And my loneliness is heavier than life di Ruta (/viewuser.php?uid=61081)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 1 *** I ***
lon
Maybe we'll meet again, when we are slightly older and
our minds less hectic, and I'll be right for you and you'll be right for me.
But right now, I am chaos to your thoughts and you are poison to my heart.
- Chris Cadle
Il messaggio di Monty è appena finito.
Bellamy continua ad osservare la luce rossa del
secondo sole espandersi lungo la superficie del pianeta. Sembra che stia
andando a fuoco, bruciando.
Per un attimo è su un'altra navicella, ad osservare
un pianeta diverso che consuma sé stesso, con il cuore in tumulto e una voce
nella testa che sussurra con qualcosa che è più che cruda agonia, più che
semplice disperazione, più che la straziante consapevolezza che gli sia stata appena
strappata via metà di sé stesso: quando sarà abbastanza? Quante volte
dovrà perderla ancora prima che l'universo ritenga che sia sufficiente? Quando
il troppo diventa troppo? Quando l'attesa può finire per lasciare iniziare
qualunque sia ciò che li aspetta dopo?
L'assenza di Clarke al suo fianco è un'amputazione.
È un dolore che non gli è estraneo. Lo riconosce:
potente, antico e familiare. Risuona dentro di lui come l'eco di tamburi da
guerra, lo strepitio ululante del vento durante una tempesta. Sa di poter
sopravvivere a questo tipo di dolore che gli è penetrato fin dentro le ossa,
che sembra rattrappirgli la pelle, risucchiargli l'ossigeno dai polmoni, fargli
esplodere le orbite, bruciargli le sinapsi del cervello, marchiargli l'anima e
urlare dentro di lui. Urlare urlare urlare. Un nome. Una speranza. Un
rimpianto che ha il sapore del rancore, della neve quando si scioglie. Ha già
vissuto una vita senza di lei. Può convivere con la sindrome dell’arto
fantasma. Il punto non è mai stato riuscirci. L'ha già fatto una, due volte. Sa
che può farlo.
Non sa se vuole.
And
my loneliness is heavier than life
"Bellamy."
Forse è un'impressione o un effetto delle luci, ma
il viso di Clarke è più pallido del solito nello schermo. La sua voce è ferma,
i suoi occhi saettano nervosamente di lato come se non riuscissero a
concentrarsi sulla camera che sta riprendendo. Contengono un'urgenza che in
chiunque altro sarebbe angoscia o rabbia. "Qualcosa è andato terribilmente
storto. Registrerò un nuovo messaggio quando avrò maggiori informazioni da
condividere."
*
"Ho cercato di sistemare il guasto."
La vede scoppiare in una risata querula, passarsi
una mano tra i capelli. Appare tesa e preoccupata. Da quanto non dorme?
"Sembra che abbia sopravvalutato le mie
capacità ingegneristiche. Non che sia davvero sorpresa. Non sono riuscita a far
funzionare una radio in sei anni."
Alla menzione delle chiamate radio, il petto gli si
comprime. Respirare diventa difficile, quasi un'impresa titanica oltre
l'oppressione che si è propagata fino alla gola come un'infezione. Non sa cosa
sperare.
Se questa è la fine. Se questo è tutto ciò che
rimane di lei. Attimi rubati
di qualcosa che è già successo nel passato, già scritti e perciò
immodificabili.
Clarke sospira. I suoi occhi stremati e cerchiati da
ombre violacee per l'assenza di sonno bucano lo schermo, brillano per la
promessa che gli sta facendo. "Continuerò a provare."
Bellamy rilascia il fiato che non si era accorto di
trattenere.
Entrambi respirano, anche se su linee temporali
diverse. Finché respirano, c'è ancora speranza.
*
"Mi sono svegliata cinquanta anni prima del
previsto," annuncia tetramente nel terzo messaggio. La data nella parte
inferiore della registrazione lo informa che sono trascorsi dieci mesi dal
primo video. I capelli le arrivano alle spalle ora, non una massa indomabile di
ricci, ma una cascata liquida di oro e ambrosia. Oro come devono essere stati
il vello rubato da Giasone o il pomo della discordia di Eris. Oro e nettare
degli dei. Prezioso, proibito, irraggiungibile.
Clarke corruga le sopracciglia come se fosse appena
stata attraversata da un pensiero spiacevole. Cosa non lo è nella loro vita?
"Questo significa che nel caso in cui non riuscissi a riparare l'anomalia del
mio baccello, quando tu e gli altri vi sveglierete potrei essere già morta
oppure che sarò abbastanza vecchia da essere tua nonna o la madre di mia
madre." Esita per poi ammettere in un sussurro spezzato, dando voce alla
voragine in cui aspetta e si cela la paura di entrambi: "Non so quale
alternativa mi spaventa di più."
*
"Ho visto i messaggi di Monty."
Per un po' smette di parlare. La testa inclinata
come se volesse prendersela tra le mani e la postura dimessa, come se potesse
crollare da un momento all'altro. I suoi respiri rotti. Le dita delle mani
congiunte in grembo, così sottili e pallide contro il nero dei vestiti che
indossa.
Il silenzio dura abbastanza perché Bellamy senta
distintamente lo schianto del proprio cuore che si spezza poco alla volta,
singhiozzo dopo singhiozzo. Appoggia i palmi ai lati dello schermo perché non
può toccarla, accosta la fronte e aspetta, mentre piange insieme a lei l'amico
che hanno perso, il groviglio di tutte le parole non dette e rimaste in sospeso
tra di loro, le promesse infrante, le possibilità sfumate, ogni singola scelta
impossibile e azione moralmente scorretta, ma necessaria per il bene
comune.
Non sa cosa sia peggio. Se il dubbio lacerante di
non sapere ancora se lei ce l'abbia fatta oppure osservare gli effetti
devastanti della solitudine, sapendo di non poterla raggiungere, di non poter
fare nulla. Di essere impotente, ancora una volta. Solo uno spettatore inerme.
Osservare come un intruso, attraversato da un desiderio che supera perfino la
nostalgia e la perdita.
"Sarà così anche vedere i miei?"
Lui sta sperimentando il suo stesso panico. La vedrà
morire davanti ai suoi occhi?
Quando solleva il mento, le sue labbra tremano e le
palpebre sono gonfie e arrossate, le ciglia palpitanti gettano ombre sinistre
sulle sue guance umide. Oltre la distanza temporale, gli occhi infossati di
Clarke incrociano i suoi. Per un attimo sono assurdamente vicini,
insostenibilmente lontani, così cari.
"Vorrei che ci fosse un altro modo."
*
"Non posso farlo."
Sono trascorsi due anni e sette mesi.
L'ha vista combattere. L'ha vista distruggersi dopo
i vari tentativi falliti. L'ha vista accettare l'ennesimo peso e impegnarsi a
trovare una soluzione, affrontandolo come l'ennesimo ostacolo da superare. Solo
che questa volta le onde sono troppo alte. La zattera rischia di sfracellarsi
contro gli scogli e lei di annegare negli scuri abissi marini. Dopo dieci anni
di sangue e fuoco sprecati a combattere una guerra non sua, Odisseo impiegò
altri dieci anni per ritrovare la sua Itaca, per colpa di un dio crudele e
della sua stessa arroganza. Sarà così anche per loro?
"Non posso farlo. Non di nuovo," Clarke
dice e suona come una preghiera e una maledizione. Si preme i pugni contro gli
occhi chiusi, il viso una maschera contorta. Non ci sono stati progressi. Il
suo baccello continua a non funzionare.
"Sì che puoi," lui ribatte. Sa che non può
sentirlo. Non è come funziona. Non gli importa. Una parte di lei può sentirlo.
È la parte che l'ha spinta a parlargli attraverso una radio rotta ogni giorno
per sei anni. Lo stesso sentimento ora anima lui, una forza propulsiva che crea
e distrugge, innalza e polverizza.
"L'hai già fatto una volta. Puoi farlo di
nuovo."
"Non ero da sola quella volta," lei
risponde come se lo avesse sentito, allontanando le mani quel tanto che gli
basta per avere uno scorcio di azzurro. È un pensiero assurdo, pura pazzia, ma
stranamente confortante. Il suo cuore emette una nota discorde contro la gabbia
toracica. "Avevo Madi. Avevo..." si interrompe, stringendo le
labbra.
Te,
sembra che voglia dire. Te. Te. Lui attende, paziente, ipnotizzato.
Cos'altro può fare?
"C'è qualcosa che devi sapere." Gli
racconta quello che lui sa già, che Madi gli ha detto. "So che sembra
folle," conclude in tono difensivo, vulnerabile come l'ha vista solo poche
altre volte, giovane come non gli è più apparsa dopo Atom, "ma parlarti
ogni giorno, anche se non hai mai risposto, mi ha mantenuta sana di
mente."
C'è così tanto altro che gli sta comunicando, che
gli sta dicendo tra le righe e lui deve lottare per riprendere il controllo.
Gli sembra di avere la lingua attaccata al palato, la bocca piena di
sabbia.
"Non è folle." Cerca di sorridere, ma è un
sorriso atrofizzato dal disuso. Una parte di lui sta ancora dormendo nel
baccello. Forse si tratta di un incubo e quando si sveglierà lei sarà al suo
fianco com'è giusto che sia, come avrebbe dovuto essere sempre, sin
dall'inizio. "Un po' patetico forse, ma non folle."
Il sorriso di lei è improvviso come un miraggio di
primavera, piccolo e luminoso a vedersi, bello come le cose tristi e fragili
che si vuole proteggere a tutti i costi.
Si asciuga il bordo degli occhi con la manica e si
schiarisce la voce. "Sono abbastanza sicura che tu abbia appena fatto
un'osservazione pungente. Vorrei averla sentita." Una pausa, il sorriso
non è ancora scomparso, ma non è più come un'alba, piuttosto si è trasformato
ed è più simile a un tramonto. "Vorrei poterti vedere."
And so it seems I must always write you letters I can
never send.
-Sylvia
Platt
Dopo questo video cade in ginocchio. Non sa se è in
grado di continuare. Non sa se è pronto ad accettare la terrificante
eventualità che lei non-
Jordan mette in pausa. Lo schermo non torna nero,
semplicemente si blocca sul profilo di Clarke ritagliato nella cornice del
monitor.
Bellamy chiude gli occhi. Non serve a nulla.
L'immagine di lei ha messo radici nelle sue retine, così come il suono della
sua voce. Come ha potuto dimenticare così a lungo? Questo è l'effetto che esercita
su di lui. Come il canto della sirena che avvolgeva i marinai, stregandoli al
punto da spingerli volontariamente verso una morte lenta e atroce. Alla fine
riconosce la massa incandescente alla bocca dello stomaco, la tensione nelle
spalle che sembra trascinarlo verso il basso. È rabbia.
Anche questo è un sentimento familiare, specie se
associato a lei. Una volta identificata per quello che è, è impossibile provare
altro. La rabbia attutisce, opacizza. È ghiaccio su un'ustione. Fa passare il
resto in secondo piano.
"Perché non ha provato a svegliare qualcuno di
noi?" Riconosce a stento la sua voce. Il silenzio che li circonda è
assordante dopo le verità mute di Clarke, le confessioni nei suoi sguardi
tormentati. Avrebbe potuto svegliare Raven. Avrebbe potuto svegliare lui.
Insieme avrebbero trovato una soluzione. Non avrebbe dovuto farsi carico anche
di questo da sola.
Jordan non risponde subito, sembra sulle spine.
"L'ha fatto," ammette a malincuore.
Bellamy solleva la testa così in fretta da
procurarsi un crampo dietro la nuca. Chi, è il primo pensiero nello stupore
assoluto. Poi di nuovo risentimento. Perché non lui?
Jordan è a disagio, quasi imbarazzato. "Voleva
farlo," si corregge subito, "ma alla fine..." sospira. "C'è
un limite ai peccati che una persona può espiare o per cui può sentirsi colpevole."
L'intensità con cui lo sta fissando gli ricorda Monty, ma anche Harper. Non è
solo empatia. È gentilezza. È comprensione. È accettazione.
"Forse non dovrei." Gli dà le spalle e
comincia a trafficare con la consolle. Un altro schermo sopra le loro teste si
accende e comincia ad emettere un leggero ronzio, si illumina in una linea
verde. Da sopra la spalla, Jordan incrocia di nuovo il suo sguardo per un
brevissimo momento prima che sullo schermo inizi una nuova registrazione.
"C'è qualcosa che voglio mostrarti."
Sono altre immagini di Clarke, questa volta rubate
dalle telecamere di sicurezza e senza audio. Lei è accanto al suo baccello, di
spalle. Nella penombra il suo viso è accigliato e addolorato. Sembra in
conflitto. Lui sa perché. Riconosce
quell'espressione. La stessa dopo Mount Weather. Dannazione.
Gli occhi di Jordan riflettono lo stesso tipo di
conflitto. Quello di lasciare indietro quanto si ama per non rimanere indietro.
Rinuncia, sacrificio, devozione. Un amore che supera l'istinto di autoconservazione.
"Non poteva farti questo."
*
"Oggi è il mio compleanno, Bellamy. È un giorno
speciale. Vuoi sapere perché?"
Ha le labbra incurvate verso l'alto, ma il sorriso
non le raggiunge gli occhi che invece sono socchiusi e guardinghi, pericolosi
come trappole nascoste. Gli occhi di una donna che sta cambiando, sta
invecchiando senza di lui. Di nuovo.
"Sono tutt’orecchi," risponde stancamente.
"Compio trent’anni. Sai cosa significa?"
Clarke si piega in avanti e si avvicina fino a quando sono pochi centimetri a separarli.
Pochi centimetri e quarantaquattro anni. Suona divertita e lui indovina
facilmente il motivo. "Sono più vecchia di te."
Per un istante è facile dimenticare dove si trova,
concentrarsi solo su di lei, sulle sue sopracciglia inarcate in modo ironico,
sul neo sopra il suo labbro superiore, sui suoi capelli di nuovo corti che
assomigliano alla criniera di un leone. Per un momento immagina come sarebbe
facile spostarle quella ciocca di capelli indisciplinata che le cade sulla
fronte.
"Sono trascorsi sei anni da quando mi sono
svegliata dal sonno criogenico," lei dice e ogni traccia di svago si
dilegua in un nuovo lampo di sofferenza accecante. "Sei anni," lei
ripete con una voce strana, vuota. "Non è buffo? È più il tempo che
abbiamo trascorso separati di quello che abbiamo mai trascorso insieme. Lo odi
quanto me?"
Città che ardono come pire di fuoco, pianeti che bruciano,
corpi di cenere e una bottiglia di liquore invecchiato. Lui serra i pugni.
Sai che lo faccio.
*
È uno strano déjà-vu quello che lo coglie. La sensazione
è estenuante. È come osservare una scena già vista.
La sua paura si intensifica. La conosce; conosce
ognuna delle sue sfaccettature, espressioni e forme. Appare indecifrabile.
Diversa in modo penetrante, pungente, insopportabile. Sono trascorsi nove anni
da quando si è svegliata dal sonno criogenico. Altri giorni che non torneranno
mai più, persi nel labirinto del minotauro.
"Questo sarà l'ultimo messaggio. Forse ho
trovato il modo di hackerare il sistema. Se riesco ci vediamo dall'altra parte.
Se non riesco..." L'alternativa è odiosa. Come lui, lei preferisce evitare
di prenderla in considerazione. "Prima di andare voglio che tu sappia un
paio di cose. Non siamo mai stati del tutto onesti io e te."
Capisce cosa sta facendo nello stesso momento in cui
ricorda con un sussulto. È come rivivere il momento nel laboratorio di Becca.
Solo che questa volta non può abbracciarla, non può trovare conforto nelle sue
mani poggiate all'altezza dei reni. Suona come un addio e potrebbe essere
quello definitivo.
"Clarke," lui gracchia disperatamente,
come se lei potesse davvero sentirlo, come se potesse impedire quello che sta
succedendo, che è già successo, come se potesse fermare il supplizio
dell'ennesimo struggimento. "Non devi farlo per forza."
"Il tempo non è mai stato dalla nostra
parte," lei continua imperterrita, lo sguardo fisso davanti a sé e il
mento sollevato. "Non mi piacevi all'inizio. Ti trovavo supponente e
cinico."
"Neppure tu mi piacevi," lui replica senza
reale convinzione. "Sei stata una spina nel fianco sin dall'inizio."
"Poi ho visto cosa eri disposto a fare pur di
proteggere tua sorella." Nonostante continui a guardarlo, lui percepisce
il modo in cui, mentre parla, lei si sia estraniata, ripercorrendo con la mente
i loro ricordi in comune, la storia che li ha resi quello che sono, che li ha
portati esattamente dove si trovano. "Ho visto il modo in cui cercavi di fare
la cosa giusta anche quando fare la cosa giusta era impossibile. Suonerà
assurdo, ma adesso che sono persi, mi mancano quei giorni, quelli in cui non ti
conoscevo ancora, in cui la mia unica preoccupazione era tenere a bada te e il
resto dei Delinquenti. Mi manca quello che avevamo allora, quello che eravamo,
che stavamo diventando."
Anche a lui manca la loro vecchia vita. Gli manca
perché c'era lei.
"Voglio che tu sappia che lasciarti indietro è
stato uno sbaglio. Sono un'assassina e ho le mani sporche del sangue di centinaia
di persone, ma il mio più grande rimpianto rimani tu. Avrei dovuto dirtelo
quando potevo. Credevo di avere tempo. Ho sbagliato e mi dispiace. Non avrei
mai dovuto abbandonarti a Polis."
Il suo sguardo è lucido, liquido per una infelicità
amara.
"Non importa,” lui dice raucamente. “Ti
perdono. Ti ho già perdonata un secolo fa."
Lei deglutisce. Non sta piangendo, ma è molto
vicina. "Di' a Madi che la amo. Di' a mia madre e agli altri che mi
dispiace. Bellamy, io..."
"Lo so, Clarke. Anch'io." Ti amo ti amo
ti amo.
Lei fa una smorfia. "Suppongo che sia un addio
per il momento."
*
Non sa quanto tempo sia trascorso. Jordan poggia la
mano sulla sua spalla e dai recessi nebulosi della sua coscienza, Bellamy trova
la forza di attraversare il baratro in cui si trova per guardarlo in faccia.
"Mi dispiace," lo sente dire.
Bellamy annuisce. Per cosa? Perché ancora una volta
lei è rimasta indietro, da sola, circondata dal nulla e dai fantasmi? O perché
c'è qualcosa di peggio che non ha ancora ha avuto il coraggio di dirgli?
Avrebbe senso. Jordan si è svegliato per primo e
potrebbe avere avuto il tempo di vedere i video di Clarke, di verificare il suo
baccello, monitorare la situazione della nave al punto da sapere che ad un
certo punto sarebbe stato necessario mostrargli le registrazioni di
sorveglianza. Sa se Clarke ce l'ha fatta. È solo un ragazzo e quello che a cui
ha appena assistito spezzerebbe uomini più vecchi. Ha spezzato lui.
"Ce l'ha fatta?"
Jordan evita il suo sguardo e ogni pensiero cupo e
terrificante riaffiora.
"Non come aveva sperato."
Che diavolo significa?
Jordan deve intuire la sua impazienza, la sua
crescente frustrazione.
"Dopo quel video, è rimasta sveglia altri dieci
mesi."
Dieci mesi. Perciò è stata sveglia per-
"Nove anni, dieci mesi e quattordici
giorni," lo anticipa Jordan.
Bellamy non ha il tempo di metabolizzare. Il ragazzo
ha un'aria devastata e colpevole, come se sapesse di aver sferrato un colpo
fatale a un avversario già a terra, ma raddrizza le spalle e incrocia il suo
sguardo con quieta determinazione.
"C'è un ultimo messaggio che devi vedere."
*
"È una specie di scherzo?" Murphy domanda
alla fine del secondo video di Clarke.
Dio, come lo vorrebbe.
Bellamy scoppia in una risata amara e volta loro le
spalle, allontanandosi. Chiude gli occhi e incrocia le braccia sul petto. Le
bende avvolte attorno alle sue mani sfregano fastidiosamente contro il tessuto
della maglietta. Stanno affiorando piccoli puntini rossi, come fiori di
ruggine, e il dolore che gli attraversa le dita è un pulsare sordo e ritmico,
costante.
Sotto di lui il primo sole tramonta e il secondo
sorge mentre il contorno del pianeta è frastagliato da riverberi abbacinanti di
colori differenti. Dovrebbe essere una vista mozzafiato. Dovrebbe.
Mentre Clarke continua a parlare, il resto del
gruppo tace, ammutolito da quello che può essere identificato solo come smarrimento
e orrore.
Il viso di Raven all'inizio rimane inespressivo, ma
comincia a vacillare dopo il quarto video, esattamente com'è capitato a lui due
giorni prima. Dopo la fine dell'ultimo messaggio l'aria nella sala diventa
claustrofobica.
Bellamy si avvicina al gruppo e spegne il monitor. Jordan
è seduto in un angolo, taciturno e a disagio. Di sicuro non era come si era
aspettato il suo risveglio.
Prevedibilmente è Murphy il primo a ritrovare il
dono della parola e la sua voce gronda biasimo e sbigottimento. "Non
penserai di farlo sul serio?"
"È quello che Clarke vuole," lui ribatte
seccamente.
"Perciò la lasceremo dormire davvero per altri
cinque anni?" Se Murphy sperava di ottenere sostegno dal resto del gruppo,
il suo desiderio si infrange nell'assenza di reazioni collettive. Sono tutti
nella fase iniziale di negazione. "Sono l'unico a trovare che sia un'idea
idiota? Tu non hai niente da dire, Reyes?"
Interpellata, Raven solleva la testa. "Perché
dovremmo svegliarla?" Ogni parola è come acido, corrosiva e ostile.
"Non abbiamo bisogno di lei. Siamo sopravvissuti senza di lei per sei
anni. Cosa sono cinque di più?"
Sa che non lo pensa davvero e la durezza è solo una
copertura, una rete di camuffamento. Fa così quando è sulla difensiva. Nasconde
il suo lato più emotivo dietro freddo cinismo e una spietata noncuranza che a
tratti rasenta la crudeltà. Anche se non la conoscesse bene, le tracce di
lacrime secche sulle sue guance la tradirebbero e sarebbero una prova evidente
di quanto sia effettivamente turbata. Nonostante tutto, è difficile ascoltare
quello che ha detto senza irrigidirsi, tanto più lo è digerirlo.
"Emori?" domanda e la vede voltarsi verso
di lui. Non sembra sconvolta, ma i suoi occhi sono lucidi, tristi e pieni di
risolutezza. "Io sono con Murphy," dichiara. "L'abbiamo
abbandonata già una volta."
Le parole riverberano dentro di lui, come se
qualcuno le stesse tatuando nella sua mente. Suonano simili a un rimprovero, a
una condanna.
"È davvero abbandonarla?" interviene Echo.
"Questa volta è lei a volerlo. È una sua richiesta."
Gli sguardi di tutti sono di nuovo puntati su di
lui, come se gli stessero dicendo che la decisione spetta a lui.
"Jordan, fai parte della famiglia adesso. Cosa
ne pensi?"
"Io-" Jordan sgrana gli occhi ed esita,
come se non si fosse aspettato che qualcuno chiedesse il suo parere. "La
scelta è di Clarke e credo che dovremmo rispettarla," risponde lentamente,
"ma ci sono persone qui che hanno il diritto di esprimere la loro opinione
al riguardo più di me."
"Cosa stai suggerendo?" domanda Murphy.
"Che lo mettiamo ai voti?"
Jordan non si lascia scalfire dal tono sarcastico e
non distoglie lo sguardo, anche se è evidente che l'argomento lo metta in
difficoltà. Probabilmente fa riaffiorare ricordi dolorosi. "Sto solo
dicendo che Clarke ha una madre e una figlia."
Madi,
lui pensa con una fitta improvvisa ed è come se qualcuno gli avesse tirato un
pugno in pieno petto.
Poi, come se non fosse abbastanza, Jordan gli
rivolge uno sguardo affranto prima di sganciare l'ennesima bomba. "Bellamy
non è l'unico a cui abbia lasciato un messaggio."
*
Bellamy, se questa è l'ultima occasione per dirlo,
non voglio sprecarla.
Madi, mia madre, i nostri amici sono nel mio cuore.
Sono il motivo per cui sono sempre andata avanti, per cui ho fatto quello che
ho fatto. Sono la persona che ho scelto di essere per proteggere ciò che amo e
non me ne pento. Se potessi tornare indietro, rifarei ogni cosa. Ho odiato così
a lungo me stessa, ma non rimpiango i miei errori perché rimangono miei, parte
di ciò che sono, nel bene e nel male. Ma tu, Bellamy, tu non sei come loro. Tu
non sei lì dentro insieme agli altri, tu sei tutto ciò che li circonda. Tu sei
il mio intero cuore. Lo sei stato per molto tempo. Sei il mio migliore amico,
la mia famiglia, la mia metà, la parte migliore di me. Mi dispiace se l'ho
perso di vista per un po'. La verità è che sono stanca di essere arrabbiata con
te. Mi hai tradito, ma non è questo l'ultimo pensiero che voglio avere di te.
Ne abbiamo passate così tante, tu ed io. So che sei andato avanti ed è ora che
lo faccia anch'io. Per questo, perché mi fido di te più di chiunque altro al
mondo, ho una richiesta da farti. Ti chiedo di non svegliarmi. Non
fraintendere. Voglio che tu mi svegli, solo che non voglio che tu lo faccia
subito. Ho perso così tanto, Bellamy. Vi ho aspettato per metà della mia vita.
Non voglio guardarmi indietro e rimpiangere tutti questi anni che non ho
vissuto con voi. Non ti chiedo di aspettare dieci anni, neppure otto. Ti chiedo
cinque anni. Per allora, per quando mi sveglierai, avremo la stessa età. Per
allora, spero che anche tu mi avrai perdonato. Spero di poter avere un posto
nelle vostre vite. Spero... nella speranza di rivederci.
*
Madi, so che probabilmente sarai arrabbiata e ti
sentirai delusa. Voglio che tu capisca che non è colpa tua. Tu sei l'unica
ragione per cui sono sopravvissuta sei anni sulla Terra, per cui ho resistito
così a lungo. So che pensi che ti abbia salvato la vita il giorno in cui ti ho
trovato, ma è stato il contrario. Tu hai salvato me. Ero così sola e disperata
e avevo il cuore spezzato, ma tu mi hai permesso di rialzarmi sulle mie gambe e
mi hai dato qualcosa che avevo perso. Una famiglia. Mi hai restituito speranza.
Speranza per un futuro migliore e la forza di lottare per quel futuro, per
ritrovare la mia casa. Mi dispiace se non sono una persona migliore. Vorrei che
le cose fossero andate diversamente. Non ti chiedo di non odiarmi, soltanto di
rispettare la mia scelta. Bellamy sarà lì per te e così mia madre e il resto
dei delinquenti. Abbi cura di loro come loro ne avranno di te. Non sei più una
bambina, ma sarai sempre la mia bambina. Sono così orgogliosa di te, della
persona speciale che sei. Rimani gentile e compassionevole, non lasciare che le
battaglie ti induriscano e compromettano la tua capacità di perdonare. Fai le
tue scelte e non rinnegarle, non vacillare anche quando il mondo ti viene
addosso. Non cercare lo scontro se non quando è strettamente necessario.
Combatti per difendere e non per il piacere del sangue. La vendetta non è mai
giustizia. Non innamorarti del potere perché corrompe e offusca la ragione. Sii
coraggiosa anche quando hai paura, usa la testa e il cuore insieme e non
dimenticare mai chi sei, rimani fedele ai tuoi principi. Prima di essere il
Comandante, sei mia figlia, sei te stessa. Questo non è un addio, è solo un
arrivederci. Ti voglio bene, Madi. Mi manchi ogni ora di ogni giorno. Aspettami
nel futuro.
*
Mamma, se stai guardando questo messaggio è perché
probabilmente state decidendo se risvegliarmi ed è stato messo ai voti. Non ti
chiederò di non svegliarmi. So già che voterai per farlo. Voglio che tu sappia
che ti ho perdonata. Per quello che hai fatto a papà. Io stavo facendo lo
stesso prima del Priamfaya con quella dannata lista. Ora riesco a vederlo,
riesco a capire. Come ti sei sentita quando hai visto morire papà. Adesso so
perché l'hai fatto. Io ho fatto lo stesso. Stavi cercando di proteggere me, di
salvare me, di fare la cosa giusta. Come sei sopravvissuta a questo dolore,
sapendo di aver ferito così profondamente qualcuno che amavi, che hai tradito
la sua fiducia, che lo hai lasciato morire?
Impari ad accettarlo e a conviverci, credo, come con
tutto il resto. Sono così stanca di essere questo tipo di persona. Sono così
stanca di vivere senza il mio cuore. Ho provato ad essere migliore, ad essere
buona, ma ogni volta perdo qualcuno o rimango indietro. Sono così stanca di
essere lasciata indietro. Mi manca la mia famiglia. Mi manca essere la figlia
di mio padre. Voglio assaporare la pace che non ho conosciuto da quando ho
messo piede sulla Terra. Ho trentaquattro anni e sono stata in guerra e ho
combattuto metà della mia vita. Non voglio smettere di combattere, solo...
Voglio del tempo per guarire. Una volta sono stata una guaritrice. È tempo per
me di riposare. Prenditi cura di loro per me. Ti voglio bene, mamma. Mi manchi.
So che farai sempre la cosa giusta anche se io non la condivido.
When you come back, you will not be you. And I may not be I.
- E.M. Foster
N/a:
Primo capitolo di tre. Secondo in stato di rilettura, terzo in fase di scrittua :)
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Capitolo 2 *** II ***
2
CAPITOLO II
Guilt is cancer. Guilt will confine you, torture you,
destroy you. It's
a black wall. It's a thief.
- Dave Grohl
Non
importa quante volte riguardi gli ultimi messaggi di Clarke, ogni volta è
dolorosa come se fosse la prima.
Mi manchi ogni ora di ogni giorno. Aspettami nel
futuro.
Anche
dopo che spegne la registrazione e lo schermo diventa nero, Jordan rimane
accostato a Madi, abbastanza lontano da concederle lo spazio che le occorre,
abbastanza vicino da farle capire che è lì per lei se ne avesse bisogno.
Bellamy
li osserva, riconoscendo facilmente il legame che si sta instaurando tra i due.
È qualcosa che lui avrebbe fatto con Octavia. Memoria muscolare. Come un
istinto di protezione impossibile da sopprimere o mettere a tacere.
Ad
esclusione di Abby, rinchiusa in infermeria a cercare una cura per Kane, del
resto del gruppo hanno voluto essere presenti solo Raven e Murphy e lo sono,
anche se dislocati strategicamente in vari punti della stanza. Raven è vicina
alla finestra e dà loro le spalle. Murphy è seduto al tavolo. Esattamente come
la prima volta, nessuno proferisce parola. Non che si fosse aspettato reazioni
differenti. È trascorsa una settimana dal loro risveglio e lui e Abby hanno
discusso a lungo prima di decidere se svegliare Madi. Di opinione contraria a
quella della madre di Clarke che avrebbe preferito aspettare ancora, gli era
sembrata la cosa giusta da fare. Ora, osservando le spalle accasciate della
ragazzina, si chiede se non sia stato crudele da parte sua, se non abbia
commesso un errore.
"Madi,"
dice. Poggia una mano sulla sua spalla. Lei fa una smorfia e lui cerca di non
prenderla sul personale. Ha appena perso sua madre, o almeno è ciò che pensa.
La sua assenza è la realtà con cui potrebbe dover convivere per altri cinque
anni. È una reazione normale. Le passerà. "So che è difficile. Non devi
sforzarti. È normale che tu sia arrabbiata con lei."
Lei
scaccia la sua mano. Questa volta è impossibile non sentirsi ferito. È un gesto
deliberato, voluto.
"Con
lei?" ripete. La sua faccia è corrucciata. Il dispiacere che
divampa nei suoi occhi è mischiato indissolubilmente a una rabbia che sembra
esagerata per una persona così giovane. Sa che l'età non significa nulla. Lui
ricorda un'altra ragazzina infelice e furente con il mondo, vittima delle
circostanze e di un sistema inflessibile. "Credi che sia questo il
problema? Io non sono arrabbiata con Clarke."
Bellamy
spera che il suo viso non tradisca la confusione che sta provando. "Ti ha
lasciato."
"Ha
lasciato anche te," lei commenta con amarezza. "Sei ancora
arrabbiato?"
Non
sa cosa rispondere. La verità è che vorrebbe essere arrabbiato con lei per aver
gettato la spugna e per averlo lasciato, ma non riesce a farlo, non davvero. È
arrabbiato perché non è lo è e perché vorrebbe esserlo. La rabbia che prova è
rivolta principalmente contro sé stesso, non contro Clarke.
"Vedi?"
Madi scuote la testa come se gli avesse letto nel pensiero. "Sei come me.
La ami troppo per odiarla davvero."
Lo
guarda con occhi lungimiranti e troppo vecchi. Sono gli occhi di chi ha vissuto
cento vite e combattuto mille battaglie, versato il sangue dei suoi nemici e
sotterrato famiglie e alleati, visto devastazione e morte. Sono gli occhi di
Clarke dopo Mount Weather. L’orrore di quella scoperta gli toglie il
respiro.
"Se
non sei arrabbiata con lei, allora-"
"Non
capisci ancora? Sono furiosa con te, con tutti voi. Ti ho detto delle chiamate
radio. Gliene hai parlato?"
"Aspettavo
il momento giusto." Odia il modo in cui appaia sulla difensiva, ma odia
ancora di più la delusione con cui Madi lo sta guardando.
"Ti
ha aspettato per sei anni," lei dice, inaspettatamente dura nella sua
brutale schiettezza. Volge la testa verso gli altri e, se possibile, il suo
viso sembra incupirsi ancora di più. "Ha aspettato tutti voi per sei anni.
Sei anni, riuscite a immaginarlo?" Nell’impeto del movimento i suoi
capelli tracciano un arco minaccioso nell'aria, trecce spesse come spire di
serpenti. Assomiglia a una delle Erinni, spietata e sanguinaria, pronta a
vendicare il delitto contro la sua famiglia. "Poi ne ha trascorsi altri
dieci da sola."
"Avrebbe
potuto svegliare chiunque di noi," fa notare Raven, fronteggiando il suo
sguardo senza la minima esitazione o vergogna.
Madi
si irrigidisce e la sua espressione tradisce un lampo di sorpresa. Memore di
quello che Jordan gli ha mostrato, Bellamy ripensa alle telecamere di sicurezza
e sta per intervenire. Madi lo anticipa. "Ha scelto di non farlo," dichiara
e la sicurezza nella sua voce brilla come un faro. La fiducia che ripone in
Clarke è accecante, indistruttibile. Gli ricorda quella che un tempo è stata
anche la sua. "Sapete perché? Ha portato il peso da sola perché non
dovesse farlo nessun altro di voi, ancora una volta. Quando eravamo solo noi
due, Clarke mi raccontava storie su di voi. A volte erano storie divertenti, a
volte storie che la facevano piangere. Parlava di voi tutto il tempo, di cosa
eravate disposti a fare pur di proteggervi l'un l'altro. Eravate sempre voi gli
eroi, ma non lo siete." Se uno sguardo potesse tramutare in pietra- lui
chiude gli occhi, sconfitto già prima che lei sferri il colpo di grazia. "Mia
madre lo è."
Il
silenzio è fragoroso, indigesto, e sembra che la realtà possa collassare da un
momento all’altro sotto il peso dell’acredine che si respira nell’aria come una
cosa viva, multiforme, rancida. Jordan alterna momenti in cui è a testa china
con altri in cui i suoi occhi hanno un’espressione smarrita e frastornata.
Madi
ha le labbra così pressate tra loro che la sua bocca assomiglia a una cicatrice
sottile, le sue guance sono pallide.
"Ciascuno
di noi ha fatto cose sbagliate per i motivi giusti o cose che
rimpiangiamo," lui cerca di placarla, poggiandole una mano sul gomito. Lei
fissa intensamente la sua mano e poi il suo volto prima di scuotere la testa,
nella negazione di quello che lui ha appena detto.
"Mi
ha mentito. Aveva detto che saremmo stati una famiglia," la sente dire a
bassa voce, rivolta a nessuno in particolare.
La
sta perdendo. È come con Octavia tutto daccapo. La tragedia di un'altra
ragazzina che smette di idealizzarlo come un eroe e riconosce la sua natura
umana, imperfetta. "Lo siamo." Cerca di suonare rassicurante,
persuasivo e non terrorizzato come se si trovasse sull’orlo di un precipizio.
"Possiamo esserlo."
"A
voi non interessa nulla di Clarke." Non sta urlando e forse è la cosa
peggiore. Non è lo sfogo di una bambina, ma l'analisi accurata, convinta e
disillusa di un'adulta. "Non la meritate."
"Cosa
vuoi saperne? Sei soltanto una bambina," interviene Murphy. Non c’è reale
mordente né cattiveria nel suo tono, ma le sue parole pungono lo stesso. Non
sembra passato molto tempo da quando la stessa frase è stata rivolta a tutti
loro. Con supponenza, alterigia, come un dato di fatto. Qualcosa di cui
vergognarsi.
"No,
non lo sono," ribatte Madi calma e tra i due è Murphy il primo a
distogliere lo sguardo. Vorrebbe che Clarke fosse qui per vederla. Sarebbe
fiera di lei e forse, oltre l'orgoglio, proverebbe anche una trafittura di
dispiacere, di tristezza all'idea che sia cresciuta così velocemente. "Non
più grazie a lui," lei continua, sollevando il mento e raddrizzando le
spalle. "Sono il Comandante."
"Madi."
Fa un passo verso di lei, ma non la tocca. Scaccerebbe la sua mano di nuovo?
"Sai perché l'ho fatto. Hai accettato."
"Io
lo so, ma lei lo sapeva?" Eccola di nuovo l'accusa, la cruna dei suoi
dubbi esacerbati. "Glielo hai mai detto? No, perché aspettavi il
momento giusto. È colpa vostra se non vuole svegliarsi." Poco più di
un bisbiglio amaro, ma ugualmente udibile: "Vorrei che foste rimasti
dov'eravate."
Quando
gli dà le spalle ed esce dalla stanza, a passi rapidi e misurati, sa di averla
persa. È tentato di seguirla e di prendere a pugni qualcosa. Non
necessariamente in questo ordine.
"Abbiamo
visto dei video diversi senza che me ne accorgessi o mi sono perso qualcosa?"
domanda Murphy.
"Sta'
zitto, Murphy," lui e Jordan dicono contemporaneamente.
Murphy
rotea gli occhi nella sua direzione poi, rivolto a Jordan, si porta una mano al
petto con fare mortalmente offeso. "Credevo di essere il tuo
preferito."
Jordan
reagisce come se non avesse aperto bocca. "Madi ha ragione."
"Non
anche tu," grugnisce Murphy e fa ricadere la testa sulle braccia come se
tutto quel discutere lo avesse sfiancato.
"Voi
non riuscite a capire perché non ci siete mai passati. Non immaginate cosa
significhi, non davvero. Si può morire di solitudine o si può impazzire. Clarke
è riuscita a non fare nessuna delle due cose."
"Abbiamo
un altro ammiratore di Clarke Griffin," ironizza Murphy.
"Qualcuno
deve," ribatte Jordan con insolita fermezza.
"Questo
cosa vorrebbe dire?" domanda Raven.
"Avete
reso chiara l'idea." Jordan alza le mani in quello che dovrebbe essere un
gesto conciliatorio. La sua espressione tradisce un sentimento diverso, simile
alla delusione di Madi, ma più profondo, altrettanto maturo. "Questa è la
vostra famiglia e siete disposti a tutto pur di proteggervi a vicenda eppure le
rinfacciate di avervi tradito per aver fatto lo stesso. È una madre e cercava
di proteggere sua figlia in una guerra in cui voi l'avevate resa un bersaglio.
Le avete mai chiesto perché abbia fatto quello che ha fatto?" Il silenzio
che ottiene è una risposta sufficiente. "No, ovviamente no."
Prima
che anche lui esca, Bellamy cerca di fermarlo. "Dove stai andando?"
"A
cercare Madi," lui risponde e si divincola facilmente dalla sua presa.
"Posso capire la sua delusione. Anch'io vi preferivo quando eravate solo
storie."
*
Lui
e Miller hanno appena finito di organizzare i turni di guardia sul ponte.
Bellamy sta per allontanarsi, ma nota l'esitazione di Miller, il modo in cui stia
indugiando nel corridoio.
"C'è
qualcos'altro di cui dobbiamo discutere?"
Miller
incrocia il suo sguardo con difficoltà, come se odiasse quello che sta per
fare, ma sentisse di non avere scelta. È più che mai simile al ragazzo che era
il suo braccio destro alla Navicella, i fantasmi di quanto è successo nel
bunker intrappolati con Octavia. "Dobbiamo decidere cosa fare con
Clarke."
Bellamy
si immobilizza e sente il sorriso impietrirsi sulle labbra. Quando,
esattamente, il nome di Clarke è diventato un taboo? Gli sembra di essere
tornato a sei anni prima, di rivivere l’orrore e il dolore di un incubo
passato. Corsi e ricorsi storici.
Storce
la bocca e annuisce bruscamente. "Avvisa gli altri. Ci riuniamo tra un'ora
sul ponte."
*
"Credo
che le uniche persone che abbiano diritto di votare al riguardo siamo io, Madi
e -"
Bellamy
si intromette prima che possa finire. È di Clarke, del suo futuro che stanno
discutendo. Non c’è modo che si lasci estromettere da una decisione di quel
calibro. "Se pensi che vi lascerò decidere senza di me-"
Con
la coda dell'occhio coglie la leggera increspatura delle labbra di Abby, come
se si fosse preparata esattamente a quel genere di reazione da parte sua e lui
non avesse disatteso le sue aspettative. In qualsiasi altro momento penserebbe
che sia divertita esasperazione la luce nei suoi occhi, così simili a quelli di
Clarke e allo stesso tempo così diversi. "E tu, Bellamy," lei conclude
come se non l’avesse interrotta. Qualunque cosa fosse, la luce si è già
affievolita. I suoi occhi sono di nuovo cupi, il suo viso di colpo invecchiato
di dieci anni, le labbra incurvate verso il basso. "È ovvio che mia figlia
tenga a te, perciò ritengo che dovremmo essere noi tre a votare e nessun
altro."
La
strana, piacevole soddisfazione che lo coglie per il fatto di essere appena
stato implicitamente riconosciuto come membro della famiglia di Clarke scompare
subito. Non è così che dovrebbe succedere.
*
L'irritazione
verso Abby riaffiora dopo appena mezz'ora di discussione. Rimpiange l'assenza
del gruppo, in particolar modo di Jordan. Negli ultimi giorni ha avuto modo di
osservarlo interagire con gli altri, di valutare il suo potenziale. Quello che
ha scoperto è promettente. Ha la mente perspicace e brillante di Monty, è
empatico come lo era Harper. Gli piace rimanere nelle retrovie. Di primo
acchito può apparire introverso e timido, ma è solo perché si sta ancora
abituando all'idea di essere circondato da così tante persone.
“Confusa?”
ripete Madi. Sta rispondendo all’implicita accusa di Abby, che ha appena commentato
con quella parola lo stato mentale ed emotivo in cui Clarke verteva quando ha
registrato i video per loro, motivo per il quale nella sua opinione
professionale di medico deve essere preso in considerazione il fattore
psicologico. Non importa ciò che Clarke vuole, ma ciò di cui ha bisogno e per
Abby lei ha bisogno del supporto della sua famiglia, di rassicurazioni e
ambienti familiari. Non di altro isolamento e di essere estraniata dalla realtà
che la circonda più di quanto non lo sia già.
“Clarke
è stata chiara,” afferma Madi lapidaria. “Non intende essere svegliata prima di
cinque anni.” È evidente quanto la richiesta di Clarke l’abbia devastata,
quanto la prospettiva di dover aspettare così tanto prima di riabbracciarla sia
penosa per lei. Allo stesso tempo lo è anche il suo desiderio di rispettarne la
volontà. È qualcosa che lui può capire: panico e tormento. Svegliarsi la notte
di soprassalto, il bagno di sangue dell’ennesimo incubo ancora impresso come
uno squarcio dietro le palpebre, e ricordarsi che non è persa, ma solo in stasi;
permettersi di controllare con i suoi stessi occhi, andare a sedersi accanto al
suo baccello, a volte in silenzio, a volte trascorrendo le ore di buio prima
dell’alba a raccontarle dei sei anni che ha trascorso sull’Anello convinto che
fosse morta.
“Possono
succedere molte cose in cinque anni,” replica Abby.
Non
quante in dieci, pensa, ma rimane in silenzio e in
disparte ad osservare quello scontro tra titani.
“Conosco
mia figlia. È una combattente.”
Osserva
il modo in cui i muscoli facciali di Madi si contraggono in un’espressione di
frustrazione e decide che è arrivato il momento di intervenire. “Forse è meglio
fermarci,” dice. “Non arriveremo mai a una conclusione così, non oggi.”
“No.”
Madi scuote la testa. “Voglio che decidiamo adesso.” Lo sguardo nei suoi occhi
gli rende difficile respirare per la sensazione di familiarità che rievoca e i
ricordi che risveglia.
“Non
dobbiamo per forza.”
Madi
distoglie lo sguardo e assottiglia le labbra. “Sì invece. Mia madre, una mia
responsabilità, giusto?”
E
Dio, Dio, perché deve essere tutto così dannatamente difficile?
Bellamy annuisce, stringendo i pugni. “Sarebbe fiera di te.”
*
Quando
Echo lo tira di lato, un paio di giorni più tardi, ogni fibra del suo corpo e
frammento della sua mente sa già cosa intende dirgli. Nonostante tutto, quando
lei affronta di petto l'argomento e senza giri di parole parla di come tutto
sia cambiato, che non è colpa di nessuno, ma è lo stato delle cose, lui prova
ugualmente un dolore sordo all’altezza del petto.
"Ti
amo," dice e in una realtà che è diventata un incubo sembra uno spiraglio
di conforto.
Echo
incrocia il suo sguardo con fierezza e appena un velo di amarezza. "Lo so.
So che mi ami, ma ami di più lei. Non mi piace, però lo capisco. Lei è stata
con te sin dall'inizio."
Tu sei rimasta con me quando mi
mancava la terra sotto i piedi. Letteralmente oltre che figurativamente.
Vorrebbe dirlo, invece si ritrova a battere le palpebre e a dire rocamente:
"Non posso scegliere."
"Non
devi." Non è un'accusa, solo una constatazione. Entrambi sanno che Clarke
verrà sempre al primo posto. Se anche c’è stato un momento, dopo che l’ha
ritrovata, in cui lo aveva dimenticato, ora è tutto tornato alla memoria. È la
realtà dei fatti ed è immutabile, incontrovertibile.
"Mi
dispiace." Non sa cos'altro dire. Cosa si fa in queste circostanze? Non ha
mai detto addio prima d'ora, non come scelta consapevole. Di solito la morte lo
ha sempre anticipato. Non è un addio definitivo questa volta, solo un cambio di
prospettiva, di priorità.
Lei
annuisce, ma non sorride. "Anche a me."
*
Da
quanto va avanti? La verità è che non lo sa neppure lui.
È
una bugia. La verità è che non ricorda un giorno in
cui quello che prova per Clarke non sia esistito. Una presenza costante, forte
e mai espressa, accettata silenziosamente. Ha accompagnato ogni decisione che
ha preso. Fa parte di lui, nel bene e nel male. Completa ogni ricordo della sua
vita sulla terra. La luce abbacinante del sole. La quantità prolifica di stelle
nel cielo notturno. È il rumore del vento tra gli alberi la prima volta che gli
ha accarezzato il viso. È il sapore della pioggia. La sensazione solida del
terreno, della pietra e del fango. La vertigine della morte. Il ruggito della
colpa. Il brivido dell'assenza. L'amarezza della nostalgia. La ferocia di un
bisogno che travalica ogni ragione, ogni logica, ogni buonsenso.
La
vita prima di incontrare Clarke Griffin è un ricordo nebuloso. Un'infanzia di
responsabilità e segreti finita in un salto nel vuoto, nell'eco ridondante di
un colpo di pistola. È legata indissolubilmente alla morte del dovere e al
dolore della perdita, alla libertà colposa che ne è scaturita. C'è un prima
Clarke e un dopo Clarke.
Non
è ironico? Che lui scandisca il tempo, tracci la sua storia in base a lei?
*
“Sei
il loro leader oppure no?” domanda Russell, gli occhi curiosi e inquisitori.
Bellamy
non risponde, ma si sforza di mantenere un’espressione accuratamente neutra
mentre la sua mente è attraversata in rapida successione da una serie di
immagini mozzafiato. Uno sprazzo di capelli color sole, occhi mercuriali e
pieni di segreti, un carattere carismatico e il sorriso nella sua voce quando
pronunciava il suo nome.
“Lo
è,” risponde Abby, spostandosi al suo fianco. L’occhiata che gli rivolge è di incoraggiamento
e muto apprezzamento. È quella che lei gli avrebbe rivolto. “Lui può
parlare per noi.”
*
“Dicci
di più di questa donna, Clarke Griffin.” Russell ha appena bevuto un sorso di
vino dal suo calice. Lo posa sul tavolo e Bellamy perde il filo dei suoi
pensieri e ha un involontario tic all’occhio destro.
“Lei
cosa c’entra?” domanda seccamente.
“Sappiamo
che era lei a guidare il vostro popolo sulla Terra.” Russel incrocia le mani
davanti a sé e si piega in avanti. Il suo interesse non mostra secondi fini e
nonostante questo, lui prova un irrazionale moto di rabbia. “Perché non è qui?”
“Sta
ancora dormendo.” La sua voce è noncurante quanto basta. “Rimarrà nel sonno
criogenico per altri cinque anni.”
Russell
inarca le sopracciglia, la curiosità ha ceduto il posto ad uno stupore genuino.
Seduta nel posto accanto al suo, invece, sua moglie riesce a malapena a
nascondere lo sdegno. “Non fingerò di capire le dinamiche del vostro rapporto.”
“Buona
fortuna con quello,” commenta sarcastico. “A volte non le capisco neppure io.”
“Forse
è un bene che non sia qui. Abbiamo sentito molte cose sul suo conto. Racconti
di sangue e di morte. Sappiamo che il tuo popolo la chiama Wanheda.”
La
rabbia ritorna, prepotente, e questa volta non bada a nasconderla. “I nostri
nemici la chiamavano così,” corregge con freddezza.
“Nemici
che sono diventati vostri alleati,” replica Russell.
Bellamy
stacca un acino d’uva e se lo rigira tra le dita. “L'apocalisse costringe a
rivalutare le priorità di chiunque. Così i nemici si trasformano in alleati,
gli amici diventano una famiglia.”
Russell
annuisce con l’aria perplessa di chi vorrebbe capire, ma non riesce a farlo
completamente, non davvero. “Sono certo che date le circostanze tu possa comprendere
la nostra riluttanza nell'accogliervi tra di noi. Non possiamo prendere alla
leggera la minaccia che rappresentate. Il vostro passato può essere un ostacolo
per il futuro della mia gente.”
“Avete
già distrutto un mondo,” interviene Simone. È la prima volta che prende la
parola e ovviamente è per manifestare l’evidente opposizione
all’atteggiamento assai più bendisposto del marito. “Cosa vi impedisce di farlo
di nuovo? Perché dovremmo fidarci di voi?” Mentre le rimostranze di Russell
sono pragmatiche ed espresse con un’educazione snervante, il giudizio di Simone
è rumoroso e pieno di biasimo.
“Simone,”
dice Russell a voce bassa per placarla, ma lei non dà segni di averlo sentito.
“Guerrieri.
Assassini. Ladri. Delinquenti,” sputa senza badare a celare il disgusto. Ogni
parola esprime condanna, è una censura. “Questo
è ciò che siete.”
“Che
eravamo,” lui replica senza perdere un battito. Mantenere la calma è
indispensabile. Sa cosa succederebbe in caso contrario. Ogni parte di lui
vorrebbe raccontare a questi due estranei cosa sono stati costretti a fare per
sopravvivere. Non solo le atrocità, ma anche gli atti di clemenza. E non è
assurdo, vorrebbe urlare loro, che siano le azioni commesse in nome dell’amore
ad essere le più terribili? C’è una parte di lui, la parte di coscienza che gli
parla con la voce di qualcun altro, che smussa la contrarietà che lo sta
divorando con carezze gentili e gli intima in tono di comando di agire con
circospezione, di rimanere lucido e per l’amor del cielo, Bellamy, usa la
testa. “Abbiamo imparato dai nostri errori e stiamo cercando di essere
migliori,” prosegue. “Continuiamo a farlo ogni giorno. Questa è la nostra
seconda possibilità e abbiamo intenzione di dimostrare che la meritiamo.”
“Ti
aspetti che ti crediamo sulla parola?” domanda Simone con una smorfia
collerica. “Che mettiamo a rischio la nostra gente per la tua?”
Questa
donna comincia a dargli sui nervi. “Non deve esistere per forza quella
distinzione. Mia, vostra. Possiamo essere un unico popolo. Possiamo convivere
in pace.”
“Credi
davvero che sia possibile?” domanda Russell.
Bellamy
si volta verso di lui, intravedendo ancora un barlume di speranza nonostante le
premesse tutt’altro che positive. “Devo crederlo,” risponde onestamente. Questa
volta non sta pensando a Clarke, ma a Monty e Harper, a Jasper e a Maya. “So
che non è facile, ma non è impossibile. Noi ne siamo la riprova. Abbiamo messo
da parte i nostri conflitti per concentrarci sulla sopravvivenza comune. Possiamo
cambiare.”
Russell
lo valuta come se volesse determinare il valore delle sue parole e della sua
sincerità. Qualunque sia la conclusione che ha raggiunto, non è a suo favore
perché la sua espressione si tinge di rammarico. “Io credo che tu voglia, Bellamy,
soltanto che non credo che sia possibile. Cerca di capire, la violenza è un
contagio. Sono sinceramente dispiaciuto, ma non posso lasciare che il vostro
male spazzi via ciò che ora dobbiamo presumere sia l'ultimo avamposto dell'umanità
nell'Universo."
Bellamy
capisce di aver perso. Non è riuscito a convincerli. Clarke ci sarebbe
riuscita. Sapeva essere maledettamente persuasiva quando voleva. Ma lei non è
lì e lui sta cominciando a credere che sia davvero colpa sua.
*
Dopo
l'attacco dei figli di Gabriel tutto sembra cambiare e volgere a loro favore.
C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce ancora a individuare nell'intera
faccenda. Non gli piace. Il nuovo interesse di Russell in Abby, per esempio,
prontamente motivato dalla sua conoscenza medica.
"A
Clarke piacerebbe qui," dice Madi.
Sono
all’aria aperta e stanno guardando i bambini giocare a rincorrersi tra le
aiuole del giardino mentre alcuni adulti innaffiano i fiori. Il cielo è una
fiamma cremisi all’orizzonte e il panorama che li circonda è un vivido tripudio
di colori. In lontananza un cane abbaia e la quiete è frammentata da risate sonore
e dal vociare allegro dei passanti. È come dovrebbe essere, tutto ciò che hanno
sempre sognato e anche di più. È la pace per cui hanno combattuto.
Se
tutto procedesse secondo le previsioni, molto presto Madi potrebbe cominciare
ad andare a scuola, avere l'infanzia che Clarke avrebbe voluto per lei. Non
spesa a combattere o a nascondersi, ma tra ragazzi della sua età. Normale.
Noiosa. Al sicuro.
"Lo
credo anch’io," lui risponde e la stretta al cuore quando pensa al posto
vuoto accanto al suo è più dolorosa del solito e meno facile da nascondere.
Madi
gli stringe la mano, gli occhi scuri e perspicaci sono pieni di comprensione.
Ha imparato a riconoscere i momenti in cui Clarke gli manca maggiormente. Gli
interludi di calma in una quotidianità frenetica di impegni, che solitamente
non gli lasciano il tempo per pensare.
Russell
discute con lui della possibilità di costruire un complesso per loro, di
individuare insieme aree che diventerebbero comuni. Si parla di condivisione e
per un po' - giorni che si trasformano in settimane, settimane che diventano
mesi - la pace è una realtà, qualcosa di concreto e tangibile, finché non lo è
più. Smette di esserlo il giorno in cui Abby e Madi scompaiono.
I swear I only want to hear about you, to know what
you've been doing. It's a hundred years since we've met- it may be another
hundred years before we meet again.
-Edith Wharton
“Dobbiamo
svegliare Clarke,” dice Jordan. Hanno appena scoperto la verità sui Primes.
“Non
se ne parla.” Bellamy digrigna i denti, l’orrore di quanto hanno appena visto
scalzato via dall’irritazione. Perché, come può svegliarla proprio adesso?
Come può svegliarla, guardarla negli occhi e ammettere di aver infranto una
volta di più la promessa di mantenere Madi al sicuro?
“Hanno
preso Madi e Abby in ostaggio,” insiste Jordan e nonostante i suoi occhi siano
lucidi per il pensiero che quello debba essere stato anche il destino di Delilah,
il suo tono è stentoreo. “Sappiamo cosa potrebbero fare se non riusciamo a
fermarli. Credi davvero che non vorrebbe essere svegliata per questo? Se non lo
fai, non ti perdonerà mai. Non commettere lo stesso errore. Sai che ho ragione.”
Bellamy
chiude gli occhi. Ci sono mille cose che vorrebbe dire, urlare, invece si
concentra sulle parole di Jordan. Hanno un sapore amaro e fin troppo familiare.
Se
lo fai, non ti perdonerà mai. Non è ironico che sia la
seconda volta che gli viene posta questa domanda in meno di sei mesi? Ricorda
la paura negli occhi di Madi alla vista della Fiamma e poi la sua risoluzione
nell’accettare il destino da cui è fuggita per tutta la vita quando l’ha messa
di fronte alla prospettiva dell’alternativa in caso di rifiuto – un futuro senza
Clarke -. Ricorda la disperazione nella voce rotta di Clarke, le sue grida, il
rumore delle catene quando l’ha pregato di farlo. E poi la penombra della
tenda, il rituale, il rancore e il tradimento racchiusi in uno schiaffo che
l’ha fatto tremare come poche altre cose in vita sua hanno avuto il potere di
fare. Solo lei e Octavia hanno questa capacità, quella di togliergli la terra
da sotto i piedi, di rubargli il respiro, di fargli provare ansia e uno
sgomento che a volte sembra atavico, una parte di lui antica quanto il tempo
stesso, risvegliata nell’ora del bisogno.
Ricorda
quello che ha fatto, quello che sarà sempre disposto a fare per le persone che
ama. Non lo fa perché deve, ma perché non ha scelta. Ha perso quella facoltà
anni e anni fa. Sull’Arca, quando sua madre gli ha messo un fagotto sanguinante
tra le braccia e l’ha chiamato una sua responsabilità. Nel cuore di una
montagna, quando ha poggiato la sua mano sopra quella di Clarke sopra una leva e
l’ha chiamato dovere. Ma non si è mai tratto di quello. Dovere, responsabilità.
Sono solo i nomi che ha scelto di dargli, dietro cui ha scelto di nascondersi.
Sin dall’inizio, dagli albori di quella che è stata la sua storia, si è sempre
trattato di amore, del suo cuore.
Quando
riapre gli occhi, la decisione è già presa.
*
“Lo
ha bloccato con un codice di protezione.” Raven impreca e dà un pugno alla
capsula.
“Cosa?”
“È
una specie di serratura,” chiarisce, sfregandosi la fronte. Sta riflettendo, la
mente già concentrata nella ricerca spasmodica di una soluzione. “Il suo
baccello non si aprirà se non inseriamo il codice che ha scelto.”
Maledizione.
“Puoi aggirarlo?” domanda Bellamy.
“Potrebbe
volerci un po' per decriptarlo,” risponde lei con le sopracciglia aggrottate,
senza distogliere lo sguardo dall’assurdo groviglio di cavi che ha appena
tirato fuori dal pannello di controllo e attorno ai quali ha già cominciato ad
armeggiare. “Tempo che noi non abbiamo. Dannazione, Clarke. Perché un codice?”
“Considerato
quello che stiamo per fare, non puoi darle torto se aveva problemi di fiducia,”
commenta Murphy. “Di quante cifre è? Il codice.”
Bellamy
gli lancia un’occhiata e Murphy scrolla le spalle. “Andiamo gente, è Clarke. Quanto può essere
difficile trovarlo?”
Le
mani di Raven si arrestano e la sua fronte si spiana per un momento
infinitesimale prima di accigliarsi di nuovo, questa volta però la sua
espressione è determinata e Bellamy comincia a intravedere la luce alla fine
del tunnel. La lascia fare la sua magia
per un minuto. Capisce che ce l’ha fatta ancora prima che lei parli.
“È
un codice decimale di tre cifre,” spiega Raven. “Sapendo che due cifre sono
pari e una dispari, questo limita il numero di combinazioni possibili a
trecento.”
“Utile,”
ironizza Murphy e batte le mani, prima di guardarlo in attesa. “Bene allora.
Perché non stai provando?” La sua confusione deve essere tangibile. “Non
guardarmi così, amico. Siamo tutti sulla stessa barca, ma tu e la principessa
siete sempre stati su una barca differente. Nessuno la conosce meglio di te.”
Forse
un tempo è stato così e anche allora non sarebbe stato del tutto vero. Provare
non costa nulla però. Un codice di tre cifre, di cui due sono pari. Oh,
pensa e prova una lancinante sensazione di tenerezza per la donna che dorme
indisturbata al di sotto della teca.
Quando
Murphy vede la prima cifra che ha digitato sulla tastiera, rotea gli occhi.
"Sapevo che in fondo era un idiota romantica, ma non fino a questo punto."
Sbuffa. “Lasciami indovinare… cento?"
Bellamy
sorride e digita l’ultimo tasto. “Hai dimenticato me e Raven.”
*
"Ciao,
straniera."
Se
si trattasse di un altro giorno, riderebbe di se stesso, si vergognerebbe del
modo in cui la sua voce abbia tremato, di come stia praticamente annaspando, di
come gli batta forte il cuore. Troverebbe ridicolo il fatto che si senta un
quattordicenne sprovveduto alle prese con la sua prima cotta. Divora il suo
viso con occhi affamati e francamente non gli importa di fare la figura
dell'idiota. Non quando Clarke è così vicina, reale, sveglia.
La
osserva mentre si mette a sedere sui gomiti e si sfrega la fronte. “Bellamy,”
dice e davvero, non dovrebbe provare questa specie di vibrante orgoglio nel
sapere che il suo nome è stata la prima parola che ha pronunciato svegliandosi.
Non sta sorridendo e qualunque barlume di emozione le abbia attraversato gli
occhi muore nel momento in cui nota l’assenza al suo fianco. “Bellamy,” ripete in
tono monotono, freddo e il cambiamento radicale nella sua voce è repentino, gli
gela il sangue. “Dov'è Madi?”
*
“Hai
intenzione di ignorarmi tutto il tempo?”
È
come se non avesse aperto bocca. Clarke continua a sfogliare il diario di Madi
con l’espressione di qualcuno che sta vedendo accadere sotto i suoi occhi la
sua peggiore paura.
È
stata una sua idea, quella che Madi iniziasse a scrivere una sorta di resoconto
giornaliero per Clarke, ma questo non gliel’ha detto e quando gliel’ha porto ha
finto di non notare i suoi occhi lucidi e il leggero tremore che le ha
attraversato le mani. Resistere all’impulso di prenderla tra le braccia è stata
forse una delle cose più difficili che abbia mai fatto.
Le
annotazioni dimostrano un impegno costante nella perseveranza con cui sono
state aggiornate quasi quotidianamente e Madi ha arricchito i bordi delle
pagine con ghirigori e commenti personali che all’inizio le hanno strappato una
o due risate. Tra le pagine fitte di scrittura e bozze di disegni ci sono una
piuma, fiori lasciati ad essiccare, un pezzo di stoffa che ricorda quelli
appesi a mezz’asta nell’insediamento del Sanctum.
Ormai
è trascorsa mezz’ora da quando Jackson ha finito di visitarla e sottoporla a un
accurato controllo medico. Nessuno di loro vuole correre rischi, non dopo che
hanno perso cinque uomini per un’insufficienza renale diagnosticata troppo tardi
e provocata da un malfunzionamento delle capsule criogeniche. È la nuova
procedura standard in caso di risveglio e sebbene Clarke si sia opposta
inizialmente, considerandola un’inutile perdita di tempo, di fronte alla loro intransigenza
ha dovuto arrendersi.
Sono
in attesa degli ultimi risultati e il silenzio è un muro impenetrabile tra di
loro, alto e lunghissimo come la Grande Muraglia nei libri di storia della
Terra prima della prima Apocalisse.
Finalmente
lei chiude il quaderno, accarezza il frontespizio in punta di dita. Il suo viso
è nascosto dietro la cortina di capelli. “Non ho intenzione di rimanere sveglia
a lungo.”
Bellamy
si sente come lo avesse colpito fisicamente. Sulla guancia percepisce, acuta e
anomala, la sensazione fantasma dello schiaffo che lei gli ha dato a Polis. Quello
che ha appena ammesso non dovrebbe arrivargli come una sorpresa. Era il piano
iniziale dopotutto. Altri cinque anni. Lo sa, eppure aveva pensato, parte di
lui aveva sperato che -
“Una
volta salvate Madi e tua madre, intendi tornare nel sonno criogenico,” dice a
scanso di equivoci e decide di tradurre la sua assenza di risposta come un
tacito assenso. “Clarke,” il suo nome suona stonato sulle sue labbra, la sua
voce sembra provenire da molto lontano, “cosa ti è successo?”
Lei
si volta come una furia ed eccola lì, la donna che conosce, un assaggio di
scintille di luce e pericolosità che gli brucia gli occhi per la troppa
intensità, come se avesse osservato il sole troppo a lungo. È una conferma. Dietro
la maschera di distacco che ha indossato da quando si è svegliata, Clarke
sopravvive, il suo cuore continua a battere, a combattere.
“Spero
che tu stia scherzando,” sibila.
Lui
indietreggia, reagendo istintivamente all’ostilità e alla violenza che scorge
nel suo sguardo. “Quello che intendo-” Ma non fa in tempo a spiegarle quello
che intendeva. La porta si apre e d’un tratto non sono più soli.
“Clarke!”
esclama Jordan con un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. Deve aver
notato la tensione tra di loro, ma sorvola con il solito tatto. La sua
attenzione è rivolta interamente a Clarke e Bellamy osserva con stupore il suo
viso contratto rilassarsi nel primo vero sorriso che le abbia visto da non
ricorda neppure lui quando. Clarke lo attira in un abbraccio, gli scompiglia i
capelli. Jordan cerca di impedirglielo, ma sta ridendo e non sembra davvero
infastidito da quelle attenzioni. Mamma Orsa, ricorda di averla chiamata
una volta.
“Jordan,”
dice Clarke e il sorriso le ha raggiunto gli occhi, creando minuscole rughe di
espressione attorno alle palpebre. “Ti trovo bene. Ti sei acclimatato alla vita
tra i Delinquenti, vedo.” Gli rivolge un’occhiata sfuggente da sopra la spalla
di Jordan, prima di aggiungere in tono più sobrio: “Bellamy mi stava
aggiornando.”
Jordan
annuisce, di nuovo serio. “Lei hai già detto di Madi?” Bellamy sta per
rispondere, ma Clarke non glielo permette. “Cos'è successo di preciso?” domanda.
Non
dovrebbe fare male, scoprire di aver perso la sua fiducia al punto che lei preferisce
ascoltare un ragguaglio della situazione da qualcuno di cui si fida. È lo stato
del loro rapporto nella sua forma attuale e accettarlo è il primo passo per
cercare di riparare le cose tra di loro. Non dovrebbe, ma lo fa. Fa un male
del diavolo.
Se
anche è sorpreso dalla domanda diretta o dal fatto che gli stia stata rivolta,
Jordan non lo lascia vedere. “Dopo che tu- dopo che è stato deciso di non
svegliarti, pensavo che Madi avesse reagito bene. Sembrava aver
accettato la tua scelta. La addolorava ovviamente, ma era più arrabbiata che
dispiaciuta e non con te, non davvero.”
“Aspetta,”
dice Clarke. Ha le sopracciglia aggrottate. “Di cosa stai parlando?”
“Ci
ha fatto a pezzi,” si intromette una voce dalla porta. Murphy li raggiunge.
Bellamy vede il modo in cui il corpo di Clarke si sia proteso automaticamente
verso di lui, in cui abbia aperto le braccia come se volesse abbracciarlo e come
in ultimo scelga di non farlo. Le sue braccia ricadono contro i fianchi rigidamente
e il cenno che rivolge a Murphy è sbrigativo e di cortesia.
Murphy
infila le mani in tasca e ciondola sul posto, ricambiando il saluto con
un’espressione esageratamente tediata. “Ha detto delle cose molto poco carine, discutibilmente
vere su di noi. Tra le righe mi sembra di ricordare qualcosa del tipo che
nessuno è senza macchia e tra di noi tu sei l'unico vero eroe che riconosce.”
“Ha
detto sul serio così?” Per un attimo Clarke cerca il suo sguardo in un riflesso
naturale, come se cercasse una conferma da parte sua. Il momento di condivisone
passa. Bellamy batte le palpebre e Clarke ha di nuovo riportato lo sguardo su
Murphy e Jordan.
“Sì,
uno spettacolo penoso,” commenta Murphy. “Rimproverato da una ragazzina.
Sembrava di rivedere te nei tuoi giorni di gloria alla navicella.”
“Come
hanno scoperto che sono una sanguenero?”
“Colpa
mia.” Jordan alza la mano e sorride timidamente, colpevole. “Potrei aver
raccontato un paio di storie su di te.”
Clarke
gli sorride di nuovo e la trasformazione quando parla con Jordan, rispetto ai
suoi scambi con lui o Murphy, è innegabile. “Sono il tuo asso nella manica per
impressionare le ragazze?” Gli strizza l’occhio. “Adulatore.”
*
“Hai
lasciato che prendessero mia figlia. Di nuovo.”
Per
un attimo non registra le sue parole. La realtà ha assunto i contorni surreali
di un incubo e l’espressione feroce sul viso di Clarke, cambiato e allo stesso
tempo immutato in tutto ciò che conta, è la stessa che popola le sue notti
insonni.
“Non
è colpa sua,” lo difende Jordan; sembra a disagio. “Nessuno di noi voleva che
succedesse, Clarke.”
Clarke
stringe le labbra, ma non ribatte. Non che serva. Quello che sta pensando
traspare chiaramente dalla determinazione con cui si vieta di guardare nella
sua direzione. “Da quanto tempo avete perso contatto con loro?”
“Dieci
ore.”
Può
praticamente sentirla ragionare. “Perché avete aspettato così tanto?”
“Abbiamo
aspettato te,” risponde Jordan, strofinandosi il retro del collo in
un’abitudine che – Bellamy se ne rende conto – deve aver assimilato da lui. “All'inizio
non eravamo sicuri che fossero stati loro.”
“Cosa
vi ha convinto?”
“Jordan
ha trovato un filmato,” interviene finalmente. Non può lasciare a Jordan il
compito ingrato di dirle la verità. È soltanto un ragazzo. Non sarebbe giusto. Il
fardello, così come la colpa di quello che è successo, sono unicamente suoi. “Ha
scoperto cosa fanno a chi ha sangue come il loro, come il tuo. Li utilizzano come
ospiti. Non sempre si offrono di loro spontanea volontà.” Lei impallidisce per
le implicazioni e lui le sfiora il gomito per offrirle sostegno prima di
ricordarsi che ha perso quel diritto, che lei non vuole essere toccata da lui.
Lo ha reso evidente. “Clarke, le salveremo.”
Non
lo sta guardando con diffidenza, ma c’è qualcosa di cauto nel modo in cui gli
permette di lasciare la mano sul suo gomito, in cui non si ritrae nonostante il
suo corpo si sia irrigidito. Come se volesse dimostrare qualcosa a sé stessa e
non a lui. Alla fine, scuote la testa. “Non sai cosa potrebbe succedere. Non
puoi prometterlo.”
È
vero, non lo sa. Clarke si copre gli occhi ed è un gesto che gli stringe il
cuore in una morsa d’acciaio per la vulnerabilità di cui è messaggero. “Ho bisogno di rimanere da sola per un minuto.”
Jordan
fa un cenno verso la porta e Bellamy annuisce prima di uscire con Murphy alle calcagna.
Una
volta che sono nel corridoio, lui e Jordan si piantano ai lati della porta,
Murphy con le spalle contro il lato opposto del corridoio. Sembrano sentinelle
messe a guardia dell’entrata di un tesoro. Dall’interno non arriva un suono e
c’è un silenzio di morte. La devastazione che lo pervade non è che un frammento
irrisorio di quello che lei sta provando. Questa è la seconda volta che succede
ed in entrambi i casi è stata sua la colpa.
*
Quando
esce, i suoi occhi sono cerchiati di rosso, ma la sua espressione è risoluta e
c’è un nuovo vigore nei suoi passi, il mento è sollevato nell’antica ombra di superbia.
Si china per mormorare qualcosa a Jordan e quando la vede incamminarsi verso la
sala comandi, la afferra per il polso per trattenerla. “Dove stai andando?”
Non
evita più il suo sguardo ed è perfino peggio. Non c’è nessun calore, è la
distratta cordialità riservata a qualcuno che a malapena conosci. Si divincola
e per lo shock di quello che le ha letto negli occhi lui la lascia andare,
ponendo una distanza tra di loro che appare tanto più insormontabile proprio perché
non è fisica. “Voglio vedere quel filmato,” risponde in un tono che non lascia
adito a diverse interpretazioni.
Bellamy
si riprende subito e storce la bocca in una smorfia. “Non è una buona idea.”
Lei
non batte ciglio. “Mi dispiace, suonava come una richiesta?”
“Murphy,
accompagnala,” ordina sbrigativo. “Non tu Jordan. Devo parlarti.”
*
“La
conosci,” dice senza preamboli di sorta. Non riesce a evitare il tono vagamente
petulante, l’implicita accusa.
Jordan
ride, ma è una risata di puro nervosismo. “Certo, come conosco te e Murphy. Te
l'ho detto. I miei genitori-”
“Non
sto parlando di quello,” lo interrompe con un cipiglio. “L'avevi già
incontrata. Avevi già parlato con lei. Quando? Cosa mi stai nascondendo?
Ascolta, non sono arrabbiato per il fatto che tu e lei abbiate dei segreti.”
“Solo
che io non li abbia condivisi con te,” replica Jordan amaramente.
“Non
è quello che sto dicendo.”
“Ma
è quello che pensi.”
“Se
non vuoi parlarne-”
“Non
è qualcosa di mio da raccontare.” Jordan abbassa lo sguardo, chiaramente sulle
spine. “Devi parlarne con lei, okay?”
Bellamy
esita. Sa che è un’intrusione, ma deve sapere. Rischia di impazzire altrimenti.
“Jordan, ti prego. Io- Io devo sapere.”
Per
un lungo, terribile momento è certo che Jordan si rifiuterà in modo educato, ma
fermo. Invece mirabile dictu, comincia a parlare. “Quando mi sono
svegliato, ero pronto a seguire le istruzioni di mio padre alla lettera. Clarke
non me lo ha permesso. Sapeva che tu e lei sareste stati i primi che avrei
svegliato.”
Bellamy
annuisce. Aveva già ricostruito questa parte della storia e gli ha appena
confermato che aveva ragione. “Perciò te lo ha impedito,” dice, ma c’è qualcosa
di sbagliato. Qualcosa non gli torna. Capisce di cosa si tratta dall’espressione colpevole
di Jordan. “L’hai svegliata. Ecco come la conosci.” Certo, ha senso. “L'hai
svegliata,” ripete e poi, come un fulmine a ciel sereno, la verità lo trafigge
da parte a parte. “I messaggi finali. Tu eri con lei quando li ha registrati.
Quanto tempo è trascorso prima che svegliassi anche me? Dopo quanto è tornata
nel sonno criogenico?”
Jordan
deglutisce, le spalle accasciate. “Due
mesi.”
Il
dolore non arriva subito.
“Non
è quello che sembra,” si affretta a dire Jordan e comincia a gesticolare, un
vezzo in cui, lui ha imparato, ricade quando qualcosa lo agita. “Ci ha provato,
d'accordo? Sapeva che avreste avuto bisogno di lei. Ha provato ad essere quel
tipo di persona, quella che voi vi aspettavate che fosse, ma il peso era
troppo. Quegli anni in isolamento l'hanno cambiata. Può sembrare che stia bene,
ma ognuno ha i suoi limiti e lei ha raggiunto il suo. Non è indistruttibile. I
nostri traumi sopravvivono dentro di noi, diventano i demoni che non smettiamo
mai davvero di combattere.”
“Cosa
è successo?” chiede raucamente.
“Incubi.
Allucinazioni. A volte era sua madre. A volte una donna di nome Lexa. A volte
eri tu. Non ha mai avuto il tempo di metabolizzare. L'esplosione al Campo.
Mount Weather. ALIE. Il Praimfaya. Voi non avete mai visto com'era dopo.” Non
sono le parole, ma il sottotesto, quello che Jordan non sta dicendo a farlo
sussultare interiormente.
“Di
cosa stai parlando?”
“Che
ogni volta che ha perso qualcuno o ha preso una decisione impossibile, è sempre
stata da sola mentre cercava di capire come affrontare le conseguenze delle sue
azioni, che fosse una sua scelta oppure no.”
*
“Dovrai
perdonarla un giorno,” dice Emori, passandole il cacciavite che le ha chiesto.
Deve aver parlato con Bellamy o Murphy deve averle detto qualcosa.
Raven
storce il naso. “Forse.” Stringe la vite sporgente e passa alla successiva. “Contavo
su quei dannati cinque anni per cominciare a farlo.”
“Devi
accelerare i tempi di lavoro.”
“Non
se riesco a evitarlo,” risponde e scrolla le spalle, fingendo una noncuranza
che è ben lungi dal provare. “Dopotutto non credo che abbia intenzione di
rimanere a lungo.” Ripensa alla richiesta di Bellamy e si ripromette di
controllare dopo aver sistemato il condotto di areazione nel settore 5.
*
“Ho
controllato le registrazioni di sicurezza come mi avevi chiesto,” esordisce
Raven. È sbucata dal nulla. Bellamy non distoglie lo sguardo dai resoconti delle
squadre di pattuglia sul lato della foresta al di fuori della giurisdizione del
Sanctum. È un lavoro che in passato avrebbe svolto con Echo e per il quale ora,
portandolo a termine da solo, impiega più tempo di quanto gli piaccia
ammettere. Se non si arriverà a una guerra – anche se sembra inevitabile –
hanno bisogno di un piano di riserva, di individuare quanto prima una nuova zona
su cui costruire delle abituazioni adeguate.
Il
silenzio di Raven è snervante. “E?” la incalza, più brusco del necessario.
“Jordan ha detto la verità. I tempi combaciano.
Due mesi.” La sua voce è incolore, meccanica mentre snocciola con fredda competenza
le informazioni che le aveva chiesto di verificare. La conosce abbastanza bene
da sapere che sta omettendo qualcosa, che parte di quello che ha visto deve
averla turbata e che questo, il fatto di essere vittima delle sue stesse
emozioni per una persona alla quale si era ripromessa di non tenere più, la infastidisce
oltremodo.
“Hai
visto qualcos'altro?” inquisisce e anche se lo sapeva già, ha la conferma di
essere nel giusto nel momento in cui la vede assottigliare lo sguardo e
massaggiarsi il ginocchio. Lo fa solo quando è inquieta.
“Abbastanza,”
risponde bruscamente. Bellamy non insiste, attendendo. “Devi parlare con lei,”
ammette alla fine e il suo viso è quanto mai espressivo, la tradisce. “Aveva
una pistola. Era scarica. Un'altra volta era un pugnale e aveva una radio in
mano, ma Jordan l'ha fermata. Parla
con lei.”
I see a stranger in your eyes, where once I saw a
soulmate.
J. Střelou
“Assolutamente
no,” Bellamy dice prevedibilmente. Clarke decide di non concentrarsi su di lui.
Si era aspettata quella reazione.
“Il
tuo piano è folle,” commenta Murphy, picchiettando due dita contro le tempie. “Giusto.
Dove sarebbe la novità?”
“Almeno
questa volta sarà lei a fare da infiltrato,” commenta Raven a voce bassa, ma
udibilissima.
“Non
sarebbe un infiltrato,” ribatte Bellamy stizzito e l’occhiata che indirizza a
Raven potrebbe ghiacciare l’Inferno. “Diventerebbe un bersaglio. Russell sa che
è una sanguenero.”
Clarke
tamburella le dita sul tavolo e per la prima volta da quando si sono seduti,
incrocia lo sguardo di Bellamy. “Conto proprio su quello.”
*
Sente
i suoi occhi come se la stesse toccando fisicamente. Le perforano la pelle come
aghi. Cerca di non badarci; fallisce miseramente. “Smettila,” sbotta.
Bellamy
inarca le sopracciglia, preso in contropiede. “Di fare cosa?”
Ovvio
che non ci arrivi. “So di essere diversa,” spiega, sentendo ogni parola pesarle
sulla lingua come una pietra di fiume. “Sono passati dieci anni. Sono
invecchiata, Bellamy.” Sa di suonare sarcastica, tende a diventarlo sotto
pressione. Odia essere ironica su questo, ma è la verità e prima lui la
accetterà prima potranno andare avanti. “Hai visto i miei messaggi. Pensavi che
il sonno criogenico mi avrebbe fatta ringiovanire?”
L’espressione
sul suo viso cambia in modo imprevisto, incupendosi. “È questo il problema?
Credi che mi importi di questo?” Non c’è furia all’Inferno pari a quella di un
uomo convinto di essere stato accusato ingiustamente. “Del fatto che sei
invecchiata? Certo che mi importa,” ringhia ed è qualcosa che lei ricorda bene,
quello sguardo ardente nei suoi occhi. “Mi importa che non siamo invecchiati
insieme.”
Come
a rallentatore osserva la mano di Bellamy avvicinarsi al suo viso. Clarke si
ritrae prima che riesca a sfiorarla. “Non toccarmi,” dice sommessamente.
Chiude
gli occhi perché non sopporta l’espressione inorridita sul suo viso. È pallido
come un uomo morto. “Clarke.” Da quanto non lo sentiva pronunciare il suo nome
in quel modo? Con quell’intonazione a metà tra un tormento piacevole e una
furia accecante? No, non può quantificare il tempo, rischia di impazzire. “Non
capisco. È come se non fossi più tu.”
Oh,
pensa. Riapre gli occhi e sa che anche se non è pronta, è qualcosa che deve
affrontare.
“Non
lo sono infatti,” risponde e l’inverno nelle sue ossa ha raggiunto anche la sua
voce. “Quella persona è morta il giorno in cui è stata l'unica a svegliarsi con
cinquanta anni di anticipo. Ho pensato che sarei morta da sola. Di nuovo.
Ho vissuto con il terrore che non vi avrei mai più rivisto per dieci anni
finché quel terrore non si è trasformato in qualcosa di diverso e quando è
successo era troppo tardi per combatterlo, era già parte di me.”
Lo
guarda e sa di essere nel giusto. Lo guarda e si sente come se non potesse
sentirsi addolorata. Non puoi piangere per la tua stessa morte.
Bellamy
respira profondamente e deglutisce a vuoto. “Dimmi cosa posso fare,” sussurra
raucamente, con due caverne come occhi e una voce spenta.
“Non
c'è niente che tu possa fare perché non ha niente a che fare con te.” Rivelare
la verità è crudele, ma fingere e lasciarlo soffrire senza una spiegazione lo
sarebbe perfino di più. Dieci anni l’hanno resa più testarda, ma anche egoista.
“Tutto
ciò che ti riguarda ha a che fare con me.”
“Non
più,” lei ribatte duramente. “Non sono mai stata una tua responsabilità.”
Non
le passa inosservato il modo in cui Bellamy tenga le mani strette a pugno.
Quando si alza, stavolta lui non cerca di trattenerla. Ora ha paura persino di
toccarla. Clarke sente le dite fredde come il ghiaccio.
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Capitolo 3 *** III ***
3
CAPITOLO
III
Gli
occhi di Russell sono di una delicata sfumatura azzurro cielo, qualcosa che non
può davvero essere associato al cielo di questo pianeta, pardon luna, non
nelle ore diurne perlomeno. Nell’incrociare i suoi esprimono un’espressione che
non le capitava di vedere da una vita. Compatimento. Simpatia.
“Clarke
Griffin,” la saluta con un cenno rispettoso, invitandola a sedersi con un ampio
gesto del braccio. Un modo per farle capire che in questo incontro la riconosce
come suo pari. “I racconti delle tue gesta ti precedono.”
Clarke
schiocca la lingua e gli si siede di fronte. La tavola riccamente imbandita le
provoca una violenta ondata di nausea. Pensa a Bellamy e si
chiede se anche lui abbia provato lo stesso, se anche lui si sia sentito
intrappolato in questa versione distorta di ricordo. Persone riverse su
tavole apparecchiate come se fossero addormentate, unico indizio di quanto
successo gli sfregi tumefatti sulla loro pelle già fredda, le smorfie di dolore
e terrore sulle loro bocche atrofizzate nel rigor mortis.
“Sono state
ampiamente esagerate,” replica per rompere il silenzio, per scacciare i
fantasmi che popolano il buio dietro le sue palpebre chiuse ogni volta che osa
cercare un attimo di stallo e quiete.
Il
sorriso che lui le rivolge in risposta è uno specchietto per le allodole,
contiene la blandizia ingannevole di una lusinga. “Non credo sia questo il caso
e ora che ti vedo so per certo che tutto quello che ci è stato detto su di te
corrisponde al vero.” Da vaga che era, la luce nel suo sguardo sembra ardere
più brillante e pericolosa. Non è più profonda nostalgia, ma bramosia,
ambizione folle mossa dalla disperazione più nera. “Tu mi ricordi qualcuno che
ho perso.”
Clarke
non si lascia commuovere. C’è stato un tempo, pensa, in cui un’affermazione del
genere avrebbe smosso qualcosa dentro di lei. Non oggi. Non più. Non quando ci
sono le vite di sua madre e di sua figlia in gioco. “Mi dispiace per la tua
perdita,” commenta impassibile. “Arriviamo al punto. So che avete rapito mia
figlia e mia madre. Restituitecele e non vi uccideremo.” A giudicare dall’espressione
attonita di Russell, il suo sguardo deve rispecchiare alla perfezione il suo
umore. È gelido e selvaggio.
“Non
sei stanca di essere una distruttrice di mondi?” domanda la donna seduta accanto
a Russell. Sa che è la moglie di Russell, ma non ricorda il suo nome. Non che
abbia qualche rilevanza per lei. Assassina, sussurra una voce dentro di
lei e la crudeltà di ALIE nel corpo di Raven mette radici nella sua mente. I
mostri che ha combattuto sono diventati parte di lei, li ha assorbiti nel momento
in cui li ha abbattuti.
“Non sei stanca di portare con te la morte ovunque tu
vada? Sei come veleno. Nessuno è al sicuro con te vicino.”
Crede
davvero che pozza spezzarla con così poco? È più forte di quello che pensano.
Il peso delle scelte impossibili non grava più sulle sue spalle come il mondo
per Atlante. È scomparso nel momento in cui ha accettato la verità. La verità
non uccide, ma fortifica. La verità l’ha affrancata, l’ha resa indistruttibile.
“Sono quello che sono e non intendo scusarmi per quello che ho fatto.” La sua
voce non trema, non tentenna. Perché dovrebbe? Sono altre le cose che la
terrorizzano, capaci di toglierle il sonno e la ragione: una fossa di
combattimento imbrattata da vecchie incrostazioni di sangue, il silenzio
intollerabile di una navicella deserta, il puntino rosso di una registrazione
in atto, giorni che si trasformano in mesi e mesi che si trascinano in anni,
una solitudine che tracima in pazzia.
“Avete
ragione. La mia fama mi precede. Sapete di cosa sono capace. Non ho scrupoli
quando si tratta di proteggere le persone che amo. Voi avete qualcosa di mio,”
dice, inarcandosi in avanti, “e brucerò il mondo che conoscete pur di riaverlo
indietro.”
Capisce
dallo sguardo che si scambiano che è una minaccia che non hanno alcuna
intenzione di prendere alla leggera. Le storie di Jordan devono aver reso appieno
l’idea di chi è e di cosa è disposta a fare e quello che in un’altra occasione
sarebbe stato un errore strategico e una mossa avventata può essere sfruttata, trasformandosi
in un vantaggio determinante. Che sappiano cosa li aspetta. Che siano
consapevoli del rischio che stanno correndo. Lo scopo di questo parley è
stato questo sin dall’inizio.
Li
lascia conversare tra di loro e ripensa alle informazioni finora raccolte.
Troppo poche per organizzare un’operazione di salvataggio. Il numero di guardie
che ha visto e -
“Abbiamo
una proposta.” La voce di Russell si intrufola nelle sue stime, riportandola
alla realtà.
Clarke
rimane in silenzio, un chiaro invito a parlare.
Simone,
ecco il nome della donna dal volto triangolare, si protende e afferra la sua mano
destra. Russell fa lo stesso con la sinistra. Clarke osserva la parvenza di
cerchio che le loro braccia hanno creato e aggrotta le sopracciglia. “Se
potessi salvare loro o te stessa, cosa sceglieresti?” domanda Simone.
Clarke
non batte ciglio. Ha già fatto quella scelta molto tempo fa. “Perché lo
chiedete?”
Entrambi
stanno sorridendo adesso ed è un sorriso che le fa accapponare la pelle.
Esprime un inspiegabile sollievo, ma anche qualcosa di torbido. Le riporta ancora
alla memoria un reparto di quarantena, corpi deturpati dalle radiazioni.
“Ti
proponiamo uno scambio,” chiarisce Russell.
“Che
genere di scambio?
“Te
per la tua famiglia,” lui risponde. “Sai come sopravviviamo. Abbiamo scoperto
un modo per sconfiggere la morte. Per noi niente finisce. I tuoi amici te lo
avranno già raccontato. Sei anni fa abbiamo perso nostra figlia. Ti stiamo
chiedendo di offrirti come ospite. Pensaci, Clarke. Niente più battaglie.
Salveresti la tua gente, evitando un inutile spargimento di sangue. Saresti in
pace finalmente.”
Clarke
non riesce a decidere cosa sia peggio, osservare come queste persone abbiano
perso a tal punto la loro umanità da distorcere un atto di egoismo con uno di
clemenza, o il fatto che una parte minuscola di lei, per un istante che si
estende all’infinito in un parossismo della sua instabilità emotiva, abbia seriamente
preso in considerazione l’alternativa che le stanno offrendo. Non pace, ma
la fine del dolore.
“Lasciate
che ci pensi,” risponde con prudenza, ma l’attimo di debolezza è passato. Non
si offrirà come vittima sacrificale all’altare della loro cupidigia, non spontaneamente.
“Certamente,”
dice Russell. “Come dimostrazione della nostra benevolenza e della rinnovata
amicizia tra i nostri popoli siamo disposti a portarti da tua figlia.”
Ma
non a lasciarla andare, pensa lei cupamente.
*
"Mamma?"
Madi batte le palpebre, intontita e non ancora del tutto sveglia. "Sei
sveglia."
Clarke
osserva il momento in cui la confusione sul volto di sua figlia si trasforma in
euforia e quando succede è come se la trasfigurasse. I suoi occhi si sgranano e
le rivolge un ampio, buffo sorriso e sì, forse è stupido sentimentalismo, ma
sono trascorsi dieci anni dall'ultima volta che l'ha vista, sei mesi per lei e
oh, com'è cresciuta. Le scosta i capelli dalle tempie e non riesce a trattenere
oltre il bisogno di abbracciarla.
"Lo
sono e lo rimarrò finché non troviamo una soluzione."
Quando
si scosta, gli occhi di Madi divorano avidamente i cambiamenti in lei come se
dovesse mappare una nuova costellazione del firmamento, alla ricerca di una
stella perduta o errante. Qualsiasi cosa si aspettasse, non deve averla trovata
perché il piacere con cui la guarda ora ha assunto una sfumatura di disappunto
e di ansia.
"Non
hai ancora visto Bellamy?"
"Era
lì quando mi hanno svegliata," lei risponde distratta e da vaga che era, la
contrarietà di Madi diventa concreta. Impossibile non notarla. Si acciglia. C'è
qualcosa di cui non è al corrente?
Prima
che possa elaborare in parole il turbinio di pensieri, Miller la richiama dalla
porta a cui sta facendo la guardia. "Clarke, dobbiamo sbrigarci."
"Giusto,"
lei dice. Non hanno tempo per questo, qualunque cosa 'questo' sia. "Madi,
ascoltami. Ho stretto un accordo con Russell. Sono disposti a lasciarti andare,
a patto che io prenda il tuo posto." È una clamorosa bugia, ma non serve
che lo sappia. Quando si accorgeranno di quello che ha fatto, sarà troppo
tardi. Sa cosa l’aspetta. Madi sarà al sicuro. È tutto quello che le
occorre sapere.
Madi
sta già scuotendo la testa e ha un'espressione di ostinata determinazione.
"Non ho intenzione di lasciarti."
"Non
mi stai lasciando," la rassicura perché è la pura verità. "Non è una
tua scelta. Miller ti riporterà all’Eligius." Distoglie lo sguardo da Madi
per fissarlo su Miller, assicurarsi che lui abbia sentito. Lui annuisce e lei
sente un peso sgravarsi dalle sue spalle. "Io ti raggiungerò appena
possibile."
A
Madi non deve essere passato inosservato quel breve scambio. Le pare quasi di
sentire il frenetico lavorio dei meccanismi nella sua testa, lo sforzo con cui
sta connettendo i fili dietro il suo comportamento. "Stai mentendo,"
conclude, valutando la sua reazione. "Perché? Cosa mi nascondi?"
Senza
farsi notare, lei si lascia scivolare nel palmo della mano l'anestetico che teneva
nascosto nella manica del giubbotto in via precauzionale. La abbraccia di
nuovo, più stretta e cerca di non pensare al fatto che questa sia l'ultima
volta che succede, di ricacciare indietro il groppo in gola che saperlo le
provoca. "Madi, ti voglio bene. Sei la persona più importante per
me."
Qualunque
sia la conclusione che ha dedotto, Madi ricambia l'abbraccio con uguale forza e
appoggia la fronte contro la sua spalla come non ha più fatto da molto tempo. Le
piace credere di non essere più una bambina, ma parte di lei lo sarà sempre ed
è quella parte che adesso sta prendendo il sopravvento. "Clarke, mi stai
spaventando."
"Sei
mia figlia. La mia bambina. Anche quando non ci sarò più. Non dimenticarlo, va
bene?" Ti voglio bene. Ti voglio bene. Preme l'anestetico contro il
collo di Madi ed è una questione di secondi prima che il corpo di sua figlia si
accasci tra le sue braccia, pesante e privo di conoscenza.
Miller
si sposta dalla porta e la prende in braccio senza che debba chiederglielo.
Clarke
si asciuga il bordo degli occhi il più discretamente possibile. "Te la
affido. Portala al sicuro."
Sa
che non c'è tempo, ma si allunga per accarezzare il volto di Madi un'ultima
volta. Può percepire lo sguardo di Miller su di lei quando le chiede: "Cosa
mi dici di te?"
Mentire
non è difficile, ma è come bloccata. "Saprò cavarmela. Sono fatta di una
fibra più resistente.”
"Non
mi piace," commenta Miller. "Cosa dovrei dire a Bellamy?"
Le
sue dita non hanno ancora abbandonato la fronte di Madi. Traccia il contorno
delle sue sopracciglia con il cuore pesante. Intanto pensa a un volto
completamente diverso, altrettanto amato. "Non dirgli niente." Si
sforza di sorridere, anche se fa male come se stesse tastando una ferita aperta
prima di suturarla. (Quante volte ha dovuto farlo negli ultimi sedici anni?
Ricucirsi da sola? Se si guardasse in uno specchio la sua pelle sarebbe un
assembramento di tessuto cicatriziale. La testimonianza nuda e cruda di com’è
sopravvissuta.) Ripensa alle ultime parole che gli ha rivolto, forse le ultime
che gli dirà mai, parole cattive che non rispecchiano affatto ciò che prova.
Non sa come rimediare, se può. Per la prima volta da quando ha compiuto
trent’anni, sente che potrebbe piangere per la tempesta che imperversa nella
sua mente.
“Lo sa già,” si rassicura. O almeno è ciò che spera.
*
"Cosa
significa che non è con te?"
Bellamy
si trattiene a stento dallo scrollarlo. Innanzitutto perché si tratta di Miller,
in secondo luogo perché la sua espressione devastata serve a dirgli tutto ciò
che gli occorre sapere.
"Esattamente
quello che ho detto," risponde Miller e sembra che ogni parola gli venga
strappata. "È rimasta indietro. Ha detto che tu avresti capito."
Capire
cosa? Che l’ha persa di nuovo, che è stato talmente stupido da lasciarla andare
in avanscoperta in una missione potenzialmente suicida, ben sapendo cosa
rischiava, il pericolo che correva?
"Bellamy,
Madi si è svegliata," dice Echo, comparendo alle sue spalle. Il suo volto
teso nella luce giallastra del corridoio lo mette subito in allerta. "Penso
che tu debba venire in infermeria."
*
Le
urla lo raggiungono mentre è ancora in corridoio. Urla strazianti ed è quasi
impossibile descrivere l’orrore e la paura che esprimono, la reazione di
tensione estrema che automaticamente ottiene in chiunque le ascolti. Percorre
gli ultimi metri correndo ed entra trafelato. I suoi occhi sono subito
calamitati dalla figura stesa sul letto nell'angolo. È rannicchiata su sé
stessa e le sue urla rimbombano contro le pareti.
"Cosa
sta succedendo?"
Se
possibile Jordan e Gaia sembrano più ansiosi di lui. Accanto a lui Jackson ha
una siringa in mano. "Non lo so. È così da quando ha ripreso conoscenza.
Non lascia che nessuno la tocchi."
Lui
annuisce e si avvicina cautamente. Sentendo il rumore di passi, Madi si volta
di scatto come un animale braccato. Sembra rilassarsi impercettibilmente nel
vederlo ed emette un sospiro. Il sollievo è momentaneo. La sua espressione si
accartoccia di nuovo ed emette un verso gutturale che gli spezza il cuore.
Prima che se ne renda conto, lei è pigiata contro il suo petto e sta piangendo inconsolabilmente.
Lui le accarezza piano la testa. "Madi, ehi. Sei al sicuro adesso."
"Non
capisci," la sente farfugliare. "Lo sta facendo di nuovo. Dobbiamo
tornare indietro. Potrebbe già essere troppo tardi."
Ci
mette un attimo a registrare le sue parole. In quello successivo ogni
emozione
è attutita ed è attraversato da un brivido. "Frena. Madi.
Madi. Rallenta. Di cosa stai parlando? Chi sta facendo cosa?"
"Clarke.
È rimasta indietro.” Un altro singulto, parla così velocemente che le parole si
accavallano. “Lexa mi aveva avvertito. Non l'ho ascoltata. Ha preso il mio
posto. Cercavano un ospite e ora l'hanno trovato. La uccideranno. Si è offerta
volontaria per salvarmi, per salvare tutti noi."
I
minuti successivi sono una macchia confusa. Ricorda di essere rimasto con Madi
mentre Jackson la anestetizzava e di averla lasciata alle cure di Gaia, di aver
intravisto il volto stravolto di Jordan mentre si lasciava cadere in un angolo
come se non si raccapezzasse di quanto accaduto.
Quando
Raven lo raggiunge, bloccandogli il passaggio, lui la indirizza verso
l'infermeria. "Resta con Jordan," ordina e si guarda attorno con
occhi spiritati. "Dov'è Miller?"
Raven
lo fissa con le sopracciglia aggrottate. "Cosa hai intenzione di
fare?"
Quando
non lo lascia passare, lui dà un pugno al muro. Il dolore riverbera lungo il
braccio e fino alla spalla. Serve allo scopo. La sua testa si sgonfia di ogni
altro pensiero e Clarke diventa solo un'ustione, non più una lacerazione.
Raven
è abbastanza distratta dal gesto. Riesce a superarla e a dirigersi verso il
ponte di comando. "Sapevo che lasciarla andare da sola non era una buona
idea. Lo sapevo."
"Non
potevi sapere che sarebbe arrivata a questo," lei ribatte seguendolo.
"Sì
invece. Questo è ciò che fa, che ha sempre fatto. Sacrificarsi per salvarci
tutti? È esattamente da lei. Non sarebbe la prima volta."
*
"Abbiamo
proposto a Clarke un accordo e lei ha accettato," afferma Russell.
Bellamy
deve trattenersi dal mettergli le mani attorno al collo. “L'avete uccisa.”
“Ha
scelto di sacrificarsi per salvare le vostre vite. Sapeva che la pace ha un
costo ed era disposta a pagarlo. L'accordo è ancora valido. Abby Griffin verrà
rilasciata all'istante se voi accetterete le condizioni della tregua.”
Accettarle?
Hanno la minima idea di quello che hanno fatto, di cosa hanno scatenato? Hanno
portato la guerra sulla loro porta e se prima sarebbe stato possibile evitarla se
avessero restituito Madi e Abby incolumi, ora è –
“Dovreste
esserci grati,” interviene una voce familiare e Russell non è l’unico ad
irrigidirsi. Indra si incupisce ed è qualcosa di incredibilmente singolare
riuscire a cogliere la lievissima frattura nei suoi nervi d’acciaio. Echo gli
si avvicina, frenandolo con una mano sul braccio ancora prima che lui possa
pensare di tramutare in aggressività il crepacuore che gli sta squarciando la
gabbia toracica. Può percepire il calore irradiato dal suo corpo solido e
letale. Si volta lentamente e quello che vede lo trasforma in un mostro a sangue
freddo, con ghiaccio a scorrergli nelle vene e l’istinto di uccidere.
“Josephine,”
la richiama Russell e il tono e lo sguardo che dardeggia da loro a lei e
viceversa sono pregni di avvertimento.
La
donna che indossa il volto di Clarke, che cammina nel corpo di Clarke, che
parla con la sua voce, non sembra scalfita dal rimprovero. Indossa gli stessi
vestiti in cui l’ha vista l’ultima volta, ma lo sguardo nei suoi occhi fa
crollare l’ultimo barlume di illusione e rivela quanto solo ad un’occhiata approfondita
diventa visibile. Clarke non c’è più.
“Non
fingete che vi stesse a cuore,” parla con voce strascicata, provocatoria e si
muove come Clarke non avrebbe mai fatto, ondeggiando leggermente le anche. Gli
sembra che qualcuno gli abbia conficcato un pugnale in petto. “Vi importa
davvero che sia morta? In realtà la odiavate e chi potrebbe biasimarvi? Ognuno
di voi la incolpava per qualcosa. Ti ha lasciato a morire in quella fossa di
combattimento. E tu stavi per essere impiccato, giusto?” domanda, voltandosi
verso Murphy che la osserva impietrito. Si picchietta la fronte. “Ho accesso ai
suoi ricordi. So le cose atroci che ha fatto e come il senso di colpa la stesse
torturando. Tutte le persone che ha ucciso, nemici e amici. Tutti quegli anni
trascorsi da sola mentre il resto di voi dormiva, tutti quegli anni a fissare
le stelle, chiedendosi se vi avrebbe mai rivisti, tutte quelle scelte
impossibili. Non era un eroe, anche se le piaceva pensare di essere una dei
buoni.”
“Non
parlare di lei come se la conoscessi,” sbotta. “Tu non sai niente.”
“So
quanto basta.” Gli occhi chiari e limpidi di Clarke si fissano su di lui e c’è
una luce predatoria e irridente. Inclina la testa su un lato e si prende una
ciocca di capelli tra le dita, giocandoci. “Voleva farla finita. Ci ha provato
così tante volte, lo sapevate?”
“Non
osare-”
“Bellamy!”
urla qualcuno alle sue spalle, ma lui è già piombato su di lei e l’ha spinta
contro il muro, afferrandola per la gola e coprendo quel sorriso con la mano
come se potesse cancellarlo. Sbagliato. Quel sorriso è sbagliato sul
viso di Clarke, così come lo è l’espressione con cui lo sta guardando, come se
fosse divertita, come se l’intera situazione fosse un passatempo e–
Gli
iniettano qualcosa nel collo e quando cade, il viso della non-Clarke è chino su
di lui, l’ultima immagine che si scolpisce nelle sue cornee prima di perdere
conoscenza sono le infinite, minuscole differenze con la sua Clarke.
*
“Sei
stato grande lì dentro. Dico sul serio. Se il tuo scopo era farci uccidere,
sappi che ci sei quasi riuscito.” Murphy muove le catene che li tengono bloccati
al pavimento. Bellamy non si volta a guardarlo, ma sa che ha roteato gli occhi.
“Perciò adesso è lo sciopero del silenzio? Cosa hai intenzione di fare? Domanda
stupida. Perché non puoi lasciar perdere? Clarke ha fatto la sua scelta.”
Basta
la menzione di lei a provocargli un’ondata di nausea e odio per sé stesso. “Non
è stata una scelta. L'hanno costretta.”
Si
aspetterebbe una battuta o una risposta mordace, invece quando parla, la voce
di Murphy è grave e pacata. È un aspetto di lui che raramente emerge. Murphy di
solito preferisce nascondersi dietro lo stratagemma di battute da repertorio,
in un meccanismo di difesa che lo distanzia dagli altri ed è la sua valvola di
sfogo. “No, non l’hanno fatto, ma non fa alcuna differenza per
te, non è vero? Non vuoi lasciarla andare.”
L’idea
è inconcepibile. Ci sei già riuscito una volta, dice una voce dentro di
lui, una che è uguale a quella di lei in tutto e per tutto. Ricordi? Sei
anni sull’Anello. Hai creduto che fossi morta e sei andato avanti, mi hai
dimenticata. Cos’è una volta in più?
No.
Si prende la testa tra le mani, nasconde il viso. Non di nuovo. Non può
rifarlo. Se anche la prima volta è sopravvissuto, ora è impensabile. Non ora
che sa delle chiamate radio, non dopo le registrazioni. Non si ama per essere riamati,
ma quando lo si è… quando lo si è. “Non posso,” mormora con voce rotta dall’emozione.
“Ci
stanno offrendo una tregua. So che è difficile, so che lo odi, ma ragiona. Pensi che lei avrebbe voluto questo?”
“Non
so cosa Clarke avrebbe voluto. È un peccato che non possiamo chiederglielo.”
“Bugiardo.
Lo sai perfettamente invece.”
Sì,
lo sa. Anche se non vorrebbe. “Io so solo che se fosse stata al nostro posto,
se avessero fatto ad uno di noi quello che hanno fatto a lei, avrebbe ridotto
questo posto in cenere.”
“Forse,”
concede Murphy. “Non avrebbe voluto che facessimo lo stesso per lei. Non lo ha
mai voluto. Ha sempre pensato di essere sacrificabile ed è esattamente il
motivo per cui avrebbe voluto che facessimo il nostro meglio. Essere i buoni.
Di certo non rischiare le nostre vite per vendicarci. Si è offerta
volontariamente.”
Di
nuovo quelle parole, le stesse usate da Russell. Le odia e odia lei per averlo
messo in questa posizione, per averlo costretto ancora una volta a farsi carico
del mondo da solo. (Continuano a ribadire che si sia stata una sua scelta, come
se questo rendesse accettabile l’abominio di cui si sono resi colpevoli, ma che
scelta è una del genere? Che razza di vita è una che ti costringe a fare una
scelta del genere, a scambiare la tua libertà per salvare quella della tua
famiglia? E cosa dice di tutti loro che glielo abbiano permesso?) “Sì, per
salvare tutti noi! Di nuovo!”
“Possono
aiutarci.” Murphy non sembra scalfito dalla sua veemenza e all’improvviso lui non
vuole più ascoltare quello che ha da dire, la ragionevolezza delle sue affermazioni.
“Conoscono il terreno. Possono mostrarci come sopravvivere, costruire i nostri
complessi come avevano promesso.”
Ma
a quale prezzo?, lui vorrebbe urlare. Non gli interessa, non se il prezzo da
pagare è Clarke.
“Sai
qual è la cosa peggiore?” domanda ed emette un verso soffocato, a metà tra una
risata amara e un singhiozzo incastrato in gola. Si passa una mano tra i
capelli, trapassandoli da parte a parte. “Sono stato io a svegliarla. Sapevo
cosa sarebbe successo. Sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvare Madi.
Sapevo che il suo piano era rischioso. Sapevo che sarebbe stata un bersaglio.
Lo sapevo e l'ho lasciata andare lo stesso.”
È
colpa sua ed è una colpa che non riuscirà mai ad espiare, che non si perdonerà
mai. Sente la mano di Murphy sulla spalla e non gli è di alcun conforto. Non
riempie il vuoto abissale dell’assenza di Clarke.
“Non
saresti mai riuscito a fermarla. Non te lo avrebbe permesso. Follemente
coraggiosa o completamente folle. Ostinata
fino al midollo.”
Murphy
scoppia a ridere e anche se suona strozzata, Bellamy ride a sua volta, portandosi
una mano al viso. “Suona come lei.”
L’attimo
di ilarità ha breve durata e nel silenzio fragoroso che segue, Murphy dice
esattamente quello che lui aveva bisogno di sentirsi dire. “Se non l'avessi
svegliata, avrebbero ucciso Madi e Abby.”
Non
possono saperlo con sicurezza. Bellamy sospira. “Lo so.”
“L'avresti
persa lo stesso.”
“Mi
odierebbe,” lui lo corregge stancamente e si chiede se sia così che si è
sentita anche lei, logorata e sola e vecchia, “ma almeno sarebbe ancora viva.”
*
“So
che non è facile accettarlo, ma dobbiamo andare avanti. Dobbiamo sopravvivere.
È quello che lei avrebbe voluto.”
Le
sue parole suonano vuote alle sue stesse orecchie. Lo sguardo che Abby gli
rivolge trabocca dello stesso senso di vuoto incommensurabile.
“Conosco
il mio dovere,” lei ribatte seccamente, abbracciandosi come se stesse cercando
di proteggersi dal dolore, ma allo stesso tempo riconoscendo che si tratta di
un vano tentativo. Il dolore vive già dentro di lei. “Ho perso mio marito per
il bene comune. Ho perso Marcus. Ora ho perso anche mia figlia.”
*
È
viva. Rinchiusa nella sua stessa mente come in una cella della skybox. È viva e
lui può ricominciare a respirare.
There's a corner of my heart that is yours. And I
don't mean for now, or until I've found somebody else, I mean forever. I mean
to say that whether I fall in love a thousand times over or once or never
again, there'll always be a small quiet place in my heart that belongs only to
you.
-Beau Taplin
Dopo
che anche Monty è scomparso, Clarke ripercorre i corridoi del suo spazio
mentale. Apre una porta a caso e si trova nella fossa di
combattimento. Schiena contro il muro, si accascia sul pavimento. Si passa le
braccia attorno alle caviglie e appoggia la fronte contro le ginocchia.
"Va'
via," brontola, quando sente un rumore di passi. Invece di allontanarsi,
l'intruso si avvicina e si lascia cadere con un tonfo accanto a lei. Lo sente
canticchiare a bassa voce una melodia che le sembra di riconoscere (giorni
di sole rubati alla guerra, una presenza salda alle sue spalle pronta a sorreggerla
in caso di caduta, un ragazzo con un sorriso tagliente come una lama di pugnale
e le nocche quasi sempre scorticate. Combattere contro la fame e la stanchezza,
costruendo un’utopia di nuovo tra le macerie di un mondo al collasso). Solleva
la testa e lo fissa di traverso. È più giovane, simile a com'era quando lo ha
lasciato dopo Mount Weather, ma le sue ferite sono localizzate in zone diverse.
Ci sono abrasioni sulla sua guancia sinistra e un’altra vicina all’occhio
destro. Ha un labbro spaccato e – capisce. Sa perché la sua mente ha
scelto proprio questa versione di lui, estratto dal giorno in cui le ha insegnato
come maneggiare un’arma da fuoco, in cui ha ucciso Dax. Il giorno in cui ha
ammesso di avere bisogno di lui. Se fosse una persona vanitosa, quasi
ammirerebbe questa dimostrazione di logica pragmatica da parte del suo
subconscio.
"Sei
un frammento della mia immaginazione," lo accusa.
Lui
annuisce, imperturbato. “Lo sono.” Sta mangiando qualcosa e gliela porge. Sul
palmo aperto, rotonde e tendenti al verde, le noci Jobi di Monty e Jasper.
Lei
sopprime l’impulso istintivo di fargliele cadere, ma quando lo vede masticarne
una seconda e poi una terza non può evitare una smorfia. “Perché sei ancora
qui?”
“Sei
tu quella intelligente, principessa. Dimmelo tu.”
“Se
non riesco più a farmi obbedire dalle mie proiezioni significa che non ho più
potere nella mia mente. Josephine ha vinto. Sto scomparendo.”
“Oppure
stai mentendo a te stessa. Tu vuoi che sia qui.”
Clarke
corruga la fronte. Non perché non ci sia del vero in quello che ha detto, ma
perché osservarlo così, con la barba rasata e l’aria arrogante, ricoperto di
fango e con escoriazioni recenti a marchiargli la pelle, la turba più di quanto
le piaccia ammettere.
“Se
questi sono i tuoi ultimi momenti, sappiamo entrambi con chi vorresti
trascorrerli. Ecco perché mi trovo ancora qui,” conclude lui con un ghigno di
supponenza. I suoi occhi si piantano nei suoi e sono come quelli del Bellamy
che conosceva prima del Praimfaya, perseguitati e prepotenti. Aveva dimenticato
quanto fosse cocciuto e cosa provasse allora, quanto la facesse sentire viva
scontrarsi con lui, litigare per avere l’ultima parola. “Tu vuoi che io
sia qui,” ripete una seconda volta. “Non negarlo.”
Quando
le poggia una mano contro il viso, lei non si ritrae, non questa volta, non
quando ha la sicurezza che -reale oppure no- sarà l’ultima volta. Lascia che il
calore ingannevole le intiepidisca la pelle, ingentilisca in modi che le sono
incomprensibili le rovine diroccate che un tempo sono state la sua forza, la
sua capacità di agire con prontezza e scegliere tra due mali il minore. Piega
la testa e si sposta per averlo più vicino, sentire la consistenza ruvida dei
calli e credere per un istante, uno soltanto, di poter tornare indietro nel
tempo. A quando tutto sembrava incredibilmente difficile e che ora, con
l’assennatezza derivata dall’esperienza e la saggezza indesiderata della
giovinezza sfumata, appare invece facile e la riempie di nostalgia nonostante
le impervietà e imperfezioni da cui non era esente.
“Sei
così giovane,” mormora contro la sua pelle.
Bellamy le scosta i capelli dal viso. Sono lunghi e scarmigliati come li portava allora, una massa di trecce biondo sporco. Sembra che tra le sue ciocche sia nascosta un’intera polveriera o la sponda fangosa di un torrente. Quando avvicina la fronte alla sua, lei percepisce il suo
respiro contro il naso. “Anche tu.”
“Non
mi sento più giovane da tanto tempo.” È facile ammetterlo con questo aspetto,
quando non era ancora diventata Wanheda, quando non aveva ancora scritto una
lista di sopravvissuti condannando il resto a morte certa. Prima del Praimfaya,
prima di Madi, prima di dieci anni di solitudine con una spada al posto del
cuore.
Lui
sorride, un sorrido lento e quasi pigro, canzonatorio. La sua mano si è
spostata dietro la sua nuca, le sostiene la testa, mentre l’altra è rimasta
contro la sua guancia e con il pollice sfrega lo spazio umido sotto le sue
palpebre, asciugando la trasposizione di quella che non è più debolezza, ma
solo stanchezza. “Lo sei mai stata davvero?”
“E
tu?” domanda di rimando.
“Touché,”
lui risponde con una risata soffocata. Lo sguardo che le rivolge è affezionato,
colmo di tenerezza. Prima che l’attimo di coraggio che sta provando scompaia
nel risveglio del buonsenso, Clarke si sporge leggermente in avanti. (Perché
no? Già, perché no? Non ferirà nessuno al di fuori di sé stessa.) Quando
i loro visi sono talmente vicini che può contare le lentiggini che gli
cospargono a sprazzi il naso e gli zigomi, Clarke si ferma. Le ferite si sono
rimarginate e il Bellamy che la sta guardando, pieno di timore reverenziale e
come se temesse che lei possa scomparire da un momento all’altro se facesse la
mossa sbagliata, è molto più simile al Bellamy che le ha chiesto di rimanere
dopo Mount Weather, la prima volta che gli ha voltato le spalle. Ma non è lui.
Indossa le pellicce di un guerriero della nazione del ghiaccio e lei ricorda. Il
terrore, il sollievo, l’amore.
Tocca
in punta di dita il suo viso, come ricorda che lui abbia fatto quando l’ha
trovata legata e imbavagliata, quando lei ha supplicato Roan di non ucciderlo,
scambiando la sua vita con la propria. “Posso toccarti?”
Lui
annuisce, deglutendo, il pomo d’Adamo prominente e allo stesso tempo meno
pronunciato di quanto ricordasse. A separarli solo lo spazio di un respiro e i
mille, stupidi impedimenti che li hanno intralciati sin dal primo giorno.
Poggia le labbra contro le sue e lo sente tendersi e rispondere immediatamente,
come sapeva che avrebbe fatto. Non è un bacio gentile. È duro e affamato, una
battaglia tra forze uguali e contrarie. È il loro primo, ma serba anche un
senso di finalità che le fa venire le lacrime agli occhi. Quando si staccano
l’una dall’altro per riprendere fiato, non è l’unica ad avere il respiro corto
e gli occhi lucidi, l’espressione dolente di qualcuno a cui è appena stata
comunicata una notizia terribile.
“Mi
hai chiamato ogni giorno per sei anni e poi mi hai lasciato a morire in una
fossa di combattimento.”
“Sì,”
risponde, “e non c'è stato giorno da allora in cui non l'abbia rimpianto.”
Non
è più il ragazzo fiero, ma l’uomo pronto ad assicurarsi la sua incolumità, scambiandola
con le vite di duecentottantatré prigionieri. Ci sono sei anni di differenze da
scoprire. “Perché l'hai fatto?” lui domanda sottovoce.
Sa
che non può mentirgli, soprattutto non qui, nella riproduzione fedele del suo
rimpianto. “Perché ero arrabbiata con te e volevo che tu provassi lo stesso.
Avevi tradito la mia fiducia.”
“Parli
di Madi. O di Echo?”
“Entrambe
forse?” Scuote la testa, abbassando gli occhi. “Non lo so. Non sono più sicura
di niente ormai.”
“Perché
mi chiamavi?” lui insiste, mettendole un dito sotto il mento e costringendola a
voltarsi di nuovo verso di lui.
Lei
sospira. “Te l'ho già spiegato.”
“Vero,
ma quella era una registrazione. Non me lo hai mai detto di persona. Clarke. Avresti potuto fingere di parlare con chiunque
altro, invece hai scelto me.”
Non
sa cosa la convinca. Forse è l’appello contenuto nei suoi occhi (anche se ora
mostra i segni del tempo, gli occhi sono rimasti quelli del Bellamy che ha
abbracciato quando cercavano Luna con Jasper e Octavia. Non sa come sia
possibile. Si chiede se in fondo non siano mai cambiati, se invece è stata lei
a non riconoscere quella luce di supplica e assoluzione, se è sempre stata lì sin
dall’inizio e se è stata davvero così cieca da non vederla subito per quello
che era.) “Ho scelto te perché non ho mai sentito l'esigenza di parlare con gli
altri.” L’ammissione quieta non le provoca alcun dolore aggiunto e forse è
questo il primo passo per guarire. Non limitarsi ad ammettere che esista un
problema, ma smettere di rinnegare i sintomi che hanno provocato il peggiorarsi
della malattia. “Mi mancava la loro compagnia, ma non come mi mancavi tu. Non
si può vivere senza il proprio cuore. Credimi, io ci ho provato per sedici
anni.” Si morde l’interno della guancia abbastanza forte che il sapore del sangue
le invade la bocca. “Mi manchi,” mormora, sfiorandogli una guancia e tocca a
lui adesso girare il volto, accostare le labbra al suo polso e lasciarle lì
nella parvenza di un bacio di pura devozione.
“Sono
proprio qui,” lo sente dire.
“Non
questa versione di te, ma quella che non ho ancora perso.”
“Non
mi hai mai perso,” lui promette. “Nessuna parte di me.”
“Vorrei
che fosse vero. Vorrei che mi avessi perdonato.”
“L'ho
già fatto. Centoventicinque anni fa.” Sembra così sicuro, così fiducioso. Come può
non credergli? Specialmente quando continua a guardarla in quel modo e le tende
le braccia. “Tu puoi dire lo stesso di te stessa?”
Per
la prima volta in anni il freddo retrocede e così la solitudine, il senso di
colpa che vive nella sua ombra. Seduta nella fossa di combattimento in cui lo
ha abbandonato a morire, le braccia di Bellamy avvolte attorno a lei, sente che
potrebbe piangere da un momento all'altro e non è per la tristezza.
*
Il
corpo di Clarke ha un sussulto e ricomincia a respirare con boccate agonizzanti
dal suono raspante. Più tardi, quando è troppo esausta per continuare a parlare,
si addormenta con le dita strette attorno alla sua mano.
Mai più, lui giura a sé stesso, scostandole i capelli dal viso e
sfiorandole la fronte con le labbra in un bacio che intende sugellare la sua
promessa silenziosa. Mai più.
*
Si
sveglia e per un attimo non ricorda dove si trova, cosa è successo. Nella
penombra, la tenda potrebbe essere il laboratorio di Becca. È di nuovo sull’Eligius
e il suo baccello continua a non funzionare. (Ha sempre vissuto di giorni
rubati, tra una catastrofe e l'altra, aspettando, combattendo, cadendo e
rialzandosi.) Poi ricorda. Le ore trascorse prima che il sonno avesse la
meglio, le verità bisbigliate che si sono scambiati, cercando di colmare in una
manciata di ore sei mesi di lontananza per lei e dieci anni per lui. Lui le ha
raccontato della rottura con Echo, di quanto gli risulti ancora difficile
perdonare Octavia, di Jordan e di Madi, del nuovo pianeta e di notti tormentate
trascorse accanto al suo baccello. Lei gli ha raccontato di una solitudine così
profonda da averla convinta di non poter trovare alcuna parvenza di conforto,
come vagare in un deserto senza viveri e senza il conforto di zone d’ombra sotto
un sole cocente, desiderando solo che finisca. Convincersi che non può più trattarsi
di semplice sfortuna, troppe tragedie non possono essere semplici coincidenze e
che allora devono essere il frutto delle azioni compiute, che si riceve quello
che si merita. Anelare il contatto fisico al punto da sentirsi lacerata, come
se qualcuno la stesse divorando dall’interno, al punto che essere toccata da
lui quando si è risvegliata è stato uno shock, come essere attraversata da una
scossa elettrica.
Ricorda.
È morta e poi non lo è stata più. Lui l’ha salvata. Da Josephine e da sé
stessa.
Quando
cerca di mettersi a sedere, la testa le gira vorticosamente. L'unica cosa che
la ancora alla realtà è la mano saldamente intrecciata alla sua. L’uomo a cui
la mano appartiene, dorme a poca distanza da lei, in una posizione che deve
essere tutt’altro che comoda. Anche nell’incoscienza i muscoli facciali sono
contratti in un’espressione di preoccupazione e l’angolazione del corpo è
disposta in modo che sia il più vicino possibile a lei, come se anche nel sonno
il suo primo istinto fosse quello di vegliare su di lei.
Clarke
non si trattiene dallo scostargli i capelli dalla fronte. Il suo sonno deve
essere più leggero di quanto pensasse perché gli occhi di Bellamy si spalancano
all’improvviso e si fissano nei suoi con un’urgenza e una trepidazione che ha
il potere di disarmarla.
“Clarke?” domanda con voce arrochita dal sonno e il
tono interrogativo è lo stesso di qualche ora fa, come se dovesse accertarsi
che lei sia davvero lei, che non si sia trattato di un sogno. È come se
l’ultima barriera che ha eretto per proteggersi fosse appena crollata, cedendo
ai colpi poderosi dell’ennesimo attacco indefesso. Non percepisce alcuna differenza
dentro di lei, ma qualcosa deve trasparire dal suo volto perché l’espressione di
Bellamy cambia completamente, repentinamente. I suoi occhi sono sospettosamente
luminosi e sembrano arricciarsi come se non riuscissero a contenere una
violenta emozione, le sue labbra si contorcono come se stesse cercando di non
piangere e Clarke riconosce quello sguardo, certo che lo riconosce. Il suo
cuore perde un battito e apre le braccia che tremano un poco, anche se pensa
che sia dovuto più al fatto di essere sopravvissuta a un’esperienza di
pre-morte. Lui esita ancora, nonostante non abbia mostrato il minimo dubbio la
notte prima, e lei ne intuisce il motivo mentre l’eco delle parole che gli ha
rivolto le rimbomba dentro, dura e spietata. Non toccarmi.
“Vieni
qui,” mormora e Bellamy non se lo lascia ripetere una seconda volta,
fagocitandola in un abbraccio che è un’apologia dei loro trascorsi,
un’ammissione di colpa reciproca.
“Mi
dispiace.” Preme il viso contro il suo collo, la lanugine della barba a pizzicarle
la pelle. Sospira e lo sente fare lo stesso. Non serve che gli spieghi a cosa si
riferisce. Sa che lui capirà. È Bellamy. Capisce sempre.
“Anche
a me,” lo sente dire in risposta e come lui ha compreso che lei stesse parlando
del loro ultimo incontro, tocca a lei fare lo stesso. Riconoscere la
frustrazione e la critica con cui condanna sé stesso per qualcosa che non
avrebbe potuto impedire neanche se avesse voluto, che non è dipeso in alcun
modo da lui, ma per cui si sente ugualmente, irrazionalmente responsabile. È
stato egoista pensare che i dieci anni che ha trascorso da sola non avrebbero
influenzato nessun altro oltre lei, che fosse l’unica ad essere cambiata.
Perché è cambiata, è vero, ma non al punto da essere irriconoscibile, non al punto
da continuare a rinnegare i sentimenti che prova per quest’uomo, soprattutto
non a causa di qualcosa di così meschino e deleterio come la paura. (Non del
rifiuto, ma dell’incognita, del pericolo che una felicità come quella
comporta.)
“Avevo
il terrore di finire i miei giorni in solitudine,” dice e la presa di Bellamy
attorno alla sua vita si fa spasmodica, si rafforza al punto da dolerle. Lo
sente tremare, non solo per quello che ha appena confessato, ma per la
prospettiva dell’alternativa, di quello che sono stati ad un passo dal perdere.
Ancora una volta.
“E
io che avrei dovuto spendere il resto della mia vita senza di te.”
Batte
le palpebre e non sa cosa stia provando di preciso, è un amalgama di gioia
furiosa e una sofferenza che non è necessariamente dolorosa, ma ha qualcosa di
catartico.
Si
scosta quel tanto che le basta per incrociare i suoi occhi e le mani di lui
corrono subito a sorreggerle il viso con delicatezza. Il modo in cui la sta
guardando, feroce protezione e un amore che non è possessivo ma oblativo, le fa
venire voglia di colmare la breve distanza che li separa per baciarlo. Lo
stesso desiderio è impresso chiaramente nei suoi occhi commossi. Non osa
sperare, ma… Ma.
“Sei
il mio cuore.” Le parole riecheggiano quelle dell’ultima registrazione che gli
ha lasciato, ma hanno un sapore diverso, meno amaro. Per un attimo le sembra di
avere di nuovo diciotto anni, di essere perennemente stanca e affamata, con una
mandria di ragazzini di cui occuparsi e un co-leader dal sorriso spavaldo a coprirle
le spalle sempre e comunque, oberata come si sentono tutte le persone giovani e
inconsapevolmente libera dagli errori che devono ancora essere commessi ed
espiati.
Il
sorriso che Bellamy le rivolge è lo stesso di quel ragazzo e allo stesso tempo
diverso, più maturo, consapevole. Ha qualcosa che l’altro non aveva, esprime
una contentezza calma e rassicurante, una pace che scaccia qualsiasi residuo di
torto o malevolenza potesse ancora esserci tra di loro. (E lo sa, sa che
la strada della guarigione è ancora lunga, ma con lui al suo fianco sembra meno
terribile e spaventoso pensare al futuro e proiettarsi al suo interno.) Nel
poggiarsi contro il suo, quando le loro labbra si sfiorano in un bacio rapido e
caotico, più adatto a dei ragazzini inesperti che a qualcuno della loro età, quel
sorriso sembra solo ingigantirsi. “Tu sei il mio.”
Chameleon-like, I am
trasformed by light.
-Erica Jong
La
trova tra la marea di persone che si abbracciano, felici che sia finita,
sollevati di essere sopravvissuti ancora una volta, mentre il sole trasforma il
mondo, ricreandolo daccapo, rendendolo luce pura.
Lei
gli va incontro, accelerando il passo e prima che si renda conto di quello che
sta succedendo, sono l'una tra le braccia dell'altro e la stringe così forte
che vorrebbe che quell’alba dorata non finisse mai. Sono vivi. Non è successo
niente di catastrofico, niente di irreparabile. Lei non è bloccata nello spazio
e lui su una luna aliena. Non lo aspettano giorni di tormento e una nuova,
lunga, penosa separazione. Sono vivi e sono insieme e se non è questa la
felicità, lui non sa cos'altro sia, non sa come chiamare questa bolla di calore
e perfezione che li circonda.
Nonostante
il lutto per la perdita di Abby, nonostante le rassicurazioni che si stanno dando
a vicenda, nonostante i suoi occhi traboccanti di lacrime, sa che anche per lei
è lo stesso. Lo sente nel modo in cui lo abbraccia, simile a quello di tanti
anni prima dopo l’anello di fuoco e la prima fuga da Mount Weather, in cui
respira affannosamente contro il suo collo mentre cerca di non scoppiare in
singhiozzi, in cui lo guarda e gli parla. Sedici anni, ma alla fine è tornata
da lui. Ce l’hanno fatta. Lei è lì. Ti tengo io.
"Rimango
più vecchia di te," la sente dire e lui ride, anche se gli occhi gli
bruciano e sembra che il petto possa scoppiargli da un momento all'altro.
"La
triste verità è che lo sei sempre stata. Troppo seria e matura per la tua età.
Dispotica e autoritaria dal primo giorno che ti ho conosciuta." Appoggia
la fronte contro la sua e chiude gli occhi. Percepisce le dita di Clarke
tracciare i contorni del suo viso, il tocco dei polpastrelli leggero come ali
di farfalla, bruciante come tizzoni ardenti contro la pelle. "Mi dispiace
non averti risposto in questi sedici anni."
"Dispiace
anche a me."
"Sono
qui adesso. Se lo vuoi. Se mi vuoi."
La
sente trattenere il fiato e guardarlo con una strana espressione concentrata e
poi- "Sì."
"Sì?"
ripete e la sua incredulità deve essere evidente.
Clarke
gli cinge il collo con le braccia e lo bacia, a lungo e intensamente. Quando
finisce, entrambi hanno il fiato corto e un sorriso sulle loro facce che fa
male in modo non interamente fastidioso.
"Togliti
quel sorriso dalla faccia prima che Madi o Jordan ti vedano.”
"Troppo
tardi," lui mormora, mettendole un braccio attorno alla vita. Guarda un
punto alle sue spalle con insistenza. Clarke si volta. Segue la traiettoria del
suo sguardo e se possibile il suo sorriso si allarga, con uno sfolgorio negli
occhi. A poca distanza da loro, i
diretti interessati li stanno fissando. C’è una gioia contagiosa nel sorriso raggiante
della ragazzina. Di fianco a lei Jordan li guarda come se si fosse aspettato
esattamente questo sviluppo.
Clarke
preme il viso contro la sua spalla e quando piega la testa all'indietro per
guardarlo, lui si sporge in avanti per baciarla di nuovo, veloce e fieramente,
rubandole quel sorriso dalle labbra.
"Non
badate a me," annuncia Murphy, passando loro accanto. "Tutta questa
felicità mi ha reso cieco."
"Ascoltarti
è una delizia per l’animo, Murphy.”
"Ti
ho sentito, Clarke," lui urla di rimando, ancora abbastanza vicino da aver
colto le sue parole. "Ho detto di essere cieco, non sordo."
You claim your joy. You
lay your roots. Blood and bone and fire and ash. And in this land of free and
home of the brave, you plant yourself. Like
a flag.
- Samira Ahmed
N/a:
Ho letto e riletto questo capitolo non so quante
volte, indecisa se pubblicarlo o riscriverlo daccapo, se cancellare le parti
che non mi convincevano (il pezzetto Bellamy-Murphy, tanto per puntare il dito)
o che mi parevano inadeguate rispetto al contesto. Alla fine ho deciso di
pubblicarlo così com’è. Non sono sicura di essere riuscita a rendere al meglio
il cambiamento graduale di Clarke tra la parte iniziale e quella finale, la
lenta e progressiva accettazione che l’amore non sia qualcosa che si deve
meritare, che tutte le cose orribili che le sono capitate non la rendono una
persona cattiva, che sono in gran parte sfortuna, ma lascio decidere voi.
Scrivere e pubblicare è fondamentalmente questo dopotutto: mettersi in gioco, buttarsi
anche quando si è attanagliati dalla paura di un commento negativo, una
forma di sollievo creativo, una porta aperta sull’anima di chi scrive e di chi
legge, un attimo di intima condivisione. Perciò spero che i miei sforzi siano
valsi a qualcosa. Ho scoperto che preferisco scrivere dal punto di vista di
Clarke (si vede?). Dopo anni a scrivere Sherlolly mi riesce difficile
immedesimarmi in un uomo che vive le sue emozioni così appassionatamente come
Bellamy, che non nasconde la sua rabbia o il suo odio, che vive il suo dolore
in modo straziante e- insomma, mi riesce difficile, punto.
Anche se in ritardo, spero che abbiate trascorso una
felice Pasqua, che vi siate ingozzati di uova di cioccolato e siate riusciti a
trascorrere dei giorni sereni con i vostri cari.
Un abbraccio a tutti!
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