You, who left me

di BabaYagaIsBack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prélude ***
Capitolo 2: *** Le mémoire que j'ai de toi ***
Capitolo 3: *** Ce qui reste ***
Capitolo 4: *** Fèlicienne ***
Capitolo 5: *** Maisons vides (1) ***



Capitolo 1
*** Prélude ***



Sento i tuoi passi nella sala,

sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l'anima fa male.

Cammini lontano nella sala,

ma l'aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell'oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo
batte il mio polso nella fame.

Karin Boye





Prélude

§

Il cielo sopra a Marsiglia è grigio, così come lo sono gli enormi casermoni di dieci piani che mi guardano dall'altra parte della strada, attendendomi come minacciosi gargoyle di cemento pronti a mangiarmi viva. Il tempo con loro è stato impietoso, ha scrostato le facciate e ridotto il giardino a una lastra di flora secca, ma è stato comunque più clemente di ciò che ha fatto a me, ai ricordi che ho di questo posto e che alle volte vorrei strapparmi via dalla testa - ma se ne stanno lì, esattamente come il conglomerato di condomini popolari a cui sto facendo ritorno. 
Ci fissiamo con diffidenza, poi fastidio. Ci schifiamo da lontano per essere certi di non contaminarci a vicenda, ma inesorabilmente succede, come succede che finalmente muovo i primi passi verso casa.

Odio questo posto, così come odio questa vita.

Cammino piano, anche se il vento mi spinge con forza, portandosi dietro gli stralci di una salsedine malsana, avvelenata dagli scarichi delle troppe navi che passano per questo mare.
Nulla di ciò che mi circonda vuole farmi andare via, quello che importa è solo intossicarmi, in modo che alla fine mi ritrovi a stramazzare a terra come l'ennesima vecchia abbandonata a sé stessa - come metà dei miei vicini, persino il signor Petrov.

Così muovo passi lenti, provando a trovare un coraggio che mi manca, una forza che non mi appartiene - in fin dei conti sono codarda e debole, mi lascio sopraffare da troppe cose, finendo con il ritornare sempre al punto di partenza: testa altrove, persa in pensieri sempre più lontani dalla realtà, mani piene di inutili desideri e un cuore pesante, ricolmo di rimpianti.
Ogni falcata crea una distanza sempre maggiore tra me e la fermata dell'autobus, portandomi più vicina a quegli ammassi informi e strappandomi da quella che potrebbe essere l'unica e momentanea via di fuga - visto che la mia Kadett è finita ancora in riparazione. Lei sì, che con i suoi trent'anni e i problemi tecnici riesce ad allontanarsi da qui, a me invece non servì nemmeno una frattura al braccio, anzi, il medico mi rilegò qui per ben due settimane. L'agonia peggiore a cui fui sottoposta quell'anno.

Svolto nel vialetto, stringendo i pugni nelle tasche e lanciando qualche vaga occhiata nei dintorni, ritrovando le solite forme di vita che alle volte riescono persino a confondersi con lo sfondo. I fratelli Yazici sono appollaiati sui loro motorini truccati, fumano hashish anche se hanno appena quindici anni. Se ne stanno lì circondati da qualche amichetto con ancora l'apparecchio ai denti e di tanto in tanto sputano qualche commento in un francese viziato, risultato di una lingua che in casa non è usata, mentre fuori solo per esigenza. 

Mia madre, dall'alto della sua esperienza inesistente in fatto di droghe, dice che spacciano - e se non fosse che per lei chiunque viva qui da meno di dieci anni sia un possibile delinquente le darei ragione.

Poco più in là delle loro spalle, la signora del sesto piano sta raccogliendo gli escrementi del suo Yorkshire, tanto brutto e vecchio da avere persino la stessa brizzolatura della padrona. 
Quel cane cagherà almeno dieci volte al giorno, perché non ricordo un singolo momento della mia vita in cui, rientrando o uscendo da casa, non l'abbia incontrata nella medesima situazione. Ad ogni modo, a parte qualche accenno di saluto, con nessuno dei presenti ho mai speso più di tre sillabe. Tutte le facce amiche, o le persone che rendevano questo angolo di mondo un po' meno triste, se ne sono andate appena ne hanno avuto l'occasione: chi per lavoro, chi all'inseguimento di un sogno, oppure qualcuno persino dentro una cassa da morto.

Sospiro, sentendo la testa iniziare a far male. 
Certi pensieri non dovrei averli, non mi fanno bene, eppure sono sempre pronti a incalzarmi.

Lo sguardo mi cade sulla punta consumata delle scarpe. Si muovono veloci, ma a me sembra di star rallentando sempre più. Prima o poi rimarrò anche io bloccata nel tempo, in questa monotonia nauseante di cui inalo ogni aspetto. Diventerò grigia come il cemento, vuota come buona parte degli appartamenti del Terzo. Sarò statica e frigida come le fondamenta di questi quattro edifici che sembrano sempre sul punto di crollare, ma che poi restano in piedi.

Sfilo le chiavi, avvicinandomi al portone. 
Un tempo, quando questo posto si vendeva come "la nuova concezione della periferia urbana", uno spazio ridente e che avrebbe bonificato tutta l'area, c'era una portinaia qui al Secondo, ma poi è fuggita. Dopo otto anni dalla costruzione di questo conglomerato residenziale ha fiutato lo sfacelo a cui sarebbe andato incontro, così ha levato le tende.

Fortunata lei.

Supero la prima soglia come si superano le sbarre di una prigione e quando arrivo all'ascensore l'ennesima parolaccia mi sfugge di bocca, rimbalzando lieve nell'androne deserto. 
Guasto. 
Ancora.

Eppure ricordo alla perfezione la lettera arrivata settimana scorsa fino all'appartamento ventisette, quella che chiedeva una percentuale sulla parcella del tecnico, quella che prometteva un servizio efficiente e professionale. Ora mi domando quanto dovrò dare al medico per rimettere in sesto i miei polmoni una volta che sarò arrivata al sesto piano con lo zaino pieno di libri in spalla.

Però non posso far altro che subire il colpo, armarmi di una pazienza sempre troppo latente e spingermi verso il primo gradino, poi il secondo, e così per il mezzo centinaio seguente, finché il fiato non mi tradisce e sono costretta ad accasciarmi contro una parete. Non sono mai stata brava ad affrontare le sfide, quelle fisiche ancor meno. Da quando la nicotina è diventata una delle mie migliori amiche ho finito con il dover dire addio a tante cose: una percentuale di ciò che chiamo stipendio, il fiato, la pazienza e forse anche una parte di salute - però mi dà pace quando il resto del mondo cerca di farmi impazzire. E sarà per questo che la mano si infila nuovamente in tasca, sfiora il pacchetto di Marlboro e ne sfila una che poi offre alla bocca.

Solo qualche tiro, mi dico. Solo qualche boccata di catrame per impedire ai nervi di tendersi troppo e spezzarsi, ma prima che possa accendere la sigaretta mi ricordo che potrei restare infossata qui a fumare per l'eternità, diventando parte integrante di questa depressione - e non voglio, assolutamente. Da qualche parte, dentro la mia testa, vive ancora il desiderio di fuggire via, di cancellare questi diciotto anni spesi tra timidezza, inconcludenza, rimpianti e sogni infranti. Vorrei che il grigiume di questa vita fosse sostituito con colori diversi, magari quelli di Parigi, Lione o persino qualche città estera; mi va bene tutto purché sia lontano da Marsiglia e dal Secondo.

Sforzandomi faccio leva sulle gambe, riuscendo a rimettermi dritta. Non sono sicura di poter affrontare altri due piani, ma sono certa di volermi rinchiudere in quell'appartamento che da troppo tempo chiamo casa - lì, almeno, c'è una parte della pace a cui anelo, la familiarità accogliente e non opprimente di ciò che ero e sono. Così mi muovo tra il quarto piano e il quinto, ansimando a bocca aperta come un cane affaticato da una lunghissima corsa. Mi aggrappo al metallo ghiacciato di un corrimano, usandolo come appoggio per un corpo eccessivamente stanco e che aveva sperato, dopo le ore di lezione e quella sottospecie di turno a un bar della zona, di potersi solo lasciare andare sulla morbidezza di un materasso che abbandono ogni giorno troppo presto. Le speranze però sono ingannevoli, difficilmente ciò che si desidera con tanta bramosia si trasforma in realtà - e io dovrei saperlo, dovrei aver imparato questa stupida lezione; ma gli uomini sono cocciuti, soffrono di una strana malattia chiamata resilienza, per questo non smettono mai di crederci. Ed io, ho appurato già da tempo, sono umana: carne tenera per le fauci affamate, anima leggera per il vento implacabile e mente fragile nel sopportare il peso dei pensieri. Così mi ritrovo contaminata da questo virus che non lascia scampo a nessuno - e spero. Spero nelle cazzate e nei sogni irrealizzabili, ci credo persino senza volerlo, involontariamente succube della mia natura. Solo in una cosa ho smesso di riporre la mia fiducia, ma ne conservo gelosa e arrabbiata la sagoma.

La porta del ventisettesimo appartamento mi accoglie sul sesto pianerottolo e, quando finalmente i miei piedi si fermano sullo zerbino, mi lasciando andare a un ultimo sospiro. Il cuore batte con così tanta forza che lo sento far vibrare i timpani. Sotto all'enorme giacca di jeans, e al maglione di lana leggera, avverto la pelle accaldata della schiena inumidirsi di un sudore fastidioso per la prima frescura di inizio Novembre.

Questo postaccio mi ucciderà.
Alzo gli occhi al cielo, buttando indietro la testa, poi aspetto. Cosa non è chiaro nemmeno a me, eppure rimango per lunghissimi istanti qui, ferma davanti allo spioncino di casa. Intorno avverto il suono ovattato delle televisioni accese: telegiornali, pubblicità, forse persino qualche film. Un mix confuso a cui manca qualcosa, un suono che negli ultimi anni mi ha accompagnata a ogni rientro. Il giradischi del Signor Petrov è spento, dalla sua porta, la ventinove, non proviene alcuna melodia. Le ragioni potrebbero essere molteplici, ma sono quasi certa che anche oggi sia la stessa di qualsiasi giovedì; e allora avanzo abbassando la maniglia, confidando nel fatto che solo una volta arrivata in cucina potrò avere la risposta che cerco.

Nel corridoio appena oltre l'ingresso, quello che collega tutte le stanze, il profumo di zuppa di cipolle riempie ogni angolo, solleticandomi l'appetito. Vedo l'ombra di mia madre che si muove su quello che dovrebbe essere un balcone, forse intenta a innaffiare le poche piante sopravvissute a questo primo abbassamento di temperatura e allora, in punta di piedi, vado in avanscoperta. Le pentole se ne stanno chiuse sui fornelli accesi, mentre i coperchi di vetro lasciano scorgere cosa vi ribolle dentro. L'intruglio di verdure si agita con vigore e altrettanto fa il mio stomaco, così decido di rubarne un cucchiaio, uno solo, in modo da stuzzicare maggiormente la fame. Che male mi potrà mai fare? Tanto oramai l'ora di cena è alle porte, dovrò aspettare poco.
Mi volto, pronta ad abbandonare zaino e giacca sulla prima sedia libera e regalarmi un unico momento di gioia nella solita malinconia che mi assale qualsiasi volta torno qui, ma appena i miei occhi cadono sul tavolo ogni desiderio ammutolisce e l'appetito si dissipa.

Alle volte sono le cose più innocenti e all'apparenza innocue a scatenare i peggiori tumulti interiori. Sono quei dettagli che ai più appaiono insignificanti - come a mia madre che, senza saperlo, ha lasciato il giornale aperto sull'articolo che gli hanno dedicato, uno dei tanti, dei troppi. E' lì, immobile e inanimato; il suo viso stampato su carta monocromatica ha la solita espressione truce, severa. E più lo guardo, incapace di allontanarmi, più il cuore si rinsecchisce come una prugna secca. Mi piacerebbe avere una qualche reazione diversa dalla paralisi, eppure non riesco a far altro che restare impietrita di fronte al quotidiano nazionale. 
Vorrei essergli indifferente, ma non ci riesco mai, nemmeno dopo tutto ciò che è successo e il tempo che è passato. Si dimentica quando qualcosa non ha valore, oppure quando si perdona, ma io non sono mai stata in grado né di sminuire la sua importanza, né di perdonare il suo vuoto.


La foto mi fissa, scrutandomi dall'alto al basso con una sufficienza che ormai ho imparato a conoscere. Non scruta me, non in modo particolare o intenzionale, eppure è come se lo stesse facendo. Nonostante l'inchiostro non ne esalti a dovere l'espressione, e gli occhiali da sole che ha indosso gli schermino in parte lo sguardo, riesco a sentire il peso della sua presenza, l'annichilante soggezione che nel tempo ha iniziato a esercitare su di me, persino se assente. Mi schiaccia e mi comprime, riempiendomi di risentimento.
Non voglio leggere le righe che gli hanno dedicato, gli elogi spesi per esaltare i suoi successi. Non voglio sapere nulla di lui, anche se in verità già conosco ogni cosa. Ciò che desidero è solo cancellarlo, far sparire ogni immagine di lui che mi finisce davanti agli occhi - eppure non ci riesco, torna sempre a infestare la mia mente, senza tornare mai veramente.

§


 

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Capitolo 2
*** Le mémoire que j'ai de toi ***




Le mémoire que j'ai de toi

Avevo diciotto anni, lo ricordo ancora come se non fosse passato un singolo giorno, ma in realtà ne sono trascorsi a centinaia. Quel venerdì mattina, con il cuore bloccato in gola, avevo sceso le scale del Secondo stringendo forte le spalline di una eastpack che adesso mi osserva dal fondo dell'armadio gonfia, come lo stomaco gravido di una giumenta,  di memorie che ho cercato di nascondere alla vista, ma restano incise tra le costole.

Mi ero svegliata ancor prima dell'alba, sopraffatta dalla stessa ansia che mi aveva tenuta in piedi per buona parte della notte. Avevo temuto di non riuscire a sbrigare tutto per tempo, di fare tardi, di lasciarti prendere l'autobus da solo e perdere così l'occasione che mi ero decisa a creare, perché a furia di aspettare erano trascorsi inverni e primavere. Mi ero sistemata i capelli nel miglior modo che al tempo conoscevo, truccata come le amiche più esperte mi avevano insegnato e, sotto alla solita giacca di jeans, quella che ho abbandonato sulla moquette appena sono fuggita dalla cucina dove mi hai nuovamente colta impreparata, mi ero premurata di mettere una maglia che esaltasse le sottospecie di curve che Madre Natura mi aveva concesso; sempre troppo prorompenti dove non avrebbero dovuto e timide dove invece sarebbero servite. Volevo dimostrarti di non essere più la bambina di sei anni che ti eri ritrovato sul pianerottolo il giorno in cui arrivasti a Marsiglia, quella con cui dai giochi infantili eri passato ai divertimenti preadolescenziali per finire nei discorsi da quasi adulti, quindi mi ero premurata al meglio in vista di ciò che finalmente ti avrei detto - dopo tutto quel tempo, le giornate spese in casa tua a parlare, leggere e guardare film, dopo aver spiato silenziosa ogni bacio che avevi concesso a bellissime ragazze a me sconosciute, o ascoltato, con la faccia premuta sul cuscino, gli orgasmi che ti erano sfuggiti dalle labbra, finalmente mi ero decisa. 
Non avevo idea di come si facesse, di quali parole si usassero in simili circostanze, ma dopo tanti anni e a un passo dalla tua laurea mi ero convinta di non poter più aspettare. E allora ero corsa verso l'androne del nostro palazzo facendo i gradini a due a due, cercando di arrivare il più velocemente possibile lì dove ero certa tu mi stessi aspettando. Come sempre ti trovai intento a guardare l'orizzonte grigio, mentre il tepore del sole nascente ti accarezzava il profilo, dando al tuo biondo spento sfumature infuocate. Sembravi una sorta di Apollo caduto dalla vetta dell'Olimpo: nostalgico e invocato a gran voce dai fratelli che avevi perduto, a un passo dal fuggirmi via. Ed io ti osservai per un breve istante, persa a immaginare di poterti sfiorare come una serva devota che incontra il suo padrone, ignara del fatto che avrei potuto perderti da un momento all'altro.


L'odore acre della sigaretta che tenevi tra le dita, quelle che io bramavo come una lucertola in cerca di calore, riempiva l'aria, così come quello della mia sta ora infestando la camera, pizzicandomi il naso - questo vizio me lo hai lasciato tu, insieme a tutto ciò che mi fa male, eppure non smetto, né con la nicotina né con i rimpianti.


Quel venerdì mattina mi avvicinai sentendo lo stomaco ribaltarsi nella pancia, stretto in una morsa nauseante. Ero decisa e al contempo terrorizzata. Muovevo passi incerti senza mai fermarmi - e tu ti accorgesti di me prima ancora che ti fossi accanto; riconoscevi il mio andamento titubante, o forse le mie paure.

Scostasti una ciocca facendomi sobbalzare appena e, così, mi riportasti violentemente con i piedi per terra, ricordandomi ciò che avrei dovuto fare. Quello era il momento perfetto, solo noi in quell'angolo di mondo che ci aveva uniti, eppure non trovai la voce. La persi nel momento in cui calasti lo sguardo su di me. Severo, assente. I tuoi occhi parvero guardarmi con una sufficienza che non mi sarei mai immaginata mi avresti riservato. Non era la prima volta che sul tuo viso prendeva forma un'espressione tanto ostile, fredda, ma al tempo non capii cosa vi si nascondesse realmente dietro. Non compresi la tua bocca stretta in una linea dura, né il silenzio con cui percorremmo la strada fino alla pensilina e poi al centro città. Mi convinsi che fosse colpa di un qualche esame imminente, della tensione che non potevi sfogare altrimenti - Clèmentine ancora oggi afferma che lo stress alle volte ci rende scontrosi, ma quel giorno c'era altro a turbare i tuoi pensieri - così attesi. Ti salutai alla biforcazione che divideva le nostre strade e lasciai che le ore di scuola passassero nella solita noiosa routine, attendendo con ansia il momento in cui ci saremmo nuovamente ritrovati sullo stesso autobus. Non immaginavo che da quell'istante i percorsi che avevamo preso si sarebbero divisi in modo così netto, impedendoci di camminare nuovamente sulla stessa striscia d'asfalto. Nella mia mente da ragazzetta, ancora troppo ingenua per capire determinate cose, non esisteva la possibilità che i nostri mondi prendessero a ruotare su due orbite differenti, eppure oggi, con il senno di poi, mi domando se non avessero iniziato ad allontanarsi tempo prima.


Quella, ad ogni modo, fu la prima occasione in cui dei ragazzi si accorsero di me, in cui ricevetti dei complimenti. Ne fui lusingata, anche se a metà - avrei voluto che fosse la tua bocca a pronunciare simili parole, ma qualcosa in te si era definitivamente spezzato, quel venerdì. Io mi ero fatta carina, avevo sciolto i capelli e tirato sul viso linee di kajal che avrei voluto tu notassi e apprezzassi, ma ancora mi domando se te ne sia reso conto o meno, se almeno uno dei miei sforzi avesse erroneamente catturato la tua attenzione. 
Mi ero preparata come una sposa per la sua prima notte di nozze, ma tu ignorasti ogni mio accorgimento. Silenziosamente rifiutasti ogni parola che avrei dovuto dirti ma non ti confessai mai - e quando a fine lezione non ti trovai né alla fermata né sull'autobus verso casa, iniziai a capire.

Alla fine di quell'orribile giorno, che nella mia testa avrebbe dovuto essere tanto speciale, bussai alla porta di casa tua e, ritrovandomi davanti il viso scavato e gli occhi rossi del Signor Petrov, il padre che per te era scappato dalla guerra dell'Est Europa, mi fu chiaro che non ci sarebbe stata una seconda possibilità. Avevo perso ogni occasione di svelarti il mio amore e tu, con quel gesto, mi spezzasti per sempre. Sì, perché il fatto che mi avessi tenuta all'oscuro di una simile vigliaccata fu sufficiente a farmi capire che mi avevi sempre considerato insignificante, un mero passatempo per le tue ore buche. Mi urtasti con la stessa violenza di un tir, lasciandomi sul ciglio della carreggiata a morire mentre il sangue sgorgava dal petto e da quella bocca che non era riuscita ad aprirsi quando ne aveva avuto l'occasione. 
Nella mia testa avevi commesso la più vile delle azioni, trasformando ogni momento insieme in una farsa. Mi convinsi che per te altro non ero se non la mocciosa che ti faceva compagnia, la rompiscatole che ti portavi appresso, la figlia dei vicini che sfortunatamente ti era capitato di avere accanto. Passai ore a crogiolarmi su quel pensiero, smettendo di trovare gioia in qualsiasi angolo di Marsiglia che ci aveva visti l'uno accanto all'altra. Diventai acida e scontrosa, mi lasciai sprofondare in una sorta di auto-commiserazione che ancora adesso fatico a staccarmi di dosso. Ci volle tempo, molto forse, ma alla fine arrivai semplicemente a credere di non essere mai stata abbastanza importante da venir informata della tua partenza, del tuo lavoro strapagato in una compagnia estera e della laurea che avresti conseguito altrove. La mia presenza nella tua vita non valeva alcuna spiegazione, figurarsi una lettera, una chiamata o addirittura un ritorno.

Andasti via e mai tornasti, se non stampato su qualche giornale di business o gossip.

Così, mentre ora apro le ante della mia finestra, nemmeno mi volto a guardare quelle di camera tua; tanto la luce è spenta e le tende sono tirate, il tuo letto è vuoto e se avvicino l'orecchio alla parete non sento nulla - non musica o risate, non gemiti o sospiri.

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Capitolo 3
*** Ce qui reste ***




Ce qui reste

In questo quartiere nulla sopravvive, nemmeno il canto degli usignoli o il tepore del sole. Il buonumore appassisce velocemente, soffocato forse dal troppo cemento.

Guardo l'orizzonte dalla cucina, aspettando un caffè che pare non voler salire e fingendo di ascoltare le chiacchiere di mia madre che, troppo presto, sono finite a reclamare argomenti di cui non mi frega nulla. Mentre recito la parte di interlocutrice mezza addormentata mi chiedo se dalla tua finestra si veda questo stesso cielo carico di pioggia. Grosse nuvole coprono l'azzurro, apparendo come una coperta lisa sotto la cui stoffa si nasconde un bambino chiamato Sole.

Non vorrei pensarti, anzi, non dovrei, eppure stamattina non riesco a fare a meno di ricordare la tua testa bagnata dal maltempo e i vestiti che ti si incollavano addosso, lasciando che i miei occhi da timida adolescente si riempissero di ogni linea del tuo corpo e facendo battere il cuore con così tanta forza da farmi credere potessi morirci. Negli anni ho cercato spesso quelle sensazioni, la fibrillazione che mi procuravi. Alle volte, soprattutto le prime, quando passavo le dita sulla carne altrui socchiudevo le palpebre provando a vedere se i ricordi si potessero sovrapporre a ciò che avevo in quel momento. Sono state esperienze di puro masochismo, atti di cocciuta ostinazione che, nel tempo, ho abbandonato per amore verso me stessa. 
Ti cercavo senza mai trovarti, facendomi male. Erano pugni nello stomaco che mi portavano alla nausea, così alla fine ho solo smesso di tenere la tua immagine stretta tra le dita.

La notte non riempi più i miei sogni, la tua voce non è un'onirica sirena che cerca di trasformarmi in Ulisse - anche perché dubito sia la stessa di allora. Ciò che ancora fai, in sporadiche circostante, è infestare i miei giorni - non tutti, grazie al cielo, solo quelli successivi all'incontro col tuo viso su qualche quotidiano. Di norma sono un paio, raramente capita che si protraggano per più tempo.

E per questa ragione mi ritrovo a odiarti ogni volta che permetti a un paparazzo di immortalare il tuo profilo tagliente, la linea dura delle tue labbra che mi riporta indietro fino ad allora, inabissandomi in un mare di ricordi e pensieri che non dovrebbero parlare di te, o di quel noi che non siamo mai stati. Odio ogni memoria fanciullesca che mi hai lasciato perché, senza di loro, non avrei nulla su cui rimuginare, alcun risentimento da portarmi ancora appresso - ma hai voluto entrare a far parte della mia vita per diciotto anni, mosso da una noia perenne e un sadismo latente. Dovevi trovare qualcuno da addomesticare e, quando finalmente sei stato certo d'esserci riuscito almeno con me, mi hai semplicemente abbandonata insieme a quel che resta della tua famiglia. Ero il tuo cucciolo, il capriccio natalizio di un bambino viziato, poi quando siamo cresciuti mi hai lasciata sul ciglio di una strada che non avrei mai voluto percorrere da sola - ma l'ho fatto. In quei primi giorni di solitudine, in quelle settimane e nei mesi ho temuto di non tornare più da me stessa, di essermi persa per sempre. Chi era Felì, senza di te? Chi ero senza colui che era diventato il mio tutto? 
Forse non sono arrivata lontano quanto te, anzi, nemmeno ho raggiunto la metà dei tuoi successi, eppure ho proseguito per riuscire a riscoprirmi un po', per ottenere qualcosa di più concreto del semplice rammarico.

Mi prendo il viso tra le mani, tiro la pelle e porto indietro i capelli liberando la vista che, finalmente, decido di allontanare dalla finestra. 
Quel grigio ha le tonalità dei tuoi occhi.

Mamma mi sorride in modo strano, fisso. Forse ha fatto una domanda che io nemmeno ho sentito.
«Che?» Le chiedo corrugando le sopracciglia. Dovrei prestare più attenzione alla realtà, me ne rendo conto, peccato che ogni cosa intorno a me sia vuota, vaga, soprattutto quando cammino a ritroso tra i ricordi legati a questo posto.
«Tutto bene, cara? Dicevo che papà ed io stasera usciamo, se vuoi ti preparo qualcosa per quando torni».

Sì, le valige e un elettroshock.

«No, tranquilla. Ordino una pizza».

Nemmeno dimenticando chirurgicamente quel giorno di sette anni fa riuscirei a liberarmi da questa sensazione di costante inadeguatezza, qualcosa in me resterebbe ancorato alla porta di casa tua chiedendosi cosa abbia fatto di male per non meritare neppure un saluto.

Meglio se la smetto di pensarti, nonostante la distanza resti tossico come sempre - e forse è questo il brutto dei primi amori non corrisposti: ti scavano dentro, lasciandoti rovinato.

Mi volto verso la tazza di caffè che ho appoggiato sul piano della cucina, osservandola con una pigrizia che sa di ore piccole e sogni movimentati. Non ricordo di averla riempita, men che meno di aver udito la moka ribollire - magari è stata mamma tra una chiacchiera e l'altra, chissà. Chiunque sia stato, comunque, si merita che io lo trangugi, in modo da impedire al sonno di avere la meglio su di me tra una lezione universitaria e quella successiva, eppure d'un tratto ho lo stomaco chiuso. Questa giornata è partita male, avrei dovuto sospettarlo ieri sera quando, cedendo e guardando la tua finestra, non ho visto altro che assenza.

Con un sospiro afferro la ceramica, me la porto alle labbra e trattengo il respiro: forse così andrà giù, come quelle medicine amare che ci costringono a prendere da bambini. 
Il caffè riempie la bocca, scivola lungo la gola e si deposita in uno stomaco vuoto, infastidendolo. Un gorgoglio sale in risposta alla mia sconsideratezza, avvertendomi che, se dovessi osare accendere una sigaretta nei prossimi minuti, me la farebbe pagare senza alcuna pietà. E non ho tempo, oggi, per giocare a chi è più testardo tra la mia volontà e il corpo, ho un appello a cui non posso mancare.

«Io vado, ci vediamo dopo».

Mamma scuote la testa: «Guarda che facciamo tardi!» mi avverte, credendo ancora che le dieci di sera siano un orario definibile come "tardi".

Annuisco, anche se in verità non m'interessa molto ciò che hanno in programma; dopotutto io sarò comunque qui, sola. Gli autobus verso quest'angolo di mondo smettono di circolare appena dopo l'orario di cena e, senza la mia Kadett o qualcuno a cui chiedere un passaggio, è impossibile far ritorno dal centro di Marsiglia - non ho via di fuga.

Scivolo lungo gli spazi di casa, infilando le scarpe giusto prima di uscire. Con la borsa a penzoloni su una spalla mi muovo svelta sui gradini che conducono all'uscita, sentendo l'oppressione di questo quartiere farsi sempre meno soffocante; solo l'idea di allontanarmi da qui mi fa stare bene, anche se si tratta solo di una decina di chilometri.
E mentre saltello da un gradino all'altro mi ritrovo a pensare ancora una volta se tutto questo avrà mai fine, se un giorno riuscirò a sentirmi diversa da come sono ora, magari piena, presente, concreta.

Ma sono vuota.
Triste.
Rotta da un passato che vorrei non ricordare e che invece mi tormenta, esattamente come una cosa incompleta.


 

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Capitolo 4
*** Fèlicienne ***





Fèlicienne


 

Con gli occhi rossi di chi anela riposo mi volto verso l'orologio che da sopra la lavagna studia gli studenti, minacciandoli di portargli via tempo prezioso per concludere le ventidue domande di un test preannunciato da settimane ma per cui nessuno si è prodigato fino all'ultimo, nemmeno io. Il ticchettio insistente sembra volermi canzonare: "te ne mancano ancora tre Felì, non ti vergogni? Su, su, nemmeno stavolta prendi trenta" - non che ci abbia mai sperato, in effetti. E mentre lo fisso, e lui lo fa di rimando con me, mi chiedo per quale stupida ragione abbia deciso di iscrivermi alla facoltà di architettura. Da bambina non ho mai sognato di mettere fondamenta, scegliere materiali, studiare spazi - per me un posto valeva l'altro finché stavo bene con le persone che mi erano attorno. Crescendo però, ho sviluppato quell'inspiegabile repulsione per il luogo in cui sono stata costretta a vivere e, alla fine, mi sono ripromessa che non avrei permesso a nessun palazzo fatiscente di terrorizzare o rovinare le giornate di altri mocciosi: c'erano già così tante cose brutte ad aspettarli. 

Nel tempo ho provato a dare alla mia decisione altri significati, però non c'era nulla di più e nulla di meno. Non ero affascinata dai lavori di Le Corbusier, Wright o Mackintosh, non vedevo nulla di soddisfacente nel loro modo di sviluppare forme e arredi, eppure riconoscevo a tutti dell'inventiva, della caparbietà e uno stile unico - per questo ora, mentre guardo le lancette che si muovono sul quadrante bianco, mi domando cosa scrivere riguardo al Vitra Fire Station, l'opera a mio avviso meno esaltante della carriera della povera Hadid. Più ci penso e meno risposte riesco a trovare. Attendo invano l'illuminazione, provando a scongiurare qualche santo di venirmi incontro, ma ciò che arriva alle mie orecchie è solo il vocione baritonale del professore di Storia dell'Architettura Contemporanea.
Consegnate, dice.
E nonostante io possa ostinarmi a restar seduta e guadagnare ancora qualche minuto, come fanno i più, mi alzo raccattando penne e matite, poi m'incammino verso quello che un tempo doveva essere stato uno tra i docenti più affascinanti della facoltà, ma che ora ne è solo il ricordo sbiadito. Chissà quante alunne hanno perso la testa per lui, per il modo che aveva e alle volte ha ancora di raccontare le imprese architettoniche di uomini e donne in cui avrebbe tanto voluto rispecchiarsi. Chissà quante si sono alzate le gonne davanti ai suoi occhi nero pece, o quante bugie deve aver raccontato alla moglie per giustificare i suoi ritardi - perché sono certa, così come lo sono di non prendere trenta, che almeno una volta sia successo; che una scappatella o due siano segretamente successe. A tutti piace il proibito, in passato persino a me.

Ora lui mi guarda, ed io gli sorrido.

«Quante?» mi domanda, ormai avvezzo alla mia costante incompletezza accademica - specchio riflesso di quella emotiva. Da quando ho iniziato questo corso lui dice di aver visto in me la scintilla degli studenti più promettenti, eppure io riconosco solo la loro pigrizia.

Sorrido di più: «Tre».
«Potevi puntare al trenta».

Mollo la presa sui fogli dell'esame. Come ho detto, lui vede in me ciò che non esiste, la chimera di un futuro brillante in qualche studio di Parigi, o forse la speranza di quella mutandina calata. Alzo le spalle e scrollo la testa, avvertendo già una presenza farsi vicina. Il tempo di dilungarsi in chiacchiere si accorcia a ogni passo che lo studente dietro di me compie, così mi spiccio: «Non sono mai stata brava a ottenere ciò che voglio e dare ciò che si spera» affermo, elencando tra i pensieri la lista di desideri infranti.

A quattro anni un fratellino.
A sei un cane, visto che il fratellino era troppo dispendioso.
A nove un game-boy tutto mio, dato che pure il cane era troppo impegnativo; inoltre tutti i bimbi del palazzo lo avevano e si scambiavano i giochi, passando ore a raccontarsi dei progressi fatti.

A undici anni volevo che Aalina tornasse dall'ospedale, ma poco dopo desiderai semplicemente che la sua assenza non fosse così opprimente.
A quattordici il primo bacio, il suo.
A quindici di essere nel letto oltre la parete di camera mia, al posto di qualsiasi ragazza si trovasse lì nei pomeriggi afosi e in quelli gelidi. Mi domandavo perché non potessi essere io quella che riempiva i suoi vuoti quando il padre era via.
A diciassette volevo che il mio amore fosse ricambiato e a diciotto che lui tornasse.
A diciannove anni pregavo di poter andare via da Marsiglia e dimenticare ogni male.
A venti che la sua carriera andasse a puttane.
A ventiquattro vorrei un trenta e lode senza dover buttare il mio tempo su dei libri di cui in effetti non me ne frega nulla.

Il professore resta fermo, mi fissa. Sento i suoi occhi sulla nuca, arpioni che cercano di fermarmi: «Forse se ti applicassi di più...» ma non gli do tempo di finire. Chiudo la porta dell'aula e senza esitazione mi immetto nella fiumana di gente che cambia stanza, oppure va a pranzo o scappa dall'ennesima lagna. Non ho alcuna voglia di dar spettacolo a chi è rimasto seduto, men che meno di udire la stessa solfa che ogni adulto propina a coloro che ritengono ancora troppo ingenui: "Se ti applicassi di più otterresti risultati migliori". 
Mi sono applicata per giorni, settimane e pure mesi, ma nonostante ciò sono ancora qui. Sempre qui. Sola.
Così sbuffo socchiudendo le palpebre. 

Non ne posso più. 

Dirlo però non aiuta, non porta a cambiamenti - e intrappolata come sono in questa routine che non mi permette di fare nulla più del lamentarmi, la situazione non migliora. Ho una casa che voglio abbandonare, eppure non guadagno abbastanza per poter partire e ricominciare. Ho un lavoro part-time che mi dà solo ciò che serve per pagare le necessità della Kadett e qualche uscita, oltre che mantenere quel brutto vizio delle sigarette, e la laurea che con tanta fatica sto cercando d'acciuffare dovrebbe essere la soluzione a ogni mio male, peccato che mi abbia bloccata per cinque anni in questo schifo, anche se la fine sembra vicina. Qualcuno però, nella consapevolezza di non poter mutare, riesce a trovare pace, si ritaglia il suo spazio e ci si costringe dentro al pari di un contorsionista. Sorride e mette in mostra la sua capacità d'adattamento proprio come il miglior showman, ma io in questa situazione scopro solo frustrazione; le mie articolazioni sono troppo rigide per bloccarmi in una scatola di latta che pare avere la forma di una bara.

Con le dita sposto le ciocche sfuggite alla coda, quelle che fastidiose mi ricadono sul viso, poi mi mordo il labbro ed esco dal gruppo di studenti che non diminuisce mai, obbligandomi insieme ad altri a raggiungere una delle tante sale comuni, il luogo mistico dove gli studenti di tutte le facoltà dell'ateneo si riuniscono per ripassare, chiacchierare o mangiare schifezze - anche perché fuori, nel parco, fa troppo freddo per accamparsi.

Il mio corpo agisce prima che la mente possa mettere insieme un qualsiasi tipo di pensiero, così con lo sguardo inizio a cercare un viso amico - sì, perché seppur ogni cosa intorno a me sia di dubbia piacenza, qualche persona a cui voglio bene c'è e, tra queste, Clèmentine è forse la più importante.

La sua mano si leva in cielo, sventola per indicarmi il tavolo di cui è riuscita a impossessarsi lottando furiosamente con i ragazzi a un passo dal diventare zombie ed io, ammaliata dalla moltitudine di bracciali in legno e ferro che cozzano melodicamente al suo polso, mi faccio condurre a lei come un topo che segue il pifferaio. Avanzo svelta, sempre più - e quando incontro il suo sorriso non posso far altro che ricambiare. 
Finalmente pace.
Finalmente qualcosa di reale.

«Allora?»
«Ne mancavano tre».

Ciò che di Clèmentine ho sempre apprezzato, dal giorno del nostro primo incontro all'asilo ad ora, è la complicità che naturalmente si va a creare tra noi, quel modo semplice e alle volte infantile con cui un commento privo di contesto, o uno sguardo, ci permettono di comunicare. Con lei non ho mai dovuto fingere, men che meno sforzarmi di farlo: sarebbe stato inutile. Persino nei silenzi, anche quelli più prolungati, lei riesce a vedere il problema, a leggere i miei pensieri. Che li capisca è un'altra storia, nemmeno dopo vent'anni ci riesce, eppure a me è sempre andato bene così - non mi serve un simbionte, ciò di cui ho bisogno è solo un sostegno. E lei lo è diventato, passo dopo passo in questo strazio che è diventata la mia vita a Marsiglia.

I suoi occhioni nocciola, circondati dal kajal, si puntano severi su di me, mentre i bracciali tintinnano quando si porta le mani ai fianchi e bofonchia: «Felì, me lo avevi promesso!» Il suo rimprovero però ha una sfumatura fanciullesca, è un suono cristallino che pizzica le orecchie e m'impedisce di prenderla seriamente. Mi pare quasi di aver di fronte una bambina, la sorellina che in un passato lontano ho desiderato ardentemente - invece è la mia migliore amica, forse l'unica che possa realmente definire tale e, sulla carta d'identità, come me, ha superato da un po' la maggiore età.

«Dubito».
Scuote il capo e arriccia le labbra carnose: «Ma non il trenta, sciocchina! A me basta che prendi diciotto...» ora sposta dal viso i ricci ribelli, sbuffa nello stesso modo in cui faceva a otto anni: «Intendevo dire che ci saremmo dovute laureate insieme» ammette poi, forse in parte offesa dalla mia negligenza e riluttanza. Lei dopotutto è una di quelle poche persone che alle promesse dell'infanzia ci crede ancora, non ha capito che crescendo certe frasi diventano solo dolci ricordi vuoti. Clèmentine a differenza mia ha conservato il candore della fiducia, la speranza fragile di aver di fronte persone sincere, leali - nonostante le prove non vuole credere che qualcuno a cui tiene possa deluderla. 
Più volte, durante la nostra frequentazione, l'ho trovata sciocca e in altrettante occasioni le ho urlato contro quanto odiassi la sua ingenuità, eppure siamo ancora qua, una accanto all'altra. Lei accetta la mia insofferenza nei confronti di ogni cosa, io la sua eterna bontà d'animo.

Mi avvicino, poggiandole la testa su una spalla. La sua criniera rossiccia è scudo, coperta soffice in cui nascondersi dai pensieri e dagli sguardi, per questo vi cerco ancora rifugio, ora più di prima, e ne annuso il profumo confortevole cercando di non pensare a quanto la invidio: vorrei trovare anch'io la sua forza.

«Pensi che mi boccerà?»

La sua guancia mi tocca la fronte: «Penso che con te sia ancora difficile avere certezze». Rido, e lei con me.
«Ci laureeremo insieme, tranquilla» ma la mia non è né una promessa né una certezza, solo la flebile speranza di non farmi nuovamente sopraffare dalla pigrizia e rimandare, perché come ogni masochista odio ciò che mi fa male, eppure mi crogiolo nel dolore che mi procura.

 

 

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Capitolo 5
*** Maisons vides (1) ***





Maisons Vides
part un

Clèmentine ha un fidanzato. Ne ha avuti diversi, in passato. Da quando le sono spuntate le tette i ragazzi non hanno fatto altro che ronzarle attorno al pari di mosche fastidiose, ma lei si è concessa a pochi per paura che le venisse spezzato il cuore. Ed è successo, in qualche occasione, così me la sono ritrovata a piangere sotto casa dopo ogni rottura. L'ho assistita mentre componeva messaggi disperati e li inviava agli idioti più disparati, le ho ripulito la bocca quando a ogni cucchiaiata di gelato la metà le si spalmava sul viso: un po' perché piangeva troppo, un po' perché era ed è impacciata. L'ho tenuta nel mio letto quando mi supplicava di non lasciarla sola, che sennò avrebbe fatto qualche pazzia, ma da quando c'è Kareem non l'ho più vista triste. Non una telefonata nel cuore della notte o una dichiarazione di palese follia, solo foto e video della sua meravigliosa storia d'amore.

E' fortunata, non posso negarlo, e forse lo è perché più buona di me.

Lei e Kareem si sono conosciuti in segreteria durante il nostro primo semestre qui. Lui studente di Marketing un anno più grande di noi, lei matricola confusa di Mediazione. E' stato il colpo di fulmine più romanzato di cui abbia mai sentito parlare, eppure stanno insieme da quasi quattro anni. Si amano come due cuccioli che fanno amicizia: con un infinito entusiasmo, curiosi e pronti a cogliere qualsiasi opportunità la vita riservi all'uno o all'altra, finché possono viverla insieme.

Pensano al domani, ma lo fanno senza costruire chissà quali piani - mentre io, forse perché la facoltà di Architettura un po' ti ci obbliga, sono finita a mettere in piedi mille impalcature per quello che vorrei diventasse il mio futuro. Come mi è stato insegnato, non si può presentare alcun progetto senza prima aver valutato ogni singolo pro e contro, senza aver soppesato l'alternativa migliore e l'eventualità peggiore. In breve, ho aggravato una situazione già di per sé negativa - eppure avrei dovuto imparare qualcosa dal passato che tanto cerco di cancellare, avrei dovuto capire che in alcuni casi non si può programmare nulla, perché i sogni sono fragili e si distruggono con fin troppa facilità.

Ed è forse per questo che non sono più come lei: felice.

Ad ogni modo, sta di fatto che Clèmentine ha un fidanzato, un ragazzo che ora si avvicina a noi sorridendo. 
Ai miei occhi Kareem non è bello, il suo aspetto si discosta parecchio dall'ideale di bellezza che ho in mente, lascito di un'adolescenza che sarebbe meglio annegare definitivamente, però è simpatico e la sua presenza, a differenza di quella di moltissimi altri studenti, non urta la mia pazienza.

«Se te lo stai ancora chiedendo, Felì, il segreto è masticare bastoncini di liquirizia» mi dice picchiettandosi i denti e riportandomi alla realtà. Con orgoglio sfoggia due arcate tanto bianche da risultare quasi fastidiose sulla sua carnagione color cammello. In qualche modo cerca di strapparmi dalla trance in cui spesso mi ritrovo prigioniera, quell'assenza momentanea che fa convergere su di me sguardi che preferirei restassero altrove - e per riuscirci sfoggia una delle sue carte migliori. Sono certa che sia per via del suo sorriso che la mia migliore amica si è innamorata di lui, ma anche della battuta facile e del buonumore contagioso, due doti che nel nostro mondo, per troppo tempo, sono state escluse.

«Continuo a non crederti» ribatto dopo qualche secondo di ritardo, scoprendolo già perso ad amoreggiare con la sua donzella dai lunghi capelli rossi.

Così li guardo un poco. 
Lo faccio mordendomi la lingua.
Poi riporto gli occhi sulle mie dita dalle unghie viola e gli anelli con cui le adorno, per sembrare un po' più femminile. Mi dà fastidio il modo in cui Kareem e Clèmentine si strofinano i nasi, si tengono le mani, si guardano come se il resto del mondo fosse solo una scenografia vuota dietro alla loro performance - perché a me non capita mai. Quando ubriaca mi lascio andare a qualche pomiciata lasciva la mia testa pensa ai baci che non ho dato, a come le lingue che provano a infilarsi nella mia bocca siano tentacoli umidi. Quando scopo con qualche persona per cui mi illudo di provare qualcosa spero sempre che nella stanza accanto qualcuno ci ascolti, che lo senta, mi senta e ne soffra - ma dalle mie labbra non esce un gemito, dal mio ventre non si libera alcun piacere. Forse è la coscienza che oltre le pareti di quelle camere non vi sia chi mi auguro, o forse, semplicemente, mi sono inaridita così tanto da non essere in grado di provare nemmeno le sensazioni fisiche più primordiali.

Finalmente i visi dei miei amici si staccano e il presente mi strappa da questi pensieri.

«Allora, l'esame?» gli occhi nero pece di lui mi si posano addosso. La speranza insegue la gioia lungo tutta la sua espressione - ma nessuna delle due è realmente per me, sono entrambe emozioni riflesse, sensazioni che proverà quando la sua dolce metà sarà rincuorata, quando il suo sogno di laurearsi il mio stesso anno sembrerà essere sul punto di diventare realtà.

«Vuoi la verità o qualche stravagante bugia?» mentre lo dico, con una mano inizio a rovistare nella borsa alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare. Tendo un sorriso, ma di divertente c'è un gran poco.
«Felì si è nuovamente auto sabotata.»
«Non essere così drastica, ho solo...» le parole mi muoiono in gola. Forse l'ho fatto davvero, o forse ho semplicemente lasciato che questi giorni autunnali mettessero in letargo la mia voglia di compiere qualsiasi azione all'infuori del respirare, dormire, mangiare e fumare - anche al lavoro ho cercato di andare il meno possibile.
«Sì, esattamente, hai solo... dimenticato di studiare» l'eco di Kareem tramuta il mio sorriso in un ghigno infastidito, anche se mi sforzo per non controbattere. Non ho bisogno di qualcuno che sottolinei la mia incapacità di restare concentrata, men che meno che evidenzi la mia incostanza nel portare a termine gli impegni presi; so benissimo di essere un disastro. 

Finalmente trovo il sacchettino della frutta nascosto dietro il libro di Murakami che mi porto sempre appresso - la speranza di finirlo non si è ancora dissolta, eppure dubito di poterlo continuare - e nell'estrarre la mia banana annerita colgo la scusa perfetta per allontanare lo sguardo dai due che ho di fronte, specialmente da lui, perché in questo momento non mi va di affrontare alcuna discussione troppo seriosa.

Chiudo la borsa: «Per ora non conosciamo i risultati, quindi la mia naturale inclinazione all'inventiva potrebbe stupirci tutti» dico, pensando a quanto improbabile sia. Non mi sono minimamente impegnata; ho passato più tempo a fissare l'orologio sopra la cattedra e rileggere le richieste che a prestare reale attenzione a ciò che le mie mani stavano scrivendo - probabilmente non si tratta nemmeno di francese corretto.
Clèmentine allunga un braccio, poi mi accarezza il dorso della mano: «Non ti stanchi mai di dire cazzate, vero?» ed io scuoto la testa mentre lei scoppia a ridere. Nel farlo inclina la testa da un lato, lascia che la sua criniera di ricci rossi cada addosso alla spalla del fidanzato e poi, lentamente, finisce con il poggiarci la tempia. Vi si appoggia come se fosse un cuscino, delicatamente, con estremo sollievo.

Prendo a sbucciare la banana. Ci sono giorni in cui riesco a tollerare con estrema facilità le loro continue smancerie, trovandole quasi tenere, altri in cui fatico un po' di più, come oggi, e poi ci sono momenti la cui sola idea di star loro intorno mi stringe lo stomaco - sarà perché nonostante l'affetto un po' li odio, perché loro hanno qualcosa che io non ho mai nemmeno sfiorato, chissà...

In punta di dita stacco un pezzo di banana, lo infilo in bocca e mi metto a osservare le persone che ci circondano. Ogni volta mi pare di scorgere gente nuova, studenti mai visti - eppure metà di loro paiono miei coetanei, forse siamo persino compagni di corso. Si tratta per lo più di facce anonime e finti alternativi, di gente travestita da rapper, le cui rime si incastrano solo per sonorità e nessun nesso, di modelle decretate tali da qualche social network statunitense, che promuovono brand di cui conoscono solo il nome e poi... poi c'è chi fa di tutto per confondersi, un po' come me.
Continuo a mangiare, un boccone dopo l'altro finché, dal nulla, Kareem si alza: «Signorine, io vi lascio, ho appuntamento con il relatore.»
Sbatto le palpebre un paio di volte, cerco di mettere a fuoco la situazione e, poi, comprendo: «Passi dalla segreteria?» Lui annuisce, così svelta ingoio l'ultimo pezzo che mi è rimasto in mano e afferro la borsa: «Ti dispiace se ti accompagno?» E in un attimo sono in piedi, pronta a seguirlo perché già conosco la risposta alla mia domanda - quasi gli avessi dato scelta.

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