Iron Sand

di Fire Gloove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A volte ritornano ***
Capitolo 2: *** Sotto il cielo di Amburgo ***
Capitolo 3: *** Affari di famiglia ***
Capitolo 4: *** Indovina chi viene a cena? ***
Capitolo 5: *** Solitudine ***
Capitolo 6: *** ...una notte di fine estate ***



Capitolo 1
*** A volte ritornano ***


What you like

Notine notose: Una cosa che molti di voi probabilmente non sanno di me è che il mio personaggio preferito DELLA VITAH è Ken. Nutro un'adorazione, proprio. E mi sembrava che ultimamente il fandom gli stesse dando un po' poco amore. Da lì, è partito lo sclero. Unite questo al mio essere yaoista per natura e... il resto è storia. Questa storia, per essere precisi xD 

Questa long fa parte dello stesso universo in cui sono ambientate le due one-shot "What you like" e "Caught in the storm", che non sono fontamentali per la comprensione degli eventi, ma danno un minimo di background, specie sulla situazione Mamoru/Yuzo.

Ci rivediamo nelle note finali, buona lettura!

 

 

Iron Sand

 

 

A volte ritornano

 

 

 

 

Il vento gli accarezzava la pelle, invadendogli le narici con l’odore del sale. Sul lungomare di Yokohama, con il rumore della modernità cittadina alle spalle e la calma antica dell’oceano di fronte, il ragazzo era praticamente immobile: le mani poggiate sulla balaustra di metallo, la schiena dritta, la postura rilassata. C’era una sorta di eleganza felina in lui. Indossava un paio di jeans neri che fasciavano gambe lunghe e muscolose, e sopra di essi una maglietta larga, che lasciava circolare l’aria e gli permetteva di sentirsi libero anche nella calura soffocante di agosto. I capelli neri, che sciolti gli sarebbero arrivati ben oltre metà schiena, erano raccolti in una stretta treccia, la cui estremità spariva sotto un cappellino con la visiera. Il viso era parzialmente nascosto da grandi occhiali scuri. Sebbene Ken amasse quella città, che gli aveva dato il primo assaggio di libertà, odiava essere riconosciuto e fermato dai tifosi dei Flügels. Non era mai stato il tipo di giocatore che amasse rapportarsi con la tifoseria. Di natura era una persona schiva, e se avesse dovuto cambiare un aspetto dell’essere un calciatore professionista, sarebbe stato sicuramente la fama. A lui interessava giocare, gli interessava che venisse riconosciuto il suo talento, sì, ma delle folle schiamazzanti avrebbe fatto tranquillamente a meno.

Con un ultimo sguardo alla tavola piatta del mare, si voltò verso il caos alle sue spalle. Era tornato a Yokohama per sistemare alcune cose relative al suo trasloco: anche se ormai viveva a Nagoya da più di un anno, trovare l’appartamento perfetto, che ben potesse contenere tutti i mobili che gli erano stati regalati da sua madre – ferma sostenitrice dei principi del Ka-So, secondo le quali la disposizione e la qualità degli arredi di una casa erano fondamentali per il benessere di chi ci abitava – non era stato facile. Quindi aveva lasciato buona parte del mobilio in un magazzino, in attesa del momento giusto per spostarlo. Momento che finalmente era arrivato. 

Si infilò nel dedalo di strade del centro, fino ad arrivare alla porta del deposito. 

“Wakashimazu-sama, che piacere!”, lo salutò il proprietario con un inchino, che Ken ricambiò con scioltezza. 

“Ha finalmente trovato il posto giusto in cui trasferirsi?”

“Sì, sono qui proprio per questo. Vorrei organizzare il trasferimento di tutti i mobili che le avevo lasciato, Yamashita-san.”

“Certo, certo. Posso avere pronto un camion già per domani. Non in molti traslocano ad agosto, è un periodo tranquillo.”

“Perfetto, allora sarò qui domattina per supervisionare il carico.”

Detto ciò, Ken si inchinò nuovamente e uscì.

Il caldo del pomeriggio era davvero soffocante, e il ragazzo decise di fermarsi in un mini-market sulla via dell’hotel per comprare qualcosa di fresco. Mentre osservava lo scaffale delle bibite, indeciso su cosa acquistare, sentì una voce familiare alle sue spalle.

“Wakashimazu! Sei tu?”

Ken rimase interdetto, chiedendosi chi, a Yokohama, potesse rivolgersi a lui in modo così colloquiale. Con i compagni di squadra dei Flügels non era mai riuscito a entrare davvero in sintonia e, se fosse stato un fan, sicuramente lo avrebbe approcciato in modo più formale. La tensione che gli si era accumulata fra le spalle si sciolse nel momento in cui si girò e riconobbe il volto sorridente che aveva davanti.

“Morisaki! Che ci fai qui?”

La domanda, posta con genuina curiosità, sembrò per un attimo mettere in difficoltà l’altro ragazzo, che però subito si riscosse dall’apparente imbarazzo.

“Sono venuto a trovare Izawa. Sai, si è trasferito qui da poco per giocare nei Marinos. Pensavo tu vivessi a Nagoya, ormai?”

“Sì, in effetti è così. Sono tornato un paio di giorni solo per sbrigare qualche commissione.”

Ken inarcò le labbra in un sorriso discreto. Se c’era un compagno di Nazionale che gli faceva sempre piacere vedere, quello era Yuzo. I loro caratteri erano molto compatibili: erano entrambi introversi, e si erano trovati spesso a condividere la stanza durante i ritiri, preferendo rimanere in camera a leggere o a chiacchierare di strategie di gioco, piuttosto che sgattaiolare di nascosto in città per andare in giro per locali come spesso e volentieri facevano gli altri. Si era creato tra loro un rapporto di profonda stima reciproca, e forse anche di amicizia, per quanto Ken fosse incredibilmente restio a usare quella parola per persone all’infuori di Kojiro e Takeshi.

“Ti fermi molto in città?”

La voce di Morisaki lo strappò alla leggera malinconia che lo attraversava ogni volta che pensava alle migliaia di chilometri che lo dividevano dal suo migliore amico, impegnato a giocare in Italia.

“No, partirò domani nel pomeriggio…”

“Oh. Vuoi venire a cena da Izawa, sta sera? Mi farebbe davvero piacere fare due chiacchiere con te, è quasi un anno che non ci vediamo!”

Ken era già pronto a rifiutare. Lui e il centrocampista non si conoscevano bene, ma gli aveva sempre dato l’impressione di essere una persona un po’ arrogante, decisamente troppo estroversa per i suoi gusti. Però era anche vero che due chiacchiere con Yuzo le avrebbe fatte più che volentieri… 

Pensò alla serata che aveva programmato, solo nella pensione in cui alloggiava, con una tazza di tè e diversi schemi di gioco per le prossime partite di campionato da studiare e decise, per una volta, di fare un microscopico passo al di fuori della propria comfort zone.

“Con piacere, se non sono di troppo disturbo. Dove vive Izawa?”

“Nel quartiere Yamate, poi ti mando un messaggio con l’indirizzo preciso!”

“D’accordo, allora ci vediamo sta sera.”

Salutato Morisaki, Ken si rituffò nel caldo della città, desideroso di tornare in camera per farsi una doccia e poter stare un po’ in tranquillità prima che arrivasse l’ora di cena.

 

***

 

Quando sentì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi, Mamoru sorrise. Si alzò dal divano per andare ad aiutare il compagno con le buste della spesa, e ne approfittò per rubargli un rapido bacio.

“Mi sei mancato.”

“Ma se sono stato fuori poco più di un’ora!”

“E quindi?”

Yuzo scoppiò a ridere, posando le borse sul pavimento della cucina e girandosi per baciare con più passione il suo ragazzo. Le mani di Mamoru si chiusero immediatamente sui suoi fianchi, e lui si trovò intrappolato tra il bancone e il petto dell’altro. Lasciò scorrere le dita tra i lunghi capelli del centrocampista, mordendogli piano il labbro inferiore per poi sgusciare via dalla sua presa. 

“Tu almeno hai pulito mentre io non c’ero?”

Pronunciando queste parole, fece scorrere lo sguardo sulle superfici della cucina che, a onor del vero, sembravano in condizioni molto migliori di quanto non fossero quando era uscito intimando al compagno di rendere almeno quella stanza presentabile, se voleva che gli cucinasse la cena.

“Certo, Yu. Però anche tu sei un esagerato, non era così sporca.”

Yuzo lo guardò alzando un sopracciglio, ma non fece commenti. Non aveva intenzione di mettersi a discutere con il fidanzato per le condizioni in cui versava casa sua. Non erano fatti suoi, e in più avevano modi ben più piacevoli per spendere il poco tempo che potevano dedicarsi. Il fatto di essere riuscito a ricavarsi ben cinque giorni di vacanza da poter passare a Yokohama era stato un vero miracolo, e nessuno dei due sapeva quando avrebbero avuto di nuovo tanto tempo da trascorrere insieme. Durante le prime ventiquattro ore di quel soggiorno, erano usciti dalla stanza da letto di Mamoru praticamente solo per mangiare. Adesso almeno riuscivano a passare dieci minuti l’uno accanto all’altro senza saltarsi addosso, motivo per cui il portiere si era sentito abbastanza tranquillo a invitare un ospite.

“Non indovinerai mai chi ho incontrato in centro.”

“Chi?”

“Wakashimazu!”

“Wakashimazu? E che ci fa qui? Non vive a Nagoya, ormai?”

“Mi ha detto che è tornato per sbrigare un paio di commissioni, ma riparte domani. L’ho invitato a cena qui, sta sera. Spero non sia un problema.”

“No, tranquillo. Lo sai che mi piace avere gente in giro per casa. Certo, io e Ken avremo scambiato dieci parole, da che ci conosciamo…”

“Lo so, lo so, è molto introverso. Però posso assicurarti che è una persona piacevolissima, una volta che si apre un pochino!”

“Speriamo venga una bella cena allora. Quanto tempo ti serve per cucinare?”

“Non tantissimo, un’oretta direi…”

Negli occhi del centrocampista si accese una luce maliziosa.

“Beh, allora abbiamo ancora un paio d’ore libere.”

Prese Yuzo per un polso e lo tirò in salotto, poi lo spinse sul divano e si sedette a cavalcioni sulle sue gambe, cominciando a baciargli il collo. Le mani del portiere si intrufolarono sotto la sua maglietta, tirandolo più vicino. 

Tra un ansito e l’altro, Morisaki avvicinò le labbra all’orecchio del compagno e gli sussurrò: 

“Quando il Mister mi ha raccomandato di allenarmi anche in vacanza, non credo intendesse questo.”

Mamoru si fermò, si allontanò leggermente, lo guardò negli occhi con aria serissima e… 

“Ok, andiamo a correre.”

Resistette neanche cinque secondi prima di scoppiare a ridere davanti all’espressione sbigottita di Yuzo.

“Scherzo, scemo.”

E ricominciarono a baciarsi, con tutto l’ardore dei loro diciannove anni.

Rimasero impegnati nelle loro piacevoli attività pomeridiane finché le ombre tracciate dal caldo sole del pomeriggio non cominciarono ad allungarsi. Dopo di che, restarono ancora un poco mollemente sdraiati sul divano, un braccio del centrocampista drappeggiato attorno alle ampie spalle del portiere, le dita che accarezzavano delicatamente l’osso sporgente della clavicola, e la testa di quest’ultimo poggiata sulla sua spalla. 

“Yu…?”

“Mh?”

“Per sta sera cosa vogliamo fare?”

“…sotto quale punto di vista?”

“È la prima volta che vediamo qualcuno della Nazionale da quando stiamo insieme. Ci comportiamo come se niente fosse? O facciamo finta di essere solo amici?”

“Beh, voglio dire, secondo me non riusciremmo comunque a nasconderlo per un ritiro intero, quindi tanto vale cominciare a dirlo a qualcuno. Anche perché non mi pare che tu sia noto per la tua discrezione, mio caro Izawa. E comunque, non credo che per Ken sia un problema. Per come lo conosco, non mi sembra proprio il tipo. Direi di non dirglielo, ma di comportarci normalmente, e se lo dovesse capire, pace.”

“Ok, lo conosci meglio di me, mi fido.”

Le loro chiacchiere si spostarono poi su argomenti più leggeri, finché Yuzo non si decise ad alzarsi per cominciare a preparare la cena, lasciando sul divano un Mamoru molto contrariato per essere stato privato troppo presto, a dir suo, delle coccole post coito.

 

***

 

Ken fece un respiro profondo e alzò la mano per suonare al citofono dell’elegante palazzina in stile occidentale dove abitava Izawa. Non poté fare a meno di notare che le lunghe dita gli tremavano leggermente. Scosse la testa, chiedendosi se mai gli sarebbe passata quella stupida ansia sociale che lo perseguitava da quando era bambino, e che negli ultimi anni sembrava non fare altro che peggiorare. Riusciva a sentirsi veramente tranquillo solo in due occasioni: quando faceva sport, che esso fosse calcio o karate poco importava, e quando stava solo, o con persone in cui aveva la massima fiducia. Per quanto una parte di lui gli dicesse di girarsi e scappare il più velocemente possibile, un’altra era incredibilmente orgogliosa del fatto che fosse riuscito ad arrivare fino a lì. 

Invece di premere il pulsante del campanello, abbassò la mano, estrasse il cellulare dalla tasca, e digitò un messaggio.

 

– Ansia.

 

La risposta non tardò ad arrivare, e Ken si ritrovò a ringraziare tutte le meraviglie della modernità che l’unica persona che lo faceva stare davvero tranquillo potesse stargli vicino anche se li dividevano migliaia di chilometri.

 

– Dai, Neko, tranquillo. Morisaki ti ha sempre fatto sentire abbastanza a tuo agio, no? E Izawa non può essere così male, se sono tanto amici.

– Hai ragione, lo so che hai ragione. Come faccio a convincere anche la bocca del mio stomaco?

– Respiri profondi, e ricordati che di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, io sono qui.

– Ok, vado. Grazie, Kojiro.

– Ma grazie di che?! Divertiti!

 

Il ragazzo finalmente si decise a suonare quel maledetto campanello. Il portone gli venne aperto, e lui salì con passo agile i due piani di scale che portavano all’ingresso dell’appartamento, dove fu accolto dal padrone di casa, che lo fece entrare con un sorriso rilassato disegnato sul viso.

“Ben arrivato! Sei riuscito a trovare il palazzo facilmente?”

“Sì, grazie. Non abito più qui da un po’, ma la città la conosco ancora abbastanza bene.”

“Ottimo.”

Tra i due calò un silenzio un po’ imbarazzato. Si resero entrambi conto di aver probabilmente scambiato più parole negli ultimi due minuti che nei precedenti sette anni. A salvare la situazione arrivò Yuzo, che uscì dalla cucina con una grossa pirofila quasi straboccante di donburi. 

“Ma buonasera! Come stai?”

Ken sorrise, e si rilassò leggermente nel vedere un volto amico.

“Tutto bene, grazie. Tu? Come hai fatto a cucinare con questo caldo?”

“La forza dell’abitudine! A casa spesso cucinavo con mia mamma, e lei è la classica casalinga, non si fa scoraggiare neanche dall’afa di agosto!”

I tre si sedettero subito a tavola, Ken di fronte a Morisaki, Mamoru al fianco di quest’ultimo. Se i primi minuti furono passati concentrandosi sul cibo – Yuzo era veramente un ottimo cuoco – dopo un po’ cominciarono a chiacchierare. Ken si ricordò del perché andava tanto d’accordo con l’altro portiere: la conversazione scorreva tranquilla, Yuzo esprimeva le proprie opinioni in modo molto pacato, ma comunque convincente. Si ritrovarono a parlare dei più disparati argomenti, dalla musica, al calcio, ai fumetti, ai film, e la serata scorse più piacevolmente di quanto Ken avrebbe potuto immaginare qualche ora prima. Lui e Izawa non interagirono molto. Mamoru li lasciò chiacchierare, rispettando il loro palese desiderio di mettersi in pari sulle rispettive vite dopo non essersi visti per tanto tempo. Ogni tanto faceva qualche commento, ma principalmente passò la serata a osservarli con un braccio appoggiato allo schienale della sedia di Yuzo e un sorrisetto enigmatico in volto. 

Ken, mentre ascoltava la recensione appassionata che Morisaki faceva di tutto il Marvel Cinematic Universe, lanciandosi anche in teorie su come sarebbe proseguita la storia dopo gli eventi di Avengers: Endgame, non poté fare a meno di notare come le dita del centrocampista ogni tanto lasciassero il legno della sedia per danzare delicate sulla pelle del portiere, facendo scorrere il pollice sulla nuca, o infilandosi curiose sotto il bordo del colletto. Il portiere si chiese se fosse solo segno di un’amicizia davvero molto stretta, o se ci fosse qualcosa di più. Considerata la questione per qualche minuto, decise che in ogni caso non erano fatto suoi. Si vedeva lontano un miglio che quei due erano perfettamente assortiti, e sperava vivamente che, se davvero erano una coppia, si rendessero felici a vicenda.

A spezzare l’atmosfera tranquilla che si era creata fu il cellulare del centrocampista, appoggiato sul bordo del tavolo, che vibrò più volte in rapida successione. Il ragazzo aprì i messaggi e aggrottò le sopracciglia. A nessuno dei due portieri sfuggì l’espressione preoccupata che si disegnò sul suo viso. 

“Che succede?”, chiese Morisaki, cercando di sbirciare lo schermo.

“È Genzo… si è infortunato malamente.”

A quelle parole, Ken sobbalzò. Non era certo un fan di Wakabayashi, anzi, ma tra lui e il rivale di sempre si era costruito un rapporto di rispetto professionale reciproco che lo portò a preoccuparsi per le sorti dell’altro.

“Che è successo?”

“Non lo dice di preciso… dice solo che si è fatto male durante un’amichevole con l’Hannover…”, poi sgranò gli occhi, “e che dovrà stare fermo tutta la stagione!”

Quelle parole rimasero come sospese nell’aria per un istante. Per richiedere un provvedimento simile, il portiere doveva essersi infortunato in maniera davvero seria.

Il cellulare di Mamoru vibrò ancora una volta, e quando lesse il messaggio, l’espressione del centrocampista si fece ancora più tesa.

“Dice che torna in Giappone. Che qui conosce un fisioterapista eccellente, e che se c’è qualcuno in grado di rimetterlo in forma è lui.”

“Dove si stabilirà? A Tokyo? O tornerà a Villa Wakabayashi a Nankatsu?”

Nel tono di Yuzo c’era una punta di preoccupazione. Nella sua testa c’era lo stesso pensiero che preoccupava anche gli altri due: per costringere Genzo Wakabayashi a stare fermo per un’intera stagione, la situazione doveva essere veramente grave.

Mamoru lesse il messaggio che gli era appena arrivato, e immediatamente il suo sguardo andò a fissarsi su Ken, che ricambiò l’occhiata con aria interrogativa.

“A Nagoya. Si trasferirà a Nagoya.”

 

 

 

 

 

 

Notine notose pt.2: ...fischio d'inizio.

Sì, Ken è un micino disagiato (mai soprannome fu più azzeccato, vero Kojiro?)

Per una volta nella mia vita, tenterò di essere costante con gli aggiornamenti. Ho già una manciata di capitoli scritti, che dovrebbero arrivarvi ogni giovedì.

Grazie mille a chi è arrivato fin qui, e a chi avrà voglia di accompagnare me e questa manica di imbecilli fino alla fine di questo viaggio <3

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Capitolo 2
*** Sotto il cielo di Amburgo ***


What you like

Sotto il cielo di Amburgo

 

 

 

 

 

Genzo era furioso. Quella notte non era riuscito a chiudere occhio, ed era dal pomeriggio precedente, quando gli avevano comunicato la notizia peggiore della sua carriera calcistica, che si aggirava per casa come una bestia ferita.

All’inizio, si era rifiutato di accettare la situazione. Aveva urlato in faccia al medico, gli aveva dato dell’incompetente, del ciarlatano. Poi, mentre il panico faceva lentamente presa su di lui, aveva cominciato a contrattare. Ok, non avrebbe giocato, ma poteva almeno continuare ad allenarsi? No? Neanche un pochino? Il dottore era stato categorico: almeno sei mesi di stop assoluto, e poi si sarebbe valutato se la situazione permettesse di reintrodurre, a poco a poco, un po’ di stress sui suoi polsi. Quello che era certo, era che nel migliore dei casi avrebbe dovuto stare fermo per una stagione intera. Nel peggiore, la sua carriera poteva essere definitivamente terminata.

Non voleva nemmeno prendere in considerazione quell’eventualità. Certo, si era infortunato un sacco di volte, fin da bambino, complice il suo modo molto aggressivo di giocare e un pizzico di sfortuna. Ma era sempre guarito, anche in tempi molto veloci. Perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso? Una vocina nella sua testa gli ripeteva che non aveva più l’elasticità di un dodicenne, che ormai era adulto, e che era più che plausibile che facesse più fatica a guarire, soprattutto dopo lo stress immane a cui aveva sottoposto il suo corpo l’anno precedente, durante il World Youth.

Certo, se proprio la sua carriera avesse dovuto essere stroncata da un infortunio, avrebbe preferito che accadesse in un qualche momento epico, tipo la finale di un mondiale, tipo nel parare il tiro di un cannoniere serio, come Karl o Levin, non durante la più stupida delle amichevoli, in una partita che era poco più di un allenamento, fermando un tiro che avrebbe potuto prendere a occhi chiusi, semplicemente perché nel tuffarsi era atterrato male sui polsi. Ma quello era stato, evidentemente, il colpo di grazia.

Il ragazzo sprofondò a sedere sul divano, affondando la testa tra le mani. Anche quel semplice movimento gli provocò un intenso malessere alle braccia fasciate. 

La decisione di tornare in Giappone l’aveva presa la sera prima, anche se sarebbe stato più corretto dire che gli era stata imposta dal padre.

Il ragazzo ripensò alla conversazione telefonica che aveva avuto col genitore.

 

“Non ho alcuna intenzione di tenerti ad Amburgo a far nulla.”

Davanti alle proteste del figlio, la sua voce si era fatta ancora più dura.

“Puoi giocare a calcio? No. Questo vuol dire che non ti stai più guadagnando uno stipendio. Non sei più un bambino, non vedo perché dovrei ricominciare a mantenerti. I tuoi fratelli lavorano nell’industria di famiglia da anni, ormai, ed è ora che cominci a farlo anche tu, a maggior ragione se c’è la possibilità che la tua carriera agonistica sia finita.”

A Genzo gli occhi si erano riempiti di lacrime di rabbia. Il padre aveva sempre considerato la sua decisione di fare il calciatore professionista come un frivolo capriccio, a cui aveva accondisceso solo davanti alla sfilza di successi che gli aveva portato. Non lo stupiva che prendesse la palla al balzo – il gioco di parole gli fece curvare la bocca in un sorrisetto amaro – per riportarlo all’ovile e impiegare anche lui nell’azienda di famiglia. 

“Comunque, conosco un ottimo medico sportivo che potrà seguirti nella fisioterapia. Ha lo studio a Nagoya, e per tua fortuna avevo già intenzione di mandarti lì. Abbiamo un appartamento libero, e la sede locale della Wakabayashi Motors ha decisamente bisogno di un po’ di carne fresca a livello dirigenziale.”

Detto ciò, gli aveva comunicato di avergli prenotato un volo per il Giappone di lì a tre giorni, dandogli giusto il tempo necessario per fare i bagagli e salutare qualche amico prima di dover mettere in pausa la sua vita per almeno un anno. Genzo non aveva potuto fare altro che accettare la decisione. Discutere con suo padre era assolutamente inutile, il carattere orgoglioso e testardo l’aveva ereditato da lui.

 

Gli veniva da urlare. Una parte di lui era tentata di mettersi a lanciare roba, metter a ferro e fuoco il bellissimo appartamento che il padre gli aveva comparato, ormai tanti anni prima, nel centro di Amburgo. Ma quel posto era casa, più di quanto non lo fosse qualsiasi altro luogo nel mondo, e non sarebbe mai riuscito a rovinarlo, nemmeno per fare un dispetto al genitore. La sua vita era lì, in Germania. Era lì che era avvenuta tutta la sua maturazione, come persona. Era il luogo in cui si era trasformato da bambino, a ragazzo, a uomo. E ora non sapeva se sarebbe mai tornato a vivere lì. Nel giro di tre giorni, la sua vita sarebbe stata completamente sconvolta, e non c’era niente che lui potesse fare per opporsi alla cosa.  

Quel lasso di tempo passò anche più in fretta di quanto avesse previsto: le sue giornate furono scandite dall’impacchettare roba. Dovette decidere cosa lasciare lì, in cantina o in un deposito, e cosa portare con sé in Giappone: se di alcuni oggetti, come i vecchi libri di scuola o i vestiti che si erano accumulati sul fondo dell’armadio e che non indossava più da anni, fu facile liberarsi, di altri lo fu molto meno. A metterlo più in crisi furono tutte le medaglie e le coppe dei vari tornei. Pensare di lasciarle indietro gli mandava una staffilata dritta al cuore, ma l’idea di averle esposte nella nuova casa, come un perenne monito di quello che rischiava di perdere per sempre, non era che fosse molto più rosea. Con un moto di stizza, tirò un calcio allo scatolone in cui stava mettendo tutti i suoi memorabilia sportivi, facendolo rovesciare sul pavimento. Imprecò e decise di uscire per una corsetta per tentare di schiarirsi la mente. Almeno quello poteva ancora farlo… per colpa di quei maledetti polsi, quasi tutte le altre attività sportive gli erano vietate. Per tutti gli dei, pure quando si masturbava doveva avere una certa cautela. Sbuffò una risata amara ripensando alla faccia che aveva fatto il medico mentre pronunciava quelle parole. 

Uscito di casa, si diresse ad andatura sostenuta verso il lungofiume. Il sole stava tramontando su quella che sarebbe stata la sua ultima notte su suolo tedesco, e la temperatura dell’aria aveva finalmente iniziato ad abbassarsi. 

Correre lo fece sentire meglio. C’era qualcosa di quasi magico nel modo in cui sentiva i muscoli della schiena sciogliersi e l’enorme peso che si portava addosso da giorni sollevarglisi dalle spalle. Per qualche manciata di minuti lasciò che la sua attenzione si soffermasse solo sull’aria che gli scompigliava i capelli e sul ritmo forte del cuore che gli pulsava il sangue nelle vene. Fece un lungo giro, cercando di toccare nel suo itinerario tutti i luoghi di Amburgo che preferiva. Passò davanti all’elegante edificio che ospitava la scuola che aveva frequentato, poi deviò per arrivare al parco dove tante volte lui, Karl e Hermann si erano allenati da ragazzini. Si fermò su una piccola altura ad ammirare la distesa verdeggiante di un grande prato, ai limiti del quale si trovava un piccolo spiazzo di terra battuta che sembrava fatto apposta per giocarci a calcio. Sorrise nel pensare che, malgrado tutti i soldi che Herr Schneider aveva speso in allenatori privati, il famoso Fire Shot del figlio era stato inventato e perfezionato proprio lì, grazie ai giocosi assist di Kaltz e gli sfottò e le parate di Genzo.

Scosse la testa, non c’era niente da fare. Per quanto si sforzasse di distrarsi, il suo cervello continuava a tornare al calcio. Pensò che, se proprio doveva perdersi sul viale dei ricordi, tanto valesse farlo per bene. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e digitò un messaggio.

 

– Ci siamo, è l’ultima sera. Ci salutiamo a dovere?

 

La nuvoletta della chat andò ad aggiungersi alle altre del gruppo che lui, Karl e Hermann avevano su Whatsapp. Ricevuta la notizia della sua partenza forzata, entrambi avevano fatto i salti mortali per passare con Genzo più tempo possibile. Il Kaiser era persino riuscito a farsi dare qualche giorno di vacanza dagli allenamenti del Bayern-Monaco per tornare ad Amburgo. Come previsto, la risposta alla sua chiamata alle armi non tardò ad arrivare.

 

– Eh, come no?! Facciamo all’Omas alle dieci?

 

Sia il portiere che l’attaccante concordarono con la proposta di Kaltz. 

L’Omas Apotheke era il loro locale di fiducia sin dai tempi del liceo, e non c’era luogo migliore per passare un’ultima serata assieme.

Genzo ricominciò a correre verso casa. Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e finire di chiudere gli ultimi pacchi, e poi si sarebbe diretto verso quella che sperava fosse una sbronza colossale. I postumi avrebbe potuto smaltirli tranquillamente il giorno dopo durante l’infinito viaggio aereo per il Giappone.

 

***

 

Lo spesso fondo di vetro del boccale cozzò violentemente contro il tavolo.

Lo spettacolo che si sarebbe posto davanti a un ipotetico osservatore esterno era ben poco edificante: Genzo stava con la testa appoggiata alle braccia incrociate sul tavolo e biascicava qualcosa sul fatto che – porcadiquellaputtana – dopo tutti quegli anni avrebbe dovuto saperlo che cercare di tenere il ritmo con due tedeschi che bevevano non era una buona idea. Alla sua destra, in equilibrio precario su uno degli sgabelli di legno del pub, Hermann non versava in condizioni molto migliori: si teneva dritto a fatica, e mordicchiava il suo onnipresente stuzzicadenti con aria vacua. L’unico che manteneva, come sempre, un certo contegno, era Karl. Gli amici non lo chiamavano certo Kaiser solo per la sua innata eleganza in campo, ma anche per il modo in cui riusciva ad approcciarsi ad ogni situazione della vita senza perdere un certo contegno aristocratico. Anche lui però, a guardarlo bene, aveva le gote un po’ troppo rosse e gli occhi leggermente appannati. Da quando si erano seduti a quel tavolo, un paio d’ore prima, avevano mandato giù una birra dopo l’altra a un ritmo vertiginoso. Erano probabilmente arrivati al sesto o al settimo giro, nessuno di loro era più in grado di tenere il conto. 

“Geeeeenzoooo”, biascicò Kaltz, “ma come farai a sopravvivere in Giappone con quella roba che avete il coraggio di chiamare birra?”

Il portiere alzò di un poco la testa per guardarlo.

“C’è il sakè. Non sottovalutare maaaaai il potere del sakè.”

Il centrocampista annuì con aria assorta, per poi scoppiare a ridere per solo-lui-sapeva-cosa. 

Schneider li osservò ridacchiando e scuotendo la testa. Sapeva già che le future uscite con Hermann avrebbero avuto un gusto diverso, amaro, senza la presenza del giapponese in mezzo a loro. Il loro terzetto era rodato dagli anni, e se qualcuno avesse guardato, anche solo distrattamente, la parete tappezzata di fotografie della sua stanza da letto, la prima cosa che gli sarebbe saltata all’occhio sarebbe stata il contrasto tra la testa di capelli nerissimi del portiere e le due teste bionde al suo fianco. Sentì il nodo di malinconia spingere sulla gola, e si affrettò a buttarlo giù insieme agli ultimi sorsi della sua pinta di birra.

“Su, Wakabayashi, dimostra che sei un uomo e svuota quel bicchiere, che ho voglia di fare un giro.”

La frase fu pronunciata da Karl con giusto un tocco di alterigia, e Genzo fece lo sforzo di alzare la testa per guardarlo con la miglior versione del suo ghigno beffardo che potesse produrre in quel momento.

“Ai tuoi ordini, oh magnificente K… Kaiser.

Un singhiozzo lo fece inciampare sul titolo, e tutti e tre ne ridacchiarono. Il portiere procedette poi a svuotare il boccale in un paio di sorsate decise. 

“Beeeeene. Per me possiamo andare.”

Si alzarono vagamente traballanti e uscirono nell’aria fresca della notte amburghese.

Tutti e tre erano consapevoli che si stesse avvicinando il momento dei saluti, e così si sforzarono di allungare il brodo, cominciando a camminare con passo instabile per le vie del centro. Il loro girovagare da ubriachi li portò sul lungofiume, dove si sedettero con le gambe a penzoloni oltre l’argine. Genzo prese a fissare le luci della città riflesse nell’acqua scura. 

Un fiume c’era anche a Nagoya.

Questo pensiero gli attraversò la mente senza che lui l’avesse davvero formulato, e in qualche modo lo rasserenò. Negli anni della sua adolescenza, aveva preso l’abitudine di schiarirsi le idee osservando le acque impetuose dell’Elba, e l’idea che almeno quell’abitudine non sarebbe stata del tutto spezzata gli fece piacere. Certo, era un altro fiume, avrebbe dovuto farci amicizia, prima di cominciare a confidargli le sue speranze e le sue paure più profonde, ma era comunque una base da cui partire per esplorare un terreno nuovo e sconosciuto. Anche perché lui, in Giappone, aveva sempre vissuto in una città relativamente piccola, e l’immensità delle metropoli asiatiche sinceramente lo intimoriva un po’.

Sperò che dall’appartamento in cui intendeva piazzarlo il padre si vedesse la sponda del fiume.

Fu strappato dalle sue riflessioni da una mano che gli atterrò poco gentilmente in mezzo alle scapole. Hermann era sempre delicatissimo.

“Wakabayashi, temo sia arrivata l’ora dei saluti”, la frase venne pronunciata quasi con leggerezza. E poi, in tono più grave: “In bocca al lupo, Genzo. Mi mancherai. Mi raccomando, non sparire.”

“Non preoccuparti, non vi libererete di me così facilmente. Ci sono comunque delle possibilità che l’anno prossimo io sia di nuovo qui con voi.” 

Il portiere cercò di non lasciare che tutta la malinconia che aveva dentro si insinuasse nella sua voce, ma si rivelò un compito molto arduo. Si girò verso Karl, che lo stava osservando. Si sorrisero. Tra di loro non c’era mai stato bisogno di molte parole, la sintonia che li univa scorreva a un livello più profondo.

“Ciao Wakabayashi, cerca di non sfasciarti più di quanto tu non abbia già fatto.”

“Ci provo, oh mio Kaiser, ci provo.”

Senza aggiungere altro, si alzò con uno slancio e si incamminò verso casa senza girarsi a guardare le due teste bionde che si stava lasciando alle spalle.

Sapeva che se l’avesse fatto non sarebbe più riuscito ad andar via.

 

***

 

Ken srotolò il futon e ci si lasciò cadere sopra a corpo morto. Dopo qualche istante si tirò a sedere, spostò con una mano alcune ciocche di capelli sudati che gli si erano appiccicate alla faccia e si guardò in torno. Finalmente aveva finito di sistemare l’appartamento. Era stato faticoso, ma era molto soddisfatto del risultato. Dalla grande finestra della stanza da letto entrava luce in abbondanza, e la pozza luminosa dei raggi solari andava a posarsi sul piano di una piccola scrivania in legno di ciliegio. Un’intera parete era occupata da un grande armadio a tre ante anch’esso nel medesimo materiale, con tutte le ante intarsiate in un complicato motivo che riproduceva un paesaggio montano. Sulla parete opposta all’armadio stava il futon, con accanto un piccolo comodino che, alla struttura in legno, aggiungeva un piano di ceramica smaltata la cui decorazione rappresentava una coppia di carpe koi. 

Il ragazzo chiuse gli occhi e lasciò che la sua pelle assorbisse quanto più possibile dal calore del sole. Il fatto che la casa fosse finalmente in ordine, unito alla bellissima giornata che il clima aveva regalato quel giorno alla città di Nagoya, riuscirono a infondergli un po’ di buon umore. Era da tre giorni, dalla sera della cena a casa di Izawa, che a intervalli regolari gli tornava in mente la notizia che aveva appreso. 

Genzo Wakabayashi stava tornando in Giappone.

Non sapeva di preciso perché la cosa lo turbasse tanto. Il SGGK non stava certo tornando per giocare, quindi non avrebbe dovuto sentirsi minacciato nella posizione di miglior portiere della nazione, eppure l’idea che il suo più grande rivale, una persona che a volte aveva pensato esistesse con l’apposita intenzione di rendergli la vita un inferno, si andasse a stabilire proprio lì a Nagoya lo turbava. 

Nell’ultimo paio d’anni, il suo odio adolescenziale per Wakabayashi si era stemperato in una diffidenza condita di stima reciproca, ma comunque si sarebbe sentito più tranquillo se il portiere fosse rimasto a migliaia di chilometri da lui e dalla sua vita. 

Ma l’Europa non poteva tenersi Genzo e ridargli indietro Kojiro?!

Si lasciò cadere indietro sul futon, coprendosi gli occhi con un braccio, poi scosse lentamente testa. Non c’era nulla che lui potesse fare per evitare l’inevitabile, quindi era inutile continuare a preoccuparsene. 

Recuperò il telefono dal comodino, si mise di spalle alla stanza, sulla porta, e si scattò un selfie in cui inquadrava solo un angolo del suo viso, per comprendere il più possibile dell’ambiente alle sue spalle, e lo mandò sulla chat condivisa con Hyuga e Takeshi. Dopo di che, andò a buttarsi sotto la doccia, sperando che l’acqua calda potesse schiarirgli un po’ le idee.

 

 

Notine notose: Ed ecco la reazione del nostro PolistiroloBoy (cit.) davanti allo scombussolamento totale della sua vita. Non potevo certo farlo partire senza salutare i nostri due crucchi preferiti! <3 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Affari di famiglia ***


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Affari di famiglia

 

 

 

La confusione della stazione era assordante. Mandrie di turisti si riversavano fuori dai treni, mischiandosi ai gruppi di pendolari che giungevano da fuori città per recarsi in ufficio e agli studenti che rientravano a scuola dopo la fine delle vacanze estive. Ken se ne stava addossato a una delle colonne che divideva i binari, tentando di non pensare all’enorme massa di persone che lo circondavano e di concentrarsi su alcuni semplici esercizi di meditazione che gli aveva insegnato il padre tanti anni prima, quando aveva iniziato a rendersi conto delle difficoltà che il suo primogenito affrontava nel ritrovarsi immerso in situazioni troppo caotiche. Il ragazzo contava i secondi per cui far entrare l’aria nei polmoni, poi la tratteneva qualche istante, e contava di nuovo nel tirarla fuori. A volte si chiedeva come fosse possibile che alcune persone, la maggioranza addirittura, vivessero senza avere costantemente addosso quell’incredibile tensione. Come prima di un rigore, si era trovato a dire mille volte, quando cercava di spiegare a parenti e compagni di squadra il perché spesso si ritraesse all’improvviso, o perché preferisse non frequentare con loro le feste di quartiere, i locali e le discoteche. La cosa buffa, però, è che invece lui quando si preparava a parare un rigore era tranquillissimo, ben centrato, come se tutte le forze benefiche dell’universo si fossero finalmente incentrate su di lui. Gli sfuggì un sorriso a pensare a quel suo modo inverso di vivere l’ansia: certo, la tranquillità assoluta che provava in campo era quasi un super potere, o almeno così gli aveva ripetuto mille volte Takeshi, ma avrebbe preferito che il prezzo da pagare con fosse così alto.

Buttò un’occhiata al tabellone degli arrivi, e un po’ di tensione gli si sollevò dalle spalle quando scoprì che il treno che stava aspettando lui era appena entrato in banchina. Si spostò con calma verso il binario indicato, tentando di non farsi urtare da nessuno, e si predispose agli ultimi minuti di attesa.

Il primo che vide fu suo fratello. Incredibile come quel ragazzo guadagnasse centimetri a una velocità impressionante… e dire che ormai lo scatto di crescita, a sedici anni, avrebbe dovuto iniziare a rallentare. Ken pensò che, se avesse continuato così, nel giro di sei mesi lo avrebbe raggiunto, per poi addirittura superarlo. L’idea che il suo fratellino potesse diventare più alto di lui gli lasciava addosso una sensazione a metà tra il fastidio e l’orgoglio. La somiglianza tra loro, comunque, cominciava e finiva con l’altezza. Ryu era la copia sputata di loro padre: il cranio e la mascella leggermente troppo squadrati, le spalle larghe, il petto ampio e le gambe muscolose e atletiche, era il ritratto stesso della forza fisica. Ken invece somigliava molto più alla madre, coi tratti del viso gentili, quasi androgini, e ossa e muscoli più sottili, anche se altrettanto letali.

Sorrise nel vedere i genitori pochi passi dietro al fratello.

Per un motivo o per un altro erano quasi tre mesi che non si vedevano, e Ken aveva proprio bisogno di passare una giornata con la sua famiglia.

Così come il suo sguardo era stato attirato per prima cosa da Ryu, fu il fratello a individuarlo per primo, e alzò una mano per salutare, mentre sul suo viso si apriva un grande sorriso. Quando gli fu abbastanza vicino lo agguantò per una spalla e se lo tirò addosso, stringendolo in un abbraccio da anaconda.

“Fratellone! Che bello vederti!”

Ecco, da quel punto di vista il secondogenito di casa Wakashimazu era invece simile alla madre, la signora Eiko. Entrambi non avevano alcun problema a esprimere i loro sentimenti in modo chiaro e scoppiettante, mentre gli altri due uomini di casa erano più riservati, anche se quando si ritrovavano investiti dall’amore dei propri cari non potevano fare altro che ricambiarlo, con un calore che cresceva da dentro e scioglieva tutta la tensione che spesso si accumulava sulle loro spalle per quel modo che avevano di vivere la vita un po’ troppo seriamente.

L’abbraccio di Ryu si sciolse con la stessa velocità con cui si era chiuso su di lui, ma prima ancora che il tepore che si era creato tra loro svanisse, fu il turno della madre di cingerlo tra le braccia, dandogli un bacio sullo zigomo e sussurrando, quasi con le lacrime agli occhi: “Il mio bambino.” Ken, che nell’abbraccio del fratello era rimasto leggermente rigido, in quello di Eiko si sciolse del tutto, cingendole la vita sottile con le braccia e stringendosela forte contro.

L’unico che non lo abbracciò fu il padre, ma andava bene così. Tra Benkei e il suo primogenito l’amore non veniva comunicato con il contatto fisico, a meno che esso non fosse generato dai loro scontri sui tatami del dojo di famiglia.

“Ciao, figliolo. Come stai?”

“Ora bene”, fu la risposta di Ken, e non avrebbe potuto essere più genuina.

Aveva invitato la sua famiglia a Nagoya, in quel caldo venerdì di fine agosto, per mostrare loro il suo appartamento, finalmente ultimato. Ci teneva a condividere con loro i frutti del suo duro lavoro. A dirla tutta, ci teneva a condividerli soprattutto con il padre. Era così che Ken e Benkei erano abituati a dimostrarsi affetto: tramite la dedizione e la fatica, per cercare di non deludersi mai a vicenda. La cosa che il portiere apprezzava più del padre era proprio quella: pretendeva sì tanto dai figli, ma lui per primo si sforzava di non lasciarli mai delusi, e di guadagnarsi ogni giorno il loro rispetto, senza convincersi che gli fosse dovuto solo perché li aveva portati in questo mondo.

Uscirono dalla stazione e si incamminarono nell’aria calda dell’estate, la cui afa era smorzata dal vento tiepido che tirava dal mare. Ken apriva la strada, con la madre che lo teneva sottobraccio e lo ricopriva di domande sulla qualità della sua dieta, su come andasse il lavoro, su come stessero i suoi amici. Mangiava a sufficienza? E non si era stancato troppo nel finire il trasloco tutto da solo, vero? Lei glie lo aveva raccomandato di farlo la settimana prima, così che suo fratello potesse andare ad aiutarlo. Ken ascoltava le preoccupazioni della madre con un sorriso. Forse a sentirle tutti i giorni avrebbero cominciato ad andargli strette, ma vivendo fuori di casa da tutti quegli anni, prima all’Accademia Toho, poi a Yokohama e infine lì a Nagoya, sentirsi un po’ coccolato gli faceva solo piacere.

Per tornare a casa Ken decise di prendere il lungomare, anche se avrebbero allungato un po’ la strada, e si godette la sensazione del sole sulla pelle e dell’odore dell’oceano, il suo preferito in assoluto, nelle narici, mentre nelle orecchie entrava e usciva il chiacchiericcio costante di sua madre e di suo fratello. Suo padre stava un passo più indietro, come era di sua abitudine, e con lo sguardo li controllava e li proteggeva. Malgrado il marciapiede fosse affollatissimo, sotto quello sguardo Ken non poteva che sentirsi al sicuro, lontano dalle solite ansie che lo tormentavano. Fu distratto dalla sensazione di tepore che non sapeva se venisse da fuori o da dentro da una mano sulla treccia che gli pendeva sulla schiena.

“Io però non capisco il senso di tenerli sempre così raccolti, con tutti gli sforzi che fai per farli crescere.”

Ryu lo guardava con aria seriamente perplessa.

“Insomma, quanto ci hai messo, anni, per averli così lunghi?! Mi sembra uno spreco.”

“Ci mancherebbe solo che andasse in giro con la criniera al vento.”

Il tono di Benkei era leggermente macchiato di rimprovero. Quello era uno degli argomenti su cui il più grande dei fratelli Wakashimazu e il padre non riuscivano proprio a trovare un punto d’incontro. Ken aveva sempre portato i capelli un po’ più lunghi della norma, fin da bambino, e al padre questo non era mai piaciuto particolarmente. Poi, da quando a dodici anni era andato a vivere fuori di casa, il portiere aveva iniziato a far crescere i capelli corvini con una dedizione quasi religiosa. Il motivo era puramente estetico: gli piacevano, gli piacevano un sacco. Il padre, quando se l’era visto tornare a casa per le prime vacanze estive con la chioma che ormai superava le spalle di due dita abbondanti aveva quasi preso un colpo. Da allora si era rassegnato a quella che ai suoi occhi era un’incomprensibile stranezza. D’altronde, come gli diceva sempre Eiko, i problemi veri erano ben altri, e grazie a tutti gli dei, nessuno di quelli riguardava i loro ragazzi.

La passeggiata mattutina continuò in un’atmosfera rilassata. Dopo aver percorso buona parte del lungo mare si fermarono in un piccolo mercato coperto a comprare il necessario per il pranzo: per quanto Ken avesse insistito nel dire di avere il frigo pieno, la madre non aveva sentito ragione. Avrebbe cucinato un pranzetto coi fiocchi per tutti e quattro, ché vedeva il figlio sciupato, ancora più asciutto su ossa e muscoli di quanto non fosse sempre stato a causa della costituzione così simile alla sua.

Arrivarono finalmente a destinazione, al posto che il portiere aveva scelto per sé, dopo mesi e mesi di instancabile ricerca di un luogo da poter sentire veramente casa e dove poter vivere, sperava, per tutto il tempo della sua permanenza a Nagoya, per quanto lungo esso potesse essere. L’appartamento era al primo piano di una elegante palazzina stuccata di bianco, e riusciva a essere accogliente anche nella sua estrema semplicità. La porta di ingresso si apriva direttamente su un ampio spazio living, in fondo al quale spiccava l’angolo cottura, e in cui il ragazzo aveva sistemato un basso divano dalla struttura in bambù ricoperta da soffici cuscini di colore chiaro e un tavolino coordinato, posti esattamente davanti al grande televisore con lo schermo piatto. Più vicino alla cucina stava il tavolo da pranzo, con la sua elegante struttura di ciliegio e gli intarsi lungo le zampe leggermente ricurve. L’unico altro ambiente della casa, oltre al bagno, era la stanza da letto, di cui il pezzo forte era sicuramente l’enorme finestra che si affacciava su un piccolo parco comunale. Guardando attentamente oltre la fila di palazzi che cingevano l’altro lato del giardino si poteva vedere la luce del sole riflettersi sulla tavola dell’oceano.

I coniugi Wakashimazu si scambiarono un’occhiata orgogliosa. Sì, il loro bambino si era sistemato proprio bene. Benkei ormai si era da anni rassegnato all’idea che il primogenito avesse scelto proprio il calcio, come professione, invece di prendere le redini del dojo di famiglia come aveva sperato lui, e sentì le ultime briciole di quel peso sollevarglisi dalle spalle osservando il luogo che suo figlio aveva deciso di chiamare casa. 

Ken era rimasto leggermente in disparte, appoggiato al muro accanto al divano, ad osservare la reazione dei suoi cari davanti ai frutti del suo duro lavoro. L’orgoglio che lesse negli occhi del padre spazzò via qualsiasi tipo di timore avesse potuto avere.

Mentre Eiko si metteva ai fornelli e il marito accendeva la televisione per dare un’occhiata al notiziario dell’ora di pranzo, Ryu seguì il fratello in camera da letto.

“Non c’è che dire, Onii-chan, hai messo su proprio un bel posticino!”

L’ammirazione sincera nella voce del fratello fece aprire Ken in un ampio sorriso.

“L’unica cosa… è che è ancora un po’ spoglio.”

Con queste parole il fratello gli porse un pacchetto rettangolare, che lui prontamente aprì, per restare a bocca aperta.

“Ho pensato che fosse più utile qui a te che a me giù a casa.”

“È… la tua collezione di foto.”

Da quando era poco più che un bimbetto, Ryu collezionava le foto di famiglia. Le aveva fatte stampare e aveva costruito lui stesso una bellissima bacheca in cui tenerle esposte, proprio davanti al letto.

“Ma sì, cosa vuoi che sia, le farò ristampare.”

Il gesto, che entrambi sapevano essere preziosissimo, fu nascosto dal ragazzo dietro quella giustificazione da adolescente. Non voleva chi sa quali ringraziamenti, non gli servivano, l’aver visto gli occhi del fratello illuminarsi di quella luce tranquilla era più che sufficiente.

 

***

 

Genzo era arrivato a Narita da meno di un’ora e già avrebbe voluto tornarsene in Germania a gambe levate. L’affettazione dei modi di fare giapponesi l’aveva colpito come un pugno nello stomaco. L’eccessiva formalità del suo paese d’origine l’aveva sempre un po’ infastidito, ma negli ultimi anni era riuscita a ignorarla, quasi fosse inutile folklore. Ora che invece era tornato per restare, gli risultò insopportabile.

La sua ira, in quel preciso momento, era rivolta agli inchini. La gente intorno a lui si inchinava per la più piccola cosa, e il pensiero che continuava a vorticare nella testa del ragazzo era: ma che cazzo ti inchini?!

Sarà che la sua formazione personale era avvenuta in Europa, tra persone pragmatiche come lo erano i tedeschi, ma tutti quei salamelecchi inutili gli davano davvero sui nervi.

Guadagnò l’uscita con passo rapido, portando con se solo un piccolo trolley. Aveva deciso di viaggiare leggero: il resto dei suoi averi lo avrebbe raggiunto di lì a un paio di giorni direttamente nella casa di Nagoya. Lui si sarebbe fermato giusto quella notte a casa dei suoi, lì a Tokyo. Avrebbe preferito evitarlo, ma sua madre era stata irremovibile.

“Per una volta che posso avere tutti i miei ragazzi riuniti per un pranzo, Genzo, non ho proprio intenzione di mancare quest’occasione.” 

Questo era quello che gli aveva detto al telefono, aggiungendo poi che così avrebbe avuto occasione di passare un minimo di tempo con i figli di suo fratello Hiro. Insomma, erano pur sempre i suoi nipoti, e lui li conosceva appena. 

Genzo non aveva potuto dar torto alla madre e così, pur se di malavoglia, aveva acconsentito a partecipare a quel pranzo.

Salì sulla macchina scura che i suoi avevano mandato a prenderlo e almeno per il tempo del tragitto cercò di non pensare, infilandosi gli auricolari e lasciando che fosse la musica a riempire la sua testa, con il pompare dei bassi e il ritmo duro della batteria. Guardava il traffico della capitale scorrere davanti ai suoi occhi da dietro il finestrino oscurato, e continuava a chiedersi che ci facesse di preciso lì. 

Quando scese davanti all’elegante villa dei suoi, parte del malumore era effettivamente sfumato, e lui si sentiva leggermente più preparato per affrontare quella giornata. Fortunatamente, le lunghe ore di viaggio, coniugate alle coccole che gli erano state fatte viaggiando in business class, gli avevano fatto passare i postumi della sua ultima notte brava ad Amburgo.

Almeno quello, cazzo.

La porta gli fu aperta da una cameriera, che si occupò anche di prendere la sua valigia, e all’improvviso si ritrovò immerso nel pieno di quella riunione famigliare. 

Sua madre Maya era seduta su una poltrona davanti alla grande finestra del soggiorno, e sorseggiava un bicchiere di vino. Su una sedia, accanto a lei, stava Mihoko, la moglie di suo fratello Hiro, che sulle ginocchia teneva un bimbo di al massimo due anni, che doveva essere Juichi. Genzo si rese conto in quel momento che quella era la prima volta che vedeva il più piccolo dei suoi nipoti. Dall’altro lato del lungo salone stavano due figure in piedi: i suoi fratelli, Hiro e Keiji. 

Wakabayashi senior non si vedeva da nessuna parte, il che sollevò notevolmente il portiere, e all’appello mancava anche…

“Zio Genzo!”

Il ragazzo sentì una coppia di manine tirargli i jeans, e abbassò lo sguardo per incrociare quello grande e scuro di suo nipote Ichiro, sbucato da chissà dove.

Il bambino era stato il primo ad accorgersi di lui, ma la sua esclamazione aveva allertato anche il resto della famiglia.

Sua madre si alzò per andargli incontro, mentre lui si abbassava a fare una carezza sui capelli del nipote che doveva avere ormai… quanti? Cinque o sei anni.

“Tesoro, dammi un bacio.”

Genzo non si negò alla madre, appoggiandole brevemente le labbra sua una guancia. A parte i bambini, lei era l’unica persona in quella stanza che gli facesse sinceramente piacere vedere.

“Ma guarda, è arrivato il nostro campione!”

L’esclamazione era uscita dalle labbra di Keiji, piegate in un sorriso che aveva un che di falso. La stessa espressione era disegnata anche sul volto del maggiore dei fratelli Wakabayashi.

Genzo sapeva che il motivo di quell’astio malcelato era che i fratelli non trovassero giusto che lui avesse potuto andarsene in Europa a giocare a calcio, invece di iniziare a impegnarsi nella Wakabayashi Motors, il cuore pulsante attorno a cui girava la loro famiglia. Beh, mica era un problema suo. Ce l’avessero avuto anche loro, un talento, magari sarebbero riusciti a sfuggire alle grinfie paterne. Forse.

Parli del diavolo… pensò Genzo, vedendo l’ultimo attore mancante di quella tragedia entrare con passo deciso dalle grandi porte di legno che dividevano il salone dal suo studio. Kitahachi Wakabayashi impose la sua presenza nella stanza come sempre faceva. Il suo solo esistere sembrava incutere timore e comandare rispetto. Il più giovane dei suoi figli sentì salire la nausea.

“Ma tu guarda, il figliol prodigo” disse, guardando nella sua direzione, per poi avviarsi direttamente dai fratelli per iniziare a discutere di qualcosa, sicuramente riguardo all’azienda.

Sarebbe stato un lungo pomeriggio.

 

***

 

La porta si chiuse alle sue spalle e lui si appoggiò al legno con un sospiro. Gli sembrava che quella maledetta giornata non dovesse più finire. Il pranzo, durante il quale era fortunatamente riuscito a sedersi tra sua madre e Ichiro, non era stato drammatico quanto aveva immaginato, il problema era stato dopo. Era stato costretto a ritirarsi nello studio del padre, insieme ai fratelli, per parlare di affari. Il mal di testa che solo in quel momento aveva cominciato a sollevarsi dalle sue tempie ritornò prepotente al solo pensiero. Hiro e Keiji l’avevano guardato tutto il tempo con sufficienza, trattandolo come un bamboccio, e il padre non aveva alzato dito per difenderlo. Anzi, se possibile aveva rincarato la dose. Il ragazzo scosse la testa. Se pensavano di intimorirlo, non avevano capito proprio un cazzo. Così come aveva dimostrato all’intera fottuta Nazione di essere il portiere più forte del Giappone, avrebbe fatto vedere a quei due mentecatti dei fratelli che poteva fare affari bene quanto loro, se non meglio. Doveva solo fare un po’ di esperienza, e poi li avrebbe fottuti. 

Nessuno poteva mettere sotto Genzo Wakabayashi. Nessuno. 

Il pensiero che il padre potesse star sfruttando quella sua competitività eccessiva contro di lui, proprio per portarlo esattamente dove voleva lui, non lo sfiorò nemmeno, tanto il suo cervello era annebbiato dalla rabbia.

Fu strappato da quei pensieri cupi dalla vibrazione del cellulare. 

 

Yuzo ha creato un nuovo gruppo.

 

Questo recitavano le parole sullo schermo. Curioso aprì la notifica, convinto di trovarsi davanti a un gruppo per una rimpatriata della vecchia Nankatsu. Sicuramente a questo punto tutti dovevano aver saputo del suo ritorno, anche se lui al momento l’aveva detto solo a Mamoru e, di riflesso, a Morisaki.

Quando l’occhio cadde sul nome della chat, però, aggrottò le sopracciglia. Decisamente non era quello che si era aspettato. La scritta nera recitava, semplicemente, Keepers, e la lista di contatti era composta solo da tre numeri: il suo, quello di Yuzo, e quello di Wakashimazu. 

A leggere quel nome, gli vennero in mente numerosi flash della permanenza di Mamoru in Germania. Sapeva che il nome dell’altro portiere gli era probabilmente scappato dalle labbra un po’ troppo spesso, e il fatto che dietro alla comparsa di quella chat dopo nemmeno dodici ore dal suo ritorno in Giappone ci fosse lo zampino di Izawa se lo sentiva nelle ossa.

Ma che cazzo stavano architettando quei due?

Lasciò che la domanda gli fluttuasse nel cervello senza fare nulla per trovare una risposta. Era troppo stanco, ci avrebbe pensato il giorno dopo, una volta arrivato a Nagoya. Per il momento, aveva solo bisogno di dormire.

Mentre il SGGK chiudeva gli occhi sulla sua prima notte di sonno su suolo nipponico, il Karate Keeper, a centinaia di chilometri di distanza, fissava il cellulare con aria a metà tra la confusione e il panico. 

Era riuscito a non pensare all’imminente ritorno di Wakabayashi per tutto il giorno, complice la presenza della sua famiglia, ma ecco che ora, grazie a Morisaki, il viso del rivale tornava prepotentemente a disturbarlo.

Quale fosse il senso di quel gruppo, proprio non riusciva a capirlo, così mandò uno screen della schermata a Hyuga.

La risposta non tardò ad arrivare.

 

– Ma che cazzo…?!

 

Ken si lasciò cadere sul futon, un braccio a coprire gli occhi, mentre con l’altra mano ancora reggeva il cellulare.

“Grazie per la sintesi illuminante, Kojiro”, fu l’unica cosa che lasciò sfuggire tra i denti, anche se ad ascoltarlo non c’era nient’altro che l’appartamento vuoto.

 

 

Notine notose: Questo capitolo nella pianificazione originale non c'era... l'hanno voluto i ragazzi XD Si vede che Genzo voleva che aveste una panoramica sulla sua famiglia demmerda... e io non sono riuscita a dirgli di no. I Wakashimazu però sono tanto pucci ** 

Grazie mille per essere arrivati fin qui!

 

 

 

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Capitolo 4
*** Indovina chi viene a cena? ***


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Indovina chi viene a cena?

 

 

 

 

“Una rimpatriata tra portieri! Ma dai, ma che idea del cazzo è?! Te lo immagini?! Io e Wakabayashi, seduti allo stesso tavolo, che ci scambiamo frasi di circostanza su… che cazzo ne so?! Di che dovremmo parlare, del tempo?! Ma che si è fumato Morisaki?!”

“E allora digli che non vai, non mi sembra tu ti sia mai fatto grossi problemi a dire di no davanti ad un invito…”

“E c’hai ragione pure tu… però… ma che ne so! Sento in testa la voce di mia madre che mi ripete che se sono sempre così chiuso, chi sa quante occasioni rischio di perdermi. Forse ha ragione lei.”

“Va bene aprirsi, ma proprio con Wakabayashi lo devi fare?! Sapesse che stronzo borioso è, sono sicuro che anche Eiko-san ti direbbe di stargli alla larga.”

“Però mi dispiace per Morisaki. Per qualche motivo sconosciuto, sembra che ci tenga un sacco. E in effetti all’ultima cena a cui mi ha invitato sono stato bene… Mi pare male che lui affronti senza batter ciglio il viaggio per venire qui da Shimizu-ku e io non riesca manco a uscire di casa.”

“Ken, mi sembra che tu stia costruendo un sacco di castelli in aria e di scuse perché, in realtà, ci vuoi andare. Kamisama, ti giuro che non riesco a capirne il motivo, ma fai come ti pare. Tanto lo fai sempre…

“Grazie eh. Di grande aiuto.”

“Ma mi spieghi che cazzo vuoi sentirti dire, allora?!”

Dall’altro lato della linea telefonica, Ken riuscì quasi a vedere Kojiro che si alzava di scatto dal letto portandosi una mano fra i capelli, nel gesto che faceva sempre quando iniziava a perdere la pazienza. La sua voce aveva assunto una sfumatura di ringhio. La tigre si stava svegliando.

“Ok, scusa, scusa. Hai ragione, forse ci voglio andare. È che ho pensato… questa cosa che Wakabayashi si è trasferito qui mi sta mangiando vivo, dovrò affrontarla prima o poi. Credo sia meglio farlo con Morisaki che fa da paciere, che non trovandomelo davanti all’improvviso, magari dopo una partita, senza sapere che dirgli. Odio che mi veda debole, è già borioso abbastanza.”

Hyuga rimase in silenzio per qualche secondo, e poi lasciò andare un profondo sospiro.

“… come vuoi, Neko. Cerca solo di non ucciderlo, che chi sa che avvocati tiene, con la famiglia che si ritrova. Damerino del cazzo.”

Il portiere si lasciò scappare una risata sottile.

“Guarda che non sono mica te. Le so tenere le mani a posto, io.”

Sentì la tigre emettere un ringhio.

“Io meno solo chi se lo merita. E Wakabayashi di solito rientra alla grande nella categoria.”

“Come darti torto…”

L’affermazione gli sfuggì in un sospiro. In che situazione di merda stava andando a cacciarsi?

“Comunque, cambiamo argomento. Tu come stai?”

“Bene, Neko, io sto bene. A volte ho l’impressione che il mister stia cercando di ammazzarmi con gli allenamenti ma lo sai, la fatica non mi ha mai spaventato. E poi l’Italia è stupenda… dovresti venire a trovarmi, ci sono tante di quelle cose che vorrei farti vedere.”

“Sai che vorrei venire anche io, ma Reggio Emilia non è mica dietro l’angolo… Forse potremmo sfruttare la pausa invernale del campionato… o torni già tu?”

“A dicembre torno io, sorry. Dovrebbero darci una decina di giorni, tra Natale e festività varie. Vorrei passare più tempo possibile a casa, non hai idea di quanto mi manchino i ragazzi… Però, per il tuo compleanno potrei fare un saltino a Nagoya, se non vieni tu a Saitama.”

“Sai che qui sei sempre il benvenuto! E così finalmente vedrai la casa!”

“Dalle foto sembra un bel posto! Ora scusami, il dovere mi chiama, abbiamo un’amichevole contro il Piacenza, devo essere allo stadio tra un’ora.”

“A dopo. Go get ‘em, Tigre.”

Su quella frase di supporto, la connessione venne interrotta. Ken sospirò, Kojiro gli mancava da morire. Ormai erano amici da quasi un decennio, e si erano stati accanto attraverso mille alti e bassi. Non poterlo più vedere quasi ogni giorno, quando per anni avevano addirittura diviso la stanza all’Accademia Toho, era un dolore basso e sordo, che sembrava non affievolirsi con il tempo. 

Scosse la testa, dandosi dell’esagerato. Il suo migliore amico non era mica morto, e continuavano a tenersi in contatto giornalmente. Però per uno come lui, per cui era sempre stato così difficile creare dei legami che riuscissero a farlo sentire a suo agio, la partenza di Hyuga era stata veramente un colpo durissimo. Quello era parte del motivo per cui aveva deciso di andare alla cena organizzata da Yuzo, per quanto l’idea sulle prime gli fosse sembrata idiota. Così come era stato per i Flügels, anche con i compagni di squadra dei Grampus stava facendo fatica a trovare una vera sintonia. In campo si trovavano bene, e i difensori stavano imparando a fidarsi delle sue direttive e a stimarlo, malgrado fossero tutti più vecchi di lui di almeno un paio d’anni, ma con nessuno era ancora nata una simpatia che riuscisse a uscire dall’ambiente lavorativo. Faceva fatica lui stesso ad ammetterlo, ma forse avere Wakabayashi a Nagoya poteva servire per rendere leggermente più movimentata la sua vita sociale. Certo, a meno che quel cretino non cominciasse a fare lo snob come al solito, con quel suo tono supponente e quei modi da borghese del cazzo, di uno che si credeva sempre mille volte superiore a chiunque. Ma che poi, superiore di che?! Lui era bravo almeno quanto il SGGK, e questo lo sapeva, anche se ci aveva messo anni ad accettarlo, sempre mangiato dal tarlo dell’insicurezza che, quando si trattava di Wakabayashi, riusciva a raggiungerlo anche sul campo da calcio. Non era il talento di Genzo, a spaventarlo. Questo era riuscito a realizzarlo. Era la sua natura di leader: quella innata sicurezza che lo faceva sembrare sempre così certo delle sue convinzioni, e che Ken era sicuro non sarebbe mai riuscito a possedere. Per quanto lui fosse bravo, una vocina nel suo cervello gli ripeteva in continuazione che le capacità per accendere la passione nei cuori della gente e farsi seguire non ce le aveva. Certo, era in grado di fingerle. Lo aveva fatto più volte negli anni, quando doveva sopperire a qualche assenza improvvisa di Kojiro, ma la Tigre era il leader che si era scelto. Lui, al massimo, sentiva di poter essere un buon vicario.

Decise di prendere il toro per le corna prima che l’ansia se lo mangiasse da dentro, e recuperò il cellulare da dove l’aveva abbandonato sulla scrivania, proprio accanto a quella che considerava la più bella delle foto della collezione di suo fratello, dove figuravano lui e Ryu bambini, l’uno che teneva per mano la mamma mentre addentava un enorme nuvola di zucchero filato, l’altro sulle spalle del padre che soffiava delle bolle di sapone, ignorando bellamente l’espressione preoccupata di Benkei che temeva di vedersi rovesciare in testa la boccetta d’acqua saponata. Traendo forza da quel ricordo felice, digitò il messaggio.

 

– Per la cena, io ci sarei. Quando/dove vogliamo fare?

 

***

 

Yuzo estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e sorrise nel leggere il messaggio di Ken, di cui mandò immediatamente uno screen a Mamoru. L’idea di quella rimpatriata era stata del suo ragazzo, in realtà, anche se lui ci aveva messo un attimo a dirsi d’accordo. Non gli era mai piaciuta tutta la tensione che c’era tra Genzo e Ken, gli era sempre sembrata stupida e inutile. Lui li stimava entrambi, e sapeva che a livello tecnico erano quasi alla pari. Certo, in cuor suo avrebbe sempre preso un po’ le parti del SGGK, però sapeva anche che Wakabayashi non si era sempre comportato nel più corretto dei modi nei confronti del rivale. 

Morisaki sospirò all’idea di quante volte li avesse visti discutere, negli anni, e scosse la testa. La sua natura era sempre stata estremamente diplomatica, e ora che i due portieri si sarebbero ritrovati a vivere nel raggio di pochi chilometri l’uno dall’altro, gli sembrava assurdo che la situazione tra loro dovesse essere così tesa. Si conoscevano da secoli, che cazzo. Genzo avrebbe avuto bisogno di rifarsi un giro di amici, a Nagoya, e il non voler sfruttare la presenza di una persona che conosceva da quando aveva undici anni a Yuzo sembrò un’idiozia enorme. Un sorriso gli si formò sulle labbra quando ripensò al motivo per cui Mamoru l’aveva spinto ad organizzare quella cena: chi sa se era vero che Wakabayashi avesse un debole per Wakashimazu. Conoscendo Genzo, gli sembrò probabile che la sua fosse solo attrazione sessuale, nel migliore dei casi, e desiderio di sottomettere Ken anche da quel punto di vista nel peggiore. Quando ci si metteva, il portiere dell’Amburgo sapeva essere un vero stronzo. Ma chi sa, magari invece l’avrebbe stupito, e quella sarebbe stata l’occasione che lui e il suo ragazzo aspettavano per potersi sdebitare dell’amico che aveva fatto loro da cupido personale.

C’era, però, l’incognita Karate Keeper. Per quanto fossero relativamente amici, da quel punto di vista Ken era un mistero. Yuzo era sicuro di non avergli sentito mai fare nemmeno il più piccolo commento di interesse nei confronti di altre persone. Anche quando negli spogliatoi il discorso prendeva quella piega, e dopo le partite del World Youth era successo spesso, il portiere dei Grampus se ne stava in disparte e non faceva commenti.

La vibrazione insistente del cellulare riportò l’attenzione del giocatore degli S-Pulse al presente, e quando vide la foto di Genzo comparire sullo schermo sorrise. Aveva l’impressione di sapere perché lo stesse chiamando.

“Ma buonasera! Come va il trasloco?”

L’amico, dall’altra parte della cornetta, gli parve avere una leggera traccia di fastidio nella voce.

“Potrebbe andare peggio. Sono riuscito a svuotare già buona parte degli scatoloni. La casa è arredata, non è che io avessi molto altro da fare. Tu come stai?”

“Esausto, ma bene. Sto tornando ora dal campo, il mister ha voluto far restare un po’ di più noi portieri per fare un allenamento specifico. Spero che Takeshi si sia inventato qualcosa per cena.”

“Senti ma… da dove ti è venuta l’idea di organizzare una cena con me e Wakashimazu?”

La domanda arrivò a bruciapelo, ma Yuzo se l’era aspettata. Da quando aveva creato la chat, tre giorni prima, Genzo ancora non aveva ancora fatto commenti.

“Beh, siamo i tre portieri della Nazionale giapponese. Ora che voi due vivete nella stessa città, mi sembrava carino fare qualcosa tutti assieme.”

Che non era falso, anche se non era tutta la verità, pensò il ragazzo, con in mente l’espressione maliziosa di Mamoru.

“Okay ma… io e quel palo in culo di Wakashimazu? Sicuro di volerti trovare in mezzo a questa cosa?”

“Oh, andiamo, Genzo. Non siete più bambini, potreste anche piantarla di becchettarvi a vicenda in continuazione. E poi, tu a Nagoya non conosci nessuno, a parte lui. Ti sto facendo un favore. Piuttosto, pensavo… possiamo farla da te, la cena?”

“Da me?! E perché, scusa?”

“Beh, conoscendo tuo padre, non penso ti abbia piazzato in una catapecchia.”

Sentì l’altro sospirare nel microfono, creando un rumore statico che gli vibrò nell’orecchio.

Touché. Va bene allora, d’accordo. Facciamo da me. Comunque solo tu potevi riuscire a farmi fare una cosa del genere. Se mi distraggo un attimo, finisci per portarmi in casa anche Hyuga e tutto il resto dell’allegra combriccola.”

“Naaah, tranquillo, nemmeno io sono così temerario da disturbare la tigre che dorme.”

“Un’ultima domanda. Non è che per caso c’è lo zampino di quell’infame del tuo consorte in tutto questo?”

Un’espressione furbetta si disegnò sul volto di Morisaki.

“No, perché dovrebbe?”

“…niente, lascia stare. Devo scappare, il disordine mi reclama. Ci sentiamo meglio nei prossimi giorni.”

“Ooookay, ciao ciao.”

Interruppe la comunicazione proprio mentre percorreva gli ultimi metri che lo portarono davanti alla porta di casa. Una volta dentro, si ritrovò Takeshi piazzato sul divano con una birra in mano che giocava alla play. 

“Alla faccia della dieta da sportivo, Kishida.”

“Ah, se questo è il tuo commento, non ti piacerà sapere che ho ordinato la pizza anche per te, sta sera.”

“Nemmeno io sono così integerrimo da rifiutare la pizza. Però cazzo, vivere con te è come avere per coinquilino un diavolo tentatore. Quante volte mi hai già fatto sgarrare nell’ultimo mese?”

La frase fu pronunciata con una risata, e l’unica risposta che ebbe dall’amico fu una strizzata d’occhio.

“Chiamo un attimo Mamoru e poi vengo a mangiare, ok?”

“Yessa, basta che non stiate al telefono tre ore come al solito… con tanto di dirty talking annesso.”

Yuzo si sentì avvampare.

“Ma tu che ne sai?!”

La domanda gli uscì di un’ottava più alta del normale.

“Questa casa ha i muri sottili, Morisaki. Ringrazia che ho degli ottimi auricolari, perché di sentire i dettagli della vostra vita sessuale ne faccio anche a meno.”

“Scusa!”

Il sangue continuava a imporporare le guance del portiere, che optò per una ritirata tattica, andando a chiudersi in camera. Che figura di merda!

Con il volto affondato in una mano, fece partire la chiamata. Il telefono ebbe giusto il tempo di fare un paio di squilli.

“Ehi!”

“Indovina chi ha appena scoperto che siamo stati sgamati a fare sesso telefonico dal coinquilino?!”

“…tu?”

Yuzo sentì distintamente il divertimento nella voce del centrocampista, e non riuscì a captarci nemmeno un pochino di imbarazzo.

“Riesco a percepirlo, il tuo sorriso sornione. Tu non la conosci proprio, la vergogna, vero?!”

“Naaah. Piuttosto, parliamo di cose importanti. Ho visto che la cena si farà! Madonna quanto vorrei godermi la scena!”

“Izawa, sei veramente una pettegola. Comunque sì, Genzo mi ha dato l’okay, anche se non ne sembrava entusiasta.”

“Fidati, conosco i miei polli! Non so di Wakashimazu, ma il Capitano c’ha una voglia di scoparselo che tu non hai idea… e forse non solo quella.”

“Se lo dici tu… Piuttosto, come stai?”

Anche lui era un po’ su di giri per la cena con gli altri due portieri, ma sicuramente non aveva intenzione di lasciare che l’argomento monopolizzasse la sua conversazione giornaliera con il fidanzato.

Si raccontarono con tranquillità le loro giornate, e quando chiusero la chiamata Yuzo aveva un sorriso sereno sulle labbra. Malgrado tutti i chilometri che li dividevano, il tepore che parlare con Mamoru gli generava da qualche parte tra i polmoni e lo stomaco non era minore di quanto lo fosse quando erano fisicamente insieme. 

Cercando di ignorare l’imbarazzo e di imitare una delle famose espressioni da faccia di bronzo del suo ragazzo, si preparò a tornare in salotto per affrontare una cena durante la quale sapeva che non sarebbe riuscito a guardare Takeshi negli occhi nemmeno per mezzo secondo.

 

***

 

Genzo scrutò ancora per un’istante la sua immagine nello specchio. Era stato indeciso fino all’ultimo secondo se indossare o meno la camicia, invece che affidarsi ad una semplice t-shirt. Alla fine, non aveva saputo resistere alla tentazione. Anche se stava cercando di non dare troppa importanza alla cosa, l’idea di trovarsi Wakashimazu in casa lo stuzzicava parecchio, e voleva apparire al meglio. Cercò comunque di darsi un’aria più informale spuntando i primi due bottoni della camicia bordeaux e arrotolandosi le maniche fino al gomito, e riportò lo sguardo al suo riflesso, scoprendosi soddisfatto del risultato: oltre all’indumento incriminato, il suo look comprendeva un jeans grigio scuro e un paio di anelli di acciaio a fascia che si chiudevano attorno al medio e all’anulare della mano destra.

Recuperò una birra dal frigo e si sedette sul divano. All’arrivo degli ospiti mancava ancora una mezz’ora, e il ragazzo si ritrovò immerso nei ricordi.

 

Era l’anno del torneo di Parigi. Fino a quel momento, le partite erano andate molto bene, e lui era incredibilmente orgoglioso che si fossero qualificati per le semifinali. Wakashimazu, che spesso giocava al posto suo, stava facendo un ottimo lavoro, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, era fiero anche di lui. Aveva fatto questi pensieri mentre si dirigeva alla palestra dell’hotel che li alloggiava: l’euforia per la partita contro la Francia del giorno seguente era stata troppa per riuscire a prendere sonno, e lui aveva avuto bisogno di una distrazione. Entrato nello spogliatoio per cambiarsi, si era reso conto che malgrado l’ora tarda non era solo. In fondo alla stanza c’era Ken, di spalle alla porta, con solo un asciugamano attorno ai fianchi. Si stava asciugando i capelli, e non lo aveva sentito arrivare. Genzo era rimasto come folgorato: i suoi occhi si erano incollati alla schiena del portiere, nuda e flessuosa, con i muscoli che guizzavano sotto la pelle tesa. Era rimasto ipnotizzato dal contrasto del candore della pelle, di una sfumatura più chiara di quella abbronzata di viso e braccia, e dal nero dei capelli, che ancora umidi gli ricadevano in ciocche disordinate sulle spalle, arrivando poco al di sotto di esse. Le mani, dalle dita lunghe, ci stavano affondando dentro per permettere all’aria calda di fare al meglio il suo lavoro. Il ragazzo sembrava totalmente assorto nel suo mondo, e Genzo si era sentito incredibilmente tentato di toccarlo, di stringere quella pelle, che aveva immaginato vellutata sotto i palmi delle mani, di baciare la linea elegante del collo per vedere la schiena e le braccia ricoprirsi di pelle d’oca… ma, ovviamente, non aveva fatto nulla di tutto ciò. Aveva quindici anni, stava appena cominciando a scendere a patti con il fatto che gli piacessero anche gli uomini, e quell’attrazione così forte lo aveva disorientato, portandolo a rifugiarsi nuovamente nella stanza che divideva con Izawa. 

 

La sua attenzione fu riportata bruscamente al presente dal suono del campanello. Buttò un’occhiata rapida al videocitofono e vide il volto sorridente di Yuzo, che nel giro di un paio di minuti fu davanti alla porta dell’appartamento. Lo fece entrare con un sorriso rilassato, anche se quel viaggio nei ricordi gli aveva fatto venire incredibilmente caldo.

“Benvenuto nella mia umile magione!”

“Alla faccia dell’umile!”

Morisaki si guardava attorno con gli occhi spalancati, osservando in grande appartamento in stile occidentale: l’ingresso dava direttamente sul soggiorno, il cui pezzo forte era un grande divano a elle di pelle scura, davanti al quale svettava un enorme televisore. Più avanti, una porta si apriva sulla cucina, fornita di tutti i comfort, e un’altra portava alle due stanze da letto della zona notte.

“Oh, Genzo, tuo padre non si è certo risparmiato!”

“Ci mancherebbe pure! Mi ha costretto a venire qui per… schiavizzarmi, in pratica. Ci mancava solo che dovessi vivere in un tugurio. Ma non stiamo qui impalati in piedi, accomodati pure. Vuoi una birra?”

Il tono di Wakabayashi si era fatto duro nel sentir nominare suo padre… al pensiero del pranzo di un paio di giorni prima, ancora gli ribolliva il sangue nelle vene. Non sapeva con che forza si sarebbe presentato in azienda, da lì a qualche giorno.

Yuzo accettò di buon grado l’offerta dell’altro. Aveva percepito la tensione e si dispiacque di aver fatto quel passo falso. Cercò un modo per rimediare. Stava per prendere il discorso della Bundesliga, ma gli bastò un’occhiata ai polsi di Genzo per rendersi conto che neanche quella fosse una buona idea, e così ripiegò su un’altra opzione ancora.

“Chi hai sentito, da quando sei tornato?”

“Mah, ho ricevuto un sacco di messaggi. Quasi tutti quelli della vecchia Nankatsu mi hanno detto che vorrebbero organizzare una rimpatriata. Tu li hai fregati sul tempo!”

Quest’ultima frase fu detta sorridendo. Genzo, anche non considerando la questione Wakashimazu, era davvero felice di quella cena. Il pensiero che avrebbe volentieri sostituito entrambi i suoi fratelli con Yuzo senza batter ciglio gli attraversò la mente come un lampo. Nascose l’aria accigliata dietro la bottiglia di birra.

“Ovviamente i più agguerriti sono gli ex-Shutetsu, Mamoru in testa. Dobbiamo capire un attimo come organizzarci, ma non vedo l’ora di passare un po’ di tempo con loro come ai vecchi tempi.”

Su questa frase, il campanello suonò nuovamente. Il padrone di casa aprì la porta, trovandosi davanti Wakashimazu in tutto il suo splendore vagamente goth.

Ken indossava i soliti jeans neri aderenti, e la parte superiore del corpo era inglobata in un felpone dello stesso colore, malgrado fuori non facesse affatto freddo. I capelli erano raccolti nella classica treccia, e aveva il polso sinistro racchiuso in un bracciale di pelle con le borchie. Teneva in mano una sporta di plastica.

“Ciao Wakabayashi, ho portato il dolce.”

“Oh, grazie. Vedo che sei sempre il migliore, coi convenevoli.”

Genzo fece un passo di lato per lasciare entrare l’ospite, che sembrò ignorare la battutina, anche se lo vide irrigidirsi leggermente. Nel guardarlo di schiena, negli occhi gli esplose una macchia di colore nella forma di un enorme drago rosso sul retro della felpa. Guardò Ken e Yuzo salutarsi con una certa familiarità: il giocatore degli S-Pulse non gli aveva detto che fossero amici, ma a guardarli interagire, pareva proprio quello il caso.

In effetti, si ritrovò a pensare, se Wakashimazu e Morisaki non fossero stati amici, per quale motivo il portiere dei Grampus avrebbe dovuto accettare quell’invito? Non di certo per vedere lui: sapeva benissimo di non stargli precisamente simpatico, e non poteva dire che la cosa non fosse reciproca. A parte l’attrazione fisica, con l’altro non aveva mai avuto molto da spartire. Era troppo amico di Hyuga perché potesse andargli a genio. Malgrado quella consapevolezza, sentì la suddetta attrazione tirare nel basso ventre: avesse potuto, gli avrebbe strappato tutti i vestiti di dosso.

Ken, dal canto suo, sentì lo sguardo di Wakabayashi piantarglisi sulla schiena appena dopo aver fatto quell’osservazione del cazzo, e si chiese cosa gli fosse venuto in mente di presenziare a quella ridicola pagliacciata. Si calmò un poco solo osservando il sorriso aperto e accogliente di Morisaki, che gli prese la busta dalle mani e andò a metterla in freezer, diretto a parole dal padrone di casa. Rimase fermo al centro della stanza, ad osservare quell’appartamento che urlava borghesia in ogni singolo elemento. 

In un rigurgito di ospitalità, Genzo lo invitò a sedersi sul divano, dove furono raggiunti da Yuzo, che passò una birra fredda di frigo a ciascuno di loro. A differenza sua, si vedeva che Morisaki fosse a suo agio. Lui e Wakabayashi, invece, non facevano che fissarsi, dai rispettivi punti d’osservazione. Cercò di mantenere un’espressione il più neutra possibile, anche perché non riusciva a leggere quale fosse l’emozione negli occhi del rivale di sempre. C’era una scintilla che non riusciva bene a interpretare, e che lo rese più nervoso di quanto già non fosse.

Yuzo sospirò davanti alla tensione palpabile tra i due, e maledisse mentalmente Mamoru per averlo cacciato in quella situazione.

“Allora, che mi raccontate? Wakashimazu, anche tu sei fresco di trasloco, no?”

“Sì, sono finalmente riuscito a trovare l’appartamento giusto. Non è troppo lontano da qui, tra l’altro.”

Silenzio.

“E tu, Genzo? Che mi dici?”

“Che ti devo dire. Me ne sarei rimasto volentieri in Germania, ma il dovere chiama. Comincio a lavorare lunedì prossimo. Il vecchiaccio si è mostrato tanto clemente da concedermi una settimana per adattarmi.”

A queste parole, in cui si lesse un’incredibile tensione, Ken inclinò la testa di lato, in quel gesto spontaneo che faceva sempre quando era confuso da qualcosa e che Kojiro sosteneva lo facesse sembrare un gatto curioso.

“Lavoro? Pensavo fossi qui per farti seguire da un fisioterapista.”

Genzo aggrottò le sopracciglia. E lui che cazzo ne sapeva? Lanciò una mezza occhiata inquisitoria nella direzione di Yuzo, che fece spallucce.

“Wakashimazu era a cena a casa di Mamoru quando ci hai mandato il messaggio in cui dicevi che saresti tornato.”

Fu il turno di Genzo a rimanere confuso.

“Ah. Non sapevo vi frequentaste.” 

“In realtà è stato un caso. Ho incrociato Morisaki in un kombini nel centro di Yokohama.”

Stava per calare di nuovo un silenzio imbarazzante, ma il portiere dell’Amburgo riprese la parola, per dare risposta ai dubbi di Ken.

“Mio padre mi ha gentilmente comunicato che visto che non mi stavo più guadagnando uno stipendio, tanto valeva che venissi a lavorare nell’industria di famiglia. Qui a Nagoya c’era una posizione scoperta, e fortuna vuole che ci sia anche un ottimo fisioterapista. Il dottor Iwasaki, magari lo hai già sentito. È molto famoso.”

“Ah, sì, certo! È il medico sportivo che segue anche i Grampus.”

Dopo che Genzo si era aperto a quella piccola confidenza, le cose sembrarono andare meglio. 

I tre ragazzi si ritrovarono a parlare dei più disparati argomenti davanti a tre ciotole di ramen fumanti. Discussero del campionato di J-League, e i due portieri che vi militavano non si risparmiarono qualche frecciatina l’uno nei confronti dell’altro, per poi passare ad argomenti meno legati al lavoro e più alle loro altre passioni personali. E Ken rimase esterrefatto. 

Tutto si era aspettato da Wakabayashi, che, per la cronaca, continuava a guardarlo con quella strana luce negli occhi, meno che fosse un nerd di prima categoria. 

Fatta quella scoperta, non riuscì a esimersi dallo scavare un po’ più a fondo.

“Nei confronti di Star Wars come ti poni?”

La sorpresa fu gemella alla sua sul volto di Genzo.

“Lo adoro! Le prime due trilogie sono delle opere d’arte! Ma cazzo, ma poi per gli anni Settanta, vuoi mettere?!”

“Sì, peccato che ora che Lucas ha venduto alla Disney, si stia trasformando in High School Musical con le spade laser.”

La risata che seguì a quel commento li coinvolse tutti e tre. 

La serata proseguì su quel tenore fino a mezzanotte. Diedero fondo a tutte le birre e a tutto il gelato, anche se a ogni cucchiaiata uno tra Yuzo e Ken si trovava a gnaulare:

“E domani chi lo sente il mister?”. Genzo, per un istante, fu quasi felice di non avere quel problema. Solo per un istante, però.

Morisaki, che lo conosceva fin troppo bene, si rese subito conto del suo rabbuiarsi.

“Tutto bene, Gen?”

Lui, un po’ spinto dall’alcool e un po’ dalla malinconia, aprì un minimo spiraglio sul proprio cuore.

“È che… ho paura di non poter più ricominciare a giocare. Il calcio è tutta la mia vita, voi mi capirete. Non… non voglio trovarmi come i miei fratelli, intrappolato dentro un completo giacca, camicia e pantalone ancora prima di compiere vent’anni. Non voglio!”

Con un moto di stizza, lanciò il cucchiaino nella coppetta abbandonata a terra, spargendo gocce di gelato sciolto tutto intorno, come piccole lacrime.

Sorprendendo anche se stesso, fu Ken a prendere la parola.

“Wakabayashi, ti ho visto farti male e rialzarti più volte di qualsiasi altro giocatore della Generazione d’Oro, escluso forse solo Misugi. Se c’è qualcuno che può riprendersi anche da questa botta, sei tu.”

Genzo gli sorrise. Non se l’era aspettato, e quelle parole da parte di Wakashimazu gli fecero molto piacere. Si era aspettato di scorgere in lui una certa soddisfazione per il suo infortunio, ma non vide nulla del genere.

Il suo solito orgoglio gli impedì di mostrare la gratitudine troppo esplicitamente, ma cercò di infonderla tutta nello sguardo che rivolse all’altro.

“Ma sì, dai. Scusate, si sta facendo tardi e io ho ancora tracce di jet lag addosso. È la stanchezza che parla.”

Ken capì l’antifona.

“Sì, è ora che io vada, domani mattina ho allenamento.”

Si alzò dal divano con un movimento fluido e si diresse alla porta. Il padrone di casa lo accompagnò.

“Senti Wakashimazu… sentiamoci, ti va? Una birretta con te me la farei volentieri, una sera di queste. Quando hai tempo.”

Il ragazzo si girò a guardarlo con aria sorpresa. Vide sincerità negli occhi del SGGK, anche se sempre velati da quel qualcosa che non riusciva a decifrare. Per un attimo, fu preso dal panico davanti a tanta franchezza.

“Mi sembra che sta sera ne abbiamo bevute abbastanza per il prossimo anno.”

L’altro interpretò la sua frase come un netto rifiuto, perché in effetti in parte lo era, e chiuse le labbra in un’espressione corrucciata.

“Sì, hai ragione. Buonanotte, Wakashimazu.”

Un attimo prima che l’uscio si chiudesse però Ken ricordò i suoi buoni propositi e poggiò una mano sul legno, per fermare il movimento dell’altro. 

“Comunque sì… mi farebbe piacere. Quando vuoi.”

Detto ciò, si girò e sparì giù per le scale, lasciando Genzo con un sorrisetto sul viso. Espressione che rimase lì anche quando chiuse l’uscio e si girò, trovandosi davanti il sorriso sornione di Yuzo.

“Che hai da guardarmi così? Madonna, stare con Mamoru ti sta facendo male, la riconosco un’espressione alla Izawa quando ne vedo una. E al momento, ce l’hai spiaccicata in faccia.”

“Ah, non ero io quello che guardava Ken come se lo volesse sbattere sulla prima superficie disponibile!”

“E lo spero bene, che non fossi tu, Morisaki! Ricordati che sei un uomo impegnato.”

E con quella battuta, Genzo sviò abilmente il discorso, anche se sapeva anche lui che i suoi amici non avrebbero mollato l’osso così facilmente.

 

 

Notine notose: I Morizawa sono fisicamente incapaci di essere discreti XD

E quindi eccoli, i nostri Wakascemi, che cominciano a interagire, per la buona pace di Kojiro. Come andrà a finire questa cosa? Chissà.

Grazie mille per essere arrivati fin qui <3

 

 

 

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Capitolo 5
*** Solitudine ***


What you like

Solitudine

 

 

 

 

La luce dell’alba avvolgeva la stanza come un velo di tulle, rendendo l’atmosfera sfumata e smussando gli angoli più duri dell’esistenza. Ken se ne stava seduto al centro del pavimento nella posizione del loto, concentrandosi solo sull’aria che ritmicamente entrava e usciva dai polmoni, facendolo sentire vivo. La mente era sgombra: i pensieri se ne stavano ritirati negli angoli del suo cervello, come una pacifica mandria che aspettava di essere lasciata uscire al pascolo. Li avrebbe liberati a breve, e la giornata avrebbe avuto inizio, ma per il momento si concentrava solo sul calore del sole che gli illuminava il viso, e sull’energia che traeva dal respiro. Era con sua madre che aveva preso l’abitudine di meditare, la mattina presto. Ricordava ancora la meraviglia che l’aveva pervaso, a sette anni, la prima volta che Eiko gli aveva mostrato come respirare correttamente, come riconnettersi con l’anima dell’universo – così l’aveva definita lei. Finché aveva vissuto a casa, il nascere del giorno li aveva sempre trovati insieme, davanti alla grande finestra della veranda, a godersi la reciproca compagnia e a ritornare in equilibrio col mondo. Durante gli anni dell’adolescenza, complice il fatto che vivesse all’Accademia Toho e che spesso avesse attorno i suoi compagni di squadra, aveva dovuto mettere in pausa quell’abitudine, riuscendo a dedicarsi alla meditazione solo in qualche momento particolarmente tranquillo, ma ora che viveva da solo aveva ripreso a farlo ogni mattina. Lo aiutava a cominciare la giornata con più serenità, e gli Dei solo sapevano quanto ne avesse bisogno.

Una sinfonia di strumenti a fiato proveniente dal cellulare lo avvisò che era il momento di mettersi in movimento. Con un ultimo profondo respiro aprì gli occhi e si alzò con scioltezza, stiracchiandosi come un gatto che era stato immobile per troppo tempo. La prima cosa che notò quando riprese contatto con questo piano dell’esistenza, fu che aveva un leggero mal di testa che nemmeno meditando era riuscito a scacciare, e si rimproverò per essersi fermato a casa del portiere dell’Amburgo fino a così tardi, la sera prima, e di aver bevuto tutta quella birra. Aveva dormito un paio d’ore meno del solito, e ora il suo corpo glie lo stava facendo notare. La cena, però, era stata meno spiacevole di quanto avesse pensato, quello lo dovette ammettere. In gran parte era stato merito di Morisaki, che come al solito si era dimostrato una compagnia piacevole e rilassante, però anche Wakabayashi era riuscito a non essere completamente sgradevole. Ken ripensò alla loro conversazione su Star Wars, e ancora una volta se ne stupì. Gli sfuggì un sorriso al pensiero della faccia che avrebbe fatto Kojiro quando gli avrebbe raccontato che forse, in fondo in fondo, il loro più accanito rivale era un ragazzo normale, e non un cyborg programmato per rendere la loro esistenza un inferno come invece avevano sempre pensato.

Continuando a ripercorrere gli eventi della sera prima nella sua testa, il ragazzo svolse tutta la sua routine mattutina, e dopo una mezz’ora fu pronto per uscire. 

Nei giorni feriali, aveva preso l’abitudine di fare colazione in una piccola sala da tè a gestione familiare vicino al campo dove si allenava con i Grampus. Era un ambiente raccolto, con bassi tavolini di legno e morbidi cuscini, e la mattina presto era solitamente quasi vuoto, particolare che lo rendeva perfetto agli occhi del portiere. Quel giorno scelse di sedersi in fondo alla sala, accanto alla grande finestra. Era come se il suo corpo gli stesse dicendo che aveva bisogno che fosse l’energia del sole a portargli il ristoro che non era riuscito a trovare a sufficienza durante la notte.

“Wakashimazu-kun! Buongiorno, ti porto il solito?”

La cameriera, figlia dei proprietari, era una ragazza graziosa, che con dolcezza e perseveranza era riuscita ad aprirsi uno spiraglio nelle difese del portiere, tanto da essersi guadagnata il diritto di appellarlo in maniera informale e, ogni tanto, quando il lavoro glie lo permetteva, di sedersi al tavolo con lui a fare due chiacchiere.

“Sì, grazie, Fujii-san.”

La giovane tornò dopo pochi minuti con una tazza di tè verde e un piattino con due mochi alla marmellata di ciliegia. Si fermò a un paio di passi dal tavolo a osservare il ragazzo, che aveva da subito fatto colpo su di lei. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Con quei lineamenti delicati, i lunghi capelli color dell’ebano e il fisico alto e slanciato, era veramente bellissimo. In più, il locale era frequentato per la maggior parte da persone di mezza età, o addirittura da anziani, e non le capitava spesso di avere un coetaneo con cui scambiare due chiacchiere durante le ore di lavoro. Certo, riuscire a entrare un minimo in confidenza con lui non era stato facile, ma proprio per questo lo riteneva un risultato prezioso. Con lo scorrere dei mesi, la sciocca infatuazione che le era presa la prima volta che aveva posato lo sguardo su di lui era passata, ed era stata sostituita da un’incredibile voglia di entrare in sintonia con lui, di capire perché i suoi occhi grigi fossero sempre velati da quell’accenno di tristezza. Si riscosse da quei pensieri, e ringraziò che il giovane fosse troppo occupato a godersi il tepore del sole per aver notato come lo osservava: si era fatta l’idea che con un tipo così bastasse il minimo passo falso perché si richiudesse nel suo guscio, e voleva assolutamente evitare che ciò accadesse. Chiuse la distanza che la separava dal tavolino e poggiò con delicatezza la tazza e i dolci davanti a Ken, che si riscosse e la ringraziò con un sorriso e un cenno del capo. Kiyo decise che quella mattina non fosse il caso di trattenersi, il ragazzo sembrava troppo assorto nei suoi pensieri, e così gli rivolse un inchino accennato e tornò ad aiutare sua madre in cucina.

“Dal modo in cui sorridi, immagino sia arrivato il tuo avventore preferito.”

Per la signora Fujii la figlia era sempre stata un libro aperto.

“Se vuoi fermarti al suo tavolo a fare due chiacchiere, per me non è un problema, posso ancora cavarmela da sola qui.”

“No mamma, tranquilla. Oggi non mi sembra che sia giornata, non voglio essere invadente. È sempre così pensieroso…”

“Non è forse quello che ti incuriosisce di lui, bambina?”

“Sì, ma sento che se forzassi la mano, perderei tutti i progressi fatti in questi mesi. Chiamalo istinto femminile… riuscirò a capire quando sarà il momento giusto per forzare le sue ultime difese, vedrai.”

“Oh sì, non ho dubbi, mia cara. Non sei mai stata il tipo da arrenderti davanti a una sfida. A proposito di sfide, vieni a finire di montare questi albumi, che il mio povero polso da vecchia non riesce più a starci dietro!”

Ignaro di essere al centro delle chiacchiere di madre e figlia, Ken beveva il suo tè, che stava riuscendo nell’impresa di fargli passare il mal di testa, e coi pensieri continuava a tornare allo sguardo che Wakabayashi gli aveva rivolto per buona parte della loro cena condivisa: inizialmente aveva pensato fosse animosità, ma allora perché chiedergli se gli andasse di vedersi, qualche volta? Non riusciva proprio a sciogliere il mistero dietro a quegli occhi neri che gli erano rimasti incollati addosso per ore, dandogli un po’ di tregua solo quando Morisaki riusciva ad attirare la sua attenzione con una battuta o un aneddoto sui bei tempi andati. Perso in quella riflessione, non si rese conto del tempo che passava, e quando il suo sguardo si posò sullo schermo del cellulare, per poco non gli prese un colpo: all’inizio degli allenamenti mancavano meno di dieci minuti. In fretta, pagò e uscì: gli sarebbe toccato prendere la strada principale per andare al campo, e farlo anche con una certa fretta, se voleva arrivare in tempo. Gettò un’occhiata malinconica alla stradina laterale ombreggiata dagli alberi che percorreva di solito e si incamminò attraverso la calca del mattino, sentendo tutta la serenità che erano riusciti a infondergli il tè e la meditazione evaporare in fretta nel calore di fine agosto. 

Riuscì comunque ad arrivare al campo perfettamente in orario, e si unì ai suoi compagni di squadra che si erano radunati per ascoltare le indicazioni di mister Okada: la partita contro il Consadole Sapporo si stava avvicinando, e gli allenamenti sarebbero dunque stati adattati alle strategie di gioco degli avversari. Dopo un’oretta di riscaldamento ed esercizi a terra, fu il momento di una serie di partite brevi, durante le quali le composizioni delle squadre furono rimescolate spesso: con sua grande soddisfazione, Ken riuscì a mantenere la porta inviolata per tutta la mattina. La sensazione positiva fu però macchiata dagli sguardi che gli lanciarono i compagni, che sembravano quasi risentiti dalla sua bravura. Wakashimazu sapeva da dove derivasse quel sentimento: l’offerta della dirigenza del Nagoya Grampus gli era arrivata perché il precedente portiere, che era anche stato capitano della squadra per quasi un decennio, aveva dovuto ritirarsi in anticipo a causa di un brutto infortunio, e gli altri giocatori sembravano non volersi rassegare a questo evento. Non aiutava il fatto che avessero quasi tutti dai ventiquattro anni in su, e che quindi trovassero ancora più snervante il fatto che il portiere che aveva sostituito il loro leader fosse poco più che un liceale. Aggiungendo a questo il carattere schivo del giovane, il risultato non era dei più promettenti. In campo, durante le partite, erano riusciti a trovare una quadra che gli permettesse di giocare bene, ma il legame personale tra di loro faticava a crearsi. Ken si trovava spesso a rimpiangere i tempi della scuola, quando non solo faceva parte di un gruppo affiatato e compatto, ma ne era anche uno degli elementi chiave. Gli scappò un profondo sospiro: ma perché la vita continuava a metterlo in situazioni in cui c’era l’ombra di un portiere quasi mitico che gli aleggiava attorno, facendolo sentire in difetto?

Fu con questo pensiero in testa che concluse gli allenamenti. Sentì gli altri atleti fare programmi per pranzare tutti insieme, e non si sorprese quando l’invito non gli venne esteso. Rientrò a casa di pessimo umore, e senza nemmeno mangiare, malgrado lo stomaco brontolasse e il corpo gli chiedesse un rifornimento di energie, dopo gli sforzi della mattinata, andò a stendersi sul futon, nella speranza di riuscire a recuperare il sonno perduto, insieme a un briciolo di serenità mentale.

Lo svegliò qualche ora dopo la vibrazione del cellulare, che gli era rimasto in tasca nel momento in cui si era addormentato. Un sorriso genuino gli si disegnò sulle labbra quando vide la foto di Takeshi sullo schermo.

“Ehi, Sawada.”

“Ohi, buonasera. Che è ‘sto tono dall’oltretomba?”

“Mh, mi ero addormentato. Ieri sera ho fatto tardi.”

“Ah, sì, la cena con Wakabayashi. Il Capitano me l’aveva accennato.”

“Cos’è, voleva mandarti qui per sventare il disastro?”

Il sorriso sul volto del portiere si ampliò al pensiero della conversazione dai toni catastrofisti che dovevano aver avuto Hyuga e Sawada sull’argomento.

Dall’altro lato della linea, Takeshi scoppiò a ridere.

“Qualcosa del genere. Quando gli ho risposto che sei abbastanza grande per cavartela da solo, mi ha dato del disertore.”

“Sì, era giusto un pochino preoccupato. Sembra sempre dimenticarsi che è lui quello con problemi di gestione della rabbia, non io.”

“Lo sai che con noi gli piace fare la mamma chioccia. Fa tanto il burbero, ma sotto sotto è buono, ed esce di testa all’idea di essere lontano e di non potersi assicurare in prima persona del fatto che stiamo bene. Poi, per te ha sempre avuto un occhio di riguardo…”

Ken si trovò a dovergli dare ragione. Per quanto l’affetto che legava Kojiro al più giovane dei Toho Boys fosse più che sincero, il rapporto che aveva con lui era più intimo… la loro amicizia, negli anni, era arrivata a essere profonda quanto un legame di sangue. 

“Comunque, come vanno le cose lì? Con i tuoi compagni di squadra va meglio?”

“Purtroppo no…”

Ci fu qualche istante di silenzio.

“Ken, non voglio risultare ripetitivo, ma non puoi stare sempre da solo. Lo sai anche tu che ti fa male…”

“Takeshi, che vuoi che ti dica?! Lo sai che per me è difficile.”

Il tono gli uscì più brusco di quanto avrebbe voluto, e sentì distintamente il ragazzo dall’altro capo della cornetta trattenere il respiro.

“Scusami… è stata una giornata lunga. È che mi sento un po’ solo.”

“Oh, Ken, lo so. Purtroppo io sono super incasinato con la preparazione degli esami di ammissione per l’università, se no lo sai che salterei sul primo treno per Nagoya.”

“Non preoccuparti, tu. Pensa a studiare. Io me la caverò. Non posso stare sempre a contare su di te e sul Capitano per rimettere insieme i brandelli della mia salute mentale.”

Il tono del portiere cercò di convogliare una sicurezza che non sentiva affatto. Non voleva assolutamente che il suo pensiero fosse un peso per gli amici, avevano entrambi cose molto più importanti su cui concentrarsi.

“Comunque noi ci siamo, e questo lo sai. Ora devo andare, ma ti scrivo più tardi. Ok?”

“Okay, ci sentiamo dopo.”

Quando la chiamata si chiuse, Ken si alzò stiracchiandosi e andò in cucina a scaldare l’acqua per un tè. Sapeva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non riuscì a trovare la forza per imporsi di cucinare. Appoggiato al bancone della cucina, si perse a osservare la luce del tramonto che tingeva il mondo di rosso, e si chiese se sarebbe più riuscito a trovare dentro di sé quello stesso calore che ora vedeva brillare al di fuori della finestra. Sapeva che il primo passo per farlo sarebbe stato trovare dei nuovi amici lì a Nagoya, perché se avesse continuato a poter contare solo su Kojiro e Takeshi, sarebbe rimasto incastrato nel passato, il che a lungo andare sarebbe diventato deleterio, gli effetti se ne stavano già facendo sentire. Percorrendo quella linea di pensiero, gli venne in mente prima il volto sorridente di Kiyo Fujii, e poi l’espressione indecifrabile di Wakabayshi, e sospirò nel pensare che le strade per uscire da quell’isolamento autoimposto non fossero poi così difficili da scorgere. Quella sera però proprio non ce l’aveva la forza per cominciare a percorrerle. Sarebbe mai riuscito a trovarla?

 

***

 

La scritta Wakabayashi Motors campeggiava a grandi lettere rosse e nere sopra l’ingresso del complesso di capannoni nella zona industriale di Nagoya.

Genzo trasse un profondo respiro e si sistemò per l’ennesima volta il nodo della cravatta. Se avesse dovuto fare una lista dei posti in cui meno avrebbe voluto essere nell’universomondo, la sua posizione attuale sarebbe stata molto in alto. Forse giusto l’inferno si sarebbe trovato a competere per essere in cima alla classifica. Forse, eh.

Con un ultimo improperio incastrato tra i denti, il giovane fece il suo ingresso nella hall, una sala rettangolare con un bancone dal piano di acceso plexiglass rosso e divanetti e tavolini bassi lungo le pareti, intervallati da piante ornamentali di varie fogge. All’accoglienza era seduta una ragazza vestita di un elegante tailleur nero, con lo stemma della ditta ricamato sul bavero della giacca, che lo accolse con un sorriso.

“Buongiorno. Posso esserle utile?”

Ancora una volta, il portiere si trovò a dover resistere alla tentazione di girare i tacchi e andarsene – ‘fanculo al volere di suo padre – e di nuovo trasse un profondo respiro e si trattenne.

“Buongiorno. Wakabayashi Genzo, immagino di essere atteso.”

Nel rivolgersi alla receptionist, sfoderò il suo miglior sorriso, sperando che riuscisse a mascherare il suo scombussolamento interiore. Non sapeva se a vincere, nella battaglia che si stava svolgendo nelle sue viscere, fosse l’incazzatura o l’ansia, ma nessuna delle due sembrava intenzionata a cedere, al momento. Fortuna che era sempre stato bravo a nascondere le proprie emozioni. 

A sentire il suo nome, la ragazza sgranò gli occhi, iniziando a profondersi in una serie di inchini.

“Wakabayashi-sama, mi perdoni, non l’avevo riconosciuta. Venga, la accompagno di sopra, suo fratello la sta aspettando.”

L’umore di Genzo, che era in caduta libera da quando si era svegliato, se possibile peggiorò ancora. Era ovvio che il vecchiaccio avrebbe mandato uno dei due eredi modello a fargli da cane pastore, come aveva potuto non pensarci? Le porte dell’ascensore si aprirono con un sonoro ding e la ragazza, che non poteva essere più di due o tre anni più vecchia di lui, lo accompagnò fino a una delle sale riunioni, per poi accomiatarsi con un inchino. Genzo si sistemò la cravatta, fece un profondo respiro, e aprì la porta come se stesse scostando il tendone di un sipario, entrando ufficialmente nella pantomima che la sua famiglia aveva deciso di imporgli. La prima cosa che vide fu una figura di spalle, che scrutava fuori dalla finestra. 

“Prima regola: lascia tutta la tua strafottenza fuori da quella porta, perché qui non sei un cazzo di nessuno.”

La voce di Keiji era fredda, tagliente, e il portiere avrebbe giurato di averci sentito una traccia di divertimento.

Il fratello si girò a guardarlo, e sì, eccola, proprio lì, dipinta sul sorrisetto sarcastico che era un po’ il segno distintivo della famiglia.

“Il cognome di papà non servirà a farti avere un trattamento di favore. Me ne assicurerò io stesso.”

“Te la sei studiata, questa scena, eh? Cos’è, viene dal manuale “Mille modi di essere un fratello di merda”? O era “Come rendere la vita impossibile al prossimo e vivere felici”?”

“Pensavo che sul campo da calcio ti avessero insegnato almeno ad ascoltare le direttive, ma evidentemente invece è stata un’esperienza completamente inutile. Poco male, ti abituerai in fretta al mondo dei grandi, fratellino.”

L’ultima parola era ricoperta da un tale strato di cattiveria, che Genzo ebbe l’impressione di sentirla gocciolare per terra. Nel campo di battaglia del suo stomaco, la rabbia passò in netto vantaggio sull’ansia, e gli uscì in un rigurgito velenoso.

“Almeno io ho un talento. Se ne hai bisogno, ti presto un vocabolario per cercarne il significato.”

Keiji si irrigidì vistosamente, e gli rivolse uno sguardo carico di risentimento. Per un attimo ebbe l’impressione che volesse tirargli un pugno, ma poi la scintilla che aveva acceso le iridi scure si affievolì, e sulle labbra ritornò quell’odioso sorriso.

“Ne riparleremo tra un paio di settimane, bamboccio.”

Con queste parole, lo prese per un braccio e lo spinse fuori della sala riunioni. Varcata la soglia, sembrò che il mondo assumesse un’altra sfumatura. Tutta l’animosità sparì dal volto del più grande dei due fratelli, e anche Genzo adottò un atteggiamento più rilassato, almeno all’apparenza. Per quanto potessero scannarsi in privato, il fatto di comportarsi in modo rispettabile in pubblico ce l’avevano impresso nel DNA, come una sorta di imprinting. Il portiere ebbe un moto di disgusto verso se stesso al pensiero che parte degli insegnamenti della famiglia avesse attecchito anche su di lui.

Fecero il giro dell’azienda, e Keiji gli spiegò nel dettaglio tutto ciò di cui si occupava quella particolare sede: dai rapporti coi fornitori e coi clienti, alla parte più tecnica di progettazione. Visto da fuori, poteva sembrare un’insegnante attento e solerte, ma in realtà stava instillando nella sua esposizione quanta più pedanteria e quanto più disprezzo possibili, cercando di far sentire il fratello un idiota, e cercando di fare in modo che anche tutti i dipendenti dell’azienda si facessero quell’idea su di lui.

Il tour durò parecchie ore, e quando finirono l’ora di pranzo era passata da un pezzo.

“Io devo tornare a Tokyo, ho una riunione con papà e Hiro riguardo ad alcuni affari importanti. Ti lascio nelle mani sapienti di Nishimura-san: è il caporeparto per quanto riguarda i rapporti con le altre aziende del settore. Mi raccomando, fratellino.”

Di nuovo quel termine… avrebbe potuto sembrare una frase amorevole, ma l’unica immagine che suscitò a Genzo fu quella di una vasca piena di serpenti velenosi.

Quando suo fratello lasciò l’azienda, fu proprio il signor Nishimura ad avvicinarlo.

“Bene, giovanotto. Mettiamoci al lavoro.”

Il portiere si girò a guardarlo e fu sorpreso dal non trovare cattiveria nello sguardo dell’uomo, quanto piuttosto una profonda serietà, unita a un pizzico di qualcosa che il ragazzo non riuscì a definire.

 

***

 

La porta di casa si chiuse con un tonfo alle sue spalle, e Genzo scivolò a sedere sul divano senza nemmeno togliersi la giacca. Era esausto. L’immagine di se stesso davanti alle porte della ditta di famiglia gli sembrava risalire ad almeno un millennio prima, invece che a quella stessa mattina. La testa pulsava in modo atroce, e lo stomaco brontolò con veemenza, a ricordargli che ancora non aveva cenato. Dopo la partenza di Keiji, aveva passato il pomeriggio a familiarizzare con le varie aziende con cui collaboravano, cercando di imparare una serie di dati sulle forniture e le consegne che dopo un paio d’ore avevano cominciato a incrociarglisi davanti agli occhi, smettendo di avere alcun senso. Nishimura-san si era dimostrato un insegnante molto esigente, e non l’aveva lasciato tornare a casa finché non era stato in grado di fargli quantomeno un riassunto per macro-aree di tutto ciò di cui si occupava la sezione di Nagoya della Wakabayashi Motors, riuscendo ad azzeccare i nomi dei collaboratori e i dati sulle vendite senza esitare. Erano rimasti solo loro due in azienda, molto oltre l’orario di chiusura.

Quando finalmente l’uomo, scrutandolo da dietro le lenti degli occhiali tondi e da sopra i folti baffi grigi che lo facevano sembrare più vecchio dei suoi cinquantacinque anni, si era detto soddisfatto, il grande orologio a muro della hall segnava le nove e mezza di sera. Contando la mezz’ora di macchina per tornare a casa, il portiere calcolò che fossero passate più di quattordici ore da quando era uscito quella mattina.

Si guardò attorno nell’appartamento buio – non aveva avuto nemmeno l’energia di accendere la luce, prima che le sue gambe cedessero – e sentì un profondo senso di solitudine invaderlo. E dire che erano anni che viveva da solo… eppure ad Amburgo sapeva di avere sempre almeno un paio di buoni amici a un colpo di telefono di distanza. Lì, nell’immensità di quella città sconosciuta, in un paese per il quale sentiva un qualche senso di appartenenza solo quando indossava la maglia della Nazionale, non c’era nessuno che fosse pronto a portargli conforto, a dirgli che sì, certo, non c’erano problemi a incontrarsi per una birra anche con così poco preavviso. 

Sfilò il cellulare dalla tasca e lo schermo luminoso gli restituì la stessa risposta datagli tutte le sere intercorse tra la rimpatriata tra portieri e quel momento: Wakashimazu non si era fatto sentire. Forse avrebbe dovuto ingoiare l’orgoglio e scrivergli lui, pensò. Ma prima che potesse elaborare del tutto quell’idea, le palpebre si fecero troppo pesanti per essere tenute aperte e lui sprofondò in un sonno profondo popolato di incubi con la sembianza di Keiji.

 

 

Notine notose: Non posso scrivere sempre cose allegre, no? Ma... dal prossimo capitolo la storia cambia ritmo, quindi brace yourself.

Grazie mille per essere arrivati fin qui!

 

 

 

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Capitolo 6
*** ...una notte di fine estate ***


What you like

…una notte di fine estate

 

 

 

 

Come era inevitabile che fosse, l’afa di agosto alla fine cedette il passo al vento fresco delle prime settimane di settembre. La routine di Genzo si era stabilizzata in un modo che gli creava un rigurgito di disgusto. Alzati, va’ a lavoro, stai otto o nove ore a studiare dati e ad assistere Nishimura-san nei rapporti con clienti e fornitori, torna a casa, fatti una doccia e vai a dormire. Ripeti all’infinito. 

Il suo umore era in caduta libera, e scendere dal letto la mattina stava diventando sempre più faticoso. La sua vita sociale era pressappoco inesistente, un po’ per mancanza di tempo e un po’ perché lì non conosceva nessuno. Wakashimazu non si era fatto sentire, e il suo orgoglio gli aveva impedito di mettersi in contatto con lui, malgrado la sera del suo primo giorno di lavoro avesse quasi ceduto. I suoi amici, sparsi per la nazione, cercavano di essere presenti per quanto possibile, ma si rendeva conto anche lui che avessero i loro impegni e le loro vite, e che non poteva pensare che le mettessero in pausa per stargli appresso. Sdraiato nell’oscurità artificiale della sua stanza, con le imposte chiuse per impedire al sole di quella domenica mattina di irrompere nel suo malumore, scosse la testa. Conoscere gente non gli era mai venuto troppo difficile, ma in quel caso tutto il contesto proprio non aiutava: i colleghi lo tenevano un po’ a distanza, forse a causa di qualche voce messa in giro da suo fratello, o forse semplicemente perché era il figlio del capo e non si sentivano a loro agio a prendersi delle confidenze. L’unico con cui avesse creato un qualche rapporto era il suo responsabile, Michizane Nishimura, che lo aveva palesemente preso in simpatia, lasciandosi scivolare addosso i dissapori familiari dei Wakabayashi. Era stato un collaboratore della prima ora di Kitahachi, e dei battibecchi infantili dei suoi figli non poteva fregargliene di meno, questo l’aveva messo ben in chiaro con Genzo. Gli importava solo che il ragazzo facesse bene il suo lavoro, e che non si tirasse indietro davanti alle sfide. Al portiere ricordava vagamente Mikami, il che glie lo rendeva simpatico a pelle, malgrado a volte volesse ammazzarlo per la troppa solerzia con cui lo monitorava. Di certo però non poteva uscire per locali o andare a bere con un cinquantenne. Quindi, malgrado quella piccola conquista, si ritrovava punto e da capo. Per quanto non ne vedesse il motivo, si sforzò di alzarsi dal letto e di cominciare la giornata. Si trascinò fino in cucina, dando un’occhiata all’orologio a muro, che gli comunicò che era quasi mezzogiorno, e mise su la macchina per il caffè americano. Aprì il frigo per vedere se avesse qualcosa per cucinarsi una colazione domenicale di un certo rispetto, ma gli scaffali gli apparvero tristemente vuoti. Con il poco tempo che passava a casa, fare la spesa era diventato quasi superfluo. Per pranzo mangiava sempre in una tavola calda della zona industriale, e a cena spesso ordinava qualcosa, ché la forza sufficiente per mettersi ai fornelli non avrebbe saputo dove trovarla. Si rassegnò ad accontentarsi di una dose di caffeina, per poi uscire a pranzo. Almeno aveva trovato un motivo per mettere il naso fuori di casa. 

Lasciò che l’aroma pieno e il gusto amaro del caffè gli restituissero un po’ di pace interiore, e poi andò a infilarsi sotto la doccia. L’acqua calda che gli scorreva addosso gli sollevò la tensione dalle spalle, e l’ambiente caldo e umido del bagno gli conciliò un certo rilassamento fisico, se non anche mentale. Uscì dall’ampio box di vetro che si sentiva un po’ meglio, e si vestì con ritrovato vigore, deciso a godersi il tepore del giorno, in quella che avrebbe potuto essere una delle ultime domeniche di sole, visto che mancava appena qualche giorno all’inizio dell’autunno.

Il tempo per esplorare il quartiere in cui viveva era stato poco, e così decise di dedicare la giornata al fare una passeggiata, magari sgranocchiando qualcosa e lasciando per qualche ora che i problemi familiari e il lavoro restassero fuori dalla sua testa. Si infilò le cuffiette nelle orecchie e con le note di “Rebel Beat” dei Goo Goo Dolls ad accompagnarlo, si incamminò verso le sponde dell’Hori, il fiume che scorreva a pochi minuti da casa sua. Costeggiò il corso d’acqua per un bel pezzo, facendosi cullare dalla musica e cercando di concentrarsi sugli aspetti positivi della sua vita, che in quel momento forse non erano tantissimi, però c’erano. Per dirne uno, un paio di giorni prima era finalmente riuscito a farsi ricevere dal dottor Iwasaki, che dopo averlo visitato e averlo tempestato di domande sulla sua storia clinica, gli aveva comunicato che non escludeva che lui potesse tornare a giocare a livello professionale. Certo, gli aveva comunque prescritto altri quattro mesi di riposo assoluto, ma con l’inizio dell’anno nuovo avrebbe cominciato a seguirlo nel percorso di fisioterapia, e non era da escludere che potesse tornare in campo per la seconda metà del campionato di Bundesliga della stagione successiva. Se le previsioni si fossero rivelate veritiere, non vedeva l’ora di vedere che faccia avrebbero fatto i suoi parenti quando glie l’avrebbe comunicato. Sentiva già la delusione del padre salire, e la cosa gli dava una piacevole sensazione di vittoria. Soffermarsi su quel pensiero, unito al passeggiare accanto al fiume e guardare le nuvole bianche e soffici riflettersi sulla superficie dell’acqua, riuscì a fargli tornare il buon umore e, con esso, l’appetito. Con una rapida ricerca su Google Maps, scoprì che a qualche centinaio di metri da lì si trovava un parco all’interno del quale c’erano diversi chioschetti di street food e decise di dirigersi lì. Il Dotoku Park lo sorprese: era più grande di quanto si fosse aspettato, e in quella giornata dalla temperatura ancora quasi estiva, era pieno di gente. Poco male, pensò. Stare in mezzo a delle persone che non fossero quei musoni dei suoi colleghi gli avrebbe fatto bene. Mentre aspettava che la sua porzione di ikayaki fosse pronta, fu distratto da un clangore metallico. Nel cercarne la provenienza, il suo sguardo fu catturato da un piccolo skate park qualche metro più in là. C’erano diversi ragazzi che si allenavano a fare acrobazie con le tavole, ma la sua attenzione venne irrimediabilmente catturata da un fisico slanciato e sottile che troppe volte, negli ultimi cinque anni, aveva popolato le sue fantasie. Per un attimo, rimase senza fiato. 

Ken era… diverso. Non c’era traccia né della solita treccia ordinata con la quale domava i capelli corvini, né del sempiterno felpone oversize: l’unica parte del look a rimanere invariata erano i jeans scuri e stretti. Sopra a essi, il portiere dei Grampus indossava solo una canottiera nera che, già aderente di suo, gli si era ulteriormente appiccicata addosso grazie al sudore. Ciocche di capelli neri sfuggivano dalla crocchia alta e disordinata in cui li aveva raccolti, fluttuandogli attorno al collo e alle spalle ad ogni movimento, e facendo intuire l’effettiva lunghezza della capigliatura, che Genzo valutò che gli arrivasse poco sopra i fianchi. Gli occhi del giovane furono catturati da un dettaglio che era sicuro non ci fosse l’ultima volta che aveva visto il portiere a torso nudo, nella palestra di Parigi. Solo in quel momento fece caso al fatto che Wakashimazu non faceva mai la doccia negli spogliatoi, dopo le partite… si cambiava in tutta fretta e aspettava di essere in camera per lavarsi. Da sotto la stoffa della canotta, all’altezza delle spalle, spuntavano chiaramente delle linee di inchiostro, che andavano a comporre… un qualche tipo di albero? Dal poco che vedeva, Genzo non poteva esserne sicuro. Il ragazzo rimase a osservarlo per un tempo che gli parve infinito mentre tentava di fare un’evoluzione particolarmente complicata con lo skate, e si sentì invadere dalla stessa sensazione che l’aveva colto cinque anni prima, in quell’hotel distante migliaia di chilometri da lì: un desiderio così intenso che quasi lo spaventò. A differenza di quella volta, però, Ken si girò e lo vide. Nel momento in cui i loro occhi si incrociarono, l’atmosfera magica che aveva avvolto Genzo, facendogli sembrare che i suoni della folla fossero ovattati e distanti e che i minuti fossero dilatati all’infinito, si ruppe.

Gli sembrò quasi di sentire un crash in sottofondo.

Improvvisamente, tutto riprese a muoversi. Tutto, tranne Wakashimazu, che teneva gli occhi grigi e sgranati fissi su di lui, come se fosse sconvolto di vederlo lì, e come se si sentisse colto in flagrante per un qualche motivo che il giocatore dell’Amburgo non riuscì a immaginare. Anche nella ritrovata confusione, sentì qualcosa all’altezza dello stomaco tirarlo verso l’altro ragazzo. Pagò il proprietario del chiosco, che lo guardava perplesso dopo averlo visto bloccarsi in quella maniera, e si incamminò verso Wakashimazu, che nel frattempo sembrava essersi ripreso. Aveva recuperato la felpa, e la teneva in mano con aria nervosa, mentre col piede faceva scorrere avanti e indietro lo skateboard. 

“Ehi. Che coincidenza! Che ci fai qui?”

Queste furono le prime parole che uscirono dalla bocca di Genzo.

Ken abbassò gli occhi, e il suo interlocutore notò come le lunghe dita stringessero il cotone della felpa con un po’ troppa verve. 

“Abito nei paraggi… la domenica la passo spesso qui. Tu, piuttosto? Cosa ti porta da queste parti? Casa tua non è proprio dietro l’angolo.”

“Mi andava di fare due passi.”

Dopo questo primo scambio di convenevoli, durante il quale gli occhi di Wakashimazu si erano posati ovunque tranne che addosso a Genzo, calò un silenzio imbarazzato.

Wakabayashi si rimproverò interiormente: si conoscevano da anni, possibile che non riuscisse nemmeno a farci un poco di conversazione? Mentre questo pensiero gli attraversava la mente, con la coda dell’occhio colse un cartellone pubblicitario poco distante, e l’immagine che ci vide sopra gli diede l’illuminazione.

“Hai programmi per stasera? È uscito da poco al cinema il secondo capitolo di IT, non mi spiacerebbe andare a vederlo.”

Ken ritornò finalmente a guardarlo in faccia, con un’espressione a dir poco sbigottita sul viso.

“Mi stai chiedendo di venirci con te?”

Genzo scrollò le spalle.

“Ti sto dicendo che vorrei andarci, Wakashimazu, vedi tu cosa vuoi fare di questa informazione.”

“Io… sì… ecco, stavo programmando di vederlo anche io. Per stasera andrebbe bene.”

“Ottimo, allora ci vediamo per le otto? Cerco di capire qual è il posto più comodo in cui lo danno e ti mando un messaggio.”

“Va bene, a dopo. Ora devo tornare a casa a… a fare delle cose."

Dopo quest’ultima frase, Ken praticamente scappò, lo skate sotto il braccio e una linea di tensione che gli attraversava tutta la colonna vertebrale. Aveva davvero appena accettato di passare una serata con Wakabayashi? Doveva assolutamente fare qualcosa per rilassarsi, o non ci sarebbe arrivato vivo, all’ora dell’appuntamento. E poi, l’altro portiere continuava ad avere quella luce strana negli occhi quando lo guardava. Ma che diamine significava?

Genzo, dal canto suo, rimase a guardarlo allontanarsi, interrogandosi sul perché di quell’uscita di scena così repentina. Realizzò di non avere una vera idea di come fosse Wakashimazu caratterialmente… però forse non era così importante, pensò, mentre lo sguardo scivolava lascivo lungo la figura dell’altro che si allontanava. Chissà che la serata non desse frutti interessanti?

 

***

 

Il primo impulso di Ken, appena la porta di casa si chiuse alle sue spalle, fu quello di chiamare Kojiro, ma il dito gli si bloccò prima di portare a termine l’operazione, per due motivi. Per prima cosa, si rese conto che in Italia erano le cinque del mattino, e poi… l’ansia già se lo stava mangiando da dentro, e al pensiero di doversi giustificare con Hyuga perché aveva deciso di passare del tempo con il damerino, il nodo che sentiva alla bocca dello stomaco si accentuò. Nel rendersi conto che la persona che di solito era il suo porto sicuro in quel caso non avrebbe fatto che peggiorare la situazione, il panico aumentò ulteriormente. Sentendo una morsa cominciare a comprimergli i polmoni, scivolò a sedere a terra, lì nel mezzo del soggiorno, e assunse la posizione del loto. L’unica cosa che poteva fare per calmarsi, in quel momento, era cercare di meditare un po’, e andare alla ricerca di quell’immenso spazio interiore che sapeva di poter raggiungere se solo fosse riuscito a stabilizzare il respiro e a svuotare la mente da tutti i pensieri. Lottando contro il desiderio di appallottolarsi su se stesso, cominciò a rilassare la schiena, lasciando che le scapole scivolassero verso il basso e che le spalle si aprissero il più possibile, creando anche fisicamente più spazio perché i suoi polmoni potessero espandersi. Per controllare il ritmo del respiro, che continuava a sembrare dettato da un soffietto impazzito, si concentrò sulla durata di inspirazioni ed espirazioni e piano piano riuscì a domarlo, riportandolo su una frequenza normale. In sincrono con esso, si sistemò anche il battito del cuore. Quando fu certo che il panico fosse retrocesso, si concesse di analizzare cosa di preciso gli avesse causato quell’attacco.

Perché temeva in modo così intenso il passare del tempo con Wakabayashi? In primo luogo, perché non c’era nessuno che riuscisse ad accendere le sue insicurezze più che l’altro portiere. Il secondo motivo era strettamente collegato al primo: odiava farsi vedere debole dal rivale, e visto quanto l’altro lo facesse sentire insicuro, era molto probabile che i lati più fragili del suo carattere venissero fuori, nel passare insieme un periodo abbastanza lungo di tempo.

E allora cosa lo aveva spinto ad accettare quell’invito ad andare al cinema?

Ripensò alla cena che avevano fatto con Morisaki, e di nuovo gli sovvenne quanto fosse stata divertente. Forse, il SGGK era una persona così spiacevole solo nella sua testa. Forse si stava facendo tutte quelle paranoie per nulla. D’altronde, pensò, lui e l’altro portiere non si conoscevano davvero… e se in tutti quegli anni si fosse fatto un’idea sbagliata, dettata principalmente dall’astio che intercorreva tra Kojiro e Genzo, e dal fatto che la dirigenza della Nazionale si fosse dimostrata tanto ottusa da preferirgli il rivale senza nemmeno dargli una possibilità di lottare per la maglia da titolare? In fondo, non poteva certo addossare a Wakabayashi colpe non sue…

Quelle riflessioni riuscirono a tranquillizzarlo un poco. Dopo essersi alzato e aver messo a posto lo skate, decise di farsi una doccia. Con un po’ di fortuna, l’acqua calda avrebbe lavato via, oltre alle tracce di sudore, anche quelle del malumore.

Dedicò buona parte del pomeriggio a farsi qualche coccola: dopo essersi lavato, passò tutto il tempo necessario ad asciugare i lunghi capelli scuri, e quando ebbe finito li lasciò sciolti, cosa che faceva raramente anche in casa, e si godette il loro abbraccio setoso lungo tutta la colonna vertebrale. Poi si fece una tazza di tè, e si dedicò alla lettura di un buon libro, lasciando che le lancette dell’orologio scorressero via senza prestarci troppa attenzione. Abbandonò il mondo letterario in cui era sprofondato appena in tempo per potersi cambiare e raggiungere in orario il cinema che Wakabayashi gli aveva indicato per quella sera. Indossò un paio di jeans grigio antracite, e sopra uno dei suoi classici felponi larghi, questa volta in una profonda sfumatura di verde. Fece per cominciare a intrecciarsi i capelli ma, dopo un attimo di esitazione, decise invece di raccoglierli in una crocchia alta, più disciplinata di quella che in cui erano stati costretti quella mattina al parco, ma che comunque lasciava che un paio di ciocche gli si drappeggiassero morbide ai lati del viso.

Quando uscì di casa, si sentiva stranamente tranquillo.

 

***

 

Il film era scorso via in fretta, e li aveva lasciati entrambi carichi di adrenalina e con la voglia di andare in un posto tranquillo per scuotersi l’inquietudine di dosso. Considerato che dovevano ancora cenare, scelsero un chiosco sul lungo fiume e ordinarono due porzioni di yakisoba, sedendosi poi a uno dei tavolini disposti lungo l’argine. C’era una bella atmosfera: dal corpo principale della struttura partivano una moltitudine di fili di piccole lampadine, che emettevano una luce calda, tendente all’arancione, e che correvano sopra tutta la zona con le sedute, fino ad arrivare ad arrotolarsi attorno a dei pali piazzati nell’acqua bassa adiacente alla sponda. Il tutto creava un suggestivo gioco di riflessi, che si moltiplicavano tra le superfici metalliche dei tavoli e l’acqua scura dell’Hori. La filodiffusione della radio riempiva l’aria della musica ritmata di un qualche tormentone pop, che andava a mischiarsi con il frinire delle cicale. L’estate quell’anno stava esitando a lasciare il passo all’autunno e, per quanto la temperatura fosse leggermente scesa, l’atmosfera rimaneva quella leggera e spensierata tipica della stagione calda.

Per una manciata di minuti, tra i due regnò il silenzio. Appena usciti dal cinema, si erano lanciati in un commento del film appena visto, e la conversazione era scorsa fluida, ma esaurito quell’argomento erano ritornati sulle loro posizioni leggermente difensive.

Ken si finse incredibilmente impegnato a osservare il gioco di luci, ma non gli sfuggì come invece lo sguardo di Genzo non si spostasse dal suo viso. Dopo qualche minuto, si stufò di essere studiato come un qualche strano esperimento scientifico.

“Mi dici che hai da fissare? Cos’è, ho un rospo in testa?”

Genzo fu preso in contropiede dal commento, ma recuperò rapidamente la consueta sicurezza. Decise di iniziare a tastare il terreno della seduzione. Il suo scopo era ritrovarsi le cosce magre e atletiche dell’altro avvolte attorno ai fianchi nel minor tempo possibile, ed era ora di mettersi all’opera.

“Nah, è solo che sei carino.”

Il complimento, pronunciato nel tono più disinteressato del mondo, rimase per un istante sospeso in mezzo a loro. Quando Ken recepì il significato delle parole, arrossì violentemente.

“Ah, ehm… io… ecco… Grazie?”

Le parole inciamparono fuori dalle sue labbra in modo goffo, facendolo diventare ancora più rosso. Ma che problemi aveva Wakabayashi!? E perché quella strana luce che aveva avuto negli occhi già la sera della prima cena ora era ancora più accentuata?

“Perdonami, non volevo metterti in difficoltà. Raccontami qualcosa di te, ti va? Non so praticamente nulla, a parte per i meriti calcistici.”

Il cambio repentino di argomento lasciò il Karate Keeper spaesato. Tentò di riguadagnare la concentrazione: a qualsiasi gioco stesse giocando l’altro, non voleva lasciare il fianco scoperto. Una grossa parte di lui sospettava che il SGGK lo stesse solo prendendo in giro, che stesse giocando con le sue insicurezze. Decise che la strategia migliore fosse quella di rimanere sul vago.

“Pratico anche il karate, ma questo immagino tu lo sappia già. E poi… leggo, guardo serie TV, cose così. Nulla di troppo fuori dalla norma. Tu?”

“Circa lo stesso. Meno il karate, ovviamente. Cos’hai visto, di recente? A me è piaciuta un sacco The Umbrella Academy. È una produzione Netflix, non so se la conosci.”

Gli occhi di Ken si accesero. Eccolo lì, il Genzo che era riuscito a stupirlo e a farlo rilassare durante la cena con Morisaki.

“Certo, come no! La prima stagione l’ho divorata. Mio fratello dice che sono il ritratto spiccicato di Ben… dici che dovrei offendermi per essere stato paragonato a un morto?”

Wakabayashi gli rivolse il suo classico sorrisetto sarcastico, che tante volte gli aveva fatto venir voglia di strappargli la faccia a forza di schiaffi e che invece in quel momento trovò… affascinante? Si maledisse anche solo per aver partorito quel pensiero. Ma che gli stava succedendo?!

“Beh, in effetti una certa somiglianza c’è… saranno le felpe? O il pallore? Non sapevo che avessi un fratello.”

Lo sguardo piccato che si era formato negli occhi di Ken allo sfottò si addolcì al pensiero di Ryu.

“Sì, di tre anni più piccolo. Tu ne hai?”

“Due, di dieci e sette anni più grandi. Dalla tua espressione, al tuo devi volere molto bene. Dev’essere bello, avere dei fratelli e non volerli ammazzare.”

Il portiere dei Grampus, per l’ennesima volta nell’ultima manciata di minuti, rimase interdetto. Non si era aspettato che l’altro lo rendesse partecipe di un dettaglio così personale. La cosa gli generò un buffo calore da qualche parte tra la pancia e il petto, a cui cercò di non dare peso.

“Non andate d’accordo?”

A Genzo sfuggì una breve risata sarcastica.

“Dirla così è un eufemismo. Diciamo che loro sarebbero stati molto contenti di restare in due, senza l’aggiunta di un fratellino talentuoso a ricordargli quanto non abbiano concluso un cazzo nella vita, a parte leccare il culo a paparino per farsi dare uno stipendio.”

Ouch. Percepisco giusto una punta di astio.”

“Io… sì, scusa, lasciamo perdere. Non avrei dovuto prendere l’argomento.”

Ken sorrise. In quel momento, l’altro portiere gli fece quasi tenerezza. 

“E tu, chi ti senti tra i fratelli Hargreeves?”

Mentre Genzo rifletteva su quella domanda, Ken si perse a osservarlo. Guardò i lineamenti del viso, accentuati da quello strano gioco di luci e ombre generato dalle file di lampadine, come se fosse la prima volta che li vedeva davvero. Trovò un’infinita serietà nella linea dritta del naso e in quella decisa della mascella, e un’inaspettata dolcezza negli occhi scuri dalla mandorla non troppo stretta e nella bocca carnosa. Fu lì che lo sguardo del ragazzo si fermò alla fine, su quelle labbra che sembravano così morbide. Ebbe quasi la tentazione di allungare una mano per toccarle, e quando si riscosse, si rese conto di aver già cominciato il movimento, sollevando di qualche centimetro la mano dal tavolo. La riabbassò di scatto, portandosela in grembo. Doveva decisamente darsi una calmata.

Wakabayashi fortunatamente non si era accorto di nulla, e stava rispondendo alla sua domanda sulla serie.

“Cinque, direi. Cioè, dai, è oggettivamente il più cazzuto, chi altro potrei essere? E poi, abbiamo lo stesso senso dell’umorismo.”

Ed ecco di nuovo quel ghignetto, dentro il quale la dolcezza della bocca si perse completamente, sostituita da sicurezza condita da un pizzico di supponenza.

“Tiratela di meno, Wakabayashi, che se no si spezza.”

Il tono con cui Ken pronunciò quella frase però era più carico di divertimento che di fastidio, e il sorriso di Genzo si ampliò. Qualcuno stava cominciando a far cadere le sue difese, uh?

“Musica, invece? Cosa ascolti?”

“Principalmente hard rock e metal… anche se a volte mi perdo in qualche playlist di musica tradizionale, lo ammetto.”

“Però, Wakashimazu! Non ti facevo così hardcore. Il rock piace anche a me, ma in realtà ascolto un po’ di tutto… anche se ultimamente mi piace un sacco la musica elettronica.”

Ascolto un po’ di tutto era la classica frase che Ken si sarebbe aspettato da una persona superficiale come credeva fosse Wakabayashi. Eppure… dopo avergli visto passare sul volto delle emozioni così forti, mentre parlava dei fratelli, su quel punto cominciava a essere un po’ in dubbio. Sollevò lo sguardo, a incrociare gli occhi neri dell’altro, e sentì qualcosa che si smuoveva in quella parte di lui alla quale accedeva con la meditazione, quello spazio sconfinato da cui aveva l’impressione provenissero tutte le sensazioni positive. Arrossì un poco, non sapendo nemmeno lui bene il perché.

Genzo, nell’osservare gli occhi grigi dell’altro e il sangue che saliva a imporporargli il bel viso, si aprì in un sorriso vittorioso. Eccoli lì, i segni di cedimento che stava cercando. Wakashimazu, in quelle poche ore, gli si era rivelato come una persona incredibilmente introversa, ma ciò non faceva altro che rendere la caccia ancora più interessante. Decise che non avrebbe fatto la sua mossa quella sera: sarebbe stato come fare un movimento troppo brusco nelle vicinanze di un cerbiatto, facendolo scappare nei meandri della foresta e rovinando tutti i progressi. No, avrebbe aspettato ancora un paio di uscite… ma da quel che vedeva nelle iridi dell’altro, aveva già una discreta sicurezza nel pensare che sarebbe riuscito nel suo intento. Al solo pensiero di posare le mani su quel fisico sottile ed elegante gli venne caldo. E poi, non vedeva l’ora di poter ammirare per intero il tatuaggio che quella mattina era solo riuscito a scorgere.

La serata proseguì ancora per un poco tra altre chiacchiere di carattere generale, che però fecero egregiamente il loro dovere di rompighiaccio. Quando i due si salutarono, davanti al portone di casa di Ken, il ragazzo si stupì nel rendersi conto di quanto fosse stato calmo per tutta il tempo, a parte per quel micro-momento di panico quando Wakabayashi l’aveva definito carino. Con il pensiero tornò a quella battuta… chi sa da dove gli era venuta? Era sincero? Una piccola parte di lui sperò di sì, ma il resto del suo essere la silenziò rapidamente. Visto il buon esito della serata, però, avrebbe dovuto sicuramente raccontarla a Hyuga. Già gli si stava formando nei polmoni una risatina isterica all’idea di come avrebbe reagito la Tigre al pensiero di lui che fraternizzava col nemico. Però ehi!, gli avrebbe perdonato anche quella. Kojiro, quando si trattava di lui, era in grado di perdonare qualsiasi cosa. O almeno, così sperava…

 

 

Notine notose: Se per caso qualcuno di voi iniziasse ad avere istinti omicidi nei confronti di Genzo... non preoccupatevi, non siete i soli. 

Il Dotoku Park esiste davvero, a Nagoya, anche se dal satellite di Google ho scoperto essere un posto un po' meno accogliente di come l'ho descritto io, ops. Però sì, è lì.

Ah, purtroppo con questo ho finito i capitoli che avevo da parte... la vita vera ultimamente è stata un po' antipatica con me, e non ho avuto troppo la testa per scrivere. Cercherò di pubblicare comunque regolarmente giovedì prossimo, ma non sono certa al 100% di riuscirci. Scusatemi.

Grazie mille per essere arrivati fin qui!

 

 

 

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