Bird Set Free

di NanaK
(/viewuser.php?uid=137868)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  Prologo
 
Anno 849
 
 
 
Gli allenamenti non erano più così duri, ma probabilmente era lei ad esserci più abituata. Erano cambiate molte cose dalla caduta del Wall Maria, ma soprattutto era cambiata lei. Sorrise con amarezza, ricordando con nostalgia quella sé stessa così innocente e felice, prima di scoprire la devastazione, l’orrore, la disperazione.
«Ohi, lo mangfi fquello?». Sasha le urlò nell’orecchio e sobbalzò di scatto.
«Sì e dovrei mangiare anche la tua parte come risarcimento per il mio timpano!» le rispose di rimando, tastandosi il padiglione auricolare. Vedendola sbiancare e coprire il suo piatto con la mano, si sporse in avanti, fingendo di volerglielo portar via sul serio. Sasha scattò indietro e e lo riversò inevitabilmente sul malcapitato Connie.
«Diamine Sasha! Ma sei matta, che cazzo st-».
Il ragazzo si bloccò vedendo gli occhi lucidi dell’amica diretti sul cibo ormai riverso sulla sua maglietta. Stava per consolarla, ma quando lesse la risolutezza nello sguardo di lei capì che invece sarebbe dovuto scappare Tallulah si godette con gusto la scena della sua amica che si lanciava avidamente su Connie e ne rise a piena voce.
«Farò finta di non aver visto che sei stata tu la causa di tutto, ma solo perché è la cosa più spassosa dell’ultima settimana» grugnì Ymir divertita, continuando ad osservare Tallulah che aveva preso delle molliche di pane e adesso mirava verso il caschetto biondo seduto poco più in là. Armin si voltò quasi spaventato, per poi alzare gli occhi al cielo vedendola far finta di nulla troppo palesemente.
«Cominci a diventare prevedibile» le urlò per farsi sentire e Tallulah rise. Un urlo indignato la costrinse a volgere lo sguardo sull’animata conversazione che si stava svolgendo di fronte a lei.  
«Ti ho chiesto solo di passarmi il sale, non di lanciarmelo addosso!»
«Non l’avevi mica specificato».
Jean sghignazzò davanti al bernoccolo rosso sulla fronte di Eren, il quale non perse tempo a stampargli un pugno nel suo stesso punto.
«Ohi, razza di cretino! Stavolta non la passi liscia…».
La voce di Jean si perse nella baraonda generale che era solita governare la mensa a quell’ora e Tallulah si ritrovò a sospirare un sorriso.
Adorava quei momenti. Adorava ridere con i suoi amici, far finta per un po’ che non vivessero nell’inferno ed era colei che più si impegnava per creare quelle pause. Le erano necessarie e sapeva che facevano bene anche a chi la circondava. Serviva per non dimenticarsi di loro stessi.
Che erano vivi e non solo gusci vuoti.
Che c’era anche altro per cui svegliarsi la mattina, a parte l’avere sulle spalle le speranze dell’umanità. Ancora non avevano terminato l’addestramento, ma ben presto avrebbero dovuto scegliere in quale armata arruolarsi e la pressione era alta. Per lei però, non c’era scelta. C’era un dovere.
Mandò giù l’ultimo boccone e si stiracchiò soddisfatta, sentendo il formicolio familiare dei muscoli doloranti. Aveva bisogno di uscire, erano passate quasi due settimane dall’ultima volta.
«Ragazzi, io vi abbandono. Crollerò non appena toccato il materasso».
Gli altri la guardarono con un sorriso di comprensione, qualcuno si alzò a sua volta probabilmente per seguirla.
«Buonanotte Tallulah».
Le dispiaceva mentire così ai suoi compagni, ma non poteva destare sospetti, né voleva coinvolgere gli altri in qualcosa di così personale. Questo era quello che si ripeteva, ma la verità era che temeva il loro disprezzo.
Chiuse la pesante porta di legno dietro di sé e si lasciò alle spalle il chiacchiericcio caldo di poco prima. Percorse il corridoio semibuio e salì la scalinata che l’avrebbe portata ai dormitori, sperando che anche Sasha e Mina stessero morendo di sonno e si sbrigassero a salire ed addormentarsi. Era sempre difficile non cedere al sonno mentre aspettava e tentava qualsiasi cosa potesse tenerle la mente occupata. Quando finalmente sentì il disordinato russare dell’amica e il silenzio pesante della notte scalzò via le coperte e si infilò silenziosamente dei pantaloni e una casacca pesante. In realtà, nessuno badava molto a loro cadetti, non c’era una vera e propria sorveglianza da eludere. Erano tutti troppo stanchi e avevano mille altre preoccupazioni che fare da balia a dei ragazzini a tutte le ore. Era così sovrappensiero che si rese conto di essere fuori solo quando l’aria fredda della notte le pizzicò le guance. Le piaceva troppo il cielo stellato, forse più di quello azzurro del giorno. Si incamminò lungo la via ormai familiare affrettandosi e rallentando solo quando fu vicina alla taverna. Entrò con la sicurezza di un cliente abituale e l’uomo dietro il bancone le fece un cenno di saluto.
«Ciao Earl. Sembri sfinito»
«Senti chi parla. Non ti aspettavo in realtà»
«Certo, perché tu speri sempre di non vedermi più» ridacchiò, sistemandosi su uno sgabello vicino a lui.
«Così mi fai sembrare una persona terribile».
Earl le versò del liquido chiaro in un bicchiere e glielo porse. Tallulah lo prese e lo portò alle labbra mentre scrutava l’ambiente. Poi fece una smorfia.
«Earl, questo è succo d'uva» borbottò spingendo via il bicchier.e «Dammi del vino ambrato, dai»
«Stasera non ti verso niente»
«Lo dici tutte le volte. Dai, ti prego, ci andrò piano».
Aveva conosciuto Earl per la prima volta un anno prima, quando si era imbattuta per caso nella puzza di fumo e nella baraonda soffusa che sembrava provenire dall’interno della taverna. Il proprietario era un uomo sulla cinquantina un po' rozzo, ma era buono e finché non facevi danni nel suo locale eri nelle sue grazie. Questi inizialmente aveva guardato indeciso quella figurina sottile che gli chiedeva dell’ambrato. Inizialmente l’aveva servita senza una parola, finché avesse pagato poteva fare quel che gli pareva. Poi, avevano cominciato a parlare, lei gli aveva fatto alcune domande personali ed era finito in un marasma di ricordi che si rese conto di non veder l’ora di raccontare. Tallulah si beveva la sua storia goccia a goccia, ascoltandolo come se le importasse davvero sapere che persona fosse. Earl di occhi così avidi di vita ne aveva visti pochi e si chiedeva continuamente cosa la spingesse ad andare in quel covo triste pieno di persone tristi: di sé aveva solo detto che i suoi nonni facevano il vino e che il suo le ricordava tanto il loro. Forse era per quello che alla fine cedeva ogni volta nel riempirle il calice.
Per Tallulah quell’atmosfera era del tutto nuova: le donne che sfilavano tra i tavoli sussurrando oscenità, il lento strepitio di una chitarra, la luce soffusa delle candele. Aveva sempre osservato tutto da quello sgabello lì al bancone, assimilando ogni dettaglio, ma senza realmente prendere parte alla scena. Era quasi un fantasma sullo sfondo.
«Allora?» gli domandò nuovamente con occhi bisognosi. Earl sospirò e le riempì un altro bicchiere. Poi andò a servire degli uomini appena arrivati e la lasciò ai suoi pensieri.
Ad un certo punto si era sporta sul legno vecchio e si era versata da bere da sola, approfittando della distrazione di Earl e sorridendo sotto i baffi. La testa aveva preso a girarle, dandole quella sensazione di bambagia che le piaceva così tanto. Sembrava che tutti i problemi perdessero di significato e che la vita era facile e leggera.
Non era passato molto tempo quando, sentendo il brusio diminuire leggermente, si lanciò un’occhiata alle spalle e per poco non le venne un colpo. Era appena entrato Erwin Smith, Comandante dell’Armata ricognitiva, suo Comandante, almeno di lì a qualche mese. Non si sarebbe mai aspettata di vedere un uomo simile in quel posto. Con improvvisa urgenza fece sfilare gli occhi su chi lo accompagnava: un uomo che non conosceva, pelato e con ispidi baffi grigi, gli stava indicando un tavolo libero e quando si spostò in avanti scoprì un’altra figura più bassa.
Si voltò di scatto e diede nuovamente loro le spalle, con il cuore in tumulto.
Il soldato più forte dell’umanità.
Si scolò gli ultimi sorsi in una volta, all’improvviso aveva il forte impulso di scappare da lì. Con tutta la calma che riuscì a dimostrare scivolò giù e camminò senza voltarsi indietro, senza nemmeno salutare le cameriere o Earl, dimentica di ogni cosa la circondasse. Si fermò solo quando fu fuori, l’aria le raffreddò la pelle bollente, ma non riuscì a impedire che le lacrime scivolassero sulle guance. Si appiattì su un muro e scivolò giù, la testa rivolta verso l’alto, mentre si lasciava finalmente andare.
Cercava di non piangere mai se c’era qualcuno che poteva vederla. Nel fiato caldo che si disperdeva a pochi millimetri dal suo viso quasi rivedeva le colonne di fumo che anni prima avevano cambiato la sua vita.
Avrebbe voluto disperdersi anche lei.
«Ma guarda che abbiamo trovato qui».
Una voce roca alla sua sinistra ruppe la quiete di cristallo che regnava e Tallulah sentì delle dita ruvide prenderle il viso. Aveva gli occhi appannati dal pianto e la testa annebbiata, troppo annebbiata. Non seppe come, ma si ritrovò con la faccia schiacciata contro il cemento, mentre un corpo le si imprimeva addosso con forza. Tentò di divincolarsi dalla stretta che le arpionava il capo e le braccia, ma le mani erano tante, così tante e le sue spinte troppo deboli. Provò a gridare, scoprendo con orrore che le usciva solo un filo di voce. Non c’era modo di scappare. Continuò a piangere e non sapeva più per che cosa, se per il disgusto confuso che la stava assalendo, se per l’ultimo brandello di innocenza che le stava per essere portato via, se per i suoi nonni, se per quel mondo in cui erano costretti a vivere. Un tonfo sordo le arrivò alle orecchie e immediatamente dopo non c’era nessun peso su di lei. Senza più appigli le gambe le cedettero, ma riuscì a frenare la caduta con i palmi. Qualcosa le risalì lo stomaco e fece appena in tempo a sporgersi a sinistra prima che un conato le fece riversare la cena sull’asfalto, proprio mentre dietro di lei risuonarono bestemmie soffocate e colpi sbattuti. Non mise a fuoco i suoni, troppo concentrata in quella sensazione disgustosa, il risucchio impellente dell’aria nei polmoni era tanto forte da star male. Respirò a fondo più e più volte e sentì i pensieri rischiararsi lentamente. Fu in quel momento che si rese conto delle dita che le stavano tenendo i capelli e la fronte. Sobbalzò spaventata temendo un nuovo assalto e d’istinto sferrò un pugno verso l’alto, alla cieca.
«Stai ferma, mocciosa». Venne bloccata senza fatica e solo a quel punto riuscì a scorgere chi la stava tirando su dalle braccia.
Levi la osservò con lieve disgusto, per fortuna non gli aveva vomitato addosso. Riuscì a metterla in piedi, ma a quel punto lei scacciò via le sue mani come se l’avessero scottata e si coprì la bocca con la manica.
«Faccio da sola».
Lo vide alzare un sopracciglio con evidente scetticismo.
«Non mi pare che te la stessi cavando un granché».
Una fitta le pulsò nelle tempie e dovette chiudere gli occhi per evitare di vomitare ancora.
«Dove sono quei...» pronunciò a fatica, continuando a tenere gli occhi chiusi.
«Andati» rispose, senza farle capire bene dove o come. Era chiaro che l’avesse salvata. Tallulah riaprì gli occhi e lo guardò, da vicino, per la prima volta. Non aveva mai notato il taglio flessuoso degli occhi, curvato verso l’alto. Sarebbero apparsi addirittura morbidi se non fosse stato per la linea dura delle sopracciglia e le labbra stirate e dritte. Suo malgrado mormorò un «Grazie» appena accennato. Stava per voltarsi e andarsene con il suo passo malfermo, quando Levi le prese un polso e se lo mise sulle spalle, circondandole la vita con il braccio destro.
«Ehi! Lasciami stare!»
«Stai buona o ti lascio nella tua pozza di vomito»
«Non sai nemmeno dove abito» biascicò sempre meno convincente.
«Ti porto in un posto sicuro»
«No, devo tornare a... casa»
«Dimmi dove portarti allora»
«Il Capitano Levi ha davvero così tanto tempo da perdere?» tentò ancora, stizzita dal fatto che stesse per cedere a quel tono esigente.
«Ti avviso che quello che sto per perdere è la pazienza».
Levi non sembrò minimamente toccato dal fatto di essere famoso.
Tallulah non riuscì a odiarlo.
Di base, non era portata a odiare nessuno, ma per moltissimo tempo aveva tentato di dare la colpa a qualcuno per ciò che era accaduto.
«Dov’eravate?» gli chiese stancamente, senza riuscire a trattenersi. Levi la guardò, non capendo se fosse ancora ubriaca, ma a parte il viso mortalmente pallido, sembrava stare meglio.
«Di che parli?»
«Quattro anni fa, dove eravate? Perché l’intera legione era assente?».
Le vide il labbro inferiore tremare e capì. Era una sopravvissuta.
«In missione».
La sentì emettere un sospiro.
«Sono tra i cadetti di quest’anno, mi diplomerò a breve»
«Non ti ho chiesto di raccontarmi la tua vita» mormorò e prese a camminare, conscio della direzione da prendere. Forse Tallulah non aveva neanche sentito quella risposta, perché aveva poggiato la testa sulla sua spalla, sfinita. Levi rafforzò la presa per sorreggerla di più. Era leggera e non gli pesò molto arrivare fino al dormitorio dei cadetti. Quando si fermarono fece scivolare via quel braccio dalle sue spalle e forse ad entrambi dispiacque perdere quel contatto.
«Non mi sembri adatta» le disse d’istinto. Tallulah alzò gli occhi e si fissarono per un breve momento.
«Nessuno lo è» rispose lei e a Levi piacque il modo in cui aveva capito al volo cosa intendesse. Poi vide le sue labbra quasi bianche stirarsi in un sorriso.
«Grazie».
«Lo hai già detto. Adesso vai a dormire».
Tallulah lo fissò darle le spalle e sentì qualcosa smuoversi.
«Levi» lo chiamò, senza sapere bene il perché.
Lui si fermò in attesa che continuasse, chiedendosi se avrebbe dovuto irritarsi per la naturalezza con cui l’aveva chiamato.
«Vorrei rivederti».
Levi contrasse le sopracciglia e tornò a camminare, sentendo poi il pesante portone da cui si allontanava chiudersi dietro di lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Capitolo primo
 
But there's a scream inside that we all try to hide
We hold on so tight, we cannot deny
Eats us alive, oh it eats us alive
 
 
Sembrava di respirare lava bollente.
L’aria bruciava in gola, mentre l’inferno era disceso in Terra. Di nuovo.
Si stava ripetendo, tutto stava ricominciando da capo ed era questa l’unica frase che si ripeteva continuamente nella testa. Pensava di essere pronta, più pronta di altri.
Pensava di poter gestire meglio quella situazione, avendola già sperimentata.
La verità è che non ci si può abituare all’ultimo sguardo di panico disperato dei tuoi compagni prima che scompaiano giù per la gola di un mostro. I giganti non mangiavano per fame, anzi aveva l’impressione che si divertissero. Era crudele e la faceva incazzare tremendamente, ma non era riuscita a salvare nessuno. Sapeva di non essere abbastanza brava, non aveva le capacità di Mikasa, né l’intuizione di Sasha o la folle determinazione di Eren. Men che meno l’intelligenza di Armin.
Era stupita di essere ancora viva.
In quel momento scorse proprio Armin con Mikasa tra le braccia schiantarsi su un tetto ed un grosso peso le si tolse dal petto.
«Ragazzi! Grazie a Dio siete vivi». Tallulah si precipitò da loro e posò una mano sulla spalla dell’amico.
«È bello vederti» le disse con gli occhi lucidi. «M-ma Eren è.. e tutta la mia squadra...». Non ci fu bisogno che finisse la frase e Tallulah si portò una mano alla bocca, sentendo una morsa al cuore. Si voltò istantaneamente verso Mikasa, ma trasalì nel guardarle gli occhi, totalmente vuoti. Si piantò le unghie nei palmi per evitare di piangere, sapeva che non ne avevano il tempo.
Un istante dopo Connie li raggiunse.
«Tutto bene qui?
«Sì! Dobbiamo subito sgombrare!»
«Merda, ce ne sono due da 15 metri».
L’attenzione di tutti fu catturata dai due titani uno di fronte all’altro.
L’urlo di quello più imponente fece tremare l’aria, ma non era rivolto a loro. I tre ragazzi assistettero sbigottiti a quella scena mai vista prima: un gigante che combatteva un altro della sua stessa specie fino a dargli il colpo di grazia. Tallulah sperò che si uccidessero a vicenda; se non fosse stato per Connie che insisteva nel levare le tende, gli altri tre sarebbero probabilmente rimasti ad osservare, ipnotizzati.
Fu proprio in quel momento che si resero conto di un problema ben più grave: Mikasa aveva esaurito il gas.
«E adesso come facciamo senza di lei?!»
«C’è da chiedere?». Armin si chinò immediatamente e cominciò a sostituire le bombole «Nelle mie ce n’è ancora un pochino».
Tallulah scattò in avanti con orrore e bloccò il suo braccio «Non se ne parla. Non possiamo lasciarti qui»
«Non abbiamo altra scelta!»
«Non esiste, Armin!» rispose con forza. Perderlo non era assolutamente un’opzione. «Abbiamo bisogno di te. Trova un modo per tirarci fuori da questa merda. Tutti insieme».
Lo fissò negli occhi e mollò la presa.
«Non c’è tempo per pensare, diamine».
Connie si intromise e cominciò a trascinare il biondino dietro di sé. Mikasa e Tallulah si scambiarono uno sguardo prima di seguirli: sapevano che sarebbe stato difficile uscirne vivi, ma valeva la pena combattere per tutti loro.
«Un momento! Ascoltate! Ho un’idea da proporvi».
 
Rischiare la vita.
Unirsi al corpo di ricerca comportava questo.
Tallulah amava la vita ed il vuoto della morte la spaventava più di qualsiasi altra cosa. Eppure, l’aver sperimentato la perdita di ciò che più amava le aveva stretto il cuore in una morsa: rischiare ogni giorno la sua vita era l’unica cosa che le alleggeriva l’animo. Combattere affinché altri non sentissero ciò che lei aveva provato e tentare di pagare il suo debito. Gli altri avevano pensieri simili?
Il sudore le imperlava la fronte corrugata mentre ascoltava la proposta del suo amico: si trattava di mettere in gioco tutto basandosi sulla teoria di un singolo. Rischioso, ma se quel singolo era Armin non aveva dubbi. Si lanciò in avanti subito dopo Mikasa, mirando ad un titano dal volto bitorzoluto che camminava con un sorriso inquietante in volto. Schivò con un salto l’enorme mano che si avvicinava pericolosamente e tornando giù conficcò la sua lama sul dorso della stessa. Era lento. Aggiustò il dispositivo e cambiò direzione, spostandosi alle spalle della creatura. Era totalmente concentrata sul punto in cui avrebbe dato il colpo di grazia e fu per questo che non vide che era stata adocchiata da qualcun altro alle sue spalle. Venne tirata bruscamente all’indietro e gridò di sorpresa. Il cuore le batteva a mille per l’adrenalina. La bestia la sollevò all’altezza del suo viso tramite uno dei suoi cavi uncinati e per la prima volta nella sua vita si trovò faccia a faccia con la sua fine. Il panico cominciò ad offuscarle i pensieri, nonostante lo stesse combattendo con tutte le sue forze. Glielo avevano ripetuto fino alla nausea che si doveva mantenere la lucidità a tutti i costi, fino all’ultimo, perché nel momento in cui la mente cede sei già morto.
Fa’ qualcosa. Muoviti.
Alzati.
Le costò moltissima fatica alzare il braccio che impugnava la lama in acciaio senza mettersi a urlare davanti quella bocca spalancata. Stava per tagliare quel cavo, anche se avrebbe significato danneggiare l’attrezzatura, quando un pugno esterno fracassò il cranio di quel gigante. Poté sentire il crack della mascella e riuscì finalmente a recidere il cavo giusto un istante prima di essere trascinata nella precipitosa caduta di quell’enorme corpo. Cadde malamente su delle tegole rosse e tossì tra la polvere, cercando di riprendere quanto più fiato possibile; poi sollevò lo sguardo e comprese. Il titano anomalo le aveva salvato la vita e sorrise, sussurrando un aveva ragione.
Il piano di Armin stava davvero funzionando.
«Stai bene?». Mikasa scese in picchiata e le diede una mano per aiutarla a rialzarsi.
«Sono finita» rispose, sollevando il suo dispositivo rovinato.
«Hai fatto quello che dovevi per non morire»
«Non riuscirò arrivare al Quartier generale in questo stato. Andate avanti, troverò un modo».
Mikasa non arretrò di un passo «Tutti insieme. Lo hai detto tu».
Tallulah la fissò negli occhi e non trovò traccia di ripensamenti, solo vuoto.
«Se ne usciremo vive ricordami di offrirti da bere».
 
Qualche ora dopo erano effettivamente ancora vive: erano riusciti ad arrivare al quartier generale e a rifornirsi di gas. Vedere Jean, Sasha, Marco e gli altri vivi alleggerì un poco il peso di chi avevano perso. Le grida di giubilo echeggiarono nei sotterranei e fu con un sospiro di sollievo che Tallulah schizzò fuori e inspirò l’aria a pieni polmoni: aveva temuto di non uscire più da quelle mura polverose e buie. Adocchiò il suo amico su un tetto vicino e corse da lui, abbracciandolo da dietro.
«Sei meraviglioso, ci hai sal-».
Dovette interrompersi davanti alla macabra scena che loro malgrado i suoi amici stavano guardando. Il gigante anomalo giaceva immobile alla mercé dei suoi simili, intenti a nutrirsi di lui.
«Da quando si mangiano tra di loro?».
Sui volti di tutti era riflesso lo stesso stupore inorridito.
Nessuno avrebbe mai immaginato che dopo qualche minuto Eren sarebbe emerso dal corpo tumefatto di quel titano.
Non Mikasa, la quale non riusciva a staccarsi da lui e piangeva di un pianto straziante. Aveva creduto di aver perso una parte di sé.
Di certo non Armin, che lo aveva visto morire con i suoi occhi e adesso stringeva quella mano che credeva fosse stata staccata dal suo corpo.
Men che meno Jean, il quale si guardava attorno rendendosi conto che tutta la battaglia devastante era stata opera di quel ragazzino troppo testardo.
Tallulah non osò avvicinarsi a quella scena troppo intima, ma nemmeno riusciva ad allontanarsene. Si accorse di star piangendo solo quando realizzò che era stato Eren a salvarle la vita.
 
«Con tutto il rispetto Capitano Woermann, signore, comprendo l’ordine al segreto per evitare il panico generale, ma non ho intenzione di evacuare l’area».
Fissò decisa il volto contratto del Capitano: Eren era ancora incosciente e giaceva tra le braccia di Armin qualche metro più in là. Li separavano decine di soldati che probabilmente stavano preparando tutti i cannoni disponibili nel distretto per puntarli su di lui. Percepiva una tensione che non vi era mai stata e pensandoci su poteva essere capita; non avevano mai sospettato che il nemico potesse essere uno di loro. Ma a Tallulah in quel momento non importava nulla del perché, del come Eren potesse essersi trasformato in gigante. L’unica verità che contava era che non era un pericolo per loro. Aveva abbattuto moltissimi giganti e salvato molte vite. La sua.
«Non osare contestare il mio ordine cadetto. Andatevene immediatamente o morirete con loro» alzò la voce l’uomo ed indicò il punto in cui Mikasa era in piedi davanti ai suoi amici.
«Capitano, deve scusare l’insolenza di Lee, signore, è ancora sconvolta >.
Jean fece un passo avanti proprio nel momento in cui Tallulah mosse i piedi verso Eren. Si sarebbe messa a correre e avrebbe affiancato i suoi amici.
Si trattava di seguire ciò che riteneva giusto.
Peccato che Jean riuscì ad afferrarle la giacca e riportarla indietro.
«Ci ritiriamo signore!».
«NO! Cazzo, Jean! Lasciami!».
Si divincolò con forza e gli sarebbe sfuggita, se solo non si fosse messo in mezzo Reiner.
«Abbiamo perso abbastanza compagni oggi» esclamò quest’ultimo con voce grave.
«Eren è innocente!» esclamò rivolgendosi al Capitano in un ultimo tentativo, prima che Reiner se la caricasse in spalla; incurante degli insulti che gli venivano lanciati, egli tenne la presa ben salda fino a che non furono abbastanza lontani.
Tallulah era fuori di sé: si sentiva umiliata e impotente.
«Chi vi ha chiesto di farlo?! Ho il diritto di scegliere da che parte stare!».
Jean la guardava scuro in volto «Odio i cretini che fanno di tutto per farsi ammazzare»
Stava per replicare con veemenza, ma le parole di Reiner la ferirono di più.
«Semplicemente non saresti stata di nessun aiuto lì. Eren è in ottime mani».
Era ciò che in tutti quegli anni aveva sempre pensato: lei che differenza poteva fare?
La differenza è nel cuore.
Quel pensiero risuonò nella sua mente con la voce di chi lo aveva pronunciato. Stava quasi per dimenticare.
Soffocò la rabbia frustrante che le scorreva nelle vene e tentò di calmarsi.
«Nessuno ha chiesto la tua analisi della situazione, Reiner. Per quanto vi spacciate come tali non siete degli eroi. Solo dei vigliacchi».
Scacciò malamente la mano di Jean che ancora la teneva e si appoggiò ad un muro, rinchiudendosi in un muto silenzio. Intorno, tutti tentavano di affrontare le conseguenze di quell’attacco e di dominare la paura.
 
Quella giornata sembrava non finire mai.
In poco tempo stavano succedendo tantissime cose e non tutti riuscivano ad avere il quadro completo: le notizie scivolavano di bocca in bocca, sussurrate, a volte vere, a volte distorte.
Eren Yaeger è morto.
Dicono che vogliono usarci come esche.
Un cadetto ha mangiato il Comandante!
A quanto pare avevano per il momento rinunciato ad uccidere Eren dato che il Comandante Pixis aveva dato il via ad una missione per chiudere la breccia, utilizzando proprio lui come ancora di salvezza. Se fosse riuscito a sollevare il masso enorme posizionato vicino alle mura e ad usarlo come tappo la missione sarebbe stata un successo.
Il primo successo dell’umanità.
E Tallulah, come tutti coloro che erano sulle mura a fare da esca per i giganti, guardavano l’orizzonte con il fiato sospeso.
«Armin»
Non era quantificabile il sollievo d’averlo visto riunirsi al loro gruppo sano e salvo e da quel momento non gli si era più allontanata. Era troppo legata a lui, più di chiunque altro lì.  
«Mi dispiace di avervi abbandonato» mormorò senza avere il coraggio di spostare gli occhi su di lui. Armin la guardò con aria di rimprovero
«Non dire queste sciocchezze».
Non ebbe il tempo di rispondere perché risuonò in lontananza uno sparo e il fumogeno rosso tanto temuto divise il cielo.
Tante voci mormorate cominciarono ad alzarsi dalla folla radunata.
«Non ce l’hanno fatta...»
«La missione è fallita!»
«Tutti i nostri compagni morti inutilmente?!».
Sentì il sussurro dell’amico ma come mai? e, abbassando lo sguardo, vide i suoi pugni stringersi.
«Ci deve essere qualche intoppo, avranno – Ehi, dove vai?!».
Armin si voltò e corse verso il gas senza finire di ascoltarla.
Vuole raggiungerli.
Senza bisogno di capire altro, Tallulah lo seguì di corsa, borbottando qualche bestemmia e tentando di scansare gli altri soldati.
No, quella giornata sembrava non finire mai.
 
«Cosa stai facendo?!» le gridò Armin, senza smettere di correre.
«Non starò di nuovo con le mani in mano!».
Armin poteva dire di conoscere ormai abbastanza bene l’amica: per quanto lo spronasse a non buttarsi giù e a riconoscere il suo valore, sapeva che lei sentiva dentro le sue stesse insicurezze. Alla fine, benché tentasse di nasconderlo, aveva un enorme bisogno di provare a sé stessa che poteva essere d’aiuto.
Non le rispose e tornò a concentrarsi sulla situazione attuale.
Eren, Mikasa... Ma cosa è successo?
Di tetto in tetto riuscirono a raggiungere il punto dove erano gli altri abbastanza in fretta, evitando facilmente i pochissimi giganti che avvistarono. In ogni caso non venivano nemmeno presi in considerazione, si dirigevano tutti verso gli agglomerati di umani sulle mura. Tallulah lo vide per prima: accasciato su sé stesso e con gravi ferite aperte, il gigante di Eren sembrava totalmente privo di vita.
«Ma cosa stai facendo, Eren?» riuscì a gridare Armin con il fiato corto.
«Forse non ha ancora il controllo di sé in questa forma» disse Tallula asciugandosi con una manica il sudore dalla fronte. Mentre il biondo si adoperò per raggiungere il corpo del gigante, sentì i rumori di una battaglia e studiò la situazione intorno. Un secondo dopo Mikasa entrò nel suo raggio visivo mentre atterrava un classe 15 metri.
«Allontanatevi da lì! Quel gigante non risponde più ad Eren. Ho provato a parlargli, ma mi ha attaccata, non c’è stato verso»
«Che ne è stato della missione?»
«È fallita, ma non possiamo abbandonarlo qui. Per questo stiamo continuando a combattere»
Armin si voltò verso l’amico senza vita con i denti stretti e lo sguardo furioso. Tallulah lo vide e comprese che non si sarebbe arreso e volò da lui.
«Armin, qualunque cosa tu stia pensando, ti coprirò le spalle»
«Te ne sarei grato. Lo tirerò fuori da qui, l’altra volta era emerso dal punto vitale dei giganti. Basterà evitare di colpire il centro ed Eren non morirà»
«Armin!». Mikasa fece per raggiungerli, ma era troppo tardi perché lui aveva già infilzato la sua lama in quella pelle dura ed il successivo grido bestiale di Eren fece tremare la terra. Tallulah sarebbe caduta se Armin non l’avesse tenuta per una mano, reggendosi con tutte le sue forze alla lama rimasta arpionata al corpo.
«Spostatevi da lì!» gridò Mikasa. Tallulah mimò un grazie con le labbra all’amico che la guardava con una determinazione nuova. Con il nuovo dispositivo tridimensionale recuperato prima, riuscì a salire sul muro più vicino.
«Mikasa, devi andare ad aiutare le squadre rimaste! Non possono rinunciare a te. Io mi assicurerò che nessun gigante si avvicini a loro. Ti prego, fidati di me».
La bruna la guardò tremendamente in conflitto, ma sapeva quale fosse la cosa giusta. Si voltò e corse via.
«Eren, mi senti ora? Cerca di scuoterti! Se non esci da qui, moriremo tutti!».
Tallulah restò ad ascoltare le urla di Armin e i tonfi dei suoi pugni che cercavano di risvegliare l’amico e le vennero i brividi. Non aveva idea che la madre di Eren fosse stata mangiata dai giganti. Non riuscì a sentire il resto perché proprio uno di loro si stava dirigendo nel punto in cui erano e strinse le dita sull’elsa. Sentiva sulla pelle un’adrenalina che non aveva mai avuto e allo stesso tempo una profonda angoscia. Doveva difendere due vite molto importanti per lei e con le sue sole forze. Il solo pensiero di poter perdere Armin la faceva impazzire.
Alzati.
Si fiondò verso quel faccione orripilante per attirarlo verso di sé. Doveva essere precisa stavolta, non commettere nemmeno un errore e rimanere profondamente concentrata. Il più veloce possibile planò verso il basso e con forza tagliò i tendini delle caviglie. Fu con enorme soddisfazione con lo vide cedere e aggrapparsi con una mano su una vecchia casa. Senza aspettare si arpionò poi alla sua schiena per raggiungere la nuca e ruotando su sé stessa riuscì a fendere la pelle in profondità. Poté vedere la luce abbandonare quegli occhi enormi e rimase a guardarlo cadere in mezzo alle macerie.
«SI’!» esultò, stupendo persino sé stessa: ne ho ucciso uno.
Un altro urlo devastante la fece sobbalzare e si voltò velocemente verso Eren. Non sapeva esattamente cosa fosse successo, ma corse verso di loro e saltò in alto; allungò un braccio verso Armin, che le prese prontamente la mano, e con grande sforzo riuscirono entrambi ad arrivare sul tetto più vicino.
«Ci sei riuscito?» chiese lei respirando a fatica a causa di tutto il fumo nell’aria. Armin non rispose e rimasero ad osservare con rinnovata speranza la scena di fronte a loro.
«Ce l’ha fatta! Lo ha sollevato!» Tallulah sorrise, esultando.
«Dobbiamo riunirci alle altre unità. Ora nessuno deve bloccargli la strada»
 
Fu una missione che costò un altissimo numero di soldati.
Una missione piena di imprevisti, disperazione, sacrificio, ma anche determinazione e speranza.
Alla fine, avevano vinto.
Gli attimi che susseguirono il momento in cui Eren aveva chiuso la breccia era stati quasi sospesi ed eterni.
Accanto a lei una donna piangeva «Compagni. La vostra morte è stata preziosa».
Chiuse gli occhi per un momento ricordando i volti di chi aveva perso.
Questa vittoria è per voi.
«Dobbiamo tirar fuori Eren! Scotta e sembra essersi fuso con il corpo del gigante».
Tallulah si riscosse e corse verso Armin e Mikasa, nonostante volesse solo crollare a terra e dormire per 48 ore. Guardò con disgusto i rossastri nervi scoperti che avvolgevano gli arti di Eren.
«Tagliamo questa roba» rifletté Tallulah e senza aspettare le proteste di Mikasa, recise quello strato di nervi con una delle poche lame che le erano rimaste.
Non aveva previsto però quelle ombre enormi che improvvisamente avevano oscurato il sole. Non era ancora finita.
Oppure, per loro sarebbe finita in quel momento, mangiati dai due giganti che si erano appena palesati. Il suo sguardo scattò in basso e si rese conto di essere anche a corto di lame.
Non può finire..!
Improvvisamente si materializzò nel cielo sopra di loro una figura: i suoi movimenti erano talmente veloci da sembrare invisibili. Non riuscì nemmeno a capire quale dei due giganti era stato abbattuto per primo. Scese con Mikasa per affiancare Armin ed Eren e non poté che guardare in alto, come tutti.
Le ali della libertà erano scosse dal vento, ma colui che le indossava era saldo sui suoi piedi come un tronco che si erge dal terreno. Tallulah si portò involontariamente una mano sul petto, come per calmare il battito del suo cuore, improvvisamente veloce.
«Ehi, mocciosi, si può sapere che state aspettando?».
Con quella voce non ebbe più dubbi sull’identità dell’uomo.
Era Levi.
Stralci di una notte confusa le tornarono alla mente. Un anno fa quella notte era stata così surreale da farle pensare che l’avesse sognata. Tuttavia, la mattina dopo, i grossi lividi sparsi sul suo corpo l’avevano contradetta.
Era accaduto davvero, ma la sua memoria aveva delle falle.
C’erano solo ricordi offuscati di mani ruvide su di lei, del bruciore della guancia strisciata sul cemento, della nausea martellante. Ma anche di occhi glaciali che la sorreggevano e di una stretta forte e sicura a cui si era abbandonata senza indugio.
«Muovete il culo e tornate alle mura» scese con facilità dal gigante che aveva ucciso e raggiunse il gruppetto sotto di lui.
«Sì, Capitano Levi» la donna dai capelli grigi si alzò di scatto per eseguire gli ordini e andò ad aiutare Armin a sollevare Eren. Stava lentamente riprendendo conoscenza, ma era palese che fosse troppo debole. Tallulah però non distolse l’attenzione dal Capitano e si rese conto troppo tardi che il suo sguardo insistente aveva attratto l’attenzione su di lei; un lampo di sorpresa attraversò gli occhi glaciali di Levi e capì che l’aveva riconosciuta. Ne sarebbe stata lusingata, se solo non si fosse ricordata che nel loro unico incontro gli aveva praticamente vomitato a fianco.
Fu per questo che arrossì e voltò velocemente la testa.
Neanche un istante dopo lui era volato via, per sopprimere i giganti rimasti.
 
Yes, there's a scream inside that we all try to hide
We hold on so tight, but I don't wanna die, no
I don't wanna die, I don't wanna die
 
 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo
 

Quella sera per la prima volta disse torniamo a casa.
Non aveva mai reputato casa quel posto ed Armin, infatti, la guardò con perplessità stanca; in pochi si trascinarono in mensa per mangiare qualcosa. Nonostante la fame, la maggior parte dei sopravvissuti non voleva altro che sprofondare nell’oblio del sonno, con la speranza di non rivivere l’incubo appena vissuto. Tallulah non voleva dormire, nonostante sentisse le membra pesanti ed un cerchio che le stringeva la testa. Aveva troppi pensieri, troppa sofferenza, troppa agitazione dentro.
Guardò con stanchezza gli spinaci nel suo piatto e si forzò a portarsi l’ennesima forchettata alla bocca. Sapeva di dover almeno mangiare qualcosa dopo aver saltato tutti i pasti della giornata.
«Secondo voi dove avranno portato Eren?» sussurrò a chi le era di fronte. Armin e Mikasa avevano la stessa inesistente voglia di andare a letto, Connie era sceso con Jean ed ovviamente Sasha non si sarebbe persa la cena per nulla al mondo.
«Hanno detto che lo avrebbero messo in sicurezza, ma scommetto che è in qualche cella sporca». Tallulah annuì alla risposta di Armin. Era d’accordo, se fosse stato rilasciato avrebbe scatenato il panico generale.  
«Le notizie corrono più velocemente di quanto pensiamo»
«Ma non ci hanno ascoltati minimamente. Non hanno nemmeno concesso che qualcuno di noi lo accompagnasse».
Mikasa era la più preoccupata per la situazione e continuava a torcere un tovagliolo tra le dita.
«Ma voi.. sapevate che Eren.. Insomma, come è potuto accadere?».
Connie guardò gli amici di infanzia del ragazzo in questione e fu palese quanto fosse la domanda che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di fare.
«Non sapevamo nulla e sono certo che prima di oggi non avesse alcun.. potere, se così vogliamo chiamarlo. Non ho idea di come sia stato possibile. Io l’ho visto chiaramente sparire...». Armin non riuscì a completare la frase.
Sparire tra quelle fauci. Tallulah rabbrividì e toccò piano il braccio dell’amico. Calò nuovamente il silenzio e per un po' gli unici suoni furono lo stridio delle posate sui piatti ormai quasi vuoti. In quel momento si accorse di una strana sensazione: si sentiva osservata. Pensava fosse una sua impressione, ma poi alzò gli occhi di scatto ed incontrò lo sguardo di Jean. Perché la fissava? Si sentiva in colpa? Tallulah si era sempre trovata bene con Jean: la faceva ridere e le piaceva assistere ad i suoi battibecchi con Eren. Per questo era ancora più difficile dimenticare ciò che era successo quel pomeriggio e voltò il capo, ignorandolo. Questo bastò a farlo arrossire e abbassare lentamente la testa.
Finire il suo piatto fu un sollievo. Quella brodaglia di verdure la disgustava e non si poteva dire che il suo stomaco fosse particolarmente aperto. Diede la buonanotte ai ragazzi e uscì dalla sala controvoglia. Si sentiva svuotata, nonostante la loro vittoria. Era persino riuscita ad abbattere un gigante. Aveva aiutato gli altri. Allora perché si sentiva così? Abbracciare Armin era l’unica cosa a cui si sarebbe abbandonata con piacere, ma ultimamente accadeva sempre più di rado.
Fu costretta a fermarsi e poggiare la schiena alla parete del corridoio semibuio. Respirò piano e cacciò indietro le lacrime. Non avrebbe pianto se non nel suo letto, lontana da chiunque.
«Stai male?»
Sobbalzò e le ci vollero alcuni secondi prima di riconoscere la figura alta dietro di lei.
«Mi hai spaventata» riuscì a dire con voce fioca, placando mentalmente il cuore già in gola.
«Scusami, pensavo mi avessi sentito uscire». Jean si portò una mano dietro la nuca «Che storia eh.. Eren e tutto il resto»
«Già»
«Cosa pensi succederà adesso?»
«Non lo so» si schiarì la voce, riprendendo lentamente il controllo di sé «Ma non gli mancheranno di certo i nemici».
La risposta le uscì più acida di quanto intendesse inizialmente e sperò che lui non notasse i suoi occhi lucidi. L’aveva presa nel momento peggiore; stava per voltarsi ed andarsene, ma lui la fermò.
«Aspetta.. Ti ho seguita perché volevo parlarti».
Tallulah non volle voltarsi, ma non riuscì nemmeno a ignorarlo e andar via.
«Ho sbagliato. Non avrei dovuto intromettermi in quella situazione, ho reagito d’impulso. Ho pensato solo a me stesso e a quanto volessi evitare la morte di altri miei compagni. Non ho avuto fiducia in te, ti chiedo-».
Non finì la frase perché lei si era portata le mani in volto e si era curvata leggermente in avanti. Dio, quanto odiava farsi vedere così dagli altri.
«Accetto le tue scuse» mormorò con tono debole. Jean rimase a guardarle la figura minuta e gli venne naturale avvicinarsi e posare le mani sulle spalle. Tallulah trasalì, ma non si scostò. Non ce la faceva più ad essere forte, lei che forte non lo era mai stata. Quando alla fine si sentì abbracciare non poté più evitare le lacrime che le rigarono le guance.
 
«Aspettami» una massa di capelli ricci corse dietro alla ragazzina con le lentiggini. Si dirigeva verso la folla che si accatastava nell’angolo della strada.
«Tallie, sbrigati o si mangeranno tutti i biscotti senza di noi!» le gridò Tallulah, ma la vedeva sempre più lontana e sempre meno visibile. Poi, una mano enorme afferrò quel vestito azzurro e la tirò indietro, inglobandola tra la massa di gambe e busti che si accavallavano.
«Sadie!!». L’ultima cosa che vide fu il suo viso disperato.
 
Quel cielo grigio piombo sembrava rispecchiare perfettamente il suo stato d’animo di quella mattina. Doveva essere passata da poco l’alba quando si era svegliata, mostruosamente presto, ma senza più nessuna traccia di sonno. Si era vestita senza svegliare le sue compagne ed era scesa in cucina in silenzio per preparare del caffè e rubare un paio di biscotti d’avena. Poi, con il suo bottino era uscita fuori e si era seduta nell’erba ancora umida, aspettando che tutto intorno a lei si svegliasse.
Rimuginava sul sogno di quella notte, era da un po' che non faceva un sogno così nitido. Forse lo strano scambio con Jean qualche sera prima l’aveva colpita più di quanto pensasse; nonostante tutto, le era servito a sentirsi meglio e Tallulah si domandò se valesse lo stesso per lui. Bevve l’ultimo sorso di caffè e allungò le gambe, sorridendo tra sé al pensiero del viso rosso dell’amico. Uno stormo di uccelli prese bruscamente il volo da un albero lì vicino e si voltò per guardarli. Fu in quel momento che notò una figura che correva in tondo sul campo di allenamento. Aguzzò la vista, ma non riuscì a identificarla: chi poteva correre a quell’ora del mattino? Con la quasi totale certezza che fosse Mikasa che non riusciva a dormire, rientrò a prendere dell’acqua per portargliela. Sperò solo che non avesse passato la notte ad allenarsi. Uscì dalle cucine in fretta e tornò fuori, camminando velocemente verso di lei e preparandosi la ramanzina nella testa. Man mano che si avvicinava tuttavia aveva sempre meno l’impressione che si trattasse della ragazza. Quando si rese conto che forse avrebbe fatto meglio a girare i tacchi era troppo tardi, due occhi di ghiaccio si erano già posati su di lei.
«Buongiorno», si obbligò a dire nonostante la gola secca, e raddrizzò la sua posizione nel saluto militare. Non sapeva ancora perché avesse quella reazione spropositata in sua presenza. L’aveva avuta anche tre giorni prima, quando era piovuto dal cielo in mezzo all’inferno e tutti i pericoli si erano come smaterializzati.
Tutti conoscevano il capitano Levi. Tallulah l’aveva sempre visto al fianco del Comandante, insieme ai suoi compagni: quando il corpo di ricerca si preparava ad uscire dalle mura lei osservava tutti i volti, ma nessuno era come il suo. Levi scrutava la folla con sguardo fermo, le labbra strette in una linea sottile, e pensieri impossibili da indovinare. Stonava troppo con l’ambiente circostante, festoso e pieno di speranza, ancor di più se messo a confronto con Erwin Smith, che si prodigava in ringraziamenti e sorrisi condiscendenti.
Ci stonava così tanto che si era presa una cotta colossale, bevendo le leggende sulla sua vita prima della Legione e sulle sue abilità inarrivabili. Le volte in cui l’aveva visto si potevano contare sulle dita di una mano, ma lei era una ragazzina innamorata dell’amore ed entusiasta della vita, noncurante dei pericoli che l’umanità correva: apparivano offuscati ed improbabili. Questo finché essi non si palesarono nel modo più devastante ed improvviso possibile, spazzando via tutto il suo mondo.
Ed in quel momento tu, Levi, dov’eri?
In un’altra missione, a guardare altra gente che moriva. Che sciocca era stata a cercare di dargli una colpa che in realtà era solo sua. Nonostante ciò, in un altro momento, l’aveva salvata da quelle mani orrende che la schiacciavano al muro. Se lo meritava?
«Buongiorno mocciosa».
La sua voce fin troppo reale e bassa la fece arrossire e chinò la testa per camuffarlo.
«Credevo fosse un mio compagno e avevo portato dell’acqua. Se può esserle d’aiuto...».
L’uomo sollevò un sopracciglio e fissò per un attimo la borraccia che aveva riempito; poi allungò una mano e la prese e Tallulah rimase a guardarlo bere avidamente, gli occhi chiusi e la testa all’indietro. Le punte dei capelli erano umide di sudore e si chiese da quanto fosse in piedi. Era la prima volta che lo vedeva quasi umano.
«Si allena spesso qui?»
«Ogni tanto»
«E si alza sempre così presto?»
Emise un brontolio d’assenso mentre le restituiva l’acqua.
«Posso farle una domanda?» gli chiese dopo qualche secondo, prima che potesse riprendere il suo allenamento.
«Perché, queste non lo erano?»
Tallulah sorrise e lo prese come un burbero assenso.
«Sa qualcosa di Eren? Dove lo tengono? Sta bene? Cosa gli succederà?»
«Queste sono tante domande, non una. Non è necessario che un cadetto conosca queste informazioni»
«Ma abbiamo il diritto di saperlo!»
«Non spetta a me stabilirlo»
«Non mi sembrava un tipo così rispettoso delle regole, Capitano» esclamò irritata ed immediatamente volle mordersi la lingua. Era stata troppo impulsiva. Levi la guardò senza mostrarsi minimamente toccato dal commento e un lampo indefinito gli attraversò lo sguardo.
«Io invece so benissimo quanto tu ami infrangerle» le rispose e si ritrovò ad assistere quasi con interesse all’insieme di espressioni che si susseguirono sul viso della ragazza, un misto di stupore, imbarazzo e rabbia.
«Ora torna ai tuoi compiti e non scocciarmi. Mi stai tra i piedi» le disse, con tono fintamente perentorio.
«Posso aiutarla nel suo allenamento» propose Tallulah a dispetto dell’imbarazzo che le aveva tinto le guance ed incurante della vocina nella sua testa che le sussurrava quanto suonasse ridicola. Non voleva perdere l’unica opportunità di sapere qualcosa su Eren.
«Non vedo come»
Stai zitta. Sei ancora in tempo a non-
«Si batta con me nel corpo a corpo. Se vinco mi dirà ciò che voglio sapere su Eren».
Non aspettò una risposta e si tolse la giacchetta pesante che le poteva impedire i movimenti, come pure lanciò la borraccia sull’erba poco lontano. Il suo superiore la guardò con espressione annoiata.
«Non capisco se sei solo una mocciosa arrogante o stai bluffando. In entrambi i casi non sono interessato».
Era la frase più lunga che gli avesse sentito dire: Tallulah contrasse le dita con disappunto nel vederlo voltarle le spalle, chissà se per l’assenza di informazioni desiderate o se per il rifiuto in sé. Senza pensarci gli si lanciò contro, sollevandosi appena sulle punte dei piedi e curvando la schiena in avanti, voleva circondargli il collo con il braccio e cercare di atterrarlo. Le pupille di Levi saettarono verso il fruscio dello spostamento d’aria e un secondo dopo si era chinato afferrandole il polso. Tallulah fece appena in tempo ad avvertire la sua presa che si ritrovò con
la schiena sul terreno, il braccio del Capitano sotto la gola ed il suo corpo che troneggiava su di lei. Lo guardò, senza fiato per il contraccolpo, e vide quanto una punta infastidita tingergli gli occhi. Aveva paurosamente perso, ma sentì una profonda soddisfazione per avergli fatto perdere la sua calma annoiata. Poi, lentamente, si rese conto del respiro caldo sul viso e capì che forse non lo aveva fatto solo per Eren. In fondo non aveva mai davvero creduto di poter vincere.
Forse voleva solo sentirselo di nuovo addosso, indipendentemente dal come. Questi pensieri si successero nella sua mente alla velocità della luce e qualcosa nel suo sguardo doveva essere cambiato perché Levi si sollevò rapidamente e la guardò sprezzante.
«Mi domando come tu sia riuscita a rimanere viva finora».
 
L’uomo sentì i primi goccioloni di pioggia sulla nuca e affrettò la sua corsa verso gli alloggi: più di tutto avrebbe odiato rientrare lasciando una scia fangosa dietro di sé. Se non fosse stato per quella mocciosa sarebbe stato sotto la doccia da un pezzo, imprecò mentalmente a quel pensiero. Nel giorno della battaglia di Trost era riuscito ad arrivare in tempo per salvare quelle reclute e gli ci era voluto un po' per riconoscere quello sguardo fisso. Il viso leggermente ovale e l’aria sfrontata erano gli stessi, ma non aveva quell’espressione annebbiata che ricordava: gli occhi erano duri e attenti e il collo rigido. Non si aspettava proprio poi di trovarsela di fronte alle 5 del mattino, ricci scomposti che le cadevano sulle spalle e una giacca forse troppo grande per lei. Era riuscita a farlo divertire e poi incazzare nel giro di qualche minuto.
«Tch»
 
 
«Tallulah, non ti senti bene? Non hai toccato cibo» le chiese Christa con aria preoccupata.
«No, è che ho già fatto colazione, mi sono alzata presto»
«In effetti non ti ho vista a letto poco fa» le disse Sasha a bocca piena.
«Non sputacchiarmi!» rispose ridendo. «Dormi come un orso in letargo, non ti avrei svegliata nemmeno se ti fossi caduta addosso»
«Magari con il profumo di una bella salsiccia sì però» si intromise Connie sgomitando sul fianco dell’amica.
«Ahh, salsiccia...». Iniziò a sbavare causando il disgusto generale.
«Ma come fate?».
L’esclamazione rabbiosa di Klaus, proveniente dal tavolo a fianco il loro, fece voltare tutti verso di lui. Era in piedi ed aveva un’espressione quasi disgustata:
«Come fate a ridere e scherzare in questo modo? Avete già dimenticato i nostri compagni!?».
Il suo tono si era alzato parola dopo parola e piano piano aveva zittito tutti i mormorii della stanza. Probabilmente prese un po' tutti alla sprovvista perché per i primi secondi nessuno fiatò e lui ne approfittò per proseguire.
«Nessuno riesce a dormire, a stento mangiare, come è possibile che sia così facile per voi? Lei» indicò Tallulah senza però guardarla «Ieri cantava per il corridoio. È davvero nauseante»
«K-Klaus, non starai un po' esagerando?» gli disse Armin, sempre più stupito da quell’ostilità. La sua risposta però fece infuriare ancora di più il ragazzo.  
«Cos’è, Arlert, ti senti in dovere di prendere le difese della tua ragazza?».
«Lascia perdere, Armin» mormorò Tallulah, cercando di far finta di nulla nonostante il calore che le era salito nel petto. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla turbata.
«Klaus, calmati amico. Se cominciamo ad aggredirci fra di noi non ci rimane più niente» si intromise Connie e Lilian posò una mano sulla spalla di Klaus, come per trattenerlo. Il ragazzo si scostò bruscamente ed uscì dalla stanza a passo svelto. Tallulah sospirò impercettibilmente.
«Ignora quello che ha detto» le disse Mikasa, seduta di fronte a lei e si sforzò di sorriderle, annuendo. Fuori pioveva, ma sapeva bene che in quei giorni di fuoco nessuno li avrebbe tenuti fermi e al caldo e a lei andava bene così. Doveva allenarsi fino a sanguinare, solo in quel modo sarebbe migliorata tanto da proteggere gli altri e ripagare il suo debito.
E magari un giorno, a battere Levi nel corpo a corpo.
 
«Dai Mikasa, proviamoci! Giuro che torniamo presto»
«Non ho intenzione di seguirti chissà dove, devo rimanere concentrata per-»
«Per cosa? Non possiamo fare nulla per Eren, non sappiamo la sua posizione esatta, né possiamo estorcerla in qualche modo. Siamo solo dei cadetti».
Il discorso non faceva una piega, ma Mikasa rimase seduta sul suo letto a fissare il vuoto. Avevano cenato da poco e Tallulah stava cercando di convincere la corvina a seguirla in taverna. Non aveva dimenticato come l’avesse aiutata e aveva notato quanto fosse più silenziosa del solito; voleva fare qualcosa per distrarla, anche se probabilmente non rientrava tra gli svaghi permessi. 
«Non ho l’età per bere e siamo anche soldati»
«Non avremo problemi. E poi, uccidiamo giganti, diamine, uno strappo alle regole possiamo anche concedercelo»
«Ci scoprirebbero subito, è pericoloso»
Tallulah si irrigidì: lo era davvero, soprattutto per chi girava solo e ubriaco.
«Sei la migliore, nessuno riuscirebbe nemmeno ad avvicinarsi» rispose, abbassando la voce. Mikasa non rispose e sulle labbra di Tallulah spuntò un sorriso
«È un sì?».
 
Un’ora dopo.
 
La cosa bella di Mikasa era che non faceva domande. Lasciava che fosse l’altro a parlare, a scegliere cosa dire e cosa invece tenere per sé. Tallulah aveva sempre avuto l’impressione che fosse perché lei in primis nascondeva qualcosa gelosamente.
Onestamente non credeva che alla fine l’avrebbe davvero accompagnata: forse non la conosceva ancora abbastanza. Era stata un po' in ansia nel condividere con lei quel momento, non l’aveva mai fatto con nessuno. Si era rilassata solo quando Earl le aveva fatte entrare dal retro. Da quando era stata aggredita aveva imparato a rimanere nell’ombra e passare inosservata. Se prima si sentiva libera di fare tutto, ora si guardava le spalle ovunque e non beveva più così tanto. Se ci fosse stata la necessità avrebbe dovuto essere lucida per combattere. Per molto tempo non era riuscita a tornare, ogni volta che ci pensava bastava quel ricordo a farle venire la nausea.
Poi, piano piano, la speranza di rivedere Levi aveva prevalso.
«Hai vinto di nuovo, uffa!»
«Sei abbastanza scarsa in questo gioco»
«Ma se te l’ho insegnato io!». Tallulah raccolse le carte ridendo. Bevve dal suo bicchiere e poi lo porse a Mikasa che lo fissò indecisa. Alla fine, lo portò alle labbra.
«Brucia» borbottò con una smorfia e Tallulah ridacchiò.
«Aspetta, assaggia questo» le porse il suo bicchiere «È il mio preferito»
Mikasa si bagnò appena le labbra per evitare il sapore troppo forte del vino precedente, sorprendendosi invece della nota quasi dolciastra che sentì.
«Mio nonno faceva il vino, mi raccontava un sacco di cose sul suo processo di produzione e sulla viticoltura. Era la sua passione. Mia nonna invece, lo vendeva al mercato» le disse Tallulah e Mikasa la fissò, posando il mento sul palmo della mano.  
Non le chiese se fossero ancora vivi, le bastò cogliere lo sguardo mesto della ragazza. Conosceva fin troppo bene quel senso di perdita; forse venire lì glieli faceva sentire più vicini. Forse era come stare al fianco di Eren, quando era con lui era tutta avvolta da un bozzolo di familiarità e calore. La sua mente si soffermò sul ragazzo e sul suo sorriso sincero ed una sensazione piacevole le si diffuse nel corpo.
«Mi manca» disse in un soffio, senza nemmeno rendersi conto d’averlo detto ad alta voce; la testa le girava un pochino. Tallulah sorrise e decise che era arrivato il momento di tornare.
 
 
Era il suo turno di pulire le stalle insieme a Jean. All’inizio i cavalli la spaventavano: le sembravano imprevedibili e temeva di essere scalciata via al minimo movimento brusco. Con il tempo invece si era abituata alla loro presenza e aveva scoperto che galoppare nel vento le piaceva da impazzire. Accarezzò il manto bruno della bestia che le era accanto: aveva appena finito di strigliarlo, un’attività che la rilassava molto.
«E così tu ed Armin...». Jean ruppe il silenzio mattutino mentre spazzava il pavimento. Tallulah lo fissò, senza capire cosa intendesse.
«Io ed Armin cosa?»
«State insieme?» chiese il ragazzo senza peli sulla lingua.
«No, che ti salta in mente?» rispose fulminea, alzando gli occhi al cielo.
«Ne parlano tutti, sai, dopo la sfuriata di Klaus».
Ripensare all’episodio spezzò la calma in cui era immersa e sbuffò, aggrottando la fronte. Jean riprese a setacciare il fieno, pensieroso.
«Ormai nessuno è lucido, abbiamo i nervi a pezzi»
«Che non venga a scaricare i suoi su di me» borbottò Tallulah, mettendo a posto la striglia e andando a riempire una bacinella d’acqua. Prese uno straccio pulito e lo immerse: guardò di sottecchi il cavallo e le sembrò abbastanza tranquillo. Magari questa volta sarebbe riuscita senza sforzi a lavargli il muso, cosa che lo innervosiva sempre.
«Comunque Armin non è il mio ragazzo»
«Beh, lo sembra. O meglio, tu sembri avere una cotta per lui» sghignazzò Jean e la ragazza rimase stupita. Non si era mai resa conto che fosse quella l’impressione che dava, anche le parole di Klaus le aveva attribuite ad una frecciatina gratuita. Adorava Armin, la capiva come nessun altro e con lui si sentiva meno sola. Avevano un passato simile e forse fu questo ad averli fatti avvicinare, ma, come le piaceva pensare, sentiva che le loro anime fossero affini.
«Non ho una cotta per lui; forse esprimo solo il mio affetto troppo platealmente. Ma sono fatta così»
Jean non rispose, improvvisamente in imbarazzo: ricordò che l’altra sera l’aveva abbracciata, gli era sembrata piccola e fragile e in quel singolo momento ebbe la stessa impressione.
«Tallulah!» una voce urlò il suo nome ed entrambi si voltarono verso l’uscio. Era Connie e aveva il fiatone. «Devi correre. Sei stata convocata con Armin e Mikasa come testimone al processo di Eren».

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo
 
 
«Forza, cammina».
Un fucile fu piantato tra le scapole di Eren: egli mosse qualche passo, stavolta scoccando un’occhiataccia ai due soldati che lo scortavano. Tallulah li osservò e nonostante quell’autorità di facciata, poté capire quanto fossero spaventati, come se temessero che il ragazzo potesse trasformarsi in quell’esatto momento e schiacciarli con un dito. Mikasa si agitò leggermente al fianco di Armin.
La tensione che impregnava l’aria si faceva sempre più fitta.
«Ora, inginocchiati».
Di nuovo, Eren obbedì malvolentieri e solo quando posizionarono un lungo palo grigio alle sue spalle, Tallulah notò le manette ed i segni rossi sui polsi del ragazzo. Lo vide guardarsi attorno con occhi vacui, fino a che non li riconobbe. Sorpreso, sembrava quasi che stesse per dir loro qualcosa, ma un cigolio e dei passi molli lo distrassero. L’unica informazione che conoscevano sul quel processo era chi lo dovesse capeggiare: Dhalis Zachary era un uomo molto famoso in tutti i distretti, perciò non si aspettava di vederlo con quell’espressione stanca, lì in alto, al di sopra di tutti.
«Direi di procedere».
In quel momento delle dita bollenti scivolarono lungo il palmo della mano di Tallulah per intrecciarsi alle sue. Lei si voltò verso destra e vide l’apprensione ansiosa di Armin: gli strinse la mano con eguale forza. Capiva quanto duro dovesse essere vedere il proprio amico di infanzia inginocchiato e ammanettato come il peggiore dei criminali, in attesa di una eventuale condanna a morte. Insieme a Mikasa, era colui che stava soffrendo di più. Mentre il Comandante parlava regnava il più assoluto silenzio. Doveva ascoltare le proposte sottopostegli e decidere a quale armata affidare Eren.
«Sono il Comandante di divisione Nile Dawk del Corpo di Gendarmeria. Noi riteniamo che una volta studiata a fondo la struttura fisica di Eren Jaeger, sia necessario provvedere subito alla sua eliminazione. La sua sola esistenza rischia di scatenare gravissimi disordini, di conseguenza, dopo averne ricavato ogni informazione possibile, ci auspichiamo che possa raggiungere il paradiso degli eroi».
Tallulah, a quelle parole, non poté evitare la smorfia disgustata che le affiorò in volto e sentì la stretta sudata sulla mano intensificarsi; si avvicinò all’amico tanto da far sì che le loro spalle si toccassero. Per quanto riguardava Mikasa, al suo fianco, sapeva che non aveva bisogno di quel tipo di conforto, anzi probabilmente l’avrebbe messa a disagio. Ella aveva gli occhi nero pece piantati nell’uomo che leggeva i suoi fogli e se uno sguardo avesse potuto uccidere, sarebbe stato proprio il suo. 
«Non merita questo onore! Costui è un mostro penetrato tra noi ingannando le mura».
«Molto bene. Ora ascoltiamo la proposta del Corpo di Ricerca».
Tallulah ricordò improvvisamente chi presenziasse alle sue spalle ed ebbe la tentazione di voltarsi.
«Sono il Capitano Erwin Smith, tredicesima divisione del Corpo di Ricerca; noi vorremmo accogliere Eren nei nostri ranghi per poter riconquistare il Wall Maria. Questo è tutto».
«Questo è tutto?»
«Sissignore. È evidente l’importanza che questo avrebbe per noi».
Tallulah sinceramente non capiva il motivo per cui tutte quelle persone fossero contrarie ad un’idea del genere. Ci aveva riflettuto molto in quei giorni e sì, era innegabile che Eren fosse un’incognita, ma non si poteva ignorare la sua potenzialità. Sarebbe stato un vantaggio enorme come non ne avevano mai avuti: la paura avrebbe mai potuto essere una scusa sufficiente? Si rese conto di essersi persa l’ultimo scambio di battute quando un uomo vestito in abiti civili prese la parola in modo brusco, interrompendo il discorso di un altro.
«Tu, cane dell’associazione commercianti! Se sfruttiamo la sua forza di gigante potremo fare ritorno al Wall Maria»
«Noi ne abbiamo abbastanza di finanziare le vostre ridicole spedizioni!».
Trattenne un sibilo, ma non riuscì ad evitare l’espressione basita che le curvò la bocca. Non era una persona violenta, eppure le venne l’impulso di alzare le mani su quell’uomo.
«Sta zitto, maiale che non sei altro».
Sentire quelle parole la fecero sentire come se l’avesse picchiato davvero. Stavolta non riuscì a evitare di voltarsi per vedere chi stavano fissando tutti scioccati, ma se ne pentì nell’esatto momento in cui lo vide perché non riuscì più a togliergli gli occhi di dosso.
«C’è forse la garanzia che i giganti, nel frattempo, se ne staranno buoni ad aspettare? E quando ti riferisci al tuo gruppo, vi includi anche quelli che vi permettono di ingrassarvi tanto? I cittadini che per mancanza di terre coltivabili soffrono la fame voi non li vedete nemmeno».
C’era qualcosa nel suo viso, in quei tratti morbidi deformati da un’espressione rigida, pericolosa, ma controllata, composta, elegante.
C’era qualcosa in quegli occhi azzurri, volutamente inespressivi, ma con una luce, una fermezza, un’energia contenuta.
Levi spostò lo sguardo dal suo interlocutore, sentendosi osservato, e incrociò gli occhi della ragazzina dai capelli ricci.
Di nuovo.
Ogni volta che si incontravano lei gli piantava gli occhi addosso, più di quanto permettesse l’educazione, ne era sicuro, e non era certo del perché. Poi, lo sguardo gli scivolò più in basso e notò la stretta condivisa con il ragazzino biondo al suo fianco;
Tallulah si sentì improvvisamente nuda e tornò a dargli velocemente le spalle.
«Ma tu non sai neanche cosa stai dicendo! Come può un essere inferiore rafforzare...».
Smise di ascoltare quasi immediatamente quel discorso folle. Armin si sporse leggermente e sussurrò che era a causa di quel matto che c’era voluto così tanto per rafforzare le mura. Fu solo l’intervento del Comandante a stroncare quel battibecco inutile.
«Jaeger ora voglio una conferma da te. Ti senti in grado di tener fede al tuo giuramento di fedeltà anche assumendo le fattezze di un gigante?»
«Sì signore! Glielo giuro!».
Era la prima volta che si sentiva la voce di Eren da quando era cominciato quel processo e Mikasa si tese come una corda mentre osservava il cipiglio appassionato del ragazzo.
«Ma nel rapporto ufficiale sulla battaglia di Trost c’è scritto “Subito dopo la trasformazione ha dato un pugno verso Mikasa Ackermann”».
Il volto di Eren sbiancò e si girò nella direzione di quest’ultima.
Tallulah trattenne il respiro, era il momento decisivo e riusciva a prevederne il risultato. La donna dai capelli bianchi al loro fianco mormorò qualcosa all’amica, qualsiasi cosa fosse doveva averla convinta a confermare a denti stretti il rapporto ufficiale. Questo sembrò sconvolgere Eren più di ogni altra cosa.
«Però dovete anche sapere che in precedenza Eren Jaeger mi ha salvato la vita in ben due occasioni»
«Un momento! La presente testimonianza è condizionata dai sentimenti personali che intercorrono tra i due soggetti. Mikasa Ackerman, dopo aver perso i genitori, è stata presa in casa dalla famiglia Jaeger. C’è anche da considerare un ulteriore fatto: all’età di nove anni i due insieme hanno pugnalato a morte i tre responsabili del rapimento della piccola. Per quanto fosse legittima difesa, questo dovrebbe farci riflettere sulla vera natura di questo giovane».
Ebbe la pelle d’oca e non sapeva più se fosse per il più che duro segreto che Mikasa si portava dietro o per il fatto che quegli uomini stessero davvero utilizzando quella storia di dolore a sostegno dei loro sporchi interessi. Si alzò una nube di commenti indignati a mezza voce, perciò Tallulah prese una decisione e sapeva che se avesse voluto essere ascoltata avrebbe dovuto alzare il tono della voce.
«Signore, Eren Jaeger ha salvato la vita anche a me in un momento di grande difficoltà. La mia testimonianza dovrebbe avere più valore, non avendo nessun passato, né sentimento personale che intercorre tra me ed il soggetto». Sputò l’ultima parola con disprezzo, fissando furiosa l’uomo che aveva ridotto il suo amico ad un esperimento di laboratorio. No, nemmeno in quel contesto tanto formale era riuscita a trattenersi. Il Comandante Zachary la guardò da sopra i suoi occhiali minuti.
«E tu sei..?»
«Tallulah Lee, signore. Cadetto del 104º Corpo di addestramento reclute»
«Non conta nulla! È solo una strategia per poter infiltrarsi fra di noi!».
Qualcuno le indicò come complici del mostro e la necessità di ucciderli tutti. La ragazza rimase basita da tanta stupidità e avrebbe tanto voluto poterli insultare, come aveva fatto Levi in precedenza.
Maiale che non sei altro.  
Perché quel poco che poteva fare lei non bastava mai. Se Eren non fosse stato ammanettato si sarebbe certamente scagliato verso quei farabutti, data la veemenza con cui cominciò a gridare contro di loro. Tutti tacquero spaventati quando vibrò il palo a cui il moro era legato, come se si fossero appena ricordati chi avessero davanti.
«Sebbene non abbiate mai visto un gigante, come mai ne siete tanto spaventati? Noi non vinceremo mai se sono proprio i più forti a non combattere. Se voi pensate di non essere all’altezza, mettetemi almeno in condizione di farlo! Razza di smidollati che non siete altro!.
Stavolta non riuscì proprio a trattenere un sorriso, ignorando quanto potesse sembrare inopportuno in quel momento.
«PUNTATE TUTTO SU DI ME SENZA FARE STORIE»
«Pronti a sparare!!»
Poté giurare che il cuore di Mikasa ed Armin avesse perso un battito proprio come il suo ed il sorriso le morì sulle labbra: tutto stava accadendo troppo velocemente ed era così assorbita dal fucile che venne puntato su Eren che a malapena registrò il fruscio alle sue spalle. Poi una scheggia entrò nel suo campo visivo ed un secondo dopo un calcio colpì la guancia sinistra del prigioniero, facendogli volar via un dente. Il secondo calcio puntò allo stomaco e le fece realizzare la situazione dopo i primi istanti di gelo immobile. Il terzo colpo, una ginocchiata calcolata e precisa, centrò la testa. Sentì distintamente il respiro di Mikasa strozzarsi, ma non riuscì a muoversi, né a distogliere lo sguardo da quella scena. Armin sciolse la presa dalla sua mano per poter afferrare l’amica prima che si precipitasse verso Eren:
«Ferma!».
Il sangue colava dalla bocca di Eren e alcune gocce avevano macchiato il pavimento e la divisa di Levi. Inevitabile, visti i colpi che infliggeva uno dopo l’altro e di cui Tallulah non riusciva proprio a capirne il motivo.
Perché?
Aveva voglia di gridargli di smetterla, ma sapeva che non avrebbe mai osato.
«Per ottenere dei risultati non c’è niente di meglio del dolore fisico; quello che ti serve adesso non è un’istruzione a parole, ma un addestramento».
Continuò a colpirlo e tutti continuarono ad osservare in silenzio, fino a che Erwin Smith finalmente prese parola.
«Comandante, ho una proposta da fare».
 
«Alla fine ce l’abbiamo fatta» esultò Tallulah, usando il noi senza nemmeno accorgersene.
«Grazie al Capitano Levi» ricordò Armin, finalmente più rilassato, guadagnandosi un grugnito di Mikasa. Probabilmente non glielo avrebbe mai perdonato, anche se in qualche modo aveva comportato la salvezza di Eren.
«Spero di non dover più mettere piede qui dentro. Quei tizi mi hanno sfinita»
«Ehi, guardate!. Il biondino indicò una figura alta dai capelli castani che si avvicinava all’uscita insieme a tutti gli altri. «È il tipo che ha condotto Eren al processo insieme ad un’altra signora con gli occhiali. Se lo seguiamo magari ci porterà da lui».
Mikasa si perse le ultime parole perché era già schizzata dietro di lui.
«Non sarà molto discreta» disse Tallulah alzando gli occhi al cielo ed Armin affrettò il passo verso di lei, preoccupato. Si fecero largo a fatica tra tutta la gente che si accalcava per uscire, qualcuno ancora indignato per l’andamento di quel processo. Per un pelo non persero di vista il loro obiettivo e ripercorsero all’indietro il corridoio da cui erano arrivati, in silenzio e a distanza di sicurezza. All’improvviso, tuttavia, l’uomo si fermò e alzò la testa verso l’alto.
«Che sta facendo?» sussurrò Tallulah fermandosi a sua volta.
«Sta... annusando l’aria?» fece a tempo a rispondere Armin prima di vederlo voltarsi di scatto, cogliendoli in fragrante.
«Credevate davvero di passare inosservati? Ah!» sorrise soddisfatto e tornò sui suoi passi per osservarli più da vicino. O meglio, per annusarli.
«Vorremmo solo parlare con Eren. Sono giorni che aspettiamo» esclamò Tallulah di getto, non voleva assolutamente andar via senza vederlo.
«E chi vi dice che seguendo me arrivereste a lui?»
«Era la nostra unica pista» rispose alzando le spalle. Non sapeva se dire la verità era stata la cosa giusta, ma non le era venuta in mente nessuna scusa geniale. Era Armin quello con i piani brillanti e la mente acuta; lei era più per l’istinto. Mentre tutti e tre lo guardavano con aspettativa sentì una voce squillante ridere e un successivo lamento di dolore. Senza rifletterci, seguì quei suoni con uno scatto, seguita a ruota dai suoi amici: poco più in là, a destra, c’era una porta socchiusa e l’aprì con veemenza prima che quel tipo potesse fermarli.
«Trovato!» esultò, nello stesso momento in cui Mikasa esclamò il suo nome e si precipitò verso di lui.
«Ragazzi!» sorrise, Eren, vedendo finalmente dei volti amici.
«Scusi Generale, non sono riuscito a fermarli» mentì Mike, in realtà non aveva voluto farlo. Qualcosa in quei tre paia d’occhi ardenti l’aveva convinto.
«Non fa niente, Miche».
«Ahh, non sapevo che ti facessi abbindolare da dei ragazzini» lo canzonò la donna che era in ginocchio di fronte al ragazzo-titano «Vediamo un po' chi abbiamo qui».
Si aggiustò gli occhiali e sorrise ai nuovi arrivati.
«Io sono Hanje Zoe, caposquadra del Corpo di ricerca. Voi dovete essere gli amici di infanzia del nostro Eren»
«S-sì, signora» rispose Armin.
«Dovrete raccontarmi tutti i dettagli della sua trasformazione!»
«È un’esperta in giganti?» chiese Tallulah incuriosita e Hanje la fissò.
«Oh, mi piacerebbe davvero esserlo, tesoro. Però due o tre cosine le conosco, sai quando...».
Miche sospirò, interrompendo la donna «Domanda sbagliata»
«Armin ne sa più di noi. Ha gestito benissimo il gigante addormentato di Eren» esclamò la riccia, posando una mano sulla spalla dell’amico.
«Ahi- Piano, Mikasa. Ehi, di che state parlando?»
«Di nulla, sei stato bravissimo» gli sorrise Tallulah e si accovacciò ai suoi piedi, se solo non fosse stato così malconcio l’avrebbe abbracciato. «Mi hai salvato la vita, finalmente posso ringraziarti»
«Non me lo ricordo, ma ne sono felice» rispose Eren ricambiando il sorriso, ancora confuso, prima di contrarsi in una smorfia di dolore. Mikasa aveva preso il posto di Hanje e curava le ferite dell’amico, scoccando ogni tanto qualche occhiataccia a colui che era seduto lì di fianco. Levi osservava la scena, un braccio rilassato sulla spalliera e le gambe incrociate. Si era ricomposto più che in fretta dallo stupore che quella mocciosa gli aveva causato con la sua entrata irruente. Purtroppo, il luccichio che per un millesimo di secondo attraversò gli occhiali della sua collega quattrocchi era segno che non se lo era persa. Ora la scienziata aveva preso a parlare animatamente delle sue conoscenze sui titani con il biondino, sempre meno a disagio grazie alla mocciosa che lo coinvolgeva con il minimo sforzo. A guardar bene era stata lei a far rilassare tutti, un po' troppo forse, notò con una punta di fastidio. A nessuno era venuto in mente il mancato saluto militare davanti a tre Capisquadra e il Comandante, quest’ultimo anzi ascoltava condiscendente la conversazione. Per la prima volta, fu lui ad indugiare con lo sguardo su di lei, notando i capelli sollevati in una coda disordinata, la curva del sorriso e la fossetta sulla guancia destra. A guardarla, carina e innocente, nessuno avrebbe mai potuto credere che frequentasse posti improbabili in orari notturni, né che bevesse fino a vomitare. Sentendosi osservata Tallulah dovette cedere e incrociò i suoi occhi.
Perché mi guarda?
La presenza del capitano l’aveva presa alla sprovvista e si era dovuta concentrare per evitare di mostrare quanto la influenzasse; peccato che i suoi sforzi furono vani perché sentì il calore salirgli sul viso e le parole di Hanje Zoe persero di significato.
Quando però calò il silenzio e vide l’espressione perplessa di Armin rivolta verso di lei, capì di essere nei guai.
«Ehm, scusate, mi sono persa la domanda?» esclamò e volle sotterrarsi.
«La caposquadra Hanje voleva sapere di quei fasci di nervi che hai tagliato per liberare Eren dal suo titano».
Si costrinse a relegare Levi nell’angolo più remoto del suo cervello mentre tentava di rispondere al meglio del suo limitato sapere. Dal canto suo, il Capitano, aveva dovuto sopprimere un sorrisetto soddisfatto nel vedere l’espressione della mocciosa divenire rossa e vacua e si ricordò le sue parole di quella famosa notte, vorrei rivederti. Era strano, ma ricordava bene quella domanda perché per un secondo lo aveva spiazzato: voleva rivederlo? E per quale motivo? La voce educata, ma autoritaria, del Generale Smith mise fine alle chiacchiere.
«Non mi piace fare il guastafeste, ma dobbiamo decidere come gestire la situazione d’ora in avanti».
«Direi che fosse ora» commentò Levi piccato.
«Eren, andrai con il Capitano e la sua squadra nel nostro ex quartier generale. È perfetto per il tuo addestramento, nascosto e tranquillo, potrai concentrarti senza distrazioni. Levi» si voltò appena «Quando potreste partire?»
«Il prima possibile, è inutile perdere tempo»
«Bene. Voi ora fareste meglio ad andare. Siete stati molto coraggiosi e spero di potervi avere tra le mie schiere».
Stavolta, a quel tono formale alle reclute venne naturale tirarsi su e fare il saluto militare.
«Grazie signore» esclamò Armin.
«È stato un piacere ragazzi!». Hanje li salutò sventolando la mano e anche successivamente si apprestarono a salutare il loro amico.
«Abbi cura di te, Eren. Ci vediamo presto»
«Sono felice di avervi visto. Darò il massimo, ve lo prometto».
E Tallulah sapeva che era la verità.
 
«Avanti, dimmi chi è»
«Non so a cosa ti riferisci»
«Tutta quella tensione, tutti quegli sguardi» la donna alzò gli occhi, sognante. «Riconosco queste cose a colpo d’occhio»
«Continuo ad essere in alto mare»
«Eppure, sembra piccina. Non credevo avessi certi gusti, nanetto»
«A volte mi chiedo perché ti stia a sentire, quattr’occhi»
«È forse la figlia di qualche tuo conoscente? Nah, tu non hai amici».
Levi sapeva che quando la sua collega cominciava a parlare era difficile farla smettere e la strada per i loro alloggi era ancora lunga. Per quanto sciocca ed infantile potesse sembrare, Hanje Zoe era un’acuta osservatrice ed aveva un intuito molto sviluppato. Era difficile tenerle nascosto qualcosa e ciò gli si era ritorto contro molte volte nel corso degli anni. Non solo, era l’unica che non si era mai lasciata scoraggiare dal suo carattere scostante, anzi, trovava divertenti le frecciatine che si lanciavano tutti i giorni. Era quanto più vicino ad un’amica avesse e lei lo sapeva.
A modo suo, le voleva bene.
«In ogni caso, dovresti muoverti a fare la prima mossa prima che la faccia quel ragazzetto biondo».
L’intima scena delle loro mani intrecciate che aveva rubato al processo gli balenò in mente e si chiese che tipo di rapporto avessero; poi, ricordò che anche poco prima si era avvicinata ad Eren fin troppo e senza indugio. Alla stessa velocità con cui aveva fatto quei pensieri si maledisse per aver dato retta alle parole di quella squilibrata.
«Taci, nana occhialuta».
Hanje esplose in una grassa risata e decise di non rispondere: le era bastato notare quanto la sua ultima osservazione avesse rotto la maschera di impassibilità che aveva tenuto Levi fino a quel momento e decise di scoprire che cosa le stesse nascondendo su quella ragazzina.
 
THUMP
Un suono come di un colpo secco attirò la sua attenzione. Si stava occupando delle loro attrezzature di riserva nel deposito a fianco le stalle, canticchiando a mezza voce una canzoncina popolare. Si mise in ascolto, ma per molti secondi dopo non sentì nulla, così pensò d’averlo immaginato. Tornò alla sua occupazione, ignorando la fame che iniziava a farsi sentire. Era quasi ora di cena ed era stata una giornata pesante.
THUMP
Stavolta si alzò, sicura di ciò che aveva sentito, ed uscì dal capannone in legno. Fuori era quasi il tramonto e l’aria era gelida.
«Chi c’è?»
THUMP
Si voltò a sinistra e mosse dei passi verso quel rumore, da qualche parte nel boschetto lì vicino, dove le reclute erano solite allenarsi. Man mano che s’avvicinava alla fonte si fecero sentire respiri accelerati, quasi dolorosi. Affrettò il passo, sempre più preoccupata ed alla fine, seduto tra alcuni cespugli, vide Jean, il volto contratto e le nocche spaccate piene di sangue.
«Oh, Jean...» sussurrò e cercò di andargli incontro il più silenziosamente possibile, aveva quasi paura di disturbare il suo dolore. Si inginocchiò al suo fianco e gli prese una mano, senza guardarlo in volto. Esaminò con attenzione quelle ferite, fortunatamente superficiali, e non fu difficile capire come se le fosse procurate: il suo sangue imbrattava anche il tronco di fronte a loro.
«Tento di tornare a vivere la mia vita, tento di fare come te. Ma ogni volta è sempre peggio».
Tallulah represse un moto di fastidio a quelle parole, come te. Come se lei fosse un robot insensibile, come l’aveva dipinta Klaus. Ciò nonostante, si sforzò di comprendere Jean. Era raro sentirlo parlare con quel tono spezzato, anzi forse non glielo aveva mai sentito.
«Il dolore ci sarà sempre, possiamo solo conviverci» mormorò lei con tono spento.
«Possiamo convivere con la morte dei nostri compagni. Ma come si fa ad andare avanti se ne siamo noi la causa?».
Una fitta strinse il cuore di Tallulah ed un flash di un visetto allegro dai capelli rossi le attraversò la mente. Alzò il volto verso i rami secchi degli alberi sopra di loro ed ascoltò il fischio del vento gelido.
«Questo, sto ancora cercando di capirlo»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto
 

Si svegliò all’improvviso nel buio della stanza ed emise un rantolo strozzato, facendo entrare nei polmoni quanta più aria potesse. Si tirò su con una mano sul petto, la pelle gelida, sudata ed impregnata di una sensazione d’angoscia terrificante. Era da molto che non le capitava un attacco così improvviso: ogni volta era come se non riuscisse a respirare, i polmoni schiacciati da un peso sconosciuto che aveva paura le avrebbe spaccato le costole. Tentò di regolarizzare il respiro, ma poteva sentire le palpitazioni aumentare: si rese conto ben presto di non star riuscendo a controllarsi, né a pensare a nulla che potesse tranquillizzarla. Dovette trascinarsi giù dal letto perché aveva un impellente bisogno di aria e sentiva che se fosse rimasta lì un minuto di più sarebbe soffocata. Infilò silenziosamente i piedi nudi negli scarponi di fianco al letto e si trascinò dietro la coperta, in fretta. Non si fermò nemmeno una volta fuori, continuò a camminare a grandi passi senza ben sapere dove stesse andando, volendo allontanarsi da quell’edificio che solo qualche giorno prima aveva chiamato casa.
Adesso gli sembrava una prigione così stretta da stordirla.
I suoi passi rallentarono quando percepì il respiro rallentare a sua volta. Il vento freddo le pizzicava le guance e si strinse un po' la coperta addosso. Pian piano, anche la testa smise di girare e si sentì riemergere da un buco nero. Vide un albero poco distante da lei e decise di raggiungerlo per sedersi sulle grosse radici che emergevano dal terreno. Posò la tempia sul tronco nodoso e continuò ad inspirare ed espirare nel modo familiare che le aveva insegnato Armin. Il suo primo pensiero era stato quello di raggiungerlo ed infilarsi nel suo letto, ma l’aveva immediatamente allontanato.
Fino all’anno prima lo aveva fatto spesso: quando non riusciva a dormire o si svegliava a causa di un incubo fin troppo realistico, sgattaiolava nel dormitorio maschile e gli sussurrava di farle spazio. La prima volta lui si era spaventato a morte e lei aveva dovuto chiudergli la bocca con la mano per evitare che svegliasse l’intero corpo cadetti; poi, lui l’aveva guardata meglio, tremante e a piedi nudi e aveva ceduto. Si sussurravano i loro ricordi più belli per combattere, a detta di Armin, i mostri neri della mente di Tallulah, fino ad addormentarsi, sfiniti. Lei aveva il sonno leggerissimo e appena i primi uccellini iniziavano a cantare, scivolava via dalle coperte e ritornava nel suo letto. Solo una volta era stato lui a svegliarla, silenzioso come un topolino, ma non le aveva mai detto il perché e lei non glielo aveva chiesto. Ora, tuttavia, doveva smetterla di far affidamento così tanto sull’amico, specialmente se questo aizzava commenti cattivi contro di loro. Si limitò a concentrarsi sui suoi ricordi più belli e non si accorse del tempo che passava.
Compleanno.
Fiori.
Lentiggini.
Uva.
Abbracci.
«Ohi, ti pare il modo di dormire?».
Tallulah sussultò ed aprì gli occhi di scatto, allarmata, stringendo istintivamente la coperta tra le dita. Poi, Levi entrò nel suo campo visivo, vestito di tutto punto come se fosse pronto a combattere.
«Cosa... Io-» balbettò lei confusamente «Come-».
Si rassegnò e chiuse la bocca, sospirando piano e facendo ordine dei pensieri che si stavano susseguendo a raffica nella sua testa. Lui la guardò un po' più serio di prima, come se avesse captato che c’era qualcosa che non andava.
«Stai male?».
Le parole gli uscirono in tono più dolce di quel che voleva e mosse un passo verso di lei: lo guardava con occhi persi, come un animale ferito e si sporse per toccarle la fronte. «Perché sei qui fuori a quest’ora?».
Tallulah non avrebbe dimenticato tanto facilmente il sollievo che la pervase al suo tocco: la sua mente si rischiarò pian piano ed il suo primo pensiero fu al motivo per il quale anche lui fosse lì.
«Avevo bisogno d’aria» riuscì finalmente a dirgli con voce sommessa e, dopo un attimo di esitazione, sollevò una mano in una muta richiesta di sedersi accanto a lei.
Levi soppesò il suo sguardo stanco e, stranamente, lo fece senza dire una parola.
«Tu che scusa hai?» chiese Tallulah dopo alcuni secondi di silenzio.
«Tra un’ora partiamo per l’addestramento di Eren»
«Ah, già» annuì lentamente. Poi si voltò appena verso di lui e lo osservò alla luce fioca della luna «Hai delle occhiaie più profonde delle mie»
Se rimase sorpreso o infastidito da quella constatazione, non lo diede a vedere.
«Non dormo mai molto» si limitò a commentare.
«A me piace dormire, ma raramente passo una notte senza svegliarmi»
«Girare per le osterie non aiuta, sai».
Lei sorrise appena «Non ci vado quasi più».
«Lo dici come se te ne rammaricassi»
«Infatti», strappò qualche filo d’erba ai suoi piedi. «Perché non l’hai mai detto a nessuno? Di quella notte intendo»
«A nessuno interessa una marmocchia ubriaca»
«Sai bene che mi avrebbero espulsa dal corpo cadetti».
«Se ci tieni tanto faccio ancora in tempo» borbottò.
«Ma fai sempre così? Eludi le domande degli altri?»
La fissò, vedendola quasi divertita. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era sollevato nel non vederle più in volto quell’espressione stravolta di prima.
«Dipende se gli altri sono altrettanto seccanti»
La risata cristallina della ragazza lo colse di sorpresa, dato che lui era tremendamente serio. Si dimenticò delle sensazioni opprimenti di poco prima, l’angoscia era passata, sostituita da uno strano senso di sicurezza.
«È strano parlarti così liberamente» notò lei, fissando quel profilo elegante.
«Non ti ci abituare, cadetto».
«Ancora per poco. A breve entrerò ufficialmente nel corpo di ricerca, Capitano».
Levi si irrigidì leggermente «Non dovresti»
«Perché no?»
«Perché non è un posto per una come te».
Una sensazione di deja-vu invase i due, ricordi di una notte molto simile, l’anno prima.
«E come sarei, di grazia?»
Dolce. «Debole».
«Posso allenarmi di più».
Come un vento estivo.
«Non intendevo in battaglia».
Seguì un silenzio accusatore in cui la ragazza smise di guardarlo, ma Levi sembrò capire ciò a cui stava pensando.
«Ho molti più anni di te e ho visto molte più persone cadere. Inoltre, riconosco un attacco di panico anche al suo termine»
«Sono una sopravvissuta. Trovo sempre il modo di andare avanti» ribatté, rifiutandosi di lasciarsi considerare una rammollita, soprattutto da lui; non immaginava di certo che Levi stava facendo i conti con i suoi pensieri dalla piega inaspettatamente morbida verso di lei. Le sue scelte non erano affari suoi e non era compito suo preoccuparvisi. Non aveva appunto osservato centinaia di soldati giovani come lei morire in modo atroce? Non li aveva allenati personalmente, forgiandone il carattere e spezzandone l’innocenza? Perché, da quando l’aveva incontrata per la prima volta, un moto di fastidio lo attraversava nel saperla parte di tutto ciò che era il suo mondo?
«È quasi l’alba» mormorò Tallulah interrompendo il flusso dei suoi pensieri, lo sguardo verso l’orizzonte. Il cielo iniziava a farsi rosa e si sentivano alcune rondini in lontananza.
«Devo andare. E tu, torna dentro» le disse con tono fermo.
«Levi, aspetta» si alzò anche lei, agitata dall’improvvisa fretta del soldato. Voleva dirgli quello che pensava, doveva farlo ora, in quel momento così strano e così intimo.
«Cosa c’è?» la guardò, con un lampo di curiosità negli occhi ed un insolito senso di familiarità nel sentirsi chiamare per nome.
«Mi sento ridicola con questa roba addosso e gli occhi gonfi, perciò magari potresti immaginarmi con un bel vestito o qualcosa del genere. In realtà nemmeno mi ricordo l’ultima volta che ne ho indossato uno... Ma in ogni caso-». Cominciò, iniziando ad arrossire e non riuscì più a guardarlo, forse era un errore, aveva appena espresso chiaramente di considerarla una debole. Che le saltava in testa? Affondò le unghie nei palmi e decise di farlo ugualmente. «Mi piaci, Levi. Mi sei sempre piaciuto, da quando ti osservavo partire a cavallo per le tue spedizioni dalla finestra di casa mia. Poi ti ho odiato insieme a tutto ciò che rappresentavi perché nel momento peggiore non c’eri a proteggere la mia gente; questo finché non mi hai mi hai lasciata vomitare sulle tue scarpe. Mi dispiace, sei stato il mio capro espiatorio, avevo bisogno di sfogare la rabbia su qualcuno. Non so nemmeno perché ti sto dicendo tutte queste cose, sono imbarazzata da morire, ma non so quando tornerete e non riesco proprio a smettere di-».
Un paio di mani si chiusero sul suo viso e le sollevarono la testa verso di lui.
«Mocciosa, quando si dichiara il proprio amore a qualcuno si deve avere il coraggio di guardarlo negli occhi» mormorò l’uomo e Tallulah lo fissò stupita e rossa. Era così vicino...
Levi le osservò il volto finalmente muto e la trovò bella.
Pura.
Vederla così, innocente e completamente alla sua mercé gli mise una gran voglia di sporcarla e tirarla giù nel fango, quello vero, il suo. Vide chiaramente lo sguardo di lei farsi vacuo e le sue labbra schiudersi appena. Una serie di pensieri osceni attraversò la mente del soldato, ma represse i suoi impulsi.
«Potrei divorarti in meno di un battito di ciglia, ma non sarebbe ciò che vuoi».
La sua voce si era abbassata di un’ottava e gli occhi gli si erano adombrati, ma furono quelle parole a farle venire i brividi, così come il suo respiro caldo.
«Dovrei essere io a decidere cos’è che voglio» gli soffiò lei, andando inconsciamente incontro a quelle labbra.
«Le mocciose non lo sanno ancora» disse e si allontanò leggermente, lasciandole il volto e permettendole di riprendere in mano i suoi sensi. Il contatto perso la innervosì più di quanto pensasse.  
«Ho diciassette anni!» sbottò Tallulah, con l’irritazione sulla pelle. Levi aveva il potere di farla passare dalla tristezza, alla lussuria, alla rabbia nel giro di pochi minuti.
«Precisamente ciò che direbbe una mocciosa» esclamò con una leggera ironia che Tallulah non colse e cominciò a camminare per dirigersi verso i cavalli.
«Spero che Eren ti mangi!» gli gridò dietro indispettita ed ebbe voglia di pestare i piedi per terra. Non era così che se lo era immaginata qualche minuto prima. La voce di Levi nella sua testa però la frenò.
Proprio come una mocciosa.

Ad ogni secondo il cielo si illuminava sempre di più, ma gli occhi del Capitano rimasero scuri mentre galoppava con la sua squadra ed il ragazzo titano verso la loro meta. Rifletteva, Levi, perché per un attimo era stato davvero sul punto di baciare quelle labbra carnose e questo non gli succedeva da molto, moltissimo tempo. Aveva quasi perso il controllo e per cosa? Per una ragazzina impacciata che aveva pronunciato un discorso delirante sul provare qualcosa per lui. Non solo: la naturalezza dei loro botta e risposta, lo strano senso di familiarità nel sentirle pronunciare il suo nome, l’assenza di ogni forma di gerarchia militare, tutto era fuori posto. Erano soldati che combattevano per salvare un mondo di merda, perché se lo dimenticava appena apriva bocca?
«Capitano, va tutto bene?».
Una voce dolce, alla sua sinistra lo distrasse: Petra lo osservava da un po' e lo conosceva abbastanza da riconoscere che fosse in tensione per qualcosa.
«Tutto bene. Non perdete di vista Eren».
 
Si era pentita di aver chiesto a Mikasa di aiutarla ad allenarsi, pensò respirando pesantemente. Lo aveva fatto perché sapeva che non si sarebbe risparmiata e perché aveva bisogno del suo silenzio tranquillo, ma forse era troppo forte per lei. Da quando aveva appreso in quel modo brusco la storia del passato tra lei ed Eren aveva la sensazione di capirla un po' di più, ma non aveva avuto il coraggio di tirar fuori il discorso. Era una questione così delicata e così lontana dal modo in cui lei aveva vissuto che non avrebbe saputo trovare le parole giuste, ne era sicura. Inoltre, non era sua intenzione turbarla. Un altro pugno saettò verso di lei, ma riuscì a schivarlo solo di poco e le colpì la spalla destra. Incassò il colpo prendendole il braccio teso e si voltò di schiena tirandolo, per tentare di atterrarla, con scarso successo. Era troppo forte e Tallulah lo sapeva bene: non sperava di vincere contro di lei, ma di imparare, e comunque quel pomeriggio le era stato utile. Al momento però era completamente esausta, sudata e con una fame da lupi.
«Devi tenere la postura sempre rigida o rischi di spezzarti il collo» disse la bruna e subito dopo il suo peso svanì, sancendo la fine di quell’allenamento.
«Odio il corpo a corpo» sbuffò Tallulah e stiracchiò i muscoli indolenziti.
«Tu odi tutto del combattimento» la rimbeccò mentre stringeva i lacci dei suoi stivali.
«Non è vero, volare mi piace» ridacchiò lei e si incamminarono insieme per tornare dentro. Faceva troppo freddo per rimanere ferme fuori a lungo.
«È un termine decisamente improprio per ciò che facciamo».
Al suo tono monocorde Tallulah sorrise, ricordando un modo molto simile di parlare, ma con occhi decisamente più azzurri. Pensò che in qualche senso si somigliassero quei due, all’apparenza così freddi e distaccati. Ripensare a Levi le fece venire in mente il loro ultimo scambio, cosa che in realtà aveva evitato per tutto il giorno, tenendosi occupata con il lavoro manuale.
«A cosa stai pensando?»
«Perché?»
«Sei arrossita».
«Mi chiedo perché la mia faccia sia sempre un libro aperto. Preferirei la tua, è molto più interessante» rispose fingendosi esasperata, ma Mikasa non si lasciò incantare.
«È successo qualcosa con Armin?»
«Ma niente, solo u-» si bloccò registrando le parole dell’amica. «Aspetta, cosa? Armin?»
«Sembra che tu lo stia evitando in questi giorni».
Tallulah aggrottò le sopracciglia, tentando di ricordare gli ultimi avvenimenti. In effetti si rese conto che dopo l’incidente con Klaus, si era inconsciamente allontanata da Armin. L’unica volta che erano stati insieme era stata al processo di Eren, lontano dai loro compagni e dal loro solito ambiente. Sospirò, ma non rispose.
«Parlagli. È un po' giù, anche se non lo mostra mai» disse infine Mikasa prima di aprire il portone ed entrare nel tepore dell’edificio. Già, Armin era come lei.
Solo a cena riuscì a vederlo e quando lui la salutò con un sorriso, si sentì in colpa. Gli si sedette accanto, fingendo interesse nella sbobba di riso di quella sera e ascoltando distrattamente la conversazione degli altri. Ymir insisteva che Christa non sapeva cavalcare a dovere e prima o poi si sarebbe fatta una caduta coi fiocchi e Jean parlottava con Connie di chissà. A parte il loro chiacchiericcio, il silenzio era rotto solo dal tintinnio delle posate sui piatti: erano tutti stanchi e inoltre, i posti vuoti nel refettorio erano più che evidenti. La sera prima avevano organizzato una sorta di funerale per i caduti: avevano bruciato i resti dei compagni, li avevano pianti e Tallulah aveva pregato per le loro anime. Per un momento, aveva ceduto all’inquietante pensiero di voler essere con loro, lontana da quell’inferno, dalla paura e dalla violenza. Ebbe un brivido: i suoi nonni e Sadie non avrebbero voluto che pensasse cose del genere.
«Non hai fame?».
Armin la ridestò dai suoi pensieri e si rese conto che il suo cucchiaio continuava a rimestare quella brodaglia.
«Da matti. Adesso mangio» rispose e per provarlo si infilò una cucchiaiata in bocca. Non senza una smorfia di disgusto che fece sorridere l’amico.
«Ti va una passeggiata dopo?»
 
«Avanti, sputa il rospo»
«Di già? Neanche un cosa hai fatto oggi? per rompere il ghiaccio?» provò a scherzare Tallulah e lui la liquidò con un gesto della mano.
«Non ne abbiamo bisogno»
«Sì, lo so» sospirò, tornando seria, e si sistemò alcune ciocche di capelli sfuggite alla treccia che si era fatta fare da Sasha. Tentennò per qualche secondo per trovare le parole giuste.
«Credo mi abbia urtata molto il modo in cui Klaus ti ha risposto l’altro giorno, quando hai preso le mie difese» disse infine.
«Era solo sconvolto. Perché ci dai tanto peso?».
Tallulah ripensò alla chiacchierata con Jean
«Beh, non ha fatto altro che scatenare una serie di pettegolezzi su di noi e non voglio che usino la nostra amicizia per ferirci».
Armin non rispose e distolse lo sguardo. Sembrava star riflettendo su qualcosa, come se fosse indeciso se parlare o meno.
«A cosa stai pensando? Lo sai che non sopporto quando non mi dici le cose» lo esortò la ragazza.
«Perché ti danno così fastidio i pettegolezzi su di noi?» chiese mormorando, improvvisamente molto serio. Tallulah aggrottò le sopracciglia, colta di sorpresa.
«In che senso?»
«Ti irrita tanto che gli altri pensino che stiamo insieme?».
Era evidente quanto gli fosse costato pronunciare quella frase, dato il rossore che gli era salito sul viso.
«No, è che-»
«Ti vergogni di me?»
«Certo che no!» sbottò lei e si prese una pausa per guardarlo negli occhi. «Mi sembra solo sbagliato che debbano aggredirci con le loro supposizioni»
«Non che abbiano tutti i torti» sussurrò, evitando ancora di guardare l’amica in faccia. Non credeva di essere così infastidito, in fondo. Tallulah era sempre stata una persona molto espansiva, in senso relazionale ed in senso fisico. Era capitato spesso che quando stava male riuscisse a calmarsi solo quando la stringeva, così come lei ascoltava qualsiasi suo pensiero con un’attenzione e una cura che Armin non riceveva nemmeno da Eren. Sapevano entrambi di non avere un rapporto tale con nessun altro, però la cosa stava iniziando a farsi pericolosa. Era arrivato al punto di sentirsi troppo coinvolto da lei e, per quanto potesse sembrare, non era così ingenuo da non riconoscere quelle sensazioni. In quel frangente l’ingenua era lei e l’aver sentito la percezione esterna del loro rapporto l’aveva spaventata. Non ne è nemmeno consapevole pensò il giovane, e questo dimostrava la cosa peggiore di tutte, quanto poco lo vedesse come un ragazzo come gli altri.
Dal canto suo Tallulah era sinceramente sbigottita. Non credeva che quella che era partita come una delle loro solite conversazioni serali, si trasformasse in una discussione. Per la prima volta non stava riuscendo a capire Armin, lo vedeva irritato e non sapeva per cosa. Spazientita, lo prese per un braccio per forzarlo a voltarsi verso di lei.
«Se sei arrabbiato perché in questi giorni mi sono allontanata, mi dispiace, ok? Non l’ho fatto con cattiveria, solo dovevo digerire un po' di cose e non mi andava di aumentare i gossip»
«Tallulah» disse e lei si ammutolì perché sapeva che quando la chiamava con il nome esteso la questione era seria. «Non siamo più dei bambini».
«E con questo cosa vuoi dire?».
Il biondino riconobbe che non sarebbe più potuto tornare indietro, a quel punto, e decise di dirle tutto ciò che pensava, fino in fondo. Peccato che il cuore sembrava intenzionato a schizzargli fuori dal petto: sperò con tutte le sue forze che lei non se ne accorgesse.
«Che gli abbracci e- e i baci potevano andar bene quattro anni fa» disse, inciampando a metà frase e arrossendo verso la fine. «C’è un motivo se i pettegolezzi girano»
«Ti danno fastidio?». Poi, si corresse «Ti do fastidio?»
«Sì! Voglio dire, n-no! Cioè-» si perse e nuovamente guardò in basso. Stava iniziando a pensare che fosse stata una pessima idea.
«Armin, non capisco».
Sbuffò, lui, e si spostò la frangia bionda dagli occhi agitati: era davvero stupida quando ci si metteva e il suo sguardo fisso su di lui non lo stava aiutando.
«Non mi dai fastidio. Ma non sopporto che non ti venga nemmeno in mente che sono-». No, non posso dirlo davvero. «-un maschio della tua specie».
Calò un silenzio imbarazzante, con quelle ultime parole che aleggiavano tra di loro. Armin voleva seppellirsi, ma non credeva che potesse andare peggio di così. E invece, dovette ricredersi quando vide Tallulah trattenere a stento una risata. Quello fu troppo anche per lui, che era sempre così razionale e pacato. Non si chiese nemmeno se lei avesse davvero capito ciò che aveva detto, un unico pensiero gli attraversò la mente come un lampo. Le si avvicinò di botto e la prese per le spalle, senza darle nemmeno il tempo di realizzare, e le baciò le labbra, mettendo fine a qualunque ilarità fosse presente nell’aria. L’istinto le aveva fatto chiudere gli occhi e per qualche attimo la mente di Tallulah andò in bianco. Non lo stava rifiutando: a questa immediata realizzazione la mano calda di Armin si sollevò di riflesso dietro la sua nuca e premette la bocca maggiormente su quella di lei. Al suono dello schiocco del bacio, tuttavia, Tallulah rinsavì di colpo.
«A-Armin!» si tirò indietro bruscamente e mollò la presa sulla sua maglietta che non si era neanche accorta di aver stretto tra le dita. Guardava con occhi sbarrati e un’espressione scioccata in volto il diretto interessato, che adesso aveva il capo chino e nessun coraggio per affrontarla. Tutto l’impeto di poco prima era svanito nel nulla e si ricordò perché gli piaceva tanto pianificare tutto e misurare ogni sua azione: poteva tenere sotto controllo le conseguenze.
«Mi spieghi!?» chiese ancora Tallulah con voce stridula; non sapeva bene per che cosa fosse tanto sconvolta, se per il fatto che Armin potesse in generale baciare qualcuno o se per il fatto che avesse baciato lei. Non per cattiveria, ma ai suoi occhi era sempre stato come un innocente fratello ed erano diventati amici quattro anni prima, quando lui aveva undici anni e lei tredici ed erano ancora dei-.
Non siamo più dei bambini.
La frase le risuonò in testa: per quanto il loro legame potesse essersi sviluppato, non era certo un legame di sangue. Per la prima volta provò imbarazzo davanti all’amico e anche lei si ritrovò a fissare il terreno.
«Scusa» le disse infine. «Non avrei dovuto. Buonanotte».
Si voltò e cominciò a correre, lasciandola indietro.
Continuava a ripetersi che non sarebbero più stati gli stessi insieme, che aveva rovinato tutto. Eppure, per quanta vergogna stesse provando, per quanto rimorso e preoccupazione potesse sentire, sapeva bene che avrebbe passato la notte a rievocare quei pochi secondi che gli avevano scaldato il cuore. Ore dopo, Tallulah non dormiva ancora e per la prima volta non erano gli incubi a tenerla sveglia: in pochissimo tempo aveva atteso un bacio che non era arrivato e ne aveva ricevuto uno che non si aspettava.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto
 

Le strade erano ancora brulicanti di infermieri e soldati che si adoperavano per ripulirle da corpi e macerie. Anche i cadetti avevano dato una mano nei giorni passati, ma quel lavoro sembrava non finire mai. La cosa peggiore era non riuscire a identificare i corpi e poi, la sera, tentare di lavar via la nausea con acqua e sensi di colpa. Quella mattina erano stati tutti richiamati dai piani alti con urgenza, ma nessuno ne seppe il motivo finché non vennero fatti riunire in una vecchia stanza nei sotterranei, non usata più da nessuno: qualcuno aveva ucciso dei giganti che erano stati catturati vivi, spento la piccola vittoria riportata dopo gli enormi sacrifici dell’ultima battaglia. Si vociferava che la caposquadra Hange Zoe non dormisse da tre giorni e tre notti per effettuare esperimenti inquietanti: sicuramente ora si stava strappando i capelli dalla disperazione. Chiunque era un sospettato a quel punto e un paio di soldati del corpo di gendarmeria stavano sfilando tra di loro interrogandoli sull’uso delle loro lame e dei rampini uncinati. Tallulah si sforzò di non storcere il naso per la puzza di umido che aleggiava tra quelle mura grigie e fissò la sua attrezzatura sistemata sul tavolo di fronte a sé, come quella di tutti gli altri. Il borbottio sussurrato che captava ogni tanto intorno a lei era segno che ai suoi compagni non stesse andando molto a genio quell’indagine. Sbirciò alla sua sinistra, qualche tavolo più in là, il caschetto biondo di Armin: sembrava tranquillo mentre parlava con Annie, chissà di cosa. A lei non era mai piaciuta quella ragazza dall’aria altezzosa e distaccata e probabilmente la cosa era reciproca dato che non si scambiavano mai una parola.
Di che diavolo staranno parlando?
Si mordicchiò il labbro sovrappensiero e la realtà sfumò mentre ricordava gli occhi bassi di Armin l’altra sera, dopo il bacio che le aveva rubato. Ancora non aveva capito se si sentisse più imbarazzata, dispiaciuta o arrabbiata, forse dipendeva dai momenti. Era cambiato tutto, la loro amicizia non sarebbe più stata la stessa e non riusciva a non dargliene la colpa. Allo stesso tempo, incomprensibilmente, si sentiva più vicina a lui di quanto fosse mai stata.
«Potete andare, qui abbiamo finito. Non abbiamo rilevato nessuna attività sospetta» disse la ragazza dal caschetto nero, finendo di scrivere qualcosa sui documenti che teneva tra le mani. Si scambiò un cenno con il suo collega e Tallulah li guardò andare via: sembravano gentili e sereni, concentrati unicamente sul lavoro e gli ordini da eseguire. Una come lei non sarebbe mai potuta entrare tra quei ranghi prestigiosi, distratta e maldestra com’era. No, una come lei, che aveva visto la morte in faccia, non avrebbe mai vissuto in pace con sé stessa protetta dalle vite di migliaia di altri soldati. Quella sera tutti i cadetti avrebbero fatto la loro scelta, segnato il loro destino e iniziato una nuova vita. Lei aveva già preso la sua decisione, eppure a quel pensiero si sentì tremare lo stomaco: entrare nella legione esplorativa significava vivere in un inferno perpetuo.
Il viso di Levi prese campo nella sua mente.
E tu, hai mai avuto dubbi?
«Tallulah, andiamo?». Christa le posò una mano sulla spalla riscuotendola dai suoi soliti viaggi mentali. Si affrettò ad annuire e seguirla fuori insieme agli altri.
 
Quel pomeriggio erano stati esonerati da ogni attività.. A Tallulah sembrava solo un altro modo per prendersi gioco di loro: non capitava un momento libero da moltissimo tempo, eppure eccolo, proprio nel momento meno opportuno, in cui tutti cercavano qualcosa con cui tenersi impegnati. Sembravano fantasmi che si aggiravano sul campo brullo, dove di lì a poco si sarebbe tenuta la presentazione delle tre legioni: solo un enorme palco troneggiava al centro di quello spiazzo.
«Perché mi segui?» le chiese bruscamente Jean, rifacendo per la quinta volta il giro del campo.
«Non ti sto seguendo. Ti sto tenendo compagnia» ribatté Tallulah di riflesso.
«Nessuno ti ha chiesto niente»
Tallulah sospirò: voleva cercare di distrarlo e di distrarre sé stessa da quell’ammasso di paura ed ansia che le attanagliava lo stomaco.
«Armin mi ha baciata» si ritrovò a confessare, prima che la sua parte razionale potesse fermarla. Jean si arrestò e la guardò sconvolto: aveva fatto centro, ma non sapeva se le conveniva più affrontare quell’argomento o i titani stessi. Però doveva dirlo a qualcuno; di solito era proprio Armin il suo confidente.
«Armin- COSA?» le domandò, ottenendo un sshuushhh dall’amica. La vide lanciarsi occhiate alle spalle, preoccupata se il biondino avesse sentito qualcosa; i loro compagni erano poggiati al muro, una decina di metri più in là. Perché aveva scelto proprio Jean
«Era ora» disse Jean, abbassando la voce e Tallulah aggrottò le sopracciglia.
«Sei serio? La nostra amicizia è rovinata»
«Perché? Avete la fortuna di stare assieme, non si sa per quanto. Dovreste godervela»
«Tu sei matto. Io ed Armin siamo come fratelli»
«Matta sarai tu. Scommetto che quel bacio ti è piaciuto» ghignò Jean e Tallulah incrociò le braccia.
«Non avevo mai baciato nessuno, come faccio a saperlo?» ribatté sulla difensiva.
«Se ti baciassi io ti piacerebbe?»
«Eugh». Tallulah gli lanciò una smorfia disgustata «Non provarci»
«Ehi! Saresti una ragazza fortunata se lo facessi» borbottò «Con Armin hai fatto così?».
A questo la ragazza non riuscì a rispondere e si sentì avvampare.
«Da quando ne sai così tanto?» mormorò acidamente, sperando che Jean non si accorgesse del suo imbarazzo.
«Ti ricordo che mi hai chiesto aiuto tu» rispose ghignando. Lei sbuffò, aggiustandosi l’elastico che le teneva su i capelli.  
«Senti Jean, posso farti una domanda personale?»
«Mhn»
«Hai mai amato qualcuno? Voglio dire, amato davvero».
Un viso attraversò la mente del ragazzo veloce come un flash ed al suo cuore mancò un battito, giusto un battito, prima di sprofondare in un abisso di piombo.
«Senti, ma ti sembra il momento di pensare a certe cose? Sei una vera rottura di coglioni» borbottò bruscamente e Tallulah si tirò indietro, risentita.
«Giusto, meglio continuare a rimuginare sulla morte» sibilò e gli voltò le spalle, con una strana rabbia verso tutti o solo verso sé stessa. Non aveva voglia di sentire nessuno, eppure il pensiero di stare da sola le sembrava intollerabile. Decise di riunirsi ai suoi compagni, rimanendo tuttavia chiusa in un muto silenzio; discorrevano tra di loro degli eventi passati e Tallulah si chiese come facessero.
Sono io quella sbagliata.
La voce cristallina di Armin la fece trasalire e si maledisse mentalmente per quella reazione. Forse doveva andare da lui e finirla di far finta di niente.
«Jean, allora entrerai nel corpo di ricerca?»
«Sì».
Sasha si intromise con veemenza «Ma cosa ti è successo? Non avevi paura?».
«Eh? Sentite, voi lo sapete tutti ciò che penso del corpo di ricerca»
«E allora perché lo hai scelto?»
«Non è che l’abbia scelto perché non ho paura dei giganti. In ogni caso, tenete ben in mente che io sono molto diverso da quel dannato che ha solo una gran fretta di morire»
«Ti riferisci ad Eren» disse Connie, mesto «Lui ormai ha già fatto da tempo la sua scelta».
Ricordavano bene tutte le volte che Eren aveva attirato l’attenzione di tutti con i suoi discorsi decisi e la sua volontà di ferro. Tallulah se ne era sempre tenuta alla larga, non le piaceva discutere, né schierarsi, si era limitata ad osservare i presenti e cercare di capirne le emozioni. Era una cosa che faceva spesso, la faceva sentire meno sola con le sue, di emozioni. Una voce lontana li richiamò, incitandoli ad allinearsi davanti al palco e il peso sul suo petto raddoppiò.
«In ogni caso, sappiate che non rischierò certo la vita perché spinto da qualcuno. Questa non è una scelta che si possa fare senza esserne convinti» disse Jean, con sguardo torvo. Intanto, un tramonto bellissimo inondava l’area, quasi a farsi beffa delle loro preoccupazioni e macabre prospettive future. Cominciarono i discorsi dei Capitani, pieni di promesse, di frasi di sostegno e parole di speranza. Suo malgrado, Tallulah non riuscì ad ascoltarli parlare e presto le figure imponenti che tutti stavano guardando assunsero contorni sfocati: un profondo senso di perdita la stava invadendo e nonostante si sforzasse di mantenere l’attenzione, ogni parola perdeva di significato non appena usciva dalle labbra del loro proprietario. Si sentì cadere lentamente, era piacevole, sembrava di scivolare sulla seta. Poi, fu come essere sott’acqua, i rumori le arrivavano ovattati e lontani ed ebbe la tentazione di chiudere gli occhi e lasciarsi andare a quelle sensazioni morbide.
Era così stancante vivere.
Una voce la chiamò, remota e impalpabile, come un soffio di vento.
Tallulah.
«Sadie?» mimò con le labbra lei, cercando di andare più a fondo in quell’abisso.
Tallulah.
Iniziò ad agitarsi e dei brividi freddi le percorsero il collo. Voleva raggiungerla.
«Tallulah».
Sbattè le palpebre e quel velo di Maya* scomparve.
Armin la osservò voltare gli occhi su di lui con un’espressione persa e respiri veloci. Sembrava una bambola svuotata. La teneva d’occhio da tutto il giorno, ma si era tenuto distante, rispettando i suoi spazi e preservando i suoi. Quando poco prima però l’aveva vista tremare e lo sguardo farsi vacuo, si era fatto largo tra i corpi che li separavano mormorando scuse, conscio che qualcosa non andava.
«Lu» sussurrò di nuovo, vedendola muta «Stai bene?».
A quella domanda le si riempirono gli occhi di lacrime, ma lei impedì che ne scendesse anche una. Annuì, il mondo attorno a lei ritornò reale, e strinse tra le dita un lembo della giacca di lui, non osando chiedere di più. Chissà cosa stavano pensando tutti quelli intorno a loro, che già lanciavano occhiate infastidite, curiose, malevole. Armin tornò a prestare attenzione al Capitano Erwin Smith, ma staccò la presa dell’amica sulla sua giacca per intrecciare le dita alle sue in una stretta forte. Tallulah abbassò lo sguardo e un calore familiare prese il posto dell’ansia pervasiva che le stava stringendo la gola.
Che sciocca che era stata ad evitarlo, a temere che tutto fosse cambiato.
Che sciocca che era stata a tentare di vivere senza di lui.
«Alla nostra nuova missione parteciperanno anche le reclute del corso di quest’anno. Ci aspettiamo un tasso di perdita intorno al trenta percento. Tra quattro anni saranno morti quasi tutti».
Un brusio spaventato si sollevò, ma fu prontamente interrotto «Tuttavia, chi riuscirà a sopravvivere diventerà una macchina da guerra inarrestabile. Pur conoscendo questa prospettiva, chi di voi desideri comunque rischiare la propria vita resti pure qui. Ora, provate a chiedervi se siete in grado di offrire il vostro cuore per il bene del genere umano!»
Ho paura.
Vinci la paura.
Morirò.
Ma non sarai sola.
Non sarò di nessun aiuto.
La differenza è nel cuore.
Fu felice di non essersi persa quelle ultime parole del Comandante: la convinsero ancora maggiormente di quanto fosse la scelta giusta. Si sentiva ancora tremare dentro, ma i suoi piedi erano ben piantanti sul terreno, insieme a quelli di Armin e di Mikasa poco distante, che non si mosse di un millimetro. Vari cadetti fecero dei passi indietro, alcuni più in fretta che potevano, altri indecisi, in piena guerra interiore. 
Quegli istanti sospesi determinarono il destino di tutti i presenti: coloro che rimasero avevano i volti contratti e gli sguardi scuri. Fu a loro che Erwin Smith rivolse un’altra domanda «Adesso ditemi, siete pronti a dare anche la vostra vita?».
«Noi non vogliamo morire!» gridò qualcuno.
«Capisco. Mi piace molto il vostro sguardo: adesso vi accolgo tutti quali nuovi e fieri membri del Corpo di Ricerca! Questo è il nostro saluto».
Fu costretta a lasciare la mano di Armin per mettere il pugno sul cuore e legare per sempre la sua esistenza a quell’uomo, a quella squadra, a quell’ideale.
Salvare il mondo.
 
I nuovi alloggi erano senza dubbio migliori di quelli precedenti, ma Tallulah era sicura che tra tutti i corpi militari fossero i meno abbienti. Ricordava bene gli sguardi sprezzanti diretti verso la legione esplorativa durante il processo di Eren. Le reclute erano state smistate in stanze da quattro e lei aveva scelto il letto sotto la finestra, approfittando del fatto che a nessuna delle sue compagne importasse molto.
«Mi scoppia la testa» si lamentò Sasha, buttandosi sul materasso.
«Cerca di dormire» le disse Mikasa, piegando i suoi vestiti con espressione stanca.
«Già» borbottò Tallulah «Sono certa che domani ci faranno alzare all’alba»
«Non vedo l’ora di fare colazione»
«Sasha.. hai appena cenato»
«Lydia, ti sorprendi ancora?» disse Mikasa alla ragazza bionda di fronte a lei, prima di infilarsi la camicia da notte, ascoltando distrattamente le compagne di stanza.
Poi, si avvicinò a Tallulah, intenta a cercare di districare i nodi tra i suoi capelli.
«Secondo te Eren è qui?» le sussurrò, quasi timida. L’amica le accennò un sorriso, intimamente contenta della fiducia che le stava dimostrando. Mikasa non si apriva mai facilmente.
«Onestamente, non lo so. Immagino lo scopriremo nei prossimi giorni»
La vide sospirare impercettibilmente e le toccò una spalla.
«Sono sicura che sta benissimo. È forte».
Annuì e inaspettatamente le accennò un sorriso.
 «Hai dei bei capelli» disse poi, spostando lo sguardo sui ricci castani.
«Non direi, mi fanno diventare matta».
Quando fu sotto le coperte guardò il cielo dalla finestra e le venne voglia di andare a fare una visita ad Earl, sgattaiolare fuori e far finta di avere un’altra vita. Chiuse invece gli occhi e si forzò a rimanere nel suo letto: avrebbe smesso di cedere a tutte le sue debolezze.
 
«Il Comandante le chiede di firmare questo documento, Capitano».
Sbuffò internamente, volgendo la sua attenzione verso il soldato che aveva appena bussato alla sua porta.
«Lo sa bene che odio queste scartoffie» borbottò, più rivolto a sé stesso che al suo interlocutore. Suo malgrado, prese i fogli che gli porgeva e i suoi occhi saettarono distrattamente sulla grafia ordinata. Prese la penna e scarabocchiò una sigla in basso. Non capiva perché Erwin continuasse a metterlo in copia lettura di tutto ciò che approvasse o rifiutasse: sapeva bene che non aveva la minima voglia di intromettersi in questioni politiche, eppure si comportava come se volesse istruirlo. Levi era consapevole di essere la persona meno adatta a prendere il suo posto in caso di una morte prematura; il suo destino era combattere, mettere in ginocchio i suoi avversari, ucciderli. Sentire i muscoli bruciare, il sudore impregnare le vesti e trafiggere corpi, questa era la sua vita, ciò che gli era familiare e in cui sapeva di non avere rivali. Non conosceva un altro modo di vivere e, onestamente, neanche gli interessava.  
«Grazie Capitano. Un’ultima cosa: il Comandante voleva avvisarla dell’arrivo delle nuove reclute avvenuto ieri e di presentarsi alla cena di stasera per dar loro il benvenuto».
«Grazie, puoi andare».
Dare il benvenuto a pezzi di carne che andranno al macello, pensò cinicamente.  Forse era lui quello sbagliato, l’unico che non si lasciava mai andare, che non mollava mai la presa su ciò che incombeva su di loro. Essere la speranza dell’umanità aveva i suoi svantaggi. Si alzò e si avvicinò alla finestra, socchiudendo appena gli occhi quando il sole gli illuminò il viso. Fu proprio in quel momento che vide Ness davanti alle stalle parlare ad una schiera di ragazzini attenti e aguzzò lo sguardo: qualche momento dopo storse le labbra in una smorfia.
Alla fine, era entrata davvero nel Corpo di ricerca.
Mocciosa suicida.
 
Avevano indossato le loro uniformi da cadetti perché non erano ancora arrivate quelle nuove e questo li rendeva immediatamente riconoscibili agli occhi di tutti gli altri soldati. Nonostante ciò, non si sentiva in soggezione in quell’enorme salone rustico, dove erano riuniti in attesa dei loro Capitani. Lunghe tavolate riempivano la maggior parte dello spazio ed erano apparecchiate in modo semplice, ma dignitoso. Si sentiva più serena e quasi allegra all’idea di poter passare una sera normale.  
Per quanto sia possibile per noi la parola normale pensò sarcastica.
«Ciao. Piacere, sono Maria. Lui è Dimitri»
«Ciao, io sono Tallulah e loro sono Mikasa e Armin» sorrise ai ragazzi di fronte a lei che si erano avvicinati.
«Siete arrivati ieri notte vero?»
«Sì. Non ci aspettavamo un comitato di benvenuto»
«Infatti, è la prima volta. Credo che il Comandante Erwin voglia sollevare un po' gli animi» rispose la ragazza, spostandosi la frangia dagli occhi.
«Voi siete amici del ragazzo titano?» domandò Dimitri con interesse.
«Si chiama Eren» borbottò Mikasa, lievemente infastidita.
«Non è ancora arrivato, tra l’altro» esclamò Armin guardandosi intorno.
«Che forza!»
«Il Capitano Levi non lo molla un attimo, sicuramente sarà con lui» disse Maria, fulminando l’amico con lo sguardo. Sentendolo nominare Tallulah avvertì lo stomaco contrarsi: l’avevano incrociato un paio di ore fa, davanti alle stalle, proprio quando avevano riabbracciato Eren. Mai come allora si era pentita di quel mi piaci detto impulsivamente ed una vergogna sconosciuta le aveva imporporato le guance. D’ora in avanti si sarebbe dovuta abituare alla sua presenza, si sarebbero incrociati molto più spesso e doveva ammettere di avere sensazioni contrastanti al riguardo.
«Non lo invidio affatto, le punizioni del Caporale sono le peggiori si lamentò Dimitri ed Armin lo guardò preoccupato.
«Ha l’aria di essere piuttosto intransigente in effetti»
«Credetemi, è meglio non contrariarlo». Maria si sporse leggermente per guardare qualcosa alle loro spalle «Toh, si parla del diavolo...».
Si voltarono quasi simultaneamente e il chiacchiericcio intorno a loro si calmò quasi del tutto quando il Comandante Erwin e i Capitani entrarono nel refettorio. Eren era con loro, come previsto, e il suo sguardo vagò sui presenti fino a che non vide i volti dei suoi amici di infanzia.
«Buonasera a tutti. Come ben saprete, ieri si sono uniti a noi molti valorosi soldati e oggi diamo loro il benvenuto come possiamo. Abbiamo passato momenti difficili e ce ne aspettano sicuramente altrettanti, ma per stasera non vi tedierò con discorsi di guerra. Rifocillatevi e benvenuti nella legione esplorativa!».
Con quell’ultima frase diede il via alle danze e i ragazzi si sparpagliarono andando a sedersi: un brusio allegro si diffuse nuovamente, mentre alcune domestiche portarono grossi pentoloni fumanti. Molti non erano mai stati serviti a quel modo ed anche se il cibo era molto semplice, sembrò loro una cena da re. Tallulah guardò verso il tavolo dell’élite della legione e pensò che Erwin ci sapesse fare: nonostante l’aria severa, le parve una brava persona. Non era costretto a preoccuparsi del loro benessere psichico, eppure eccoli lì, tutti insieme a cercare anche solo un sorriso nei volti attorno a loro. Nella sua ingenuità non pensava, Tallulah, a quanto altro ci fosse dietro ad una mossa come quella. Erwin Smith era un uomo d’onore, giusto e dignitoso, ma aveva capito bene che soldati grati fossero soldati più motivati negli addestramenti ed efficienti sul campo di battaglia. Forse anche per questo Levi odiava quelle occasionali festicciole manipolatorie. Conosceva bene il suo mentore ed anche se lo rispettava, non si riconosceva nel suo modo di affrontare il comando.
Per questo, probabilmente, Erwin sarebbe sempre stato un passo avanti a lui e a chiunque altro. Quella serata, tuttavia, gli sembrò meno insopportabile del solito, nonostante le risate sguaiate di qualche idiota lì in mezzo e Ouruo che continuava a sparare stronzate. Nel momento in cui aveva concesso ad Eren di raggiungere i suoi amici, l’aveva seguito con gli occhi ed inevitabilmente lo sguardo era scivolato su di loro. La sua ragazzina sembrava divertirsi molto a giudicare dall’espressione entusiasta con cui stava raccontando chissà cosa agli altri; era sicuro che avrebbe finito per strozzarsi se avesse continuato a mandar giù i bocconi così in fretta, nella furia di ciarlare.
«Sta’ tranquillo, non accadrà nulla ad Eren» gli mormorò Hanje alla sua sinistra.
Lui la guardò di traverso «Certo che no»
«Quindi non sei preoccupato per lui?» chiese lei con un sorrisetto.
«Perché dovrei?» rispose seccato, chiedendosi cosa diavolo volesse da lui stavolta.
«Beh, perché è la quinta volta che lanci occhiate al suo tavolo concluse Hanje, soddisfatta. L’irritazione cominciò a salirgli attraverso le viscere ed alzò gli occhi al cielo.
«Adesso sei diventata una stalker? Sono la tua fottuta ossessione o qualcosa del genere?»
«Oh sì, passo le notti a desiderare di vivisezionare il tuo cervellino, tesoro»
«Disgustoso» borbottò con una smorfia, rabbrividendo all’immagine di sé come cavia di quella maniaca occhialuta.
«Di sicuro non sono l’unica a passare le notti pensando a te» disse con tono trasognato, bevendo un sorso d’acqua e fissando eloquente il tavolo di Eren.
«Non so a cosa ti riferisci» ribatté Levi, mantenendo un’espressione vuota.
Quella risposta sembrò ad Hanje la conferma definitiva delle sue supposizioni:
le aveva già detto quelle esatte parole in un’altra occasione.
«Avanti, dimmi chi è»
«Non so a cosa ti riferisci».
Tra lui e quella ragazza simpatica era successo qualcosa e questo la elettrizzò più di quando aveva catturato Bean.
Beh, quasi più di quello.
«Di che si parla?» si intromise Moblit, seduto di fronte a loro. L’occhiata fulminea che Levi scoccò alla scienziata avrebbe terrorizzato il criminale più incallito, ma non lei. Le si illuminarono gli occhi ed urlò un esaltato:
«Avevo ragione!», attirando parecchi sguardi su di loro. Levi giurò di fargliela pagare e stava per pestarle un piede, se non avesse casualmente incrociato gli occhi miele di Tallulah. Fu in quel preciso momento che si rese conto di una cosa e si maledisse da solo: l’aveva chiamata sua.
 
In quei giorni, fu come se qualcuno avesse premuto il dito sull’acceleratore, i ragazzi arrivavano a cena provati mentalmente e fisicamente. Stavano preparando una spedizione, la 57ª: al mattino Ness spiegava loro più e più volte le procedure che avrebbero dovuto seguire durante le esplorazioni ad ampio raggio. Ognuno avrebbe avuto un ruolo ben preciso e ogni movimento era stato studiato dal Comandante Erwin in persona. Tallulah comprendeva l’importanza di assimilare quelle strategie, era una questione di vita o di morte, ma trovava difficile non scalpitare su quei banchi legno. Armin, invece, sembrava fosse nato per questo. A volte lo guardava di sottecchi scrivere appunti e riflessioni, con i suoi grandi occhi blu concentrati sul foglio; la maggior parte delle volte lui faceva finta di non accorgersene. Non avevano più avuto tempo di parlare, tantomeno di pensare a ciò che era successo tra di loro. Era come se avessero stabilito un tacito accordo.
Ho bisogno di te.
E io di te
Possiamo ignorare questa cosa?
Va bene, pensiamo a sopravvivere. Ma, prima o poi...
L’ora di pranzo era solitamente caotica: nessuno era abituato a stare seduto per ore e il refettorio si animava particolarmente.
«Scommetto che Jean non ha capito nulla della lezione» sghignazzava Connie ogni giorno e Jean si infuriava, a dispetto di Armin che tentava di convincerlo ad ignorarlo con un sorriso esasperato. Sasha era la solita Sasha e ogni tanto Tallulah cercava di distrarla per rubarle il pane dal piatto: non sempre la cosa finiva bene. Mikasa era silenziosa, ma sembrava più tranquilla dopo aver visto Eren e aver saputo che era lì, sano e salvo e sotto il loro stesso tetto. Tutti stavano cercando una parvenza di quotidianità per sopravvivere al pensiero di ciò che avrebbero dovuto affrontare.
Tuttavia, nel pomeriggio di pensare non c’era proprio tempo: l’addestramento fisico era molto più pesante di quanto erano abituati. Si allenavano con i loro compagni più grandi e con più esperienza, ma il Capitano Ness li supportava costantemente.
Sembrava la quiete prima della tempesta.
In uno di quei giorni, poco prima di cena, qualcuno urlò che le uniformi per le reclute erano arrivate. Le indossarono lì, nel cortile, e sembrò che per un attimo il tempo si cristallizzasse, mentre i loro mantelli brillarono al sole aranciato del tramonto. Tallulah amò immediatamente quelle ali e sentì che sarebbero diventate un’estensione di sé: l’avrebbero portata oltre confini che neanche poteva immaginare.
 
And I don't care if I sing off key
I find myself in my melodies
I sing for love, I sing for me
I shout it out like a bird set free.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto
 
 
Le memorie ti scaldano da dentro.
Ma ti fanno anche a pezzi.
 
 
 
Tredici giorni prima della spedizione
 
«Mi ricordi mio fratello Malik, il problema è che lui ha otto anni».
La sua risata era di quelle che dovevi seguire, a prescindere da ciò che l’aveva causata. Tallulah addentò una delle mele che avevano appena rubato dalle cucine.
«Per il furto o perché odio le verdure?» le chiese, un sorriso ancora sulle labbra.
«No, perché sei una peste e una frignona, ma tutti ti amano» rispose Maria, picchiandole un dito sulla testa.
«Sei sicura di non star parlando di te?» ribatté Tallulah e la rossa rise ancora, piegando la testa all’indietro.
«Comunque...» aggiunse la riccia poggiando i gomiti sul tavolo. «Anche tu mi ricordi qualcuno.
 
Era quasi tutto pronto.
Tallulah era nervosa, ma tentava di camuffarlo: lo si notava da come continuasse a sistemarsi l’elastico tra i capelli e a chiedere ad Armin di ripeterle la loro formazione.
«Mi rifiuto di rispiegartelo» esclamò quest’ultimo, esasperato.
«Ti prego! Morirò di sicuro se non me lo dici» cantilenò, giocando con lui per l’ennesima volta da quando si erano svegliati.
Sasha, suo malgrado, rise «Ammetto che questi siparietti mi erano mancati. Finalmente siete tornati normali».
«Perché, prima come eravamo?» chiese Tallulah, incrociando le braccia.
«Io preferirei che chiudessi la bocca. Mi stoni il cervello da ore» borbottò Jean.
«Quale cervello?» gli chiese lei, ghignando e facendogli una smorfia.
Persino Mikasa sorrise a quel punto, ma si perse la controbattuta di Jean perché tornò a volgere lo sguardo verso Eren: le sembrava sereno nonostante l’espressione seria e si sentì rassicurata. Nessuna forza fisica si poteva paragonare alla sicurezza che la sola presenza del ragazzo le trasmetteva. Se lui era fiducioso, lei era fiduciosa; se lui era preoccupato, lei era preoccupata. Funzionava così da sempre e probabilmente così avrebbe continuato ad essere. Non si era accorta che Tallulah aveva spostato lo sguardo su di lei e aveva capito. Il suo sguardo si addolcì e pensò che la corvina avrebbe sicuramente voluto abbracciare Eren, ma non le passava neanche per la testa l’idea di farlo. Eppure, nessuno di loro aveva la certezza che sarebbe tornato e forse avrebbero fatto meglio a dirsi le cose importanti. Un lampo, e taglienti occhi azzurri le attraversarono la mente in un flash. No, non aveva più niente da dire a Levi, si era già messa in ridicolo abbastanza. Si soffermò sulla figura di Armin, indecisa se tacere o augurargli semplicemente un buona fortuna, quando un colpo di tosse la distolse dal suo trip mentale. Si voltò di scatto e rimase scioccata nel constatare che i suoi pensieri si erano materializzati: il Capitano Levi era proprio a due passi da lei.
Poco prima l’uomo aveva interrotto bruscamente la conversazione con Petra poiché aveva visto qualcosa che non andava nella sella della ragazzina. Nemmeno si domandò per quale motivo o quando i suoi occhi avevano cominciato a seguirla sempre più spesso. Conscia della situazione, Tallulah si raddrizzò e fece il saluto militare, seguita dai suoi compagni più vicini.
«Buongiorno Capitano» esclamò con voce innocente, tentando di non arrossire.
Levi soppresse la tentazione di sollevare le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Vieni. Serve che tu faccia un lavoro prima di partire» ordinò, voltandosi subito dopo. Tallulah lanciò uno sguardo agli altri e con un’alzata di spalle si affrettò a seguirlo; camminarono a quel modo per qualche metro fino a girar l’angolo e procedere in direzione delle stalle. La ragazza era in conflitto: una parte di lei voleva fermarlo e chiedergli cosa volesse. L’altra parte non osava, conscia ora del suo rango superiore. Arrivarono fino al grande capannone, vuoto, dato che tutti i cavalli erano fuori con loro. Levi entrò e sempre senza una parola si avvicinò alla cassa in cui riponevano le loro strumentazioni, iniziando a rovistare lì dentro.
A quel punto non ce la fece più «Cosa stai facendo?»
«Tieni» disse lui nello stesso momento.
Tallulah prese le cinghie che le aveva porto e le fissò senza capire.
«Le tue sono rovinate e sicuramente si slacceranno. Sai cosa vuol dire? Farai un volo all’indietro di un bel po' di metri, probabilmente sbatterai violentemente la testa e se non morirai dissanguata, morirai qualche secondo dopo divorata da un fottuto gigante».
Il suo tono indifferente mentre le dipingeva quelle immagini fu come una lama ghiacciata che le entrò lentamente nelle viscere.
«Grazie» mormorò lei e Levi stava per sottolineare la sua incompetenza nel non accorgersi di un tale lampante problema quando la guardò e lesse paura nel suo sguardo; quella paura che lei stava tentando di soffocare fin dalla sera prima. Levi la stava costringendo a guardare in faccia la realtà, nuda e cruda, proprio come faceva lui, ma non ci era abituata. Per un secondo, solo per un secondo, mentre si specchiava negli occhi freddi di lui le tremò il labbro superiore.
La mano del caporale si sollevò impercettibilmente, come se volesse toccarla.
Rassicurarla.
Realizzando quel pensiero, strinse le dita in un pugno e si allontanò di un passo, quasi a volersi accertare di non fare azioni sconsiderate. Non sapeva perché continuasse ad osservarla da lontano, perché si sentisse preoccupato per lei, tuttavia ne iniziava a comprendere la pericolosità.
«Levi» lo chiamò, di nuovo con il suo nome, e questo lo irritò.
Doveva smetterla o le conseguenze sarebbero state disastrose.
«Capitano» la corresse duramente e lei si morse un labbro, mortificata.
«Capitano» ripeté allora, con voce sottile «Stia attento, per quanto possa suonare stupido detto da me».
Levi alzò gli occhi al cielo: le aveva appena fatto capire quanto fosse vicina alla morte e lei si preoccupava per lui.
«Torna dai tuoi amici, mocciosa» disse, uscendo dalle stalle. Si fermò un attimo e le rivolse un’ultima occhiata. «Resta viva».
Quella fu la goccia e il vaso traboccò. Rimase da sola e improvvisamente respirare divenne difficile: ciò nonostante corse fuori, ripercorrendo all’indietro la strada fatta poco prima. Le campane cominciarono a suonare in quel momento, segno che stavano per partire e doveva sbrigarsi. Continuò a correre fino a che non raggiunse gli altri e andò dritta da Armin, che stava per salire a cavallo.
«Lu, dov’eri finita?» le disse, sentendosi tirare all’indietro.
«Armin, ho paura. Ti prego, sta attento» gli disse d’impeto e poi lo strinse, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. «E scusami se faccio sempre la stupida».
La formazione li avrebbe separati e lei aveva troppa, troppa paura di morire o di perdere qualcuno. Far finta che non stavano per rischiare tutto non avrebbe cambiato nulla. Il biondo sospirò e la abbracciò di rimando, anche più forte di quanto volesse.
«Posso-» le sussurrò appena nel suo orecchio, ingoiando l’imbarazzo. «Posso darti...?».
Se dovevano morire non aveva niente da perdere.
A quelle parole lei si allontanò quel che bastava per guardarlo e quando capì cosa le stava chiedendo, non si soffermò a pensare. Si sporse e lo baciò leggermente, chiudendo gli occhi e inspirando il suo odore familiare e tranquillo. Quando si staccò, Armin sorrise appena, lievemente in imbarazzo, e sciolse l’abbraccio.
«IN POSIZIONE!».
 
Cavalcavano da circa quindici minuti e Tallulah scrutava attentamente l’orizzonte: per adesso non si vedeva nulla arrivare e tutto procedeva come previsto. I razzi verdi stavano indicando loro la direzione da intraprendere ed il suo cavallo, Sherold, pareva tranquillo. Con lei c’erano Maria, Lydia e due ragazzi, volti con cui aveva scambiato poche parole durante i pasti e le ore di allenamento.
«Ricordatemi perché siamo qui» borbottò Abel, continuando a guardare in ogni direzione con il volto contratto.
«Ma come, non lo vedi? Stiamo andando in vacanza» rispose Maria con un ghigno cinico.
«Sul serio? Fare dell’ironia in un momento del genere è troppo anche per te» la rimbeccò Narke.
«Lulitaa, avanti, difendimi!».
Tallulah sorrise, ma non disse nulla, fin troppo concentrata a ciò che era attorno a lei; a parte il vento che sferzava nelle orecchie e gli zoccoli che cavalcavano il terreno tutto era silenzioso. Sentiva quasi bruciare il fianco destro, là dove si trovava la pistola e le scorte di fumogeni.
Sperò con tutte le sue forze di non dover usare quelli peggiori.
«Ehi, sento qualcosa» mormorò Lydia e pochi secondi dopo videro un fumogeno sfrecciare verso l’alto, lasciando una scia nera.
Come non detto.
Erano una delle squadre più esterne sulla destra, subito dopo la squadra di localizzazione, e immediatamente tutti si zittirono e si misero all’erta.
«Non vedo un cazzo di niente» borbottò Abel, teso.
Maria caricò la sua pistola e segnalò il titano anomalo.
«Qualcosa deve essere sfuggito alle vedette»
«State pronti, ragazzi. Non possiamo sapere se riusciranno ad abbatterlo».
«In teoria dovremmo essere protetti. Ci sono due reclute con noi, non-»
Ancora una volta, fu Lydia ad indicare qualcosa alla loro sinistra, interrompendo Narke. Tallulah aguzzò la vista e scorse una grossa nube di polvere. Con il fiato sospeso, non poterono far altro che aspettare che si avvicinasse per capire come agire.
«Merda» le sfuggì a mezza voce non appena poté mettere a fuoco quella figura mostruosa e strinse maggiormente le redini, accelerando.
Era enorme, forse una quindicina di metri. Alto e veloce, aggiunse la sua mente, notando quanto in fretta si avvicinava. 
«Dobbiamo fermarlo, non possiamo lasciare che si avvicini alla formazione» esclamò Maria, senza più traccia di divertimento.
Tallulah la guardò e «Ma... Se è arrivato da noi vuol dire che...».
Stavolta fu lei a non rispondere, ma negli occhi aveva quella stessa consapevolezza mentre fissava quel gigante.
«Non avrei voluto chiedervi di combattere, non siete pronte. Ma devo». Tirò fuori la lama, seguita immediatamente dagli altri. «Facciamolo fuori questo bastardo».
Di solito scene come quella venivano dipinte come momenti eroici in cui il tempo rallentava e tutto aveva una sua forma chiara e definita. Lei però aveva già sperimentato la battaglia e sapeva che la realtà non era così, la realtà travolge senza dare nemmeno un secondo di tregua. Alla fine, venne colta impreparata lo stesso; in fondo, non si è mai pronti ad una carneficina. La terra tremò al passo di quella bestia che in un battito di ciglia era tra di loro; vide appena in tempo il piede che la sovrastava e con uno scatto cambiò direzione per schivarlo. Abel, dietro di lei, saltò, evitando zolle di terra sollevate dal gigante e si arpionò con i cavi al suo polpaccio impugnando le lame con forza. Gli ferì una gamba e senza perdere tempo, riposizionò l’arpione per risalire il corpo e mirare al collo. Non fece in tempo neanche ad arrivare all’altezza delle spalle, il gigante lo afferrò, dimostrando dei riflessi non comuni, e lo fissò con sguardo cupo. Tallulah gelò ed ebbe l’impressione che quell’anomalo stesse pensando: quelli non erano occhi vuoti e assenti, erano vivi.
Chiuse la mano che teneva Abel, stritolandolo come uno straccio bagnato, e poi lo lanciò via, davanti alle espressioni sconvolte dei suoi compagni. Narke urlò di rabbia e direzionò il cavallo, salendovi in piedi e lanciando immediatamente un arpione alla coscia enorme, ma venne intercettato a metà strada: il gigante sollevò l’altra gamba e lo calciò con una violenza inaudita.
Ma.. Ma che succede.. Non ci sta mangiando fu l’improvvisa realizzazione di Tallulah che la spinse a guardare Maria e leggere le sue stesse intenzioni.
«Lydia, insieme!» urlò e abbandonò il suo cavallo, volando verso il gigante nella direzione opposta delle altre, da dietro. L’anomalo sollevò una mano e andò a coprirsi la nuca, dando conferma alle sue supposizioni.
Aveva una coscienza.
Capì di dovergli ferire la mano e l’unica possibilità era approfittare di un attacco combinato. Le ragazze gli erano davanti e stavano per sferrare un fendente, quando il gigante si voltò fulmineo, troppo veloce per la sua stazza, e Tallulah vi si ritrovò faccia a faccia. Nemmeno in quel momento il tempo rallentò. Venne colpita senza che potesse vedere come e perché e l’impatto con la terra fu brutale: le tolse il fiato per parecchi secondi e un fischio potente le esplose nel timpano. Poteva ancora sentire vibrare sotto di sé e mosse appena le dita.
Alzati.
Sentì un urlo rabbioso e riconobbe a stento la voce senza parole di Maria, troppo sovrastata da quel fischio. Si forzò a percepire lentamente tutte le sue membra e il dolore arrivò, al petto e su un fianco.
Sei viva, alzati!
Piegò le braccia e fece leva su di esse, ignorando i muscoli tremanti. Le costò fatica sollevare la testa e forse rimpianse quella scelta. Forse, un giorno, avrebbe rimpianto di non essere morta lì, in quella distesa di campagne verdi, libera solo per qualche ora d’inferno. Maria si librava ancora in aria, preda da una furia cieca, senza dare il tempo a quel gigante di afferrarla. Era rimasta sola, ma non riuscì a capire dove fosse Lydia. Ingoiò il dolore familiare della perdita e si mise in piedi, tenendo gli occhi fissi sulla chioma rossa. Per un attimo, il dolore al petto si amplificò e vide un altro viso, un'altra chioma.
Le ricordava Sadie, Maria.
All’improvviso fu come se l’anomalo si fosse stancato di giocare e saettò verso di lei, mosca fastidiosa che continuava ostinata ad attaccarlo.
«NO!». La voce le scoppiò nei polmoni, la lucidità tornò e le sue gambe si mossero da sole con uno scatto, correndo verso di loro. Quella mano enorme afferrò il cavo di manovra di Maria e per un attimo gli occhi azzurri del gigante saettarono su Tallulah che sfrecciava verso di loro. Allungò il braccio all’indietro per prepararsi e fu come se prendesse la mira: lanciò il corpo dell’amica e non fece in tempo a spostarsi.
Nemmeno durante quel volo il tempo rallentò.
Venne travolta, per la seconda volta, e sbattè la testa con violenza.
Poi, il buio.
 
Cinque giorni prima della spedizione
 
Erano semisdraiate sul letto di Tallulah e parlavano a bassa voce da ore, per non svegliare le altre. Erano state gentili a far rimanere Maria e non volevano disturbarle, ma non riuscivano ad addormentarsi. Erano entrate in sintonia in un modo così naturale che in pochi giorni si erano entrambe aperte l’una all’altra quasi completamente. Le aveva persino raccontato ciò che era successo con Armin, provandole a spiegare il loro rapporto.
«Ma sei proprio tonta. Come hai fatto a non accorgertene?»
«Non ti ci mettere anche tu»
«L’ho capito subito, si vede lontano un miglio: se lui si muove, tu ti muovi. È bello, un po' ti invidio».
Tallulah si mise a riflettere su quelle parole e sentì che le piacevano. Sì, era bello il suo rapporto con Armin.
«Non lo so, è tutto confuso, non ne vengo fuori» sussurrò Tallulah dubbiosa.
«Beh, effettivamente è dura se di mezzo c’è il Caporale Levi. Lulita, le tue giornate sono molto eccitanti» ridacchiò Maria, poi fece il broncio «Io non ho ancora baciato nessuno».
Tallulah sollevò le sopracciglia, stupita.
«Credevo che tu e Dimitri...»
«Nah. Siamo solo amici» liquidò lei con un gesto della mano e Tallulah alzò gli occhi al cielo.
«E sarei io la tonta?!».
Maria fece finta di lanciarle un cuscino.
«Piantala! Dai, dimmi cosa si prova a baciare qualcuno».
 
Un soffio di vento spostò ciocche rosse dal suo viso.
Le palpebre tremarono, ma non si aprirono.
C’era silenzio dappertutto.
Di nuovo il vento arrivò, più intenso e qualcosa si mosse.
Aprì le labbra secche e gli occhi si schiusero.
La prima cosa che vide fu il cielo, limpido e tranquillo, come quello d’estate quando andava con i nonni in gita. La pervase una sensazione di felicità lancinante, gli incubi erano finiti.
Sono tornata.
Poi, la mente riemerse dall’oscurità e divenne consapevole del peso sul suo corpo. Tentò di muoversi, ma senza successo; spostò la testa a sinistra per capire in che condizioni fosse. Fu solo allora che il tempo si fermò, quando vide il corpo riverso su di lei in una posizione innaturale e rigida e la realtà si abbatté impietosa. Occhi bui e privi di vita furono unici testimoni del grido straziante che le proruppe dalla gola.
Con immensa fatica sgusciò appena, quel tanto che bastava a osservare meglio Maria.
Aveva il collo spezzato.
Le lacrime, stavolta, non riuscì ad ingoiarle e gridò ancora.
Perché Perché Perché Perché.
Non c’era spazio per pensare. Le prese il viso morto tra le mani sporche di terra e vi posò la sua fronte, singhiozzando convulsamente.
Perché mi devi lasciare anche tu? Perché non posso morire io al vostro posto?
Maria era forte, più forte di quanto Tallulah non sarebbe mai stata; quando parlava la gente che era vicino si fermava ad ascoltarla perché aveva un modo tutto suo di attrarre l’attenzione. Era come Sadie, coraggiosa Sadie, che illuminava la vita di tutti. Non sapeva quanto tempo avesse passato priva di sensi, né quanto ne passò prima che il respiro divenisse più regolare e gli spasmi si calmassero. Sapeva però che non poteva rimanere così scoperta un minuto di più; poteva quasi sentire la voce dell’amica che la sgridava per la sua debolezza.
«L-lo so, devo andare» le disse, come se la stesse ascoltando.
Si guardò attorno velocemente, ma solo il nulla la circondava. Nessuno era stato risparmiato, ma lei non riuscì a scorgere gli altri cadaveri.
Tornò a guardare l’amica con sguardo sofferente e tirò su con il naso. Si piegò su di lei e le accarezzò il volto.
«Vorrei portarti con me» sussurrò con voce spezzata.  «Ti lascio questo. Me l’ha dato Armin prima di partire».
Le baciò le labbra fredde e quello fu il suo addio. «Adesso sai cosa si prova».
Le chiuse gli occhi e le lasciò delicatamente il viso.
Poi si concentrò su come uscire da quella situazione orribile: gemette di dolore quando tentò di tirar fuori le gambe da sotto il corpo di Maria. Nessun cavallo, nessun segno di umanità all’orizzonte e sentiva di avere sicuramente qualcosa di rotto e acciacchi dappertutto. Le venne un’idea non appena vide poco distante il suo equipaggiamento danneggiato. Si trascinò sull’erba con i gomiti, cosa che le costò un notevole sforzo e le lacrime ricominciarono a scivolarle sulle guance. Ignorandole, allungò la mano verso la pistola e tastò le munizioni che erano sparse lì intorno. Caricò il razzo viola delle emergenze e sollevò il braccio per spararlo in aria. Era ben consapevole che fosse un rischio: poteva attirare altri giganti ed in quel caso sarebbe stata la sua fine definitiva, ma non aveva altra scelta.
Aspettò, seduta malamente e respirando piano.
I minuti scorrevano e quando non accadde nulla, tornò a risentire la disperazione. Avrebbe preferito morire con Maria che morire a quel modo.
All’improvviso vide un razzo verde attraversare il cielo, poi un altro e poi un altro ancora. La missione stava continuando senza di lei, nessuno sarebbe tornato indietro.
La disperazione si trasformò in paura e la paura in panico. Quel panico che azzera tutte le difese e pervade la mente annientando ogni lucidità, come una foschia viscida che si appiccica alle viscere. Si concentrò e tentò di pensare a qualche soluzione, ma continuava a fissare Maria e il dolore al costato era forte. Un rumore alle sue spalle la congelò ed ebbe paura persino a voltarsi: non voleva che l’ultima cosa che avrebbe visto fosse uno di quei faccioni deformi. Le tremarono le labbra quando sentì uno spostamento d’aria e subito dopo qualcosa che fece pressione sulla sua nuca, lasciandola paralizzata. Poi, uno sbuffo tra i suoi capelli le fece realizzare che non si trattava di un gigante. Si voltò e gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime.
«Sherold...» gemette con voce rauca. Accarezzò il muso del suo cavallo e con una risata stanca sfogò tutto il suo sollievo. L’animale pareva calmo e i suoi occhi caldi le diedero conforto, tanto da ritrovare la forza d’animo.
Alzati ancora!
Voleva ribellarsi a quella voce perentoria nella sua testa, distendersi e arrendersi.
Strinse i denti tenacemente e si mise carponi con una mano premuta sul fianco ed afferrare le redini con l’altra, aiutandosi a tirarsi su. Soppresse un grido di dolore, ma una volta in piedi salire in sella fu anche peggio. Cercò di ridurre al minimo i movimenti bruschi e quando fu a cavallo riuscì solo ad emettere un flebile vittorioso. Cavalcare sarebbe stato impossibile nel suo stato, era costretta ad andare al passo; guardò nella direzione lontana in cui aveva visto i fumogeni verdi e si decise a partire.
 
Mikasa guardò sotto di sé con ribrezzo quella folla di giganti che tentavano di arrampicarsi per raggiungerle. Chissà per quanto ancora avrebbero dovuto rimanere lassù senza sapere che cosa stesse accadendo nel fitto del bosco.
«Cosa saranno tutte quelle esplosioni di poco fa? Credi che ci siano dei nostri cannoni in questa foresta?» le chiese Sasha, accovacciata su un ramo accanto al suo. La corvina non le rispose e si focalizzò sull’orizzonte. Le sembrava che qualcuno stesse arrivando verso di loro e poco dopo distinse una figura a cavallo.
«C’è qualcuno dei nostri» mormorò e Sasha seguì il suo sguardo ed emise un’esclamazione di sorpresa.
«Sembra messo male. Ma se questi qui se ne accorgono...» disse inorridita.
Mikasa osservò attentamente la situazione attorno, cercando di calcolare i rischi e le possibilità di salvezza. I giganti non si erano ancora accorti di lui, ma era questione di minuti, forse di secondi.
«Oh mio dio» mormorò Sasha, interrompendo la sua analisi «È Tallulah!».
La mano della castana saettò sulle lame, ma Mikasa la precedette e si buttò giù, sfrecciando gas e uccidendo due giganti rimasti ai loro piedi. Sasha la raggiunse, tesa e concentrata, e una volta ripresi i cavalli, galopparono dietro gli altri giganti, ignorando le grida del loro superiore. Proprio in quel momento un urlo agonizzante lacerò il silenzio. Sasha si portò le mani alle orecchie, terrorizzata, mentre Mikasa si voltò indietro, verso la foresta, con un unico pensiero.
Eren.
All’improvviso le bestie fecero dietrofront, senza più alcun interesse verso di loro e iniziarono a correre verso il folto della boscaglia come se fossero posseduti. Dopo lo sconcerto iniziale, Mikasa alternò lo sguardo verso l’amica e la direzione opposta.
«Sasha, occupati di lei. Non so cosa li abbia scatenati, ma devo seguirli»
«Mikasa, aspetta!» la fermò Sasha, il viso terrorizzato «Ho già sentito quei versi da piccola. Sono quelli che emettono alcuni animali feroci quando erano presi in trappola: in questi momenti sono molto più pericolosi, devi fare più attenzione del solito. Molta più attenzione!».
«D’accordo > disse, dando fiducia all’istinto della ragazza. Lanciò un’ultima occhiata al volto stravolto di Tallulah che finalmente era vicina e infine fece un’inversione a U. Era in buone mani. Sasha continuò a galoppare ancora per un po'. L’amica era sconvolta e gravemente ferita; le colava sangue da una tempia e si reggeva un fianco, la carnagione grigia e i respiri veloci. Riuscì a prendere al volo le redini del suo cavallo e Tallulah la guardò, riconoscendola appena.
«Sono... felice di vederti» le sorrise, nonostante lo sforzo che le costasse.
«Sshh, non parlare. Sei al sicuro adesso».
 
Sei anni prima
 
«Vieni a cena da noi? Anny ha cucinato lo stufato di patate al vino»
«Adoro tua nonna» sospirò lei, con l’acquolina in bocca. Erano andate a fare una passeggiata per i campi e alcune commissioni e adesso era quasi il tramonto.
«Comunque ho deciso di fare i biscotti al cacao per la festa della quadriglia»
«Non vedo l’ora che arrivi. Se vuoi possiamo farli insieme»
«Non se ne parla, manderesti tutto a fuoco».
Sadie arricciò le labbra, imbronciata, e Tallulah pensò che fosse carina anche così.
Stava per dirglielo quando una sorta di esplosione fece tremare il mondo e cadde in avanti, rovesciando i sacchetti che teneva tra le braccia.
«Stai bene?» le chiese l’amica appena ripresasi dallo spavento.
«Sì... ma cosa è stato?»
«Non lo so, andiamo a vedere!».
Seguirono di corsa la colonna di fumo che si innalzava e raggiunsero un capannello di persone in piazza intente a guardare in alto: un viso orrendo si ergeva al di sopra delle loro mura. Tallulah trattenne il fiato ed un presentimento orribile si affacciò nella sua mente. Stava per lanciarsi in avanti e correre verso casa quando un’altra esplosione, più forte, la scaraventò all’indietro insieme all’amica e a molti altri lì vicino. Si guardò attorno con fatica e vide sangue, polvere e fumo che impregnava l’aria. Qualcuno la chiamò e vide Sadie poco distante da lei, che fissava inorridita il corpo di un uomo martoriato dalle macerie. Si rialzò a fatica e la raggiunse, tirandola via di lì.
«Non guardare» le disse con voce roca, tossendo subito dopo.
«...Ma...stanno entrando...».
Grida disperate si sollevarono da ogni punto della città e degli esseri enormi sbucarono da sopra i tetti. Fu allora che la realtà colpì Tallulah come uno schiaffo ed il suo mondo smise di essere la bolla di bambagia che era stato fino a quel momento.

«I-I nonni» balbettò e le crollarono le ginocchia. Casa sua era molto vicina alle mura: quelle macerie intorno a loro potevano appartenere proprio a lei.
«Lu, dobbiamo correre!» le gridò in un orecchio l’amica, terrorizzata, che fissava in alto.
«I nonni...loro...sicuramente...» continuava a mormorare, i rumori attorno a lei quasi lontani, gli occhi fissi sui resti degli edifici.
«Tallulah!!» strillò ancora Sadie, cercando di tirarla per un braccio. Lei la guardò, ma non la sentiva più. Aggrottò la fronte perché non capiva per quale motivo si stesse dimenando a quel modo e non afferrava le frasi che le stava urlando. Poi un tonfo tremendo le fece sobbalzare e cadere nuovamente. Alzò la testa e lo vide: un gigante, proprio lì di fronte a loro, intento a guardarle. Fu come se qualcuno le avesse dato una scossa e si tirò su, ricambiando finalmente la stretta dell’amica che aveva iniziato a piangere. Si mise a correre senza lasciarle la mano e continuando a lanciarsi sguardi alle spalle, sembrava che fosse lento e se fossero riuscite a nascondersi dietro qualche edificio l’avrebbero scampata. Dovettero saltare e scansare cadaveri e ogni tipo di ostacolo che ostruiva le vie della loro città. Lì dove ogni giorno avevano vissuto e passato momenti felici, dove tutto sembrava perfetto, ora era pieno di morte e orrore.
«Raggiungiamo il portone principale! È l’unico modo per salvarci».
Sadie annuì, asciugandosi le lacrime. Un’ombra coprì la luce del sole e sollevarono la testa nello stesso momento in cui quella mano si calò su di loro. Accadde tutto in una frazione di secondo: Sadie si voltò a guardarla angosciata e la spinse via con tutta la forza che aveva.
Fu lei ad essere afferrata. Sapeva di essere spacciata, Sadie, e lo accettò.
Eppure, cominciò a gridare a squarciagola.
«Alzati! Lu, alzati, scappa! Ti voglio bene, Lu, alzati, ti prego, vattene, non guardarmi, alzati!!».
«...No...».
Cominciò a vederci doppio, man mano che il corpo dell’amica si avvicinava ad una bocca enorme.
Non guardarmi.
Alzati.
E Tallulah scappò davvero, come una bambola senza fili, continuò a correre anche quando le grida di Sadie si persero nel trambusto o forse semplicemente si spensero come la sua vita; continuò a correre anche quando non sentì più le gambe e quando i polmoni bruciarono ad ogni respiro di fumo che inalava; continuò a correre anche quando non vedeva più nulla, solo contorni confusi annebbiati da un pianto che sapeva non si sarebbe fermato mai.
Riuscì a raggiungere quel portone e solo allora si fermò.
Glielo doveva.
Le doveva tutta la sua vita.
 
Levi stava ispezionando ogni volto del campo provvisorio che avevano organizzato per raccogliere i feriti ed i morti, le labbra tese in una linea ferma e gli occhi bui.
Aveva anche controllato i cadaveri, ma non aveva trovato il suo. Probabilmente era morta in quelle lande, sperduta chissà dove e aggiunse il suo nome alla lista mentale di coloro che si portava sempre dietro.
«Capitano, non dovrebbe muoversi. La sua gamba-» un soldato l’aveva raggiunto, probabilmente qualcuno che aveva conoscenze mediche.
«Continua a curare gli altri» lo liquidò indifferente.
Fu allora che la vide, su un carro, sorretta da una ragazza dai capelli castani.
Grossi lividi sulla mascella, sul collo, la testa fasciata e una mano su un fianco, ma viva. Sentì un sollievo pervasivo con cui avrebbe dovuto fare i conti nei giorni a venire. Si avvicinò tanto da attrarre la sua attenzione e per qualche secondo si fissarono, muti. Per la prima volta da quando l’aveva incontrata, gli occhi di lei erano vuoti.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo settimo ***


Capitolo settimo
 
 
Quando si svegliò la prima cosa che sentì fu la sete intollerabile che le seccava la gola. Mosse appena la testa e vide una caraffa e un bicchiere sul comodino accanto a lei: d’istinto si sollevò per raggiungerli, ma una fitta intensa la stordì e non riuscì a trattenere un gemito flebile. Pian piano, divenne più consapevole della fasciatura rigida intorno al costato e del dolore costante al fianco. Insieme a quelle sensazioni arrivarono i ricordi degli ultimi avvenimenti.
«Ce ne hai messo di tempo».
Una voce stranamente familiare la distrasse e si accorse di Levi seduto su una poltroncina che leggeva placidamente un libro. Lei sbattè le palpebre ancora pesanti e lo fissò come se non fosse reale.
«È un sogno?» disse debolmente e con tono arrochito.
Lui la scrutò, soppesando la sua risposta, e chiuse il libro.
«Perché dovrebbe?».
Tallulah si guardò attorno e capì di essere in una stanza dell’infermeria. Poi tornò a piantare gli occhi su di lui, persino spostare lo sguardo le faceva girare la testa. Levi si alzò e fece il giro del letto.
«Perché tu sei qui» rispose a fatica, osservandolo versarle dell’acqua. Lui tacque e le porse il bicchiere, guardandola bere avidamente.
«Piano» la ammonì annoiato, afferrandole un polso per rallentarla.
«...Ancora» lo pregò lei, la sete non si era placata.
«Tra dieci minuti» sentenziò Levi e mise il bicchiere lontano, guadagnandosi un’occhiata stizzita. Poi Tallulah si accorse che trascinava leggermente una gamba mentre tornava a sedersi e dimenticò l’irritazione in un lampo.
«Che... ti è successo?» gli chiese allarmata, riprendendo pian piano la voce.
«Sei tu quella su un letto d’ospedale» rispose Levi, scrollando le spalle.
«Zoppichi»
«Non è importante»
«Perché?»
«Perché non mi impedirà di soffocarti se non la smetti».
Paradossalmente, Tallulah sorrise debolmente «Hai di nuovo eluso la domanda».
Levi tenne a bada l’istinto di strapparle via quel sorriso. Il palese interesse che ogni volta quella ragazzina mostrava verso di lui lo irritava sempre di più.
«Vado ad avvisare qualcuno che ti sei svegliata»
«No!» esclamò lei sollevandosi inconsciamente per poi sciogliersi in una smorfia dolorante «Resta ancora un po', ti prego».
Levi fissò il suo sguardo supplicante.
«...Solo se stai buona» rispose infastidito, non riuscendo a non accontentarla, non quando era così debole e malmessa. Era la seconda volta che entrava in quella stanza: la prima l’aveva guardata dormire per qualche minuto, in piedi, senza sapere perché le sue gambe lo avevano condotto lì. La seconda volta non se lo era nemmeno chiesto e si era portato dietro un libro; in ogni caso non era riuscito a leggere senza distrarsi e aveva osservato più di una volta quel volto spento e malandato, così fuori luogo su di lei.
«Mi racconti cosa è successo? Non ricordo granché» gli chiese, seguendolo con lo sguardo mentre andava verso la finestra.
«La missione è fallita»  
«Quale missione?».
Tallulah on sapeva nulla dei piani del Comandante Erwin, era arrivata quando tutto volgeva già al termine e anche dopo era troppo debole per essere lucida.
«Catturare il Gigante Femminile» mormorò Levi e per un attimo i volti dei suoi soldati presero il posto del suo riflesso sul vetro. Eppure, a quel punto doveva esserci abituato. Nella mente di Tallulah invece andava componendosi un puzzle, pezzo per pezzo. I suoi compagni, la battaglia, no, lo sterminio. Maria. Il ritorno. Chiuse gli occhi, affondando la nuca sul cuscino e una riga bagnata le solcò la guancia.  
«Quel gigante» si sforzò di parlare «Era diverso. Sembrava sapere molte cose, sembrava avere una coscienza».
Levi rimase ad ascoltare in un silenzio lugubre.
«È umano. Pare che sia come Eren e che riesca a trasformarsi».
Lo sguardo le divenne vitreo man mano che quell’informazione si conficcava nel suo cervello.
«Perché?» ringhiò dopo alcuni attimi con un tono aspro che l’uomo non le aveva mai sentito e che lo spinse a voltarsi appena verso di lei. «Perché una persona come me e te dovrebbe fare questo?».
«Se cominciassimo a chiederci il perché di tutte le ingiustizie ne avremmo fino alla fine del mondo» rispose pacatamente e Tallulah lo osservò in silenzio mentre una domanda le nacque spontanea. Quante doveva averne vissute per parlare a quel modo così intriso di pena? Stava per chiederglielo quando proprio in quel momento qualcuno entrò senza bussare: un’infermiera, seguita da Armin, Sasha e Mikasa. Levi, voltatosi al rumore, si accorse del cambiamento radicale sul volto di Tallulah e degli occhi che si illuminarono come se avesse appena ricevuto il regalo migliore del mondo.
«Lu, sei sveglia!»
«Finalmente!»
«Ciao ragazzi. Mi siete mancati come l’aria» disse Tallulah con un troppo, troppo dolce, e Levi dovette soffocare una smorfia. Di disgusto o di stizza, non lo sapeva.
Armin fu il primo ad accorgersi del Capitano alla finestra e si irrigidì nel saluto militare, chiedendosi internamente come mai fosse lì; le ragazze lo imitarono prontamente e lui fece loro un cenno con il capo.
«Armin... La tua testa» lo distrasse Tallulah che aveva allungato la mano verso la sua fronte.
«Sto bene, non preoccuparti» la rassicurò con un sorriso.
«Ragazzi, lasciatele un po' di spazio ok? Si è appena risvegliata».
L’infermiera le sorrise e si avvicinò per controllarle il polso e le fasciature.
«Come ti chiami?»
«Freya» rispose cordiale la donna gentile «È davvero un piacere conoscerti finalmente»
«Io sono Tallulah» sorrise lei «Anche se tutti mi chiamano un po' come vogliono»
«Tipo Lu» si intromise Sasha «O Lula»
«Anche Tallie» suggerì Armin e Freya ridacchiò.
«O Lulita» mormorò lei, la voce di Maria ancora nelle orecchie, spensierata e fresca. Come avrebbe fatto a superare anche quella morte?
«Quanto ho dormito?» chiese infine con un sospiro.
«Almeno diciassette ore» si lamentò Sasha «Sei svenuta mentre tornavamo alle mura, credo che i movimenti del carro fossero troppo bruschi».
«È stata una fortuna che non ti sia perforata un polmone» concluse Freya e Tallulah si rabbuiò, ma cercò di non darlo a vedere per non rattristarli.
Onestamente, non si sentiva fortunata ad essere viva.
«Non so come tu abbia fatto a raggiungerci» le disse l’amico biondo con sguardo impensierito.
«In giro si parla di te sai?» sorrise Sasha e Tallulah strabuzzò gli occhi.
«In che senso?»
«La sopravvissuta dell’ala destra che ha lottato con le unghie e con i denti per portare a termine la missione» esclamò l’amica accompagnandosi con ampi gesti.
Levi vide la ragazza fare una smorfia.
«Ma che cazzata!» borbottò lei e subito dopo si coprì la bocca con una mano, gli occhi che saettarono su di lui. Se fossero stati soli forse si sarebbe lasciato scappare un sorriso compiaciuto nel sentire quel linguaggio scurrile sulle sue labbra. Quel pensiero, tuttavia, gli fece ricordare che anche lei fosse una sua sottoposta.  
«Hai fatto il tuo dovere» le disse invece con sguardo freddo il Capitano. Tallulah lo fissò e poi spostò lo sguardo sui suoi amici, a quel punto piuttosto imbarazzati. Lei lo capì e tentò di cambiare argomento: c’erano cose molto più importanti.
«Dovete aggiornarmi sulla situazione».
 
Per dieci giorni non si era potuta muovere. Dieci lunghissimi giorni, duecentoquaranta ore di agonia in cui da sveglia continuava a rimuginare sulle sue azioni, su ciò avrebbe potuto fare se solo fosse stata più capace e abile.
Più forte.
Di notte invece rivedeva il volto senza vita di Maria fissarla con occhi rapaci ed accusatori per poi trasformarsi in un visetto più minuto e pieno di lentiggini che piangeva e la chiamava. Si svegliava di soprassalto con il cuscino bagnato da un pianto inconscio e sudore freddo. Il suo corpo invece acquistava sempre più forza con il passare del tempo: mangiava con appetito e riusciva e sollevarsi con sempre maggiore facilità. Armin andava a trovarla quando poteva, in realtà molto raramente, e le leggeva dei libri, distraendola con i discorsi più improbabili che non avevano nulla a che fare con giganti, morti e strategie di difesa. Era stato uno shock per lei sapere dei suoi sospetti su Annie. Tallulah si fidava ciecamente dell’istinto dell’amico e fin dalla prima volta aveva preso le sue ipotesi come certezze: presa da un attacco di rabbia, aveva lanciato la tazza di camomilla contro il muro e aveva iniziato ad urlare di volerla picchiare a morte ed ucciderla con le sue mani. L’impotenza le bruciava le vene. Poi era scoppiata a piangere, davanti agli occhi dispiaciuti di Armin che da quel momento aveva smesso di parlare di ciò che si stava organizzando in quei giorni dicendo che prima doveva riprendersi.
«Non c’è bisogno che ti faccia agitare da questo adesso. Devi pensare a guarire»
«Non è giusto. Voglio essere pronta» ribatté, scalpitando sotto le lenzuola e odiando quel letto a cui era costretta.
«Non puoi fare niente adesso, Tallulah!» le disse con una decisione che la colpì troppo a fondo. Lei lo fissò con uno sguardo accusatore che Armin fu costretto ad incassare e che sapeva bene cosa volesse dire.
Hai usato le mie debolezze.
Per tutta la vita si era sempre sentita protetta dagli altri. Adesso, persino Armin le intimava di stare indietro e iniziò a provare uno strano risentimento.
«Vattene» gli intimò e i suoi occhi azzurri si allargarono.
«Vattene!» esclamò ancora, più forte, e lui si rabbuiò, lasciandola nel più completo silenzio. Le sole persone che vedeva erano le ragazze che si occupavano di lei e che non conoscevano affatto ciò che stava avvenendo tra i corridoi della legione esplorativa. Né Mikasa, né Sasha, né nessuno degli altri era più andato a trovarla.
Non si era mai sentita così sola.
L’undicesima notte era sveglia a guardare il soffitto quando decise di alzarsi.
Non riusciva a dormire più di un paio d’ore, all’inizio per il dolore alle ossa, poi per timore degli incubi, più terribili di quanto fosse abituata. Si sollevò con cautela spostando le coperte e lentamente mise giù le gambe. Prese una candela dal cassetto del comodino e sprecò due fiammiferi prima di riuscire ad accenderla. Avanzò con calma a piedi nudi fino alla porta ed abbassò la maniglia senza fare alcun rumore; poi, percorse il corridoio fino alla scalinata, reggendosi alla parete con la mano libera e scendendo uno scalino alla volta. Una volta sotto, trasse un sospiro di sollievo e sorrise. Poteva ritenersi quasi guarita. Si diresse verso le cucine e con una punta di tensione notò che erano illuminate: decise comunque di avvicinarsi ed arrivata sulla soglia la accolse uno sguardo irrigidito che probabilmente aveva già captato qualche suono sospetto. Levi rilassò le spalle non appena riconobbe il suo volto ed osservò la sua mise da notte troppo larga per lei e le occhiaie violacee.
«Le brutte abitudini non muoiono mai» disse sollevando un sopracciglio con una nota di rimprovero. Tallulah avanzò, riuscendo a sedersi sulla panca di legno di fronte a lui, non senza una smorfia indolenzita.
«Non riesco a dormire» rispose, a dispetto dello sguardo spossato che si soffermò sul liquido caldo che Levi teneva tra le mani. Davanti a lui, c’era un libro aperto.
«Perché sei scesa scalza? Fa schifo per terra» disse, ritornando a fissare le pagine.
«Non ci ho pensato» osservò con sincerità.
«Perché sei distratta» rispose calmo e Tallulah si chiese come potesse dirlo con tanta sicurezza. Si conoscevano appena. Si poggiò con i gomiti sul tavolo, il cuore che le batteva più veloce. Le sembrava diverso: il volto elegante era sempre serio, ma c’era qualcosa nella sua espressione che la rendeva più morbida, avrebbe osato dire rilassata. Continuò a pensarci, facendo scorrere lo sguardo sulla fronte ampia, il taglio degli occhi, la linea della mascella, cercando di capire come mai le sembrasse così diverso. Poi le venne in mente che tutte le volte in cui era riuscita ad avvicinarsi davvero a lui era stato durante i loro incontri notturni, come se il buio gli concedesse una spontaneità che di giorno si precludeva. La invase un’ondata di tenerezza e le venne voglia di toccargli la guancia sicuramente fredda.
«Non fissarmi, mocciosa» disse lui bruscamente, conscio degli occhi della ragazza piantati su di lui.
«Scusa» mormorò lei arrossendo e si voltò con la tempia sulle braccia, spostando lo sguardo fuori dalla finestra: solo in quel momento si accorse dello scroscio continuo della pioggia che batteva sui vetri.
«Ti piace?» gli chiese sovrappensiero, dimenticandosi di specificare che cosa. Eppure, Levi seguì il suo sguardo e non ci fu bisogno di altro.
«No», rispose semplicemente.
«Perché?». Le dita si curvarono appena contro la tazza.
È triste.
«Non sopporto il fango».
Sollevò la tazza lentamente e se la portò alle labbra senza soffiarci sopra, prendendo un sorso del tè nero che si era preparato poco prima.
Tallulah sorrise appena e si concentrò su quel suono torrenziale; lo trovò rassicurante, o forse era la presenza di Levi a farla sentire così serena. Un velo di bambagia le si diffuse nella mente e per un po' entrambi rimasero così, in silenzio, segretamente confortati l’uno dall’altra. Era particolarmente stanco Levi quella notte: proprio quando la sua gamba si era decisa a lasciargli un po' di pace l’insonnia aveva deciso di peggiorare. Avrebbe voluto che la sua mente smettesse di pensare, anche solo per qualche ora; avrebbe voluto smettere di sentire quel peso costante addosso che gli intorpidiva le membra ogni volta che non era sul campo di battaglia. Sollevò lo sguardo, gli sembrava impossibile che per venti minuti quella ragazzina non avesse aperto bocca, e infatti le vide ciondolare la testa in avanti un paio di volte. La sua espressione si ammorbidì e vuotò la tazza del tè, alzandosi per lavarla e rimetterla ordinatamente al suo posto. Poi si pulì le mani con uno straccio pulito e fece il giro del tavolo, avvicinandosi a lei, semiaddormentata: il viso serio e le labbra semiaperte, sembrava più adulta di quanto lo fosse da sveglia. Le prese un polso e se lo mise dietro al collo, piegandosi per afferrarle le gambe da sotto le ginocchia e tirarla su con estrema delicatezza. Nel dormiveglia si sentì sollevare e d’istinto si aggrappò a quel collo marmoreo, posandogli la testa sul petto e mormorando qualcosa di incomprensibile. Levi risalì lentamente le scale nel buio e rifece la strada da cui era venuta. Cosa avrebbe fatto una volta scesa, se lui non ci fosse stato? Se la immaginò seduta in mensa da sola, a pensare a chissà cosa, a guardare la pioggia, forse a piangere. La cosa gli diede fastidio, eppure la capiva: la solitudine era il vuoto più incolmabile nei loro momenti peggiori. Probabilmente sperava di incontrare qualcuno, magari proprio lui.
Mi piaci.
Scosse appena la testa da quel ricordo ed entrò nella stanza in cui dormiva; avanzò verso il letto e si curvò, adagiandola sul materasso. Tuttavia, non appena lei sentì quelle braccia sfilare via dal suo corpo, ebbe un fremito e gli afferrò l’avambraccio e il collo della maglia bianca in un movimento così fluido da coglierlo di sorpresa e Levi si ritrovò a seguire il suo movimento che lo tirava giù.
«Non lasciarmi» gli sussurrò, a due centimetri dal suo volto; si era fermato, distratto da quel tono di voce e dall’odore pervasivo di quelle lenzuola, il suo, e lei aveva sollevato il viso, tanto da sfregare appena le labbra su quelle di lui. Levi smise di respirare e per un istante, un solo istante, l’istinto la vinse: la sua bocca si impresse maggiormente su quella di lei e le mani si chiusero su alcune ciocche di capelli. Durò un battito di ciglia, quel contatto svanì velocemente e Levi dovette soffocare un’imprecazione mentre si tirava indietro e scioglieva la presa della ragazza sotto di lui.
«Ti prego» ripeté lei, ad occhi chiusi.
Solo stanotte quella frase tentatrice rimbombò nella mente del soldato.
È sbagliato si obbligò a pensare, perentorio.
Poi inconsciamente si leccò le labbra e vi trovò ancora il suo sapore.
«Solo stanotte» sussurrò, stanco e sconfitto, e a lei parve bastare perché si rilassò sui cuscini. Lui avvicinò la poltrona al suo letto e la sentì mormorare qualcosa.
«Voglio conoscerle» biascicò Tallulah e Levi corrugò la fronte, senza capire.
«Le tue ingiustizie» soffiò lei e lui non ebbe parole per risponderle, improvvisamente preda di una sensazione strana e impalpabile. Le rimase accanto in silenzio, senza opporsi nemmeno quando Tallulah cercò la sua mano per infilarci le dita, fino a che non la sentì respirare profondamente, addormentata. Voleva approfittarne e andar via da lì, ma forse anche per lui quella notte la solitudine era intollerabile. Senza sapere bene come i suoi occhi si chiusero ed un sonno improvviso lo rapì contro il suo volere. Il giorno dopo, quando Tallulah si svegliò, la poltrona era vuota.  
 
«Il piano scatterà dopodomani nel distretto di Stohess, dovremo attraversarlo per raggiungere la residenza del re. Questa sarà la nostra ultima possibilità».
Il tono grave di Erwin Smith mise ad Armin più ansia di quanto già non avesse: se avessero fallito sarebbe stata loro tolta la custodia di Eren e bloccate le indagini che il corpo di ricerca stava effettuando. L’istinto gli gridava che le sue supposizioni erano corrette, che era proprio Annie il Gigante Femminile da catturare, ma temeva la reazione di Eren, così come aveva temuto quella di Tallulah. Un po' si somigliavano quei due, nel loro carattere così impulsivo e nel cuore un po' troppo grande, eppure non potevano essere così diversi. La sua amica non era ancora riuscita a sconfiggere la paura. La sua mente volò all’ultimo scambio avuto con la ragazza, allo sguardo ostile che gli aveva rivolto, e si sentì un verme: sapeva di non essere abbastanza forte da proteggerla fisicamente e aveva tentato di farlo dall’interno. La verità era che vederla in quello stato l’aveva sconvolto più di quanto pensasse e poteva ancora risentire il senso di nausea l’aveva devastato quando era moribonda sul carro. Armin aveva già perso la sua famiglia e in quel momento aveva realizzato che poteva perderla di nuovo, come un incubo che ritorna sempre e non lascia vivere.
Come quando aveva visto Eren morire.
A voce alta spiegò a tutti i presenti le motivazioni alla base delle sue ipotesi e per la prima volta si sentì utile: per la prima volta i suoi compagni lo guardavano con un’attenzione diversa, il suo Comandante stava riponendo molta fiducia in lui e iniziò a sentire un coraggio che non sapeva di avere. Finalmente si sentiva parte integrante di loro, lui che era sempre stato ostracizzato, debole e lasciato indietro. Fu per questo che si rese veramente conto del suo errore: proprio lui, che sapeva come ci si sentisse, l’aveva lasciata indietro. Nessuno poteva avanzare diritti e pretese in quel mondo assurdo in cui vivevano, né su sé stessi, men che meno sugli altri. Avevano giurato di mettere a rischio la vita; dovevano essere pronti anche a sacrificare ciò a cui tenevano di più al mondo o nessun passo poteva essere fatto lungo la via per la salvezza del genere umano. Quella riunione durò più del previsto, in quanto le reclute del 104º rimasero a parlare tra di loro di ciò che avrebbero affrontato.
«Io non riesco a crederci» disse Jean, con lo sguardo perso nel vuoto «Per quattro anni abbiamo vissuto praticamente insieme. E ci ha traditi»
«Non ne siamo ancora sicuri».
Eren era ancora restio a convincersi, forse più di tutti gli altri. 
«Se questo fosse vero, se Annie fosse sul serio...» la frase di Connie fu ben chiara anche senza che la continuasse.
«Vorrebbe dire che non potremo fidarci più di nessuno» concluse Mikasa con tono secco. Lei, al contrario, si sentiva ancora più arrabbiata al pensiero che una di loro avesse osato rapire Eren e provato a toglierglielo per sempre. Non le importava che fine facesse, le prudevano le mani per la voglia di mettere a punto i loro piani il prima possibile.
«Armin, tu avrai il compito più difficile, Annie è sempre stata schiva con chiunque. Come farai a convincerla a seguirti?»
«Non so se funzionerà, però credo che anche se capirà l’inganno, mi seguirà comunque. Sa che sarebbe la via migliore per arrivare ad Eren».
Jean sbuffò un sospiro e poi la sua espressione si fece risoluta «Faremo quello che dobbiamo. Costi quel che costi».
«Non sarà facile» borbottò Sasha «Siamo anche dimezzati...».
Il silenzio si fece un po' più pesante.
«Ehi, ma come sta Tallulah?» chiese allora Eren, ricordandosi in quel momento della ragazza.
«Si sta riprendendo, ma è impossibile che riesca a partecipare alla missione»
«È da un po' che non vado a trovarla» disse Sasha «Ci avevano detto di non agitarla troppo»
«Ormai dovrebbe essere in grado di muoversi» disse Mikasa, il cui sguardo cadde su Armin, stranamente in silenzio.
«Vedrete che presto tornerà a piantar grane. Ha la pelle troppo dura» borbottò Jean, prima di sbadigliare e annunciare che se ne sarebbe andato a letto. Ben presto tutti seguirono il suo esempio e la notte calò finalmente sulle loro menti provate.
 
Tallulah fissò il suo riflesso sullo specchio e si rese conto che non si era mai guardata attentamente come in quel momento. Notò che forse aveva le guance un po' troppo piene, ma le piaceva la fossetta sulla destra; il labbro inferiore era leggermente più pieno di quello superiore, il taglio degli occhi quasi orientale e uno sguardo malinconico che probabilmente si portava sempre dietro. Ma sapeva che ciò che la caratterizzava davvero fossero i capelli ricci e folti che le cadevano sulle spalle come una cascata. Quando era piccola sua nonna glieli pettinava cantando una canzone per distrarla dal dolore di tutti i nodi districati e una volta finito lasciava che il vento li asciugasse mentre correva tra le vie della città. Abbassò lo sguardo sulle forbici posate lì accanto e le tremò leggermente la mano nel momento in cui si mosse per afferrarle, ma non cambiò idea, nemmeno quando la prima ciocca cadde silenziosa sul pavimento freddo. Si forzò a continuare e ad osservare i suoi boccoli cadere come le debolezze che desiderava sconfiggere, una per una, finché il collo non fu completamente scoperto. Era una strana sensazione: provò a scuotere il capo e sorrise alla leggerezza fresca che sentì sulla nuca. Le ciocche brune si arricciavano appena sotto l’orecchio e l’immagine allo specchio non le dispiacque tanto quanto pensava. Sarebbero ricresciuti più forti, proprio come sperava di crescere lei, tagliando i ponti con le sue paure. Sospirò guardando la matassa ai suoi piedi e si affrettò a pulire il pavimento, lo stomaco che iniziava a protestare per la fame. Si era svegliata presto per riuscire a scendere in tempo per la colazione, nel suo primo giorno di convalescenza sulle sue gambe, e si sentiva stranamente allegra, a dispetto dei giorni penosi che aveva passato.
«Buongiorno cara. Oh-».
L’infermiera aprì la porta, ma rimase sulla soglia a fissare interdetta la ragazza di cui si era presa cura fino ad allora.
«Ciao Freya» sorrise Tallulah. «Sono così terribile?».
Dopo il primo attimo di stupore la donna scosse la testa «No, affatto. Ti si vede meglio il viso».
Tallulah prese i vestiti puliti che Freya le porse e indossando di nuovo la sua divisa si sentì più sicura di sé, pronta ad affrontare gli sguardi che sicuramente si sarebbero posati su di lei.
«Mi raccomando, se ti rivedo qui ti concio io per le feste» le disse Freya e Tallulah rise, abbracciandola.
«Farò del mio meglio. Grazie di tutto».
Le era mancato il brusio tranquillo che trovò in mensa; si avviò verso la testa castana di Sasha e nessuno si accorse di lei fino a che non si sedette accanto a Jean, sulla panca di legno libera.
«...e poi mia madre disse se non mi porti subito quel-».
La storiella che Connie stava raccontando gli morì sulle labbra quando il suo sguardo cadde su di lei.
«Buongiorno ragazzi» disse Tallulah e assorbì le occhiate attonite dei presenti con leggera ansia.
«Sei tornata!»
«I tuoi capelli-»
«Come ti senti?»
«I capelli..!»
«Sembri un maschiaccio».
«Mi hanno dimessa oggi, sto molto meglio, ma non posso ancora allenarmi per un’altra settimana. Per quanto riguarda i capelli, non lo so, mi è solo venuta voglia di farlo. Stanno così male?»
«No, mi piacciono» rispose Mikasa e Tallulah sorrise, cominciando a scambiare qualche parola con lei e Sasha. Una volta ristabilitasi la normalità, scoccò uno sguardo verso Armin, a due posti da lei. Non erano mai stati così tanto tempo senza parlarsi e la cosa stava iniziando a pesarle. Le mancava. Decise di provare a parlargli dopo colazione e si alzò a prendere delle gallette e del latte, preparati sul tavolo in fondo alla mensa. Era felice di riprendere la sua vita normale: stava riflettendo su quanto quelle piccole cose quotidiane fossero importanti per loro, quando qualcuno la urtò con la spalla e per poco non si versò addosso la bevanda calda. Alzò il viso nello stesso momento in cui Levi si voltò verso di lei e per un attimo gli occhi di entrambi si allargarono leggermente, stupiti. Lui scivolò con gli occhi sul collo nudo e sulla mano che lei sollevò inconsapevolmente quasi a volersi nascondere. Tallulah invece ricordò un sogno, un sogno lontano e confuso, fatto di braccia forti, di labbra morbide e un profumo di menta e cuoio, fresco e avvolgente come una coperta. Lo sguardo le cadde sulla sua bocca e sentì la pelle d’oca formarsi dietro la nuca.
«Guarda dove vai, mocciosa» le disse Levi, tirandosi indietro bruscamente e uscendo dalla sala, portandosi dietro il suo caffè.
Sì, l’aveva sicuramente sognato.
Non riuscì a rispondergli, sia perché non ne ebbe il tempo, sia perché il cuore le martellava nelle orecchie come un tamburo tribale.  
 
Levi sorseggiò il liquido bruno mentre camminava verso l’ufficio di Erwin, perfettamente conscio dell’ombra fastidiosa che lo seguiva poco dietro.
«Non riesci a startene tranquilla almeno di prima mattina?» borbottò.
Hanje lo raggiunse con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
«È successo qualcosa» annusò l’aria «Lo sento»
«Un Mike ci basta e avanza»
«Non fare il prezioso. Scommetto che l’hai violata».
Un flash molto dettagliato di una violazione gli attraversò la mente e dovette trattenersi dal ringhiare.
«Perché non riservi le tue porcherie ai giganti?»
«Loro non si possono mica riprodurre» esclamò lei raggiante e Levi roteò gli occhi, con un tch digrignato tra i denti.
Quel discorso venne bruscamente interrotto una volta arrivati da Erwin per una riunione d’urgenza: li aveva convocati la sera prima per affinare tutti i dettagli di ogni piano da applicare a seconda di cosa sarebbe accaduto. Era fondamentale per loro giocare d’anticipo, nonostante fosse impresa ardua prevedere ogni possibile futuro in un contesto di cui conoscevano poco e niente. Perciò quando ebbe difficoltà a concentrarsi a causa di quel flash ancora ben vivo nella sua testa, maledisse Hanje ed il modo in cui sembrava capire sempre tutto di lui. La verità era che Levi non sapeva bene cosa pensare di sé stesso dopo ciò che era accaduto: un vago senso di colpa mescolato ad una ben più grande frustrazione aleggiavano sulla consapevolezza di quanto quella mocciosa lo stesse mettendo alla prova. Di natura, Levi non era una persona paziente: la vita l’aveva costretto a sviluppare questa dote e aveva forgiato il suo carattere veemente in modo da affrontare a sangue freddo qualsiasi dolore, evento, battaglia. In fondo, gli piaceva osservare con calma i suoi avversari, modellare la rabbia a suo piacimento e indirizzarla nei fendenti che sferrava nelle carni. Quello era il suo sfogo.
In questo caso però, di sfoghi non poteva permettersene: non era tipo da mentire a sé stesso, a quel punto era dolorosamente conscio della pericolosa attrazione che sentiva verso quella ragazzina tanto quanto era sicuro della cotta che lei aveva per lui. Gli sarebbe bastato allungare una mano per prendersela e questa certezza lo allettava più di qualsiasi immagine lasciva. Ma quanto giusto sarebbe stato contaminare la sua freschezza così giovane?

 
I'm only human after all

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo ottavo ***


Capitolo ottavo
 
Non aveva mai incontrato i suoi genitori: le avevano detto che sua madre era morta poco dopo averla data alla luce, mentre suo padre non l’aveva nemmeno vista nascere. Era rimasta con i nonni materni ed in realtà si sentiva molto fortunata. Loro erano meravigliosi e non le avevano mai fatto mancare nulla, crescendola con tutto l’amore di cui aveva bisogno. Ogni tanto chiedeva di sua madre, come fosse da bambina, se le somigliasse o perché fosse andata via, ma non sentiva la mancanza di una figura materna e non le interessava sapere di suo padre. Con il tempo, poi, si era resa conto che parlarne era molto difficile per i nonni e calava sempre un velo di tristezza sui loro occhi, perciò relegò l’argomento in un cassetto buio della sua mente. Il vero dolore le era sempre stato sconosciuto, fino alla caduta del distretto di Shinganshina. I primi giorni si era trascinata per le vie più polverose del Wall Rose, senza sapere cosa fare, l’unico pensiero erano le urla di Sadie. Le sentiva continuamente e la terrorizzavano. Continuava ad immaginarsi anche le grida dei nonni, la loro paura, i loro cadaveri.
Perché era viva?
Fu la fame lancinante a svegliarla da quel torpore ed allora mise davvero a fuoco ciò che le era intorno. La prima volta che rubò un tozzo di pane da un forno si vergognò di sé stessa e si ripromise di ripagarlo quanto prima. Poi diventò un’abitudine perché la fame la aggrediva a morsi e niente sembrava più importante: aveva dalla sua parte il suo essere minuta e piuttosto scattante e per settimane sopravvisse rendendosi invisibile e strisciando contro i muri, nel caos delle proteste per la mancanza di cibo. Un giorno un mercante la vide afferrare un tozzo di pane da sotto il banchetto e le urlò contro improperi che Tallulah non aveva mai sentito. Corse via più veloce che poté, aggirando carri, gruppetti di persone, svoltando vicoli fino ad allontanarsi dalle vie più familiari. All’improvviso apparve una figura che non riuscì ad evitarla: ci sbatté il naso e cadde rovinosamente su un corpo gracile quanto il suo. Grugnì, sentendo un liquido caldo colarle sul mento e sollevò la testa. Si vide riflessa negli occhi più azzurri che avesse mai visto che la guardavano spaventati e stupiti.
«Scusa» gracchiò e risentì e la sua voce per la prima volta.
«N-non preoccuparti» rispose il ragazzino e si sollevarono nello stesso momento.
Probabilmente notò il viso smunto e i capelli crespi e sporchi perché le offrì la mano e le disse il suo nome.
Armin.
 
La raggiunse più tardi, avendola vista dirigersi da sola verso le stalle. Continuava a ripetersi nella testa le parole che si era preparato, ma tutte le volte gli risuonavano inadeguate e maldestre. Non era mai stato difficile parlare con Tallulah, anzi, fin dal primo incontro si erano resi conto di capirsi al volo e spesso non avevano nemmeno bisogno della voce. Bastava un’espressione del viso o un movimento delle mani a rendere chiaro lo stato d’animo dell’altro e avevano imparato quando e come consolarsi, rallegrarsi, rassicurarsi. Per questo, quel sottile strato di incomprensione che aleggiava tra di loro era sconosciuto ed Armin, solitamente il più bravo di tutti a comunicare, temeva di gestirlo in maniera sbagliata. Quando arrivò la vide di spalle intenta a sistemare il fieno nelle mangiatoie e notò la lentezza dei suoi spostamenti.
«Ti fa ancora male?» le chiese con cautela, incerto di trovarla arrabbiata o meno. Tallulah si voltò verso di lui e lo fissò per un lungo istante. Poi scosse la testa, come a voler cacciar via un pensiero e rispose con tono tranquillo.
«A volte, dipende dai movimenti che faccio».
Armin si avvicinò per aiutarla a rastrellare il fieno e lavorarono in silenzio per qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri.
«Senti-»
«Volevo-».
Le loro voci si sovrapposero nello stesso istante e di nuovo ammutolirono; Tallulah ridacchiò e anche Armin cedette ad un sorriso imbarazzato. Alzò gli occhi su di lei e la trovò in attesa, gli stava dando la precedenza.
«Volevo chiederti scusa. Sono stato un egoista, non volevo vederti soffrire».
Lei tornò seria e sospirò: si era pentita di quel momento di sfogo che aveva avuto davanti a lui, di solito non perdeva le staffe a quel modo. Ricordava benissimo l’ondata di furia che l’aveva aggredita quando aveva sentito che era stata Annie ad uccidere i suoi compagni, tanto quanto ricordava come l’amico fosse trasalito nel sentire i cocci infrangersi sulla parete. Si sforzò di invertire i ruoli. Se fosse stato lui a due passi dalla morte e l’avesse visto disperarsi a quel modo cosa avrebbe fatto? Corrugò la fronte: solo l’immagine le creava un nodo alla gola. Forse avrebbe fatto ben di peggio che cercare di tenerlo fuori.
«Non importa. Ammetto di non essere stata semplice da gestire. Però non capisco, ci siamo visti soffrire per anni»
«Non così. Non a due passi dalla morte».
«Mi dispiace se ti addosso sempre il peso del mio dolore. Mi sei rimasto solo tu, ma forse non è giusto lo stesso».
Il biondo fissò i sottili aghi di paglia, assorto, con la vaga sensazione che qualcosa stesse cambiando tra di loro. Poi scosse il capo.
«No, non è sbagliato il supportarci a vicenda nei momenti peggiori. Però è difficile accettare di non poter proteggerti»
«Vale anche per me. Ma non possiamo farci da parte, lo sai»
«Sì, lo so» mormorò Armin, le spalle lievemente tese «Non vinceremo questa guerra se non saremo in grado di rinunciare a qualcosa»
 «Sai, per quanto sia stato duro, questo tempo da sola mi è servito. Mi ero quasi dimenticata perché mi sono arruolata...».
Si morse un labbro, in difficoltà; non era mai facile parlare di Sadie ad alta voce.
«Sarò coraggiosa come lei e le donerò la mia vita, anche a costo di perdere dei pezzi di me. La porterò ovunque al di fuori di queste mura perché si merita la libertà».
Armin non disse nulla perché gli sembrava che stesse parlando a sé stessa e non voleva rovinare quel momento. Fu come se un nuovo equilibrio si stesse assestando tra di loro, ma non sapeva se fosse positivo o meno. Chissà cosa avrebbe comportato per loro, la consapevolezza che non potevano far nulla se non rispettare le proprie scelte. E piangere, se qualcosa fosse andato storto.
«È per questo che hai tagliato i capelli?».
Tallulah arrossì sotto il suo sguardo cristallino e sorrise davanti all’ennesima prova di quanto la conoscesse a fondo. Potevano anche crescere, ma certe cose non sarebbero cambiate.
«Se può farti stare meglio.. In questi anni tu mi hai davvero salvata, Armin» gli disse con una tenerezza nello sguardo che gli fece battere il cuore. Solo Tallulah era in grado di farlo cadere così preda delle emozioni: solitamente riusciva a pensare con lucidità e a distaccarsi sempre dalle situazioni in modo da giudicarle dall’esterno. Con lei invece tutto il suo mondo definito e chiaro assumeva contorni confusi e sfocati, tutto diveniva colorato e troppo intenso. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, vide però un’ombra attraversarle il viso.
 «Cosa c’è?».
Tallulah scandì lentamente le parole successive «Quando Maria è morta le ho lasciato il tuo bacio».
Il biondo la guardò senza capire, ma lei continuò senza troppe spiegazioni.  
«Sono sicura che le sia arrivato. Che l’abbia scaldata» continuò e sentì gli occhi bruciare. «Armin, io non riuscirò mai a scaldarti come ci riesci tu».
«Tallulah» aveva abbassato il capo e la frangia bionda le nascose l’azzurro dei suoi occhi «Lo fai ogni giorno e neanche te ne accorgi».
Lei lo guardò ed ebbe la tentazione di avvicinarsi e stringerlo, togliergli quella tristezza con cui aveva parlato, ma non lo fece. Si limitò ad arrossire e forse avrebbe detto qualcosa se un rumore improvviso dietro di loro non li avesse fatti trasalire.
«Ohi! Che sono quelle facce? Non vi starete mica imboscando qui dentro?».
Dannato Connie e il suo tatto da elefante.
 
Tra due giorni i ragazzi sarebbero partiti per la spedizione di recupero del Gigante Femminile. Per catturare Annie. Tallulah guardava fuori dalla finestra il vento che ululava nella notte, i gomiti poggiati sul davanzale e le gambe rannicchiate vicino al corpo. Le sue compagne dormivano già da un paio d’ore, il lieve russare di Sasha l’unico rumore che le teneva compagnia: le era mancato persino quello. Lanciò loro uno sguardo, sperando che dormissero bene, ed immediatamente il letto vuoto di Lydia pesò sul suo cuore. Non l’aveva nemmeno vista morire; chissà lei cosa aveva visto prima di chiudere gli occhi per sempre. Sospirò appena e tornò a guardare fuori, poggiando il mento sulle braccia e sentendo la mancanza delle chiacchiere con Maria. Un lampo illuminò il cielo all’improvviso e si riflesse sul suo viso: non le dispiaceva l’inverno con le sue tempeste, la neve e il freddo che irrigidiva i muscoli. Preferiva mille volte sentire la pelle gelida, piuttosto che affogare nell’afa che toglie il respiro. Sperava però che i suoi compagni trovassero un tempo più mite e favorevole, ciò che avrebbero dovuto affrontare era già abbastanza ostile. Era preoccupata, principalmente per Eren ed Armin. Il giorno prima le avevano raccontato tutto per filo e per segno e aveva letto negli occhi di Eren un’ansia di cui nemmeno lui si era reso conto. Come se sotto sotto si aggrappasse alla speranza che si trattasse tutto di un loro abbaglio, un errore che sarebbe finito con quattro risate e una bella mangiata. Non aveva dimenticato come le avesse salvato la vita nella sua prima spedizione ufficiale, né la sensazione che aveva provato quando insieme agli altri lo aveva visto uscire dal corpo del suo gigante. Era una situazione molto delicata, il corpo di ricerca stava rischiando il tutto per tutto: perdere la custodia di Eren significava tornare al punto di partenza, per non parlare di cosa i piani alti avrebbero deciso di fare con lui. Rabbrividì e non volle nemmeno pensarci. Avrebbe voluto partecipare anche lei ed aiutarlo più che poteva. Poi, il solo pensiero che Armin sarebbe stato il più esposto di tutti le faceva ribollire il sangue: quella stronza doveva solo osare sfiorarlo, l’avrebbe cercata ovunque e fatta a pezzi. In quel momento Tallulah si rese conto che l’avrebbe fatto davvero, senza una punta di rimorso: aveva scoperto una ferocia dentro che non sapeva di avere, una rabbia reale e forte che le faceva bruciare le mani. Era come se l’avesse covata per anni, ma sempre tenendola chiusa da qualche parte nel profondo, e adesso divampava come carbone ardente. In quel momento un pensiero imperativo si fece strada in lei.
Devo andare con loro.
Era un soldato dell’Armata Ricognitiva ed era stata ferma fin troppo: l’indomani avrebbe parlato con il Comandante Erwin e se non l’avesse fatta partecipare, avrebbe trovato un altro modo, a dispetto di ogni regola. Per il momento, scacciò via quei pensieri che non le avrebbero di certo conciliato il sonno e si sollevò, prendendo la coperta e infilandocisi sotto.
«Buonanotte» sussurrò e chiuse gli occhi, sperando che coloro che amava riuscissero a sentirla da lassù.
 
Camminava spedita per i corridoi, qualche ora dopo, incurante degli sguardi interrogativi che incrociava di tanto in tanto, sempre più austeri man mano che saliva verso i quartieri d’élite. Non ci era mai stata e sapere che lì da qualche parte ci fosse la stanza in cui dormiva il Capitano Levi non aiutò a calmare la sua agitazione. Si fermò di fronte alla porta dell’ufficio del Comandante e prese un bel respiro prima di bussare con decisione. Quando sentì un fermo avanti entrò e la accolsero un bel pavimento in mogano e quattro paia di occhi. Erwin Smith era seduto alla sua scrivania e di fronte a lui vi erano Levi, Hanje e Mike, ora voltati verso di lei.
Conscia della sua posizione sollevò il mento e si raddrizzò nel saluto militare.
«Buongiorno Comandante, Capisquadra» riuscì a dire senza che le tremasse la voce e tenne gli occhi fissi su Erwin «Spero di non avervi disturbato».
«Nulla che non possa essere rimandato di qualche minuto» rispose in tono conciliante l’uomo e rilassò le spalle contro lo schienale della sedia «Sono lieto di vederti in piedi, Lee».
Un lieve rossore si diffuse sulle guance di Tallulah nel rendersi conto che non solo il suo Comandante conosceva il suo cognome, ma anche le sue condizioni di salute.
Qualcosa dell’emozione che lampeggiò negli occhi dorati della ragazza infastidì vagamente Levi: forse il fatto di essere stato interrotto o forse il fatto che non fosse rivolta a lui. In ogni caso non si preoccupò di capirlo e compresse quella sensazione così forte da farla appiattire nei meandri del suo animo. Una distrazione così grande era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, soprattutto dopo l’ultima fallimentare spedizione.
«Grazie signore. A questo proposito, volevo chiederle di lasciare che affianchi i miei compagni nella missione di domani. Sono più che pronta a tornare a combattere». Non riuscì a tenere il suo tono uniforme e la trepidazione che impregnò le sue ultime parole aleggiò per qualche secondo nella stanza. Hanje Zoe la guardava con curiosità crescente: era una strana ragazzina, un po' impacciata, un viso allegro che cozzava troppo con lo sguardo malinconico. Ancora non riusciva a capire che cosa esattamente avesse smosso Levi a quel modo.
«È un bene che ti senta in grado di tornare sul campo» esclamò Erwin «Ma sei stata assente a tutte le riunioni e non possiamo perdere tempo nell’aggiornarti su ogni particolare strategia. Potresti essere un peso per i tuoi compagni».
Le parole di Erwin erano dolorosamente reali, ma non la punsero; aveva già fatto quelle constatazioni da sola e mai prima di allora si era sentita così sicura di sé stessa.
«Me ne rendo conto, ma Armin ha già provveduto ad informarmi su tutti i piani possibili e riesco a visualizzare bene il mio ruolo all’interno di ognuno di essi»
«Arlert è un ragazzo in gamba» soppesò Hanje, ricordando il biondino e la sua intelligenza. Erwin annuì e cercò lo sguardo dei suoi sottoposti, ma fu sorpreso di notare che Levi non lo ricambiava: i suoi occhi erano fissi sulla figurina in piedi.
«Che ne pensi, Levi?».
Il soldato si voltò verso Erwin e l’uomo notò l’istantaneo ritorno alla sua maschera di indifferenza composta.
«Se ha tanta fretta di morire...» si espresse quasi annoiato e Tallulah lo fissò senza capire se cercasse di intercedere per lei o se non gli importasse minimamente. Una sorta di delusione affiorò nel suo petto a quel secondo pensiero e probabilmente Hanje se ne accorse perché si avvicinò a lei e le posò una mano sulla spalla.
«Su, su, Levi, non essere così cinico. Erwin, la tengo io sotto controllo, sono sicura che andremo d’amore e d’accordo» disse facendole un occhiolino.
«Bene allora, è deciso. Questa sera fate un ultimo incontro di aggiornamento affinché tutto sia pronto»
«Grazie mille, signore. Grazie» proruppe Tallulah, voltandosi verso Hanje con un sorriso così radioso che la donna sentì il cuore scaldarsi.
Forse adesso aveva capito.
 
Jean era sceso con una camicia bianca e una parrucca scura e un po' trasandata che simulava in modo ottimale i capelli di Eren. Tallulah rise insieme a Connie, l’avrebbero preso in giro per sempre.
«Giuro che ti ammazzo. Vorrei ancora capire di chi è stata questa idea ridicola»
«Della caposquadra Hanje».
Armin annuì alle parole di Mikasa «Avete una struttura fisica simile e lo stesso sguardo furioso. È comprensibile».
Tallulah gli si avvicinò «Se smetti di agitarti ti sistemo qui dietro» disse ancora ridendo e Jean sbuffò, maledicendo Eren. Lui nemmeno ce la vedeva, tutta questa somiglianza. Sentì la ragazza tentare di appiattire quanto più possibile le ciocche bionde che continuavano a sfuggire da dietro la nuca.
«Potrebbero vedersi. È meglio alzare il colletto della camicia» disse lei e fece scorrere le dita sul tessuto bianco.
«Qualcuno dovrebbe fargli un ritratto» esclamò Sasha, mandando giù un boccone che probabilmente avrebbe soffocato qualcun altro.
«Non starebbe mai fermo». Connie si poggiò due dita sul mento «Anche se legandolo...»
«Guardate che io sono qui» grugnì Jean, sputacchiando qualche capello che si era staccato dalla parrucca.
«Che permaloso» disse Tallulah divertita e diede un colpetto sulla schiena di Jean per fargli segno che aveva finito.
«Buongiorno ragazzi».
Christa e Ymir erano appena entrate in mensa e si unirono al loro chiacchiericcio, finché non arrivarono i capisquadra, Eren ed il Comandante a fare velocemente il punto della situazione. I suoi occhi si posarono sul Capitano Levi vestito da civile e si chiese se la ferita alla sua gamba fosse tanto grave da non lasciarlo partecipare attivamente alla missione. Così elegante non l’aveva mai visto e improvvisamente si sentì in soggezione, come se fosse destinata ad ammirarlo da lontano per sempre. Si riscosse solo quando iniziarono a muoversi per ultimare i preparativi e presto si misero in marcia verso i territori interni del Wall Sina. Cavalcava accanto ad Hanje Zoe, come le aveva detto la sera prima, quando le aveva mostrato tutte le attrezzature sperimentali con cui avrebbero messo in atto il piano C, se ce ne fosse stato bisogno.
 
«Non dovrei dirlo, ma spero vivamente che i piani A e B falliscano o tutto questo ben di dio sarebbe stato preparato invano!» miagolò accarezzando la rete chiodata appena stata arrotolata su sé stessa, pronta per essere caricata su un carro il mattino seguente.
«Capitano, se sa che non dovrebbe dirlo allora perché lo dice?» rispose Moblit, passandosi una mano sugli occhi e lanciando uno sguardo allarmato verso di lei. Tallulah strinse le labbra.
«Non mi dispiacerebbe vedere quel gigante contorcersi senza via d’uscita».
«Non è una tua compagna?» le chiese Hanje, voltandosi a guardarla e notando i tratti del viso rigidi.
«Ci ha traditi. Probabilmente non lo è mai stata davvero» rispose semplicemente. Non sapeva quanto la mettesse in buona luce, ma optò comunque per la sincerità. «E comunque la nostra priorità è conoscere il segreto dei giganti».
«Parole sante!» esclamò, improvvisamente infervorata «Non vedo l’ora di mettere le mani su di lei, è così preziosa! Per non parlare di tutti gli esperimenti che potrei condurre, mi sembra molto diversa da Eren e...».
Tallulah osservò il suo viso arrossarsi man mano che le sue spiegazioni prendevano vita e la trovò simpatica. Il modo in cui si approcciava ai giganti e ai problemi era del tutto privo di quell’angoscia pervasiva che Tallulah respirava ovunque. Hanje era una vera e propria ventata d’aria fresca.
«Favoloso» mormorò lei e sentiva quasi di guardarla con occhi adoranti.
«Che cosa, cara?»
«La sua passione è bella».
La donna sollevò le sopracciglia e le brillarono le iridi dietro le lenti degli occhiali. «Magari tutti la pensassero come te! Avremmo molte meno grane con gli sponsor e gli investimenti»
«Immagino sia dura dover avere a che fare con quella gente. Al processo di Eren sono rimasta sconvolta»
«Erwin ha il suo bel da fare» annuì, convinta «Ma è un ottimo oratore, quasi sempre riesce a spuntarla».
«È sotto il suo comando da molto?»
«Non puoi farmi questa domanda! È come chiedere la mia età»
Tallulah arrossì «Mi scusi, non intendevo questo... Anche perché mi sembra piuttosto giovane e carina»
«Io? Carina?» rispose Hanje, sgranando gli occhi «Accidenti, stai seducendo anche me!»
«N-non volevo essere inopportuna! Mi scusi» si precipitò a dire ancora, salvo poi bloccarsi quando recepì meglio ciò che aveva detto. «Che vuol dire “anche lei”?».
Hanje scoppiò a ridere e le diede due pacche sulla spalla «Oh, sei più che inopportuna, ma ammetto che mi diverto un mondo».
Tallulah non capì affatto il senso delle sue parole, ma stavolta non disse altro per non peggiorare la situazione. La caposquadra l’aveva presa sul ridere, ma doveva imparare a mordersi la lingua prima di esprimere tutto ciò che le passava per la testa. Hanje si stiracchiò con sospiro piacevole e si voltò verso di loro.
«Bene, è tutto. Cerchiamo di riposare al meglio, domattina vi voglio più vigili di un orso affamato».

Guardandola andar via, Hanje sgomitò il suo sottoposto. Carina, impulsiva e fin troppo emotiva. L’esatto opposto di Levi. 
«Ne vedremo delle belle» sussurrò con un ghigno e Moblit alzò gli occhi al cielo: non ci aveva capito proprio niente.
 
Erano in attesa da almeno mezz’ora. Dal punto in cui lei, Hanje e Moblit erano nascosti si riusciva solo a sentire rumori lontani di esplosioni e grida confuse. Tallulah aveva i muscoli contratti per la tensione e continuava a tamburellare le dita sull’elsa delle lame, tenendo lo sguardo fisso sui soldati posti sul tetto opposto al loro. Stava passando troppo tempo, qualcosa doveva essere andato storto.
Avanti... Dove siete?
La caposquadra era in ginocchio accanto alla trappola e le tremava leggermente la mano: a Tallulah sembrava che fosse più per eccitazione che per paura. In quel momento la terra cominciò a tremare al ritmo di passi pesanti, sempre più vicini.
«Oh, arriva… Arriva» mormorò Hanje, al limite della sopportazione e Moblit la guardò, il sudore freddo che gli imperlava la fronte.
«Caposquadra, perché ha quell’espressione negli occhi?».
Non ci fu il tempo per una risposta, la testa enorme del Gigante Femminile entrò nel loro campo visivo e quando si voltò verso di loro, Tallulah si specchiò nei suoi occhi enormi: in quell’istante le trappole scattarono e i rampini uncinati si conficcarono nella sua carne da tutte le direzioni. Cadde all’indietro e subito dopo la rete chiodata venne fatta calare su di lei e si ritrovò bloccata a terra. Tutti esultarono, più o meno visibilmente. Tallulah vide Armin e Jean librarsi in aria poco più avanti e si sentì sollevata; resistendo alla tentazione di raggiungerli, seguì invece Hanje, ricordando la sua promessa di rimanere con la sua squadra. La donna avanzò verso il gigante con una serietà dura, che cozzava totalmente con l’esuberanza del giorno prima: sembrava quasi un’altra persona e la ragazza sentiva crescere l’ammirazione verso di lei. Voleva assistere a tutto ciò che Hanje avrebbe fatto e godere della sofferenza che Annie avrebbe provato.
«Qui non potrai chiamare i tuoi amici per farti divorare come l’altra volta» mormorò Hanje puntando una lama verso l’enorme occhio azzurro «Ma puoi stare tranquilla, ci penserò io a divorarti al posto loro: farò una scorpacciata di tutte le informazioni che possiedi».
Tallulah vide cambiare lo sguardo del Gigante Femminile: in un istante capì cosa stesse per succedere, ricordava perfettamente quell’esatta espressione prima che uccidesse Maria. Prese Hanje per un braccio e si arpionò al primo muro disponibile tirandola via con sé, proprio mentre il gigante alzò una gamba e travolse tutte le attrezzature e gli uomini lì in piedi. Atterrarono malamente su un tetto, seguite subito da Mikasa.
«La nostra trappola non è bastata a fermarla!» esclamò Hanje, non appena rimessasi in piedi, lanciando uno sguardo grato a Tallulah. Questa strinse i denti, osservando Annie darsi alla fuga e non resistette più: si lanciò giù senza aspettare nessun ordine e la inseguì, fissandola con odio. Una sferzata di vento alla sua sinistra catturò la sua attenzione e si scambiò un’occhiata con Armin, condividendone le intenzioni. Schivò una sfilza di macerie che il gigante lanciò loro addosso e aumentò la velocità, senza curarsi della scia di gas che si lasciava dietro. Era proprio dietro Mikasa: la vide arpionarsi a quel corpo enorme e si spostò sul lato opposto per stringere Annie tra due fuochi; non fecero in tempo, Mikasa venne colpita e cadde strisciando sul cemento per qualche metro. Tallulah non si guardò indietro e non frenò: sfoderò le lame e direzionò il movimento verso il fianco destro. Doveva sfruttare il fatto che non l’avesse ancora vista e, soffocando un urlo per lo sforzo, si arcuò all’indietro per acquistare lo slancio necessario. Abbassò le braccia con tutta la sua forza e sentì le lame penetrare nella carne e lacerarla per qualche centimetro. Fu come provare del piacere fisico: l’elettricità di essere riuscita a ferirla la attraversò con una scossa, ma suo malgrado dovette allontanarsi immediatamente perché l’ombra della sua mano stava già calando su di lei. Si aggrappò ad un camino, respirando pesantemente e asciugandosi con la manica il sudore dalla fronte: non aveva mai combattuto a quel modo, si sentiva stanchissima e pesante ed allo stesso tempo aveva l’adrenalina a mille. Di quel passo, tuttavia, non sarebbero riusciti ad abbatterla, ferirla comportava troppo sforzo e raramente si riusciva ad approfittare delle sue distrazioni. In quell’esatto momento un’esplosione di luce, qualche isolato dietro di loro, bloccò tutti quanti e Tallulah comprese.
Eren.
La terra tornò a tremare e stavolta era un buon segno.
 
Una bambina vagava a passo malfermo nella polvere, i capelli biondi strappati e il viso macchiato di sangue fresco. Piangeva a singhiozzi disperati e sembrava non vedesse più nulla nonostante gli occhi aperti, come se un velo le fosse calato per proteggerla dall’orrore in ogni angolo. Ogni tanto inciampava su una pietra o un corpo, non lo sapeva, ma si rialzava ignorando le ginocchia sbucciate ed il dolore bruciante. Un fruscio veloce e quasi delicato precedette le braccia ferme che la presero al volo, appena prima che due giganti cadessero per terra, l’uno sopra l’altro, combattendo ferocemente, ognuno perso nella propria rabbia. Tallulah strinse quel corpicino tremante tra le braccia e atterrò con i piedi sulle tegole rosse, mollando il dispositivo tridimensionale e portando l’altra mano sulla nuca della bambina in una carezza muta. Poi si voltò afflitta verso Armin, che aveva appena ripreso a respirare: non aveva neanche provato a trattenerla dal volare giù, ma aveva rischiato grosso e gli era venuto un colpo. Tallulah tornò a guardare la scena sotto di lei senza riuscire a capire chi stesse avendo la meglio. A volte Annie sembrava presa da una forza sconosciuta e sferrava pugni sul cranio del gigante di Eren; quest’ultimo, anche senza un braccio, continuava a morderla, atterrarla, soffocarla. Sembrò quasi una scena surreale quando Annie tentò di aggrapparsi alle mura per scavalcarle e Tallulah temette sul serio che ci sarebbe riuscita. Fu Mikasa a impedirglielo, sfrecciando verso di lei. Le recise le dita delle mani, facendola precipitare, ed Eren ringhiò come una bestia assetata e raggiunse il corpo stremato del Gigante Femmina.
«No! Così divorerà anche l’ospite» gridò la voce di Hanje, seguita da Jean ed Armin, ma sembrò che nulla lo raggiungesse. Incombeva sul corpo stremato del Gigante Femmina e pareva avere tutte le intenzioni di morderlo. Tallulah pensò che ormai fosse troppo perso dentro sé stesso e una parte di lei desiderò che la facesse a pezzi. Invece, un pensiero la contrariò.
No. Troppo semplice andarsene così.
Poi un fulmine scese dal cielo e Tallulah indovinò chi fosse prima ancora di poterlo vedere in viso.
 
Cercò di sciogliere la presa di quelle fragili braccia ancorate al suo collo, ma la bambina non sembrava averne l’intenzione. Non piangeva più, ma le membra le tremavano ancora.
«Non ti va di guardarmi? Io vorrei vedere il tuo viso» le sussurrò nei capelli. Tutti erano radunati intorno ad Eren e ad Annie, ma Tallulah si era tenuta indietro, non volendo assolutamente che la piccola vedesse quello spettacolo macabro: lo scheletro del gigante di Eren spiccava curvo nel fumo e poteva sentire Hanje gridare disposizioni su come trasportare Annie nei sotterranei. L’odio le era sparito, si sentiva solo stanca e dispiaciuta. Quanti morti c’erano stati quel giorno? Per quanto quella bambina avrebbe pianto ciò che aveva perso? Domanda inutile, era ovvio: si sarebbe portata dentro quel giorno per sempre. Le sembrava quasi di rivedere sé stessa, anni fa. Tentò ancora di allontanarla appena e stavolta non trovò resistenza; la bambina la guardava con gli occhi gonfi e lucidi, spaesati.
«Come ti chiami?» le chiese con dolcezza.
«Liz» rispose lei, sentendo la voce rauca raschiarle la gola, e tossì forte. Tallulah le accarezzò una guancia.
«Sei stata davvero coraggiosa, Liz. Io sono Tallulah» le sorrise, cercando di sembrare confortante, nonostante tutto. Guardò oltre la testolina bionda chiedendosi con tristezza cosa avrebbe dovuto fare ed incrociò gli occhi di Levi che stavano scandagliando il perimetro. Entrambi si bloccarono lì, l’uno sull’altro, e rimasero a fissarsi per un tempo inquantificabile. Non sapeva spiegarsi perché, ma le fu di conforto. Levi aveva sempre uno sguardo fermo e vigile, come se avesse sempre tutto sotto controllo, e forse era questo ad attrarla più di qualsiasi cosa. Le trasmetteva una sicurezza che nemmeno Armin le era mai riuscita a dare. In quel momento voleva raggiungerlo e posarsi sulla sua spalla, solo per qualche attimo, solo per riposarsi. Fissandola, l’uomo ricordò la prima volta che l’aveva incontrata, più di un anno prima, il viso stravolto dall’alcol e da una disperazione troppo adulta. In quel momento invece, gli sembrava un giunco di fiume. Credeva si sarebbe spezzata subito, che l’avrebbe vista soccombere, ma si era dovuto ricredere: sentì dentro una specie di orgoglio per come quella mocciosa stesse facendo fronte al dolore. Fu lei a distogliersi per prima e l’uomo la vide parlare alla bambina con un amore nella sua espressione che non aveva mai visto in nessuno. Per la prima volta, fu il cuore di Levi a mancare un battito e ci vollero parecchi istanti prima che riuscisse a comprendere quella sensazione.
 
«Dove vai?».
Una voce glaciale proveniente da un’ombra la gelò. Aveva fatto pochi passi e stava per aprire il portone che l’avrebbe condotta fuori, nel buio notturno: voleva andare da Earl, sentire il sapore del vino in bocca, staccarsi da sé stessa per qualche ora. Non pensare al pianto di Liz, quando l’aveva lasciata alla donna che gestiva l’orfanotrofio della città. La polizia militare glielo aveva indicato quando, dopo le dovute ricerche, era stato accertato che i genitori della piccola fossero morti durante la celebrazione religiosa del culto delle mura. Annie ed Eren avevano travolto l’edificio durante la lotta. Le era stato detto che sarebbe stata la gendarmeria ad occuparsene, ma Liz non si era voluta staccare da lei ed anche Tallulah non ne volle sapere. Voleva vedere con i suoi occhi quel posto e alla fine le aveva promesso che sarebbe tornata a trovarla, senza la certezza che ci sarebbe riuscita davvero. Abbassò la testa, lasciando che il cappuccio le coprisse gli occhi, ma Levi fu più svelto e le spostò quel tessuto nero. Tallulah trattenne il respiro ed alzò lo sguardo con cautela: sapeva che era un rischio, lui era sempre sveglio, dormiva anche meno di lei. Probabilmente l’aveva sentita scendere le scale. L’espressione impassibile con cui la stava guardando la innervosì: era brava a leggere le emozioni degli altri, ma con lui era sempre un’impresa.
«Vado a fare una passeggiata» mormorò piano.
Levi strinse la presa sul cappuccio e lo tirò verso di lui, costringendola a fare dei passi indietro.
«Riconosco sempre quando qualcuno mente» disse lui. «Te soprattutto»
Tallulah apparve confusa «Perché me?»
«Perché sei una mocciosa sprovveduta e ti si legge in faccia».
La ragazza sembrò contrariata ed arrossì, sentendosi davvero una bambina, come ogni volta che era con lui.
«Vorrei che la smettessi di chiamarmi così» le sfuggì, come suo solito, senza riflettere. Le pupille azzurre si assottigliarono in uno sguardo tagliente come uno spillo e allontanò la mano da lei, prima di dar retta all’impulso di strattonarla e ricordarle chi avesse davanti. Oppure di spingerla contro la parete, chiuderle le labbra e bloccarle i polsi, avvolgerla tra le sue spire di serpente velenoso e osservarla dibattersi invano. Non quel contatto sfuggente che gli aveva rubato qualche notte prima, le avrebbe abusato la bocca e tolto la facoltà di comunicare, pensare e sfidarlo con quel viso sfacciato.
«Lee, domattina alle 5.00 ti voglio sul campo di allenamento. Ti sei guadagnata una punizione coi fiocchi».

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo nono ***


Capitolo nono
 
Questo senso di niente
Passa se ci sei tu
 
 
«Un’altra volta».
Era da poco passata l’alba. Il freddo era tagliente, la rugiada scivolava ancora sui fili d’erba e alcuni uccelli si sentivano in lontananza. Tallulah però riusciva solo a sentire i suoi stessi respiri pesanti e i muscoli bruciare: l’aveva fatta correre per un’ora lungo il campo di allenamento, per riscaldarsi. Poi le aveva detto: colpiscimi.
Era rimasta immobile a guardarlo, per la prima volta quasi intimidita davanti quel lato di Levi, uno che non aveva mai visto e che si era palesato la sera prima, quando un luccichio furioso aveva preso posto nei suoi occhi. Quello sguardo arrabbiato l’aveva colta così di sorpresa che era filata a letto senza più dire una parola. Da un lato le era piaciuto vederlo senza la sua solita compostezza; i risvolti negativi però si erano rivelati quella mattina. Ad alzarsi presto ci era abituata, ma a quello no. Quando aveva capito che non scherzava, ci aveva provato, a colpirlo: inutile dire che fosse assolutamente impossibile. Ad ogni attacco fallito le toccavano novanta addominali. Poi, da capo. Non era mai stata così stanca in vita sua, e per un soldato, voleva dire molto.
«Non ce la faccio più» disse, ignorando il sudore che le scivolava sulle guance ed aveva ormai impregnato i capelli. Levi si staccò dal tronco su cui aveva poggiato la schiena e le si avvicinò, incrociando le braccia. Quando, alcune ore prima, l’aveva sorpresa intenta a sgattaiolare fuori aveva capito subito le sue intenzioni e non gli erano piaciute affatto: il solo pensiero di saperla a bere da sola per le vie buie gli aveva sollevato un’ondata di fastidio. In ogni caso, si sarebbe limitato a rispedirla a dormire se poi non si fosse rivolta a lui in modo così insolente.
«Non ti ho chiesto se ce la fai o no. E poi non eri tu a volere un corpo a corpo?».
Se il tono e la sua espressione non fossero stati così vuoti, Tallulah avrebbe giurato che la stesse prendendo in giro. Onestamente, stava iniziando ad irritarsi. Pensava che l’avrebbe punita facendole pulire da sola le stalle o raddoppiandole i turni di lavoro, sarebbe stato più sensato. Strinse i denti e si rialzò, avendo completato la settima serie di esercizi; il fianco aveva ripreso a farle male dopo lo sforzo dell’ultima missione e una notte di riposo non era bastata a farglielo passare. Osservò la sua postura rilassata, non fingeva nemmeno di prepararsi alla difesa e questo ferì il suo orgoglio anche più dei precedenti tentativi andati a vuoto.
«Quanto-» disse tra i respiri veloci «Quanto durerà? Fino a che non stramazzerò al suolo? Lo sappiamo entrambi che non riuscirò a colpirla»
«Fossi in te risparmierei il fiato» rispose l’uomo, quasi annoiato.
«È ingiusto»
«Stai contestando gli ordini?».
Tallulah ingoiò un grido frustrato e si rimise in posizione, sollevando le braccia e allargando meglio i piedi a terra. Con uno scatto in avanti sferrò un pugno verso il suo viso per distrarlo e ne approfittò per mirare allo stomaco con il ginocchio. Levi le afferrò il polso, parando il colpo con il suo stesso braccio, e le sfuggì un gemito di dolore; aveva perso il conto dei lividi che le stavano affiorando sulla pelle. Il viso le si contrasse in una smorfia infastidita e stavolta non indietreggiò: con la mano libera gli agguantò la giacca dell’uniforme in una stretta rabbiosa e avvolse la gamba dietro la sua, quella sana, dandosi con l’altra una potente spinta. Probabilmente Levi non si aspettava quell’improvviso cambio di atteggiamento perché barcollò leggermente, giusto prima di fare perno sul terreno e spingerla all’indietro con il suo corpo, il fantasma di un ghigno sul viso. Per qualche secondo lottarono per l’equilibrio, o meglio, era Tallulah che stava disperatamente tentando di non cadere, divisa tra la stizza che cresceva e il profumo dell’uomo che improvvisamente le inondò le narici. Levi la osservò dibattersi, soddisfatto finalmente di essere riuscito a tirarla fuori: aveva notato con disappunto che non combatteva al pieno delle sue capacità, i suoi movimenti erano troppo lenti e controllati, senza alcun istinto, né iniziativa. In quel momento doveva essere scattato qualcosa perché finalmente vedeva i suoi occhi pulsare e la rabbia la stava aiutando a indirizzare meglio gli attacchi. Con la gamba sinistra le calciò la caviglia che gli bloccava i movimenti, pronto a gettarla a terra con una gomitata sullo sterno, ma Tallulah ripiantò i piedi a terra e schivò il colpo, allontanandosi poi per riprendere fiato.
«Tutto qui?» disse lui, senza nemmeno una parvenza di affaticamento. Stavolta lei grugnì a piena voce e scrocchiò il collo; poi avanzò tenendo i pugni davanti al viso e con la gamba davanti colpì appena il suo stinco, prima di sollevare l’altra fulminea, mirando al collo. Lo vide scansarsi all’indietro, ma lo seguì con un pugno che Levi intercettò al volo, prendendole il polso e voltandola di spalle. Poi serrò il braccio intorno al collo di lei, il petto che aderiva alla sua schiena. Tallulah si morse le labbra per evitare di affondare i denti su quella pelle chiara e tentò di divincolarsi da quella stretta, ma invano. Si prese qualche secondo per respirare pienamente e poi infilò nuovamente un piede dietro il suo per slanciarsi all’indietro con veemenza. Non avrebbe mai pensato che sarebbero caduti davvero ed in un altro momento avrebbe addirittura potuto riderne. Ma sapeva di dover approfittarne e non perse tempo: si sollevò in fretta, voltandosi, e lo bloccò a terra, le gambe ai lati del suo bacino e un braccio sotto la sua gola. Lui osservò dal basso l’espressione feroce che aveva in volto e si sentì compiaciuto nel vederla così infuriata, così diversa dal solito.
Così più simile a lui. In quel momento si rese conto del suo errore: il suo tentativo di punirla, di metterle in testa il rispetto che doveva mostrare ai suoi superiori, a lui, gli si stava ritorcendo contro. Avrebbe dovuto evitarla, invece adesso si ritrovava ad avercela addosso, ansimante e con le guance rosse. Lo assalì la frustrante consapevolezza che non stava riuscendo affatto a comportarsi come avrebbe dovuto.
«Ce l’ho fatta!» esclamò con un sorriso incredulo e affannato.
Levi si trattenne dallo sbuffare e con un colpo di reni, fece presto a ribaltare la situazione, afferrandole le braccia e piantandole saldamente a terra. L’impatto con il terreno le fece girare appena la testa e Tallulah sbatté le palpebre un paio di volte, fissandolo. Il volto era fermo, ma gli occhi azzurri gli lampeggiavano come un mare in tempesta e le cancellarono ogni segno di ilarità. Lo sguardo le cadde sulla sua bocca così vicina ed ebbe una strana sensazione di dejà vu: d’impulso allungò il collo, ma Levi si tirò indietro all’istante, aggrottando le sopracciglia. Spostò una mano dal braccio alla sua bocca e le spinse il capo nuovamente a terra.
«Cosa diavolo vorresti fare, mocciosa?».
Tallulah si sentì arrossire, senza sapere se per la vergogna o se per quelle dita che scivolarono via dalle sue labbra troppo presto, lasciandole la responsabilità di rispondere.
«Mi scusi» mormorò, tornando a dargli del lei senza nemmeno accorgersene «Non so cosa mi sia preso».
L’uomo si sollevò e Tallulah si affrettò a imitarlo, scrollandosi poi la terra dai vestiti.
Non lo sapeva davvero, ogni volta che era con lui finiva in questo vortice di emozioni così forti da stordirla e forse iniziava a percepire quanto fossero deleterie. Poteva capire come dovesse apparire ai suoi occhi, una ragazzina sciocca, superficiale, debole e insolente, mentre lui ai suoi era un uomo così forte, sicuro e giusto.
«Se ricapita una terza volta sarò costretto a prendere provvedimenti» esclamò Levi, chinandosi a sistemare il suo stivale e sancendo la fine di quella punizione.
«U-una terza?».
Tallulah sgranò gli occhi e lo vide fermarsi e lanciarle uno sguardo sinistro che la mise in guardia. Una strana ondata di risentimento lo investì: stava scherzando o l’aveva sul serio dimenticato? Osava coinvolgerlo in quelle situazioni sconclusionate per poi rimuoverle completamente? Allora era una farsa, quel visetto appassionato che lo guardava bevendosi ogni sua parola, era finta quella sciocca cotta che vantava d’avere? Ritornò sui suoi passi, improvvisamente preda di qualcosa di indefinito e fuori dal suo controllo, e Tallulah indietreggiò, avendo come l’impressione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il sole era ormai sorto e i suoi raggi le colpirono il viso tanto da farle socchiudere gli occhi. Fu per questo che non si rese bene conto come e quando le fosse venuto così vicino e si ritrovò ad osservare la mascella serrata in una linea dura e la linea gonfia della vena alla base del suo collo.
«Non te lo ricordi?» le chiese con una voce bassa che le diede i brividi.
Cosa?
Ripercorse in fretta tutte le occasioni in cui erano stati insieme, era sicura che non avesse fatto nulla di così inappropriato. Non rispose, temendo di peggiorare la situazione, e quasi sobbalzò quando sentì le dita dell’uomo afferrarle il mento e sollevarle bruscamente il viso per costringerla a guardarlo negli occhi.
«Sei scesa di notte a disturbare la mia lettura e ti sei addormentata sul tavolo della mensa».
Tallulah risentì lo scrosciare della pioggia sui vetri, il profumo delle foglie di thè, un calore avvolgente. Annuì quasi impercettibilmente, ma lui non la mollò, continuando a specchiarsi in quelle pozze di miele che brillavano al sole.
«Poi ti ho presa in braccio e ti ho riportata a letto».
Risentì delle braccia forti che la sostenevano come se non pesasse niente, il pervasivo senso di leggerezza e di sicurezza, un dolore serrato all’altezza del petto.
Non lasciarmi.
Levi vide la consapevolezza attraversarle il volto e attese la sua reazione con pazienza innaturale, non si era mai sentito così fuori controllo ed allo stesso tempo così padrone di sé. La ragazza rabbrividì ed il cuore accelerò di colpo: allora quello non era stato un sogno, era reale, quelle labbra rigide le aveva davvero sentite sulle sue. Mille pensieri confusi si affollarono nella sua mente, ma alla fine un dettaglio prevalse su tutto.
«Mi volevi» esclamò senza filtri, incredula e turbata. Non era una domanda quella, non prevedeva scorciatoie o vie di fuga, e Levi si chiese come poteva star lì a rinfacciargli la verità come se lui non fosse ciò che fosse, come se un attimo prima non l’avesse trattata come un soldato inutile e debole. Non gli era mai parsa così bella come in quel momento, mentre lo sfidava a testa alta nonostante le ultime due ore in cui aveva tentato di stremarla in tutti i modi. Iniziò a pensare che dovesse essere una sorta di punizione per tutte le porcherie che aveva commesso in quella vita.
«Ti sfugge il senso di questa conversazione» disse, ammonendola.
«Se il mio non era un sogno, non posso ignorare il tuo ruolo nel-».
«Il mio vero ruolo è quello che continui a dimenticare» rimarcò tra i denti che si accorse d’aver stretto solo quando sentì il leggero sapore del sangue sulla lingua. «Forse perché vorrei vedere oltre» esclamò quasi senza fiato a causa di quella vicinanza. Stava disperatamente tentando di mantenere ordine nella sua mente annebbiata, di non perdere il filo, di capire ciò che stesse accadendo. Solo un soffio di vento li separava dal prendersi, Tallulah si leccò le labbra e Levi seguì quel movimento con gli occhi, mentre quelle ultime parole continuavano ad aleggiare nella sua testa: la mano scivolò dal mento e scese lungo il collo di lei, sancendo una sconfitta inconsapevole. Avvertì un palmo delicato e tremante risalire piano lungo il bicipite, sfiorargli la spalla lievemente contratta e curvarsi con delicatezza dietro la sua nuca. Sotto i polpastrelli la sua pelle era fredda e Tallulah azzardò a sfregare le dita contro di lui, in una carezza muta. Levi sentì affiorare la pelle d’oca al suo passaggio e inconsciamente si sporse in avanti: le loro labbra si fusero in una stretta così intensa che per qualche secondo lasciò entrambi senza fiato. Poi si separarono di qualche millimetro e si cercarono con gli occhi, il viso ormai privo di qualsiasi maschera, leggendosi addosso lo stesso disorientamento. Tallulah si sporse ancora e Levi arretrò di poco, in un ultimo attimo di esitazione, le palpebre calate a metà. Forse fu quel sole a dissuaderlo, o forse tutto quel lottare di prima, perché tornò da lei, il naso che sfregava contro il suo, e si incontrarono ancora, più a lungo. Levi mosse le labbra sulle sue e le circondò la vita con un braccio per tirarsela addosso: il sospiro flebile con cui lei accolse quella stretta fu il colpo di grazia, tutto perse di importanza e si ritrovò in una distesa d’erba dal cielo troppo azzurro e un vento troppo caldo. Tallulah lo strinse in un abbraccio talmente forte che dovette piegare leggermente la testa all’indietro e Levi approfittò di quel migliore accesso per carezzarle le labbra con la lingua. Le tremarono appena nel momento in cui le schiuse e sentì il suo muscolo caldo farsi strada nell’interno umido della bocca, carezzarle i denti, strofinare contro la sua lingua. Si sentì debole e leggera, un po' impacciata mentre tentava di seguire quel ritmo nuovo, senza immaginare che la sua inesperienza non faceva altro che accenderlo di più. Macchiare qualcosa di così puro, c’era una sorta di soddisfazione perversa in quella consapevolezza che gli destava i sensi come non accadeva da tempo. Dal canto suo, la ragazza percepì qualcosa nel modo in cui l’uomo la stava baciando, una nota di sofferenza pacata che si rese conto di aver sempre percepito in lui quando le stava vicino, come se fosse lei a causargliela. Levi indugiò a lungo sulle sue labbra, lambendo quello inferiore tra le sue, infilando le dita tra le sue ciocche corte, affondando in quella voglia che cresceva. Nel momento in cui si rese conto di star per perdere completamente la testa, si costrinse a rallentare; una lenta presa di coscienza accompagnò gli ultimi baci umidi che le lasciò a fior di labbra con una dolcezza così inaspettata che le fece venir voglia di piangere. Le sembrò un addio e tentò di ribellarsi, spingendoglisi contro e solcando con le dita la sua schiena, ma non poté impedire la fine.  
Eccola lì, la merda fino al collo, pensò Levi.
Poteva solo immaginare quanto sarebbe stato più difficile d’ora in poi stabilire dei confini netti. D’altronde chi voleva prendere in giro, confini netti non c’erano mai stati, né fuori, tra di loro, men che meno dentro di lui. Tallulah si portò le dita sulle labbra umide tenendo gli occhi bassi, il cuore ancora martellante, e Levi rimase per qualche secondo a guardarla quasi in trance. Si rese conto dell’enorme gravità di quell’errore quando sentì la voglia dirompente di baciarla ancora, di più: aveva acceso la miccia e quel silenzio poteva condurre a due direzioni molto diverse.
Al niente o al tutto.
«Non deve più accadere» le disse infine, mortalmente serio, mostrando una calma che non aveva e ignorando lo sguardo ferito che la ragazza gli rivolse. Quelle parole le fecero venire la nausea, forse avrebbe vomitato l’emozione che le aveva fuso le viscere. Il suo primo vero bacio doveva morire così, in un lago di negazione bollente?
«... Perché?» gli chiese con una punta di disperazione che lo disorientò. Già, perché?
Non le rispose, limitandosi a scrollare le spalle con un fare indifferente che le gelò il sangue. Era così facile per lui rifiutarla ogni volta, così difficile per lei sentirsi sempre sconfitta e sciocca. Forse per lui non aveva un vero significato, forse era solo qualcosa di carnale. Era un uomo, in fondo, ed essere il soldato più forte dell’umanità non lo rendeva meno umano. Tallulah si voltò, con l’improvviso impulso di scappare via, come era fuggito Armin quando le aveva confessato i suoi sentimenti. Solo adesso comprendeva a pieno quanto dovesse essersi sentito vulnerabile.
 
Doveva fare una doccia. Forse anche due.
Quello era il suo unico pensiero mentre tornava ai suoi alloggi, un bisogno talmente impellente da fargli venir voglia di grattar via la pelle dal corpo. Si sentiva sporco, in molti modi. L’aveva baciata senza curarsi di nulla, nemmeno del sudore che le impregnava i vestiti, e questo non faceva altro che aumentare i suoi timori. Ce l’aveva con sé stesso per la reazione avuta davanti agli occhi stupiti della ragazza quando U-una terza? Perché gli aveva dato così fastidio l’idea che lei potesse non ricordare? Odiava sentirsi debole ed in quel momento era proprio così che si considerava. Qualcosa in Tallulah innescava la sua parte più grezza e impulsiva, più vera, e i suoi tocchi inesperti lo avevano infiammato più di quanto gli piacesse riconoscere. Era abituato al sesso, da molto prima di diventare un soldato dell’armata ricognitiva, perciò non riusciva a spiegarsi quell’effetto intossicante che gli aveva trasmesso con un semplice bacio. Forse era tutta quella passione che lui le vedeva sempre strabordare dagli occhi, dai gesti, dai sorrisi. Se l’era sentita tutta riversata addosso quando l’aveva stretto come se fosse importante, no, essenziale.
Forse era questo ciò a cui non era abituato.
Forse era questo che rifuggiva.
 
Li avevano interrogati uno alla volta, confrontando le loro versioni su ciò che era successo nel Wall Sina. A quanto si diceva in giro, anche il Comandante Erwin era stato messo sotto torchio e stavolta, non a torto. Annie era completamente irraggiungibile, si beffava di loro dall’interno del suo bozzolo di cristallo, mostrando quanto inutili fossero stati tutti quegli sforzi, tutte quelle morti. Non le era andato molto a genio il modo in cui le avevano posto domande assurde, come voi eravate al corrente dei morti che avreste causato?, con spocchiosa superiorità. Sembrava piuttosto che le stessero chiedendo se ne fosse stata contenta, ma si era sigillata la bocca; alla fine, per quanto sgradevole fosse stata, Tallulah aveva accolto a braccia aperte quella distrazione da Levi e da ciò che era accaduto tra di loro. Nonostante la situazione fosse critica, rischiavano che la legione venisse sciolta, poteva percepire ancora vivo il sapore di lui sulla lingua e questo le faceva venire le gambe molli. Ancora non riusciva a credere di averlo toccato, stretto, in quel modo così intimo. Non si era pentita di quel bacio, ma sapeva che lui avrebbe voluto non averlo mai dato e quel pensiero la fece nuovamente sprofondare in una tristezza pastosa molto diversa da tutti gli altri dolori che aveva provato. Fissò le bende di Eren, ancora a letto, mentre aspettava pazientemente che anche Armin e Jean tornassero da quell’inquisizione. Mikasa era stata al suo fianco fino a che non si era svegliato ed anche dopo aveva rifiutato di andare a riposare. Si sentiva quasi di troppo a quel punto, così si alzò con l’intento di lasciarli da soli: avevano già così poche occasioni di godere di quei momenti.
«Vado a prendere una boccata d’aria, ragazzi. Eren, cerca di mangiare» gli sorrise appena e posò una mano sulla spalla di Mikasa.
«Sì, ci provo»
«A dopo, Tallulah».
Si dileguò dietro la porta e tirò un sospiro: quella stanza vecchia e maltenuta la stava soffocando. Dei passi veloci provenienti dal corridoio le fecero voltare la testa di scatto e vide la chioma bionda dell’amico svolazzare per la corsa.
«Armin, cos’è successo?!» gli chiese, irrigidendosi davanti alla sua espressione sconvolta.
«La situazione è grave! I giganti sono oltre il Wall Rose!».
Allargò le labbra in una o a metà tra lo stupore e l’inorridito. Ritornò sui suoi passi per rientrare dagli amici, ma la porta si spalancò prima che potesse arrivarvi.
«Ho sentito bene? I giganti hanno di nuovo sfondato il muro?».
Eren e Mikasa spuntarono sull’uscio con la stessa aria preoccupata.
Armin annuì con foga «È appena arrivato un emissario, sono stati avvistati a sud»
Il cipiglio sulla fronte di Tallulah si fece più profondo «Ma da dove? Ci deve essere un’altra breccia»
«Non c’è altra spiegazione»
Cosa dobbiamo fare?»disse Eren, con sguardo deciso. Era pronto.
«Jean è ancora di là. Siamo stati convocati dal Comandante Erwin, Eren, fai in fretta a vestirti».
Il ragazzo si affrettò a prendere la sua divisa e Tallulah fece per aiutarlo con il dispositivo quando Armin la fermò, posandole la mano sul braccio.
«Lu, Hanje invece chiede di te, vuole che tu la raggiunga nel suo laboratorio»
«Me? E perché mai?».
L’amico scosse la testa e sollevò leggermente le spalle: nemmeno lui ne aveva idea, ma dovevano seguire gli ordini. Non le piaceva il fatto di doversi di nuovo separare da loro, ma sapeva che qualcuno era sicuramente già morto e non potevano star lì a trastullarsi. Si congedò quindi in fretta, attraversando il cortile e dirigendosi verso gli uffici dei capisquadra, dove c’erano anche la biblioteca e il laboratorio di Hanje. La trovò quasi completamente al buio, circondata da libri, scartoffie varie e qualche candela.
«Capitano». Si fece avanti, bussando sullo stipite della porta per segnalare la sua presenza.
«Tallulah, finalmente. Qui sta succedendo il finimondo» le fece segno di avvicinarsi.
«Spero di poter essere d’aiuto» rispose la ragazza, anche se non riusciva proprio a immaginare come.
«Ti sarai chiesta perché ti abbia mandata a chiamare. In realtà mi piacerebbe molto che tu entrassi nella mia squadra, ma è un discorso che faremo dopo, non abbiamo tempo. Dobbiamo finire prima di metterci in viaggio verso il Wall Rose per la ricerca della breccia. Passami quel microscopio e il misuratore lì sopra, per favore».
Hanje le indicò l’aggeggio senza nemmeno alzare gli occhi dalla pergamena che stava leggendo e Tallulah annuì, senza esitare ad eseguire ciò che diceva, i suoi sensi improvvisamente catturati dalla curiosità. La donna le sembrava di nuovo su di giri, come quando stavano per catturare Annie, e pensò che dovesse avere tra le mani qualcosa di importante.
«Sai cos’è questo?».
Tallulah si avvicinò al cristallo posto sul tavolo e lo osservò attentamente.
«Posso toccarlo?»
«Certo, tocca pure» le rispose Hanje, quasi soddisfatta da quella richiesta. Era leggero, ma durissimo e freddo e le ricordava quasi..
«Non mi dirai che è la roccia di Annie»
«E invece te lo dico. Non sai che fatica riuscire a recuperare questo frammento; la cosa sorprendente è che non si è dissolto, è intatto anche se staccato da lei. Adesso devo solo verificare una cosa»
«Cioè?»
«Sai cosa abbiamo scoperto all’interno delle mura ieri, dopo il disastro?».
Tallulah scosse la testa, salvo poi rendersi conto che Hanje non poteva vederla, abbassata com’era sul microscopio.
«No, che cosa?»
«Il volto di un gigante era ben visibile da una crepa del muro».
La ragazza sgranò gli occhi e si curvò sul tavolo «Il gigante era nel muro?»
«Già. E non è tutto» sollevò il viso e si tolse gli occhiali per qualche secondo per pulirli con una pezzetta lì vicino «Qualcuno lo sapeva».
Quell’informazione le fece cadere le braccia: qualcun altro li aveva traditi, no, chissà quanti avevano tradito il genere umano, chissà quanti tacevano. Per quale motivo, cosa c’era di più importante?
«Chi?» chiese a voce bassa e Hanje la guardò.
«Un membro eminente del culto delle mura. Ci ha implorati di non diffondere questo segreto tra la popolazione, ma nonostante minacce e interrogatori non ci ha detto una parola. Forse se vedesse in che condizioni si vive fuori da Sina cambierebbe idea. Vedi questi libri? Dovresti cercare nozioni sulla composizione delle mura, se qualcosa è cambiato nel corso degli anni».
Una lampadina si accese nella sua mente e capì le intenzioni della caposquadra.
«Vuole confrontare i materiali» esclamò la riccia, allungando fulminea le mani sui tomi per iniziare a consultarli. Se davvero le mura e quella roccia fossero risultati simili voleva dire che le prime erano state create grazie ai giganti stessi: quella scoperta avrebbe avuto implicazioni vastissime e Tallulah ne capì subito l’importanza
«Bingo» ghignò Hanje «E ci sono molto vicina, ma dobbiamo sbrigarci».
Lavorarono per quasi un’ora, in cui Tallulah mise da parte l’indignazione per il fatto che qualcuno potesse tenere nascosta una cosa del genere, e le rivolse più domande di quante ne avesse mai sentite. La donna si stupì di quanto risponderle la aiutasse a tenere sotto controllo ogni singola informazione. Sorrise tra sé e sé sentendo il fruscio dei suoi movimenti svelti e una parte di lei si convinse ancora di più: Tallulah era perfetta come sua assistente, aveva uno spiccato senso di osservazione, nessun pregiudizio e l’istinto di seguire ciò che riteneva giusto. Moblit entrò di colpo spezzando la concentrazione che si era instaurata tra la due.
«Caposquadra, perché proprio adesso?? Mancano cinque minuti!»
«Accidenti, non so perché sono circondata da gente che mi crea ansia» si lamentò Hanje, asciugandosi il sudore con la manica. Poi si sollevò di scatto fissandola, come se stesse facendo qualche calcolo mentale e Tallulah le vide l’espressione incupirsi.
«È lo stesso materiale, vero?» le domandò, avendo già letto la risposta sul suo viso.
«Ehi».
Una voce le fece rizzare i capelli sulla nuca e si voltò verso la porta. Levi era appena apparso e se era rimasto sorpreso dalla sua presenza, non lo diede a vedere. Indossava un elegante completo nero ed una camicia bianca, oltre al suo solito fazzoletto, e a Tallulah tornarono le farfalle nello stomaco. Le sembrava bello da togliere il fiato e si sentiva divisa tra la voglia di adorarlo come un dio e un nuovo impulso di urlargli addosso. Se non indossava l’uniforme voleva dire che non era ancora guarito del tutto; e allora come mai l’aveva trascinata all’alba per combatterlo? Man mano che i giorni passavano l’uomo diventava sempre più un mistero. Non immaginava che Levi si fosse irrigidito impercettibilmente, cercando di ignorare il ricordo della sua bocca morbida.
«Sbrigatevi» disse tra i denti ed Hanje si riportò gli occhiali sul viso, indagando il suo sguardo. Qualcosa non quadrava affatto, se ne rese conto percependo la strana tensione elettrica che si stava diffondendo nell’aria.
«Sì, scusa. E lui?».
«È da un sacco che aspetta»
«Andiamo».
 
«Armin!».
Era ormai calata la sera e si sentiva a pezzi. Se avesse saputo ciò che sarebbe accaduto non si sarebbe mai azzardata a sfidare la sorte la sera prima. Niente fuga notturna, niente disobbedienza, niente punizione che sfinisce. Ma niente Levi, ricordò. Era logorante fare finta di nulla, non era abituata a tenere le sue emozioni chiuse con un lucchetto e quella sensazione non le piaceva affatto. Precedette chi camminava con lei, avendo visto il carro su cui sedevano i suoi amici, ed il soldato la osservò correre verso di loro, proprio come una mocciosa: il volto del biondino si illuminò di colpo e le porse in fretta la mano per aiutarla a salire.
Quindi è così che spira il vento.
Tallulah era di spalle e non vide affatto l’occhiata tagliente puntata su di loro.
«Scusate l’attesa, non pensavo di metterci così tanto. Fortunatamente c’era Tallulah con me» esclamò Hanje, sventolando un braccio e la ragazza sorrise. In realtà non sapeva proprio in cosa l’avesse aiutata, chiunque sarebbe stato più utile di lei così svampita com’era. Salì sul carro sistemandosi accanto ad Armin. 
«Tutto bene? Cosa vi ha detto Erwin?» sussurrò agli amici, mentre anche gli altri si sedevano di fronte a loro.
«Dobbiamo aiutare con i preparativi per la ricerca della breccia. Pare ci sia qualcosa che non quadri».
Poi, gli occhi dei ragazzi furono attirati dalla figura austera che aveva preso posto in mezzo ad Hanje e Levi.
«S-scusi» si rivolse Armin al Capitano «Che ci fa qui un reverendo del culto delle mura?».
Quando Tallulah l’aveva visto, giusto pochi minuti prima, l’aveva riconosciuto subito: l’aveva già sentito blaterare assurdità al processo di Eren. Una persona come lui, custode di un segreto tanto importante? Non gli aveva detto una parola nonostante la voglia che aveva di scrollarlo fino a farlo parlare: si era limitata ad osservargli il volto teso e gli occhi piccoli e incavati, cercando di capire a cosa stesse pensando.
«Ah, Nick è un mio caro amico, verooo?» cantilenò Hanje, dandogli pacche sulle spalle «Non preoccupatevi! D’altra parte, il nostro era comunque un gruppo strano. Non è vero Levi?»
«No, ci dev’essere un motivo» borbottò il soldato, annoiato da quelle moine «È stato Erwin a sceglierli».
In quel momento il cancello venne aperto e i soldati si apprestarono a partire a cavallo. In lontananza, il Comandante dava ordini sulla disposizione delle truppe: la loro zona di sicurezza arrivava fino a Elmiha e lì avrebbero ultimato l’organizzazione della ricerca.
«Parti» ordinò infine Levi e la schiera illuminata da lanterne e torce di fuoco cominciò a sfilare tra i campi fuori da Sina. Arrivarono in piena notte e non ci fu il tempo di fare pause. Gran parte dei soldati si impegnò nello scarico di merci e materiali necessari alla spedizione ed altri si stavano dedicando all’evacuazione della città. A stento si era scambiata qualche parola con Mikasa ed Armin, complice la stanchezza che le appesantiva le membra. Non dormiva da quasi ventiquattro ore. Finì di sistemare alcune funi su un carro e si poggiò ad esso per qualche secondo, chiudendo gli occhi.
«Manca poco».
Armin la distrasse e lei annuì con un sospiro. Poi riaprì le palpebre e guardò il cielo.
«Sono un po' preoccupata per gli altri. Non abbiamo nessuna notizia vero?»
«No. Ma sono con Nanaba, vedrai che se la caveranno. E poi è notte, i giganti non si muovono».
Una voce parecchio alterata attirò la loro attenzione e, voltandosi, Tallulah vide Hanje urlare contro il reverendo: doveva essere appena tornato dal suo giro turistico, a giudicare dalla sua faccia scura. Ignorando la presenza di Levi dietro di lui, si avvicinò con cautela per capire che cosa stesse succedendo e man mano riuscì a distinguere le parole pronunciate dalla donna.
«Non abbiamo tempo, lo capisci?! Parla, deciditi una buona volta!».
Non appena comprese Tallulah si scambiò uno sguardo teso con Eren, che assisteva in silenzio a quello scambio.
«Non posso dire nulla. Anche gli altri credenti vi risponderanno la stessa cosa»
«Grazie tante. Meno male che me l’hai detto!».
Hanje gli diede le spalle, furiosa per quell’ennesimo tentativo andato in fumo. Tallulah non riusciva a crederci. Forse erano stati troppo ottimisti nel valutare il buon senso di quell’uomo, no, il buon cuore. Un grande risentimento si fece strada dentro di lei: perché quegli esseri vivevano al sicuro mentre la gente innocente moriva barbaramente??
«Il motivo è che è una questione troppo grande perché possa decidere un singolo individuo. Il nostro credo delle mura esiste per obbedire ad una grande volontà» disse l’uomo, in evidente difficoltà, ma non le fece pena. Sentì di nuovo quella rabbia nuova, la stessa che le aveva suscitato Annie con il suo tradimento.
«Una grande volontà?» fu più forte di lei, non riuscì a trattenersi «Ma con che coraggio parla di una grande volontà, a noi, che abbiamo perso famiglia, amici in un modo che le farebbe torcere le budella? Vorrei che avesse vissuto ciò che ognuno di noi ha dovuto subire e vedere se riesce a starsene lì con le sue vesti da sporco nobile intessute con il sangue. Lei mi-». Sentì Armin prenderle un braccio per tirarla leggermente indietro e prese un respiro per calmarsi da quel fiume in piena «Lei mi disgusta» concluse infine e si rese conto delle guance in fiamme e del cuore che pompava veloce il sangue nelle vene. L’uomo era sbiancato e aveva chiuso gli occhi, un profondo solco lungo la fronte ampia, sembrava fosse invecchiato di colpo.
«I-Io... Io posso dirvi il nome...» mormorò «Il nome della persona su cui la grande volontà ci ha ordinato di vigilare»
«Vigilare?» domandò Hanje.
«Ho sentito che è entrata a far parte del Corpo di ricerca proprio quest’anno».
Gli occhi di Levi saettarono su di lei, temendo per un attimo qualcosa che non sapeva nemmeno cosa fosse.
«Il suo nome è...»
 
Christa le era sempre piaciuta, era gentile e aveva uno sguardo dolce. L’aveva aiutata molte volte nei suoi turni di pulizia e quando era capitato di fare il bucato insieme le aveva insegnato alcune canzoni della sua infanzia. Era buona e sembrava provenire da altre terre, altri mondi, poiché a volte gli occhi le si perdevano su orizzonti che non riusciva a vedere.
«Chi sarebbe questa ragazza?» chiese Hanje, mentre loro si precipitavano ad indossare le attrezzature: dovevano raggiungere i loro compagni in prima linea. Stava iniziando ad abituarsi a quella vita, dove non si aveva il tempo nemmeno di riflettere su ciò che stava accadendo. Era così, o si era bravi a adattarsi in fretta oppure venivi travolto.
«Quella più bassa di tutti» rispose Eren.
«Ha i capelli lunghi e biondi ed è, ecco... molto carina» aggiunse Armin, fissando la caposquadra ed ignorando lo sguardo di Tallulah.  
«La ragazza che è sempre insieme a Ymir».
L’ultima affermazione di Mikasa sembrò aver ricordato ad Hanje qualcosa, ma non riuscì a dire nulla perché Eren si fiondò fuori.
«Dobbiamo raggiungerli!»
«Calmati, Eren».
Era la prima volta che Levi prendeva la parola e a Tallulah si bloccarono le dita che stavano allacciandosi il mantello attorno al collo. Iniziava a non sopportare quell’influenza che aveva su di lei e si guardò bene dall’alzare gli occhi su di lui.
«Ascoltate anche voi. Da qui in poi ci dividiamo; sarete anche un gruppo improvvisato messo in piedi da Erwin, ma possiamo contare solo su di voi. Ci siamo capiti, Armin? Continua a spremerti le meningi assieme ad Hanje»
Armin annuì con forza «Signorsì!»
«Mikasa, non so per quale motivo tu tenga tanto ad Eren, ma usa tutte le tue capacità per proteggerlo».
La corvina non fece una piega «Signorsì. Naturalmente».
«Eren» si voltò verso il ragazzo che trasalì visibilmente «Tu devi controllarti. Non lasciare che le emozioni ti facciano perdere la ragione. Non ripetere lo stesso errore due volte».
Forse a quel punto non stava più parlando solo di Eren.
«E tu» puntò lo sguardo annoiato su Tallulah e lei sentì l’ansia in gola e una punta di gelosia. Aveva chiamato tutti per nome tranne lei.
«Magari la tua parlantina ci sarà utile per tirar fuori da Christa la verità. Ma
sappi che la prossima volta che avrai un’uscita come quella di prima salterai la cena per una settimana».
Si limitò ad annuire ed Hanje le posò una mano sulla spalla con fare incoraggiante.
«Non ascoltarlo, è solo frustrato» le sussurrò al volo, prima di precederla verso i cavalli.
«Ti ho sentita, quattr’occhi» grugnì Levi. A quel punto poteva essere sicuro del fatto che la donna avesse preso quella mocciosa sotto la sua ala protettiva, ma non era ben sicuro del perché: sperò che non avesse nulla a che fare con lui. Di guai, ne aveva già abbastanza da solo.  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo decimo ***


Capitolo decimo
 

«Oh, merda!» imprecò Eren e superò Tallulah e Armin nello stesso momento in cui Mikasa abbandonò il suo cavallo. Si era accorta per prima della chioma bionda di Christa, seminascosta dall’ombra mostruosa che stava per afferrarla, e aveva ucciso la bestia con una precisione e potenza che Tallulah poteva solo sognare d’avere. Anche Eren si lanciò all’attacco, a dispetto della voce di Hanje che intimò loro di stare indietro, e Tallulah fu ben felice di seguirlo: si arpionò alla schiena di un gigante bitorzoluto ed anche piuttosto alto e puntò alla nuca, sfoderando le lame e guardandosi attentamente attorno per essere sicura di non essere colta alla sprovvista da altri suoi simili. Tuttavia, per qualche motivo il rampino si inceppò e non riuscì a tirarlo indietro per cambiare posizione. Per parecchi secondi rimase appesa al cavo, tentando di sbloccare il meccanismo, il cuore che pompava sangue sempre più velocemente. Il gigante si era probabilmente accorto del peso dietro le scapole e Tallulah vide con la coda dell’occhio la grossa mano che tentava di afferrarla alla cieca: buttò fuori l’aria di getto e con un colpo di reni tirò su le gambe per schivarla, ignorando gli addominali che le bruciavano e maledicendo Levi e le sue punizioni. Il suo cervello lavorava frenetico alla ricerca di una soluzione. Non aveva tempo e fece l’unica cosa che le venne in mente: poggiò i piedi sull’avambraccio irsuto del gigante curvato all’indietro e sperò vivamente che un salto sarebbe bastato. Piegò le ginocchia e scattò su come una molla, grugnendo per lo sforzo. Riuscì ad arrivare all’altezza dell’uncino e lo strappò dalle carni con la mano, conficcando immediatamente la lama tra le scapole per tenersi su. Il gigante urlò e Tallulah ne approfittò per rilanciare il cavo uncinato che stavolta si arpionò al collo; la lama affondò nella pelle come fosse burro e per la seconda volta sentì quella sensazione elettrizzante di averne fatto fuori uno da sola.
«Lu, sei impazzita?!». 
Abbandonò il corpo del gigante poco prima che si abbattesse al suolo e raggiunse il viso contrariato di Armin. Si piegò, reggendosi con le mani sulle ginocchia e si prese qualche secondo per riprendere fiato. 
«Che razza di azioni fai? Eri troppo esposta!» la rimproverò l’amico, intento a sorreggere un soldato ferito della squadra di Hanje. 
«Ma sono riuscita a ucciderlo, questo è ciò che conta» rispose, tirandosi su e alzando gli occhi al cielo. Armin stava per aggiungere qualcosa quando delle grida giunsero alle loro orecchie e Tallulah scorse Connie, Reiner e Berthold correre verso di loro. Le sue labbra si allargarono in un sorriso sollevato e sventolò il braccio nella loro direzione, mentre intorno gli ultimi giganti venivano finiti dal resto della squadra. 
«State bene per fortuna!»
«Per un pelo. Ce la siamo vista brutta»
«Già. Non è stato facile» esclamò Reiner con sguardo grave. «E c’è dell’altro...».
Armin rivolse loro un’occhiata interrogativa, ma non ricevette risposta: persino Connie evitò il suo sguardo e Tallulah capì che quella giornata non era ancora finita.
 
Quando sei così abituato al dolore, pensi quasi che nulla possa più scalfirti. Invece vieni scagliato in basso, di nuovo, nei meandri di quel burrone che chissà quante volte abbiamo dovuto scalare. Dovuto, sì, per tornare ad una parvenza di vita. Volenti o nolenti, siamo vivi; ad oggi sembra quasi un dovere. 
La trasformazione dei tratti di Hanje Zoe man mano che ascoltava quel resoconto fu quasi impercettibile. Tallulah non sapeva come e quanto intenso fosse il suo legame con Mike, ma intuì una sofferenza così grande da sentirsela sulla pelle. Niente lacrime, niente parole, solo una smorfia sul viso, un tremore delle dita, forse un cuore che per qualche secondo aveva smesso di battere. Anche l’aria sembrava comunicarglielo, nel silenzio che si era instaurato quando le ultime parole di Connie morirono incerte e stanche. Poteva capirlo: ora che l’adrenalina era scemata si sentiva come una bambola a cui avevano tagliato i fili, era distrutta fisicamente e psicologicamente. Quanto tempo era passato da quando si era svegliata quella mattina? 
«Tiratela su! Così, piano!».
La voce tuonante di un soldato attirò l’attenzione di tutti e Christa, no, Historia si precipitò verso il bordo delle mura. Non aveva avuto il tempo di metabolizzare bene la chiacchierata che avevano avuto poco prima e ad un tratto le sembrava una completa estranea. La guardò parlare concitata al corpo addormentato di Ymir, la loro amica Ymir, mentre veniva issata con delicatezza con la barella su cui era distesa. Tallulah non volle guardarla. Lei era stata l’ennesima scossa della giornata, la loro terza compagna che si rivelava un’altra persona ed una potenziale nemica. Approfittò di quella distrazione per avvicinarsi ad Hanje, titubante su cosa dire o fare. Non la conosceva abbastanza per poterla consolare, ma dopo tutte quelle ore a stretto contatto non riusciva a far finta di nulla. 
«Caposquadra» mormorò e la donna posò gli occhi su di lei. Si tolse gli occhiali, mentre un lento sospiro scivolava via dalle sue labbra. «Prestami la tua divisa, ti va?». 
Tallulah allungò il braccio in silenzio e le porse la manica della sua camicia malconcia, esattamente nello stesso stato della sua. Non c’era motivo per cui pulire le lenti sui suoi vestiti, se non quello di un attimo condiviso di normalità umana, qualche istante di pausa da tutto prima di ripremere play e rituffarsi in quel mondo che non lasciava né tempi né spazi. Lo aveva capito e aveva accolto con delicatezza quella richiesta, sentendosi in qualche modo confortata anche lei. 
Non era da sola. 
Non tutti erano nemici. 
«Grazie» Hanje inforcò gli occhiali ed accennò un sorriso debole «Adesso andiamo a ripulire questo casino». 
Tallulah annuì e la guardò dirigersi verso Ymir, la quale pareva essere in condizioni davvero pietose: le avevano sbranato un braccio e una gamba ed i suoi organi interni erano praticamente poltiglia. Ancora non riusciva ad avvicinarsi a lei, non ne capiva il perché. Christa, no, Historia, aveva letteralmente pregato di crederle: Ymir aveva a cuore l’umanità, li aveva salvati mettendo a rischio la sua vita. Non avrebbe ucciso nessuno, lo garantiva lei che la conosceva così bene. Eppure, Tallulah non riusciva a fidarsi: se aveva taciuto lo aveva fatto per un motivo ben preciso che sicuramente implicava chissà quanti oscuri segreti. E noi stiamo morendo per cosa? Lasciò scorrere lo sguardo intorno a lei, soffermandosi sui ragazzi che si scambiavano sussurri, che si aiutavano a salire sulle mura e a curarsi acciacchi e lesioni e per un attimo la realtà sfumò e ricordò alcuni eventi di poche ore prima. 
 
«Eren, basta» sbottò Tallulah, all’ennesimo tentativo del ragazzo di difendere Reiner e Berthold. I suoi amici la guardarono un po' sorpresi per quella sua reazione, ma ignorò le loro occhiate «Annie ci ha traditi e Christa... Non è Christa. Non è impossibile che anche loro ci nascondano qualcosa». 
Una vocina nella sua testa le ricordò che anche lei aveva sentito quello sgomento freddo mentre Hanje parlava di quei documenti sul passato dei compagni. Che non era giusto prendersela con Eren. Poi però era subentrata la rabbia, la stessa che da qualche giorno sembrava prendere piede sempre più spesso. 
«Eren» Hanje li interruppe, forse per stemperare la tensione «No, voi tutti, avete qualche ricordo dei loro atteggiamenti quando eravate reclute?»
«Sapevamo che provenivano dalla stessa terra, ma non sembravano molto legati ad Annie» disse Armin ed Eren annuì. 
«Non credo di averli mai visti parlare. Certo, Annie non parlava mai con nessuno»
«Vero» esclamò Sasha «A mensa mangiava sempre da sola». 
«Io non ricordo» mormorò Mikasa con sguardo assente. 
«Però come loro compagno di addestramento non credo ci sia motivo di sospettare di loro. Reiner è un po' come un nostro fratello maggiore». 
Hanje si portò una mano sulle labbra, intenta a concentrarsi. Poi alzò gli occhi su di lei. 
«Tallulah?». 
«Non ho chissà quale rapporto con loro, non ho prove. Solo sensazioni». 
A quel punto anche Levi la stava fissando e il suo era l’unico sguardo che bruciava. 
«Non preoccuparti. Stiamo solo riflettendo tra di noi» la rassicurò la caposquadra e Tallulah si sentì un po' a disagio sotto tutti quegli occhi.
«Ho sempre avuto l’impressione che tra di loro parlassero con una serenità diversa. Che fossero più a loro agio l’uno con l’altro che con chiunque. A volte, sembravano isolati in un mondo tutto loro».
 
Persa nei suoi pensieri, la mano che Armin le posò sulla spalla la fece quasi sobbalzare. 
«Ehi» mormorò «Come stai?». 
Come sempre, captava i suoi stati d’animo alla perfezione. 
«Sono stata meglio. E tu?»
«C’è qualcosa che non mi quadra».
Tallulah fu quasi grata che le offrisse qualcosa su cui ragionare perché stava per mettersi a piangere sulla sua spalla. 
«Cioè?»
«Dovrebbero esserci molti più giganti. Da quando abbiamo annientato quelli intorno al castello di Utgard non se n’è fatto vedere neanche uno».
La ragazza guardò la distesa d’erba sotto di loro fino ad arrivare all’orizzonte. Il cielo era coperto e c’era poca luce, ma era chiaramente tutto tranquillo. 
«Saranno sparsi per i villaggi...» mormorò rabbrividendo. 
«Non lo so. Stando a quello che ci hanno detto gli altri, Nanaba e la squadra hanno combattuto quasi l’intera notte. Perché i giganti erano svegli?»
Stava riflettendo su quelle ultime parole, quando qualcosa catturò i suoi occhi. 
«Guarda!». Armin seguì la direzione del suo indice e il suo viso si trasformò in stupore. 
«È il signor Hannes!». 
 
Apprendere che le mura erano intatte lungo tutto il perimetro fu la terza inquietante sorpresa di quel giorno. Lo sconcerto si diffuse tra i soldati e Tallulah scambiò uno sguardo allarmato con i suoi amici. 
«Se non c’è nessuna breccia non possiamo fare molto» esclamò Hanje, passandosi stancamente una mano tra le ciocche brune. Poi, si rese conto che tutti attendevano i suoi ordini e sospirò. 
«Va bene, faremo così: torniamo a Trost e rimaniamo in attesa. Le cure di Ymir sono prioritarie». 
Si voltò e cominciò a camminare, affiancata prontamente da Moblit: sentendo la donna cominciare a fare delle ipotesi riguardo quel mistero, Tallulah si affrettò a seguirla, incuriosita e con un’immensa voglia di distrarsi. 
«E se ci fosse un gigante capace di scavare sottoterra?»
«Sarebbe un bel problema capire individuare da quale punto siano entrati. E comunque dovrebbero essere tutti abbastanza intelligenti da seguire quella strada insolita» obiettò Moblit.
«Non sottovalutarli, alcuni di loro sono capaci di apprendere»
«Sì, ma sarebbe...». 
In lontananza sentì la voce di Armin gridare qualcosa, attutita come se provenisse da un’altra stanza e al contempo una forte folata di vento ululò, un vento freddo e secco che le diede i brividi. Improvvisamente un brutto presentimento si insinuò nel suo stomaco e si voltò di scatto con il nome dell’amico sulle labbra. Lo vide camminare poco più indietro, accanto a Sasha, e gli corse incontro, sentendo la strana necessità di stargli vicino. Il ragazzo la guardò e lesse qualcosa nei suoi occhi che gli fece aggrottare le sopracciglia. 
«Sta’ tranquilla» le disse, ma subito dopo trasalirono. Un frastuono risuonò rimbombando nel vuoto delle campagne: la bandiera si era spezzata, sbattendo contro le mura e precipitando a terra. Fu allora che si accorse della postura tesa di Mikasa, dietro di loro, che fissava Eren. Eren, che a sua volta era immobile davanti a Reiner e Berthold. 
«Sta succedendo qualcosa» mormorò Tallulah, lo sguardo fisso sulle mani rigide di Mikasa.
«Non riesco a sentire ch-». Sasha si bloccò a metà frase perché Reiner si stava liberando delle bende con espressione cupa e gli occhi di iniettati di sangue. A quel punto tutti avevano captato la tensione, salita più rapida di un torrente, e chissà quali furono i pensieri di ognuno prima che il sangue gelasse nelle vene. Perché sì, Reiner aveva sollevato il braccio ora scoperto ed erano ben visibili le ferite che si stavano rimarginando velocemente; questo voleva dire solo una cosa. Reiner urlò e le sue parole giunsero allora ben chiare. 
«...e come guerriero devo adempiere alle mie responsabilità!»
«Reiner» gridò Berthold, digrignando i denti «Vuoi farlo proprio qui ed ora?!»
«Si. Decideremo tutto qui!». 
Tallulah non vide lo scatto feroce di Mikasa contro Reiner che si era curvato su Eren. Il sangue, quello lo vide. 
«Eren, scappa!» urlò la corvina, invano, perché il ragazzo era paralizzato. Tallulah si precipitò verso di lui non appena vide Reiner colpire Mikasa; voleva afferrarlo e tirarlo via, prima che fosse troppo tardi, ma il vento divenne intollerabile e cominciarono a volare macerie e travi di legno. Fu come se un fulmine si abbattesse su di loro ed allora Tallulah capì perché prima non riusciva ad avvicinarsi a Ymir e covasse così tanta rabbia verso Annie. Avevano passato anni insieme a loro, sotto lo stesso tetto, con lo stesso cibo, con lo stesso peso da portare, e non se ne erano mai accorti. Erano stati complici. 
Lei era stata complice degli assassini di Sadie e dei suoi nonni.  
 
Levi era in piedi, accanto al carro: un po' in disparte rispetto al capannello di soldati della gendarmeria che si era formato attorno ai perlustratori appena tornati. Pareva che le notizie che portassero fossero di vitale importanza ed erano stati chiamati sia il Comandante Pixis sia Erwin a presenziare al rapporto. Era sceso dal carro ripetendosi che avrebbe sfruttato qualsiasi occasione pur di evitare di star fermo e seduto, ma in realtà aveva riconosciuto la ragazza con la coda castana. Proveniva da dove era lei.
«Quindi non c’era alcuna breccia nelle mura, giusto?»
«No. Ma è successo qualcosa di terribile! Mentre stavamo tornando a Trost per fare rapporto, ci siamo imbattuti in un gruppo di ricerca comandato dal caposquadra Hanje. C’erano diverse reclute del 104º senza dispositivi...»
Levi avanzò di qualche passo senza nemmeno accorgersene, troppo occupato ad assorbire quelle informazioni.
«...e abbiamo scoperto che tre di loro sono in realtà Giganti!».
Sgranò gli occhi e d’istinto mise la mano al fianco destro, trovandoci però l’aria: non era in divisa e non aveva nessuna arma a portata di mano. Qualcuno gridò qualcosa che non riuscì ad afferrare e subito dopo ci fu la voce di Erwin, che invece gli arrivò forte e chiara.
«Cosa è successo dopo che li avete smascherati?»
«Il Corpo di Ricerca ha ingaggiato battaglia con il Gigante Colossale e il Corazzato, ma poco dopo il nostro arrivo la battaglia si è conclusa».
L’azzurro dei suoi occhi divenne vitreo: no, non poteva essere lei uno dei giganti. Troppo debole, troppo ingenua. Magari fosse stata lei l’impostora, traditrice come la sua mente che sentiva sgretolarsi come cenere. Almeno, sarebbe rimasta viva. Invece, era dall’altro lato, era dalla parte dei giusti, e probabilmente era già morta.
 
«Accidenti, che disastro.. Gli unici illesi siamo noi che per caso eravamo rimasti sulle mura. Gli altri sono stati travolti dal calore e dall’onda d’urto».
Armin sollevò appena la testa per quanto Tallulah glielo permettesse e vide Hannes studiare i feriti distesi lungo le mura. Il biondo non rispose, si limitò a seguire lo sguardo dell’uomo sui suoi compagni per poi tornare a fissare il terreno. 
«Come sta Mikasa?»
«Le sue ferite non sono gravi» mormorò piano «Forse ha una commozione cerebrale»
«Capisco» sospirò Hannes «Non avete ancora mangiato niente vero? Vado a prendervi qualcosa». 
Stava per scuotere la testa, ma poi pensò a Tallulah. Lei ne aveva più bisogno. Annuì con un cenno e l’uomo si allontanò, non prima di avergli dato una pacca di conforto. Passarono diversi minuti e nessuno di loro si mosse, solo Tallulah stringeva la presa sul suo braccio sempre più forte. 
«Tallulah» la richiamò «Mi fai male».
La ragazza non rispose, né diede segni di allontanarsi da lui. Aveva il volto nascosto sulla sua spalla da quando la battaglia era finita e ogni tanto la sentiva tremare, ma non aveva la forza di consolarla, non in quel momento. 
«Lu...Stai facendo l’egoista». 
Quelle parole le arrivarono come uno schiaffo e smise di respirare l’odore dell’amico, in apnea per qualche secondo. Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma in quei minuti, ore, giorni, aveva desiderato non staccarsi più da quel calore buio in cui si era rifugiata. Era intollerabile il pensiero di ciò che aveva fatto, o meglio che non aveva fatto: non era riuscita a muovere un muscolo per aiutare gli altri, per aiutare Eren a cui doveva la vita. A quante persone doveva la vita? A sua madre, che non sapeva neanche chi fosse. A Sadie, che le aveva donato la sua. A Levi, che l’aveva salvata da chissà quale fine. A Eren. Lei non lo voleva tutto quel peso, non era abbastanza forte. Avrebbe preferito essere lei a darla. 
Stai facendo l’egoista. 
Ma aveva deluso tutti. No, sé stessa principalmente. Non era forte, ma si era sempre detta che lei aveva una differenza. Il cuore era la sua differenza, come le aveva sempre detto la nonna, e se ce lo avesse messo in tutto non avrebbe rimpianto nulla. E invece, aveva ceduto e non aveva fatto niente, non ci aveva nemmeno provato.
Egoista. 
Alzati. 
Sollevò la testa, sentendo i muscoli del collo formicolare dopo essere stata così a lungo piegata, e si specchiò negli occhi limpidi, ma spenti del ragazzo. 
«Scusa» sussurrò, sciogliendo le dita dal suo braccio e portandole poi sul viso del biondo per sfregare via una macchia nera che gli solcava la guancia. Che stupida, Armin stava soffrendo molto più di lei. Abbassò gli occhi verso il corpo incosciente di Mikasa e le si strinse il cuore al pensiero che si sarebbe svegliata senza Eren. 
«Quanto vantaggio hanno?»
«Circa cinque ore»
«Sei stanco». 
Non era una domanda e il ragazzo non rispose.
Un pezzo di stoffa rossa abbandonato poco più in là attirò la sua attenzione: riconobbe subito la sciarpa di Mikasa e di nuovo la assalirono i sensi di colpa. Combatté le membra pesanti e si alzò per andare a raccoglierla. La scosse dalla polvere: era ormai quasi logora ed il colore si era sicuramente sbiadito, eppure continuava ad essere morbida e calda. La porse ad Armin, il quale la guardò senza capire.  
«Tienila tu. Se la vedesse in qualunque altre mani darebbe di matto» disse con un sorriso mesto. Il biondo rimase a fissarla per un istante e le si spezzò il cuore nel vedere il suo viso così triste. Doveva essere lei a lasciare che si posasse sulla sua spalla. Alla fine, il viso gli si ammorbidì ed afferrò la sciarpa toccandole volutamente una mano, segno che l’aveva perdonata. 
«Fortunatamente non è andata persa».
Il signor Hannes interruppe il loro scambio lanciandogli un paio di razioni di cracker.
«Scommetto che avete fame. Su, mangiate» borbottò, sedendosi accanto a loro e addentando la sua parte. «Ehi, Mikasa si sta svegliando».
L’attenzione di tutti si puntò sugli occhi semi aperti della ragazza e Tallulah poté vedere il momento esatto in cui le tornò la coscienza. Si sollevò di scatto, guardandosi attorno e non appena Armin entrò nel suo campo visivo, si gettò su di lui e gli afferrò la divisa, strattonandolo.
«Dov’è Eren?».
Tallulah si intromise d’impulso e le prese i polsi, spostandoli verso di sé.
«Mikasa, aspetta un secondo. Sei ferita, non puoi fare questi movimenti bruschi»
«Dov’è?» chiese alzando la voce, stavolta rivolta a lei. Tallulah si voltò verso Armin e le si spezzò il cuore nel vedere il suo viso così triste. Improvvisamente, avrebbe voluto essere lei a lasciare che si posasse sulla sua spalla.  
«È stato portato via insieme a Ymir da Reiner e Berthold. Eren è stato sconfitto» mormorò, prima di aggiungere «Siamo stati sconfitti»
«Lo stanno seguendo?»
«No»
«Perché?»
«Non abbiamo modo di trasportare i cavalli dall’altro lato delle mura. Dobbiamo aspettare che portino il montacarichi».
La corvina abbassò le braccia mollemente, senza più energie né luce negli occhi. Adesso era lei a sembrare una marionetta senza fili. Prese la sua sciarpa dalle mani dell’amico e se l’avvolse intorno al collo con una lentezza esasperante, gli occhi rubati da ricordi lontani.
«Perché Eren si allontana sempre da noi?» disse infine, forse rivolta a sé stessa.
 «Beh, è sempre la stessa storia no?» la voce bonaria di Hannes si intromise nel discorso «È sempre toccato a voi due rimediare ai disastri di quella peste, no? Anche se il tempo passa e le situazioni cambiano, vi comporterete allo stesso modo di quando eravate ragazzini».
I ragazzi avevano lo sguardo basso: Tallulah aveva conosciuto Armin, e di conseguenza anche Eren e Mikasa, solo poco prima di arruolarsi tra i cadetti e tentò di figurarsi i tre da bambini.
«Già...Ma tra un bulletto e un gigante c’è una certa differenza di altezza» sorrise Armin, con un lampo di nostalgia negli occhi.
«In ogni caso quell’idiota era davvero una schiappa nelle risse, però si è sempre buttato, che gli avversari fossero tre o cinque. Non l’ho mai visto vincere, ma nemmeno arrendersi dopo aver perso. A volte Eren sa essere così tenace da spaventare persino me».
La riccia sgranò gli occhi e fu come se un macigno le si sollevasse dal petto.
Alzati.
«Credete davvero che permetterà a quei due di trascinarlo via senza problemi? No, scommetto che si scatenerà con tutta la forza che ha in corpo».
Si mise una mano sulla bocca, preda di un’emozione forte: Eren aveva perso, però sicuramente lui non avrebbe mollato la presa. Perdere andava bene. Perdere non era la fine.
«Continuerà a dare grattacapi a chiunque gli si pari davanti fino a quando io o voi non lo raggiungeremo».
Si voltò verso i suoi amici e li trovò con la sua stessa espressione; quelle parole non avevano fatto effetto solo su di lei.
«Verrò con voi».
Il signor Hannes fu un faro in mezzo al buio per tutti e tre: ognuno aveva il suo personale percorso.
«Anch’io». Tallulah volse lo sguardo sui feriti distesi uno accanto all’altro, come a formare una catena di resistenza. In testa, Hanje Zoe che si sforzava di rimanere sveglia, nonostante le sue ferite. Eccola, la rabbia era tornata.
«Mikasa, riusciremo a riprendere Eren». E stavolta ce la metterò tutta.
 
Il Comandante Erwin aveva portato con sé una gran quantità di soldati e di cavalli per poter attuare la formazione a lungo raggio, oltre che una nuova ventata di speranza. I volti disorientati si erano trasformati in espressioni determinate, unite dallo stesso spirito: Erwin in questo era maledettamente bravo. Un razzo rosso squarciò il cielo ed improvvisamente sentì Maria accanto a sé che la rimbeccava. Frignona, le avrebbe detto, se osi perdere altro tempo ti sistemo io. E accelera, sei più lenta di una lumaca. Arricciò le labbra in un sorriso amaro e strinse le redini, aumentando il ritmo del galoppo. Cavalcarono per almeno un’ora, scansando i giganti nei limiti del possibile: nessuno fu di molte parole, chi concentrato sull’andatura del cavallo, chi troppo teso, chi guardava esclusivamente dritto davanti a sé. Il sole stava quasi per tramontare quando delle fronde altissime si stagliarono all’orizzonte. 
«Deve essere quella la foresta di cui ha parlato Hanje» esclamò Tallulah a voce abbastanza alta da farsi sentire. Mikasa annuì, torva. L’avevano quasi raggiunta quando un lampo illuminò il cielo arancione e molti sobbalzarono. 
«Proveniva dall’interno della foresta! Probabilmente segnala la trasformazione di un gigante!» gridò Armin. Tallulah vide parecchi giganti tra i tronchi e strinse i denti. 
«Uomini, disperdetevi!! Individuate Eren e recuperatelo!». 
L’urlo di Erwin fu il segnale: Si comincia. Virò bruscamente verso destra, subito dietro Mikasa, per un motivo ben preciso. Probabilmente sarebbe stata lei a trovare Eren per prima, era sicura che l’istinto l’avrebbe guidata, e di conseguenza anche Berthold e Reiner. Tallulah avrebbe fatto di tutto per fargliela pagare. Le lande che fino a quel momento erano state tranquille e pacifiche divennero campo di orrore. Sembrava che i giganti avessero percepito la loro furia e la loro determinazione e si muovessero con altrettanta veemenza. Non ne era cosciente, forse se ne sarebbe accorta parecchi anni dopo, o forse mai, ma quel giorno per la prima volta Tallulah perse un pezzo della sua umanità: non guardò coloro che vennero strappati dalle selle e ingurgitati come carne trita, né si fermò a tentare di salvare chi chiedeva aiuto. Sentiva i suoi sensi allerta come non erano mai stati e schivò gli attacchi finché non si addentrò nella foresta. Azionò il dispositivo di manovra e si arpionò ad un tronco, ignorando la familiare sensazione di vertigine non appena si librò in aria. Insieme a tutti gli altri volò tra i rami e nel frattempo si guardò attorno, alla ricerca di un segnale. In un posto come quello avrebbero potuto nascondersi ovunque. Furono delle grida bestiali a direzionarli e poco più avanti videro un gigante più basso della norma aggrappato ad un tronco. 
«Ehi, fermi! È Ymir! Non sparate!». 
Con enorme stupore Tallulah si bloccò a debita distanza per osservare meglio il gigante della compagna. Aveva effettivamente i suoi stessi capelli scuri e lisci, ma difficilmente avrebbe riconosciuto il suo volto umano, a cominciare da quell’espressione contratta e feroce. 
«Si è trasformata per combattere contro Reiner e Berthold?» domandò Mikasa dall’albero accanto al suo. 
«Non credo che l’avrebbero mai lasciata libera di trasformarsi» borbottò Tallulah.
«Sei riuscita a scappare? Loro dove sono?» 
«Parla per favore!».
Lei non rispose ad un solo richiamo. Connie le saltò in testa e scosse il piede per farsi prestare attenzione, palesemente sul punto di perdere la pazienza, ma Ymir non gli badò e continuò a ruotare la testa come alla ricerca di qualcosa. 
«Armin» mormorò guardinga Tallulah all’amico che sentiva dietro di sé. «Che ne pensi?»
«È strana, sembra stare guardia. Non capisco perché ci stia osservando uno ad uno».
A quelle parole la riccia stava per urlare a Connie di allontanarsi, aspettandosi qualcosa che non le sarebbe piaciuto, ma un ennesimo richiamo la precedette e fu a quel punto che Ymir si riscosse. Historia le stava volando incontro con un sorriso incredibilmente sollevato: aveva temuto il peggio quella volta, di non vederla mai più, proprio nel momento in cui si era liberata delle sue finzioni. Tuttavia, il luccichio negli occhi della sua gigante non bastò ad avvisarla di ciò che stava per succedere. Tallulah assistette attonita al salto sovraumano di Ymir, dritto verso la biondina, e allo sparire della sua figura tra le sue fauci. 
«No...»
«Ha-Ha appena mangiato...».
Qualcosa nella sua mente scattò.
Si gettò al suo inseguimento con veemenza tale da sentire la pressione sulle orbite: una sorta di velo rosso era calato sul suo campo visivo e dimenticò ogni cosa. Qualcuno forse gridò il suo nome, ma non riuscì nemmeno a identificarne la voce. Vedeva solo Ymir, i suoi movimenti fluidi e fulminei, era proprio come una scimmia nel suo habitat naturale e le venne istintivo imitarla. Iniziò a sfruttare i rami e le fronde a suo vantaggio, accorgendosi di quanto fosse più facile manovrare i cavi in quel modo. Aveva acquisito molta più rapidità, la vegetazione le scorreva accanto indistinta e offuscata, ed era riuscita ad arrivarle alle calcagna. Poi, la foresta finì ed un’esplosione che aveva già visto accecò qualunque forma di vita fosse nei paraggi: il Corazzato di Reiner apparve e Tallulah capì che Ymir si era alleata con loro. La vide saltargli sulla spalla con agilità e girarsi indietro a guardarla. 
No. Stavolta no. 
Senza pensare si tuffò verso il basso; le dispiacque tornare a terra, ma sapeva bene che era l’unico modo per seguirli sulle colline. Senza appigli il dispositivo tridimensionale era pressoché inutile. Ben presto il terreno tornò a tremare sotto gli zoccoli furiosi dei cavalli e venne raggiunta da Mikasa. Si scambiarono uno sguardo e Tallulah vide nei suoi occhi lo stesso accanimento. 
«Questa volta non esiterò, li ucciderò assolutamente» dichiarò secca.
«Mi hai letto nel pensiero» le rispose, prima di tornare a fissare le enormi figure davanti a loro. Un soldato aveva puntato il collo del corazzato, proprio accanto a Berthold che portava Eren in spalla, legato e imbavagliato. La rabbia aumentò nel momento in cui Ymir lo afferrò e scaraventò a terra. Strinse i polpacci contro il cavallo, incitandolo a galoppare più veloce e stando attenta a seguirne il movimento con il corpo. Non doveva avere nessuna pietà, proprio come quei mostri non ne avevano dimostrata verso di loro. Fu con enorme piacere che vide Mikasa, letale ed elegante, scheggiare verso Ymir e ferirle gli occhi, per poi volare verso Eren. Valutò velocemente la situazione: per quanto avrebbe voluto ucciderli con le sue mani era ben conscia di non esserne in grado. Questo pensiero le faceva rivoltare le budella, ma non era tanto stupida da mentire a sé stessa. In quegli istanti le ritornò alla mente Hanje ed il modo in cui si era sorretta a lei, in un momento difficile. 
Non sono da sola. 
Si arpionò decisa alla spalla di Reiner non appena vide Ymir che stava per sferrare un pugno verso l’amica e le si piazzò davanti, specchiandosi negli occhi bui. Costi quel che costi avrebbe guardato le spalle a Mikasa. 
«Ymir» gridò e tirò fuori le lame, mettendosi in posizione d’attacco «A questo punto non mi importa nemmeno il motivo per cui tu sia contro di noi. Ora sei un nemico e basta»
«Tallulah, aspetta!» la voce familiare di Historia sbucò dai capelli del gigante e la ragazza si bloccò.
«Allora sei viva»
«Se non obbedisce a Reiner la uccideranno! Non ha scelta»
Tallulah contrasse le labbra in una linea dura. 
«Nel momento in cui ti ha rapita ed ha difeso questi stronzi, per me ha perso qualsiasi valore»
«Questo non è giusto! Ymir c-»
«Christa» entrambe sollevarono la testa verso Mikasa, aggrappata ai capelli di Reiner. Se uno sguardo avesse potuto uccidere sarebbe stato il suo «Vuoi ostacolarci anche tu?». 
Ymir urlò non appena capì la minaccia sottintesa della corvina e sollevò il braccio per colpire, ma Historia le intimò di fermarsi. 
«Morirai. Non fare resistenza». 
Sembrò pensarci e quando abbassò la testa, fece un cenno a Mikasa: potevano occuparsi di Berthold e Reiner. Furono raggiunte dagli altri, Connie, Sasha, Jean ed Armin, e Tallulah li ascoltò richiamare le vecchie memorie e chiedere il perché. 
Già, perché. Non me ne frega più niente del perché. Dovete pagarla e basta. 
Ebbe quasi paura dei suoi pensieri e fu per questo che rimase in disparte, sulla spalla di Reiner, dove non poteva avere uno scambio faccia a faccia. Nemmeno quando le frasi di Berthold tremarono di disperazione riuscì a provare pietà.  
«Berthold» disse infine, quando non riuscì più a trattenersi «Hai ragione tu. Non hai nessun diritto di chiedere perdono. No, non hai nessun tipo di diritto, devi solo tacere e incassare. E ridarci Eren».
Nessuno per qualche secondo parlò. 
«...Non posso. Qualcuno deve pur farlo. Qualcuno deve sporcarsi le mani di sangue». 
«Ragazzi. ALLONTANATEVI» la voce del signor Hannes la fece sobbalzare e quasi perse l’equilibrio: fortunatamente aveva ancora l’arpione ancorato a Reiner. 
Tutti si resero conto di ciò che si avvicinava di fronte a loro, Erwin aveva fatto in modo di dirottare i giganti verso i traditori. Imitò i suoi compagni e scese a terra, ma dovette cambiare direzione all’ultimo momento perché si accorse che il suo cavallo non era con il signor Hannes. Imprecò, virando a destra e salendo sul più vicino che vide. 
«Scusa Mikasa. Devo chiederti un passaggio» disse affannosamente e approfittò di quella pausa per asciugarsi il sudore dalla fronte. 
«Cerca di non cadere» le disse, atona.
«Uomini carica!».
La gran voce di Erwin si disperse tra i soldati e tutti lo guardarono terrorizzati. Non a torto, un’orda di normali giganti aveva assaltato Reiner e il Comandante aveva appena ordinato di gettarsi nella mischia. 
Si sollevarono molte grida nel momento in cui tutti si decisero a seguire Erwin, ma la strage era appena cominciata e Tallulah lo sapeva. Si strinse all’amica con un braccio e ritirò fuori la lama ben attenta a qualunque mandibola si avvicinasse. 
«Ehi» gridò Jean «Ha liberato le mani!». 
Mikasa la avvisò delle sue intenzioni «Tallulah. Sei ancora in tempo a cambiare cavallo» 
«Scordatelo» rispose la riccia, scuotendo la testa con decisione. La velocità aumentò e scansarono parecchi giganti, entrambe concentrate sull’obiettivo, ma ognuna con pensieri diversi. Era a Sadie che pensava Tallulah, a lei e a tutti quelli che aveva perso, era la loro battaglia e spettava a lei onorarla. Nemmeno vedere il Comandante Erwin afferrato per il braccio da un gigante bastò a dissuaderle, nonostante alla riccia gelò il sangue nelle vene. 
«AVANTI! EREN È AD UN PASSO DA NOI».
Fu quell’urlo bruto che le fece aprire gli occhi: non era solo per i morti che doveva combattere. Il suo cuore l’aveva legato all’umanità intera. Digrignò i denti e tranciò delle dita che stavano per afferrare la coda del loro cavallo, impassibile davanti al sangue che fuoriuscì e le macchiò il viso. 
«Ci siamo!». 
Si arpionarono a Reiner che ormai troneggiava a pochi metri da loro: Tallulah si portò alle sue spalle, mentre egli afferrò il cavo di Mikasa per lanciarla via, ma forse fu troppo lento perché lei lo sfruttò come perno e roteò verso Berthold. Gli era praticamente davanti quando quest’ultimo saltò e recise il cavo uncinato. Eren sbraitò qualcosa e Mikasa guardò sotto di sé, vedendo la faccia di un gigante farsi sempre più vicina. Tallulah fece in tempo a lanciarsi verso di lei ed a sentire il fiato caldo di quell’essere, prima di afferrarla per la vita e dare di tutto gas. Purtroppo, non fece in tempo ad allontanarsi; Reiner intercettò nuovamente il cavo, ma si bloccò all’improvviso e loro rimasero penzoloni sotto di lui. Tallulah fece una smorfia di dolore, le pareva che i muscoli del braccio si stessero staccando uno ad uno, ma non mollò la presa. Bastava solo che Mikasa riuscisse a raggiungere l’altro cavo uncinato, ma la posizione non era delle migliori.
«Ce l’ho fatta» sussurrò concitata e stava per rilanciarsi all’attacco, ma Tallulah la bloccò.
«Aspetta. Guarda, è distratto». L’aveva notato subito, il guizzo di capelli biondi. Armin si era posato sulla guancia di Reiner e Tallulah sapeva benissimo che non l’avrebbe mai fatto senza un motivo ben preciso. Lo fissò cercando di capire a cosa stesse pensando, soprattutto dal momento che aveva il viso contratto in un sorriso folle del tutto in contrasto con lo sguardo angosciato. Continuò a guardarlo con ansia crescente, cosa gli stai dicendo, sei troppo vicino.
«Discendenti del demonio! Vi sterminerò tutti!».
L’urlo di Berthold le fece sgranare gli occhi. 
«ARMIN!» urlò, impotente.
Berthold estrasse la sua arma, ma nell’esatto momento Erwin Smith usò la sua per recidere le corde che legavano Eren. Mikasa non si lasciò scappare quell’occasione e si gettò su di lui, liberando le braccia di Tallulah che quasi gemette dal sollievo; Armin sporse il braccio verso di lei e lo afferrò al volo, ormai libera dalla presa di Reiner, troppo occupato a tenere Berthold al sicuro. Volarono verso i cavalli, seguendo l’esempio degli altri: era la ritirata. La riccia strinse Armin da dietro, felice di sentirlo sano e salvo.   
«Ce l’abbiamo fatta! Ho temuto il peggio» si lamentò, inspirando il suo odore vivo.  
«Guarda che non abbiamo ancora vinto».
Era sicura che l’amico avesse alzato gli occhi al cielo e, dal modo in cui le sue spalle erano tese come una corda di violino, sapeva che stava pensando a qualcosa. 
«Lo so» esclamò Tallulah «Non si arrenderanno, vero?»
«Già. Erano troppo disperati» disse, prima di voltare appena il capo verso di lei «Non sono una brava persona».
Tallulah strinse la presa sui suoi fianchi e corrugò le sopracciglia «Non dire assurdità»
«Li ho manipolati».
La ragazza tacque per un momento.
«Siamo in guerra» disse infine e subito dopo un’ombra scura saettò sulle loro teste e qualcosa cadde parecchi metri più lontano. Qualcosa di grosso e pesante che si abbatté sul terreno sollevando zolle di terra, fumo, macerie. 
«Cos’era?» proruppe Tallulah prima di tossire convulsamente. 
«N-Non lo so» rispose l’amico a fatica. 
«Guarda! Segui Jean!». 
Riuscirono a farsi strada in quella coltre di fumo e quando iniziò a diradarsi si resero conto di cosa stesse succedendo: Reiner aveva preso a lanciar loro contro i giganti che lo assalivano, in modo da bloccare la strada. 
«Maledizione» borbottò Jean accanto a loro. «Ohi! Non vedo più Eren». 
Si guardarono in giro spasmodicamente fino a quando non scorsero il ragazzo e Mikasa a terra, disarmati, di fronte ad un gigante incredibilmente alto. 
«Muoviamoci!»
«Non...Non faremo in tempo» mormorò Armin, tormentato. 
«Non possiamo arrenderci» gli disse Tallulah, cercando di fargli forza, le mani che prudevano dalla voglia di intervenire. L’aver ripreso Eren le aveva dato speranza. Potevano vincere. «Accelera». 
Un altro gigante crollò davanti a loro con inaspettata precisione. Non poteva essere un caso. 
«Quei maledetti bastardi. Ci stanno ostacolando!!» disse Jean con una smorfia arrabbiata. 
«Ma perché?»
«Avevo capito che Eren gli servisse vivo» si lamentò Tallulah, digrignando i denti. «Non abbiamo tempo, dobbiamo aggirarli». 
Fu semplice scansare quelli distesi, troppo lenti nel rialzarsi, ma ce n’erano molti ancora in piedi pronti ad afferrarli. L’unica cosa positiva era che con quattro paia di occhi il lavoro era dimezzato. Tallulah continuava a non perdere di vista il signor Hannes che nel frattempo era intento a proteggere i suoi amici.
Resisti, ti prego. Ancora un po'. 
Avrebbe dovuto aspettarselo, ormai erano anni che le sue preghiere si rivelavano inutili. Vide un’ombra e la riconobbe al volo: istantaneamente si sporse in avanti per afferrare dalle mani di Armin le briglie del cavallo e tirarle indietro. Frenarono bruscamente, ma riuscirono a non rimanere travolti. Qualcun altro non fu così fortunato. 
«Jean!» gridarono quasi all’unisono alla vista dell’amico venire catapultato via. Armin si buttò giù dalla sella. 
«Aspetta, Armin!». 
Tallulah non riuscì ad afferrarlo in tempo e lo vide precipitarsi verso il ragazzo, palesemente ferito, e sollevarlo leggermente mentre le urlava di scappare. Con orrore si rese conto dei giganti vicini e l’ottimismo di cui era stata pervasa scemò velocemente, trovandosi davanti ad uno sterminio. Uomini e cavalli, mangiati, calpestati, tutto ad un tratto le parve di sentire le urla di centinaia di migliaia di morti.
Cosa...faccio? 
Era immobilizzata, proprio come qualche ora prima. Era tutto perduto, non avrebbero mai potuto vincere. Potevano solo continuare a morire. 
«Tieni duro!» sentì pronunciare Armin verso Jean e in quell’attimo sgranò gli occhi.
No.
Sguainò le lame e corse verso di loro, piazzandoglisi davanti. 
«Tallulah, che fai?! Ti ho detto di-!»
«Smettila!» gli gridò con gli occhi lucidi «Non ti lascerò mai, Armin!»
Fissò i giganti di fronte a sé, erano tre o quattro o cinque, e le dita delle mani presero a tremarle. Cosa si provava a morire in quel modo? Sadie cosa aveva provato? Se lo era chiesta spesso. Tutto il suo corpo le gridava di scappare, lo stomaco in gola, il cuore veloce, le tempie pulsanti, la paura. Aveva paura, ma Armin era più importante. Costrinse i suoi piedi ad avanzare e si piegò sulle ginocchia, per darsi uno slancio. Saltò e si arpionò al gigante dai capelli insolitamente chiari, distraendolo dalle figure accasciate sul prato. Le sembrò quasi di vedere Levi volteggiare in lontananza con la destrezza che lo caratterizzava. Lui avrebbe salvato Armin. Lui avrebbe salvato tutti.
 
Poi, Eren urlò.
 
 
«Sono tornati, Capitano».
La voce dietro la sua porta risuonò ansiosa ed esitante. Levi alzò gli occhi dalle scartoffie e li puntò su quel legno scuro, prendendo lentamente quanta più aria possibile. Erano sei ore che si preparava a quel momento, sei ore in cui aveva rimesso le cose in ordine nei cassetti della sua mente, dopo che qualcuno aveva rivoltato tutto fuori alla rinfusa. Non qualcuno, lei. Anche da morta gli incasinava la testa. Si alzò, infine, e si diresse con passo sicuro fuori dall’ufficio per accogliere il suo Comandante. Fuori, il suo sguardo vagò sulla familiare vista dello sfacelo, di visi deturpati, corpi vuoti. Un carro sfrecciò più veloce degli altri.
«Largo! Il Comandante è ferito!».
 
Tallulah aveva fame.
Le cuoche erano state colte di sorpresa dall’arrivo dei superstiti ed avevano arrangiato la cena più veloce che potevano. Patate lesse, piselli e pane raffermo. Tallulah si era lanciata sul piatto e ingoiava il cibo senza nemmeno masticare. Insieme a lei, Sasha era l’unica che mangiava. In realtà, ben pochi erano coloro che si erano fermati alla mensa. La maggior parte si era fiondata a letto o a piangere in qualche anfratto.
«Non riesco a credere di essere viva» disse infine, rompendo il silenzio del loro tavolo. Non lo sopportava più.
«Si può considerare una vittoria» mormorò Mikasa.
Tallulah sospirò una risata arida «Già. Eren, è merito tuo, di nuovo».
«Avrei potuto fare di più» disse il ragazzo e lei poté giurare che stesse stringendo i polsi sotto il tavolo. Sapeva benissimo a cosa si riferisse ed era contenta di non aver assistito alla morte del signor Hannes. Una magra consolazione.
«Stavolta abbiamo davvero rischiato. Persino il Comandante è quasi morto» disse Sasha a bocca piena.
«Quell’uomo è incredibile» rispose Tallulah, ricordando le frasi di Erwin urlate direttamente dalla bocca di un gigante.
«Avete notizie di Jean? O di Connie?».
Era la prima volta da almeno un paio d’ore che Armin apriva bocca. Le stava contando perché non aveva aspettato altro da quando avevano scampato il pericolo. Non aveva il coraggio di affrontarlo, sapendo bene che senza l’intervento di Eren sarebbero morti. Lei non sarebbe stata in grado di salvarlo.
«Jean è in infermeria» disse Eren
«Connie invece è con la squadra di Hanje. A quanto pare c’è in ballo qualcosa di grosso» biascicò Sasha e deglutì una patata. «Ehi, Tallulah. Dove vai?».
La ragazza si era alzata e aveva preso il vassoio per riporlo tra gli altri sporchi, sul bancone in fondo alla sala.
«A dormire» disse semplicemente, una mezza verità. Sarebbe andata a dormire presto, ma prima doveva fare una cosa. Non augurò la buonanotte come al solito, conscia che non lo sarebbe stata per nessuno, si azzardò solo a fare un mezzo sorriso di scuse ad Armin che la fissava intensamente. Non ce la faceva ad affrontarlo, non ora. Si diresse verso le scale toccando il corrimano: il legno era duro, ruvido e un po' rovinato, soprattutto verso la fine di ogni rampa. I gradini scricchiolavano sotto le sue scarpe, un rumore di cui non si era mai accorta e che allo stesso tempo le risultava familiare. Era casa sua ed aveva rischiato di non tornarci mai più. Sorpassò molte porte, alcune silenziose, altre che nascondevano voci basse e gravi. Quando arrivò davanti al suo ufficiò si sorprese del cuore che le batteva in petto.
Era viva.
Bussò, tre tocchi lievi che rimbalzarono nel corridoio vuoto. Era mezzanotte passata, ma era sicura di trovarlo sveglio. La maniglia si abbassò e lentamente la luce interna alla stanza la illuminò. 
«Salve Capitano».
Bevette ogni tratto del suo viso, voleva imprimerselo a fuoco nella mente di modo che se di nuovo si fosse trovata ad un passo dalla morte, avrebbe potuto richiamarlo a sé così vicino, così bello, così umano. Levi aveva allargato gli occhi in una espressione disorientata: un’accozzaglia di emozioni piovve addosso all’uomo e strinse la mano intorno alla maniglia tanto da farsi venire le nocche bianche.
«...Sei viva» le disse, riflettendo i suoi stessi pensieri di poco prima.
«Sì», rispose senza distogliere lo sguardo. Vide quasi a rallentatore le dita libere di Levi sollevarsi e raggiungere una ciocca dei capelli che le macchiava la fronte. Chiuse gli occhi non appena percepì il contatto, leggero come una piuma, ed espirò schiudendo le labbra.
«Capitano» si costrinse a sussurrare, prima che il suo viso seguisse quelle dita per sfregarglisi contro. La stava accarezzando? Perché, se si era pentito di quel bacio? Glielo avrebbe chiesto se solo non avesse conosciuto la risposta. Levi abbassò il braccio come se si fosse scottato e qualcosa dentro di lui si arrabbiò.
«Perché sei qui?» disse, riprendendo a stento la lucidità necessaria. Tallulah riaprì gli occhi con fatica, non si era resa conto di essere così stanca. Deglutì e puntò lo sguardo determinato sul viso dell’uomo.
«Mi insegni a combattere. Ad essere forte».
Non era mai stata più seria in vita sua e Levi glielo lesse negli occhi secchi e svuotati. Qualcosa era cambiato. Soppesò ogni implicazione, ogni conseguenza, e tutte gli urlavano la stessa cosa.
Rifiuta.
Era un Capitano, non allenava cadetti. Lei non era speciale. Non era nessuno. Fissò la sua figura malmessa e si chiese cosa fosse successo durante quella spedizione.
«Dopodomani, all’alba» rispose in un tono che avrebbe dovuto essere molto più fermo.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo undicesimo ***


 
Capitolo undicesimo 
 
 
L’umore non era dei migliori. Era stato dato loro un giorno libero ed il dormitorio si era svuotato ulteriormente, chi aveva potuto era andato a trovare la propria famiglia e amici.  
«Tra poco c’è la festa della quadriglia» mormorò Tallulah, appannando il vetro della finestra con il fiato. Lei l’aveva sempre festeggiata, a novembre inoltrato, era ottima per gli affari dei suoi nonni, in quelle occasioni vendevano litri e litri di vino, sia nel distretto, sia ai mercanti che lo portavano nelle zone interne per rivenderlo. Era una delle feste preferite da lei e da Sadie. Non le rispose nessuno e si voltò a guardare l’interno della stanza. Jean era disteso sul letto di Lydia, fissava il soffitto con le braccia dietro la testa, ben attento a non toccare la fasciatura intorno alla fronte. Connie era a terra, poggiato contro quello stesso letto, e giocherellava con i bordi consunti di una vecchia foto. A lui, era andata peggio di tutti; non osava immaginare come dovesse sentirsi sapendo che i propri familiari erano stati tramutati in giganti. I giganti erano esseri umani, ogni tanto si imponeva di ricordarselo. Quella nuova notizia faticava ad entrarle in testa, come se il suo cervello si rifiutasse di ammetterlo. Era stato proprio Connie a dir loro delle ipotesi di Hanje, con gli occhi lucidi ed i pugni stretti, ed in effetti questo chiariva la comparsa misteriosa dei giganti nelle mura intatte. Tallulah continuò la sua ispezione: Mikasa aveva la schiena contro la testiera della sua branda e sulle sue gambe distese c’erano le ciocche disordinate di Eren, ad occhi chiusi. Era cambiato qualcosa dopo gli ultimi avvenimenti, come se non riuscissero a starsi troppo lontani, molto più del solito. Le piaceva guardarli, erano dolci. Sasha si mangiava le unghie, stesa a pancia in giù, pensando a chissà cosa, e Historia era di fianco a lei con lo sguardo tetro e perso. Il suo cambiamento la sconcertava, Christa era morta e dovevano fare i conti con un’altra persona, quella che si era sempre nascosta dietro una facciata. Sospirò ed infine, Tallulah si soffermò su Armin, al suo fianco, che l’aveva seguita con lo sguardo fino a quel momento. Aveva gli occhi un po' gonfi, ma sembrava star bene. 
«Che facevate da bambini il 23 novembre?» ci riprovò ed Armin sorrise appena, come se si aspettasse che la ragazza non si sarebbe arresa.
«I vicini ci invitavano a cena» le rispose «Di solito mangiavamo sempre una torta alle carote». 
«Che buona...» sospirò Sasha «Noi non seguivamo mai le feste. Però nei mesi invernali accendevamo sempre il fuoco e mio padre ci raccontava delle storie» 
«Mia madre...» sussurrò Connie, con lo sguardo nel vuoto «Mia madre era sempre felice quando si trattava di festeggiare qualcosa. Si alzava all’alba per cucinare per tutti e preparava dei piccoli regali, erano molto semplici però- ecco, era sempre bello vederli sulla tavola».  
Tallulah aveva posato la testa sulla spalla di Armin, improvvisamente aveva bisogno di calore ed era sicura che anche per gli altri era lo stesso. Avrebbe voluto darne a tutti, ma stentava a farsi bastare quello dell’amico. 
«Ehi, Jean» lo chiamò Sasha ed il ragazzo la fissò «Come mai non sei andato dalla tua famiglia?».  
Jean sbuffò, infastidito e si voltò dall’altra parte, liquidandola con un cenno della mano. Sasha gli lanciò una linguaccia silenziosa e per un po' tutti tornarono tra i propri pensieri. Chissà se sentivano la mancanza degli altri, di Reiner, Berthold, Ymir. Annie. Lei sicuramente no. Sul campo di battaglia aveva desiderato che Eren ordinasse ai giganti di mangiare anche loro. Per qualche secondo, lo desiderò anche in quel momento, avere il potere di far esplodere il suo odio dappertutto e contro chiunque. I giganti sono esseri umani. No, non ci si sarebbe mai abituata. 
 
Due albe dopo, era già fuori, intenta a fare riscaldamento. I piedi di Levi si bloccarono prima che potesse palesare la sua presenza e si prese qualche minuto per osservarla da lontano. Saltellava sul posto, l’onda dei capelli si sollevava con lei per poi afflosciarsi nuovamente sulla fronte, e scuoteva il capo di tanto in tanto per scrollarsi di dosso gli occhi ancora un po' addormentati. Era stato frustrante ammettere che si era svegliato di buon umore davanti all’aspettativa di avere un paio d’ore solo con lei. E quel buon umore in quel frangente era davvero fuori luogo, lo sapeva: aveva aperto gli occhi, imprecato tra sé e si era affrettato ad alzarsi. La cosa più fastidiosa era come notasse tutti i suoi difetti, le orecchie un po' sporgenti, il naso non esattamente alla francese. E la smorfia che faceva quando era concentrata non era la cosa più carina del mondo. Eppure, gli pareva bella, forse l’unica cosa bella in quel mondo di merda. Sospirò e iniziò ad avanzare, gli stivali che sprofondavano nella terra bagnata con un leggero ciaf. Furono proprio quei fruscii a farle sollevare gli occhi, proprio mentre era a testa in giù ad allungare la schiena, e si tirò su di scatto.   
«Buongiorno Capitano».  
Levi borbottò un saluto, tentando di non soffermarsi troppo sul sorriso che ricevette.
«Hai ferite che devono ancora guarire?» le chiese. 
«Non proprio. Ogni tanto mi fa male il costato e ho qualche graffio sparso, ma niente di grave». 
«Bene. Cominciamo» disse Levi togliendosi il giaccone e stiracchiando i muscoli. Poi cominciò a correre senza una parola e Tallulah aprì la bocca stupita, per poi affrettarsi a seguirlo.   
«Cosa stiamo facendo?» gli domandò una volta recuperato terreno.  
«Secondo te?». 
Sorrise al suo grugnito e non disse più nulla, fin troppo felice di quella svolta: si sarebbe allenato con lei. Corsero per una ventina di minuti, aggirando il campo di allenamento e ascoltando la natura svegliarsi. Tallulah non si sentiva a disagio per il silenzio che stavano condividendo, anzi, si sentiva molto fortunata, come se Levi l’avesse fatta entrare in una sfera intima della sua quotidianità. Non era sicura di quanto quella vicinanza le avrebbe fatto bene, ma Levi era l’unica persona a cui avrebbe potuto fare quella richiesta. Si fidava di lui, era forte ed aveva esperienza su fin troppi campi di battaglia, perciò si era convinta a relegare il loro bacio nell’anfratto più oscuro della sua mente. Levi era il suo Capitano, solo il Capitano.
Fu molto diverso dalla precedente punizione: scoprì nell’uomo un insegnante severo ed esigente, ma paziente ed incredibilmente intuitivo. Riusciva ad accorgersi quando la ragazza stava arrivando al suo limite e quando invece poteva spingere ancora. Dopo un’ora di esercizi in cui aveva scoperto di avere muscoli in posti impensabili, le aveva finalmente permesso di indossare il dispositivo tridimensionale. Doveva simulare un attacco verso un gigante fantoccio, ma la sua performance sembrava non convincerlo mai.  
«Sei lenta. Rifallo». 
Tallulah ritornò a terra e si mordicchiò un labbro fissando il fantoccio di legno molte spanne sopra di lei. Prese un respiro profondo, piegò le ginocchia e ripartì. Si arpionò a due tronchi dal manichino e sfoderò le lame: Levi la seguì attentamente con lo sguardo e arricciò le labbra, insoddisfatto. 
«Ferma!» le gridò e le fece cenno di raggiungerlo. Tallulah obbedì e atterrò a pochi metri da lui con il fiato corto e una leggera frustrazione.  
«Non era nemmeno lontanamente accettabile» la rimbeccò e la ragazza abbassò gli occhi. L’uomo si prese qualche istante per riflettere: magari era una situazione poco realistica e non riusciva a prenderla sul serio. 
«Proviamo in un altro modo. Farò io il gigante» concluse e Tallulah non ebbe nemmeno il tempo di protestare che era già volato via. Lo guardò dal basso e sentì un’ansia crescente: non ce l’avrebbe mai fatta, tuttavia aveva poche scelte. Si rimise in posizione e si lanciò all’attacco con gli occhi puntati su di lui, immobile come se l’aspettasse. Gli era quasi addosso quando lui saltò sul ramo a sinistra, lento come poteva esserlo un vero gigante. Levi registrò la velocità con cui i riflessi della ragazza si aggiustarono in seguito al suo spostamento e un pensiero che aveva già avuto gli si presentò di nuovo. Anche nello scorso allenamento aveva avuto l’impressione che in qualche modo si trattenesse e ora ebbe la conferma che non ne era nemmeno consapevole. Nel complesso l’avrebbe valutata come mediocre, ma poi emergevano dei flash in cui l’istinto aveva il sopravvento, la velocità e la precisione aumentavano di colpo, per poi tornare ad appiattirsi. La fece nuovamente avvicinare finché non gli fu ad un paio di spanne; poi saltò, aggirandola e allungando le braccia per afferrarla. Tallulah sibilò stupita, voltandosi fulminea, ma invece di reagire barcollò all’indietro, mettendo male un piede e perdendo l’equilibrio. Levi la prese appena in tempo per la camicia e la ritirò su con un solo braccio. Tallulah ricambiò il suo sguardo intimorita: l’azzurro si era scurito e non era mai un buon segno.  
«Mi dispi-» 
«Perché ti trattieni?» le chiese, interrompendola bruscamente e rilasciando la presa sul tessuto.  
«Eh?» lo guardò confusa. 
«Avresti potuto evitarmi. Arpionarti da qualche parte, sfuggirmi» 
«Non ho fatto i-»
«Non dirmi cazzate»
«Non capisco, Capitano» rispose Tallulah, leggermente stizzita.  
«Ti ho studiata, sto capendo come ti muovi. Hai dei picchi in cui le tue capacità si affinano molto rispetto al tuo livello normale. Questo vuol dire che il tuo livello normale non corrisponde al tuo reale valore».   
«Non mi sembra di essere diversa» mormorò lei, distogliendo lo sguardo e portandolo verso la foresta. Levi non rispose e scrollò le spalle, cominciando a sganciarsi l’attrezzatura che cadde sul tronco con un tonfo. Il rumore attirò la sua attenzione e aggrottò le sopracciglia davanti al Capitano intento a spogliarsi di ogni dispositivo.  
«Cosa stai- EHI!» urlò lei.  
Non aveva perso tempo, appena fu completamente libero si lasciò cadere all’indietro. La mente di Tallulah andò in bianco: erano ad almeno 15 metri da terra. Le sue mani si mossero istantaneamente, azionò il suo dispositivo e si gettò nel vuoto. Riuscì ad afferrargli il braccio e si arpionò al tronco più vicino, stringendo i denti per lo sforzo.  
Qualche secondo dopo Levi alzò lo sguardo, lievemente ironico.
«Puoi anche lasciarmi adesso, mocciosa».
Tallulah guardò il terreno, poco distante da loro e lo mollò, improvvisamente furiosa, sganciandosi poi dal ramo.  
«Sei impazzito?!» gli chiese, il tono acuto e gli occhi spalancati come un gufo. Levi la osservò, indeciso se mostrarsi arrabbiato per l’insolenza o divertito per la sua espressione. «Per quale motivo lo hai fatto?» 
Alla fine, si mantenne impassibile, ignorando la facilità con cui era scivolata dal lei al tu «Come vedi avevo ragione».
Tallulah rimase a fissarlo, senza capire.  
«Come sei riuscita ad afferrare me, avresti potuto schivarmi prima. La velocità necessaria era la stessa, anzi, il margine era anche maggiore rispetto alla mia caduta». Levi si avvicinò di un passo «Quindi perché ti trattieni?» 
«Non mi trattengo» disse lei, immobile.  
«Di che hai paura?».  
Nessuna risposta. Onestamente era sempre più curioso: la smania di capire cosa avesse dentro diveniva più forte man mano che la osservava, ma sembrava avere un muro più duro dell’acciaio. 
«Dici di voler diventare più forte e poi fai di tutto per frenare le tue abilità»
«Non è così!» scosse la testa con vigore lei.  
«Sei una vigliacca» concluse e le voltò le spalle «Non alleno soldati vigliacchi». 
Le tremarono le labbra all’inflessione dura della sua voce e lo strattonò per un braccio. Non poteva sopportare quelle parole, non da lui.  
«Ho affrontato mille prove per arruolarmi e per entrare nella legione. Merito una possibilità»
«Sembra più che tu stia cercando di convincere te stessa». 
Le si serrò la gola e la presa sulla sua divisa si allentò. Come faceva a capire così bene ciò che provava? Era vero, era lei a non esserne convinta, nonostante i suoi tentativi di opporsi alla debolezza. Era davvero una vigliacca, una vigliacca che aveva lasciato Sadie a morire al posto suo.  
«Io- Io...»  
«Abbiamo finito» disse Levi nuovamente e tornò ad incamminarsi verso casa. Dei passi veloci lo superarono e lei gli si parò davanti, il volto contratto e la mascella serrata. Qualche giorno fa sarebbe rimasta zitta ed avrebbe aspettato che lui se ne andasse per calmarsi, distrarsi, magari pensare a qualcosa di bello, ma dopo ciò che era successo semplicemente non poteva più. Levi la guardò indifferente e stava per dirle di togliersi dai piedi, ma un pugno saettò sul suo viso colpendolo in pieno: gli si dipinse in volto un’espressione sconvolta, la maschera impassibile infranta. Serrò le labbra e le afferrò i polsi, ma Tallulah gli diede una testata sul naso piuttosto forte; nel giro di due nanosecondi furono a terra, Levi che tentava di immobilizzarla, irritato, lei che sembrava più un animale selvaggio.  
«Smettila, cazzo!»  
«Sono ancora una vigliacca?» gli chiese, gli occhi sbarrati e ardenti. Levi le aveva bloccato i polsi a terra e la fissò. Una goccia di sangue le macchiò una guancia e un’altra la fronte: doveva stargli colando dal naso, sentiva il liquido caldo sul bordo della bocca. Per qualche istante si specchiarono l’uno negli occhi dell’altro.  
«Perché ti sei arruolata?» ringhiò Levi praticamente sulla bocca di lei, che gli soffiava il respiro veloce addosso.  
«Per salvare delle vite» rispose lei a denti stretti.
«CAZZATE» le urlò in faccia e Tallulah serrò gli occhi, voltando il viso e imponendosi di non piangere. 
«Cosa importa?!» gli domandò e la voce le uscì più rauca del previsto.
«Hai paura che la mamma debba raccogliere le tue ossa?» storse le labbra in un sorriso inquietante che la ferì più delle sue parole.
«Smettila» sussurrò, ma più Levi la guardava più si convinceva che stava per cedere. 
«Te l’avevo detto che una come te non sarebbe dovuta entrare nel corpo di ricerca. Ti brucia tanto essere chiamata vigliacca perché sai di esserlo, vero? Chissà, magari da bambin-»
«No, smettila!!» esplose a quel punto, incapace di trattenersi oltre e tentò di dibattersi ancora, invano. «Tu non sai niente! Faccio tutto ciò che posso per-».
Tallulah storse la bocca in una smorfia di dolore, come se parlare ad alta voce le facesse male; nonostante ciò, Levi non aveva intenzione di tornare indietro. Doveva parlare.
«Per cosa?» la incalzò, modulando il tono di voce aggressivo.
«Per pagare il mio debito! Sadie è morta per salvarmi ed è a lei che ho legato la vita, più che alla legione!».
Levi rimase in silenzio ed improvvisamente intuì qualcosa. La liberò, lentamente, e si sollevò da lei; Tallulah strisciò via, sfregandosi la pelle arrossata dei polsi. Iniziava a sentirsi sopraffatta dalle emozioni: il cuore le batteva ad un ritmo irregolare e brividi freddi affiorarono sulla pelle sudata del collo.
«Tu...Tu vuoi morire» mormorò l’uomo, attonito. «Sarebbe tutto più chiaro. Le girovagate di notte, l’alcol. Le cinghie usurate prima della spedizione. Il voler partecipare alla missione senza essere completamente guarita. Riesci persino ad appiattire le tue abilità fisiche per metterti più a rischio». 
Però qualcosa continuava a sfuggirgli. Quando si era lasciato cadere dall’albero, non aveva esitato a salvarlo, era stata veloce, precisa e prudente: dov’era quindi la differenza? Tallulah ascoltava passivamente man mano che andava avanti, lo sguardo puntato su di lui, ma senza vederlo realmente, come se fosse un fantasma. Fu quell’espressione a distrarre Levi, che aggrottò le sopracciglia e vide che aveva cominciato a fare dei respiri lenti e veloci, quasi dei rantoli.
«Ohi» la chiamò e si avvicinò di alcuni passi, accorgendosi del colorito sbiancato. Il suo volto si fece mortalmente serio e si inginocchiò davanti a lei. 
«A-Armin» ansimò la ragazza e Levi le prese il viso tra le mani. 
«Tallulah» mormorò e lo sguardo spaesato di lei seguì il suo nome. La voce di Levi sembrò l’unico spiraglio di luce in mezzo a quel mare di pece e nausea in cui era sprofondata. Tentava di muoversi, ma si sentiva pesantissima, ogni muscolo era fatto d’acciaio ed era certa che sarebbe soffocata. 
«Tallulah» la chiamò di nuovo, più deciso stavolta «Respira più piano».
La ragazza fissò le labbra dell’uomo e tentò di imitare il ritmo del suo respiro. 
«Così. Seguimi, brava». La presa delle sue mani era salda, ma gentile. Ne percepiva il calore sulle guance. «Idiota, non devi la vita a nessuno, nemmeno alla legione».
La voce calda dell’uomo le arrivava ovattata, coperta da un fischio che aveva preso a ronzarle nelle orecchie. Non capì tutte le altre cose che disse, ma la sua voce le entrò dentro e si sentì al sicuro. Lentamente il nodo alla gola si sciolse e il battito cardiaco rallentò. Tallulah mise a fuoco il viso dell’uomo ed in quel momento una bolla le salì dallo stomaco fino su in gola, scoppiando in un singhiozzo. Poi, un altro e un altro ancora, fino a sfociare in un pianto dirotto. Le sue mani si sollevarono automaticamente cercando appiglio sulla sua camicia e lui non disse nulla, lasciò che nascondesse il viso sul suo petto, limitandosi a posarle il palmo tra i capelli e carezzarle la cute. Rimasero così per molti minuti fino a che il respiro di lei non fu tornato regolare e i brividi scomparsi. Si sentiva sfinita e vagamente imbarazzata man mano che tornava consapevole della realtà intorno a lei.  
«Ti sei calmata, mocciosa?». 
La sua voce spezzò il silenzio e il sangue le risalì sul volto: non sembrava arrabbiato e questo le diede un minimo di coraggio per sollevarsi dal suo petto.
«Scusami» disse rauca, pulendosi una guancia. La sua faccia doveva essere un disastro.
«Esattamente per cosa? Avermi quasi spaccato il naso, parlato come una marmocchia insolente o sbavato la divisa?». 
Il tono pesantemente ironico e l’occhiata luminosa con cui le parlò la colse di sorpresa e gli ultimi brandelli di ansia che aveva. Si ritrovò ad accennare un sorriso e
Levi la fissò, segretamente soddisfatto di vedere un po' di colore tornare sulle sue guance.
«Perché...mi guardi così?» gli chiese debolmente.
Levi si irrigidì lievemente «Così come?»
«Non lo so» disse, abbassando lo sguardo.
Come se stessi per sparire da un momento all’altro.
Levi preferì non indagare oltre, probabilmente la vera risposta non gli sarebbe piaciuta. Fu in quel momento che gli tornò in mente un particolare ed il suo sguardo si scurì: Tallulah se ne accorse subito.
«Cosa c’è?» gli chiese abbassando le mani e piegando la testa per seguire il suo volto ora sfuggente. Armin, aveva detto poco prima, quasi come una preghiera. Era lui che si prendeva cura di lei durante quegli attacchi di panico? Levi si rialzò, all’improvviso infastidito, ed ignorò la domanda. 
«Vai a riprendere il mio dispositivo. Direi che possiamo continuare domani» le ordinò, tornando nei limiti del suo ruolo. Tallulah lo guardò confusa, ma desistette dall’insistere.
«Quindi continueremo...?» domandò solamente, mordendosi l’interno della guancia.
«Sì, ma non da soli»
«In che senso?»
«Troppe domande, mocciosa» le rispose bruscamente e lei si chiuse la bocca, tirandosi su. Guardò brevemente l’orizzonte: il sole era sorto e si sentiva leggera come non le accadeva da tempo.  
 
 
«Dove sei stata?».
La voce di Mikasa la distrasse dalla sua tazza di caffè, cogliendola impreparata. 
«Che intendi?» fece finta di non capire, guardandosi poi attorno per verificare se qualcuno stesse ascoltando. 
«Stamattina non c’eri in camera»
«Ero in bagno. Lo sai che a volte faccio la doccia presto
«Non eri in bagno».
Tallulah arricciò le labbra, insoddisfatta. Ingannare Mikasa era impossibile.
«Mi allenavo» ammise, cercando di restare vaga. Non aveva mai parlato a nessuno di Levi, solo a Maria, durante una delle notti che avevano passato a sussurrarsi le rispettive vite. Una morsa nostalgica le contrasse la pancia e sospirò. La corvina la guardò di sottecchi, tornando poi alla sua colazione. 
«Vengo anch’io la prossima volta»
«Non ci pensare nemmeno. Devi stare a riposo, l’ha detto anche Eren». 
Le spalle di Mikasa si irrigidirono leggermente.
«Cosa c’entra Eren adesso?» rispose, sulla difensiva. Tallulah tergiversò qualche secondo, indecisa se essere diretta o meno. Optò per la prima.
«Eren con te c’entra sempre».
L’amica si voltò di scatto, fissandola. Non è nemmeno arrossita, notò la riccia con ammirazione. Lei sarebbe già diventata un fiasco di vino. Si avvicinò e abbassò la voce.
«Dimmi la verità, vi siete baciati?» le chiese, sperando in una risposta affermativa, ma Mikasa si alzò di scatto, facendola sobbalzare. Gli occhi degli altri si puntarono su di loro e Tallulah afferrò il braccio dell’amica per cercare di tirarla giù. 
«Aveva un crampo al sedere» sorrise goffamente. Sasha scoppiò a ridere e Connie di fronte a loro le fissò perplesso. Fortunatamente il diretto interessato era dall’altro capo del tavolo intento a parlottare con Armin e Jean e Mikasa tornò a sedersi, rigida come un manico di scopa. 
«Ti ammazzo» le disse, ma a dispetto dello sguardo fulminante Tallulah sorrideva. 
«Magari preferisci ammazzare Er-». 
Una gomitata nelle costole la fece tacere e la frase si concluse con una smorfia dolorante e divertita. 
«Buongiorno ragazzi». 
La voce di Hanje interruppe il gruppetto e l’atmosfera divenne tesa. 
«Questo pomeriggio è stata fissata una riunione a cui parteciperete anche voi. Il Comandante non si è ancora ripreso del tutt, ma ha le idee chiare su come procedere»
«Va bene Caposquadra Zoe» rispose Eren per tutti e non appena si fu allontanata guardò gli amici, pensieroso.
«Cosa mai vorranno dirci...» mormorò, pensieroso.
«Forse vorranno dettagli su questo tuo potere misterioso» biascicò Sasha a bocca piena ed il ragazzo fremette.
«Che dettagli posso dare. Ne so quanto tutti voi». 
Non avere il controllo su sé stesso e su ciò che lo circondava stava diventando un'abitudine e lo odiava. Era felice che quell'improvviso potere li avesse salvati, ma si sentiva più succube che fautore. Doveva riuscire a padroneggiarlo assolutamente. Doveva vincere.
«Dobbiamo avvisare Chr- Historia» si corresse Armin. 
«Stamattina non l’ho ancora vista...» rispose Tallulah guardandosi intorno. In quel momento si accorse che Levi era appena entrato e stava parlando fittamente con Hanje. Gli eventi di poche ore prima le tornarono tutti in mente e un calore piacevole si diffuse nel suo petto. Quell’uomo era davvero un mistero: riusciva a destabilizzarla nel peggiore dei modi, portarla all’inferno con una sola parola, e allo stesso tempo calmarla solo standole accanto. Poteva ancora sentire il suo profumo. Anzi, se si concentrava un attimo poteva benissimo ricordare il suo sapore. Le braccia che la circondavano, le labbra calde e ruvide, il suo respiro forte. Sentendosi osservato, Levi si voltò, ignorando la domanda di Hanje, ed incrociò lo sguardo languido della ragazza. Un brivido gli percorse la schiena e si maledisse mentalmente. Tallulah, non appena si rese conto di essere stata beccata, voltò la testa dalla parte opposta. 
«Allora?» lo incalzò la donna di fronte a lui, distraendolo.
«Allora la mia risposta rimane la stessa» rispose, avviandosi fuori dalla mensa prima di cedere all’impulso di prenderla per un braccio e trascinarla nella prima stanza vuota disponibile e-. 
«Beh, si dà il caso che io lo abbia già chiesto ad Erwin e lui mi abbia dato carta bianca» esclamò Hanje seguendolo. Un cipiglio stizzito gli solcò la fronte e, purtroppo o per fortuna, l’immagine che stava prendendo piede nella sua mente sfumò. 
«Come sarebbe a dire?»
«Che non c’è ragione per cui tu non possa prestarmi per qualche ora un membro della tua nuova squadra» 
«Non è pronta» sbottò ed Hanje sorrise, per nulla turbata dal tono iroso. 
«Suvvia brontolo, non la mangio mica» scherzò e a nulla servì l’occhiata letale di Levi. «E comunque la sottovaluti» aggiunse, tornando seria «So bene che la situazione è delicata, ma è la persona più adatta. È molto intuitiva».
«C’è Armin Arlert se ti serve un genio, no?»
«No che non mi serve un genio, ci sono già io!» sbuffò la donna «Tallulah riesce a capire le persone più che i fatti. E poi mi ha salvata dal gigante femminile».
L’uomo strinse le labbra a quella rivelazione. Tallulah aveva salvato lei? Una caposquadra? «Quando?»
«Durante la spedizione per catturare Annie Leonhart, nel distretto di Stohess». 
Levi tacque e ripensò all’ultimo incontro avuto con la ragazza: di nuovo quella sensazione che gli stesse sfuggendo qualcosa. Come diavolo funzionava quella mocciosa?!
«Va bene, portala con te» disse infine «Ma se le succede qualcosa ti ammazzo, quattr’occhi».
La donna si bloccò in mezzo al corridoio e fissò la schiena del soldato che continuò invece ad avanzare, ignorandola. Hanje non ci poteva credere: Levi aveva appena ammesso quanto tenesse a lei. 
 
 
 
Qualcosa gli strusciava contro la coscia; mosse la gamba e, ancora troppo immerso nel sonno, girò la testa a sinistra. Per qualche istante tornò l’immobilità.
Di nuovo un fruscio, più deciso stavolta, che lo strappò quasi del tutto dal torpore. Corrugò la fronte e sollevò le coperte in uno scatto deciso, il corpo già teso ad affrontare qualsiasi pericolo. A quello sarebbe stato pronto. Anzi, forse l’avrebbe addirittura preferito alla testa che fece capolino dal lenzuolo.  
«Cosa caz-» 
«Buongiorno...». 
Tallulah lo guardò e tese le labbra in un sorriso malizioso che gli fece venire i brividi, soprattutto vedendolo tra le sue gambe.  
«Che cazzo ti salta in testa, esci subito» tentò di usare il tono più perentorio di cui disponeva, ma sembrò più una protesta roca e biasciata, troppo distratta dalle mani pericolosamente vicine al suo cazzo.  
«Non voglio più a rispettare i tuoi ordini» sussurrò in tono dispiaciuto e abbassò la testa, posando le labbra sul suo interno coscia. «Penso sempre a te, Levi»
La risposta seccata gli si bloccò in gola e lei approfittò del suo sconcerto per toccarlo, accarezzando la sua intimità sopra il tessuto della biancheria. Levi lottò per rimanere lucido e si obbligò ad afferrarla e tirarla su. 
«Giuro che stavolta una notte in cella non te l-».
Una bocca calda e morbida soffocò la sua frase e Levi ingoiò un gemito, più di sofferenza che di piacere. Gli faceva male fisico doversi strappare di dosso tutto quel calore. La allontanò da sé e capovolse la situazione premendola contro il materasso, almeno poteva tenerla ferma. La ragazza lo guardò, piena di desiderio, scarmigliata e con le labbra gonfie, e Levi capì che era una battaglia persa. 
 
Di colpo spalancò gli occhi, accaldato e infastidito. Si tirò su, guardandosi attorno, constatando di essere nella sua stanza, solo, e con un bel problema da risolvere sotto le lenzuola. Ricadde sul cuscino con un sibilo frustrato. 
Maledetta mocciosa. 
 
«Che ne pensi?».
Hanje la fissava, aspettando una sua risposta. Si erano trattenute nel suo ufficio dopo la riunione con gli altri, densa di decisioni importanti e strade future.
«Sta chiedendo la mia opinione?» chiese Tallulah perplessa, ancora assorbendo le informazioni che aveva appena ricevuto.
«Sì. Non è un ordine, è una richiesta. Ricordi che ti avevo detto quanto mi sarebbe piaciuto averti nella mia squadra? Beh, quel nanetto malefico di Levi mi ha battuta sul tempo, ma ci siamo accordati e puoi unirti a noi se deciderai di aiutarmi. Si tratta solo di un paio di giorni»
«Ma non capisco. Che utilità potrei avere?».
Hanje si fece d’un tratto seria e si abbassò, avvicinando il volto al suo e posandole una mano sulla spalla. «Mai. Mai sminuire te stessa»
Tallulah arrossì, sentendosi in imbarazzo «Sì, signora»
«Signora?!» esclamò con orrore, tirandosi indietro «E chi sono, mia madre? Chiamami Hanje e questo è un ordine»
La ragazza scoppiò a ridere «Va bene, Hanje. Verrò».
 
 
La notizia che il Caporale Levi avesse formato una nuova squadra si diffuse rapidamente in tutta l’armata ricognitiva e non si parlava d’altro che di loro. Ecco cosa intendeva quando le aveva detto non da soli; i giorni successivi iniziarono un nuovo addestramento, studiato su misura per ognuno di loro e centrato sulla collaborazione e attacchi di gruppo. Tallulah era gelosa: lo era quando il soldato esortava Connie a dare di più, quando correggeva la postura di Historia e quando mandava Eren a fare un lavoro per lui. Lo era quando osservava Mikasa e la linea delle sue labbra si arcuava, soddisfatta. Lo era ancora di più perché lei invece veniva deliberatamente ignorata ed era sicura che non fosse solo una sua impressione. Continuava a ripetersi è il Capitano. È solo il Capitano. Poi però lo guardava mostrare le sue mosse o leggere in cortile ed il cuore prendeva a batterle furiosamente senza che lei potesse farci nulla. 
«Vedrai che ti farà bene» disse, mentre scendeva le scale assieme a Jean. L’aveva trovato nella sala comune intento a guardare fuori e dopo parecchie domande ne aveva capito il motivo: erano parecchie notti che non riusciva a dormire e non essendoci abituato la cosa lo distruggeva durante il giorno. Jean non sapeva nemmeno come si fosse trovato a seguirla; gli aveva parlato con tanta sollecitudine che per un momento gli era sembrata sua madre, quando da bambino aveva la febbre e cercava di convincerlo a prendere le medicine. Una volta in cucina la guardò rovistare in una delle credenze della cucina e mettere a bollire dell'’acqua. 
«Tu perché sei sveglia?» le chiese, sedendosi sulla panca più vicina.
«Dovevo fare pipì» rise piano davanti alla smorfia schifata del ragazzo e tirò fuori due tazze; mentre le ordinava una di fianco all’altra, l’idea di portarne una a Levi divenne incredibilmente allettante. Chissà quale tipo preferisce...
«Senti... Ti devo delle scuse».
La voce di Jean la distrasse e sospirò «Ultimamente non facciamo che scusarci»
«L’ultima volta tu ed Armin avete rischiato la vita per colpa mia»
Tallulah abbassò lo sguardo mesto «Se Armin non si fosse precipitato da te, non mi sarei fermata. È lui quello coraggioso e buono»
Jean la fissò senza espressione «Nemmeno io l’avrei fatto. Probabilmente ci somigliamo più di quanto pensiamo: alla fine siamo entrambi qui, nonostante la paura».
Tallulah osservò l’acqua bollente colorarsi di verde.
«Chissà come sarebbe la vita, fuori di qui».
Nei minuti successivi rimasero in silenzio e Tallulah riempì fino all’orlo tre tazze fumanti. Stava per sollevare il piccolo vassoio su cui le aveva poste quando una voce dietro di lei la bloccò. 
«Ciao! Che ci fate ancora in piedi?». 
Jean si alzò di scatto.
«Buonasera», disse Tallulah, sperando di apparire normale «Sì, ecco, volevamo un thè ed ero... Insomma, siamo scesi a prepararlo»
«Tranquilli, non c’è bisogno di agitarsi tanto. Puoi sederti... Jim?»
«Jean, Caposquadra Zoe, Jean Kirschstein».
La donna si sporse appena e occhieggiò le tre tazze sul bancone.
«Volevi portarlo a qualcuno?». 
Gli occhi di tutti saettarono sulla terza tazza e Tallulah scosse la testa fin troppo veloce per risultare convincente. «No! Sasha sta male, praticamente è in bagno da ore, un thè sicuramente la aiuta».
Jean aggrottò le sopracciglia, cercando di capire cosa diavolo stesse succedendo: perché Tallulah stava mentendo? Hanje ridacchiò e si avvicinò, sedendosi accanto al ragazzo.  
«Non preoccuparti cara, ho la bocca più chiusa di un lucchetto» disse, strizzandole l’occhio. Tallulah stava per protestare quando venne nuovamente interrotta da rumori in corridoio. Ci fu il tonfo di una porta richiusa, dei passi e poco dopo, il viso stanco del Capitano apparve nella stanza. 
«Levi! Dove sei stato?» gli chiese immediatamente Hanje, sollevando le sopracciglia. L’uomo squadrò per qualche secondo la scena di fronte a lui con sguardo truce. 
«Vi sembra l’ora di fare un fottuto festino?» 
Il povero Jean si alzò nuovamente «M-Mi scusi Capitano. Siamo scesi-»
«Non si sentiva bene e l’ho accompagnato per fargli un thè» lo interruppe Tallulah e Levi le piantò gli occhi addosso. Hanje alternò lo sguardo tra i due come se fossero l’opera più interessante al mondo. 
«Levi, smettila di spaventare i ragazzi. È notte, lasciali in pace». 
Lo conosceva bene, Hanje, e sapeva calcare la mano nei punti giusti. Non spaventare i ragazzi, la prima distinzione tra lui e loro, due mondi lontani e intoccabili. È notte, e Levi lo sapeva cosa potevano fare di notte due ragazzi, da soli.  
«Anche le loro notti mi riguardano se durante il giorno non danno il massimo»
«Ha ragione Capitano, andiamo subito a dormire». Jean afferrò Tallulah per un braccio e la tirò verso di sé per esortarla a seguirlo, dimenticandosi del vassoio. 
Levi saettò con il occhi su quella presa e dovette imporsi di non muoversi.
«Sa camminare» gli sfuggì, tuttavia, in tono minaccioso. Hanje era a tanto così dallo squittire, estasiata.
«V-veramente» esclamò Tallulah, sempre più a disagio «Vorrei finire prima il mio thè, Capitano. Servirebbe anche a Jean per riposare meglio. E ne avevo preparato una tazza anche per lei». 
A quel punto era inutile continuare a trovare scuse.
«No, grazie» le rispose, secco. «Bevete questo maledetto thè e filate a letto».
Solo quando fu nel buio della sua stanza Levi si concesse di rilassare i muscoli della schiena. Si spogliò in fretta e lanciò in malo modo i vestiti sulla poltrona, per poi sedervisi sopra; si passò le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Stava diventando una tortura ignorarla. No, fare finta di ignorarla, perché in realtà sapeva sempre dove fosse e con chi. Era sempre con qualcuno, sempre a parlare, parlare, parlare. Sentiva il desiderio di ascoltarla, voleva che parlasse a lui, voleva essere lui a farla ridere, lui a far passare il suo dolore. Era geloso dei suoi sguardi, dei suoi tocchi e dei suoi sorrisi.
Ma non osava.
Non osava avvicinarsi, affezionarsi. Se l’avesse ridotta a qualcuno che lui potesse amare liberamente, temeva che non le sarebbe rimasto nulla di buono.
Lui, sulle persone, aveva questo effetto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo dodicesimo ***


Capitolo dodicesimo 
 

Tallulah aprì la porta ed uscì nell’aria frizzantina, posando la scopa e godendosi un po' il cinguettio degli uccelli ed il verde tutto intorno: la segretezza attorno agli esperimenti che Hanje voleva fare su Eren li aveva portati in quell’area remota di Rose e sinceramente non le dispiaceva affatto. Gli alberi circondavano il piccolo cottage ed erano molto più rigogliosi di quelli nei pressi del loro quartier generale; in più era assieme a tutti i suoi amici e c’era anche Levi che dormiva a due passi da lei. Onestamente la cosa non le aveva fatto chiudere occhio, a dispetto di tutte le cose ben più importanti che dovevano affrontare. Anzi, quando aveva sentito il respiro addormentato di Mikasa non aveva resistito: le dita le erano scivolate dentro il pigiama, oltre le mutandine, e si era toccata con il suo nome sulle labbra. Era una cosa nuova per lei, non aveva mai sentito quell’impulso prima, ma Levi la faceva andare fuori di testa. Sorrise al nulla, riprendendo a spazzare il vialetto di pietra, ben attenta a non calpestare la gonna troppo lunga che le avevano fornito. Era la cosa più simile ad un vestito che indossava da anni. Lo stridio di una carrozza le fece alzare gli occhi e alzò un braccio per salutare Armin, Sasha e Jean di ritorno con le provviste.  
«Vi serve una mano a scaricare?» esclamò quando si fermarono lì di fronte.  
«No, grazie, in realtà c’è poca roba. Il capitano è tornato?» si informò Sasha. 
«Non ancora»
«Sasha» la rimbeccò Jean «Se lo stai chiedendo per sgraffignare qualcosa di nascosto, ti farà a pezzettini».  
Tenne loro la porta aperta per farli entrare e ascoltò divertita le grida di Eren sulla polvere che stavano portando in casa.  
«Oh, ragazze siete già tornate?». 
Mikasa e Historia spuntarono dal retro, cariche di legna. 
«Sì, qui ci sono tronchi in abbondanza».  
Entrarono con sguardo similmente vuoto e alzò gli occhi al cielo: saranno state in silenzio per tutto il tempo? Tornò al suo lavoro ed iniziò a canticchiare un motivetto sottovoce, in sottofondo le chiacchiere dei suoi amici. Il pensiero di poter vivere così per sempre le provocò una forte nostalgia, nostalgia per qualcosa che non sarebbe mai accaduto. Eppure, c’era una strana atmosfera di pace lì, come se avessero messo il mondo in pausa. A Maria sarebbe piaciuto così tanto.
«Non si spazza così, mocciosa. Stai disseminando terra dappertutto». 
Si voltò verso la voce profonda che la interruppe di nuovo e sorrise.  
«Bentornato Capitano».  
Levi sentì il cuore accelerare nel vederla sull’uscio ad accoglierlo e gli sfuggì una smorfia stizzita: avanzò verso di lei e le prese bruscamente la scopa dalle mani, sfregando le setole per terra con movimenti più decisi. Tallulah lo fissò con un’aria tra il sorpreso e il divertito.
Scommetto che nessuno si immagina il soldato più forte dell’umanità alle prese con una scopa...
«Ohi! Devi guardare a terra, non me». 
Arrossì e abbassò gli occhi con un mezzo sorriso «Scusi». 
L’uomo le restituì la scopa e si costrinse a volgere lo sguardo.
«Sono tutti dentro?» 
«Sì, abbiamo quasi finito le faccende, Eren è in modalità casalinga da ore» scherzò e Levi sollevò le sopracciglia alla confusione che proveniva dall’interno.  
«Tch. Scommettiamo?».  
Tallulah lo seguì nell’abitazione, togliendosi il fazzoletto dai capelli.  
«Cos’è tutto questo chiasso?» chiese il soldato, a sua voce persa nella baraonda generale e nemmeno il gesticolare di Tallulah riuscì ad attirarne l’attenzione. Levi passò la mano sotto il tavolo e si osservò poi le dita con fare seccato: a quel punto era calato il silenzio e la ragazza contrasse le labbra per evitare di ridere alla vista della faccia terrorizzata di Eren. Se si fosse lasciata scappare un solo suono Levi l’avrebbe messa sotto torchio per tutta la settimana successiva.
«Vi pare d’avere tempo per ciarlare come delle galline?».
Il tono della sua voce le fece salire un brivido lungo tutta la schiena e non sapeva se fosse di paura o di eccitazione. Forse entrambi. Nessuno osò rispondere e l’uomo tirò fuori il suo fazzoletto.
«Non importa. Parleremo delle vostre insoddisfacenti pulizie più tardi. Eren, Hanje sta morendo dalla voglia di cominciare gli esperimenti. Muovi il culo»
«Ah, sì!» rispose il ragazzo titano e si sfilò il grembiule di dosso. Tutti ripresero a respirare e tornarono alle loro mansioni in fretta, per poi cambiarsi e raggiungere la radura che avevano scelto come campo di addestramento. 
 
I primi esperimenti non andarono come previsto. Eren creava giganti prematuri, troppo smilzi o troppo bassi, nonostante gli sforzi.
«Secondo me Eren deve solo esercitare il corpo ad uno sforzo del genere. Tutta questa storia del gigante è fin troppo recente» ipotizzò Tallulah in risposta ai dubbi di Armin. «Il tuo piano non ha nulla che non va, lo ha detto anche Levi».
Il biondo aggrottò le sopracciglia al tono informale con cui l’amica aveva nominato il Capitano, ma rispose facendo finta di nulla, lo sguardo sulle bucce delle carote e delle patate che aveva iniziato ad ammucchiare lì accanto.
Ma non abbiamo molto tempo. È un miracolo che non ci abbiano già scoperti»
«Nemmeno il tempo può avere la meglio sul tuo genio, Armin» ridacchiò lei, mentre l’amico alzava gli occhi al cielo.
«Non sono un genio»
«Sì che lo sei. Riesci sempre a trovare la soluzione giusta» la ragazza sorrise alle patate ed Armin si bloccò.
«Non sempre. O non avresti dovuto mettere la tua vita in pericolo per colpa mia» disse in tono grave e Tallulah smise di respirare per qualche secondo. La ragazza sentì il cuore stringersi e gli afferrò una spalla per costringerlo a guardarla.
«Avresti fatto esattamente lo stesso per me. Smettiamola di sentirci sempre in colpa l’uno per l’altra, ok?».
Il biondo guardò il volto agitato dell’amica e si sentì sollevato, tanto da curvare la bocca in un sorriso.
«Sei sporca di farina».
Tallulah sbuffò un mezzo sorriso, rilasciando quell’improvvisa tensione. Allentò la presa e sbadigliò; Armin le lanciò un’occhiata tra una carota e l’altra. 
«Stai riuscendo a dormire?» le chiese, cambiando discorso.
«Più o meno» rispose lei, spostandosi con il dorso della mano una ciocca di capelli. «Spero di fare tutta una tirata stanotte, domani parto con Hanje»
«Già... Ma come mai state andando a Trost?»
«Non lo so». Tallulah scosse la testa e si guardò attorno per assicurarsi che fossero soli. «Secondo me c’entra il reverendo, ma non credo che ci rivelerà altro. L’ultima volta era sconvolto e ci ha solo dato un nome»
«Historia». Armin si fermò per qualche secondo come se fosse sovrappensiero «A volte mi chiedo come abbiamo fatto a non accorgerci di così tante cose». 
La ragazza non rispose, ma strinse troppo la presa sul coltello e la lama le affondò sull’indice. 
«Cazzo»
«Ferma, non toccare». L’amico mollò il lavoro e le afferrò delicatamente il polso per vedere la lieve ferita. «Sei sempre distratta» mormorò a bassa voce e un istante dopo chinò la testa prendendo il polpastrello tra le labbra. Tallulah si immobilizzò al contatto con la lingua umida del biondo e lo fissò sconcertata; solo qualche secondo dopo Armin si rese conto di cosa stesse facendo e quando rialzò la testa era rosso in volto. 
«Ho letto-Ho letto che la saliva può disinfettare» farfugliò, tornando in fretta alle sue carote. La riccia sbatté le palpebre, incerta e vagamente imbarazzata. 
«...Arm-». 
Dei passi la zittirono prima che potesse proseguire e fece un cenno a Connie appena entrato in cucina con della legna. Poi prese il suo fazzoletto e se lo legò attorno al dito, riprendendo il coltello in mano. Per un po' ci fu il silenzio, interrotto solo dal rumore dell’attizzatoio. Tallulah si voltò per mettere a bollire dell’acqua nel grosso pentolone, ma la vista di Connie sotto i fornelli che guardava assente le fiamme la bloccò.
«È un po' che ci penso...» cominciò allora e i ragazzi quasi sobbalzarono a quell’improvviso suono. Connie si era quasi dimenticato della presenza degli amici ed Armin era troppo immerso nel ripercorrere con vergogna gli istanti precedenti. In quel momento Mikasa si unì a loro dirigendosi verso il lavabo. 
«Che ne pensate di scambiarci i regali tra di noi? Per la festa della quadriglia, intendo» chiese, trattenendo il fiato. Aveva deciso di non dire nulla e lasciar correre vista la situazione, però credeva davvero che un po' di distrazione avrebbe fatto bene a tutti. Sorprendentemente la prima a rispondere fu proprio Mikasa, intenta a riempire un bicchiere d’acqua. 
«Mi piacerebbe fare un regalo ad Eren. Potrebbe tirargli su il morale» disse semplicemente ed Armin ci pensò su. 
«Sarebbe bello, ma dovremmo ricevere il permesso per andare in paese a comprarli»
«Potrei chiedere ad Hanje di intercedere per noi» propose la riccia e lo sguardo di Connie si ravvivò appena, per poi spegnersi nuovamente. 
«Non ho abbastanza soldi per prendere dei regali per tutti voi...»
«Di che state parlando?» proruppe Sasha, attirata dal profumo del cibo che cominciava a diffondersi nella casa. 
«Tallulah ha pensato di fare la festa della quadriglia tra di noi».
La riccia alzò un braccio, tentando di spiegare che aveva proposto solo dei semplici regali. «N-no, veramente io-» 
«Che bello! Potremmo preparare una cena speciale!» esultò Sasha battendo le mani e alzò lo sguardo al soffitto immaginando dio sa cosa. «Magari potessi fare lo stufato di carne di mio padre...»
«Ohi, è l’ora del cambio di guardia! Chi di voi ha il turno?» si intromise improvvisamente Jean da fuori, bussando alla finestra. Dietro di lui, Historia li fissava imperturbabile.
«Jean! Che pensi di una festa?» gridò Connie per farsi sentire, mentre Armin aveva cominciato a parlare con Sasha di come distribuire i regali. 
«…........... sorteggio.........pesca il nome.............a cui.....» le arrivavano solo frammenti del discorso, mentre continuava a girare le patate.
«EH? TI FA MALE LA TESTA?» urlò Jean in risposta a Connie, il quale prese a gesticolare. 
«Ma che sta succedendo?». Tallulah a stento sentì la voce assonnata di Eren, riemerso da un sonno ristoratore e non fece in tempo a dire nulla che tutti cominciarono a parlare nello stesso momento, improvvisamente animati. La riccia sorrise sotto i baffi, soddisfatta di quel risultato insperato; un colpo di tosse, tuttavia, spense quell’entusiasmo all’istante e tutti si voltarono verso la figura altera sulla porta. 
«Vedo che l’avvertimento di stamattina non è servito» pronunciò Levi con tono fin troppo calmo. I ragazzi si guardarono imbarazzati e dopo alcuni secondi Sasha prese coraggio, puntando però il dito alla sua destra. 
«Tallulah pensava di organizzare una festa! Con cibo, regali e tutto il resto». 
La diretta interessata sbiancò e lanciò uno sguardo assassino all’amica. Gli occhi di Levi saettarono su di lei e poté giurare di vederli contrarsi in modo minaccioso. 
«Sasha intende dire che avevo pensato solo di scambiarci qualche regalo per la festa della quadriglia... Con il suo permesso ovviamente, Capitano» pigolò, cercando di rimediare con un sorriso indeciso. Levi tacque e fece di tutto per ignorare il suo io interiore, distratto dal rossore delle guance della ragazza. Non sapeva cosa gli stesse succedendo in quegli ultimi giorni, forse era quell’improvvisa vicinanza o il fatto che lei continuava a guardarlo come se fosse la cosa più bella della sua giornata, a dispetto della sua freddezza; fatto sta che si sentiva continuamente deconcentrato, sopraffatto. Vulnerabile, ma non lo avrebbe mai ammesso.
«Mh. Vedremo» fu la sua unica risposta e lo stupore generale si lesse negli occhi di tutti. Solo quelli di Armin si posarono su Tallulah con un lampo di comprensione.
 
Il carro si muoveva troppo lentamente in confronto all’ansia che Hanje aveva di tornare all’accampamento. Tallulah guardò il paesaggio inondato dall’arancione del tramonto e ripensò a ciò che avevano appena visto. Mandò giù un grumo di bile al ricordo degli occhi esangui e spalancati del reverendo, riversi in chiazze di sangue. Le aveva ricordato in modo inquietante il viso morto di Maria. Tornò a guardare la donna, soffermandosi sul sudore che le imperlava la fronte e sulle spalle rigide. Non aveva detto nulla da quando avevano lasciato la caserma, se non qualche indicazione a Moblit ed un altro soldato che non conosceva. 
«A cosa sta pensando?» le chiese ad un tratto, sperando di interrompere il flusso dei suoi pensieri sicuramente spiacevoli. Lo sguardo di Hanje tornò alla realtà e incrociò quello di Tallulah, dritto e deciso come se volesse penetrarle la mente; la donna si costrinse a metterla in ordine per permetterle di entrare.
«Hai visto anche tu ciò che ho visto io?» le chiese per una conferma in realtà inutile.
«Intende se ho visto un omicidio per furto o una tortura?».
Hanje non rispose e lei lo interpretò come un silenzio assenso; rifletté per alcuni secondi, richiamando alla mente la macabra scena «Come ha già detto le nocche di quel soldato erano sbucciate; inoltre, il reverendo aveva segni di corda sulla camicia all’altezza delle braccia e dei polsi. A mio parere ha ragione lei, ma la verità viene sempre stabilita dal potere».
Il solco sulla fronte di Hanje aumentò. Se solo avesse anticipato quel viaggio, se solo avesse avuto più mezzi a disposizione per assicurargli una copertura migliore ora Nick non sarebbe morto.
«È stata molto forte, Hanje».
La donna sollevò la testa, stupita.
«Intendo, con quei gendarmi. Probabilmente si sta incolpando, ma lei ha fatto il possibile per proteggerlo; il reverendo non avrebbe potuto avere un’amica migliore».
Hanje sorrise appena e si aggiustò gli occhiali sul naso, voltando il capo, imbarazzata.
«A volte mi inquieti mia cara».
 
Forse c’era qualcuno lassù che godeva nel farla soffrire. A questo pensava osservando da un promontorio il suo piccolo cottage circondato da soldati armati che probabilmente avevano sperato di sorprenderli mentre dormivano. Sapeva che c’erano situazioni molto pericolose in ballo, ma non aveva potuto farne a meno: si era lasciata sedurre dall’illusione di una vita tranquilla. Il messaggio di Erwin era arrivato a Levi nel bel mezzo del resoconto del loro viaggio a Trost e Tallulah aveva visto i tratti del soldato mutare in un nanosecondo. Aveva intuito la gravità ancor prima che dicesse loro di sloggiare. Si voltò verso gli amici, vestiti di tutto punto, e poi rabbrividì, oltrepassandoli con lo sguardo per puntarlo sull’orizzonte.
«Mi sento osservata» mormorò a nessuno in particolare ed Armin la guardò con il fucile tra le mani, prima di girarsi verso Levi. 
«Come faceva il Comandante Erwin a saperlo?»
«Ordini dal governo centrale, sembra. Le spedizioni fuori dalle mura del corpo di ricerca sono sospese. Dobbiamo consegnar loro Eren e Historia». L’uomo ignorò il sussulto di molti tra loro e Nifa si intromise.
«Non è tutto: subito dopo aver preso in consegna la lettera ho visto i gendarmi arrivare nell’edificio del Comandante»
«Ci stanno trattando come dei criminali!» si infervorò Hanje, stringendo i pugni.
«Ormai hanno smesso di badare alle apparenze»
«Quale sarà il segreto delle mura se si spingono a tanto per proteggerlo? E perché vogliono i ragazzi? Vogliono prenderli vivi»
«Chissà» le rispose Levi distaccato «In ogni caso, rimanere qui fermi con le mani in mano è troppo rischioso».
Dopo una veloce valutazione della situazione avevano deciso di andare a Trost, per guardare il nemico in faccia come aveva detto Levi e a quel punto Tallulah non provò nemmeno a fare delle ipotesi su chi fosse il nemico. C’erano troppe variabili in gioco. Non dormirono molto quella notte perché misero a punto un piano di emergenza, interamente basato sulla protezione di Historia ed Eren: per la gioia di Jean dovettero riutilizzare lo stratagemma dei sosia e stavolta ci andò di mezzo anche Armin.
«Sei davvero carina» gli disse la mattina dopo, non riuscendo a trattenere un sorrisetto mentre gli lisciava la frangetta sulla fronte. I preparativi erano quasi ultimati, gli altri aspettavano solo loro per uscire. Aveva insistito per occuparsi lei di aiutarli, pensando che Armin sarebbe stato meno imbarazzato, ma a quanto pare si era sbagliata di grosso.
«Non guardarmi!» mormorò lui e il rossore sulle sue guance si intensificò. Jean se ne stava in un angolo con un gran broncio, ma stavolta non osò lamentarsi davanti ad Armin, stretto nei vestiti di Historia: poteva decisamente andargli peggio. Il piano prevedeva che i sosia dei ragazzi attraversassero la città insieme a loro, mentre Eren ed Historia sarebbero saliti su un carro per raggiungere la dimora del Comandante Pixis. Tallulah si fece seria e si allontanò dall’amico: era leggermente in ansia, per la prima volta non sapeva cosa aspettarsi. Nelle spedizioni al di fuori delle mura conosceva l’orrore da affrontare, conosceva i giganti, la formazione, l’obiettivo. Adesso sembrava tutto nel caos e in più Armin era la esca.
«State attenti ragazzi».
 
Fuori la giornata era bellissima e l’atmosfera per le vie allegra e rilassata. La gente era felice per le provviste che il re aveva distribuito in occasione dell’anniversario della monarchia. Tallulah osservò le bandierine colorate e pensò che ormai potessero anche scordarsi la festa della quadriglia. Erano passati dall’essere soldati all’essere ricercati in un battito di ciglia. Distratta com’era si accorse troppo tardi che Levi si era fermato di botto ed andò a sbattere contro il suo zaino.
«Che cos-».
«Attenti! Dietro di noi!» gridò e Tallulah soffocò un grido quando si sentì afferrare per le braccia e spingere all’indietro. Un carro sfrecciante divise il gruppo e per qualche secondo l’unica cosa che sentì fu uno strepitio di zoccoli e ruote. Riaprì gli occhi e incrociò lo sguardo di Levi, rendendosi conto di essere rannicchiata tra le sue braccia. L’uomo la scansionò in fretta per accertarsi che stesse bene, poi si rialzò e guardò il carro allontanarsi velocemente.
«Hanno rapito di nuovo Eren ed Historia!» gridò Sasha e Tallulah si riscosse, cominciando a correre per seguirli. Non dovevano lasciar nulla al caso.
 
«Mikasa, non possiamo starcene con le mani in mano!» sussurrò Tallulah alla corvina, la quale fissava la stessa scena dall’altro lato della finestra.
«Aspettiamo ancora un po’» mormorò lei con espressione concentrata. La riccia si morse le labbra con rabbia e tornò a fissare quel porco che metteva le mani addosso ad Armin.
«Scopriranno il trucco» ci provò nuovamente, stizzita, e strinse l’elsa delle sue lame, bruciando dal desiderio di sfondare quella finestra. Mikasa non rispose e Tallulah si arpionò nuovamente sul tetto, notando con sollievo la presenza di Levi.
«Capitano! Dobbiamo intervenire» lo raggiunse e l’uomo voltò appena il capo verso la sua voce concitata. «Non si può più aspettare, Armin è-».
«Mocciosa» la richiamò aspramente, interrompendola non appena sentì quel nome «Non puoi agire sulla base delle tue emozioni».
«Ma-»
«Vado da Eren. Ve la caverete benissimo da soli, questi furfanti sono dei novellini».
L’uomo si alzò, ansioso di allontanarsi dall’influenza snervante della ragazza. «Dopo che li avrete sconfitti venite da noi il prima possibile».
Tallulah annuì in silenzio e stava per tornare alla finestra quando la voce del soldato la bloccò.
«Un’altra cosa. Da adesso combatteremo non solo contro i giganti, ma anche contro le persone. Riferisci ai tuoi compagni».
Tallulah sgranò gli occhi e prima che potesse dire qualsiasi cosa lui volò via, lasciandola masticare il senso delle sue parole. Poi, l’immagine di Armin la riscosse.
Non ho tempo per pensare.
Scivolò giù dal tetto e fischiò per richiamare l’attenzione di Mikasa e Sasha.
«Procediamo» disse loro e fracassò quel dannato vetro, entrando nel deposito e arpionandosi alle travi in legno.
«Chi c’è?!» gridò l’uomo, ma non si mosse dal corpo dell’amico.
«Togligli le mani di dosso, maiale schifoso». Tallulah sorrise sadicamente poggiando i piedi a terra e cominciò a correre verso di lui che si allontanò da Armin di qualche passo.
«Tu chi sei-». Un gomito sul mento spezzò sul nascere le parole dell’uomo e Tallulah ne approfittò per calciargli lo stinco. Lo vide cadere sulle ginocchia con un lamento rauco. Abbassò gli occhi, notando con disgusto il cavallo dei pantaloni teso e dei ricordi presero campo nella sua mente.
Si ritrovò con la faccia schiacciata contro il cemento, mentre un corpo le si imprimeva addosso con forza.
Lo colpì con un calcio dritto nell’inguine, guardandolo cadere all’indietro e portarsi le mani sulla parte dolorante. 
Tentò di divincolarsi dalla stretta che le arpionava il capo e le braccia, ma le mani erano tante, così tante e le sue spinte troppo deboli.
Gli fu addosso e ignorò i suoi occhi terrorizzati: un pugno furioso saettò su quella mascella squadrata, poi un altro e un altro ancora, alla cieca. Quanto doveva picchiarlo? Se l’avesse ucciso avrebbe smesso di provare quella paura?
Provò a gridare, scoprendo con orrore che le usciva solo un filo di voce. 
Tallulah.. 
Tallulah..!
«Tallulah, basta!»
Le braccia di qualcuno la trascinarono via dal corpo svenuto dell’uomo e la realtà tornò al suo posto tra i suoi respiri affannati.
«Dannazione, hai sporcato di sangue il pavimento. Si accorgeranno subito che qualcosa non va». 
Levi?
Qualcosa in quella voce la calmò e smise di agitarsi; solo dopo si accorse che il corpo morbido sulla schiena non era quello di un uomo. Mikasa allentò la presa su di lei solo quando fu sicura che sarebbe rimasta ferma: non sapeva cosa le fosse preso, ma era certa di non averla mai vista così fuori di sé. Tallulah deglutì e si pulì le nocche doloranti sul pantalone della divisa, osservando Sasha e Mikasa che spostavano il corpo svenuto dell’uomo.
«Vuol dire che li faremo fuori non appena entreranno» rispose a fatica e si avvicinò ad Armin, alla disperata ricerca di un contatto nonostante lo sapesse legato e a corto di tempo «Stai bene?». 
Il biondo annuì con forza «Tu stai bene?». 
Non ebbe il tempo di rispondere perché Connie bisbigliò un Arrivano dall’alto e tutti si sbrigarono a nascondersi per tendere la trappola ai rapitori.
 
«È stato più semplice del previsto
«Il Capitano aveva capito che si trattava di inesperti» disse Tallulah e Armin si portò una mano tra i capelli, i suoi veri capelli finalmente.
«È strano. Perché lasciare una missione considerata così importante a gente incompetente?».
«Cosa facciamo adesso?» chiese Connie e Tallulah riferì ciò che le aveva detto Levi. I volti dei suoi amici si irrigidirono, senza capire.  
«Avete sentito?» Sasha interruppe la conversazione e tutti si voltarono verso di lei «Rumore di spari, laggiù!».
Tallulah si mise in ascolto, improvvisamente all’erta.
«Deve essere successo qualcosa» mormorò Mikasa, scura in volto, ed un secondo dopo si era già lanciata nella direzione da cui provenivano. Tallulah non esitò a seguirla e ben presto tutti si ritrovarono a sorvolare la città con il dispositivo tridimensionale; fortunatamente le case erano abbastanza alte e permettevano una visuale completa. Fu Connie ad avvistare per primo il loro carro, ora scoperto e guidato da un soldato della gendarmeria.
«Ehi, sono Eren e Historia!».
Tallulah vide i ragazzi addormentati e con le mani legate.
«Li avranno drogati» mormorò tra sé e si arpionò ad un muro più basso per avvicinarsi con discrezione. Un secondo dopo una familiare figura sbucò da sinistra e diede di tutto gas per seguire i loro amici. Tallulah scese ancora senza togliergli gli occhi di dosso: il Capitano non aveva più mantello, né la giacca della divisa, quindi doveva aver già combattuto. Stava facendo quelle considerazioni, quando l’ombra armata che gli vide apparire alle spalle le gelò il sangue.
Levi.
Non doveva essere stato solo un pensiero, doveva averlo gridato perché vide il capo dell’uomo voltarsi appena verso di lei e fissarla, prima puntare l’arpione verso il nemico e trafiggergli le carni per tirarlo dritto verso la sua lama. Tallulah fissò pietrificata il suo volto deformato in una maschera d’odio; se si fosse girata verso i suoi compagni avrebbe letto lo stesso sbigottimento.
«Inseguiamo la carrozza» ordinò loro, una volta liberatosi del corpo di quel soldato.
«Signorsì». Mikasa fu l’unica a rispondergli e la squadra si riunì in quell’inseguimento.
«Ascoltate: quelli sono esperti nella lotta antiuomo, hanno già ucciso tre dei nostri. Non possiamo esitare, uccidete alla prima opportunità, ci siamo capiti?»
Levi osservò la squadra disperdersi mantenendo abbastanza distanza da tenere tutti sotto controllo: si sentiva incredibilmente teso. Se quegli uomini erano sotto il comando di Kenny non sarebbe stato facile riprendersi i mocciosi ed aveva già perso abbastanza persone quel giorno. Lui stesso aveva faticato ad uscirne vivo. Lo sguardo scivolò su Tallulah e un sibilo gli rimase incastrato in gola. Iniziava a pentirsi di averla presa nella sua squadra, l’aveva messa in pericolo più di quanto già non fosse. La seguì mentre si librava tra un ostacolo e l’altro, gli occhi fissi sul biondino nel carro, e risentì quell’irritazione di poche ore prima. Stava per superarla quando la vide tirare il cavo uncinato e scendere in picchiata verso il carro. Jean era sotto tiro.
Non faccio in tempo..!
Uno sparo risuonò nell’aria e gli si drizzarono i peli sulle braccia. No, lei era viva, era stato Armin a sparare con un braccio tremante; Tallulah fu sul carro due secondi dopo e ricambiò lo sguardo disperato del biondo prima di tentare di prendere le redini. Non potevano fare altrimenti, Levi l’aveva messo in chiaro: o loro o noi. Riuscirono ad avere il controllo solo per qualche minuto. Altri rinforzi nemici arrivarono da ogni lato e furono costretti a ritirarsi, lasciando Eren ed Historia nelle loro mani. Tutta la squadra rimase ad ascoltare le urla di Mikasa, scambiandosi uno sguardo impotente.  
 
Si erano rifugiati in un enorme deposito merci per mangiare qualcosa e riposarsi. Non era stata una conversazione facile da ascoltare, quella tra Armin, Jean e Levi. Non dopo aver passato quasi tre quarti d’ora a reggere la testa all’amico mentre vomitava tutto quello che aveva in corpo. La straziava non poter alleggerire il peso che d’ora in avanti avrebbe dovuto portare sulle spalle. Cosa si provava ad uccidere una persona? Era davvero necessario? Le parole di Levi le avevano evocato sentimenti contrastanti: se una parte di lei gli dava ragione, l’altra era gelata dalla sua indifferenza. Venire a patti con la morte ti trasformava il cuore in un masso di granito, questo lo sapeva; ma allora quanta morte aveva visto Levi per arrivare a questo? Accarezzò i capelli dell’amico che si era addormentato sulle sue gambe, gli occhi ancora gonfi e il colorito pallido. Era stato difficile farlo smettere di tremare, ma Tallulah sapeva che doveva assolutamente riposare o sarebbe crollato definitivamente. Perciò aveva fatto quello che lui faceva sempre quando veniva presa dal panico, l’aveva stretto e gli aveva sussurrato nell’orecchio ciò che pensava.  
Non sei cattiva, Tallulah. Sei sempre tu, la mia Tallulah.
Non sei un mostro. Sei sempre Armin, il mio Armin.  
Sospirò e osservò gli amici rannicchiati contro i sacchi di farina per cercare un po' di calore; solo lei e Mikasa erano sveglie e mute, persino i prigionieri della compagnia Reeves dormivano, legati alle botti di legno sparse qua e là. Si scostò in silenzio, spostando il più delicatamente possibile la testa di Armin sul suo zaino. Si alzò in piedi e gli occhi di Mikasa si sollevarono vuoti su di lei. Le si avvicinò accovacciandosi al suo fianco sulle punte dei piedi e le carezzò una guancia con sguardo mesto. Sapeva che era inutile dirle di dormire, senza Eren si sentiva persa, e di certo lei era l’ultima persona che poteva insistere.
Voleva uscire da lì. Voleva cercare Levi. 
Non le ci volle molto prima di scorgerlo sotto la fioca luce lunare: era seduto su una cassa di legno, il fucile in spalla e lo sguardo rivolto verso il cielo.  
«Capitano» mormorò, ma lui non diede segno di averla sentita. Fece altri passi verso di lui e lo chiamò ancora, piano, quasi timorosa di disturbarlo. L’uomo seguitò a non rispondere e Tallulah tacque, alzando la testa e seguendo lo sguardo dell’uomo. La notte era serena, ma non si vedevano molte stelle.  
«Posso sedermi?». 
La ragazza fu sollevata nel non sentire risposta; sapeva che se non l’avesse voluta l’avrebbe rispedita dentro senza troppe cerimonie. Quel pensiero le fece domandare che cosa il soldato provasse davvero nei suoi confronti: tra di loro c’era sempre stato quello strano senso di familiarità e prima che la baciasse credeva fosse unilaterale. Però quel bacio...Per quanto provasse a negarlo, c’era stato e non passava giorno in cui non si chiedeva perché? Si sedette al suo fianco, sfiorando appena la sua gamba con la propria, e voltando il capo verso di lui. Le ciocche corvine ricadevano morbide sugli occhi, la linea delle sopracciglia curvata in una piega dura. C’era qualcosa di strano, lo percepiva. Il suo primo impulso fu di toccargli il braccio, ma lo trattenne perché aveva paura di infastidirlo. 
«Perché non stai dormendo?».
Levi parlò all'improvviso e la sua voce bassa la fece quasi sobbalzare.
«Potrei farti la stessa domanda» rispose, giocherellando con l’orlo della manica. Poi si morse un labbro, pentendosi. «Scusa-scusi. Non riuscivo a dormire».
«Quindi hai pensato che venire a rompermi i coglioni fosse un buon rimedio contro l'insonnia?». Tallulah alzò gli occhi al tono aspro dell'uomo e lo trovò a fissarla impassibile. Forse era la prima volta che le parlava a quel modo: non che Levi fosse un esempio di cordialità, ma non era mai stato così rozzo o almeno non con lei. Stranamente non ne fu toccata e resse il suo sguardo distante.  
«Sì», disse semplicemente «La sua presenza mi tranquillizza». 
Nessuno dei due mosse un muscolo. 
«Beh, non sono un fottuto peluche» 
«Lo so. Altrimenti la starei già stritolando nel sonno».  
Tallulah arrossì mentre lo disse e si schiaffeggiò mentalmente. Levi ruotò gli occhi con un sospiro irritato «Sei fottutamente molesta, mocciosa».  
L’uso familiare di quel nomignolo le fece rilassare i muscoli, come se sottintendesse una sorta di contorto affetto. Decise di provare a spingersi un po' più in là.  
«E lei è scontroso come un vecchio zio, Capitano > 
«Tch. Non vale nemmeno la pena offenderti»  
Levi la guardò aggrottare la fronte e guardarlo come se le avesse detto che il suo giocattolo fosse un vero schifo rispetto al proprio. Si accigliò; ci teneva così tanto alla sua opinione, a stargli attorno? Levi chiuse gli occhi per qualche secondo: era stanco di combattere, in tutti i sensi.  
«Non prendere tutto così seriamente». 
Tallulah tacque e per un po' nessuno dei due parlò. Lo stridio di alcuni grilli era l’unico suono che si sentiva.  
«Anche da piccola faticavo a dormire». Levi rimase in silenzio, ma sentiva la sua attenzione su di sé e questo la spinse a continuare «I nonni le avevano provate tutte, per un periodo mi mandavano persino a letto con un paio di bicchieri di vino caldo».  
«Non esattamente la migliore delle ninne nanna» rispose l’uomo sommessamente. 
Tallulah tirò su le ginocchia e le circondò con le braccia «Suppongo di no». 
«Com’erano?» le chiese e Tallulah nascose un sorriso dietro le gambe. 
«Mia nonna era una chiacchierona sempre allegra, ma se facevo qualcosa di sbagliato era lei quella di cui avere paura. Mio nonno era silenzioso come un topolino, ma buono come il pane. Non mi ha mai sgridata...» la tremò appena la voce al ricordo dei suoi occhi dolci.  
«Non conosci i tuoi genitori?». 
Tallulah incrociò il suo sguardo, stupita.  
«Ti interessa sul serio?» 
«Non spreco mai il fiato per qualcosa che non mi interessa» rispose con tono monocorde, dimenticando l’assenza di formalità, e Tallulah sorrise tornando a guardare il cielo.  
«Non li ho mai conosciuti. Mia madre mi ha lasciata poco dopo la mia nascita e mio padre non so nemmeno chi sia; sinceramente non mi serve saperlo. Ho avuto tutto l’amore di cui avevo bisogno dai nonni e da Sadie che-» si bloccò a metà frase, sgranando gli occhi. Levi notò la luce agitata nei suoi occhi, proprio come quella volta durante il loro allenamento.  
«Cosa successe?» le domandò e la voce gli si era ammorbidita. Tallulah si morse un labbro e non osò guardarlo. Solo Armin conosceva quella parte della sua storia: se gli avesse raccontato tutto l’avrebbe disprezzata.
«Ti sei mai sentito...Come se fossi sott'acqua senza poter respirare, ma senza nemmeno affogare?» bisbigliò sotto lo sguardo attento del soldato «Quando penso a lei mi sento così». 
No. Lui non provava nulla, era arido come una landa abbandonata. Levi sentì un dolore sordo da qualche parte nel petto e un’immagine si proiettò nella sua mente. Dei capelli lunghi, delle dita gentili.  
Ehi, amore, vieni qui?
Tallulah abbassò gli occhi sul pugno improvvisamente serrato dell’uomo e quella strana sensazione le tornò di nuovo. C’era qualcosa che non andava. Allungò lentamente una mano con il respiro sospeso e gli sfiorò le nocche, tracciandone i contorni in una carezza leggera. Levi chinò la testa e fissò quelle dita su di lui: immaginò di aprire la mano e lasciare che scorressero sul suo palmo, no, lungo tutto il braccio, sul petto e poi sulla sua guancia, solo per verificare se fossero davvero dolci come sembravano. Quel dolore si intensificò e rilasciò un sospiro frustrato passandosi una mano tra i capelli. Voleva dimenticare quella giornata, no, voleva dimenticare la sua intera vita. Voleva fare l’egoista. 
«Levi» soffiò la ragazza, con una punta d'angoscia. Non aveva mai visto quel tormento nei suoi occhi «È successo qualcosa, vero?». 
D’improvviso lui fu in piedi e lei ritirò la mano, mordendosi le labbra. Aveva osato troppo? 
«Alzati» le ordinò e lei sentì le sue gambe obbedirgli senza indugio, ma con una punta di trepidazione: la sua espressione era impossibile da decifrare. Levi si avvicinò di un passo senza smettere di guardarla e sollevò una mano, scivolando dietro la sua nuca per sospingerle la testa verso di lui. A stento udì il suono di sorpresa che emise prima che la sua bocca lo soffocasse prepotentemente. Tallulah si sentì mancare le forze e lui le circondò la vita, come se le avesse letto nel pensiero. Chiuse gli occhi e mosse le labbra su quelle fredde dell’uomo con circospezione, quasi ad accertarsi che fosse reale; forse per quello stesso motivo cominciarono a tastarsi a vicenda, le braccia di lei risalirono sul suo collo, per poi accarezzargli l’undercut e infilare le dita tra i suoi capelli morbidi, mentre lui percorse la sua schiena, tracciandone la linea sinuosa. Qualcosa accelerò, il respiro o la fame, se la sentirono addosso mentre continuavano a mangiarsi le labbra, ansiosi di rubarsi il più possibile prima che quel momento finisse di nuovo. La spinse contro qualcosa di duro alle sue spalle e strinse la presa su di lei già fin troppo eccitato da quei baci: aprì la bocca e incontrò la sua lingua calda mentre tentavano di stringersi di più, come se fosse possibile. I baci divennero via via più irruenti e disordinati: Levi le carezzò i denti con la lingua e Tallulah gliela morse in una timida vendetta, quanto diamine ti ci è voluto, sembrava rimproverarlo e il soldato ringhiò nella sua bocca e le strinse la pelle tanto che le sarebbero venuti i lividi, attenta a come parli. Un languore sconosciuto si diffuse nello stomaco, mentre i baci di Levi scesero sul suo mento, sulla giugulare, prima che le labbra si chiudessero su un lembo di pelle in una brusca suzione. Tallulah ansimò e le sue mani scesero sui fianchi di lui: d’impulso mosse il bacino, strusciandosi sulla sua erezione e Levi si scostò di scatto con un sibilo strozzato. Sentendolo allontanarsi lei riaprì le palpebre e gli mostrò quello sguardo adorante e offuscato che era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Prese un respiro profondo, come per controllarsi: quella mocciosa sfrontata voleva di più e non se ne vergognava affatto. Lo guardava con le labbra gonfie e l’espressione sconvolta, sembrando tutto fuorché pura, come nel suo sogno. Lo faceva andare fuori di testa.  
«Cazzo» gli sfuggì e voltò il capo verso sinistra, liberandosi da quella tentazione. Tallulah non capì perché si fosse allontanato, aveva la mente annebbiata, ogni pensiero razionale annullato. Riusciva solo a percepire quanto lo desiderasse, totalmente e incondizionatamente. Anche lì fuori, nella notte, sotto gli occhi di chiunque.  
Che sta facendo? Perché non mi bacia ancora?  
Quei pensieri frustrati furono gli unici che raggiunsero la sua coscienza e cercò di richiamarlo da lei, posando le labbra sul suo zigomo e lasciando una scia di baci teneri e umidi fino al lobo morbido dell’orecchio. Stava per prenderlo tra le labbra quando una mano solida e decisa le si infilò tra le gambe, premendo con tanta forza sulla sua intimità che vacillò, serrando le cosce d’istinto.  
«Stai ferma, avida mocciosa» le ordinò con un sussurro rabbioso e Tallulah annaspò sotto i suoi occhi, adesso scuri come l’argento liquido; le pupille gli si erano allargate come quelle di un felino in piena caccia notturna. Levi cominciò a muovere la mano sfregandola duramente contro il tessuto dei suoi pantaloni e si bevette le emozioni che si susseguirono sul viso di lei ad una velocità impressionante. Tallulah aprì le labbra e contrasse le sopracciglia, divisa tra la voglia di abbandonarsi ad un gemito e quella di scansarsi da quel contatto quasi doloroso. L’uomo ruotò appena il polso e lei sentì fin troppo bene le sue dita arcuarsi e penetrarla leggermente.  
«Le-Le…» singhiozzò a bassa voce ed il soldato sentì un brivido scorrergli fino al bassoventre. Come doveva essere sentirla gemere il suo nome mentre la scopava dietro quel container? Quel pensiero si fece prepotentemente largo nella sua testa e dovette sforzarsi per non strapparle via l’attrezzatura e i vestiti di dosso. Dal modo in cui stava reagendo al suo tocco doveva essere la prima volta per lei e se da una parte questo lo spingeva a trattenersi, dall’altra lo tentava come un banchetto preparato apposta per lui. Tallulah si aggrappò alle sue spalle non appena sentì qualcosa incendiarle le viscere e i suoi fianchi presero a muoversi sulla sua mano, come se sapessero istintivamente cosa fare. Levi trattenne un ansito, rapito da quei movimenti e dai respiri spezzati che sentiva sul collo: comprese prima di lei quanto fosse vicina e scese a cercarle la bocca per soffocare i suoi gemiti. Un piacere totalizzante la colse impreparata e venne nei suoi vestiti, mugolando sulla lingua morbida di lui, il cuore martellante contro la gabba toracica e le gambe tremanti. Avrebbero sicuramente ceduto se Levi non l’avesse tenuta, mettendo fine ad un bacio languido che la lasciò sfinita e disorientata. La ragazza scese lentamente da quel picco d’artificio, riprendendo coscienza di ciò che la circondava e del corpo premuto contro di lei. Alzò gli occhi su quelli di lui e riprese fiato, ancora incredula per ciò che era appena successo.   
«È... È stato...». Tallulah perse la voce e raggiungeva la piena consapevolezza di quello che avevano fatto, che Levi le aveva fatto. Levi l’aveva toccata. L’uomo osservò la sua espressione sconvolta e si irrigidì.
«È stato cosa? Se cerchi tenerezza, favole o altre stronzate farai meglio a tirartene fuori. È così, prendere o lasciare».
La riccia increspò le labbra, presa in contropiede da quel tono ostile che la strappò dal suo intorpidimento. All’improvviso si rese conto che stava accadendo qualcosa di importante, più importante dei baci di un momento prima: ad un tratto ebbe paura. No, non una sola paura, tante paure tutte indefinite e accavallate. Poi però scorse il suo riflesso nelle iridi di nuovo azzurre dell’uomo e le venne voglia di baciarlo ancora.
«È troppo tardi» mormorò, emozionata e turbata allo stesso tempo «Ci sono dentro fino alla radice dei capelli». 
Levi la studiò, cercando segni di ripensamenti sul suo viso e quando non ne trovò rilassò le spalle. Stava per lasciarla andare quando lei lo bloccò.
«E tu?» gli chiese stringendo il tessuto della sua divisa e Levi sollevò impercettibilmente le labbra davanti alla sua espressione ansiosa. Qualcosa di lei aveva placato quel dolore al petto e capì che aveva proprio ragione: era troppo tardi.
«Sì. Anche io, mocciosa».
 
 
Could you take care 
Of a broken soul? 
Will you hold me now? 
Will you take me home? 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo tredicesimo ***


Capitolo tredicesimo
 

Un altro urlò lacerò il silenzio che si era creato negli ultimi dieci minuti;
Tallulah non aveva osato parlare da quando avevano sentito il primo. Era curva sul tavolo con il mento poggiato sulle braccia e gli occhi fissi sulla fiammella debole che illuminava la stanza. Cercava di concentrarsi sul quel tremolio e sul leggero calore che irradiava, un paio di volte era stata sul punto di cedere alle palpebre sempre più pesanti; poi però le grida strazianti la scuotevano fin nelle ossa e gli occhi tornavano vigili. La porta si aprì di colpo ed il Capitano entrò nella stanza, facendole sobbalzare il cuore nel petto.
«Hanje non è ancora arrivata?» chiese e quando i ragazzi scossero la testa, sbirciò l’orologio «Di sopra ci sono dei bagni, le tubature sono vecchie, ma funzionano. Andate a turni a fare una doccia».  
Le sembrò di essere invisibile perché non la degnò di uno sguardo e non seppe se esserne ferita o sollevata. O spaventata.
Levi stava torturando Djel Sannes con le stesse mani con cui l’aveva toccata nemmeno un paio d’ore prima. Eppure, benché le sue le sue dita fossero state rudi, sapeva che erano anche indulgenti e morbide. Le aveva sentite sulle guance, sul collo, lungo la schiena e-. 
Strinse le gambe, risentendosele quasi addosso.
No, per quanto poco lo conoscesse, era certa che non gli piacesse infliggere dolore. Soprattutto nell’ultimo periodo aveva cominciato a notare piccoli gesti che mostravano quanto, nel suo silenzio severo, si preoccupava per i suoi compagni molto più di sé stesso, quanto fosse attento ai bisogni dei suoi sottoposti. Ricordava la sua espressione quando gli aveva pianto addosso o quando si era arrabbiato perché non si era accorta della sella sistemata male. Non voleva che lei morisse, che nessuno morisse. Lui era gentile. Quel pensiero la rattristò perché nonostante tutto combatteva senza battere ciglio. Uccideva. Solo qualche ora prima aveva lacerato la pelle di chissà quanti soldati e non le era sembrata proprio la sua prima volta.
Sotto l’acqua della doccia Tallulah continuò a cercare di mettere ordine nella sua mente sovraccarica. Nonostante l’odore di stantio e gli asciugamani consunti, fu un vero sollievo togliersi di dosso quella sensazione di sudicio; erano in un vecchio casolare, non aveva idea di chi ci abitasse o ci avesse abitato, ma a quel punto gli agganci di Erwin non la stupivano più. Mentre indossava il cambio pulito che aveva nello zaino guardò il riflesso di Mikasa intenta a frizionarsi i capelli.  
«Pensi che quel tizio ci dirà dove sono Eren ed Historia?». 
La corvina alzò le spalle «Se continuano così non potrà durare a lungo» 
«Vorrei ci fosse un altro modo» mormorò Tallulah, chiudendo la fila di bottoni della camicia bianca. Odiava quelle urla.
«So a cosa stai pensando» rispose Mikasa con voce incolore «Ma è come quella volta, con Ymir. Eri pronta ad attaccare una tua compagna solo perché ci stava intralciando. È così, è la guerra. Rende inumani»
«So com’è la guerra» disse, stupendosi del tono stizzito che le uscì. Forse stava soccombendo sotto tutte quelle sensazioni contrastanti. Si costrinse ad addolcire la voce «Ma mi fa schifo».
Per qualche secondo ci fu silenzio, tanto che Tallulah pensò che la conversazione fosse finita lì.
«Anche a me» sussurrò tuttavia Mikasa «Ma Eren è più importante di tutto».  
Tallulah sgranò gli occhi e si voltò verso di lei, trovandole addosso tutta la tristezza che probabilmente aveva represso fino a quel momento. Con passi veloci la raggiunse e l’abbracciò, non curandosi del suo sussulto di sorpresa.  
«Lo troveremo. Alla fine, ci riusciamo sempre».  
La schiena Mikasa si rilassò e ricambiò quella stretta, rimanendo con il capo sulla spalla della riccia per qualche secondo. Tallulah chiuse gli occhi, sentendosi immensamente meglio ed allo stesso tempo sull’orlo delle lacrime. Per un attimo, l’idea di raccontarle tutto ciò che era successo con Levi le balenò nella mente. Forse sentirlo ad alta voce l’avrebbe aiutata.
«Ehi! State stringendo un patto d’amicizia senza di me?!» la voce indignata di Sasha, appena uscita dalla doccia, interruppe i suoi pensieri. Non fecero in tempo a girarsi verso di lei che si era precipitata su di loro e le aveva circondate.  
«Noo, sei tutta bagnata!» 
«Sasha! I vestitii».
Anche se solo per pochi minuti, si dimenticarono di guerre, morti e giganti.  
 
Era ormai l’alba quando lasciarono il rifugio. Le ore si erano susseguite velocemente da quando Hanje era arrivata, altrettanto velocemente lo sgomento aveva preso piede nelle loro espressioni non appena ascoltato le notizie che portava. L’unica nota positiva di tutta quella inquietante faccenda era che adesso sapevano dove si trovassero Eren ed Historia. Affrontare Rod Reiss, tuttavia, era un altro paio di maniche, soprattutto in una situazione come quella: erano praticamente diventati dei fuggitivi.
 
Ascoltare i suoni del bosco non le dispiaceva, anche se le fronde erano altissime e il sole vi penetrava solo in alcuni punti più radi. Ogni tanto si sentiva qualche cinguettio e il vento che soffiava tra le foglie.
«Fermiamoci qui».
La voce di Levi, poco più avanti a lei, sembrò propagarsi nel silenzio come un’eco. Erano arrivati in una piccola radura, la conformazione dei massi era favorevole per accamparsi per qualche ora e la fame cominciava a farsi sentire. I ragazzi cominciarono a sparpagliarsi, posando gli zaini sull’erba e scambiandosi qualche parola, e Tallulah tirò fuori la borraccia. Bevve avidamente, ascoltando il Capitano fare il punto della situazione.
«...E qualcuno dovrà andare in città per comprare da mangiare, magari riusciamo anche a raccogliere qualche informazione in più sulla situazione. Qui siamo fuori dal mondo».
Una lieve nota infastidita tinse le sue ultime parole e Tallulah si chiese se fosse lui a star diventando più espressivo o lei più abituata al suo modo di essere.
«Posso andare io. Ho un viso anonimo e passerei inosservato» si propose Jean e Levi lo fissò scettico. Era alto, giovane e attraente.
«No, se ci andassi da solo. Mikasa, Armin, andate con lui. Massima prudenza»
«Ricevuto Capitano» rispose la corvina scambiandosi con gli altri un cenno della testa. I preparativi durarono pochi minuti, non potevano perdere tempo. Poco dopo Armin si avvicinò a Tallulah sfiorandole un braccio.
«Vuoi venire anche tu?» le chiese e Tallulah accennò un sorriso. Anche in quella situazione Armin era sempre attento a lei, sapeva bene che le sarebbe piaciuto vedere la città, le avrebbe tirato su il morale anche se in veste di fuggitivi.
«Saremmo in troppi, è meglio non attirare l’attenzione. Sto bene, non preoccuparti» lo rassicurò, stringendogli la mano. Non le piaceva l’idea di allontanarsi da Levi; nella situazione in cui erano poteva succedere di tutto in ogni momento e non avrebbe tollerato non essergli accanto. Il biondo si limitò ad annuire, combattendo per mantenere un’espressione normale piuttosto che cedere al disappunto: eppure, ormai aveva capito. Ingoiò una spiacevole fitta e si costrinse a concentrarsi sulla missione.
«Mi raccomando, state attenti».
 
Levi stava pulendo il suo dispositivo con un panno in tessuto, quando li vide parlare dall’altra parte dello spiazzo. Le sue mani si fermarono e seguì il movimento di Armin sul braccio di Tallulah; non riusciva a sentire cosa si stessero dicendo, ma lei non si era tirata indietro, anzi, gli aveva sorriso e la mano aveva stretto le dita del biondo. Aggrottò le sopracciglia, distogliendo lo sguardo, tornando a sfregare il dispositivo con rinnovata forza. Tallulah era una distrazione. La missione, la squadra, Erwin, avevano bisogno della sua totale concentrazione. Eppure, Levi non riuscì a fargliene una colpa; tutto sommato, il suo comportamento era stato esemplare dopo ciò che era accaduto la sera prima, no, dopo il primo bacio che si erano scambiati. Non una parola, non una scenata, aveva continuato a stargli accanto, a stare attenta a lui. Gli ricordava Petra, la cui presenza confortante era stato qualcosa da cui si era sempre tenuto lontano. Con Tallulah non ci era riuscito.
Per un istante, il volto senza vita della ragazza si sostituì al cadavere di Petra.
Serrò la mascella e scacciò con violenza quei pensieri.
 
Tallulah posò l’ultima roccia e completò il cerchio per accendere il fuoco: ora doveva solo aspettare che Sasha e Connie tornassero con della legna adeguata. Levi si era allontanato per una veloce ricognizione, quindi era sola con i suoi pensieri. Si rialzò e batté le mani per sbarazzarsi di terra e polvere, ripensando agli ultimi avvenimenti, a come tutto stava cambiando velocemente. Avrebbero fatto in tempo a salvare Eren? Con Mikasa era stata così sicura delle sue parole, ma nel profondo non riusciva a fare pronostici. Prima l’ignoto era solo fuori dalle Mura, adesso sembrava circondarli ovunque andassero. Se avessero perso Eren, che possibilità avevano? No, no, non doveva cedere all’ansia, doveva essere positiva. Non avrebbero vinto se non ci avessero creduto.
La differenza è nel cuore.
Tallulah ripensò alla bambina che aveva salvato, le aveva promesso che sarebbe tornata a trovarla. Voleva davvero rivederla. Voleva continuare a stare con i suoi amici, voleva baciare ancora Levi. Perciò, dovevano vincere e vivere.
«..., ma continuavi a sbagliare strada»
«Potevi dirmelo! Sei tu che hai vissuto nei boschi, questi cespugli sembrano tutti uguali».
Le voci dei ragazzi interruppero il silenzio e Tallulah andò loro incontro per aiutarli con i rami.
«Spero che gli altri portino qualcosa di buono. Ho fame» si lamentò Sasha e Connie si portò una mano sullo stomaco.
«In effetti anche io»
«Non abbiamo molto, ma si può cucinare qualcosa» disse Tallulah, indicando con la testa il sacco marrone di fianco al suo zaino. «Non siete riusciti a cacciare nulla?».
«Figurati. Questo testone ha fatto scappare ben due lepri» bofonchiò Sasha, sistemando la legna. Connie le fece il verso e Tallulah ridacchiò. Quando riuscirono ad accendere il fuoco, la riccia lasciò che si occupassero del pasto e andò a cercare il Capitano.
 
Lo vide pochi minuti dopo vicino ad un grande tronco e ci mise un po’ a trovare coraggio per avvicinarglisi. Cosa le era permesso quando erano soli? Poteva parlargli normalmente? Poteva toccarlo? Inspirò per calmare il cuore troppo veloce; non era mai stata così tesa in sua presenza, nemmeno la prima volta che si erano incontrati in veste di Capitano e soldato. Si morse un labbro e si guardò attorno, giusto per precauzione, poi si affrettò verso di lui e lo scalpitio dei suoi passi veloci attirò l’attenzione di Levi. L’uomo si fermò e aspettò di vederla fermarsi al suo fianco, i capelli ricci legati in una mezza coda e due occhiaie violacee che lo preoccuparono. Da quanto non dormiva?
«Ciao», gli disse lei, sperando che quella voce stridula che le era uscita fosse solo una sua impressione.
«Non ci siamo appena incontrati, mocciosa. Non c’è bisogno di salutare»
«Giusto» ridacchiò a bassa voce, rilasciando l’aria che aveva trattenuto. Levi continuò a guardarla, notando le guance accese e gli occhi che si posavano ovunque tranne che su di lui. Era nervosa, glielo leggeva in faccia fin troppo chiaramente. 
«I ragazzi sono tornati?»
«No», scosse la testa «Sasha e Connie stanno cucinando qualcosa».
L’uomo annuì e la superò, facendole segno di seguirlo.
«Dove andiamo?»
«Ci dovrebbe essere un ruscello qui intorno».
«Come lo sai?»
«C’è odore di muschio bagnato».
Tallulah inspirò, facendo attenzione al profumo, ma non sentì nulla di particolare; qualche metro più in là, tuttavia, cominciò a sentire un suono scrosciante.
«Lo sento!» esclamò con un sorriso, affrettando il passo.
«No, non di là» la richiamò Levi, alzando gli occhi al cielo «A destra».
Quando sbucarono sulle rive del corso d’acqua, aprì le labbra in un sorriso. L’aria era più fresca, il rumore più forte e quel profumo adesso lo sentiva chiaramente.
«Stupendo» disse, già china a togliersi scarpe e calze, del tutto dimentica della tensione di prima. Abbandonò il mantello su un grosso masso con cui si aiutò a scendere nell’acqua, mentre Levi si sciacquava le mani e il viso, fissandola con la coda dell’occhio.
«Cerca di non romperti una gamba»
«Uccidiamo giganti, direi che posso arrampicarmi su dei sassi innocui» rispose noncurante e subito dopo rabbrividì al contatto con l’acqua. «È gelida».
Si lavò lo sporco dalle mani e là dove riusciva a raggiungersi senza bagnarsi troppo i vestiti, sospirando a quella sensazione di fresco.
«Vieni?» gli domandò infine, esitante.
«Non entro lì dentro, mocciosa» rispose Levi, continuando a guardarsi intorno attentamente.
«Perché no?»
L’uomo si rialzò e puntò gli occhi azzurri su di lei.
«Chissà che schifezze ci sono sul fondo» disse con una smorfia. Tallulah sorrise e riempì i palmi d’acqua un’ultima volta, bagnandosi i capelli e il viso. Poi, si affrettò a risalire le sponde del ruscello e lo raggiunse; si era seduto poco più in là e la cosa le sollevò le farfalle nello stomaco, voleva dire che non sarebbero tornati subito indietro. Poteva stare sola con lui ancora un po'.
«Non ti piace molto, vero?» gli domandò, prendendo posto al suo fianco, sull’erba.
«Cosa?»
«Vivere così. Accamparsi in un bosco».
Levi scrollò le spalle «A chi piacerebbe?»
«A me sì» rispose Tallulah, lasciando scivolare lo sguardo sui colori armoniosi davanti a loro. «Ma non da sola, sarebbe noioso».
Levi sollevò un sopracciglio, limitandosi a guardarla con espressione sarcastica.
«Tch. Dopo una settimana, pregheresti di tornare agli alloggi»
«Non sono mica schizzinosa come te» roteò gli occhi, per poi stringere le labbra e guardarlo con ansia. Di nuovo, cosa le era permesso dire? E fare? Aveva abbassato la guardia e l’idea di aver commesso un errore la terrorizzava. L’avrebbe perso?
Levi la fissò per un lungo istante, uscendo per un attimo da quella sorta di pace patinata in cui erano entrati. Era già successo che si sentisse così con lei, quando si trovavano da soli. Era facile stare con Tallulah, se ne rese conto pieno in quel momento. Non doveva sforzarsi, tutto filava con una naturalezza che forse non aveva mai provato. Una parte di lui desiderava che fosse lo stesso per lei, voleva cancellare quell’aria tesa con cui lo guardava da ieri sera.
«Non sai cosa vuol dire vivere senza le comodità a cui sei abituata».
Tallulah deglutì e tornò a respirare, sentendosi più leggera ed incomprensibilmente più felice.
«Tu sì?» domandò, riprendendo coraggio. Che gli avesse richiamato ricordi spiacevoli, Tallulah lo capì da come gli si irrigidì la postura. Nonostante ciò, continuò a fissarlo con aspettativa.
«Sì», rispose semplicemente Levi, senza nessuna espressione particolare. La ragazza socchiuse le labbra, esitando e riflettendo su cosa dire. Non sembrava tanto propenso a parlarne di più, ma non si sarebbe arresa così in fretta.
«Mi racconti?» mormorò ed il soldato incontrò il suo sguardo.
«No»
«E dai, non è giusto! Io ti ho parlato dei nonni, è il tuo turno adesso»
«Non credo proprio» rispose, senza più nessuna traccia dell’ironia di qualche minuto prima. Tallulah si morse l’interno della guancia, cercando di capire come potesse approcciarlo.
«Non devi dirmi tutto. Magari qualcosa su...» rifletté per alcuni secondo, pensando a qualche argomento che non fosse troppo intimo. C’erano delle dicerie su di lui che circolavano nel distretto, ma erano confuse e non le ricordava bene. «Magari qualcosa di divertente. Anche se la vita non doveva essere facile, ci sarà stato qualche momento divertente» concluse con voce morbida. Levi tacque e alzò gli occhi verso l’alto, forse cercando il cielo. Da lì, lo si intravedeva solamente. Tallulah non interruppe quel silenzio e si era quasi rassegnata ad una non risposta, quando la voce dell’uomo le arrivò quieta.
«Perché vuoi saperlo?»
«Voglio conoscerti» mormorò sicura «Voglio sapere di più su di te».
Di nuovo, un breve silenzio, stavolta interrotto da uno sbuffo lieve; Levi si passò le mani tra i capelli, portandoli appena indietro.
«Stai diventando una vera rompicoglioni» borbottò e Tallulah sorrise appena.
«Sì, me l’hai già detto»
«Ti racconto una storia e basta. Ok?»
«Ok» accettò immediatamente Tallulah e si voltò di più verso di lui, incrociando le gambe.
«Anni fa vivevo con due amici. Loro-»
«Come erano? Come si chiamavano?» chiese Tallulah, gli occhi sgranati come un gufo. Levi alzò gli occhi al cielo trovando quell’espressione alquanto divertente.
«Furlan e Isabel. Non mi interrompere» le disse, senza rendersi conto di pronunciare quei nomi per la prima volta dopo anni. «Isabel si era messa in testa di curare l’ala di un uccellino ferito e quell’esserino aveva presto cominciato a svolazzare per casa»
«Che bello! E cinguettava allegramente?».
Levi storse le labbra «Certo che cinguettava, era un uccello. Non solo, sporcava anche dappertutto, il pavimento era un fottuto porcile. Io e Furlan pulivamo tutti i giorni».
Tallulah sorrise, immaginandosi Levi a rimproverare la creatura come faceva con loro quando qualcosa era fuori posto.
«Un giorno non lo si trovava da nessuna parte ed Isabel frignava come una mocciosa. Solo alla sera lo scovò ai piedi del mio letto: aveva cominciato a farci su il nido».
Stavolta la ragazza non riuscì a trattenere una vera risata e si coprì la bocca con la mano.
«Che tenero, si era affezionato a te» lo prese in giro e Levi scosse la testa; sembrava più rilassato e lo sguardo di Tallulah si ammorbidì. Una parte di lei voleva chiedere di più su questi suoi amici, ma non lo fece. In quei mesi non aveva mai visto Levi con nessuno a parte Hanje ed Erwin e qualcosa le diceva che se non erano nella legione esplorativa, allora dovevano aver tagliato i rapporti. O erano morti.
Un brivido angosciante le percorse la schiena e sospirò, sporgendosi verso di lui e posando la testa sulla sua spalla.
«Dovresti dormire» mormorò il soldato, senza scostarsi da quel contatto, ma evitando di approfondirlo. La sentì scuotere la testa.
«Non riesco»
«Sei preoccupata?»
«Sì. Fuori dalle mura so cosa aspettarmi, ma ora... Vorrei sentirmi più preparata, sapere come agire».
Levi si soffermò a guardare lo scorrere dell’acqua.
«Non puoi sapere in anticipo come reagire a determinate situazioni» rispose, pacato «Devi fidarti delle tue capacità».
Tallulah sbuffò una risata vuota «Non è che ne abbia molte, posso s-»
«Ti sbagli» la interruppe «Non ti ho presa nella mia squadra sulla base del niente».
Tallulah corrugò la fronte e per la prima volta rifletté su quella questione: non si era mai chiesta veramente perché Levi l’avesse scelta, in realtà a parte gli allenamenti con lui, non aveva avvertito il cambiamento di squadra. Non era stata separata dai suoi compagni ed era abituata a fare tutto insieme a loro, quindi le era sembrato del tutto normale che rimanessero insieme. Che sciocca. Tallulah sollevò la testa e Levi incrociò il suo sguardo muto per parecchi secondi.
«Pensi che io sia forte?» sussurrò sotto l’intensità dello sguardo del capitano.
«No», rispose secco Levi «Ma vali molto più di quello che pensi. Devi smetterla di auto sabotarti. La tua morte non servirà a portare in vita nessuno. Cerca di svegliarti e tirare fuori quello che sei in grado di fare».
Il soldato vide lo sguardo di Tallulah farsi più duro e le labbra socchiudersi. Per la prima volta non riuscì a leggerle il viso e si chiese a cosa stesse pensando. Poi lei si sporse e premette le labbra sulle sue con forza. Non mosse un muscolo e dopo due secondi si staccò, sondandogli il viso con attenzione. Era vicina, tanto vicina che vi lesse ciò che aveva voglia di fare, lo lesse così chiaramente che sentì una morsa piacevole allo stomaco. Anche lui aveva voglia di farlo. Le afferrò la nuca e unì nuovamente le loro labbra, tastando i contorni di quella situazione anomala. Non c’era abituato. Era abituato a resistere, a soffocare i suoi impulsi, quello era familiare, quello era qualcosa che poteva controllare. Questo no, avere voglia di baciarla e farlo senza remore, gli faceva girare la testa. Nemmeno quello fu un bacio dolce, Tallulah stava iniziando ad abituarsi ai movimenti smaniosi, a prendere confidenza con quelle labbra sottili e quella lingua umida che giocava con la sua. Le sue mani avevano trovato posto sulle sue spalle e presto si era trovata in braccio a lui, a stringerlo e a sentire un paio di braccia attorno a sé. Una lotta per la supremazia, una gara a chi sentiva di più il sapore dell'altro. E quanto le piaceva il suo sapore e il suo odore, dio, avrebbe voluto imprimerselo addosso in modo da sentirlo sempre, ovunque andasse. Avrebbe voluto inspirarlo e trattenerlo dentro di lei. E a lui, quanto piaceva essere toccato così, che cosa strana, ed essere libero di toccarla, di sentire quanto fosse reale. Si separarono appena, per riprendere fiato e la ragazza lo fissò, seguendo con le dita la linea della sua mascella. Al vederlo sotto di lei che la guardava con occhi impassibili, come se non le avesse appena violato la bocca, non resistette; si spinse di nuovo su di lui e si infiammò nel non trovare nessuna resistenza. Le palpebre le si fecero nuovamente pesanti per il languore che le si diffuse all’altezza dello stomaco e chiuse gli occhi, insinuando le mani nel collo della sua maglietta. L’uomo sentì i muscoli delle spalle contrarsi al passaggio di quelle dita ed un pensiero cercò di bucare quel calore avvolgente. Dovevano fermarsi. Non era assolutamente il luogo, né il momento adatto. Trattenne un ansito quando Tallulah sfregò il bacino su di lui, probabilmente senza neanche esserne cosciente: come la sera prima, sembrava non avere alcun pensiero razionale e Levi doveva combattere contro lei e contro sé stesso per evitare situazioni disastrose. Di nuovo, Tallulah si strusciò sulla sua intimità e stavolta non poteva essere stato un errore: si staccò e la fissò in cagnesco.
«Attenta» ringhiò con voce pericolosamente minacciosa e Tallulah si leccò le labbra, di riflesso. Non sapeva perché, ma qualcosa di lui aveva acceso un fuoco nelle sue viscere, le sembrava più attraente del solito, forse per il modo in cui i capelli gli ricadevano disordinatamente sulla fronte o lo sguardo azzurro che sembrava volerla mangiare.  
«A cosa?» chiese, facendo la finta tonta, come se non sentisse il sesso di lui tra le sue gambe, come se quella sensazione assurda non la stesse facendo implodere. Un desiderio così accecante non l’aveva mai provato.
«Non sarò sempre così gentile, mocciosa. Alzati, forza».
«No».
Non voleva ancora alzarsi, non era passato così tanto tempo e non voleva perdersi neanche un minuto di ciò che le era concesso. L’espressione di sincero sbigottimento di Levi l’avrebbe anche fatta ridere, in un’altra occasione. Non l’aveva mai vista, forse nemmeno lui ricordava da quanto non ne emergeva una, eppure eccolo lì, con le sopracciglia arcuate, gli occhi azzurri aperti e attoniti e le labbra aperte in una o un po' schiacciata. No, evidentemente Levi si era troppo abituato a dare ordini e vederli eseguiti.
«Scusami?» la minacciò e fu come se l’aria attorno a lui si facesse più pungente.
«No», ripeté semplicemente Tallulah, stavolta con tono compiaciuto. Era la stessa persona che un’ora prima tentennava come un’idiota balbettando un ciao? Un secondo dopo, Levi ribaltò la situazione con un colpo di reni e la schiacciò contro l’erba, portandole i polsi sopra la testa con una mano, senza preoccuparsi di dosare la forza con cui li stringeva: la ragazza sentì un sassolino dietro la testa e stava per protestare, quando la bocca del soldato la troncò sul nascere, rubandole le parole e il respiro, il peso del suo torso sul petto di lei. Le succhiò le labbra e la lingua, trascinandola in un bacio che aveva la palese intenzione di mettere in chiaro le cose. Era lui che comandava, non Tallulah, e la ragazza scoprì che la cosa non solo non la disturbava, ma la eccitava ancora di più. Fin dove poteva spingersi? Fin dove poteva sentirlo? Moriva dalla voglia di saperlo. Levi sollevò appena la testa e osservò soddisfatto lo sguardo vacuo e le labbra gonfie ed aperte per riprendere quanta più aria potesse. Prima che potesse rendersene conto, si sentì afferrare per la mascella e voltare bruscamente il viso; Tallulah sentì il suo respiro caldo soffiare contro l’orecchio e subito dopo dovette soffocare uno squittio perché percepì chiaramente il morso che lasciò sul collo.
«Non cominciare cose che sai di non poter finire, mocciosa».
La sua voce arrivò ovattata a causa della foschia nella mente, ma fu sufficiente a farle sbattere le palpebre un paio di volte.
«Chi dice che non posso finirle?» ansimò, tendendosi verso di lui quando sentì la sua bocca chiudersi su un lembo di pelle.
«Io. Solo una mocciosa non capisce i propri limiti». 
L’irritazione che le salì a quella risposta si fuse con il piacere per il modo in cui scese ancora a succhiarle la pelle. Stavolta non riuscì a trattenere un gemito frustrato e si morse le labbra, perdendosi in quelle sensazioni. No, no, non voleva più essere la mocciosa ingenua ai suoi occhi. Ne aveva abbastanza.
«Beh-ngh. Ti sbagli» si costrinse a mormorare e Levi si sollevò nuovamente, permettendole di girare la testa ed incontrare i suoi occhi. Per qualche secondo si specchiarono l’uno nell’altro.
«Credi che ti permetterei di toccarmi se non sapessi cosa sto facendo?» esclamò, lampeggiante e con il cuore che batteva nelle orecchie come un tamburo. «C-Cioè, non so precisamente cos’è tutto questo, ma so che lo voglio. Quindi smettila di considerarmi una mocciosa».
Levi guardò quelle iridi miele sentendosi segretamente compiaciuto, ma non l’avrebbe mai ammesso. Adesso sì che quella mocciosa era in guai seri. Tutte quelle ridicole moine gli facevano venir voglia di strapparle i vestiti di dosso. Inspirò profondamente, trattenendosi, e le liberò i polsi, facendo poi leva sul terreno per tirarsi su.
«Andiamo».
 
Armin, Jean e Mikasa non erano ancora tornati dalla ricognizione. Levi era seduto vicino al fuoco con un gomito sul ginocchio, ogni tanto lanciava qualche occhiata ai ragazzi che chiacchieravano tra di loro. Tallulah era allegra, aveva gli occhi animati da una luce diversa: era stato incauto. Prima, al ruscello. Non avrebbe dovuto abbassare la guardia così tanto, baciarla a quel modo quando gli altri membri della squadra potevano vederli in qualsiasi momento. Si era lasciato prendere troppo, trascinato da tutta quella pioggia di calore, e a quanto pare era l’unico a preoccuparsene dato che quella mocciosa era completamente in balìa degli ormoni. Sembrava felice. Perché era felice? Perché lui le aveva messo le mani addosso? Abbassò il viso, le labbra strette, sentendosi disgustoso per quanto la cosa gli piacesse. Nonostante ciò, non poteva più permettersi un errore simile.
Doveva rimanere concentrato.
Per la missione, per la squadra, per Erwin.
Per lei. Non avrebbe perso nessun altro.

 
Ma ho paura che
Possa perdersi
Questo vivere
Sa confonderci
 


Ciao a tutti. 
Sono un mostro, lo so. 
Non solo sono uno, due, no, tre mesi in ritardo, me ne esco anche con un capitolo corto e un po' confuso. Chiedo venia.
E' un periodo di grandi cambiamenti, sto partecipando ad alcuni concorsi di scrittura e sono stata impegnatissima con le consegne. Però sono affezionata a questa storia e soprattutto ad una scena che ho in mente fin dall'inizio e che ancora si deve svolgere, perciò anche se passerà tanto tempo, conto di non abbandonarla! Grazie del supporto che mi mostrate, le visite continuano a salire anche dopo mesi e alcune di voi mi hanno anche scritto, vi ringrazio davvero. Spero che questo capitolo vi piaccia, mi sono davvero impegnata per finirlo e sono curiosa di sapere cosa ne pensate :)
Un abbraccio,
NanaK

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3895189