Elephant's Poop

di Seiten Shiwa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Capitolo ***
Capitolo 2: *** 02 Capitolo ***
Capitolo 3: *** 03 Capitolo ***
Capitolo 4: *** 04 Capitolo ***
Capitolo 5: *** 05 Capitolo ***



Capitolo 1
*** 01. Capitolo ***


Ben trovate, vecchie e nuove lettrici!

Quella che vi apprestate a leggere è... boh!

Non lo so neanche io.

 

… Non so cosa sia... è qualcosa di strano per me: insomma... è la prima volta che non scrivo un rating rosso!!

Sarà la quarantena?! Il virus mi sta lasciando effetti neurologici?!

 

… Non ne ho idea...

 

So solo che, io, Dea del Porno Romanticismo.... NON HO SCRITTO PORNOROMANTICISMO!

Esatto: qui niente sesso!!! ( a meno che non cambio idea all'ultimo XD)

 

In teoria, è una fanfiction introspettiva: un trip psicologico degno di una persona delirante (= me).

 

Quest'idea è nata dopo UN TSO VIOLENTO una chiacchierata con la mia carissima amica Kostanzin! I LOVE U <3

A lei.... devo il titolo e tutte le cose che vedrete snocciolate nel secondo capitolo.

 

Per quanto riguarda i riferimenti “fisici-matematici”, che troverete sempre nel secondo capitolo,

mi sono ispirata alle chiacchierate e figure di merda fatte con la mia Hulka in università, quando lei si disperava per fisica, mentre io l'ho sempre amata. I LOVE U MY PERSON <3

 

Io ho cercato di rendere i caratteri dei personaggi MENO OOC possibili.

Ma... Sherlock e John fanno sempre un po' come vogliono.

Probabilmente, Mycroft e Rosie sono quelli che mi sento di aver gestito meglio.

 

È la prima ff che scrivo sul fandom di Sherlock (e non sarà l'ultima).

 

PREMESSA: CONTIENE *SPOILER* DI TUTTE E 4 LE STAGIONI DI SHERLOCK.

Se non volete rovinarvi la serie, non leggetela!!!

 

 

Dediche:

Tale fanfiction, principalmente, è dedicata proprio a Kostanzin e Hulka <3 <3 <3

Più, a tutti gli altri maschioni del mio cuor: Stephen, Ezio, Ermengaldo, Big Jo, la FraVi e una mia compagna di accademia di canto (te devo trovà un nome da maschio!!!).

 

Altre note:

I personaggi appartengono a Sir Arthur Conan Doyle e alla BBC.

Non ci guadagno niente a scrivere questa roba se non divertirmi.

 

MA e dico MA i personaggi nuovi introdotti da me medesima sono miei, appartengono a me...

E... udite udite... stavolta si ispirano a persone reali!

Sì... dico a VOI, sentitevi prese in causa.

 

Solo a fine storia vi rivelerò chi mi ha ispirato chi.

Ma tanto lo capirete già da sole ;)

 

detto ciò.... BUONA LETTURA!!!
 

 

Elephant's Poop

 

01 Capitolo

 

John era arrivato.

Era anche abbastanza in largo anticipo, rispetto all'orario dell'appuntamento: notò scostando il polsino della camicia per vedere l'ora, e poi risistemandoselo alla bella meglio sotto la manica del suo pullover.

 

Si passò le mani nervosamente sui jeans, e si guardò intorno.

 

Imprecò mentalmente.

 

Mycroft.... sempre il solito dannato Mycroft...

 

Si sistemò il colletto della camicia che sbucava dal pullover, specchiandosi su di un'anta di un grosso mobile in legno rovere, che fungeva da libreria.

 

« è solo una proforma, Dottor Watson... »...

 

Gli aveva detto, con quel tono da Lord inglese che odiava tanto.

Non gli bastava l'Holmes sociopatico con cui viveva: no.

Doveva aggiungersi a rompergli i coglioni anche l'Holmes Governo Inglese.

 

 

Un paio di giorni prima....

 

« Sherlock mi ha detto che hai ripreso a fare incubi... ». Incalzò il maggiore Holmes.

 

« Sherlock dovrebbe farsi i cazzi suoi, di tanto in tanto... ». Rispose John, picchiettando con le dita nervose sui braccioli della poltrona, seduto nello studio di Mycroft.

 

« … dalle parole che urlavi - mi ha riferito - che probabilmente il trauma di rimanere annegato nel pozzo... tu non lo abbia superato... ». Continuò l'altro, senza dar peso al modo volgare in cui si era posto il suo interlocutore.

 

John incassò il colpo, ma non senza sputare veleno in rimando.

« … e tu? Non sogni mai che tuo fratello ti spari?! Per salvarmi la vita?! ».

 

Mycroft sistemò una bustina di tea in una teiera, richiudendone sopra il coperchio.

« … John, non remarmi contro... e poi non l'avrebbe mai fatto! È mio fratello! Avrebbe preferito spararsi... che uccidermi... o ucciderti... ».

 

John rise. Amaramente, davvero amaramente.

« Forse, invece, lo avrebbe fatto... proprio perché sei suo fratello... ».

 

« Che sciocchezze... ». Ridacchiò Mycroft, sistemando il vassoio con teiera, tazza e piattino, in un angolo della sua grande scrivania.

 

« … Guarda che sei stato tu.... Tu... quel fratello che l'ha venduto a Moriarty... lo stesso Moriarty che hai lasciato scopare con vostra sorella Euros... ». John era proprio in vena di vomitare veleno in quel momento.

 

Mycroft iniziò a spazientirsi un pochino di tutte quelle cattiverie... anche se sapeva benissimo che non erano gratuite. Un po' di esse, effettivamente, se le meritava. Ma non questa volta: questa volta aveva proposto a John solo un aiuto. E veramente: nonostante il cuore di ghiaccio che tutti gli recriminavano di avere, stava cercando seriamente di aiutare il dottor Watson.

Che poi... l'idea neanche era stata sua.

Sherlock gli aveva chiesto di fare qualcosa, qualsiasi cosa: non ce la faceva più a sentire le urla di John, ogni notte che passava, per gli incubi relativi a quando stava per morire affogato nel pozzo, a causa di loro sorella Euros.

 

« … Erano solo cinque minuti! CINQUE MINUTI DI CONVERSAZIONE NON SUPERVISIONATA! ». Mycroft alzò la voce, si alzò in piedi: e perfino le sue braccia si alzarono verso il cielo. « … e dannazione, vorrei non parlarne più, Dottor Watson! ».

 

« Oh beh, tu non hai idea di quanto a volte possano bastare anche solo una manciata di minuti...». Ghignò John. « … per fare certe cose! ».

 

Ed ovviamente si riferiva a ciò che Moriarty ed Euros avevano organizzato, e fatto passare a tutti loro.

 

Ma Mycroft lo prese come pretesto per restituirgli un po' di punzecchiate.

« Io credo che tu abbia seri problemi prestazionali a letto, se per te cinque minuti siano abbastanza per un atto sessuale, Dottor Watson... e mi meraviglierei, proprio perché certe cose dovresti saperle meglio di chiunque, mio egregio Dottore! ». Fece spallucce.

« Forse è per questo che, a parte con un'assassina, le tue relazioni non abbiano mai funzionato... lei era dal grilletto facile! Contando ha anche quasi ammazzato mio fratello... Oh! Giusto! Escludendo la relazione che tu hai con mio fratello... quella funzionerà sempre! Finché morte non vi separi!! ».

 

John si alzò a sua volta in piedi: piccato, fece il giro dell'enorme scrivania in legno di acero, e afferrandolo per la giacca, lo addossò contro di essa.

 

Il vassoio tremò, e si sentì il tintinnare della porcellana fra tazza e piattino.

 

« NON NOMINARE MAI Più MARY! O giuro su mia figlia che ti frantumo tutte le ossa del collo! Ed io non ho nessuna disfunzione rettile, ne tanto meno alcuna relazione con tuo fratello! ».

Mycroft pose le mani su quelle del dottore, per farsi mollare, ma l'altro strinse ancora di più la presa della sua giacca. « NON SONO GAY! Quante volte devo ripeterlo?! QUANTE?! ».

 

L'altro uomo non sapeva cosa lo avesse fatto incazzare di più: nominare la moglie defunta, o accusarlo di una relazione con Sherlock.

John si scaldava veramente in modo esagerato quando si sentiva venir attaccata la propria millantata eterosessualità.

« Stavo solo rispondendo alla tua acidità, con lo stesso tono, Dottor Watson... e poi tu sei un ex militare... ».

 

« Sono un dottore militare... », ed avvicinò il viso a quello di Mycroft.

« … Quindi potrei nominare ogni osso che potrei spezzarti, mentre te lo spezzerò! ».

 

Holmes Sr deglutì. Quella frase non gli era per nulla nuova.

 

« … e se non fosse stato per il tuo incontro alla Stranamore, fra tua sorella e quello psicopatico, io non mi sarei mai ritrovato a quasi annegare in un pozzo! In mezzo ad ossa di un cadavere decomposto di bambino! È colpa tua! Solo tua, se mi sono ritrovato in una situazione del genere! Vacci tu là, che penso tu ne abbia più bisogno di me! O di Sherlock! Visto i casini che sei in grado di combinare!! ».

 

« Touchè... ». Alzò le mani in segno di resa il signor Governo Inglese.

 

John lasciò la presa, e si allontanò di qualche passo da lui, iniziando a fare respiri lunghi per calmarsi.

Ultimamente, la voglia di picchiare selvaggiamente Mycroft la teneva a malapena a bada.

E dio... dio quanto avrebbe voluto rompergli almeno uno zigomo con un pugno ben assestato.

Ma non poteva, non doveva. Farlo non gli avrebbe riportato indietro sonni tranquilli...

 

Forse gli avrebbe strappato qualche sorriso sadico, però, vederlo dolorante...

 

Mycroft si sistemò la giacca, e prese un respiro profondo.

Effettivamente, John incazzato incuteva un certo timore. Ma non lo avrebbe mai confessato.

Altrimenti... suo fratello lo avrebbe preso in giro per tutti i prossimi giorni ad avvenire.

… Sempre che non lo avesse dedotto dal mondo in cui lo guardava, tenendosi sempre ad una certa distanza dal dottore...

Ma no, no: Sherlock avrebbe dedotto, da quella distanza frapposta, che semplicemente Mycroft detestava il contatto con un “plebeo” quale un ex militare, ora dottore generico, ed aiutante di un sociopatico iperattivo ex eroinomane che rispondeva proprio a nome di suo fratello minore.

 

« Non ho intenzione di tornarci... E non ho intenzione di ripetertelo!! ». John era deciso a non dargliela vinta in alcun modo. Era tornato dall'altra parte della scrivania. Aveva le spalle leggermente chine in avanti, mentre le mani stringevano la parte superiore della sedia dove era prima.

 

« … Ti ho già preso appuntamento. Lunedì mattina alle 11, dalle parti di East Putney.» Mycroft, però, sembrava non volerne sapere di mollare l'osso.

 

« East Putney!? Ma sei impazzito? È un posto troppo distante da Baker Street! Sarà più di mezz'ora di macchina col traffico! E di lunedì alle 11!! Ma ti ha dato di volta il cervello?! ». Batté le mani un paio di volte sulla sedia, facendola tremare.

 

« Puoi sempre usare la Tube, ed arrivare in venti minuti... ». Lo sfotté Mycroft. Il tono con cui pronunciò la parola “Tube” era quello di un uomo a cui un piccione aveva appena defecato sul completo elegante mentre andava a lavoro.

 

« Non puoi obbligarmi! ». John non ne poteva veramente più di quella conversazione.

 

« Sai... io non sono bravo con gli esseri umani, Dottor Watson...» ed il suo tono assunse quasi sfumature paternalistiche.

« Ma se tu stai male, anche mio fratello starà male... e tu non vuoi che nessuno ti tolga tua figlia... vero?! ».

 

John sbatté un pugno sulla scrivania, per fortuna Mycroft aveva preso da poco la teiera in mano, o sarebbe finita per terra in cocci.

« Non-NON NOMINARE MIA FIGLIA! GIURO MYCROFT! Torno dall'altra parte della scrivania, e... e … ». Era così furente, che non riusciva neppure ad articolare le parole.

 

Mycroft rimise la teiera al suo posto, ed aprì un fascicolo, senza scomporsi a quelle minacce – o per lo meno, cercò di dissimulare al meglio che non le temesse – ne estrasse un foglio, e glielo fece scivolare davanti.

« John... sei un dottore con orari assurdi, non sei praticamente mai a casa: o per lavoro in ospedale, o per stare dietro il cappotto di mio fratello... Tua figlia è praticamente sempre con la babysitter... se qualcuno segnalasse la situazione ai servizi sociali... non pensi, neanche per un momento, che potrebbero togliertela?! Soprattutto se sapessero anche che soffri di PTSD?! E che mio fratello ha fatto uso di eroina?! Basterebbe loro una semplice perizia psichiatrica... ad entrambi... ma sei tu il padre... sei tu quello che potrebbe perdere i diritti su di lei... ».

 

John si morse le labbra a sangue. Ingoiò aria.

Non era giusto ricattarlo moralmente – e non – in quel modo.

 

« … Io non voglio calcare la mano... ma... John … » e nel chiamarlo col suo nome, abbassò la voce, usando un tono più confidenziale. « permettimi di metterti nella posizione di aiutarti... Tu soffriresti come un cane se ti togliessero anche tua figlia... Hai perso molto quest'anno... non credo tu voglia perdere altro... ».

 

Come se non stessi soffrendo già adesso...

Pensò John, ma non glielo disse.

 

« … e poi anche mio fratello sta trovando giovamento dalla presenza della piccola Rosie a Baker Street… ». Nel dirlo si riaccomodò al suo posto. Sembrava onesto.

 

A quell'affermazione, infatti, John alzò di scatto il viso, e puntò i suoi occhi in quelli quasi sorridenti – ma stavolta non beffardi – di Mycroft.

Sembrava veramente sincero nel dirlo.

 

« … Quasi non aspetta altro di metterle anche il suo cognome! ». Scherzò il maggiore Holmes.

O forse era serio?!

 

John inclinò la testa di lato.

Doveva cercare una motivazione a quell'affermazione. Doveva.

Ma gliene vennero in mente troppe, e non fece in tempo ad afferrarle, che si dissolsero nell'aria.

 

« … Lunedì mattina. Alle 11. Pagherò tutto io... ». Mycroft aveva aperto il coperchio della teiera, tirato fuori la bustina dell'infuso, probabilmente per non farlo diventare eccessivamente forte, e la pose con cura sul piattino più piccolo che era presente su quel vassoio d'argento.

 

John, rassegnato, e non meno dubbioso, afferrò il foglio che gli era stato offerto, lo piegò in quattro e se lo infilò nella tasca posteriore dei jeans.

 

Mycroft sorrise, sapendo che finalmente ce l'aveva fatta.

 

John si diresse alla porta, girandosi di tanto in tanto verso di lui. Con quello sguardo da “...non ho ben capito quella frase di prima...!?”.

 

Il signor Governo Inglese si versò del tea, dalla sua elegantissima teiera ad una tazza, entrambe intarsiate d'oro. Oro vero. Perché, insomma, da uno che cena con la Regina in persona, cosa puoi aspettarti? Un corredo di tazzine cinesi da poche sterline?!

 

John osservò quel movimento, mentre una sua mano afferrò la maniglia della porta, e la abbassò lentamente.

 

« … Non ho intenzione di guidare fino ad East Putney nel traffico del lunedì mattina! ». Si lamentò, ma con meno enfasi di prima, come a soppesare più un pensiero.

 

« verrà una mia auto a prelevarti alle 10.15: ho previsto tutto.... » e sorseggiò un po' di tea. Chiuse gli occhi, nel farlo. Si beò di quell'aroma così forte, e del calore di quella bevanda.

 

« Buona giornata, Dottor Watson! ». Lo salutò con un cenno della testa, aprendo con una mano il portatile sulla sua scrivania, pronto ad iniziare la giornata.

 

O forse concluderla?

 

Per John non aveva importanza.

Notte o Giorno.

Stare a contatto con Mycroft gli faceva perdere la concezione nel tempo.

 

« Buona giornata, Governo Inglese! ». Masticò a denti stretti, come gli scocciasse – lo affaticasse – anche solo salutare.

 

Dannazione... qualsiasi Holmes, grande o piccolo che sia, mi fa perdere la concezione del tempo...

Pensò, una volta uscito da quell'ufficio.

 

Il corridoio che si apprestava ad attraversare era lungo ed illuminato da vetrate ampissime.

Si poteva scorgere un meraviglioso tramonto.

 

Altro che “giornata”... ormai era sera.

 

E lunedì sarebbe stato appena fra due giorni...

 

 

 

Ed ora era lì.

Erano le 10.56.

L'auto di Mycroft era passato a prenderlo alle 10.13, e alle 10.15 era già ad una decina di isolati da Baker Street.

 

Il viaggio era stato silenzioso. L'aveva passato a guardare la brulicante Londra fuori dal finestrino scuro, che si agitava, come una ballerina, piena di vita e di possibilità da offrire a chi vi ci abitava.

 

Chiuse gli occhi, e si massaggiò il setto nasale.

 

Se non fosse stato per Rosie – e perché Mycroft lo aveva sottilmente minacciato – non sarebbe mai venuto lì.

 

Dannati... Dannatissimi Holmes!!

Che voi siate maledetti!!

 

Non si accorse dello scoccare delle 11 e che proprio in quel momento la porta di quella specie di elegantissimo studio in cui si trovava, in cui tutti i mobili erano di legno rovere, con quadri di Monet, si aprì.

 

Continua...

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Capitolo 2
*** 02 Capitolo ***


Ben trovate, vecchie e nuove lettrici!

 

Eccoci al secondo capitolo.

Con questo, finalmente, capirete perché ho dato questo particolare titolo alla storia.

 

Non smetterò mai di ringraziare le principali Muse Ispiratrici di questa storia <3 <3 <3

 

PREMESSA: CONTIENE *SPOILER* DI TUTTE E 4 LE STAGIONI DI SHERLOCK.

Se non volete rovinarvi la serie, non leggetela!!!

 

Dediche:

Tale fanfiction, principalmente, è dedicata proprio a Kostanzin e Hulka <3 <3 <3

Più, a tutti gli altri maschioni del mio cuor: Stephen, Ezio, Ermengaldo, Big Jo, la FraVi e una mia compagna di accademia di canto (te devo trovà un nome da maschio!!!).

 

Altre note:

I personaggi appartengono a Sir Arthur Conan Doyle e alla BBC.

Non ci guadagno niente a scrivere questa roba se non divertirmi.

 

MA e dico MA i personaggi nuovi introdotti da me medesima sono miei, appartengono a me...

E... udite udite... stavolta si ispirano a persone reali!

Sì... dico a VOI, sentitevi prese in causa.

 

Solo a fine storia vi rivelerò chi mi ha ispirato chi.

Ma tanto lo capirete già da sole ;)

 

detto ciò.... BUONA LETTURA!!!

 

Elephant's Poop

 

02 Capitolo

 

Non si accorse dello scoccare delle 11 e che proprio in quel momento la porta di quella specie di elegantissimo studio in cui si trovava, in cui tutti i mobili erano di legno rovere, con quadri di Monet, si aprì.

 

« Buon giorno! ». Fu la voce femminile che ne seguì.

 

« Oh... Buon giorno a lei! ». Rispose John, stringendo la mano che gli era stata offerta.

 

Era una donna mora, dai capelli boccolati, con alcune ciocche ben nascoste verdi smeraldo, non troppo alta, e dagli occhi penetranti verdi.

Proprio due smeraldi: come quello che portava all'anulare sinistro, della mano che non aveva stretto, e come le ciocche dei suoi capelli.

 

Il suo colore preferito doveva essere quello...

Dannazione...

Inizio a dedurre anche io, a forza di stare con Sherlock... !

 

« Lei deve essere John Watson?! Molto piacere! ». Sorrise, e con un gesto della mano, lo invitò a sedersi di fronte alla propria scrivania.

 

John si tolse la giacca che aveva e lo posò sulla spalliera della sedia che avrebbe usato, accomodandosi.

 

Lei si tolse il lungo cappotto nero, che aveva l'aria di essere molto caldo, visto quella gelida mattina Londinese – nonostante un bellissimo e quanto mai raro sole. Lo appese ad un attaccapanni dietro la porta, ed afferrò il camice appeso proprio lì di fianco, indossandolo.

 

Deduco sia anche molto avvezza all'ordine, dal modo in cui sistema le cose sulla scrivania...

Niente... Sherlock mi ha proprio contagiato con questa scienza della deduzione...

Devo smetterla!!!

 

« Piacere mio... ? » rimase in dubbio, non sapendo il suo nome.

 

« Dottoressa Ginevra Meier! ». Rispose lei, con un sorriso radioso, finendo di sistemare delle cose sulla scrivania: fascicoli, cartelle, che aveva tirato fuori dalla sua borsa da dottore... proprio simile ad una di quelle con cui John si recava a lavoro in ospedale.

 

Non era abituato ad essere lui, però, il paziente.

 

Per troppi anni aveva vestito il camice, che trovarsi con un suo collega, e non per una chiacchierata fra amici, lo faceva sentire leggermente impotente.

 

« Dottoressa Meier... » assaporò quel nome sulle labbra.

 

Probabilmente non è di Londra...

 

« No, se se lo sta chiedendo, non sono Inglese... sono di origine svizzera, anche se ho avuto un nonno che viveva in Italia... ».

 

Lui rimase stupito.

 

Non ditemi che...

 

« Non faccia quella faccia, Signor Watson... Mycroft non è uno che rende la vita semplice alle persone. ». La dottoressa fece un sorrisino eloquente.

 

John sorrise, alzando gli occhi al cielo.

Dannato Mycroft... Dannatissimo... che tu sia sempre dannatissimo Mycroft!!

 

« Negli anni ho potuto seguire il caso di Sherlock, anche se non troppo da vicino. Ed anche quello di Euros. Veramente due menti geniali... la loro scienza della deduzione mi ha affascinato a tal punto, da volerla integrare alla mia di scienza... ».

Si accomodò finalmente sulla poltrona, ponendo le mani di fronte a sé.

 

« … e Mycroft?! Lui non è mai stato oggetto dei suoi studi?! ». John cercò di stemperare l'ansia che lo aveva accompagnato fino a quel momento.

 

Lei offrì un sorriso birichino.

« Va contro i miei principi. Siamo colleghi. Abbiamo sempre lavorato a stretto contatto. Non potrebbe mai essere mio paziente... forse di qualche mio collega... ». Gli fece l'occhiolino.

 

« Non potrebbe avere neanche me in cura, allora... visto sono in stretto contatto con un suo altro paziente! ». Riferendosi a Sherlock.

 

« Ho solo studiato le menti di Sherlock ed Euros. Non sono mai stati miei pazienti. Quindi no... Anzi, proprio perché lo sarà – lo è appena diventato – non potrò avere più Sherlock fra gli aspiranti mie pazienti... ».

 

« Come se Sherlock accettasse di buona lena di andare dallo strizza cervelli... ». Mugugnò a voce troppo alta John.

 

« Oh, suvvia! Non denigri così il mio lavoro! ». Lo disse scherzando, e poggiando la schiena contro lo schienale della propria poltrona.

 

« Per carità, non mi permetterei mai... ! ». Alzò le mani lui, capendo di aver fatto una battuta fuori luogo.

 

Lei avrebbe voluto ridacchiare del volto imbarazzato del dottore, ma le parve una cosa davvero poco professionale.

 

« Allora... qual buon vento la porta nel mio studio?! ». Chiese lei, aprendo le braccia.

 

« … ah... Mycroft non le ha detto che mi ci ha trascinato sotto ricatto?! ». Rispose sarcastico.

 

Questa volta lei si lasciò andare ad un ghigno, che lasciava sottintendere molte cose.

« Non credo il Signor Holmes Senior le abbia puntato una pistola alla tempia, per costringerla ad attendere a questo nostro appuntamento... ».

 

« Oh! Come se gli mancasse il coraggio! … magari di imbavagliarmi, e trascinarmici incappucciato, se necessario!! ». John guardò fuori dalla finestra. Quanto gli rodeva stare lì.

Dannati Holmes... Sempre a gestirmi la vita...

 

« Ma non è questo il caso... no?! ». Indagò lei.

 

« No... ». Pronunciò lui: a denti stretti, in modo secco, asciutto.

Poi volse il viso nuovamente a guardarla.

Alla fine lei non aveva colpa. Lei stava facendo il suo lavoro.

E lui non poteva comportarsi da maleducato nei suoi confronti.

 

Dannato Mycroft...

Che non si prende neanche la colpa dei suoi sotterfugi...

 

« Non sono abituata a lavorare in climi ostili... Se proprio non vuole attendere a questo meeting, la porta è lì, e non la obbligherò in alcun modo a restare... ».

Ginevra Meier non era una che amava perder tempo. Era una precisa, chirurgica, professionale.

 

John tornò ad osservare i quadri nella stanza.

E come un idiota, riprese a dedurre alla Sherlock...

 

I quadri di Monet donavano quel tocco di colore a quella stanza resa cupa dall'arredamento in legno e dall'unica piccola finestra, lontana da dove erano seduti.

 

Erano quattro quadri in tutto: I Papaveri, Spiaggia a Pourville, Un percorso nel giardino e Il ponte di Argenteuil.

 

Quest'ultimo era il più vicino alla porta.

 

John la fissò, e la tentazione fu forte.

Strinse serratamente i pugni, posati sopra le gambe, e non seppe cosa sperare: se avere il coraggio di alzarsi per andarsene, o avere il coraggio di rimanere.

 

I suoi occhi trovarono rifugio da quei pensieri concentrandosi sul quadro di Monet che rappresentava Il percorso in giardino, e che si trovava proprio alle spalle della dottoressa.

 

« … Come se lavorare, mi perdoni, studiare casi come quello di Sherlock ed Euros sia stato poco ostile...». Si ritrovò a dire, tanto per riprendere a dire qualcosa.

Qualsiasi cosa, che non fosse la frase “voglio andarmene”.

 

Lei si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

 

John notò che aveva l'intero padiglione auricolare ornato da piercing.

 

« Tutt'altro... è stato molto divertente... ». Sorrise lei. E sembrava veramente orgogliosa di ciò.

 

Ah beh... per fare il lavoro che fa, gli devono piacere quelli strani...

Altrimenti non si spiega...

 

« Probabilmente, sì... » rispose la dottoressa, alle sue supposizioni mentali.

 

Lui rimase di ghiaccio, all'ennesima deduzione.

 

« Mi parli di lei, John Watson... » aprì le mani lei, mostrando i palmi verso l'alto.

« Perché Mycroft le avrebbe preso appuntamento con me, questa mattina?! Oppure non so... mi parli di qualsiasi altra cosa... Ma mi parli di lei. ».

 

John si massaggiò il setto nasale, e respirò un paio di volte.

Ormai era lì.

Non aveva senso opporre resistenza.

 

Tanto la dottoressa Meier avrebbe dedotto cose alla Sherlock: non aveva scampo.

Non aveva via d'uscita.

 

Portò gli occhi nuovamente al quadro dietro di lei.

Quel percorso fiorito lo associò al suo percorso di vita.

Peccato che di fiorito, esso, non avesse nulla... anzi, tutt'altro.

Si sentiva come se tutta la vita che avesse vissuto fino a quel momento fosse stata un lungo viale, nel quale si era lasciato alle spalle fiori appassiti.

 

« Okay... le parlerò di me.». Acconsentì lui, mettendosi a braccia conserte.

 

Lei annuì, felice, e si sistemò ancora più comodamente contro la sua poltrona girevole, mantenendo comunque una posa composta, professionale. Solamente più a proprio agio.

 

« Sono un dottore. Un medico militare. Ho prestato servizio in Afghanistan. ». Iniziò lui, come stesse leggendo il suo profilo su wikipedia.

« Sono tornato – no, non è corretto – sarei rimasto, ma mi hanno costretto a congedarmi, perché ho riportato una ferita alla spalla... » ed indicò il punto con un dito «... Dopo il mio rientro nel Regno Unito, ho fatto uso di un bastone per camminare, perché avevo un tremore alla gamba, e spesso mi faceva male... Qualche tempo dopo scoprii che era psicosomatico. Lo scoprii esattamente perché fu Sherlock a dirmelo... Me lo dedusse la prima volta che ci incontrammo... ».

Gli veniva da ridere al solo pensiero...

Mesi e mesi di psicoterapia e cure con la sua ex psicanalista, e lei non se ne era per nulla accorta.

Poi, dal nulla, Sherlock lo dedusse. Ci fu il loro primissimo caso. Corsero a perdifiato per i più nascosti vicoli di Londra. E lui stette bene...

 

Sorrise, perdendosi in quei pensieri.

 

Io stesso: un dottore... sbagliai la mia autodiagnosi... se ancora ci penso...!

 

Lei annuì, e lo invitò a continuare.

 

« …. Accadde poco dopo alcuni mesi dal mio rientro in patria.... Incontrai un vecchio amico dell'università: Mike Stamford... e non so se posso realmente considerarlo ancora un amico, visto non si è degnato neppure di venire al mio matrimonio, ma va beh, questo è un altro argomento... e beh, insomma, io avevo bisogno di un coinquilino con cui dividere un appartamento, e lui mi presentò Sherlock. ».

Sentì di sudare freddo a quel ricordo.

Non sapeva neanche lui perché.

« Il resto... il resto credo lo sappia dai giornali... o dal mio blog... ».

 

« Signor – no – Dottor Watson... mi spiace confessarle che non leggo ne giornali ne blog... la mia vita è interamente divisa fra il mio lavoro e la musica. Non ho altri interessi, che non siano strettamente connessi a qualche forma di arte.... ».

 

Il mio blog è arte!

 

« … e no... non reputo i blog arte. » concluse con un sorriso eccezionale, degno della pubblicità della Mentadent.

 

John grugnì, all'ennesima deduzione.

« Suppongo debba andare avanti con la storia della mia vita, allora... ».

 

Lei fece spallucce.

« Come preferisce... può andare avanti, se le è più comodo... o tornare indietro... ».

 

John si sentì spaccare in due.

Avrebbe parlato per ore della sua vita con Sherlock.

Delle loro avventure.

Ma forse non era lì che risiedeva quello che lei voleva, quello che lei cercava.

 

« Non scelga di raccontarmi le cose in base a ciò che pensa io voglia sentirmi dire... perché non sarebbe ne il primo ne l'ultimo... ».

Ginevra iniziò a giocare con una penna, scribacchiando cose su un block notes, appoggiato alle sue gambe accavallate.

« Parli e basta... scelga se avanti o indietro al momento che mi stava descrivendo... il resto lo faccio io... è il mio lavoro. Me lo lasci svolgere... ».

Non glielo disse con tono presuntuoso. Ma gradiva non esser presa in giro. Voleva veramente solo fare il suo lavoro.

 

« D'accordo... ». Acconsentì John.

Le sue braccia, prima strette intorno a sé, tornarono a rilassarsi, posando le mani sopra le gambe.

« È difficile togliersi il camice, sa?! Quando lo si porta per così tante ore al giorno... aveva ragione Einstein... è più facile rompere un atomo, che un abitudine... ».

 

« Lo so... lo so molto bene... ». Annuì lei.

 

Lui sospirò, chiuse per un momento gli occhi.

E poi si lasciò semplicemente guidare dall'istinto del momento.

 

« Dicevo... questo mio amico mi presentò Sherlock, e finimmo per diventare coinquilini. E ripeto... non so davvero se considerarlo un amico: visto, come detto prima, non è neanche venuto al mio matrimonio... non so davvero cosa pensare... ci ho provato, seriamente, a capirne le ragioni... ma non me ne capacito... siamo amici... perché mai non è venuto al mio matrimonio?! Dannazione?! Gli avrò recato torto in qualche modo?! Forse si è offeso, ed è diventato geloso di Sherlock, che nonostante sia la stranezza in persona, è entrato più in confidenza con me, rispetto a lui?! Si sente tradito in amicizia?! Io proprio non... ».

 

« Cacca di elefante... ». Affermò seria lei, quasi sovrappensiero.

 

« … come prego?! ».

Ho sentito bene?! Ha detto proprio... !?

 

« Cacca di elefante... ». Ribadì lei, con lo stesso tono usato prima.

 

John si portò una mano alla bocca, e non resistette a non ridere, in modo poco composto.

 

Gli sembrava di esser diventato Rosie, e che lei fosse Sherlock.

 

Quando Rosie piange, Sherlock le si avvicina, e le dice semplici parole: per lo più nomi scientifici, dal suono a quanto pare così strano, che ella smette immediatamente di piangere, e lo fissa, per poi iniziare a ridere. E lui, sorridente come non mai, è capace di nominargli non si sa quante parole scientifiche strane.

 

Altre volte, quando lei piagnucola, lui le avvicina il passeggino al tavolo, dove magari sta conducendo esperimenti – e John spera sempre siano esperimenti poco pericolosi – e le racconta del caso che sta seguendo, o le descrive passo passo ciò che sta facendo. E lei, con quei suoi occhi grandi, azzurri, è lì, ammaliata, che lo fissa, lo segue con le pupille, come fosse l'unica cosa degna di attenzione.

E John non può fare altro che rimanere in silenzio, al di là della porta, tenersi il mento con la mano, per non rimanere a bocca aperta come un pesce lesso, e non fiatare. Perché il fiato, quelle scene ormai quotidiane, glielo tolgono. E perché sa, che al minimo accenno dell'aver notato quelle tenerezze, sicuramente, Sherlock, vergognandosene, le cesserebbe.

 

Non che Sherlock non si sia mai accorto di come John li spii nella loro quotidianità.

Ma c'è un tacito patto nei loro sguardi.

Fin tanto che John non gli fa notare il suo comportamento paterno, e non glielo rinfaccia con qualche battuta, Sherlock non si sente strano o a disagio nel comportarsi in quel modo.

 

Sherlock... paterno...

Questa è proprio bella...

 

E John non ne rimarrebbe affatto stupito, se da lì a sei anni, si ritroverà Rosie a ripetere a memoria la tavola periodica, o i quattro elementi del DNA, o che ne sa: magari nomi latini di piante di qualche libro di botanica letto per sbaglio.

 

Spero Sherlock abbia fatto sparire quello sui veleni... e quello sulle droghe...

Soprattutto quelli sulle droghe e i veleni!!

 

« Cacca... di elefante?! ». Sussurrò, smettendo di ridere, tornando alla realtà.

 

« Deduco non sia stata solo la mia definizione, a farla ridere così... ». Notò la dottoressa Meier, sorridendo, avendo dedotto che John si era perso in qualche ricordo piacevole.

 

Lui annuì, quasi imbarazzato.

« Cosa vuol dire... quello che ha appena detto?! ».

 

« Cacca di elefante?! ». Chiese per conferma lei, anche se non ne aveva bisogno.

 

« Sì... mi stavo chiedendo, ad alta voce, il perché il mio carissimo amico non è venuto al mio matrimonio... e lei... lei se ne è uscita con questa cosa! ».

 

« Perché è cacca di elefante... ». Ribadì lei.

 

John alzò un sopracciglio, e mandò leggermente la testa all'indietro.

Avrebbe voluto afferrare il concetto con la velocità con cui Sherlock fa deduzioni, ma evidentemente per il suo cervello troppo – tanto - umano e ordinario, era impossibile.

 

« Cacca di elefante... è un concetto non troppo semplice, ma cercherò di semplificarlo per lei... ».

Iniziò a spiegare, con calma e rassicurazione.

« Ha presente la scienza della deduzione?!». Vide John annuire. « L'ha fondata il suo amico Sherlock Holmes, e benché abbia basi abbastanza solide, per quanto riguarda l'uso che ne fa lui, molti si azzarderebbero a dire che non è “attendibile”. Cosa vuol dire infondo... dedurre, Dottor Watson, per lei?!».

 

John ci pensò un attimo, prima di rispondere.

« Osservare, raccogliere informazioni, e poi elaborarle... e tirare fuori la verità... ».

 

Ginevra annuì.

« Esatto... Osservare, giusto. Raccogliere informazioni, giustissimo, e poi elaborarle... ma mi fermo qui.».

 

John avvicinò di più la sedia alla scrivania, incuriosito da quell'argomento.

 

« Lei, essendo dottore, seppur diverso da me, cosa fa quando arriva un paziente in studio?! ».

 

John rispose di getto.

« Lo accolgo! ».

 

...“Dannazione, John... proprio Capitan Ovvio, eh!” - si sentì sgridare dalla voce di Sherlock nella sua testa...

 

Ginevra trattenne a stento una risata... Oh, sì, sarebbe morta dal ridere di fronte a lui.

Ma era un suo paziente: doveva pur mantenere un certo contegno.

 

« Pensi ad un paziente che sta male. Molto male. Che non riesce a parlare... come fa una diagnosi!?Come capisce cos'ha?! ».

 

John fece spallucce.

« … Osservo... Lo visito... Cerco di capire dove ha dolore, cosa gli fa male, quali sono i sintomi... E seguo delle procedure, delle manovre, in base alla parte del corpo coinvolta... ».

 

« Esatto, esatto! Lei, in base a dove è localizzata la fonte del disagio del paziente, si muove di conseguenza. Esatto. E per farlo, lo osserva, lo visita... giusto?! ».

 

John annuisce convinto.

 

« Quindi... Lei osserva con gli occhi, le mani che visitano sono lo strumento con cui raccoglie dati, nel caso in cui il paziente non possa dirle a voce cosa le faccia male... ».

 

John annuì nuovamente.

 

« Le sue mani, i suoi sensi, si connettono al cervello... scavano fra tutti il libri, le lezioni, gli appunti, i casi precedentemente studiati... cioè, il suo cervello è il suo elaboratore. È elaboratore e archivio insieme. Svolge entrambe le funzioni. Ma si comporta per lo più come fosse un motore di ricerca, come fosse Google. E poi...!?».

 

« E poi... quando ho trovato dei dati attendibili, che spiegano i sintomi del paziente, posso finalmente partorire una diagnosi! ».

 

Ecco, questo lo so!

 

« Partorire... che curioso verbo per rilasciare una diagnosi... ». Sorrise lei « Eppure... è vero... alcune diagnosi sono un vero e proprio travaglio... e quando finalmente comprendi l'origine dei disagi del paziente, è come se tu abbia partorito.».

 

« Sì... per quello ho usato proprio quel termine... ». Sottolineò John.

 

« Bene... quindi, partorire una diagnosi, è un po' come affidarsi alla scienza della deduzione del suo amico, giusto?! ».

 

John annuì, accavallando le gambe, trovandosi molto interessato: sempre più interessato a dove quel discorso li avrebbe portati.

 

si ma... la cacca di elefante?!

 

Ginevra si accarezzò distrattamente un orecchino a forma di drago, pendente lungo il collo.

 

« Lei è sempre sicuro... delle diagnosi che fa, Dottor Watson?! ».

 

Quella domanda lo spiazzò.

 

« Ha mai sbagliato... a fare una diagnosi, Dottore?! ». Chiese lei, e lei sue labbra non accennavano più al sorriso spensierato di prima. Erano chiuse, in un'espressione incolore. Fredda. Come fossero senza sentimenti.

 

Una maschera...

Va beh... doveva pure fare la sua parte: il suo lavoro: il dottore, fra i due, lì, era lei.

Lui era il paziente.

 

John mandò giù la saliva. La gola improvvisamente secca: gli si chiuse.

Quasi gli bruciò.

 

Lei lo fissò, con sguardo impenetrabile, non aggiungendo altro. Aspettando solamente una risposta.

 

« S-sì.». Rispose finalmente lui, dopo un'altra manciata di secondi.

Ma soppresse i suoi pensieri: non volle ricordare.

Non voleva ricordare i suoi errori di valutazione quando era uno specializzando, quando era sul campo in Afghanistan, quando era in ospedale...

 

« È umano... sa?! ». Disse lei. Non in modo confortante. Lo disse, semplicemente: come fosse un dato di fatto chiaro a tutti.

 

« Non dovrebbe accadere... ». Confidò, chiudendo per un secondo gli occhi, buttando fuori aria.

 

« Non è una macchina... e benché le macchine siano create a nostra immagine e somiglianza, ed una mia amica Ingegnere, le direbbe che sono create per essere la parte migliore di noi: per fare i calcoli in modo più preciso, per avere il minimo margine di errore... beh... noi non siamo macchine. Aspiriamo alla perfezione... Ma non ci è dato raggiungerla. La perfezione è solo un utopia... e la cosa più vicina all'utopia, mi disse sempre questa mia amica Ingegnere, è la matematica... ».

 

John rimase senza parole.

Ginevra Meier era veramente una psichiatra con i contro coglioni.

 

Grande deduzione, John... altrimenti perché mi sarei lasciato studiare da lei?”

Niente, lo Sherlock dentro di me, non accenna a stare zitto...

 

« Mi dica, John... Sherlock ha mai sbagliato una deduzione?!».

 

John d'istinto avrebbe detto di no.

« Sherlock è... perfetto... così perfetto che è quasi utopico nelle sue deduzioni... ».

 

« .. Ma... ?! Lo sento che c'è un “ma”, sospeso... ».

 

« Sì... sì, ha sbagliato qualche deduzione. » Ammise, posando il mento sulla propria mano, ed il gomito sul bracciolo della sedia.

« Ha... ha sbagliato di poco, ma davvero poco... nei suoi casi. Giusto qualche svista... ».

 

Poi, come fosse uno tsunami, fu travolto da un pensiero.

E non seppe dire se fu un bene che quel pensiero lo travolgesse in quel momento.

 

« Ha sbagliato con me... ». Disse in un sussurrò.

Quasi bisbigliò.

 

E quella confessione, fece sorridere in modo sarcastico la dottoressa.

« Quando? … e come?! In che modo?! ». Domandò.

 

John continuò a fissare un punto qualsiasi per terra.

« Quando ci conoscemmo... dedusse dopo aver raccolto varie informazioni, che avevo un fratello...».

 

« Ma...?! » lo invogliò a continuare la dottoressa.

 

« Ma... non ho un fratello. Ho una sorella.... ».

 

« Poi?! ». Lo esortò nuovamente Ginevra.

 

John si sforzò di ricordare altro, per scacciare il pensiero principale che l'aveva travolto.

Il più grande errore di Sherlock...

« Il nostro primo caso... il tassista serial killer... », disse in un soffio.

« Sbagliò a credere che lo avrei lasciato inghiottire una delle due capsule, non sapendo quale fosse avvelenata, pur di provare la sua intelligenza, e che non avesse sbagliato a scegliere quella che ebbe preso dalle mani dell'assassino... ».

e non era neanche quello.

 

Ginevra strinse le labbra, facendo formare loro una linea retta.

 

« Non mi sta dicendo tutto, John... ».

 

John si coprì il volto con entrambe le mani.

Aveva voglia di piangere ed urlare.

Lo sapeva da sé che non era tutto...

 

Lo sapeva benissimo che non era tutto!!

 

Perché la sua anima si sentiva nuovamente dilaniare a quel pensiero...

 

Ginevra gli pose davanti un pacco di fazzoletti.

 

John la guardò implorante.

 

« Se non se la sente, okay... ». Propose lei, deducendo che il suo paziente probabilmente avrebbe avuto una crisi di lì a poco.

 

John, però, ormai ce l'aveva lì, sulla punta della lingua.

Doveva confessarlo.

A qualcuno doveva dirlo.

 

E chi meglio di una psichiatra, durante una seduta di psicoterapia, poteva aiutarlo?!

 

Magari... magari parlarne lo avrebbe alleggerito...

Anche se il pensiero di camminare nuovamente nei sentieri di quei ricordi, era paragonabile a camminare a piedi scalzi su un tappeto di spilli.

Spilli che gli trafiggevano l'anima, e gliela bucavano, e sgonfiavano, poco a poco...

Finché l'unica cosa di cui rimaneva pieno era dolore lancinante.

 

Si passò le mani sulla fronte, si chinò in avanti, e cercò di respirare, reprimendo il pianto che di lì a poco ne sarebbe scaturito.

 

« Sherlock.... beh... sicuramente lo sa... si... » la sua voce tentennò «... si è finto morto per tre anni... solo tre persone vicine a me sapevano la verità... Mycroft, Molly e Irene... ».

Fu scaltro, all'ultimo secondo, a non rivelare il cognome di Irene. Nessuno doveva sapere che fosse viva. Senza cognome poteva essere un Irene qualsiasi, non per forza La Donna.

« E... proprio quando io ero andato avanti con la mia vita... ero pronto a chiedere a Mary di sposarmi... avevo più o meno, a mozzichi e bocconi - no, mi correggo - a stenti, ero riuscito ad elaborare finalmente il lutto... ad accettare che non potevo tornare indietro... mentre il senso di colpa per non aver potuto far niente per salvarlo mi mangiava notte e giorno... lui... lui è tornato... è... tornato! ». E il tono, da triste, si caricò di rabbia.

« Lui è tornato... con la sua faccia da cazzo... con le sue battute fuori luogo... come se non avessi MAI sofferto. Come se avessi semplicemente potuto riaccoglierlo fra le mie braccia... COME SE NIENTE FOSSE! ».

 

Quello era stato l'errore di calcolo più madornale di Sherlock.

L'errore che, nonostante fosse passato tanto tempo, non riuscivo a mandar giù.

 

« Lui pensava che, nella miriadi di possibilità in cui avrei potuto reagire, io non avrei MAI reagito nel modo in cui poi ho... ho reagito. MI STUPISCE, DAVVERO! DOTTORESSA! » ed alzò la voce, urlando quasi, esasperato « SERIAMENTE! MI STUPISCE! COME HA POTUTO... UNA MENTE GENIALE COME LA SUA... NON DEDURRE CHE IO LO AVREI PESTATO DI BOTTE....COME HA FATTO?! COME HA POTUTO ANCHE SOLO PENSARE CHE L'AVREI PRESA BENE? CHE NON MI SAREI SENTITO PRESO IN GIRO?! CHE LO AVREI PERDONATO COME SE NIENTE FOSSE! ». Afferrò un fazzoletto, e si soffiò il naso.

« Io proprio... non me ne capacito... UNA VITA... UNA VITA PASSATA A DEDURRE LE PERSONE, SOLO CON UN OCCHIATA! E POI ME! ME!!! IL SUO COINQUILINO! IL SUO MIGLIORE AMICO! L'UNICO MIGLIORE AMICO! LA PERSONA CHE TIENE DI PIU' A LUI... e sì, con presunzione, credo di tenere, e di aver tenuto di più a lui, molto di più di quanto abbia fatto suo fratello Mycroft!! ».

Ginevra si lasciò sfuggire una risatina a quell'affermazione.

Probabilmente, aveva ragione il dottore...

« E SHERLOCK! SHERLOCK NON ERA RIUSCITO A COMPRENDERE CHE MAGARI, MI SAREI UN TANTINELLO INCAZZATO, A RIVEDERMELO APPARIRE DAVANTI, DOPO TRE ANNI, DOPO AVERLO PIANTO IN LUTTO PER COSÌ TANTO TEMPO! ».

 

Ed eccolo lì, ora, John Watson.

Che non sapeva se ridere o piangere.

 

Non sapeva più quale emozione doveva vincere.

Dolore... Dolore ne aveva tanto nel petto...

 

Ma ora voleva ridere per l'idiozia di Sherlock... per la sua forse ingenuità?!

E voleva gridare... gridargli nuovamente in faccia quanto cazzo lo aveva fatto soffrire...

 

Ginevra aspettò che si calmasse, e riprendesse fiato.

Si riaccomodò con la schiena contro la propria poltrona.

 

Quando il respiro di John fu nuovamente abbastanza regolare, riprese a parlare.

 

« Perché Sherlock non ci ha pensato?! ». Soppesò con la propria voce la domanda che aveva attanagliato – per non dire tediato – la mente di John fino ad allora.

« Potrei provare a dedurlo, Dottor Watson... » disse, iniziando a cullarsi con la sua poltrona girevole, a destra e a sinistra.

« Potrei davvero provare a dedurlo... ma... sarebbe solo cacca di elefante! ».

 

John sgranò gli occhi, e sospirò esasperato.

Si portò le mani in faccia.

« E ci risiamo con questa cazzo di cacca di elefante! ».

Le puntò un dito contro.

« Se è una battuta, o qualsiasi altra cosa atta a deridere il mio dolore, il mio stato d'animo, perché magari è una psicoterapia d'urto, sappia che non è divertente, dottoressa Meier! ».

 

Lei ridacchiò, mettendosi le mani in grembo, e sorridendo.

« È un concetto che deriva da uno dei padri della psicoterapia... ». Annuì lei.

« Dicevo... Perché le preme tanto sapere, anzi no, perché la turba così tanto venire a capo delle motivazioni che hanno portato Sherlock a sbagliare una deduzione... ? ».

 

« Perché Sherlock non sbaglia praticamente mai! ».

 

« Non da quello che mi ha detto prima... ».

 

« Ha capito che intendo! » si mise le mani fra i capelli.

« Ha capito benissimo cosa intendo! E se non l'ha capito lo deduca.».

 

« No, me lo deve spiegare lei, Dottor Watson... ». Aprì le braccia, in attesa che l'altro parlasse.

 

« Ggrrr...! » grugnì John.

« Sa bene cosa intendo! Perché diavolo devo ripeterglielo! ».

 

« Repetita iuvant! ».

 

« Non so cosa abbia detto... ma okay... qualsiasi cosa sia...».

No, John decisamente non aveva studiato latino in vita sua.

« Vorrei sapere perché Sherlock, di tutte le volte in cui avrebbe potuto sbagliare... ha sbagliato proprio CON ME! Perché proprio con me ha dovuto fare un errore di calco?! Un errore di deduzione?! Come anche ha solo potuto pensare... che io non ci sarei rimasto male! Mannaggia la puttana! MA NON GLI E' PROPRIO VENUTO IN MENTE?! Sono la persona con cui ha abitato per quasi due anni – all'epoca –, sono quello che ha curato le sue ferite, l'ha strappato dal braccio della morte, ha sempre creduto in lui... come anche solo ha potuto pensare che io non abbia avuto sentimenti di rabbia?! Come ha potuto non pensare che io non mi sentissi ferito a morte dalla sua menzogna?! Avrebbe potuto dirmelo che era vivo! Avrebbe potuto farmelo capire!*».

John era nuovamente in preda alla disperazione.

« Mi ha sottovalutato! Ha sottovalutato me! E tutti i miei sentimenti per lui!».

 

« O forse... l'ha sopravvalutata?!».

 

« E perché mai? Lui non sopravvaluta nessuno, se non se stesso... ». Si fece spazio, sulle labbra di John, un sorriso amaro.

 

« Perché dice sottovalutato... e non sopravvalutato? ». Ginevra sapeva seminare bene il seme del dubbio nelle menti umane.

 

John sentì come se un legnetto avesse inceppato i propri meccanismi celebrali.

« Perchè... per-perchè... ». Boccheggiò.

« Perché mi ha reputato così stupido, da poterlo riaccogliere a braccia aperte... Come se fossi un idiota, che per tre anni, mettesse in pausa la propria vita, sperando in un suo ritorno... Ma come potevo anche solo immaginare che sarebbe... resuscitato?! Ritornato! Come potevo anche solo immaginare che non era mai morto! Se ha fatto di tutto affinché fossi il più convinto della sua morte!! MI HA SOTTOVALUTATO! Pensando fossi così idiota, che non appena sarebbe tornato, lo avrei perdonato di tutto... Come se fossi così idiota... da non riuscire a provare neanche dolore per la sua scomparsa... Lui pensa solo di se stesso che è intelligente... e di Irene, certo. Ma non di me. Anche se mi ha detto che sono il suo conduttore di luce. Ma questo non vuol dire essere intelligenti per lui. E a me, “intelligente”, non l'ha mai detto. Mai. ».

 

Ginevra, che aveva ascoltato bene, posò i gomiti sulla scrivania, incrociò le dita delle mani, e pose il mento sopra di esse.

« Uhm. Conduttore di luce. Beh. È un complimento notevole, quasi sentimentale, detto da Sherlock, che si definisce una macchina... quindi... perché non... sopravvalutato?!

Provi a guardarla da quest'altro angolo.... E se Sherlock, invece, la avesse reputata così intelligente... se avesse reputato i tuoi sentimenti verso di lui, così grandi, così puri... da fargli credere che, non appena lo avresti visto, lo avresti accolto veramente a braccia aperte?! Perché la cosa che agognavi di più non era elaborare il lutto... ma riaverlo nella tua vita?! ».

 

John annaspò.

Si sentì sudare freddo.

 

« Pensaci bene, John... ». Fece con un gesto vago della mano la dottoressa.

« Chi perde una persona cara... non ha come desiderio più grande elaborare il lutto e farsene una ragione... Vorrebbe solo non aver mai voluto quel dolore. Vorrebbe semplicemente riavere tale persona nella sua vita, a qualsiasi costo. E vorrebbe che ciò non fosse mai accaduto. Mai... ».

 

John non ci aveva mai pensato.

 

Perché sei idiota, John... non quanto Anderson, sia chiaro... Ma insomma... un po' di logica sentimentale!”, lo rimproverò il suo Sherlock interno...

 

« No. Non sarebbe da Sherlock fare questi ragionamenti così sentimentali...». Rise, e si sentì sull'orlo della pazzia.

 

« Perché no?! ».

 

« Perché Sherlock non è così! ». Batté le mani sulla scrivania, di fronte a lei, con uno scatto di rabbia.

 

Ginevra rise.

« Ci metteresti la mano sul fuoco?! ».

 

« Sì! ». Rispose senza esitazione.

Ma poi il pensiero volò a Rosie che piange, e a Sherlock che gli dice parole scientifiche per farla ridere.

« N-no! ». Ribadì subito dopo. Sembrando quasi più convinto della prima risposta data a bruciapelo.

 

Ginevra si riadagiò contro la propria poltrona, riprendendo a dondolarsi con le mani in grembo.

« Cacca di elefante...! Sempre è comunque... solo tanta cacca di elefante!! ».

 

A John sembrò di impazzire, a sentir nominare quella nuovamente.

 

Ginevra Meier era una che il proprio lavoro sapeva farlo straordinariamente bene.

« Sottovalutato... Sopravvalutato... Pensi che avrai mai la risposta sicura...?! Una risposta certa?!Una risposta che sia quella che definiresti giusta... !? ».

 

John abbassò il capo sulle braccia incrociate sulla scrivania, ed iniziò a fissare le punte degli stivali di lei, che si muovevano sul tappeto.

Era sconfortato.

Incerto.

Dubbioso.

« No. Non credo potrei mai... ».

 

Ginevra sospirò. No, non di rassegnazione.

Ginevra sospirò, perché a breve John avrebbe iniziato a capire.

E a far pulizia di tutta quella cacca di elefante di cui si era circondato fino ad allora...

 

« Dottor Watson... John... Sherlock, benché sia portato a ragionamenti logici e deduttivi... benché egli stesso si definisca con il temperamento di un iperattivo sociopatico – e io non mi sono mai azzardata a farne una valutazione psichiatrica, mi sono avvicinata a lui solo come “alunna della scienza della deduzione” - è umano... ».

Aprì le braccia, e sorrise.

E John si sentì di pendere da quella spiegazione, da quelle labbra che stavano per rivelargli una sacra verità.

 

John.... allora non hai capito niente! La verità vera... non esiste! È solo questioni di punti di vista! Oh gesù cristo... non fare come Anderson!” gli sussurrò lo Sherlock dentro di sé.

 

« So che questa cosa potresti non accettarla ma...è umano. Sherlock è umano e basta.

Il tuo amico non è una macchina. Per quanto possa affinare la logica della deduzione, non lo sarà mai... Il tuo amico sbaglia, sbaglierà ancora nella vita... ed ha sbagliato con te, con altri, perché è umano...! ».

Si mise composta, e lo fissò dall'altro al basso, ma non per schernirlo.

«... John... tu pensi... che la mente umana... sia facile da comprendere?! ».

 

« No... » biascicò John, col mento ancora poggiato sulle braccia.

 

« ... Sicuro...?! Perché, dalle reazioni di prima, mi sembrava che fossi convinto che Sherlock fosse associabile ad una macchina, e che riducendo te ai minimi termini comportamentali, avesse potuto realmente aver avuto la possibilità di azzeccare una tua reazione... ».

 

« Ma con i serial killer ci riesce! ».

 

Ginevra rise.

« John... Sherlock deduce delitti già accaduti, risale agli assassini, e ne studia i rituali comportamentali... Ma... Tu non sei un assassino. Non hai rituali comportamentali – a meno che tu non sia un maniaco ossessivo compulsivo » e rise da sola a quella battuta.

« Ma tu, John... sei il suo migliore amico. Il suo coinquilino. Voi avete sentimenti reciproci. E quando ci sono quelli, ci sono emozioni.. e le emozioni non possono essere incatenate a semplici deduzioni.... Sherlock può dedurre da una persona com'è, cosa ha fatto, e più o meno, a grandi linee, come si comporterà in futuro. Ma se incontrasse una donna, o un uomo... insomma.. una persona, che gli piaccia davvero... che si piacciono entrambi, l'un latro. Prova ad ipotizzare che nasca amore fra di loro... sarebbe certo di dedurre se quella storia durerà per sempre, oppure finirà in divorzio dopo dieci anni?! ».

 

« All'inizio... pensavo di sì... E sono convinto che lui risponderebbe di esserne capace... ». Ammiccò ad un sorriso sincero John.

 

Ginevra ridacchiò.

 

« Nessuno può sapere cosa si cela veramente dietro una mente umana, dietro dei sentimenti. E anche quando le persone ci parlano, ce li confessano, non sono mai onesti al cento per cento... ».

 

« Ne so qualcosa di menzogne in una relazione, si risparmi quel capitolo di psicoterapia...».

Scacciò simbolicamente con la mano il pensiero della sua ex moglie morta... che era un'afferrata assassina.

 

«Non intendevo quello... Le persone, quando parlano, e stavo facendo l'esempio del confidare i propri sentimenti, non sono mai oneste al cento percento. Non perché non vogliano. Ma perché la mente umana è in continua evoluzione. L'essere umano è costantemente sottoposto a stimoli sensoriali di tutti i tipi... E la verità suprema non esiste. La verità è qualcosa che è in continua evoluzione.... Ci ha mai pensato che Sherlock, magari, all'inizio abbia voluto dirle la verità, poco dopo l'inscenata della sua morte.. ma che poi sia successo qualcosa.. e l'abbia costretto a tacere... e alla fine... non abbia più avuto possibilità di farlo... e ha dovuto aspettare tre anni?! ».

 

« No. ». E gli uscì quasi come un ruggito profondo. Come venisse dagli inferi della propria anima.

 

« Ma è una delle infinite possibilità...». Fece spallucce Ginevra.

 

« … Se continuo a pensare anche solo ad un'altra possibilità su come sarebbe potuta andare, mi scoppierà il cervello!!». Ammise John, infilando la testa fra le proprie braccia.

« Basta... la prego, dottoressa... ». Ormai la sua mente era ridotta ad un misero straccio.

 

Lei si alzò, andò alle sue spalle, e gli preparò un bicchiere d'acqua, dal dispenser che giaceva in un angolo fra la libreria e la finestra.

 

Gli pose una mano sulla spalla.

 

John lentamente si rialzò dalla sua posizione china, e mise a fuoco prima il viso di lei, e poi il bicchiere d'acqua che gli veniva offerto.

 

Lo afferrò, e bevve senza esitazione.

 

« Esatto... basta pensare a cose di cui non avrebbe mai sicurezza... per questo... le ripeto: cacca di elefante... qualsiasi deduzione una persona sana di mente – e ghignò, facendo ghignare John stesso, forse perché sapevano che Sherlock non era affatto sano di mente – farebbe dei pensieri, delle emozioni, di un'altra persona... sono solo pippe mentali inutili... una gigantesca, enormissima, cacca di elefante. Un peso inutile, di cui la nostra mente, il nostro intelletto, farebbe volentieri a meno... Ti eviterebbe un sacco di mal di testa... Un sacco di tempo perso... »

 

John finalmente ebbe la sua epifania.

 

OH! Bravo John! Hai visto?” si complimentò il suo Sherlock interno con lui.

 

« Se vuoi lavorare su qualcosa... puoi lavorare su te stesso, John Watson.

Non potrai mai sapere con esattezza cosa gli altri provano, cosa gli altri sentono, come gli altri elaborano le emozioni... Neanche Sherlock può. E per quanto al suo amico ciò non piaccia, e farebbe di tutto per smentirmi, e smentire tutti i padri della psicoterapia... Ti posso assicurare che, per quanto affinerà la logica, avrà sempre un margine d'errore... ».

 

John annuì, sorseggiando altra acqua.

Sentendosi inspiegabilmente più leggero di prima.

 

« Mi piace usare una metafora, che ha usato una volta con me la mia amica Ingegnere... ».

 

John attese, quasi impaziente.

 

« Una volta, parlando di matematica – e te lo confesso – io non so veramente quasi nulla di quella materia... Mi disse che l'unità di misura con cui ogni uomo misura il mondo è se stesso. E benché le unità di misura siano utopicamente considerate perfette... se io e lei misurassimo con due righelli differenti la lunghezza di due cm... beh... ci sarebbe stato un errore. Non ricordo se relativo o assoluto, dovrei richiederglielo ». Ridacchiò, sperando di spiegare comunque bene il concetto.

« Dicevo... ci sarà sempre un errore, fra la mia misurazione e la sua. Perché nessun righello è uguale ad un altro. Come nessun uomo è uguale ad un altro uomo....

John... potrai conoscere Sherlock come le tue tasche, ma non potrai mai capire cosa si prova a vedere il mondo dai suoi occhi...

e Sherlock... Sherlock potrà immedesimarsi in milioni di sguardi... Ma non vedrà mai il mondo con gli occhi degli altri. Rimarrà un grande osservatore... Ma mai il protagonista delle vite che deduce...».

 

John rimase molto colpito da quell'esempio.

Si sentì come se qualcosa dentro di lui, dopo quelle parole, si fosse spezzato.

E al contempo, si sentì come se veramente si fosse scrollato di dosso un peso enorme.

 

« Mycroft mi aveva detto che ti aveva preso appuntamento da me, perché facevi incubi su un pozzo... in cui quasi eri annegato... e vedi?! Abbiamo parlato di tutto, tranne che del pozzo in cui stavi per morire annegato... ».

 

John ridacchiò.

« Oh beh... quella è un'altra parte della mia vita... ».

Sospirò.

« Più recente, anche... e paradossalmente.. anche meno pesante, del peso che mi sono appena tolto oggi... ».

 

Lei si alzò in piedi.

« La aspetto, allora, lunedì prossimo... per ascoltare questa storia più recente e meno pesante della sua vita... ».

 

John fece altrettanto.

« D'accordo... ».

 

E sorrise sereno.

Leggero.

 

Si salutarono dandosi la mano.

 

Lui, presa la giacca, fu il primo ad uscire, e poi lei, afferrando il cappotto e la propria borsa, chiuse la porta a chiave.

 

« Vado a pranzo, poi ho un altro paziente verso le due di pomeriggio... ».

Gli disse, procedendolo verso l'ascensore.

 

Erano in un palazzo molto alto, che aveva l'aria di essere adibito a soli studi medici o olistici.

John, ripercorrendo a ritroso, al suo quasi fianco, il corridoio che aveva fatto all'arrivo, si accorse che le vetrate davano su una parte del Tamigi da cui si intravedeva un cantiere navale.

 

Era quasi l'una.

La seduta era durata un sacco di tempo.

Ma che importava?!

Mycroft ce lo aveva portato, e Mycroft avrebbe pagato!!

 

Entrarono in ascensore non appena arrivò, e non dissero nulla.

 

Lei era concentrata sul suo cellulare, e sorrideva serena.

John guardava per terra, ed ogni tanto verso lei, con le mani in tasca. Mani che stavano trasudando l'ansia della mattinata, ed erano così agitate da triturare i fazzoletti e gli scontrini che vi erano in entrambe le tasche.

 

Quando arrivano al pian terreno percorsero l'atrio, e finalmente fuori, si salutarono con una stretta di mano.

 

« Buona giornata, Dottor Watson! A lunedì prossimo! ». Ginevra gli mostrò un ultimo sorriso gentile per quell'appuntamento.

 

« Buona giornata e buon pranzo, Dottoressa Meier... e Grazie. ». John sussurrò l'ultima parola con imbarazzo.

 

Lei, tutta gioiosa e soddisfatta, si avviò verso un luogo dove avrebbe pranzato.

 

John la fissò, finché non la vide sparire fra la folla di gente che si accalcava ad una fermata del bus.

 

Dall'altro lato della strada, la limosine nera con cui era stato portato all'andata, lo stava aspettando.

 

Aspettò il semaforo verde, attraversò, e l'autista gli aprì la portiera dell'auto.

« Dottor Watson... ». Lo salutò, chiudendo lo sportello, non appena lo vide accomodato dentro.

 

Quando l'autista rientrò al suo posto, John osò muovere una richiesta.

« Scusa... Come ti chiami!?».

All'andata ero così preso dai suoi pensieri, che lo aveva ignorato completamente.

 

« George, dottor Watson ».

 

« George... hai fretta di tornare da Mycroft?! ».

 

« No. Il Signor Holmes mi ha assegnato a lei... per tutta la giornata... ».

 

Mycroft, probabilmente, aveva immaginato che non ne sarei uscito tutto intero, da una seduta con la dottoressa Meier...

 

«... Tutta la giornata?! ». Chiese, per avere conferma.

 

« Sì... ». Si fece meno formale l'autista.

« Non è necessario che la accompagni subito a casa, se non è quello che vuole... ».

 

« … Puoi portarmi ovunque.. io voglia?! ». Azzardò il dottore.

 

« Ovunque, purché entro i confini di Londra, Dottor Watson... ». Precisò l'autista.

 

John annuì.

 

Si allungò con una mano verso il navigatore che giaceva davanti l'autista, nella parte anteriore della limo.

 

Indicò un punto preciso sulla cartina di Londra.

 

« Qui... puoi portarmi qui?! ».

 

George annuì.

« Certamente signore... ci metteremo un po' ad arrivare, c'è molto traffico a quest'ora.» , ed iniziò ad impostare il percorso.

 

« Non importa... ».

Disse John, sistemandosi sul sedile, accanto al finestrino, pronto a godersi il viaggio, in pace con se stesso per una volta tanto.

 

« Mi sembrava giusto avvisarla... ».

 

« Grazie, infatti, ragazzo... ma non ho fretta di tornare a casa oggi... ».

Sussurrò l'ultima frase.

Anche se Rosie mi manca come l'aria, ma so che è in buone mani...

Anche se sono le mani di Sherlock...

 

L'auto partì, e John si godette nuovamente la vista della sua Londra brulicante di traffico, di persone...

Di vita.

 

« Dottor Watson, nel piccolo frigo c'è il pranzo per Lei... ».

 

« Grazie... ».

Rispose distrattamente John.

 

Al momento aveva fame solo di relax.

 

 

Continua...

 

Note dell'Autrice:

La cacca di elefante è un concetto che deriva da “La psicoterapia di Gestalt”, cui padre fondatore è Perls.

Personalmente distinguo tre classi di escrementi verbali: la cacca di pollo, cioè ‘buon giorno’, come sta?’ e via dicendo; la cacca di mucca, cioè i ‘perché’, le razionalizzazioni, le scuse; e la cacca di elefante, cioè quando si parla di filosofia, della terapia gestaltica come filosofia esistenziale ecc… quel che sto facendo io adesso, insomma.” Fritz Perls

 

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Capitolo 3
*** 03 Capitolo ***


Elephant's Poop

 

03 Capitolo
 

John? - SH

 

John, salutando George, era appena sceso dalla limo, per un giro al Greenwich Park.

Il suo cellulare aveva vibrato, e tirandolo fuori dalla tasca dei pantaloni, si accorse che era un messaggio di Sherlock.

 

Dimmi – JW

 

Si incamminò verso un viale alberato.

Faceva freddo, ma era una bellissima giornata.

Erano quasi le due di pomeriggio.

Ci erano voluti circa quarantacinque minuti per arrivare, causa traffico.

 

Compra il latte per me, e per Rosie, quando torni – SH

 

Non mi va di andare al Tesco, Sherl – JW

 

Allora va al Sainsbury's – SH

 

Vacci tu. Ho da fare. - JW

 

Non vorrai mica lasciare tua figlia a morire di fame... e me! - SH

 

« Toh! Da quale pulpito! »,si lamentò John, finalmente iniziando a calpestare il prato del Greenwich Park.

 

Chiuse gli occhi per un attimo, e prese un gran respiro.

Si riempì i polmoni di aria fresca e pulita.

Non facevano più di undici gradi, occhio e croce. Eppure c'era un sole brillante, ed il cielo era totalmente sgombro di nuvole.

 

JAWN! Non essere egoista! - SH

 

Da che pulpito! - JW

 

Appunto. Sono io il punto di riferimento d'egoismo, per Rosie. Non tu. Non dobbiamo scambiare i ruoli. Altrimenti si potrebbe confondere! - SH

 

John fece un mega facepalm.

Seriamente?! Stavano crescendo una figlia in due?!

E Sherlock... faceva allusione a cosa sarebbe stato giusto o meno, per sua/loro figlia?!

 

Oh sì... perché per Sherlock, Rosie, sangue del sangue di John, stava diventando anche un po' sua...

 

E John non riusciva davvero ad esserne geloso.

 

Spero tuo fratello non stia intercettando i nostri messaggi in questo momento – JW

 

Perché?! Sto parlando dell'educazione di Rosie – SH

 

Un messaggio arrivò ad entrambi:

Mi fate passare la voglia di controllarvi – MH

 

John imprecò, e fu sicuro che, a Baker Street, Sherlock stesse ridendo.

O forse imprecando...

O forse boh...

 

cacca di elefante...

 

Si ricordò improvvisamente, ed iniziò a ridere.

 

Che importava cosa stesse facendo Sherlock!?

Era con Rosie, bastava questo.

 

Mycroft... tu e la privacy non vi incontrerete mai in questa vita, vero?! - JW

 

Non sarei così bravo nel mio lavoro, altrimenti... - MH

 

JAAAAAAWN! - SH

 

eh? - JW

 

Neanche una passeggiata al parco in pace poteva godersi.

 

Smettila di vagabondare come un cane che ha perso il padrone – SH

 

John alzò subito lo sguardo dal telefono, voltandosi di scatto a destra e a sinistra.

 

Non dirmelo! - JW

 

E la suoneria di un telefono, molto vicina a lui, lo fece sussultare.

 

Quando si voltò, gli venne un secondo infarto: Sherlock era lì, dietro di lui, con Rosie nel passeggino.

 

« SHERLOCK! CHE DIAVOLO... ! ».

 

« Ho dedotto che saresti venuto qui... ». Sorrise sornione il detective.

 

« Non ci credo... ». Si mise una mano in fronte John. « Non posso crederci... non posso veramente, dico, ma veramente crederci! ».

 

Sherlock sorrise in modo ancora più da psicopatico.

« No, infatti, non crederci... Ho seguito la macchina di Mycroft col GPS, e ti ho raggiunto qui...».

 

« Mi hai pedinato, Sherlock! Potevi semplicemente chiedermi dove sarei andato stamani, e poi poco fa! ». John rimise il telefono in tasca, e si portò le mani alla fronte.

Non ce la posso fare...

 

« Facevi tutto il misterioso... ho dedotto che, dal livello di scocciatura, da quanto nervosamente avessi mangiato a colazione, dal tono che hai usato imprecando ai messaggi di lavoro stamani, e dal modo sciatto con cui ti sei vestito, che non ti andasse di parlarne... quindi... ho preferito seguirti...». Il detective iniziò a guardarsi intorno, per studiare – dedurre – l'ambiente in cui si trovavano.

 

« Stalkerarmi, Sherlock! Stalkerarmi! E pedinarmi!! ». John era spazientito, ma in fin dei conti doveva immaginarselo. Per una volta che aveva deciso di prendersi del tempo per sé, Sherlock glielo aveva impedito.

...come ogni dannata volta...

A breve non avrebbe più potuto neppure fare la cacca in santa pace di prima mattina, senza avere il consulting detective ad invadere il suo spazio vitale in bagno.

 

« Oh, capirai... puoi usare tutti i sinonimi che vuoi... ora sono qui! E c'è anche lei! » indicò Rosie, nel passeggino, come fosse la cosa più ovvia fra loro.

 

Il dottore si mise le mani fra i capelli.

Prima o poi sarebbe impazzito...

E allora sì: Ginevra Meier gli avrebbe fatto una massiccia dose di TSO previo ricovero.

 

« Beh? ».

Sherlock avanzò di qualche passo.

« Penso tu sia qui per passeggiare, no?! ».

 

John annuì.

L'idea era di farlo da solo... ma va beh...

Accantonò anche il solo pensiero di dirglielo.

Di dirgli che voleva un po' di spazio per sé.

Che doveva smetterla di invadere il suo spazio privato: che ogni tanto, le persone, hanno bisogno di stare con se stesse, ed elaborare.

Ma... Tanto non lo avrebbe capito. Sherlock era uno che prendeva ciò che voleva, quando voleva: che fosse lo spazio vitale di John... o un posacenere a Buckingham Palace.

Mi viene da ridere solo a ricordarlo...

 

Il consulting detective, nel mentre, aveva iniziato a passeggiare lentamente, con le mani dietro la schiena, davanti a lui. Di tanto in tanto muoveva la testa a destra e a sinistra, osservando – deducendo – tutte le persone che stavano passeggiando come loro lì.

C'era gente in cerca di relax.

C'erano turisti di varie nazionalità.

C'erano genitori con figli...

Quasi come loro due...

 

Sherlock si morse le labbra, pensandolo.

Per come stavano ora le cose fra lui e John, lui non era altro che il suo migliore amico, che ogni tanto si occupava di Rosie, come fosse uno zio.

Eppure, non era questo quello che Sherlock voleva essere.

Non era questo il modo in cui avrebbe voluto crescerla.

Non facendo lo zio.

E non era questo il modo in cui voleva rapportarsi con John. Non come il suo migliore amico.

 

« Sherlock...? ». Domandò John, indicando il passeggino con Rosie dentro.

 

Il diretto interessato si girò.

« Beh?! Mica pretenderai che in un luogo pubblico io spinga il passeggino di tua figlia?! ». Rispose, ghignando.

 

« Ma... !! ». Stava per replicare. Ma Sherlock gli fece uno di quei sorrisi sarcastici, da faccia da schiaffi, che non ammettono repliche.

 

John sbuffò, ma non perché gli scocciava portare il passeggino di Rosie... tutt'altro.

Perché non riusciva a far ammettere a quel detective fuori di testa che anche a lui piaceva farlo.

E che non c'era niente di male a farlo.

Ma chissà quante pippe mentali gli scaturiva farlo.

 

cacca di elefante...

 

E John, ricordandosi che non deve dedurre cosa pensano gli altri, si mise a ridacchiare da solo, iniziando a spingere il passeggino con dentro Rosie.

 

Sherlock, notando la sua serenità, alzò le punte del collo del suo cappotto con fare misterioso, per coprire il sorriso che la presenza vitale del dottore – e non di meno di Rosie - gli stava infondendo.

 

 

 

 

« Perché qui?! ».

Chiese il consulting detective, dopo un po' che avevano camminato in silenzio.

 

John, che gli camminava affianco, fece un sorriso vago.

« Perché c'è un origine... ».

 

Sherlock dedusse.

E dedusse bene.

 

Camminarono fin sul colle, da dove si originava il Meridiano di Greenwich.

 

Il meridiano zero.

 

Sherlock si mise con le gambe a cavallo della linea rossa.

 

E osservò, anzi, studiò tutte le emozioni, le sensazioni, che si affacciavano sulle espressioni facciali, e negli occhi di John.

Ma ne lesse così tante, troppe, che si sentì andare il cervello in crash.

 

« Se vai verso ovest conti i fusi orari all'indietro... se vai verso est, li conti in avanti... ».

Disse il detective, guardando gli occhi curiosi di Rosie.

La piccola lo stava fissando con meraviglia.

E tutte le volte che accadeva, lui si sentiva in dovere di spiegarle qualcosa sul mondo che li circondava.

 

« … Ma infondo... cosa vuol dire indietro... o avanti?! Li conti e basta... sono solo convenzioni...». Disse John, accarezzandole la testa, e sistemandole il cappuccio della tutina, per non farle prendere freddo alla testa.

 

« Convenzioni che servono a capire... i meridiani sono misure fondamentali, John! ». Protestò Sherlock, come se John avesse sfidato una sacra verità. Come se l'affronto l'avesse fatto a lui personalmente, non alla scienza.

 

« Sì, okay, Sherlock... ma allora perché non contarli verso est all'indietro... e verso ovest in avanti?!». Sapeva benissimo il perché. Solo che la sua mente si era persa in un po' di cacca di elefante.

 

« Perché è stato deciso così, John, che domande! E perché segue la rotazione della Terra! L'alternarsi del giorno e della notte! ».

Sherlock si portò una mano al volto.

« Questa mattina.. hai fatto colazione a pane ed Anderson? Sento come se il tuo livello intellettivo si fosse abbassato...! Hai battuto la testa?! Ti senti bene?! ».

E gli mise una mano sulla fronte.

 

John fu lesto a togliergliela.

« Sherlock... non toccarmi in pubblico! Lo sai che poi la gente mormora! ». Lo rimproverò.

 

« Pfff...! » sbuffò, scocciato « … come se mi importasse del loro giudizio...»

E seppur protestando, si allontanò comunque, perché il gesto di stizza con cui John lo aveva allontanato, lo ferì più di quanto non avesse dovuto – voluto.

 

Si girò di schiena, e riprese a camminare, rimanendo a cavallo con i piedi della linea rossa.

 

« A me invece interessa... e se pensassero che stiamo insieme?! ». Chiese John scocciato. Quasi risentito.

 

Sherlock fece spallucce.

« Beh?! … non l'hanno, forse, sempre pensato!? ».

 

« Non “beh?!”, Sherlock... tu... tu sei sposato col tuo lavoro... e io sono un vedovo con una bambina... ». Protestò il dottore. Cercò disperatamente lo sguardo di Rosie, come se potesse confortarlo. Ma lei era intenta ad allungare le manine, per giocare con il cappotto del detective.

 

« Le adozioni, i matrimoni fra persone dello stesso stesso, mi pare siano stati legalizzati da anni... La gente ormai se ne è fatta, o se ne sta facendo una ragione... ». Affermò con nonchalance Sherlock, rallentando il passo, affinché Rosie non si esponesse troppo in avanti per afferrare un lembo del suo cappotto.

 

John si morse la lingua.

Era una battaglia persa.

« Sì, ma... ».

 

« Sì, “ma?!” che cosa, John?! ». Sherlock si fermo, si girò, e lo fulminò con lo sguardo.

« Cosa cazzo ti interessa di quello che pensa la gente? Delle emozioni che prova, se ci vede vicini, a passeggiare con Rosie?! Eh?!».

 

John ebbe due pensieri, che terminarono entrambi con: cacca di elefante...

 

Cacca di elefante numero uno: effettivamente, quello che pensava la gente di lui, non era affar suo. Poteva vivere anche senza quel peso.

Cacca di elefante numero due: perché Sherlock, ultimamente, se la prendeva a male, ogni volta che gli faceva notare, che gli dava fastidio il suo esser troppo appiccicoso?!

 

Sherlock...

.. Appiccicoso...

 

Sherlock...

fastidioso...?!

 

Probabilmente, queste erano le emozioni su cui avrebbe dovuto lavorare.

Su come si sentiva. Non su come gli altri pensavano di sentirsi vedendoli.

 

Ginevra Meier aveva dannatamente ragione.

 

« Ultimamente mi lasci dedurre spesso e volentieri che la mia presenza ti infastidisca... Anziché scacciarmi con scuse... o malamente... potresti semplicemente... dirmelo? ».

Era così dannatamente serio, che John rimase spiazzato.

La sua voce baritonale gli aveva perforato le orecchie, seppur il tono era calmo, tranquillo.

« Certe cose preferirei... non dedurle... ». Ammise Sherlock, voltando lo sguardo altrove.

 

Erano giunti di fronte la piccola costruzione in metallo che rappresentava il meridiano di Greenwich. Il consulting detective era andato poi oltre, verso la ringhiera che dava sul belvedere del parco.

 

Sherlock...

SHERLOCK CHE AMA DEDURRE...

preferisce non dedurre...

 

Scusa, dottoressa Meier... ma questa... questa non è cacca di elefante per il mio cervello...

 

è cacca di dinosauro!

 

e io voglio solo sguazzarci...

 

perché su questo, io le pippe mentali gradirei proprio farmele!

potrei aprire un centro termale e offrire scrub gratis a tutti, per quanta cacca di elefante questa sua frase mi farà produrre!!!

 

Il consulting detective, dopo aver attentamente scrutato l'orizzonte, riprese a camminare.

John lo seguì, rimanendo qualche passo indietro.

 

« Sherlock... » .

Lo richiamò piano John.

 

Sherlock si fermò nuovamente.

Erano, ora, lontani dalla linea rossa.

Erano passati oltre.

Si erano diretti ad est.

 

Il dottore avanzò col passeggino, fino a stare dietro la schiena del suo coinquilino.

 

D'istinto, pose una mano sul suo cappotto, all'incirca, all'altezza del suo cuore.

 

« Sei il miglior detective che conosco... Ma non puoi dedurre... questo... ».

Qualsiasi cosa “questo” implichi...

 

Sentì la schiena di Sherlock tendersi sotto le sue dita.

 

« .. Puoi dedurre tutte le cose logiche che vuoi... Ma Sherlock... non puoi dedurre i sentimenti e le emozioni... ».

 

« I sentimenti... le emozioni... sono solo reazioni chimiche che avvengono nel cervello... sono prevedibili... sono calcolabili... sono deducibili, quindi! ».

Gemette quasi di dolore, nel dirlo, scrutando l'infinito di quel prato verde, che si stagliava oltre i propri occhi. Il suo sguardo vagava verso tutto ciò che non era John Watson.

 

« No, Sherlock... non puoi... ».

John sembrò esitare, ma poi continuò con convinzione.

«... non puoi entrarmi nella testa, non più di quanto io non ti permetta... ».

 

Sherlock si girò di scatto.

I suoi occhi trafissero quelli del dottore.

Li catturarono, li ammaliarono, li stregarono... non più di quanto già non facessero involontariamente altre volte.

Ma questa volta, quelle catene invisibili, quelle ancore che gettarono, erano volute.

Volute con tutto se stesso.

E la mano di John, che era rimasta sospesa a mezz'aria, venne afferrata da quelle pallide del detective.

 

« E allora permettimelo... permettimi di entrarti nella testa... ».

Una mano poi scivolò ad accarezzare il viso del dottore. Che questa volta non si sottrasse a quel tocco.

« Permettimi di... dedurti... più che posso... ».

 

Il dottore sorrise, come poche volte gli capitava.

Non trovò fastidio in quel contatto, in quell'intimità.

« Non posso... devo... prima... fare pulizia... ».

Disse con lentezza. Affinché l'altro afferrasse il concetto.

 

Sherlock, sbagliando, dedusse, invece, che non c'era posto per lui, e stette per ritrarre la mano.

Si diede dell'idiota: come poteva anche solo aver pensato di avere avuto una chance?! Anche solo una?!

 

Non l'aveva avuta prima dell'esistenza di Mary...

Come avrebbe potuto averla ora... ora che John la piangeva ancora?!

Ed aveva il frutto del loro amore a ricordargliela costantemente?!

 

Per un solo istante gli occhi di Sherlock si spostarono da quelli di John a Rosie – una Rosie che con le sue piccole manine aveva afferrato il suo lungo cappotto – per poi tornare in quelli di John.

 

« Smettila, Sherl... ».

Le mani del dottore presero il volto del detective, che si stava perdendo nelle sue elucubrazioni.

 

« Non posso... ».

Ammise Sherlock.

Un sorriso a mezza bocca riassumeva tutte le emozioni che stentava a tacere.

« Anche quando so che quello che dedurrò non mi piacerà... non riesco a smettere... ».

 

« Smettila... Smettila di dedurmi, Sherlock... sei fuori strada... continueresti solo ad andare fuori strada... ». E non sapeva neanche lui perché, ma John si sentì di muovere un passo verso di lui.

 

« Invece no... so esattamente cosa pensi... ».

Sherlock si morse il labbro inferiore, non smettendo di puntare i suoi occhi chiari in quelli del suo coinquilino.

 

« Non puoi... ». Insistette John.

Un altro passo, e i loro vestiti si sfiorarono.

 

« Sì che posso! ». Si accigliò il detective.

Per guardarlo meglio tenne il viso completamente chinato verso il basso.

 

« Non puoi, Sherlock! ».

Il collo di John si tese, mentre teneva la testa alzata, per poter tener meglio in contatto i loro sguardi.

Detestava doverlo guardare dal basso all'alto.

« … non puoi! ». Sussurrò.

 

« Io posso dedurre tutto! ».

E cercò di allontanarsi.

Perché Sherlock, ad averlo così, sentì dolore ovunque.

Ma John serrò di più la stretta sul suo viso. Non gli permise di sfuggire così facilmente.

 

Come se esistesse qualcosa di facile, fra loro...

 

« Non puoi... c'è troppa mondezza nella mia testa....! ».

Ribadì John.

« … a volte non so neanche io cosa ho nella mia testa! ».

 

Sherlock sentì quasi il peso di tutta quell'immondizia di cui il suo dottore stava parlando.

Si sentì soffocare.

 

Da quando Mary... è considerata mondezza, nel cervello di John?! A meno che... non sta parlando di Mary, ma di altro... di che cazzo stai parlando John?”. Pensò Sherlock.

 

« C'è troppa... cacca di elefante, Sherlock... ».

Sussurrò ancora una volta Watson, quasi sorridendo amaramente.

 

« COSA CAZZO C'è NEL TUO CERVELLO?! ».

L'espressione schifata di Sherlock fece esplodere John in una risata.

 

Non erano più così vicini ora.

 

« Cacca.... cacca di elefante! ».

Ripose John, ridendo, appoggiandosi con le mani al passeggino, per non cadere a terra.

 

« …? ». Sulla testa di Sherlock, se fosse stato il personaggio di un manga, sarebbe apparso un enormissimo punto interrogativo.

« … credo di non capire... ».

Stavolta... non so cosa dedurre...

 

«Non serve... lascia stare... ». Rise da solo John.

Avvinto dall'ilarità del momento, il suo istinto prese la meglio.

Afferrò una mano del detective, e la pose sul passeggino, insieme alla sua.

 

« Torniamo a casa, Sherlock... ». Il tono ora era serio.

Non suonava come un ordine.

Non suonava come una proposta, ne un invito.

 

Sembrava più una deduzione.

 

Il detective annuì, continuando a guardarlo a metà fra lo schifato e l'incomprensibile.

La sua mano scivolò sopra quella del dottore, per accarezzarla con riverenza, ed incastrarsi con le dita in mezzo a quelle dell'altro.

 

Sherlock si chiese quanto sarebbe durato quell'intreccio.

 

Ed il suo cuore urlò “per sempre”...

 

Sorrise, nascondendo nuovamente la sua espressione dietro gli angoli del collo del suo cappotto.

 

Rosie aveva iniziato a fare versetti, a sgambettare felice, perché in lontananza aveva visto un cane.

 

E lui la guardò come fosse la cosa più preziosa che gli fosse mai capitata nella vita...

… dopo John.

 

Un John che lo stava sbirciando di sottecchi, ammaliato: completamente in balia di una tempesta a cui non aveva ancora saputo dar nome.

 

 

Continua...

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Capitolo 4
*** 04 Capitolo ***


Elephant's Poop

 

04 Capitolo

 

Era sera, all'incirca mezzanotte.

Sherlock aveva appena finito di raccontare il ciclo di Krebs a Rosie, dell'ATP, di come si ossidassero le molecole, della respirazione aerobica, e la piccola si era addormentata serena fra le sue braccia.
Ed ora si stava godendo il momento. John dopo cena era andato a farsi un bagno e subito dopo a letto, dicendo che era stanchissimo mentalmente, in quanto era stata "una giornata". Così, il consulting detective, aveva deciso di non mettere subito la piccola Watson nella carrozzina ma di compiacersi ancora un po' della sua presenza.

 

John lo aveva sentitamente ringraziato per essersi offerto di metterla lui a letto per quella sera.
 

Il suo coinquilino, nonché migliore amico, non era uno tipo solito a muover richieste o favori, ma Sherlock gli aveva letto negli occhi quanto fosse sfinito, drenato.

Dopo avergli dedotto la sua spossatezza fisico-mentale, elencandogli tutti i segni più che evidenti che la accompagnavano: occhiaie, sguardo vago, poca stabilità sulle gambe e totalmente sovrappensiero, si era proposto di occuparsi di Rosie e lo aveva spedito al piano di sopra senza troppe cerimonie.
Egli accettò di buon grado, pur rimanendo qualche secondo di più, indugiando, nel coccolarsi la sua piccola fra le braccia; prima di porla nel passeggino, salutarla con un bacio in fronte e lasciarla alle cure di Sherlock.

 

Quest'ultimo, non appena ebbe sentito John chiudere la porta di sopra, la riprese in braccio.
 

Il loro comune accordo - non detto - era che più tardi, quando Rosie sarebbe stata in fase REM del sonno, Sherlock l'avesse portata con tutta la carrozzina in camera di John. In modo che l'indomani, non appena si fosse svegliata, suo padre sarebbe stato pronto per le coccole mattutine e la colazione; lasciando al consulting detective i suoi spazi, sia che avesse dormito, sia fosse rimasto sveglio più di 24h.

Così, Sherlock, ora girava per il suo salone, con Rosie che aveva appena preso la via del sonno.

 

Con un braccio reggeva la bambina a sé, con l'altra teneva in mano i fogli della cartella di un caso, che gli aveva portato Lestrade nel pomeriggio...

 

Un Lestrade che gli era apparso piuttosto impacciato, e pensieroso: molto più del solito. Si era chiesto, se, all'origine di quel disagio, non ci fosse stato lo zampino di suo fratello Mycroft.

Ma non ebbe il tempo di chiederglielo, perché Gregory iniziò a deviare la sua attenzione sul nuovo caso che gli aveva appena portato...

 

Ed ora, il consulting detective si ritrovava con la piccola Watson accoccolata addosso, con il viso premuto contro il suo petto caldo, le manine che stringevano la sua vestaglia blu notte, e le labbra semi schiuse. Non si stava interessando minimamente della bavetta che le usciva dalla bocca, e che gli avrebbe lasciato una macchiolina sulla stoffa pregiata.

 

Non avrebbe interrotto quel contatto per niente al mondo.

 

I suoi occhi vagavano dal viso serenamente addormentato di Rosie al plico di fogli che teneva nell'altra mano.

Osservava le foto dell'omicidio allegate ai documenti dell'autopsia firmati da Molly. La ragazza aveva fatto davvero un bel lavoro. Eppure, qualcosa le era sfuggito. Lo sentiva. E non solo a lei.

Probabilmente, il giorno dopo, si sarebbe imbucato sulla scena del crimine...

 

Pose i fogli sulla scrivania, si accoccolò meglio la piccola contro il petto, ed iniziò una passeggiata nel suo Mind Palace, continuando ad accarezzarle i pochi capelli che le stavano crescendo...

Ed era ormai luna e mezza passata, quando rumori lievi, provenienti dal piano di sopra, fecero appizzare le sue sensibili orecchie da violinista.

Chiuse gli occhi, stringendo possessivamente e protettivo Rosie a sé. Cercò di capire cosa fossero.


E alla fine dedusse...

Con cautela pose la piccola Watson nella carrozzina e la portò fino in camera sua, socchiudendo la porta alle sue spalle non appena ne riuscì.

Fece le scale a due a due, ed aprì lentamente la porta del piano di John, affinché non scricchiolasse o emettesse altri rumori sgradevoli.

"Devo ricordarmi di oliarla, prima o poi", pensò.

Si diresse verso la camera da letto del suo amico: aveva la porta spalancata.

Si fermò sulla soglia e non si azzardò subito ad andare oltre.

John, il suo amato coinquilino, doveva essere in preda ad un incubo molto brutto.

 

Sherlock lo dedusse da come aveva i muscoli contratti, sudava e si agitava nel sonno. Emetteva fievoli ma lunghi lamenti.

Ed ogni volta che di scatto si agitava, le molle del letto facevano un rumore metallico - che se non fosse stato per quel che Sherlock aveva davanti - poteva venir scambiato per altro.

Senza indugiare, all'ennesimo lamento di John, Sherlock si avvicinò a lui.

«John... » lo chiamò piano «John...! É tutto okay.... É tutto finito... ».
Gli pose una mano sulla spalla, inginocchiandosi di fronte a lui.
L'altro sussultò e sembrò agitarsi peggio.

 

Allontanò la mano come si fosse scottato.
E fu in un attimo che si decise.

 

Fece il giro del letto, e si sdraiò alla destra di John, lì: dove c'era un po' di spazio, in quel letto ad una piazza e mezza.
Si mise su un fianco, lo afferrò per una spalla, e lo fece collidere al proprio corpo.

 

Il dottore, che fino a quel momento tremava, si agitava e scalciava le lenzuola, sembrò paralizzarsi all'istante.
Sherlock, con dolcezza e delicatezza, iniziò ad accarezzargli viso e capelli, finché l'altro, finalmente, tornò ad un respiro regolare e smise di mugugnare quelle che avevano tutta l'aria di essere urla sommesse.

«É tutto okay... Non c'è acqua... Non c'è nessun pozzo... Solo coperte... » e gliele sistemò « Io sto bene, Rosie sta bene, stiamo tutti bene, anche tu sai bene...».
E gli sfiorò con le labbra una tempia, mentre la mano continuava a fargli carezze lievi alla base del collo.

Lo sentì nuovamente tendersi.
«Sher-Sherlock?!» sussurrò la voce del dottore, impastata dal sonno.

Il detective si allontanò solo col viso, per poterlo guardare in volto. La mano non smise neanche per un attimo le rassicuranti carezze.

Non si dissero nulla.
Occhi negli occhi.
Era buio, eccetto per una fioca luce proveniente dal corridoio.

«É stato solo un brutto incubo... » sussurrò Sherlock.

 

«Già... » annuì John, continuando a sostenere il suo sguardo.

Sherlock, d'istinto, se lo tirò più a sé.
John trattenne il fiato.
Il suo naso era molto vicino alle labbra di Sherlock.

 

Sarebbe bastato così poco: semplicemente alzare il viso, ed annullare la distanza fra loro, per congiungerle.
 

E probabilmente era quella l'intenzione istintiva di Sherlock, quando iniziò a massaggiargli la base del collo; e John, per istinto, assecondò quel piacevole contatto, chinando il collo all'indietro, emettendo un sospiro di sollievo: piacere.

Quella piccola, soffice, calda, nuvoletta d'aria si infranse contro le labbra di Sherlock.

 

Erano veramente ad un soffio di distanza.
 

Avvertendo quel calore, quella prossimità, le dita del detective arrestarono il loro movimento, e rimasero leggermente pressate su quel collo.

 

In attesa.
 

John, trovandosi immobilizzato - più psicologicamente che fisicamente - reagì infilando una mano fra i loro visi.
 

Era quella la distanza perfetta che intercorreva fra le loro bocche: due dita di John Watson che posavano i propri polpastrelli sulle labbra di Sherlock Holmes, mentre il dorso sfiorava le labbra stesse del dottore.


Ed aveva frettolosamente chiuso gli occhi.

Il respiro era accelerato.

 

Sherlock lo captò come panico.

 

« No... ».
Tremò il bisbiglio del biondo in quell'oscurità.

 

L'altro, per tutta risposta, baciò teneramente le punte di quelle dita.
 

« No, Sherl... ». E sembrò singhiozzare, nel dirlo, il povero dottore.

Il suo corpo tremò, ma per una paura diversa da quella di un brutto incubo.


«John... », sussurrò il detective sulla pelle di quelle dita callose, che avevano salvato vite: che avevano salvato la sua.


«No, Sherlock... » e si fece leggermente indietro con le spalle. Ma il collo, la testa, erano rimaste lì dov'erano.

E le percepì come la metafora della sua vita...
Nonostante si sforzasse di andare avanti, fisicamente, e non di meno mentalmente, i pensieri rimanevano lì: ancorati in luoghi passati, di cui non riusciva a fare a meno.

Di quella presa sul suo collo, seppure non fosse serrata, seppure se ne potesse liberare con facilità, non riusciva a farne a meno.

Così come la sua mente, di certe abitudini, consuetudini, non riusciva a liberarsi, neppure tutte loro fossero di vitale importanza...

Sherlock era rimasto con le labbra premute sui polpastrelli di quell'indice e quel medio, sperando e desiderando che si schiudessero: per permettergli di assaggiare la cosa che più desiderava ultimamente, più di un caso di omicidio da 10...

Le sue labbra.

 

Le agognava da mesi.

No, non era corretto: da anni...

 

Da quando John lo aveva salvato da se stesso per la prima volta: tutto quello che desiderava era ricompensarlo col suo amore. Amarlo finché il cuore gli avrebbe retto. Finché non sarebbe imploso di sentimenti d'amore per lui....

«Non-non posso... » sussurrò John.

Ancora ad occhi chiusi.

E non sapeva perché, ma gli veniva da piangere.

Un pianto che sarebbe stato solamente che liberatorio.

Per questo le sue palpebre tremarono, serrate.


«Perché tu non sei gay? » il fiato caldo del consulting detective continuava ad onorare quei due polpastrelli con le proprie labbra.
 

«Perché tu sei... Tu, Sherlock...» fu l'unica risposta che riuscì ad articolare John.

Qualsiasi cosa intendesse, la mano dietro il suo collo scivolò via da lì, ed iniziò una lenta carezza sul viso.

John sentì le dita lunghe di Sherlock così fredde, tremanti.

Sapeva che il suo rifiuto lo stava annientando.

Aprì gli occhi.

Sherlock non aveva smesso un secondo di osservarlo.

Di dedurlo...

 

Il cervello del detective, probabilmente, era diventato un generatore ideale di cacca di elefante...

 

Sherlock era perso in lui.

Era perso di lui.

Istintivamente, il dottore accarezzò il contorno delle sue labbra con quei due polpastrelli: da destra a sinistra, ripetendo quel movimento più e più volte.

 

Il detective le schiuse: ed ebbe paura ad usarle per respirare.
 

John non avrebbe mai pensato che quelle labbra fossero così morbide. Così soffici.

Ed iniziò a desiderare di fare quello che Sherlock sognava di fare con le sue da mesi, da anni.

Ma se ne vergognava ancora troppo.
Non si sentiva pronto.

 

c'era ancora il lutto di Mary da superare...

l'incubo dell'affogare nel pozzo, che lo straziava ogni notte...

la rabbia verso un certo consulting detective per avergli mentito sulla sua finta morte...

la sua eterosessualità che piangeva e bestemmiava, tutte le volte che trovava il suo coinquilino attraente...

 

C'erano ancora troppe, troppe cose, troppi nodi, dentro di John, a legarlo stretto al passato, e a precludergli un nuovo inizio: un futuro sereno, come lo aveva sempre desiderato, bramato, ma mai avuto.

« È presto... Vero? » chiese, anzi, dedusse, Sherlock.

 

«Sì... » ammise John, mordendosi le labbra.

«Ho bisogno... Di tempo... ».
 

Sherlock baciò con riverenza i polpastrelli di quelle due dita ancora una volta.

Ancora ed ancora.

Il dottore scivolò con la testa sotto il suo mento, nell'incavo della sua spalla, dove si accoccolò.
Il detective scorse con la mano lungo il suo fianco, e se lo avvicinò possessivamente. Premendo con tutte e cinque le dita contro il giro vita del suo dottore.

 

John trattenne il fiato, quando la sensazione di avere i loro corpi premuti l'uno contro l'altro arrivò al cervello.

 

E tutto perse forma, per un attimo: il corpo contro il suo non era più un corpo maschile.

Non c'era più l'ansia - il panico - di prima, nell'averlo così vicino.

Sherlock era semplicemente Sherlock: non più un uomo, un maschio a livello biologico.

Sherlock era semplicemente qualcuno per cui provava dei sentimenti.

Qualcuno la cui vicinanza lo rassicurava, lo faceva stare bene.

Lo rendeva sicuro, forte, coraggioso: in grado di superare qualsiasi cosa.
 

«Non so quanto tempo ci vorrà... » bisbigliò.

Il suo corpo si accoccolò meglio contro quello dell'altro, quasi come Rosie stessa aveva fatto quella sera...

In quasi totale abbandono...

 

« Non mi importa... » sussurrò il detective, direttamente nel suo orecchio.

La sua voce sapeva di miele, di brezza di mare, di zucchero filato.

« Questa volta non ti lascerò più andare... ».
… E di promesse senza tempo...

 

Fu come esser travolti dal gelido vento del Nord che scuote Londra d'inverno.

 

John, trapassato da parte a parte da un brivido, lasciò che le dita vagassero da quelle labbra alla guancia, al collo, ai suoi capelli ricci. Ne raccolse una ciocca, e se la arrotolò contro l'indice.

 

Aveva inspiegabilmente freddo.

Ed il calore del corpo a cui si era accoccolato, era l'unica cosa che sapeva poterlo scaldare...

Sherlock chiuse gli occhi, e posò il mento contro i suoi capelli biondi.

Un altro bisbiglio si sparse come macchia d'olio in quella semi-oscurità.

« Questa volta mi renderò indispensabile... Non riuscirai mai più a lasciarmi andare...».

Un bisbiglio che suonava quasi come una minaccia.

« Lo sei sempre stato, John... Lo sei sempre stato... ».

Fu la calda rassicurazione che svelò la più nascosta delle verità.... delle ovvietà.
 

Si strinsero forte, possessivi, e lasciarono cadere l'argomento, aspettando in silenzio che il sonno li cogliesse...


 

La mattina dopo, John si sarebbe ritrovato solo nel letto, con la carrozzina di Rosie che dormiva pacifica al suo fianco, domandandosi se fosse stato solamente un sogno...

 

 

Eurus poteva benissimo essere il vento dell'est....

Ma Sherlock... Sherlock era il vento del nord...

 

 

Il pomeriggio prima...

 

 

L'ispettore - nonché detective - di polizia Gregory Lestrade, dopo aver camminato per un lungo corridoio, percorso da quella che sembrava essere un'infinita vetrata, giunse finalmente alla sua meta.

 

La porta di uno studio.

Una volta davanti ad essa, due omoni della security lo squadrarono.

Erano alti sul metro e novanta, molto muscolosi, piazzati.

Uno dei due era di colore, l'altro nordico.

Entrambi glabri, avevano ben in mostra un auricolare all'orecchio sinistro.

«Detective Lestrade ».

Gregory mostrò loro il suo badge della polizia.

I suoi occhi guizzarono ad una telecamera di videosorveglianza al di sopra della porta.
 

I due uomini della security attesero che gli fossero date istruzioni.

Quando giunsero annuirono, ed uno dei due gli aprì la porta.

L'ispettore notò che quella che sembrava una semplice porta di uno studio, in realtà, era una pesantissima e spessissima porta blindata.

 

Probabilmente antiproiettile: anzi, anti bazooka.

Sarà stata spessa almeno una quindicina di centimetri.

Sussultò, quando essa venne richiusa con un rumore sordo; nonostante se lo aspettasse, perché ne aveva seguito il movimento con lo sguardo.


Un ticchettare, come qualcuno stesse digitando sulla tastiera di un computer, fu il primo rumore che avvertirono le sue orecchie in quella stanza.

Poi... Un rumore roco.
Animalesco.
Gutturale.
Profondo...

"Un... Rutto?!" si chiese fra sé e sé Gregory, voltandosi ad ispezionare il resto della stanza.

 

Le sue sopracciglia si alzarono, in un moto di sconvolgimento.

Alla sua destra, su uno dei due divanetti di pelle nera, sedeva una donna, con i capelli a caschetto rosa Schiapparelli.

 

Era di profilo rispetto a lui.

Aveva i gomiti poggiati sulle gambe e digitava sul proprio portatile, posato sul tavolinetto di cristallo e legno, posto al centro dei due divanetti.
«... Si, ma... Un po' di contegno! Non possiamo accogliere i colleghi di Mycroft così! ».

Disse, soffocando a stento una risata divertita.

Indossava un cardigan nero, jeans blu scuri, e un paio di Vans dello stesso colore dei capelli.

 

Non si era minimamente girata a guardarlo: era completamente assorbita dal suo lavoro sul proprio laptop.

L'unica cosa di lei che si muoveva erano le dita veloci sulla tastiera e i grandi orecchini a cerchio, che risaltavano, dorati e spessi, sotto quell'eccentricissimo colore di capelli.

Lo sguardo di Gregory ispezionò il resto della stanza.

Avanti a se c'erano due poltrone di pelle, l'enorme scrivania dove solitamente Mr Governo Inglese – alias Mycroft Holmes - sedeva, e la sua poltrona.
 

Quest'ultima era occupata da un'altra donna.

 

Ella aveva i capelli, dalla fronte a metà testa, a cresta blu, ed i restanti terminavano con dread e treccine, ornate con anelli e piccoli ciondoli. I colori andavano dal blu della cresta, al verde menta delle punte. Addirittura, si sforzò di mettere meglio a fuoco lo sguardo, Greg, qualche treccina era di un lime fluo davvero accecante, per non parlare di alcuni dread verdi acido, e sempre fluo.

Sul suo viso faceva bella mostra un piercing alla narice sinistra a cerchietto.

Un teschio come orecchino all'orecchio destro.

Una maglietta degli Iron Maiden: Rock in Rio.

Una giacca di pelle anni 80...

 

E jeans neri stracciati, con inserti di pizzo, con anfibi militari: cosa che non avrebbe dovuto vedere. Perché magari sotto la scrivania...
 

Invece erano lì: ben esposti al suo sguardo, perché la signora teneva le gambe incrociate sulla scrivania costosa e pregiata, ed un portatile sopra di esse, mentre con una mano reggeva un bicchiere di carta di Starbucks.

Che se le si fosse rovesciato, avrebbe sporcato irrimediabilmente non si sa quante cose!

« Questo è lo studio di Mr Holmes! Voi chi diavolo siete? ».

Chiese Lestrade, portandosi le mani sui fianchi.

La donna con i capelli blu ridacchiò, e solo in un secondo momento, alzando le sopracciglia, lo studiò in rimando.

L'altra, invece, non lo stava proprio calcolando.

"Dove cazzo sono capitato?! Mycroft ha deciso di organizzare un concerto alternative metal dentro il suo studio? E soprattutto... Dove diavolo è Mycroft?!".

La tizia alla scrivania di Mr Governo Inglese, per tutta risposta, sorseggiò nuovamente la sua bevanda, e soffocò un rutto, coprendosi la bocca con una mano.

L'ispettore si passò una mano sul viso.
"Se è uno scherzo di Mycroft, giuro su dio che -"

I suoi pensieri furono bloccati dal rumore della porta che si apriva dietro di lui.

Indietreggiò verso la parete alla sua sinistra, per non mostrare le spalle ne alle donne in quella stanza ne a chi di lì sarebbe entrato.

 

Portò la mano alla pistola che teneva dietro la schiena, in modo istintivo, ed aspettò.

Era pronto ad estrarla e far fuoco ad ogni momento.

 

Come se gli omoni lì fuori avessero fatto entrare chissà quale malintenzionato lì dentro...

« Ispettore Lestrade, ben trovato! » lo salutò Mycroft Holmes entrando.

Greg non notò lo sguardo che si passarono le due donne.

Sentì solo ridacchiarle, e quella con i capelli rosa Schiapparelli sussurrare all'altra:

«... smettilaaaaaa... ! ».
E proprio l'altra, quella con i capelli blu, rise ancora un po'.

Mycroft, dopo aver gettato un'occhiata glaciale ad entrambe, fece un sorriso tirato.

« Mr Holmes, buon giorno! ».

Greg lasciò la presa sulla pistola, e si risistemò l'impermeabile alla bella meglio.

«Prego, accomodati! » lo invitò Mycroft, andando verso la sua scrivania.
Guardò malissimo la donna che ci teneva le gambe poggiate sopra.
« Stark ... » fece in tono di rimprovero, bussando con le nocche dell'indice e del medio sulla superficie del tavolo: in un vano tentativo di richiamarla all'ordine.

«Holmes... » sorrise lei, strafottente, sghignazzando.

Mycroft alzò gli occhi al soffitto.

Non avrebbe riavuto la sua poltrona, non adesso almeno...

Un sospirò di rassegnazione abbandonò le sue labbra, mentre scuoté leggermente la testa.

Si tolse il cappello, il lungo cappotto, e li appese ad un attaccapanni al muro.

Il suo amato ombrello lo appese al lato della propria scrivania.

Gregory era rimasto a guardare la scena.
Era un detective, eppure non riusciva a capire che legame ci fosse fra quelle donne ed il Signor Governo Inglese.
Probabilmente le conosceva bene, visto che non aveva ucciso la tizia che continuava a tenere quella posizione da gran maleducata sulla sua scrivania.

Mycroft si affiancò a lui, e Gregory, che stava ancora studiando la tizia alla scrivania, non si era accorto che l'altro gli si fosse avvicinato.
Trattenne per un attimo il respiro, ritrovandoselo così vicino.


Si sentì nuovamente un ridacchiare da parte delle due donne, e sempre quella seduta sui divanetti riprese l'altra.
«Eddai... Basta...!». Ma continuarono a ridacchiare entrambe, sempre concentrate sui propri portatili.

« La giacca... » chiese implicitamente Mycroft, sorridente, ignorando al momento le due tizie.

Lestrade si sbrigò a togliersi l'impermeabile, e glielo porse.
L'altro lo appese affianco alla sua giacca.

Gregory continuò a passare lo sguardo da lui a loro, accarezzandosi la base del collo con una mano, in evidente stato di disagio.

La porta si aprì nuovamente alle sue spalle.

 

Entrò un signore di una certa età: pose un vassoio con teiera, biscottini, due tazze e due piattini sulla scrivania.
Mycroft lo ringraziò ed egli uscì in silenzio, così come vi era entrato.
«Stark, non ci provare ! » fece poi, seccando sul nascere la mano della donna con i capelli blu, che si era allungata a rubare un biscotto.

« Uffa... Tu sei a dieta! » si lamentò lei, ma allontanò comunque la mano dal vassoio.

Mycroft si sistemò su una delle due poltrone di pelle di fronte la sua scrivania, invitando Gregory a sedersi di fronte a lui sull'altra.

La donna alla scrivania, vedendo Gregory accomodarsi vicino all'altro uomo, pose il portatile sulla scrivania, e finalmente scese con le gambe da essa.

Mycroft si girò a sorriderle, facendole capire che aveva gradito quello sforzo di educazione da parte sua.
Poi allungò un braccio per avvicinarsi il vassoio, e nel farlo, sfiorò la spalla dell'ispettore, che a sua volta, si era girato per aiutarlo.

 

Le loro mani si sfiorarono.
E ne scaturì un altro sorriso sulle labbra della donna a loro vicina.

Il vassoio fu posizionato sulla scrivania, esattamente dietro il portatile della donna, e a metà fra i due uomini.

La donna passò lo sguardo dal politico al poliziotto, più e più volte: e poi scosse la testa, tornando al suo portatile.

«Zucchero? » chiese Mycroft, con un sorriso più che radioso.

 

« Un cucchiaino raso, grazie» rispose Lestrade, mentre sbirciava le donne con lo sguardo.

Il maggiore Holmes fece come detto, e gli porse il tea, posizionando la tazza sopra il piattino più vicino a lui.

« So che stai per chiedermelo... » iniziò il politico, dopo aver bevuto un sorso di quella miscela pregiata.

« Ti presento l'Electro-Mechanical Engineer Milena Stark... » indicando la ragazza con la cresta ed i dread, « … e la Cyber Sicurity Engineer Veronika Sokolov », indicando la donna con i capelli color Schiapparelli.

Quella vicino a loro inclinò un angolo delle labbra in un sorriso poco rassicurante, mentre i suoi occhi scorrevano su Lestrade neanche gli stessero facendo una RM. L'altra salutò con la mano, senza staccare gli occhi dallo screen del proprio laptop.

Gregory annuì ad entrambe.
« Piacere, Ispettore Gregory Lestrade».

«Lo sappiamo... » rispose l'ingegnere Stark, continuando a squadrarlo con gli occhi.

Un sorrisetto che ne sapeva più lei di lui, che non viceversa, veniva ostentato dalle sue labbra leggermente tinte da un rossetto color sangria.

Gregory iniziava a sentirsi quasi nudo sotto quello sguardo.
Mycroft, che ovviamente aveva dedotto il suo disagio, lo rassicurò con un sorriso, accarezzandogli un braccio distrattamente.

 

Gregory guardò, alzando un sopracciglio, quella mano che lo rassicurava, per poi spostare lo sguardo verso il politico. Quest'ultimo, sorridendo imbarazzato, rendendosi conto di non aver saputo tenere le mani apposto, la allontanò, portandola a sorreggere la tazza di tea.

L'ingegner Stark scosse la testa come a dire "senza speranza proprio...", e tornò a digitare sul proprio portatile.

« Lo so che non sembra... » riprese a parlare Mycroft « Ma l'Ingegner Stark lavora per il JIC*».

« Ti correggo... La gente lavora lì per me, Mr Holmes » precisò la donna. La sua voce era seria.

Il sorrisetto strafottente di prima era svanito.

« Mentre l'Ingegner Sokolov lavora per l'MI6 e l'MI5... Ed è fra i tre hacker più bravi sulla faccia della Terra. É capace di entrate ovunque... » gli occhi si chiusero a fessura « … e quando dico ovunque, intendo proprio ovunque... ».

La donna chiamata in causa fece spallucce.


« Al di fuori di queste mura, nessuno sa quale sia il suo vero nome o il suo vero volto... E' semplicemente conosciuta con il soprannome di Passe-partout... », affermò orgogliosa l'ingegnere elettro-meccanico.

Greg mandò giù la saliva: “insomma, erano due persone tranquillissime...”

« Non lo avresti mai detto, vero? ». Chiese sarcastico Holmes Sr.

 

Dietro il suo sorriso, l'ispettore scorse una stima inestimabile verso le due colleghe.
Si ritrovò a fare spallucce, perché sì: il loro aspetto lo aveva proprio ingannato.

 

L'abito non fai l monaco, Greg!”, si sentì in dovere di rimproverare sé stesso mentalmente.

« Già... Ma anche questo fa parte del loro lavoro... ».

Mycroft sorseggiò dell'altro tea.

« Le apparenze che ingannano, nel loro caso, sono un salvavita... »

« Un po' come tuo fratello... » fece Lestrade, per rompere la tensione.

«Esatto!... Proprio come Sherlock... ».

L'ispettore, poi, ebbe un illuminazione.
« Asp-aspetta... Ma... ».
Si girò di scatto a guardare l'Ingegnere Elettromeccanico.
« Stark come... »

«Come Stark Industries ! Esatto ! » sorrise lei. Questa volta radiosa: orgogliosa, soddisfatta.
« Te lo sei scelto rallentato, ma con buona memoria visiva, vedo! » e fece un occhiolino a Mycroft.

Il politico la fulminò con gli occhi.

 

Ma Lestrade non ci fece caso. Aveva ancora la bocca aperta ed il mento quasi per terra.

« Anthony Edward Stark è mio fratello maggiore », spiegò lei, togliendogli ogni dubbio.

Questa volta fu il turno dell'ingegnere Sokolov di ridacchiare dell'espressione dell'ispettore.

 

« Cioè... aspetta... ». Lestrade si passò una mano sul viso.

« Tu sei... la sorella.... » prese fiato « di quel Tony Stark... che fu fatto prigioniero dal suo EC*, in Afghanistan, e sopravvisse costruendosi un'armatura di metallo?! ».

 

Milena annuì.

« Proprio lui! ».

 

« Lo stesso Tony Stark... che vedendo gli orrori della guerra, ha smesso di produrre armi, e si è dedicato ad investire tutto il suo capitale nella ricerca biomedica e clinica?! ». Lestrade stava iperventilando, nel chiederlo.

 

La donna annuì nuovamente.

« Sì, Ispettore Lestrade... Sono sua sorella minore ».

 

Gregory era pallido. Prima che lo chiedesse, l'ingegnere Stark lo anticipò.

 

« Lavoro per il JIC non come progettista di armi, benché io e mio fratello ce ne intendiamo abbastanza... » fece in tono sarcastico « … ma come progettista di sensori biometrici: fisiologici o comportamentali, e reti neurali... ».

 

Veronika, continuando a digitare al suo laptop, ghignò notando il viso dell'ispettore sempre più verso il bianco straccio.

 

« Fantastico! ». Sussurrò Gregory, affascinato.


Mycroft sorrise soddisfatto del suo staff: anche se in realtà era lui a lavorare per loro.

Ma preferiva più considerarsi come un Team.
 

In più... quelle due donne, insieme, nella stessa stanza, erano pericolose: e non solo professionalmente e lavorativamente parlando...

Lestrade si riprese poco a poco.
Smise di fissare come un ebete Milena Stark, e tornò con lo sguardo a Mycroft.
« Mi hai fatto chiamare... E non credo per presentarmi loro due... ».

 

Quanto ti sbagli, Ispettore”, pensò l'ingegnere elettro-meccanico.

Il politico annuì.
«Sì, Ispettore... Ho un caso mezzo governativo mezzo no, e avrei bisogno che tu ci dessi un'occhiata... ».

Si girò verso la libreria alle sue spalle e sfilò, da una scatola di cartone, una cartellina marrone, contenente così tante pagine, da risultare alta almeno tre dita.

Poi la porse all'uomo di fronte a sé.

Gregory sorrise imbarazzato, prendendola dalle sue mani.

Avrebbe voluto farsi piccolo piccolo.
« Beh... Con tutte queste menti geniali, incluso tuo fratello... Chiedi proprio a me?».

Sfogliò distrattamente la moltitudine di pagine di quel plico: vi erano foto spillate a fogli, cd dentro foderine di plastica, ed addirittura un paio di penne usb.

Mycroft sorrise, non sapendo che dire.
Qualsiasi cosa avesse detto, avrebbe potuto sbagliare.

Era un campo minato quello.

 

Ma era l'unica cosa che potesse funzionare: un caso.

Un caso da offrire, per potersi avvicinare a quell'ispettore che gli piaceva tanto, e da tanto.

Magari, lavorare insieme lo avrebbe aiutato a capire se poteva dichiararsi o meno...

O almeno, così, due certe ingegnere, gli avevano suggerito – no: architettato...

 

ed architetto ed ingegnere, si sa, sono nemici fin dall'alba dei tempi...

Quindi... la paura che tutto andasse male, era sempre dietro l'angolo...

«A cena! » esclamò l'ingegner Sokolov, andandogli in soccorso.

«Potreste darci un'occhiata insieme a cena! ». E guardò dritto negli occhi Mycroft.

« È un caso a cui stiamo lavorando da tempo. Ma non ne veniamo a capo.... Non abbiamo ancora recuperato tutti i dettagli... », continuò in modo vago, montando una supercazzola che reggesse.

«... Ma per questa sera, dovremmo averli tutti alla mano! ».

 

Lestrade guardò il plico alto tre dita, che teneva fra le mani: stentava a credere non ci fosse tutto il materiale. Le sue labbra si arricciarono e le sopracciglia si alzarono, in un espressione dubbia.

«Oh, beh, c-certo... Se non è troppo di disturbo per l'Ispettore Lestrade... » fece imbarazzato il politico.

 

In realtà non sapeva se ringraziarle o decidere come ucciderle... e come liberarsi, poi, in un secondo momento, dei loro corpi.

L'ispettore, ignaro dei doppi sensi di quella situazione, sorrise come un cucciolotto.
« Per me va benissimo... Sono libero stasera! ».

 

Mycroft boccheggiò, e volle affogare nella tazza di tea che aveva ripreso a bere.

«Perfetto! » rispose Veronika al suo posto.

«Il Signor Holmes Sr ti comunicherà più tardi il ristorante... Spero scegliate qualcosa di appartato! Mica vorrete che il “caso” diventi di dominio pubblico! ».

Mycroft si strozzò col tea: iniziando a tossire.

«Beh, ovvio, Ingegner Sokolov... » intervenne Milena « …. certi "casi" - e avrebbe voluto specificare "umani" - vanno trattati con una certa privacy! Non è che certe cose possono esser mostrate in mondovisione!».

Mycroft tossì ancora un paio di volte.

Il tea gli sarebbe uscito dalle orecchie, di questo passo...

Lestrade, sempre cuccioloso e privo di qualsiasi malizia, annuì.
«Assolutamente.. Essendo un caso mezzo governativo, non vorrei mai ci mettessimo nei guai! ».

Con una mano si grattò il piccolo accenno di barba brizzolata, pensieroso.

Holmes Sr si allentò leggermente la cravatta per respirare. Era paonazzo in volto.

Erano mesi che desiderava chiedergli un appuntamento.

Mesi che non sapeva come fare: che scusa inventare, come approcciarcisi...

 

Greg lo aveva cercato, sporadicamente, qualche volta, dopo l'accaduto di Eurus.

Glielo aveva chiesto – implorato indirettamente - Sherlock.

Ma Holmes Sr questo ancora non lo sapeva. E probabilmente, era meglio se non l'avesse mai saputo.

 

Così, Mycroft Holmes si era ritrovato ogni tanto qualche messaggio, qualche chiamata di Lestrade, che lo contattava per parlare del più e del meno, o di suo fratello minore.

Ed ogni volta che gli chiedeva come stava, il politico non sapeva mai cosa rispondere.

 

Bene? Perché mi hai chiamato?!

Male? Perché più in là di un paio di discorsi di circostanza, e superficiali, non riesco a fare con te!?

 

Era una tortura, per Holmes Sr.

Una lenta agonia: non poter far capire alla persona che ti piace, che gli piaci.

 

In più, sapeva del divorzio di Lestrade.

 

Soprattutto perché una certa Ingegnera gli aveva fatto trovare, un bel giorno, sulla scrivania, tutti i dati sensibili dell'ispettore, relativi alla sua ex moglie...

 

E sapeva anche, con certezza, che dopo il divorzio, non aveva più avuto relazioni con nessuna donna. No, neanche occasionali.

 

Per questo ora si sentiva andare a fuoco... soffocare.

 

Lestrade non aveva mai avuto, che lui sapesse – sempre grazie ad una certa ingegnera – relazioni di tipo omosessuale. Ma ciò non escludeva a priori che non fosse bisessuale, o pansessuale, o demisessuale o qualsiasicosa-sessuale.

 

Infondo, bastava guardare il dottor Watson: quello giurava e spergiurava di non esser gay dalla mattina alla sera... eppure Sherlock – dopo sua figlia- era il suo intero mondo.

Checché se ne disse, il dottor Watson amava suo fratello Sherlock, ed era innegabile agli occhi di tutti... Ed era veramente frustrante, per lui stesso, per suo fratello, e per tutti i suoi amici, sentirlo ripetere in continuazione che non era gay!

Lo avevano capito! Solo lui stesso non aveva capito di essere Sherlock-sessuale!!

 

Quindi, era inutile fasciarsi la testa prima di rompersela: era inutile continuare a produrre pupù di elefante.

 

Ma Mycroft non riusciva a farne a meno: lui, che era abituato alla diplomazia, ad ottenere sempre quello che voleva, da chi voleva, tremava all'idea di ricevere un rifiuto dall'unica persona che, in quaranta e passa anni di vita, gli era mai veramente interessata.

 

E prendere aria, cercare di regolarizzare la respirazione, al momento, era cosa impossibile...

 

Dove lui, fino a quel momento, aveva fallito, avvinto dalla paura, erano bastate due menti geniali e pazze come quelle di due ingegneri, due colleghe, per ottenere finalmente una cena a tu per tu con l'Ispettore dei suoi sogni.

 

Era un motivo valido per smettere di respirare ed iperventilare, no!?

La suoneria dello smartphone di Lestrade iniziò a squillare, e Mycroft tornò alla realtà con i suoi pensieri.

 

L'ispettore, posato il plico del caso sulla scrivania, tirò fuori il telefono dalla tasca interna della giacca blu scura del completo.

Si morse le labbra.
« Dannazione.. É il capo. Devo andare. Pare ci sia un nuovo caso di omicidio... Credo proprio mi servirà Sherlock! E questa volta tuo fratello si divertirà parecchio... ».
Si alzò, finì il tea in fretta e furia, afferrò il suo impermeabile e si diresse alla porta.
« Non so... Mandami un messaggio o chiamami... no,no, meglio un messaggio, non credo avrò tempo di stare al telefono... fammi sapere di questa sera! ».
Poi si volse anche alle ingegnere.
«Buon lavoro e piacere di avervi conosciuto!» e fuggì via dalla porta, mentre un omone della security la richiuse.

Mycroft era rimasto seduto rigido, schiena dritta e la tazza di tea a mezz'aria, fra le labbra e la scrivania. L'altra mano era rimasta sulla bocca: aveva creduto per un attimo che il tea gli sarebbe tornato su tutto insieme. Si era agitato troppo, all'idea di una loro cena insieme.

«Beh? Non è stato difficile! » intervenne Veronika.

«Io penso che se te la giochi bene, stasera te lo porti pure a casa! » ridacchiò Milena.

«INGEGNER STARK! ». La voce di Holmes Sr arrivò come un guaito di un cane, a cui, poverino, viene pestata la coda.

Lei rise ancor di più.

Mycroft si lasciò andare lentamente contro la sedia di pelle, posando la tazza sulla scrivania.

Il gesto fu un po' troppo brusco: le stoviglie tintinnarono.
« Devo solo scegliere dove... ». Proferì serio.

« Ho già prenotato! », Veronika si alzò dal divanetto e prese posto dove poco prima era stato seduto l'ispettore Lestrade.
« Ecco! » e gli indicò lo schermo del proprio laptop.

Mycroft vide la prenotazione che lei aveva effettuato a suo nome.

« Ho anche usato, ovviamente, oltre la tua identità, la tua carta di credito per confermare la prenotazione! ».

«... Non avevo dubbi... ». Sorrise di gioia falsa il politico.

Doveva rimanere calmo: stava per avere una cena con Lestrade, e doveva rimanere calmo.

Milena si alzò, chiuse il portatile e se lo mise sottobraccio. Con una mano si ravvivò la cresta.
« Ovviamente, dovrai passarlo a prendere tu... Capito? ».

 

« A parte che mi sembrate un'associazione a delinquere, più che degli stimati ingegneri che lavorano per i servizi segreti... Ma soprassiederò su ciò, se l'appuntamento andrà bene... Solo che...».
Mycroft alzò gli occhi verso di lei.
« Non sembrerei troppo invadente? Nell'andarlo a prendere io?! ».

Le due scoppiarono a ridere.
« Ti prego... Dimmi è una battuta! » fece l'ingegner Stark.

« Tu... Tu che hai occhi su tutta Londra, stai sempre con le mani in pasta in politica estera ed interna, tu che sei quello che decide sempre per gli altri, e li manipola... Hai paura di essere invadente? Ahahahah!!! ».

«Dovrebbe sentirti tuo fratello ed il povero dottor Watson! » aggiunse l'ingegner Sokolov.

Mycroft sospirò.
Non che avessero tutti i torti...
« Io non voglio che Gregory mi scelga perché l'ho manipolato... ! ».
Ed era anche la sua paura più grande.

Lei due donne sorrisero comprensive.
« Chi vivrà, vedrà » disse Veronika, chiudendo anch'essa il suo laptop, ed andando a prendere la giacca sul divanetto.

« Io credo che dovresti andare subito al sodo.... Glielo appoggi e via! Se gli piace, rimarrà, altrimenti ti dirà che non è interessato ». Milena era veramente seria nel dirglielo.

Mycroft si prese il viso fra le mani.
« Perché devi essere sempre così greve? ».

« Perché Milena è Milena, Mycroft... Lo sai che è un camionista moldavo mancato... ».

Veronika prese l'amica sottobraccio e la trascinò verso la porta.

Quest'ultima era riuscita ad agguantare un paio di biscotti dal vassoio del politico, e ad ingurgitarli in men che non si dica.

« Diglielo Mycrooooft ! Ed appoggiaglielo! Niente è più sincero di un erezione! ».

Milena sembrava dannatamente seria nel dirlo, mentre veniva trascinata via dall'altra.

« Farò finta di non aver sentito! Ci vediamo più tardi in riunione! » le salutò con una mano, alzandosi, sistemandosi i vestiti che gli si erano stropicciati stando seduto.

La porta stette per chiudersi dietro di loro, ma l'ingegner Stark rifece capolino:
«MYCROFT! ».

«EEEEH ? Cosa c'è ancora? ». Alzò le braccia spazientito.

Ella gli fece un rutto madornale.
« E un rutto.... RICORDA: Non c'è niente di più sincero di un erezione o di un rutto! ».

Mycroft non seppe se fosse peggio lei o suo fratello nudo, coperto solo da un lenzuolo, a Buckingham Palace.

Probabilmente, se si fossero conosciuti, o si sarebbero piaciuti, o si sarebbero odiati andando in competizione...

« Io ti faccio visitare, no, RICOVERARE: INTERNARE dalla dottoressa Meier! ». Voleva sembrare serio, autoritario, ma gli veniva da ridere: avrebbe avuto una cena con Lestrade quella sera. E ciò bastava a metterlo di buon umore fino al lieto evento.

« Non puoi, Signor Governo Inglese... Siamo amiche! » e prima di sparire dietro la porta, trascinata brutalmente di peso da Veronika, fece in tempo a fargli il simbolo del cuore con le dita ed un occhiolino.

Mycroft sospirò, guardando il soffitto.
"con che cazzo di gente mi tocca lavorare..."

 

 

Altrove...

 

Lestrade, in auto con un suo collega, ci ripensò – come fanno gli scemi -.

 

Possibile Mycroft mi abbia chiamato fin nel suo studio, mi abbia fatto attraversare mezza Londra, per parlarmi di un caso... di cui poi non ha neanche tutto il materiale?!

Lui... Che è così meticoloso, calcolatore, pignolo...

Lui che sta sempre un passo avanti a tutti... sospetto, a volte, anche di suo fratello minore...

 

Uhmmm.... meno male si crede l'Holmes più “smart”....

 

Fissò il telefono fra le mani, e poi Londra che si confondeva ai suoi occhi fra strade e persone, mentre il collega al suo fianco guidava.

 

A cena con Mycroft Holmes...

Questa era veramente bella...
 

Continua...


Note dell'Autrice:

*JIC = Joint Intelligence Committee. È un organo deliberativo di interazione, responsabile della valutazione dell'intelligence, del coordinamento e della supervisione del Servizio di intelligence segreto (SIS), del Servizio di sicurezza, del GCHQ e dell'intelligence della difesa.

MI6 = è l'altro nome con cui viene indicato il Secret Intelligence Service (SIS). È l'agenzia di spionaggio per l'estero del Regno Unito.

MI5 = è l'ente per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito.

Si occupa della protezione dalle minacce alla sicurezza nazionale: della Regina e dei membri della Famiglia Reale, della democrazia parlamentare e degli interessi economici britannici, della lotta ai crimini gravi, al separatismo, al terrorismo e allo spionaggio nel Regno Unito.

Si occupa quindi della sicurezza interna, mentre il MI6 si occupa della sicurezza esterna.

*EC = Executive Chairman; Presidente Esecutivo di un'azienda.

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Capitolo 5
*** 05 Capitolo ***


Ben trovate, che si dice?!
Allora.... ahem... come dire... sono la solita "brutta persona"...
Doveva essere di pochi capitoli... ed invece.... per colpa di Mycroft ( e un po' anche di John) la storia si è allungata...
Quindi, se proprio dovete prendervela con qualcuno, prendetevela con Mr Governo Inglese.
Anche lui, come me, è una "brutta persona" XD...

Questo capitolo non è così di passaggio come sembra.
Diciamo che è il centrale della trama.
Inizialmente era di 21 pagine. Motivo per cui, essendo molto lungo e descrittivo, ho deciso di spezzarlo in due... Ebbene sì: ciò ha prodotto un ulteriore capitolo da aggiungere XD

Saranno felici la mia Hulka ed Armando <3

Disclaimers: Ovviamente i pg sono della Sherlock BBC e di Sir Arthur Conan Doyle, e io non intendo lucrarci sopra... Li prendo solo in prestito per divertirmi!

I nuovi pg, invece, sono miei e me li tengo stretti <3 <3 <3

La Vostra Dea del Porno-Romantico Seiten Shiwa 
Vi augura
BUONA LETTURA!!!

 



Elephant's Poop

 

 

05 Capitolo

 

« Cosa?! Ieri-ieri sera?! UN ATTENTATO?! STAI SCHERZANDO SPERO! ».

John Watson era appena uscito dal bagno, di corsa, con la lametta da barba in mano, metà faccia ricoperta di schiuma, ed il telefono appena agguantato nell'altra.

 

Lestrade lo aveva chiamato per aggiornarlo su cosa fosse accaduto la sera prima.

 

La sera prima...

 

John si sentì andare a fuoco, ricordando il modo in cui lui e Sherlock si erano addormentati: abbracciati – avvinghiati – stretti.

 

La gente avrebbe sicuramente parlato, se si fosse saputo in giro...

 

Ma infondo... gli importava davvero?

 

« Co-Cosa?! HANNO CERCATO DI AMMAZZARE MYCROFT?! SCHERZI VERO?! ».

 

Quella notizia lo fece rabbrividire.

 

Sherlock sapeva?

E se sapeva... perché non era salito per dirglielo?

 

Stava aspettando che lui scendesse, con Rosie, per colazione, per dirglielo?

 

E... l'aveva saputo quella mattina stessa anche lui, o durante la notte? Mentre lui dormiva profondamente?

 

Vestito solo di un asciugamano in vita, quello col quale era uscito dalla doccia, gettò un'occhiata a Rosie che aveva ripreso a sonnecchiare nella sua camera, e si precipitò dal suo coinquilino al piano di sotto, stando attento a non inciampare con le ciabatte per le scale.

 

« SHERLOCK! », esordì una volta entrato nell'appartamento dell'altro, guardando a destra e a sinistra, per vedere dove fosse.

 

Il consulting detective era seduto al microscopio, completamente assorto da ciò che stava facendo.

 

« SHERLOCK! TUO...TUO FRATELLO! » balbettò John, non sapeva da dove iniziare.

 

« Hm? » fu l'unico suono che uscì dalle labbra del suo interlocutore. Non si mosse minimamente.

 

« Sherlock! Dannazione! TUO FRATELLO E' STATO VITTIMA DI UN'ATTENTATO IERI! E TU NON MI DICI NULLA?! ».

 

Sherlock sbuffò: scocciato.

« Non mi meraviglierei, al posto tuo, che ci sia gente che voglia far fuori Mycroft... è così odioso, come ben sai... a volte, ammetto di averci pensato anche io! Probabilmente ero troppo fatto per non attuare i miei propositi... o probabilmente, proprio perché sarebbe stato un delitto perfetto, nessuno mi avrebbe scoperto, e allora non ci avrei trovato gusto... ».

Poi alzò gli occhi dal microscopio, e li puntò dritti in quelli del suo amico.

« … e non urlare a quest'ora del mattino! Rosie si sarà appena svegliata, o starà per farlo. Le rovinerai il suo orecchio assoluto da futura musicista... ».

 

« Co-cosa?!».

John spalancò gli occhi, ma non apprese veramente le parole che gli vennero dette.

Il suo cervello era lontano anni luce dal loro vero significato.

« Tuo fratello! » continuò, indicando il telefono, con la chiamata di Lestrade in corso,

« Tuo fratello per poco non ci è rimasto secco! Non mi pare carino ironizzarci sopra! E perché diavolo non sei salito a dirmelo, se lo sapevi?! ».

 

Sherlock si alzò spazientito dalla sua posizione, e si avviò verso il suo coinquilino.

 

« Non pensavo fosse la prima cosa di cui avessi voluto sentir parlare di prima mattina... ».

 

John rimase a labbra dischiuse.

Solo ora si era reso conto che Sherlock era vestito, se così gli era concesso dire, del solito lenzuolo bianco, che non lasciava nulla all'immaginario delle sue forme.

 

Il consulting detective, ghignando fra sé e sé, gli sfilò il telefono dalla mano e se lo portò all'orecchio.

Fu semplice come rubare caramelle ad un bambino...

« Lestrade? » disse rivolto allo smartphone, mentre gli occhi vagavano sull'addome scoperto dell'uomo di fronte a sé. Il suo sguardo studiò ogni millimetro di quella pelle che aveva visto da vicino la guerra.

 

Il dottore si sentì come se gli stessero facendo una sterno-tomia.

Un singulto uscì dalle sue labbra, mentre non riusciva a staccare i propri occhi da quelli chiari, dal colore non definito, di Sherlock.

 

Occhi che sembravano infilarsi sotto la sua pelle, irradiandosi nelle sue membra.

 

Occhi che si fermarono a studiare con cura la cicatrice che gli usurpava la spalla.

 

John si sentì toccare esattamente lì, anche se Sherlock aveva una mano lungo il fianco, e l'altra impegnata a tenere il telefono vicino l'orecchio.

 

I suoi occhi: i suoi occhi riuscivano a scavarlo in un modo così intenso, da sembrargli reale...

 

« Dì a mio fratello che, come finisco delle importanti questioni qui, lo contatterò io di persona, per sapere come sta... e grazie ancora... sì,sì... ci penso io a spiegare tutto a John.... no, non c'è di che. A più tardi. » e chiuse la chiamata, pigiando col pollice sull'icona rossa, senza neanche guardarla.

 

Il consulting detective fece due passi verso il dottore, e quest'ultimo dovette alzare il viso, per continuare a guardarlo negli occhi.

 

Il loro petti erano ad una manciata di centimetri, o poco meno.

 

Sherlock stava studiando ogni reazione del corpo dell'uomo di fronte a sé: la sua tensione, la sua ansia, il suo panico nell'averlo così vicino, mentre erano così scoperti, così vulnerabili.

 

Dedurre, dedurre... non faceva altro che osservarlo e dedurlo...

 

Sorrise, anche se in modo un po' enigmatico come al suo solito: gli prese una mano, con un movimento aggraziato ma deciso, volgendone il palmo verso l'alto, e vi restituì sopra il telefono.

 

« Finisci la barba. Non prendere freddo. Vestiti. Io scaldo il latte per Rosie. Quando riscendi ti spiegherò tutto. » proferì velocemente, come era solito fare, mentre con la propria mano gli richiuse le dita intorno a quello smartphone.

« Dopo colazione andremo a Pall Mall».

 

John, rimasto in silenzio religioso, focalizzò nel suo campo visivo solo la mano di Sherlock che si era chiusa – avvolta - intorno alla sua.

Le sue dita non erano così fredde come gli erano sempre sembrate...

 

« Okay », sussurrò solamente, completamente soggiogato, rapito, dalla sensazione della loro vicinanza.

 

Sherlock sorrise nuovamente e scivolò lentamente lontano da lui, per poi dargli le spalle, e dirigersi in cucina.

 

John fissò la sua schiena per qualche istante, prima di tornare al suo pianerottolo.

Mentre saliva le scale, il pianto di Rosie lo ridestò dai meandri dei suoi pensieri...

 

 

 

La sera prima....

 

 

L'Ispettore Detective Gregory Lestrade era appena giunto a casa.

Il suo orologio Casio da polso, uno dei pochi regali costosi della ex moglie, segnava le venti e venticinque.

 

Il Signor Governo Inglese, che rispondeva al nome di Mycroft Holmes, avrebbe mandato una sua auto di cortesia a prenderlo per le ventuno.

 

Per questo Greg imprecò, lanciando i vestiti alla bella meglio sul letto della sua piccola stanza.

 

Quel pomeriggio, dopo aver lasciato lo studio di Holmes Sr, era stato tutto un corri corri.

Sospirò, consapevole che avrebbe tardato all'appuntamento con Mycroft...

 

Ma non era colpa sua, se il capo lo aveva trattenuto più del dovuto sul luogo dell'ultimo omicidio.

Fosse stato per Greg, avrebbe subito chiesto aiuto a Sherlock.

Quel caso gli parve fin da subito complicato: troppo complicato per delle menti semplici, come le apostrofava spesso Sherlock stesso, quali quelle di Scotland Yard.

Ma no: la Donovan aveva dovuto per forza fracassargli i maroni, dicendo che ci avrebbe pensato lei con Anderson a trovare l'assassino.

Come se ne fossero capaci...

Quell'omicidio, ipotizzò, nella scala di Sherlock sarebbe stato un buon otto. Figurarsi se la Donovan o Anderson avrebbero potuto anche solo avvicinarsi alla soluzione.

Così, il povero Greg, dopo un paio di ore preziose perse dietro quei due idioti, aveva deciso di sbroccar loro malamente: prendere tutto il materiale raccolto dalla scientifica, e portarlo al 221b di Baker Street.

 

Incurante di cosa Sherlock avesse potuto dedurre dalla sua agitazione, gli illustrò alla bella meglio il nuovo caso, ed il consulting detective, dopo qualche attimo di silenzio, gli annuì, e si lasciò coinvolgere nella risoluzione di esso, senza protestare.

« Sembra un omicidio da sei...».

« È un otto, Sherlock... fidati... ».

« Per voi menti semplici della Scotland Yard sarebbero tutti casi da 20... ah, no... per Anderson, sono tutti casi da 100. Lui non fa testo... dannazione! Guarda come ha raccolto male queste prove... per l'amor di dio... ma perché non lo licenziate? Il suo basso quoziente intellettivo è imbarazzante... perfino Rosie saprebbe fare di meglio! ».

Greg aveva soprasseduto su tutte quelle critiche... infondo - ma non troppo infondo - le condivideva.

Così, aveva sospirato, salutato John e Rosie, ed era fuggito nuovamente a Scotland Yard, per ultimare delle cose in ufficio.

E fra altri vari imprevisti, compreso il traffico, prima delle venti non era proprio riuscito a tornare a casa...

 

Ed ora, privato ormai della giacca del completo blu scuro, e dell'impermeabile, era passato a togliersi la camicia.

Nel frattempo, con i piedi, stava calciando via le scarpe.

 

Una mano cercava di aprire le asole dei bottoni, l'altra aveva aperto un'anta dell'armadio, alla ricerca di un completo degno di una cena in chissà quale ristorante ultra borghese, in cui di lì a poco sarebbe stato trascinato.

 

Fissò la piccola stampella che reggeva le cravatte.

« Cravatta si.... cravatta no? ».

Sfiorò la loro stoffa, cercando di capire cosa fosse meglio fare.

« Cravatta sì...!? Cravatta è meglio di sì: più elegante sarò, meno sfigurerò come poveraccio... ».

 

Scelse una camicia bianca, una cravatta nera, un completo grigio scuro, e gettò il tutto sul letto.

 

Con una sola mano non era riuscito ad aprirsi tutti i bottoni della camicia, quindi riprese a farlo con entrambe.

 

Una volta privato dell'indumento, passò alla canottiera.

O almeno, se la sarebbe tolta, se non fosse stato per il giubbotto antiproiettile che indossava al di sopra di essa.

 

Era così abituato a portarlo addosso, che ultimamente si scordava perfino di averlo con sé: come se non avesse più peso.

 

« Tsk ! », schioccò stizzito la lingua contro la parte alta del palato, in modo scocciato.

 

Il tempo correva, e lui doveva ancora finire di svestirsi, infilarsi in doccia, e rivestirsi.

 

Pregò che nessuno lo disturbasse al telefono, che al momento giaceva nella tasca interna dell'impermeabile, sparso disordinatamente sul letto, altrimenti avrebbe accumulato altri minuti di inutile ritardo.

 

Passò una mano alle sicure laterali del giubbotto antiproiettile, per sfilarselo...

 

Un ronzio sospetto lo fece girare di scatto: impugnò la pistola che ancora aveva dietro la schiena, infilata nei pantaloni, e puntò alla bello meglio verso la fonte di quel rumore fin troppo elettronico.

 

« Ti consiglio caldamente di tenerlo per dopo il colpo in canna! ». Fece una voce molto autorevole, molto vicina.

 

Lestrade scansionò l'intera stanza, ma non vide nulla di elettronico da cui potesse provenire quella voce. E poi, era troppo pulita, per essere un segnale proveniente da chissà quale impianto audio.

 

« Finestra ! ». Continuò la voce.

 

Impugnando con una mano la pistola, e protendendosi avanti con l'altra, scansò la tenda della sua camera da letto.

 

Un piccolo drone, nero come la notte, stava proprio svolazzando di fronte a sé, al di là del vetro.

 

Era veramente piccolo: le sue dimensioni sarebbero state quelle poco più grandi di un normale smartphone da sei pollici, con uno spessore di tre o quattro dita.

 

« Ma chi diavolo sei!? E che diavolo vuoi? ». Chiese, irritato, riprendendo ad impugnare la pistola con due mani, pronto a far fuoco e far esplodere quella diavoleria elettronica.

 

« Quella è Veronika che ci osserva. Io sono qui. ».

La voce gli arrivò veramente troppo vicina, e troppo pulita, per provenire da quell'aggeggio.

 

Lestrade sobbalzò e si girò di scatto: appoggiata allo stipite della porta c'era Milena Stark, l'ingegnere elettro-meccanico che aveva conosciuto quello stesso pomeriggio nell'ufficio di Mycroft. Indossava un lungo cappotto nero, inusuale per il suo look alternativo. Era ben abbottonato, e gli anfibi militari si intravedevano appena al di sotto di esso.

 

« Che cazzo ci fai qui?! Mi avete seguito! Siete impazzite!? Sono un ispettore della polizia! Dovreste essere arrestate per violazione della privacy! Intromissione in casa di estranei! E chissà quante altre leggi state infrangendo, e per le quali avrei più che validi motivi per trascinarvi in manette in centrale! ».

 

Lei fece spallucce, e camminò verso di lui.

I suoi occhi vagarono per quella stanza da letto, studiandola, mentre le punte delle dita sfiorarono il comò dove giaceva qualche panno disordinato.

 

« Non un altro passo o sparo! ».

La voce di Greg era alterata. Sicuramente dalla paura di esser stato colto alla sprovvista.

 

L'ingegner Stark alzò le mani, volgendo tutta la sua attenzione verso di lui.

 

« Non sono armata – non a prima occhiata, almeno – e non sono qui per farti del male. Sono qui per avvisarti di una cosa importante... ».

 

Dal drone arrivò un suono elettronico, come un bip prolungato di protesta.

 

« Siamo, non sono, hai ragione Veronika, siamo...! » disse con un gesto vago della mano, indicando l'aggeggio volante fuori dalla finestra.

« Io e l'ingegner Sokolov avevamo bisogno di parlarti... in un luogo neutro, poco sospettabile, dove nessuno potesse sentirci... ».

 

Gregory, nonostante a pelle le volesse credere, continuava a puntarle la pistola contro.

 

« Potresti abbassare l'arma? Con quelle cavolo di mani tremanti non mi centreresti comunque... ». Gli fece notare sarcastica.

 

Lui le si avvicinò, stringendo meglio le mani contro l'impugnatura.

L'indice stava accarezzando il grilletto.

Aveva bisogno di sentirsi in controllo...

 

« Dammi un cazzo di buon motivo per cui non debba spararti: qui, ora! Visto che nessun buon motivo potrebbe giustificare la tua – biiip – sì, okay, vostra intrusione in casa mia! ».

 

« Neanche un attentato!? », gli fece un occhiolino lei.

 

« Di che cazzo stai parlando?! », le mascelle dell'ispettore si contrassero, deformando l'intero viso in un espressione d'incredulità.

« Che cazzo stai dicendo?! ».

 

« Mycroft dovrebbe ascoltarti ora... capirebbe che non sono l'unica persona sboccata che conosce!». Ridacchiò lei, girando per la stanza, incurante di essere sotto tiro di un'arma da fuoco.

Adocchiò i vestiti che Lestrade aveva scelto per la cena di quella sera.

« Uhmm... carino, anche se io avrei optato per un look total black... ma forse avrebbe fatto troppo da matrimonio... già... per quello c'è tempo... », e si accarezzò il mento con pollice ed indice.

 

Lestrade fece un'espressione indescrivibile.

Quella parlava... e lui non capiva.

E soprattutto... perché non sembrava minimamente temere una pistola?!

 

Gregory le si avvicinò cautamente: ormai la canna della pistola era all'altezza della spalla della donna.

 

Non si era accorto di quanto fosse alta, se non ora che l'aveva così vicino.

Che l'aveva a tiro...

 

L'Ingegner Stark doveva esser stata alta almeno un metro e ottanta, forse qualcosina di più...

 

Lei si girò di scattò e Greg fu distratto dal movimento fluido dei suoi dread e treccine colorate.

Per non attimo non vide più nulla, se non una scia colorata.

Quando rimise a fuoco la donna, si ritrovò il polso placcato da una sua mano.

 

Ma era troppo fredda quella presa, per il cervello di Lestrade: per riconoscere quel contatto come quello di una mano umana.

 

I suoi occhi si spostarono lì dove era stato agguantato: e no, non era una semplice mano.

Era una specie di guanto robotico.

Era molto simile a quelli che aveva mostrato il fratello della ragazza quando anni dietro rivelò la sua armatura al resto del mondo...

 

La paura prese possesso di lui: portò con tutte le sue forze la mira verso di lei e lasciò che l'indice premesse il grilletto.

 

Peccato che il guanto robotico della donna si pose, poco prima dello sparo, davanti la canna della pistola, quasi avesse previsto la reazione dell'ispettore.

 

Il proiettile esplose nella sua mano chiusa, in un suono ovattato: quando le dita metalliche si aprirono, esso ormai accartocciato, cadde sul pavimento, producendo un lieve rumore, come un pigolio.

 

Lestrade sgranò gli occhi.

Gli sembrò che i polmoni gli si fossero svuotati.

Le labbra si dischiusero in un espressione di stupore e, probabilmente, anche terrore.

 

« Ora sei disposto ad ascoltarmi? » chiese lei, in tono più duro.

Aveva dedotto che lui le avrebbe sparato. Ma il fatto che, anziché ascoltare prima cosa avesse da dire, avesse fatto fuoco, non le piacque molto.

 

I soliti maschi precoci...

 

« Se volessi ammazzarti », con il suo guanto robotico risalì dalla canna della pistola, lungo tutto il braccio dell'uomo.

« O attentare alla tua vita », si spostò poi verso il collo dell'uomo, sfiorandolo con la punta dell'indice metallico,

« Lo avrei già fatto e non te ne saresti neanche accorto! ».

Allontanò la mano da lui, e fece un passo indietro.

 

Lui cercò di ricordarsi come si respira.

Il cuore gli martellava in petto.

Avrebbe voluto chiamare i rinforzi: tutta Scotland Yard sarebbe bastata?!

Ma il telefono era più vicino alla donna che a lui: nel suo impermeabile scomposto sul letto, nel suo taschino interno.

Avrebbe voluto urlare, o spararle in pieno petto.

Lo shock era troppo: i livelli di adrenalina stavano toccando picchi altissimi nel suo corpo.

Il cervello aveva fatto black out.

 

L'unico messaggio che il sistema nervoso continuava a lanciargli era “scappa”.

Ma la paura gli rispondeva “tanto ti troverebbero ovunque! Non hai scampo!”.

 

Le gambe avevano iniziato a tremargli, e non si riusciva a capacitare di come ancora riuscisse a stare in piedi.

Dio mio... sono finito...

 

Milena Stark lesse i messaggi che gli stava lanciando il corpo di quell'uomo – non che ci volesse la scienza della deduzione di Sherlock – e mandò gli occhi al soffitto, quasi in un espressione esasperata.

Ogni volta che qualcuno veniva a conoscenza dei suoi giocattoli, era sempre la stessa storia...

 

Il drone, fuori dalla finestra, emise altri biiip.

« Sì... probabilmente avrò esagerato io come al solito, vero?! » sussurrò l'ingegnere, al suo indirizzo.

« Ma lui mi ha sparato, Veronika! ».

BIIIIIIIIIIIIIIP

« Va bene, va bene... hai ragione... », sospirò « ci manca solo che dovrò pagare delle sedute a Ginevra Meier per il futuro marito di Mycroft... ».

 

Greg, che era ancora in fase di shock, non aveva prestato minimamente ascolto al monologo dell'ingegnere con il drone.

 

La donna gli sorrise comprensiva, ma non troppo.

« Senti... Non siamo noi i cattivi qui... » proseguì.

Con la mano nuda andò a togliere la polvere da sparo rimasta sul guanto robotico, soffiandoci anche sopra.

« Io e la Sokolov siamo i buoni! Benché tu stenta a crederlo! ».

Cercò di essere il più rassicurante possibile.

 

Lestrade indietreggiò ancora un po' da lei, non sentendosi per niente al sicuro nelle sue vicinanze, ed alzò le mani in segno di resa.

Ancora qualche passo, e la sua schiena avrebbe colliso con l'armadio.

 

Lei, finalmente, si decise a disattivare il suo guanto robotico.

Il bip del drone-Sokolov arrivò come un suono di allarme, ma l'Ingegner Stark gli fece segno con la mano di aspettare: che era tutto okay.

 

« L'ho tolto... va bene? » e mostrò la sua mano nuda, finalmente dalle fattezze più che umane, ruotando il polso ed il palmo da sopra a sotto.

 

Quello che prima era un guanto robotico dalle sembianze più che pericolose, ora era solo una mano pallida, al cui polso vi era un bracciale metallico.

 

Greg ispirò aria.

Mandò giù la saliva.

 

« Ora sono veramente disarmata... se mi sparassi... beh » fece spallucce « sanguinerei come l'essere umano quale sono! Non sono un robot! ».

 

L'ispettore aprì la mano, sentendo un po' di tensione scivolar via da sé, e la pistola cadde in terrà.

Inspirò profondamente ancora una volta.

« Ti ascolto.... ti ascolto! ».

Si affrettò a dire, portandosi entrambe le mani al petto.

Toccare il giubbotto antiproiettile, forse, gli avrebbe dato conforto.

 

« Dovrai tenere il giubbotto antiproiettile questa sera... e portare quella – indicò la pistola per terra, ai suoi piedi – carica con te... al resto penseremo noi ».

La voce dell'ingegnere era seria.

 

« Perché? Che diavolo deve succedere questa sera? ».

Prese coraggio, e chiese, Greg.

 

« Io e Veronika abbiamo rintracciato, e non sto qui a spiegarti come, dei messaggi. Ci sarà un'attentato stasera, al locale in cui andrai. Cercheranno di uccidere Mycroft Holmes e qualche altro funzionario politico e magistrato che saranno a cena lì, a qualche tavolo lontano da voi.».

 

« COSA?!» L'ispettore portò entrambe le mani dietro il collo, massaggiandoselo, per sciogliere la tensione che stava rimontando in lui. A breve gli sarebbe venuta un'emicrania... o un ictus.

« Qualcuno vuole ammazzare Mycroft?! CHI?! PERCHÉ?! ».

 

« Questi sono dettagli che non ti è dato sapere... » gli fece l'occhiolino, lei.

«Fanno parte di documenti altamente classificati.».

 

« Mi state dicendo di andare ad una cena con animo sereno, in cui ci sarà un'attentato, e non mi è neppure dato sapere chi sono gli assassini o i mandanti?! O il motivo?! ».

 

« Il motivo credo potresti arrivarci da solo, Ispettore: gente che vuole morta altra gente, perché gli da fastidio... ».

 

« A chi diavolo può aver dato fastidio Mycroft Holmes?! ».

La domanda, per quanto fosse retorica nella sua essenza, in bocca a lui parve legittima.

 

« Gente con cui non vorresti mai aver a che fare, credimi sulla parola, Ispettore Lestrade... ».

Gli fece un sorriso amaro.

« Non ti stiamo mandando da solo. Io e la Sokolov ci saremo, ovviamente non dovrai cercarci, e anche se lo farai, saremo sotto mentite spoglie: non ci riconosceresti. Ci saranno altri nostri rinforzi: cecchini ed altra cavalleria pesante, sia dentro il locale, che nelle vicinanze. Ma devi prometterci due cose...».

 

« Cosa? ».

Ed ebbe paura della risposta.

 

« La prima: che terrai questo addosso – indicò il suo giubbotto antiproiettile – con la pistola pronta a qualsiasi evenienza... ».

 

« E... ? » sussurrò lui, incitandola ad andare avanti.

 

« E seconda cosa: che non lo dirai a Mycroft.» concluse lei.

 

Lestrade sgranò gli occhi.

« Cosa?! Mi stai chiedendo di mentire ad uno degli uomini che lo dedurrebbe dalla mia faccia, in meno di dieci secondi?! ».

Gli venne da ridere per l'assurdità della situazione.

 

« Se vuoi salvargli la vita, dovrai farlo... Lui può dedurre che tu stia mentendo. E potrebbe farsi una marea di pippe mentali a tal proposito, chiedendosi mentalmente su che cosa tu stia mentendo... ma se tu terrai la bocca chiusa, non potrà mai immaginare che tu gli stia mentendo su un'attentato… »

 

« Perché non me ne crede capace?! Mi considera più stupido di lui?! ». E la prese un po' sul personale.

 

« No. Affatto! » si affrettò a rispondere lei.

« Perché Mycroft è preoccupato da altro, quando è in tua presenza... ». Si lasciò sfuggire, con un ghigno che cercò di non far affiorare troppo evidentemente sulle labbra, le quali si arricciarono leggermente all'insù.

 

« Cosa?! ». Greg non capì cosa intendesse la donna.

 

BIIIIIIIIIIIIIIP! BIP BIP BIP BIP!

Il drone aveva iniziato a lanciare qualche messaggio acustico, che aveva tutta l'aria di essere una protesta in piena regola.

 

« Lo capirai, Ispettore, lo capirai... », asserì, e sembrò quasi divertita.

« Se dovesse scapparti una cosa del genere, Mycroft potrebbe chiamare i suoi rinforzi, e potrebbe scoppiare un pandemonio senza precedenti nel locale.... I suoi sicari hanno gli occhi puntati su tutti gli scagnozzi al servizio di Mister Governo Inglese. Ma non su di noi. Loro non sanno di noi. Non sospettano neppure la nostra presenza. E finché non si sentono braccati, non reagiranno sotto pressione... Noi li lasceremo stare, come se tutto andasse secondo i loro piani. Giocheremo al loro gioco. Quando poi saranno sicuri di agire indisturbati, sarà lì il momento in cui li staneremo...».

 

Gregory annuì.

« Capito... anche se non continua a piacermi l'idea di mentire ad un mio amico... ».

 

« Oh... amico... » sorrise lei « che tenero... ».

 

BIP BIP! BIP BIP!

 

Lui alzò un sopracciglio, ma continuò a non trovare un filo logico a tutte quelle illusioni da parte dell'ingegnere.

Scosse la testa.

« Ma... Come diavolo mi avete trovato!? E soprattutto... come diavolo sei entrata?! ».

 

Milena Stark indicò con il pollice dietro di sé, verso il drone-Sokolov. Ella emise vari bip, che sembrarono quasi di contentezza.

 

« Passepartout ... » sussurrò lui, portandosi una mano alla fronte.

« Già... come ho fatto a non... va beh... ». Gli sfuggì una risata amara. A tratti nervosa.

 

Il drone tirò fuori una lucina, che da Milena passò al di sotto di dove stava volando, più e più volte.

 

L'ingegnere annuì.

« L'auto di Mycroft è arrivata... ».

Si avvicinò a lui, gli raccolse la pistola, e gliela porse.

« Sbrigati a fare la doccia, Ispettore... alla Princess Holmes non piace aspettare... ».

Gli fece un occhiolino scherzoso.

« … e non scordarti il giubbotto antiproiettile e la pistola carica... ».

 

Lestrade annuì, mentre, seguendola con gli occhi, la vide scomparire oltre la porta della sua stanza, inghiottita dal buio del suo corridoio.

 

Fu inquietante il modo in cui i suoi passi non fecero neppure il minimo rumore.

 

Portò poi gli occhi alla finestra: neanche del piccolo drone c'era più traccia.

 

Per sentirsi più sicuro, andò a lavarsi con la sua fidata amica pistola, lasciandola sulla lavatrice, proprio affianco al box doccia.

 

Eccellente, davvero eccellente: sventare un'attentato, e mentire a Mycroft Holmes per un'intera serata, senza esser sgamati...

Davvero il modo perfetto per concludere quella che era stata una pesantissima giornata di lavoro...

Continua...

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