA?»
«Qualcuno deve aver stuzzicato il suo appetito», la ignorò la protettrice, mordicchiandosi la punta di una delle sue trecce. Era un gesto che solitamente riusciva a sedare i suoi nervi. «Dio, avranno sacrificato un centinaio di protettori…chi può aver mai fatto una cosa del genere?».
Leona digrignò i denti per la rabbia e il suo sguardo vagò involontariamente in cerca del maledetto Sire dei suoi incubi.
«Oh, credo di conoscere qualcuno che continuerebbe a dormire su dieci guanciali con un genocidio di massa sulla coscienza. Prima hai nominato un’immolato…cosa ha a che fare con tutto questo?».
«Oltre ai cento sacrifici, la leggenda vuole che il risveglio dell’antico avvenga solo con un corpo pronto ad accoglierlo volontariamente».
«Quindi stai dicendo che…».
«Sì, Leona. Qualcuno è finito nella fossa dell’antico perché lo voleva, qualcuno del campo Betelgeuse. Qualcuno dei nostri compagni…Leona dove stai…?»
«Mi è venuta un’idea» la interruppe la medjai.
«Oh, dannazione! ti farai ammazzare!».
«Mi assicurerò che non sia oggi quel giorno, ok?» le disse prima di chiudere la comunicazione mentale con la protettrice.  
Leona lasciò le redini al fratello con un cenno del capo e pregò che il piano che aveva imbastito in quattro e quattr’otto riuscisse a tirarli fuori da quel fossato senza via d’uscita. Protettori, abomini, vampiri e le poche fate rimaste si mescolavano fra loro come un minestrone di verdure miste, galleggianti sulla superficie della brodaglia. La comune minaccia che giganteggiava su tutti loro appianava qualsiasi distinzione razziale o rivalità preesistente. Affluirono verso il lago-portale persino i più immeritevoli di guadagnare la libertà, fino a quando l’Antico non sbarrò loro la via con un enorme masso, franato dalla rupe che terminava sullo strapiombo. Leona si confuse in mezzo a loro, in cerca dell’uomo che le aveva dato il tormento da quando aveva messo piede a Betelgeuse. La fascia da Sire gli pendeva dalla spalla, unta di sangue e  di ogni sorta di sporcizia ma comunque riconoscibile. La medjai attivò l’Akasha e, seppur ripugnata dall’idea, sgattaiolò dentro di lui. Lo costrinse a gettarsi di lato per non essere travolto dalla folla urlante, e lo seguì al limitare delle propaggini boschive non ancora divorate dal fuoco. Per sicurezza materializzò del ghiaccio ai piedi dell’uomo, paralizzandogli le gambe.
«Dannata…» sputò il Sire, guardandosi inorridito le sue nuove calzature glaciali.
«Non c’è tempo per smancerie. Dimmi chi è l’immolato o giuro che il ghiaccio invaderà parti del tuo corpo che nemmeno oseresti immaginare!».
«Sei una sadica! Ti diverte così tanto giocare con i tuoi poteri, tanto da voler anticipare la mia condanna? Ho commesso un errore, è chiaro, ma sfogare la tua vendetta su di me non ti sarà di grande aiuto con quel mostro».
«Quel mostro» sibilò la ragazza, schiumando di rabbia «prima era un protettore a cui tu hai manipolato il cervello esattamente come hai fatto con tuo figlio. Dammi quel nome, e vedrò di addolcirti la pena se riusciremo a sopravvivere».
La risata roca dell’uomo deturpato dalle ustioni non fece bene ai nervi tesi della protettrice che invece trovava sempre più allettante l’idea di avvicinare una kopis alla sua gola per metterlo a tacere una volta per tutte «È quel povero imbecille di Valerio, non so bene di cosa potresti fartene di quest’informazione, il ragazzo è perd…» il resto della frase si perse nel fruscio della frustata che la protettrice gli assestò in bocca, piegando al suo volere il ramo di un abete.
«Sono anni che desideravo farlo» lo motteggiò la ragazza piazzando i pugni sui fianchi con fare derisorio. «Lo sapevo che era lui» borbottò poi fra sé. A quella conferma, l’idea che si era appena abbozzata nella sua mente divenne sempre più concreta.
 Qualcuno cacciò un urlo soffocato alle sue spalle e interruppe le sue macchinazioni. La protettrice si voltò all’unisono con le sue spade e lanciò uno sguardo infuocato a colei che stava per aggredirla slealmente. Sara si dibatteva fra le braccia del fratello, gorgogliando di rabbia. Il ragazzo riuscì a suggerirle «Il polso!» prima che i canini del metavampiro gli penetrassero dentro la carne. Fabiano  chiuse gli occhi e represse un grido, ma non sciolse il capestro umano che aveva avvolto attorno alla gola della sua amata sorella, nonostante i gomiti di lei continuassero a conficcarsi in mezzo alle sue costole. I loro pensieri erano un tutt’uno, il ragazzo era stato messo a parte del suo improbabile piano nello stesso instante in cui si era affacciato nella sua mente caotica. E così le aveva concesso un’opportunità che non si sarebbe ripetuta facilmente. Leona afferrò il polso di Sara senza pensarci, torcendoglielo verso l’esterno. L’incantesimo prese a sbrigliarsi sotto il suo tocco, agitandosi furiosamente sotto la pelle cinerea dell’abominio. Fu più potente di qualsiasi altro linckage in cui si fosse imbattuta, le opponeva resistenza e si rifiutava di abbandonare l’ospite portentosa che l’aveva accolto sotto coercizione. Sostenuta dai penetranti occhi azzurri del protettore che la supplicavano di non mollare, Leona strinse con più decisione la morsa, richiamando a sé quel pastrano oscuro e velenoso che aveva privato i suoi fratelli della loro identità di difensori. Il dolore non tardò ad arrivare. Fu talmente intenso che per un attimo desiderò di essere morta. Ma scacciò subito quel pensiero. Fabiano era connesso a lei tramite l’Akasha, e se avesse percepito quel suo disperato desiderio se ne sarebbe rattristato. Le sue urla e quelle di Sara s’innalzarono in un coro indistinguibile di voci agonizzanti. Attese che le fitte si affievolissero, ma constatando l’invariabilità di quelle spasmodiche sofferenze, si sforzò di racchiuderle in un bozzolo, tenendole il più possibile lontane da quella realtà già di per sé disastrosa. Fu ben più difficile però nascondere a Fabiano le macchie scure giunte oltre la metà del suo avambraccio. Il protettore deglutì vistosamente alla vista di quel cancro oleoso e putrescente che le aveva annerito l’arto sinistro mentre la sorella si accasciava sfinita contro di lui. Infatti, non incrociò più il suo sguardo, e si concentrò a soccorrere una Sara ansimante in preda ai deliri.
La ragazza provò un profondo disagio di fronte alla sua ostentata indifferenza e decise di spezzare il silenzio «Il morso…».
«Non c’era veleno» tagliò corto lui, scostando con dolcezza i capelli dalla fronte di sua sorella. Le palpebre di Sara tremarono per lo sforzo di sollevarsi, i suoi respiri divenivano sempre meno sofferti ed affannosi. Si aggrappò alla cappa di Fabiano gracchiando «Dove…mi trovo?». Fabiano invece di soddisfare la sua curiosità, la abbracciò ancora più forte e pianse silenziosamente con le labbra posate sul suo capo. Ripresa dall’intontimento, cominciò a prendere coscienza di ciò che la circondava. Scattò in avanti liberandosi del cure amorevoli del ragazzo e Leona l’afferrò prima che inciampasse su di lei. Le due si scrutarono guardinghe per un lungo istante, incerte sulla reazione dell’una e dell’altra.
«Io mi…mi dispiace, io non capisco…non so…» le disse inchiodandola con gli stessi occhi azzurri che lei aveva sempre amato « …Perché ti voleva morta?». Leona le sorrise e l’aiutò a rimettersi in piedi, certa che il peggio fosse passato.
«Chi…sei tu?» le domandò ancora.
La risposta le morì in gola. Il dolore alla mano le aveva sigillato le labbra. Fu un'altra voce a chiarire i dubbi dell’ex abominio «Be’…» esordì un Fabiano incapace di tacerle l’imbarazzo «avrei voluto presentartela in circostanze diverse ma…lei è Leona» disse come se tutto il suo orgoglio fosse racchiuso nel nome della medjai «La mia ragazza». Leona non capì se quei tremori fossero tutta opera del terremoto o delle sue gambe ballerine che si rifiutavano di stare ferme.
«Fabiano?...Fabiano?...Oh mio Dio…oh mio dio…il mio fratellino, il mio bambino…» balbettò gettandosi su di lui, soffocandolo nel suo abbraccio fra risate e singhiozzi. Seguirono una cascata di scuse mormorate nell’incavo del collo del ragazzo inframezzate da un nitrito sospetto. Leona puntò lo sguardo in quel vaporoso ammasso soffocante di nuvole grigie e vide chiaramente qualcosa insinuarsi in mezzo, spezzando la continuità di quella cappa cinerea.
«Ma quello è un cavallo alato!» urlò sgomenta Sara, strabuzzando gli occhi per scacciar via quell’illusione. La cavalla bianca volteggiava impavida sopra la testa dell’Antico, sfuggendo con l’agilità di una mosca ai suoi attacchi rallentati dalla stazza colossale. Leona non intuì subito il perché Edna avesse scelto proprio quella forma per tormentare il mostro della montagna con tutte le creature possibili in cui si sarebbe potuta trasformare, perlomeno di egual taglia. Quando scorse il piccolo cavaliere che le montava sulla groppa, ancorata tenacemente alle crine canute del pegaso, si sciolsero tutti i suoi dubbi e ancora di più nel momento in cui la bambina aprì la bocca per urlare. Il boato non fu potente come quello che aveva messo in ginocchio il sobborgo di Londra, ma comunque sufficiente a far barcollare l’antica creatura. Gli attacchi sonori della banshee erano ondate sferzanti che scalfivano le rocce dell’Antico e si spandevano a valle, propagandosi in tutte le direzione. Hilde padroneggiava alacremente il suo dono contro il nemico, permettendo a suo fratello Gabriel di rispondere agli attacchi magmatici della creatura con scudi d’acqua sottratti al fiume.  
Leona non immaginava cosa avesse spinto Valerio a sacrificare tutto ciò che aveva, ma poteva sperare che dentro quell’enorme ammasso di rocce fosse rimasto ancora un briciolo della sua coscienza, della sua vera essenza ed era quella a cui si sarebbe appellata. Aveva già provato a connettersi a lui. E niente da fare, si supponeva essere morto oppure che fosse ben schermato dentro la corazza vulcanica dell’Antico, rendendo inaccessibili i suoi poteri all’interno. Ma se aveva ragione, e le due coscienze non si erano fuse completamente, avrebbe potuto farlo riaffiorare in superficie quanto bastava per distrarlo e a quel punto tentare il tutto per tutto per abbatterlo. Non vedeva altre possibili conclusioni per lui e anche se le straziava il cuore, lui aveva compiuto la sua scelta e lei l’avrebbe rispettata.
«Ok, Sara, ascoltami bene. So che non condividiamo degli ottimi ricordi  e che ognuno dei nostri incontri si è risolto con noi due che cercavamo di farci fuori a vicenda, ma adesso ho bisogno del tuo aiuto».
«No, Sara, piccola mia, non dare retta a quella megera!» la incalzò il Sire, immobilizzato ancora  nel suo piedistallo di ghiaccio.
«Padre…» sbiascicò lei con occhi lucidi.
«Suo Clementissimo…» cominciò Leona stancatamente «potrebbe gentilmente, se le aggrada e con il suo permesso, tenere chiusa quella fottutissima fabbrica di veleno che si ritrova per bocca solo per cinque minuti?». La medjai ruotò il polso e fece scendere lo stesso ramo di poco prima sulla testa del Sire per avvolgergliela e tappargli la bocca. I suoi improperi diventarono incomprensibili.
«Che cosa hai fatto?» sbottò la figlia.
«Se la caverà. Purtroppo lo fa sempre…ma non c’è tempo per questo, concentrati su di me. Devo chiederti qualcosa che potrebbe mettere a rischio la tua vita…».
«Be’…» la rimbeccò lei «È il minimo che posso fare dopo tutto il male che ho causato. E poi sono in debito con te mi sembra di capire…Sono pronta a tutto».
«Brava ragazza» approvò Leona «ti piacerebbe rincontrare la tua vecchia fiamma? Ti avverto potrebbe essere un tantino cambiato dall’ultima volta che vi siete visti, sai com’è gli uomini sono quelli che ne escono maggiormente sconfitti quando una relazione finisce, e il tuo Valerio credo che fosse più disperato di quello che pensavamo. È una storia piuttosto complicata ma per riassumertela in breve, l’Antico è Valerio, e Valerio è l’Antico…».
«Aspetta un attimo, cosa ne sai tu di Valerio?» disse facendo oscillare un’occhiataccia furente dal mostro a lei come la stesse prendendo per pazza.
«Senti è stato lui a confessarmelo ed è ancora innamorato di te. Portava persino sempre con sé una tua foto che riponeva all’interno del suo diario. Una cosa dolce no?».
Sara inarcò un sopracciglio e tirò su col naso indignata «Qualunque cosa tu abbia sentito, mi sembra che si sia dimenticato di aggiornarti sul piccolo particolare che non sono stata io a lasciarlo…mi aveva detto chiaramente che desiderava qualcosa di meglio per lui, che io non ero abbastanza…che non provava più nulla».
«E tu gli hai creduto? Per la barba di Majak ma allora il linckage deve averti inceppato i fusibili del cervello. Ti sei vista? Chi è il folle che guarderebbe altrove quando ci sei tu nei paraggi? Fidati di me quando ti dico che il nostro Valerio avrà avuto buone motivazione per allontanarti…» disse soffermandosi con disgusto sul Sire che non aveva ancora smesso di agitarsi «questo non cambia ciò che prova per te. Non vedi come i sensi di colpa lo hanno portato persino ad accettare che trasformarsi in un mostro apocalittico fosse una buona idea?».
«Non è mai stato giudizioso» la informò lei accennando un sorriso.
«Vero» confermò arrendevole Leona «ciò non toglie che abbia più palle dell’intero battaglione della squadra anti-vampiro messi insieme e non merita di essere ricordato come il mostro che ha distrutto Betelgeuse, non posso accettarlo. Mi è stato vicino nei miei momenti più bui. Io non ho mai tradito i miei amici e non ho intenzione di cominciare oggi».
Sara guardò un’ultima volta il gigante che seminava distruzione come se cercasse di sondare dentro di lui  per riuscire a convincersi che il suo Valerio fosse ancora lì «Che cosa volete che faccia?» domandò più a suo fratello che a lei con un sospiro.
«Tu dovrai solo parlargli. Al resto ci penseranno Leona e suo fratello. Ti proteggeranno come meglio potranno, fidati di loro. Non potresti trovarti in mani migliori» disse Fabiano.
Lei annuì e gli sorrise amabilmente «Per la barba di Mayak, dov’è finito il bambino dei miei ricordi? D’accordo. Facciamolo».
*********
«Valerio!» lo chiamò Sara sbracciandosi come una naufraga su un’isola deserta «Valerio!».
Improvvisamente il vento si placò e tutto piombò in un inquietante silenzio. La terra ritornò alla sua quieta immobilità. Il crepitio dell’incendio divenne più chiaro, una nuvola di cenere ammantò l’intero campo, mentre il fiume riprese a scorrere solerte come se nulla fosse accaduto. L’odore di legna bruciata impregnava l’aria e ricordò a Leona, con dovizia di particolari, il giorno più brutto della sua vita. Si strappò con violenza al suo truce passato e tentò di convincere le fiamme a ritirarsi dai boschi, ignorando la vita che aveva portato via con sé, abbandonandola in cumoli indistinguibili di carbone fumante.
«Valerio» ripeté per la terza volta Sara. L’Antico si mosse con estrema lentezza, incantato e stordito da quella voce. Gli sbuffi di vapore che si attorcigliavano attorno a lui divennero più sottili e permisero di scorgere meglio il puzzle di rocce appuntite che ricordavano vagamente i lineamenti di un volto umano. Un volto che, da come gli ardevano le fiaccole nelle orbite, sembrava acceso di passionale speranza. Lui, dunque, non era ancora andato via.
«Ciao» esordì timidamente l’ex abominio, torcendosi nervosamente le dita verso il basso.
Leona ignorava quanto efficace potesse essere un saluto informale come quello, mentre il mondo gli stava crollando letteralmente addosso, ma da come sussultò la mostruosità, decise che avrebbe lasciato fare Sara come meglio credeva. Almeno aveva smesso di vomitare lava, era già un ottimo risultato.
«Io…spero che tu possa sentirmi» aggiunse «so cosa stai passando, credimi, meglio di chiunque altro. In qualche modo noi due siamo uguali. Prigionieri del nostro stesso corpo, totalmente fuori dal nostro controllo e dalla nostra volontà. È un po’ come sentirsi sprofondare dentro acque turbolenti e non poter in alcun modo riaffiorare in superficie, sepolti da metri e metri d’acqua, urlando e scalciando dove nessuno può sentirci o raggiungerci per tenderci una mano». Improvvisò un sorriso incerto verso il mostro e così facendo mise in mostra uno dei suoi lucidi canini. Le rocce scrosciarono sfregando fra loro quando la creatura discese verso il basso, piegandosi su un ginocchio con la testa inclinata e lo sguardo attento e curioso. I due gemelli trattennero il fiato, in allerta, pronti ad intervenire alla minima avvisaglia di ostilità da parte sua. Sara invece prese il coraggio a due mani e si avvicinò ancora di più.
«Ti sei mai chiesto se fosse tutta una bugia?» chiese lei, suscitando non solo la perplessità dell’Antico, ma quella di tutti i presenti.
«In realtà ciò che ti ho descritto non mi sembra una similitudine del tutto appropriata o quantomeno veritiera. Quella sensazione di oppressione e costrizione non esiste davvero, è tutta nella nostra testa. Un mero meccanismo di autodifesa per tenere lontano da noi i nostri veri desideri. Come se le nostre fattezze mostruose potessero giustificare il male, la sofferenza che abbiamo creato attorno. Come se il sangue che abbiamo versato non sia opera nostra, ma del nostro soggiogamento, di quel qualcuno che guida la mano al posto nostro, ripulendoci dalle nefandezze di cui ci siamo macchiati. Ma sai che ti dico, quel qualcuno non esiste, non c’è mai stato nessun’altro che noi. Siamo stati noi a prenderci quelle vite Valerio, quella che indossiamo è solo una maschera fatta di rabbia e odio. Noi volevamo fargli del male come loro lo avevano fatto a noi. Sì, era la nostra opportunità per vendicarci del male che ci avevano causato, avevamo una scusa per farlo. Cosa ci si aspetta da un mostro dall’altra parte? Abbiamo solo dovuto recitare bene la parte, tanto nessuno ci avrebbe biasimato, in fondo non eravamo noi stessi, no? So quanto soffri, quello che ci hanno tolto, quello che avevamo, forse non ci verrà mai restituito, ma non è un buon motivo per coinvolgere poveri innocenti nella nostra faida personale.
L’odio genera odio. E io prego che tu sia abbastanza forte da spezzare questo circolo vizioso, perché so che puoi farlo. Io ho fallito, Dio, sono sempre stata così piena di me, alimentata dell’adulazione altrui, come se tutto mi fosse dovuto» disse camminando avanti indietro instancabilmente «Ho odiato te, mio padre, la mia crudele creatrice, persino Pascal. Ero così arrabbiata che non mi sono nemmeno fermata a riflettere sull’inestimabile sacrificio di chi mi aveva ridato la vita e donato il suo stesso cuore» così dicendo, indicò il suo petto. «Io non lo meritavo e ce l’avevo con lui perché credevo di poterlo incolpare per quello che ero diventata. Lui aveva fatto di me la persona, il mostro che detestavo e che temevo di più. Pascal non c’entrava nulla, avevo scelto io di accogliere il mostro dentro di me.  Se solo avesse saputo…Io…mi chiedo ancora come tu ti possa essere innamorato di un spirito arido come il mio. Ma tu non sei così, io so perfettamente chi sei. Sai che non ti ho mai visto come gli altri ti dipingevano, e non hai mai avuto bisogno di dimostrarmelo. Oggi, però, voglio che tutti lo vedano, io…voglio che vedano il tuo coraggio, la tua compassione, il tuo piccato senso dell’umorismo, la tua tenacia e sangue freddo e non solo il sempliciotto casanova che tutti hanno imparato a conoscere. Quindi basta con tutto questo, non lasciarti dominare dalla paura, ciò che è fatto è fatto. Tu puoi dominarlo, tu puoi essere tutto ciò che vuoi, non sarà un viso mostruoso a deciderlo».
Il volto rude dell’Antico si contrasse, imbronciandosi in un coacervo di macigni perfettamente levigati e ricoperti di muschio. Il liquido gioco d’ombre delle fiaccole che illuminavano le sue cavità vuote, parve intristire la sua espressione o forse la rese soltanto più riflessiva. Le rocce scricchiolarono imitando i movimenti delle articolazioni e l’enorme braccio della creatura si distese a terra con il palmo rivolto verso il cielo plumbeo.
«Non farlo. Non potremo più proteggerti…» le disse quando Sara si appese a una delle sue grosse dita, tirandosi su a sedere, incuneata fra le pietre.
«Vi prego, non fategli del male» rispose lei angosciata mentre la trascinava all’altezza dei suoi occhi. Leona rimase stupida dalla sua delicatezza, come se la creatura fosse conscia della fragilità della ragazza, corpuscolare rispetto alle dimensioni della sua mano. Sara saltellò da un affioramento a un altro e giunta sotto il suo mento aguzzo, prese ad accarezzarglielo. Non sentirono le parole che gli sussurrava, soprattutto perché i sospiri dell’Antico raspavano come decine di motoseghe indiavolate. Qualunque nenia lo stesse cullando, il mostro sembrava gradirla. Dal canto suo, Sara si trovava a proprio agio, quando invece chiunque altro sarebbe stato vittima di infarti multipli. Il coraggio di certo non le mancava, ma un pizzico di prudenza in più non avrebbe guastato. Anche se lo aveva ammansito, era lo stesso gigante che poco prima aveva cercato di seppellirli vivi sotto cumuli di rocce vulcaniche e lava bollente e Leona detestava avere ragione. Avrebbe davvero voluto che per una volta il suo puro-istinto facesse cilecca, che le sue sterili considerazioni si limitassero ad essere gli innocui frutti delle sue isteriche paranoie. Ma non poté comunque fermare la bocca del gigante che si serrava su Sara. Dopo il boccone, il silenzio dell’Antico si protrasse a lungo, manifestando l’apprezzamento del pasto appena consumato. La medjai avrebbe voluto urlare se solo la sua bile non fosse stata così prepotente da stimolarle un conato di vomito. Il peso del suo fallimento gravò tutto sulle sue gambe e per poco non si abbandonò a quella debolezza. Era finita, aveva giocato la sua ultima carta, aveva accompagnato l’innocente agnellino fino all’ingresso del mattatoio per ricavarne la concia. Ma c’era di più. Aveva promesso che l’avrebbe protetta. Leona non aveva nessuna voglia di far fronte all’incommensurabile delusione che cresceva a dismisura nel petto del ragazzo a cui era stata strappata la sorella un numero di volte insostenibile per la sua sanità mentale.
Ispezionò l’area attorno a sé. La morte era ovunque lei guardasse. I corpi dei protettori disseminati per il campo, marcivano sotto i suoi stessi occhi. Avrebbe potuto compatirsi, era solo una ragazza e nessuno le aveva chiesto di interpretare il ruolo della paladina della giustizia. Superbia? Sì, forse aveva a che fare con quello e probabilmente era uno dei motivi per cui le faceva così male, oltre al fatto che era stata lei a trascinare i suoi alleati in quella guerra. Avevano creduto in lei. E non poter riscattare quella fiducia la faceva sentire vuota e inerme. La storia della sua vita era un ciclo infinito di fiaschi. Lei non era abbastanza, non era riuscita a salvare sua madre e suo padre, figurarsi impedire il crollo di Betelgeuse tutta da sola.
Era così dolce la tentazione di abbassare le armi, piegarsi riverente sulle ginocchia di fronte alla sua inettitudine e attendere che tutto finisse nel buio. Leona era stanca, e non solo per l’insopportabile dolore che la invalidava. Avrebbe mollato ogni cosa se solo la sua arrendevolezza non avesse coinvolto il fratello, l’anello di congiunzione che la manteneva ancorata alla terra. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Per lui avrebbe rinunciato all’irresistibile abbandono che le prometteva l’oblio liquido dell’universo onirico in cui si sarebbe rifugiata, perennemente trascinata dalle correnti, in balia dei flutti, in ascolto della cantilena delle onde. In quel momento credeva sul serio di sentire lo sciabordio dell’acqua e quel suono la trascinava altrove, a mille miglia da lì, ma non così lontano da non avvertire la gelida puntura del suo para-braccio. Una mano eterea e inconsistente aleggiava sulla sua guarnizione dorata, qualcosa che solo lei poteva vedere.
«Porta l’acqua da noi» le diceva la ragazzina che le stava accanto. Aveva una macchia viola sulla metà destra del viso, fulvi capelli ricci ed era magra come un chiodo, eppure la richiesta di quel fragile mucchietto di ossa l’aveva scossa dentro. I suoi occhi d’oro erano fuoco che bruciavano su di lei.
Odetta sollevò un braccio e lasciò che sue dite tessessero ricami ondeggianti e invisibili. Leona studiò i suoi movimenti e la imitò. Avvertì stringersi lo stomaco, le cellule di mana si arrovellarono impazzite e fuori controllo nelle sue vene. E lo sentì. Il richiamo dell’acqua, vivo e pulsante dentro di lei. Per un po’ non accadde nulla, Leona credette di aver perso la ragione. Poi l’Antico riprese a trasudare vapore acqueo, ogni singola molecola era soggiogata dal controllo di Leona e obbediva al suo volere. L’acqua prese a sgorgare fra le sue rocce, prima debolmente, poi il flusso s’ingrossò, straripando con violenza. Invece che riversarsi ai suoi piedi proseguì dritta verso di lei, raccogliendosi nella loggia inferiore della sua reliquia dorata, quella con il simbolo dell’elemento che gli era complementare. Continuò così fino a che il corpo della creatura non fu completamente prosciugato. Leona non poteva credere di aver maneggiato decine e decine di cubiti d’acqua senza subirne le conseguenze. Non era mai stata affine all’acqua, non come lo era Gabriel, eppure…
Adesso la loggia non era più vuota. Una goccia di lapislazzuli ornava la sua reliquia, scintillando liquidamente di blu.
Odetta le sorrise e annuì.
Aveva imbrigliato l’energia dell’Acqua dentro la reliquia. Si agitava in attesa di un suo comando. Suo fratello era esterrefatto, sembrava non aver la minima idea di cosa stesse accadendo. Per un attimo sgranò gli occhi sullo spirito di Odetta, ma lei era già svanita lasciando dietro di sé una gradevole scia ventosa, fresca e corroborante. Leona colse il messaggio. C’era ancora un’altra loggia solitaria che attendeva solo di essere colmata. Leona tirò. Zefiri urlanti sfuggirono dalle membra rocciose della creatura con fischi acuti e penetranti. Una volta sottratti alla manipolazione dell’Antico, la medjai si focalizzò sulla ionizzazione delle molecole d’aria che turbinavano nei vortici da lei creati. La sua mente vagò frenetica in cerca di elettroni da strappare. Elevati picchi d’energia ionica sfrigolarono nello spazio che li divideva, manifestandosi sotto forma di zigzaganti saette di elettricità statica. Fungendo da parafulmine attrasse le saette su di sé, concentrandole sulla loggia vuota. L’energia che ne trasse, andava oltre ogni più rosea immaginazione, le folgori danzavano attorno a lei formando un globo sfavillante, rendendola l’unico fulcro di luce nell’intera vallata. Sopra la pietra di lapislazzuli vi era incastonata un’altra di quarzo, la pietra che rappresentava l’elemento dell’Aria. Entrambe brillavano intensamente, alimentate dal potere dell’Akasha che trasudava dal corpo della medjai.
Poi fu avvolta dal calore. Spirali infuocate si riversarono dalla bocca spalancata della creatura mentre venivano risucchiate via, richiamate dalla sua loggia. Le fiaccole dentro i suoi occhi cavernosi si estinsero, divenendo desolati e incolori, mortalmente malinconici. Il fuoco lo aveva abbandonato.
Il suo nuovo e improbabile proprietario osservava con occhi ingordi di cupidigia il fulgido rubino che si era appena conquistato. Le fiamme si levarono dal palmo aperto di Gabriel senza alcun impedimento o smorfia di sofferenza. Leona non riuscì a sopprimere la fitta di gelosia. Il fuoco le era sempre appartenuto, era sempre stato una parte di lei, ma avrebbe potuto digerire quel tradimento se lo avesse condiviso con lui, o per lo meno se ne sarebbe fatta una ragione dal momento che anche lei lo aveva privato dell’esclusivo controllo dei suoi elementi. E in effetti ne mancava ancora uno…
Il pugno di Gabriel batté sul selciato e un fitta rete di crepe si diramò da quel colpo secco e rude. L’onda d’urto viaggiò nel sottosuolo sollevando al suo passaggio zolle di terra umida e fangosa e si andò a schiantare contro la creatura che barcollava confusa. Ci fu un gran boato. Le rocce che componevano l’Antico si sgretolarono, rombando in un fragoroso baccano. Era come se la forza che le teneva tutte insieme si fosse improvvisamente esaurita, prosciugata dalla forte attrazione che la reliquia di Gabriel esercitava su di esso. Lo smeraldo della Terra brillò nell’ultima loggia, decretando definitivamente l’appartenenza all’arcaico oggetto hijiriano.  
Del gigante era rimasto solo una catasta di lucido pietrisco lavico, e sulle prima giacque a terra non mostrando il minimo segno di vitalità. Proprio mentre Gabriel cominciava a perdersi in futili vanterie autoreferenziali, gioendo prematuramente della loro insospettabile vittoria, qualcosa s’agitò sotto il cumulo di pietre. Leona zittì il fratello sganciandogli un cazzotto sulla spalla e gli gesticolò di seguirla. Circuirono le spoglie dell’Antico tenendosi a debita distanza e attesero un ulteriore sussulto da parte delle rocce. Era troppo concentrata sull’imminente minaccia che sarebbe potuta sbucare fuor dalle ceneri del mostro, ma s’immagino il fratello innalzare gli occhi al cielo di fronte alla sua palese diffidenza nei confronti di quello che evidentemente non era altro che materia inanimata. Le rocce sembravano solo delle rocce, eppure Leona era sicura di aver visto…
Eccolo di nuovo! Leona non perse tempo a gloriarsi del suo infallibile intuito col gemello perché era certa di aver udito dei gemiti strozzati provenire dalla frana di pietre. Fu allora che Fabiano sfrecciò fra loro, arrampicandosi su per la collinetta a mani nude, e cominciò a scavare. Fabiano non pareva curarsi delle ferite che si procurava frugando fra i massi appuntiti, né dei moniti della medjai.  Leona lo raggiunse sulla cima tentando di dissuaderlo, ma il ragazzo non volle ascoltarla. Non sapeva esattamente cosa sperasse di trovare lì sotto, Leona era completamente spiazzata da quella disperata ricerca e temeva che quel folle atteggiamento fosse causato plausibilmente da un crollo emotivo del ragazzo. Coinvolta da quella foga avvilente, decise di aiutarlo spostando tramite geocinesi i massi più grossi, favorendo così una più facile penetrazione all’interno della pila pietrosa.
«C’è qualcuno sotto le macerie!» esultò Fabiano prima che il mezzobusto di lui si tuffasse fra le pietre e scomparisse dalla sua vista. Leona lo trattenne per una gamba e quando lo tirò su, notò che Fabiano era notevolmente aumentato di peso. Questo perché non si era accorta che lui non era più solo. Il corpo che era stato sepolto da quella tomba improvvisata, riemerse soffocando per l’asfissia.
La medjai non poteva credere ai suoi occhi. Sara era sopravvissuta alla fagocitosi dell’Antico, uscendone praticamente illesa. Lei e Fabiano la sollevarono da sotto le ascelle e i polmoni della ragazza si rifocillarono di ossigeno mentre strisciava via da quell’incubo. Tossì violentemente ripiegandosi su se stessa, incapace di formulare qualsiasi frase pregna  di logicità. Il nome di Valerio, però, risuonò chiaro dalle sue labbra, e Leona nutrì la speranza che anche il suo vecchio amico fosse sfuggito alle grinfie della morte. Così riprese a far levitare le rocce e le dispose ordinatamente al di là del fiume, rifacendosi inconsapevolmente alla struttura circonferenziale dello Stonehenge. Non seppe descrivere la gioia che provò nel rivedere il viso imberbe e imbrattato di fuliggine del protettore. Certo, ricordava che avesse molti più capelli. Adorava i suoi fluenti riccioli ramati…Quando aveva deciso di rasarsi a zero? Per non parlare del suo cipiglio inquietante, forse perché non più incorniciato da spesse sopracciglia? E che fine avevano fatte le ciglia? A dire la verità il suo corpo, ad una prima occhiata, sembrava completamente glabro. Allora capì che quella di depilarsi non doveva essere stata una sua scelta. Con molta probabilità la sua peluria era andata persa tuffandosi nella bocca infernale del vulcano. Valerio si guardò attorno con occhi cisposi e abbagliati dalla luce, meravigliato come un bambino che si affaccia al mondo per la prima volta. Metà del suo corpo, dalla vita in giù, era ancora sepolta fra i macigni, ma sembrava rispondere reattivamente agli stimoli esterni. Sara nel frattempo aveva recuperato le forze e si era catapultata nel punto di ritrovo, offrendo il suo aiuto per tirarlo fuori di lì.
Quando  Valerio ebbe sgranato gli occhi su di lei le rivolse un timido «Ciao». Lei si ammutolì, ingessata come una statua nell’atto di accarezzargli la guancia. Leona non voleva interrompere quella reciproca contemplazione, erano passati anni dall’ultima volta che i due amanti si erano guardati negli occhi senza che il padre di Sara s’intromettesse nel loro rapporto. Niente era più come prima. Lei aveva subito una mutazione che l’aveva irreparabilmente vampirizzata e nel suo petto batteva il cuore di qualcun’altro, lui si era consacrato alla vita da mostro per salvare il suo popolo, eppure per chissà quale miracolo le loro anime si riconobbero.
«Dai su, dammi la mano che ti tiro fuori di lì» si offrì volenterosa Sara reprimendo un singhiozzo silenzioso. La testa pelata di Valerio si girò da un’altra parte in preda a un gran imbarazzo.
«Ehm, al momento sto bene dove sto» li rassicurò lui portandosi con disinvoltura le braccia dietro la nuca, rilassato e pago come un vacanziere su una spiaggia paradisiaca che dondola su una amaca sorseggiando bevande deliziose da una noce di cocco.  «Non essere ridicolo…» fece per dire Sara. «Credimi, è meglio così» s’innervosì l’altro.
Leona si protese verso i massi attorno a lui con l’intenzione di sgombrargli il passaggio e disse «Deve aver battuto la capoccia,  tranquilla ci penso io». Cominciò da quello più grande e prese a spostarlo telecineticamente, ma dopo quello che scoprì esserci sotto lo rimise subito al suo posto, esattamente nella stessa posizione. Faceva decisamente caldo. La sue gote arrossate scottavano a tal punto che avresti potuto friggerci uova e bacon e servire una tipica colazione all’inglese. Valerio, con il viso rubizzo forse anche più del suo, le lanciò uno sguardo desolato che sottintendeva che in fondo se l’era cercata.   .
«Ha ragione, è meglio se lo lasciamo qui» tossì Leona. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dimenticare quell’immagine o poter essere teletrasportata altrove e arrossire in segreto.
«Visto te lo avevo detto!» rimarcò piccato Valerio alla volta della sua ex ragazza.
«Ma che diamine ti prende? Cos’è, hai finito il carburante dei tuoi giochetti di prestigio? Spostati ragazzina, ho decisamente più muscoli di te anche senza i tuoi poteri magici…» le disse Sara a un soffio dallo sfiorare il macigno. Leona ansimò e s’interpose fra lei e il suo ostacolo. Le chiese con discrezione di inclinarsi verso di lei – era più alta almeno di due spanne – per poterle sussurrare all’orecchio che Valerio non indossava nient’altro che la sua pelle. Già, era molto nudo. Sara inarcò un sopracciglio e occhieggiò prima lei e poi lui, e si portò le mani alla bocca scoppiando a ridere, una risata così fragorosa che finì per travolgere inevitabilmente anche Leona. La tensione scivolò via dalle sue spalle e la fece fluttuare libera da quel senso di colpa che la schiacciava al suolo impedendole di respirare.
Valerio gli fece il verso «Sì, sì, davvero molto divertente…ma qualcuno sarebbe così gentile da prestarmi dei pantaloni?». Il riverbero metallico di Symphony affettò il due la sua domanda e richiamò su di sé l’attenzione come una calamita. «Magari più tardi amico» intervenne suo fratello «Qui non abbiamo ancora finito. C’è qualche vampiro di troppo in questo campo e sono certo che mi farà venire l’orticaria».
«Oh, credimi…lo sento anch’io il prurito» convenne con tono farsesco Valerio, su di giri, in attesa di godersi lo spettacolo. Le pietre incastonate nel para-braccio di Gabriel  lo irradiarono di luce rossa e verde, e Leona rimase affascinata da come quei fasci colorati s’intrecciassero fra loro per dare vita a nuove sfumature.  Anche le sue s’illuminarono nello stesso istante, canalizzate dal potere delle loro gemelle della terra e del fuoco. Un potere che ribolliva in ogni centimetro del suo corpo e per riflesso anche in quello di Gab.
I gemelli medjai erano una cosa sola.
«Che ne dici sorellina? Non pensi sia tempo per il gran finale?» la incalzò lui. In tutta risposta Leona sprigionò il mana e richiamò i fulmini su di sé. Il cielo nero si zebrò di lampi luminescenti, preannunciando l’imminente nubifragio. I pochi Drakulia rimasti indietreggiarono impauriti da quella dimostrazione di forza, frastornati dalla melodia ritmica dei tuoni che biancheggiavano fra le nuvole cariche di pioggia. La medjai attivò il potere del vento, attingendo finalmente da esso a suo piacimento. I lunghi capelli neri si gonfiavano come un mantello oscuro dietro di lei, l’elettricità scoppiettava nel palmo della sua mano, come una dea creatrice di tempeste, bellissima e terrificante al tempo stesso.
«Sì» gli rispose la sua voce interiore «ma non lo faremo da soli».
Gab annuì e i loro cuori rimbombarono in un solo laborioso coro indistinguibile, come un marchingegno di ingranaggi ben oliati. Entrambi intinsero le dita del pozzo dell’Akasha e la riesumarono dalla sua letargia millenaria per spanderla sui loro compagni d’armi come una benedizione. Fu proprio allora, nel più insospettabile silenzio, che i simboli degli elementi arsero nelle fronti di tutti i protettori, frammentandosi e adattandosi alla singola vocazione di ciascuno di loro. C’era a chi piaceva giocare col fuoco, chi si dilettava fra le onde del mare, chi desiderava librarsi in aria fra gli uccelli del cielo e chi era riconoscente per i frutti succulenti della madre terra.
E non era tutto. Qualcuno sapeva persino padroneggiare l’allomanzia, altri dominavano i fenomeni della nebbie e la foschia,  muovevano le sabbie frantumando la roccia finemente, riducendola in particelle di minerali e modellandola a proprio vantaggio, provocavano terremoti o causava gli tsunami, creavano scudi con la terra o influenzavano la salgemma,  sfruttavano l’exnomophis per plasmare le particelle d’aria dando vita a illusioni, infrangevano la barriera del suono, si districavano nelle menti labirintiche degli avversari anticipando le loro mosse, facevano danzare le correnti elettriche e attiravano fulmini, rivitalizzavano le piante o parlavano agli animali suscitando devozione, generavano tormente polari e manipolavano il ghiaccio o innalzavano muri torridi di magma, e quelli ancora più rari manovravano la radiazione elettromagnetica dei fotoni per abbagliare gli avversari con la luce ed erano in grado di creare duplicati olografici destreggiandosi con la rifrazione dei fasci luminosi o  ancora accecavano con le tenebre.  Quel giorno, ogni protettore, col dono che lo rendeva unico, combatté sotto lo stesso stendardo della fratellanza che li univa ad opera dell’Akasha, l’energia primordiale che li concatenava gli uni agli altri.
I medjai si voltarono raggianti verso il loro esercito invincibile di guerrieri, sentendo ogni singola anima come una parte di sé. «Protettori!» urlò Leona.
Quando marciarono verso i loro nemici come un corpo solo, i protettori lasciarono che i medjai rinfocolassero il loro spirito battagliero con l’invocazione che avevano imparato prima di esprimersi in vagiti strillanti, quella che era stata marchiata a fuoco nella loro memoria ancor prima di muovere i primi passi, la stessa formula che di secolo in secolo era stata pronunciata almeno una volta da ogni protettore, la stessa che veniva proclamata per la nascita di una nuova vita e esalata in tono di cordoglio quando si varcava la soglia della notte eterna.
E così, gridarono a una sola voce: «LUX OMNIA VINCIT».
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«Questo è l’ultimo?» chiese Leona, medicando l’abominio trafitto gravemente ad una gamba da un coltello. Era uno dei pochi superstiti di quella tragica guerra. L’arteria femorale era stata recisa, la punta della lama gli attraversava la carne fuoriuscendo dalla parte opposta e il sangue zampillava a intermittenza dal taglio profondo, schizzando da per tutto. Ma adesso che la battaglia era solo un brutto ricordo da chiudere per sempre in una cassaforte, la ragazza poteva dedicarsi alla cura dei feriti e all’eliminazione delle ultime tracce di quell’oscuro incantesimo delle fate. Mentre congelava le sue membra lacerate per arrestare l’avanzamento della necrosi, in attesa dell’intervento di un vero medico, Leona non riusciva ad assaporare il gusto di quella vittoria. I vampiri erano stati scacciati dalle loro terre e i sopravvissuti avrebbero sicuramente pensato due volte a riorganizzare un altro battaglione contro il loro esercito di protettori elementali almeno per un secolo. Quel pensiero però non era abbastanza per lei, e di per certo non lo era per coloro che quel giorno avevano perso la vita. Le ruote dei carri cigolavano sofferenti sotto il peso dei cadaveri impilati uno sopra l’altro. I pianti di chi non voleva lasciarli andare sembrava squarciare il velo azzurro dei cieli. Una squadra si stava occupando dei loro corpi. Alcuni erano così maciullati da essere a malapena riconoscibili, ma tentavano comunque di ricomporli come meglio potevano, lavavano via il sangue e il fango con fazzoletti di lino imbevuti di acqua di fiume, spegnevano i loro sguardi vuoti calandogli le palpebre sugli occhi e mormoravano delle preghiere per loro. Qualcun altro invece raccoglieva le armi destinate ad essere sepolte nel tempio dei bottini o, a seconda dei casi, tramandate ai discendenti; altri ancora si erano inoltrati nelle macerie carbonizzate dei boschi di latifoglie centenarie per racimolare i pochi ciocchi di betulla ancora intonsi, scampati all’incendio. L’odore dolciastro della resina si sarebbe mescolato al fumo della pira e avrebbe coperto il tanfo della decomposizione. Il solo immaginare il corpo immobile e freddo di Norman lambito dalle fiamme, la straziava dentro, grattandola fino alle ossa. Si strofinò il naso gocciolante nella manica e si concentrò completamente sul processo di criogenesi della ferita.
«Sì» gli rispose secco Edward. Dal tono era chiaro che fosse ancora in collera con lei per avergli disobbedito. Si era opposto all’idea che la ragazza se ne andasse in giro ad assorbire come una spugna il putridume del linckage. Spiandolo di tanto in tanto, aveva sorpreso il vampiro ad accigliarsi così spesso che se non avesse avuto una pelle così liscia da fare invidia alla levigatezza del marmo avrebbe arato di rughe quel viso straordinariamente bello. La sensazione di avere qualcuno che vegliasse su di lei non le dispiaceva affatto, anzi ne era quasi assuefatta e ne voleva sempre di più. Anche se lo conosceva appena, sapeva già che la separazione sarebbe stata atroce e sarebbe giunta presto. Lui non faceva parte del suo mondo e prima se ne faceva una ragione meglio sarebbe stato per lei.
 «Adesso che hai finito di giocare alla crocerossina, vorrei dare un’occhiata alle condizioni del tuo braccio. Non hai una bella cera».
«Senti un po’ chi parla. Sto bene» gli mentì cercando di nascondergli i brividi che le risalivano lungo la schiena «Il tuo caso clinico batte il mio su tutta la linea. O devo ricordarti che sei morto?»
«Ti ringrazio per la brillante diagnosi. La tua retorica deduttiva mi lascia sempre a bocca aperta, ma le battute mordaci non hanno mai guarito nessuno, quindi ti suggerei di mettere via le spiritosaggini per un po’ e lasciarmi confutare il tuo stato di salute».
«Che ne dici, credi che si sia offeso?» pungolò suo fratello con un gomito.
«È sempre così. Chi dice la verità, perde le amicizie» postillò mentre lucidava il piatto della spada.
Leona corrucciò la fronte «Questo è…davvero saggio» ci rifletté su.
«Infatti non è mia» disse Gab facendo spallucce.
«Dove sono andati Alice e gli altri?» domandò lei per spazzar via il disagio che si era creato.
«Be’…il sangue è…loro…» balbettò lui alla ricerca di una frase che potesse addolcirle la pillola e non tirare in ballo la loro frenetica bramosia di sangue.
«Sono andati via. Non preoccuparti, capisco…» annuì, desolata per averli fatti ripiombare nell’imbarazzo di quelle bizzarre faccende delicate da vampiri. Che buffo. Aveva odiato per così tanto tempo i vampiri che non avrebbe mai creduto di poterli comprendere…eppure era così.
Nel frattempo due protettori inglesi dello squadrone anti-vampiro avevano preso in custodia il sire. L’uomo non smetteva di dibattersi dalla loro presa. L’orlo dei pantaloni era bagnato fradicio per via del ghiaccio che si era sciolto ai sui piedi. Il cappuccio gli era scivolato dalla testa e aveva lasciato in bella mostra le gravi ustioni che campeggiavano sul suo viso pustoloso. Leona notò Fabiano distogliere lo sguardo da suo padre, non prima di aver letto un breve guizzo di rabbia nella sua espressione.
«Come sta Ethan?» chiese Fabiano senza preamboli alla madre del protettore. Il caschetto biondo della donna si scompigliava ad ogni folata di vento, ma manteneva pur sempre una postura regale e uno sguardo severo capace di indurre ad esplorare la punta delle scarpe piuttosto che sostenerlo.
«Se la caverà, ha la mia tempra e non è saggio sottovalutare un Brightstars» rispose la donna abbandonando per un attimo le formalità per regalare un piccolo sorriso al ragazzo che pareva sinceramente interessato alle condizioni di suo figlio « e devo confessarti che quel vampiro…il dottore. Be’ sa il fatto suo. Se non fosse intervenuto tempestivamente, forse per il mio Ethan sarebbe stato troppo tardi. Mi chiedo soltanto come faccia a sopportare l’odore di tutto quel sangue…».
«Secoli di duro allenamento» intervenne con orgoglio Edward.  
«È un sacrilegio!» sbraitò il sire, sbavandosi sulla barba sale e pepe mezza bruciacchiata «Non importa quanto sia bravo a fingersi quello che non è, nemmeno il nobile mestiere di un curatore potrà mai cambiare la sua natura. Che si divertano pure con i loro giochetti ipocriti, ma che lo facciano fuori dalla mia Betelgeuse!».
La sire inglese gli tributò un’occhiataccia che avrebbe fatto tremare l’inferno «Non t’infiammare troppo Tiziano. Non ricordavo di averti accordato il permesso di parlare. Visto la negligenza che hai dimostrato nel gestire le tue responsabilità, per l’avidità che condividevi con i setti saggi e il tuo blasfemo coinvolgimento nell’increscioso caso della sparizione dei protettori sei sollevato con effetto immediato del tuo titolo di Sire fino al giorno del tuo processo».
«No! Non ne hai il diritto! Ti supplico Raley non lasciare che le nostri questioni personali offuschino il tuo giudizio…».
La donna si produsse in un verso stizzito e represse il disgusto per mantenere il decoro che le medaglie commemorative all’onore gli imponevano. «Ti assicuro che questo non ha niente a che fare con noi, qualunque cosa ci sia stata» disse scacciando quel “qualcosa” con un gesto molle della mano «Sollevare me e mio figlio dalla tua ingombrante e inutile esistenza è stato forse il dono più grande che tu mi abbia fatto in tutti questi anni. Lui non ti deve niente.» disse colma di rabbia, senza potergli nascondere i bulbi liquidi dentro i suoi occhi «Mi ripugna anche solo l’idea che il mio Ethan possa condividere i tuoi stessi geni corrotti, ma grazie al cielo la vostra somiglianza si limita soltanto a qualche vago tratto fisionomico». Poi marciò a passi lenti e misurati verso di lui e si fermò a pochi centimetri dal suo naso. A quel punto gli espettorò in faccia. Il sire chiuse gli occhi, umiliato, lasciando che la saliva calda gli gocciolasse fino al mento.
«No, lui non è come te. E per volere dei sacri medjai nemmeno tuo figlio ha seguito le tue orme. Mi sorprende come abbia conservato la sua irreprensibile morale. Ed è proprio al suo giudizio a cui mi appello adesso. Sarà lui a decidere quale pena ti sarà riservata. Questa sarà la sua ricompensa: avere la possibilità di vendicarsi delle sevizie del suo snaturato padre». Tiziano spalancò gli occhi e la paura prese a imbiancargli il viso.
«Non fare quella faccia sorpresa. La medjai mi ha raccontato dei tuoi discutibili metodi educativi…se fosse dipeso da me, ti avrei fatto staccare le palle per poi servirtele al pasto serale, ma non voglio privare il ragazzo di tutto il divertimento. Non temere fenomeno, mi metterò in fila e aspetterò paziente il mio turno».
Leona non si lasciò sfuggire lo scambio di sguardi pietosi e compassionevoli fra Fabiano e suo padre. Ed era certa che se lo avesse supplicato abbastanza…
«Niente punizioni corporali» decretò in fine Fabiano perdendo apparentemente interesse per le sorti di suo padre. La sua pietà avrebbe potuto essere scambiata facilmente per debolezza, circostanza che, una volta raggiunta la maggiore età, non avrebbe favorito una sua possibile candidatura fra i papabili successori per ricoprire la carica di sire, Lei però sapeva che il suo Fabiano era migliore di suo padre e di chiunque altro avesse detenuto il potere in futuro. Lui sarebbe stato sempre lì, ai piedi del carrubo, pronto ad afferrarla qualora avesse messo il piede in fallo. «Ha diritto a un giusto processo come tutti. Sono fortemente convinto che rimettendomi al ragionevole discernimento dei nuovi saggi nominati ad interim, possa comunque ottenere giustizia per me stesso  e per chiunque altro sia stato vittima delle  sue tirannie».
Fabiano fece per voltarsi «Ingrato! Non saresti quello che sei oggi se non fosse per me! Rinnegami quanto vuoi, ma il tuo cuore conosce la verità». Il sire quasi si soffocò, vittima delle sue grasse risate. Quello sprazzo di insana ilarità indusse i pugni del ragazzo a chiudersi come ricci, saturi di terrore. Passarono solo pochi attimi e poi la stretta si allentò.
«Sì, la conosco» confermò continuando a mostragli la schiena «So che dovrò districarmi a lungo per poter finalmente fuggire dal mare di bugie dentro cui mi hai gettato. Ma so che alla fine ce la farò, e sarò un uomo migliore, lotterò per diventare quello che tu non sei mai stato. Questa è una promessa, padre.»
La sorella, che aveva assistito al dibattito in silenzio, gli corse incontro e lo accolse fra le sue braccia.
Leona non era completamente soddisfatta di quel verdetto, ma se lo dovette far bastare. Gli occhi di Fabiano fecero capolino da sopra la spalla di Sara, e Leona s'immaginò che cercasse anche il conforto suo e quello di suo fratello Gabriel.
Gli sorrise e poi tutto accadde troppo in fretta affinché lei riuscisse a delineare una vaga idea di ciò che le stesse accadendo. C’era il dolore, certo, quello non era mai andato via, anzi non faceva che aumentare, ma allora perché tutto a un tratto restare all’in piedi era diventata la sfida più difficile che avesse affrontato?
Un attimo prima era lì a incoraggiare il ragazzo che amava, l’attimo dopo giaceva fra le braccia di Edward. Non poté non notare come il freddo della sua pelle fosse così accogliente, così rinfrancante, avrebbe voluto profondare in quel gelo pungente e rimanere cristallizzata lì per sempre, rannicchiata in posizione fetale contro il suo petto solido e incrollabile come la roccia.
«Che cosa le succede?» esclamò suo fratello.
«Qualcuno mi porti una lettiga pulita!» ordinò Edward. Nonostante il comando provenisse da un vampiro, nessuno ebbe l’ardire di contraddirlo. «Fabiano, aiutami a stenderla, prendila per la gambe…ecco così, bravo» lo incoraggiò Edward poggiandogli una mano fresca sulla fronte.
«Ha la febbre alta» aggiunse dopo pochi istanti, stringendo i denti. Poi urlò stentoreamente il nome di suo padre «Carlisle!».
Percepì solo lo spostamento di un refolo di vento prima di ascoltare l’intervento pacato e professionale del vampiro «Le hai già controllato la frequenza cardiaca?».
«Bradicardia. Sono quarantacinque battiti al minuto, iperidrosi acuta, le pupille sono dilatate, le labbra violacee e secche, difficoltà a deglutire, piressia al di sopra dei cinquanta gradi centigradi…» riassunse cesellando minuziosamente il quadro clinico della ragazza.
«Ricordano i sintomi di un…avvelenamento» intervenne Sara.
«Temo proprio che lei abbia ragione signorina» disse Carlisle «e credo di sapere quale sia la causa…». Carlisle teneva sollevato per il polso il braccio annerito di Leona, ma lei non riusciva più ad avvertire il suo tocco freddo.
«Non sento più niente!» strillò con tutte le sue forze, cercando di divincolarsi dalle presa di Edward che la teneva  inchiodata alla lettiga. Edna le trotterellava attorno abbaiando e ringhiando contro i vampiri che la stavano soccorrendo. Il Golden Retriver sgusciò sotto le loro gambe per andarsi a stendere accanto alla sua padrona. I suoi guati sofferenti erano interrotti solamente quando tirava fuori la lingua per leccarle la faccia.
«Cristo santo, fate qualcosa!» sbottò  Gabriel inginocchiato ai piedi di sua sorella.
«Non è ancora giunta la vostra ora, medjai» pigolò la vocina di una bambina «Conosco la data e l’ora esatta della vostra morte, e posso assicurarvi con certezza che non sarà oggi» predisse con un sorriso spensierato.
«Ma che diam…ma tu sei la strillona di prima? Che cazzo ne sai tu…».
«Gab!» lo richiamò all’ordine la sua gemella «ne parliamo dopo se non ti dispiace, ok? Hilde sa quello che dice. Carlisle  i processi necrotizzanti al braccio sono sfociati nei vasi sanguigni, sta per raggiungere il cuore?» domandò strizzando gli occhi per cacciar via le gocce di sudore freddo.
«No, al momento la cancrena è localizzata dove termina l’iperpigmentazione della pelle all’altezza dell’estensore delle dita» rispose lui flemmatico. Lei e Edward si guardarono prendendo entrambi coscienza di ciò che andava fatto. Leona chiuse gli occhi e prese un profondo respiro «Immagino che sia tutta colpa del destino; è come i cetriolini: te li ritrovi a tradimento quando meno te lo aspetti nel momento in cui hai già dato il primo morso al tuo hamburger grondante di formaggio fuso e ketchup e lo trasforma nel pasto più disgustoso della tua vita».
«Non so di cosa tu stia parlando…» protestò Gab «i cetriolini sono deliziosi».
«Alla peste i cetriolini! Ortaggi infernali, dovrebbero rendere illegale il commercio. Mi occuperò dopo della campagna diffamatoria contro i cetrioli, adesso prestami la tua cinghia così avrò qualcosa da mordere e consegna Symphony a Fabiano». Leona ignorò le perplessità che si affacciarono sul viso di Gabriel e rincarò la dose sbraitandogli contro di darsi una mossa. Al contrario di suo fratello, Fabiano aveva capito tutto. Se ne stava lì impalato di fronte a lei con le unghie conficcate nel palmo così in profondità da incidersi quattro mezze lune sanguinanti. Nei suoi occhi si agitava una tempesta di emozioni. Fra tutte, l’impotenza lo corrodeva come acido.
«Lea, mi dispiace così tanto…avrei dovuto esserci io al tuo posto».
«Non dire sciocchezze. Ci sono già passata, no? Almeno so cosa mi aspetta» lo consolò lei rivolgendogli un sorriso forzato.
«Aspettate. Per quale motivo dovrebbe dispiacergli?» domandò Gab, sospettando della malinconia del suo amico. Fabiano attese l’apparizione del simbolo del fuoco e s’incendiò la mano.
«Amerai lo stesso questa ragazza quando sarà senza un braccio?» si volle assicurare prima di procedere con l’amputazione. Fabiano la tenne un po’ sulle corde, la risposta indugiò volutamente nella sua mente anche se non le era sfuggito il suo sorriso. Strofinò la mano infuocata sul piatto della lama e l’acciaio di Hijir rosseggiò sotto il calore delle fiamme. Non sarebbe stata una amputazione chirurgica ortodossa, ma Symphony vantava  la fama di essere la lama più tagliente dell’ultimo secolo. Con un po’ di fortuna, non sarebbe stato così doloroso, si ripeté lei pur di non convincersi del contrario.
Poi sentì la voce di Fabiano risuonare nella sua testa «Lea. Come faccio a spiegarti, senza scadere nell’ovvio o nel banale, che tu sei la cosa più bella su cui si siano posati i miei occhi? Non esiste nulla, nessuna cicatrice, nessuna amputazione potrà mai contaminare la tua bellezza, persino adesso che il candore della tua pelle sfiora la morte…».
Edward interruppe la loro conversazione privata, schiarendosi la gola. E i vampiri non hanno assolutissimamente bisogno di schiarirsi la gola! Leona non gli riservò un’occhiataccia soltanto perché le tempistiche non giocavano a loro favore. Comunque se la sarebbe legata al dito e avrebbe trovato il momento opportuno per fargliela pagare a quell’assassino di atmosfere.
«Nessuno mi aveva chiamato così prima d’ora…» asserì Edward, evidentemente divertito dal suo nomignolo.
«Oh e questo è nulla! Aspetta di sentire gli altri che ho in serbo per te».
«Non vedo l’ora» disse lui schiacciandole l’occhiolino.
Carlisle distese il braccio per lungo e tenne ferme le due estremità  «Bene figliolo, quando sei pronto».
«Oh, porca vacca…» imprecò suo fratello, quando finalmente giunse alla conclusione a cui tutti erano già arrivati da un pezzo. Meglio tardi che mai.
«Vuoi che sia io a farlo?» le domandò Fabiano e lei si limitò ad annuire.
«D’accordo» disse mettendosi in posizione del boia, calibrando ad occhio il punto d’incrocio fra la spada e la pelle cancrenosa di Leona.
Il protettore trascinò l’arma sopra la sua spalla con fluidità. Ma tentennò prima di calarla su di lei. Leona osservò le sue ciocche umide di sudore, il tremolio convulso delle sue mani e la ruga d’espressione fra le sue sopracciglia, corrucciato come se fosse sul punto di vomitare.
«Fabiano, guardami. So che non avresti mai voluto farmi del male e infatti non lo farai. Tu mi stai salvando la vita, va bene? Concentrati su questo. Qualunque cosa accada, sappi che io ti amo». Lui annuì silenziosamente una seconda volta, ma con più decisione della precedente. Symphony tracciò un arco sopra il protettore e…
«Frena, frena, aspetta un secondo!» gridò suo fratello Gabriel, sollevando le mani in alto.
«E adesso che cosa c’è…?» si lamentò Leona. Gabriel le prese la mano sana fra le sue e le disse «Lascia che prenda il tuo dolore, posso farcela».
«Non se ne parla Gab…»
«Non ricordi più? Un po’ per me, un po’ per te, abbiamo sempre condiviso tutto noi, dalla sacca gestazionale di nostra madre al porridge vomitevole che ci cucinava Carlo tutti i mercoledì…non vedo perché adesso debba essere diverso».
«Certo che lo è!» ribatté lei furiosa.
«Ti prego» la supplicò lui imprimendole un bacio sulle nocche «lasciamelo fare. Hai promesso: fino a che non saremo polvere e ossa. Non puoi infrangere il nostro giuramento, non puoi e basta. Adesso vieni qui e poggia la testa sul mio petto, ti cullerò finché non ti addormenterai. Vuoi che ti canti una canzone…?».
«Pensavo che volessi alleviare le mie pene, non che intendessi esacerbare questa tremenda agonia! No, no. Attireresti tutti gli uccelli saprofagi che circolano nel raggio di un chilometro e io ci tengo alla mia milza».
«Ok, allora…»
«Stai zitto e stringimi».
«Ti voglio bene sorellina». Non glielo aveva mai detto. Il suo cuore si fermò, lui doveva averlo notato per forza.
«Ti voglio bene anche io, Gabriel. Per sempre» le ultime parole furono solo un sussurro. I suoi occhi s’impastarono di oscurità e intrapresero il lungo viaggio verso le tenebre.
Non sentì affatto il morso della lama.
Quel testardo l’aveva ingannata. Doveva averla depredata di tutto il suo dolore, come lei aveva già fatto una volta per lui.
Quello che invece ricordò di quei attimi, fu l’odore salmastro del mare imbrigliato nei riccioli d’ebano di suo fratello, e ancora di più di ogni altra cosa il tenero amore che nutriva per lei.

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Capitolo 62
*** PROLOGO Pt. 1 ***


 Avviso per il lettore: Sì lo so, questa doveva essere la fine. Peccato che la situazione mi sia sfuggita leggermente di mano. Siccome già il capitolo era bello lunghetto di suo e non pubblico dai tempi del diluvio universale, ho deciso di dividere il prologo in tre parti per non appesantirlo. I primi due li pubblicherò di seguito (con i POV di Gabriel e Morgana nella Pt. 1 e i POV di Fabiano e Leona nella Pt.2, la terza parte conclusiva (con il POV di Leona) fra qualche giorno. Vi prego sopportatemi, ma vi capirò se vorrete spedirmi a quel paese. Se invece sarete pazienti e incuriositi, ci rivediamo alla seconda parte del Prologo! Buona Lettura!

Prologo (se ve piacerebbe...)

Gabriel

I raggi intiepiditi del sole infuocavano ancora le colline punteggiate da tendopoli quando Gabriel venne scortato fino alle prigioni. Sebbene scosso dal tintinnio delle chiavi che beccheggiavano al cinturone della guardia, non distolse gli occhi dalle sfumature rosate dei cieli, dove pacifiche e innocue nuvolette veleggiavano sospinte dai venti freschi residuati dalla tempesta. Era uno spettacolo di gran lunga più gradevole da ammirare o comunque lo distraeva quanto basta dalla distruzione disseminata per le viuzze della cittadella. Non osava soffermarsi sui cumuli di macerie, sui cocci marmorei della fontana della piazza andata in pezzi, su tutti i focolari domestici a cui erano stati sottratti i tetti o sulle linee dentellate dei muri, perché sentiva in parte di esserne il responsabile. Il dolore al braccio, un eco addolcito di quello di sua sorella, gli era insopportabile ma non si era pentito nemmeno per un attimo di averlo fatto suo.
La serratura, impigrita da anni di ruggine, protestò con un stridore metallico prima di accoglierlo dentro le  anonime e freddi pareti disadorne che teneva segregate al suo interno. Di fronte a lui si snodò un corridoio di mattoni ingrigiti dall’erosione e cemento mal impastato, il soffitto disegnava un arco la cui volta si appoggiava ad un architrave di legno di faggio.  Il tutto era  reso ancora più tremendamente soffocante dalla totale assenza di porte e finestre. Il tramonto cominciava a sbiadire al di là delle grata, proiettando le ombre affusolate delle sbarre sul pavimento sdruccioloso. Gabriel rabbrividì al pensiero che un tempo quell’antica prigione fosse stata la dimora dei più spietati traditori di Betelgeuse e che non molti giorni addietro sua sorella avesse trascorso la notte lì senza nemmeno una coperta con cui difendersi dal gelo. Non che Leona avesse mai avuto a che fare con l’ipotermia, questo è chiaro, ma doveva essere stato angosciante per lei rintanarsi nell’angolo più angusto della sua gattabuia con la consapevolezza di essere giustiziata il giorno seguente. A pensarci bene, nemmeno lui e Fabiano quella notte avevano dormito un granché. Si sarebbe sorpreso del contrario tenuto conto delle manette chiuse attorno ai loro polsi e dei dieci protettori in cotta di maglia cementati davanti l’uscita. Una precauzione avveduta dal momento che avevano speculato tutto il pomeriggio su come avrebbero potuto farla evadere.
 Si riscosse dai ricordi e seguì il percorso spiralato delle scale che lo avrebbero condotto in cima alla torre, tenendosi a pochi scalini dal suo accompagnatore silenzioso e guardingo. Gli unticci capelli castani del giovane cadetto gli si arricciavano sull’elmetto, la sua andatura era incerta e claudicante per via delle ginocchia intorpidite dal freddo e ostentava una presa salda sulla torcia di fiamme crepitanti i cui bagliori gli permettevano di procedere spedito, senza inciampi, verso il cuore della prigione.
Il cadetto si schiarì la voce con un colpo di tosse e il suono rimbalzò sulle pareti pregne di muffa e polvere dimenticata da secoli. Armeggiò con il mazzo di chiavi prima di consegnargli quella della cella in fondo al pianerottolo. Gabriel si pentì immediatamente di aver inalato a fondo quell’aria sozza di urina e marciume, ma si costrinse a dire «Aspettami fuori. Da qui ci penso io».
Il cadetto annuì con tale zelo da fargli temere che la testa gli sarebbe rotolata via dalle spalle «Sì mio medjai» sputò con tono ardente e un pugno chiuso sul petto. Non credendo fosse abbastanza, il ragazzo si produsse in un profondo inchino. La repentinità del gesto lo fece sobbalzare «Non c’è bisogno di…ah, non importa» disse grattandosi un sopracciglio con la speranza di nascondere l’imbarazzo. Tutto quel servilismo  inappropriato lo metteva a disagio e allo stesso tempo gli dava sui nervi. Non aveva dimenticato che quel protettore dal mento affilato e dagli occhi acquosi intrisi di qualcosa che poteva essere scambiato per rispetto, ma che invece presumeva trattarsi di terrore, si era unito al nutrito gruppo che li aveva rinnegati con foga. Leona era famosa per portare rancore – la sua inesorabile vendetta poteva giungere quando meno te lo aspettavi -,  ma nemmeno Gabriel poteva sapere quando si sarebbe rimarginata quella ferita. Avanzò con l’amarezza di quei pensieri in bocca e fece scorrere lo sguardo da una cella all’altra alla ricerca dell’unico sfortunato detenuto che l’occupava. Gli ci vollero due minuti buoni prima di individuarlo nella semioscurità in cui sguazzava apaticamente. Soltanto i piedi nudi su cui si era raccolto lo sporco oltrepassavano il confine della bolla di ombre che l’aveva fagocitato. Da quanto tempo soggiornava lì? Non più di due settimane si rese conto il medjai. Eppure i fili metallizzati fra i sui radi capelli scuri si erano infoltiti, il baffo non più curato come una volta gli si afflosciava ai lati della labbra livide e siccitose. La detenzione e l’inedia avevano fatto miracoli sul suo panciotto un tempo florido e tondeggiante, la camicia lurida e spiegazzata, ormai fuori misura, gli aleggiava come una fantasma attorno alla vita. Accanto a lui, una ciottola di ottone ossidato non era ancora stata svuotata del tutto degli avanzi e le mosche ronzavano estasiate attorno a quel nauseante simposio di carne e verdure putride. Da lì non riusciva a contargli le rughe, eppure il tempo pareva aver preteso dal poveretto un conto fin troppo salato dalla sua pelle giallognola e floscia. I denti di Gabriel si segarono fra loro fino all’abrasione dello smalto. Lo stato in cui si presentava Bernardo non era che l’ennesimo promemoria di quanto i protettori avessero disprezzato lui, sua sorella e chiunque li avesse appoggiati. Leona non voleva perpetrare le ostilità che si erano venute a creare con lo scisma, ma se fosse dipeso da Gabriel avrebbe contribuito massicciamente all’inasprimento di quei contenziosi, li avrebbe fomentati lui stesso e non ci sarebbe stato spazio per la pietà. Nonostante quelle considerazioni rancorose, si convinse a sorridere e addossò il  peso sui gomiti incuneati fra le sbarre. Fece roteare il mazzo di chiavi attorno al dito con la speranza che lo scampanellio destasse  il prigioniero dal suo intorpidimento comatoso.
«Vedo che ti stai godendo il soggiorno nella tua suite a cinque stelle, vecchio mio». Il prigioniero riemerse dal regno degli incubi con un suono raspante, gli occhi iniettati di sangue si spalancarono nell’oscurità e poi si socchiusero per la fatica. Dovette strisciare lungo il muro per sorreggersi di nuovo in piedi e rimettere in moto i muscoli atrofizzati, aggrappandosi con le sudicie unghia annerite alle scanalature scabrose delle pareti dove un “traditore” era stato verniciato con sangue rappreso. Presto, si promise, avrebbe fatto “quattro chiacchere” con il responsabile.
«Gabriel, sei tu? Oh, grazie agli dei!» strepitò precipitandosi verso le sbarre. Lo stridore tintinnante che seguì non promise nulla di buono. Entrambi abbassarono lo sguardo sulla griglia di scolo e Gabriel emise un grugnito indignato. Il mazzo di chiavi era precipitato fra le grate, tuffandosi in una pozza di urina rancida che non veniva scaricata da giorni.  
«E a quanto pare ci resterai ancora a lungo. Ti sei appena giocato il tuo unico biglietto d’uscita» sentenziò infine il ragazzo passandosi una mano fra i capelli. Bernardo imprecò, tentando invano di infilare le dita grassocce fra gli spazi vuoti della griglia. Ottenne come unico risultato dei salsicciotti gonfi e violacei. Imprecò più forte di prima.
«Vacci piano Bernardo, anche i muri hanno le orecchie. Non vorrai farli arrossire?».
«Dici sul serio ragazzo? Hai una bella faccia tosta» lo rimproverò lui inarcando un sopracciglio sale e pepe.  Desistette subito, si accasciò con la schiena premuta contro la cancellata e scoppiò a ridere.
«Abbiamo vinto, non è così?».
Gab incrociò le braccia al petto con un sbuffo «Avevi dubbi? Ritienimi offeso».
«No, mio medjai, no. Neanche per un secondo. E dimmi! Come è stato? Ah, quanto avrei voluto esserci, avrei venduto persino mia madre per poter combattere di nuovo al vostro fianco!».
Il dono della sintesi non rientrava fra i pregi di Gabriel. Anche se separati da sbarre di metallo, il racconto fluì tutto d’un fiato dalle sue labbra senza tralasciare nessun particolare o sensazione. Gli parlò dell’esodo dei protettori italiani, delle magnifiche mura di ghiaccio erette da lui sul letto del Coda di boa, accentuando con particolare enfasi su quanto fossero maestose, della improbabile alleanza fra le sidhe e i Drakulia, degli eventi salienti di quella battaglia sanguinosa, degli alleati inglesi venuti in loro soccorso, dei ciondoli del sole e della luna, della guarigione degli abomini e del sacrificio di Leona, dello svernamento dell’Antico e dell’immolazione dei cento, fino ad arrivare al risveglio del potere dei medjai e la condivisione del potere elementale con l’intero esercito di protettori tramite l’utilizzo delle reliquie perdute, il tutto condito da toni gravi venati di solennità, quasi come se si fosse limitato ad esser il cronista di quella storia e non che lui ne avesse fatto parte integrante. Bernardo, affamato anche del più insignificante dettaglio, lo tempestò di domande entusiastiche osservandolo con lo stupore incontaminato e l’invidia genuina di un bambino. Quando gli chiese di mostrargli il para-braccio, Gab si rabbuiò. Quella era decisamente la parte della storia che gli piaceva di meno. Il nuovo consiglio aveva deciso di sequestrare momentaneamente il reliquiario e tenerlo sotto stretta sorveglianza, come se potesse darsela a gambe e fuggire dal campo, dritto fra le braccia dei loro nemici. In qualche modo, vedendosi negata la fiducia, quella privazione lo aveva sconfortato più di quanto avesse creduto possibile. In realtà non temevano affatto che qualcuno volesse rubare le reliquie, piuttosto l’intento era quello di tenerle lontane dai legittimi proprietari. Indossandole, lui e sua sorella erano praticamente invincibili, i protettori invece potevano usufruire della connessione solo per loro volontà.  Era ovvio che una tale portata di potere e controllo risultasse piuttosto scomoda agli occhi di chi invece aveva tutte le intenzioni di sottometterli.
Leona continuava a sostenere che stesse esagerando, in fondo erano stati reintegrati del titolo di protettori all’unanimità. Dal canto suo invece, Gab voleva solo sputare in faccia a quegli ingrati e non ci vedeva nulla di male. Detestava che sua sorella insistesse sul fatto che il consiglio sapesse ciò che faceva quando era evidente che le loro disposizioni fossero opinabili. Gab non gli avrebbe mai dato troppo credito; il consiglio gli avrebbe sorriso fino a quando sarebbero stati armi ubbidienti e servizievoli, se avessero anche solo osato innalzare di poco la testa rivendicandone il possesso, non era certo che gli avessero riservato un trattamento amichevole.  
La nota positiva di tutta quella matassa era stata la fine delle ostilità fra i campi di Firenze e Roma. Era surreale vederli collaborare nella ricostruzione della cittadella. Chissà quanto sarebbe durato quell’idillio, si chiese il protettore. Quanto tempo avrebbero impiegato prima di ricordarsi dell’odio immotivato che li aveva divisi?
Bernardo pareva sinceramente deluso da quel risvolto. Si vedeva da un miglio che non aspettava altro di offrirsi come cavia dell’esperimento della connessione fin da quando aveva nominato le reliquie. Gab si fece i conti in tasca e non poteva negare di essere anche lui curioso di scoprire quale sfaccettatura degli elementi si sarebbe manifestata nel buon vecchio commissario. Alla fin fine si trattava di un solo protettore ed aveva abbastanza familiarità con lui per condividere l’Akasha…con Morgana aveva funzionato, anche se con lei era tutt’altra storia.
«Ehi, che ne diresti di una dimostrazione?» si offrì lui.
Gli occhi di Bernardo si accesero di eccitazione «Pensavo non me lo avresti mai chiesto». E così, come accadde quella volta, qualcosa dentro di lui si allungò estendendosi al di fuori del suo corpo. Fu più facile di quello che aveva preventivato. La cella s’illuminò alla luce del simbolo che avvampò nella fronte rugosa del protettore. Bernardo se la tastò sorridendo come un ebete. Non riconobbe il simbolo purtroppo, era la prima volta che incappava in quelle linee severe e geometriche. Sapeva che avrebbe dovuto passare più tempo sui libri, ma perché sottoporsi a quella tortura quando quell’enciclopedia vivente di sua sorella poteva fare il lavoro per entrambi?
«Bene. Adesso prova ad accedere al potere che risiede nel tuo mana» gli suggerì servendosi della voce del pensiero. Inutile sottolineare che, udendolo nella sua mente, Bernardo avesse preso a saltellare giocosamente per tutta la cella. Aveva sottovalutato il  suo incontenibile fanatismo, sperò che il cuore del poveretto non si affaticasse troppo. Ma l’eccitazione si spense in fretta lasciando il posto a un broncio inconsolabile. I minuti passavano e non succedeva assolutamente nulla.
«Perché non funziona?» piagnucolò.
«Funziona eccome, e ti assicuro che  la cosa non dipende da me. Forse non sei abbastanza motivato o forse ti è toccato il potere più inutile della storia. Non mi sorprenderebbe più di tanto» disse Gab scrollando innocentemente le spalle.
Bernardo aggrottò le sopracciglia e si adirò «Attento a come parli ragazzo!» disse puntandogli un dito contro.
«Ehm, Bernardo…» cominciò a dire Gab. «No, no, no signorino è troppo tardi per le scuse. È tempo che qualcuno metta in riga quella tua inguaribile insolenza che…».
«No, è che…» ritentò il medjai.
«Non interrompermi. Sono pur sempre un rispettabile membro che sta a capo delle squadre dei cacciatori! Ed esigo il rispetto che merito persino quando si tratta un marmocchio di medjai in piena tempesta ormonale! Il tuo potere non ti dà diritto di…».
«Il tuo braccio sta passando attraverso il metallo!» urlò Gab per sovrastare il sermone dell’uomo. Bernardo calò con esasperante lentezza gli occhietti furibondi sul tratto che s’interrompeva all’altezza del gomito, proseguendo al di là della lastra di ferro. L’avambraccio e il ditone accusatorio che stava mettendo in riga il medjai gesticolavano nervosamente come se fossero un prolungamento del metallo a cui era saldato. Bernardo sbatté le ciglia un paio di volte registrando a fatica quell’anomalia e gli si piegarono le ginocchia. Gab imprecò silenziosamente mentre si occupava del mancamento dell’omone, svenutogli fra le braccia attraversando le sbarre quasi come se fossero fatte di aria inconsistente.  Lo fece stendere sul pavimento con un tonfo – quell’uomo pesava ancora una tonnellata! – gli si mise a cavalcioni e cominciò a tirargli cerimoniosamente ceffoni sulle guance per farlo riavere. Gli scarsi risultati ottenuti dagli schiaffi lo indussero a creare un globo d’acqua sul palmo della mano e a spruzzarglielo in faccia. Bernardo annaspò e tossì all’interno del gomito.
«A quanto sembra le chiavi non serviranno più» commentò aiutandolo a rimettersi in piedi e aggiornandolo su cosa era appena successo.
Bernardo lo osservò come se fosse un miracolo vivente «Mio Dio…» esclamò estasiato.
«No, gradisco il paragone, ma hai sbagliato persona. Ritenta sarai più fortunato». Ma lui non prestava più ascolto. «Se solo Mark fosse qui, sarebbe così tronfio di orgoglio che…». L’uomo singhiozzò e pianse amaramente. Gabriel trattenne il nodo in gola. Mancava tantissimo anche a lui suo burbero zio. Ma si ripromise di non piangere quando avrebbe raggiunto l’età dell’uomo, non se avesse avuto quell’aspetto patetico e depresso.
«Lo conoscevo da vent’anni. Ne abbiamo viste di cotte e di crude insieme…Sai, è un po’ come zoppicare, non è facile accettare l’idea di non poterti più reggere a ciò che avevi dato per scontato che ci sarebbe sempre stato. Lui vi voleva bene. Vi considerava come i figli che non aveva mai avuto, forse a volte era dotato di un campanilismo smodato, affezionatissimo alle sue dannate regole, eppure per voi ha fatto un’eccezione, forse l’unica della sua vita. Prima di prelevarvi da Siracusa, non aveva nemmeno mai mentito al Sire, nonostante sia stato proprio lui a proporre il suo declassamento e successivamente a prendere il suo posto, il credo dei protettori sarebbe venuto sempre prima di qualsiasi altra cosa per lui. Non con voi. È stato così fin da quanto ti ha tirato fuori dalle macerie dell’incendio di casa vostra. Eravate così piccoli voi…»
 A quel punto il pavimento smise di essere il centro gravitazionale che lo teneva attaccato alla terra.
«Che cosa hai detto?» lo interruppe Gab. Doveva essere stato un lapsus, ma esigeva una conferma da parte sua. Il rossore defluì dalle guance di Bernardo e si zittì. Strinse i pugni e gli diede le spalle.
«Sai cosa mi ci vorrebbe adesso? Una bella vasca piena di bollicine profumate! Non vedo l’ora di raschiarmi di dosso…».
«Bernardo!».
«Avevo detto a Mark che non sarebbe potuta durare a lungo. Continuava a rimandare il momento, sapendo perfettamente che non avrebbe mai avuto il coraggio. Non sappiamo come sia potuto accadere, abbiamo supposto l’effetto osmosi…ma non ne eravamo sicuri. Lei era così convinta di ciò che aveva visto…»
Le dita del medjai si mossero in preda a un tic nervoso «Di cosa stai parlando? Forse volevi dire quando hanno tirato fuori Leona dalle macerie di casa nostra» lo corresse speranzoso. Cos’era quel fastidioso dolore vicino allo sterno? Perché gli pizzicava la gola come se avesse ingoiato la spina di un pesce?
«No, Gabriel. Intendevo dire proprio ciò che ho detto. Il giorno dell’incendio Leona era andata in farmacia con Camilla per procurarti le medicine. Tu eri allettato con la febbre, o almeno questo è quello che ci ha dichiarato la balia». Gab si sorresse alla colonna e portò le mani alle tempie per contenere l’imminente esplosione a cui stava andando incontro il suo cervello.
«Ma che è assurdità è mai questa?» mormorò fissando le catene che dondolavano alla parete «Me ne ricorderei se fosse così no? Giusto Bernardo? Giusto?». Il cuore del medjai era in pieno galoppo e non accennava a rallentare. A quel ritmo gli avrebbe fracassato la gabbia toracica senza interrompere la sua corsa, fuggendo lontano dal buco che gli avrebbe lasciato in mezzo al petto.
«Ragazzo, mi dispiace tanto ma è tempo che le cose tornino al loro posto. È tempo che tu sappia come sono andate veramente le cose…».
«No, esiste solo una versione della storia, solo una…» si ripeté.
«Esatto» confermò con un cenno Bernardo «E adesso la conoscerai…».
*********

Morgana

«È giunto il momento»
«Di già?»
«Non rendere le cose più difficili. Finirò in un batter d’occhio»
«Non sei convincente se lo dici con quegli oggetti di tortura medioevale in mano»
«Per la barba di Mayak, sono solo delle forcine, Leona. Giuro che le userò per acconciarti  i capelli e non per cavartici gli occhi».
«Croce sul petto?»
«Se ti fa stare meglio…» disse Morgana servendosi del pollice per far incontrare due linee immaginarie all’altezza del cuore. Avevano dormito insieme quella notte. Non le andava di lasciare sola l’amica dopo quello che aveva dovuto affrontare, anche se a causa del suo sonno agitato, quella mattina era stata costretta a mascherare, sotto tonnellate di fard, i lividi bluastri a forma di piede impressi gentilmente da una Leona particolarmente vivace durante la fase rem. Convincerla a indossare l’abito cerimoniale era stato già abbastanza arduo, e ancor di più buttarla giù dal letto, ma per sua sfortuna aveva appena iniziato coi suoi capricci. Agghindata elegantemente di raso nero e georgette, si era appollaiata sul cornicione di marmo della finestra, rannicchiandosi contro l’intelaiatura verniciata con la stessa tonalità di verde del copriletto e della tappezzeria. Le caviglie nude facevano capolino da sotto il tessuto vellutato della gonna, scivolando come ombre notturne sulla sua pelle di alabastro. Aveva derubato il sofà di uno dei suoi cuscini rossi. Se lo stringeva al petto facendo sprofondare metà del viso fra le pieghe dell’imbottitura. I suoi capelli presentavano ancora  le tracce di quel riposo turbolento popolato da incubi, eppure anche con quel vespaio di nodi in testa restava comunque schifosamente bella. Accetto che sia la regina degli elementi, ma madre Natura non avrebbe potuto essere meno imparziale con lei, stupida raccomandata!, pensò Morgana, avvelenata da un pizzico di sana invidia. Ma poi il suo sguardo scivolò sul moncherino d’acciaio che stropicciava la fodera del cuscino come se vi ci fosse aggrappata, e si ricordò del perché non le dispiacesse più di tanto riservarle quelle coccole mattutine. Si sentì subito meschina per aver provato tanta gelosia. Anche sforzandosi, era impossibile non notarlo dal momento che la luce del sole s’infrangeva sul metallo hijiriano riverberando in un ventaglio prismatico di colori diversi a secondo dell’angolazione. C’era della bellezza anche in quello, forse però non era così semplice coglierla. Per Leona  quella mano metallica non era altro che un surrogato ancora del tutto sconosciuto, ma faceva progressi. Già nel giro di un paio di giorni aveva imparato a muovere le dita.  Era chiaro che le mancassero le sue kopis, ma al momento non era ancora in grado di maneggiarle entrambe. Era un dolore che poteva comprendere. Arco e frecce erano una parte del suo essere senza i quali perdeva la sua identità, con loro era la versione migliore di se stessa, rinunciarci avrebbe significato…No, per Leona non sarebbe stato così! E se non ci credeva, lo avrebbe fatto lei abbastanza per entrambe.
Leona sospirò nascondendo l’amarezza dietro le sue palpebre chiuse «Prendimi i guanti, per favore».
«Non è così male, sai? Ti dona un’aria da dura. E poi non ti lamentavi che gli uomini ti guardassero solo tette? Be’ problema risolto».
Da come roteò gli occhi, la battuta non doveva esserle piaciuta «Dammeli e basta, Morgana». Morgana si morse l’interno della guancia,  sopprimendo le proteste che le si dimenavano in gola, ma finì per accontentarla con riluttanza. Odiava quei guanti.
«Sono di ottima fattura» commentò lisciandone il cuoio morbido e il rivestimento interno in lana «la tua amichetta succhia-sangue deve essersi impegnata molto per confezionarteli. Avrà un portafoglio bello gonfio». Leona la trafisse con un’occhiataccia, ma a dispetto di quella severità le si rivolse con compassionevole dolcezza.
«Si chiama Alice, prova a ripetere con me: A-l-i-c-e. E sono sicura che se non fossi così impegnata ad essere gelosa di lei e la conoscessi meglio, impareresti a pronunciare il suo nome senza quell’espressione contorta da colica renale» disse strappandole i guanti di mano. Il cuscino che teneva in grembo era tornato al suo posto.
«Io non sono gelosa di quella lì» negò Morgana torturandosi le punte della treccia rosso fuoco «Ti avrà anche regalato dei guanti, ma al contrario di lei non credo che tu abbia qualcosa da nascondere o di cui vergognarti. Non di certo agli occhi degli ex abomini. Quello è il simbolo della loro salvezza e…»
«Ti preferivo quando eri timida e taciturna…»
«Questa guerra ci ha cambiati in un modo o nell’altro. Non solo fisicamente»
«Senti, apprezzo ciò che stai facendo per me e sono sicura che tu abbia ragione ma…ho bisogno di tempo. Va bene?». Detto questo, Leona raggiunse lo sgabello che le aveva preparato e ci si accomodò  spifferando delle lamentele a bassa voce. Le sue spalle si afflosciarono in segno di resa. Era il suo tacito invito a proseguire nella preparazione. Morgana si appostò dietro la sua schiena armata di spazzola e tanta pazienza, stringendo le tanto detestate forcine fra le labbra. Le setole fluirono in mezzo a quel labirinto di nodi, guadagnando facilmente la via d’uscita al termine di quelle morbide spirali d’ebano, arricciandosi ad ogni nuova spazzolata. La fragranza di rose che si sprigionava dai suoi capelli era così intensa a volte da farle perdere la concentrazione, ma non al punto di rovinare il suo capolavoro. Soddisfatta della corona di trecce che le cingeva il capo, fissò l’acconciatura infilando le forcine nei punti strategici dell’intreccio e, consegnandole il suo specchietto, attese di essere ricompensata con elogi altisonanti per il suo duro lavoro. Le aveva poggiato involontariamente un mano sulla spalla, così quando il moncherino metallico di Leona le sfiorò la pelle, raggelò per la sorpresa. Nel riflesso dello specchietto scorse chiaramente il forte disgusto che provò per se stessa, ma Morgana non permise che si facesse un’opinione sbagliata della sua reazione istintiva e riafferrò al volo la mano metallizzata che si stava rintanando fra le pieghe del vestito come un animaletto spaventato. Dita di carne s’intrecciarono a dita di metallo, saldandosi come una cosa sola. Era importante che Leona non provasse l’alienazione della diversità e tutte le sue avvilenti implicazioni. Immaginava quanto fosse forte in lei il desiderio di isolarsi e sapeva anche quanto fosse fondamentale che prima di farsi accettare dagli altri, avrebbe dovuto imparare ad amare sé stessa nella sua nuova forma. Era escluso che le avesse lasciato affrontare questo percorso per conto suo.
 «Grazie» bisbigliò Leona.
«Per cosa?»
Fu una lunga ed estenuante pausa di riflessione, ma alla fine le confessò: «Per non arrenderti mai con me»
«Non mi rendi la vita facile, ma sono un osso duro con un’insana passione per i casi impossibili»
«Lo so, ed è anche per questo che sei insostituibile» le disse Leona, concedendole un abbraccio sincero che per poco non le stuzzicò un torrente di lacrime.
«Mi sento uno schifo, Leona. Avrei dovuto esserci» mormorò sconfitta fra i suoi capelli.
«Il tuo posto era altrove con i feriti. Il tuo aiuto è stato prezioso. L’amputazione di un arto non è così spettacolare come ci si aspetterebbe. È avvenuto tutto così in fretta…e grazie a Gab non ho provato altro che un leggero fastidio. E poi tu ci sei stata…il giorno della sua rinascita, credo sia altrettanto importante o almeno lo è stato per me». In effetti era stato di gran lunga più interessante e suggestivo. Il caldo afoso della fucina. L’odore rugginoso del ferro. L’immersione del braccio nel calderone bollente. Le bolle che scoppiettavano in quella patina argentata. Il rapido raffreddamento e la lenta solidificazione dell’arto sotto forma di una protuberanza lucente e informe. Le dita che sbucavano fuori dal carpo non ancora del tutto abbozzato, allungandosi come piccoli bruchi metallizzati. La scelta dell’acciaio d’Hijir non era stata casuale. L’intento era quello di portare sempre con sé il marchio distintivo dei protettori, e quale miglior modo se non quello d’indossare sulla propria carne l’acciaio più formidabile dell’antica capitale?  Il giorno che avrebbe acquistato padronanza assoluta di quell’arma, sarebbe stata capace di spezzare il collo di un vampiro a mani nude. Aveva trasformato una sua debolezza, in un punto di forza. Peccato che lei non sembrava pensarla esattamente in quel modo.
«Ehi, se continui a guardarlo così rischi di fonderlo col tuo sguardo laser»
«Credo di essere sprovvista di quella capacità. E poi è ridicolo, mi si fonderebbero i bulbi oculari e…»
«Lea, rilassati, stavo solo scherzando».
Affondò i denti nel labbro, proprio come faceva il gemello quando era perso fra i suoi pensieri, con l’unica differenza che quel vezzo in Gab le faceva andare in tilt il cervello.
«È solo che ho paura. Ho paura di essere uguale a lei…».
Quell’affermazione la confuse «Lei chi?».
«Non è niente, lascia perdere i miei vaneggiamenti mattutini» disse massaggiandosi distrattamente la nuca, fino a che non si accorse che Morgana la stava ancora fissando con ansia. Scacciò via il broncio e le mostrò un sorriso, che Morgana sapeva di per certo essere forzato.
«Sai, credo di aver deciso che cosa fare con la proposta di Carlisle. Ho davvero bisogno di prendermi una pausa da tutto questo e quale migliore occasione se non una bella gita in Egitto!» le annunciò afferrandola con mani guantate. Il cuoio nuovo scricchiolò sotto la sua presa ferrea. «Lui ed Esme mi porteranno fino al tempio di Amun ed intercederanno per me affinché io possa essere addestrata da Benjamin! Non posso credere che incontrerò il figlio della medjai Gassan e di poter affinare il potere elementale con lui».
«Il nuovo consiglio non ti permetterà di andarti ad allenare sotto l’ala di un congrega di vampiri, Leona. Andiamo! Amun? Seriamente? Hai bisogno che ti faccia un ripasso di storia? È stato l’acerrimo nemico della tua antenata medjai per più di un secolo…ha vampirizzato il suo stesso figlio perché sapeva di aver ereditato il potere della madre, quale insano meccanismo del tuo cervello arrugginito ti spinge a pensare che sia una buona idea? Tu li odiavi, li odiavi tutti i vampiri, e adesso ci vuoi trascorrere le vacanze insieme! E poi credi che si esporrà così facilmente soltanto per la richiesta di un amico? Per quanto Carlisle possa essere persuasivo, c’è un motivo se la congrega di Amun è diventata leggenda e il campo di Orione non è mai riuscito a catturarli. Non ti svelerà mai la posizione del suo covo» disse Morgana terminando tutta l’aria nei polmoni a sua disposizione.
«Gli allenamenti avverranno in campo neutrale, ovviamente. Non mi aspetto che sia così stupido da darmi le coordinate di casa sua».
«Leona, non so come lo interpreti tu, ma al mio paese questo si chiama tradimento!» le cinse le spalle «Tu li uccidi i vampiri, ricordi? E sei anche piuttosto brava a farlo, con le tue capacità potresti avere ogni cosa! Non capisco perché vuoi rovinarti la carriera soltanto perché sei ossessionata dal voler diventare sempre più forte!».
«Credi davvero che sia finito tutto qui?» le domandò lei a braccia conserte e con un sopracciglio arcuato «Questa battaglia è stata soltanto la punta dell’iceberg, Morg, non riesci a capire? I Cavalieri della mezzanotte non hanno affatto concluso con noi! Hanno appena iniziato a scalfire la superficie e non si fermeranno finché non avranno ciò che vogliono: mio fratello! E alla peste se gli permetterò anche solo di respirarci sopra. Quindi scusa se non voglio farmi cogliere impreparata quando torneranno a prenderci a calci in culo».
«Va bene, ok, fa un po’ come vuoi, ma come la mettiamo con Gab? Lo sai che preferirebbe infilzarsi da solo piuttosto che prendere ordini da un vampiro millenario! Potrai anche esserti rammollita con la loro razza, ma non mettere alla prova la sua pazienza. Si sta già sacrificando a sufficienza».
Leona raccolse la mantellina abbandonata sul divano e la indossò con indolente apatia «E chi ha mai detto che Gab verrà con me? Figurati, non mi sono nemmeno degnata di proporglielo, anche perché ho il vago sospetto che mi stia evitando…».
«Forse ha annusato puzza di complotto…» suggerì Morgana acidamente.
Lei scoppiò a ridere «Non essere ridicola! Lo stai sopravvalutando, non metterebbe mai sotto sforzo quell’unico criceto accidioso che si ritrova al posto della materia grigia. Ah, l’amore! Affetta i prosciutti e te li applica direttamente sugli occhi. Sai forse quella ad avere un problema in realtà sei tu. Non capirò mai cosa ci trovi in mio fratello, bleah! Non merita affatto una come te, perciò se dovesse fare qualcosa di sconveniente, e scommetto che avverrà molto presto, non esitare a riferirmelo…».
Il calore, come sempre, le pizzicò le guance colorandogliele di un rosso acceso « Ma io…lui…» balbettò concentrandosi sulle fughe nere nel pavimento.
«Sì, sì certo come no…» la zittì lei mentre si incipriava il naso con lo specchietto sollevato «e poi credevi sul serio che quella valigia rosa fosse per lui?».
«Non è la tua?»
Leona sgranò gli occhi su di lei senza nasconderle la delusione della sua deduzione «Perché credi dorma nella tua stanza o ti chieda di prestarmi i tuoi vestiti? Alice si è offerta di rifarmi l’intero guardaroba, sembrava così su di giri che non me la sono sentita di contraddirla. Certo, ha blaterato qualcosa di inquietante sull’essere la sua bambolina…anche se suonava più come cavia». Scrollò la testa e con essa anche quel pensiero «Comunque, tutti i miei averi sono stati dati in pasto alle fiamme o finiti nella mani della razziatrici del dormitorio, dopo essere stata espugnata dalla mia stessa stanza. Sai com’è, essere espulsi dal campo ha dato diritto di mettere le mani sulla mia proprietà privata e mi auguro proprio per loro che riescano a rintracciare tutti i miei libri, o qualcuno sarà costretto a soggiornare in infermeria a lunga degenza».
«Spero che tu non abbia in mente un’altra scazzottata come quella dell’ultima volta…aspetta un attimo» s’interruppe facendo oscillare lo sguardo dall’enorme bagaglio rosa confetto all’amica che aveva appena terminato di ammirarsi allo specchio e adesso la guardava con un ghigno sornione. Poi, finalmente, capì «Quella è per me? Tu vuoi che venga con te in Egitto?»
«Din, din, din! Un punto per Morgana!» esultò Leona. Morgana non sapeva letteralmente cosa dire, eppure era in grado di parlare correttamente più di tre lingue, escludendo l’innato dono di conoscere l’hijiriano. Le si accese una scarica di adrenalina nelle vene e il cuore prese a trotterellare a singhiozzi. Ricordò il suo bisogno di evadere da quelle mura, di fuggire dalle responsabilità del cognome che portava, da quel peso ingombrante e asfissiante che avrebbe scambiato volentieri con quello di uno zaino sulla spalla ricco di provviste e di speranze per l’ignoto. Suo padre se n’era andato. E anche se quella verità pareva demolirle la cassa toracica, lui non era lì per dirle cosa fare. Non era rimasto nessuno che potesse offuscare la voce del suo cuore, nessun rumore esterno che potesse distorcere il suo messaggio.
«Te lo avevo promesso. Eravamo solo delle bambine, ma non sminuisco mai il valore di un giuramento. E non c’è davvero nessun’altra persona con cui vorrei intraprendere questo viaggio. Tu potrai soggiornare al campo Orione senza compromettere la tua posizione, mentre io frequenterò spesso il tempio di Amun. Lo so, lo so, quel rosa può essere un po’ eccessivo, ma non è così male. Ha il suo fascino».
«Non è per questo…è che pensavo che, insomma, …io non fossi esattamente la tua prima scelta» disse Morgana ritrovando il sapore rassicurante dei suoi capelli fra i denti.
«Sapevo fin dall’inizio chi avrei voluto portare con me, non ho mai avuto dubbi su questo punto. Io e Fabiano…è complicato. Abbiamo bisogno di stare separati per un po’, ci farà bene, sì, gli servirà del tempo per elaborare quello che sarà del suo futuro. Dopo la cerimonia funebre, il consiglio si riunirà per emettere la condanna di suo padre, e finalmente lui sarà libero e voglio che scelga con lucidità cosa fare di questa conquista. Deve imparare prima di tutto ad ascoltare se stesso, la voce che ha sempre represso e non voglio in alcun modo influenzare le sue scelte. Per una volta dovranno essere solo ed esclusivamente sue».
«Fabiano è in gamba, riuscirà a superare questo momento. E Sara non lo lascerà solo» la rassicurò Morgana, conoscendo perfettamente quanto le costasse stare lontana da lui.
«Bella acconciatura, ma non credi che manchi qualcosa?». Le due sobbalzarono come due molle all’interno di una scatola. Sara, invece, era l’immagine del relax. Appoggiata allo stipite della porta, le osservava pigramente con i suoi grandi occhi azzurri, rosicchiando il torsolo di una mela. Poi, finendo di masticare il frutto succoso fra i denti, abbandonò gli avanzi sul comò di Morgana e si strofinò i residui sulla manica della giubba.
«Parli del diavolo…» disse Morgana posandosi una mano sul petto per impedire la fuga del suo cuore.
Leona, al contrario, reagì con studiata compostezza, ma notò il suo irrigidimento «Dannazione Sara, uno di questi giorni dovrai insegnarmi i tuoi trucchetti furtivi».
Sara fece schioccare la lingua «Non è colpa mia se siete straordinariamente distratte».
«Già…ehi come vanno i lividi? Spero non siano troppo dolorosi, la prossima volta giuro che ci andrò più piano con te» la provocò Leona facendo qualche passo verso di lei e Sara rispose all’avanzata. La sua amica era qualche spanna più bassa dell’ex abominio, sebbene la sua posa fiera fosse altrettanto arrogante da uguagliarla.
«Se ci sarà una prossima volta, non sarò certo io dovermi leccare le ferite. Abbassa la cresta medjai, il fatto che il mio fratellino sbavi per te, non ti garantisce di prenderti certe libertà» disse Sara proprio mentre veniva affiancata da due delle sue repliche.
«Hai chiamato i rinforzi? Comprendo la tua paura, ne avrei anch’io al posto tuo» sibilò velenosamente Leona.
«Paura? Nah, è solo che triplicare le sberle rende la cosa più eccitante» la rimbeccò lei guardandola in cagnesco.
«Ehm, ragazze….» s’intromise con voce tremante Morgana, restia alla possibilità di doverle dividere. Ma poi tutto a un tratto la tensione sfocò, infrangendosi nelle risate grasse delle due rivali. Sara riassorbì i cloni e fece scivolare un braccio sopra le spalle stampandole un bacio sulla fronte.
«Adoro questa ragazza!» asserì allegramente Sara. Morgana si concesse di tornare a respirare normalmente. Prometteva bene, adesso aveva a che fare non con una, ma ben due guerriere psicopatiche.
«Dicevi dei miei capelli?» domandò Leona.
«Che un tocco di rosso non guasterebbe» le disse Sara frugando nella tasca del pantalone. Finse di non notare gli occhi lucidi di Leona quando le estremità sfilacciate del nastro che le aveva regalato Fabiano si srotolarono sul suo palmo inguantato. Sara fu abile nell’intrecciarglielo senza rovinare la sua opera d’arte.
«Adesso sei perfetta!» cinguettò lei come se fino a pochi minuti prima non l’avesse minacciata di conciarla per le feste.
«Se la mia opinione è ben accetta, mi trovo d’accordo con Sara» intonò una quarta voce profonda e rauca.
«I complimenti sono un toccasana per il mio ego, prego entra pure Valerio» lo invitò Leona ad entrare.
Morgana si soffermò sul suo viso apparentemente non ancora sfiorato dalla pubertà e dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere della sua calvizie. 
«Uh, qualcuno ha tirato a lucido la sfera questa mattina, ci si potrebbe addirittura specchiare» scherzò Leona «La posso toccare?».
Valerio le schiaffeggiò la mano a mezz’aria «Non ci pensare neanche». A quel punto Morgana non si riuscì più a contenere e sghignazzò insieme a Leona.
«Sara, dii qualcosa a queste due delinquenti!»
«Vieni qua tu» gli disse lei melliflua, ignorando il suo broncio. Gli allacciò le braccia attorno al collo e puntò dritta verso la sua preda: trovò immediatamente le sue labbra socchiuse e lo baciò, mentre le sue mani gli accarezzavano la calotta glabra. Il bacio si fece più voluttuoso, trasudando lussuria da ogni gemito o rantolo indistinto fra i due, tanto che le ragazze si ritrovarono ad esclamare con repulsione un «uhg!» corale.
«Ehi, andate a recuperare altrove gli arretrati! Questa camera è già occupata» s’indignò Leona.
«Zitte bambine, adesso parlano gli adulti» mormorò Valerio fra le labbra di Sara. E così non gli rimase che attendere che i due la smettessero di comportarsi come se il pianeta fosse stato inghiottito da un enorme buco nero e loro fossero gli unici due superstiti col compito gravoso di dover procreare per poter far sopravvivere il genere umano. Quando quel supplizio ebbe fine, gli umori si erano evolutiti in un indigesto e luttuoso circolo di facce sofferenti. Per quanto provassero a smorzare la tensione, nulla avrebbe cambiato il fatto che quel giorno avrebbero dovuto partecipare a una cerimonia funebre che contava decine e decine di traghettati, vittime di quella battaglia. Le pire erano già state allestite durante la notte dai volontari e aspettavano solo di essere accese durante quella solennità. I toni della discussione si fecero inevitabilmente più cupi e non poterono non menzionare gli avvenimenti che gravavano sui loro cuori da qualche giorno ormai. La scomparsa del cadavere di Norman aveva sconvolto parecchio Leona e a questo si era aggiunta l’inspiegabile fuga di Caterina. In mezzo a tutto quel trambusto, non avevano avuto più sue notizie dal giorno della battaglia. L’amica assillava costantemente Valerio sugli sviluppi delle indagini di cui lui stesso si era fatto carico insieme a una squadra di fiducia. Sosteneva caparbiamente che i due avvenimenti dovevano essere in qualche modo collegati. La coincidenza delle due sparizioni era lampante come il sole, e anche se avevano escluso un possibile rapimento, non avevano una risposta sul perché Caterina avrebbe dovuto trafugare il suo corpo. E in mancanza di prove, non gli restarono che un pugno di congetture con cui consolarsi.
Il resto della mattinata trascorse molto velocemente e nella frazione di una battito di ciglia si ritrovarono a presiedere l’assemblea all’aperto nelle loro vesti neri. Era tradizione che i guerrieri caduti venissero onorati dai loro confratelli e familiari indossando la tenuta di combattimento per commemorare il loro sacrificio in battaglia. Quella volta ebbe luogo una cerimonia senza precedenti, e al contrario della consueta sepoltura nei campi gloriosi, avrebbero cremato i loro corpi e sparso le loro ceneri facendole librare fra i venti. Betelgeuse era casa loro e ne avrebbero sempre fatto parte impregnando la struttura stessa di quel mondo fittizio e parallelo. Intonarono i canti delle antiche tribù di Hijir, accompagnando la cadenza della melodia con flauti e tamburi.  Ricoprirono i loro volti con i simboli del lutto, utilizzando i colori accessi del succo delle bacche di bosco. Salmodiarono fra pianti e gridi strazianti di dolore in loro onore prima di procedere all’accensione del Grande Fuoco alle cui estremità del percorso erano stati disposti alcuni recipienti d’argento da cui s’innalzavano zaffate  inebrianti di incenso.
I gemelli, drappeggiati da lunghi mantelli neri dentro cui i venti soffiavano facendoli gonfiare alle loro spalle come vele di una nave pirata, avanzarono lungo quella navata di ghiaia ed erbacce con passo sincronizzato e ritmato dai battiti dei bonghi. I loro visi si erano rifugiati dentro i cappucci, al riparo dagli sguardi curiosi dell’assemblea. Al loro passaggio, lingue di fuoco e fumo aromatizzato affiorarono dagli incensieri lasciando che si diffondesse una sorta di nebbia mistica in mezzo a loro. Le gemme dell’acqua, del fuoco, della terra e dell'aria brillavano intensamente nelle loro logge e quel caleidoscopio di colori era l’unica cosa in grado di spezzare quella foschia che gli aleggiava attorno. Quando la Pira gli fu dinanzi, i bonghi si ammutolirono e Morgana sentì il silenzio penetrarle sotto pelle, troppo intenso e doloroso per essere ascoltato. I corpi riposavano in una piramide di piattaforme di legno distanziate l’una dall’altra da un sistema reticolato di palafitte che si slanciava verso i cieli grigi. Sulle vesti rosse dei morti vi era ricamato il motto hijiriano “Il viaggio non è ancora finito, andremo a diffondere la luce nelle tenebre”.
Giunti all’apice del rituale, Leona e Gabriel si liberarono dei cappucci e, levando i palmi verso l’alto, consegnarono la struttura piramidale alle fiamme. Tacquero tutti di fronte al monologo crepitante delle spire di fuoco che danzavano in vortici scoppiettanti e sinuosi. Tutte le bocche rimasero serrate, in assorta contemplazione, consacrando il silenzio ai loro cari fino a che non fu tutto consumato.
 Prima o poi ogni cosa sarebbe tornata ad essere polvere.
Fu allora che le brezze s’insinuarono fra le ceneri e i granelli giocarono a rincorrersi per aria a cavallo dei refoli che li avrebbero trasportati lontano. Lo sciame caliginoso si disperse in fretta e la cerimonia si avviò verso la conclusione. A quel punto l’assemblea fu sciolta e quella cerimoniosa compostezza venne bandita fra i partecipanti per convertirsi in versi di cordoglio. Morgana baciò numerose guance e venne confortata da altrettanti abbracci, ma anche in mezzo a quell’intenso chiacchiericcio notò la tensione palpabile che si respirava fra i due fratelli ormai liberi dalla rigidità delle circostanze. Non le sfuggì l’atteggiamento scostante di Gabriel, inafferrabile e scivoloso come un’anguilla di fiume, né la delusione che si delineò nell’espressione di Leona quando lui si perse in mezzo alla folla. Qualunque cosa fosse successa fra i due, Morgana reputò saggio tenersene alla larga soprattutto perché non avrebbe saputo come arbitrare quel confronto. Aveva ancora dei preparativi da ultimare per il viaggio, così mise da parte le sue preoccupazioni e andò in cerca della madre per accompagnarla all’udienza prevista per quel pomeriggio.
Il nuovo consiglio si mostrò sorprendentemente clemente nel suo giudizio. La condanna dell’ex sire e dei suoi sostenitori non fu particolarmente aspra nonostante la sequela di crimini e aggravanti comuni a loro carico che vennero valutati durante lo scrutinio.
L’edulcorazione della sentenza tenne conto dell’imminente referendum richiesto per l’abrogazione della legge sulla pena di morte, considerata da molti membri degli strateghi una barbarie da abolire e cancellare dalla loro Dottrina. Tale amnistia era avvalorata dalle ingiustizie che si erano perpetrate quel maledetto giorno, quando la piazza si era macchiata del sangue di suo padre e dello zio di Leona, senza nemmeno ottenere un equo processo. Era un bene che il consiglio avesse in programma uno svecchiamento delle leggi antidiluviane su cui si basava il Campo italiano da tempi immemori, anche se sospettava che quel buon proposito sarebbe finito inevitabilmente sullo sfondo dal momento che la questione del seggio vacante del Sire era ancora drammaticamente fresca e ne rivendicava l’immediata risoluzione. Fra mormori soddisfatti e sguardi indignati, i protettori si avviarono verso l’uscita dell’auditorium - una delle poche strutture non gravemente intaccata dall’apocalisse dei giorni precedenti - e Morgana aveva tutte le intenzioni di unirsi al gregge se non fosse stata distratta dal tamburellio insistente che picchiettò sulla sua spalla. Lei e l’alto funzionario del consiglio si soppesarono a vicenda per un lungo istante. Poi le ordinò di attardarsi ancora un po’ in auditorium: il nuovo capo dei sette saggi aveva espressamente richiesto un’udienza privata con lei. Le si formò un nodo in gola al pensiero di restare chiusa lì, in quella stanza enorme, sola con suo nonno. Che cosa voleva da lei? Cosa l’aveva spinto a piegare la sua intransigenza?
«Sa che questo è sconveniente, sua eccellenza? È ancora in rigore il veto della parola fra noi Cacciasciacalli» disse, ignorando l’eco acido che le tornò indietro.
Il vecchio anchilosato si mosse dallo scranno con consumata lentezza, facendo affidamento sulla rigidità del suo bastone che culminava con un lupo argentato «Il veto è morto con chi l’ha concepito e poi sono in vena di trasgressioni quest’oggi, mia cara bambina».
«Sì, ma la giustizia…» tentò di ribattere lei prima di essere interrotta.
«Chi può ardire alla giustizia?» domandò retoricamente suo nonno «Parliamo della stessa giustizia che non mi ha permesso di parlare un ultima volta a tuo padre prima che morisse? Non abbiamo dimostrato abbastanza di essere lontani dall’incorruttibilità della morale?  È vero, l’uomo fa le leggi. Ma l’uomo è fallace, quindi come possiamo pretendere che anche le leggi da lui create non lo siano? Dovremmo per questo essere condannati? Non sono forse i numerosi tentativi che attuiamo per raggiungere la giustizia che rende alcuni fra noi virtuosi? I nostri errori sono il concime che fertilizza il raggiungimento della legge perfetta».
«Sì, sua eccellenza» concesse Morgana, inchinandosi rispettosamente in avanti.
«Stai dritta adesso, un Cacciasciacalli non si piega di fronte a niente e nessuno, non siamo fragili rametti trastullati dal vento, noi siamo…».
«Il tronco di un albero… così solido e forte che nemmeno un uragano potrà sradicarlo» concluse per lui «papà me lo ripeteva ogni volta che poteva».
«E allora perché non ti reputi tale?» chiese con voce severa. Come poteva parlargli della fervente sensazione che la faceva estraniare dal suo stesso corpo? Come poteva disonorare la loro famiglia ricusando il giogo onorevole che le veniva offerto? La verità era semplice, eppure  era così difficile darle forma a parole.
«Non c’è alcun dubbio su chi tu sia» articolò come se avesse invaso il confine dei suoi pensieri «sei una Cacciasciacalli, il sangue dei nostri antenati scorre forte nelle tue vene, non dubitarne mai. Ma comprendo i tuoi dubbi, sono leciti. In te c’è molto di più di una semplice cacciatrice, e so che tu lo senti. Si fa sempre più forte il richiamo, non è vero?». D’istinto, Morgana tentò di smentirlo ma qualcosa in quell’insinuazione le fece attorcigliare lo stomaco disturbando il sonno delle dannate farfalle che lo abitavano.
«L’hai mostrata a qualcuno? La voglia?» proseguì indifferente al suo turbamento. Come faceva a sapere della voglia? Probabilmente era presente alla sua nascita, o non si sarebbe spiegata come fosse in possesso di quell’informazione…Cosa aveva di così importante quella piccola macchia bronzea a forma di stella impressa sotto la pianta del piede sinistro da meritare così tanta attenzione?
«Be’…Leona è la mia migliore amica. Lei…»
«Non è un caso che tu  ti senta così legata alla medjai e che lei ricambi la tua lealtà»
«Io non capisco…». Le articolazioni dell’anziano scricchiolarono nel punto di giuntura fra il femore e la rotula ormai quasi del tutto priva di cartilagine. Morgana saltò i gradini a due a due per raggiungere la piattaforma e lo aiutò a sistemarsi nel trono facendo attenzione alle sue fragili anche.
«Mmm» mugugnò distrattamente «è ancora sopita…i tempi non sono ancora maturi. Ma dovrai essere pronta». La paura cominciò a cibarsi di lei e sentì le gambe cedere.
«Pronta per cosa?» sbottò con le corde vocali che le raschiavano la gola come coltelli.
«Hai del tempo da dedicare al tuo povero vecchio nonno?» disse tamburellando le dita sul suo ginocchio malandato. La stava sul serio invitando a sedersi?
«Perché ho come l’impressione che tu stia per raccontarmi una storia?».
«Non posso garantirti che il finale ti piacerà».  Morgana chiuse gli occhi. Incamerò tutta l’aria che riuscì a racimolare e prese a pugni i suoi timori uscendone vittoriosa. Il rosso trionfò ancora una volta sulle sue guance delicate ma si decise ad accontentare il desiderio del patriarca e la sua indomita curiosità.
«I lieto fine sono sopravvalutati» dichiarò infine «Allora, di cosa parlano i tuoi racconti?».
Un sorriso triste si fece spazio in mezzo alla folta barba bianca che terminava a punta poco oltre lo sterno, un sorriso malinconico che fece pentire la ragazza di aver posto la domanda.
«Hai mai sentito parlare degli Sciamani?».
**********
No. Morgana non avrebbe voluto ascoltare una sola parola. Adesso che era di nuovo all’aria aperta aveva sperato di poter dimenticare ogni cosa. Era un vecchio superstizioso e non voleva rimanere un secondo di più ad infarinarsi nelle sue menzogne. Lei era solo Morgana. La timida e impacciata Morgana di sempre, e quello strano scherzo della genetica disegnato sulla sua pelle non era altro che frutto della casualità.
«Sono una Cacciasciacalli. Diventerò la migliore cacciatrice di licantropi della mia generazione. Un giorno siederò davanti al fuoco circondata dai miei figli e nipoti e gli racconterò le mie avventure, gli parlerò dei miei viaggi e…» disse sottovoce per fare il punto della situazione. Le piaceva avere sotto controllo ogni singolo frammento della sua vita, sapere esattamente cosa avrebbe fatto, priva di qualsiasi incertezza, libera dalla aleatorietà degli eventi.
«Hilde non crede proprio».
«Ma che…? Oh, Hilde, mi hai spaventata. Da dove sei sbucata fuori?»
«Hilde è sempre stata qui. Hilde non ha più un posto dove andare, la medjai adesso è la sua casa, percorrerà le orme che si lascerà dietro ad ogni passo, si cucirà alla sua ombra e la proteggerà fino a quando la Fenice non si riconcilierà con il Tempo e lo Spazio». Morgana le sorrise fingendo che quello che aveva appena detto la bambina non fosse profondamente inquietante.
«Perché non vai a giocare con gli altri bambini?» le chiese dandole un buffetto sulla testolina biondissima. La bambina le rispose con un’altra domanda.
«Perché fai di tutto per fuggire dal tuo destino?»
Morgana si pose la stessa domanda e il suo sguardo si perse nel vuoto, anche se apparentemente fisso sul gruppo di ragazzi che rideva e scherzava poco più avanti. Poi ottenne la risposta, quella che più gradiva «Il destino non esiste». Lo disse lentamente, scandendo ogni sillaba, marcandole all’esasperazione, convincendosi che quella fosse l’unica assoluta verità. Era così impegnata in quella sessione intensiva di autoconvincimento che si era accorta a malapena che Hilde le stesse mappando la mano, il tocco del suo ditino era leggero come quello di una piuma. Le montò il panico. Voleva sottrarsi ma la paura le aveva congelato le articolazioni. Le risate di quei ragazzi erano flebili riverberi soverchiati dai battiti del suo cuore.
Hilde annuì fra sé, con gli occhi socchiusi «Vedi è scritto qui. Sei destinata a diventare la Madre della Fenice». L’imperatività di quella sentenza spazzò via la paura per fare posto a una rabbia feroce. Strinse il pugno e si liberò della presa della piccola Hilde. Lei non batté ciglio. La sua passività la esasperava e faceva agitare la fiera brutale che gironzolava nella gabbia da lei costruitagli attorno. Voleva darle la libertà, lo voleva così disperatamente. Abbassò gli occhi a terra. Accanto al suo stivale c’era una pietra sufficientemente appuntita. La raccolse e la sfregò contro il palmo fino a che non sanguinò.
«E adesso, riesci a leggere qualcosa?» le urlò sollevando la mano insanguinata davanti ai suoi occhi «Dimmi adesso cosa vedi?». Hilde non disse una parola e continuò a guardarla negli occhi, senza rompere il suo voto di silenzio. L’insistenza di quello sguardo la fece vergognare. Sapeva che per quanto si fosse arrabbiata o avesse inveito contro di lei il risultato sarebbe stato sempre lo stesso. Spezzare le linee tracciate sul suo palmo, non avrebbe interferito in alcun modo con quel maledetto destino che la spaventava a morte.
«Un giorno lo vorrai, più di ogni altra cosa. Lo abbraccerai e lo farai tuo»
«E perché mai dovrei vorrei vedermi negata la mia libertà?»
«Perché Leona sta morendo. Lentamente. E tu sei la sua unica speranza di salvezza». Quella spada affilata raggiunse il suo cuore senza difficoltà. Il suo intero corpo si rivestì di brividi.
«È il ciondolo, non è vero? La sta consumando dall’interno…». Hilde confermò con un piccolo assenso accennato e il mondo sembrò trascinarla nel suo vortice implosivo. Ma non toccò mai il fondo. Qualcuno l’aveva riafferrata per i capelli e la stava tirando fuori da quell’incubo. Era la voce di Gab, e pronunciava il suo nome come nessuno aveva mai fatto. Adesso la stringeva a sé e lei si lasciò immergere in quella calda sofficità che odorava di acqua di mare. Le braccia attorno a lei la catapultarono in una spiaggia deserta indorata dai raggi del sole, il sottofondo dei gabbiani in volo e la risacca delle onde si andava amplificando dentro i suoi timpani. Ma non era sola. Lui era là con lei, con i riccioli scompigliati dal vento, gli orli del pantaloni risvoltati fin sopra le ginocchia e un sorriso capace di farle tremare l’anima. Voleva rimanere lì per sempre, affogare dentro il mare blu dei suoi occhi. La sua mano calda a riscaldarle il viso, il sapore delle labbra di lui che sapevano di sale… Poi la chiamò un’altra volta. La spiaggia, i gabbiani e il mare che si profilavano all’orizzonte vennero inghiottiti in un sol boccone dalla realtà. Ma per sua fortuna aveva strappato via da quel sogno ad occhi aperti il suo centro di gravità permanente.
«A cosa stai pensando?» le stava dicendo lui «Va tutto bene?». Morgana si guardò attorno in cerca di Hilde. Ma pareva esser sparita così com’era venuta. Scosse la testa per scrollarsi via le dolci ragnatele di quell’illusione. Non poté porre rimedio alla sua voce roca «Sì» disse soltanto, tacendogli tutto il resto. Non l’aveva convinto del tutto ma non scavò più affondo di così. E Morgana gliene fu spassionatamente grata.
«E tu? Tu come stai?» chiese lei. Gab fece del suo meglio per evadere la risposta. Era decisamente più attratto dal concatenamento delle sue trecce rosso fuoco. Faceva scorrere le dita in tutta la loro lunghezza seguendone il percorso con gli occhi. Poi sollevò una mano e le accarezzò dolcemente una guancia con il dorso.
«Avevo così tante cose da dirti, solo che adesso non trovo più le parole». Morgana gli prese il polso e lo ruotò per potersi imprimere sul viso il suo palmo ruvido scorticato dall’impugnatura della spada. Un breve sorriso le pizzicò l’angolo delle labbra.
«Non dobbiamo parlare per forza»
«Morgana Cacciasciacalli» la rimproverò lui con le sopracciglia teneramente aggrottate «Sei davvero una piccola spudorata! Non me lo aspettavo da te».
«Allora credo che tu non mi conosca abbastanza bene» tubò lei.
 «Ma possiamo porre rimedio a questo no? Direi che possiamo approfondire  questa conoscenza».
E poi le sue labbra si plasmarono su quelle della ragazza, dolci come un soffio, umide come una pioggia estiva che profuma di terra bagnata. Sembravano essere fatte l’una per l’altra, nate al solo scopo di fondersi e amalgamarsi in un trionfo di sospiri.
Morgana era appena caduta dentro a un altro sogno.
La sua lingua che le leccava l’arcata superiore del labbro, le sue mani che si adattavano alla rotondità dei suoi fianchi, i suoi pollici che si agganciavano ai passanti dei suoi pantaloni per annullare la distanza, i riccioli neri che le solleticavano la pelle, infilandoseli come anelli fra le dita. Assuefatta da quel calore che si irradiava dal suo corpo come una scia di comete, ne voleva sempre di più, sempre più insaziabile e ingorda dei suoi morsi che le facevano comprendere quanto anche lui desiderasse quel momento. Le sue mani slittarono dietro la schiena e spinsero con brutalità verso di lui, come se non fosse abbastanza. Sentì i suoi muscoli, rigidi di un grumo di desiderio, sciogliersi su di lei, farsi liquidi come i suoi pensieri confusi, i loro diaframmi sollevarsi allo stesso ritmo disperato. Staccarsi da lui fu quasi un dolore fisico lacerante, ma non poteva ignorare i bisbigli sonaglianti che li circondavano. Morgana si succhiò il labbro per trattenere ancora un po’ il sapore dei meravigliosi baci di Gabriel e spiò oltre la sua spalla, mettendosi sulle punte, il piccolo gruppetto che li stava osservando in una tempesta di risolini soffocati. C’era però una fra loro che non trovava degna di pettegolezzi quella scena. Gab seguì il suo sguardo e quando il suo viso sbiancò, seppe che stavano guardando la stessa cosa. Le mancavano solo un alone incandescente di fiamme e un forcone e la truce espressione da diavolessa di Dania sarebbe stata coerente con il personaggio che stava interpretando. Non finse di non sentirsi appagata da quella piccola rivincita e le schiacciò l’occhiolino, aspettandosi che la poveretta esplodesse da un momento all’altro. Come sospettava, quello fu davvero troppo per Dania, non si degnò nemmeno di tacere un gridolino di frustrazione e sterminando a gomitate le sue amiche come birilli si trascinò via di lì incassando la sua amara sconfitta in silenzio. Morgana era ancora addossata al petto di Gabriel, sentiva ancora la durezza dei muscoli anche attraverso il tessuto della giubba, e percepì la sua risata scuotergli le ossa.
Lui le diede un bacio sulla punta del naso.
«Sai, a volte il tuo mr. Hyde mi terrorizza» le confessò.
«Forse sarebbe il caso di risparmiarci le effusioni quando non avremo più un pubblic…». Ma lui la baciò ancora, la prese in vita e piroettò insieme a lei. Quando la fece scendere le girava la testa.
«E perché privarli di un tale spettacolo?» le sussurrò all’orecchio «voglio che tutti sappiano che tu sei mia».
«In effetti, la tua popolarità al momento potrebbe tornarmi utile…La fidanzata del medjai suona piuttosto bene»
«Subdola approfittatrice» le disse morsicandole il lobo.
«Per quale altro motivo pensi che lasci che mi vedano insieme a te?»
«Oh, tu si che sai come farmi sanguinare il cuore. E…a proposito di sanguinare, che hai fatto alla mano?».
«Non è nulla. Un arrotatura andata male, ho usato troppo lubrificante e mi è sfuggita una freccia» minimizzò lei pregando in cuor suo che non approfondisse la faccenda.  Non si dovette dare pena a lungo, lui stava già viaggiando lontano col pensiero, in una località remota dove lei non era stata invitata.
«Gab, se c’è qualcosa che vuoi dirmi, io sono qui». Ed eccolo lì l’adorabile vezzo di cui si era innamorata alla follia. L’intenzionale violenza con cui si stava morsicando il labbro inferiore però questa volta la allarmò. Ma non aveva il diritto di cavargli fuori i suoi tormenti quando anche lei non aveva alcuna intenzione di rivelare i suoi. Poi le piantò i suoi grandi occhi blu addosso e per poco non dimenticò il suo nome.
«Tu sei reale non è vero?» le chiese accarezzandole le braccia. Fu una domanda insolita che la spiazzò. La pressione delle sue dita rivelava le sue intenzioni indagatrici, come se stesse studiando la sua concretezza o la sofficità della sua carne. «Non sei un illusione, non mi mentiresti mai». Adesso era una affermazione.
Deglutì dolorosamente. Leona sta morendo. Lentamente. Sei l’unica in grado di salvarla. Come poteva dargli una notizia del genere senza recargli sofferenze atroci? E poi non era certa che si trattasse solamente dei vaneggiamenti di una bambina problematica a cui piace blaterare del destino. Non voleva ferirlo in quel momento, almeno fino a quando non sarebbe stata sicura «Gab, io…».
«Mi ameresti…mi ameresti anche se avessi fatto qualcosa di terribile? Ovviamente chiedo solo in via ipotetica…voglio solo essere sicuro che tu ci sarai in qualunque caso» disse abbandonando per un attimo quell’aria tetra che le aveva messo i brividi. Se li fece scivolare di dosso e gli prese il viso fra le mani.
«È un modo codardo e meschino per dirmi che sei stato con un’altra?» ci scherzò su per stemperare l’atmosfera cupa. Gab provò a sorriderle ma con scarsi risultati. Esigeva una risposta sincera.
«Gab. Non credo esistano forze abbastanza potenti da indurmi a non amarti, il danno ormai è irreparabile. Ti basta come risposta? Io e tua sorella ci saremo sempre per te, in qualunque caso».
«Lo so» assentì lui con un profondo sospiro, come se accettasse a metà ciò che gli aveva detto. La tempesta passò in un attimo dai suoi occhi e si affacciò il limpido cielo azzurro della spensieratezza.
«Che ne dici di riprendere da dove avevamo interrotto?» le alitò a un soffio dalle sue labbra.
«Forse è il caso di proseguire questa discussione a porte chiuse…»
«Signorsì signor comandante» disse con un pugno stretto sul petto.
Lo prese per mano «Conosco un posto fuori dalla portata di ex indesiderate…».
«Bene, perché se no ci affollerei una piazza…»
«Stai zitto e baciami» gli ordinò lei pigiandogli un dito sulla bocca.
E lui obbedì.

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Capitolo 63
*** PROLOGO Pt. 2 ***


 Avviso per il lettore: Questa è la seconda parte del Prologo con i POV di Fabiano e Leona. Se vi siete persi il primo tornate indietro a recuperarlo! Buona lettura e ci vediamo per L'ULTIMA PARTE del prologo!

Fabiano

Disinfettante, alcol etilico e tintura di iodio. Aveva trascorso così tanto tempo al capezzale di suo fratello che ormai le sue narici non riuscivano a captare altro che quegli odori pungenti che gli facevano venire le lacrime agli occhi. A quello si univa l’insopportabile ronzio degli insetti saprofagi attratti dalla carne necrotizzata e il lamento dei moribondi. Tra poco avrebbe dovuto dare il cambio alla madre di Ethan. Lui dormiva ancora profondamente, l’ultima dose di anestetizzante era stata molto generosa vista l’ultima notte insonne trascorsa in un bagno di sudore e mormorii di dolore. La ferita al costato guariva lentamente perché il taglio era più grave di quello che avevano previsto ed aveva perso molto sangue. La cicatrizzazione se la stava prendendo comoda persino con il processo accelerato di guarigione.
Edna si stiracchiò e lanciò un’occhiatina di sbieco a Ethan che in quel momento cominciava a parlare nel sonno. Miagolò alla volta di Fabiano, e lui gli concesse qualche grattino sotto il mento. Soddisfatta di quelle attenzioni, si leccò i lunghi baffi da gatto e si raggomitolò nuovamente su se stessa, facendo le fusa sopra il piumone. La annoiava a morte sorvegliarlo, ma non c’era nulla che non avrebbe fatto per conto della sua padroncina.
Assicurandosi che ne avrebbe avuto ancora per un po’, riempì un catino con dell’acqua fredda e si deterse il viso. Alle sue spalle passò una volontaria con una pila di garze sterili pulite in bilico sulle braccia. Le domandò l’ora e le snellì un po’ quella torre di bende che minacciava di crollare a terra. Mancava ancora un’ora al cambio del bendaggio così si offrì di darle una mano a distribuire il materiale sanitario fra gli allettati stipati in quella stretta tenda di fortuna, montata su due piedi per far fronte all’ingente numero di feriti. Si prese del tempo per dare una parola di conforto a quelli non del tutto intontiti dai farmaci, spacciandolo per un atto caritatevole piuttosto che ammettere che fosse un escamotage per tenere la mente occupata. Il consiglio aveva raccolto prove a sufficienza per inchiodare suo padre. Era stato condannato alla detenzione permanente nelle prigioni sotterranee del labirinto fino a nuovo ordine. La sentenza non era stata definitiva e buona parte del merito della concessione dell’indulgenza era da attribuire a Fabiano e alla sua spigliata aringa sulle attenuanti circostanziali che lo avevano visto protagonista e fautore di quegli atti abborrenti. Aveva smentito qualsiasi accusa di violenza nonostante sentisse ancora lo schiocco della frusta sulla sua pelle e l’odore di sudore acido mescolato al cuoio della cinghia. Si era domandato spesso se avesse fatto la cosa giusta, ma voleva credere che trascorrere un po’ di tempo in quel purgatorio avesse potuto far riflettere suo padre. Anche se non aveva più alcuna traccia di quelle brutalità, a volte le cicatrici pulsavano di un dolore fantasma capace di sottrargli il respiro. Gli accadeva più raramente dopo le avventure vissute in quella spirale di specchi di cui era stato prigioniero, come se avesse lasciato lì per sempre quella parte di sé che tremava al solo pensiero di contraddire suo padre, quel lato di sé che avrebbe fatto di tutto per guadagnarsi un giorno intero senza quelle violente percosse. Conosceva il dolore di suo padre, e se sfogarsi su di lui poteva recargli sollievo, allora Fabiano non avrebbe esitato ad offrire la sua bianca schiena, una tela su cui dipingere e scaricare tutta la sua angoscia per  le sorti di Sara.
Ma tutt’altra cosa era quella che gli aveva mostrato lo specchio.
Quella schiena delicatamente arcuata dalle linee perfette non era la sua. Non aveva pensato nemmeno un attimo alle ripercussioni di quell’intromissione, sapeva soltanto che non avrebbe mai permesso alla cinghia bruciante della frusta di raggiungere la pelle nivea e perfetta di Leona o di starsene inerme ad ascoltare le sue urla. Ricordava ancora lo sguardo infuocato di suo padre che gli aveva gettato addosso come una maledizione e ancora di più quello deluso di Leona che lo cercava in mezzo a quella lunga tenda di capelli neri che le era calata sul viso. Non riuscì a spiegare quanto quello sguardo gli avesse fatto male, il dolore era così totalizzante tanto da avergli fatto dimenticare della presenza della frusta, di suo padre e della paura stessa. In quello strano universo onirico fatto di superfici riflettenti nessuno parlò. Il silenzio fu il complice della sua salvezza. Non c’era più alcun rumore a distoglierlo dalle sue riflessioni. Ed era lì che aveva compreso che aveva sempre avuto il potere di gridare il suo “basta”. Era proprio nel silenzio che era finalmente riuscito a sentire la sua voce, una voce che gli ripeteva che non era compito suo espiare i peccati altrui e che non era quello il modo giusto per proteggere chi amava, lasciando che se ne occupasse qualcun altro. Adesso non vedeva altro che un patetico sottomesso vittima delle sue paure. Era deluso da ciò che lo specchio rifletteva. Lui era più di questo, lui voleva essere più di questo, e non importava quanto tempo sarebbe occorso per ottenere quel cambiamento, avrebbe lottato fino a che lo specchio non gli avesse offerto l’immagine che lui desiderava di sé stesso, qualcuno di cui essere fiero.
I lembi della tenda frusciarono al vento, sollevandosi all’esterno. Vide Leona imbambolata sull’uscio in attesa di un permesso per entrare. Notò subito il suo nuovo paio di guanti e l’acconciatura complicata che la incoronava. Si sorrisero entrambi e poi la condusse ai piedi del letto di suo fratello proprio mentre le sue palpebre cominciarono a lottare contro la sonnolenza indotta dai sedativi. Edna si ridestò e le fece posto accanto a lei così da permetterle di sedersi sul ciglio del letto.
«Brava la mia gattina» le disse baciandole il muso. Edna strusciò oziosamente la sua pelliccia bianca su di lei e le circondò la schiena con la coda. Leona si sistemò meglio, attenta non sfiorare nessun punto dolorante, e prese la mano di Ethan fra le sue, mentre Fabiano si accontentò di osservarli da uno degli angoli ombrosi della tenda. Le sue dita reagirono immediatamente come se l’avessero riconosciuta e aumentò la pressione fra le loro mani intrecciate. Fabiano scacciò via la puntura fastidiosa che gli procurò la vista di quell’intreccio nascondendo i pugni in tasca.
«Se potessi mi sveglierei volentieri ogni mattino con una vista panoramica sul tuo delizioso visetto. Ditemi dove devo firmare…» esordì Ethan con la voce ancora impastata dal sonno. Il gatto finse di vomitare una palla di pelo.
«Buongiorno anche a te dormiglione» lo salutò lei sistemandogli i cuscini dietro la schiena. Ethan approfittò subito della vicinanza di lei per infilarle il naso fra i capelli.
«Il mio bocciolo di rose è preoccupato per me?» disse lui con un sorrisetto colpevole che fece scattare un sopracciglio di Leona. Lei lo prese nell’incavo del gomito e lo tirò a sedere bruscamente ignorando i suoi gemiti infantili.
«Al tuo bocciolo non piace ammettere che le è quasi venuto un infarto alla notizia che tu sia inciampato involontariamente su una spada, perciò non lo farà. Ti basti sapere che è molto fiera del tuo coraggio e che si reputa in debito con te per aver salvato la vita di Fabiano».
«Ehi, non ho il cuore nero! In fondo è il mio ingenuo fratellino, no? E poi puoi stare tranquilla, non credo si ripeterà con mia madre nei paraggi».
«Perché?»
«Se Sara prova anche solo ad avvicinarsi alla tenda, mamma comincia a starnazzare come una vecchia oca isterica. Ho provato a spiegarle che è tutto ok, ma non vuole darmi retta. È già molto che abbia permesso di farmi recapitare la sua lettera di scuse…».
«Metterò una buona parola per lei»
«Buona fortuna! Adesso avvicinati così almeno potrò riscuotere il tuo pagamento» disse chiudendo gli occhi e piegando la bocca in attesa di un bacio. Leona gli stampò un palmo aperto sulla fronte e lo fece sprofondare fra i cuscini «Non ci pensare neanche, strozzino». Edna soffiò affilando le unghiette prima che lui riuscisse a scansarsi.
«Puoi dire alla tua bestiolina di darsi una calmata?». Alla parola “bestiolina” le si rizzò il pelo e i suoi miagolii si fecero più acuti e intimidatori. Poteva essere solo una sua impressione, ma avrebbe giurato che Edna stesse puntando alla zona inguinale di suo fratello.
«No e no» rispose Leona rivolgendosi prima a Ethan e poi a Edna.
«Cosa ha detto?» s’incuriosì lui.
«Vuole trasformarsi in un istrice e giocare con le tue palle». Il suo sorriso da imbecille si spense immediatamente e si tirò le coperte sopra la gobba del naso. Finse di non fare caso alla micetta infuriata e le disse: «Ah, ora capisco. Vuoi un po’ di privicy…Te l’ho mai detto che trovo adorabile la tua timidezza? Fabiano per favore girati dall’altra parte, mammina e papino devono farsi le coccole».
Idiota. Stava per tirare fuori dalla tasca uno dei suoi pugni quando sentì Leona sospirare scuotendo la testa. «Non è l’ora degli antidolorifici?» chiese lei rivolgendosi direttamente a Fabiano. Il labbro di Fabiano tremò cercando di trattenere un sorriso.
«Ti preparo la siringa» disse avviandosi verso l’armadietto dei flaconcini con più entusiasmo del necessario. Fu subito di ritorno, impaziente di assistere all’iniezione dei farmaci nella vena di suo fratello. Leona fu sorprendentemente metodica e sicura di sé. Morse la cucitura del guanto fra i denti e liberò la mano sana. Poi afferrò la siringa, aspirò il liquido dalla boccettina, ne fece trasudare qualche goccia dall’ago e gli infilzò il braccio senza nemmeno avvisarlo.
«Ahi! Questa cospirazione non mi piace affatto» strillò mentre lei gli disinfettava il punto d’iniezione con un batuffolo di cotone. Fabiano non sapeva che i gatti potessero ridere, ma dovette ricredersi.
«Smettila di lagnarti, o mi rimangio tutto quello che ho detto». Mentre rimetteva tutto al suo posto, con un po’ di stizza, i suoi occhi blu si addolcirono quando incrociarono per un breve istante quelli di Fabiano e Ethan fiutò la loro complicità come un vecchio cane da caccia pronto a spennare il tacchino.
«Non avete perso tempo, eh…» commentò lui acidamente.
«Che cosa vuoi dire?»
«Andiamo Leona, trasudate tensione sessuale da un miglio, a chi la vuoi dare a bere?».
«Forse questa rivelazione ti scioccherà, ma ho deciso di correre il rischio» disse Fabiano sistemandosi un ciuffo ribelle «esistono persone su questo pianeta che si sono evolute al punto da non essere più dominate esclusivamente dagli istinti primordiali di cibarsi, dormire e pensare fare sesso. Spero che anche tu un giorno possa unirti alla gioia del progresso».
«Uh! È sarcasmo quello che sento, fratellino? Dio, il ragazzo sta crescendo» disse fingendo di singhiozzare dalla gioia. Nemmeno Fabiano riusciva a capire perché se la stesse prendendo così tanto. Non era da lui cedere così facilmente a delle così vili provocazioni di bassa lega. Gabriel lo aveva messo alla prova duramente su questo campo eppure…
Si fece distrarre dal delizioso colore roseo delle gote di Leona e per qualche motivo a lui sconosciuto i suoi ormoni impazzirono senza il suo permesso.
«Comunque non sono affari tuoi Ethan» tagliò corto lei spostando lo sguardo sui flaconi di penicillina, in evidente imbarazzo. Ethan roteò gli occhi fino a che non si soffermarono sul guanto posato sul comodino e fischiò. «Bei guanti» si complimentò con lei «ma lo sai che mi piace di più quello che c’è sotto». Fabiano pregò che imparasse al più presto a digerire i doppi sensi di Ethan prima che la voglia di malmenarlo prevalesse sul suo buon senso.
«Su dai, fammelo vedere» la incoraggiò lui. Fabiano apprezzò che in quell’invito avesse bandito l’aria da spaccone. Leona dapprima tenne gli occhi fissi sui suoi pugni chiusi in grembo, ma quella tensione durò poco e la cacciò via spurgando un lungo respiro. Guardò Ethan e la sua espressione divenne impassibile mentre gli porgeva la mano guantata.
«A te l’onore» disse infine. Ethan annuì e, senza distogliere gli occhi dai suoi, cominciò a sfilarle il guanto con deliberata lentezza. Fu abile nel non indugiare ai primi scorci lucenti del metallo con cui era stata forgiata la sua protesi. Non appena fu fuori dal calore rassicurante dell’imbottitura di lana, se la rigirò per studiarne scrupolosamente ogni sfaccettatura con la fronte aggrottata. Fabiano non fu altrettanto audace come il fratello. Il senso di colpa che lo costringeva a raggomitolarsi in posizione fetale sul pavimento, gli impedì di apprezzarla come l’opera d’arte che era.
Non lo avrebbe dimenticato. Non poteva. Era stato lui a farle questo.
Ma proprio mentre lottava con il suo demone interiore, le labbra di Ethan si posarono leggere sulla nocca argentata di Leona. La gelosia e qualcosa di vagamente simile alla gratitudine dilagarono dentro Fabiano prepotentemente fino a fargli torcere le budella. Avrebbe dovuto farlo lui fin dall’inizio, invece di farle pesare i suoi inutili rimorsi. Leona sorrise spontaneamente. Ma quel sorriso non era rivolto a lui e quella fu la più crudele delle lame.
«Ti dà fastidio?» gli domandò Ethan in guisa di sfida.
Fabiano avrebbe voluto rispondergli che, sì, lo faceva imbestialire in un modo che non credeva nemmeno possibile, ma Leona, che in quel momento attendeva insieme a Ethan la sua risposta, non era una sua proprietà ed era libera di farsi sbavare la protesi da tutti i viscidi lumaconi che voleva. Così rispose semplicemente «No. Leona è il fiore più bello e colorato dell’intera prateria, è la brezza delicata e profumata che sospira al risveglio della primavera, e merita di essere trattata quale la regina che è. Ma è anche il lampo luminoso che anticipa la tempesta e l’uragano di vita che scuote la terra, quindi tieni in alto la guardia e non aspettarti che le tue adulazioni sortiscano l’effetto che speri».
Ethan applaudì «Ci sa fare il tuo ragazzo…».
«Ethan io…» cominciò Leona.
«Risparmia il fiato. Sapevo che stavo giocando una partita in cui ero tremendamente svantaggiato. Ma sognare non costa nulla, no? Me ne farò una ragione, almeno so che mio fratello sa apprezzare ciò che ha».
«Vedi Ethan, sta proprio qui il problema. Fabiano non possiede nulla, io non sono il trofeo della vostra contesa. Non sono mai stata nient’altro che un oggetto da conquistare per te?».
Ethan fece spallucce «Leona tu non sei uno dei tanti trofei che ho dimenticato sulla mensola a prendere polvere. Tu sei l’unico trofeo per cui vale davvero la pena di lottare, sei il terno al lotto della mia vita, sei la mia scala reale quando il mio avversario rilancia con una misera doppia coppia, non so se rendo il concetto. Quindi ti prego di non fraintendere più i miei sentimenti per te. Se solo servisse a farti cambiare idea mi inginocchierei ai tuoi piedi, lascerei che i punti di sutura si strappassero a uno a uno e ti implorerei di tornare con me. Lui si saprebbe umiliare fino a questo punto?».
«Dacci un taglio Ethan, oggi non si umilierà proprio nessuno» lo zittì lei con un’occhiataccia «e adesso fammi controllare la ferita».
«Mmm, se volevi dare una sbirciata sotto le coperte bastava chiedere. Risparmia i tuoi stratagemmi maliziosi per quel sempliciotto di Fabiano»
«Per la barba di Mayak, puoi smetterla per cinque benedetti minuti di fare battute e allusioni sconvenienti? Dannazione, ma voi due come fate ad essere fratelli?».
«Non lasciarti incantare da faccia d’angelo. Anche lui ha i miei stessi desideri, solo che è più bravo a tenerli nascosti». A Fabiano schizzò il sangue alle orecchie e Leona sgranò gli occhi su di lui in attesa di una smentita. L’incredulità che vi lesse, però, lo offese un po’. Non avrebbe mai potuto oltraggiare la sua Leona con una di quelle battute scadenti, ma forse era colpa dei suoi atteggiamenti scostanti se adesso lei lo vedeva più come un essere asessuato incapace di ricambiare nient’altro che andasse oltre un amore platonico.
«Ho bisogno di prendere un po’ d’aria» annunciò improvvisamente dirigendosi a passo pesante verso l’uscita.
«Già, non vogliamo che al piccolo Fabiano esploda il cervello» gli sentì dire  a suo fratello quando aveva scostato un lembo della tenda, favorendo il ricircolo di quell’aria viziata «La gelosia ha davvero una cattiva influenza sul tuo fascino inattaccabile…Bah, non ho bisogno di lui. Riprendiamo la medicazione?».
«Sì, ma tieni a posto le mani. Edna sta pensando di trasformarsi in qualcosa di decisamente più pachidermico e non so se ho molto voglia di fermarla». A quelle parole mollò la presa sulla tenda e tornò indietro sui suoi passi stagliandosi alla ringhiera del letto con i pugni serrati.
«Preferirei che tu non la scambiassi per gelosia» gli disse trattenendo a stento la rabbia «perché non si tratta di questo, ma ti sarei eternamente grato se la smettessi di toccarla contro la sua volontà».
«Oh no, non si tratta di gelosia» lo motteggiò lui «ma sei sicuro che piaccia molto meno a te che a lei?».
«Mi trovo costretto ad ammettere che l’idea delle tue mani su di lei non mi faccia impazzire»
«Be’, è già un passo avanti, ma questo è un tuo problema». I pugni di Fabiano si strinsero attorno al ferro battuto della sponda del letto.
«Ethan non te lo chiederò un’altra volta. Confido che mentre ti cambia le bende tu riesca a trovare una distanza accettabile senza respirarle con fiato sul collo. Credo che sia un bene per entrambi che ignori il prurito alle mani che mi susciti ogni volta che tenti di sfiorarla».
«Va bene, time out voi due» s’innervosì Leona al limite dell’esasperazione «Ethan, taci o ti infilo un garza in bocca, e tu se non la smetti di stare al suo stupido gioco vatti a schiarire le idee fuori da questa tenda».
«No, io resto» protestò lui ignorando quanto apparisse infantile ai suoi occhi.
«Allora torna al tuo angolo, ho garze a sufficienza per zittire entrambi». Leona gli indicò col mento la sua alcova di ombre e non gli rivolse più nemmeno uno sguardo. Slegò la fasciatura di suo fratello ed esaminò la ferita più vicino, poi  lo stese supino e prese a spalmargli gli unguenti sul torace. Avrebbe potuto utilizzare il suo potere per guarirlo, ma Carlisle era dell’avviso che, viste le sue condizioni, sarebbe stato prudente non approfittarne fino a quando non si sarebbe ripresa del tutto. Certo, c’era anche Gab, ma nessuno con un minimo di sale in zucca si sarebbe fatto toccare da lui.
«Sapete che vi dico, non c’è dubbio che in voi scorra lo stesso sangue, siete in egual modo irritanti. Ringraziate il paparino per questa inutile eredità. Mentre voi giocate a farvi la guerra, Caterina è lì fuori chissà dove con il corpo di Norman…e non riesco a pensare ad altro sul perché abbia fatto una cosa del genere».
«Non è ancora tornata?» chiese con un velo di preoccupazione. Leona scosse il capo.
«Forse lo so io il perché…». Le dita di Leona restarono sospese sopra la boccetta di unguento e inarcò un sopracciglio.
«È successa una cosa durante la battaglia…» proseguì Ethan «avevo giurato di non dire nulla, ma a questo punto non so in quale guaio si sia andata a cacciare quella sciagurata. Lei…stavamo lottando. Non l’avevo mai vista più inferocita di così, era una rabbia quasi ferina, non saprei in che altro modo spiegarlo. Era accerchiata da un paio di meta-lupi credo e mi ha chiesto una bomba allo strozzalupo. Io gliela ho lanciata. E giuro che se avessi saputo…io, io…».
«Che cosa è successo?» si affannò a domandargli Fabiano. Ethan si passò le mani fra i capelli biondi.
«Lo strozzalupo l’ha avvelenata, si contorceva per il dolore, l’ha paralizzata. E poi, poi è successo…».
«Il lupo, quello che ho visto sfrecciare a est…era lei?» si rese conto Fabiano «Ma come è possibile?».
 «L’artiglio dell’alfa l’ha ferita al petto, ricordate?» spiegò Leona «Anche se ho rimarginato la ferita non avevo previsto che ci fosse del veleno, quindi l’ho sigillato dentro di lei e ha attecchito. Adesso Caterina è un licantropo ed è tutta colpa mia» singhiozzò «Dobbiamo trovarla!» annunciò scattando all’in piedi. Fabiano le tagliò la strada «Non dire sciocchezze, hai ancora bisogno di riposo».
«Non sono un’invalida Fabiano, anche se non perdi l’occasione per sottolinearlo. Non oso immaginare come se la stia passando, si sentirà sola, lei…».
«Vuole stare da sola. Ormai non c’è più nulla che tu possa fare. E poi che ti intenzioni hai? Non può più far ritorno a Betelgeuse e lo sai bene»
«La cosa mi sconcerta ma sono d’accordo con Fabiano» concordò Ethan guadagnandosi un’occhiata furente di Leona che lo fece rintanare fra le coperte.
Fabiano le sfiorò la guancia «Lea, non c’è più posto per lei al Campo, non importerà a nessun chi sia stata, non stiamo parlando di un maleficio che può essere annullato, ma di qualcosa di permanente, qualcosa che se dovesse rimettere piede qui dentro la rendere un bersaglio per i cacciatori. Adesso lei è un licantropo…»
«È mia amica prima di ogni altra etichetta le vorrete affibbiare!» replicò lei interrompendo quel contatto.
«Dannazione Leona non puoi sempre correre a salvare il mondo intero quando nessuno te lo ha chiesto! Smettila di pensare che sia tutto una tua responsabilità e per una volta fa come ti dico, giuro che se continuerò a tallonare i tuoi ritmi potrei rimanerci secco». Le prese la mano metallica e se la portò sul cuore «Ti prego».
«Ti ascolterò soltanto se la smetterete di litigare voi due» disse con grave impassibilità. Riafferrò il guanto abbandonato sul comodino e se lo infilò con una tale forza che per poco non bucò le cuciture facendo spuntare le dita. Gli ingranaggi del suo cervello erano in moto, Fabiano sentiva il loro ticchettio anche da lì.
«Va bene» acconsentì lui. Stava mentendo, lui lo sentiva. E sapeva benissimo che anche questa volta le sarebbe corso dietro, senza nessuna eccezione.
«Va bene un corno! Mi ha fregato la ragazza, le mie torture sono appena iniziate» lo minacciò Ethan. Leona non voleva più starlo a sentire e Fabiano fece appello a tutta la sua pazienza per non accettare nessuna delle sue provocazioni. Finì la medicazione e la fasciatura con la testa da tutt’altra parte, ma riuscì comunque a portare a termine un buon lavoro.
«Ricordati» gli stava dicendo lei leggendo l’etichetta del flaconcino «miscela con un po’ d’acqua non più di cinque gocce di questa mistura due volte al giorno, una la mattina e una la sera, e…che cosa stai guardando?». Ethan sollevò un dito, le dischiuse le labbra e ne tracciò il contorno.
«Mi mancheranno come l’aria, lo sai questo vero? Spero che tu sia cosciente di questa ingiusta crudeltà. Forse non potrò più averle, ma nulla m’impedirà di immaginare te ogni volta che bacerò un’altra ragazza».
Per i suoi gusti quel dito stava indugiando un po’ troppo e non fu l’unico a pensarlo perché Leona provò a morderglielo.
«Ecco la mia piranha sexy» tubò soddisfatto. Fabiano sbuffò.
«Adesso sono io ad avere bisogno di un po’ d’aria. Tornerò stasera per controllare se ti sale di nuovo la febbre. Cerca di muoverti il meno possibile, idiota, o si riapriranno i punti» disse prendendo Edna fra le braccia.
«È un appuntamento?» le domandò speranzoso.
«Pensala come ti pare». Il gatto balzò giù e lei ne approfittò per scompigliargli i capelli. Poi fece cenno a Fabiano di seguirla e salutò il fratello con un’alzata di mento. Erano con un piede fuori dalla tenda quando li richiamò «Leona? Se dovessi trovarla…fa il modo di mandarla da me, ok?» disse come se la cosa non implicasse che avrebbero dovuto infrangere almeno un milione di regole e servirsi dei più improbabili travestimenti. Uno di quei giorni avrebbe dovuto spiegare a lei e Gab i fondamenti di come evitare situazioni di pericolo, e primo fra tutti gli avrebbe insegnato a non gettarvisi fra le braccia, anche se l’impresa era come cercare di combattere le pale di un mulino a vento.
«Lo farò» acconsentì lei cospirando in silenzio uno dei suoi piani suicidi, e lo lasciarono alla sua ancora lunga convalescenza.
Fabiano fece penetrare dentro i polmoni un po’ d’aria che non puzzava di putrefazione. Il clima era mite e la neve sui rami spogli cominciava a sciogliersi e a gocciolare sul terreno. Edna aveva abbandonato la sua forma da gatto per scambiarla con quella di un piccolo pettirosso per svolazzargli attorno. La cittadella in lontananza era un pullulare di gente che impastava cemento e trasportava mattoni come un laborioso formicaio. Finché avesse avuto vita quella collaborazione, non avrebbero dovuto preoccuparsi a lungo di dormire ancora su scomodissimi giacigli di sassi. Percorsero un po’ di strada senza rivolgersi la parola, il rollio della betoniera e i cigolii delle carrucole inquinavano i loro silenzi abbastanza per entrambi.
Leona calciò un sassolino che le intralciava la via «Come sta tua madre?». Si era così abituato ai suoi silenzi che il suono della sua voce risuonò come una fucilata. Era ancora arrabbiata con lui. Non aveva il coraggio di dirle che quando s’imbronciava in quel modo diventava ancora più bella, voleva godersi ancora un po’ quell’impasse.
«Passa molto tempo con Sara e questo è un bene. Le impedisce di pensare a mio padre. Migliora di giorno in giorno la sua…sai». Lei annuì senza aggiungere altro. «Forse non riacquisirà mai la vista, a lei però non sembra pesarle e onestamente neanche a me. Se continuerà a sorridere…per me sarà sufficiente. Adesso siamo in due ad occuparci di lei, le cose andranno sempre meglio. Ho fiducia in questo. E stavo giusto pensando una cosa…» il calore si arrampicò dal collo alle guance «penso sia il momento di presentartela, ufficialmente intendo».
Leona si fermò di botto e lo fissò con tanto d’occhi spalancati. Poi corrucciò la fronte come se un pensiero fulmineo le avesse attraversato la mente, strinse le labbra e riprese la marcia non curandosi che lui la seguisse.
«Cos’è, inizi già a sentire l’odore dei fiori d’arancio? Direi di fare le cose con calma. Non ti ho ancora perdonato per avergli presentato prima Gab, sto ancora scegliendo quale sia la punizione più adeguata»
«Non ti basta il fatto che partirai di nuovo?» se ne lamentò con tono petulante. «Gab a volte è un po’ sgangherato ma gli voglio bene ed è come se facesse parte della mia famiglia. Ti vorrei ricordare inoltre che sono stato leggermente costretto a farlo, tuo fratello e la discrezione viaggiano su due strade parallele che non s’incontreranno mai. E poi non ci trovo nulla di male, lui è il mio migliore amico…»
«E io cosa sono per te?». Gli si era parata davanti con le braccia incrociate. Invidiò il vento che giocava con uno dei suoi boccoli neri sfuggito dalla corona di trecce. Più la guardava, più il cuore pareva scoppiargli dentro al petto.
«Più o meno…Tutto». Per fortuna aveva azzeccato la risposta e gradì molto il suo premio. Gli piacevano da impazzire quelle fossette agli angoli del suo sorriso e quell’aria da bambina compiaciuta che aveva appena ricevuto un leccalecca.
«Riposo, soldato» gli disse lei con un pacca sulla spalla. Solo allora si era reso conto di essere rigido come un palo «Ti sei appena meritato una medaglia».  
«Nessuna medaglia» disse scuotendo il capo «mi accontenterò di tenerti per mano». Il cuoio del guanto era morbido contro il suo palmo.
«Ah, ti accontenti…».
«Questo tenere costantemente sotto esame tutto ciò che dico fa parte della tua punizione?».
«Potrebbe anche essere così… raggiungiamo i ragazzi» disse indicando il piccolo gruppetto che confabulava ai piedi del carrubo. Il loro carrubo. Rise al ricordo di quanto lei fosse stata piccola, soffice e impacciata dentro le sue braccia il giorno che era scivolata dall’albero.
«Puoi togliermi una curiosità. Lo facevi apposta? Intendo flirtare con mio fratello?».
«Non so di cosa tu stia parlando». Sorpresa con le mani nel vasetto di miele. «Sì che lo sai…».
«Va bene, va bene. Potrei essere vagamente colpevole del fatto che trovi adorabile la tua gelosia. È da quando ho dieci anni che desidero ricevere un minimo d’interesse da parte tua, ho anche scritto con Morgana un diario dove pianifico il nostro matrimonio in ogni minimo dettaglio, avevo anche un piano su come fare fuori Marlena da questo scomodo triangolo ma a quanto pare non ce ne sarà più bisogno…»
«Tu cosa…?» chiese atterrito.
«Ehi, o prendi tutto il pacchetto, psicopatie incluse, o l’affare non andrà in porto».
«Penso che ormai sia troppo tardi per tirarmi indietro, non credo di sopportare di separarmi un solo giorno dalle tue dolci psicopatie. Comunque dovresti stare più attenta a cosa desideri. Potrebbe non piacerti il risultato»
«Questo lascialo decidere a me» lo rimbeccò con un ghigno.
«Potrei anche arrivare ad odiare Ethan per questo» le confessò lui.
«E dove è finito il “sono contento che lui abbia te e bla, bla, bla…”, so che non arriveresti a tanto».
«Non mettermi alla prova» disse prendendole il mento fra le dita. I suoi occhi lo misero a fuoco, le sue pupille divennero due grandi eclissi nere, aveva smesso di respirare. Poi le disse a pochi centimetri dalle sue labbra «Ho paura di scoprire cosa sarei capace di fare per te».  Preoccupato della sua prolungata apnea, la lasciò andare. La dovette letteralmente trascinare prima che le sue gambe ricominciassero a collaborare. Il gruppetto composto da Marlena, Ascanio, Morgana, Gab e Fabrizio, si allargò per fare spazio alla nuova coppia interrompendo sul vivo la discussione. Il pettirosso che sorvolava in circolo sulle loro teste si abbassò di quota trasformandosi in un enorme sanbernardo dalle palpebre cadenti e corse incontro alla piccola Hilde, affogandola sotto valanghe di bava. Poi la banshee gli montò sulla groppa, spronandolo sui fianchi per scorrazzare al galoppo per tutto il cortile.
Ascanio lanciò una lunga occhiata significativa alle loro mani intrecciate. «Sapevo che il mio piano avrebbe funzionato, non ho mai dubitato che ce l’avresti fatta» disse a Leona.  I loro pugni si scontrarono in un specie di giochetto di figure acrobatiche che parevano conoscere solo loro.
«Ma di quale diamine di piano stanno parlando?» domandò Marlena a Fabiano spostando il peso da una gamba all’altra con evidente fastidio. Fabiano si grattò una tempia «Qualcosa mi suggerisce che è meglio non chiedere…».
«Io devo andare, mi sono appena ricordato che devo fare una cosa…lì, in quel posto…con una…persona» annunciò Gab inceppandosi fra le parole come se fosse perseguitato da una tarantola gigante. E corse via, spezzando quell’anello di adolescenti.
Ascanio scrollò le spalle «Mi sembra che sia chiaro a tutti…Braveheart ci sa fare con le spiegazioni».
Morgana si acchiappò il setto nasale «Leona, questa storia deve finire…».
«Credimi, nessuno lo vuole più di me, ma ultimamente incrociare mio fratello è facile come trovare una vergine in un bordello».
«Usa l’akasha, l’effetto osmosi o quello che vuoi tu, sei tu la medjai qui, non devo insegnarti io come fare il tuo mestiere…senti parlagli e basta».
«Non posso! Mi ha tagliata fuori. Ha eretto una barriera mentale, non mi lascia più entrare» le urlò contro Leona.
«Di chi spada ferisce…» cominciò Ascanio prima che venisse fulminato da cinque sguardi contrariati.
«Sentite» s’introdusse Marlena ravvivandosi la chioma bionda «vorrei poter dire che i vostri drammi familiari mi interessino più di contare i peli sul naso di mr. Hans, ma non mi piace dire le bugie…».
Fabrizio sembrò illuminarsi da dentro la celata della sua armatura «Oh, li hai contati anche tu? Io ho perso il conto dopo il…ah, era una battuta…l’avevo capita, non c’è bisogno che mi guardi così!»
«Il punto è» riprese Marlena riallacciandosi alla sua premessa stringendo i denti «che Fabrizio stava per dirci qualcosa di importante sulla sparizione di Norman, quindi qualsiasi altro vostro problemuccio strappalacrime è rimando a dopo. Il destino del nostro amico ha la priorità su tutto».
«Non è fantastica?» disse Ascanio stringendosela al petto.
«Sì, lo è» si sentì di confermare Fabiano. Marlena lo guardò di sottecchi e arrossì. Quel piccolo sorriso sulle sue labbra gli fece sperare che dopotutto avrebbero potuto tornare a considerarsi dei buoni amici, o almeno era quello che lui sperava.
«E quindi?» replicò seccatamente Leona.
«C’è la possibilità che Norman non sia morto. Cioè intendo dire in modo permanente, anche se dovremmo considerarlo come tale, se teniamo conto il suo nuovo status biologico…».
«Fabrizio!» lo sgridarono tutti per quell’inutile giro di parole.
«La regina delle fate mi ha detto che Ellak lo ha morso».
Marlena restò di stucco ma per il motivo sbagliato «E da quando hai tutta questa confidenza con sua maestà fatata?». Fabiano non riuscì a reprimere un brivido, anche lui per una motivazione altrettanto sbagliata. Il solo nominare Delilah gli aveva fatto tornare in mente ciò che si erano detti fuori dall’auditorium. Non vedeva come le loro vite si sarebbero potute intrecciare in futuro, sapeva soltanto che il fatalismo che traspariva dalla sua voce lasciva non aveva precluso quella possibilità in modo definitivo.
«Faccio parte della sua milizia adesso…» stava spiegando Fabrizio «Non hai sentito che ho detto?»
«Ho sentito quattr’occhi, ma non me ne andrei a raccontarlo in giro se fossi in te. Se è vero quello che stai insinuando sarebbe meglio che fosse morto sul serio» postillò Marlena.
«Come puoi dire una cosa del genere e dichiararti sua amica, sua maestà delle stronzette?» domandò Leona trattenendosi a stento dal scaraventarla contro il tronco dell’albero.
«Leona, tesoro, non lasciare  che il tuo nuovo feticismo per i vampiri ti faccia rinnegare ciò che sei. Stai zitta e buona in un angolo e vai a fare quello che sai fare meglio: la traditrice».
«Hei!» esclamò Ascanio «pensavo che voi due andaste d’accordo».
«Neanche se in un’altra vita dovessi rinascere sua sorella! Scusate un momento, chi di voi pensa che questa sia una buona notizia? Norman non avrà più alcuna possibilità di mettere piede qui dentro senza che qualcuno gli punti un paletto di biancospino al cuore. E poi cosa? Faremo finta di niente quando comincerà a mietere le sue prime vittime? L’idea di farlo fuori mi piace tanto quanto piace a voi, quindi se è fuggito via, possibilmente mettendo un oceano fra noi, tanto meglio. Se davvero è stato Ellak a morderlo, Norman è il suo diretto erede e non voglio essere lì quando rivendicherà il suo trono fra i Sanguinari, perché per quanto mi riguarda non verranno fatte eccezioni di nessun tipo».
Ascanio sembrò rifletterci su «Questo se non ci aveva già pensato lui a creare un possibile erede».
«Improbabile» lo smontò seduta stante Morgana «Mi sembrava più il tipo da lasciar fare il lavoro sporco a qualcun altro. Sono quasi certa che i neonati non li creasse lui, non era di certo famoso per il suo sangue freddo».
«Nonostante tutto…Anche se lo dovessi rincontrare e scoprire a mie spese che lui è diventato un vampiro, non riuscirei a vedere nient’altro che il volto di un amico» disse Fabrizio abbassando gli occhi a terra. A quel punto calò il silenzio, forse perché un po’ tutti la pensavano in quel modo o forse perché per la prima volta avevano preso atto del fatto che erano partiti in undici da quel viaggio ed erano tornati in otto e che quei tre posti vuoti bruciavano fra loro più di mille fornaci accese. Presto sarebbero diventi quattro. Fabrizio apparteneva alla Regina delle fate ormai, e non c’era altro modo di evitarsi quel castigo se non quello di attendere che quel ghiribizzo avesse fine.
«Fabrisiiiooo» petulò una vocina che ricordava un incrocio fra un fruscio di foglie e il gorgoglio di un ruscello. Guardarono tutti l’ex aspirante stratega ricoprirsi di rampicanti spinosi fino a che di lui non rimasero nient’altro che un paio di lenti messe fuori fuoco. I tentacoli erbosi gli si attorcigliarono su per le gambe e le braccia e lo immobilizzarono lì sul posto. Poi due mani verdi come la linfa gli si pararono davanti gli occhi e lo immersero nella più totale cecità. La driade che aveva catturato il poveretto aveva lunghi capelli color glicine tempestati da quelle che sembravano piccole gocce di rugiada blu. La clorofilla rendeva il suo incarnato di un insolito colore verdognolo e lievemente lamellato, e sebbene dei rigogliosi cespugli di bacche di belladonna fossero posizionati in punti provvidenziali del suo corpo, appariva chiaro che non trovasse di alcuna utilità indossare della stoffa addosso. Il suo faccino grazioso e affilato come quello di un elfo sbucò da sopra lo spallaccio di Fabrizio e li pregò con i suoi grandi occhi smeraldini di tenerle il gioco.
«Indovina chi sono?» sussurrò al suo elmo nel punto in cui avrebbe dovuto esserci l’orecchio.
Fabrizio si dimenò nei suoi legacci a disagio e finse educatamente di tentare la fortuna «Drusilla?».
«Ma come hai fatto?» esclamò la driade pestando un piede per terra, indispettita dalla facilità con cui era stata smascherata.
«Ti svelo un segreto Piantina. Il tuo Fabrisiiioo è un mago» le bisbigliò Ascanio atteggiandosi come un cospiratore malizioso. La fata della terra spalancò la bocca per la sorpresa, intonando un “oooh” d’incredulità. Poi Fabrizio tossì «Ehm, Dru…? Ti dispiacerebbe…».
«Oh, sì, scusa» disse ritirando impacciatamente i suoi rampicanti. Fabiano si astenne dal ridere. Lo conosceva così bene che, anche se nascosto dall’elmo, se lo immaginava rosso come un pomodoro maturo.
«Ragazzi lei è Drusilla» gliela presentò Fabrizio «la Guardiana a cui la regina Delilah mi ha affidato. Be’ tecnicamente sono suo prigioniero…».
Ascanio scandagliò senza pudore ogni forma voluttuosa della driade «Forse sto cominciando a rivalutare le prigioni di fatalandia se le carceriere sono tutte come lei…ahio!». Se l’era proprio meritata quella gomitata, ma compativa l’amico. Fabiano benediceva ogni divinità del cielo per non dover avere più niente a che fare con la gelosia otelliana di Marlena. Mentre tutti erano curiosi di fare la conoscenza di Drusilla, Leona pareva distratta da qualcos’altro. Fabiano sbirciò nella stessa direzione e scorse un’ombra umanoide fra gli alberi. No, non un’ombra. Avrebbe riconosciuto il taglio di quei mantelli dovunque. Tutto nel timido straniero che si celava fra gli alberi gli suggeriva che si trattasse di un protettore che probabilmente si stava godendo una breve pausa dai lavori di ristrutturazione della cittadella, ma allora perché indossare il cappuccio?  Leona non era afflitta dalle sue stesse perplessità. Dal passo spedito con cui si stava allontanando da loro, dava per scontato che conoscesse sia il suo volto che il suo nome. Fabiano le andò dietro, insospettito dalla riservatezza di quel protettore, e le afferrò il polso per fermarla.
«Dove stai andando?».
Leona lo fissò stralunata e balbettò una banalissima scusa «Io…ho bisogno di riflettere». Perché voleva tenergli nascosta la sua identità?
«Vuoi che venga con te? Lo sai che in due si riflette meglio?» suggerì lui abbozzando un mezzo sorriso. Lei ricambiò.
«Non dirmi che già ti manco»
«Mi conosci troppo bene…».
«Che ne dici se ci vediamo dopo nel nostro posto? C’è qualcosa che devo ancora fare…».
«Ok» acconsentì lui quasi troppo in fretta «ma non metterci troppo». Sperò che l’ansia nella sua voce non fosse così evidente. Leona inclinò la testa di lato e finse di analizzarlo. Poi quando meno se lo aspettava, si fece più vicina e gli baciò una guancia frettolosamente. Un bacio che scottava.
«Promesso!» gli urlò di rimando mentre raggiungeva l’ingresso del bosco. Dietro si sé aveva lasciato una scia profumata di rose che, in caso di pericolo, lo avrebbe aiutato a ritrovarla proprio come le mollichine di pane nella favola di Pollicino. Adesso erano due le figure nere lì in mezzo alla boscaglia: lei e lo sconosciuto che in quel momento si era tolto il cappuccio. Lui la prese per mano e la condusse nell’oscurità. Ma poco prima che scomparissero, lui si era guardato attorno, forse per paura di essere visto o riconosciuto. Non sapeva spiegarsi come, ma c’era qualcosa di sbagliato in lui…come se non avesse dovute trovarsi lì. Quei lineamenti duri, quella mascella scolpita e i corti capelli neri non ricordavano nulla a Fabiano.
Ma quegli occhi.
Miei medjai, quegli occhi…
Quell’intenso oceano blu lo avrebbe riconosciuto fra milioni.
Allora qualcosa di freddo e viscoso gli compresse lo stomaco e il suo cuore prese il volo perché quegli occhi…
Erano identici a quelli di Leona.
*************

Leona

Quella mano di metallo gravava sulla sua spalla facendola respirare a fatica. Leona era sfinata dal suo peso. Restare con la schiena dritta le costava un sforzo immane, ma non avrebbe di certo cominciato a camminare sbilanciata da un lato come la torre di Pisa soltanto perché era appena diventata il primo prototipo di ragazza bionica. Al suo risveglio aveva sperato che sarebbe stato come quella volta dopo l’esame nell’arena, che quella spada che era calata su di lei non fosse stata altro che uno scherzo della sua mente come lo erano state le fauci del lupo. Quella volta però non aveva nessun Amadeus contro cui puntare il dito, nessuna illusione da svelare. Avrebbe mentito se non avesse ammesso di esserne tremendamente delusa. Una delusione che non avrebbe conosciuto nessuno, non avrebbe permesso ad anima viva di sbirciare dentro la sua testa, avrebbe mostrato loro solo la facciata che lei voleva che loro vedessero.
Lei stava bene, non era mai stata meglio.
Certo non era semplice mentire a se stessa, ma i guanti le erano di conforto e la aiutavano con quella messa in scena. Sapeva che era lì e che ci sarebbe stato per il resto della sua vita, non poteva fare finta del contrario, ma poteva sempre far credere a tutti che le andava bene così. Anzi, l’acciaio di hijir impiantato al suo braccio la rendeva ancora più temibile, anche se il quel momento, trascinata di peso da quell’enorme ragazzone dalle spalle larghe nel fitto della pineta, la faceva apparire più come una bambina capricciosa che sta per essere punita per l’ennesima marachella.
Il suo piccolo gruppo di geocinetici aveva fatto miracoli con la ricostituzione nella foresta. Non potendosene occupare direttamente lei, visto che dal giorno dell’amputazione il potere elementale le dava qualche problema, aveva selezionato i pochi soggetti affini al flusso energetico della Terra per riparare i danni di quel disastroso incendio, canalizzando il potere attraverso la reliquia. Era stato facile per lei risalire alla fauna e alla flora di quel micro-ecosistema, aveva passato così tanto tempo in quella radura, che sapeva di aghi di pino e resina dolce, che conosceva a memoria lo schieramento di ogni albero e la posizione di ogni affioramento roccioso. Il passo successivo era stato quello di convincere gli animali che l’avevano colonizzata a far ritorno nelle loro tane. Molti erano ancora impauriti, gli uccelli erano stati di gran lunga i più testardi, ma Leona sapeva essere molto persuasiva e così, garantendogli protezione e con l’indispensabile collaborazione di Edna, si mise a capo del più grande esodo di bestie che Betelgeuse avesse mai visto.
«Noah, dove stiamo andando? E dove hai trovato questa tenuta da combattimento?» chiese lei in affanno.
«Potrei averla presa in prestito da…»
«Noah…»
«Giuro che la restituisco, non mettermi in punizione» piagnucolò lui. Le loro lunghe falcate facevano volare in aria nugoli di aghi di pino e pigne. Per poco Leona non inciampò lungo la via quando il ragazzo frenò di botto. Noah l’aveva stretta così forte che si sentiva formicolare tutte le dita, rinvigorite dal ritorno della circolazione.
«Che cosa ci facciamo qui?». La radura era disseminata dagli scheletri carbonizzati di alcuni tronchi, per il resto era completamente deserta. Quella porzione di bosco non era ancora stata raggiunta dall’energia rivitalizzante dei suoi aiutanti. Noah s’intascò le mani scorticate dal freddo e urlò «Vieni fuori, Jin!».
Nell’interstizio fra due alberi, strisciò fuori una figura minuta dai marcati lineamenti asiatici, tenendosi al riparo fra le ombre. La sua pelle era così pallida che non c’era alcun dubbio su cosa fosse. I capelli della vampira erano raccolti in un corta lingua nera di ciocche liscissime e lucide che non oltrepassavano le spalle. Era piccola e snella e si muoveva svelta come un furetto. Ogni passo era preceduto da un acuto scampanellio proveniente dal ciondolo che portava appeso a una spessa fascia bordeaux scuro posizionata sul collo.
«Ciao Leona» la salutò lei con un forte accento americano a dispetto della sua nazionalità. Noah sollevò un braccio per dividerle «Non ancora». La vampira annuì.
«Mi trovo ancora una volta in difetto. Tu conosci me, ma io non conosco te» le disse Leona.
Jin si toccò il gingillo che aveva al collo e lo fece suonare con occhi distanti e nostalgici «Sei stata una cara amica. La mia mentore. La più odiata fra le nemiche. Ti ho fatto del male, molto male. Ti ho fatto qualcosa che non so se fino in fondo riuscirai a perdonarmi. Ma adesso sono qui, per fare ammenda. I Cavalieri della notte vogliono tuo fratello perché non hanno abbastanza energia per portare a termine la riesumazione dell’antica città di Hijir. Lì, in quella città dimenticata da dio, c’è un’arma, un’arma molto potente. Non sappiamo esattamente cosa faccia, non ce l’hanno mai detto, ma ti assicuro che non vorresti scoprirlo. A quanto sembra il potere di due medjai corrotti non è sufficiente a completare il rituale, per questo tenteranno di corrompere anche Gab portandolo dalla loro parte. Col tuo sangue invece, Sibilla estrarrà l’essenza di Odetta per imprigionarla una volta per tutte».
Il cervello di Leona fece contatto e andò in corto circuito «E tu come fai a sapere tutte queste cose?».
«Perché io, sono stata una di loro…».
«Basta Jin! Così la confondi!» la rimbeccò Noah quasi ruggendo. Cos’era stato quello strano lampo nei suoi occhi…
«Perché siete qui? Rivolete indietro le reliquie, non è così?».
Noah si massaggiò le sopracciglia e ritrovò la calma «No. Il salto temporale è servito a ristabilire l’ordine degli eventi, a ricollocare le reliquie nello giusto squarcio fra le pieghe del tempo per far sì che il me del futuro sappia esattamente dove ritrovarle».
«E allora cosa...? Non sapete ancora dove sono…» dedusse in un mormorio. Un vago sentore le fece temere che non le avessero ancora detto tutta la verità.
«Cominciamo a perdere le speranze…insomma, si tratta sempre di te dopo tutto, anche se una te un po’ più giovane. Quindi, ammettiamo per un momento che tu sia molto…arrabbiata, frustrata, disperata e volessi in qualche modo restartene sola, recarti in luogo, magari a te familiare, dove ricaricare le energie. Quale sarebbe la prima cosa che faresti?».
«La risposta implicherebbe che io mi conosca profondamente, e potrebbe anche valere per la me di quest’epoca, ma come potrei immaginare cosa si agiti nella mente della me del futuro senza conoscere le circostanze che mi hanno portato a quello stato? Non posso risponderti concretamente. Potrei indurti in errore. Ricordo però cosa m’insegnò mio zio Mark un po’ di tempo fa: se perdi qualcosa, l’unico modo per ritrovarla è ritornare alla fonte».
«Ritornare alla fonte, ritornare alla fonte…» le fece eco Noah, camminando avanti e indietro «È una specie di metafora?».
«A dire la verità io…» ma Noah non la lasciò finire, la raggiunse e le baciò la testa con un entusiasmo che la stordì.
«Mamma, il prozio Mark era una genio! E…» Noah sbiancò di colpo con ancora la sua testa fra le mani. Lo aveva fatto di nuovo. L’aveva chiamata mamma.
«Scusa, non dovevo…»
C’erano almeno un milione di domande con una priorità decisamente più alta con cui Leona si sarebbe dovuto confrontare. Ma lo interruppe e raccolse tutto il suo coraggio per porgli quella che le affiorò d’istinto sulla punta della lingua «Sarò...una brava madre?».
Non comprendeva nemmeno lei stessa in fondo perché le interessasse così tanto, ma aveva bisogno di saperlo. Noah si dimenticò di richiudere la bocca e riplasmò lentamente quel suo stupore in un meraviglioso sorriso. Leona lo ammirò per un lungo minuto. Lui non era bello in modo convenzionale. Era devastante. Se quello sarebbe stato davvero suo figlio, be’, doveva brindare quella sera stessa e complimentarsi con se stessa. Aveva dato vita a un vero capolavoro della natura.
«Immagino che potrei essere di parte. Vuoi comunque conoscere la risposta?»
«Non è una domanda scontata. Sai potresti odiarmi, è quello che tendono a fare tutti gli adolescenti».
«Mam...Leona, io non potrei mai odiarti. E comunque: sei la migliore. Mi lasci sempre fare ciò che voglio, come partecipare alle feste più esclusive o marinare la scuola,  me la dai sempre vinta con Vin, al mattino non spalanchi le finestre per fare cambiare l'aria mentre verto in un coma profondo, raccogli la mia biancheria sporca senza sbraitarmi contro che sono un buon a nulla, non ti sei per nulla adirata quando a sedici anni credevo di aver messo incinta una ragazza dell'ultimo anno della mia scuola, no, no, e per l'ultimo compleanno mi hai regalato una  Rolls Royce del...»
«Non ti ho insegnato a mentire, eh?»
«Difetto ereditario» disse facendo spallucce.
«Hai davvero...?»
«Lenny Boscow,  quinta B, ci siamo ubbriacati  come se non ci fosse un domani ad una festa di Ben Larxon. Una festa a cui mi avevi categoricamente vietato di partecipare, per inciso. Una gran bella gnocca per dirla tutta, ma non abbastanza da convincermi che cambiare pannolini puzzolenti e salutare i vicini con aria sorniona mentre taglio il prato della nostra villetta super lussuosa sia una buona idea. Per fortuna hai scoperto che la furbetta aveva falsificato il test di gravidanza. E be’...non è finita bene. Ma lascerò a te scoprire il finale. Ti piacerà».
«Quindi niente ciabatta?»
«Oh no,  la tua rabbia era sobria come un tizio che è appena stato licenziato al decimo giro di Vodka martini. Mi hai solo svuotato l'intera scarpiera addosso».
«Già sembra qualcosa che sarei capace di fare in effetti»
«E considerando che zia Alice e zia Rose si sono occupate di riempirtela...pensa alla quantità di tacchi a spillo con cui ho avuto a che fare…ah, merda!» imprecò accorgendosi delle macchie rosse che gli colavano sulla giubba «Non di nuovo!».
«Ti sta sanguinando il naso» lo informò impassibile Jin.
«Sì, davvero, grazie tante, non me ne ero accorto» se ne lagnò causticamente reclinando la testa all’indietro per risucchiare la perdita. «Tutti questi salti non devono aver giovato al mio organismo». Jin scivolò ancora una volta fra le ombre, come se fosse la loro passeggera preferita, e si ritrovò a un passo da Noah per bisbigliargli «Non possiamo più rimandare». Il ragazzo strinse i pugni con forza e poi li rilasciò andare, quasi come se volesse strozzarla con le sue stesse mani. I suoi occhi lucidi le misero una paura che non riuscì più a scrollarsi di dosso.
«Cosa? Cosa volete farmi?».
«È stato bello rivederti, mamma» la sua voce tremava «ma non possiamo fare eccezioni».
«No» mormorò lei preparandosi a fuggire. Ma non ci riuscì. Un attimo prima Jin le stava scavando la fronte con un dito da cui si irradiava un dolore acuto che la fece cadere sulle ginocchia. L’attimo dopo il mondo si tinse di bianco. Una cecità bianca, fredda, che la fece smettere di esistere in quel giorno, in quell’ora, in quel minuto, in quel singolo istante. E poi…
Stava osservando i ciuffi imbruniti di un aghifoglio arrossato sui bordi. Si sfilò il guanto e  lo raccolse da terra. Lo annusò. Era vischioso al tatto, si era imbrattata i polpastrelli con della resina. Uno storno sopra di lei le oscurò la vista del sole, abbastanza basso da indovinare che si stesse avviando al tramonto. Che cosa ci faceva lì su quel letto di terriccio umido? Si scotolò metodicamente gli abiti spiegazzati e rindossò il guanto di cuoio ormai impregnato dell’odore fresco della pineta. Non aveva altra compagnia che quei giganti verdi attorno a sé. Udì un ronzio. Lì incastrato fra le radici c’era un alveare. Leona seguì il zigzagare confuso di quelle piccole impollinatrici zebrate di nero e giallo. Le api le ricordavano il miele. Il miele era dolce, dorato. Dorato come gli occhi dei Cullen.
I Cullen! Gli aveva promesso che li avrebbe raggiunti fuori dallo Specchio sul fare della sera.
Si posò una mano sul petto. Le faceva male. Si sentiva come se le avessero strappato qualcosa contro la sua volontà. Non le piaceva affatto quella sensazione, ma aveva ben altro a cui pensare.
I vampiri la stava aspettando nel buio. I suoi vampiri.
E la Cacciatrice non vedeva l’ora di incontrarli.

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Capitolo 64
*** PROLOGO Pt. 3 (FINALE) ***


 

 AVVISO PER I LETTORI: Non ci crederete mai, ma questa è davvero la fine. Non vi sto trollando per l'ennesima volta. A dire la verità non ci credo nemmeno io. Godetevi l'ultimissimo paragrafo e ci vediamo sotto per le considerazioni finali! Se vi siete persi le parti 1 e 2 del prologo con i POV di Gab, Morgana, Fabiano e Leona, andate a recuperare!

Leona

Leona era in cerca di risposte. Se solo avesse conosciuto le domande. Le sembrava di avere una miniera di gnomi che le picconava nella testa alla scoperta di minerali nuovi. Un ricordo se ne stava lì ad aleggiare nel labirinto della sua mente come uno spettro inafferrabile a cui non avrebbe mai potuto dare un volto. Si pizzicò il cavallo dei pantaloni per farli cadere meglio su di lei mentre pendeva a testa in giù dal ramo di un abete, grata di aver lasciato le gonne alle borghesucce di provincia, e sfrecciò fra le tenebre beneficiando della ritrovata comodità della sua tenuta da protettrice. Il bosco aldilà dello Specchio era per lo più afono se non per i lievi fruscii delle creature sonnambule che montavano di guardia. Leona saltava da un albero a un altro altrettanto silenziosamente, provando ad adattarsi al suo nuovo universo tattile in cui era costretta ad esplorare il mondo con un guanto a mediare fra il suo tocco e tutto il resto.
«Sono troppo cresciuta per giocare nascondino» urlò alla notte non così forte da allarmare il gufo che sonnecchiava in cima al suo trespolo ricurvo «So che siete qui. Venite fuori e facciamola finita». Si lanciò dal suo covo di foglie, roteò per aria e atterrò una manciata di metri più sotto senza disturbare la polvere a disperdersi nell’etere. Non era una sua impressione. Il bosco stava fischiando. Un suono così tenue che nessun orecchio umano avrebbe potuto percepire, ma non quello di una Cacciatrice di vampiri. Il loro odore dolciastro di corpi in bilico fra la vita e la morte impregnava la corteccia degli abeti e l’umidità di quella sera non faceva che aumentarne l’intensità. Un tempo Leona lo avrebbe detestato. Ma quell’odio apparteneva a un’altra Leona, non le sembrava nemmeno più suo. Forse non lo aveva mai posseduto, per questo aveva bisogno di risposte, doveva esserne assolutamente certa prima di discuterne con suo fratello. Si disfò del cappuccio e frugò nel miele dorato degli occhi di Edward, il rosso vermiglio del sangue di quel vile stupratore lo aveva finalmente abbandonato. Il bianco della sua pelle combatteva tenacemente le tenebre della notte che lo avvolgevano, il suo miglior biglietto da visita s’incurvò lì, all’angolo della bocca. Ci sarebbero voluti ancora tanti anni prima di rendersi immune al quel dannato sorriso sghembo che le faceva imbizzarrire i palpiti nel suo petto. Col suo udito sopraffino doveva aver percepito quell’improvvisa accelerazione e comunque non c’era modo di sfuggirgli, era un lettore di menti fin troppo abile. Doveva rassegnarsi, mente e cuore erano sotto il suo giogo. Se non avesse odiato quel suo fottuto modo di farsi gli affari suoi, lo avrebbe quasi abbracciato. Quasi, ovviamente.
«Se c’è qualcosa che ti diverte, vorrei ridere anch’io Succhiasangue. In caso contrario ti sconsiglio di provocare una Protettrice nel pieno della frenesia della caccia, soprattutto se ti trovi sotto il suo mirino».
«Sono solo felice di vederti di nuovo in piedi, non mi stavo prendendo gioco di te» disse Edward scrollandosi alcune foglie secche rimaste incastrate fra i suoi capelli.
«E io sono felice che tu abbia abbandonato le tue discutibili abitudini alimentari. I poveri conigli lo saranno di meno».
Poi ci fu un tonfo.
«Lui preferisce i puma» la informò Emmet venuto giù all’improvviso da un punto impreciso della foresta.
«Avete mai sentito parlare di impatto ambientale?» commentò sarcasticamente Leona soppesando l’imponente muscolatura del vampiro. A proposito non era niente male…
«Abbiamo a cuore l’ecosistema ragazzina, noi cacciamo con coscienza, ed è un vero peccato che siano le specie sbagliate ad essere condannate all’estinzione» disse qualcun altro facendo un riferimento non troppo velato alla sua razza di super guerrieri. Quella voce melodiosamente astiosa la convinse a lasciar perdere l’oggetto della sua attenzione per traslarla su qualcuno di decisamente meno erculeo e più principesco, da fatina perfettina delle favole. Rose fra tutti i Cullen era quella che conosceva di meno, ma il cuore non le doleva affatto per questo. La sua bellezza ti scalfiva come un pugno ben assestato nello stomaco. Ovunque sbirciasse non vi era altro che perfezione statuaria, forme al punto giusto, capelli dorati appena cotonati dal parrucchiere e pelle così liscia e compatta da farti credere di non aver mai conosciuto le impurità cutanee. Quella spudorata bellezza le dava sui nervi, e Rose sembrava esserne consapevole da come gongolava sotto i baffi. Si posizionò al fiancò di Emmet in un chiaro gesto di marcare il territorio. Che cagnolina dispettosa…pensò segretamente Leona.  Edward, spettatore del suo monologo interiore, per poco non si affogò nella sua stessa risata. Rosalie lo fulminò atrocemente socchiudendo gli occhi dorati. 
«Vampiri ecologisti, vegetariani…» commentò Leona ad alta voce «Andateci piano con le virtù, la perfezione prima o poi stufa». Il ringhio sommesso di Rose la riempì di soddisfazione e avrebbe continuato a stuzzicarla se non avesse visto Carlisle e Esme avanzare verso di loro. Leona andò incontro ad Esme e ci si tuffò fra le braccia senza preoccuparsi delle dure conseguenze dell’impatto. Non sapeva ancora perché lo avesse fatto, non capiva perché avrebbe dovuto elemosinare l’affetto di quella  fredda creatura, ma lo voleva, ed Esme fu più che generosa nell’accontentarla. La teneva stretta a sé delicatamente per paura di far troppa pressione su di lei, le accarezzava i capelli e anche se non udiva nessun cuore battere, Leona era certa che se lo avesse avuto le avrebbe cantato all’orecchio il suo caldo benvenuto. Sapeva di gigli appena sbocciati e camomilla setacciata, odori leggeri che fungevano da miorilassanti ad ogni nuova zaffata. Esme le sollevò il guanto che nascondeva la protesi e le chiese «Come ti senti, bambina mia?». Era incredibile come anche una semplice domanda come quella riuscisse ad emozionarla. Leona si fece coraggio e glielo mostrò alla luce della luna. Il suo sguardo si contrasse e si morse un labbro, un vezzo così umano che le fece dimenticare di avere davanti un Immortale. Poi si aprì in un sorriso e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sei stata molto coraggiosa Leona, devi essere fiera di quello che sei».
Leona ne era cosciente: quella non era sua madre e non lo sarebbe mai stata. Allora perché quelle parole la rimpinzavano di così tanto orgoglio da sentirsi scoppiare? Il colore dei capelli non corrispondeva, né quello degli occhi, la forma della mascella era più addolcita, gli zigomi meno pronunciati, il suo sorriso era fin troppo mieloso per ricordarle quello deciso della sua vera madre. Arianna era una guerriera, ed Esme era di quanto più lontano potesse essere da una combattente. Però non smetteva di pensare che il destino le stesse proponendo una seconda possibilità, voleva credere che quello fosse l’ultimo regalo di sua madre.
Poi Emmet la distolse dalle sue fatalistiche congetture «Ehi ma quel coso funziona? Insomma, non è troppo pesante per un esserino delicato come te?». Leona si sforzò di allacciare i nervi e i muscoli alle giunture metalliche della sua protesi, ignorando il fastidio che le procurava. Voltò piano la testa verso la montagna che l’aveva punta nel vivo del suo orgoglio piegandosi lievemente sulle ginocchia. «Mmm, non lo so. Vogliamo testarlo su di te?» disse prima di assestargli un pugno metallico fra gli addominali duri come pietra. Emmet venne sbalzato via dal colpo. Sorpreso e confuso si ritrovò a rotolare in un cumulo di terra che in quello svelto vorticare gli era finito pure in bocca. Infilò mani e piedi sotto il primo strato di terreno, strisciando dei solchi sulla sua superficie fino a fermarsi. Sputacchiò le pietruzze che aveva ingerito accidentalmente e scoppiò a ridere così forte da indispettire la famiglia di pipistrelli che si godeva la sua quieta nottata invernale. 
«Mi piace la bambolina, ha un bel caratterino» sentenziò tutto contento quando ebbe smesso di ridere.
«Attento Emmet» gli suggerì qualcuno che faceva la sua comparsa il quel grottesco teatrino di vampiri e cacciatori. La figura longilinea di Jasper si materializzò al fianco di Carlisle con le mani in tasca «Non tutti gli angioletti riescono con l’aureola…».
«Non avrà le ali, ma devi ammettere che si tratta di un angioletto con un bel paio di guanti. Anche quando si combatte lo si deve fare con stile» disse Alice spolverandosi la gonna distrattamente. Leona le fece l’occhiolino e lei ricambiò.
«Vedo che cominci a prendere confidenza» postulò Carlisle con un sorriso sornione «Posso vedere? Mmm…è davvero interessante. È un miracolo della biologia e della metallurgia che potrebbe rivoluzionare  il mondo della sinterizzazione organica… I due elementi non sono complementari eppure tu riesci a farli collaborare come un sistema d’ingranaggi ben oliato. Richiede un notevole sforzo, non è così?»
«Richiede una buona quantità di mana e concentrazione in effetti e ancora non riesco a percepire con certezza le cose che tocco».
«Col tempo riacquisirai anche il tatto, il tempo di capire come allacciare le terminazioni nervose ai filamenti all’interno della protesi, che a proposito dal punto di vista anatomico è perfetta. Non fraintendermi hai fatto un ottimo lavoro, ma con le tue capacità avresti potuto ricostituire ciò che avevi perso…Perché non l’hai fatto?»
«Presupporrebbe una conoscenza dei singoli tessuti e apparati di cui al momento sono sprovvista, non mi piace ammetterlo ma le mie conoscenze di medicina non sono sufficienti per cimentarmi nella neogenesi di un arto con tanto di ossa e vasi sanguigni e…insomma non me la sono sentita. Rischierei di fare un disastro e l’ultima cosa che voglio è che guardiano con disprezzo alle mie deformità.  Il metallo è decisamente più facile da maneggiare specialmente quando si trova allo stato fuso. La sua struttura molecolare reticolata è più schematica e intuitiva rispetto alla materia organica. Mi è più familiare insomma, non sono ancora pronta per questo» disse provando a muovere le dita.
Carlisle annuì serio senza aggiungere altro.
«Carlisle, tu però potresti istruirla?» propose Esme con entusiasmo.
«Io…non credo che sia…» cominciò a dire la protettrice prima che Alice la circondasse con le sue lunghe braccia spigolose «È già deciso! Sarà un piacere vederti gironzolare per casa! Certo non accadrà subito, almeno non prima che tu abbia terminato l’addestramento con Benjamin!».
«Cosa? Ma io…» balbettò ancora una volta interrotta nel bel mezzo della frase da un altro Cullen.
«Ah!» esclamò gioioso Emmet acciuffandola alla base delle ginocchia per portarsela sulle spalle «Almeno da tutta questa brutta faccenda abbiamo ricavato una adorabile mascotte!».
«Mettimi giù scimmione! O ti farò assaggiare un altro po’ del mio metallo» lo sgridò ridendo del suo incontenibile entusiasmo. Edward li osservava sorridendo addossato al tronco di un albero.
«Allora siamo tutti d’accordo!» esclamò Alice roteando nella sua gonna svolazzante di merletti.
Jasper a quel punto fece finta di tossire «Forse non proprio tutti…». Allora Emmet si girò istintivamente verso al sua compagna imbronciata come se fosse la metafora vivente del disappunto e fece scivolare Leona dietro la sua schiena.
«E dai Rose, non fare la solita guasta feste!»
«Chiedi al sole di non sorgere il mattino successivo, forse avrai più fortuna…» disse sottovoce Edward fingendosi disinteressato a quella questione. «Edward!» lo rimproverò amorevolmente Esme e lui scrollò le spalle in risposta.
«No, Esme. Questa cosa fra noi è sbagliata. Non sto dicendo di essere pentita di avervi salvato, lo rifarei ma in questo momento voi dovreste fuggire da me, dovreste temermi…»
Emmet roteò gli occhi «Adesso non esagerare…».
«Falla finire Em» gli chiese Edward con tutta la cortesia di cui fosse capace. Leona lo ringraziò con un breve assenso della testa. Poi riprese «Sto mandando a puttane secoli e secoli di regole e tradizioni, miti e credenze, e vogliate perdonarmi, ma voglio essere sincera con voi, non sono del tutto certa che qualunque cosa stia succedendo qui debba avere un seguito. Un equilibrio millenario sta per essere sconvolto…».
«Da ambo le parti».
Tutti i presenti si voltarono verso chi aveva parlato. Rose sembrava più interessata alla punta del suo tacco tredici ancora perfettamente lucido di lacca rossa, eppure era stata lei a pronunciare quelle parole.
«Anche noi stiamo rischiando molto più di quello che credi. La nostra libertà, la nostra segretezza non mi sembrano sacrifici che possano essere ignorati. Chi ci dice che tu non stia mentendo o stia facendo il doppio gioco? Hai detto bene: tu sei e rimarrai sempre una cacciatrice. E per quanto possiamo fare finta di giocare a fare gli amichetti, che cosa farai quando qualcuno di noi commetterà un errore? Te ne resterai lì a guardare e ti volterai da un’altra parte? Io non credo. Che cosa credi che il mondo giri attorno a te? Ricopro già io il ruolo dell’egocentrica in questa bizzarra famiglia, quindi siamo al completo. Non ti conosco e non muoio dalla voglia di farlo, ma so riconoscere un tipo che rimane fedele a se stesso e ai suoi principi quando ne vedo uno. Perciò smettila di emanare quell’aria martirizzata perché non ti crede nessuno. Se questo errore avrà un seguito lo faremo da entrambe le parti e ce ne assumeremo le conseguenze. Così siamo pari». 
Sei paia di occhi dorati guardarono la vampira con l’immobilità incorruttibile di una statua. Edward sospirò piano scuotendo la testa, gustandosi un divertimento tutto suo fatto di sfumature di cui gli altri non potevano godere. Le menti altrui dovevano essere una sorta di soap opera per il vampiro.
«Che cosa sta succedendo?» spezzò il silenzio Emmet. Alice lo guardò annoiata, girandosi una ciocca di capelli corvini fra le dita. Probabilmente aveva già visto la scena e conosceva il finale. Jasper la osservava chiedendosi a cosa stesse pensando.
«Amore, sei sicura di stare bene?» le domandò Emmet poggiandole una mano sulla schiena. Gli si rivolse con uno sguardo inviperito «Non sono un’ ingrata, va bene?» poi fece qualche passo verso Leona «Ti ringrazio per ciò che hai fatto per noi, io di certo non lo dimenticherò. Ma questo non significa che tu mi piaccia».
Leona si sollevò il cappuccio sul capo dandole le spalle, pronta per andarsene via. «Lo capisco Bionda, tranquilla» le disse come se fosse distratta da qualcos’altro.
«E cosa avresti capito?». Il tono acido con cui glielo domandò le fece intuire di aver conquistato la sua attenzione.
«Oh, non è ovvio? Ti senti minacciata» aggiunse fingendo un’ostentata innocenza da stralunata.
«Da te?» ringhiò lei in risposta.
«Vedi nessun’altra medjai stupenda da svenire in giro? Ti rode il fatto che crescendo potrei diventare più bella di te, ammettilo qui e ora e vedrai che il tuo ego dopo tutto non ne uscirà irrimediabilmente mutilato». Dopo qualche tenebrosissimo minuto di silenzio in cui tutti temettero il peggio, Rosalie scoppiò a ridere a crepapelle.
«Ma guardate la nanerottola, ha il senso dell’umorismo. È divertente! Propongono di tenercela come giullare». Sarebbe rimasta a scherzare con loro tutta la notte. Ormai era chiaro. Qualcosa in Leona, e in sua madre prima di lei, non funzionava come avrebbe dovuto.
Lei era cresciuta a pane e odio. Era nata dall’odio. Aveva un solo obiettivo, e non poteva semplicemente dimenticarsi di quanto avesse goduto nel mozzare le teste degli adepti di Ellak, non poteva ignorare quella languida oscurità che si nutriva del loro smembramento. E quel pensiero rintoccò, squillando nella sua testa: e se non fosse mio? Se fosse stata contaminata da qualcos’altro?
Edward la fissò serrando le labbra.  Aveva bisogno di rimanere sola con lui. Doveva attingere al suo pozzo della verità,  una polla che solo lui poteva concederle e con cui si sarebbe  potuta dissetare. Gli altri dovevano essersi accorti del suo improvviso disagio da come Leona si torturava la cucitura dei guanti.
«Fra un po’ uscirà il contingente notturno e non ho nessuna autorità per impedirgli di darvi la caccia. Farete bene ad andare e anche in fretta» li avvisò Leona scrutando in lontananza i bagliori frammentati della luna che si specchiava nel lago infranto dalla spuma della cascata. Quell’avvertimento le pungeva la lingua. Non riusciva a scacciare quella parte di sé in conflitto con la sua vecchia versione da macellaia di vampiri. «Quando avrò finito di compilare tutta la documentazione per il trasferimento ad Orione e ottenuto i permessi dalla commissione degli strateghi, ci incontreremo ad Menfi, ai piedi della vestigia del re Menes».
«Ci saremo» annuì Carlisle prendendo per mano la moglie. Poi sfrecciarono nella notte lasciando soltanto l’eco melodioso e canzonatorio di un “arrivederci cacciatrice”. Leona sospirò scostandosi una ciocca di capelli dalla faccia. Aveva sbattuto le palpebre solo una volta. Edward occupava il vuoto davanti a lei.
«Sei sicura?» le disse con un tono di voce carico di compassione. La cacciatrice si appese ai risvolti della giacca del vampiro e li strinse fra i suoi pugni guantati.
«Devo sapere» gli comunicò col pensiero.
«Non so se riuscirò ad accontentarti»
«Dimmi solo se il ricordo che ti mostrerò è reale. D’accordo?»
«Ci proverò». Leona non sarebbe mai stata pronta a rivivere quell’incubo. Le tremarono le gambe quando sprofondò nei meandri del suo familiare tabù, ma si fece violenza e lo riportò in vita denudando la sua coscienza di fronte a Edward. Si lasciò inondare ancora una volta da quel ricordo mettendo a tacere l’irrefrenabile voglia di soffocarlo, per non essere sopraffatta dal dolore. Le ronzava la testa per l’odore del sangue, ed Edward represse un ringhio. Cercò di focalizzarsi su altro, non era sua intenzione tentarlo in quel modo. Sentiva il peso inconfondibile di Symphony fra le mani. Le tende che svolazzavano, gli occhi spalancati di suo padre che fissavano la morte, i rantoli di sua madre sul pavimento scivoloso…e poi si sentì gelare. La fredda pelle del vampiro la bruciava come se avesse passato un dito su un fornello accesso. Ma durò poco. L’abbraccio di Edward si serrò su di lei e dopo qualche istante d’incertezza, il freddo smise di importunarla. C’era calore in quell’abbraccio, un calore che andava oltre la carne e che le aveva raggiunto l’anima.
Il vampiro, la sua occasione di vendetta era stretto a lei, avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento. Lei invece vi si aggrappò con tutto quello che aveva. Pianse sulla sua costosa camicia di lino, ma lui non protestò. Non si vergognava della sua vulnerabilità, le veniva naturale esporgli le sue debolezze. Avrebbe dovuto spaventarla eppure non provava altro che pace fra le sue braccia. Lui le sollevò il mento. Voleva ritardare il più possibile il confronto con quegli occhi d’oro galleggianti, perché in essi vi era scritta la resa dei conti.
Il suo sguardo era straziante, lo stomaco le precipitò sotto i piedi. «Tu sei l’unico a conoscere le coordinate dell’isola deserta in cui sono naufragata». Il suo dolore mutò presto in confusione nell’espressione del suo viso.
Edward la scosse dal suo torpore e le disse «Questo ricordo non ti appartiene. È come se ce lo avesse messo qualcuno. Non mi ero mai imbattuto in niente del genere. Sai questo che vuol dire?» le chiese teso per l’emozione «Leona, tu non hai ucciso tua madre, non eri lì».
Leona fu pervasa da un prorompente sollievo.
Le si diffuse nelle vene come linfa refrigerante.
Per anni, per tutta la sua vita era rimasta schiacciata dalla colpa del suo più grande peccato e il suo più grande rimorso, soltanto per scoprire che portava il peso di qualcun altro. Poi, finalmente, ricordò. Lei non aveva esitato, glielo aveva tolto dalle spalle volutamente. Lo aveva accolto, lo aveva fatto suo e ci aveva plasmato sopra i suoi pensieri, annodandolo nei recessi della sua memoria così in profondità da impedire a chiunque di tirarlo fuori. Forse allora non sapeva quanto l’avrebbe danneggiata, quanto l’avrebbe cambiata.
Lascia che prenda il tuo dolore… Non era solo una metafora fra loro.
Non poteva sentire la mancanza di una Leona che non sarebbe mai esistita. Quella Leona era morta con quel ricordo. Un ricordo che aveva depredato dalla mente di chi non era in grado di custodirlo. Una mente ancora acerba per contenere tutto quel dolore che l’avrebbe spezzata. Leona si rese conto di quanto ancora disconoscessero le reali potenzialità di quel flusso di coscienze denominato effetto osmosi. Quante altre possibilità si spalancavano davanti ai loro occhi increduli e in quante possibili forme avrebbero potuto usufruirne. La manipolazione dei ricordi andava ben oltre le sue capacità persino in quel momento, non avrebbe saputo come ripetere quell’esperimento. La spinta, il propulsore che lo aveva messo in moto era stato dettato da un forte stato emotivo, sfociato dalla profonda cicatrice traumatica che li aveva marchiati a vita. La magia dei medjai era fortemente legata alle emozioni, lo riconosceva oggi più che mai, specialmente dopo aver assaggiato l’energia rivitalizzante delle reliquie che gli permetteva un facile accesso al simulacro del loro potere.
«Ti sbagli» gli rispose dopo averci riflettuto abbastanza a lungo da giungere a quella conclusione «Per un po’ è stato mio. Quello che ho dovuto affrontare nel labirinto degli specchi non ha messo alla prova la mia purezza, la mia bontà d’animo o il mio coraggio. È stato molto di più. Fronteggiare la verità è di quanto più terrificante ci si possa ritrovare a combattere. Mia madre mi aveva chiesto di proteggerlo ed è ciò che ho fatto. É stato necessario, dovevo provarlo sulla mia pelle per arrivare a comprenderlo. Se non avessi pugnalato io stessa il cuore di mia madre, se non avessi sentito come ci si sente a farlo, se non avessi provato ciò che ha attraversato lui…probabilmente lo avrei odiato, come ho odiato me stessa per tutto questo tempo».
«E tu lo odi, adesso?» domandò il vampiro. Leona non si fermò nemmeno un istante a pensarci più del dovuto. Le si allargò un sorriso sulle labbra.
«Lui è il mio fratellino» affermò come se in quelle parole avesse racchiuso il senso della sua esistenza. «È un’estensione di me, è la parte che più amo. E so che per lui è lo stesso. Siamo fatti così, ci prendiamo l’una cura dell’altro, non importa quanto sia insopportabile il dolore che ci logora. Se lo portiamo in due, diventa inevitabilmente più leggero.»
Ci furono degli schiamazzi e dei fischi, chiaro segno che la caccia era aperta e che non poteva permettersi di rispettare nemmeno il giorno del lutto. Le persone continuavano a morire. La morte non andava mai in vacanza. Lì fuori ci sarebbe sempre stato qualcuno che avrebbe avuto bisogno dei protettori.     
Leona allora affondò il viso nella sua camicia, inspirò forte il suo odore e sorrise dove lui non poteva vederla. Non voleva staccarsi da lui, non voleva interrompere quella sessione di psicanalisi stravagante in cui non aveva nemmeno bisogno di parlare. Ma questa non sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti. Lui le alitò all’orecchio «Grazie, piccola tempesta». Il suo respiro era fresco, come ghiaccio che si scioglie sulla pelle.
«Di cosa?» aveva chiesto, ma ormai abbracciava il vuoto. Riabbassò le braccia, interdetta e delusa.
«Tutto a posto mia medjai?» sentì dire a un protettore che le si era avvicinato di soppiatto. Altri membri della squadra le aleggiarono attorno in attesa del suo responso. Leona pensò a quello che andava fatto. Avvertì il sapore di metallo in bocca e le sue nocche d’acciaio scricchiolarono.
«Sì, adesso va tutto bene» disse più a sé stessa che a loro. Corse via a grandi falcate e si tuffò dalla cascata, infrangendo la superficie dello Specchio. Ma quella volta, quando i flutti del lago la accolsero dentro il suo ventre freddo e spumoso, lei non ebbe paura.
********
Il naso congelato dalla brezza mattutina di Fabiano era premuto contro la gola di Leona. Le spostò un boccolo nero, sfruttando ancora una volta l’occasione di accarezzarle i pochi scorci nudi che aveva da offrirgli, e lo sentì inalare ingorde boccate del suo profumo.
Le sue labbra schioccavano piacevolmente contro la sua pelle e la facevano tremare. I suoi baci infuocati e la sensazione delle sue mani ruvide e callose su di lei, curiose ed audacemente esploratrici come non si erano mai permesse di essere, tenevano i suoi pensieri al caldo, quasi febbricitanti. Averlo sotto di sé e sentire il martellante battito del suo cuore contro le costole, o sopra di sé, costretta fra lui e i fili d’erba luccicanti che le inumidivano i vestiti, in quel groviglio di corpi che studiava altri mille modi diversi di intrecciarsi, le facevano perdere il senso del tempo e della realtà.
Le sue dita sgusciarono sotto la sua maglietta per risalirle il ventre con una lentezza che la fece impazzire. I suoi timidi polpastrelli, ghiacciati tanto quanto il suo naso, tracciavano disegni fantasiosi lasciando scie infuocate al loro passaggio, e si arrampicavano su per le costole come se le contassero una a una, ma non oltrepassavano mai il confine concavo del ferretto del suo reggiseno, tenendosi rispettosamente ai margini. Lei lo sentiva che lo voleva, come lei avrebbe voluto allentare la cintura dei suoi pantaloni, ma forse i rantoli e i tremiti del corpo di Leona non erano abbastanza incoraggianti e convincenti per il ragazzo da spingerlo ad abbattere quella barriera fra loro.
E per il momento andava bene così.
Finché avesse avuto le sue morbide labbra su di lei non poteva esserci nulla di sbagliato. Leona non lo credeva capace di tanta passionalità, eppure la travolgeva senza lasciare spazio neanche al più frivolo dei pensieri. Lui in quel momento stipava tutto il suo mondo. Le loro bocche s’incontrarono di nuovo, abbracciandosi come due amanti separati da tempo, una danza sinuosa che non era mai sazia.
Una mano strisciò sotto la sua schiena, la sollevò da terra e lei s’inarcò contro il suo petto. Le sue cosce si serrarono attorno a suoi fianchi e  una rovente canicola estiva cominciò ad ardere nelle regioni più a sud del suo corpo quando si spinse verso di lui annullando ogni decorosa distanza.  Fabiano represse un gemito impastato di desiderio. Interruppe il bacio e si staccò da lei, straziandola come se le avessero tirato via le pelle di dosso. Le mani di Fabiano riposavano alla base della schiena di Leona, soddisfatte dei frutti di quella avventurosa ricognizione esplorativa. I cieli azzurri riarsi dal sole racchiusi dentro i suoi occhi per un breve attimo furono un miscuglio di follia e trionfo. Ma quella bramosia si spense piano piano soppiantata dalla sua pedante moralità che sapeva essere troppo scavata in profondità. Il suo sguardo appena socchiuso si fece sospettosamente divertito. Le baciò il mento, il naso e poi la fronte. Il rimprovero aleggiava nel suo mezzo sorriso.
 «Sei sleale» gli mormorò lui con le labbra premute sulla guancia prima di farla scivolare sul prato, lasciandola lì con la mente affollata dai dubbi. Si stiracchiò pigro come una gatto sonnacchioso, e se Leona non fosse stata prepotentemente distratta dai muscoli tesi delle braccia o dalla sua mano che faceva la ramanzina a quelle ciocche castane perennemente disubbidienti, avrebbe sicuramente trovato una risposta arguta da controbattere invece di cercare di dare una calmata ai suoi ormoni e gettare un secchio d’acqua gelata alla sua libidine.      
«Dove stai andando?» gli domandò senza nascondergli la delusione. Agonizzava per la mancanza del calore del suo corpo. Fabiano perlustrava pensieroso il precipizio della loro piattaforma galleggiante dalla cima delle rupe. I suoi contorni, adombrati da una timida alba che ancora indugiava dietro le montagne, sembravano linee così armoniose e perfette da farla dubitare che lui fosse reale. Sotto di lui si estendevano linee verdi di bosco che avviluppavano i tetti e le cupole delle cittadella appena restaurate. Ad est il vulcano sbuffava quietamente nugoli neri di cenere, accidioso come un gran visir adagiato su cuscini di tessuto broccato e perline intento a godersi la sua pipa fumante all’aroma di narghilè. 
Lo sentì sospirare «A volte penso che la tua bellezza sia la tua arma più subdola e affilata. Prima o poi riuscirò a guardarti senza che il cuore minacci di esplodere?»
«Spero proprio di no» sogghignò lei, compiaciuta più del lecito da quella confessione. Leona abbassò per un attimo gli occhi sui suoi guanti abbandonati sulla roccia, poi si diresse verso Fabiano e gli circondò la vita con le braccia, con la mano metallica premuta sul suo cuore. Ogni battito che le scuoteva l’acciaio era un piccolo trionfo per lei. Lui gli posò sopra la sua e intrecciarono le dita sul suo petto, con la testa di Leona che spuntava dalla spalla di Fabiano. Ammirò anche lei la vallata della sua infanzia e si unì alla sua nostalgia.
Fabiano le tracciò dei cerchi concentrici sul dorso metallizzato «Senti qualcosa?». Leona gli baciò la spalla e gli arruffò i capelli «Non quello che vorrei».
Fabiano la guardò stranito. Lei non leggeva il pensiero, ma conosceva così bene le sue espressioni che non aveva bisogno di altro per capire cosa gli passava per la testa.
«Hai fatto la cosa giusta, va bene? Lo sai che tuo padre non è esattamente nella mia lista degli amici del cuore, ma ne ho abbastanza di protettori morti. Stare al fresco è quello che gli serve, anche se dubito che persino i topi godano della sua compagnia. E non sentirti in colpa se desideri fargli visita, ha solo da imparare dalla tua compassione. Potrai solo essergli di esempio».
«Io non capisco…dopo tutto quello che ha fatto a me e alla mia famiglia. Forse Sara ha ragione, dovrei stare lontano da lui».
«Sara potrebbe avere ragione ma…fa solo quello che ti va» si raccomandò lei «so che ti suona strano, prima o poi ti ci abituerai».
Reclinò la testa all’indietro e socchiuse gli occhi «Non mi è mai piaciuto infrangere le regole».
Leona ghignò e raccolse i capelli in una coda «È un vero peccato, è così eccitante. Certo qualche volta può essere pericoloso ma…» mugugnò con il nastro in bocca.
«Pericoloso? Ho perso il conto di quante volte stavi quasi per morire, Lea. Hai persino ingoiato una pietra antichissima. E per che cosa?».
«Ho rimosso un elemento…compromettente dallo scenario. Tutto qua. Pensavo che la cosa non sarebbe stata permanente, ma mi diverte comunque l’idea dei miei nemici costretti a frugare nelle profondità della fossa settica del campo. Non troveranno nulla comunque. A quanto pare il ciondolo non si è dimostrato esattamente digeribile, suppongo che debba essersi fuso con i miei organi interni».
«Ti crea problemi?»
Leona ci pensò su «A dire la verità finché non l’hai tirato in ballo non ci avevo nemmeno pensato. Mi sembra tutto troppo tranquillo. È possibile che non abbia conseguenze? Se la sfortuna la smettesse di tormentarmi, non mi dispiacerebbe più di tanto».
«Non pensi che dovresti farti controllare?»
«Bene, bene, cosa sentono le mie orecchie…hai un medico da suggerirmi in particolare?».
Lui si avvicinò a un palmo da suo viso e annusò l’aria attorno a lei «Penso che tu l’abbia già trovato» poi abbassò un po’ la voce «Ti è rimasto il loro odore addosso».  
Leona si mordicchiò l’interno guancia «Posso contare sulla tua discrezione?»
«Solo se mi prometti che resterai…» le propose lui prima di essere interrotto dallo schiocco della sua lingua.
«Niente ricatti, signorino. Ormai la decisione è presa. Porterò Morgana con me in Egitto, baderà lei a me. Non ti basta? E poi nulla ti impedisce di venirmi a trovare ogni tanto»
«Leona…» sospirò lui massaggiandosi le palpebre.
«Che c’è?» sbotto lei.
«A me puoi dirlo…»
«Senti, se non ricordo male è il tuo migliore amico…potresti fare uno sforzo una volta ogni tanto! Non ho idea di che cosa abbia Gab» mentì.
«Non deve essere stato facile nemmeno per lui, ma ultimamente mi sembra persino più freddo di quando ho finto di rompere il nostro legame per fargli credere a lui e Frieda che il ciondolo fosse autentico …»
«Vuoi dire quando Gab stava per mandare tutto il nostro piano all’aria?». Leona raggelò al ricordo di suo fratello che si puntava Symphony dritto al cuore…
«Quella dannata spada…» mormorò Leona calciando un ciuffo d’erba.
«A proposito di Symphony…» esitò lui «c’è una cosa che devi sapere». La protettrice s’incuriosì parecchio «Parla» lo incitò.
«Prima vorrei però che rispondessi tu a una domanda». Un frammento roccioso si staccò dalla pietra calcarea e cadde nel laghetto in fondo con un tonfo. Uno dei cuori della protettrice cominciò a battere forte, ma non le sembrava il suo…
«Non ci hai mai raccontato come hai ottenuto il ciondolo blu. Io ti ho trovato con la pietra in mano e una grave ferita all’addome. Che cosa ti è successo?»
«Immagino che sia arrivato il momento di togliersi tutti i sassolini dalle scarpe» gli concedette la medjai, tremante come una cantante dietro le quinte al suo primo debutto. Non aveva senso rimandare l’inevitabile. Deglutì, scegliendo con cura le parole giuste.
«Ho rivisto i miei genitori»
«Cos…come?» chiese lui turbato.
«Loro…non so come hanno potuto interagire con me. Pensavo che quello nello specchio fosse un ricordo ma…forse non lo era del tutto. Il labirinto di specchi è di sicuro la più crudele fra le prove del Tempio dei segreti. Mi ha costretto a rivivere un momento che non avevo voglia di riesumare, ma senza volerlo mi ha addolcito la pillola. Era il giorno dell’incendio. Non so dirti se sia accaduto veramente, voglio credere che sia così, perché è stato bellissimo poter riabbracciare i miei genitori e poter dare il mio ultimo addio. Loro mi hanno detto delle cose, sono stati la chiave di tutto. Probabilmente senza il loro intervento non avrei mai capito.
«Lo zio Mark e Bernardo decisero di sostenere la mia versione e dissero che fui vittima dell’incendio, che dovetti assistere alla morte di mamma e papà, ma le cose non andarono esattamente così. Quei vampiri avevano messo  a soqquadro tutta la casa in cerca delle reliquie quando ormai le avevano portate via. Mio padre pagò con la sua vita per difendere la mamma e nonostante questo lei andò incontro a un destino di gran lunga peggiore. Uno di loro l’aveva morsa e la trasformazione era in pieno atto. Mia madre mi supplicò di mettere fine alle sue sofferenze…».
«Cristo Santo…Perché non me lo hai mai detto?» mormorò Fabiano perdendo il rossore delle guance. Le aveva preso la testa fra le mani e con i pollici le solleticava il viso.
«E da dove avrei dovuto cominciare?» chiese lei con filo di sarcasmo «Sai Fabiano, quando ero piccola ho trovato una spada per terra e ci ho infilzato il cuore di mia madre…». A quel punto il singhiozzo le si strozzò in gola. Leona lesse il terrore nei suoi occhi.
«Quindi tu l’hai…»
«Sì» sputò fuori con l’ultimo briciolo di forze che aveva «Ho ucciso mia madre». Dirlo ad alta voce non fu così difficile come pensava, adesso che la sua lingua si era sciolta. Si liberò del tocco caldo delle sue mani e puntò il suo sguardo da un’altra parte, lì dove vi fu il rombo di un’altra frana. «Era quello che voleva…Ho dovuto farlo. O almeno è quello che ho creduto fino a oggi».
«Che cosa vuoi dire?» le chiese lui seguendo il suo sguardo. Adesso entrambi i cuori battevano all’impazzata. Leona fece una pausa e scosse la testa. Non aveva più lacrime da piangere «Hai mai sentito parlare di amnesia dissociativa? É un disturbo che porta a dimenticare un evento fortemente traumatico».
«Quindi tu non ricordavi…»
«Non ero io a non ricordare» disse lei freddamente. «Il meccanismo non è proprio simile all’amnesia dissociativa, quella è stata più una conseguenza secondaria, ovviamente l’effetto osmosi è molto più complesso, ma l’analogia serve al suo scopo. In parole povere ho assorbito un ricordo che non era mio e l’ho rimodellato a mio piacimento in modo tale che tutta la sequenza degli eventi fosse perfettamente plausibile. Sono anche riuscita ad arricchirlo di particolari che non si sono mai verificati nella realtà. Come ad esempio la mia presunta febbre o la passeggiata in giardino…era tutto capovolto, niente di tutto quello che mi suggeriva la mia mente mi aveva riguardata direttamente. Si è trattato di una semplice traslocazione di memorie, uno scambio di ricordi non particolarmente equo».
«Io non capisco…ma se il ricordo non era tuo, allora…»
«Devi essere proprio ottuso Fabiano. Ci sono arrivato persino io» li interruppe una voce incolore e vuota. Fabiano sembrò accorgersi per la prima volta della presenza di suo fratello Gabriel. Leona, invece, sapeva fin dall’inizio di non aver un solo spettatore. Il mutualismo del loro legame gemellare lasciava davvero poco spazio alla segretezza, avendo sotto stretto controllo la frequenza cardiaca dell’uno e dell’altro. La protettrice si mise le mani nelle tasche della mantellina e sollevò il mento verso suo fratello.
«Ed ecco svelato il mistero della sua evasività» gli disse aspramente, guadagnandosi un’occhiata furiosa da parte sua. «Ma che stronza…».
«Sarò anche una stronza Gabriel, ma meglio di essere codardi! È davvero una schifezza provare a dialogare con la propria sorella, meglio scappare, giusto? Credevi davvero che tenermi fuori dai tuoi pensieri mi avrebbe impedito di capire? Prima di essere dei dannatissimi medjai, condividiamo lo stesso DNA fratellino, che ti piaccia o no ti leggevo dentro ancor prima che cominciassi a sbavare la pappa sul bavaglino. Ogni piega delle tue labbra, ogni alzata di sopracciglio non è altro che parte di un linguaggio che ho imparato a decifrare ancora prima di scoprire quello che eravamo. Ti ho solo lasciato il tempo per elaborare il tutto».
Gabriel aggrottò le sopracciglia e produsse un suono a metà tra una risata e un colpo di tosse «Elaborare? Elaborare? Leona non sono una stracazzo di macchina sputa calcoli! Qui sotto c’è carne, ossa e il mio…i nostri cuori» si corresse all’ultimo secondo «anche se comincio a pensare seriamente che il tuo sia davvero fatto di materiale sintetico…» .
«Non ci posso credere!» urlò Leona cercando l’appoggio di un Fabiano in palese disagio «Lo ha detto sul serio? Hai proprio un bel coraggio!».
«Dio, che cosa vuoi da me?» le sbraitò lui ancora più forte «che ti chieda scusa per aver ucciso la mamma, una bella pacca spalla e vissero felici e contenti? Non è così che funziona, cazzo! Io lo sapevo che era stata Symphony a ferirti…l’ho sempre saputo».
«È vero?» cercò conferma Fabiano girandosi verso Leona.
Lei ricordò il momento esatto in cui la sua versione bambina con le mani insanguinate veniva rimpiazzata da quella furibonda del fratello, pronto a difendere l’intrusa che si era appropriata della sua memoria. Lui stava andando lentamente in pezzi sotto il peso della spada che impugnava fra le sue fragili manine. Scivolò nel sangue della mamma, ma il piccolo scacciò le lacrime sbattendo le ciglia, si rialzò e caricò verso di lei proprio mentre lei cercava di strappare il ciondolo della luna dalle dita intirizzite dalla morte di Arianna. Il momento dopo si trovava nella caverna, circondata dall’ossario più fornito che avesse mai visto, con la sensazione di avere ancora la spada incastrata dentro la carne…
Alla protettrice non rimase che annuire «Non sapevi che ero io, volevi solo difendere la mamma…».
 «Io non riesco nemmeno più a guardarti negli occhi senza che…senza che…». Gabriel si acciuffò i riccioli e si piegò sulle ginocchia. Il suo viso luccicava di lacrime.
«Gab, cerca di calmarti…» tentò Fabiano con le mani sollevate come se stesse tentando di convincere un ordigno a fermare il suo countdown.
«Calmarmi?» domandò Gab. Uno spettro di follia vorticava nei suoi occhi blu. «Non hai sentito quello che ho detto? Sono un assassino, uno schifosissimo, fottuto assassino. No, non ti avvicinare…» lo ammonì facendo un passo indietro.
«Adesso basta!»  la rabbia esplose e Leona tirò un ceffone a suo fratello. Gab fece combaciare il palmo con lo schiaffo rovente impresso sulla guancia e guardò sua sorella attraverso un velo di lacrime.
«Mi merito di peggio. Io ti ho rovinato la vita…non c’è dolore che possa prendere sulle mie spalle per eguagliare ciò che ho fatto…Mio Dio, mamma perdonami».
«Mamma ti amava più di ogni altra cosa Gab ed era fiera di te.»
«Te lo ha detto lei?» tirò su col naso.
«Ma certo che lo ha detto tontolone. Non capisci, vero? Hai rispettato le sue volontà, non c’era miglior modo di onorarla. E poi io non voglio niente in cambio.» disse la sorella tirandogli un ricciolo «Mi dispiace solo che tu l’abbia dovuto scoprire così».
«E a me dispiace che tu abbia dovuto patire il mio dolore per tutti questi anni, tutta da sola…».
Leona incastrò il pollice sotto la cucitura della manica e glielo strofinò sotto gli occhi del fratello «Il nostro, Gab. Il nostro dolore. Ma è tempo di lasciarcelo alle spalle, non credi anche tu?»
Lui si morse il labbro tremante e si lasciò rimettere in piedi. Poi senza nemmeno lasciarle il tempo di capire, Gab la ingurgitò dentro il suo abbraccio. Restarono così per un po’, in silenzio, mentre i raggi del sole albeggiavano su di loro e gli riscaldavano la pelle sotto i vestiti.
«Hai intenzione di rimanere a guardare tutto il tempo?» gli domandò Gab a Fabiano che se ne era rimasto in disparte pur di non disturbare la loro turbolenta riconciliazione. Gab e Leona aprirono le braccia e lo invitarono ad entrare nel loro amplesso. «Vieni che ce n’è un po’ anche per te»
Lui li guardò entrambi ed esclamò «Siete i gemelli più pazzi dell’universo. Ma non vorrei mai averne incontrati altri». E si precipitò da loro, allacciandosi a quella catena indissolubile. Stavano bene così. Non avevano alcuna intenzione di interromperla e non lo avrebbero fatto ancora a lungo se solo il richiamo dell’aquila che volava su di loro non avesse indotto le loro teste a scattare verso l’alto. Il verso del rapace fece a brandelli il silenzio della valle e lo ricolmò di vita.
Leona lo ascoltò ancora e ancora, impazzendo dalla gioia. Suoi volti di Gab e Leona nacquero due raggianti sorrisi gemelli.
«Perché state ridendo?» le domandò Fabiano «che cosa ha detto Edna?».
«L’ha trovata…» sussurrò Gab.
«Chi?»
«Caterina» disse Leona terminando la frase del fratello. I tre si sollevarono i cappucci sulle teste nello stesso istante. L’akasha non c’entrava nulla con quel bizzarro collegamento telepatico. Si trattava di una magia ancora più potente e inarrivabile: l’amicizia.
«E adesso che si fa?»
Leona avanzò convinta, sapendo che l’avrebbero seguita ovunque fosse stata la sua destinazione.
«Adesso…ce la andiamo a riprendere».

 
ULTIMO ANGOLINO DELL'AUTRICE ( O FORSE NO...)Ed eccoci arrivati alla fine di questo lungoooooooooo percorso! Sono perfettamente consapevole che la fanfiction navighi in un oceano di errori, a partire da quelli ortografici (qualche refuso) e di forma, per finire con quelli  più strutturali, quali la trascuratezza del worldbuilding, degli aspetti socio-economici e religiosi, e la mancata caratterizzazione dei personaggi, per non parlare della mostruosa lunghezza della storia che potrebbe essere tagliata in più punti. Nonostante ciò sono soddisfatta di essere giunta fin qui e poter mettere finalmente dopo un lunghissimo anno un punto bello e buono. 
Da come avrete notato, molte porte sono state appositamente lasciate aperte perchè proggetto di fare dei sequel. Ho già in cantiere il secondo capitolo che intitolerò "LA REGINA DI VOLTERRA", ambientato più o meno cinque anni dopo, dove i nostri protagonisti saranno decisamente più maturi, i Cullen saranno molto più presenti e verrà introdotta (come suggerisce il titolo) l'intera corte dei Volturi. Ho già a grandi linee la storia in mente, ma ci vorrà del tempo per metterla in piedi, soprattutto perchè vorrei evitare di commettere gli stessi errori presenti in questa prima ff.  
Che dire! Spero che la storia vi sia piaciuta in qualche modo. Ringrazio di cuore tutti quelli che mi hanno seguita fin qui e sappiate che non è la fine (ihihihih - risata malefica).

PS. Vi lascio qui di seguito un elenco con il fan-cast di cui mi sono servita per dare vita ai miei personaggi (ovviamente immaginateveli un po' più adolescenti):

Leona: ho trovato la foto di una ragazza su pinterest, purtroppo non so il nome, ahime.
Gabriel: Alex Rodriguez (è comparso nel video di Hot n Cold di Katy Perry)
Fabiano: Liam Hemsworth
Morgana: Bella Thorne
Norman: Daniel Sharman
Fabrizio: Dylan O'Brien
Caterina: Maisie Richardson-Sellers
Marlena: Natalie Dormer
Ascanio: Tyler Lee Hoechlin
Il sire: David Bourne
Zio Marcellus: Dustin Lee Hoffman
Noah: Matthew Quincy Daddario
Davina: Emma Stone
Delilah: Margot Robbie
Frieda: Lucille Frances Ryan (alias Xena!)
Hilde: Yukie Nakama (immaginatevela bambina e con i capelli biondi xD)
Attila: Jason Momoa
Sibilla: Emilia Clarke

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