Fiamme nella neve

di Saelde_und_Ehre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


PREFAZIONE
 

Al di là delle grandi tragedie, degli schieramenti e degli eventi che hanno forgiato la Storia, ci sono degli esseri umani che hanno sperato, sofferto, creduto come tutti gli altri.
Non se ne parla, o forse non se ne vuol parlare, ma anche loro hanno avuto un'esistenza e questa storia vuole dar loro voce.
Lungi da me ogni intento di apologia o denuncia, non è questo lo scopo del racconto.
Questa è semplicemente la storia di due uomini come tanti altri, che hanno avuto un piccolo (e forse irrilevante) ruolo in quella che normalmente si considera "l'altra parte della barricata".

Guerra, amore e morte s'intrecciano nel gelido inverno (inferno) di Stalingrado.

La storia è stata scritta per il carissimo Old Fashioned.

 

[Attenzione: in questa storia la mentalità dei personaggi è coerente con quella del tipico ufficiale tedesco *in tempo di guerra*, così come emerge dai documenti autobiografici dell'epoca e "spurgata" da ogni considerazione eventualmente maturata poi nel dopoguerra.]


 

Wo alle Straßen enden
Hört unser Weg nicht auf
Wohin wir uns auch wenden
Die Zeit nimmt ihren Lauf
Das Herz, verbrannt
Im Schmerz, verbannt

So ziehen wir verloren durch das graue Niemandsland
Vielleicht kehrt von uns keiner mehr zurück ins Heimatland

 

(Dove tutte le strade finiscono
non s‘arresta il nostro cammino
Ovunque ci voltiamo
il tempo scorre inesorabile
I nostri cuori sono bruciati,
esiliati nel dolore.
 
Vaghiamo sperduti attraverso la grigia terra di nessuno
Forse nessuno di noi tornerà mai più a casa)

 
I.

 
Un tramonto livido tinge di cobalto e d’arancio le nuvole plumbee, che si accartocciano all’orizzonte in forme contorte. La steppa russa, sommersa dal gelo, è una distesa bianca che si estende a perdita d’occhio; qua e là si vedono spuntare magrissimi alberelli che tendono le braccia verso il cielo.
Sembra quasi un quadro di Friedrich, si sorprende a pensare il maggiore Richter, mentre fissa assorto il paesaggio dal finestrino del camion – un pensiero frivolo ed effimero, subito scacciato via dalla consapevolezza che, sotto la neve che sembra dare un’illusione di purezza, ci sono città rase al suolo dalle bombe e cimiteri di croci senza nome.
Scuote la testa, cercando invano di liberarsi da quel pensiero. La guerra è guerra, si ripete, anche se ormai ha smesso di crederci da tempo. Forse non crede più in niente: semplicemente stringe i denti e tira avanti, da quando una di quelle croci che straziano il paesaggio si è impressa a fuoco sul suo cuore.
Stringendo le labbra si costringe a tornare alla realtà contingente: i mezzi militari procedono allineati sulla strada ghiacciata; i soldati marciano coi fucili in spalla e i volti sporchi di fuliggine, i piedi piagati appesantiscono i loro passi, e nessuno di loro canta più da tempo.
Ormai è buio, e dalla terra si leva una caligine evanescente.
L’agglomerato di edifici civili che funge da base, miracolosamente scampato ai bombardamenti, emerge dalla nebbia con la sua severa mole e le luci fredde che ne rischiarano il perimetro, mentre una statua mutilata di Lenin li osserva impassibile dal centro del piazzale. Qualcuno ha coperto la falce e il martello scolpiti sul frontone con le bandiere di guerra del Reich, unici elementi a conferire un tocco di colore a quell’edificio bigio e squadrato.
In un silenzio impassibile, l’ufficiale osserva i soldati del battaglione che si schierano sull’attenti di fronte a lui, passa in rassegna i loro volti ripetendo mentalmente i loro nomi. Quanti di loro non hanno fatto ritorno alla base, e quanti di loro vedrà adesso per l’ultima volta?
Non si fa illusioni: il Generale Inverno non conosce la clemenza.
 
Il luogo adibito a infermeria è un sordido androne dal soffitto basso, dove l’odore pungente del sudore si mescola a quello acre del sangue. Interminabili file di feriti sono stese su brande di fortuna; i meno gravi sono addirittura costretti a cedere il letto a coloro che forse non passeranno la notte: si allontanano zoppicando, sostenuti dai commilitoni, per poi lasciarsi ricadere stancamente su sgabelli o panche sistemate alla rinfusa intorno alla stufa a carbone. All’arrivo del maggiore alcuni infermieri cercano di quietare i lamenti, ma la morfina non basta per tutti e viene somministrata come ultimo conforto solo ai moribondi o ai mutilati. Un ragazzo biondo, che dimostra a malapena sedici anni, piange chino su un letto col viso affondato in un involto di coperte, invocando a gran voce il nome di un camerata.
Il maggiore si fa strada tra le corsie con gli stivali ancora sporchi di fango. “Mi avete mandato a chiamare?”
“Venga, signore.”
Scortato da un ufficiale medico, Richter raggiunge uno degli ultimi lettini, situato nell’angolo più lontano e di poco in disparte rispetto agli altri: il tenente Neubach giace lì da due giorni, immerso in un torpore in bilico tra la vita e la morte. Sul suo volto pallido scorrono rivoli di sudore e il torace avvolto da bende insanguinate si alza e si abbassa impercettibilmente.
Un infermiere gli rimbocca le coperte, i lineamenti del volto corrucciati in un’espressione grave, poi alza lo sguardo sui nuovi arrivati e scuote la testa con un sospiro.
Richter non ha bisogno di spiegazioni per capire quello che sta succedendo. Si toglie il berretto e si avvicina in silenzio, fermandosi a pochi passi dal capezzale del moribondo.
“Sono qui, tenente,” mormora.
L’altro spalanca gli occhi, sono lucidi e annebbiati. Lo fissa per un po’, quasi senza vederlo, poi abbassa di nuovo le palpebre e si lascia ricadere sul guanciale. “Signor maggiore...” La voce è a malapena intelligibile, poco più che un flebile sussurro. Forse vorrebbe dire altro, ma non ci riesce.
Anche Richter, per rispetto, rimane in silenzio: tutto ciò che aveva da dire l’ha già detto.
Un grido straziante proveniente dalla stanza attigua lo distoglie da quei pensieri; alza la testa e scorge frotte di camici bianchi affaccendarsi intorno a un tavolo operatorio. Tra i gemiti sommessi gli pare di udire una supplica e delle blande rassicurazioni, poi il paziente grida di nuovo, ancora più forte. D’istinto, il maggiore ritira impercettibilmente la testa tra le spalle: non può vedere quello che accade dietro la tenda, ma vi ha assistito ormai troppe volte e certe immagini sono rimaste impresse nella sua mente.
Quando abbassa di nuovo lo sguardo sul tenente, i suoi lineamenti sono distesi e la mano penzola inerte da una sponda del letto. Anche lui se n’è andato senza un lamento, mentre la Wehrmacht tenta di tenere la linea del Don e del Volga anche a prezzo di alte perdite.
Richter si lascia scappare un sospiro: la guerra non si ferma per così poco.
 
“Signor maggiore!”
È il capitano Jünger, croce tedesca d’oro, ad accoglierlo all’uscita dell’infermeria. Insieme a lui ci sono il tenente Halls e il tenente Sajer, che sfiorano le visiere dei berretti in un saluto militare.
Richter si limita a ricambiare con un cenno del capo e li precede lungo il corridoio scarsamente illuminato, dove lo scalpiccio delle suole chiodate copre l’onnipresente ronzio delle lampade al neon. “Avete per caso visto il colonnello Brandt?”
Sajer e Halls si scambiano un’occhiata di sottecchi, Jünger esita qualche istante prima di rispondere. “Pensavo che lo sapesse già, signore.”
Il maggiore lo fissa stupito. “Non dovevate essere con lui?”
“È caduto in un’imboscata mentre ci raggiungeva,” risponde il capitano, sforzandosi di mantenere un tono neutro. “Alcuni veicoli del convoglio sono saltati in aria mentre percorrevano una strada secondaria... non c’è stato nulla da fare per lui, né per gli altri che si trovavano sulla stessa macchina.”
Richter aggrotta le sopracciglia. “Partigiani?”
“Probabile, signore, ma non abbiamo ancora notizie certe.”
Il maggiore stringe le labbra ponderando le sue parole, poi annuisce grave. “In qualità di ufficiale più alto in grado, prenderò io il comando di questo avamposto,” decreta. “D’ora in poi, per qualsiasi cosa, farete riferimento a me.”
“Sissignore.”
Proseguono per un po’ in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Fuori aleggia la luce smorta dei lampioni; il resto è immerso nelle tenebre più nere. Solo ogni tanto, come un sinistro promemoria, il lampo di un’esplosione lontana accompagna un cupo boato: forse laggiù c’è quel che resta di Stalingrado.
 
I quattro ufficiali entrano in una sala che è poco più di un bivacco coperto: marmitte da campo prese d’assalto da orde di soldati affamati, tavolini sbilenchi intorno ai quali ci si ammassa come bestie e panche addossate al muro. C’è un confuso vociare di mercato, canti stonati e qualche rissa. Un sergente sbraita qualcosa: redarguisce un gruppo di reclute indisciplinate, che si vanno a rintanare in un angolo come cani bastonati. Molti soldati si sono rassegnati a non trovare posto e mangiano seduti a gambe incrociate sul pavimento lurido. Hanno volti stanchi e scavati, le barbe incolte, si lamentano delle mani piagate dai geloni.
Quasi nessuno fa caso a loro, neanche quando ottengono il tacito lasciapassare dei cuochi che hanno messo da parte delle magre razioni e un caffè acquoso per ciascuno. Richter e i suoi uomini ricevono il rancio e si vanno ad appartare in un angolo, in piedi contro il muro. È una delle poche notti in cui possono contare su un rifugio sicuro, senza dormire all’addiaccio sui camion o in sistemazioni di fortuna. Soldati e ufficiali, dal più umile fantaccino al comandante di battaglione, condividono la stessa sorte e lui non se la sente di ostentare ulteriormente il divario tra loro.
“Non riesco ancora a credere che il Vecchio sia morto...” mormora il tenente Halls tra sé, rimestando il cucchiaio nella sua gavetta. “Te lo ricordi, Sajer, quando fumava quel suo sigaro puzzolente e si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo dei suoi a schiattare? La sorte sa essere beffarda!”
“Nessuno può sapere quando sarà il suo momento: i proiettili non guardano in faccia a nessuno!” ribatte il più giovane, che non arriverà a vent’anni. “Ma questo non è un buon motivo per cedere al disfattismo: dobbiamo tenere duro, arriveranno i rincalzi dalla Germania...”
Halls apre la bocca per replicare, ma un’occhiata glaciale del maggiore lo induce a tacere: certi discorsi abbattono il morale dei soldati e minano alla base l’unità del gruppo. Sono già troppi i veterani sfiduciati che tuonano sentenze apocalittiche e diffondono panico e scoramento tra i più giovani, facendo apparire le difficoltà ancora più insormontabili. Richter ha ormai perso il conto di tutte le veglie insonni trascorse a parlare coi suoi uomini intorno ai fuochi da campo, per esortarli a non abbandonare la lotta in preda alla disperazione.
Il tenente annuisce e passa ad argomenti più leggeri, riprendendo a scherzare insieme al camerata come se quel discorso non fosse mai iniziato.
È Jünger a rivolgersi al maggiore, ancora una volta. “E Neubach, signore?”
Anche Richter, almeno per quella sera, decide di tacere del gesto avventato che è costato la vita al tenente. “Non ce l’ha fatta nemmeno lui.”
Il sorriso di Halls si spegne tutto d’un tratto, il tenente Sajer rimane in silenzio a fissare un punto indefinito di fronte a sé.
“Si può essere temprati da mille battaglie, ma non ci si abitua mai a questo.” Jünger sospira e scuote la testa. “Tenere duro nonostante tutto: è questa la prova di forza più grande.”
“La guerra va avanti,” replica il maggiore in tono duro. “Con o senza di noi.”
Cala qualche istante di silenzio imbarazzato, poi il capitano si ravvia i capelli castani con un gesto nervoso. “Che ne dite se ci beviamo un goccio alla memoria del buon vecchio Neubach?”
Halls drizza le antenne. “C’è ancora un po’ di Schnaps?”
“Se non te lo sei scolato tutto tu, sì!” lo punzecchia Sajer.
“Ce lo serbiamo per le occasioni speciali,” puntualizza Jünger, sorridendo appena. “Come quella volta, col capitano Altendorf... viene anche lei, signor maggiore?”
Come trafitto da un dardo di ghiaccio, Richter si irrigidisce. “La ringrazio, capitano... ma devo occuparmi di alcune questioni importanti. Brindate anche per me.” Il suo tono, più categorico di quanto egli stesso si aspettasse, non ammette repliche. “Domattina prima dell’alba verrete a rapporto da me e faremo il punto della situazione.”
Gli altri annuiscono senza fare domande. “Sissignore.”
Richter finisce di mangiare in fretta, ingolla in un sol sorso il caffè ormai freddo e si congeda con un saluto asciutto, per poi allontanarsi a grandi passi. Cercherà di soffocare le sue preoccupazioni concentrandosi sul lavoro: scrivere alle famiglie dei caduti, redigere rapporti per i comandanti di divisione, riorganizzare i reparti superstiti in vista della giornata campale dell’indomani.
Non può permettersi di cedere alla malinconia, non quando a gravare sulle sue spalle ci sono le sorti di un reggimento sbandato.
 
Nella penombra della stanza angusta che gli funge da ufficio, Hermann Richter si avvicina alla finestra e fissa con sguardo indifferente le sagome degli Opel Blitz allineati sul piazzale. Da lontano gli giungono le chiacchiere apparentemente svagate degli altri soldati, che cercano di smorzare le fatiche della guerra nel calore dell’amicizia e nella convivialità.
Non gli importa di quello che penseranno di lui, il lupo solitario che si trincera nel silenzio e rifugge la compagnia dei commilitoni. Non sente il bisogno di effimere distrazioni quando il gelo perenne, quello che non lascia scampo, si è fatto strada anche dentro di lui.
Nella notte fosca e senza stelle, fiocchi iridescenti danzano nell’aria, ma l’ufficiale sa che quella calma apparente non durerà a lungo. Non ricorda nemmeno più da quanto tempo non dorme sonni tranquilli: i bombardamenti d’artiglieria e gli incubi lo tormentano ogni notte, senza tregua.
Esala un profondo sospiro e si passa una mano tra i corti capelli biondi. Quell’inverno infido ha mietuto migliaia di vittime, prostrando il morale dei soldati e allontanandoli sempre di più da quella che sembrava una vittoria sicura.
La Wehrmacht arranca nella neve e nel fango delle trincee, seppellendo ogni giorno soldati valorosi che potrebbero rendere alla Patria un servigio migliore: il freddo, la fame e gli stenti uccidono più dei proiettili e delle granate.
Stalingrado, al di là del Volga, non è mai sembrata così lontana.
A quel pensiero, si avvicina al vetro e scruta all’esterno, pur non riuscendo a vedere nulla oltre il velo di neve sempre più fitta. Sulla lastra trasparente si riflette l’immagine di un giovane uomo, il cui sguardo cupo come acciaio contrasta significativamente con le medaglie appuntate sulla sua divisa – inutili orpelli, cimeli di una vita che sente non appartenergli più.
Sospira ancora e il vetro si appanna, cancellando quella visione. Si dice che il tempo lenisca le ferite dell’anima, ma Hermann ha smesso di credere anche in quello. È facile imparare a dissimulare e a mantenere la compostezza, ma la verità è che nessuno si abitua mai del tutto all’onnipresenza della morte. Ci si può solo ergere a testa alta tra le rovine, facendo in modo che nessuna goccia di sangue sia versata invano.
 
 
Tra i reparti di fanteria aleggia un silenzio sospeso, in attesa dell’ennesimo attacco dei russi.
Gli elmetti di un grigio indefinibile emergono dalle muraglie ghiacciate a protezione delle trincee, mentre i soldati si spostano da un cunicolo all’altro, come formiche, affondando gli stivali nel tappeto di neve. Il freddo penetra fin nelle ossa, aggredisce e invade i loro organismi pulsanti.
Il maggiore Richter finisce di schierare le truppe e si dirige a colpo sicuro verso la prima linea, fermandosi di tanto in tanto a scambiare qualche parola coi sottufficiali per controllare che le sue disposizioni siano rispettate. Qualcuno si irrigidisce sull’attenti e saluta; altri semplicemente non ci fanno caso, ormai abituati a vederlo lì piuttosto che nelle retrovie. La sua presenza sembra infondere nuovo coraggio agli uomini, che drizzano le spalle o rinsaldano la presa intorno alle cinghie dei loro fucili. Non c’è più tempo per la retorica o i discorsi altisonanti, ma ciascuno di loro – lui compreso – è chiamato a dare tutto se stesso per contenere la marea rossa.
Il tenente Sajer si avvicina e si mette sull’attenti. “Signor maggiore, gli Ivan hanno schierato una compagnia in prossimità del bosco. Ci stanno osservando.” Sembra uno scricciolo con quell’uniforme troppo larga, il cappotto che gli arriva quasi alle caviglie e le gote arrossate dal freddo, ma non si perde mai d’animo.
Richter registra l’informazione, solleva il binocolo che gli pende dal petto e punta le lenti verso la striscia di abeti scuri che nasconde l’orizzonte. Nulla sembra muoversi, ovunque regna una quiete quasi innaturale: chiunque potrebbe illudersi di essere solo, se non è abbastanza avvezzo ai metodi dei russi. Solo ogni tanto un elmetto chiaro riemerge appena dal bordo della trincea, rivelando la presenza di un fuciliere che striscia tra le pieghe della terra di nessuno.
Non fa in tempo a dire niente. Un sussulto come di terremoto squassa il terreno; dietro le linee tedesche si leva un geyser di fango e neve. “Copertura!”
Tutti si buttano per terra, un vecchio inizia a sgranare un rosario. Altre scosse seguono la prima, i colpi di mortaio impattano al suolo facendo tremare le pareti della fossa. Con una guancia quasi schiacciata per terra, le mani guantate intirizzite dal freddo, il maggiore sente un cumulo di neve crollargli sulla schiena.
Passa un istante interminabile, poi i russi iniziano a gridare come una ridda di demoni partoriti dal lago di Cocito. Alla cacofonia si sovrappongono gli spari e le detonazioni degli obici tedeschi.
Richter si scrolla di dosso il fardello ghiacciato e balza di nuovo in piedi, la pistola tra le mani. “Ai vostri posti! Non dobbiamo lasciarli passare!”
 
Tra i labirinti di filo spinato la battaglia infuria da ore. Tedeschi e sovietici combattono in un confuso groviglio di corpi, riconoscibili soltanto dal diverso colore delle uniformi; ogni tanto si scorge il guizzare metallico di una baionetta.
Le mitragliatrici crepitano in un parossismo angosciante, sovrapponendosi alle urla dei feriti; il fumo acre delle esplosioni giunge a zaffate che fanno bruciare la gola e gli occhi.
Più distante ruggiscono i motori dei T-34, mostri d’acciaio che travolgono ogni cosa incontrino sul loro cammino. Aggrediscono i fanti che cercano di tenerli lontani a colpi di PAK e Panzerfaust, abbattono gli alberi schiacciandoli sotto i propri cingoli.
La purezza della neve è intaccata da striature di mota bagnata, olio bollente e rivoli scarlatti.
“Signor maggiore!” Il capitano Jünger ha una fasciatura insanguinata intorno al braccio e sostiene un soldato privo di sensi. “Siamo accerchiati! Abbiamo avvistato un contingente di siberiani e...” Deve alzare la voce per farsi sentire attraverso il caos; una raffica di mitragliatrice buca i sacchi di sabbia della postazione del maggiore, sparpagliandone per terra il contenuto.
“Qualcuno vada a cercare un portaordini!” ordina Hermann, mentre i proiettili fischiano a pochi centimetri dalla sua testa costringendolo ad abbassarsi fino quasi ad affondare il viso nella neve. “Dobbiamo impedire l’accerchiamento, altrimenti rischiamo di rimanere isolati. Portaordini!”
Si fa avanti un ragazzo con un elmetto troppo grande. “Qui, signore.”
L’ufficiale striscia in un posto più protetto, scribacchia delle coordinate su un foglio che teneva in tasca e glielo porge. “Fai trasmettere il messaggio a tutte le unità che si trovano nel raggio di dieci chilometri. Qualcuno risponderà. Presto!”
“Signorsì!” La recluta si dilegua correndo.
Di nuovo, Hermann si sente chiamare. Un sergente che lo ha appena raggiunto, trafitto alla gola da un proiettile, si accascia per terra gorgogliando: non ha avuto neanche il tempo di fargli rapporto.
Trascinato a forza nel fulcro della mischia, il maggiore recupera l’MP40 del sottufficiale e fa cenno alla squadra di seguirlo. Spara una raffica, scivola dietro un ridotto, cerca di tenere lontane le schiere nemiche che si avventano su di loro con rinnovata foga, come un’ondata di marea. Balzano fuori dalle trincee brandendo fucili, mitra e baionette, travolgendo con raffiche di piombo l’intera avanguardia dello schieramento tedesco. Sciamano intorno a lui e si avventano sui soldati della squadra.
Richter sfila una granata a manico dalla cintura, la lancia alla cieca nella buca da cui escono i russi e stringe i denti in attesa dell’impatto, che non tarda ad arrivare.
La vista dei cadaveri disseminati per terra gli provoca un brivido lungo la spina dorsale, che neanche lui saprebbe se attribuire alla temperatura o a quel gelo senza nome che lo accompagna dalla fatale giornata in cui tutto ha avuto fine. Qualunque cosa sia, non ha il tempo di pensarci.
Attende ancora qualche istante carponi nella neve che gli morde le ginocchia, poi arrischia la testa oltre la barriera e si guarda intorno allarmato, realizzando con orrore di essere circondato dagli elmetti dei sovietici. Qualcuno lo colpisce col calcio di un fucile e mani callose, da contadino, lo afferrano con violenza per la collottola, scaraventandolo all’indietro; il mitra rotola per terra.
“Questo è il comandante germanski,” gli sembra di captare, da quel poco che capisce di russo.
Hermann tenta di divincolarsi, ma un energumeno alto quanto lui e largo il doppio gli sferra un calcio negli stinchi, immobilizzandogli le braccia dietro la schiena. Disarmato, l’ufficiale reprime un grugnito tra i denti, mentre i russi lo spintonano di malagrazia e gli piantano la canna di un Mosin-Nagant tra le scapole.
“Avanti, si muova,” ringhia una voce aspra. “Su le mani.”
Per tutta risposta, Hermann si libera con uno strattone, impugna la pistola e si avventa sul primo dei tre uomini. Spara un colpo e il soldato che aveva di fronte cade esanime in una pozza di sangue.
Di nuovo un calcio di fucile lo colpisce alla schiena, un braccio si serra intorno al suo collo, facendo forza per stringere. L’ufficiale si sforza di rimanere impassibile, mentre la vista gli si annebbia e il petto sembra scoppiargli per la mancanza d’aria. Non ha intenzione di consegnarsi: ha sentito storie agghiaccianti e crede che perfino il suicidio sia preferibile ai campi di prigionia sovietici.
Fa forza sui piedi e sferra una spallata all’uomo che lo tiene stretto, facendolo barcollare.
 
Qualcuno, dietro di lui, grida qualcosa in russo. Una serie di spari secchi fende la caligine e Hermann finisce in ginocchio per terra, coi gomiti affondati nella neve e i polmoni che reclamano aria. Annaspa e tossisce, lottando disperatamente per sciogliere il nodo che gli opprime la gola.
Un soldato si china vicino a lui. “Tutto bene?” chiede una voce gentile, in perfetto tedesco. È la stessa di prima: ha una sfumatura calda e profonda, velata d’apprensione.
L’ufficiale alza la testa e cerca di mettere a fuoco l’uomo che gli sta davanti. Come attraverso una superficie annebbiata, vede l’ovale pallido di un volto, circondato da capelli di un castano chiaro. “Sì”, balbetta in tono sbrigativo, massaggiandosi il collo indolenzito.
Con la coda dell’occhio vede un tenente sconosciuto dare ordini a una squadra, mentre due soldati allestiscono in fretta e furia una MG42.
“Andiamo via da qui,” lo sollecita l’altro, senza perdersi in convenevoli.
Richter si lascia trascinare dietro ciò che resta di un terrapieno e si abbandona con la schiena contro la parete. Gli echi della battaglia continuano a giungergli ovattati all’orecchio, la nebbia che gli offusca la vista lentamente si dirada.
La voce dell’altro lo richiama alla realtà. “Questa dev’essere sua, l’ha lasciata cadere poco fa.” Prima ancora che possa aprire bocca, una mano gli tende la pistola e gliela posa sul palmo con un gesto garbato. Ora che può vederlo distintamente, Richter si accorge di trovarsi di fronte un uomo all’incirca della sua età, di poco più basso di lui, stessi gradi e stesse medaglie. Ha l’uniforme sgualcita dalla battaglia e dalla sua spalla pende un fucile Mauser 98k.
Egli annuisce, facendo scivolare l’arma nella fondina. “La ringrazio, maggiore...?”
L’altro gli tende la mano ed egli la stringe: è calda, nonostante il gelo che avvolge il paesaggio. “Schwerin. E lei?”
“Sono il maggiore Richter. Hermann Richter.” Si volta verso le trincee gremite, nelle quali continuano ad affluire centinaia di altri uomini armati. “Suppongo che sia lei il comandante del battaglione che è stato inviato in nostro soccorso.”
Schwerin sorride impercettibilmente. “È così,” conferma. “O meglio, sono colui che ha risposto per primo alla sua chiamata.”
Hermann vorrebbe fargli altre domande, ma la realtà contingente gli impone di riprendere il controllo della situazione. “Avremo il tempo per presentarci meglio al termine della battaglia,” gli dice, sbrigativo. “Adesso venga con me, dobbiamo organizzare un contrattacco.”

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Capitolo 2
*** II ***


II.
 
Schwerin rivolge un ultimo sguardo ai suoi ufficiali e si lascia guidare dal collega: il maggiore Richter sembra conoscere le trincee meglio di chi le ha scavate e si orienta in quel labirinto come se avesse una mappa stampata nella memoria. Procede sicuro, con passo marziale e portamento eretto, ogni tanto ricambiando i saluti dei capisquadra che spronano le truppe con parole aspre. Ha le spalle di un Atlante e il polso fermo; dà l’idea di essere uno di quegli uomini capaci di ergersi mentre la tempesta sferza ogni cosa.
Vicino a una postazione d’artiglieria campale, ben nascosta dietro un ridotto, un maresciallo sta redarguendo i serventi di un mortaio da trincea.
“Che cosa sta succedendo qui, Baumgartner?” tuona il maggiore.
“Con il dovuto rispetto: giudichi lei, signore. Questi imbecilli...”
Schwerin si mantiene in disparte mentre Richter avanza di qualche passo, con implacabile calma. I soldati, che fino a poco prima vociavano e sembravano sul punto di arrivare alle mani, si separano e si irrigidiscono sull’attenti. Uno di essi china il capo con aria mortificata e si scusa a nome di tutti.
L’ufficiale ordina il riposo con un gesto sommario. “Tornate ai vostri posti. Non una parola di più.”
Quelli non se lo lasciano ripetere due volte.
Richter rivolge al collega uno sguardo penetrante, quindi scuote la testa e passa oltre, come se nulla fosse successo. Ancora una volta, Schwerin si limita a seguirlo, il fucile in spalla e gli stivali che affondano nella neve lorda di fango, mentre in lontananza si odono gli echi onnipresenti della battaglia.
Arrivano a una postazione operativa, una specie di pergola fatta di tronchi e paglia che ospita una radio da campo, una macchina da scrivere, delle cassette di munizioni e un tavolino sbilenco su cui è stata spiegata una mappa del fronte. L’unica fonte d’illuminazione è una lampadina dalla luce tremolante.
I due ufficiali si avvicinano e prendono posto ai due lati del tavolo. “Questo è il punto con più alta concentrazione di truppe sovietiche,” inizia il maggiore Richter. “Faranno di tutto per ricacciarci al di là del Don, ma noi dobbiamo proseguire l’avanzata.”
Schwerin si china a sua volta sulla mappa, sulla quale sono tracciati vari simboli: un guanto d’arme, lì nel punto in cui è concentrato il grosso delle loro forze, simboleggia la divisione Eisenfaust. Gli altri reparti sono indicati da sigle o numeri romani e varie frecce segnano l’avanzata di ciascuno. “Ho parlato con Bühler e Bentheim della Ostpreußen, intendono attaccare i russi da nord mentre questi sono concentrati a respingere le truppe che tentano di oltrepassare il fiume”, spiega. “So che anche loro hanno subito pesanti perdite, a combattere la guerra dei topi casa per casa.”
L’altro annuisce. “E a sud ci sono i reparti della Großdeutschland, stando agli ultimi rapporti.”
“Precisamente.”
Con la penna, Richter indica una croce di ferro tracciata sulla mappa, poco più a nord di Stalingrado. “Quindi, se noi cerchiamo di sfondare lo schieramento sovietico con un attacco frontale, possiamo contare sull’appoggio della Ostpreußen.”
“Era proprio quello che intendevo. Adesso che siamo qui, ci conviene unire le nostre forze.” Schwerin alza la testa con disinvoltura, fino a incontrare gli occhi dell’altro. “Manca poco prima che il gelo blocchi le colonne di rifornimenti: dobbiamo agire al più presto.”
Richter rimane a guardarlo per qualche secondo di più, comunicandogli senza bisogno di spiegazioni che anche lui aveva pensato la stessa cosa. Il suo sguardo sembra rischiararsi appena, ma la sua espressione resta seria. Si china di nuovo sulla mappa. “L’obiettivo sono queste fabbriche.” Accompagna le sue parole tracciandovi una X. “Quanti effettivi conta il suo reparto, Schwerin?”
“Poco più di quattro centinaia. Quando siamo partiti da Kharkov eravamo due battaglioni.”
“Neanche i miei arrivano a cinquecento, ed è tutto ciò che resta di un intero reggimento,” risponde l’altro in tono grave. “E i rossi là fuori sono almeno dieci volte tanti.”
Se rimaniamo bloccati qui, finiremo come gli Spartani alle Termopili. Mentre Schwerin formula quel pensiero, i loro sguardi s’incrociano di nuovo: molto probabilmente anche Richter ha pensato la stessa cosa – lo coglie dal guizzo metallico che attraversa le sue iridi – ma nessuno dei due osa esternarlo ad alta voce.
Finiscono di elaborare le ultime strategie d’attacco, e quasi si stupiscono della facilità con cui si trovano d’accordo sulla linea da adottare. Probabilmente nessuno dei due arriva ai trenta, ma hanno sulle spalle anni di battaglie campali che hanno forgiato la loro esperienza; si capiscono al volo e altrettanto rapidamente indovinano le intenzioni dell’altro.
Alla fine, Richter scribacchia su un foglietto alcuni appunti e chiama a gran voce il maresciallo Baumgartner, un tipo sulla quarantina col naso rubizzo da bevitore e gli occhi vispi. Gli porge il foglietto e gli ordina di andare a trasmettere le sue disposizioni.
Il sottufficiale vi dà una rapida scorsa, quindi annuisce con vigore. “Sissignore, può contare su di me, signore. Vedrà che quei cani rognosi li rispediremo nel paradiso dei lavoratori a calci nel culo!” Subito dopo si accorge del maggiore Schwerin e fa un passo indietro; le sue guance diventano ancora più rosse. “Chiedo scusa, Herr Major.”
Richter gli dà un colpetto sulla spalla. “Conto su di lei, maresciallo. Faccia in fretta!”
Baumgartner prontamente scatta sull’attenti, batte i tacchi e si congeda, mentre i due ufficiali si scambiano un rapido sguardo e scuotono la testa con indulgenza.
Quando escono fuori è buio pesto e i fuochi rischiarano l’oscurità, ma la battaglia continua a infuriare: in quella stagione, a quelle latitudini, il pomeriggio non esiste.
 
Richiamate all’ordine, le truppe corrono avanti e indietro coi fucili in spalla, affondano le ginocchia nella neve mentre i comandanti di plotone sbraitano ordini.
Una volta terminato di dare le proprie istruzioni, il maggiore Schwerin si avvicina alla prima linea dove i soldati lottano con le unghie e coi denti per difendere la postazione duramente conquistata. Fiocchi pigri hanno iniziato a volteggiare nell’aria, sciogliendosi a contatto col terreno bollente. Al di là della terra di nessuno, un ammasso di ruderi riemerge dallo sfondo come un relitto incagliato.
Guidati da quell’ineffabile necessità che unisce in tempo di guerra, i suoi uomini si sono mescolati a quelli di Richter e si comportano come se fossero un unico reparto, sostenendosi l’un l’altro o scontrandosi quando l’egoismo del singolo rischia di causare la rovina del gruppo.
Schwerin ha trascorso gli ultimi due anni della sua vita in prima linea, ma non riesce ancora a dare un nome a quel senso di solidarietà che s’instaura tra i soldati nei momenti di estremo pericolo. È qualcosa che può assumere le sfumature più disparate, dal Landser stanco che poggia il capo sulla spalla del commilitone facendo cozzare gli elmetti come due vecchie gamelle, al vecchio caporale che rimprovera rudemente il ragazzo che piange.
Si chiede se anche il collega abbia esperienza di episodi simili, ma è la presenza di Richter stesso a dargli la risposta: l’ufficiale raccoglie da terra una vanga da trincea e si tuffa nella mischia menando fendenti contro i russi in avvicinamento. Combatte col furore proprio degli antichi guerrieri, anteponendo la sicurezza dei suoi uomini alla propria. Sovrasta in altezza la maggior parte degli elmetti tedeschi, ma la sua figura scompare e ricompare mentre questi si stringono intorno a lui. Lo scontro dura soltanto una manciata di secondi: una recluta urla, le dita strette intorno a una manica inzuppata di sangue; altri soldati corrono a dare manforte al maggiore. Schwerin si avvicina con la pistola in pugno, pronto a fare di nuovo fuoco, ma i russi si sono già arresi.
“Richter!” Tutto bene? vorrebbe chiedergli, tuttavia si trattiene soltanto per non metterlo in imbarazzo davanti ai suoi sottoposti.
L’altro lascia cadere l’arma improvvisata, si volta e annuisce, tamponandosi coi guanti un rivolo scarlatto che gli scende dal sopracciglio. “Qualcuno accompagni il soldato Zimmer al posto di medicazione.”
Schwerin si offre volontario, porgendo il proprio braccio al ragazzo affinché vi si appoggi. Mentre si allontana, rivolge un ultimo sguardo al collega e non può fare a meno di pensare che i suoi uomini siano fortunati a poter contare su un comandante del genere.
 
 
L’artiglieria tuona in lontananza, facendo tremare le pareti del rifugio improvvisato. Casse di munizioni rovesciate e addossate contro il muro offrono altrettanti sedili per i soldati stanchi, che parlano a bassa voce o scambiano qualche facezia coi visi affondati nelle gamelle.
Dalla stanza adiacente si levano i lamenti dei feriti e dei malati in agonia, cui nulla può recare conforto.
I portaordini e gli ufficiali vanno e vengono trasmettendo messaggi, i soldati di guardia sono indistinte sagome scure che si aggirano tra le macerie.
Di tanto in tanto balzano in piedi, ridestati da un tuono improvviso. Chi dormiva abbracciato al fucile si trascina con sé le coperte, anche i feriti gravi strisciano e zoppicano per riprendere posizione. Nessuno viene risparmiato dalla furia dei combattimenti.
Schwerin non ricorda più da quanto tempo non dorme, né da quante notti lui e Richter condividono quella specie di magazzino, di cui non resta altro che un cratere dilaniato dalle bombe. Lì, giorno e notte si confondono – l’uno, troppo breve ed effimero per poter essere apprezzato appieno; l’altra interminabile, illuminata a giorno dai razzi di segnalazione e dai bagliori delle esplosioni.
Chiamato dalla voce del suo parigrado, alza la testa appena e se lo trova davanti. Richter tiene in mano due tazzine fumanti, stringendovi intorno le dita come per scaldarsi – o per preservare quel poco calore che rischia di stemperarsi in fretta. Gliene porge una con un gesto cameratesco ed egli la accetta in silenzio.
“Siamo completamente isolati.” Richter ha le labbra tirate e gli occhi spenti, fissi in un punto indefinito di fronte a sé. Per un attimo, le sue spalle sembrano incurvarsi sotto un peso insostenibile, ma lui cerca di opporvi tutta la propria forza. “Possiamo contare solo su noi stessi.”
Schwerin sospira, tuttavia non osa esprimere ad alta voce i propri pensieri. Rimangono in piedi, uno di fronte all’altro, a sorseggiare il caffè prima che si raffreddi.
 
 
Le trincee sono tutte uguali: fosse senza nome che ospitano uomini di carne pulsante, animati da ideali cui solo il flusso inesorabile della Storia potrà dare torto o ragione. Attraversando i camminamenti gremiti, il maggiore Schwerin si costringe a guardare in faccia ogni singolo soldato che incontra: vecchi, uomini maturi, suoi coetanei e ragazzetti imberbi, conosciuti e sconosciuti. Sono pallidi, emaciati, hanno le mani intorpidite e gli occhi lucidi; qualcuno di loro è ferito, ma si è rassegnato all’impossibilità di essere evacuato prima della fine della battaglia. “Questa guerra ci sta chiedendo più di quanto ciascuno di noi possa dare, ma è nel resistere alle avversità che si manifesta la vera forza degli uomini.” Nonostante il berretto calcato sul capo e il bavero del cappotto alzato fino al mento, dalle sue labbra escono piccole nuvolette di condensa che si disperdono nell’aria gelida. “Non credete ai predicatori che, dall’alto delle loro cattedre, cercano di indottrinarvi su giusto e sbagliato senza conoscere il prezzo del vostro sacrificio. Non credete a chi professa falsi ideali di libertà, dichiarando morte e sepolte le antiche virtù. Non date retta ai borghesi, che coi soldi credono di poter comprare la felicità.” Agli sguardi spauriti delle reclute e ai cipigli arcigni dei veterani, non può far altro che opporre la pacata risolutezza del suo contegno. Come di riflesso, sfiora con le punte delle dita le foglie di quercia della sua croce di cavaliere, come per trarre calore dal contatto col freddo metallo. “Ho condiviso con voi la gavetta, le trincee fangose e le notti all’addiaccio: so quello che provate perché l’ho provato io stesso sulla mia pelle. So quello che avete sofferto, perché ho sofferto, marciato e combattuto insieme a voi. Ma voglio spronarvi affinché non cadiate preda del dubbio, cedendo alla crudeltà e alla vigliaccheria. Voglio che restiate uniti, nel pensiero e nell’azione... e come ognuno di voi, spero di veder sorgere una nuova alba.”
Terminato l’eloquio del maggiore, i soldati si disperdono tornando alle proprie occupazioni. Alcuni approfittano della breve tregua per mangiare o dormire, altri restano vigili nei loro involti di coperte, temendo di trovarsi faccia a faccia coi russi: più volte li hanno visti balzare all’interno delle loro postazioni col favore delle tenebre, le baionette che rilucevano sinistre nel bagliore della luna.
Schwerin esala un profondo sospiro e si passa una mano sul volto, consapevole del peso delle sue parole. Alza lo sguardo verso il cielo scuro, dove le stelle assistono impassibili, mute testimoni di quella lotta senza quartiere. Non può fare a meno di chiedersi quanti uomini ancora dovranno morire, prima che sorga di nuovo il sole.
Un rumore di passi incerti lo ridesta da quei pensieri. Si volta e si ritrova faccia a faccia con Richter, che ricambia il suo sguardo: non lo ha sentito arrivare, segno che era già lì; eppure non si sente in imbarazzo. Per un istante gli pare che i suoi occhi chiari e profondi si illuminino di un bagliore di comprensione, ma la sua espressione seria rimane impenetrabile.
Vorrebbe chiamarlo a sé per scambiare due parole, ma si rende conto che non saprebbe di cosa parlare: se tra i soldati di truppa certe barriere non esistono o crollano in fretta, la loro condizione di ufficiali superiori li porta a mantenere un certo distacco e a comunicare soltanto di questioni prettamente militari. Non importa se l’uomo che ha di fronte è un coetaneo con cui ha condiviso giorni di aspri combattimenti, non importa se le divise che indossano li identificano come parigrado: il principe von Schwerin-Wolfshagen può fingere di essersi scrollato di dosso i retaggi elitari di una società classista, almeno nelle parole e negli atti, ma in quel momento, quel von che ha deliberatamente taciuto nel presentarsi gli pesa più di ogni altra cosa.
“Schwerin, lei...” Qualunque cosa Richter avesse voluto dire, viene coperta da un boato assordante. I motori e le eliche ruggiscono, facendo ribollire l’aria. Una pioggia di dardi infuocati precipita giù dal cielo nero, luci abbaglianti feriscono gli occhi, la terra trema come scossa dall’ira di mille giganti.
“Ai rifugi!” urla Schwerin, afferrando il braccio del collega e spingendolo via.
 
Al bombardamento sovietico segue uno scontro armato: le mitragliatrici riprendono a crepitare, gli obici da campo e i mortai tornano in funzione. A un’ora indefinita della notte, i russi stremati vengono ricacciati indietro e la violenza si mitiga con la stessa velocità con cui è divampata.
Richter scorge l’ombra di Schwerin, in piedi su un cumulo di rovine a fissare la notte scura. Prima della battaglia l’ha sentito arringare i suoi soldati e dispensare incoraggiamenti a chi si sentiva perduto; dopo l’ha visto combattere coi gomiti e le ginocchia a terra, l’immancabile fucile che sembrava un prolungamento del suo braccio. E lo vede adesso, assorto in chissà quali pensieri, come la statua immobile di un soldato di carne e sangue.
Non sa praticamente niente di lui, ma ha come l’impressione di conoscerlo da sempre: ha combattuto accanto a lui giorno e notte, dimentichi del sonno e della fame, e sente come se tra loro si fosse instaurata una sintonia inesprimibile a parole. Del resto, sa bene che poche settimane di battaglia possono forgiare amicizie durature, talvolta perfino più forti di quelle nate dopo anni di conoscenza.
Lo raggiunge in silenzio, arrampicandosi a sua volta sui resti del muretto. Quando giunge sulla sommità, le loro spalle si sfiorano appena, ma nessuno dei due si ritrae a quel contatto inaspettato.
Rimangono lì, avvolti nei lunghi cappotti coperti di cristalli di ghiaccio, a trarre un barlume di calore dalla reciproca presenza.
Richter lascia vagare lo sguardo attraverso lo scenario che si profila di fronte a loro: un cimitero di ruderi sommersi dalla neve, strade ostruite da montagne bianche lambite dalla luna, palazzi sventrati le cui finestre si aprono come orbite vuote spalancate sul nulla.
“Che paesaggio spettrale,” si lascia scappare.
Schwerin annuisce e si volta verso di lui. Nonostante il grigiore onnipresente, i suoi occhi sono luminosi come zaffiri.
Non dice nulla, ma forse non c’è bisogno di parole: sentono di potersi fidare l’uno dell’altro in quella situazione incerta, e non serve altro per descrivere l’intesa che serpeggia tra loro.
Non sanno cosa li aspetta, ma sentono di poterlo affrontare insieme.
È come se avessero condiviso un segreto sotto quella luna indifferente.
 
 
“Anche stavolta, il conto del macellaio è stato salato,” osserva Richter guardando i teli verdi che celano altrettanti corpi, allineati sul cassone di un camion. La sua figura è un’ombra scura che si staglia contro il tramonto. “Quanti giorni abbiamo combattuto in quel buco? Quattro, cinque? Ho perso il conto.” Volta le spalle alla finestra, schermata da un telo trasparente per proteggere l’interno dagli spifferi, e si versa una tazza di caffè. “L’ultimo dei miei era un ragazzo di diciassette anni, arrivato dalla Germania pochi mesi fa. Aveva passato l’addestramento con ottimi risultati e si sentiva onorato di essere entrato a far parte della divisione Eisenfaust. Camminava coi piedi piagati dal freddo, ma non passava giorno in cui non lo vedessi ridere e scherzare insieme ai suoi camerati.”
Cala un lungo silenzio assorto, dove entrambi sembrano indugiare in qualche ricordo lontano. Schwerin conosce bene la nostalgia, è una sensazione che ormai è entrata a far parte del suo essere. “Muore giovane chi è caro agli dei,” mormora infine, come rivolto a se stesso.
Dulce et decorum est pro patria mori. Una volta ci credevo anch’io.” Anche Richter sembra aver pronunciato quelle parole tra sé e sé, in tono distaccato, tuttavia Schwerin non può fare a meno di fissare lo sguardo su di lui: la sua espressione è indecifrabile, come se una barriera lo separasse dal resto del mondo, ma nei pozzi gelidi dei suoi occhi sembra ardere qualcosa che gli risulta familiare.
“Siamo nati per morire,” gli fa eco lui. “Ce lo ricordano dal giorno in cui ci siamo arruolati.”
“Ho visto morire centinaia, forse migliaia di uomini. Alleati, nemici, camerati... amici. Eine Kugel kam geflogen: gilt es mir oder gilt es dir? [*]” Richter appoggia la nuca allo stipite divelto e si perde a contemplare una crepa sul soffitto. La visiera del berretto nasconde in parte il suo volto, ma non l’ombra di tristezza che alberga in fondo al suo sguardo. “Il mio Vecchio diceva sempre: o ti abitui alla morte, cerchi di renderti insensibile, oppure impazzisci e ti spari un colpo alla testa. Non c’è una via di mezzo.” Esala un sospiro. “Adesso è morto anche lui.”
Schwerin non risponde subito, ma riflette a lungo sulle sue parole, mentre ricordi dolorosi riaffiorano in superficie.
“Non mi fraintenda, non ho alcuna intenzione di sminuire il sacrificio dei nostri soldati,” continua l’altro, senza farci caso. “Non sono come quegli ufficiali infatuati dei loro gradi e dell’autorità che rappresentano, che amano sfilare in alta uniforme per le strade di città conquistate col sangue altrui. Non sono come quegli ipocriti che mandano a morire frotte di disperati mentre se ne stanno rintanati come talpe nei loro bunker. Amo la mia Patria e darei la vita per essa, se dalla mia morte potesse dipendere un futuro migliore.” Finisce il caffè, posa la tazza sul davanzale. “Adesso, però, sento che la marea si sta rivoltando contro di noi: se dovessimo perdere questa guerra, per noi resteranno soltanto l’infamia e l’oblio della Storia.”
Schwerin, ancora seduto su una cassetta di munizioni rovesciata, si versa una tazza a sua volta. È caffè riscaldato, di pessimo sapore, ma si sforza di inghiottirlo senza una smorfia. “Sa, Richter, una volta ero convinto che avremmo vinto la guerra. Ricordo ancora le marce attraverso le cittadine polacche, coi volti sporchi di fuliggine e gli stivali infangati, ma l’animo lieto. Di ritorno dalle missioni cantavamo Bomben auf Polenland e Wir sind die schwarzen Husaren der Luft. Credevo che niente ci avrebbe potuti piegare – e lo credo ancora: piuttosto ci spezzeremo, pur di non darla vinta ai nostri nemici.”
“La vita è una lotta, ma finché c’è lotta c’è vita,” mormora l’altro, in tono assorto. “Combatti perché devi, perché la legge universale dentro di te ti impone di non gettare le armi.”
Schwerin indugia per un po’ sulla sua figura: ha imparato a fare affidamento su di lui come un pilastro, ma non si è mai accorto di quanto i suoi lineamenti spigolosi siano in realtà armonici e gradevoli. Anche l’altro si sorprende a guardarlo; i loro occhi s’incrociano e si incatenano gli uni agli altri, comunicando l’inesprimibile. Si rende conto che parlare con lui è come vedere riflesso in uno specchio il se stesso di pochi anni prima: un’anima che soffre per le stesse ferite, ma più fresche e più brucianti. È come muoversi in un terreno insidioso, nel quale una sola parola fuori luogo potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora di segreti inconfessabili.
È proprio Richter a cambiare discorso, distogliendolo dalle sue riflessioni. “C’è una cosa che non le ho mai chiesto. L’altro giorno... come ha fatto a trovarmi a colpo sicuro in mezzo a quel pandemonio?”
“È stato un caporale a condurmi fin lì. Non si è presentato, ha solo capito chi ero e chi cercavo. Ma se devo essere sincero, avevo già sentito parlare di lei e non è stato difficile riconoscerla.”
Richter si lascia scappare una leggera risata priva di allegria. “Ah, sì? Non pensavo di essere così famoso.”
“Tutti nella Divisione parlano di Smolensk e di come lei, con una compagnia dimezzata...” Vuole essere cortese, ma s’interrompe a metà, rendendosi conto che l’espressione dell’altro si è improvvisamente indurita.
“Davvero una vittoria schiacciante,” replica, a denti stretti. “Ma il merito va tutto al capitano Altendorf.”
Schwerin apre la bocca per dire qualcosa, ma Richter ha già lo sguardo rivolto verso l’uscita. “Adesso, se vuole scusarmi... devo proprio andare.”
Rimane a guardarlo mentre raccoglie il cappotto e lo saluta, asciutto e sbrigativo; poi, quando la porta si chiude, si prende la testa tra le mani ed esala un sospiro.
Non riesce a spiegarsi quello scatto repentino, ma più di tutto fatica a capire che cosa lo attiri verso quell’uomo freddo e distaccato, spingendolo a ricercare la sua compagnia con tanta assiduità.
 
Fuori nel pomeriggio gelido, Hermann muove qualche passo nel cortile sommerso dalla neve. Gli stivali vi affondano fino al polpaccio e il suo respiro si condensa in nuvolette di vapore che sembrano quasi avere consistenza fisica. Stringe le braccia intorno al petto per proteggersi dal freddo e getta un ultimo sguardo in tralice alla finestra della postazione di comando. Con la coda dell’occhio gli sembra di scorgere l’ombra di Schwerin affacciato; è tentato di tornare da lui, ma quando si volta di nuovo la luce all’interno è spenta.
C’è qualcosa, nelle maniere cortesi del suo parigrado, che lo affascina e lo mette in imbarazzo: non riesce quasi a credere che qualcuno si sia voluto intrattenere con lui di sua sponte e non per obbligo militare.
Si pente subito di quello scatto, ma rivivere ciò che ha visto in quella battaglia è come una pugnalata al cuore. Certe volte si ritrova a pensare che avrebbe preferito morire lui al posto del capitano, ma non può far altro che rassegnarsi al sonno e lasciare che quei ricordi lo perseguitino anche nei peggiori incubi. Non riesce a perdonarsi di non essere arrivato in tempo, di non aver potuto far nulla per lui: ogni volta che ci ripensa, il senso di colpa lo ghermisce come una morsa gelida e gli mozza il respiro.
Da una parte, però, una voce gli suggerisce che ha fatto bene ad andarsene: la solitudine è una benedizione, è la compagnia – per quanto disinteressata – a costituire un’invasione del suo territorio, quella landa desolata e sferzata da venti gelidi su cui nessun altro dovrebbe affacciarsi.
Come può aver pensato, anche solo per un istante, che il maggiore Schwerin possa essere diverso dagli altri?
 
 
[*] Giunse fischiando una pallottola; è per me, oppure per te?
 
 
 

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Capitolo 3
*** III ***


Eccoci al terzo (nonché terzultimo) capitolo di questa storiella.
Ringrazio tutti quelli che sono passati da queste parti e mi hanno lasciato dei commenti, sperando che la vicenda continui a interessarvi.


Come sempre, ogni presa di posizione da parte mia è totalmente assente da questa storia, che non vuole essere altro che un tentativo di ricostruire quella che doveva essere la vita sul fronte orientale (e la battaglia di Stalingrado, con tutta la sua Weltanschauung) dal punto di vista di due ufficiali tedeschi, vista attraverso i loro occhi e filtrata attraverso la loro sensibilità.

Buona lettura.


 
III.

 
 
La situazione al fronte non è mai stata così drammatica. Novembre ha portato con sé un’altra ondata di gelo dalla Siberia, che ha spazzato via anche le più flebili speranze di vittoria. Come fagotti tremanti, i soldati si aggrappano ai fucili e alle macerie in attesa dell’ennesimo attacco sovietico. Dormono sonni inquieti col capo reclinato sul grembo dei camerati, addossati l’uno all’altro contro le pareti della casamatta. Una stufa scassata emana onde di calore effimero, che si disperde in fretta attraverso gli spifferi; l’artiglieria rimbomba in lontananza come un eterno temporale senza pioggia. Fino a qualche giorno prima, quella struttura difensiva apparteneva ai russi: scritte in un cirillico incerto inneggiano a Stalin e alla Grande Madre Russia.
Schwerin ha le mani puntate sul tavolo e fissa la mappa; Richter non si stacca dal binocolo. Sembrano due belve in gabbia, logorate dal senso d’impotenza: nessuno può prevedere quando le trincee erutteranno una nuova ondata di nemici.
“La radio non prende, i camion in panne hanno le ruote impantanate nel ghiaccio.” Schwerin pronuncia quelle parole con distacco, senza il coraggio di guardare in faccia il collega. “Il Don è una lastra ghiacciata, non arrivano rinforzi né rifornimenti. Siamo bloccati qui.”
Hermann si lascia ricadere il binocolo sul petto con un sospiro. “Possiamo solo resistere a oltranza. Anche l’Armata Rossa è nella stessa situazione, ma non si arrende.”
Si scambiano un lungo e significativo sguardo. Alla fine, Schwerin abbassa di nuovo gli occhi sulla mappa e mormora: “Anche i loro comandanti sanno bene qual è la posta in gioco.” Per un attimo pare che la sua espressione risoluta vacilli, velata dal dubbio, ma subito dopo stringe il pugno e se lo porta al petto, quindi alza di nuovo la testa. “La guerra non sarà persa finché resterà ancora qualcuno con la volontà di combattere.”
Hermann non risponde: anche se per un brevissimo istante, Schwerin l’ha messo a parte dei suoi dubbi, e lui ha come l’impressione che gli abbia mostrato un lato di sé che a chiunque altro sarebbe precluso. Tuttavia, lo vede ergersi come un faro nell’oscurità, una fiamma che arde in tutto quel gelo.
“Signor maggiore!”
A quelle parole, i due si voltano di scatto: un tenente è entrato nella casamatta, facendo spirare all’interno una potente ventata di freddo che arriccia la mappa. È un ragazzo pallido e allampanato, con un mitra a tracolla, che non dimostra vent’anni. Si ferma davanti a Schwerin e si irrigidisce sull’attenti. “Signore, abbiamo sventato una sortita. Ci sono dei prigionieri.”
“Arriviamo subito.” L’ufficiale ha parlato al plurale, includendo anche Richter, che lo segue senza dire una parola.
Attraversano un camminamento scavato in una fossa dalle pareti ghiacciate mentre vortici di neve cadono da un cielo privo di colore, quindi giungono a una postazione dove quattro soldati con le mani alzate e la stella rossa sull’elmetto sono sorvegliati dai fucili di altrettanti fanti in grigioverde.
I due più anziani tra i bolscevichi rimangono in silenzio a fissare i tedeschi con un misto di astio e timore, ma non osano muovere un dito. Un terzo ha una vistosa ferita da taglio sulla guancia e un proiettile gli perfora la gamba.
Alla vista dei due ufficiali, l’ultimo prigioniero, un ragazzo gracile con l’elmetto che gli copre gli occhi, china il capo e grosse lacrime iniziano a scorrergli sulle guance. “Pomotsch,” mormora, il petto scosso da potenti singhiozzi.
Per tutta risposta, uno dei soldati lo colpisce, ma un gesto perentorio di Schwerin lo induce ad abbassare il fucile.
Il maggiore si avvicina al ragazzo, che si morde il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, quindi si ferma di fronte a lui e a bassa voce, in russo, gli dice qualcosa che da quella distanza Hermann non riesce a cogliere. Ha un tono fermo e autorevole, ma le sue parole riescono in qualche modo a riscuotere il ragazzo, che annuisce e riserva occhiate remissive ai suoi carcerieri.
“Accompagnateli nel rifugio, fate medicare il ferito e lasciate qualcuno a sorvegliare a vista gli altri. Chi maltratta un prigioniero inerme dovrà risponderne a me personalmente.”
Richter non può fare a meno di stupirsi del comportamento del suo parigrado: da quando si trova in Russia ha visto fucilare decine di uomini ed è ormai troppo avvezzo a quel modo sporco di fare guerra, senza quartiere e senza prigionieri. Schwerin invece non si è lasciato corrompere: se lo immagina su un alto destriero da guerra, con un’armatura lucida e la lancia ornata di nastri. Un cavaliere in un mondo che va scomparendo, un uomo tra le rovine, nobile nell’animo prima che nel nome.
 
 
Za Rodinu! Za Stalina!” Le grida dei russi irrompono nel silenzio della notte, accompagnate dalle salve di altrettanti fucili e dal crepitare furioso delle mitragliatrici. “Vperjod!” Centinaia, migliaia di gole innalzano al cielo un gigantesco Hurra mentre le bocche dei cannoni vomitano tonnellate di fuoco. “Za Stalina! Hurra pobieda!
Appiattito dentro una buca insieme a due soldati con la mitragliatrice pesante, il maggiore Richter ritira la testa tra le spalle. Colonne di fumo plumbeo si torcono nell’aria, rendendola così rovente da far sciogliere la neve prima ancora che tocchi terra.
Sieg Heil!” urla un sottufficiale incitando i propri uomini, ma la sua voce è troppo timida per coprire il fragore della battaglia. Stanchi e sfibrati, pochi soldati si uniscono, preferendo combattere in silenzio. Intorno a loro ci sono reparti della Wehrmacht, delle Waffen-SS, perfino della Hitlerjugend: combattono dietro muri crollati, nelle voragini scavate dagli obici, dietro ridotti di sacchi ammassati alla rinfusa; focolai di scontri dilagano per tutto il centro abitato. La differenza è che, quando un tedesco muore, i camerati si stringono intorno a lui cercando di resistere; quando muore un russo, al suo posto ne sopraggiungono altri dieci, che combattono con più furore e urlano a voce più alta.
Hurra pobieda!” Il grido, prima vigoroso, perde d’intensità fino a rendere più chiaro un ruggito di motori in sottofondo.
“Sono i nostri Tiger! Gott mit uns!
Alla vista dei carri armati, che procedono allineati per la strada principale sferzando lo schieramento nemico con raffiche di mitragliatrice, i bolscevichi si disperdono come bestie braccate e i tedeschi si avventano su di loro con rinnovato furore.
Richter fa per strisciare via dalla propria postazione, quando a pochi metri di distanza, leggermente più avanti, intravede la figura ormai familiare di Schwerin che sta cercando di tenere a bada un’orda di russi a colpi di pistola, riparato dietro i resti di un muro di mattoni. Uno dei soldati della sua scorta viene colpito da un proiettile e si accascia per terra come un sacco vuoto. Subito dopo, un altro lascia cadere il fucile e si rannicchia contro il muro gemendo di dolore. La neve ai suoi piedi è macchiata di sangue e il maggiore è rimasto solo.
Hermann si rende conto dell’istinto che lo ha guidato fin lì soltanto quando, ginocchia a terra, si accorge di aver sfidato una bordata di proiettili solo per raggiungerlo.
L’altro lo fissa sbalordito. “Richter?” Ha la fronte imperlata di sudore e i suoi occhi azzurri sono un tocco di colore in tutta quella tetraggine.
“Attento!” è la risposta. Richter lo afferra per un braccio e lo trascina in copertura mentre una salva di bossoli tintinna a un palmo dalla sua spalla, poi si sporge appena e spara al russo armato di mitra, che scompare dietro un cumulo di macerie senza un lamento.
“Adesso non c’è più nessuno,” mormora, mentre l’altro abbassa il braccio armato e riprende fiato.
Si abbandonano con la schiena contro il muro, spalla a spalla. Schwerin cerca la sua mano e le loro dita si sfiorano appena, in un muto gesto d’intesa. “Non mi aspettavo di trovarla qui... camerata.”
Hermann si limita a rafforzare la stretta intorno al suo polso, senza dire nulla né voltarsi verso di lui. Non c’entra niente la gratitudine per essere stato salvato da prigionia o morte certa: è qualcos’altro, che lo porta quasi a considerarlo un amico. Insieme hanno vegliato, marciato e sopportato ore di incessanti bombardamenti. Insieme hanno provato stanchezza, fame e paura, ma si sono fatti forza con la reciproca presenza. Si rende conto che non conosce nemmeno il suo nome di battesimo, non sa da dove venga né quale sia la sua storia, ma nella Wehrmacht nulla di questo conta. Sa solo che sotto quell’uniforme c’è un uomo nelle cui mani può tranquillamente riporre la propria vita, e tutto il resto passa in secondo piano.
 
 
Fiocchi bianchi si posano sulla terra bruciata dal gelo, nascondendo alla vista i campi minati e i labirinti delle trincee. Nella piazza sgomberata dal ghiaccio, i soldati stanno salendo sui camion, pronti per riprendere la marcia.
Prima di partire, Hermann si guarda intorno alla ricerca del suo collega, sperando di scorgerlo tra le file di ufficiali inferiori radunati intorno all’uscita del rifugio.
Lo individua alla fine, mentre in disparte osserva gli uomini del suo reparto, le mani dietro la schiena e il berretto leggermente sulle ventitré.
Si avvicina e gli rivolge un rapido saluto militare. “Schwerin, la stavo cercando.”
L’altro si volta verso di lui; il cielo infuocato dell’alba fa risaltare i suoi occhi azzurri sul volto dal profilo aristocratico. “Può chiamarmi Eugen.”
Colto alla sprovvista, Richter fatica a credere a ciò che ha appena udito: è la prima volta che lo sente usare con tanta disinvoltura il proprio nome di battesimo. Ha come l’impressione che l’altro gli abbia accordato un privilegio che non concede spesso. “Va bene... Eugen.” Annuisce, ricomponendosi. “Solo se lei mi chiama Hermann, però.”
“Hermann,” ripete l’altro, in un tono che fa sembrare l’inflessione della sua voce ancora più calda.
In quell’istante sospeso, i loro respiri si condensano in tenui nuvolette di vapore; si scambiano uno sguardo e si sentono come se fossero in confidenza da sempre. La consapevolezza li colpisce come un fulmine a ciel sereno, ma la presenza dei loro subalterni li trattiene dal fare un ulteriore passo avanti.
 
La buca che ospita i due ufficiali è una cantina dal soffitto basso, da cui i pezzi d’intonaco si staccano come farina. Fuori, da ore, ulula un’implacabile bufera di neve.
“È la fine del mondo, un dannato inferno ghiacciato...” geme un soldato.
Uno dei più anziani, che dall’aspetto si direbbe un veterano della Grande Guerra, si rigira nervosamente tra le coperte e grugnisce: “Se andiamo avanti di questo passo, la neve ci sommergerà tutti. Non ci ritroveranno più.”
Si fa avanti un sergente, all’incirca dell’età di Schwerin e Richter. È alto, vigoroso, sembra uscito da un manifesto di propaganda. “Basta così!” li rampogna. “Se volete morire, uscite fuori e sdraiatevi per terra: sarà questo gelo infame la vostra tomba. Nessuno si ricorderà più di voi e state certi che non mancherete a nessuno.” Nessuno osa replicare mentre il giovane, mani puntate sui fianchi, scruta i soldati a uno a uno. “E voi sareste soldati della Eisenfaust? Mi sembrate un branco di smidollati! Tirate fuori le palle e smettete di lagnarvi, o abbiate almeno la decenza di tenervi codesti pensieri per voi. La tempesta finirà.”
“La tempesta finirà...” ripete un giovanotto. “Signorsì, signore.”
A quelle parole, l’espressione del sottufficiale si ammorbidisce. “Animo, ragazzi miei. Chi si dà per vinto è già perduto.” Si lascia scivolare il fucile giù dalla spalla, prende una cassetta di munizioni vuote e va a sedersi di fronte a loro, accavallando le gambe. “Cantiamo qualcosa, piuttosto.”
Un giovane caporale tira fuori un’armonica a bocca e, mentre il vento ulula e muggisce, i soldati intonano un timido canto.
 
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
 
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
 
In piedi di spalle, le mani dietro la schiena, il maggiore Richter – o meglio, Hermann – non si muove: sembra assorto nella contemplazione del poco cielo che si riesce a intravedere da una fenditura nel muro.
 
Jeder brave Grenadier sehnt heimlich sich nach dir.
Jo! Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
 
(Ogni buon soldato prova nostalgia per la sua terra.
Sì! Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.)
 
Anche Schwerin si mantiene in disparte, ma per un attimo si sorprende a chiedersi che cosa stia pensando. Qualcosa, tuttavia, lo trattiene dall’avvicinarsi a lui e offrirgli uno spunto per conversare: si trovano a tu per tu da quasi un mese, hanno combattuto fianco a fianco e si sono difesi senza chiedere nulla in cambio, ma il suo mondo interiore rimane un mistero insondabile.
Forse è il carattere ombroso di Richter, forse sono gli stessi scrupoli di quella notte nelle trincee. Eppure, si sente di considerarlo un camerata, un amico, qualcuno con cui abbia condiviso una fetta significativa della propria vita. Sono due ufficiali superiori, ciascuno a guida di un’accozzaglia di battaglioni sbandati, ma le uniformi logore e i cappotti consunti li rendono poco più che due fagotti di stracci con le mostrine lucide e qualche medaglia. Perfino i vincoli di formalità si allentano, in casi del genere.
 
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
 
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive solo una volta, e poi non più...)
 
Gli ritornano in mente i tempi in cui il principe Eugen von Schwerin-Wolfshagen, all’epoca capitano della Luftwaffe, si presentava col proprio nome per intero ed era sempre alla ricerca di nuove avventure. Aveva ricevuto vari richiami disciplinari per il suo atteggiamento sopra le righe, era stato sballottato da uno Stukageschwader all’altro ed era piuttosto spigliato nel dare sfogo alle proprie inclinazioni, anche se per quell’ultima cosa aveva sempre adottato la massima discrezione. Ciò lo rendeva però anche ardito, spericolato quando c’era da partire per una missione, e gli era fruttato una croce di cavaliere per aver affondato un incrociatore inglese al largo di Calais, dileguandosi poi sotto gli occhi attoniti di una squadriglia di Hurricane senza che il suo aereo subisse danni.
Era andato avanti così almeno fino a quando non aveva conosciuto Jörg, un lanzichenecco alla conquista di Parigi, un capitano delle truppe corazzate che dilagavano per le campagne francesi.
Eugen si era tirato fuori a fatica da uno Stuka in fiamme, le mani e il volto imbrattati di sangue, e si era imbattuto in un gruppo di Panzergrenadiere di ritorno da una sortita. Lutz, il suo mitragliere, era morto prima che l’aereo toccasse terra, e i soldati dello Heer lo avevano aiutato a seppellirlo sotto l’ala di gabbiano rovesciata, salutandolo a braccio teso come un vecchio camerata.
Jörg lo aveva ospitato nei baraccamenti della sua compagnia, ferito, in attesa che qualcuno del suo stormo venisse a recuperarlo. Tra loro c’era stata una passione intensa ma fugace, imprevista, consumata nei pochi momenti di tregua dalle battaglie.
A quei tempi la Germania era gloriosa e potente, e Jörg non era vissuto abbastanza per vederla raggiungere l’acme e precipitare poi inesorabilmente verso la rovina.
Dentro di lui ardeva un fuoco che si è spento troppo in fretta.
Schwerin si riscuote all’improvviso: non sa perché gli è tornato in mente; forse non l’ha mai dimenticato. Certe cose non si dimenticano mai facilmente, non quando si arriva a condividere così tanto per così poco tempo. Dopo di lui non c’è stato più nessun altro, ma quel poco che hanno vissuto insieme basta a non fargli rimpiangere la sua vecchia vita e il tempo passato a rincorrere uomini che non sono stati capaci di lasciare il segno.
E in quel momento, alza gli occhi sulla figura imponente del suo parigrado che si erge come un pilastro nell’oscurità, si perde a fissare la sua nuca bionda. È immobile, ma per un istante gli sembra di rivederlo mentre con un gesto da predatore afferra una vanga da trincea e si lancia nella mischia per difendere i suoi soldati.
Si rende conto che è stato proprio lui a fargli tornare in mente quei ricordi: è portatore dello stesso fuoco, che arde con altrettanta intensità al di sotto della scorza di ghiaccio.
 
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
 
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive una sola volta, e poi non più...)
 
Fa un passo avanti e gli si avvicina. “Hermann,” lo chiama, a voce bassissima.
L’altro si volta verso di lui con un sobbalzo, ma subito dopo le sue labbra si piegano in un accenno di sorriso. “Eugen.”
Rimangono per qualche istante in silenzio, mentre un sibilo più forte s’insinua tra le feritoie. Schwerin conosce bene gli uomini, ma con lui si sente stranamente impacciato: teme di metterlo in imbarazzo o di indisporlo, e allontanarlo da sé è l’ultima cosa che vuole. Come sempre quando è nervoso, si morde il labbro inferiore. “Tu senti mai la mancanza di casa?” gli chiede infine, indicando con un cenno del capo i soldati che cantano.
“Non lo so,” ammette l’altro, con una scrollata di spalle. “Adesso il mio posto è qui, al fronte... almeno fino a quando questa guerra non sarà vinta. Sinceramente credo che ci sia più bisogno di me qui che in Patria.”
Eugen annuisce. “È così per tutti noi.” Segue una lunga pausa, poi soggiunge: “Tu di dove sei, se posso chiedere?”
“Eisenach, in Turingia. È da tanto tempo che non ci torno, però.”
“È una bella città, ricca di cultura e storia.”
“Sì, quando passeggi per il centro storico o per i dintorni, ai piedi del castello di Wartburg, è come fare un viaggio indietro nel tempo.” Gli occhi di Hermann si illuminano appena nel riflesso delle candele. “Ci sei mai stato?”
Egli annuisce. “Ho girato la Germania in lungo e in largo, più volte, e considero casa mia ogni luogo dal Maas al Memel, dall’Adige al Belt. La mia famiglia è originaria della Pomerania, ma io sono nato e ho vissuto a lungo in Prussia Orientale... mi piacerebbe ritornarci, un giorno.”
 
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
 
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
 
“Mi chiedevo se...” Tentenna, poi tace.
Hermann sembra vagamente deluso. “Se?”
Egli scrolla il capo. “No, niente. Cose militari, ma ne abbiamo già parlato.” Gli volta le spalle, si avvicina alla caffettiera. Con gesti imprecisi versa del caffè in due tazze e vi lascia cadere due zollette di zucchero, poi gliene porge una senza neanche guardarlo in faccia. “Ne prenda un po’, Richter. Ci converrà rimanere svegli, stanotte...”
“Eugen.” La mano dell’altro gli si poggia sulla spalla. “Se hai qualche dubbio, parliamone. Sai che non ci è concesso di sbagliare o fallire.”
Schwerin si limita a sorbire il suo caffè freddo, senza dire nulla: in realtà la strategia non c’entra niente con la sua titubanza. La verità è che ha offerto a Richter un grado di confidenza che da anni non offriva più a nessuno, e l’ha fatto quasi senza pensarci, senza tenere in conto le conseguenze che quel gesto potrebbe avere. Ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa che non aveva previsto e che non deve ripetersi: se Richter lo venisse a sapere, se dovesse sospettare qualcosa, tutto ciò che hanno duramente conquistato in quelle settimane finirebbe spazzato via da uno scandalo senza precedenti. “Ho piena fiducia in te e nei nostri uomini, Hermann,” si costringe a dire, alla fine. “Nemmeno in passato sono mai stato così sicuro di poter resistere alla marea rossa.”
“E questa è la cosa importante,” gli dice l’altro, prendendo la tazza di caffè dalle sue mani.
Schwerin annuisce, ma ancora una volta preferisce guardarlo negli occhi e tacere. Non ci sono parole per esprimere quello che vorrebbe dirgli in quel momento; forse nemmeno lui le conosce.
 
 
Mentre il sole spande i suoi ultimi raggi dorati sulla terra di nessuno, il reggimento macina altri chilometri in terra russa. La neve è così alta che da essa riaffiorano solo creste di muri, e a un lato della strada s’intravede la carcassa di un T-34 col cannone rivolto verso il cielo.
Le canzoni risuonano tristi per il paese fantasma, le voci sono stanche, i volti rigati di lacrime.
Il maggiore Richter dà ordine alla schiera di fermarsi all’ombra di una quercia spoglia, quindi balza giù dal camion. Schwerin lo imita poco dopo, seguito dagli altri soldati: alcuni recano delle vanghe e delle croci di legno, altri trascinano a braccia i sudari dei caduti – non tutti hanno diritto a una bara.
Senza voltarsi verso di loro, Richter alza lo sguardo sull’albero: alto diversi metri, con un tronco robusto e rami nerboruti, dà l’idea di essere resistito a mille anni di intemperie e di turbolenta Storia russa. “Camerati!” La sua voce rimbomba nel silenzio, riverbera nell’aria gelida. “Oggi più che mai le difficoltà sono immense, ma noi siamo ancora qui e non ci è concesso demordere. Qui, alle porte di Stalingrado, ci stringeremo gli uni agli altri, ci sentiremo parte di un unico gruppo e renderemo onore al sacrificio dei nostri compagni. Chi si dà per vinto è già perduto.”
Cita involontariamente le parole del sergente che arringava i soldati nel rifugio, caduto in combattimento quella mattina stessa. È lui il primo a essere tumulato ai piedi della quercia, in una modesta cassa da morto avvolta nella bandiera di guerra del Reich.
Gli stessi soldati dell’altro giorno riprendono a cantare.
 
Ich hatt’ einen Kameraden
einen bessern findst du nit
Die Trommel schlug zum Streite,
Er ging an meiner Seite
In gleichem Schritt und Tritt.
 
(Avevo un camerata
non ne puoi trovare uno migliore.
I tamburi incitavano alla battaglia
lui stava saldo accanto a me
allo stesso passo di marcia.)
 
Mentre la neve riprende a fioccare nell’aria, le tombe dei caduti vengono ricoperte di terra e i loro elmetti d’acciaio apposti sulle croci. Forse in primavera vi cresceranno dei fiori.
 
Eine Kugel kam geflogen,
Gilt's mir oder gilt es dir?
Ihn hat es weggerissen,
Er liegt vor meinen Füßen
Als wär's ein Stück von mir.
 
(Giunse fischiando una pallottola;
è per me, oppure per te?
L’ha strappato alla vita,
egli giace ai miei piedi
come se fosse una parte di me.)
 
Richter assiste in rispettoso silenzio alla cerimonia, con le mani nelle tasche del lungo cappotto.
Cerca di fare il vuoto nella mente, ma il ricordo di Werner Altendorf lo colpisce ancora una volta come una stilettata ghiacciata che lo trapassa da parte a parte. Lo sguardo vacuo fisso di fronte a sé, si irrigidisce e stringe i pugni.
Era autunno, allora, nei pressi di Smolensk: il capitano gli aveva comunicato via radio che la vittoria era vicina e quel giorno stesso era morto in maniera orribile. Hermann non aveva potuto far altro che giungere sul posto e assistere impotente mentre spirava, la mano stretta nella sua. Di quella compagnia non era rimasto nemmeno un superstite.
Quel giorno, Hermann ha perso molto più che un semplice camerata: è come se insieme a Werner fosse morta anche una parte di lui.
 
Will mir die Hand noch reichen,
Derweil ich eben lad'.
"Kann dir die Hand nicht geben,
Bleib du im ew'gen Leben
Mein guter Kamerad!"
 
(Vuole tendermi ancora la mano
mentre ricarico il fucile.
Non posso darti la mano,
riposa in pace nella vita eterna,
mio buon camerata!”)
 
Si dice che morire combattendo per la propria Patria sia l’onore più grande per un soldato, ma spesso non basta ad alleviare il peso che una tale perdita si porta dietro. Soprattutto se di quella morte ci si sente indirettamente colpevoli.
Ai caduti di quella compagnia era stata riservata una cerimonia solenne: Hermann ricorda ancora le bandiere scarlatte che avvolgevano i feretri, la parata funebre e gli ufficiali in alta uniforme che cantavano, con gli elmetti lucidi e le sciabole alla cintura. Lui faceva parte della guardia d’onore, ma ha vissuto l’intero evento come una sorta di strano incubo allucinato.
Tu senti mai la mancanza di casa, Hermann?”
Non lo so. Ogni volta che torna in Turingia deve attraversare le stesse strade, visitare gli stessi parchi e percorrere gli stessi viali, pur sapendo che lui non tornerà più. Non potrà più vedere il guizzo di baldanza nei suoi occhi di cielo, né intrecciare le dita tra i suoi capelli biondi nei loro preziosi momenti di solitudine. Una lapide spoglia nel cimitero della città, con incisi il suo nome e una croce di ferro, è tutto ciò che resta di lui.
Sente lo sguardo di Schwerin su di sé, ma si sforza di restituirgli una facciata impenetrabile. Qual è il confine tra il cameratismo e l’ineffabile sintonia che serpeggia tra due uomini uniti dagli stessi intenti? Cos’è che marca la differenza tra un soldato modello, dedito ai commilitoni prima che a se stesso, e quello che verrebbe bollato senza indugi come un depravato privo di dignità? Forse, se Eugen conoscesse il suo tormento, non lo guarderebbe più con gli stessi occhi. Nella migliore delle ipotesi gli riderebbe in faccia e gli negherebbe la sua amicizia, nella peggiore lo denuncerebbe, condannandolo a finire la guerra in galera e privato della possibilità di dare il suo contributo.
E su di lui, oltre al disonore, peserebbe la colpa di una seconda sconfitta.
Nell’aria riecheggiano per tre volte le salve dei fucili, come ultimo saluto ai caduti.
L’ufficiale sente che i suoi occhi si inumidiscono e mentalmente incolpa il vento sferzante.
 
Prima che la tempesta renda la strada impraticabile, i soldati riescono a ottenere asilo presso alcuni contadini russi, che mettono a disposizione le loro isbe. Una di esse, completamente disabitata, funge da quartier generale per i due comandanti; le altre vengono occupate dalle compagnie.
Fuori imperversa la bufera, ma nel camino arde un grosso ciocco di legna, e i soldati, seduti a gambe incrociate per terra, bisbigliano, borbottano e ridono mentre divorano i loro pasti caldi. Due massicci cani da pastore col pelo lungo come lana di pecora girano loro intorno e li annusano, per poi avvicinarsi e accettare le loro carezze.
Gli anziani padroni di casa, a capo di una famiglia che conta almeno quattro generazioni, si stringono l’uno all’altro per invitare alla loro tavola gli ufficiali; parlano in un dialetto così stretto che capiscono solo a metà il russo letterario del maggiore Schwerin, e si limitano ad annuire con aria dimessa mentre rimestano i cucchiai nella zuppa. Hanno occhi chiari e tristi, barbe lunghe come i simulacri delle divinità slave, e sembrano depositari di una saggezza che il comunismo delle città non ha mai conosciuto.
Seduta a un angolo della tavola c’è una ragazza tutta sorrisi e lentiggini, con una lunga treccia bionda che le ricade sulla spalla, che ascolta le parole del maggiore indugiando con occhi languidi su di lui. Eugen ci fa caso appena, mentre con lo sguardo cerca Richter: neanche lui parla, solo di tanto in tanto risponde con un grugnito d’assenso quando qualcuno lo interpella.
Finita la cena, la maggior parte dei soldati tornano ai loro dormitori improvvisati, ma qualcuno si trattiene ancora insieme alle ragazze e agli anziani dal volto senza tempo. Comunicano tra loro a gesti e frasi prive di significato, cantano canzoni popolari e festeggiano una vittoria di cui a quei vecchi contadini probabilmente non importa nulla.
L’anziana babushka, incurante delle chiacchiere dei tedeschi, si siede in un angolino a sferruzzare una sciarpa e il vecchietto dalla barba lunga si assopisce su una sedia a dondolo.
Schwerin e Richter rimangono in disparte, uno a scaldarsi le mani seduto su un ceppo vicino al fuoco e l’altro alla finestra, a osservare la neve che si posa sui tetti spioventi.
Come l’altro giorno nel rifugio, si trova a pensare Eugen. Vorrebbe avvicinarsi, ma ancora una volta l’esitazione gli impedisce di allontanarsi dal suo angolo caldo. Sa che anche una sola parola fuori luogo potrebbe distruggere il sodalizio su cui si reggono le sorti di quella faticosa avanzata, e non se lo può permettere. Con un sospiro, torna a fissare le fiamme che danzano e si contorcono crepitando intorno al legno consunto.
Dopo un po’, gli giunge all’orecchio la voce di Richter: parla in russo, rivolgendosi direttamente ai contadini per ringraziarli della loro ospitalità. Ha il suo solito tono asciutto e privo d’inflessione, ma pare che anche lui abbia gradito quell’inaspettato ristoro.
Schwerin si volta e lo scorge sulla soglia, col bavero del cappotto tirato su e le mani in tasca. Sembra titubante: per un attimo, i suoi occhi gelidi si posano su di lui, ma la visiera del berretto impedisce di coglierne l’espressione. Lo saluta con un rapido cenno del capo, quindi schiude appena la porta; basta una piccola breccia per far mulinare all’interno una manciata di fiocchi di neve. Sospinte da un poderoso ululato di vento, le fiammelle delle candele tremolano e le assi del pavimento scricchiolano, poi il maggiore scivola all’esterno e si richiude l’uscio alle spalle, facendo ripiombare la casa nella solita quiete.
Schwerin esita ancora un po’, poi si congeda a sua volta ed esce fuori nel freddo a cercarlo.
 
Al piano terra dell’isba i soldati dormono ammassati sul pavimento con gli zaini come guanciali e i fucili appoggiati al muro, mentre chi è di guardia impreca contro la bufera: il passo dei loro stivali chiodati fa tremare il legno della veranda e i loro discorsi si perdono nel vento.
“Che palle, non si può nemmeno fumare una sigaretta in santa pace!”
“Perché non hai mai provato a pisciare controvento: ti assicuro che è molto peggio.”
“Venite dentro, scellerati, o vi buscate qualcosa!” urla un sottufficiale, senza osare mettere la testa fuori. “Con questo freddo pure gli orsi se ne stanno rintanati nei loro buchi!”
“Parla degli orsi pelosi o di quelli che sul colbacco hanno una stella rossa e falce e martello, signor maresciallo? Perché sui secondi avrei qualche dubbio.”
Schwerin alza gli occhi al cielo e si accosta di nuovo alla porta. “Date retta a Möller, forza: tutti dentro.”
“Sì, signor maggiore,” gli risponde una voce rassegnata.
L’ufficiale aspetta che i due uomini entrino e richiudano la porta, poi si guarda intorno alla ricerca del suo parigrado: si aspetta di trovarlo da qualche parte insieme ai soldati; invece non c’è traccia di lui. “Möller, dov’è il maggiore Richter?”
Il maresciallo indica le scale. “È andato su nell’ufficio, signore. Aveva da fare.”
Schwerin annuisce. Sarà sicuramente a scrivere alle famiglie dei caduti, pensa. Il conto del macellaio è stato caro anche stavolta...
La morte non guarda in faccia a nessuno: si è portata via il vecchio con la dissenteria, ma anche il sergente dei manifesti di propaganda mentre incitava i suoi uomini a non demordere.
Decide di raggiungerlo e sale al piano superiore divorando gli scalini a due a due. Anche se la porta è chiusa, intuisce la sua presenza al di là di essa; si accosta e bussa.
Nessuno risponde.
Avvalendosi del fatto che l’ufficio è condiviso, Schwerin entra con titubanza: Richter è seduto su una vecchia sedia, di fronte a sé ha la macchina da scrivere e una bottiglia di vino mezza vuota. Sta fissando il fondo torbido del bicchiere e alza la testa su di lui solo quando la porta si richiude.
La stanza è avvolta nella penombra, solo alcune candele ardono proiettando riflessi sul vetro opaco e sui capelli chiari del maggiore.
Eugen muove un passo in avanti e lo vede irrigidirsi involontariamente, ma è Hermann stesso, con un cenno silente, a invitarlo a sedersi vicino a lui. In silenzio, egli prende una sedia e la accosta al tavolo.
“Stavo scrivendo alle famiglie dei caduti,” spiega l’altro, mentre con un gesto meccanico gli versa del vino e gli porge il bicchiere. “Conoscevo personalmente la moglie e la figlia del sergente.”
A quelle parole, Schwerin non può fare a meno di chiedersi se anche Richter abbia qualcuno che lo aspetta in Germania, e il pensiero gli provoca un’inaspettata fitta di gelosia. Fingendo indifferenza, si porta il bicchiere alle labbra e sorbisce un sorso di vino scadente. “Anch’io dovrò preparare diverse lettere, stanotte,” risponde, in tono neutro. “Al capitano Weiss è stata conferita la croce tedesca una settimana fa, ma sarà sua madre a ricevere il pacchetto.”
Hermann si limita ad annuire. Ha un’espressione indecifrabile, ma la sua postura è rigida. “Ho ricevuto una comunicazione dal comando generale: tra una settimana parte l’operazione Wintergewitter,” annuncia infine. “Dobbiamo tenere duro ancora qualche giorno, poi arriveranno altri rinforzi.”
“Se siamo arrivati fin qui, possiamo farcela ancora.”
Senza replicare, Richter si versa dell’altro vino e beve in silenzio; i suoi occhi grigi sembrano scaglie d’oro alla luce delle candele.
Eugen abbassa la voce. “A che pensi, Hermann?”
“A tutto e niente.”
“Si dice che la guerra faccia emergere il vero volto degli uomini... la loro vera essenza, il loro valore, al di fuori di ogni sovrastruttura borghese. Abbiamo condiviso tante cose, io e te, senza il bisogno di sprecare tempo in chiacchiere effimere.” Si pente subito di essersi lasciato scappare quel pensiero ad alta voce, ma l’altro scrolla il capo, continuando a fissare dritto di fronte a sé.
“È così, e te ne sono grato,” ammette. “Ti sono grato per non avermi fatto domande e per non esserti perso in inutili elogi.” Fa una lunga pausa, poi si volta verso di lui e i loro occhi si incrociano: solo in quel momento sembra che l’abisso di dolore che dimora sul loro fondo si spalanchi, ma il suo contegno rimane composto. “Il capitano Altendorf era il mio aiutante di campo. Era ardito, brillante, competente. Uno degli ufficiali migliori che abbia mai avuto al mio comando. Quel giorno avevo dato l’ordine alla sua compagnia di attestarsi in una vecchia fabbrica, un punto strategico per le nostre operazioni, mentre io col resto delle truppe avrei tentato una manovra di accerchiamento. Sembrava che fosse il piano perfetto, una vittoria assicurata.” Sospira e abbassa lo sguardo sulle fiamme. “Nessuno aveva previsto il contrattacco dei sovietici, arrivato prima ancora che noi potessimo ricevere l’allarme. Quando sono arrivato sul posto, della fabbrica restava solo un cumulo di rovine fumanti e i carri armati russi dilagavano per i campi, mentre la compagnia era rimasta intrappolata all’interno. Non abbiamo potuto far altro che scavare delle buche e cercare di contrastare i nemici con armi da fanteria. Siamo riusciti a ricacciarli indietro solo dopo otto ore di combattimenti.” Le parole gli escono dalla bocca in tono distante, apatico, come non fosse davvero lui a pronunciarle, ma Schwerin nota che i suoi muscoli si sono irrigiditi e i suoi occhi vengono attraversati da un bagliore sinistro. “A quel punto siamo andati a recuperare i feriti dalle macerie. Erano passate ore, ma il capitano respirava ancora... il suo viso era una maschera di sangue, quasi irriconoscibile... mi sono davvero reso conto di quello che stava succedendo solo quando ha aperto gli occhi e mi ha guardato, senza dire nulla.” Le dita vanno a sfiorare le foglie di quercia della croce che porta al collo, ma i suoi occhi diventano due lame di ghiaccio. “Non lo dimenticherò mai.”
Schwerin lo fissa come se lo vedesse per la prima volta. Crede di conoscere il dolore a cui allude, perché l’ha provato lui stesso quando, subito dopo la parata trionfale lungo gli Champs Elysées, ha appreso che il nome del suo amante era tra i caduti della 24. Divisione Corazzata.
D’istinto, si avvicina a lui e gli passa un braccio intorno alla spalla: un gesto fraterno, al quale Richter non si sottrae, ma esala un profondo sospiro e rilassa appena la propria postura, abbandonandosi contro di lui.
Eugen rafforza la stretta e, con uno slancio che meraviglia lui per primo, solleva una mano a sfiorare la guancia liscia dell’altro, che si tende impercettibilmente verso quella carezza.
Rimangono così per un istante imprecisato, la fronte di Hermann contro la sua guancia, vicini come non lo sono mai stati. Nessuno dei due osa proferire parola.

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Capitolo 4
*** IV ***



Ecco un altro capitolo della storiella.
Ringrazio come sempre coloro che sono passati e soprattutto chi mi ha lasciato un commento.

Per la storia valgono le premesse di sempre.
A un certo punto ci sarà anche la descrizione di un rapporto omoerotico, non troppo spinta, ma se non vi va di leggerla potete anche saltarla.

 
Buona lettura.
 
 

IV.
 
Lo sferragliare dei cingoli e il rombo dei motori riempiono l’aria di una cacofonia assordante, al di sotto della quale gli ordini dei comandanti sono a malapena udibili.
Attraverso le lenti del binocolo, il maggiore Richter vede le sagome massicce dei T-34 che spiccano sul bianco della neve. Procedono allineati per risalire il sentiero, lasciandosi dietro lunghe scie di fango ghiacciato. Appollaiati sui cingoli ci sono dei soldati appiedati.
L’ufficiale aggrotta le sopracciglia e si rivolge a Schwerin: “Forse sono gli stessi carri che l’alto comando sovietico ha mandato a intercettare i rinforzi delle nostre divisioni corazzate. Sicuramente non si aspettano di trovare della fanteria appostata proprio qui.”
L’altro sogghigna. “Bene, allora ci penseremo noi a rallentarli.”
“Ricomincia la tempesta d’acciaio... se non altro, in guerra non ci si annoia mai!” commenta Jünger in tono vagamente ironico.
“Li aspettiamo qui, signor maggiore?” chiede Sajer.
Hermann annuisce. “Preparare armi anticarro individuali!” ordina poi.
Schwerin scrive qualcosa su un foglio e lo affida al comandante del plotone artiglieria campale; gli ufficiali si disperdono di nuovo. “Mi raccomando, tenere la posizione a tutti i costi!”
“Sì, signor maggiore!”
“Saremo noi ad aprire il fuoco, sfruttando l’effetto sorpresa. Tenersi pronti e ai propri posti.”
“Sissignore!”
Frattanto, i carri continuano ad avvicinarsi avvolti da una nube di fumo grigio; il loro rumore si fa sempre più vicino e più presente. Al segnale di Schwerin, in sincronia perfetta, PAK e mortai entrano in azione simulando una sorta di fuoco di sbarramento.
La fanteria sovietica si rintana nelle fosse e i tedeschi ricaricano i fucili.
Un obice impatta contro un muro, proiettando frammenti di schegge e calcinacci tutt’intorno. Si sente un’imprecazione, qualcuno che tossisce, poi due fanti strisciano via facendo leva sui gomiti, con le uniformi sporche di polvere bianca. Uno sistema la mitragliatrice qualche metro più indietro, reinserisce rapidamente il nastro mentre l’altro riprende a sparare.
Ovunque riecheggiano tonfi e scoppi, i carri armati si aggirano per le strade ghiacciate come belve alla ricerca di prede. Già un paio, colpiti dall’artiglieria anticarro, riparano in copertura spargendo gasolio rovente per terra. Il relitto fumante di un terzo giace in mezzo alla strada col fianco squarciato da una cannonata, offrendo un rifugio improvvisato per i fanti sovietici.
Le rovine del villaggio sono avvolte da una caligine densa e torrida, che fa sciogliere la neve e riduce la visibilità; l’odore della polvere da sparo misto a quello dell’olio bruciato s’insinua con prepotenza nelle narici.
Nascosto tra le macerie, il maggiore Richter imbraccia un Panzerfaust e prende di mira il più avanzato dei T-34. Il carro arranca goffamente sulla strada dissestata, ripara il fianco vulnerabile dietro la protezione di un muro crollato e brandeggia il cannone alla ricerca di un obiettivo.
Colpito in pieno, il carro sussulta e viene investito dal lampo giallo di un’esplosione. Dal motore si levano minacciose lingue di fiamma e l’olio si sparge per terra, alimentando l’incendio.
Segue un breve istante d’immobilità, poi gli uomini dell’equipaggio spalancano il portello della torretta e abbandonano di corsa il mezzo.
“Questo abbattimento è suo!” esclama Schwerin, battendogli una pacca sulla spalla.
Hermann non fa in tempo a rispondergli che si ode un nuovo, secco boato; una porzione di muro crolla e qualcuno grida. Un altro blindato compare all’imboccatura della strada: le mitragliatrici sferzano con rabbia le postazioni dei tedeschi e il cannone spara un proiettile in direzione dei due ufficiali. “Giù!” Richter si sente afferrare per la collottola dal compagno, mentre un paio di braccia lo spingono faccia a terra. L’ordigno impatta a pochi metri da loro, sollevando una nube di fumo e pietrisco che piove loro addosso. Come stordito, l’ufficiale rimane con la guancia affondata nell’incavo del braccio, il peso del corpo di Eugen contro il suo: ne percepisce chiaramente il calore e un leggero brivido gli percorre le membra. “Schwerin?” Si tira su a fatica, senza far caso al sangue che gli scorre lungo il palmo della mano, imbrattando il guanto. “Schwerin, sta bene?”
L’altro tossisce, lo fissa attraverso occhi arrossati dal fumo. “Sì. E lei, Richter?”
“Va tutto bene.” Hermann gli porge un fazzoletto, poi lo prende per un braccio e lo aiuta a rialzarsi. “Spostiamoci da qui, siamo troppo esposti.”
Sgattaiolano dietro un muro inseguiti da una bordata di proiettili, appena in tempo prima che una seconda cannonata si abbatta proprio nel punto in cui si erano appiattiti.
 
La luce del tramonto tinge d’oro le rovine imbiancate, ma qualcosa altera la silenziosa poesia di quello scenario: le strade del villaggio sono ostruite da pezzi di ferraglia carbonizzata e cadaveri, il cui esercito di appartenenza si riconosce soltanto dal colore delle uniformi; i Landser vi si aggirano furtivi alla ricerca dei superstiti, rigorosamente a gruppi di due o tre, i fucili in spalla. Di tanto in tanto si ode l’eco secca di uno sparo, seguita dagli ultimi lamenti di agonia di un ferito.
Seduti su un mucchietto di mattoni, il maggiore Schwerin e il maggiore Richter ascoltano i rapporti dei loro subalterni.
“Anche il sergente Wiederbeck è rimasto gravemente ferito...” riferisce un tenente.
Schwerin annuisce grave. “E il capitano Busch?”
“Qui, signore!” Un giovanotto sui ventitré anni balza fuori da una buca agitando la mano; ha il volto sporco di fuliggine e l’uniforme strappata in vari punti.
Jünger e Sajer arrivano sostenendo Halls, un braccio a testa intorno alle spalle: il tenente cammina zoppicando e ha una grossa chiazza di sangue sui pantaloni, ma alla vista del maggiore Richter accenna un sorriso stanco. I due commilitoni lo aiutano a sedersi su un sacco di sabbia e riferiscono che il giovane si è beccato una scheggia di granata nella coscia.
Hermann li osserva tutti, a uno a uno: tra gli ufficiali riuniti sotto quelle nuvole plumbee non ce n’è uno che arrivi a trent’anni, ma le facce sono quelle di gente consapevole delle proprie responsabilità. Forse è proprio lui, che di anni ne ha appena ventinove, il più vecchio, e i suoi subalterni guardano a lui come a un giovane padre.
“Attacco aereo!” Voci allarmate iniziano a gridare, prima ancora che il ronzio dei motori e le raffiche di mitragliatrice facciano tremare l’aria.
Richter solleva il binocolo e riconosce le larghe ali degli Sturmovik che si stagliano contro il cielo arancione del tramonto. Volano bassi, tempestando di traccianti qualche colonna corazzata tedesca.
“Tutti a terra!” Gli ufficiali non se lo fanno ripetere due volte: strisciano nei buchi come talpe prima che gli aerei passino a volo radente sopra le loro teste, sperando che i piloti non si accorgano della loro presenza. Sono così vicini che riescono a distinguere chiaramente la stella rossa sulle ali.
Hermann si ritrova di nuovo spalla contro spalla con Schwerin, che con sguardo assorto fissa le sagome nere che si allontanano.
Trascorre un istante inquantificabile, mentre il rumore gradualmente scema.
“Ci sono altri aerei!” annuncia Jünger, che ha arrischiato la testa e il binocolo fuori dal suo nascondiglio. “Sono i ragazzi della Luftwaffe,” aggiunge poi, con un sospiro di sollievo.
Gli ufficiali si rilassano, qualcuno sporge fuori la testa: nove Messerschmitt sorvolano il villaggio in formazione compatta, lanciandosi all’inseguimento degli assaltatori russi.
Un urlo liberatorio esce dalle gole dei soldati stanchi, qualcuno agita le mani in segno di saluto. “Viva la Luftwaffe!”
Schwerin, la testa appoggiata al muro, sospira. “Mi manca volare,” dice, come parlando tra sé e sé. “Viel schwarze Vögel ziehen hoch über Land und Meer, und wo sie erscheinen da fliehen die Feinde von ihnen her. Sie lassen jäh sich fallen vom Himmel tiefbodenwärts...[*]”
Richter rimane ad ascoltarlo mentre canta e non può fare a meno di notare che, nonostante il tono basso, la sua voce calda e profonda risulta estremamente gradevole al suo orecchio. Si chiede come abbia fatto un bombardiere di picchiata a ritrovarsi in fanteria, ad affondare nel fango con le ginocchia mentre intorno a lui fischiano i proiettili, ma preferisce non fare domande.
 
 
Intorno alla marmitta dell’accampamento, i soldati sgomitano e si contendono la precedenza per ricevere il rancio.
Una gavetta colma di piselli con lo speck è la loro retribuzione dopo una giornata di fatiche, il calore dei fuochi ritempra le membra intorpidite dal freddo e i ragazzi delle Waffen-SS inviati dalla Germania hanno portato birra e sigarette, che condividono coi camerati dell’esercito.
“Ho scritto più poesie in questi tre mesi che in ventisei anni della mia vita!” proclama il capitano Jünger, soffiando un’ampia boccata di fumo.
Un ufficiale del battaglione di Schwerin scoppia a ridere. “Quando sarà un poeta famoso, capitano, pretendiamo di essere citati tra i ringraziamenti!”
“Io voglio la dedica!” si sbraccia Halls, la gamba ferita appoggiata su uno sgabello. “Deve menzionarmi insieme al buon vecchio diavolo di Neubach, per tutte le volte che ce le ha fatte leggere e ci ha chiesto un parere.”
Jünger si schermisce. “Non mi sembrava che vi dispiacesse.”
“No, per nulla, signor capitano.” Halls scuote bonariamente la testa. “Adesso anche Sajer si è messo in testa di scrivere: dice che sono le sue memorie, ma io credo che mandi lettere d’amore alla sua fidanzata!”
Jünger posa una mano sul braccio dell’interpellato con un gesto quasi paterno. “Suvvia, lasciatelo stare. Anche noi abbiamo avuto vent’anni, e nemmeno troppo tempo fa.”
“E il signor maggiore!” Sajer ignora entrambi e indica Richter, che assiste senza prender parte alla conversazione. “Lei avrà una menzione d’onore nel mio libro di memorie!”
“Grazie, tenente,” risponde sobriamente l’ufficiale. La massiccia controffensiva tedesca ha messo di buonumore tutti quanti, e adesso cinque Panzer fanno la guardia all’ingresso delle barricate, con la corazzatura lucida e la Balkenkreuz ridipinta di fresco.
“Nonostante tutto, la bandiera con la svastica continua a sventolare sulla Piazza Rossa di Stalingrado,” osserva il maggiore Schwerin, andandosi a sedere accanto al suo parigrado con una gamella fumante sotto il naso.
Richter accenna un leggero sorriso. “Se andiamo avanti di questo passo, raggiungeremo presto la Sesta Armata.” I suoi occhi cadono su un gruppo di soldati austriaci che canta Prinz Eugen mentre un sottufficiale delle Waffen-SS suona la fisarmonica. Li indica con un cenno del capo. “Principe Eugen, il nobile cavaliere...”
Schwerin ride e i suoi occhi si accendono di un brillio divertito. “Che tu ci creda o no, io sono stato chiamato così proprio in suo onore: sono un suo discendente da parte di madre. È di buon auspicio, considerato le sconfitte che il buon principe ha inflitto ai turchi.” Segue una breve pausa; Hermann annuisce pacato. “Sei mai stato in Prussia Orientale?”
Richter alza la testa, si stupisce quasi di quella domanda. “Ci sono passato una volta, col treno, mentre venivo in Russia.”
“Dovresti venire da me un giorno, sono sicuro che ti piacerebbe,” gli dice l’altro. “Ti ospito nella mia tenuta, se ti va. Organizziamo una battuta di caccia al cervo e ci beviamo qualcosa.”
Hermann tentenna appena, ma la risposta giunge prima ancora che il cervello possa dettargliela: “Oh, certo... volentieri.” Non sa cosa aspettarsi da quell’incontro, se mai esso avrà luogo, ma lo interpreta come qualcosa d’ineluttabile.
Si scambiano uno sguardo fugace, quasi di sfuggita, e tutti i clamori paiono quietarsi.
Ridestati dalla voce di un tenente, vengono strappati a quel sogno con l’impressione che quelle parole abbiano innescato un processo irreversibile.
Tuttavia lo accettano serenamente, come il fato di un guerriero.
 
 
La trincea trema e sobbalza, scossa dai colpi incessanti dell’artiglieria nemica. Man mano che ci si avvicina alle prime linee, il frastuono si fa sempre più assordante. Gli hurra dei russi, che si gettano sui nemici senza risparmio di vite, il crepitare delle raffiche e i tuoni delle esplosioni rimbombano in uno scenario rischiarato da focolai d’incendio, simile a una bolgia infernale.
Il maggiore Schwerin si scrolla una nuvola di polvere bianca di dosso: la sua uniforme è logora, brandelli di stoffa grigioverde pendono dai gomiti e dalle ginocchia. Con la coda dell’occhio riesce a scorgere Richter a poca distanza, mentre trasmette gli ordini a tre ufficiali e un sergente.
Fa per chiamarlo, ma un nuovo boato rispedisce tutti quanti a terra. Un obice si schianta contro il fianco del crinale ed esplode, eruttando fiamme, schegge, neve sciolta e detriti.
Schwerin crolla all’indietro; un dolore lancinante gli trafigge la gamba. Digrigna i denti con la sensazione che qualcuno gli abbia conficcato a forza un chiodo nella carne, cercando di resistere all’impulso di gridare. Qualcuno chiama il suo cognome: è una voce familiare, la voce di Hermann. D’istinto alza la testa, lo cerca nella calca.
Attraverso la vista annebbiata, lo intravede mentre si rialza barcollando: ha un taglio sulla guancia e una mano insanguinata.
“Schwerin!”
Eugen si tira a sedere con un grugnito e agita una mano; deve fare uno sforzo per non chiamarlo per nome davanti a tutti. Mentre l’altro si avvicina, abbassa gli occhi sulla parte offesa: copiosi fiotti di sangue sgorgano fuori da un taglio e gli irrorano la stoffa dei pantaloni.
Richter si china di fronte a lui. Si ripulisce la mano strofinandola contro i pantaloni e gliela porge, fissandolo con sguardo colmo di apprensione. “Ce la fai ad alzarti?”
Schwerin si mordicchia il labbro. “Una scheggia... ci vuole un pacchetto di medicazione.”
“Portaferiti!” grida l’altro, per poi lasciare che gli passi un braccio intorno alle spalle. Di nuovo abbassa la voce: “Vieni, appoggiati a me.”
Schwerin tenta di tirarsi su, ma una fitta alla gamba gli offusca la vista. Senza pensarci, con un gesto goffo si aggrappa al commilitone, che si irrigidisce soffocando tra i denti un sibilo di dolore.
“Scusami,” mormora, puntellandosi sulla gamba sana per non gravare su di lui. Continua a sentire il sangue che gli ruscella sulla pelle, inondando gli stivali.
“Non ti preoccupare.” Richter distorce i lineamenti in una smorfia, tuttavia cerca come può di aiutarlo a camminare. “Mi sono fatto male alla spalla, credo. Ma non è nulla.”
Si allontanano sostenendosi l’un l’altro, diretti verso il posto di medicazione.
Esausto e indebolito dalla perdita di sangue, Schwerin si abbandona su un ridotto e stende la gamba ferita, tamponandola con un pezzo di stoffa per rallentare l’emorragia.
Le immagini sfarfallano senza posa davanti ai suoi occhi, il fragore della battaglia gli rimbomba nelle tempie, ma la presenza di Hermann lo aiuta a mantenersi lucido.
 
 
Rimandati in Germania per una breve convalescenza, i due ufficiali hanno trovato posto sull’ultimo treno diretto a un centro di smistamento. Hanno preso posto in una carrozza completamente deserta, coi sedili consunti e i finestrini rotti in cui s’insinuano spifferi di vento.
“Non pensavo che ci avrebbero davvero concesso una settimana di licenza proprio sotto Natale,” commenta Schwerin, guardando il paesaggio imbiancato che gli scorre davanti agli occhi. La luce della luna gli conferisce una luminescenza spettrale, quasi si trattasse di un deserto di ghiaccio.
Richter sospira. “È più il tempo che ci vuole per fare andata e ritorno dalla Turingia in treno che quello che ho a disposizione per questa licenza.”
Schwerin annuisce. Ha ben presenti i chilometri che li separano dalla Germania e le variabili che potrebbero disturbare il viaggio: controlli della feldgendarmeria, bombardamenti, deviazioni inaspettate, assalti dei partigiani, binari divelti dalle mine...
Con un movimento reso leggermente impacciato dal dolore alla spalla, anche Richter si volta verso di lui. Adesso i loro volti sono così vicini che Eugen sente il battito del proprio cuore accelerare. Si rende conto di aver già da tempo varcato una soglia oltre la quale sarà difficile tornare indietro. “Ricordati la proposta dell’altro giorno...”
Hermann copre la sua mano con la propria senza dire niente, come a suggellare la promessa. Le dita s’intrecciano saldamente e Eugen abbandona la nuca contro il sedile, mentre il treno procede sferragliando nella notte ucraina. Presto arriveranno in Prussia Orientale, a casa sua.
 
 
Uno sparo secco squarcia il silenzio, facendo frusciare i rami degli alberi. Uno stormo d’uccelli si leva in volo spaventato e nell’aria si diffonde un cupo bramito.
Hermann esce fuori dal suo nascondiglio tra i cespugli e si lascia scivolare il fucile sulla spalla. “L’ho preso,” annuncia, in tono tranquillo. Senza attendere una conferma da parte dell’amico, si allontana e i suoi stivali militari affondano nella neve mentre si avventura alla ricerca di una fronda d’abete.
Eugen abbassa il binocolo e annuisce. “L’ho notato. Non mi hai dato neanche il tempo di inserire la cartuccia...”
“Hai seguito la traccia sbagliata. Quelle erano le orme di un altro cervo.”
“E tu come facevi a esserne così sicuro?”
Nel frattempo, Hermann è tornato con un rametto d’abete rosso tra le mani. Eugen vede un guizzo d’orgoglio nei suoi occhi, che si illuminano di un’intensa sfumatura argentea. “Ho avuto il battesimo di Sant’Uberto quando ero alto così,” spiega – e nel dirlo, mima un’altezza irrisoria per il suo metro e novanta, “nella mia famiglia la caccia è sempre stata una tradizione molto sentita.”
Si mettono sulle tracce del cervo senza dire altro: è Hermann a celebrare il rituale del Bruch, offrendo all’animale l’ultimo saluto. È come se il suo animo si fosse improvvisamente alleggerito: le guance pallide sono arrossate dal freddo e la malinconia sembra scomparsa dal suo volto, dandogli l’aria di un ragazzo poco più che ventenne.
Eugen lo lascia fare, per avvicinarsi soltanto quando è il momento di intingere il rametto nel sangue del cervo e sistemarglielo sul berretto, per onorare l’abbattimento. “Waidmannsheil.”
Waidmannsdank,” risponde Hermann, sistemandogli a sua volta un rametto sul cappello.
Le loro mani si sfiorano appena, quasi titubanti, poi si stringono con forza.
I due ufficiali depongono i fucili e affidano la carcassa al guardiacaccia della tenuta, che brinda insieme a loro.
Di nuovo soli, si abbracciano e si scambiano una calorosa pacca sulla spalla.
“Sono felice che tu mi abbia invitato,” aggiunge Richter, inoltrandosi nel bosco. Dopo qualche passo volta la testa per guardarsi intorno e gli ultimi riflessi del sole fanno brillare i suoi capelli come se fossero dotati di luce propria. Tra gli alberi secolari spira una brezza frizzante che ne fa ondeggiare i rami; nulla in confronto al rigido inverno del fronte. “È bellissimo, qui.”
“E io sono felice che tu abbia accettato.” Schwerin sorride, ma sul suo volto passa un’ombra fugace. “Altrimenti credo che avrei trascorso la licenza in qualche città di frontiera, in attesa di ripartire per il fronte.”
“Vivi da solo in questa villa?”
“Sì. Mio padre è morto due anni fa e mio fratello è in Nordafrica, con le truppe del generale Rommel. Mia madre... quasi non la ricordo più.”
L’altro gli sfiora la guancia con le dita fredde. “E questo pensiero ti rende triste?”
Eugen alza di nuovo la testa e incrocia i suoi occhi, senza smettere di seguire il filo dei propri pensieri. “Non oggi.”
Comprende il significato di ciò che ha appena detto solo quando si ritrova le labbra di Hermann premute sulle sue. Nessuno dei due sa chi è stato a prendere l’iniziativa, ma adesso tutto è chiaro – e forse lo è sempre stato, anche quando facevano di tutto per dissimulare il reciproco interesse sotto una cortese amicizia. D’istinto, Schwerin lo afferra per il bavero del cappotto e schiude le labbra per approfondire il bacio, mentre l’altro lo spinge con la schiena contro il tronco di un albero.
Senza fiato, Hermann si costringe a staccarsi e si guarda intorno imbarazzato, come se temesse di scorgere qualcuno. “C’è da qualche parte un posto dove possiamo stare da soli?” ansima.
Eugen lo trattiene, intrecciando le dita tra le ciocche bionde. La tensione percorre i loro corpi avvinti come una miriade di scariche elettriche. “Vieni con me.”
 
La camera da letto, con le sue cortine di broccato e il fuoco che scoppietta nel camino, li accoglie col suo tepore. Hermann non ha fatto domande, si è limitato a seguire il suo compagno attraverso le ampie sale e i corridoi affrescati.
Si chiudono la porta alle spalle con uno scatto secco e arretrano fino a ricadere avvinghiati sul letto a baldacchino, a baciarsi con ardore; l’attrazione reciproca tende i loro muscoli traducendosi in vibrazioni quasi dolorose.
Eugen fa scivolare le mani sotto l’uniforme del compagno, avanzando a tentoni per liberarlo dalla stoffa che gli impedisce di godere del pieno contatto col suo corpo. Hermann gli cinge il torace con un braccio e affonda il viso nel suo collo, sfiorandolo con tiepidi baci mentre gli sbottona la camicia e gliela fa scivolare giù dalle spalle.
Schwerin getta la testa all’indietro, abbandonandosi contro di lui, e socchiude gli occhi alla ricerca di un contatto più intimo. “Non mi aspettavo tanta intraprendenza da te, ma devo dire che non mi dispiace affatto,” sussurra con voce roca.
Hermann ride sommessamente, il suo fiato gli solletica la pelle provocandogli sottili brividi di piacere. “Potrei dire lo stesso di te, Prinz Eugen.” Lo bacia con passione e lo spinge all’indietro sul letto, poi gli rotola addosso e intreccia le mani alle sue.
Egli si stupisce di quello slancio, ma lascia che prenda il controllo, affondando il capo nel guanciale mentre i loro corpi si uniscono nel modo più profondo.
Le bocche si cercano ancora una volta, le dita si stringono più forte.
È da tanto tempo che non si lascia andare con qualcuno e a quel punto si rende conto di non aver desiderato altro. Gli si dona completamente, e Hermann fa lo stesso, rivelando un fuoco inestinguibile sotto la patina all’apparenza glaciale.
La guerra, i fantasmi del passato, le macerie dei ricordi sono ormai oltre, spazzate via dalla passione che li unisce.
 
Sono sdraiati tra le lenzuola, uno accanto all’altro, le gambe intrecciate e i volti vicini. Non hanno avuto bisogno di parlare, si sono capiti subito.
Anche se fuori fa freddo, i capelli castani di Eugen, arruffati dalla foga dell’amplesso, sono leggermente umidi di sudore. Hermann glieli ravvia dolcemente all’indietro e lo bacia sulla fronte.
Schwerin si lascia scappare una leggera risata. “È una strana sensazione pensare che nel mio letto c’è nientemeno che il mio ombroso parigrado.”
“Le apparenze ingannano.” Richter sogghigna. “Nemmeno tu mi sei sembrato algido e compassato come vorresti dare a vedere.”
“Talvolta il nostro ruolo ci impone di portare delle... maschere, lo sai bene,” replica Eugen, facendosi di nuovo serio. “Ma è un peso che abbiamo accettato di buon grado, decidendo di dedicare la nostra vita al servizio della Patria.”
“È così.” Hermann sospira. “Certe volte, però, si sente il bisogno di lasciarle cadere. Voltare le spalle alle convenzioni, essere semplicemente se stessi.”
“Da come ne parli, è come se quest’opportunità ti mancasse da tempo.”
“Ognuno di noi, credo, ha il suo fardello da portare.” Si stringe nelle spalle, volge lo sguardo al soffitto affrescato. “Non è rivangando il passato che ne alleggeriremo il peso.”
Eugen, beffardo, si protende per baciarlo ancora una volta, poi lo afferra per i polsi e lo spinge sotto di sé. Di nuovo le posizioni si ribaltano, rotolano tra le lenzuola fingendo di lottare. “Hai ragione,” sussurra sulle sue labbra, “potremmo impegnare il nostro tempo in altri modi...”
 
Il buio che li avvolge è quasi totale, ma loro due sono ancora lì. Anche in camera è calata la penombra, ma le luci rimangono spente per non turbare l’intimità di quel momento; le braci morenti sfrigolano nel camino.
Fluttuando come sospesi in un’atmosfera ovattata, fronte contro fronte, i respiri che si confondono, entrambi sentono di aver perso il contatto con la realtà contingente.
“Mi sono sempre chiesto una cosa,” riprende Eugen dopo un po’. “Sempre se mi permetti.”
Hermann si lascia scappare una leggera risata. “Dopo quello che è successo tra noi, la sincerità mi pare il minimo.”
L’altro gli passa le dita tra i capelli, scompigliandoglieli affettuosamente. “Perché hai deciso di arruolarti?”
“Mio padre era iscritto al Partito fin dai tempi del Putsch di Monaco. Ero ancora un ragazzino – dodici o tredici anni, forse – quando mi portò in città a vedere una parata delle SA,” risponde lui. “Ricordo che rimasi subito colpito da quei soldati, dai loro discorsi, dal desiderio di riscatto che brillava nei loro sguardi. Erano gli anni della crisi: solo mio padre lavorava, mentre mia madre doveva tirare su da sola tre figli piccoli. Per aiutare in casa, mio fratello maggiore dovette abbandonare la scuola a quattordici anni per andare a lavorare nell’officina di mio zio, e un paio d’anni dopo a me toccò la stessa sorte. Allora, raggiunta l’età, decisi di fare domanda per arruolarmi come soldato semplice nella fanteria. Mi accettarono, per un po’ mi spostarono da un reggimento all’altro per mettere alla prova le mie capacità, poi mi ammisero alla scuola ufficiali di Dresda.”
“E te ne sei mai pentito?”
“Mai, neanche una sola volta.” Segue un breve silenzio, ma gli sguardi non si separano. “E tu, perché hai scelto la carriera militare?”
“Nella mia famiglia, da generazioni, tutti i maschi scelgono la carriera da ufficiali... ma mentirei se dicessi che l’ho fatto solo per onorare questa tradizione.”
“E allora... perché?”
“Non potevo accettare il fatto che il mio Paese fosse stato privato della propria dignità e di un esercito che meritasse tale appellativo. Ho frequentato una scuola per cadetti di fanteria e sono entrato come ufficiale della Reichswehr... chissà, forse abbiamo iniziato anche nello stesso anno.”
“Io sono diventato sottotenente nel ‘33.”
“Anche io. Comunque, ricorderai bene quegli anni di disgregazione e riarmo... io guardavo alla Luftwaffe: il mio sogno era quello di diventare pilota.”
Richter annuisce. Ricorda bene le allusioni del compagno, e rimane in ascolto senza fare domande. Eugen prosegue: “Così, quando si è presentata l’occasione, mi sono arruolato nella Legione Condor come volontario e sono stato addestrato come pilota di Stuka.” A quelle parole, i suoi occhi si velano di nostalgia. “Mi piaceva volare, guardare il mondo dall’alto come se tutto il resto fosse piccolo ed effimero. Pilotare quegli aerei era un’avventura elettrizzante, un brivido continuo: ci volevano nervi saldi per effettuare la picchiata e precisione per centrare il bersaglio, e poi bisognava essere rapidi a richiamare e riprendere quota evitando di sfracellarsi per terra. Era proprio la cabrata la parte più pericolosa: certe volte le accelerazioni erano così forti da privarti della vista per qualche secondo. Ma anche il rischio faceva parte dell’avventura; senza di esso non sarebbe stata la stessa cosa.” Volge lo sguardo verso il soffitto. “Pensa che sono stato accettato subito alla prima prova, anche se di solito le selezioni sono durissime.”
“E come mai te ne sei andato?” non può fare a meno di chiedergli Hermann.
“Di certo non per mia volontà.” Laconico, Schwerin sospira. “Canale della Manica, una missione operativa come un’altra. Dovevamo bombardare un aeroporto inglese, da qualche parte vicino a Londra. A un certo punto ci siamo trovati almeno dodici Hurricane alle calcagna, ci hanno inseguiti fino in Francia scaricandoci tonnellate di traccianti addosso. Non mi sono nemmeno accorto che stavo precipitando, se non quando mi sono risvegliato in un letto d’ospedale con un gran mal di testa e una fasciatura che mi lasciava scoperti solo gli occhi e la bocca. Non sapevo nemmeno se sarei sopravvissuto... e invece, dopo quasi sei mesi di convalescenza, sono stato dichiarato non più idoneo a volare. Allora ho fatto domanda di trasferimento e ho ripreso regolare servizio come capitano di fanteria.”
Richter lo ascolta in silenzio, così come l’altro ha ascoltato in silenzio le sue confidenze: pensa che in certi casi le parole siano superflue, soprattutto tra due uomini abituati a combattere e a riflettere senza il bisogno di sprecare fiato. Si limita a passare un braccio intorno al torace del compagno e a posargli un leggero bacio sulla tempia.
L’altro si rannicchia contro di lui. “Per noi la morte era precipitare in vite dopo essere abbattuti dalla contraerea, o schiantarci al suolo dopo una picchiata verticale... tra i soldati di trincea c’è un senso di comunità diverso.”
Tacciono di nuovo, entrambi, l’uno tra le braccia dell’altro. Hermann si bea della sensazione di avere di nuovo al proprio fianco qualcuno su cui poter contare, non solo in battaglia e nella vita militare, ma anche nell’intimità di quel nido caldo. Non sa se può definirla felicità, ma vorrebbe poter fermare il tempo, per imprimersi nella mente il ricordo di quei momenti e custodirli nel cuore quando si ritroverà di nuovo a marciare nel fango e nel gelo, in attesa di una nuova battaglia.
 
È Eugen, dopo un istante che pare a entrambi interminabile, a ricordarsi che l’ora di cena è vicina. Seppur a malincuore, devono rialzarsi e prepararsi.
“Se c’è una cosa che mi piace di te, Hermann, è che sei un mio camerata, ma con te posso essere me stesso senza maschere.”
A quelle parole Richter gli rivolge un sorriso sornione, guardandolo mentre si riabbottona la giacca. “E senza vestiti.”
“Sto parlando seriamente.” Eugen aggrotta le sopracciglia. “Non ti avrei invitato a passare la licenza da me se la mia intenzione fosse stata quella di... divertirmi e basta.”
“È un’allusione velata per invitarmi a restare?”
L’altro alza le spalle. “Perché no? Non mi dispiacerebbe passare qualche altra serata insieme a te, fosse anche solo per conversare.”
“Sono contento di sentirtelo dire.” Hermann sorride, a un soffio dalle sue labbra. “Non mi piacciono quelli che si sottraggono dalle loro responsabilità.”
“Apprezzo la tua sincerità e ti garantisco che la penso come te.” Schwerin gli sistema il colletto ruvido dell’uniforme, poi gli tira un buffetto sulla guancia. “Dopo cena, che ne dici di starcene un po’ tranquilli? Potremmo andare in salotto o nella sala musica... se vuoi suono qualcosa per te al pianoforte.”
Hermann si svincola dalla sua presa. “Buona idea, però adesso spetta di nuovo a te l’onore di guidarmi: non vorrei perdermi in questo dedalo di corridoi.”
“Ma certo, seguimi.”
Egli lo segue, come la prima volta, e finalmente si sente l’animo alleggerito: ha trovato un uomo degno della sua fiducia e non vuole lasciarlo andare.
 
 
Nun merk' ich erst, wie müd' ich bin,
da ich zur Ruh' mich lege;
das Wandern hielt mich munter hin
auf unwirtbarem Wege.
Die Füsse trugen nicht nach Rast,
es war zu kalt zum Stehen;
der Rücken fühlte keine Last,
der Sturm half fort mich wehen.
 
(Solo ora mi accorgo di quanto sono stanco,
al momento di distendermi per riposare;
il vagare mi teneva sveglio
sulla strada inospitale.
I piedi non cercavano quiete,
faceva troppo freddo per fermarsi;
le spalle non sentivano peso,
il soffio della bufera mi spingeva ad andare avanti.)
 
Le note del pianoforte si spandono per la sala, accompagnate dalla voce del maggiore Schwerin.
Richter si alza e si avvicina alla finestra. Ormai avvezzo ai paesaggi invernali, si ritrova a contemplare lo scenario quasi con stupore. I riflessi della luna si stendono su un paesaggio da fiaba, fatto di alberi intessuti di trame di ghiaccio. Simili a petali, i fiocchi bianchi volteggiano nell’aria e si posano sulla terra immacolata: lì, anche la neve sembra avere un’altra consistenza.
Inevitabilmente gli torna in mente il Natale precedente, coi soldati che cantavano Stille Nacht nei rifugi e nelle trincee invase dalla neve: anche se si trova miglia e miglia lontano dalla guerra, si sente come se ormai essa fosse entrata a far parte di ogni fibra del suo essere.
 
Auch du, mein Herz, in Kampf und Sturm
so wild und so verwegen,
fühlst in der Still' erst deinen Wurm
mit heissem Stich sich regen!
 
(Anche tu, mio cuore, nella lotta e nella tempesta
così audace e selvaggio
proprio nella pace senti il tuo serpente
infliggerti punture roventi.)
 
Il pianoforte tace di nuovo.
Eugen lo raggiunge e gli avvolge le braccia intorno alla vita, appoggiando la testa sulla sua spalla. “Domani è Natale: il primo che trascorro lontano dal fronte.”
“È lo stesso per me. Quasi non mi sembra vero.”
Rimangono lì, due ombre contro la finestra mentre intorno a loro ardono le candele.
Non hanno bisogno di festeggiamenti, si accontentano di quei brevi attimi di tregua: prima che inizi il nuovo anno, un aereo li avrà già riportati al fronte.
 

 
[*] Uno stormo di uccelli neri sorvola il mare e la terra, e quando essi appaiono i nemici fuggono via. Si lasciano cadere in picchiata dal cielo fino alle profondità della terra...
 

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Capitolo 5
*** V ***


Ed eccoci giunti all'atto conclusivo.
Avverto il lettore casuale: qui troverete un epilogo volutamente tragico e romanticheggiante, da prendersi come la conclusione "ideale" di un'opera di finzione narrativa e non come un'appendice di storiografia contemporanea.
Come sempre, grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui e in particolare coloro che hanno seguito, commentato o preferito questa storia.

 

V.
 
 
A Stalingrado, la Sesta Armata è ormai allo stremo. Combattono da giorni, forse settimane, nessuno se lo ricorda più.
Hanno ricevuto l’ordine di resistere a oltranza.
La terra è sommersa dal gelo, ma le esplosioni fanno ribollire il cielo. La lotta è senza quartiere: nelle strade, nei rifugi, nelle fabbriche, casa per casa.
Soldati valorosi cadono uno dopo l’altro, come foglie in autunno. Quell’immensa coltre bianca sarà la tomba di molti.
Del migliaio che erano all’inizio di quell’avventura, ne restano poco più di cento: il maggiore Hermann Richter li conosce tutti, uno per uno, come se fossero suoi fratelli, ma tra questi ce n’è solo uno con cui abbia condiviso qualcosa che va al di là del bene e del male.
Finiremo come gli Spartani alle Termopili – quel pensiero, condiviso tempo addietro col suo compagno ma mai espresso ad alta voce, torna a riecheggiare come una sentenza fatale.
 
Mentre i tuoni continui dell’artiglieria scuotono la terra facendo piovere dal soffitto pezzi d’intonaco, nella fabbrica accorrono due ufficiali di un reparto di fanteria sbandato.
In testa al gruppo – poco più di una squadra – c’è un maggiore alto, spalle larghe, coi capelli neri e l’espressione grave; subito dopo viene un tenente biondo e robusto, con un MP40 che gli pende dalla spalla. Avrà poco più di vent’anni, ma dà l’idea di essere un combattente temprato da mille battaglie. Passano davanti a loro, non guardano in faccia nessuno.
Hermann sente la voce alta e chiara del maggiore che impartisce ordini, poi chiama a sé il tenente e guida gli uomini altrove: forse non li rivedranno mai più. Nota che intorno al polso hanno una fascetta nera con una scritta bianca, che segna la loro appartenenza a una divisione d’élite: sono tra quelli che, se cadranno vivi nelle mani dei rossi, verranno sicuramente passati per le armi. Come lui, come Eugen.
D’istinto si volta verso il compagno: è impassibile, anche se riesce a indovinare un tremito di apprensione nella mano che stringe la cinghia del fucile.
Sente un groppo salirgli alla gola. Non sa dire se teme la morte, ma sa che se quella fiamma dovesse spegnersi, di nuovo per lui resterebbe solo un abisso di gelida oscurità.
Vorrebbe dirgli qualcosa, ma nulla di ciò che gli viene in mente può avere posto in quel contesto.
È Schwerin, con un gesto repentino, che lo afferra per un polso e lo trascina in un angolo buio, passando inosservato in mezzo ai soldati che cercano di farsi coraggio l’un l’altro. Gli poggia le mani sulle spalle; i pozzi blu dei suoi occhi sono mobili e inquieti, ma l’espressione è risoluta. “Così è deciso,” mormora, “la guerra va avanti, nonostante tutto.” In un impeto azzera le distanze che li separano e lo stringe a sé, approfittando di quel poco tempo che è loro concesso.
Richter ricambia la stretta come se temesse di vederlo svanire da un momento all’altro, appoggia la guancia contro la sua fronte. Su di loro grava l’ombra scura di un macchinario per la lavorazione dell’acciaio, che li nasconde agli sguardi altrui. Si concedono di indugiare un po’ più a lungo l’uno tra le braccia dell’altro, si beano del reciproco calore, godono degli ultimi istanti di luce prima che le tenebre avanzino.
Uno scossone più violento li richiama alla situazione contingente. L’orchestra dei cannoni riprende a suonare, ed è l’atto conclusivo.
Le luci delle candele sfarfallano, un pezzo di soffitto crolla rivelando uno squarcio di cielo caliginoso. Un lampo rischiara le sagome di apparecchiature in disuso.
I soldati si riversano fuori dal rifugio, mentre in lontananza ruggiscono gli hurra dei nemici e le detonazioni dei fucili.
Un comandante deve condividere la sorte dei suoi uomini.
A malincuore, i due ufficiali sciolgono l’abbraccio e riprendono le armi.
È finito il tempo dell’esitazione, adesso si può solo combattere.
 
I proiettili schizzano ovunque, fischiano e sibilano fendendo la caligine densa. La neve cade da un cielo color cinabro, così cupo che non si capisce più se è notte o giorno.
È finito il tempo dei cavalieri e degli scontri onorevoli: la battaglia è una carneficina che non risparmia nessuno. Il sangue bagna le strade; gli uomini combattono spinti dalla forza della disperazione, scagliandosi contro i nemici come bestie invasate.
Anche Richter e Schwerin vengono risucchiati dalla mischia. Combattono fianco a fianco in una strada sventrata da un cratere, circondati da cadaveri e rovine; i superstiti dei loro battaglioni si stringono a coorte e cadono uno dopo l’altro.
Da una spaccatura nel terreno, tra la neve fitta e il fumo denso delle esplosioni, sbuca fuori un soldato che brandisce un mitra, si ripara dietro un muro e spara una raffica.
Con un balzo fulmineo, Richter sferra una spallata al compagno per spingerlo in copertura; fa per rispondere al fuoco, ma si sbilancia all’indietro e il fucile gli cade.
Schwerin estrae la pistola e l’eco della detonazione squarcia la cappa plumbea. Il russo crolla a terra e rimane immobile, ma Hermann non si rialza: barcolla, poi si aggrappa a lui, gravandogli addosso con tutto il suo peso.
In quell’istante sembra che il tempo si cristallizzi: tra loro cala una quiete assordante, opprimente e agghiacciante. Come un fulmine nella notte, la verità si palesa ai suoi occhi e non può fare a meno di gridare il nome del compagno – il frastuono è così forte che nessuno lo sentirebbe.
Hermann tenta di rimettersi in equilibrio, senza dire nulla, puntellandosi a un frammento di muro, ma la sua giubba è intrisa di sangue e sul torace spiccano i fori di due proiettili.
Sfidando il fuoco nemico, Eugen lo porta al riparo trascinandolo praticamente di peso, lo adagia contro un ridotto e inizia a sbottonargli febbrilmente la giacca, cercando di tamponare l’emorragia che ormai gli ha tinto la camicia di rosso.
“Tieni duro, Hermann,” lo esorta, stringendo i denti. Ormai ha imparato a riconoscere un uomo in fin di vita, sa che le sue parole sono vane, ma non vuole e non può abbandonarlo. “Sono qui con te, non me ne vado.”
L’altro annuisce appena: tiene le palpebre abbassate e respira debolmente, ma si sforza di sorridere. “Lo so, Eugen.”
Schwerin gli scosta i capelli dalla fronte madida, gli accarezza la guancia con un gesto delicato. “Sono qui con te, camerata... non ti lascio solo.”
Hermann allunga una mano verso di lui, ed egli la stringe saldamente tra le sue, come se quel gesto bastasse a trattenerlo. “È finita... ma tu non ti arrendere,” sussurra, poi la sua stretta si fa inerte.
Eugen rimane per un istante interminabile con le sue mani tra le proprie, ancora incredulo e annichilito. Anche se il mondo per lui sembra essersi fermato, l’urgenza della battaglia preme da ogni lato; le urla si odono fin lì. Adesso, l’unica cosa che gli resta è l’onore – la consapevolezza che il loro sacrificio, forse, non sarà vano.
Con estrema lentezza, gli depone le mani sul petto e gli sistema il colletto dell’uniforme, poi si china su di lui e gli posa un ultimo bacio sulla fronte fredda.
Anche nell’immobilità della morte, i suoi lineamenti hanno un’espressione serena, ma la sua pelle ha perso il tepore a cui si è ormai abituato. Tutto questo non si ferma per così poco... né per me, né per lui, è il suo unico pensiero, mentre si sforza di ricacciare indietro i ricordi dei loro momenti di quiete e delle battaglie combattute insieme.
Non sa – e forse non osa – dare un nome a ciò che lo lega a quell’uomo ma, ora che lui ha versato il proprio tributo, si sente di nuovo assalire dal gelo. La fiamma che ardeva sotto la neve – quella benevola, che scalda – si è spenta, e adesso restano solo le fiamme che distruggono, che divoreranno tutto fino a quando non resteranno altro che rovine e desolazione.
Le esplosioni lo riportano brutalmente alla realtà. Si rialza, senza nemmeno curarsi di ripulire i pantaloni, e raccoglie le sue armi.
Ci rivediamo nel Valhalla”, mormora tra sé e sé, riservando un’ultima occhiata a colui che, forse per troppo poco tempo, ha condiviso con lui ogni cosa. La sua fiamma si è spenta, ma cercherà di serbare il ricordo del suo calore.
 
Di nuovo da solo, il maggiore Schwerin si riunisce alla battaglia a testa alta, in attesa che il suo destino si compia. Raduna i suoi uomini e li esorta a non mollare, per poi lanciarsi insieme a loro all’assalto.
Stalingrado è caduta, l’unica cosa che si può fare è cercare di perdere con onore.
Non si accorge neanche del proiettile che lo raggiunge, né del sangue che macchia la sua uniforme.
Si lascia cadere accanto al compagno ed esala l’ultimo respiro volgendo lo sguardo al cielo cupo, carico di neve, col fucile ancora stretto tra le mani.
La battaglia è persa – ma la guerra, nel frattempo, continua.

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