Déjà vu

di Watson_my_head
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


Sherlock e John si incontrano il 29 gennaio del 2010.

Questa ff si colloca temporalmente all'inizio della quarta stagione, dopo the Six Thatcher e prima di The Lying detective, che qui non avviene.

 

 

Déjà vu

 

"E se non tornasse. Se non ricordassi mai più."

Seguì un breve silenzio.

"In quel caso, ricorderò io per entrambi."

 

 

***

 

 

Prologo


 

Mary è morta. Dopo la sua morte John scopre che il matrimonio non era valido e che la bambina non è sua. Il vero padre, che aveva una relazione con Mary da un po' di tempo, si presenta un giorno all'appartamento di John per raccontargli ogni cosa e per comunicare la sua intenzione di riconosce la bambina come propria e di occuparsene. John gli regala tutto ciò che lui e Mary avevano comprato per la figlia, dopo essersi assicurato che si tratti di un uomo normale e non dell'ennesimo folle che gira attorno alla sua vita. Saluta Rosie un pomeriggio di maggio. Sa che probabilmente non la rivedrà mai più e va bene cosi perché anche se l'aveva amata come fosse stata figlia sua, segretamente si sente sollevato. Non può che vergognarsi per questo pensiero, ma la verità è che non aveva mai creduto di poter essere un buon padre.

Dopo un iniziale periodo di smarrimento, John si convince che la cosa migliore è tornare a vivere al 221B di Baker Street, perché restare solo in quell'appartamento da coppia "felice" che in realtà non lo è mai stata, da padre che non è mai stato, sta solo rovinando ulteriormente la sua vita. Dopo il lavoro infatti, finisce quasi ogni sera per bere, affogando tutti quelli che ritiene i suoi fallimenti nei bicchieri di scotch: il fallimento del suo matrimonio, il fallimento del suo ruolo di padre, il fallimento della sua amicizia con Sherlock che ha allontanato malamente accusandolo di colpe che non gli appartengono. La sua vita sta andando velocemente a rotoli. Ma quando Sherlock si presenta per l'ennesima volta a casa sua con la scusa di un caso e lo prega di tornare, John cede, accoglie finalmente quella richiesta e fa le valigie. Il contratto d'affitto della casa nuova viene annullato e quel quartiere abbandonato per sempre. John si ripromette di non tornarci mai più.

La vita al 221B ricomincia lentamente a prendere la forma della vecchia confortante routine. Sono giorni lunghi e difficili ma John è contento di avere qualcuno da cui tornare dopo il lavoro e una casa accogliente che non nasconde angoli di infelicità e fantasmi. Sherlock è il solito e John non può che esserne grato. Col passare dei mesi tra i due le cose iniziano a prendere una strana piega: si avvicinano, si cercano, si sorridono, più spesso di quanto non sia mai accaduto. Non c'è ancora niente in realtà, ma è un niente a cui manca davvero poco per diventare qualcosa, basterebbe anche solo allungare una mano e John sente che forse per la prima volta nella sua vita rischia di essere felice. Anche se ha fottutamente paura.

Poi, in un giorno qualunque di questa nuova meravigliosa routine, durante un inseguimento Sherlock scivola in un vicolo e sbatte la testa in modo così violento da rimanere a terra incosciente.

Siamo a settembre del 2017.
 

***

 I 

 

Il giorno in cui Sherlock perse la memoria era un martedì di fine settembre, di quelli in cui a Londra sembra già pieno autunno più che fine estate. Accadde tutto in modo così veloce che a pensare alle conseguenze che portò, sembrava impossibile. Eppure.

L'inseguimento, il selciato bagnato, quello spigolo di muro comparso forse all'improvviso, il sangue. E poi l'incoscienza, la corsa all'ospedale, i giorni e le notti di angoscia. John credette di impazzire seduto su quella scomoda poltrona per un tempo che gli sembrò infinito, il conto delle ore tenuto solo dal bip meccanico del cuore di Sherlock e dalle lancette rumorose di un vecchio orologio a parete. Il trauma cranico era severo, ma fortunatamente non così tanto da mettere in pericolo la sua vita. Nonostante questo però, sembrava che non riuscisse a svegliarsi o forse era solo l'attesa a dilatare enormemente i tempi. L'attesta, l'angoscia.

Poi un giorno, il settimo, Sherlock apre gli occhi.

 

*

 

Non è uno shock.

E' abituato a svegliarsi all'ospedale. Riesce a capire dove si trova pochi secondi dopo aver riguadagnato coscienza, ne riconosce l'odore. Accade anche questa volta. Dapprima l'odore di pulito misto a disinfettante, di quello che un po' fa venire la nausea, come se ce ne fosse ulteriore bisogno e poi le luci fredde dei neon. Chiaro. Una deduzione elementare. Il secondo pensiero è per suo fratello che questa volta non gliela farà passare liscia. Non è trascorso molto tempo dall'ultima overdose, forse un paio di mesi, eppure, per quanto possa sforzarsi, Sherlock non riesce a ricordare cosa sia accaduto e come. Forse non è la droga, forse è successo qualcos'altro che non dipende dalla sua volontà, forse... Poi lo vede. Tre secondi dopo essersi svegliato e dopo aver dedotto il maggior numero di informazioni possibili sulla propria situazione, Sherlock vede un uomo dormire scomodamente seduto sulla poltrona accanto al suo letto. Lo osserva. Nonostante il mal di testa incessante e lo smarrimento dovuto al risveglio non può fare a meno di provare a dedurlo. E' un uomo sui quarantacinque, i cui capelli una volta biondi hanno lasciato spazio quasi del tutto ad un grigio elegante. A giudicare dai vestiti sgualciti e dalla barba non curata Sherlock capisce subito che deve essere rimasto nella sua stanza a lungo.

 

*

 

Pensa subito ad uno degli scagnozzi di Mycroft, pagato per tenere sott'occhio il suo disgraziato fratello. Ma l'abbigliamento e quel modo di dormire quasi a proprio agio su una poltrona già solo all'apparenza scomodissima gli fa cambiare idea. Scarta anche l'ipotesi del poliziotto. Non è in divisa e anche se fosse in borghese non c'è motivo di tenere addosso gli stessi vestiti per giorni senza che nessuno si sia prodigato a dargli il cambio. Non è possibile. Un soldato probabilmente lo era stato, ma molto tempo addietro. Ne rimangono debolissimi indizi che forse solo lui e suo fratello sono in grado di cogliere in tutto il mondo. C'è anche qualcos'altro. Le mani, una sotto la testa e l'altra adagiata su una gamba sono piccole ma forti e ben curate. Tutta la sua figura, seppur al momento trascurata, trasmette un senso di familiarità e sicurezza. Niente fede, ma deve averne indossata una per un po', divorziato quindi. Niente figli di cui occuparsi, nè animali domestici, altrimenti non avrebbe avuto modo di restare per tutto il tempo che i suoi vestiti mostrano così chiaramente. Chi è quell'uomo? Ogni cosa sembra dimostrare che sia lì perché conosce Sherlock personalmente. Ma Sherlock, dal canto suo, non l'ha mai visto prima.

Lo coglie un senso di malessere.

 

*

 

Quando anche John si sveglia, tutto sembra rimanere immobile per istanti che si dilatano lunghissimi, lunghi come i giorni già trascorsi. Si guardano. Il sollievo sul viso di quello sconosciuto si irradia come alba al mattino. Ha gli occhi blu, pensa Sherlock, prima ancora di registrare che quell'uomo si sta avvicinando con un'evidente gioia dipinta sul volto. Sherlock arretra, seppur di qualche centimetro, per quello che può. Un riflesso che compie il suo spirito di sopravvivenza, più che la sua volontà.

"Sherlock..."

L'uomo gli sfiora una mano. Sherlock sente il panico montargli dentro.

"Chi sei." - la voce resa rauca dal lungo silenzio.

John lo guarda, sembra ponderare alcune ipotesi, poi dice sconfitto:

"Non è divertente, Sherlock"

"Mi dispiace. Non so chi lei sia."

 

*

 

Passano alcuni istanti di sgomento e silenzio da entrambe le parti, per ragioni diverse.

"Sono io, John." - dice, come se questo bastasse a rimettere tutto a posto. E forse ci spera, quell'uomo.

Sherlock lo guarda, assente, come si guarda un'equazione difficilissima perfino da leggere. Scuote la testa.

"Sherlock, giuro che se stai scherzando, questa volta..."

Sherlock coglie l'irritazione nel tono di voce di quell'uomo insistente insieme ad una crescente disperazione mal celata. Non capisce. E non ama non capire.

John sospira, si allontana, fa alcuni passi nella stanza, passa una mano tra i capelli.

"Come ti chiami?"

"Sherlock Holmes, che domanda stupida."

"Qual è l'ultima cosa che ricordi?"

Sherlock distoglie lo sguardo. Osserva la finestra. Piove.

"Ho sete."

John si prodiga immediatamente per riempire un bicchiere di acqua e porgerglielo, aiutandolo a bere. Sherlock non è molto collaborativo, non ama assolutamente farsi toccare dagli sconosciuti, ma la sete è impellente e quest'uomo sembra irradiare sicurezza come fosse calore. Beve.

"Dimmi, cosa ricordi?" - la voce ingentilita.

"Stavo facendo un esperimento. David aveva appena detto che di quel passo sarebbe esploso tutto. Non ricordo altro."

John lo osserva incredulo.

"David... Chi è David."

"Il mio coinquilino."- dice, tornando a guardare lo sconosciuto che al momento sembra sul punto di un collasso.

"Il tuo... ? Io sono il tuo coinquilino, Sherlock. Io. John Watson."

L'irritazione crescente nella sua voce sarebbe chiara anche ad un sordo. Sherlock rimane a fissarlo.

"Io non ti conosco."

John sospira di nuovo. Lotta con la sua stessa rabbia per ingoiare parole di cui si pentirebbe. Si tormenta la fronte con una mano.

"Potresti soffrire di un'amnesia momentanea dovuta al trauma cranico.." - parla a voce alta ma forse solo con se stesso.

Medico? Sherlock lo aveva pensato quasi da subito. E' grato di non aver perso le sue capacità deduttive a causa di questo presunto trauma.

"Ok"- lo sconosciuto si riavvicina – "In che anno siamo?"

"2009" - Sherlock risponde deciso.

L'uomo si siede. All'improvviso sembra invecchiato di vent'anni.

 

*

 

Di nuovo, silenzi. Sherlock osserva quell'uomo in evidente stato di shock, bianco come il lenzuolo che lo copre fino al petto. Non sa come nè perchè, ma capisce di essere lui la causa di quel malessere. Vorrebbe rimediare.

"Io.."

"Siamo nel 2017, Sherlock."- la voce arriva stanca, lontana.

Sherlock ammutolisce. Non comprende. Chi è quell'uomo che vuole fargli credere di essere otto anni nel futuro? Perché lo sta imbrogliando? Perché nessun altro entra in quella stanza? Forse non è nemmeno un ospedale. Forse è stato rapito da quei trafficanti di droga a cui ha pestato i piedi che ora lo tortureranno per estorcere informazioni. Ma quali informazioni? Forse vogliono arrivare a suo fratello? Al governo? Trafficanti di droga che vogliono arrivare al governo? Forse le sue capacità deduttive non sono del tutto a posto.

Il bip frenetico dell'elettrocardiogramma lo tira fuori dal groviglio scomposto di quei pensieri. John è di nuovo accanto a lui, gli sussurra parole di conforto.

"Sherlock, calmati. Va tutto bene." - gli prende una mano. Sherlock la ritrae subito.

"Per favore non toccarmi."- il panico nella voce.

"Va bene, ma adesso ascoltami. Devi stare tranquillo ok? Vedrai che sarà solo un trauma passeggero e a breve recupererai ogni ricordo. Ecco bravo, respira."

Sherlock non sa chi sia quell'uomo. Non l'ha mai visto, ne è sicuro al cento per cento. Perchè una voce come la sua la ricorderebbe. Perchè un blu così intenso lo ricorderebbe. Una mano così gentile non saprebbe dimenticarla. No, non l'ha mai visto, mai incontrato.

"Io non ti conosco, non ti conosco..."

Quando arriva l'incoscenza è come una liberazione.

John lo guarda addormentarsi. Piangere non è contemplato al momento. Piangere non è mai contemplato. Piangere è inutile. Starà bene e tutto tornerà come era prima, come l'avevamo lasciato, dove ci eravamo fermati... Interrompe i pensieri per evitare di abbandonarsi alla commiserazione e poi esce a cercare un medico. La schiena dritta, il passo di un soldato pronto a combattere.

 

*

 

Amensia retrograda.

La diagnosi arriva dopo una serie di test che confermano l'ipotesi di John. Tuttavia quello di Sherlock sembra essere un caso piuttosto raro, un'amnesia che coinvolge tutti i fatti accaduti negli otto anni precedenti al trauma cranico.

"Il paziente è praticamente fermo al 2009. Le capacità cognitive non sono state intaccate fortunatamente, nè la proprietà di linguaggio. Non si riscontrano problemi di altro genere. Il trauma cranico è in via di guarigione. Purtroppo a oggi non esiste un trattamento specifico per curare l'amnesia, ma nella maggior parte dei casi regredisce in maniera spontanea entro 24 ore. Lo terremo in osservazione fino a domani, poi con i dovuti accorgimenti, potrà tornare a casa."

Mycroft ascolta il dottore in silenzio. John annuisce, scambia qualche altra parola con il collega prima che questo si congedi.

Mycroft fa qualche passo nervoso nel corridoio, sembra voler trattenere una domanda che comunque deve essere fatta.

"Convieni con me, John, che sarebbe il caso di portare Sherlock a casa mia domani?"

John lo guarda. Incrocia le braccia al petto.

"Perchè? Ha una casa. E io posso occuparmi di lui. Se gli tornasse la memoria mentre è a casa tua, il trauma potrebbe fargliela perdere di nuovo."- aggiunge un sorriso sghembo per nascondere l'ansia.

"Pensi che sia disposto ad andarsene con uno sconosciuto? Non sa nemmeno come ti chiami al momento."

"Lo sa."

"John..."

Tacciono. Quando John sta per rispondere un'infermiera li raggiunge.

"Il paziente è sveglio. Ha chiesto di lei." - guarda Mycroft che annuisce e si avvia verso la stanza. John lo segue. Quando Sherlock tornerà in sè sarà felice di sapere che non l'ho abbandonato, pensa.

 

*

 

Sherlock è seduto, la schiena e la testa poggiate al cuscino contro la testata del letto, gli occhi chiusi. Quando sente la porta aprirsi, sorride appena.

"Fratello, posso riconoscere il tuo passo anche dopo una botta in testa. Non so se esserne contento."

Riapre gli occhi per constatare che insieme a Mycroft c'è anche quell'uomo, John Watson.

"Lieto di vederti in forma, fratello mio."

"Sincerità? Ah, perdi colpi Mycroft."- lo squadra. "Ti ricordavo più giovane e con qualche chilo in più. Quindi è proprio vero, siamo nel futuro. Non ti ha giovato vedo."

Mycroft sorride appena. John è in silenzio. Nessuno trova la cosa divertente, nemmeno Sherlock.

"Sono qui per questioni urgenti che ti riguardano fratello mio. Viste le tue prossime dimissioni, domani pomeriggio al più tardi, io e il dottor Watson stavamo amabilmente discutendo sul tuo ritorno a casa. Il tuo ritorno in quale casa, precisamente."

"Ho una casa mia?"

"Certo."

"Allora tornerò a casa mia."

"Casa vostra, intendi"

Sherlock lo guarda. Mycroft sorride appena.

"La tua stanza è sempre pronta, come lo era otto anni fa, Sherlock."

"Dovrei commuovermi?"

Il tono si fa serio.

"E' anche vero che frequentare i posti che gli sono più familiari potrebbe accelerare il processo di guarigione e il regredire dell'amnesia. E io sono il suo medico. Posso tenerlo sotto controllo e monitorare i suoi progressi."

La voce di John è ferma, quasi non lascia spazio per repliche. Le braccia incrociate al petto, le gambe appena divaricate. Sembra aver preso una posizione da cui sarà inamovibile.

Medico, medico militare, senza dubbio.

Sherlock è confuso. Non riesce a capire perché suo fratello e quest'uomo fino a poche ore prima sconosciuto, sembrino litigare per la sua attenzione. Per averlo a casa propria. Lui che non ha amici e non ne ha mai avuti. Anche Mycroft solitamente somiglia più ad un nemico che ad un fratello, un nemico mortale per essere precisi. Anche se in fin dei conti si è sempre preso cura di lui, ogni qual volta ne ha avuto bisogno e soprattutto anche quando non gliel'ha chiesto, il che equivale a tutte le volte. Osserva le proprie braccia. La pelle candida non è costellata dai segni che era solito vedere, che dovrebbero essere lì ma che sembrano svaniti come grazie a un sortilegio benefico. Niente più droga dunque. Sembra quasi impossibile.

"Quindi sei il mio coinquilino e anche il mio medico."

Mycroft e John interrompono la loro guerra di sguardi e sorrisi sarcastici per voltarsi verso l'oggetto del loro contendere.

"Sono molte cose, Sherlock."- il tono è quello autoritario di poco prima, come se non avesse avuto tempo per cambiare verso qualcosa di più rassicurante.

Scende un silenzio che pesa come una cappa. John vorrebbe ritrattare e allo stesso tempo aggiungere. Sceglie di non dire altro e lasciare le cose così come stanno, già fin troppo complicate. E' Mycroft a liberare tutti dall'impasse.

"Dunque, vi conoscete da un giorno e andate già a vivere insieme. Dovrei congratularmi? Che déjà vu."- sorride al fratello, con sincerità, di nuovo.

Sherlock lo guarda, non capisce.

"Nè il vecchio me, nè questo apparente nuovo me vorrebbero venire a vivere sotto il tuo stesso tetto, Mycroft, ne sono certo. Quindi tornerò a casa mia, ovunque essa sia."

John sorride, sente un peso scendergli giù dalle spalle e depositarsi a terra.

"...E' a Londra, vero?"
 

***

 

Nota dell'autrice:
Ciao a tutti, si sono viva. Torno con questa storia che nasce dall'esigenza di buttare giù qualcosa in questo periodo difficile per tutti. Premetto che non sarà una storia lunga nè complicata, e che sarà a lieto fine. E' in parte già quasi tutta scritta ma non avrò una scadenza fissa nella pubblicazione. Ormai chi sa più cosa è una settimana? Tutti i giorni sono uguali...Quindi niente, spero vi piaccia e vi faccia un po' compagnia.
A presto!

 

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Capitolo 2
*** II ***


II





Quando Sherlock scende dall'auto l'aria fredda lo colpisce sul viso come uno schiaffo. Secondo quanto ricorda dovrebbe essere agosto ma chiaramente non è così. Non c'è una sola cosa vera in quelle rimaste impresse nella sua mente, o almeno, erano vere una volta, ora non più. Mycroft e John parlottano per qualche secondo prima che l'auto nera si allontani e sparisca dietro l'angolo. Poi John gli si affianca.

"221 B, Baker Street. E' qui che abiti, che abitiamo."

Sherlock, che è rimasto in silenzio a lungo, fin da prima di uscire dall'ospedale, non può fare a meno di pensare ancora che sia tutto molto strano. L'incidente, la perdita della memoria, suo fratello, quest'uomo sconosciuto che afferma di essere il suo medico e il suo coinquilino. Sembra tutto sbagliato. Anche la stagione è sbagliata. Quella via, le foglie a terra, l'aria fredda. Tutto è confuso e irreale. Sherlock sente di appartenere ad un altro tempo, ad un altra storia. Si sente perso, senza appigli. Solo.

E nel suo cervello, una minuscola parte di lui è ancora convinta che sia tutto un inganno anche se si è documentato, anche se ha passato un po' di tempo su Google a cercare di capire cosa sia successo nel mondo in questi otto anni. Otto lunghi anni in cui chiaramente ha vissuto, ma come un estraneo, fuori da sé.

"Qui abita anche Mrs. Hudson. L'ho aiutata a far condannare suo marito." - risponde quasi distratto osservando la porta che aveva già visto almeno un paio di volte.

"Esatto, è la nostra padrona di casa. Grazie proprio al tuo aiuto ci ha fatto un prezzo di favore."

John sorride. Sembra molto sollevato rispetto al giorno precedente. Sherlock lo guarda per un istante. Vorrebbe ricordare, ma a parte le poche cose che è riuscito a dedurre di lui, non sa altro. E' un perfetto sconosciuto e lui sta per andare a viverci insieme sotto lo stesso tetto. All'improvviso andare a stare da Mycroft non gli sembra poi così male.

John si accorge che qualcosa non va. Poggia una mano delicata sulla sua schiena e lo spinge appena verso la porta.

"Tornare a casa ti farà bene, fidati. Ci sono tutte le tue cose così come le hai lasciate prima di finire all'ospedale. C'è il tuo violino, i tuoi strumenti, la tua stanza. Puoi restare un giorno e vedere come va, ma puoi andare via quando vuoi, questo deve essere chiaro, Sherlock."

Quella voce rassicurante e il freddo pungente convincono Sherlock ad entrare. C'è sempre tempo per scappare via, pensa.

 

*

 

Anche Mrs. Hudson è invecchiata. Sembra addirittura più bassa di almeno un centimetro e mezzo, ma il suo sorriso è lo stesso e anche il suo profumo. Sherlock è sollevato di ritrovare qualcuno di familiare e si lascia abbracciare.

"Oh Sherlock, che hai combinato..."

"Sto bene. Mi ricordo perfettamente di lei."- le sorride.

"Ricorda tutti a quanto pare, tranne me." - scherza John, che tenta di nascondere con l'ironia un po' del suo disagio.

Sherlock lo guarda.

"Ci sarà qualcun'altro che ho conosciuto in questi otto anni, o ci sei solo tu?"

E vuole essere una battuta ma forse nemmeno poi tanto.

John stringe le labbra e sorride, forse imbarazzato, forse un po' grato che alcune cose siano state dimenticate.

"Saliamo?"

 

*

 

L'appartamento è accogliente, caldo, profuma di pulito. Il caminetto è acceso, le tende sono tirate appena e la luce obliqua del finire del giorno entra nella stanza e disegna quadrati sul pavimento. Sherlock resta in piedi sulla porta. Osserva. Forse sperava di avere un'illuminazione, di riconoscere ogni cosa nel momento esatto in cui avrebbe oltrepassato la soglia e invece, niente. Niente gli è familiare, nulla di quello che è nella stanza riesce a trasmettergli il concetto di casa.

"E' accogliente"- si sforza di dire, senza muovere un passo.

"Quella è la tua poltrona." - John indica una larga poltrona grigio scuro a destra del caminetto.- "Lì c'è il tuo violino e quello è il tuo pc. Riconosci qualcosa?"- la speranza nella sua voce è quasi commovente.

Sherlock guarda gli oggetti nell'ordine in cui gli vengono indicati. Passa un minuto, due.

"Solo il violino."- dice alla fine.

John distoglie lo sguardo verso il camino e Sherlock pensa che sia arrivato il momento in cui quella persona ancora sconosciuta getterà la spugna e lo lascerà solo al suo destino di uomo senza memoria. Non accade.

John si volta, come se dalle fiamme avesse riguadagnato forza e speranza, gli sorride.

"Ti mostro la tua camera. Vieni."

Sherlock lo segue senza nemmeno togliersi il cappotto e non può fare a meno di pensare, mentre attraversa una cucina piccola e in ordine che quindi esistono due camere da letto. Si rallegra internamente per aver almeno chiarito uno dei dubbi che lo attanagliava da quando si è risvegliato. John Watson non è il suo fidanzato. Non ha dimenticato un amore. Quest'uomo che ora lo guida alla riscoperta del loro appartamento e in fondo, della sua vita, non sta soffrendo un abbandono. Si sente sollevato.

 

*

 

La sua stanza è ancora più accogliente del salotto. Sherlock sospetta che sia stato tutto ben preparato, come su un set cinematografico. Una rappresentazione al meglio del 221 B di Baker Street che possa aiutare la sua memoria corrotta. Il letto è perfetto, lenzuola grigie con finiture nere, la luce calda e soffusa della lampada, le tende tirate.

"E' una bella stanza".

Si rende conto dell'asetticità dei suoi commenti, ma non riesce a trovare altro da dire.

"E' la tua, ci sono tutte le tue cose. Quelle lenzuola sono un regalo di Natale, te le ricordi?"- John non si rende più conto di aggiungere 'te lo ricordi' quasi alla fine di ogni frase. Sherlock vorrebbe dirgli che no, non ricorda niente e che è inutile chiederlo ogni 5 minuti, ma non vuole essere sgarbato con quest'uomo che sta solo cercando di aiutarlo. Forse era meglio andare a dormire da Mycroft. Non lo dice ad alta voce, ma lo pensa davvero.

"Quella è la mia tavola periodica"- indica il quadro appeso al muro a destra dell'ingresso.

"Si, te la ricordi?"

"No, ma ce l'avevo da prima, dall'altra casa."

John tace.

 

*

 

La sera arriva presto. Mentre Sherlock riposa un po' nella sua stanza, John seduto sulla sua poltrona con un libro tra le mani osserva il fuoco nel camino. E' stanco. Così tanto che vorrebbe addormentarsi e svegliarsi dopo una settimana, trovare tutto come era prima, non pensare più a niente. E invece pensa. Ripensa a lungo alla mattina dell'incidente, alla sera prima, a quegli accenni di complicità sempre più frequenti, a quelle gocce di felicità dilatate nei giorni. Pensa alla strada tortuosa che ha compiuto, agli ostacoli, Moriarty, Mary, quella bambina così adorabile e così estranea. Sherlock, sempre più vicino, sempre più suo. Alla serenità dei giorni e a quella delle notti prive di incubi, finalmente, dopo lunghi anni. Pensa a tutto questo. Una storia inziata sette anni prima che solo da poco aveva trovato le parole giuste per essere raccontata. E poi, come in un lungo ripetersi di avvenimenti, come la storia che è sempre nuova ma che non cambia mai, ecco che la serenità svanisce e tutto torna ad essere tormento. John indugia in questi pensieri forse anche troppo. Desidera bere. Non cede. Sherlock è vivo, è sano e dorme tranquillo nella sua stanza. E lui è lì per aiutarlo, per proteggerlo, come un soldato di guardia davanti all'ultima porta del castello. Non cede. Sherlock è vivo, e se non ricorderà lo costringerà a farlo e se ancora non ci riuscisse, ricorderà lui per entrambi e sarà abbastanza.

 

*

 

Quando Sherlock si sveglia sono le otto e mezza passate. Ha dormito solo un'ora ma si sente meglio. Indugia qualche minuto, godendo di quel silenzio, delle luci morbide, del tepore di quel letto così diverso da quello dell'ospedale e anche da quello della sua precedente vita. Sembra solo ieri. Osserva il soffitto provando ad immaginare quanti pensieri hanno affollato la sua testa in quegli otto anni, sdraiato come adesso in quello stesso letto. Cosa avrà pensato? Cosa avrà visto quell'altro se stesso? Sente uno sdoppiamento interno che lo confonde, sente di possedere un corpo in cui convivono due persone diverse, una nota, una del tutto sconosciuta. Quasi ne ha paura. Si chiede se ricorderà mai.

 

*

 

Alzarsi da quel letto non sembra un'operazione facile. Sherlock si sente intorpidito, nel corpo e nella mente. John, il dottore, ci ha tenuto a rincuorarlo quella stessa mattina, avvertendolo che questo stato di confusione e malessere potrebbe protrarsi per giorni a causa del trauma cranico e dei farmaci che dovrà continuare a prendere ancora per un po'. E Sherlock si sente sollevato di non aver perso improvvisamente le sue doti, la sua prontezza, la sua velocità di pensiero. Può sopportarlo per qualche giorno, questo si, ma una vita di mediocrità tra i mediocri no, questo non riuscirebbe ad accettarlo. Sente il cervello spento, sonnolento. Pensa alla droga. E' così strano non sentire il richiamo di una dose, sentirsi pulito. E' una sensazione che non provava da lungo tempo. Non sa se essere grato al nuovo se stesso o se odiarlo senza remore.

Il bagno è piccolo, caldo. La vernice oltre le piastrelle è di un verdino pallido, ricorda un laboratorio. Lo apprezza. C'è una vasca e sopra questa, la doccia. Non ha mai visto questo bagno in vita sua, ne è certo. Si spoglia davanti allo specchio.

Il viso è segnato da alcune piccole rughe di espressione che non ricordava di avere, intorno agli occhi, ai lati delle labbra. Gli sembra di aver compiuto un viaggio di otto anni nello spazio di un giorno. Si sente stordito. Si tocca il viso. La barba un po' incolta, le occhiaie, un grosso livido in via di guarigione sotto lo zigomo destro. Sul labbro inferiore il segno di un taglio ormai quasi rimarginato. E poi i capelli. Ricci lunghi e ribelli. Erano anni che non li portava così. Sono invecchiato, pensa. Ed è così ingiusto. Sente di aver vissuto alla cieca, senza godere di niente e di aver ottenuto solo il premio di consolazione, un viso segnato e qualche capello bianco, nient'altro. Abbassa lo sguardo sul lavandino e nel farlo vede una cicatrice quasi perfettamente tonda all'altezza dello sterno. Un colpo d'arma da fuoco. La sfiora. Forse sono morto e questo è il mio personale inferno, pensa, perché uscire vivo da un colpo come questo sarebbe stata un'impresa impossibile anche per Sherlock Holmes.

Si siede sul bordo della vasca, sopraffatto.

 

*

 

John ha sentito Sherlock alzarsi e ora è in cucina a preparare qualcosa da mangiare. Lo fa meccanicamente, come fosse una sera qualunque. Ma non è una sera qualunque. Sherlock è una persona del tutto nuova, regredita ad un momento ancora precedente al loro primo incontro. John non può fare a meno di pensare che forse è tutta colpa del karma, o forse è un regalo del destino. Per farli ricominciare da capo saltando tutto quello che c'è gia stato. Mentre apparecchia la tavola pensa che deve smetterla con queste sciocchezze.

Si sente solo.

 

*

 

John aspetta.

Aspetta a lungo ma Sherlock non si vede. C'è silenzio. Gli sarebbe del tutto naturale avvicinarsi alla porta del bagno, bussare, chiedergli se è tutto ok, fare qualche battuta stupida, infastidirlo. Adesso no. Adesso sa che ogni mossa deve essere ponderata cento, mille volte. Spaventarlo, mettergli pressione addosso non è un'opzione. Non potrebbe accettare di vederlo andare via. Aspetta ancora un po'.

Sherlock è seduto sul bordo della vasca. Sente di nuovo la stanchezza impossessarsi di lui. E la frustrazione risalire dallo stomaco e invadergli il cervello. Non può fare a meno di pensare ancora che sia tutto un imbroglio, che sia l'agosto del 2009, che ci sia quell'esperimento da finire, di notte, quando quel rompicoglioni di David sarà andato a dormire. Si chiede che fine abbia fatto, se sia davvero morto alla fine.

Qualcuno bussa gentilmente alla porta, due volte.

"Sherlock?"

La voce del dottore sembra spaventata, forse ha solo paura di disturbare.

"Si"

"Ho preparato la cena, dovresti mangiare qualcosa."

"Va bene"

"Ti aspetto, quando vuoi."

Lo sente allontanarsi. Apre l'acqua della doccia.

 

*

 

Sherlock cerca nei cassetti un pigiama. Ne apre due prima di trovare il cassetto giusto e constatare che almeno i suoi gusti sono rimasti gli stessi, forse sono addirittura migliorati. Si chiede se sia ricco e lo appunta tra le cose da chiedere al dottore. Poi va in cucina.

John è seduto, sta scrivendo un messaggio a qualcuno, forse a Mycroft. Quando alza lo sguardo gli sorride.

"Quello è il tuo pigiama preferito"

"Questo?"

"Si"

"Non mi stupisce."- attende qualche istante – "Sono ricco?"

John scoppia in una fragorosa sincera risata.

"No Sherlock. Ma diciamo che puoi disporre liberamente di una certa quantità di denaro. E a volte i clienti ci pagano molto, molto bene."

Sherlock resta in piedi. Si guarda attorno. Clienti? Ci pagano? La cosa si fa strana e imbarazzante.

"Clienti? Che tipo di clienti."

John gli sorride, reclinando un po' la testa di lato. Sembra intenerito.

"Ho pensato ad un modo veloce per metterti al corrente di molte cose." - fa un respiro che gli innalza il petto, sembra molto fiero di ciò che dice - "Così il mio continuo bloggare sui nostri casi sarà più che utile, a dispetto di quanto tu continui ad affermare."

"Sono confuso. Sei un blogger?"- quante cose è quest'uomo.

John sorride – "Siediti per favore, mangiamo. Ti dirò ogni cosa."

Ti dirò ogni cosa è la frase perfetta per accalappiare uno Sherlock Holmes. E John lo sa bene.

Sherlock si siede, gli occhi attenti.
 

***
 

Nota dell'autrice:
Eccomi qua con il secondo breve capitolo di questa mini ff. Piccolo Sherlock è un po' frastornato, chissà se John riuscirà a fargli tornare la memoria...
Qui invece i giorni proseguono tutti uguali ed io spero che stiate bene. Restiamo a casa, scriviamo ff, facciamo puzzle, balliamo, insomma, intratteniamoci che prima o poi ne verremo fuori. 
Io intanto spero di farvi almeno un po' compagnia con questa storia.
A presto!

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Capitolo 3
*** III ***



 

III





Quando Sherlock si siede a tavola con la solita grazia che lo contraddistingue, John non può fare a meno di sentire una stretta alla bocca dello stomaco. E' da quando si è risvegliato che cerca di nascondergli il disagio, la paura, e sì, anche la tristezza. Si chiede se Sherlock abbia già dedotto da solo tutte queste cose o se può fare affidamento sulle sue capacità momentaneamente ridotte per nascondere le proprie emozioni. Non ne ha idea.

Mangiano in silenzio per qualche minuto.

"Ti piace?"

"E' uno dei miei piatti preferiti"

"Lo so. Per fortuna non sei mai stato di molte pretese perché io non sono un grande cuoco."- sorride.

"Quindi c'è qualcosa che non sei."

John abbassa lo sguardo sul suo piatto. Pollo con verdure e riso basmati, una sciocchezza da preparare. Non risponde, si limita a sorridere bonariamente, infilzando una zucchina.

"Sui documenti dell'ospedale ho visto che ti firmi John H.Watson. Per che cosa sta la H.?"- chiede Sherlock, quasi distrattamente.

John posa la forchetta sul piatto, appoggia un gomito sul tavolo e lo guarda. Tormenta le labbra con le dita, sorride un po' incredulo, scuote la testa. - "Questo non lo avevo messo in conto, no."

"Questo cosa?"

"Lascia stare."

Sherlock attende qualche secondo prima di rispondere: "Henry?"

"No."

"Humphrey?"

"No, Sherlock"

"E' Higgins, giusto?"

"Basta!"

Si schiarisce la voce subito dopo. "Mi dispiace. Devo abituarmi a questo nuovo... rapporto. Scusami."

Sherlock non viene di certo spaventato da quel cambio repentino di modi, ma si tira appena indietro e sbatte le palpebre forse qualche volta in più del necessario.

"E' Hamish, comunque. Mi dispiace, è che a volte sai essere petulante."

Sherlock lo vede sorridere e non comprende come associare quella specie di critica ad un sorriso amichevole. Le persone di solito lo mandano a quel paese, non sorridono con affetto dopo averlo insultato. Quest'uomo forse è davvero mio amico, pensa incredulo. Reprime una voce che dal fondo di un pozzo gli sussurra maligna che lui non ne ha di amici.

"Ti prego mangia, non farmi sentire stupido e anche un pessimo cuoco"- lo incalza John indicando il piatto con lo sguardo.

Sherlock annuisce, inizia a mangiare.

"Dopo cena potrai leggere alcuni dei nostri casi più importanti, quelli di cui ho raccontato nel blog. Ci sono molte cose, anche la prima volta in cui ci siamo incontrati al St Bartholomew's -"

"Al Barts? Ci siamo conosciuti lì? C'è ancora Molly Hooper? E poi quali casi?"

"Con calma Sherlock, una cosa per volta. Si, ci siamo conosciuti lì e si c'è ancora Molly Hooper, ora dirige il suo reparto. E' molto utile quando hai bisogno di informazioni ed è una tua amica."

"Amica? Molly Hooper?"- Sherlock distoglie lo sguardo. Molly Hooper era chiaramente innamorata di lui, almeno nel 2009. Gli era bastato incrociarla due volte all'obitorio per capirlo e comunque non ci voleva mica un genio. Si vedeva a chilometri di distanza e lo sapeva praticamente tutto l'ospedale. Sherlock si presentava all'obitorio e lei non era più in grado nemmeno di camminare dritta. Imbarazzante. Si sarebbe aspettatto piuttosto che lo odiasse, quello si, visti i suoi comportamenti poco educati, che ammetteva di avere con lei, ma che fossero amici no, questo valicava ogni più fervida immaginazione.

"Si lei. Non cominciare con questa cosa che non hai amici perché non è vero. Possiamo andare avanti?"

Sherlock lo guarda in silenzio. Sta parlando con un uomo di cui non sa praticamente niente che invece sembra sapere tutto di lui. Il fastidio cresce silente.

"Scusami se non ricordo nulla delle cose di cui parli. Per quanto mi riguarda è agosto del 2009, vivo in un appartamento orribile con David, un idiota complottista che crede che il governo cerchi di ucciderlo con il vaccino antinfluenzale e che invece probabilmente, direi al 78%, morirà di cirrosi epatica, anzi, probabilmente è già morto; ho un fratello asfissiante che mi perseguita a causa di...cose che faccio e che non dovrei fare e che a quanto pare ho smesso di fare e so per certo che no, amici non ne ho. Solo nemici. Gente a cui metto i bastoni tra le ruote, persone che ho fatto arrestare, assassini, delinquenti. Questo è quello che so. Quindi scusami se non riesco a stare dietro ai tuoi discorsi, tanto più che giri un sacco con le parole ma non arrivi mai al punto. Puoi essere più diretto John Hamish Watson? Che cosa facciamo insieme? Cosa siamo? Colleghi?"

John lo guarda colpito. E' la prima volta da quando si è risvegliato che lo sente articolare un discorso così veloce e con così tante parole. E' sollevato, quasi felice, perché questo, nonostante la durezza di quello che gli è appena stato vomitato addosso, significa che il cervello del suo brillante Sherlock sta tornando alla normalità. A breve potrebbe ricordare tutto. C'è solo da essere pazienti.

"Amici"- risponde, - "Coinquilini, colleghi, amici, migliori amici. Tu sei un consulente investigativo, io sono un medico, la tua spalla, compagno di avventure. Insieme risolviamo casi particolari, quelli che attirano la tua attenzione. I clienti vengono qui, noi li riceviamo, tu ascolti, io scrivo, tu deduci, io...beh io non so bene cosa faccio ma tu dici che sono indispensabile e che saresti perso senza il tuo blogger e quindi io resto. Siamo noi due contro il resto del mondo, Sherlock. Sono parole tue." Poi tace.

Sherlock ammutolisce. Vorrebbe dire qualcosa, inspira forte, tace anche lui.

 

*

 

"Un consulente investigativo, l'unico al mondo. L'ho inventato io."

"Esatto."

Dopo qualche minuto di silenzio in cui la polvere della rabbia si sedimenta, Sherlock torna a parlare.

"Dunque lavoriamo insieme."

"Si e a volte collaboriamo con New Scotland Yard quando loro brancolano nel buio, che equivale a sempre."

"Che equivale a sempre."- dicono all'unisono.

Segue un momento di silenzio in cui John sorride e Sherlock abbassa lo sguardo. John vorrebbe prendergli una mano. Non lo fa.

"Graham Lestrade, c'è ancora?"

"C'è un Gregory Lestrade, Greg per gli amici. Non so chi sia questo Graham."

"E' una battuta?"

"Si Sherlock, puoi ridere..." - John sembra aver dimenticato del tutto la tensione di poco prima. Sorride apertamente.

Sherlock lo guarda. Si accorge solo adesso che indossa un maglione blu praticamente dello stesso colore dei suoi occhi. Schiarisce la voce.

"Anche lui è tuo amico, comunque."

"Lestrade?"

"Farai così ogni volta che ti dirò che qualcuno è tuo amico? Si, Lestrade, proprio lui."

Sherlock si zittisce di nuovo.

"Capirai meglio quando leggerai il mio blog. C'è anche il tuo blog, La scienza della deduzione, ma dubito riuscirai a trovare qualche dato interessante sulla tua vita. Ci sono solo ricerche scientifiche."

"Lo so. Ho appena... avevo appena pubblicato un articolo su come riconoscere la cenere di diversi tipi di tabacco."

"Lo so Sherlock."- John gli sorride. - "Sai, ha ragione tuo fratello. Mi sembra di vivere in un continuo déjà vu. Anche io sono tornato indietro nel tempo."

"Non capisco. E comunque mio fratello non ha mai ragione."

"Non importa."

Passano pochi istanti di silenzio.

"Secondo Alan Brown, uno psicologo della Southern Methodist University di Dallas, esistono trenta possibili spiegazioni scientifiche del déjà vu classificate in quattro sottogruppi: spiegazioni puramente neurologiche come ad esempio l'epilessia, la teoria del processamento duale ovvero la memoria che coinvolge due distinti sistemi neurali, ricordo e familiarità, la teoria attenzionale cioè frutto di una doppia percezione che prevede un piccolo black out iniziale e immediatamente dopo l’informazione riprocessata e teorie mnestiche ovvero qualcosa che abbiamo visto o immaginato prima nella vita cosciente o in un sogno. Quindi John..."

"Sherlock...Sherlock basta, ho capito. Non ho nessuna di queste cose, dicevo così per dire. Ok?"

"Oh, ok."

 

*

 

Sherlock finisce lentamente di mangiare quello che c'è nel suo piatto anche se la verità è che non ha fame, ma per qualche motivo che gli rimane oscuro non se la sente di offendere John rifiutando la cena. Dopotutto è l'unico contatto che ha con il mondo moderno, con il suo nuovo sé ed è anche la prima persona che ha visto dopo essersi svegliato. Si allontana col pensiero andando ad esplorare vecchie reminiscenze sull'imprinting animale come forma di apprendimento precoce in grado di influenzare lo sviluppo di un soggetto e inizia ad elaborare una teoria applicabile alle relazioni umane analizzando due tipi diversi di imprinting, uno filiale, relativo agli individui da cui il soggetto verrà allevato, ed uno di tipo sessuale relativo a quelli con i quali è possibile riprodursi. Interrompe bruscamente il flusso di pensieri su quest'ultima idea.

"Sherlock?"

"Mh?"

"Stai bene? Hai mal di testa?"

"No, sto bene, stavo pensando."

"Ok, bene. Significa che sta tornando tutto alla normalità." - John gli sorride.

Il suo sorriso è sempre rassicurante. Sherlock lo annota da qualche parte nel suo palazzo mentale in rovina.

"Quindi, sembra che io abbia un sacco di amici."

"Adesso non esageriamo. Non sei l'anima della festa ecco, ma si, hai degli amici che tengono a te. Alcuni più di altri."

Sherlock lo fissa. Distoglie lo sguardo, lo guarda di nuovo.

"Ehm... E tu? Hai una fidanzata? So che sei divorziato o separato, comunque."

"No, nessuna fidanzata. E si, sono divorziato, anche se tecnicamente il matrimonio non era valido, quindi in teoria non mi sono mai sposato."

Sherlock stringe un po' gli occhi.

"Lo so, è complicato. Spero che ti torni la memoria prima di doverti raccontare questa storia dal principio."- sorride appena mentre cerca di nascondere imbarazzo e forse vergogna.

"Quindi non hai una fidanzata."

"No, come te."

"Ah questo lo so bene."

"Come fai a saperlo? Sono passati otto anni. Potresti essere sposato."- sorride.

"E vivrei da solo con un altro uomo single in un appartamento come questo dove l'unico tocco femminile è Mrs Hudson al piano di sotto? No. Non è nemmeno contemplabile perché comunque le ragazze non sono proprio il mio campo."

John resta zitto qualche secondo. Inspira profondamente.

"Lo so, Sherlock. E va bene così."

"Lo so che va bene"

John gli sorride con gli occhi fissi nei suoi.

Segue un silenzio colmo d'imbarazzo. Sherlock lo guarda e John può sentire il suo cervello fare deduzioni alla velocità della luce.

"Ascolta John... Io mi considero sposato con il mio lavoro e anche se sono lusingato..."

"No per favore."- John si alza iniziando a sparecchiare. - "Questa volta risparmiamela. Ti prego. Non posso crederci."- L'ultima frase è solo per se stesso.

Sherlock rimane immutolito a guardare quella scena. Non capisce.

"Che cosa ho detto?"

John posa i piatti nel lavandino forse un po' troppo rumorosamente. Resta girato di schiena.

"Niente Sherlock. Sono solo stanco, mi dispiace."

Poi per un po' nessuno dice niente.

 

*

 

Dopo cena John sembra proprio aver perso la sua giovialità. Sherlock si alza, rimane in piedi qualche secondo come indeciso sul da farsi, poi dichiara che andrà a letto. John si gira – "Va bene, prendi il tuo computer, cerca Il blog del Dr. Watson, puoi passare del tempo leggendo un po'. Magari ricordi qualcosa. Ok?" - è gentile, ma all'improvviso sembra distante.

Sherlock non capisce questo repentino cambio di umore, tuttavia se ne dispiace. Gli era sembrato chiaro che il dottore stesse facendo della avances nei suoi confronti. Ogni cosa, il linguaggio del suo corpo, il tono della sua voce, la scelta delle parole sembravano dire "ci sto provando con te". Ma è anche consapevole di essere completamente all'oscuro di ogni cosa che riguardi la natura umana. Magari si è sbagliato. Magari le deduzioni, quando si tratta di emozioni, non sono affidabili. Troppe variabili. Troppi sentimenti di mezzo. Magari John adesso è arrabbiato con lui e non vorrà più parlargli. Magari ha detto addio alla sua unica chance di avere un amico in questo nuovo mondo sconosciuto dove tutti sono andati avanti e lui no. Sherlock pensa di essere davvero un idiota. Se ne dispiace.

Va nel salotto, prende il suo computer e poi sparisce nella sua camera, ma lascia la porta socchiusa.

John finisce di lavare le poche cose che ha utilizzato per preparare la cena. Dovrebbe darsi una regolata, cercare di non confonderlo con queste reazioni, non affibbiargli colpe che non gli appartengono. Dovrebbe essere più comprensivo, più paziente.

Vorrebbe prenderlo a schiaffi fortissimi invece. Rinfondergli il buon senso e la memoria a suon di sberle. Vorrebbe urlargli in faccia che non può fargli questo, non può lasciarlo di nuovo, perché è così che si sente, abbandonato, un'altra volta. Certo Sherlock è lì a pochi metri da lui, vivo, ma allo stesso tempo non c'è. E' come avere un estraneo in casa con le fattezze di qualcuno che ami e non poterci parlare, ridere. E' quasi peggio che non averlo affatto. La frustrazione, come se ce ne fosse bisogno, è sicuramente raddoppiata. Appoggia le mani gocciolanti sul bordo della vasca del lavandino. Il freddo di settembre le ha già screpolate. Sospira. Questa cosa doveva durare poco, ventiquattrore al massimo e invece sono quasi due giorni ormai. Inizia ad avere paura. Se non ricordasse? Se non ricordasse davvero mai più tutto quello che c'è stato? Otto anni di vita dimenticati in quel vicolo all'improvviso, come se non valessero niente. John si chiede se sarebbe in grado di portare il peso di tutti quei ricordi da solo. E se Sherlock decidesse di andarsene? Perché dovrebbe restare a vivere con uno sconosciuto, in fondo. Potrebbe voler vivere da solo. Potrebbe incontrare qualcun altro e sceglierlo come assistente. Qualcuno più intelligente, più utile. Potrebbe abbandonarlo. In fondo, nelle sue condizioni attuali John è meno di niente per lui. E' solo lo stupido che ha dormito sei giorni nella sua stanza d'ospedale senza quasi mai cambiarsi, muoversi, fare altro che non fosse stare con lui. Come se non avesse un lavoro, dei pazienti, responsabilità. Sospira di nuovo, sconfitto. Si sta autocommiserando.

Quando decide che forse due dita di scotch non sono un'idea così malvagia, Sherlock lo chiama.

 

*

 

John si affaccia dopo pochi secondi. Sherlock è seduto a gambe incrociate sul suo letto illuminato solo dalla luce calda della lampada sul comodino. Poggiato tra le gambe ha il suo computer.

"Hai trovato il blog?"

Sherlock gira lo schermo verso John.

"Non so la password."

"Oh." - John si avvicina, si china un po' verso di lui e verso lo schermo.- "Non posso aiutarti, non la conosco nemmeno io. Hai provato qualcosa che ricordi? Una volta hai dedotto la password di un tizio guardando il suo ufficio. Puoi provare a fare lo stesso."

"Grazie John, non ci avevo pensato."- il sarcasmo è palese nella sua voce.

John rotea gli occhi. - "Scusami genio."

"E' che è difficile senza otto anni di memoria. Potrebbe essere una cosa qualsiasi che non ricordo, un nome, un caso, una sigla. Ho provato la mia vecchia password ma la cambiavo ogni tre settimane quindi è inutile, ovvio." - Sherlock omette di dire che per scrupolo ha provato anche ad inserire il nome di John. Non ha funzionato.

"Puoi usare il mio, non preoccuparti. Vado a prenderlo." - e così dicendo esce dalla stanza.

Sherlock dovrebbe ormai essere abituato alla gentilezza di questa persona. Ma no, non si abitua. Ogni volta rimane colpito. Si chiede cosa abbia fatto di buono nella vita per meritare l'amicizia di un John Hamish Watson anche dopo averlo fatto arrabbiare.

John torna, il suo computer tra le mani, un modello più vecchio di quello di Sherlock e che sembra aver avuto giorni migliori.

"Lo so, dovrei prenderne uno nuovo. Tieni. Il blog è già nella barra dei preferiti, basta cliccarci. E per favore, non curiosare altrove."

*

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Capitolo 4
*** IV ***




IV






John esce dalla stanza lasciando la porta socchiusa così come l'aveva trovata.

Bene, è un segno di apertura, si dice Sherlock. Forse non vuole lanciare tutte le sue cose dalla finestra e cacciarlo in malo modo e nemmeno fare le valigie e andarsene. Forse le speranze di non restare solo ad affrontare questa nuova vita non sono vane. Si rincuora.

Prende quel computer sgangherato e cerca di resistere alla forte tentazione di scavare in ogni cartella per carpire tutti i segreti di John Hamish Watson. Ci riesce, ma solo per rimandare la caccia al tesoro ad un secondo momento. Adesso, quello che gli preme è leggere dei loro casi, di loro due insieme.

Tuttavia, non può fare a meno di notare che sul desktop ci sono un paio di cartelle di immagini posizionate in alto a destra, distanti dalle altre per essere rintracciate subito, è chiaro. Lo scrupolo dura pochi secondi, dopotutto se John non avesse voluto, non gli avrebbe consegnato il suo computer con tanta leggerezza. Forse non è nemmeno una cosa così rara, forse è abituato a mettere le mani su quella tastiera, forse ha già visto decine di volte il contenuto di quelle cartelle. Una in più non può di certo cambiare la situazione.

Le cartelle sono denominate con due semplici lettere: R. e A.

Clicca sulla prima, osserva le foto. Non sono molte, una decina, ma tutte contegono lo stesso soggetto. Una bambina molto piccola dagli occhi azzurri e i capelli biondi. In una giocherella con un fiore, in un'altra fa delle smorfie buffe, in un'altra ancora è in braccio a John. John le sorride, sembra felice, anche se la foto restituisce qualcosa di malinconico che costringe Sherlock a distogliere lo sguardo. Si pente subito di aver aperto la cartella, gli sembra di aver invaso un territorio troppo privato, qualcosa che doveva rimanere tale. Chi è quella bambina? John chiaramente non ha figli. O almeno, non ha figli di cui si occupa. Sarà legata al matrimonio non valido di cui gli ha parlato a cena? E' questa la causa del dolore che John sembra portarsi costantemente dietro, come fosse un fardello? Sherlock non lo conoscerà bene, anzi affatto, questo è certo, ma è ancora perfettamente capace di dedurre le persone. E John si muove, sorride e parla come qualcuno costretto a portare addosso un seme d'infelicità pesante come un macigno. Sarà forse questa bambina la causa dei suoi sorrisi spenti? Sherlock distoglie lo sguardo, poi chiude la cartella. Sa che non dovrebbe aprire l'altra ma lo fa ugualmente. Questa a differenza dell'altra, contiene solo tre foto e dopo averla aperta Sherlock comprende che si riferisce all'Afghanistan. In una delle foto John, in divisa militare e una decina di anni più giovane, sorride apertamente accanto ad un uomo dai gradi più alti e dagli occhi di ghiaccio. Sherlock non può fare a meno di notare che quello nella foto è un John completamente diverso da quello che sta conoscendo lui e anche da quello nelle foto con la bambina. Anche il sorriso non è lo stesso. Questo è aperto, vero, vero come può essere il sorriso di una persona felice, anche se lo sfondo è quello del deserto e di una guerra terribile di cui si percepiscono gli echi anche da una foto. Sherlock osserva John e si scopre a sorridere di rimando. Lo guarda anche un po' oltre il necessario, e dopo averne praticamente imparato a memoria ogni particolare, decide di andare avanti. Le altre due sono una foto di gruppo e un tramonto nel deserto dove John compare in un angolo, colto quasi di sorpresa. Gli occhi socchiusi, il viso arrossato dal sole e dalla luce calda di un giorno che finisce. Sorride alla macchina fotografica o a colui che ha scattato la foto. Sherlock non sa dirlo ma si sente di nuovo a disagio.

Chiude anche questa cartella e resta qualche minuto a pensare che l'uomo che dorme nella stanza al piano di sopra e che dice di essere suo amico, possiede una vita intera di cui lui non conosce nulla. Si scopre a desiderare di ricordare o almeno di conoscere di nuovo.

 

*

 

Il blog ha uno sfondo verde oliva che non incontra il suo gusto. Appunta mentalmente di farlo notare a John.

Il primo post è un semplice "Niente". Interessante. Il secondo è "A me non succede niente". Il terzo è "Come lo cancello?". Sherlock stringe gli occhi. Si chiede come sia possibile passare dai sorrisi aperti sotto il sole cocente e potenzialmente mortale dell'Afghanistan a questo. Vorrebbe chiedere, forse lo farà.

Decide di andare avanti e scopre quasi subito che esiste un Harry Watson, probabilmente il fratello di John con cui sembra non avere molti rapporti. Poi finalmente, un post che John ha intitolato "Uno strano incontro" datato 29 gennaio. Sherlock legge.

 

*

 

"Matto. Arrogante. Rude. Stranamente piacevole. Affascinante. Strambo".

Sherlock legge e non può fare a meno di sentirsi confuso, di nuovo. E poi nei commenti quel "Non sono gay, lui potrebbe esserlo" lo confonde ulteriormente. Guarda verso la porta, come qualcuno che sta leggendo di nascosto qualcosa che dovrebbe restare segreto. Si chiede se John gli abbia suggerito di leggere il blog per comunicargli qualcosa. Riflette sulla cena di poco prima, la deduzione apparentemente sbagliata, il discorso troncato sul nascere, la distanza. Non capisce. Prova ad immaginare come John e il se stesso di quattro mesi nel futuro abbiano interagito. Cosa gli avrà detto? Come si sarà comportato? Cosa avrà fatto per meritarsi quell' 'affascinante'? Arrossisce un po'. Sherlock non sa niente di relazioni umane, forse, ma sa perfettamente cosa fare per rendersi piacevole quando vuole, con chi vuole. E' chiaro che con John voleva.

Ma John non è gay, eppure nel suo blog racconta del loro primo incontro in modo del tutto equivoco. Equivoco come il tono della sua voce a cena.

 

*

 

Sherlock legge e legge ancora, per ore. Legge ogni post, ogni commento. Rilegge, a volte. Centinaia di informazioni gli affollano il cervello. Tutto gli sembra estraneo, persino i propri stessi commenti. E fa fatica a capire alcuni avvenimenti che vengono raccontanti in modo superficiale. Chi è Irene Adler? Possibile che abbia avuto un trasporto per lei come John lascia intendere? Sherlock è incredulo. E' più probabile che John abbia frainteso tutto. E poi perché ha finto la propria morte? Cosa ha fatto in quei due anni? Dove è stato? Come ha fatto John a perdonarlo? Perchè è finita la sua storia con Mary e perché il matrimonio non era valido? Perché ha smesso di aggiornare il blog? E' molto confuso.

Vorrebbe alzarsi, raggiungere John e farsi spiegare ogni cosa ma è quasi mezzanotte e il mal di testa lo costringe a mettere via il computer e a sdraiarsi. Osserva il soffitto chiedendosi se John stia già dormendo. Si accorge con sollievo che la presenza del dottore nella stessa casa lo rassicura, anche se non sa quasi niente di lui, anche se non ricorda nulla della loro intensa vita insieme, delle loro avventure, del loro shopping natalizio - di cui dovrà chiedere conto perché sospetta sia una parte romanzata di quel racconto - e delle scampagnate a Baskerville. Inizia a sentire che quello forse è davvero il posto a cui appartiene. Si addormenta poco dopo.

 

*

 

John è sdraiato sul suo letto da minuti interminabili. Anche lui guarda il soffitto. Pensa a Sherlock da solo al piano di sotto, con in mano il suo computer a leggere della loro vecchia vita. Si chiede come siano arrivati a questo. Pensa a tutti i possibili modi in cui avrebbe potuto evitare che accadesse, prendere un'altra strada, costringerlo ad aspettarlo, uccidere quel delinquente prima, prima che potesse sfuggirgli dalle mani. Si chiede se sia colpa sua. Avrebbe dovuto agire con più velocità, senza pensare troppo. Forse se lo avesse fermato prima. O se non avesse risposto a quella chiamata. Se non avesse aperto la porta. Se. Centinaia di inutili 'se' si innalzano come alberi nella sua testa.

Vorrebbe prendere a calci ogni cosa e invece resta immobile sul suo letto. Come ha resistito quei due anni senza di lui? Come ha vissuto? Come ha fatto ad andare avanti ogni giorno? Forse la morte sa tenerti a galla, in qualche modo? La consapevolezza dell'abbandono, sa tirare fuori una forza sconosciuta anche se priva di picchi di felicità? E' più facile abituarsi all'idea che qualcuno sia morto che all'idea che qualcuno ti abbia dimenticato?

Si addormenta.

 

*

 

Sherlock è di spalle, sta suonando il violino. John è in piedi in mezzo alla stanza, non sa come ci sia arrivato. Lo chiama, invano. Sherlock non lo sente, o forse lo ignora, continua a suonare. John si avvicina. L'appartamento è strano, è uguale a sempre eppure è diverso. Forse è la luce. Le cose assumono l'aspetto liquido dei sogni, il colore verde dell'acqua in un acquario senza pesci. Sherlock continua a suonare. John si avvicina ancora ma sembra sempre distante. Lo chiama. Quando finalmente lo raggiunge lo oltrepassa, lo guarda in viso. Ma non c'è viso, non c'è Sherlock. Di nuovo la sua schiana e lui che suona, solo che stavolta la musica é lontana, sembra l'eco di un qualche ricordo. Grida forte il suo nome. Si sveglia.

 

*

 

E' madido di sudore. Non aveva un incubo come questo da molto tempo, da quando aveva vissuto da solo in quell'appartamento da buon padre di famiglia. Sembra un tempo lontanissimo. Si mette seduto. L'orologio sul comodino segna le quattro e un quarto. Pensa immediatamente a Sherlock. Si alza, scende di sotto. Dalla porta della sua camera filtra la luce arancione della lampada. Si chiede se sia ancora sveglio. Si avvicina con cautela, spinge un po' la porta con una mano e lo vede. Sherlock dorme. Dorme raggomitolato su se stesso come lo ha visto fare mille volte sul divano, la luce calda gli illumina il viso e nel sonno sembra più giovane, come se adesso anche l'esterno mostrasse ciò a cui la sua mente si è ancorata. Sorride. Sente una stretta allo stomaco, vorrebbe sdraiarsi accanto a lui, dormire.

Va via invece.

 

*

 

Il mattino porta con sé una pioggia battente e nuvole basse che sembrano poggiarsi sui palazzi. John è sveglio da un pezzo. Dopo essere stato nella camera di Sherlock durante la notte, non è riuscito a riaddormentarsi, ha aspettato l'alba sotto le coperte guardando video a caso sul telefono. E' stanco. Siede al tavolo della cucina con un caffè tra le mani e la speranza che a Sherlock sia tornata la memoria, ma quando lo vede uscire dalla sua stanza capisce subito che non è così.

Sherlock si sveglia praticamente con lo stesso mal di testa con cui si è addormentato, perché la notte, popolata di incubi sconosciuti, non gli ha permesso di riposare. Ha sognato Moriarty, il cui viso gli era ormai noto dopo le ricerche su Google, ha sognato Irene Adler e vari episodi dei casi letti sul blog di John ma tutti insieme, senza nessuna logica apparente se non quella distorta dei sogni. Si alza lento, controvoglia e va in cucina. John è seduto lì come se non si fosse mai mosso, e ci crederebbe davvero se non indossasse il pigiama e una vestaglia grigia che sembra di ottima fattura, con finiture blu e una piccola J. quasi invisibile, discreta ed elegante, ricamata sul taschino. Sherlock capisce subito che probabilmente è un suo regalo, perché gli è chiaro che il dottore non sembra avere gusti sofisticati nè tenere a un certo tipo di abbigliamento. Ha il viso stanco, come qualcuno che ha dormito molto male, specchio del suo probabilmente. E' bello. Anche così. Sherlock distoglie lo sguardo. Che fosse bello lo aveva notato subito, fin dal risveglio in ospedale. Ma lì non c'era stato tempo per indugiare su sensazioni inutili. Adesso, dopo due giorni di assestamento, Sherlock concede al suo cervello di spingersi un po' più in là, oltre le mere constatazioni vitali: sì respiro, sì sono vivo, sì ho perso la memoria. John è bello. E' un fatto oggettivo. Si impone di andare oltre.

"Buongiorno" – John sforza un sorriso.

"Buongiorno..."

"Come andiamo oggi?"

"Bene."

John non è stupido, senza contare il fatto che è un medico e che conosce Sherlock da molto tempo. Sa benissimo quando mente, almeno sulle proprie condizioni fisiche, e sa anche che non è il caso di contraddirlo. Meglio assecondarlo costringendolo a fare cose senza che neanche se ne accorga, e soprattutto meglio non chiedere se la memoria è tornata. E' evidente che non è così.

"Ok. Oggi devo controllare quei punti, rifare la medicazione e poi potrai lavarti i capelli se vuoi. Ma prima colazione e pillole." - gli sorride mentre si alza per preparargli una tazza di tè.

Sherlock pensa che dovrebbe farlo da solo. Non è abituato a qualcuno che gli prepari la colazione o che gli dica buongiorno quando si sveglia. Non è nemmeno abituato a farla la colazione quando si sveglia. Pensa che potrebbe abituarsi anche subito. Annuisce e va in bagno. Mentre si lava le mani evita di guardarsi allo specchio. C'è ancora troppa differenza tra chi ricorda di essere e chi è in realtà. Lo specchio non è un buon amico al momento, solo John lo è. John.

 

*

 

Quando Sherlock torna in cucina John è al telefono. Si allontana verso il salotto ma arrivano comunque stralci di conversazione.

"Si, lo so... ma me ne servono ancora... Ancora qualche giorno... Farò il turno di notte per compensare... Grazie Sarah."- Poi la telefonata si interrompe. John torna in cucina, gli sorride, inizia a preparare il tè.

"Sarah è la tua ex fidanzata, quella della Nuova Zelanda?"

"E' anche il mio capo."

"Oh." - Sherlock spizzica con le dita un brownie al cioccolato poggiato su un piattino.- "Non lavori quindi?"

"Non in questi giorni, no."

"Perché?"

John si ferma per un breve istante, poi riprende a fare quello che stava facendo, senza voltarsi.- "Perché no."

Sherlock deduce che è a causa sua, eppure gli sembra improbabile.

"John..."

"Sta zitto Sherlock." - si volta per poggiargli una tazza di tè bollente di fronte.- "Bevi il tuo tè e mangia uno di quelli. Li ha fatti Mrs. Hudson con le sue mani apposta per te". Usa lo stesso tono che aveva usato con Mycroft all'ospedale, quello che non ammette repliche.

Sherlock osserva la tazza in silenzio. Ormai ha capito che far saltare i nervi di John Hamish Watson è piuttosto semplice e si chiede come abbiano convissuto anni senza che lo ammazzasse. David era una persona stupida ma comunque piuttosto mite, eppure arrivavano spesso allo scontro perchè lui sapeva rendersi insopportabile, o perché l'appartamento che era già un tugurio, si trasformava in una discarica, pezzi di cadaveri compresi. Arriva a chiedersi se sia cambiato nel corso di questi anni perduti ma scarta questa ipotesi inverosimile. John non sembra un uomo nè mite nè paziente, invece. Non riesce a tenere a freno i nervi nemmeno con una persona convalescente, figurarsi nella normalità. Sherlock si chiede se siano mai arrivati ad uno scontro, se si siano mai messi le mani addosso. Si sente di escludere anche questa ipotesi, o per lo meno, esclude che lui abbia alzato anche un solo dito su John. Perché c'è un'altra cosa. Una cosa che ha registrato fin dai primi momenti all'ospedale e che continua a percepire costantemente: una sensazione di stordimento dato già dalla sola presenza fisica di John, dal modo in cui riesce a riempire gli spazi quando si muove in una stanza, anche se non è alto, anche se non è possente e ha mani piccole, anche se ha occhi tondi e dolci, la sua presenza è ingombrante. John si accende, come fosse un punto di gravità attorno al quale ruota tutto il resto. Ed è anche potenzialmente una minaccia, come può esserlo una stella luminosissima e silenziosa in grado di esplodere di devastazione in un istante. Lo conosce praticamente da due giorni, ma Sherlock è convinto che John potrebbe togliere la vita a chiunque senza pensarci due volte, se ne andasse della sua di vita o di quella di qualcuno a cui tiene, allo stesso modo in cui però sarebbe capace di salvargliela. E questa è probabilmente la più grande differenza tra loro due. E' un uomo a cui si deve rispetto, per questo suo segreto e per averlo sopportato per otto lunghi anni. Ma la cosa che fa più paura di lui e che è anche la sua arma più potente, è che è allo stesso tempo cordiale, presente, come lo è qualcuno dall'animo buono e dai sani principi. Una stella luminosa che sa indirizzare la luce, sì, ma che può anche accecarti completamente.

Sherlock inizia a temere di sviluppare una nuova dipendenza, perché sembra un essere davvero speciale questo John Hamish Watson.

Capisce perchè lo sceglierà fra quattro mesi, perchè lo ha scelto, otto anni fa.


*



Nota dell'autrice:

Ciao a tutti! Mi prendo questo piccolo spazio solo per ringraziare chi sta seguendo questa storia, l'ha recensita, l'ha messa tra le seguite e tra le preferite, e anche chi legge in silenzio. Grazie a tutti. Nuovi aggiornamenti arriveranno presto.
Intanto spero che questo capitolo un po' di transizione vi piaccia. 
A presto!

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Capitolo 5
*** V ***


 

V





Sherlock è seduto sul bordo della vasca ancora con quei pensieri nella testa mentre John, in piedi di fronte a lui, sta guardando la ferita sotto il suo zigomo destro. Glielo sfiora con delicatezza minuziosa.

"Fa male?"

"No."

"Bene. E' quasi a posto. Adesso abbassa un po' la testa, vediamo questi punti."

 

John è arrabbiato. E' costantemente arrabbiato, anche se soffoca la rabbia sotto strati di clinica premura. Odia questa situazione con tutto se stesso, a tratti odia anche Sherlock in modo del tutto irrazionale, come se fosse colpa sua se ha perso la memoria, se si è dimenticato di lui. E sa di essere scortese a volte, come poco prima a colazione. Sa che non dovrebbe rispondergli a quel modo ma qual è il modo per interagire con qualcuno, qualcuno come Sherlock, che all'improvviso sembra distante anni luce, irragiungibile più del solito? Qualcuno così intelligente eppure completamente idiota. Non ne ha idea. Dopo tutti questi anni si scopre ad annaspare ancora cercando di stare al suo passo, di comprenderlo. Sospira. Lo guarda, seduto di fronte a lui, bisognoso di cure. Una tenerezza improvvisa lo avvolge riducendo la rabbia ad un rumore di fondo, presente, ma tollerabile. Finisce sempre così. Ciò che lo conforta e che lo aiuta nell'affrontarlo è il suo impellente bisogno di dimostrarsi utile, di servire a qualcosa; la spinta che ha dato inizio ad ogni cosa nella sua vita, gli studi, la medicina, l'esercito, Sherlock. Funziona anche adesso. Lascia andare i pensieri e si affida alle mani, a quello che sa fare meglio.

Mentre gli sfiora la testa e gli sposta i capelli sente di nuovo quella stretta allo stomaco che lo aveva colto nel guardarlo dormire, e poi, come se questo non bastasse, arriva il contatto fisico che per John è sempre stato capace di guarire le ferite dell'animo come per magia. Sente che ogni cosa è di nuovo al suo posto, una miriade di fili invisibili si disintrecciano. Si chiede perché con lui debba essere sempre tutto complicatissimo o estremamente facile, come se non ci fossero vie di mezzo. E' certo che di questo passo impazzirà.

 

*

 

"Allora, hai letto un po' del blog?"- si costringe a non pensare ad altro.

Sherlock, la testa reclinata verso il basso, osserva il pavimento e le ciabatte del suo medico - "L'ho letto tutto."

"Ovvio. Come ti è sembrato?"

Sherlock tergiversa prima di rispondere ma quando sta per farlo John lo interrompe.

"E non intendo cosa ne pensi della mia scrittura, Sherlock."

"Oh. Beh allora è interessante. Abbiamo davvero fatto tutte quelle cose?"

John sorride. - "Certo, e molte altre che non ho potuto raccontare o che non valevano un post intero."- Intanto toglie la garza e osserva i punti schiacciando un po' i lembi della ferita. - "Va tutto bene, non c'è infezione"

Sherlock rimane immobile. -"Quindi hai un fratello."

"Ho una sorella, Harriet."

"Mh."

"Hai sbagliato anche la prima volta." - sorride, un po' compiaciuto.

Sherlock pensa che c'è sempre qualcosa che non capisce e che probabilmente suo fratello, dannato, non avrebbe fatto lo stesso stupido errore. Si morde un labbro. Lascia passare qualche istante. Vorrebbe chiedere molte cose, a cominciare dalle foto che ha furtivamente guardato, ma decide che forse per il momento è meglio non approfondire. Non ha idea di come John potrebbe prendere quell'intrusione nelle sue cose personali, anche se continua a pensare che lasciare tutto in bella vista non sia molto furbo per qualcuno che ci tiene alla propria privacy. Nel dubbio, decide di chiedere altro, una cosa a caso.

"Chi è Irene Adler?"

John si immobilizza per un istante prima di rifare la medicazione. - "E' stato un caso complesso."

Sherlock coglie l'indecisione nella sua voce ma attende comunque che risponda alla domanda. John sospira.

"Possedeva informazioni molto personali su persone...influenti. Ti è stato chiesto di recuperarle."

"E per persone influenti intendi la famiglia reale."

"Esatto."

Sherlock riflette qualche secondo mentre John in silenzio continua ad armeggiare con la sua testa in un modo che sospetta sia fin troppo delicato.

"Davvero sono andato nudo a Buckingham Palace?"

"Si, Sherlock. Ma avevi un lenzuolo addosso." - John non può fare a meno di ridersela un po' al ricordo di quel momento. - "Mycroft andò fuori di testa."

"Questo vorrei proprio ricordarmelo."

"Lo ricorderai Sherlock."

Seguono alcuni minuti di silenzio in cui John completa la medicazione e Sherlock si interroga su molte altre cose.

"Ho finito."

Sherlock rialza la testa, lo guarda. - "Perché pensavi che fossi devastato dalla morte di questa Irene Adler?"

John rimane con le mani a mezz'aria, lo guarda qualche secondo prima di girarsi e mettere via le sue cose.

"Perché lo eri."

"Era una mia amica?"

John sospira. "Non direi, no."

Sherlock non capisce.

"Allora dubito che io fossi, come hai scritto? Devastato?"- dice l'ultima parola con ironia tagliente, come se volesse prendersi gioco di quello che John ha scritto con il solo tono della voce.

"Tu non c'eri."

"Io c'ero, John. Non essere ridicolo."

"Oh Dio. Certo che c'eri ma non c'eri tu, quello di adesso. Non puoi saperlo. Io c'ero invece. Io so. Ti ho visto."

Sherlock rimane in silenzio. John va verso la porta ma prima di uscire dal bagno può sentire Sherlock dire: "Sono sicuro che ti sei sbagliato."

 

*

 

Sherlock rimasto da solo sente per la prima volta che il piccolo bagno lo 'disaccoglie' come se lui fosse un parassita da debellare ed espellere. All'improvviso le pareti verdi non sono più calmifiche e sembrano invece dirgli 'tu non appartieni a questo posto'. Si sente estraneo, più di quanto non fosse già. E si sente solo. Inizia a temere che l'accoglienza di certi luoghi si attivi solo con la presenza di John ed è un'opzione non tollerabile, un'eventualità da schivare in ogni modo. Come se non fosse abbastanza poi, John continua ad avere delle reazioni che lo confondono e il non riuscire a rimettere insieme tutti i pezzi gli impedisce di capire. Mancano troppe informazioni. Resta seduto sul bordo della vasca a lungo, fino a quando il freddo che risale dalle caviglie non lo sveglia dal torpore indotto dai pensieri. Al di là della porta John è rimasto silenzioso, o forse, si è soltanto permesso di non percepirlo, scollegandolo dalla realtà del suo presente. Decide che impegnarsi in una cosa alla volta può essere la chiave per decifrare questo nuovo tempo sconosciuto e che rincorrere pensieri senza via di uscita è solo una perdita di tempo. Dopotutto, un uomo senza memoria ha molte domande, ma da solo non può avere risposte. Essere pragmatici quindi è forse la cosa più sensata, l'unica risposta plausibile. Può finalmente lavarsi i capelli, l'ammasso informe di ricci e disinfettante che si ritrova sulla testa, ma capisce subito che evitare di bagnare la medicazione non sarà un'impresa facile.

 

*

 

Quando John esce dal bagno resta qualche minuto sulla porta, non per controllare Sherlock, non per ascoltarne i gesti, non per assicurarsi che si stia lavando e che vada tutto bene. Non è per questo. Rimane lì perché è atterrito. Atterrito dall'ironia sprezzante di cui Sherlock è capace, dalle sue risposte, e sì, anche dalle sue domande. Sentire di nuovo quel nome non ha giovato al suo umore, non giova mai al suo umore. Eppure non riesce a decidere se l'abbia destabilizzato di più il ricordo di Irene Adler o la saccenteria di Sherlock. Forse per la prima volta da quando si è svegliato ha percepito davvero la portata della loro reciproca distanza. Una distanza fatta di ricordi persi, mancanze, complicità perdute. Sherlock è lo stesso di otto anni prima, lo sconosciuto arrogante e geniale che sa zittirti con una parola e mettere anni luce di distanza fra te e lui, farti sentire in un istante che vali poco o niente e allo stesso tempo farti disperare perché il solo fatto di non appartenere in qualche modo alla sua vita ti fa sentire di valere ancora meno del niente che sei.

John sa che non vuole provare di nuovo queste sensazioni.

Respira a fondo prima di allontanarsi. Vorrebbe rifugiarsi nella sua camera, come un ragazzino arrabbiato, ma non è un ragazzino. E' un uomo che ha affrontato mille problemi nella sua vita, è un soldato, è un medico capace. Capisce che la cosa più deleteria al momento sarebbe lasciarsi andare al rancore per cose che Sherlock non può controllare perché l'unico in grado di tenere la situazione sotto controllo è lui e non può permettersi di perdere le staffe, battere in ritirata e distruggere i ponti. Sherlock non è un nemico da tenere distante, è qualcuno da riaccogliere invece.

E poi, potrebbe avere bisogno di lui, perché per quanto sia arrogante, strafottente e distante, John sa che correrebbe da lui come ha fatto sempre, fin da quel 'vieni se puoi, e se non puoi, vieni lo stesso'. Sa adesso, come sapeva allora, che andrà da Sherlock sempre e anche quando non potrà, troverà il modo.

Forse non avrebbe dovuto lasciarlo da solo e chiudere la porta come fosse una trincea oltre la quale salvarsi.

 

*

 

Sherlock non riesce nel suo intento. La cosa più facile da fare sarebbe infilare la testa sotto il getto d'acqua e lavare via ogni cosa, ma non è possibile. Si innervosisce. Come può John aver pensato che sarebbe riuscito da solo in quest'impresa? Come può un uomo lavarsi i capelli da solo senza compromettere una ferita alla testa non potendo guardare quello che sta facendo? Cosa crede quel John, che solo perché è una specie di genio, sia in grado di fare il contorsionista, lavarsi e allo stesso tempo tenere sotto controllo una medicazione? Si arrabbia. Il bagno è ancora meno accogliente di qualche minuto prima, come se fosse in grado di reagire allo stato d'animo delle persone e disporsi di conseguenza. Sospira. Decide di lasciar perdere. Attraversa la porta che comodamente dà nella sua stanza e torna a letto, dopo aver chiuso l'altra con un colpo secco.

E' quasi mezzogiorno.

 

*

 

John è seduto sulla sua poltrona a cercare di leggere il giornale, schiavo in realtà dei suoi pensieri, quando sente la porta della camera di Sherlock sbattere con un rumore sordo. Passa stancamente una mano sugli occhi, sa già cosa significa. Aveva quasi dimenticato che questo Sherlock, lo Sherlock di otto anni prima cioè, oltre ad essere un'arrogante testa di cazzo, assomigliava molto anche ad un adolescente frustrato più che ad un adulto, almeno in certe sue reazioni. A quel tempo gli ci era voluto un po' per abituarsi ai repentini cambi d'umore - secondo lui del tutto immotivati - che Sherlock sembrava mettere in mostra in modo molto teatrale. E gli ci era voluto ancora di più per imparare ad ignorarlo del tutto senza farsi coinvolgere, nelle poche volte in cui non lo lasciava in casa a sbollire da solo qualunque cosa avesse. Adesso John non può fare a meno di pensare che trovarsi di nuovo in quella situazione sia frustrante, ma che abbia anche un che di vagamente ironico. Ironico, niente affatto divertente, comunque. Dovrebbe essere lui infatti a sbattere porte e a mettere su sceneggiate, se non fosse che davvero non è più un ragazzino. Sospira. Si prepara ad affrontare la guerra e qualsiasi motivo per cui essa sia stata scatenata.

Si avvicina alla porta con cautela, quasi contenesse un mostro che non deve essere svegliato e si stupisce da solo di quanta accortezza stia usando quando bussa. Vorrebbe piuttosto buttare giù la porta e mettersi a urlare che è il caso di smetterla, ma non sarebbe consono.

"Sherlock."

Nessuna risposta.

"Sherlock?"

"Che vuoi."

"E' tutto a posto? Hai bisogno di qualcosa?"

"No."

Sospira. "Ok. Sono in salotto se hai bisogno."

Nessuna risposta.

 

*

 

E' l'una quando John inizia a preparare il pranzo che probabilmente mangerà da solo.

E' l'una e mezza quando bussa alla porta di Sherlock per chiedergli se vuole pranzare. Riceve un secco no. Si allontana senza protestare.

 

*

 

Sherlock è raggomitolato nel letto, coperto fino alle orecchie. Non ha fame e non ha intenzione di mangiare di nuovo solo per far un piacere al dottore. Se ne farà una ragione. Quando inizia a pensare a vari modi per essere un po' meschino, il suo cervello scivola nel sonno senza protestare.

 

*

 

John si rassegna a mangiare da solo come non gli capitava di fare da un po'. Nei giorni in cui Sherlock era rimasto incosciente aveva mangiato poco e nulla, una volta con Mycroft in un ristorante vicino l'ospedale, un paio di volte con Jeff, un uomo conosciuto davanti le macchinette del caffè che era lì in attesa che suo marito si svegliasse dal coma. Mentre bevevano un caffè bruciato e quasi freddo, Jeff gli aveva chiesto "Invece cosa è successo al tuo compagno?" e John non aveva saputo dire molto. Era rimasto in silenzio a guardare il fondo del bicchierino di plastica, poi aveva risposto "Non è il mio compagno" e non c'era stato altro da dire per un po'. Le due volte in cui avevano mangiato insieme si erano fatti compagnia con i silenzi ed era bastato.

Un'altra volta aveva accettato il pranzo che un'infermiera gli aveva portato personalmente. Forse era un modo per provarci con lui, forse voleva solo essere carina. Comunque aveva mangiato nella stanza di Sherlock senza nemmeno alzarsi dalla poltrona e senza ricorrere a quei sorrisi flirtanti che era solito distribuire a destra e a manca e che facevano sempre un certo effetto sulle donne. Non aveva mai ben capito perché ma non se ne lamentava. Altre volte non aveva mangiato affatto o aveva bevuto solo un caffè. Ma tutte quelle volte in cui praticamente aveva mangiato da solo, ora non possono neanche minimamente essere paragonate a stare seduto nella cucina del loro appartamento da solo.

La verità è che non è più abituato.

Prima dell'incidente non c'era stata una volta in cui non avessero cenato o pranzato insieme. Era quasi diventato un rito negli ultimi tempi, un modo semplice e non impegnativo per dire 'ci sono, voglio esserci'. Qualche volta era rimasto nello studio certo, ma capitava sempre più di rado. Se poteva, tornava a casa. Se non poteva, cercava di tornare a casa comunque e Sherlock sembrava contento. Una volta si era fatto trovare fuori dallo studio e avevano pranzato in un ristorante nei pressi della clinica. Poi erano andati insieme da Lestrade per discutere i progressi di un caso, anche se era da sei al massimo. John aveva fatto finta di niente, aveva sorriso, lo aveva accolto come fosse una cosa normale, come se non fosse affatto un chiaro passo fuori dal percorso. Ma lo era. Sherlock non lo aveva mai aspettato di sua iniziativa e senza motivi impellenti fuori dal lavoro. Quella era sicuramente un'anomalia, la crepa nella lente, una di quelle che però lascia filtrare finalmente la luce.

Adesso invece, pranzare di nuovo da solo lo fa tornare a molto tempo prima, a quando il non detto non riusciva a creare ponti di comunicazione fatti di gesti, ma solo porte chiuse, silenzi, solitudini.

John mangia lentamente. Continua a sperare che Sherlock esca, che si sieda con lui, che gli racconti di un caso di cui vuole occuparsi, che faccia un po' lo sbruffone e poi gli chieda di preparare le valigie per andare chissà dove. O che magari esca e dica con misurato contegno: "Sai, ho appena ricordato tutto. Andiamo fuori a cena questa sera."

Aspetta.

Non succede niente.

 

*

 

Quando Sherlock riemerge dal sonno impiega un po' per mettere a fuoco la stanza e capire che ore siano. Le tende semichiuse lasciano entrare quel poco di luce sufficiente a fargli dedurre che è tardo pomeriggio. Il suo telefono, abbandonato sul comodino dal giorno prima, conferma che sono le diciassette passate. Controlla i messaggi: un paio di sua madre, uno di suo fratello, una decina di mail nella casella postale di un indirizzo nuovo che deve aver creato in questi anni. Ne apre qualcuno. Le persone più disparate chiedono il suo aiuto per risolvere sparizioni, piccoli furti, fatti apparentemente senza spiegazione. Legge tutto con divertimento ed eccitazione, a volte risponde, ma in realtà nessuno di quei rompicapi è così travolgente da ottenere la sua completa attenzione e così, perso l'interesse, mette via il telefono e guarda il soffitto. Il sonno ha portato via con se ogni residuo di rabbia, gli resta solo l'amarezza per non essere riuscito nemmeno nell'impresa elementare di lavarsi i capelli. Tende l'orecchio ai rumori dell'appartamento ma non sente nulla, sembrerebbe vuoto. Si chiede cosa stia facendo John, se sia uscito, se l'abbia lasciato solo. Forse non avrebbe dovuto insistere con quella storia di Irene Adler, è chiaro che per John rappresenta un tasto dolente, anche se ne ignora completamente il motivo. Arriva a immaginare di essersi in qualche modo messo in mezzo tra loro due, pur di trovare una spiegazione. Forse a John interessava questa Irene e forse lui ha rovinato tutto, in un modo o nell'altro. In effetti John sembra una persona avvezza a cose tipo il corteggiamento, il flirt. Fa una smorfia. Si chiede quante donne abbia avuto... Eppure nel blog racconta espressamente di uno Sherlock devastato dalla morte di questa donna, anche se poi si è rivelata finta. Sherlock si sente confuso, come praticamente ogni momento da quando si è risvegliato. Si gira di lato abbracciando uno dei cuscini. E se invece avesse avuto davvero un coinvolgimento emotivo nei confronti di Irene Adler? Sarebbe capace di provare tali sentimenti per una donna? Lo crede difficile, altamente improbabile, magari non impossibile. Sospira.

 

*

 

Sherlock esce dalla sua stanza ancora assonnato, camminando silenzioso nell'appartamento chiedendosi se sia davvero rimasto solo. Ma non è così. John è seduto sul divano con un giornale in mano, alza lo sguardo non appena lo vede attraversare la porta del salotto.

"Ben svegliato."

"Grazie." - Sherlock si guarda attorno, come qualcuno che cerca di reprimere un certo imbarazzo. Non è abituato a condividere gli spazi del risveglio, a qualunque ora esso si compia. David non era quasi mai in casa e comunque Sherlock evitava di uscire dalla sua stanza quando lo sentiva aggirarsi in cucina. John invece è sempre nei paraggi, come qualcuno che vive davvero la propria cosa e non la sopravviva soltanto.

"Hai fame?"

Sherlock rimane in mezzo alla stanza come se non sapesse dove andare o cosa fare ed è così effettivamente. Vorrebbe dire che no, non ha fame, ma la verità è che il suo stomaco brontola e il suo cervello quasi protesta per avere degli zuccheri. Annuisce.

John gli sorride. - "Vieni, c'è il tuo pranzo, te lo scaldo".

Sherlock lo segue prima con lo sguardo mentre si alza e va in cucina poi gli va dietro senza dire nient'altro.

 

*

 

Sherlock mangia in silenzio, John sorseggia una tazza di tè seduto nel lato opposto del tavolo.

"Non ci sei riuscito?"

"Mh?"

"A lavare i capelli."- lo dice con una punta di tenerezza. John si stupisce da solo di come le sue reazioni a Sherlock siano altalenanti ma in fondo è sempre stato così con lui, fin dal primo giorno.

"No."- Sherlock non capisce perchè dovrebbe provare vergogna, quando fino a poche ore fa l'unica cosa che sentiva era la rabbia ma sospetta e teme di essere anche visibilmente arrossito. Non ha mai sopportato di mostrare la propria debolezza davanti a nessuno, a maggior ragione davanti a John, una persona che a tutti gli effetti è nuova. Non gli piacciono nemmeno le persone nuove.

Di solito.

John coglie l'imbarazzo sul suo viso. Trovarlo adorabile è qualcosa che non dovrebbe permettersi.

"Posso aiutarti?"

"A fare che cosa?"

John pensa che è proprio un idiota. - "A lavare i capelli."

Sherlock quasi si strozza con un pezzo di carne.

*


 

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