Le formiche di Veronica.

di Elwoodblues
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La salita delle formiche. ***
Capitolo 2: *** Veronica fuori dai suoi pensieri. ***



Capitolo 1
*** La salita delle formiche. ***



I tuoi pensieri erano formichine rosse che venivano da grotte sconosciute. Non sapevi perché erano lì, né se mordendoti potevano procurarti qualche malattia o irritazione alla pelle.
Non sapevi nulla. Le formiche salivano sulle tue gambe nude, indisturbate; ti solleticavano, ti facevano paura.
Contraevi i piedi in quelle ballerine rosse che non ricordavi nemmeno di avere, ma che scegliesti per l’occasione. Non potevi fermarle e non potevi nemmeno scappare via urlando. Cercasti di rilassarti respirando a fondo e guardando in alto.
Le tue mani si cercarono sotto il tavolo e lentamente ti massaggiasti il pollice: così ti aveva detto di fare lo psicologo. Le formichine non se ne andarono, però, si paralizzarono soltanto; e a te, onestamente, stava bene così.
Facesti un respiro di sollievo e sorridesti alla donna davanti a te.
«Tutto bene…?» esitò. Era evidente che quella signora altezzosa fingeva di non ricordare il tuo nome. E il figlio, seduto accanto a te, ti strinse la mano.
«Veronica, mamma. Non prendi più le pillole?»
La donna rise per l’insolenza del figlio, ma guardava te. I suoi occhi nocciola- quasi gialli, ti sembrò- erano piantati su di te e cercavano disperatamente di sentirti cedere sotto quell’innegabile pressione.
«Andrea non sei simpatico. Il mio cervello funziona perfettamente. La nostra ospite potrebbe credere che io sia una vecchia rimbambita se parli così di me, no?»
Ti chiedesti cosa si aspettasse che le rispondessi: “Oh, sì. Sei una pazza manipolatrice, ma non perché ti prendi mille compresse per malattie autodiagnosticate, ma perché tratti tuo figlio come un doberman che curi ogni giorno solo per portarlo alla fiera canina” Ma non lo dicesti.
Le tue labbra dipinte di un rossetto femminile, ma pacato, si sciolsero in un timido sorriso. Fu un peccato che eri così concentrata a fare bella figura con tua suocera, perché se ti fossi guardata un attimo allo specchio avresti capito quanto eri bella, proprio in quel momento, proprio con quella vulnerabilità addosso.
«Non lo penserei mai- ti guardasti attorno cercando un motivo per cui i tuoi occhi erano all’insù quando cercasti di dissimulare quel piccolo attacco di panico di poco prima - osservavo questi quadri: sono davvero belli, complimenti»
Era sospettosa, credeva fossi sarcastica. Non ti rispose, continuò a gustare il suo pollo. Guardasti Andrea: era così tranquillo, così sicuro di sé. Abbassasti lo sguardo e notasti le tue mani sudate. Che cosa ci facevi lì?
«Allora, mio figlio mi ha detto che scrivi.»
Suo padre, Carlo, ti guardava a malapena mentre parlava con te. Non era contrario, come la moglie, ma sperava sempre che Andrea alla fine si mettesse con la figlia del suo socio in affari. I suoi sentimenti nei tuoi confronti erano nulli: sapeva che presto saresti stata sostituita, ma si sforzava di essere educato e convenevole con quel viso estraneo in casa.
«Non proprio… per adesso lavoro… sono una stagista in un giornale locale.»
Carlo alzò lo sguardo dal suo piatto e si lisciò la barba scura.
«Ah. E cosa fai esattamente?»
«Verifico le fonti.» Calò il silenzio.
Tua suocera sorrise, non si poté trattenere.
«Però un giorno vorrei diventare una scrittrice. Ho nel cassetto qualche idea per un romanzo… in fondo ho solo venticinque anni, quindi…»
La donna ti interruppe come se non esistessi nemmeno, come se fossi solo un brusio di sottofondo.
«Carlo, come si chiamava quel figlio del tuo collega… Edoardo? Quello che aveva pubblicato quei saggi…»
«Sì, Edoardo De Santis. Un caro ragazzo… credo che adesso insegni lettere moderne al “La Normale” di Pisa. Era logico andasse così, si è diplomato a sedici anni, pensate.»
«Sì, ecco. Ora ne ha ventidue, se non sbaglio- ti infilzò con lo sguardo- vedi Valeria, c’è speranza anche per te.»
Andrea ti strinse la mano sotto il tavolo
. «Si chiama Veronica; smettila.» Lei rise, sguaiatamente. Potevi vedere il suo orgoglio gonfiarsi attraverso quel palato spalancato.
«Tesoro! Spero che la tua… che lei non sia permalosa quanto te! Non ti sarai offesa perché ogni tanto dimentico i nomi.»
Ti sentisti pesante. Le formichine ormai erano fin dentro la tua biancheria e continuavano a salire, si intromettevano in ogni pertugio che trovano, in ogni poro aperto, in ogni ferita.
Sentivi il tepore salire sugli arti paralizzati dal sudore freddo. Salirono lunga la nuca e la ripetizione di questi pensieri ossessivi cercarono una via di uscita, volevano uscire, volevano andare via, liberarsi di un corpo ospite talmente insulso. Ti alzasti in fretta, non mi ricordo se ti scusasti.
Corresti in bagno e ti chiudesti la porta chiave. Un secondo dopo sapevi che ormai non potevi tornare indietro. I tuoi pensieri, le tue formiche, galleggiavano in quel wc di ceramica lussuosissimo, ormai liberi.
Ti sedesti accanto al water e con la bocca ancora incrostata di vomito sussurrasti ad un dio sconosciuto di fermarli, di fermarti. Non dovevi cedere alla tentazione. Ci siamo rialzate tante volte insieme, a fatica, ma tu hai sempre cercato ossessivamente ogni sasso per inciampare.
Ti chiesi di resistere: sì, in equilibrio, su una gamba sola, per non cadere di nuovo in quella voragine.
Fu tutto vano. Incominciasti a odiarti profondamente e, sinceramente, mi chiesi perché ti piacesse così tanto crogiolarti in questa autocommiserazione. Ti preoccupavi di fare questi giochetti per odiarti sempre di più mentre la tua vita ti scorreva davanti e continuava, senza un vero motivo, continuava senza uno scopo, almeno non uno che perseguivi davvero e io lo so perché: ci sono sempre ostacoli nei tuoi viaggi, ostacoli che ti crei tu.
Quando non ce la puoi fare perché fai così schifo, o perché non riesci ad uscire dal letto, ogni cosa ti sembra permessa.
Ti alzasti, ti lavasti il viso e usciti da quell’enorme casa senza salutare.
Eri sicura che con Andrea era finito tutto.
Era un caro ragazzo e forse ti voleva anche bene, ma la mela non cade mai lontano dall’albero.
Se gli stavi bene allora, sicuramente fra qualche anno sarebbe rinsavito e, tramutandosi in un’immagine più giovane e affascinante di Carlo Bonanni, ti avrebbe detto che la figlia del socio del padre era laureata ed era meglio di te.
Sapevi benissimo cosa saresti stata nei suoi ricordi: “Oh, sì, quella ragazza… Valeria? Quella che ho rimorchiato in quel locale… era carina e stupida. D’altronde ero giovane, cosa si cerca a quell’età?”
Lo sapevi. Non sapevi come sarebbe stato lui, nei tuoi ricordi, ma io lo so:“ Andrea Bonanni. Il mio primo amore. Colui che diede inizio e fine alla mia vita.”
So che lo hai amato e che grazie a lui sei anche cresciuta, ma ,detto fra di noi, avrei preferito non l’avessi mai incontrato.

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Capitolo 2
*** Veronica fuori dai suoi pensieri. ***



Mi rendo conto di non aver risparmiato i miei giudizi nel raccontarti e credo, che essendo parte di te, sia molto difficile non farlo. Difficile non vuol dire impossibile.
Quello stesso pomeriggio andasti a lavoro. Ti eri presa la giornata libera perché era importante per te. Adesso? Non più così tanto. Ricordo che pensasti: “E’ stata una piccola stella nella mia vita. Era chiaro che non poteva essere per sempre”.
Spesso dico di non apprezzarti, ma ammiro la facilità con cui riesci a prenderti in giro. Perché proprio mentre pensavi che non ti importasse, seduta su quella scomoda poltrona, guardavi il tuo cellulare sperando che squillasse.
Ti chiedesti perché eri così, cosi… strana. In ufficio nessuno ti considerava. Eri un’impiegata neolaureata e sottopagata che presto se ne sarebbe andata. Non sei sempre stata così.
Avevi compiuto ventitré anni. La tua vita ti sembrava migliore- non so se fosse la nostalgia o la giovinezza a renderla più lucente. Te ne eri andata dal tuo paesino appena diplomata e, contro ogni previsione, ti eri laureata in Lettere Moderne alla Sapienza; non perché fossi stupida o una nullafacente, ma lo sappiamo entrambi cosa pensasse tua madre di te.
È …era una donna molto intelligente, creativa e sicuramente non subordinata aglki uomini. Era forte. Non ha mai pianto, almeno, non che tu ricordi. Aveva una conoscenza smisurata dell’arte e ti ha insegnato a pescare quando eri ancora piccolina.
L’hai amata profondamente Asia, ma è come se non ci fosse chimica fra di voi. Lo sentivi quando ti guardava, in sala d’aspetto. Se avessi fatto attenzione, avresti udito i suoi pensieri: “Cosa ho sbagliato con lei? È colpa di Sergio. Sicuramente nella sua famiglia c’è qualcuno… come lei.”; sono grata che non ti sei mai sforzata di sentire, ci saresti rimasta male.
Non credeva molto in te. Prima di partire, nel parcheggio a pagamento dell’Aeroporto Borsellino, ti disse che ti doveva parlare. Sapevi che avevate quindici minuti, perché, trascorso quel tempo, tua madre avrebbe dovuto pagare il parcheggio e la conoscevi abbastanza per sapere che avrebbe cercato di farcela in quei pochi minuti.
Ti accarezzò il viso e fu strano, i suoi occhi continuavano a essere pieni di sospetto e non di amore.
«Veronica, è proprio… devi farlo per forza?- annuisti- Ma… al ferramenta abbiamo bisogno di una mano, se tu restassi, potrai venire a lavorare con me e quando me ne andrò ti lascerò…» Levasti la sua mano dal tuo viso e la tenesti stretta tra le tue.
«Mamma, ti chiamerò ogni giorno, però lo devo fare. Sono già immatricolata e poi…lo sai che è il mio sogno»
«Certo, però…- si fermò, ti guardò negli occhi. Poi abbassò lo sguardo e tolse la sua mano dalle tue – Non credo ce la farai, tesoro. Il mondo là fuori è brutto e tu sei così…- “Strana? Pazza?”-…fragile»
Eri delusa e sentisti un peso opprimente sul cuore. Le formichine si gelarono sulla tua pelle.
«Ciao Mamma.»
Partisti per Roma. Ti laureasti e facesti molte amicizie. Pensasti di esserti liberata di me, almeno per un po’, ma fu proprio quella sera che mi sentisti più vicina che mai.
Finalmente eri una dottoressa ed eri andata a festeggiare con delle tue colleghe. Bevevate cocktails fruttati e ridevate per ogni stupidaggine. Ti raccontarono storie piccanti sulle loro frequentazioni e ti chiesero come andava la tua vita sentimentale e rispondesti che non era nei tuoi progetti avere una relazione.
«Che stupidaggine, tutti vogliono essere amati. Dai, ci pensiamo noi a te»
Cercasti di dissuaderle, ma alla fine ti spinsero a ballare e dopo qualche ora, ti ritrovasti con Andrea. È un ragazzo bellissimo, tutt’ora: ha un sorriso affascinante, un corpo mozzafiato che quella sera percepivi sotto la sua camicia di lino mentre ballavate.
Ti piaceva, ma avevi paura. Ti scusasti e andasti in bagno. Le tue amiche, vedendoti così titubante, ti fecero bere ancora; forse hai anche preso qualcosa altro… non ricordo.
Temevi e l’ansia cresceva dentro di te, le formiche ormai erano su ogni centimetro del tuo corpo, ma forse fu per l’alcol o la droga, ma le trovasti confortevoli, come un mantello che ti faceva solletico.
Ti ritrovasti nella sua stanza. Aveva delle lenzuola bianchissime e sicuramente costosissime. Tra i fumi gli chiedesti se fosse uno studente, rise: le sembrava una casa da studente?
Era così bello e tu stavi così bene tra le sue mani che ti cercavano, che ti toccavano. Forse per questo fu ancora più orribile quando i suoi occhi scuri si spalancarono all’improvviso. Vedesti il suo corpo allontanarsi dal tuo.
«Cosa ti hanno fatto? Chi… cosa sono questi?»
Iniziasti a piangere e fu così umiliante. Per un momento credesti di cadere dentro una voragine che ti risucchiava non permettendoti di muovere. Il punto è che potevi muoverti, ma non sapevi che fare.
Corresti il bagno, continuavi a piangere. Con l’intimo ancora addosso ti guardasti allo specchio: eri piena di lividi, di tagli, di bruciature.
Il mondo attorno a te incominciò a girare e le formiche ti assalirono.
Quando Andrea entrò nel bagno ti trovò svenuta. Ti abbracciò e ti restò accanto. Quando ti svegliasti lo baciasti e gli chiedesti scusa.
Mi ha odiato tanto quella sera. Hai pensato che per colpa mia stavi perdendo un ragazzo bellissimo, gentile e dolce, la verità è che grazie a me quel ragazzo non si scordò di te e l’indomani si preoccupò di come stessi e ti chiamò invitandoti ad uscire.
Fu così strano ripensarci quando tutto era finito. Sentisti quel tempo lontano anni luce e la tua pelle si fece sempre più ispida e fredda, come carta vetrata.
Abbiamo avuto un rapporto complicato noi due, lo so. Dopo tutto quello che successe, mi preoccupai del tuo stato.
Non lo feci perché ti odio, ma sapevo ti avrebbe fatto stare bene.
Non potevi parlare con nessuno e non volevi nemmeno pensarci troppo. Avevi avuto un attacco di panico per conoscere i genitori del tuo fidanzato e gli avevi vomitato tutto il bagno per poi scappare senza salutare. Eri stata esagerata, no?
Chissà perché stavi così, perché eri così strana e fragile? Interrogativi a cui potevi rispondere, ma non volevi. Era così doloroso pensare al passato.
Volevi solo liberarti e io te lo permisi. Io voglio che tu stia bene.
Andasti nel bagno dell’ufficio. Fuori il chiacchiericcio, forse c’era un compleanno.
Ti chiudesti a chiave e apristi la finestra. Ti sedesti sul water e ti alzasti le maniche. Prendesti un pacco di sigarette e te ne accendesti una.
Nel momento in cui il mozzicone accesso toccò le tue braccia pallide sentisti una manciata di formiche che andava fiamme. Sorridesti e delle lacrime scesero sul tuo viso. Ti sembrava di rinascere, ogni volta. Non volevo solo negarti quel senso di pace.
Non giudicarmi, ho fatto tutto per te. Non potevo credere di sbagliare, ero certo lo volessi anche tu.
Ti dicesti, con le braccia piene di segni e sangue, in quel piccolo bagno del giornale locale: “Odio il fatto che mia madre abbia avuto ragione”.
Mh, forse. Forse saresti meglio. O forse saresti morta solo qualche hanno prima. Sono sicura che in nessuno dei due casi avresti avuto la forza di affrontare il tuo passato.

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