Thursday's Child

di Sheep01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer: I personaggi, le ambientazioni e tutti i riferimenti sono di proprietà di Stephen King e Warner Bros. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
 

CAPITOLO 1

All of my life I've tried so hard,

doing my best with what I had.

Nothing much happened all the same.

(D. Bowie)

 

Non aveva che pochi dollari in tasca.

Una carta di credito che aveva già sfruttato a sufficienza e un paio di caramelle al mentolo di cui esitava a servirsi.

In mano, stretto fra le dita, il biglietto di uno spettacolo teatrale accuratamente riposto in una cartellina trasparente, per paura che si sgualcisse.

Eddie Kaspbrak osservava il vivace drappello di persone che si attardavano fuori dal teatro. Il chiacchiericcio che precedeva l'entusiasmo di uno spettacolo. Le ultime conversazioni, l'attesa dei ritardatari, l'ultima sigaretta.

L'autunno aveva già scoperto le sue carte e la serata regalava refoli di aria gelida e foglie a danzare sui marciapiedi e affogare in ciò che restava delle pozzanghere di un pomeriggio di debole pioggia.

Non era sicuro di aver preso la decisione giusta. Impulsiva e entusiasta sul momento, certo, ma affatto ragionata.

Si era trovato a prenotare un posto a teatro senza prendersi tempo di capire se ne avesse, effettivamente, di tempo; o di voglia di spararsi tutti quei chilometri per raggiungere Philadelphia.

Eppure eccolo lì, con quel biglietto pronto all'uso fra le mani e le luci dell'atrio che gli illuminavano il viso pallido e infreddolito.

Decise che tanto valeva entrare, ormai. Nonostante i ragionamenti sui pro e i contro di quella decisione.

Sembrava un'idea fantastica all'inizio, poi era diventata solo carina. Durante la spinta che lo aveva visto seduto in aereo, classe economica, a guardare il mondo da un finestrino, si era trasformata in un'idea modesta, e poi mediocre. E mentre il taxi prendeva l'ultima svolta per la destinazione finale, l'idea era diventata veramente pessima.

Non era ancora pronto, non del tutto almeno. Eppure sì, era lì.

I mesi passati erano trascorsi pigramente fra scartoffie e riabilitazione. C'era stato tanto da affrontare: decisioni da prendere, informazioni da processare. L'ultima cosa che gli serviva per rimettere in sesto quello che aveva raccolto, a pezzi, da un letto d'ospedale, era un insensato viaggio per gli Stati Uniti per rivedere i vecchi amici.

La paura sempre lì, latente. Quella paura che lo raggelava quando apriva gli occhi, nel bel mezzo della notte, a fargli credere che si era trattato solo di un sogno. Ma c'era ben più di una testimonianza a ricordargli che quelle cicatrici (sul viso, al petto) non erano frutto della sua immaginazione, non una fantasia onirica da relegare in un mondo fatto di ombre, non un confuso ricordo di un incidente non ben definito.

Dimenticare.

No, non questa volta.

L'unica cosa di cui Eddie era convinto, fermamente convinto, era il non voler dimenticare.

Fu quel pensiero, che se ne restava quieto per la maggior parte del tempo e solo a tratti si improvvisava promemoria, a fargli muovere i passi verso l'ingresso, finalmente. A superare quelle cinque signore di mezza età che ridevano di una battuta che non aveva colto, a mostrare il biglietto stampato di fresco ed essere catapultato in un mondo fatto di luminosi corridoi e storici poster di glorie passate.

Pazzesco.

Se gli avessero detto, almeno ventisette anni prima, che un giorno avrebbe volontariamente pagato, per ascoltare le stronzate che uscivano da quella boccaccia di Richie Tozier... non ci avrebbe creduto. Si sarebbe messo a ridere, avrebbe pensato di essere impazzito.

Eppure eccolo lì, in piedi di fronte a una locandina che a Boccaccia aveva fatto più di un favore: irriconoscibile sotto strati di trucco e mirati ritocchi di photoshop. Privo dei suoi occhiali. Che razza di mondo poteva mai essere quello con un Richie Tozier senza i suoi occhiali?

Cercò di soffocare un sorriso al solo pensiero di quanto avrebbe potuto schernirlo, dopo.

Si fece strada verso il suo posto a sedere. Il teatro era praticamente al completo e la cosa riuscì a suscitargli sentimenti contrastanti: su tutti dominava la sorpresa, come se da un lato non potesse davvero credere che così tanta gente fosse lì solo per sentire quello che Richie aveva da dire.

Le luci si spensero su quell'ultimo pensiero. Il sipario si alzò... e quando una voce sconosciuta annunciò in pompa magna il nome dell'amico, sentì emergere un altro di quei sentimenti: percepì davvero quel brivido d'orgoglio inaspettato.
 

***
 

Aveva aperto gli occhi da qualche giorno. Il ronzio dei macchinari, che mantenevano stabili le sue condizioni di salute, era diventato un tutt'uno con la stanza, con l'atmosfera, mentre gli odori lo riportavano a quei giorni in cui non era che un ragazzino che frequentava troppo la farmacia.

Non era infastidito, tutt'altro; si sentiva quasi a suo agio. Forse anche merito dei sedativi che cercavano di evitargli inutili sofferenze.

Se non gli avessero ricordato che l'ospedale aveva ricevuto un corposo rinnovo nell'ultimo decennio, si sarebbe convinto di alloggiare nella stessa identica stanza in cui lo avevano ricoverato da bambino, quando si era rotto il braccio; i giorni in cui sua madre, pace all'anima sua, gli aveva categoricamente proibito di ricevere i suoi amici. Decisione precedente a quella gloriosa rivincita in cui le aveva fatto capire che no, non sarebbe riuscita a impedirglielo. Non dopo tutte le fandonie che gli aveva propinato con quei farmaci fasulli che nulla aggiungevano o toglievano ai suoi immaginari malanni.

Myra, sua moglie, faceva dentro e fuori di continuo da quella stanza da quando si era svegliato. Il primo volto che lo aveva accolto alla fine del tunnel... l'ultimo che avrebbe visto alla fine della giornata, probabilmente.

Aveva accettato, con sollievo questa volta, la sua solerzia nell'assicurarsi che gli infermieri facessero il loro dovere. Operazione che, se non altro, la allontanava abbastanza a lungo dalla rianimazione per permettergli di prendere un po' di fiato dalle sue asfissianti attenzioni.

Non che non fosse felice di rivederla. Dopotutto significava che, in un modo o nell'altro, era riuscito a sopravvivere.

Il dolore. La paura. Quella sensazione di venir inghiottito nell'oscurità. Qualcuno dei suoi amici che gridava il suo nome. Poi, il nulla.

Aveva fatto i conti con la possibilità che avrebbe potuto restare intrappolato in quelle fogne per sempre. Il suo corpo, le sue ossa, a sgretolarsi nel ventre di Derry. Per sempre.

Ma non era stata Beverly a metterli al corrente che chi moriva a Derry era destinato a non morire mai veramente? Doveva essere vero perché, in qualche universo alternativo a quello, nessun Eddie avrebbe mai potuto sopravvivere a una ferita del genere...

 

Eppure... eppure...

***
 

Richie era brillante e spigliato.

Il pubblico attendeva con fremente aspettativa la fine dei suoi monologhi, per esplodere in fragorose risate e lunghi, appagati applausi non appena la battuta prendeva il volo.

Veloce, pungente, nessuno a mettere un freno a quello che diceva o a come lo diceva. Se fosse stato fra i suoi amici d'infanzia, sarebbero scappati almeno una decina di ammonimenti, ma qui non c'era nessuno pronto a riprenderlo o a zittirlo e Richie affrontava le manifestazioni d'ilarità del suo pubblico con un contegno invidiabile. Attendeva con pazienza che gli scoppi di risa terminassero, che gli applausi scemassero per completare la battuta o il monologo in corso, senza perdere nemmeno per un istante il filo del discorso.

Eddie dovette ammettere che Richie era bravo. Era davvero bravo: affascinante, carismatico, e dannatamente divertente. Così divertente che non era riuscito ad impedirsi di ridere a un paio delle battute più becere del suo repertorio. O a non sghignazzare senza ritegno ad alcune imitazioni ben riuscite di personaggi ripescati direttamente da giornate estive della loro più innocente infanzia.

Si domandò come avesse fatto a perderselo in tutti quegli anni. A non avere nemmeno il benché minimo interesse per quel comico che girava i teatri di cabaret più famosi degli Stati Uniti. Aveva scoperto che Richie aveva partecipato a qualcuno dei talk show più famosi d'America. Alcuni dei quali se ne stavano nella lista che sua moglie non si perdeva per niente al mondo. Eppure nulla.

Forse era successo che incappasse in qualche poster promozionale, pubblicità in radio o per televisione o come pop up nelle pagine internet che visitava, ma se anche ci avesse fatto caso o si fosse soffermato, per qualsiasi motivo, a chiedersi chi fosse quel buffo comico con gli occhiali, il cervello doveva averlo rimosso. Come tante delle altre cose che lo avevano legato ai suoi amici d'infanzia. Lo scherzo peggiore che Derry, sentendosi abbandonata, aveva fatto loro. Regalando fama e successo, ma prendendosi in cambio i ricordi del periodo migliore della loro vita.

Ora però era tutto finito. Ora ricordava. E come un fiume in piena era stato travolto dalla realizzazione di tutto ciò che si era perso.

Come Richie.

Richie che faceva tremare di risa e applausi i teatri.

Il ricordo di come Richie facesse vibrare di risate anche lui.

E lo rammentò nel momento esatto in cui fu certo, in una qualche misura, di aver intercettato il suo sguardo, dal palco. Di avergli fatto perdere per un istante il flusso del discorso; se ne era accorto dal modo in cui le parole gli si erano srotolate in modo goffo sulla lingua prima di essere recuperate in corner con una battuta sul sesso.

Aveva cercato di restare quieto e di ignorare le occhiate che erano seguite, perché ce ne furono, terrorizzato dal fatto che Richie potesse uscirsene con qualche improvvisazione a suo danno.

Invece l'amico proseguì lineare quasi fino alla fine, finché non cominciò a raccontare aneddoti su una certa signora Kappa e della loro decennale, torbida relazione.

Eddie aveva incassato il colpo, cercando di non andare in finte escandescenze e si era goduto la fine dello spettacolo, unendosi ai fragorosi applausi che erano seguiti.

Richie era stato un professionista. Chi diavolo lo avrebbe mai detto?

Si alzò solo a sipario abbassato, luci accese, accompagnato dal brusio rilassato di fine serata, con un divertito sorriso sulle labbra.

«È stato straordinario stasera, sembrava più in forma del solito!» l'uomo seduto accanto a lui gli si era rivolto, evidentemente ansioso di condividere i pareri entusiastici sullo spettacolo.

«Oh sì... è stato divertente.»

«Più che divertente, ha messo il turbo sul finale. Ma lo ha sentito? Non riuscivo più a smettere di ridere. Un'improvvisazione di quelle che si sentono raramente.»

Eddie gli scoccò un'occhiata perplessa, ma gli credette sulla parola.

«Deve averlo visto spesso a teatro...» si ritrovò a constatare.

«Oh, almeno una ventina di volte. Di sicuro ogni volta che è passato da Philedelphia. E lei?»

«In realtà oggi è stata la prima», dovette ammettere con un certo rammarico. Persino un signor qualunque che non conosceva minimamente Richie fuori dal mondo dello spettacolo lo aveva sostenuto più di lui in tutti quegli anni.

«Ah, ma allora ha avuto fortuna. Le dico, sul serio... che così in forma come oggi non lo era da un pezzo. Ora mi perdoni ma scappo, cerco di scovarlo all'uscita per fargli i miei complimenti dal vivo. Dovrebbe farlo anche lei, se ci tiene a incontrarlo.»

Un sorriso e un cenno di congedo e il signor nessuno - che aveva visto Richie a teatro almeno una ventina di volte - se ne era andato.

Se era stato mandato lì per farlo sentire in colpa, aveva fatto centro pieno.

Stava ancora cercando di capire da che parte fosse l'uscita di cui parlava il tizio, perché forse, in fondo, era l'unico modo per incontrare Richie senza troppe complicazioni, quando un energumeno dall'aria losca gli si era parato di fronte.

«Il signor Edward Kaspbrak?»

Eddie si ritrovò ad annuire senza proferir verbo, un po' spiazzato dall'improvvisa apparizione.

«Mi segua. Mi hanno chiesto di scortarla fin dietro le quinte».

Per ucciderlo, chiuderlo in un sacco e lanciarlo nelle profondità del fiume Delaware?

Ma non espresse le sue perplessità ad alta voce. Eddie era sicuro che all'energumeno non sarebbero piaciute affatto. Non sembrava un tipo da battute.

Perciò lo seguì in silenzio, fra le occhiate curiose dei pochi che avevano prestato loro attenzione.
 

***
 

La porta della stanza d'ospedale si era aperta lentamente, quasi con timore. Bastò quello a suggerirgli che non poteva essere quel tornado di sua moglie. Quando alzò lo sguardo però, fu un po' sorpreso di trovarci proprio Richie, lì sulla soglia. Un Richie con l'aria stropicciata ed esausta di chi non doveva aver riposato poi molto nelle ultime ore.

Nessuno degli altri gli aveva ancora fatto visita da quando si era risvegliato (forse aveva sentito Myra lamentarsi dell'insistenza di alcuni individui che volevano intrufolarsi nella sua stanza: “per l'amor del cielo, ma non capiscono che ha bisogno di assoluta tranquillità e riposo?”) e Richie era l'ultimo che si sarebbe aspettato di vedere, soprattutto con quell'espressione di assoluto imbarazzo e cordoglio, come fosse... morto davvero.

«Sono messo davvero così male?» si ritrovò a chiedere per sbrogliare l'impasse di quell'ingresso così fuori programma.

Con suo immenso sollievo Richie sembrò svegliarsi improvvisamente dal torpore. Richiuse la porta alle sue spalle e avanzò con passo claudicante verso il letto. Le mani sprofondate nelle tasche di un'anonima felpa grigia, estranea al suo stile eccentrico.

«Non così male, a dire il vero. Ancora parli», esordì, sfoggiando un sorriso, ma con la voce stanca di chi sta imbastendo un faticoso discorso «quasi dovresti fartelo prescrivere. Nota: farsi infilzare da un alieno mutaforma almeno una volta l'anno.»

«Sul serio? Questa è decisamente sottotono per uno come te, Rich», gli rispose con una minuscola risata a sbuffo. Che gli sconquassò a sufficienza lo sterno per annotarsi mentalmente di non farlo mai più. «Come hai fatto a superare il cane da guardia?»

«Parli dell'infermiera col ciuffo da maltese o di tua moglie?»

«E' ovvio che parlo di Myra.»

«Ti prego dimmi che era una battuta, Eds.»

«Al momento è già tanto se riesco a non parlare sbrodolando... e comunque, quante volte devo dirti di non chiamarmi Eds?», gli sorrise senza ricevere lo stesso trattamento in cambio: lo sguardo di Richie era dolorosamente attratto da tutta la serie di tubicini che aveva incollati addosso. Uno spettacolo piuttosto impressionante, doveva ammetterlo.

«Come ti senti?», lo sentì chiedere dopo un lungo momento di esitazione e una smorfia, forse il residuo di un pensiero molesto, lo stesso che gli spegneva addosso la sua abituale vivacità.

Eddie fece un cenno eloquente ai macchinari: «Come se un alieno mutaforma mi avesse infilzato da parte a parte.»

Richie non rispose ma si limitò ad annuire e a mantenere quell'espressione ambigua di chi sa di aver visto giorni migliori, un microscopico cenno consapevole di chi si è spinto oltre l'abisso ed è tornato per raccontarlo.

«Gli altri come stanno?»

«Distraevano il cane da guardia.»

Eddie non riuscì a trattenersi e si lasciò andare a una risata, che però venne immediatamente placata da un colpo di tosse e una fitta di dolore che smorzò l'ilarità sul nascere. Richie sembrò accorgersene perché fu il calore della sua mano a raccogliere quella di Eddie, in procinto di aggrapparsi alle lenzuola.

Ci volle qualche istante perché quel dolore tornasse ad essere solo una leggera e fastidiosa pulsazione costante.

Gli lanciò uno sguardo rapido, come a tranquillizzarlo che era finita, che non doveva preoccuparsi, che di momenti così ce ne erano già stati e ancora ce ne sarebbero stati per un po', ma Richie non gli lasciò la mano, né spense quell'espressione addolorata che raramente gli aveva visto cucita addosso.

Avrebbe voluto rassicurarlo ma non era certo che sarebbero bastate un paio di stupide raccomandazioni. Adesso era sicuro di ricordare di chi fossero quelle grida; la persona che urlava così disperatamente il suo nome, prima che il buio lo inghiottisse, là, nelle profondità di Derry.

«Se non lo dico adesso non lo dirò mai più...»

Fu solo un sussurro ma Eddie lo percepì. Richie stava guardando tutto fuorché nella sua direzione. Apparentemente molto interessato allo sgradevole colore del linoleum del pavimento.
 

***

Il gigantesco ominide che era venuto a prelevarlo dalla sala lo aveva condotto in una serie di labirintici e bizzarri corridoi. Per un periodo di tempo così silenziosamente lungo che Eddie temette davvero di essere finito nel remake di qualche film horror. Uno di quelli in cui ti infilavano in una stanza con una serie di enigmi da risolvere che se non fossi riuscito a districare entro il tempo limite, tanti saluti al caro estinto.

Non era pronto a morire. Non di nuovo. Non a breve, almeno.

Fu quindi un sollievo quando l'omone lo bloccò poco prima che potesse caracollargli addosso, proprio di fronte a quello che aveva tutta l'aria di essere il camerino di Richie Tozier.

«Signore, le ho portato Kaspbrak...» disse l'energumeno senza nome, affacciandosi sulla soglia della porta socchiusa, con l'aria di uno di quei cattivi dei film sulla malavita.

«Eddie Spaghetti!»

Richie si era rimesso in piedi ed era avanzato spalancando la porta, allargando le braccia, raggiante ed entusiasta, come chi è abituato a concludere alla grande uno spettacolo. O a rivedere un vecchio amico. Si chiese se abbracciarlo fosse una buona idea, ma quando gli andò incontro non ci pensò più. Lo fece e basta.

«Dovevi proprio farmi prelevare come fossi un evasore fiscale... ?»

«Se tu mi avessi avvisato che saresti venuto a Philadelphia, avrei fatto in modo di rapirti in maniera più elegante. E a farti avere dei biglietti gratis.»

«Volevo farti una sorpresa! E poi, francamente, non ci tenevo ad avere un altro debito con te.»

«Con tutte le volte che mi sono scopato tua madre, direi che qualsiasi debito è...»

Eddie fece un verso nauseato e lo spintonò appena per allontanarlo, prima che potesse terminare la frase.

«Non hai ancora smesso di essere disgustoso?».

«Oh, Eds, e tu, dopo tutti questi anni, ancora non sei riuscito ad accettare la storia d'amore fra me e mamma Kaspbrak.»

Entrambi sembrarono rendersi conto solo in quel momento che l'uomo che aveva scortato Eddie dietro le quinte era rimasto fermo, immobile ad assistere allo scambio di battute. Se fosse sconvolto o meno dalle imprese sessuali, reali o presunte di Richie Tozier non era dato saperlo: la sua espressione granitica non era mutata di una virgola.

«Oh Lurch, mi ero scordato tu fossi ancora qui,» lo apostrofò Richie, allungandogli una banconota «puoi andare. E grazie per i suoi servigi», concluse con un accento inglese di tutto rispetto e una pacca sulla schiena.

L'uomo si limitò ad annuire e andarsene, senza una parola.

«Fa parte del tuo staff?»

«Chi? Lurch? Mai visto prima di stasera. Ma sembrava il tipo giusto a cui chiedere di portarti da me.»

Eddie alzò gli occhi al cielo e represse una risata.

«Forza, amico mio, non avrai fatto tutta questa strada solo per sentirmi blaterare a teatro. Ne hai ancora da sentire. Ti farò sanguinare le orecchie stasera, davanti a una birra, un succo di mirtillo o il diavolo che ti bevi per mantenerti giovane e bello.»

«Non vedo l'ora, veramente, solo che dovrei...»

«Oh, cazzo», Richie sembrò improvvisamente turbato «tua moglie? Non dirmi che l'abbiamo lasciata in sala a rimuginare vendetta?»

«No, mia moglie non è qui con me.»

Eddie ebbe come l'impressione di leggere del sollievo nello sguardo dell'amico.

«E allora cosa? L'hai legata e imbavagliata nel bagagliaio della macchina? Quanto tempo abbiamo prima che la gente la senta urlare? You're free as a bird...»

«No, è che... credo ci siano delle persone che vorrebbero incontrarti fuori da teatro», l'espressione estatica di quell'uomo a fine spettacolo gli suggeriva che l'avrebbe presa molto male se il suo comico preferito se ne fosse andato alla chetichella. E per colpa sua, per giunta.

«Ma di che stai... ?» Richie realizzò qualcosa, sorrise e questa volta fu lui ad alzare gli occhi al cielo, rassegnato, «Avevo scordato quanto potessi essere così disgustosamente altruista.»

«Ma dai, hai dei doveri nei confronti dei tuoi fans...»

«O codardo. Ma non credere, dopo che avrò compiuto il mio dovere... sarai tutto mio.»

Eddie evitò per un soffio la sua consueta strizzata di guance.
 

***
 

«Sono stato al ponte dei baci, prima di venire qui...»

La menzione di quel posto ebbe il potere di scatenare un sacco di ricordi contrastanti a riguardo. Ma il tono con cui Richie aveva iniziato il discorso gli suggerì che non doveva trattarsi di un argomento frivolo. Perciò se ne rimase in silenzio, a sbirciare uno dei suoi migliori amici, chiamato Boccaccia, in difficoltà con le parole, per una volta tanto.

«Da ragazzino ci avevo inciso delle iniziali. Lo facevano tutti i ragazzini scemi a Derry, magari lo fanno anche ora ma... questo non è importante. Ci sono tornato per vedere se quelle iniziali erano ancora lì. E sai che?» sorrise appena «C'erano. Ancora. Un po' sbiadite ma c'erano. Così le ho incise di nuovo...»

Fece una pausa e per un istante sembrò intenzionato a lasciargli andare la mano ma Eddie glielo impedì, stringendolo appena. Richie aveva rassicurato lui con quel gesto, avrebbe fatto altrettanto. Sembrava averne bisogno.

«Un sacco di gente ci ha inciso le iniziali lì sopra, nessuno è mai stato denunciato per...»

«Erano le iniziali di un ragazzo», lo interruppe Richie.

«Oh...» fu tutto quello che riuscì a esprimere, con una certa dose di stupore certo ma non così maledettamente sorpreso come avrebbe pensato a una rivelazione simile. In più, era sicuro di aver avvertito una fitta non meglio definita di...

«Già. Sono gay.»

La naturale conclusione a quella confessione, presa molto alla larga.

Le parole se ne rimasero per un po' a galleggiare nell'aria ma Eddie capì immediatamente che l'ultima cosa che avrebbe voluto era che finissero per precipitare in un imbarazzante silenzio, perciò prese un bel respiro, sperando di uscirsene con qualcosa di intelligente.

«Significa che tutte le cose che dicevi di fare con mia madre erano raccapriccianti bugie?»

Molto intelligente.

Ma a giudicare da come Richie lo stava guardando ora (perdendo completamente interesse per le piastrelle), era riuscito, se non altro, a scalzare il momentaneo turbamento.

Ed entrambi scoppiarono a ridere. O Eddie almeno ci provò (ancora atterrito dall'idea di avere sussulti di dolore incontrollato). Entrambi apparentemente sollevati di aver superato un momento così intimamente delicato.

«Grazie per avermelo detto», si preoccupò di aggiungere, come non fosse ancora abbastanza chiaro di quanto avesse apprezzato la sua confidenza. A giudicare dal tormento con cui glielo aveva comunicato non doveva essere stata una cosa semplice. E non solo in quel momento, ma da molto tempo a quella parte. Questo era capace di giudicarlo eccome.

«Non ho ancora finito, però», aggiunse però Richie, con una luce ancora più ansiosa negli occhi.

«Ora sì che mi fai paura... che hai fatto? Staccato la testa di Bunyan per portarla in pegno al tuo innamorato?»

«Con quello avrei solo fatto un favore alla comunità. Ma comunque... non credo che lui l'apprezzerebbe.»

Eddie lo scrutò per un istante, senza comprendere affatto perché l'idea che il tizio dell'incisione fosse ancora in circolazione - o che quantomeno Richie ci pensasse ancora - gli desse tanto... fastidio?

«Ci stai girando attorno un po' troppo, hai intenzione di dirmi di chi si tratta o devo tirare a indovinare?»

«Bè...»

«Si tratta di Bill? Era Bill?» incalzò.

«Bill? Dio, no, ma che ti salta in mente?»

«Ah, non lo so... eravamo tutti innamorati di Bill all'epoca, platonicamente o meno. Se non era Bill allora Covone. Ora è diventato veramente un bell'uomo anche se...» si rese conto di star parlando tanto per cercare di placare l'agitazione insensata che gli era montata addosso all'improvviso.

«Eddie...»

«O Mike. Oppure...»

«Eddie, eri tu», lo interruppe Richie e il movimento che aveva nello stomaco si trasformò in un fragoroso frullio d'ali. «E-eri tu. Sei sempre stato tu.»

Eddie si ritrovò ad osservare l'amico con una nuova consapevolezza, come se un'ineluttabile verità gli si fosse rivelata in modo così plateale da farlo sentire un completo imbecille.

Era lui. Era ovvio che era lui, che era sempre stato lui.

Tutti i gesti a lui riservati, le attenzioni, velate o meno, gli screzi, gli scherni ripetuti, gli atti di insensata e confortante tenerezza.

Gli ci volle qualche istante per capire che quel silenzio non avrebbe fatto bene a nessuno dei due. Non a Richie, livido in volto, con l'aria di qualcuno in procinto di vomitare, non a lui, che sentiva il cuore pompargli in petto così rumorosamente che improvvisamente ebbe il terrore di attirare l'attenzione di qualcuno degli infermieri, allarmati dalle anomalie dei macchinari.

Si aspettava qualcosa forse, Richie? Qualcosa che non era sicuro di potergli dare. O era solo la necessità di farglielo sapere, di dirgli qualcosa che, se fosse morto, sarebbe rimasta inespressa... per sempre?

Capì che doveva essere quello, niente altro.

«Penso che questa sia la cosa più carina che tu mi abbia mai detto, Rich...»

«N-non dire stronzate, ti ho sempre detto un sacco di cose carine...»

Era vero? Sì, era vero, lo faceva di continuo. Ma erano prese in giro, burle infantili . Ma da lì a pensare che fossero vere. I ragazzini, a queste cose, non ci fanno mai davvero caso.

«Se non fossi stato io me la sarei presa a morte», gli uscì quando si rese conto che Richie non sembrava convinto, non ancora a suo agio «Chi ti ha salvato la vita da quel clown di merda giù nelle fogne? Non Bill, non Mike, di certo non Covone», aggiunse con un pizzico di falso risentimento, «era il minimo che fossi io, razza di codardo.»

E fu in quel momento che lo vide, tutto quello che Richie non era mai riuscito a dirgli, tutta la disperazione di quegli ultimi giorni, la stanchezza, l'affetto e il sollievo, stampato direttamente sul suo volto, ora privo di qualsiasi maschera o menzogna.

Gli strinse la mano con calore e si abbandonò sul letto con un gesto esausto, rivolgendogli uno sguardo ricco di gratitudine e carico di quella sensazione sulla quale non voleva interrogarsi, non ora. Non con tutte quelle informazioni da processare, non con Myra che poteva entrare come un uragano da un momento all'altro.

Ricevette però il sorriso di Richie. E quello gli fu sufficiente a rimettere tutto nella giusta prospettiva.
 

***
 

Richie lo aveva trascinato in un locale piuttosto sobrio. A giudicare da come aveva sempre interpretato il personaggio che era, persino un po' troppo castigato. Quasi anonimo, dalle atmosfere soffuse e sonnolente.

«Perché continui a guardarti attorno? Dove ti aspettavi ti portassi? Un locale di spogliarelli? Richie Tozier il vizioso col vizietto», bevve un lungo sorso di birra, di quelle bionde e corpose.

«No, coglione... ero solo sorpreso dal contrasto. Richie Tozier Boccaccia vs locale sobrio e silenzioso. Magari è un bene che tu non possa far troppo casino qui dentro o ci sbattono fuori.»

«Nah, mi conoscono. E comunque mi devo ancora ricaricare, dopo lo spettacolo» si fece avanti, posando i gomiti sul tavolo per avvicinarlo, con gli occhi vispi di una volta, carichi di aspettativa, dietro le lenti di occhiali nuovi, «ti sei divertito, a proposito?»

Eddie fu sul punto di annuire e di spargere complimenti a suo favore, ma non era così che funzionava fra loro, non subito.

«Meh...» fece quindi un cenno con la mano, «tutte quelle battute sul sesso... un po' datate.»

«Ma se sono nuove di repertorio!»

«Guarda che ne facevi di simili anche quando eravamo ragazzini.»

«Ma nessuna di quelle parlava del mio Rinascimento omosessuale!»

«Il livello è sempre lo stesso, il problema non è di chi ti scopi, ma da come lo descrivi.»

Richie si abbandonò sulla sedia con aria sorpresa.

«Questa massima dovrò segnarmela... il dottor Kappa dispensa consigli. Quindi non ti sei divertito.»

Eddie scosse la testa.

«Mi sono divertito molto», confessò allora, dopo un istante di calcolata suspense «Ma il tizio seduto di fianco a me si è divertito di più, metà delle battute non sono riuscito a capirle tanto rideva. Volevo gridargli di tacere ma poi mi avrebbero portato fuori a forza.»

«Quello mi sarebbe piaciuto vederlo...» rise Tozier, «Ma te l'ho detto. Proprio per questo avresti dovuto avvisarmi, ti avrei fatto riservare un posto in prima fila, vicino alla Contessa Puzzalnaso e il Signor Criticoenonrido.»

«Ti ho già detto che volevo farti una sorpresa e poi l'ho deciso all'improvviso...»

«Quanto all'improvviso?»

«Un paio di mesi fa.»

«Allora vedi che sei scemo? My, my, il Dottor Kappa, laureato in medicina fantastica, non riesce a elaborare le più semplici regole organizzative!»

«No, tu sei scemo. È stata una decisione improvvisa e fino all'ultimo non ero comunque sicuro di venire... ho avuto un po' da fare, in queste ultime settimane.»

Richie tornò vagamente serio, una battuta che sicuramente era stata distrutta sul nascere.

«Per via della... riabilitazione?»

Eddie alzò gli occhi su di lui e per un istante non fu così sicuro di volerglielo dire, così, su due piedi, ma poi il buonsenso e la frustrazione ebbero la meglio.

«No, Richie, per via del mio divorzio.»

 

Continua...

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 

Eddie e Myra si erano lasciati.

Non se l'era immaginato, non se l'era sognato.

Eddie aveva appena sganciato la bomba e non poteva nemmeno fingere di aver capito male, perché la musica del locale era decisamente troppo bassa. E le poche persone attorno a loro non facevano altro che sussurrare.

Perché non parlavano in modo normale? Che cosa stupida sussurrare. Lo si fa in chiesa, nei musei, lo fanno gli amanti, di certo non chi esce per bere qualcosa, che diamine!

Perciò, tutto quello che uscì dalle labbra di Richie fu un interdetto borbottio di sorpresa, che lo avrebbe fatto sembrare meno ottuso se qualcuno si fosse degnato almeno di cacciare un rutto.

Perché aveva scelto quello stupidissimo locale?

Sembrava un luogo di incontri clandestini!

«Già...» si limitò a sottolineare Eddie che sembrò non dare troppo peso al suo sconcerto. O quantomeno ebbe la delicatezza di non farglielo pesare.

Che si aspettava che facesse? Che si alzasse in piedi sul tavolo con un grido liberatorio, intimandolo di fare altrettanto, di gioire di essersi liberato della sua carceriera? Forse un Richie più giovane lo avrebbe fatto, forse era quello che Eddie sperava; in fondo ancora non aveva avuto modo di conoscere il Richie adulto, che differiva da quello giovane solo per gli occhiali nuovi e la consapevolezza che non tutto gli era concesso. Alla maggiore età rischiavi il carcere per qualsiasi stronzata. Lo aveva provato sulla propria pelle, sfortunatamente o meno. Ne era nato uno sketch carino per i suoi spettacoli, a riprova che non tutto il male viene per nuocere. In ogni caso l'alba dei suoi quarant'anni gli aveva insegnato ad essere un tantino meno impulsivo.

«Posso cevcare di intevpvetare il suo stato t'animo, ja, se mi dà qualche intizio un po' più concveto, herr Edward», enunciò, interpretando la voce di quello che voleva essere uno psicologo tedesco.

Lo vide rivolgergli uno sguardo perplesso.

Dio, avrebbe davvero dovuto saltare su quel cazzo di tavolo.

«Ah, va tutto bene», lo rassicurò l'amico con un gesto noncurante, «era solo questione di tempo. Magari se non avessi rischiato di morire l'attesa sarebbe stata molto più lunga... diciamo fino ai miei novantacinque anni.»

«Novantacinque anni sono una previsione ottimistica per chiunque...»

«Appunto.»

Richie sollevò il bicchiere.

«Allora dobbiamo festeggiare!» esclamò, cercando di riprendere le fila del discorso, di deviare l'attenzione sul fatto che la cosa lo rendesse davvero più euforico di quanto avrebbe dovuto. Che diamine gliene sarebbe venuto in tasca, dopotutto?

«Festeggiare il fatto che dovrò cominciare a sborsare assegni di mantenimento?»

«Festeggiare il fatto che ti sei liberato di un peso, in più di un senso, se me lo permetti», fece un cenno al cameriere di fare un secondo giro, anche se Eddie a malapena aveva toccato il suo primo drink, «perché sei stato tu a lasciarla, vero? Dimmi che non è stata lei.»

Era inequivocabilmente stato lui, perché riusciva a leggergli addosso tutto il senso di colpa di quella decisione.

«E allora in alto i calici. E levati di dosso quella faccia da Kaspbrak bastonato. È arrivato il momento di prendere per le palle la tua vita per una volta tanto, senza che ci sia una donna a strizzartele per bene.»

Lo vide esitare per un istante, prima di scuotere la testa e afferrare il suo calice di birra.

«Però...»

«Niente però! Un brindisi e poi alla goccia», lo rimarcò con entusiasmo.

«No, è che...»

«Cosa? Per l'amor del cielo Eddie Spaghetti, cosa?».

«È che sono intollerante al glutine!»

Richie rimase così, fermo a mezzo brindisi.

«E che cazzo, Kaspbrak... VODKA!» chiamò a gran voce.

 

***

 

Richie lanciò il borsone a terra, non appena varcata la soglia della porta di casa.

Un luogo irreale, che sapeva ormai di chiuso. Silenzioso e solitario.

Non era in programma restare tanto tempo a Derry, ma viste le condizioni di Eddie, tutti i membri dell'ormai ex Club dei Perdenti avevano prolungato la loro permanenza per restargli accanto, almeno finché i dottori non lo avessero definitivamente chiamato fuori pericolo.

Ma ora che Eddie era ormai a un passo dalle dimissioni, non c'era più alcuna ragione perché restassero e Myra non era sembrata affatto contraria ad augurar tutti loro buona vita e a mai più arrivederci.

Non avevano potuto far altro che recuperare i bagagli e scappare di nuovo, una volta per tutte, da quella città maledetta, con la promessa di mantenere i contatti e di rivedersi, di certo in circostanze più felici.

Di non dimenticare.

Per tutto il viaggio di ritorno Richie aveva avuto il terrore di dimenticare. Non ricordava esattamente le dinamiche di come fosse successo l'ultima volta. Solo che dopo il trasloco, lontano da Derry, durante gli anni della sua adolescenza faticava a ricordare i volti degli amici della sua infanzia. Fino poi a scordarsi completamente come era stata, quella sua travagliata infanzia.

Per quello, ad ogni tappa che aveva toccato al suo rientro, aveva controllato almeno un centinaio di volte la rubrica del cellulare sulla quale aveva salvato i numeri dei suoi amici. Pronunciando i loro nomi ad alta voce, facendo scorrere le fotografie fatte solo qualche giorno prima.

Aveva chiamato Mike un paio di volte, aveva mandato messaggi a Beverly, Ben e Bill. E in qualche modo si era ripromesso di farlo anche con Eddie non appena sua moglie avesse dismesso il monopolio del suo cellulare. Inoltre, nel portafoglio, aveva una copia di una vecchia, sbiadita fotografia, fatta alle macchinette della sala giochi con tutti loro, da ragazzini, il volto di Stan a ricordargli che c'era ben più di un passato recente da ricordare.

Una volta conquistata una vaga certezza che forse... non tutto sarebbe stato perduto di nuovo, era ormai rientrato a Los Angeles.

Rilasciò un sospiro pesante, spossato, come se la gravità dei giorni passati gli si fosse abbattuta addosso con tutto il suo peso.

Aveva avuto modo di pensare a tante cose in quegli ultimi giorni, di ripercorrere la sua vita, passo passo, ogni decisione presa, ogni maschera indossata, ogni segreto inconfessato. A detta di molti aveva avuto modo di vivere una buona vita, ma a che prezzo? E sopratutto sotto le mentite spoglie di quale Richie? Doveva qualcosa al Richie ragazzino. Lo doveva a tutta la sofferenza provata nel nascondersi, per rispetto a tutti quei sentimenti inespressi. Lo doveva a quel Richie che, un giorno di ventisette anni prima, aveva coraggiosamente inciso le lettere della prima persona che avesse mai veramente amato, lì, sul ponte dei baci. E di quanto in seguito si fosse sempre impedito di amar chiunque.

Aveva imparato la lezione. Pennywise si era preoccupato di impartirgliela, in modo affatto convenzionale ma dannatamente efficace.

Una vita dominata dalla paura ti rende una preda facile e Richie non voleva più rischiare di farsi divorare. Da niente. E nessuno.

Avrebbe sfondato quella barricata di omertà nell'unico modo in cui sapeva di avere completo controllo.

Perciò finì per recuperare una bottiglia di whisky dal suo armadietto degli alcolici, versarsene un corposo bicchiere e chiamare il suo agente.

«Neil... ciao. Sì, sono appena rientrato a Los Angeles. Ho un nuovo monologo per la prossima stagione teatrale. Sarà una bomba, in tutti i sensi.»

 

***

 

Le luci del mattino avevano invaso la stanza d'albergo da un bel pezzo. Una suite fin troppo spaziosa, provvista di salottino e un mega televisore a schermo piatto, acceso su un notiziario, a volume sommesso.

Richie sfogliava un quotidiano con noncuranza, poco interessato, in realtà, alle notizie fresche di giornata, tanto meno alle critiche o le lodi sul suo spettacolo della sera precedente: articoli del tutto trascurabili che il suo agente si era preoccupato di sottolineare con un evidenziatore rosa.

Una premura che gli riservava da qualche mese, dopo il boom del suo coming out pubblico, giunto a tutta sorpresa da uno sketch da palcoscenico.

Anche in quel caso erano giunti pareri favorevoli e contrari, come se persino la sua vita privata fosse uno spettacolo da recensire. Lo aveva messo in conto certo, ma sperava fosse chiaro a tutti che lo aveva fatto solo ed esclusivamente per smetterla di nascondersi. Per togliersi il dente, il dolore e tutto il resto. Rapidamente.

Richiuse bruscamente il giornale e recuperò la sua tazza di caffè ancora fumante dal carrellino della colazione. Ma quasi si ingozzò quando alzò lo sguardo e una sagoma dall'aria spettrale entrò nel suo campo visivo.

«Cristo santo...» allontanò la tazza dalle labbra, prima di combinare un disastro e spargere caffè in ogni dove, «non solo hai l'aria di un fantasma... sei persino silenzioso come un fantasma.»

Eddie lo fissava come se non avesse la più pallida idea di chi fosse o dove si trovasse. Infagottato in un accappatoio di almeno un paio di taglie più grande, la faccia gonfia di sonno e i capelli che sfidavano la forza di gravità.

Richie non avrebbe potuto trovarlo più adorabile. Per una volta tanto non si preoccupò di censurare il pensiero.

«Dove... cazzo siamo?» fu tutto ciò che ebbe da dire, ma a Richie non sfuggì il vago sollievo che doveva aver provato nel vederlo. Era piuttosto sicuro che Eddie non ricordasse un accidenti di niente della serata appena trascorsa.

«Nella mia suite d'albergo.»

«Eravamo in un bar... ieri sera...» gli uscì con voce roca, strascicata, le sinapsi che cominciavano a connettere.

«Intuizione geniale, dottor Watson. Dai, siediti, prendi qualcosa da mangiare, un caffè?» Richie si era rimesso in piedi per cedergli la sua sedia e scoprire un paio di vassoi, carichi di croissant freschi, pane bianco e marmellate.

«Se mangio qualcosa do di stomaco», si portò una mano alla testa e l'altra a schermarsi da quella vista o dal sole, a scelta, ma si sedette più che volentieri, dando le spalle alla finestra illuminata.

«Un'aspirina allora.»

«Ah no... sto cercando di smettere.»

Per tutta risposta gli passò una tazza di caffè nero, fumante.

«Per i postumi della sbornia è la soluzione naturale più efficace che io conosca, dottore.»

Eddie raccolse l'offerta senza fiatare, scrutandolo solo un istante, circospetto.

«Quanto ho bevuto, ieri sera?»

«Abbastanza da non riuscire nemmeno a ricordare dove fosse il tuo hotel», gli rispose, mettendosi seduto su una poltroncina, di buon umore «ho provato ad estorcertelo ma poi hai cominciato a vomitare a spruzzo e ho pensato di tapparti la bocca con un nastro adesivo.»

«Balle.»

«Secondo te perché non hai addossi i tuoi vestiti?»

L'uomo si passò una mano sul petto, sul tessuto ruvido dell'accappatoio.

«Mi hai spogliato tu?» gli chiese, qualcosa che assomigliava improvvisamente a del turbamento nello sguardo.

«No, il mio agente», rispose rapidamente, per non dover indagare troppo sulla sua reazione, «poi abbiamo chiamato due tizi della sicurezza, quello grosso della reception e abbiamo messo in piedi la sessione di gang bang più folle della storia. Non ti ho mai visto tanto scatenato!»

«Va' al diavolo, Rich.»

Gli venne da ridere.

«Non preoccuparti, i tuoi vestiti li ho mandati in lavanderia per una rinfrescata. Mi hanno detto che saranno pronti in un paio d'ore.»

«Grazie.»

«Ma figurati, sono cinquanta dollari, prego», gli allungò la mano che venne prontamente schiaffeggiata. Lo guardò indugiare un istante, prima di vederlo cedere a un lungo sorso di caffè e puntare distrattamente lo sguardo sul televisore: stavano passando le previsioni meteo.

Si prese del tempo a osservarlo, godendosi la tranquillità statica del momento.

Non si ingannava il suo stomaco, prima, con quel sussulto sorpreso, a ritrovarselo di fronte. Così vulnerabile e confuso. Si rese conto che tutti quei mesi trascorsi lontano da Derry, lontano da tutti gli altri, non avevano cambiato di una virgola quello che provava per loro. Non avevano cambiato di una virgola quello che provava per Eddie.

Non che si aspettasse che la sensazione inespressa che aveva rincorso per una vita evaporasse nel nulla, dopo la sua confessione liberatoria, ma nemmeno che sentisse lo stomaco contorcersi ancora come fosse un ragazzino alla sua prima cotta.

Eppure eccolo lì, ad osservare l'amico di sempre con curiosità. Ad indagare su tutti quei mutamenti che si era perso nel corso di quei ventisette anni, che non aveva potuto esaminare durante il loro soggiorno a Derry, alla vigilia di eventi più urgenti da affrontare.

Eddie, i cui tratti del viso si erano irrigiditi con gli anni. Eddie che dopo un solo giorno trascorso senza radesi aveva già un accenno di barba. Eddie e quella cicatrice sul viso che sarebbe rimasta lì, per sempre, a sbiadirsi, come il ricordo dei tragici giorni passati. Così diverso eppure così identico a se stesso, nel modo in cui si muoveva, nel modo in cui parlava, nel modo in cui osservava le cose, con quell'aria sempre mediamente preoccupata o sinceramente, candidamente sorpresa.

Eddie che lui stesso si era preoccupato di svestire quella notte, dopo un'intera serata a raccogliere le sue frustrazioni e preoccupazioni sul futuro, che aveva sistemato a letto, cercando disperatamente di ignorare quello sfregio orribile che si riusciva a malapena a intravedere sotto la canottiera.

Ma ad ignorare, sopratutto, il fatto che colui che si era sconsideratamente soffermato ad osservare mentre dormiva non avrebbe mai potuto essere suo. Non nel modo in cui avrebbe desiderato.

Cercò di scacciare quella struggente malinconia, quel senso di rassegnata impotenza. Non si sarebbe mai perdonato se Eddie avesse capito come si sentiva nei suoi confronti o che (Dio non voglia!), percependo il suo tormento, provasse pena per lui.

Era riuscito a impedirglielo i giorni che erano seguiti la sua confessione: avrebbe fatto di tutto per non farlo sentire a disagio. Teneva più alla loro amicizia, al fatto che potesse ancora sentirlo parlare e respirare, piuttosto che perdere tutto quanto per un sogno irrealizzabile.

«Se continui a fissarmi a quel modo ti chiederò di pagarmi i diritti d'immagine.»

Richie sbatté le palpebre a più riprese, come destandosi da un sogno.

«Mi stavo accertando che...» balbettò, incerto.

«Sto bene», concluse per lui, puntandogli addosso uno sguardo carico di divertita perplessità, «non vomiterò sul tappeto della tua suite. Magari però ti scrocco una doccia, penso di averne davvero bisogno, prima di andarmene.»

«Andartene?»

Dove pensava di andarsene? Così, su due piedi.

Eddie lo guardò un po' confuso, come se non capisse affatto il tono della sua domanda o il suo sincero allarmismo.

«Bè, sì... credo di averti creato già sufficiente disturbo con questa stronzata della sbronza.»

«Oh, sì, in effetti sei un ospite piuttosto rumoroso», gli era uscito in modo forse troppo... stizzito? «Non ho mai sentito russare nessuno a quel modo. Per non parlare del fatto che mi hai praticamente spodestato del letto e ho dovuto dormire sul divano. La regola dei dieci minuti conta solo su una stupida amaca, mh?» lo apostrofò con finto risentimento. «Ma di che cazzo stai parlando, Eddie? Lo sai che puoi restare quanto ti pare. Lo hai detto tu stesso che ancora dovevi decidere la tua prossima meta, dopo Philadelphia.»

«Non ho mai detto una cosa simile.»

«Sì, lo hai detto, ieri sera, o i fumi dell'alcool ti hanno definitivamente fritto quella testa bacata che ti ritrovi sul collo, Spaghetti?»

«Bè, di certo non intendevo...»

«Invece intendevi: sai, Rich, ho preso un periodo di aspettativa da lavoro, bla bla, avevo bisogno di sistemare alcune cose, bla bla, ma non ho intenzione di tornare a casa, di tornare a New York, non subito», gli uscì in una forzatissima imitazione di Eddie, «a seguire occhioni da cerbiatto spaurito in cerca di suggerimenti: avanti chiedimelo.»

«Cosa?»

«Ho detto: chiedimelo.»

«Ma chiederti che cosa?»

Lo stava facendo arrabbiare, poteva dirlo dal modo in cui il suo pallore stava svanendo per lasciare spazio a una deliziosa sfumatura rosea su quelle guance. E il modo in cui muoveva nervosamente il piedi? O serrava le dita sulla tazza?

Forse doveva smetterla, placare gli animi, evitare che esplodesse.

«Chiedimi: Richard, posso venire con te a Los Angeles?»

«Non ti chiederò una cosa simile.»

«Hai paura di un rifiuto? Potrei mai farti questo, mio bel bocconcino di rosa?»

«Piantala Richie.»

«Chiedimelo: posso venire con te e diventare la tua più fedele e lasciva groupie?»

«No!» lo vide rimettersi in piedi, rosso in volto, la tazza abbandonata sul carrello, «adesso me ne vado! Perché cazzo non riesci a essere, per un minuto, meno insopportabile di così?»

Ora sì che era offeso. Incredibilmente offeso. E qualcosa che Richie non riuscì proprio a identificare. Avrebbe insistito se non gli avesse letto quella scintilla imbarazzata nello sguardo ma, al contrario, si vide costretto a frenarlo e afferrargli il braccio per impedirgli di uscire dalla stanza in ciabatte, accappatoio e boxer, conciato come uno scappato di casa.

«Ti becchi una denuncia per atti osceni in luogo pubblico, se esci svestito a quel modo», cercò di farlo ragionare.

Eddie si voltò con uno scatto, puntandogli addosso, finalmente, quello sguardo infiammato che riservava sempre ed esclusivamente a lui.

«Se non ne hai mai presa una tu, uscendo di casa ogni giorno con quella faccia!» lo apostrofò senza ritegno.

Un trionfo.

Richie cercò in tutti i modi di restare impassibile, di mantenere la furiosa solennità del momento, ma l'ilarità ebbe la meglio. L'istante successivo erano entrambi piegati in due dal ridere, ancora mano nella mano, come se solo l'idea di lasciarsi andare li avrebbe privati dell'equilibrio.

Ci volle qualche istante per riprendere fiato e ricordarsi della discussione in corso, quella stupida discussione che aveva scatenato la polemica.

«Resta», mormorò, una volta che gli spasmi di risa si furono placati del tutto. Un'affermazione, più che una domanda.

Eddie si calmò a sua volta, passandosi una mano sul viso, sugli occhi, prendendosi tutto il tempo per imbastire la sua risposta.

«Solo perché ancora mi viene da vomitare...»

«Dovrò farti bere in continuazione per convincerti a fare le cose? Buono a sapersi.»

«Non ci provare. Erano anni che non mi ubriacavo in questo modo. È colpa tua.»

«Oh, è sempre colpa mia, vivaddio! Richie Tozier è qui per accompagnarti passo passo sulla via della perdizione!» Un inchino e le mani che si scioglievano dalla stretta spasmodica.

«Adesso posso andare a farmi quella doccia?»

«Vuoi che ti accompagni?»

Eddie soffocò un verso stizzito e lo spintonò appena per superarlo.

Lo seguì con lo sguardo, finché non lo vide sparire dietro la porta del bagno e sentì il rumore dell'acqua nella doccia che scorreva.

Una sensazione di familiarità tanto vivace, quanto... inattesa.

Sentì qualcuno bussare alla porta. Doveva essere la lavanderia.

 

***

 

Non riusciva a prendere sonno quella notte. Forse per l'adrenalina ancora in circolo, forse l'alcool, forse i troppi pensieri che gli si affollavano in testa, sempre nelle ore più impensate... erano le quattro del mattino ed era convinto di non aver chiuso occhio nemmeno per un istante da quando era crollato sul materasso. L'indomani sarebbe stata una giornata piuttosto complessa, e un paio d'ore di sonno, almeno, gli sarebbero state di grande aiuto.

Per questo, quando il cellulare prese a illuminarsi nell'oscurità della stanza, con una chiamata in arrivo, Richie fu rapido ad allungare una mano per raggiungerlo dal comodino e leggere il nome sullo schermo.

'Spaghetti'

Si tirò su, dritto, con uno scatto rapido, nemmeno fosse stato morso da un ragno velenoso.

Altrettanto velocemente si rimise in piedi per uscire dalla sua camera da letto, finendo per inciampare nel tappeto, senza distogliere, per un solo istante, lo sguardo da quel nome che lampeggiava sul display.

«Forse non te l'hanno detto, Eds, ma qui a Los Angeles è ancora ora da lupi mannari», rispose.

Dall'altro lato solo un brusio indistinto e poi un'imprecazione soffocata.

«Cazzo... Richie?»

«Cazzo, no. Sono il dottor Gilbert, quello che sta ad Avonlea.»

«Ah, questo maledetto cellulare nuovo. Ho fatto partire per sbaglio la chiamata, mi dispiace...»

«Significa che non stavi pensando a me e mi hai buttato giù dal letto, alle quattro del mattino, solo per via di una triste coincidenza?»

«Bè... precisamente.»

«Wow... lo senti questo rumore?» fece una pausa, sentendolo respirare in attesa, dall'altra parte «è il mio cuore che si spezza.»

«Ah, ti riprenderai, Richie, ne sono sicuro.»

Si trovò a sorridere come un imbecille nel corridoio di casa. Decise di andare a prendersi qualcosa da bere, per non restarsene con le mani in mano.

«Ti lascio tornare ai tuoi sogni d'oro, così ti riprendi prima.»

«Nah... non stavo comunque dormendo», aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa di fresco, trovò solo della birra (poca) e un succo d'ananas. Odiava il succo d'ananas. Lo prese lo stesso.

«Ore piccole?»

«Minuscole.»

«Sai che dormire poco favorisce l'invecchiamento precoce?» la voce petulante di Eddie gli era mancata. Erano settimane che non si sentivano. Aveva sempre in mente di telefonargli ma ogni volta, per un motivo o per un altro, non riusciva a farlo. In parte era convinto fosse solo dovuto a pura e semplice vigliaccheria. E se avesse risposto Myra? Se non gli avesse fatto piacere? Se fosse stato a fare quelle sue terapie riabilitative? Se, se, se... ?

Eddie, di contro, lo chiamava con regolarità. Ed era stato molto presente i giorni successivi al suo coming out pubblico. Lui e tutti gli altri, certo, ma Eddie sembrava sempre cercare di capire se andava tutto bene. Se andava veramente tutto bene.

«Allora tu devi soffrire d'insonnia dagli anni ottanta, Eddie caro, perché non mi ricordo di averti mai conosciuto da giovane.»

«Vaffanculo, Richie.»

Scoppiò a ridere e prese una corposa sorsata di succo d'ananas. Non fosse stato un pensiero melenso, avrebbe detto che persino il succo d'ananas con la voce di Eddie in sottofondo poteva diventare qualcosa di gradevole.

«Che si dice a New York? Non sono tipo le sette del mattino?»

«Ah sì... ho un po' di appuntamenti oggi, avevo la sveglia presto.»

«E quando hai intenzione di passare a Los Angeles?»

«Divertente. E tu quando hai intenzione di venire a New York?» gli ritorse, «ho visto Bill, un paio di settimane fa.»

Bill. Anche il solo pensiero degli altri Perdenti gli scatenava dentro la voglia matta di prendere il primo volo per raggiungerli, uno per uno.

«Ah, lo sai che comincio un nuovo tour la prossima settimana. Ti farò sapere se sarò dalle tue parti.»

«Magnanimo. Fatti sentire più spesso, piuttosto, o comincerò a pensare che fai troppo il divo, anche per i tuoi vecchi amici.»

«Ma che stai dicendo? Io sono sempre stato un divo, sopratutto per i miei migliori amici.»

«Torna a dormire Boccaccia, ne hai bisogno.»

«Va bene, mamma Kaspbrak.»

Lo sentì ridere e non poté fare a meno di immaginarlo, seduto nel soggiorno di casa sua, la luce del mattino a illuminargli il viso. Gli mancava come non gli era mai mancato in ventisette anni.

Riagganciò dopo aver sussurrato un saluto frettoloso e rovesciò quello che restava del succo d'ananas nel lavandino.

Tornò pigramente sui suoi passi, verso la camera da letto, rendendosi conto solo in quel momento di essere ancora completamente, inesorabilmente nudo.

«Ehi...» nella penombra della stanza, qualcuno si muoveva ancora, sotto le lenzuola, «con chi parlavi al telefono?»

«Un amico che sta a New York», si limitò a rispondere e raggiungere l'uomo dai capelli chiari che si stiracchiava pigramente e lo attirava a sé per un rapido bacio. Lo sentì assaporare le sue labbra.

«Hai bevuto il mio succo d'ananas? Pensavo lo odiassi.»

«Infatti lo odio... ma era l'unica cosa senza alcool che avevo in casa.»

«Dovresti smetterla di bere.»

«E tu dovresti tacere e basta.»

Ora sapeva esattamente cosa fare, per impedirsi di pensare a Eddie Kaspbrak per il resto della nottata.

 

***

 

Richie scese dal taxi per accendersi una sigaretta, mentre aspettava che Eddie uscisse dall'hotel che avevano appena raggiunto.

L'amico si era ricordato il nome del luogo in cui avrebbe dovuto alloggiare, se non si fosse ubriacato come un pirata in erba, la sera precedente. Doveva recuperare i suoi bagagli e poi, una corsa in aeroporto per prendere il primo volo per Los Angeles.

Il suo agente si era preoccupato di prenotare un posto in più per il rientro.

Non era ancora sicuro di come la cosa lo facesse sentire.

Invitare Eddie a casa sua, per un tempo imprecisato, poteva essere la cosa migliore da ventisette anni a quella parte, come la più imbecille. Di certo era euforico come non si sentiva da molto tempo e senza l'aiuto di alcuna sostanza stupefacente.

Cercò solo di tenere bene a mente di restare coi piedi per terra. Di godersi il tempo che avrebbero potuto passare assieme. Come non facevano da anni.

Magari avrebbero finito con l'uccidersi l'un l'altro, conoscendo i precedenti, ma continuavano a tornargli in mente i barlumi della discussione alcolica che avevano avuto la sera prima e non poteva fare a meno di pensare di aver preso la decisione più saggia.

Eddie non era felice.

In certi momenti fu certo di avergli letto dentro una disperazione che aveva rischiato di spezzargli il cuore.

Che non era sicuro sarebbe riuscito a gestire; ma ci avrebbe provato.

Era venuto fino a Philadelphia per vederlo. Aveva detto di voler passare a trovare tutti gli altri, prima o poi, ma nemmeno Bill, che era stato il suo migliore amico di quando erano ragazzini, aveva avuto il primo posto, nei suoi pensieri.

Lo spettacolo, ormai lo aveva capito, era stato solo uno stupido pretesto.

Invitarlo a stare da lui era davvero il minimo che potesse fare. Lo faceva per Eddie. E forse... anche un po' per se stesso.

Sentì il cuore gonfiarsi di nuovo quando lo vide uscire dal portone dell'hotel, brandendo quella che sembrava la valigia più mastodontica che avesse mai visto. Lanciò la sigaretta sul marciapiede, prima di raggiungerlo.

«Se questa è la tua idea di bagaglio per una notte, non voglio sapere che cazzo ti porti in giro quando parti per una vacanza.»

«Piantala e carica in macchina il mio beauty case», disse rifilandogli fra le mani un'altra valigetta, più piccola, ma non meno pesante.

«Stai scherzando? I trucchi potevi anche lasciarli a casa!»

«Ma quali trucchi!»

«Quando dicevi di voler cambiare lavoro non sapevo delle tue aspirazioni da Drag Queen!»

«Tozier...»

«Kaspbrak...»

«Vaffanculo», pronunciarono all'unisono, prima di muoversi in direzione del taxi che aveva già messo in moto.

Sarebbe stata una lunga, travagliata giornata. Richie sperò durasse il più a lungo possibile.

 

Continua...

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

Il buio.

Eddie aprì gli occhi e si trovò ad osservare il buio. Completo, spiazzante. Avvolto in una bolla di silenzio.

La sentì montare all'improvviso quella sensazione di panico: i polmoni che si chiudevano, il respiro ridotto a un sibilo e quella insensata necessità di allungare una mano per cercare il suo respiratore. Un oggetto minuscolo, inutile ma che lo faceva sentire al sicuro.

Il respiratore però non era lì. Myra, sua moglie, non era lì. Comprese rapidamente di non trovarsi in un un luogo familiare.

Non riusciva a muoversi, non riusciva a respirare, lo sterno pulsava dolorosamente come trafitto da una lama. Avvertiva distintamente il sudore colargli giù per il collo, lungo la spina dorsale, ghiacciarglisi sulla schiena.

A Derry.

Era ancora a Derry, pensò. Sotto chilometri di tunnel sotterranei, nel ventre della bestia.

Dove erano tutti quanti? Perché lo avevano lasciato solo? Non voleva uscire da solo da quel posto.

Una brulicante sensazione di impotenza, di disperazione si impossessò di lui.

E fu in quel momento, in quell'organico, palpitante nulla che si rese conto che stava gridando.

«Eddie! Eddie...» un richiamo, una mano sulla spalla e un cono di luce a illuminare una sagoma che in altri contesti non avrebbe faticato a riconoscere.

Si divincolò, agitandosi, deciso a sfuggire a qualsiasi cosa lo avesse catturato.

«Eddie, sono io. Sono Richie, guardami.»

Una mano sul viso, un guizzo di lucidità.

«R-Richie... ?»

Lo riconobbe, certo, anche senza occhiali, ma non riuscì a comprendere cosa stava accadendo finché non fu accolto nel suo abbraccio. Caldo, confortante. Un abbraccio che non riuscì a ricambiare, non subito almeno.

«Va tutto bene, Eddie. Va tutto bene.»

In qualsiasi posto fosse, improvvisamente, si sentì al sicuro.
 

***
 

«Hai bisogno di aiuto serio, Eddie caro, non puoi continuare così».

Myra non faceva altro che assillarlo, giorno, dopo giorno, dopo giorno.

Restava sempre spiazzata dai suoi violenti attacchi di panico notturno. Non riusciva a comprenderli, né a dargli appoggio sufficiente per superarli. Semmai non faceva che aumentare il suo disagio, mettendoci il carico da cento. Gli aveva suggerito la psicoterapia, si era vista costretta ad affrontare, lei stessa, argomenti che non era riuscita del tutto a comprendere. Come avrebbe anche solo potuto raccontarle cosa era successo esattamente a Derry, senza che venisse preso per pazzo? Con gli altri Perdenti avevano preso la solenne decisione di raccontare una comoda menzogna a riguardo. Sul come si fosse praticamente impalato da solo dopo uno stupido tuffo nelle acque dei Barren. Un incidente. Le autorità l'avevano presa per buona e multato ognuno di loro per l'idea sconsiderata. Un misero prezzo da pagare per evitare di essere internati una volta per tutte.

Myra non aveva fatto altro che spingerlo ancor più a fondo in quella sua prigione fatta di soffocanti attenzioni.

«Sto bene, ti ho detto. Non ho bisogno altro aiuto, ho solo bisogno di tempo.»

«Sono passati sei mesi e la situazione non migliora, dovresti valutare di cambiare terapia, il dottor Bridges ha detto che...»

«So cosa ha detto il dottor Bridges, ma non mi interessa. Posso decidere da solo di cosa ho bisogno o meno.»

«Il dottor Bridges», riprese Myra, come se non lo avesse nemmeno sentito, «ha detto che puoi andare da lui, la prossima settimana, ti presenterà a una sua collega, una specialista davvero in gamba. Un curriculum di tutto rispetto, se me lo chiedi. Ho guardato fra i tuoi impegni e giovedì prossimo sei libero, così ti ho già fissato un appuntamento e...»

«Ma allora non mi ascolti?»

«Come, caro? Ma certo che ti ascolto...» allungò una mano per sfiorargli il viso ma Eddie si ritrasse infastidito.

«No, non mi ascolti. Ho detto che non ci andrò.»

«Che sciocchezze, certo che ci andrai, tesoro.»

«Piantala di trattarmi come fossi un bambino!» si era rimesso in piedi, scostando la sedia del tavolo di cucina con un gran fracasso. Myra si era zittita, arretrando appena con quella sua faccia instupidita, piena di sconcerto.

«M-ma E-Eddie caro, non...» la voce tremula, sulla soglia del pianto.

«Non fare così. Non fare così, cazzo! Non riesci ad affrontare una discussione senza piagnucolare o prendere la parola, senza nemmeno ascoltarmi? Ce la fai? Ci riesci? Sì? Per due minuti?»

La vide annuire freneticamente e dovette combattere con se stesso per non pentirsene immediatamente o chiederle scusa per come le si era rivolto. In dodici anni di matrimonio erano rare le volte che aveva perso la pazienza a quella maniera o che le si era rivolto con niente più che infastidita accondiscendenza.

«Non ho alcuna intenzione di andare dal dottor Bridges», prese fiato, «non ho alcuna intenzione di farmi psicanalizzare più di quanto non abbiano già fatto. Mi hanno ribaltato come un calzino e tutto quello che sono riusciti a tirarmi fuori è che sono insoddisfatto della mia vita. Perciò forse su una cosa hai ragione: dovrei seguire i consigli dei medici. Alla lettera. Quello che ho intenzione di fare, adesso, è prendermi una lunga aspettativa dal lavoro e capire che diavolo ho intenzione di fare da oggi in poi. C'era un prima... e ci sarà un dopo. Io mi trovo esattamente nel mezzo. Mi sono trovato nel mezzo per più di ventisette anni.»

Myra adesso sembrava terrorizzata.

«Perciò ora sta a te decidere se hai voglia di assecondare questo mio nuovo percorso o starne fuori, per sempre.»

«Eddie m-mi stai dando un ultimatum?»

«Se è così che vuoi chiamarlo...»

«Non oserai», si era rimessa in piedi, superandolo in altezza, persino.

Per la prima volta in dodici anni, Eddie Kaspbrak non aveva arretrato di un solo passo.
 

***
 

Eddie osservava le spirali di fumo che si avvolgevano sopra la sua tazza di tisana bollente.

Lo sguardo un po' perso, la sensazione di esser stato accartocciato come un foglio di carta e poi rimesso in sesto in modo approssimativo.

«Hai bisogno di qualcosa di più forte?» la voce di Richie lo costrinse a sollevare lo sguardo, «ce l'ho qualcosa di più forte.»

Non gli erano servite spiegazioni riguardo ciò che era appena successo. Gli era bastato assistere al patetico teatrino per capire; meno di mezzo secondo per agire e trascinarlo fuori dall'incubo.

Succedeva spesso quando erano ragazzini e il miracolo non si era esaurito adesso che erano due adulti.

«No, non ho intenzione di finire agli alcolisti anonimi nel giro di una settimana. Questa tisana che sa di calzini marci andrà benissimo.»

«È valeriana. Prego, comunque.»

«Scusa...» si passò una mano sul viso, esausto, «è che...»

«Lascia perdere. Fa schifo anche a me la valeriana... ma funziona.»

Eddie ne bevve un sorso a dimostrazione che, quantomeno, stava cercando di metterci la buona volontà: «Non ti facevo un tipo da valeriana.»

«Infatti non lo sono», gli rispose stiracchiandosi, cercando nelle tasche della felpa un pacchetto di sigarette. «È un souvenir dimenticato qui da un mio... ex.»

Eddie alzò lo sguardo, sorpreso.

«Cosa?» lo incalzò Richie. «Pensavi conservassi il mio sedere per il controllo della prostata?»

«Cristo santo, Richie... perché con te deve diventare tutto... grottesco?»

«Grottesco il controllo della prostata? Non dirmi che non ne hai mai fatto uno. Pensavo che nessun reparto ospedaliero avesse più segreti per te.»

«Non era quello che intendevo, è che...»

«Che hai una visione romantica del sesso? Non avevo alcun dubbio a riguardo», si rimise in piedi e andò ad aprire una finestra, prima di accendersi la sigaretta. Un vizio che non si era tolto dai primi anni dell'adolescenza. «Scommetto che la tua prima volta è stata su un letto di petali di rosa, circondato da candele alla vaniglia. Poi hai cominciato a starnutire per l'allergia e la tua ragazza ha cominciato finalmente a sentire qualcosa.»

Eddie scosse la testa e affogò la sua esasperazione nella tisana che sapeva di piedi.

Si sentiva osservato ma cercò disperatamente di non farci caso. Non era stata sua intenzione creare tanti disagi, ma nemmeno aveva messo in conto che si sarebbe accampato a casa di uno dei suoi migliori amici a tempo indefinito.

In realtà non aveva programmato un bel niente di quello che era successo nelle ultime quarantotto ore, il che aveva dell'assurdo.

Eddie Kaspbrak che non calcolava i rischi delle sue decisioni fin nei minimi dettagli: doveva essere completamente impazzito.

«Secondo te sto impazzendo, Richie?» la domanda gli era uscita flebile, quasi sovrappensiero, una riflessione raccolta in volo che si era trasformata in parola.

La sensazione di avere il suo sguardo addosso si intensificò, se possibile.

«Non più del solito, direi», una risposta di quelle che dovrebbero farti sentire meglio, ma che non aveva sortito l'effetto desiderato. Poi il rumore dei passi dell'uomo e una mano sulla spalla, «Non stai impazzendo, Eddie.»

«A volte mi sembra di sì», sospirò, «a volte ho come la sensazione di non avere più il controllo sulla mia vita. E... s-su niente, in realtà.»

«Non sempre si può avere il controllo. A volte tocca inserire il pilota automatico», lo vide indicarsi, «chiedilo a un esperto.»

«Per te è più facile. Tu sai sempre cosa fare.»

«Io?», Richie scoppiò a ridere, «sono quarant'anni che prendo decisioni di merda, amico mio, e mi vieni a dire che so cosa fare? Non lo so più di quanto non lo sappia tu o chiunque altro, credimi.»

«Allora insegnami cosa dire al pilota automatico per impedirgli di lanciarsi nell'abisso.»

Richie scosse la testa, posando i gomiti sul tavolo, per cercare di catturare il suo sguardo, fisso in quella tazza di tisana di piedi.

«Che melodramma, Spaghetti. Non devi dirgli nulla, perché non stai precipitando in nessun abisso. Ci stai risalendo, da quella fogna, credimi... solo che devi capire che direzione seguire. E quello che mi hanno insegnato al corso di sub - non dire niente, sì, ho seguito un corso di sub - è che quando ti trovi in difficoltà devi sempre seguire la direzione delle bolle. Quelle ti riportano in superficie.»

«Io non vedo nessuna bolla Richie...»

«E io cosa sono?» si batté una mano sul petto, «Mi chiami sempre coglione. Coglioni o bolle hanno sempre una forma... sferica. Sarò la tua bolla, se lo desideri.»

Eddie sorrise e finalmente si decise a guardarlo. Era decisamente meglio Richie di quella stupida tisana.

«Non potrai essere la mia bolla per sempre.»

Lo vide esitare un istante, come fosse indeciso se dire una cretinata immane o qualcosa di serio.

Ma la sua mano fu più rapida di qualsiasi parola. Catturò quella di Eddie, prima che la sua boccaccia potesse dire qualsiasi cosa.

«Sarò la tua bolla ogni volta che ne avrai bisogno...» mormorò, «coglione.»

Eddie scosse la testa con accondiscendenza a quella precisazione, ma sentì qualcosa di familiare in fondo allo stomaco, qualcosa che aveva cercato di ignorare il più delle volte quando pensava a Richie; forse perché lo riteneva strano, forse perché sbagliato, il più delle volte perché non lo capiva.

All'inizio era convinto si trattasse solo di suggestione, come quel pensiero che lo tormentava da mesi, perché ci aveva rimuginato troppo. Dal giorno in cui Richie gli aveva confessato di essere... stato innamorato di lui. Si era arrovellato per settimane sulla possibilità di aver ignorato i segnali o averli mal interpretati. Il senso di colpa per non aver avuto l'audacia o la giusta inclinazione per ricambiarlo come avrebbe meritato.

Ma poi... erano arrivati gli incubi e i sogni che sembravano ricordi perduti di quell'infanzia che ancora faticava a tornare del tutto. Che forse non sarebbe mai tornata del tutto. I contorni di alcuni avvenimenti ancora offuscati, persi nelle nebbie di Derry.

Ma uno di quei sogni... uno su tutti gli aveva scatenato dentro quell'abissale confusione che in nessun modo avrebbe mai potuto ricollocare se non avesse preso quel cazzo di aereo per Philadelphia.

E ora che era arrivato fino a Los Angeles, per lui, si chiese se non fosse arrivato il momento di capire se si trattava solo di suggestione e senso di colpa o se fosse davvero qualcosa che aveva solo dimenticato.

«Richie...» si ritrovò a dire, accertandosi di avere la sua più completa attenzione.

E forse fu il tono o la gravità del suo sguardo a far sì che Tozier lo osservasse con paziente attesa.

«Te lo ricordi il giorno in cui me ne sono andato da Derry?»
 

***
 

Era un freddo pomeriggio di inizio primavera, Eddie si affacciò dalla finestra della sua stanza per un'ultima volta.

Il viavai degli operai, che caricavano su un grosso camion bianco dei traslochi tutto quello che era stato in quella casa, dacché aveva memoria, gli metteva addosso un misto di impotenza e malinconia. Impacchettare una vita intera in grossi scatoloni di cartone non era una cosa da tutti i giorni. Doveva ancora scendere realmente a patti col fatto che avrebbe lasciato quella casa, per sempre, che forse avrebbe lasciato persino Derry per sempre.

Dopotutto, lui e sua madre, non avevano parenti prossimi che li avrebbero richiamati in quel luogo per le feste: erano soli, e stavano scappando (sì scappando. Perché era così ossessionato da quella parola?) da quella zia che diceva li avrebbe accolti più che volentieri, lontano dal Maine; mentre i suoi amici, bè... molti di loro se ne erano già andati. Come se Pennywise, svanendo per sempre (o almeno così credevano), avesse spezzato quel filo invisibile che li aveva tenuti legati. Rassegnato a lasciarli andare alla deriva, uno dopo l'altro.

Dopo quel pasticcio col padre, Beverly era stata la prima a lasciare Derry. Poi Stan. Ben a seguire e infine Bill... l'addio più tormentato e doloroso. Almeno fino a quando Eddie non si era reso conto di dover essere lui il prossimo a partire. A lasciare tutto. A lasciare chi restava...

Mike sembrava aver accettato la sua partenza, rassegnato a quello straziante esodo, ma Richie... Richie non si era più fatto vedere da quando gli aveva annunciato che non avrebbe terminato il semestre nella stessa scuola. E la cosa, a livello inconscio, gli aveva spezzato il cuore.

Ora si trovava a un passo dal trasloco. Ancora qualche mobile, una manciata di scatole e si sarebbe trovato in una casa fatta di echi e sagome di quadri fantasmi sui muri.

Sarebbero partiti quella sera stessa.

Si scansò dalla finestra e raccolse i due zainetti nei quali aveva raccolto la sua collezione di fumetti.

Sua madre gli aveva chiesto di sbarazzarsene ma, forse per affetto o una sorta di finale atto di ribellione, non lo aveva fatto. Li avrebbe caricati su quel camion e portati con sé. Su come giustificarli una volta arrivati a destinazione ci avrebbe pensato poi.

Scese i gradini, seguendo un paio di operai nerboruti che parlavano una lingua straniera, forse portoghese e si trovò all'esterno, dove sua madre, accanto alla recinzione, stava conversando con il vicino: un tizio che faceva lo scrittore e raramente si interessava a loro. Forse era interessato a comprare la casa o forse solo a capire chi sarebbe venuto a disturbare le sue notti insonni di vena artistica, una volta trasferiti i silenziosi vicini.

Approfittò di quell'attimo di distrazione per lanciare, letteralmente, uno dei due zaini sul camion e poi... e poi si rese conto che non era un operaio quello che se ne stava in piedi, a reggere una bici, appena fuori dal vialetto di casa.

«Richie...», mormorò, prima di poter caricare anche il secondo zainetto. L'istinto lo spinse a muoversi rapidamente, a caricarsi sulle spalle quello che gli era rimasto e andare incontro al ragazzo, prima che si sfaldasse come una fantasia, così come era arrivato.

Non sapeva cosa dirgli, in realtà, non come avrebbe reagito se gli avesse confessato che sarebbe partito definitivamente da lì a qualche ora ma Richie non sembrava essere lì per delle spiegazioni.

«Ce li hai due minuti?», gli chiese, semplicemente.

Eddie guardò in direzione di sua madre, che non sembrava essersi accorta di nulla, men che meno che fosse sceso dalla sua stanza.

«Anche cinque», sorrise un po' nervoso e, senza dire niente, prese a seguire il ragazzo e la bici che si era portato dietro.

***

Richie non sembrava aver capito la domanda.

Lo fissava un po' instupidito, come se faticasse anche solo a ricordare le dinamiche del proprio, di trasloco.

«Non sono sicuro...»

«Non te lo ricordi.»

Richie gli lasciò andare la mano.

«È ancora tutto un po' confuso, sai? Tante cose sono tornate, sopratutto quelle che abbiamo ricordato assieme a Derry, ma altre... altre devo proprio sforzarmi. Solo la scorsa settimana mi sono ricordato di una stupida lezione di ballo che Beverly mi aveva dato giù ai Barren. È stata una vera rivelazione.»

Eddie si trovò a sorridere al solo pensiero di Richie e Beverly che ballavano sulle note di una vecchia radiolina, giù ai Barren.

«Bè, non importa, è stato stupido chiedertelo.»

«Magari potresti rinfrescarmi la memoria tu. Sono sicuro che se ne parliamo, i ricordi torneranno più facilmente.»

«No... non...» cercò di imbastire la frase affinché risultasse un diniego convincente ma poi si trovò a raccontare una bugia, «non lo ricordo nemmeno io. Ero solo curioso di sapere se venisse in mente a te...»

Richie gli lanciò uno sguardo perplesso e per un lungo attimo Eddie fu convinto avrebbe scoperto la sua ingenua bugia, ma poi lo vide stringersi nelle spalle.

«Mi spiace. Pagina bianca», fece un cenno davanti al viso come a cancellare tutto quanto.

«Non importa.»

«No, aspetta, aspetta. Ricordo!» Eddie rialzò lo sguardo, il cuore che prese a battere un po' troppo rapidamente, un picco d'aspettativa. «Ricordo che ero veramente incazzato con te. E con tutti gli altri. Sì, questo me lo ricordo. Perché ve ne stavate andando tutti, come se poi avreste potuto fare veramente qualcosa; eravamo solo dei ragazzini che dovevano seguire i loro genitori, ma ero... incazzato. Avevo finito per prendere a pugni una pecora morta alla macelleria di Mike, perché mi ricordava Rocky e sembrava che a Rocky Balboa una cosa del genere lo calmasse alla grande.»

L'aneddoto ebbe il potere di accendere un sorriso sul viso di Eddie, ma non placò la sua delusione. Non era esattamente la risposta che si era atteso. Eppure aveva il terrore di raccontare quello che lui ricordava. Se non fosse stato un vero ricordo ma solo uno stupido sogno? Avrebbe alimentato stupidamente le speranze di Richie? O forse lo avrebbe solo imbarazzato, visto come si erano messe le cose. Aveva un fidanzato. Aveva avuto... insomma era andato avanti.

E lui... lui non era sicuro, non ancora, di capire che diavolo gli stesse succedendo.

«Bè, l'immagine di te che prendi a pugni una pecora morta non è esattamente il tipo di ricordo che mi aspettavo ma... ora mi hai dato di che riflettere per il resto della nottata.»

«Ehi, che razza di ingrato, ti ho appena aperto il mio cuore su un avvenimento davvero intimo.»

«Le pecore morte?»

«No, il tuo cervello d'arachide.»

Eddie soffocò una risata.

«Credo sia il caso che tu vada a letto, Richie... perché se cervello d'arachide è l'insulto migliore che ti è venuto in mente devi essere davvero stanco.»

«Già... e chi mi assicura che tu non ti metterai a risistemarmi tutti i cassetti della cucina mentre torno a letto?»

«Non sento questo impellente bisogno di risistemarti casa, Boccaccia. Considerato come ricordavo la tua camera a Derry, questo appartamento a confronto è il giardino zen di Marie Kondo», gli rispose.

Lo guardò rimettersi in piedi e prendergli la testa fra le mani: «Questo elemento non mi trasmette gioia, forse è il caso di sbarazzarsene», disse Richie in una malsana imitazione della Kondo.

Eddie sbuffò qualcosa che voleva essere un insulto o una risata e lo spintonò via.

«Va' a dormire...»

«Ci vado, ci vado, ma anche tu dovresti. Ma se proprio non ci riesci... avrei la lavatrice da fare.»

«Piantala», gli lanciò dietro un tovagliolino abbandonato sul tavolo.

Ma Richie si era già allontanato, cinguettando un buona notte.
 

***
 

Camminavano fianco a fianco, in silenzio. Un evento straordinario considerato come si svolgevano, di solito, i loro incontri: Eddie che non smetteva mai di parlare, mentre Richie lo rimbeccava con gli insulti più fantasiosi che gli venissero in mente.

Ma quello non era il momento per le stronzate, non era il momento per i giochi, per gli scherzi, per le spacconate da ragazzini. Eddie sapeva che quello sarebbe stato un addio. E lo sapeva anche Richie, perché così serio non lo aveva visto mai.

«Perché ti sei portato dietro quello zaino?» la prima frase che gli sentì pronunciare da quando si erano allontanati da casa. Non che avessero fatto molta strada, probabilmente avrebbero solo girato pigramente attorno al quartiere.

«Non lo so, pensavo di lanciarlo sul camion dei traslochi per non farlo vedere a mia madre... e poi me lo sono solo portato dietro.»

«Che c'è lì dentro che la signora Kappa non può vedere? La tua collezione di film porno?»

«Macché, sono solo fumetti... fumetti, vedi?» si sfilò lo zaino dalle spalle e lo posò a terra per aprirlo, come dovesse dimostrare a Richie che non erano film porno. Lui, che di quei filmacci non ne aveva mai posseduti e le sole immagini spinte che avesse mai visto arrivavano dalle riviste sconce che Richie stesso aveva sgraffignato al mini market della città e portato ad un raduno dei Perdenti come consultazione... anatomica.

Richie posò a terra la bici e si chinò a guardare, sicuramente più interessato ai titoli che a capire se fossero davvero... porno.

«Ehi, questo è mio!» disse, tirando fuori un numero di Batman.

«Davvero? Non me lo ricordavo, puoi riprendertelo se vuoi...»

«Uhm, no, puoi tenerlo tu... la storia non mi era piaciuta granché», lo lanciò di nuovo nello zaino, tornando a scartabellare fra gli altri titoli.

Eddie rimase per un po' ad osservarlo, senza capire se Richie avesse effettivamente qualcosa da dirgli o se fosse venuto solo per passare le ultime ore con lui. E a guardarlo così, chino sui suoi fumetti, con i capelli ancora scombinati dal vento della bicicletta e quella sua camicia dai colori arditi, capì che quelli erano gli ultimi minuti che avrebbero potuto passare assieme per molto tempo. Fu così che sentì montargli dentro un tale magone che per poco non fu certo che sarebbe esploso come uno stupido, all'angolo di quella strada.

«Rich... io stasera me ne vado», non era sua intenzione interrompere a quel modo la tranquillità del momento, non dopo settimane che Richie nemmeno gli parlava, ma sapeva che se non lo avesse detto subito, dopo non sarebbe più riuscito a pronunciare una sola parola.

Il ragazzo, ancora chino sullo zaino, non disse nulla, si prese tutto il tempo di finire di sfogliare un numero di una rivista horror per ragazzi.

«Lo so», rispose infine, senza rialzare lo sguardo, «me lo ha detto Mike.»

Si rimise in piedi.

«E da quel ficcanaso che è, non ha fatto altro che tormentarmi, dicendo che sarei almeno dovuto venire a salutarti. Una seccatura, se proprio vuoi saperlo. Ho dovuto assecondarlo per farlo tacere. Sappi che se sono venuto qui è solo per causa sua», intrecciò le braccia al petto con aria solenne, ma quando ricambiò lo sguardo di Eddie tutta la spavalderia che si era costruito addosso crollò con sbigottita rapidità.

Eddie vide ingrandirsi quei suoi occhi già enormi, dietro le lenti degli occhiali, e capì immediatamente cosa lo avesse sconcertato a tal punto.

Si era appena reso conto di aver cominciato a piangere.

Non che non ci avesse provato a trattenersi, ma semplicemente quel blocco, proprio all'altezza della gola, era emerso, senza possibilità di recupero. E si odiò per questo: non avrebbe voluto piangere, non davanti a Richie.

«E-ehi, guarda che io stavo scherzando. Ancora non mi conosci, dopo tutto questo tempo? Io scherzo sempre, Kaspbrak... ma proprio oggi doveva venirti in mente di piangere?» parlava rapidamente, sistemando ossessivamente sul naso la montatura di quei suoi grossi occhiali.

«Davvero, Eds, non piangere, non lo sai che piangere... che piangere fa... spezzare le venuzze degli occhi! E d'un tratto ti ritrovi con gli occhi così rossi e gonfi da fare concorrenza a una... mosca! Come nel film La Mosca, te lo ricordi? Non vorrai diventare brutto come quel Seth Brundle!»

Eddie, che lo stava ascoltando certo, non riusciva comunque a frenarle quelle sporche lacrime, né a ridere delle sue stupide battute, perché capiva che gli sarebbero mancate anche quelle, oltre a un sacco di altre cose. Gli sarebbe mancato quel suo modo buffo di muoversi, gli sarebbero mancati tutti i nomignoli idioti che gli affibbiava, gli sarebbero mancate le sue Voci, gli sarebbero mancate le giornate passate assieme, i pomeriggi alla sala giochi, le estati fatte di risate e sfide impossibili ai Barren, le corse a perdifiato in bicicletta e le sessioni condivise su quell'amaca malmessa, giù al rifugio dei Perdenti. Gli sarebbero persino mancate quelle sue disgustose battute su sua madre.

In un istante aveva capito che tutte le cose belle della sua infanzia sarebbero state spazzate via in poche ore. Il suo mondo, così come lo aveva vissuto sino a quel momento, si sarebbe estinto, per darne vita a uno nuovo. Un mondo diverso, senza i suoi amici, senza Richie.

«Io non me ne voglio andare», si trovò a dire, senza aver preventivato nemmeno quello.

Richie si zittì per qualche istante, sistemandosi ancora una volta quei suoi occhiali. Anche quel gesto gli sarebbe mancato.

«Nemmeno io voglio che tu te ne vada», mormorò e dal modo in cui le labbra gli si erano piegate all'ingiù capì che ci sarebbe voluto davvero poco per veder esplodere anche lui, di quella stessa, strampalata malattia di pianto.

Non ci pensò due volte a toglierlo dall'imbarazzo e invece di cercare di placarsi fece solo un paio di passi in avanti, prima di tuffarsi, letteralmente, fra le sue braccia. Uno slancio rapidamente ricambiato, così disperato e audace che, in qualche assurdo modo, sembrò decretare la fine dell'infanzia così come l'avevano conosciuta.

«Mi fanno schifo le lettere, ma ti scriverò tutti i giorni.»

«Non fare promesse cretine che non puoi mantenere, Tozier...»

«Una volta settimana, allora.»

Eddie lo strinse più forte.

«V-va bene, va bene. Ti scriverò e basta... quando avrò qualcosa da dire. Se mi lascerai i tuoi fumetti.»

«Tutti, tranne Batman.»

«Tranne Batman, ovvio, quello fa schifo.»

Si presero tutto il tempo per godersi quell'ultimo, estremo, atto di delicata intimità, prima di essere riscossi dal rumore di un motore che si riavviava, nel parcheggio di qualcuna delle abitazioni accanto.

Quando si divisero erano ancora così vicini che Eddie poteva vedere, sul viso dell'amico la spruzzata di lentiggini che facevano capolino da sotto gli occhiali.

E sentì riaffiorargli ancora quella stupida sensazione alla base dello stomaco, la stessa che provava ogni volta che era con Richie, da qualche mese a quella parte, una sensazione che non aveva mai avuto il coraggio di affrontare.

«D-devo rientrare, prima che mia madre chiami la polizia...» balbettò.

«C-certo... certo che devi rientrare, non possiamo far impensierire mamma chioccia.»

«Ci sentiamo presto allora...» mormorò, asciugandosi gli occhi, e chinandosi sullo zaino per recuperare quell'orribile numero di Batman. Lo alzò come a far vedere a Richie che era proprio quello che aveva intenzione di portarsi via. Diede un calcetto al resto, spingendolo nella sua direzione.

«Questi sono tutti tuoi, ricordati di me, mentre li leggi.»

Richie si strinse nelle spalle, un mezzo sorriso triste sulle labbra: «Sarebbe comunque impossibile dimenticare che sono tuoi, sembrano nuovi.»

Eddie sentì di nuovo tornare alla carica quel nodo alla gola e poi quella scossa allo stomaco, capace di farlo sentire euforico e malato allo stesso tempo. Comprese così che se non lo avesse fatto subito, non sarebbe riuscito a farlo mai più. Prese come la rincorsa, di nuovo, verso Richie. Uno dei suoi più cari amici d'infanzia e la prima e unica persona ad averlo mai fatto sentire a quella stupida maniera.

Si alzò sulla punta dei piedi e, prima che potesse anche solo decidere come doveva succedere, era già successo: labbra su labbra.

Un bacio rapido, casto, salato di lacrime e caldo come l'estate.

L'istante successivo stava già correndo via, il richiamo di sua madre dalla fine della strada.

Una nervosa risata in gola e di nuovo quel magone inconsolabile.

Non lo sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto Richie... per i prossimi ventisette anni.
 

***
 

Sciacquò la tazza nel lavandino e la ripose a sgocciolare assieme alle altre stoviglie.

Era passata quasi un'ora da quando Richie era tornato a coricarsi, ma Eddie non era sicuro di poter fare altrettanto; per nulla convinto degli effetti benefici della valeriana. Probabilmente sarebbe rimasto a fissare il soffitto per il resto della notte, a pensare e ripensare a quello stupido... sogno o ricordo che fosse.

Non avrebbe potuto mai presentarlo a Richie, non finché non fosse stato certo di non incasinargli la vita. Non prima di essere sicuro, lui stesso, che quel sentimento che lo aveva spinto a baciarlo, il giorno della sua partenza, fosse reale e non... una suggestione dell'inconscio.

Suggestione. Cominciava a odiarla, quella parola.

Forse avrebbe solo dovuto prendersi qualche giorno, godersi la compagnia di Boccaccia e poi tornarsene a New York, a cercare di ricominciare in un altro modo che non fosse quello di ripescare vecchie fantasie infantili per dare un nuovo slancio alla sua esistenza.

Si passò una mano sul viso, e si fece strada verso la camera degli ospiti, più confuso di quando si era svegliato. In un certo senso avrebbe preferito farsi catturare solo dagli incubi. Quelli, di giorno, se non altro, sparivano.

Fu allora che udì un rumore. Sottile e prolungato. Un lamento. Dalla camera di Richie.

Per un istante si disse di tirare dritto, che non erano affari suoi, ma quando questi si ripropose non potè far altro che dirigersi dove l'amico stava risposando. Lo vide attraverso le ombre della stanza. Gli occhi chiusi, il viso contratto in una smorfia e poi di nuovo quel lamento, prolungato come un pianto sommesso.

Un incubo.

Lo poteva capire dal modo in cui muoveva le palpebre ora che si era avvicinato.

Per quanto tempo ancora IT avrebbe continuato a tormentarli, anche ora che era morta?

Perché non poteva essere altro che quello. Credeva forse di essere l'unico? Quell'esperienza aveva lasciato un segno, dentro ognuno di loro. E se la prima volta gli era stato concesso di dimenticare, di preservare la loro esistenza dall'orrore, questa volta non sarebbe stato così semplice. Un caro prezzo per mantenere quei ricordi orribili sì, ma anche tanto cari. Importati a definire quello che erano e quello che avrebbe finalmente potuto scegliere di diventare.

Si trovò a sedersi sul bordo del letto di Richie, a posargli una mano sul viso, ad accarezzargli debolmente una tempia, finché il lamento non sembrò chetarsi.

«Eddie...» lo sentì mormorare.

Sussultò appena, come fosse stato scoperto, ma Richie stava ancora dormendo.

Gli passò una mano fra i capelli, quel viso così vulnerabile, senza i suoi occhiali.

«Sono qui, la tua bolla...», disse, e sul volto di Richie fiorì un debole sorriso.

 

Continua...

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

Pensa, pensa, pensa.

Richie non faceva che pensare ad una sola cosa, da qualche giorno a quella parte.

E no, non si trattava del sedere di Eddie Kaspbrak. Per quanto carino e proporzionato fosse. E per quanto se lo trascinasse in giro per casa di continuo. Fasciato in un paio di calzoni da casa che lui stesso gli aveva ingenuamente prestato, a suo agio come se ci fosse nato, con quei cazzo di pantaloni.

Eddie, che in pochi giorni non aveva fatto altro che portar ordine e scompiglio in un un'unica formula.

No. In realtà Richie non faceva che pensare a quell'assurda conversazione della famosa notte dell'incubo. Bè, famosa per modo di dire.

 

«Te lo ricordi il giorno in cui me ne sono andato da Derry?»

 

No, dannazione, non se lo ricordava! Eppure doveva esserci un motivo se Eddie glielo aveva chiesto. Certo, lui sosteneva di non avere la minima idea di come si fossero svolte le cose; certo, poteva anche tranquillamente crederci, ma...

Perché era disperatamente convinto che, dietro quella domanda, si celasse qualcosa di importante?

Di sicuro, quella di ventisette o ventisei anni prima non doveva essere stata una giornata di quelle in cui ti svegli cinguettando. Sperò solamente di non aver dato spettacolo di sé, con qualche performance tutt'altro che dignitosa. Conoscendosi però, dopotutto, poteva essere andata davvero così: un giovane Richie Tozier fuori dalla grazia di Dio perché il ragazzo per il quale aveva una cotta se ne stava andando per sempre da Derry. In fondo aveva preso a pugni una pecora morta, sempre per lo stesso motivo.

Si passò una mano sul viso solo al pensiero di quell'ipotetica sceneggiata, le gambe penzoloni giù dal bancone della cucina e un'arancia che faceva saltare da una mano all'altra da una decina di minuti buoni.

Eddie era di spalle, ai fornelli, tutto preso a cucinare qualcosa per colazione. Sempre con quei dannati pantaloni addosso.

Ovviamente era anche bravo a cucinare, come avrebbe potuto essere altrimenti?

«Spaghetti, ne hai ancora per molto? Sto morendo di fame», gli chiese, sbilanciandosi appena per sbirciare: il profumo era delizioso, nemmeno gli aveva chiesto cosa avesse intenzione di preparare. Gli sarebbero andate bene anche delle sardine sott'olio.

«Roma non è stata costruita in un giorno.»

«Una bella scusa del cazzo per dire che mi toccherà morire di stenti», sollevò una gamba, sdraiandosi quasi sul bancone.

«Tranquillo, non morirai di stenti con le porcate che ti sei mangiato ieri sera. Ma se pensi di essere più veloce, vieni qui e fallo tu.»

«Perché diamine dovrei mettermi a cucinare quando qui attorno è pieno di ristoranti che non vedono l'ora di farlo per me?»

«Allora domattina scendi qui sotto e rendi felice un ristoratore.»

Eddie si era voltato, nella padella due crepes dall'aria gustosa, e sul viso un sorriso che si stava lentamente spegnendo per lasciar spazio all'indignazione: scoprirlo così, spalmato sul bancone, una cosa inaccettabile.

«Potevi almeno apparecchiare!»

«E perdermi lo spettacolo di te che spadelli come la più devota delle mogliettine?» di nuovo fece passare l'arancia da una mano all'altra, pigramente, con tutta l'intenzione di farlo innervosire di proposito. Adorava vederlo inalberarsi per un nonnulla.

«Ma almeno mi sarei risparmiato te, versione cadavere, sul tavolo del coroner», posò di nuovo la padella, alla ricerca di due piatti.

«Geisha, stavo facendo la geisha.»

«Te, versione geisha cadavere, sul tavolo del coroner. Dai, levati, cazzo... è anche poco igienico!»

«Il bancone della mia cucina?»

«No, tu sul bancone della cucina.»

«Oh, per piacere...», si rimise seduto, «è il mio bancone della cucina, nella mia casa. Ho disseminato pelle morta in ogni fottuto angolo di questo appartamento, per non parlare di capelli e peli pubi-»

«Cristo, che schifo!»

«Guarda che li perdi anche tu i capelli e non solo quelli, amico mio, ne sono sicuro...», lo aveva agguantato per il polso mentre stava portando al tavolo le posate. Se lo era trascinato vicino e circondandogli le spalle con un braccio aveva preso a scompigliargli i capelli, «oppure Eddie Spaghetti ha capelli fatti di fili di seta e pelle cosparsa di polvere di fata? Carino, carino come un mini pony! Sentilo come profuma, anche! Di zucchero filato e cacca di unicorno!»

«Ma che cazzo ti prende? Piantala!» lo sentì divincolarsi brutalmente e lo lasciò andare, ma non riuscì a trattenere una risata a come il viso gli si era congestionato.

«Tu sei pazzo», Eddie si picchettò una tempia con un dito, posando di malagrazia le posate sul tavolo.

«Pazzo di te, my love».

«No, pazzo e basta», lo sentì rispondere, mentre si sistemava alla bell'é meglio i capelli che gli aveva assolutamente sconvolto, rendendolo, se possibile, ancora più irresistibile ai suoi occhi. Richie si ritrovò a sbirciarlo, rendendosi conto che, sotto sotto, Eddie stava sorridendo. La cosa lo riempì di una malsana euforia, nonostante gli fosse ben chiaro quanto poteva considerare patetico conservare ancora tutta questa devozione nei confronti dell'amico. Ancora, dopo così tanti anni.

«Ora Richie alza il culo e dammi una mano ad apparecchiare o questa roba te la ritrovi per cena.»

«Sì, capitano, mio capitano», esalò, saltando giù dal bancone, facendo diligentemente ciò che gli veniva chiesto, «... ma a proposito di cena...».

Recuperò il succo d'arancia dal frigorifero, sistemandolo sul tavolo assieme alle altre cose.

Eddie sollevò un sopracciglio, sbirciandolo con sospetto.

«Cosa? Non ho ancora detto niente!»

«È una misura preventiva.»

Richie si mise seduto rumorosamente con un sospiro esasperato: «Povera donna quella Myra, le sono assolutamente solidale. Disgraziata creatura, dodici anni di matrimonio con una simile strega.»

Eddie fece finta di niente ma gli servì la colazione, mettendosi seduto a sua volta, riservandogli un rumorosissimo silenzio.

Si chiese se non stesse esagerando, ma non ci poteva fare niente se, ora che erano di nuovo insieme, l'adolescente che regnava sopito nel suo spirito era risorto più forte di prima. Semplicemente si era ricordato che significava passare del tempo con Eddie e come lo facesse sentire vivo potergli dedicare tutte quelle stupidissime attenzioni. In un certo senso sì, gli sembrava di essere ringiovanito di almeno vent'anni, come se il suo spirito lo costringesse a recuperare tutto il tempo in cui erano stati separati, e no, non gli importava nulla di come potesse venir percepito. Erano secoli che non si sentiva così bene e tanto bastava.

Il pensiero della famosa conversazione notturna tornò rapido a farsi strada nei suoi pensieri. Rimproverò di nuovo quella sua memoria a groviera che proprio nell'ora del bisogno si prendeva gioco di lui. Si costrinse a scacciare la riflessione per concentrarsi su un'altra questione che gli stava altrettanto a cuore.

«Dicevamo: cena», cominciò, sentendosi addosso ancora quel suo sguardo sospettoso, «sono stato invitato a un compleanno stasera, una festicciola con qualche amico intimo... non che ci tenga particolarmente ad andarci ma...»

«Oh, ti prego non farti scrupoli per me. Devi andarci», Eddie ovviamente non gli aveva nemmeno permesso di concludere la frase, «anzi, mi chiedevo se non fossi una specie di asociale che passa le sue giornate ad assistere gli scappati di casa.»

«No, Eddie, non...»

«Non voglio scuse, per favore, vacci... me la caverò per una sera, qui, da solo. Finalmente potrò guardare qualcosa su quel mega televisore che hai in sala, oppure...»

«Oppure potresti venire con me», riuscì miracolosamente a interromperlo.

Perché diamine non gli permetteva mai di finire un discorso?

Eddie gli rivolse uno sguardo disorientato come fosse la domanda più assurda che si fosse sentito rivolgere da anni e, per un attimo, fu certo che sarebbe arrivato un rifiuto.

«Pensavo potrebbe essere l'occasione giusta per uscire un po' di casa. Conoscere gente nuova, respirare anche... aria diversa che non siano le mie cellule morte.»

«Richie, io non lo so se...»

«Sono persone simpatiche», lo prevenne, «Okay, per lo più attori un po' presuntuosi, che non faranno che parlare delle loro carriere in decollo ma... mi farebbe piacere venissi. Davvero. Mi piacerebbe presentarti ai miei amici.»

Questa fu la frase che sembrò far breccia, più delle altre, nel cuore di Eddie; perché per un breve istante gli sembrò di vederlo arrossire. Se ancora si stesse chiedendo se Richie aveva intenzione di accoglierlo a tutto tondo nella sua vita, quella doveva essere stata la risposta.

«Non ho niente da mettere», disse, ma dal tono si intuiva che stava cedendo.

«Cosa... ?» scoppiò a ridere, «Ma se ti sei portato dietro la valigia di Mary Poppins?»

«Fino a ieri non hai fatto altro che prendermi in giro sul fatto che io possieda solo delle Polo!»

«Bè, una collezione di tutto rispetto non c'è che dire ma... nessuno si formalizzerà per questo. E poi al mio spettacolo indossavi una camicia.»

Ancora ce lo aveva stampato in mente, come un'istantanea, il modo in cui se lo era ritrovato davanti dopo tutti quei mesi, dietro le quinte del teatro: la barba di tre giorni, sapientemente coltivata per nascondere la cicatrice sul viso, una camicia verde, una giacca nera e un paio di jeans scuri. Non se lo sarebbe dimenticato tanto facilmente.

Così come invece si era scordato proprio come aveva reagito al suo cazzo di trasloco. Perché diamine il pensiero tornava puntualmente a mirare lì? Doveva liberarsene, non pensarci, e magari gli sarebbe arrivata, a sorpresa, un'illuminazione divina.

«Dovrei stirarla», le sue parole a strapparlo di nuovo dal recuperare quel ricordo perduto.

«Sai che problema», stronfiò, «certo, se ci metterai lo stesso tempo che ci hai impiegato per cucinare due crepes a colazione...»

«Vaffanculo, Richie», si era ritrovato a raccogliere un tovagliolo che gli era finito dritto in faccia.

Lo sentì ridere e capì che era fatta. Sarebbero andati insieme a quella stupida festa.

 

***

 

La mano cominciava a fargli male davvero.

Richie fissò quel pezzo di carne che oscillava, affisso a quel gancio di ferro rugginoso e si chiese come doveva essere stata, da viva, quella povera pecora. Si fissò le nocche, rese viscide da quella sessione improvvisata di pugilato, sentendosene vagamente nauseato.

All'inizio credeva che lo facesse stare meglio, ma ora era più che altro disgustato dall'idea di aver preso a pugni il cadavere di un animale.

«Dovresti andare a parlargli, Richie...»

Si voltò, trovando Mike ancora lì, seduto su una cassa.

«Per dirgli cosa?», lo interrogò, ripulendosi vagamente la mano sui calzoni, «Buona vita Eds, divertiti con i tuoi nuovi amici, lontano da qui.»

«Se togli la seconda parte, potrebbe essere un buon inizio.»

Richie fece un verso incomprensibile e diede la schiena al suo punching ball, per raggiungere l'amico.

«Lo sai che non è stata una sua decisione».

Mike cercava sempre di farlo ragionare, era un atteggiamento che lo faceva andare fuori di testa! Eppure non riusciva a dargli contro, mai, non in modo convincente almeno.

«Certo. Però nemmeno si è opposto. Non si oppone mai alle decisioni di mammina.»

«Dai, Richie...» Mike scosse la testa, «hanno potuto fare qualcosa gli altri? Bev, Ben, Stan... e Bill? Nemmeno con Stan te la sei presa tanto.»

«Grazie tante, Stan non ce le ha le palle. Non lo sai che gliele tagliano da neonati? È ebreo.»

«Guarda che non si tagliano mica le palle...»

«Fa' lo stesso...»

«Dovresti almeno andare a salutarlo.»

Richie sbuffò qualcosa, fingendo di essere più scocciato che disperato. Perché era così che si sentiva da qualche settimana a quella parte: disperato. Forse una parola un tantino esagerata per un ragazzo di quattordici anni, ma non avrebbe saputo etichettarla in nessun'altra maniera quella sensazione di soffocamento all'altezza del petto ogni volta che pensava alla partenza di Eddie. Al fatto che non avrebbe più potuto vederlo ogni volta che gli fosse preso il pallino di farlo. Che non avrebbe più potuto parlarci, prenderlo in giro, presentarsi a casa sua pronto a far innervosire mamma Kappa, toccarlo per indispettirlo e... abbracciarlo come si era sempre preso la libertà di fare.

«Andrò a salutarlo quando sarà il momento», gli rispose, deciso a continuare con quella sua ostinata noncuranza.

«Allora dovresti sbrigarti: parte stasera.»

Richie si voltò come un fulmine in direzione di Mike.
«Che cosa?»

«Sì, stasera. Sono passato ieri a salutarlo, oggi sarebbe stato troppo preso con il trasloco.»

«Merda!», saltò su Richie, ripulendosi di nuovo la mano sui calzoni, «ma perché cazzo non me lo hai detto subito?»

«Non lo hai chiesto!»

«Oh dai, Studioacasa!» corse letteralmente verso la sua bicicletta, montandoci sopra ancora prima di essere uscito dal capannone.

Fu fuori in un lampo, a pedalare - come diceva sempre Bill - come avesse il diavolo alle calcagna.

Riuscì a malapena a sentire l'incoraggiamento di Mike dalle retrovie, troppo preso ad ascoltare le grida del suo io interiore che lo insultava per aver perso tutto quel tempo, per una stupida questione d'orgoglio.

 

***

 

«Non avevi detto che era una festa per pochi?»

Eddie non aveva tutti i torti a sembrare vagamente perplesso.

Il party 'per pochi intimi' sembrava essersi trasformato in un veglione di capodanno, con tanto di animazione. Avrebbe avuto modo di rimproverare Steve, il festeggiato, più tardi per quella trappola inspiegabile. Probabilmente l'uomo aveva solo cercato di indorargli la pillola per convincerlo, sapendo quanto poco ci tenesse a partecipare a uno stupido compleanno. Ma ora Richie si trovava a dover giustificare un simile equivoco a un amico già piuttosto provato psicologicamente.

«Mi dispiace. Se vuoi ce ne andiamo», fu tutto ciò che riuscì a proporre per evitare di prolungare ulteriormente il disagio.

«Ma figurati, Richie. Sono perfettamente in grado di sopravvivere a una festa.»

«Sicuro?»

«Piantala... o ti prendo a calci in culo.»

«Non mi conosci sotto questo aspetto» rispose con un mezzo sorriso, «potrebbe piacermi... oh, Anastasia!» si era allungato per salutare una delle tante visite a sorpresa della serata. Gente di cui gli importava poco e niente, in realtà, ma che gli era servita, in passato, a creare agganci interessanti per la sua carriera.

«Dio, Richard, sei uno splendore!» squittì la donna: capelli rossi acconciati in una stretta coda di cavallo e una massa di trucco un po' esagerata per una festa informale. Gli baciò entrambe le guance con un po' troppo impeto.

«Non credevo ti saresti fatto vedere, questi anniversari mondani li detesti. Deve essere un'occasione davvero speciale...» la vide allungare lo sguardo alle sue spalle e adocchiare Eddie. E poi indicarlo con aria sorpresa.

«Non mi dire che... ?»

«No», la prevenne, sapendo esattamente dove volesse andare a parare.

«Il tuo nuovo fidanzato?» Appunto.

«Chi, questo piccoletto?» diede un buffetto sulla testa a Eddie, lasciando che si scansasse infastidito, come da copione. «No. Non lo è», concluse, sapendo che sarebbe servito a ben poco per convincerla.

«Eddie, sono solo Eddie.»

«Piacere, Anastasia» la donna aveva avvicinato il presunto fidanzato di Richie e schioccato anche a lui un paio di rumorosi baci, «sei carino! Richard ha un debole per gli uomini carini. Piacere di conoscerti. Te la prenderesti molto se te lo rapissi per due minutini?»

Richie mandò a Eddie un terrorizzato segnale d'aiuto con lo sguardo ma l'uomo gli rivolse, di rimando, un sorriso che era tutto un programma. Una vendicativa punizione per quello stupido appellativo. Ma perché lo aveva chiamato piccoletto?

«Ci mancherebbe altro, Anastasia», disse, mettendoci persino la firma in calce, alla sua indignata condanna «è tutto tuo.»

«Bastardo...» gli mimò con le labbra Richie mentre veniva trascinato via, in una nuvola di profumo dolciastro.

 

***

 

Da quanto era crollato sul letto non aveva fatto altro che dare pugni al cuscino.

«Stupido Kaspbrak...» soffocò un grido, mordendo il copriletto; ma nemmeno insultarlo lo faceva sentire meglio, «Stupido Richie Tozier!» aggiunse allora, sapendo perfettamente che, darsi finalmente la colpa per essersi impedito di impiegare meglio gli ultimi giorni che avrebbe potuto passare assieme a Eddie, sarebbe stata l'unica espiazione possibile.

Tutti quei giorni a bighellonare in giro da solo come un povero stronzo, tutto quel tempo perso ad assillare Mike con le sue fesserie sugli amici traditori, quando invece avrebbe potuto tenersi stretto Eddie e conservare per sempre il ricordo dei loro ultimi giorni insieme. Solo lodo due. Insieme.

Diede un altro pugno al cuscino e rotolò sulla schiena, volto al soffitto. Chiuse gli occhi e andò con le dita a cercare sulle labbra ancora quella sensazione.

Quel sapore caldo e salato. Ci passò sopra la lingua, fece sparire il labbro inferiore fra i denti, succhiandolo come fosse una caramella, senza però riuscire a ritrovarla, non così limpida come quel pomeriggio.

Rilasciò gravemente il fiato, avvertendo un peso opprimente all'altezza del petto. Un disagio che non lo aveva abbandonato nemmeno per un istante, mentre pedalava verso casa.

«Stupido Eds...», mormorò, prima di lasciarsi sfuggire un singhiozzo non preventivato.

Realizzò improvvisamente che non c'era altro modo in cui avrebbe potuto esprimere tutta la tristezza che aveva in corpo quella sera, se non piangendo.

Così pianse. Pianse come un bambino. Pianse a lungo; tanto a lungo che le lacrime sembrava non finissero mai, come se le avesse trattenute per così tanto tempo che ora avevano deciso di uscire tutte insieme, in un'unica, travolgente ondata di dolore.

Lo avrebbe mai rivisto?

Certo. Certo che lo avrebbe rivisto... e quando sarebbe successo non avrebbe mai più permesso di trattenere tanto a lungo quello che provava. Gli avrebbe parlato, si sarebbe confessato. A qualsiasi costo.

Una promessa. Si era appena fatto una promessa che avrebbe dimenticato per anni.

 

***

 

«Richard, ma mi ascolti?»

«Come?» l'uomo si era voltato a fissare gli amici che gli avevano fatto capannello attorno. Non era sicuro di ricordare quando avesse perso interesse per l'argomento in questione, ma di certo ora sapeva di aver recuperato un ricordo.

Non esattamente quello che sperava, ma qualcosa sì. Una su tutte la sensazione di aver completamente mancato la partenza dell'amico, quel giorno di oltre vent'anni prima. E di essersene pentito così amaramente da aver perso tutta la notte a piangere sul suo perduto amore adolescenziale.

Il senso di colpa si insinuò potente nel suo stomaco, ritrovandosi persino nauseato dall'odore del drink che aveva nel bicchiere.

«Scusate, vi interrompo un secondo, è che devo andare a recuperare il mio...»

«Fidanzato?» di nuovo Anastasia all'attacco, «Eddie, vero? Credo di averlo visto chiacchierare con Michael prima.»

«Michael chi?»

Una risata soffocata: «Ma come Michael chi? Biondo, carino... te lo sei scopato per almeno tre mesi».

Richie sentì lo stomaco fare una capriola non preventivata.

«Michael è qui?»

«Sì, pensavo lo sapessi.»

«No, che cazzo», la nausea cominciò a montare in rabbia, «se avessi saputo che veniva qui anche lui col cazzo che mi sarei presentato, ma che diavolo avete nel cervello?»

«Scusa tesoro, non sapevo che fosse finita tanto male.»

Male non era proprio la definizione giusta. Con Michael era finita perché si era rivelato un mezzo psicopatico vendicativo. Michael, che almeno un paio di volte, durante un amplesso, aveva erroneamente chiamato Eddie. Michael che aveva voluto spiegazioni, Michael che aveva scoperto che Richie era ancora innamorato di una chimera d'infanzia. Michael che... non l'aveva digerita affatto bene. E che gli aveva distrutto mezza casa, prima di andarsene, lasciandogli giusto delle bustine di valeriana.
Richie biascicò un insulto mal riuscito, allontanandosi senza nemmeno dare spiegazioni. Doveva trovare Eddie e levare le tende il più rapidamente possibile. Ma che diavolo gli era venuto in mente di accettare un invito del genere? Una festa, per far distrarre Eddie? Avrebbe potuto portarlo ovunque! Anche solo a passeggiare nel parco come si fa coi cani, come fanno gli anziani o i cacciatori di foliage. Perché a una cazzo di festa piena di gentaglia che insisteva a definire amica?

Lui che di veri amici ne aveva avuti solo a Derry. Gli unici che lo avevano sempre accolto, accettato, amato, senza chiedere niente in cambio.

Si fece largo fra la folla (c'era così tanta gente anche prima?), cercando Eddie con lo sguardo. Non era così difficile da individuare: piccolo, capelli scuri, nervoso e...

«Perso qualcosa, Richie?»

Si fermò all'istante, una mano a bloccargli il braccio. Viso delicato, capelli biondi, occhi malefici: Michael. L'impersonificazione dei suoi incubi odierni. Se IT fosse stata ancora vivo, sarebbe stata esattamente quella la forma che avrebbe scelto quella sera.

«Sì, la pazienza... che ci fai qui?»

«Io? Sono stato invitato, come tutti gli altri.»

«Va bene, non mi interessa, sto solo cercando...»

«Eddie?» sentir pronunciare all'uomo quel nome gli fece scivolare un brivido lungo la spina dorsale. Una sensazione alquanto sgradevole.

«Come fai a sapere che... ?»

«Perché ci ho parlato prima: simpatico. Almeno fino a quando non gli ho detto che in qualche modo già lo conoscevo.»

«Che vuoi dire? Che cazzo gli hai detto?» allargò le braccia, ben sapendo che nessuna delle mosse di Michael erano casuali. Men che meno lo era stata quella di fingere di conversare amabilmente con Eddie, per l'appunto.

«Dov'è adesso?»

«Credo se ne sia andato. Non sembrava molto contento di restare...»

«Sei uno stronzo. Uno stronzo psicopatico!»

«Carino. Tutto questo amore per cosa, esattamente? Gli ho solo raccontato la verità!»

«Piscopatico e isterico!» gli gridò dietro, prima di dirigersi verso la porta d'ingresso.

Non si preoccupò nemmeno di salutare il festeggiato... del quale aveva praticamente dimenticato l'esistenza. Si era precipitato giù per le scale e poi in strada. A guardarsi attorno come se sperasse di rintracciare la sagoma di Eddie ancora nei paraggi. Ma Eddie non era lì.

Eddie se n'era andato.

 

***

 

«Rich... io stasera me ne vado»

«Lo so. Me lo ha detto Mike.»

«Io non me ne voglio andare»

«Nemmeno io voglio che tu te ne vada.»

 

«Questi sono tutti tuoi, ricordati di me, mentre li leggi.»

«Sarebbe comunque impossibile dimenticare che sono tuoi, sembrano nuovi.»

 

Il cuore batteva rapido, rapidissimo.

E le labbra di Eddie erano sulle sue. Come in uno di quei sogni imbecilli che lo facevano svegliare con una sensazione di compiacimento e pace interiore.

Le sue labbra erano calde e salate.

Le sue labbra erano piccole, umide, calde e salate...

Nemmeno nelle sue fantasie era riuscito mai a immaginarle così piccole e umide. Gli sembrarono così perfette in quell'attimo che sembrò congelato nel tempo. Felicità cristallizzata in un solo istante.

E poi.

Eddie se n'era andato.

Eddie, quella sensazione perfetta che era sicuro di aver rincorso da sempre.

Andati.

 

***

 

Richie si sfiorò le labbra con le dita.

La percezione di quel bacio come fosse avvenuto solo un istante prima.

Così come si era materializzato il ricordo, la sensazione lo aveva travolto con una tale forza da freddarlo lì, sulla soglia di casa.

Gli ci volle qualche istante per riprendere le fila del discorso.

Per ricordarsi per quale motivo si fosse precipitato a casa innanzitutto. Eddie non rispondeva al telefono, non alle chiamate, non ai messaggi.

Quel pezzo di stronzo di Michael doveva averlo irritato a morte, o raccontato una quantità di palle tale da aver spinto Eddie a scappare come Clint Eastwood in Fuga da Alcatraz.

Entrò in casa di slancio e già solo le luci accese gli confermarono che doveva essere tornato prima di lui.

«Eddie... ?» lanciò le chiavi sul tavolino dell'ingresso e si richiuse la porta alle spalle, vagando per le stanze, cauto come si preparasse ad affrontare l'attacco di una belva.

«Eddie, mi spieghi perché te ne sei... ?»

Sentì il rumore di un rullio sommesso e poi Eddie comparire sulla soglia della sua stanza, portandosi dietro il grosso trolley che aveva con sé quando era arrivato a Philadelphia.

«Che stai facendo?»

«Me ne vado.»

«Perché? Che ti prende? Che è successo? Ti ho cercato alla festa, ti ho chiamato, non hai risposto, ti sembra il modo di fare?»

«Non ho tempo per indagare sulla mia mancanza di buone maniere ho un taxi che mi aspetta.»

«Cosa? Perché? Per andare dove, così all'improvviso? È per quello che ti ha detto Michael? Quello è uno psicopatico, dice un sacco di cazzate.»

«Cazzate tipo quali?»

«Bè... c-cazzate: dal convincerti dell'esistenza del 30 febbraio come quella di Babbo Natale!» non era certo pronto a chiedergli se Michael avesse avuto il cattivo gusto di rivelargli che era a Eddie che pensava, mentre facevano sesso.

«O cazzate tipo che mi inviti a una festa solo per farlo ingelosire per riconquistarlo, facendo credere a tutti che ero la tua nuova conquista?»

«Ma che cosa? No! Chi cazzo te lo ha detto questo?»
«Michael?»

«Ma no!» psicopatico del cazzo, «e tu gli hai creduto? Ma se nemmeno sapevo che sarebbe venuto? Quello mi ha mezzo distrutto casa quando ci siamo lasciati, uno che beve valeriana che sa di piedi e tu gli hai creduto?»

Eddie non fece altro che allargare le braccia.

«Andiamo, Eddie, mi conosci!»

«Non lo so, ti conosco? Sono ventisette anni che non ci frequentiamo.»

Richie sentì montargli dentro una rabbia nervosa e inarrestabile.

«Sì che mi conosci, solo che ti sei sentito umiliato dalle parole di quel deficiente perché pensavi che fossi lì solo per lui! Quando in cuor tuo speravi che io fossi lì solo per te.»

«Ma che cazzo stai dicendo?»

«Sto dicendo che me lo sono ricordato!»

Eddie indietreggiò di un passo: «Ricordato... cosa... ?»

«Ricordato il giorno in cui te ne sei andato da Derry.»

Richie lo osservò per captare la sua reazione che non tardò ad arrivare.

Anche Eddie lo ricordava, certo. Oh sì che se lo ricordava. Ne ebbe la certezza dall'improvviso panico che gli lesse negli occhi. Chi meglio di lui, Richie Tozier, il frocetto, come lo chiamava Bowers, che di segreti era un esperto, avrebbe potuto riconoscere quella precisa espressione di smarrimento e umiliazione?

Da quanto tempo Eddie si portava dietro quel segreto? Lo stesso segreto che Richie stesso si era portato dietro per... anni?

«Eddie, è tutto okay...»

«Non è tutto okay. Perché non è vero. Non te lo ricordi. Non puoi...» gli aveva puntato contro un dito, come a cercare di intimarlo a mantenere le distanze.

«Sì che me lo ricordo. Non ho fatto altro che pensarci in questi giorni e solo quando te ne sei andato via da quella festa del cazzo mi è tornato in mente.»

«D'accordo...» lo vide gonfiare il petto come a darsi un tono, «se te lo ricordi allora non avrai problemi a raccontarmelo».

«Eds...»

«Non chiamarmi Eds... lo sai che lo odio.»

Era davvero quello di cui aveva bisogno per sbloccarsi? Sentirgli raccontare per filo e per segno come si erano svolte le cose?

«Farò qualcosa di meglio che raccontartelo», disse, prendendo un'improvvisa, probabilmente stupida e istintiva decisione. Una di quelle in pieno stile Richard Tozier. Lo fissò dritto negli occhi e si avvicinò quel tanto che bastava per accendere il dubbio negli occhi di Eddie.

E nella sua testa il gesto gli era sembrato intelligente, sveglio, persino sexy sotto un certo aspetto.

Glielo avrebbe mostrato. Lo avrebbe baciato, così di sorpresa come lui aveva fatto il giorno della sua partenza. Magari mettendoci un po' più di entusiasmo.

Quando però fu a un passo dalle sue labbra, dopo essersi chinato su di lui senza alcun indugio, Eddie gli aveva puntato le mani sul petto.

«Woah, che cazzo stai facendo?!» la sua vocetta isterica a disintegrare quella fantasia perfetta e... al momento decisamente molto poco sexy.

«Ti stavo... mostrando?»

«No. No, no, no», Eddie lo aveva spintonato e dribblato su un lato, recuperando in corner il suo mega trolley.

«Eddie!», cercò di rincorrerlo per fermarlo, ma l'uomo si volse nella sua direzione con un tale impeto e una tale furia che non ebbe coraggio di portare a termine il suo intento. Il suo sguardo di fuoco lo raggelò all'istante.

«Non ti avvicinare.»

«Non volevo spaventarti, io volevo solo...»

«Perché cazzo devi sempre rovinare le cose, Tozier?»

«Perché ce l'ho nel DNA?», suppose, senza riuscire a razionalizzare del tutto la reazione di Eddie, «senti, mi dispiace, pensavo andasse bene, insomma... l'ultima volta lo hai fatto tu per primo.»

«L'ultima volta avevo tredici anni!»

E questo che cazzo voleva dire? Che era venuto a cercarlo, lo aveva spinto a ricordare proprio quel particolare episodio per assicurargli che si era trattata solo di una specie di esplorazione adolescenziale, senza ripercussioni? Che avesse davvero frainteso quel terrore che gli aveva acceso lo sguardo solo qualche istante prima?

No, non aveva frainteso. Ci si era riflesso, dentro quella paura, per troppo tempo, per poter fraintendere. Solo, forse... aveva accelerato le cose. Questo poteva concederglielo.

«Eddie... mi dispiace. Davvero.»

«Lascia perdere». Vide Eddie riprendere in mano il trolley e trascinarselo sul pianerottolo, fuori dal suo appartamento. La porta si chiuse con fragore l'istante successivo.

Il primo istinto fu quello di corrergli dietro, di nuovo, di scusarsi, una volta ancora. Ma sapeva che a questo giro non se la sarebbe cavata con un paio di battute. Richie era stato un emerito coglione, niente di più, niente di meno. Era stato così entusiasta dall'aver recuperato un ricordo che confermava, in qualche modo, che anche Eddie provava qualcosa per lui, che aveva perso la bussola. E aveva esagerato. Come al solito.

Perciò se ne rimase lì, a fissare la porta chiusa, senza sapere cosa fare.

E poi, dopo un tempo che non riuscì a quantificare... capì che cosa doveva fare.

Recuperò il telefono.

Se era di tempo ciò di cui Eddie aveva bisogno, allora gliene avrebbe dato. Non lo avrebbe chiamato, non tempestato di messaggi per giustificare il suo gesto.

Un messaggio vocale. Avrebbe potuto ascoltarlo subito, fra due settimane, un mese, ma gli avrebbe spiegato quello che sentiva, dandogli tutto il tempo del mondo per assimilarlo. L'unica buona idea che sembrò avere da decenni.

Pigiò il tasto e cominciò la registrazione.

«Eds... Eddie...», il telefono alla mano, faccia alla porta chiusa, «ti chiedo ancora scusa. Per quello che ho fatto. Per averti messo... fretta. Ma converrai con me quanto recuperare un ricordo del genere possa essere stato... inaspettato. Insomma... Eddie Kaspbrak che bacia Richie Tozier senza nemmeno chiedersi se si fosse lavato i denti, prima. Pazzesco, eh?»

«Quello che volevo dire è che: lo so. Lo so quanto la cosa possa averti spaventato. Ha spaventato me... per più di trent'anni. Scoprirlo poi quando sei un uomo fatto e finito deve essere un bello shock. Già... lo sto realizzando proprio mentre te lo sto dicendo, quanto deve essere stato tosto. Mentre io non ho fatto altro che pensare a me stesso e lasciarmi prendere dall'entusiasmo senza pensare, una sola volta, alle conseguenze di questa stronzata. Non smetterò mai di chiederti scusa, per essere stato, così... me? Troppo impulsivo. Troppo entusiasta. Il fatto è che... quando scopri che la persona per cui avevi una cotta da ragazzino, provava le stesse cose per te, qualcosa dentro scatta per forza. Sopratutto quando sei un adulto ancora più coglione e sai che quella persona non ha mai smesso di piacerti. Nemmeno per un secondo. Quella stessa persona che quasi rischiavi di perdere per sempre, per colpa di un clown di merda... e alla quale hai rischiato di non dire mai quello che provavi per lui.»

«Perciò... insomma... prenditi tutto il tempo che vuoi per elaborare questa cosa, ma non... non sparire per sempre. Torna, parliamone; parliamone anche dieci, cento, mille volte: giuro che non cercherò più di baciarti a tradimento, pensando sia una cosa sexy da fare. Non è stato sexy per niente. Cioè, nella mia testa lo era, ma è uscita fuori un'altra di quelle cose grottesche che solo Richie Tozier riesce a fare.»
«Prenditi tutto il tempo che vuoi... ma torna. Io ti aspetterò qui. Come amico, prima di tutto. Sempre, per prima cosa, come tuo amico. Dopotutto... sono o non sono la tua bolla?» concluse con un mesto sospiro, prima di spedire il messaggio così come lo aveva registrato, senza nemmeno riascoltarlo; ben consapevole che, se lo avesse fatto, lo avrebbe cancellato seduta stante.

Restò a fissare le spunte del messaggio che da una diventavano due. Aspettandosi quasi che gli arrivasse la notifica di lettura immediata. Ma non fu quello che accadde.

Al contrario.

Qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Con una forza tale - o così parve a Richie - che per poco non gli scappò il telefono di mano dalla sorpresa.

E adesso chi cazzo era?

Per un istante fu quasi tentato di non rispondere nemmeno, poi decise che magari riusciva a scapparci uno sfogo con il rompicoglioni di turno.

Perciò, quando spalancò la porta, gli venne quasi un colpo a ritrovarsi proprio Eddie di fronte.

La causa delle sue gioie e suoi dolori.

«Ma non te ne eri andato?» chiese vagamente intontito, sicuro di aver dipinta in volto un'espressione orribile.

«Ero, ma sono tornato», nemmeno Eddie sembrava il ritratto della serenità.

«Ti ho... appena mandato un messaggio...»

«Lo so. Ho sentito.»

«Sentito? Ma non hai...»

«No, non dal cellulare... dalla porta.»

Dalla porta? Richie si trovò a fissare il pianerottolo come se non riuscisse a comprenderne le dinamiche, poi capì che Eddie non doveva aver fatto molta strada una volta uscito.

«Stavo per andarmene quando mi sono reso conto di aver scordato la borsa con tutte le mie medicine, e poi, mentre stavo per bussare, ti ho sentito... parlare.»

Ed era rimasto ad ascoltare. Il quadro generale adesso era molto più chiaro.

Richie non sapeva cosa dire, imbarazzato come non credeva possibile. Indeciso se insistere con la stessa lunga, tediosa tiritera del messaggio per convincerlo a restare, oppure non fare assolutamente niente e lasciare a Eddie la mossa successiva.

«Quindi sei tornato per il beauty case?»

Eddie avanzò nell'ingresso, trascinando dentro anche la valigia. Richiudendosi la porta alle spalle.

«No... non lo voglio il beauty case», biascicò, mollando quel trolley in un angolo, una volta per tutte.

Richie sentì il sollievo irradiargli il petto, lo stomaco e tutto il resto. Non era mai stato più felice di aver fatto una colossale figura di merda.

«Mi dispiace.»

«Piantala di dire: mi dispiace o me ne vado di nuovo.»

«D'accordo, allora: non mi dispiace.»

«Coglione», Eddie gli elargì un sorriso appena accennato, ma pur sempre un sorriso dopotutto «ci riesci a smettere di dire cazzate per due fottutissimi minuti?»

«No. Cioè sì, posso.»

«Davvero?» Eddie gli si era avvicinato e lo stava guardando in modo strano, dal basso verso l'altro. E poi aveva solo avvicinato le mani al suo viso e afferrato le astine dei suoi occhiali, prima di sfilarglieli.

«Gli occhiali non sono il superpotere per le mie cazzate, Spaghetti...»

«Zitto, ho detto. Ci riesci a stare assolutamente zitto per due minuti?»

Richie si costrinse ad annuire e mimare di cucirsi le labbra. Poco a suo agio, perché ora non riusciva nemmeno a vederlo in modo nitido.

Si sentiva nudo, senza i suoi occhiali. Non permetteva mai a nessuno di sfilarglieli, di certo non si aspettava fosse Eddie a farlo. Sì, perché se le ricordava ancora le volte in cui, da ragazzini, Eddie lo rimproverava per lo stato assolutamente pietoso delle sue lenti. Lo costringeva a toglierli, senza toccarli mai, se non dalle sue mani, come se riconoscesse la sacrale importanza di quell'oggetto per Richie, e glieli lucidava meticolosamente con qualche prodotto che teneva nascosto nel suo marsupio. E quando glieli restituiva, Richie riusciva a vedere, di nuovo.

Perciò nemmeno fu troppo sorpreso, dopo un gesto tanto ardito, che Eddie ora li avesse chiusi e riposti sul tavolino dell'ingresso, accanto alle chiavi di casa.

Avrebbe voluto chiedergli se non fosse stata una premura prima di prepararsi a schiaffeggiarlo, per pareggiare i conti senza distruggergli le lenti, ma qualcosa, dentro di lui, aveva preso molto sul serio la richiesta di silenzio dell'amico. E lo lasciò fare.

Sentì le sue mani sul viso, di nuovo, le dita che saggiavano delicatamente le linee dei suoi zigomi, della mascella.

Il silenzio tutt'intorno, la sua delicatezza e la vista annebbiata, gli fecero dubitare che stesse succedendo davvero.

Però riuscì a immaginarlo, Eddie, issarsi sulle punte dei piedi per poterlo raggiungere.

Gli avrebbe facilitato il compito se solo avesse immaginato quello che sarebbe venuto dopo.

E se anche Richie, più avanti, avrebbe giurato di aver capito all'istante quello che Eddie stava per fare, nel momento in cui accadde davvero, non riuscì a concentrarsi su null'altro che il tumulto accelerato del suo battito cardiaco, il brivido inaspettato lungo la schiena, la bolla di calore in fondo allo stomaco, il singhiozzo carico di sorpresa che gli era scaturito dalla gola e quelle due piccole e umide labbra che richiedevano, improvvisamente, tutta la sua attenzione.

 

 

Continua...

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

Chi era quell'uomo?

Sì, quell'uomo che gli rimandava uno sguardo di sfida dallo specchio?

Non Eddie Kaspbrak, questo era certo. Non lo stesso uomo che fino alla settimana prima sembrava esser uscito da un incontro di boxe, perso a tavolino. L'espressione tirata di qualcuno che getta la spugna, ancora prima di cominciare. Lo stesso uomo che passava notti insonni, permeate da incubi di morte che la mattina si ripercuotevano disastrosamente sul suo viso con un paio di occhiaie violacee e gonfie, degne di un tossicomane.

No, non poteva essere Eddie quell'uomo dall'aria serena e riposata che lo osservava dall'altra parte. Aveva persino ripreso colore e, sulle labbra, un accenno di sorriso? Nella sua vita da adulto non si era mai svegliato col sorriso, non che ricordasse almeno, nemmeno per sbaglio, nemmeno il giorno del suo matrimonio.

In realtà, il giorno del suo matrimonio, aveva vomitato per l'ansia, prima di infilarsi nel vestito elegante che nemmeno era sicuro di essersi scelto da solo, pilotato da ben più persuasive burattinaie. Chi l'avrebbe sentita sua madre e poi Myra se si fosse presentato alla cerimonia con un abito che puzzava di vomito?

Si sciacquò il viso, sperando almeno di cancellare quel compiacimento del tutto fuori luogo, prima di uscire dal bagno. Non poteva certo permettere che Richie si accorgesse del suo stupidissimo buon umore. Non glielo avrebbe dato un pretesto (un altro, a dire il vero) per canzonarlo e prendersene il merito in modo del tutto... legittimo.

Già, perché se non era merito di Richie, di chi altri? Non era così stupido da non rendersene conto.

Era già passata un'intera settimana dalla sera di quel bacio. E nonostante ne fossero seguiti altri, molti altri, quello era l'unico ad essere rimasto marchiato a fuoco nella sua mente, sulle sue labbra, dentro le viscere. Capace di farlo ancora arrossire come un ragazzino ogni volta che andava a frugare fra i ricordi per ripescarlo.

Non perché se ne vergognasse, no. Per la prima volta in vita sua non aveva avuto alcun dubbio a riguardo. Non un attimo di esitazione, non un ripensamento. Come se improvvisamente i pezzi di un puzzle si fossero incastrati alla perfezione e tutto fosse finalmente diventato chiaro, limpido, come non lo era mai stato.

Si stropicciò il viso, deciso a cancellarsi quella stupida espressione dalla faccia e uscì dal bagno, convinto fuori ci avrebbe trovato Richie, pronto a tendergli un agguato; ma il silenzio in casa era così perfetto che capì immediatamente che l'uomo doveva essere ancora a letto.

La luce soffusa che proveniva dalla sua camera gli suggerì che doveva essere sveglio. Non chiese permesso, si limitò a sbucare sulla soglia, come un gatto, restandosene così, ad osservarlo a mezza strada, indeciso se sospendere quell'immagine perfetta: Richie a letto, la schiena poggiata al cuscino, sulle ginocchia il portatile che gli illuminava il viso e si rifletteva nelle lenti dei suoi occhiali. Il viso concentrato, le dita che battevano sui tasti, rapide e precise, il silenzio tutt'intorno. Per un istante avvertì il privilegio di poterlo osservare in quelle vesti, così diverse dall'immagine rumorosa e frenetica che Richie tendeva a dare di sé, di fronte a un pubblico, pagante o meno.

Stava lavorando a un nuovo monologo teatrale da giorni, ci metteva mano continuamente, catturato dal sacro fuoco dell'ispirazione. Le idee gli balenavano in mente nei momenti più impensati; per quello Eddie non si scoprì particolarmente sorpreso di trovarlo al lavoro ancora prima di aver preso il suo caffè mattutino.

Aveva appena deciso di andarsene così come era arrivato, per non disturbarlo o suscitare le sue ire, (così come era a successo a quel tizio, un certo aspirante scrittore, Jack Torrence che aveva tentato di far fuori la sua famiglia, anni addietro), quando lo vide voltarsi nella sua direzione, gli occhiali appena scivolati sul naso, a scrutarlo come un'apparizione. Decisamente molto poco infastidito.

«Dove credi di andartene, Spaghetti?»

«Non volevo disturbarti.»

«Non sei così silenzioso come sembri, mi spiace dovertelo dire», e a quell'accusa seguì un cenno con la mano che lo invitava a raggiungerlo, «magari riesci a capire se questa roba fa ridere o meno.»

Eddie non si fece ripetere l'invito una seconda volta. Non che avesse bisogno di pretesti per stargli accanto. Le occasioni si creavano più spontaneamente di quando avesse mai creduto possibile, come se improvvisamente fossero tornate tutte quelle strampalate dinamiche di quando non erano che due ragazzini in cerca di contatto fisico per esprimersi.

«Sei sicuro che sia una buona idea?» gli chiese, sistemandoglisi accanto, per poter sbirciare lo schermo del suo computer, «lo sai che non rido mai alle tue battute», concluse a gloria, soddisfatto dell'occhiataccia che Richie gli aveva restituito.

«Questo non è vero, ridevi sempre alle mie battute da ragazzino», gli stritolò una guancia, prima di liberarlo per evitare violente ripercussioni, «forse perché eri più simpatico. Comunque, chi meglio dell'adulto e pretenzioso (e stronzo) Eddie Spaghetti Kaspbrak per testare l'impatto sul pubblico?»

«Se questa la prenderai come scusa per fare da scaricabarile sui tuoi insuccessi, con me non avrai alcuna soddisfazione.»

Richie gli sorrise: «No, però un paio di soddisfazioni conto di togliermele comunque.»

Eddie non fece in tempo ad indagare di quali soddisfazioni stesse parlando, perché Richie aveva già deciso di inaugurare la giornata, rubandogli un lungo, assonnato bacio mattutino.

«Spero tu ti sia lavato almeno i denti, ieri sera...» fu tutto ciò che si trovò a ribattere, una volta tornato in possesso di tutte le sue facoltà mentali.

Diventava sempre più difficile mantenere il controllo. Ad ogni bacio rubato, ogni carezza, ogni gesto di spontanea tenerezza, Eddie si scopriva a desiderare di più, ma nonostante tutto ancora indeciso se spingersi oltre quella linea di demarcazione. La verità era che stava cercando di andarci coi piedi di piombo. Voleva essere sicuro di non fare cazzate proprio perché si trattava di Richie, voleva essere certo di non farlo soffrire e forse, voleva essere sicuro di non deluderlo con quarant'anni di spiacevoli e imbarazzanti esperienze alle spalle. Fosse successo qualche anno prima forse si sarebbe solo lasciato andare e basta. La verità era che non era più un ragazzino impulsivo... e la cosa la rimpiangeva enormemente. Inoltre doveva ancora capire quali erano le dinamiche di questa evoluzione, nella loro relazione. Vivevano in una bolla esclusiva, idilliaca, fatta di quattro pareti e pochi contatti esterni, doveva capire in che modo avrebbero potuto funzionare anche fuori da quel contesto. Fuori da quel micro-universo ideale.

Richie, di contro, non gli faceva pressione alcuna, sembrava capire esattamente, silenziosamente, le sue ragioni, sapeva quando doveva fermarsi o quando Eddie aveva il timore di chiedergli di fermarsi. Come non avesse alcun motivo per affrettare le cose, per una volta tanto.

«Leggi e taci, Spaghetti», gli piazzò di fronte il portatile, senza allontanarsi troppo, spalla contro spalla, per seguire lui stesso la lettura.

Eddie cercò di concentrarsi e non pensare al respiro dell'uomo a pochi centimetri dal collo o dai brividi sulla pelle ogni volta che Richie gli accarezzava un braccio: conforto e tortura assieme.

«Sei sicuro che questa roba tu possa dirla in pubblico?» additò una frase in particolare sulla schermata, schiarendosi la voce.

«Non sarebbe la prima volta che mi becco una denuncia. Ho un diavolo d'avvocato per questo genere di cose.»

«E cambiare la battuta, invece?»

«Non si può mettere un bavaglio all'arte!»

«No, però a qualcuno farebbe bene mettere un bavaglio a Richie Tozier.»

«Ti piacerebbe, mh? Un po' di sano bondage, Spaghetti. A saperlo avrei affittato delle manette.»

Eddie gli diede una manata in faccia, prima di rimettersi a leggere.

Richie cominciava a dare segni di cedimento, ogniqualvolta riusciva a individuare una battuta particolarmente brillante alla quale Eddie non reagiva in modo soddisfacente.

«Andiamo, Eds, non può davvero non farti ridere nulla!»

«Solo perché non mi sto sganasciando dalle risate non significa che non mi stia divertendo.»

«Ti prego...»

«Magari dovresti leggermele tu, la tua voce fa la differenza.»

«Che scusa del cazzo», si riprese di malagrazia il computer, «dalla faccia che avevi, sembrava tu stessi leggendo la lettera d'addio di Stanley.»

«Ma non era una scusa! I dialoghi sono divertenti ma non posso ridere se non ci sei tu che fai le Voci. La mia fantasia non è così...», si interruppe per un istante, rielaborando la sua frase «quale lettera d'addio di Stanley?»

Lo scrutò con aria interrogativa, come se l'accenno sull'unico Perdente che aveva mancato l'appello a Derry, lo avesse improvvisamente trascinato fuori dalla bolla idilliaca del momento. Se era una battuta non l'aveva capita. E comunque sarebbe stata decisamente troppo fuori luogo anche per uno come Richie.

«La lettera di Stan. Quella che ha spedito a tutti quanti prima di...», la voce di Richie si affievolì e poi si interruppe quando sembrò notare lo smarrimento di Eddie. «Non puoi non averla ricevuta. L'ha mandata a tutti.»

Eddie fece una smorfia e cercò di ricordare se non si fosse rincretinito tutto d'un tratto, ma no: negli ultimi mesi non aveva mai avuto sottomano nessuna lettera.

«Myra...» realizzò, facendo scivolare le gambe giù dal materasso, «se c'è qualcuno che può avermela tenuta nascosta quella è lei.»

«Perché mai avrebbe dovuto nasconderti la lettera di un amico?»

«Perché aveva paura mi avrebbe agitato? Perché ha cercato di impedirmi di mantenere i contatti con voi, una volta tornato a New York? Non lo so perché, non sarebbe nemmeno la prima volta.»

«Dio santo, ma no...» Richie aveva accantonato il portatile e si era rimesso in piedi. Lo seguì con lo sguardo mentre attraversava la stanza per raggiungere uno dei suoi cassetti, prima di tirare fuori quella che aveva tutta l'aria di essere una lettera.

«Credo l'abbia scritta simile per tutti quanti. Ne ho parlato solo con Mike ma...» gli rivolse un'occhiata greve, tenendo la busta fra le mani come fosse un tesoro prezioso «la vuoi leggere?»

Eddie la osservò con un misto di terrore e curiosità, come fosse una bomba pronta ad esplodere.

«No... cioè, sì... non lo so», si ritrovò a rispondere, del tutto destabilizzato da quell'improvvisa nota di cruda realtà.

Richie si rigirò la busta fra le mani ancora una volta, carezzandola quasi, con lo sguardo. Solo in quel momento Eddie ricordò quanto Boccaccia e Stan l'Uomo fossero stati legati da ragazzini, almeno quanto lui e Bill Tartaglia lo erano stati, prima di quell'estate in cui i sette Perdenti avevano preso a vivere in simbiosi.

«Non sei obbligato a farlo, Eddie. Ma se può esserti d'aiuto... sappi che a me ha consolato molto.»

Eddie inspirò a fondo, indeciso se andare fino in fondo o sperare che la sensazione che gli era appena precipitata addosso se ne andasse così come era arrivata.

«Okay...» disse, «credo... credo di volerla leggere. Ma non adesso... magari non insieme», gli rivolse uno sguardo di scuse, come fosse una colpa quella di non voler condividere con lui un momento simile. Ma se tutti avevano avuto la possibilità di leggerla e assimilarla, perché a lui doveva essere negato un tale... privilegio? O condanna.

«Certo», sorrise Richie, dando segno di aver perfettamente compreso, prima di porgergliela, «te la lascio, so che è in buone mani. Di certo più pulite delle mie.»

Eddie gli rivolse un sorriso ma non ebbe cuore di ribattere.

Improvvisamente, tutto il suo buonumore se ne era andato.

 

***

 

«Avete mai pensato a cosa vorreste fare da grandi?»

Stan aveva appena finito di sistemare alcuni fumetti lasciati sparpagliati in giro da Richie, su una delle mensole improvvisate nel rifugio dei Perdenti. Nonostante quel posto fosse poco più che abitabile, gli piaceva mantenerlo in ordine, se non proprio pulito.

Eddie, Richie e Stan erano stati i primi ad arrivare quel pomeriggio. Beverly se n'era già andata da un paio di settimane da Derry, mancando a tutti loro immensamente, gli altri erano impegnati in commissioni più o meno importanti.

«Non fare l'insensibile, Stan», rispose Richie, spaparanzato sull'amaca a sfogliare un libricino dall'aria consunta, «Eddie non diventerà mai più grande di così.»

«Vaffanculo, Tozier», gli rispose Eddie, lanciandogli quello che restava della carta di un croccante al cioccolato.

«No, sul serio... non ci avete mai pensato? A breve cominceremo il liceo.»

«Non saprei», intervenne Eddie, mettendosi seduto con aria meditabonda, «non ci ho mai pensato davvero, magari mi piacerebbe diventare... medico.»

«Ah, conveniente questa, Spaghetti, così le ricette potrai prescrivertele da solo», Richie, «e perché non farmacista direttamente? Potresti corteggiare la figlia di quel viscidone del proprietario e diventare felice erede di una fabbrica di droga legalizzata!»

«Piuttosto che sposare quella, resto solo tutta la vita».

«Sarei sorpreso del contrario, bello mio, significherebbe che c'è speranza proprio per tutti.»

Stan alzò gli occhi al cielo, già stanco di quel battibecco, l'ennesimo dacché si erano ritrovati lì.

«E tu come ti vedi da qui a qualche anno, Richie?» cercò di interromperli, riportando l'attenzione su qualcosa che sicuramente il ragazzo non avrebbe ignorato. Tutti sapevano quali erano le aspirazioni di Richie, ma sentirglielo raccontare avrebbe dato un freno temporaneo a quegli inutili screzi.

«Lontano da questo buco di merda di Derry», esalò teatralmente, richiudendo il libricino che forse nemmeno stava davvero leggendo, «Sposato alla madre di Kaspbrak e ovviamente il volto più famoso degli Stati Uniti.»

«Difficile ignorare quei cartelli affissi alle stazioni di polizia», intervenne Eddie, «Wanted: Richard Tozier, buffone di professione.»

«A-ah, non farete più tanto gli schizzinosi quando folle di ammiratori verranno da tutto il mondo per assistere ai miei spettacoli...»

Stan soppresse una risata: «Folle di creditori, vorrai dire. Mi devi ancora quei cinquanta centesimi per le figurine, a proposito.»

«Cosa? Dio santo sei proprio come quell'ebreo di Shakespeare, quello che ci hanno fatto studiare a scuola. Come si chiamava?»

Eddie si strinse nelle spalle.

«Shilock», rispose Stan.

«Ero sicuro lo sapessi, siete tutti imparentati fra voi...»

«Non saprei, ho solo un cugino di primo grado e fa David di nome», rispose, senza dar segno di esserci rimasto male per la battutaccia di Richie, come non se la prendeva mai, dopotutto.

«E tu, Stan?», lo spronò Eddie, «cosa vuoi fare da grande?»

Questa volta fu il turno di Stan di stringersi nelle spalle.

«Nemmeno io ci ho mai pensato seriamente. Potrei finire per fare il contabile...» Richie soppresse un'esclamazione di esultanza per il parallelo, seguita dall'occhiataccia di Stan e Eddie in combo, «come tanti in famiglia, oppure studiare scienze naturali all'università. Ma... in realtà credo che l'unica cosa che vorrei, a prescindere da tutto, è vivere felice.»

Lanciò uno sguardo a entrambi i suoi amici che si erano ammutoliti di fronte a quella confessione così semplice eppure tanto profonda. Adulta.

«Dopo quello che abbiamo passato... voglio dire, non pensate che ci meritiamo di esserlo, felici, almeno fino alla fine?»

Richie si era rimesso in piedi, come scosso da una solenne rivelazione.

«Perché solo felici?», chiese «Perché allora non disgustosamente felici?»

«Perché dobbiamo essere modesti.»

«Fanculo la modestia, Stanley! Da grandi saremo disgustosamente felici.»

Richie era avanzato allungando una mano come a sancire una promessa, l'ennesima che si facevano in quell'estate che sembrava non voler finire mai.

«Richie Tozier!», impostò la voce Boccaccia, come fosse uno di quei presentatori alla tv della domenica pomeriggio, «Il più felice uomo di spettacolo che abbia mai calpestato gli Stati Uniti d'America, sposato alla più mastodontica donna d'America! Stanley Uris, The Man: l'ornitologo contabile più fottutamente felice della Terra. E ultimo ma non ultimo, Eddie Spaghetti: il paziente zero dell'epidemia mondiale più devastante della storia, felice di donare il suo corpo alla scienza, per la salvezza dell'umanità!»

«Ehi!»

Posarono le mani una sull'altra, soffocando una serie di indignate risate, promettendosi, che sì, ci avrebbero provato ad essere felici.

E, per il resto del pomeriggio, la sensazione fu quella di essere davvero fortunati dall'essere circondati da amici che ti convincevano già di essere disgustosamente felici.

 

***

 

Eddie posò la lettera, indugiando sull'ultima frase, come non riuscisse a capacitarsi che quelle fossero davvero le ultime parole di Stan. Le ultime che rivolgeva ai suoi amici di sempre. Le ultime che non gli avrebbe mai sentito pronunciare a voce alta.

La cosa buffa fu realizzare che, mentre le leggeva, non riusciva a scindere quelle parole dall'immagine che aveva di lui quando era ancora ragazzino.

Non aveva idea di come fosse diventato da adulto, né di come avesse vissuto il resto della sua vita, una volta lontano da Derry.

L'unico pezzo mancante che sarebbe rimasto vuoto per sempre.

Si sentì in debito con lui per quella mancanza. Per aver tardato tanto a ricevere il suo messaggio dall'aldilà.

Si sentì benedetto e maledetto assieme, all'improvviso.

Anche lui aveva avuto dubbi, il giorno in cui avevano ucciso IT definitivamente, anche lui aveva titubato, aveva assistito impotente ad alcuni degli avvenimenti cruciali di quella giornata. Avrebbe voluto scappare, abbandonare tutto, ma poi... aveva anche rischiato di morire per aver deciso altrimenti.

Per un attimo aveva pensato anch'egli di tirarsi fuori dall'equazione. O di non essere mai stato davvero degno di farne parte.

Riusciva a comprendere fin troppo chiaramente il sentimento espresso in quelle poche, definitive righe.

Per Stan però non c'era stato nessun Richie a convincerlo di non essere quel codardo che credeva di essere, nessuna Beverly a incitarlo con convinzione di essere più che qualificato a sconfiggere i mostri. La disperazione e il terrore cieco che doveva averlo assalito in solitudine, eppure reso tanto lucido da decidere spontaneamente, sdraiato in una vasca da bagno e con una lametta fra le mani, di aiutare, a modo suo, tutti quanti.

Aveva ricordato tutto, prima ancora di tornare a Derry? O non lo aveva mai davvero dimenticato?

Per quanto tempo Stan, aveva dovuto convivere con la paura del buio?

Disgustosamente felice... lo era mai davvero stato? Anche solo per un momento?

Si passò una mano sul viso, le lacrime che non ne volevano sapere di scendere, costipato dall'insensato senso di colpa per non avergli potuto essere vicino in un momento tanto cupo.

Sollevò lo sguardo e Richie era lì, con la speranza che quella lettera gli avrebbe portato lo stesso sollievo che aveva esercitato su di lui, ma... improvvisamente deluso dal constatare che non era stato così.

«Non avrei dovuto fartela leggere.»

«Non dire stronzate, Tozier... dovevo leggerla. Volevo.»

«Certo, ma adesso sembra che ti sia scivolata via tutta la luce di dosso.»

Richie non avrebbe potuto descriverlo meglio di così.

«Allora forse dovresti venire qui e darmene un po' della tua.»

«Credevo di essere una bolla, non una luce...» rispose, ma non si sottrasse all'occasione di poterlo consolare un po'. Lo raggiunse alle spalle e gli fece passare le braccia attorno al collo, avvolgendolo così com'era, seduto sulla sedia del soggiorno, stringendolo in un abbraccio. Lo sguardo di entrambi rivolto alla lettera abbandonata sul tavolo.

«Vorrei andare ad Atlanta», mormorò Eddie, indeciso fino all'ultimo se renderlo partecipe o meno di quella decisione.

«Atlanta?»

«Sì, non è lì che abitava Stan? Mi piacerebbe andare a trovarlo. E... fare due chiacchiere con sua moglie.»

Richie non rispose subito, ma Eddie lo sentì sospirare appena, consapevole che, in ogni caso, la decisione era già stata presa.

«Vuoi approfittarti di una vedova inconsolabile, razza di disgraziato?», cercò di sdrammatizzare, come al suo solito, «credevo avesse deciso che le piacessero i maschi, dottor Kappa.»

Eddie scosse la testa, esasperato.

«Tutti i maschi non lo so...» disse, «di sicuro però so che mi piaci tu.»

Lo sentì mollare un po' la presa, certo avesse colpito nel segno.

«Bastardo», lo sentì sussurrare, un accenno di sorriso, però, nella voce. «Vengo con te ad Atlanta.»

«Cosa? No, Rich, hai il tuo lavoro, sono io quello che se ne sta con le mani in mano tutto il santo giorno», fece per voltarsi ma la presa si fece di nuovo serrata.

«Ci vengo anche io ad Atlanta», decretò con tono definitivo, «posso lavorare ovunque. E sono sicuro che Stan non veda l'ora di rivederci.»

Eddie non ebbe improvvisamente più nulla da obiettare. Gli avrebbe fatto piacere un po' di compagnia, dopotutto. Quella di Richie in particolar modo.

Tornò a fissare la lettera che sembrava in attesa di una qualche risposta e, alla fine, annuì.

 

***

 

Richie fu l'ultimo ad abbracciare Stan.

Si erano schierati uno accanto all'altro come in processione, il giorno della sua partenza da Derry.

Gli sussurrò qualcosa all'orecchio che Eddie non riuscì a sentire. Ma Stan non sembrò turbato, solo divertito e annuì con un sorriso.

Che avesse alluso alla promessa che si erano fatti qualche mese prima, alla fine di un'estate che sarebbe stata anche la loro ultima assieme?

«Già lo sapete che vi odio, tutti quanti...» disse infine, indietreggiando di un passo, lanciando loro un ultimo, definitivo sguardo che li accoglieva tutti. Come volesse memorizzarli in una virtuale foto di gruppo.

Bill, Mike, Ben, Eddie e Richie. Richie che non distoglieva lo sguardo, stranamente quieto, incredibilmente silenzioso.

Un commiato che aveva in sé la solennità di un addio.

Eddie non seppe perché lo fece, ma quando il signor Uris mise in modo la Station Wagon che avrebbe portato via loro Stan, per l'ultima volta, si trovò a raccogliere e stringere la mano di Richie.

Quando la macchina si allontanò e sparì in una nuvola di fumo, Richie restituì con forza la presa.

 

***

 

«Siamo pronti?» Richie osservava stupefatto il misero bagaglio che Eddie si era portato appresso per il loro viaggio attraverso gli Stati Uniti.

Niente Aerei. Solo auto. Nel giro di pochi giorni, di buona lena, sarebbero arrivati ad Atlanta, prendendosi tutto il tempo per attraversare varie fasi di ripensamento, fosse stato necessario.

«Yep...» rispose Eddie, lanciando all'uomo un'occhiata che conteneva più di un interrogativo.

«Fammi capire: per due giorni a Philadelphia un bestione di trolley e per un viaggio on the road, solo quel borsone?»

«Ti stai davvero lamentando per questa cosa, Boccaccia?»

«No, sono solo curioso di comprendere gli abissi della tua contorta psiche, Spaghetti.»

«Ho una mente analitica, Richie, ricavati da solo la tua spiegazione.»

«Dio, quanto mi eccitano le tue spiegazioni incomprensibili», lo prese in giro, prima di strizzargli il sedere e chiudere il bagagliaio.

Eddie scosse la testa, senza realmente lamentarsi, in fondo, della questione.

«Mi sto già pentendo di averti permesso di venire con me», lo superò sul retro per raggiungere il lato del passeggero. Scrutandolo dall'altra parte del tettuccio dell'auto.

«Permesso? Senza la mia macchina non saresti andato da nessuna parte, mente analitica.»

«Avrei preso un aereo», prese posto accanto a Richie alla guida, sistemandosi la cintura di sicurezza.

«Sei così poco romantico, Eds, dovrò farti un corso accelerato...»

«Non ho bisogno di un corso accelerato, ho bisogno che guidi», indicò la strada, «siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.»

«Da quando abbiamo una tabella di marcia?»

Eddie gli scoccò uno sguardo eloquente.

«Non ci credo... almeno ho la certezza di poter scegliere io la colonna sonora, visto che la macchina è mia.»

«Questo è tutto da vedere. Ho una playlist studiata fin nei minimi dettagli per questo genere di viaggi.»

A Richie sembrarono uscire gli occhi dalle orbite all'affermazione.

Eddie rimase serio giusto il tempo di godersi la sua espressione, prima di demolire il silenzio con una risata: «Scherzavo.»

«Grazie al cielo, cazzo...» lo sentì rilasciare un sospiro di sollievo, prima di mettere in moto, «mi sarebbe spiaciuto dover uccidere il mio ragazzo, durante il tragitto.»

Eddie inarcò un sopracciglio.

«Il tuo... che cosa

«Bè...» Richie strinse le mani al volante, uscendo dal parcheggio e immettendosi in strada. Era solo un'impressione o a Eddie sembrò fosse arrossito?

Richie Tozier... arrossito.

La cosa riuscì a scatenargli addosso un potere immenso.

Soffocò una risata fra imbarazzo e lusinga, senza sentire la necessità di controbattere o chiarire quello stato, godendosi la sensazione di quelle parole. Di restare, ancora un po', in quel micro-universo perfetto, finché sarebbe durato.

Richie armeggiò con l'autoradio, sintonizzandola su una stazione radio locale. Le note di un pezzo di Bowie a riempire l'abitacolo.

Si trovò a sperare che Richie non pigiasse troppo sull'acceleratore.

Il giorno era ancora lungo.

Atlanta era ancora lontana.

 

Continua...

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

Richie correva come avesse le ali.

Non avrebbe mai creduto di poter andare tanto veloce, i piedi che a malapena toccavano terra. La polvere che si gonfiava alle sue spalle, le gambe a mulinare come ruote: nella sua testa funzionava immaginarsi come un beffardo Road Runner che avrebbe dato del filo da torcere ai suoi aguzzini. Rendeva tutto meno spaventoso. E a Richie non piaceva avere paura.

Bowers e la sua cricca si erano preparati un appostamento quel giorno. Lo avevano aspettato fuori da scuola, per l'intervallo e, dopo essersi presi la briga di spargere ai quattro venti il contenuto del suo zaino, avevano deciso di divertirsi un po' con lui. Richie però non poteva permetterlo. Indossava un paio di occhiali nuovi di pacca: sua madre non gli avrebbe mai perdonato, se per l'ennesima volta li avesse persi o distrutti. Non aveva idea dei sacrifici che avevano dovuto affrontare per permettersi il lusso di quegli occhiali? Come se fosse colpa sua, se madre natura lo aveva reso praticamente cieco come una talpa!

Perciò correva. Correva immaginando di essere un cartone animato, sperando di essere veloce come quello stupido uccello.

Virò al volo sul retro della scuola ancora deserto, i ragazzi tutti nel cortile di fronte a consumare la merenda. Sentì le voci di Bowers e degli altri chiamarlo con tono indolente: 'tanto ti prendiamo Quattrocchi! Tanto ti prendiamo, secchione del cazzo.'

I polmoni bruciavano tanto e forse anche un po' gli occhi, che avevano preso a lacrimare (per il vento, certo, solo per il vento), quando per poco non andò a scontrarsi con qualcuno che stava camminando nella direzione opposta. Fece appena in tempo a scorgere la sorpresa sul suo volto, prima di rendersi conto che si trattava di quel ragazzino ebreo che aveva intravisto qualche volta a educazione fisica.

«Scappa», si ritrovò a dirgli senza nemmeno prendere in considerazione l'idea che avrebbe potuto essere un buon diversivo alla caccia di Bowers e dei suoi amici teppisti. Un ragazzino pallido, pulito e sistemato come per una festa e per di più ebreo? Uno svago più che succulento, in mancanza del quattrocchi che li costringeva a correre un po' troppo velocemente. Avrebbe potuto essere abbastanza egoista da fregarsene per aver salva la pelle, ma Richie Tozier non era egoista. Nè mai lo sarebbe stato. Pregio o difetto questo non avrebbe saputo dirlo nemmeno da adulto.

Il ragazzino si limitò a fissarlo, stranito e immobile, come faticasse a realizzare quello che stava accadendo. Ma quando le voci di quegli psicopatici arrivarono a riecheggiare, come un canto di morte, da dietro l'angolo della struttura, Richie lo afferrò per un braccio, in corsa, e se lo portò via a forza.

«Sei sordo, scemo o cosa? Ho detto scappa! Corri o quelli ci ammazzano.»

E così fecero. Ripresero a correre. Correre entrambi come avessero un branco di iene affamate alle calcagna.

«Beep-Beep!» esclamò Richie, in perfetto stile Road Runner, mentre li seminavano. Una risata, forse isterica, che gli scaturiva dalla gola.

Quando furono certi, estremamente certi di averli persi, si fermarono.

Il fiatone, i polmoni in fiamme e i volti arrossati, esausti ma eccitati come avessero appena scampato il pericolo del secolo. Non che Richie pensasse di essere al sicuro: probabilmente lo avrebbero aspettato fuori alla fine delle lezioni, ma a quello che avrebbe fatto da lì a qualche ora, ci avrebbe pensato poi.

«Tu...» esalò il ragazzetto che nonostante la corsa forsennata non aveva che qualche ciuffo fuori posto, come se l'universo tentasse di proteggerlo dal disordine del mondo, «tu sei Richard Tozier, giusto?»

«Come?» si issò Richie, cercando di recuperare un contegno, asciugandosi la fronte con la manica della felpa che indossava, «Mi conosci?»

«Conosco quasi tutti quelli del primo anno.»

«Cosa sei, una specie di psicopatico che tiene un registro?»

«No», gli rispose, senza dare segno di essersela presa per l'insulto gratuito, come fosse una domanda del tutto legittima, «ma so ascoltare quando fanno l'appello.»

«Oh... devi avere una gran bella memoria per ricordartelo. Io non lo so come ti chiami tu.»

Un invito a comunicarglielo, in modo del tutto non convenzionale.

«Stanley. Stanley Uris», gli disse e Richie lo scrutò da capo a piedi come avesse bisogno di imprimersi nel cervello un sacco di informazioni.

«Ah, Stanley Urina. Ora mi ricordo. Non è così che ti chiamano quelli più grandi?»

Il ragazzino si limitò ad annuire: «Anche se preferisco quando Bowers mi chiama Ammazzacristiani», ci tenne a precisargli.

Richie lo fissò con tanto d'occhi e poi sorrise. Riconobbe un suo simile. Quell'Uris già gli piaceva.

«Se ti chiamo Stan va bene uguale?»

«Chiamami come ti pare.»

«Va bene: Come ti pare

 

***

 

«Come ti pare...» mormorò Richie, prima di riaprire gli occhi e rendersi conto di avere il collo incriccato nonché un rivoletto di saliva che gli colava giù dalle labbra.

Lo scomodissimo sedile dell'auto e il rumore costante del motore lo trascinarono rapidamente fuori dal sogno per catapultarlo nella realtà.

«Che hai detto?»

Volse lo sguardo per ritrovare Eddie alla guida della sua auto. Si erano scambiati di posto all'ultima stazione di servizio in cui si erano fermati per rifornimento; doveva essersi addormentato senza rendersene conto.

«C-che ho detto?» cercò di rimettersi seduto dritto, di nuovo, massaggiandosi il collo. Non aveva più l'età per quel genere di cose, aveva decisamente bisogno di fare una capatina dal suo osteopata di fiducia.

«Non lo so, hai farfugliato qualcosa di incomprensibile, mentre ti sbavavi sulla camicia.»

«Ah quello: sognavo di venir inseguito da un branco di uomini superdotati. Un sogno tanto attraente quanto terrificante.»

«Grazie per avermene reso partecipe.»

«Terrificante perché ti assomigliavano tutti, sai...»

Eddie gli rivolse uno sguardo di morte, prima di tornare diligentemente a guardare la strada.

«Dove siamo?» gli chiese allora, stropicciandosi il viso per permettersi di accantonare il sogno.

Stan.

Non gli capitava spesso di pensare a Stanley, tanto meno sognarlo. Ma da quando Eddie aveva deciso di intraprendere quel viaggio, potenzialmente suicida, verso Atlanta, il pensiero se ne restava lì sospeso, deciso a tormentarlo con tutta una serie di trucchetti mai usati prima.

Un ricordo, camuffato da sogno. Era andato davvero così il loro primo incontro? A parte qualche dettaglio edulcorato dal mondo onirico, probabilmente sì. Lo ricordava, nitido come fosse successo solo il giorno prima.

«Non lontani. Un paio d'ore ancora. Minuto più, minuto meno.»

Si domandava spesso se Stan gli mancasse.

«Scommetto che stai mantenendo una velocità di crociera costante per non sgarrare di quel minuto in più.»

Poteva mancargli qualcuno che non aveva più rivisto per ventisette anni?

«Con le dovute precauzioni, sì, Richie.»

A giudicare dalla sensazione di languida malinconia che gli aveva scatenato il sogno di poco prima...

«E quanto ti farebbe incazzare quel minuto in più: ogni tanto mi chiedo come sarebbe vivere nella tua testa, Eds.»

… sì. Gli mancava.

«Non sono sicuro ti piacerebbe scoprirlo.»

Allungò istintivamente una mano, per raccogliere quella di Eddie, posata distrattamente in grembo.

E se fosse successo a Eddie? Di non risvegliarsi mai più. Sarebbe riuscito a sopportare una vita intera, sapendo di non poter mai più rivedere Eddie?

«A me interessa sempre sapere quello che pensi.»

Quante volte se lo era chiesto. Quanti incubi a ricordarglielo.

La terribile sensazione di come si era sentito quel maledetto giorno di qualche mese prima. Eddie che perdeva tutto quel sangue, Eddie, al quale scivolavano via colore ed energie, lentamente, inesorabilmente. Gli occhi sempre meno vigili che andavano spegnendosi. Occhi vacui che lo fissavano come se non riuscissero più a vederlo, a vederlo veramente. Le mani viscide del suo stesso sangue, mani fredde, gelide, mani di un uomo morto. Ricordò di essere stato trafitto da un dolore ben più atroce di quello di una lama nel ventre. Come se qualcuno gli stesse strappando il cuore dal petto.

«E tu non me la racconti giusta. Sicuro di stare bene, Rich?»

Non sarebbe riuscito a sopportarlo.

«Sì, Spaghetti. Se mi stessi insultando mentalmente lo vorrei sapere... è fastidioso doverselo solo immaginare, ti pare?»

Non era sicuro sarebbe mai riuscito a superarlo.

«Per chi mi hai preso? Preferisco insultarti a voce alta, dove starebbe il divertimento, altrimenti?»

Forse non era ancora riuscito a superarlo. A superare del tutto quella sensazione di smarrimento. A superare il terrore, anche solo del ricordo, di aver creduto di averlo perso per sempre.

«Grr...» gli fece un verso di scherno, intrecciando le dita alle sue, godendosi la sensazione, aggrappandocisi tenacemente.

Eddie era lì. Al suo fianco. Ed aveva le mani calde.

 

***

 

C'era decisamente troppa ressa nel corridoio della scuola, per essere solo le otto del mattino.

Richie aveva rincorso Stan, affiancandolo per le consuete chiacchiere mattutine, prima di esser separati da classi diverse, quando si erano accorti che, da quella parte, non si passava per niente: un capannello di alunni e qualcuno che li intimava di stare alla larga, di fare spazio, di fare aria.

Quando finalmente i curiosi cominciarono a disperdersi, Richie allungò il collo, riuscendo a individuare il motivo di tanto clamore: un ragazzino, che sembrava molto più piccolo della loro età se ne stava seduto pallido pallido contro al muro. Dalla gola gli usciva un sibilo che non aveva mai sentito in vita sua. Un risucchio, un fischio, come se la trachea non fosse che una sottilissima cannuccia che faticava a regalare aria ai suoi polmoni.

Di fianco a lui un altro di quelli nuovi, del primo anno. Richie ancora doveva imparare i nomi di quelli che non conosceva dalle elementari.

Guardò Stan, che sicuramente era più informato di lui.

«Bill, che cosa è successo?» Stan non lo deluse nemmeno questa volta.

«S-S-Stanley, c-c-ciao.»

Ma che diamine di problemi avevano quei due? Uno che risucchiava aria come in apnea e l'altro che pareva avere la lingua annodata a un ferro arroventato.

«N-n-niente di g-grave. S-solo un p-p-piccolo incidente. F-forza E-Eddie, un altro tiro.»

Vide il ragazzino accostarsi un piccolo oggetto di plastica fra le mani tremanti e spruzzarsi in gola qualcosa che poteva essere lacca o acido, Richie non riusciva a capirlo.

Il respiro del ragazzino sembrò tutto d'un tratto meno teso, sibilante. Persino il suo viso sembrò rilassarsi dopo quella spruzzatina.

Che fosse un concentrato di serenità in bottiglietta?

Vide il famoso Bill agganciare il suo braccio e aiutarlo a rimettersi in piedi.

«V-va m-m-meglio, E-E-Eddie?»

Il ragazzetto annuì debolmente, prima di posare uno sguardo sugli ultimi spettatori rimasti ad assistere a quel fuori programma. In un misto di curiosità e timore.

Richie intercettò l'occhiata di Stan che sembrava supplicarlo di non dire stronzate, e per un istante ci riuscì egregiamente, prima di tornare a guardare quel duo del tutto singolare. Lo spilungone dall'aria protettiva con la lingua molle e il bimbo coi polmoni a nocciolina dagli occhi da cerbiatto spaurito.

«Un'altra ordinaria mattinata alla scuola media di Derry!» esclamò, suscitando la perplessità dei presenti.

«Richie...» lo ammonì Stan.

«Meglio questo che la lezione di matematica comunque, no?»

«Richie!»

Sorrise, tronfio della sua ignobile battuta e incrociò lo sguardo di Eddie. Per un istante, leggero come un refolo di vento e più rapido di un battito di ciglia, il suo cuore ebbe uno strano sfarfallio e niente di lui riuscì a ignorare quanto fosse carino. Carino, carino. Proprio... carino.

 

***

 

«Sei sicuro sia questa?» Richie aveva allungato lo sguardo su per il vialetto di quella deliziosa villetta a due piani. Un viale alberato, a fare da cornice idilliaca a un posto da favola.

Strade pulite, giardini curati, alberi potati di fresco, rigogliosi ma ordinati.

Un posto perfetto per Stan.

Un posto che urlava Stan a gran voce, a dirla tutta.

Eddie annuì e si slacciò la cintura di sicurezza, spegnendo il motore della macchina. Non era meno agitato di lui, questo poteva dirlo. Era sicuro avesse sbagliato strada di proposito almeno un paio di volte prima di inforcare la giusta diramazione del navigatore. Come a prolungare il più possibile il momento in cui avrebbero dovuto affrontare definitivamente il motivo per cui avevano fatto tutta quella strada.

Era stata una buona idea? E se la moglie di Stan non fosse dell'umore adatto? Se li avesse presi a male parole? Se peggio, si fosse messa a piangere? Non era bravo a consolare le persone in lacrime. Non sapeva nemmeno come gestire se stesso, in lacrime!

E se... non avesse abitato più lì? Per un imbarazzante momento, Richie lo desiderò ardentemente: nessuna famiglia Uris? Mi scusi, ci siamo sbagliati. Nessuna informazione su dove sia finita la precedente proprietaria? No? Peccato, grazie comunque e scusi per il disturbo.

Eddie però era già sceso dall'auto e già indirizzato al vialetto di casa. Si fermò solo per voltarsi e aspettare che Richie si decidesse a fare il passo successivo. Senza spronarlo a muoversi, né mettergli fretta; in paziente attesa.

Si prese tutto il tempo per impedire alle sue mani di tremare, di recuperare un'espressione dignitosa e infine di scendere dalla macchina senza farsi prendere da un attacco di nausea immotivato.

Stan era già belle che morto, defunto, trapassato. Che altro avrebbe potuto succedere... di peggio?

Raggiunse Eddie che lo guardava come si osserva un ragazzino a cui tocca affrontare il primo giorno di scuola.

«Non sei costretto a venire con me, lo sai questo vero?»

Allora Eddie era ben consapevole di avercelo trascinato lui in quella magagna. Se non altro, lo ammetteva!

Si rimproverò però subito di aver partorito un pensiero tanto maligno. Dopotutto aveva deciso in totale autonomia di seguirlo, spacciando la sua codardia per altruismo. Come se Eddie avesse bisogno del suo sostegno per affrontare quel viaggio.

Se lo era ripetuto così tante volte che aveva finito per crederci, quando in realtà quello ad aver bisogno di sostegno era sempre stato lui.

Ci aveva già pensato a quella sottospecie di pellegrinaggio, a raggiungere Stan, ma non ne aveva mai avuto il fegato, così come non ne aveva avuto mai per telefonare con più costanza a Eddie nei mesi trascorsi o anche solo andare a trovarlo a New York, come gli aveva promesso.

Due delle persone a cui aveva tenuto più di qualsiasi cosa, durante gli anni felici della sua infanzia, che venivano sfacciatamente, pavidamente snobbati, per mesi.

Richie Tozier aveva ancora molta strada da fare, per riuscire a sconfiggerle tutte, quelle sue paure.

«Non ho fatto certo tutta questa strada per aspettarti in macchina, mentre fai gli occhi dolci alla vedova Uris.»

«Se ti azzardi a fare anche solo una stupida battuta davanti a lei...»

«Ma per chi mi hai preso? Non faccio mica il buffone di lavoro», lo prese sottobraccio, trascinandoselo dietro, come fosse sua iniziativa quella di affrettare i tempi.

Eddie lo seguì, un po' recalcitrante all'inizio e poi sempre più determinato. Quando furono di fronte alla porta d'ingresso restarono entrambi immobili a fissare il campanello, come avesse i denti.

«Forza, fallo tu», Eddie.

«Perché io? Fallo tu», Richie.

«Ho un improvviso déjà-vu di noi due di fronte a una porta.»

«Dici che Patricia Uris assomiglia a un volpino di Pomerania?»
Eddie lo guardò storto.

«Okay, lo faccio io.» Eddie allungò una mano per suonare, ma...

«Posso aiutarvi?» una voce alle loro spalle li fece trasalire come nemmeno il lamento di uno zombie marcescente.

Si volsero entrambi con uno scatto quasi comico, trovandosi di fronte una donna.

Sulla quarantina, capelli chiari raccolti in una coda approssimativa, aria delicata, minuta ma solida. Abiti da lavoro, ginocchia sporche di terra, le mani guantate a stringere delle erbacce.

Richie balbettò qualcosa, straordinariamente a corto di parole. Grazie al cielo Eddie fu più rapido a uscire da quell'imbarazzante impasse.

«Cercavamo... Patricia Uris?» azzardò, non del tutto sicuro si trattasse semplicemente di una vicina o qualcuno che stava lavorando in giardino.

«Sì?» rispose, «sono io.»

Aveva un bel sorriso. Sembrava una persona gentile, pensò Richie. Non si sorprese affatto di affiancarla all'immagine che aveva di Stan e di non vederla stonare affatto, in quel contesto. Fu di nuovo travolto da quell'attacco di malinconia inarrestabile.

Cercò di trovare le parole, che Eddie anticipò, ancora una volta.

«Salve Patricia», lo sentì esordire con spontaneità, «Mi chiamo Edward. Kaspbrak e lui è Richard Tozier».

Vide la donna indugiare incuriosita sui loro visi, indecisa se fossero dei semplici scocciatori o si trattasse di qualcosa di serio, ma l'occhiata smarrita lentamente si trasformò in consapevolezza.

«Oh...» disse e poi si guardò attorno, come si aspettasse di veder sbucare fuori qualcun altro, finendo per tornare su entrambi, in particolare proprio Richie.

«Non avevo mai creduto a Stan quando mi diceva di conoscerti», disse. La voce si era lentamente incrinata, una voce che sapeva di troppi pianti già consumati.

«Ti ha parlato di me... ?» domandò Richie, incredulo a quella rivelazione. Stan aveva ricordato? Per ventisette anni?

«Mi ha parlato di te e mi ha parlato di Bill Denbrough...» mormorò, «di te per via delle pubblicità sui tuoi spettacoli mentre di Bill ha tutti i romanzi... mi raccontava di aver passato l'infanzia a Derry... assieme a un gruppo di amici che...» lanciò uno sguardo a Eddie, «di te non mi ha mai parlato però.»

«Non è una novità, Patricia, nessuno si ricorda mai di Eddie» lo prese in giro, cercando di alleggerire i toni di quella conversazione già di per sé, piuttosto surreale.

Eddie decise di soprassedere in silenzio.

«Immagino che siate qui perché avete saputo... quello che è successo a Stan...», fece un vago cenno con la mano, come non riuscisse a continuare.

«Sì, lo abbiamo saputo», disse Eddie.

«Non sono sicura di potervi dare una spiegazione... plausibile a quello che è successo.»

«Non siamo qui per delle spiegazioni, volevamo solo conoscerti.»

La donna annuì, rassegnata, ma non arrabbiata, mesta ma affatto ostica. Qualsiasi spiegazione si fosse data al suicidio del marito, di certo era ben lontana da tutto quel buio e quel terrore che aveva dominato le loro, di esistenze. Richie decise che si sarebbe personalmente preoccupato che continuasse a restarne fuori.

 

La casa di Stan sembrava ormai un santuario più che un'abitazione vissuta.

Molti dei mobili erano stati spostati, altri coperti con teli bianchi.

Gli oggetti d'arredamento però erano ancora lì, a fare bella mostra di sé, come aggrappati ad una realtà che faticavano ad abbandonare. Fotografie, libri, vecchi dischi in vinile, souvenir dai paesi del mondo e quadri.

Richie fece scorrere lo sguardo sulla collezione di libri nella vetrinetta in salotto. Patricia non aveva mentito: Stan aveva tutti i libri di Bill. Tutti libri che Richie invece non aveva ancora mai letto. Non era esattamente un fan del genere di Denbrough.

Andò a raggiungere Eddie che si era accomodato sul divano, quando la donna tornò con un paio di tazze piene di caffè bollente.

«Scusate l'attesa, ma alcune cose le avevo già sistemate negli scatoloni... fra cui la macchina del caffè.»

«Non dovevi scomodarti... sei stata molto gentile», intervenne Eddie, recuperando sia la propria tazza che quella di Richie.

Patricia si sedette loro di fronte, sfregandosi i jeans logori con le mani, evidentemente nervosa.

«Siete i primi amici d'infanzia di Stan che conosco...» si ritrovò a dire, guardandoli entrambi con aria un po' spaesata ma altrettanto curiosa, «mi parlava di quel periodo come di qualcosa di meraviglioso ma che per qualche motivo aveva... rimosso.»

Richie la osservò a lungo come aspettandosi chissà che rivelazione, ma tutto quello che identificò fu la stessa curiosità per la vita di Stan. Quella che c'era stata prima di Derry e quella dopo Derry. Come fossero due catene che avevano solo bisogno di essere saldate di nuovo assieme.

«Abbiamo avuto i nostri motivi per rimuovere gran parte di quel periodo», disse Richie, senza quasi rendersene conto. Eddie si volse a guardarlo vagamente in allarme, «ragazzetti pieni di brufoli e insicurezze con la voce che è un concentrato di sgradevoli sbalzi ormonali? Ew. Anche se Stan era quello meno affetto dalle piaghe della pubertà di certo non ne è stato graziato.»

Patricia sembrò gradire quella risposta e si lasciò andare a un accenno di risata.

«Penso gli sarebbe piaciuto rivedervi...» mormorò.

«Non ne sono così sicuro», rispose di nuovo, «il giorno in cui è partito da Derry si è preoccupato di farci sapere quanto ci odiasse.»

«Richie...» arrivò puntuale, il rimprovero di Eddie, che non poté far altro che abbandonarsi un po' sul divano, facendo cenno alla donna di non starlo a sentire.

«Proprio una cosa che Stan avrebbe potuto dire», confermò però lei, a sorpresa.

«Vuoi dire che quel suo sarcasmo incomprensibile e fuori luogo gli è rimasto? Stan... l'Uomo. Così lo chiamavano, perché a tredici anni sembrava già ne avesse quaranta.»

«Oh sì... non avrei saputo descriverlo meglio.»

Richie sorrise appena. Dunque Stan non era cambiato poi molto con il passare degli anni. Come avrebbe potuto? Già più maturo della sua età, già avanti, come consapevole di dover anticipare i tempi, perché la sua vita si sarebbe interrotta troppo rapidamente.

«Quindi stai traslocando», le domandò, per impedire al suo cervello di partire per la tangente, di lasciarsi travolgere dalla tristezza.

«Più o meno», disse Patricia, guardandosi attorno mestamente, «in realtà non abito più in questa casa da mesi, ci torno ogni tanto per tenerla in ordine per via dei... bè, sapete... le visite dell'agenzia immobiliare. Quando troveremo un acquirente mi deciderò a portare via tutto quello che voglio tenere. Ma non è facile capire cosa voglio tenere».

Richie e Eddie la guardarono con aria interrogativa, anche se Richie aveva una vaga idea di quello che volesse dire.

«Questo posto mi ricorda Stan ovunque», la sentì aggiungere, «è stata la prima vera casa... che abbiamo mai avuto. Ci siamo cresciuti insieme... qui dentro. Abbiamo fatto progetti, cercato di avere un figlio che non è mai arrivato. Ma non riesco... non riesco più a viverci da quando... quando...».

«È tutto okay, Patricia.»

«No, non è tutto okay. Non sarà mai più tutto okay», disse senza astio nella voce ma con uno sguardo che raccontava tutto il dolore provato, «ma ho bisogno di ricominciare, da qualche parte. Liberarmi di qualcosa, per poterlo fare. Non finirò la mia vecchiaia con mio marito e questo è un fatto. L'unica cosa che posso fare è tenermi stretto ciò che di bello c'è stato e liberarmi di quello che mi terrorizza», fece un cenno alla casa, «salire i gradini di quella scala per arrivare al bagno mi terrorizza. Non voglio più dover affrontare una cosa simile. Non posso permettere che il terrore di chiudere gli occhi mi porti via i ricordi migliori che ho di Stan.»

Richie serrò le labbra. Le parole di Patricia gli erano arrivate dritte come un pugno ben assestato nello stomaco. Liberarsi del terrore, conservare le cose migliori per poter andare avanti. Tutte cose di cui nemmeno Stan era riuscito a liberarsi, prima di quel fatidico giorno del bagno.

Quante notti Richie stesso si era svegliato nel bel mezzo della notte con un grido, bloccato in fondo alla gola? Quante volte aveva dovuto rivivere, di nuovo, la paura di quella lunga notte, nelle fogne di Derry? Vedere Eddie morire, notte, dopo notte, dopo notte.

Le volte che aveva raccolto il telefono per poterlo sentire e assicurarsi che erano solo incubi. Le volte che lo aveva rimesso al suo posto per lo stesso motivo.

La paura. La paura che nonostante tutto continuava a dominare la sua vita. Quella stessa paura che Stan si era preoccupato di annientare in quelle poche, precise parole nella sua lettera d'addio.

La paura di affrontare la morte stessa di Stan. Un momento che aveva accantonato per così tanto tempo. E che adesso sembrava una cosa un po' meno gravosa anche solo decidendo di affrontarla e parlarne, una volta per tutte?

«Spero conserverai tutti quei manuali sull'ornitologia. Credo che Stan sarebbe disposto a tornare solo per fartela pagare per un affronto simile», disse, senza starci troppo a pensare.

Patricia che ancora indugiava col pensiero sulle ultime considerazioni, tornò a guardarlo e scosse la testa con un sorriso.

«Vi andrebbe di raccontarmi un po' voi di Stan, adesso?»

«Quanti giorni hai a disposizione?»

 

***

 

«Sai che dovresti fare?», Richie aveva scovato Stan, seduto sul retro della sinagoga, quando ormai la cerimonia si era esaurita da un pezzo, «Incorniciare il tuo discorso fuori programma al Bar mitzvah di oggi e appenderlo in camera.»

«Non sono in vena per il tuo umorismo in questo momento», lo intercettò, lanciandogli uno sguardo affranto.

«Invece è proprio ora che dovresti accoglierlo, Stan, sei stato spettacolare là dentro.»

«Già, proprio spettacolare... sono partito per la tangente e mi aspetto una sfuriata incredibile da mio padre quando tornerò a casa stasera.»

«Ma ne sarà totalmente valsa la pena: il giorno in cui Stanley Uris ha tirato fuori le palle di fronte a una cinquantina di fedeli.»

Richie gli si era seduto accanto, levandosi il Kippah, che aveva tenuto sul capo durante tutta la cerimonia, facendolo roteare su un dito solo.

«I tuoi discorsi sono sempre sull'orlo della blasfemia, te ne rendi conto, sì?»

«Può darsi, un giorno finirò su tutti i giornali per aver detto qualcosa di sbagliato, ma sai come si dice: bene o male, purché se ne parli.»

«Non contare su di me quel giorno.»

«Oh, non rovinare così l'immagine che ho di te in questo momento, Stanny. Sei stato il mio eroe per ben cinque minuti!»

Stan sorrise con un angolo della bocca, alzando gli occhi al cielo.

«Non lo so se è stato eroismo Richie, ma sentivo di doverlo fare. Non ti capita mai di... esplodere, perché ti sei tenuto dentro troppe cose tutte insieme? Alla fine strabordano e non puoi far nulla per trattenerle.»

Richie gli lanciò un'occhiata curiosa, come se non riuscisse a riconoscere Stan in quel discorso. Lo Stan che si preoccupava sempre di mantenere la calma, che calibrava le parole, che non si lasciava mai troppo andare a sbalzi d'umore imprevedibili. L'exploit di cui si era reso protagonista quel pomeriggio era ciò che di più lontano ci si potesse aspettare da lui, eppure era successo. Stan aveva preso il coraggio a due mani e cacciato fuori tutto quello che non era mai riuscito a dire, a suo padre, alla comunità tutta, forse persino a se stesso.

«Non saprei, dico sempre tutto quello che mi passa per la testa, lo sai.»

Stan ricambiò il suo sguardo, lasciandogli intendere che non era proprio certo di poterla accettare come spiegazione.

«Tutte le cavolate che ti passano per la testa, sì. Ma lo fai... mai per le cose serie, Richie?»

«Che vuoi dire?»

«Ti è mai scappato qualcosa che non volevi dire?»

Richie ci rifletté su per qualche istante, la consapevolezza di avere un sacco di cose trattenute dentro quella sua Boccaccia, sotto strati di cazzate senza contegno alcuno.

«Tipo quello che ho detto a Bill, su suo fratello, qualche giorno fa?»

«Tipo quello, sì...»

«Ma quello volevo dirlo. Era l'unico modo per far capire a quel lingua molle che ci saremmo fatti tutti sbudellare in modo splatter se avesse continuato a spingerci nelle fauci di quel mostro.»

Per colpa sua adesso il gruppo si era disintegrato. Ben era stato sfregiato e Eddie era finito all'ospedale con un braccio rotto. Per quanto tempo non lo avrebbe rivisto?

«Allora pensa a qualcosa che non vuoi dire e che non riesci a dire. E pensa a quante volte ti è scappato di dirlo e sei riuscito a trattenerlo. Aggiungici il peso delle responsabilità e delle ripercussioni che potrebbero avere sulla tua vita e... capirai di che parlo.»

Stan non aveva idea di quanto Richie già capisse. Capisse alla perfezione di cosa stesse parlando.

E non scherzava affatto quando diceva che Stan era diventato il suo eroe. Per il coraggio che aveva portato, quel pomeriggio, di fronte alle persone che gli stavano più care. Di donare se stesso, senza filtri, senza paura.

Un coraggio che Richie, non era sicuro avrebbe mai avuto.

«Ti ho già detto di quanto vecchio tu sembri ogni volta che parli in questo modo?» non riuscì a fare a meno di dire.

Stan, come da abitudine, scosse la testa, rassegnato.

«Sì, lo hai detto, molte volte.»

«Allora goditi la sensazione di essere il mio eroe, per oggi, Stanley caro. E il giorno in cui mi verrà l'ispirazione di fare quello che hai fatto tu, ti prometto che ne sarai testimone.»

«Guarda che ci conto.»

«Puoi giurarci. Come ora, mio prode suddito, puoi giurare che andremo a prendere un gelato, prima della sfuriata serale di tuo padre e ci leccheremo anche le ditina-ina-ina», disse con aria solenne, cercando una voce interiore adatta all'occasione. Una voce, che per il momento, assomigliava sempre e solo a quella di Richie Tozier.

Si rimise in piedi, allungando una mano per tirarlo in piedi a sua volta.

Un giorno forse, avrebbe mantenuto la promessa.

 

***

 

… e in parte lo aveva fatto. Aveva mantenuto quella promessa. Era riuscito a mostrare parte del vero se stesso al mondo. Era riuscito a distruggere un sacco di barriere, a scavalcare quella paura folle di dimostrare quanto ci fosse di fragile e prezioso sotto quello strato di sarcasmo e ingannevole sicurezza.

Anche ora che sostava di fronte alla tomba di Stan. Ora che la sua morte era improvvisamente diventata reale. Un dato di fatto. Definitivo. Scritto nero su bianco sulla nuda pietra.

Stan era morto e non c'era molto altro da fare o da dire, solo prenderne atto e imparare a conviverci, per il resto dei suoi giorni.

Ma come aveva detto Patricia, forse quel viaggio era servito a liberarsi dei dubbi, del terrore. Accantonare l'oscurità per potersi nutrire solo di ciò che di bello c'era stato, nel conoscere Stan.

Uno Stan che sarebbe rimasto cristallizzato, nella sua memoria di tredicenne. Uno Stan che parlava come un adulto, che sapeva dispensare consigli, che amava l'ordine e riconosceva il cinguettio degli uccelli. Un buon amico. Uno dei migliori. Che questa volta non avrebbe dimenticato.

Eddie indietreggiò dalla tomba dopo averci sistemato sopra un mazzo di fiori. Un gesto che sapeva di chiusura, più di quanto non lo avesse fatto quella stupida lettera, qualche mese prima.

«Mi pizzicano gli occhi», lo sentì commentare, «probabilmente la mia allergia è tornata.»

«L'allergia ce l'hai in testa, Kaspbrak», sorrise, concedendosi di dargli una pacca sulla schiena, «credevo che questo lo avessimo appurato anni fa ormai.»

«Certo, prendimi pure in giro. I fiori avresti potuto tenerli tu, intanto.»

«Sai che sono allergico alle melensaggini di questo genere.»

«Piantala di fare il duro, non ci crede nessuno, Tozier.»

Richie sorrise, inspirando a fondo, concedendosi ancora un istante per guardare quella lapide che diceva di Stan più di quanto avrebbero potuto fare ventisette anni di aggiornamenti.

Stanley Uris, per tutto il bene che ci hai dato. Con amore.

Si chiese che cosa avrebbe voluto sulla sua tomba (se mai ne avesse avuta una senza lasciar detto di gettare via le sue ceneri e tanti saluti). Qualcosa di divertente, qualcosa di estremamente ridicolo? Qualcosa in grado di far ridere chiunque, per ricordare a tutti quanto fosse spiritoso? O avrebbe voluto qualcosa che dicesse al mondo quanto era stato amato?

Patricia aveva parlato loro di Stan tutto il pomeriggio. Rendendoli partecipi dell'uomo che era stato. Un uomo ordinario che era riuscito a diventare straordinario per le persone che avevano avuto il privilegio di amarlo.

Richie non aveva mai concesso a nessuno, dopo quella fatidica estate di ventisette anni prima, di amarlo così come i suoi amici lo avevano amato. Non si era mai concesso, per nessun motivo, di amare qualcuno, tanto quanto aveva fatto con loro.

Ventisette anni. Di un cuore arido come il deserto.

Stan era stato felice, magari non disgustosamente felice come si erano augurati da ragazzini, ma era stato felice. E adesso era morto.

Lui non lo era mai stato davvero e ancora camminava su quella Terra.

Una peregrinazione che non aveva avuto altro scopo se non insegnargli che, forse, c'era ancora modo di annientare la paura degli incubi. Di rimediare a ventisette anni di errori. Il tempo gli aveva concesso il privilegio di mantenere quella promessa di un'estate di ventisette anni prima. Una delle tante che doveva a Stan.

«Grazie per avermi portato qui, Eds», disse, senza distogliere lo sguardo dalla lapide, le mani ora sprofondate nelle tasche dei pantaloni. Il cuore gonfio di gratitudine e leggero allo stesso tempo.

«Grazie a te per avermici accompagnato.»

Richie sorrise.

«Te la saresti cavata alla grande anche senza di me, Spaghetti.»

«Forse...» non lo contraddisse, «ma con te è stato più facile.»

Sorrise. Uno di quei sorrisi caldi e sinceri che solo Eddie sapeva elargire in modo tanto limpido. Richie si volse finalmente a guardarlo.

Era più facile sì.

Come era facile farsi sorprendere ogni volta, di averlo ancora accanto.

Come era facile riempirsi gli occhi e il cuore di lui.

Facile... come meravigliarsi di pronunciare le parole più spaventose che mai si era concesso di dire. Parole che improvvisamente trovarono spontaneamente la loro voce, dopo anni di ostinato silenzio.

«Io ti amo, Eddie.»

Non si sentì un eroe, ma qualcosa, dentro di lui - Stan come testimone - esplose disgustosamente di gioia.

 

Continua...

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

Mal di testa, si trattava solo di mal di testa.

Era questa la scusa con cui Eddie aveva giustificato il suo silenzio, il suo apparente malumore.

E forse non si trattava nemmeno di una bugia.

Il disagio con cui aveva accolto la confessione, nemmeno poi tanto sorprendente di Richie, proprio di fronte alla tomba di Stan, si era ripercossa su di lui con la forza di un tornado, costringendolo a un malessere interiore che lo aveva piegato.

Decise di non rifiutare la tazza di caffè caldo che gli veniva servita per la terza volta, quella mattina, alla tavola calda a cui si erano fermati per colazione.

«Tutta quella caffeina ti farà esplodere la valvola della pressione, Eds», commentò Richie che nonostante tutto, nonostante ostentasse una tranquillità che evidentemente non possedeva, cercava di non metterlo in difficoltà. Anche solo nel modo in cui calibrava le parole, i toni.

Eddie lo trovava insopportabile. Avrebbe preferito il medesimo limpido malessere oppure essere privo di quella sua ignobile empatia e non percepire nulla, accantonare per qualche ora il peso della bomba che gli aveva scagliato addosso.

Eddie, che aveva cercato di andarci coi piedi di piombo, ora si trovava investito di una responsabilità che non era riuscito a prevedere, non in quel modo. Aveva persino scelto un lavoro che gli avrebbe permesso di calcolare i rischi, prevedere azioni e reazioni, si aspettava quantomeno che anche nella vita potesse prevedere un certo tipo di... imprevisti.

Ma Richie non era prevedibile, mai lo era stato. E di conseguenza non potevano esserlo le sue azioni e non potevano esserlo le sue reazioni.

Perciò preferiva continuare con quella bugia, prendendosi del tempo per elaborare una replica intelligente, piuttosto che lasciarsi andare all'istinto e fare un danno peggiore.

«Il caffè è un vasodilatatore, aiuta a diminuire il mal di testa», rispose con aria assente, passandosi una mano sul viso.

E dire che fino a ieri pomeriggio quel viaggio si era sospinto mestamente verso un percorso di rinascita. Aveva affrontato con ammirevole contegno tutta la mestizia nell'aver riscoperto Stan. Nell'avergli finalmente augurato un lungo arrivederci. Aveva ancora così tante cose da rielaborare da quello che aveva imparato in un solo pomeriggio finché non era arrivato Richie con quella sua confessione affatto preventivata e aveva spazzato via tutto il resto. Perché per quanto fosse consapevole del fatto che Richie tenesse a lui, non aveva previsto la reazione a una dichiarazione tanto esplicita. Diretta. Sinceramente spiazzante.

Riaprì un occhio, lasciandosi sorprendere dal fatto che Richie avesse accantonato il piatto di uova e bacon che aveva ordinato, senza averlo quasi toccato. Cosa già di per sé straordinaria, considerato il suo consueto, vorace appetito.

Doveva averlo atterrato più di quanto immaginasse con quella sua non reazione, al cimitero, il giorno prima.

Semplicemente non gli aveva risposto.

Se ne era rimasto lì, fermo a guardarlo come se si trovasse di fronte un animale fantastico, stordito dal rumore del battito del proprio cuore. Aveva distolto lo sguardo poco prima che Richie dicesse qualsiasi altra cosa, si era infilato le mani in tasca e aveva sorriso, senza sapere che quel sorriso sembrava più un ghigno terrorizzato che non una conferma di aver afferrato quelle due spaventosissime parole.

Era stato a un passo così dal rispondergli con un calcolatissimo: grazie.

Si sarebbe seppellito, lì, proprio di fianco a Stan, se fosse successo.

Fortunatamente la sua lingua si era inaridita a tal punto da non riuscire a formulare alcuna lettera.

«Eddie...»

Ci siamo, pensò, sforzandosi di guardarlo in viso, almeno per un breve istante.

«Se è per quello che ho detto ieri...»

«No, Richie...»

«... che stai così, non...»

«Richie...»

«Lasciami finire, per favore», lo guardò dritto negli occhi e Eddie si sentì morire, «se è per quello che ho detto ieri, sappi che non mi aspetto che tu dica... o faccia nulla. Avevo solo bisogno di dirtelo. Di liberarmene. Non devi... non devi pensare che avessi intenzione di ingabbiarti in non so... Non so nemmeno che diavolo ti passi per la testa a dire il vero», farfugliò sul finale, incoerentemente, come se il suo frasario si fosse inceppato. Richie e un frasario inceppato. Una frase che non poteva associarsi a uno come Tozier.

Eddie se ne sentì così responsabile che avvertì lo stomaco stringersi per il senso di colpa.

Si era ripromesso di non farlo soffrire, ma non era esattamente quello che stava facendo?

«Lo so», si sentì almeno in dovere di rispondere, e con un gesto calcolato - stavolta sì, decisamente calcolato - allungò una mano per prendere la sua, che stava nervosamente giocherellando con la forchetta.

Lo sentì irrigidirsi per qualche secondo prima di accogliere quella tregua.

«Non l'ho fatto per metterti a disagio, Eds...» aggiunse, «per quello ci sono altri modi molto più divertenti.»

Eddie sorrise e annuì, cercando di fargli capire che apprezzava quel suo modo di stemperare, ma che non ce ne era alcun bisogno.

«Non lo sapessi. Ma purtroppo lo so», si trovò a ripetere e stringere la presa, senza riuscire a spiegare in alcun modo, a voce, quello che gli passava per la testa. Sebbene, in qualche misura, sapesse esattamente cosa stava succedendo dentro quella sua mente bacata e traumatizzata da anni di amori concepiti e vissuti in modo sbagliato.

«Che schifo. Questi froci sono dappertutto...»

Una frase appena sussurrata che però non gli era sfuggita affatto, durante le sue elucubrazioni.
Fece scivolare via istintivamente la mano da quella di Richie e si voltò per capire chi diavolo si fosse permesso di parlare.

Un trio di ragazzi dall'aria pigra gli stavano passando accanto, diretti all'uscita.

«Ehi!» esclamò istintivamente, mentre Richie recuperava la sua mano, per trattenerlo dal fare qualsiasi cosa avesse intenzione di fare o dire.

«Lascia perdere», lo sentì mormorare e scuotere la testa per farlo desistere. Si sorprese di ritrovare in Richie una tale pacatezza. Forgiata, forse più spesso di quando potesse immaginare, da episodi del genere?

«Ma li hai sentiti?»

«Purtroppo sì, ma lascia perdere.»

Eddie serrò le labbra, infastidito, imbarazzato, frustrato e un sacco di altre definizioni che non trovavano concretezza nella sua mente, mentre il tintinnio della porta annunciava il loro spavaldo congedo.

Trangugiò quindi rapido quello che restava del suo caffè e posò rumorosamente la tazza.

«Andiamocene, dai. Questo posto ha smesso di piacermi un minuto fa», disse.

Richie annuì, vagamente turbato; non seppe dire se per la sua reazione, per il commento dei ragazzi o per tutta la situazione in generale.

«Vado a pagare...» mormorò, e lo guardò alzarsi per dirigersi alla cassa, vicino al bancone.

Eddie si volse giusto il tempo per scorgere, dalla vetrata, quegli stessi ragazzi che prendevano a calci una lattina, facendo a gara a quale macchina parcheggiata centrassero con più violenza.

E fu allora che sentì montargli dentro qualcosa di sconosciuto e vagamente spaventoso anche. Non si diede il tempo di pensarci su poi molto. Tutta la sua meticolosità nell'analizzare rischi e pericoli evaporata in un istante, soppiantata da un impulso che scaturiva da un luogo ben sepolto nel suo essere.

Si mise in piedi, recuperò la giacca e percorse in lungo il locale, fino a guadagnare l'uscita.

I ragazzi nel parcheggio non facevano che ridere e rivolgersi oscenità l'un l'altro.

Troppo giovani per essere considerati adulti ma decisamente troppo adulti per essere considerati ancora dei ragazzini giustificabili (se mai si potessero giudicare tali atti di vandalismo).

«Ehi, voi!» andò loro incontro, con l'aria minacciosa di qualcuno che è pronto a una discussione tutt'altro che pacifica, «chi diavolo ve l'ha insegnata l'educazione? Non sono vostre quelle macchine!»

Li vide fermarsi: uno di loro trattenere la lattina sotto al piede.

«Ma che vuole questo?»

«Già, che vuoi, nonnetto?», aggiunse l'altro, «ehi, ma non è una di quelle due checche di prima?»
«Sì, è uno di quei due schifosi. Froci esibizionisti del cazzo», sputò a terra il terzo, rivolgendogli uno sguardo d'odio talmente ingiustificato che Eddie faticò a crederci di averlo percepito davvero.

«Che hai detto?» si ritrovò a chiedere, andandogli incontro, senza sapere perché i suoi piedi non si fermassero, le sue labbra non si serrassero in un dignitoso silenzio.

«Ho detto: frocio esibizionista. Sei anche sordo, oltre che succhiacazzi?»

«Ritira quello che hai detto, ragazzino.»

«Sennò che fai? Ti metti a frignare?»

Eddie non fece in tempo a ribattere in altro modo perché, la lattina che prima se ne stava a dondolare pigramente sotto la scarpa di uno dei tre individui, gli era finita dritta dritta in fronte, facendogli perdere per un istante la facoltà di parola per la sorpresa. Sentì un dolore sferzante e poi qualcosa di vischioso scivolargli giù, fra le sopracciglia e poi sul naso, sulle labbra.

Sangue.

La rabbia, se possibile montò più feroce che mai. E non si sarebbe placata con una sfuriata vocale se qualcuno non fosse improvvisamente intervenuto.

«Ma che cazzo state facendo?»

La voce di Richie e poi la sua imponente ombra che gli si parava di fronte. Eddie inciampò e indietreggiò per non cadere, la rabbia che si evaporò in un mesto fastidio e poi in pacata, confusa rassegnazione. Di fronte a lui scorse, in una manciata di secondi, solo un intreccio di corpi e un trionfo di tonfi ovattati; e infine Richie che quasi gli cadeva fra le braccia, travolgendolo.

«Merda!»

«Andiamo andiamo!»

Eddie accompagnò Richie che si era piegato a terra, la mano sul naso, gli occhiali scivolati sull'asfalto.

«Che ti hanno fatto?»

«Mi hanno tirato una testata...»

«Come cazzo hanno fatto? Sei praticamente un gigante», esalò incoerentemente, prima di alzare la testa per localizzare la fuga dei tre teppistelli. Gli sarebbe corso dietro se non fosse ora più preoccupato alle condizioni di Richie.

Si poggiò sulle ginocchia per assisterlo e gli scostò la mano dal viso. Il naso era imbrattato di sangue.

«Guarda come ti hanno conciato...»

«Non è niente.»

«Potrebbe essere rotto», si preoccupò di recuperare un fazzoletto dalla tasca della giacca per tamponarlo. Il sangue che aveva preso a ruscellare sul mento e poi a terra in una pozza incredibilmente densa.

«Come sai tranquillizzare le persone, tu...»

«Non sono qui per tranquillizzarti. Dovrei prenderti io a pugni. Che cazzo ti è venuto in mente di intervenire?»

«Ti avrebbero spaccato la faccia...»

«Sarebbero stati affari miei, Richie.»

«Quel tuo bel faccino, distrutto da un branco di teppisti? Mai nella vita, Eds...»

«Perché farti spaccare la faccia tu invece è meglio.»

«Ah, io posso solo migliorare, non sono carino come te.»

«Vaffanculo, Richie... adesso ti porto al pronto soccorso.»

«Ma non è nulla...»

«Ti ha tirato una testata, hai detto. Potrebbe essere il naso rotto come una commozione cerebrale, potrebbe essere...»

«Un tumore, la peste, la lebbra... Eddie non è niente», cercò di rimettersi in piedi.

«Sta' fermo, sei matto?»

«Ho solo il naso dolorante e non ci vedo niente senza occhiali, ma non sono paralitico.»

Eddie lo aiutò a rimettersi in piedi, nonostante disapprovasse apertamente quella mossa azzardata.

Recuperò i suoi occhiali che fortunatamente erano solo appena scheggiati e glieli tenne al sicuro, assicurandoseli allo scollo della Polo.

La soluzione migliore era portarlo alla macchina e poi verso l'ospedale più vicino.

Scoprì di avere un sacco di sentimenti contrastanti, riguardo ciò che era appena successo. Ma li avrebbe affrontati tutti, uno per uno, più tardi.

 

***

 

La soffitta di casa Tozier odorava di chiuso e polvere, ma non c'era niente di meglio che passare lì i pigri pomeriggi autunnali, mentre fuori pioveva.

Eddie amava sentire il rumore della pioggia che batteva sul tetto e i lucernari, cullando le loro giornate. Persino Richie che di solito non perdeva mai occasione per dimostrare al mondo quanto iperattivo fosse sembrava placarsi, a quella naturale ninna nanna.

Un vecchio divano, una pila di fumetti e dei biscotti che la signora Tozier si preoccupava sempre di far trovare quando si presentava uno dei suoi amici, sembravano ciò che di più vicino ci fosse al paradiso per un ragazzino di dodici anni.

Eddie sapeva di essere uno dei preferiti della madre di Richie, assieme a Stanley. Era forse convinta che fosse un tipetto a posto. Fragile e pieno di premure. Impossibile non calmare quella testa matta di suo figlio. Non sapeva quanto potessero degenerare le cose, in pochi istanti quando erano insieme. Fortunatamente non era mai capitato loro di litigare in modo troppo vivace, quando si ritrovavano per leggere solo fumetti. E sopratutto quando potevano godere della reciproca compagnia senza gli altri. Impossibile dire perché, Eddie sapeva che nessuno dei due aveva la necessità di dimostrare niente quando non c'era nessuno ad assistere.

Richie si stava esercitando con le Voci, mentre leggeva una pagina di Superman particolarmente ricca di dialoghi. Eddie, che pretendeva di leggere altro era fisso sulla stessa illustrazione da minuti, cercando di soffocare le risate ogniqualvolta Richie improvvisava o commentava i testi.

«Stronzate, stronzate, stronzate, bla bla bla... si suppone tu salvi il mondo caro Clark non che discuti per pagine e pagine sul significato dell'esistenza!» disse lanciando il fumetto sulla pila di quelli già letti, trascinandosi pigramente accanto a Eddie.

«Fammi vedere se il tuo è più interessante.»

Eddie si ritrasse sul divano, trattenendo gelosamente il proprio, non proprio indifferente all'improvvisa vicinanza.

«Fammelo almeno finire prima.»

«Quanto sei palloso, possiamo leggerlo insieme.»

«Sono quasi a metà.»

«E chi se ne frega, lo leggo da metà, Eddie Spaghetti.»

Gli si era praticamente spalmato addosso, allungando il collo per poter sbirciare cosa stesse leggendo. Eddie stronfiò qualcosa, scalciandolo per allontanarlo almeno un po', prima di concedergli di leggere la stessa pagina.

«Ma non ci sono dialoghi, Eddie.»

«Guarda le illustrazioni e taci.»

«Ma non è divertente.»

«Io mi stavo divertendo.»

«Perché ti diverti con poco, Eds. Sei noioso quanto Clark Kent.»

Eddie sbuffò infastidito, dandogli una leggera spallata.

«Bè, se pensi che sia noioso allora forse avresti dovuto chiedere a Bill di venire qui.»

«Aw, Eds, non sarai mica geloso?»

«Vaffanculo, Richie. E piantala di chiamarmi Eds.»

«Se avessi voluto divertirmi davvero avrei invitato qui tua madre.»

«Crepa.»

«No, sul serio, dovremmo pensare di allargare il nostro cerchio di amicizie e invitare delle ragazze, prima o poi.»

«Per farci cosa?» Eddie si voltò a guardarlo, vagamente spiazzato, forse un po' offeso dalla proposta.

«Secondo te? Dio santo, non vorrai mica morire vergine!»

Eddie si trovò ad arrossire senza averlo preventivato.

«Non ho bisogno di pensare a questa roba, per adesso.»

«Perché sei ancora un bambino.»

«Non sono un bambino!» esclamò, «solo non me ne frega niente, va bene? Esci e vai a invitare una ragazza, se ti diverte di più che passare un pomeriggio con me.»

Richie gli restituì uno sguardo un po' perplesso e forse vagamente in colpa.

«Sta piovendo», rispose, come se quella fosse la giustificazione molto più che soddisfacente al fatto che non potesse andarsene in giro ad abbordare ragazze.

«Cos'è, le ragazze non escono di casa quando piove?»

Richie si strinse nelle spalle e gli lanciò uno sguardo dubbioso.

«Tu sei uscito.»

«Grazie, ma io non sono una ragazza.»

«No? Pensavo ci fosse una vagina in mezzo a quelle tue gambette secche» lo prese in giro.

«E tu invece sei una testa di cazzo.»

«Assolutamente sì!» esclamò sorridendo come uno scemo, «Ma eviterò di andare a cercare una pollastrella vogliosa per oggi. Anche solo per onorare il fatto che tu abbia affrontato una triste giornata di pioggia, sfidando tua madre che si è sicuramente fatta venire un attacco di panico, per evitarti di affogare in qualche pozzanghera.»

«Mia madre non si è fatta venire nessun attacco di panico», negò, nonostante la descrizione di Richie non fosse poi molto diversa dalla realtà. Non era un mistero che alla signora Kaspbrak non andasse proprio a genio Richie, inoltre non riusciva a capire perché non potesse venire lui a casa del figlio, invece di costringerlo a uscire di casa con condizioni climatiche tanto ostili.

Aveva gridato un po', lo aveva bardato come dovesse andare in guerra: stivali di gomma, impermeabile e ombrello, e si era dovuta assicurare, almeno una decina di volte, che tornasse prima che facesse buio.

Di solito Eddie evitava di arrivare a uno scontro simile, ma se era per passare i pomeriggi in quella soffitta buia con Richie, pensava lo screzio valesse sempre la candela.

Aveva sempre in serbo una dose di coraggio formato marsupio delle emergenze, quando doveva affrontare sua madre, se si trattava dei suoi amici. Gli unici veri atti di ribellione che si concedeva per far fronte a quell'amore troppo opprimente.

«Dai, fammi leggere, Spaghetti. Alla tua verginità ci pensiamo un'altra volta.»

«Coglione.»

Allungò verso di lui il fumetto e si concesse di rilassarsi di nuovo. Spalla contro spalla, le teste così vicine che si sfioravano. Affrontare un po' di pioggia e le ire di una madre apprensiva non erano niente a confronto di quella sensazione assolutamente unica. L'affetto speciale che provava per Richie non era che un embrione nella sua testa ancora, ma aveva già messo radici profonde nel suo cuore.

 

***

 

Eddie aveva una rara dimestichezza in luoghi ostili come ospedale e pronto soccorso.

Da che aveva memoria era sicuro di aver frequentato più luoghi simili che ludoteche, da ragazzino. E poi, nella sua vita da adulto, per far fronte a precauzioni sanitarie spesso affatto necessarie. Spinto anche dalle apprensive preoccupazioni, di sua madre prima, e di Myra poi che non faceva altro che spingerlo a fare controlli specifici, perché solo così, il suo Eddie avrebbe potuto vivere una lunga e felice vita al suo fianco.

Una lunga e infelice vita... fatta di asfissianti attenzioni, in realtà. Di un amore che non faceva altro che tentare di proteggerlo da tutti i mali del mondo. Senza lasciargli alcun margine di errore. Di necessario dolore.

Perciò si era occupato di tutto ciò che servisse per far avere a Richie un controllo rapido e immediato. Aveva scomodato infermieri, dottori, e si era assunto la personale responsabilità di tutta la burocrazia del caso. Facendo saltare più di una mosca al naso, in reparto, per via della sua frenetica e nervosa insistenza.

Richie se ne stava ormai tranquillo, da qualche parte, assistito come avesse avuto un incidente fatale, mentre Eddie non faceva che controllare se qualche dottore non venisse a dargli qualche notizia a riguardo.

Si alzò per l'ennesima volta e tornò al bancone dell'accettazione a quel donnone che un po' gli ricordava Ben da ragazzino.

«Novità su Richard Tozier?»

«Signore, le ho già detto che ce ne stiamo occupando.»

«Sì, bè, grazie tante, sto cercando di capire come... ve ne state occupando.»

La donna gli rivolse uno sguardo fra l'esasperato e l'infastidito e Eddie ci lesse tutta la frustrazione che vedeva sempre rivolgere a sua madre, ogni volta che era lui stesso a finire al pronto soccorso. Per un attacco d'asma, per un ginocchio sbucciato, per il suo braccio rotto.

Serrò le labbra, riconoscendosi tragicamente nella signora Kaspbrak. E dire che si era sempre impegnato a non volerle assomigliare mai. Che fosse ormai un processo irreversibile? Che fosse destinato ad assumere il suo ruolo in tutto quello che sarebbe stato da lì agli anni a venire?

Si liberò del pensiero con un sospiro greve ed alzò le mani a mo' di scusa.

«Ha ragione, mi dispiace. Sono solo...»
«Preoccupato, posso capirlo, ma le assicuro che il suo amico è in ottime mani.»

«Non è un mio amico.»

«Oh... credevo che vi conosceste.»

«Sì, sì, ci conosciamo, ma non è... insomma», nemmeno riuscì a spiegarsi perché fosse tanto importante spiegare che razza di relazione avessero lui e Richie, a una perfetta sconosciuta.

«È un parente? Perché in questo caso potremmo fare in modo di farle ricevere informazioni o di entrare direttamente a trovarlo una volta conclusa la visita...»

«Io? Bè...» qualcosa cominciò a prendere forma nel suo cervello, «in realtà sono... suo marito?»

«Oh!»

Già. Oh! Ma che diavolo gli era venuto in mente di dire?

«In questo caso, mi faccia fare un paio di controlli e sono subito da lei.»

La guardò alzarsi, il panico che cominciava a scivolargli giù nello stomaco. Marito. Richie o qualche stupido terminale ricco di informazioni, non ci avrebbero messo due secondi a smentirlo facendogli fare una colossale figura di merda.

Perciò fu più che sorpreso quando la stessa infermiera che gli aveva negato fino a pochi minuti prima qualsiasi informazione, ora lo stesse richiamando con un cenno della mano, per fargli superare le porte proibite del pronto soccorso.

«Lo dimetteranno presto, perciò...» gli sorrise, e Eddie dimenticò per un istante la menzogna per lasciarsi avvolgere da un vago sollievo alla notizia.

«Spaghetti!» Richie se ne stava seduto sul lettino. La maglia ancora sporca di sangue e un gran bel cerotto sul naso. Il dottore aveva sorriso a entrambi, cartellina alla mano, pronto a firmare già le sue dimissioni.

«Cinque minuti e sarà fuori da qui, signor Tozier. Mi lasci compilare un paio di scartoffie e sono subito da lei. E grazie ancora per... sa...»

«Ah, niente di che Dottore, mi saluti tanto sua moglie.»

Eddie osservò lo scambio di battute senza capirci granché, si avvicino al lettino guardando Richie con aria interrogativa, mentre il dottore si allontanava, un'espressione estatica sul viso.

«Un fan. Ha voluto il mio autografo.»

«Wow... persino al pronto soccorso non riesci a restare anonimo.»

«Non sono anonimo nemmeno mentre dormo, questo dovresti saperlo Eddie caro.»

Eddie lo guardò con apprensione per qualche istante, soffermandosi sul livido che andava espandendosi dal viola sotto il cerotto, fino al giallo sulle guance.

«Solo una lieve frattura. Che ti dicevo? Probabilmente avrò una scusa, più avanti, per qualche intervento di chirurgia plastica. Non dovrò nemmeno mentire quando sarò gonfio di botulino anti rughe.»

«Bè sempre meglio essere venuti per niente che per qualcosa di serio, giusto?»

«Giusto», lo guardò per un istante, «tu nemmeno ti sei fatto disinfettare quel taglio sulla fronte.»

Eddie si portò una mano alla parte incriminata. Sentì un lieve indolenzimento, niente di preoccupante. Si era già formata una crosta, ma se ne era completamente dimenticato. Troppo preso a pensare al benessere di Richie per badare al proprio.
«Sono sorpreso di non averti sentito gridare per emergenza tetano.»

«Molto divertente.»

Richie sorrise.

«Divertente come raccontare all'infermiera che sei mio marito per poter entrare?»

Eddie si trovò a spalancare gli occhi. Dunque non lo aveva smentito affatto, nonostante la bestialità della menzogna.

«Non farti strani film mentali, Tozier, non volevano dirmi nulla e ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente. Perché sono decisamente troppo bello per fingermi tuo fratello.»

Richie si portò una mano al cuore, come a fargli capire di averlo colpito. E affondato. Probabilmente per la seconda volta, nel giro di un paio di giorni.

Si animò un certo silenzio, tutto ad un tratto e Eddie capì che qualcosa stava arrivando, di nuovo. Cercò disperatamente di trovare altri frivoli argomenti di conversazione ma Richie sembrava averne a portata di mano altri, ben più celeri.

«A volte non riesco proprio a capire che ti passi per la testa, Eddie...» lo sentì dire mentre gli rivolgeva uno sguardo fra il serioso e il comico, bardato come era, senza nemmeno i suoi occhiali.

«Non mi parli per l'intera mattinata solo perché ieri ho detto una cosa che forse avrei dovuto tenere per me ancora per un po'... e poi te ne esci con questa stronzata del marito.»

«Infatti era... era una stronzata, Richie... era solo un...» cercò di intervenire affatto sicuro che gli piacesse la direzione che stava prendendo quella conversazione.

«Lo sai che mi stai mandando una vagonata di segnali alquanto confusi, Eddie?»

Eddie rialzò rapidamente lo sguardo, fissandolo, per una volta tanto, dall'alto della sua posizione, sentendosi piccolo, minuscolo nonostante Richie fosse ancora seduto.

«È perché sono... confuso, Richie.»

Sostenne il suo sguardo finché riuscì, pur consapevole che per Richie, senza i suoi occhiali, non doveva essere che una sagoma informe e senza espressione quella che gli stava di fronte.

«Ma tu non c'entri niente. Quello che mi hai detto ieri... non c'entra niente. Sono io che non... non...»

«Non sei tu, sono io...» gli rispose con una voce piccina, da donna «per piacere questa frase fatta a cliché non la voglio sentire da uno come te.» Aveva allungato una mano e finto di cercare a tentoni la sua, arrivando a palparlo malamente sulla pancia e poi sulle braccia come un povero cieco. Finendo per prendergli la mano.

«Qualsiasi cosa tu voglia dirmi puoi farlo, Eddie», tornò vagamente serio, «anzi devi farlo. Perché francamente, arrivati a questo punto, le stronzate dovremmo averle messe da parte da un pezzo, non credi? Non abbiamo più tredici anni.»

«Sei sicuro? Perché a volte mi pare che tu...»

«Ah! Le battute sono una mia prerogativa, bello! Dimmi che cosa c'è che non va, per favore...»

Eddie inspirò a fondo, sapendo esattamente ciò che voleva dire. Le parola che si affastellavano nella sua mente, una sull'altra, per l'urgenza di spiegargli anche solo confusamente, quello che le sue parole avevano scatenato in lui.

Che non c'entravano niente con l'emozione di avergliele sentite pronunciare, ma con la conseguenza e le aspettative che avevano sempre inseguito... quelle parole, nella sua vita.

Fece per iniziare un discorso che probabilmente sarebbe stato più difficile e patetico che mai, quando il dottore ammiratore tornò con i documenti per il congedo di Richie.

«Eccoci qui... un altro autografo per l'ospedale e può andarsene signor Tozier.»

Eddie fece scivolare via la mano da quella di Richie e si ritrasse come avesse appena ricevuto una doccia fredda.

Riuscì a leggere la frustrazione sul viso di Richie, ma da gran commediante che era, lo vide mettere in piedi il suo miglior sorriso.

«Sicuro non siano tutte scuse per rivenderli su Ebay?», disse, prima di rimettersi in piedi.

Il dottore rise e Eddie sentì di aver perso di nuovo l'occasione e il coraggio per spiegarsi.

 

***

 

«Non è salutare che tu te ne vada fuori con un tempo simile, pisellino.»

La signora Kaspbrak aveva sottratto a Eddie gli stivali da neve che, paradossalmente lei stessa gli aveva regalato solo l'inverno prima.

«Ma i miei amici mi stanno aspettando.»

«Ai tuoi amici non importa della tua salute come importa a me. Che si ammalino loro, tu resti in casa.»

Quell'inverno era stato particolarmente rigido. E da una settimana buona non aveva fatto altro che nevicare a Derry. I viali erano imbiancati di continuo nonostante gli interventi cittadini per mantenere le strade pulite. L'eccezionale ondata di maltempo aveva fatto sì che le scuole restassero chiuse i primi giorni della settimana, in previsione di un miglioramento più agevole.

I ragazzi di Derry avevano preso l'evento come un pretesto per festeggiare all'aria aperta. Ma Sonia non ne condivideva l'entusiasmo.

«Potresti scivolare e romperti una gamba. Non posso permetterlo.»

«Non mi succederà niente mamma, sono capace di camminare senza...»

«Non dire stupidaggini. Persone molto meno delicate di te sono scivolate sul ghiaccio questa settimana, riportando fratture piuttosto importanti. Sono sicura che potrai impegnare il tuo tempo con qualcosa di più utile, tipo finire i tuoi compiti per quando tornerai a scuola. Più tardi ci prendiamo una tazza di cioccolata calda mentre guardiamo uno di quei programmi sui cowboys che ti piacciono tanto, tesoro mio.»

Eddie non ebbe cuore di ribattere, né tantomeno puntualizzare che il suo interesse non andava più ai cowboys da un bel pezzo. Era il momento delle scoperte scientifiche, della fantascienza, di telefilm come Star Trek e dei cartoni animati pieni di Robot trasformisti.

In più aveva già sfidato a sufficienza sua madre per quell'anno. Da quando si era fatto dei veri amici. E spesso si trovava a doverle disobbedire più di quanto gli piacesse fare.

Sapeva che sua madre cercava solo di fare il suo bene. Cercava solo di farlo sentire bene. Di mantenerlo lontano dalle brutture di quel mondo ricco di pericoli. Ma se fino a pochi anni prima aveva accettato di buon grado tutte le sue attenzioni, adesso cominciavano ad andargli un po' strette. Solo il senso del dovere e la sicurezza che gli dava essere amato a quel modo, senza doversi preoccupare in prima persona dei pericoli a cui avrebbe potuto andare incontro, lo persuadevano dal ribellarsi costantemente.

Si trovò ad annuire mestamente e lanciare un ultimo sguardo fuori dalla finestra: ragazzini che si inseguivano con palle di neve e sembravano divertirsi un sacco, nonostante la concreta eventualità di potersi spezzare una gamba.

Salì le scale, diretto alla sua cameretta. I libri sistemati sulla scrivania che aspettavano di essere sfogliati, nonostante i suoi doveri di studente fossero già stati ampiamente soddisfatti.

Si buttò sul letto, lo sguardo al soffitto e le orecchie che continuavano a percepire le grida stridule e selvagge dei ragazzi là fuori.

Si chiese che cosa si provasse a non avere una madre che prevedeva i rischi per te. Cosa si potesse provare a correre sul ghiaccio, cadere e farsi male. Rompersi una gamba, un braccio. Si chiese che sapore avesse il dolore. Che colore avesse... il dolore. Non che non ne avesse mai provato. Non che non ci avesse già dovuto fare i conti. I suoi attacchi d'asma, gli spasmi muscolari del suo sterno, quella sensazione di soffocamento che arrivava a scolorire la realtà tutt'intorno. Ma era a un altro tipo di dolore che stava pensando. Qualcosa che non derivava dalle condizioni croniche della sua cagionevole salute, ma da fattori esterni.

Si chiese se il mondo sarebbe crollato, se per una volta, si fosse lasciato travolgere da qualcosa che sua madre non aveva potuto prevedere. Se per una volta si fosse spinto oltre quella cupola di amore incondizionato e opprimente e si fosse spinto fuori da lì per capire se esistevano anche altri modi, per essere amato.

Nessuno avrebbe potuto raccontargli che, da lì a un anno, lui ed i suoi amici avrebbero dovuto affrontare qualcosa che nessun adulto avrebbe mai potuto prevedere. Un dolore che nessuno avrebbe potuto preventivare. Una paura e un'oscurità che li avrebbe travolti e quasi fagocitati se non avessero trovato il coraggio di affrontarla tutti insieme. Se non lo avessero affrontato stretti l'un l'altro, sospinti da un amore ben diverso da quello che gli aveva riservato fino a quel momento, sua madre. Un amore che spingeva a tentare, osare, a spingersi ben oltre i limiti personali di ognuno di loro, accogliendo anche il dolore, come una condizione umana, necessaria per crescere.

Si portò le mani alle orecchie per non sentire, serrò gli occhi per non vedere, finché non fu il rumore insistente di qualcosa fuori dalla finestra, a cogliere la sua attenzione.

Si mise seduto e quasi non balzò giù dal letto quando il faccione di Richie non comparve nel suo campo visivo, in bilico, fuori da quella sua finestra del primo piano.

Lo raggiunse rapidamente, preoccupatissimo che potesse precipitare di sotto.

«Che cavolo stai facendo? Vuoi ammazzarti?» aveva aperto la finestra e afferrato per un braccio, invitandolo ad entrare.

«Tranquillo, Spaghetti, tranquillo, non sono mica un principiante. Lo scalatore Tozier raggiunge la vetta, sfidando i suoi limiti, arrivando dove nessuno mai era riuscito fino ad ora!»

«Richie, per favore...»

«Okay, okay, entro... entro...»

Solo quando lo vide posare a terra anche il secondo piede sul pavimento di camera sua, tirò un sospiro di sollievo.

«Ma che ti è venuto in mente? Non potevi suonare il campanello come le persone normali?» lo rimproverò senza nemmeno degnarsi di dimostrargli quanto in realtà gli facesse piacere averlo lì.

«Nah, lo sai che odio le persone normali. Per questo frequento te e quella massa di perdenti là fuori, Kaspbrak.»

«Certo, certo. Il più fico di Derry ci concede la sua magnanima amicizia.»

«Mi hai proprio rubato le parole di bocca», rispose impressionato, prima di sistemarsi gli occhiali sul naso e guardarlo con quei suoi occhi giganti, dietro le lenti. «Perché non esci a giocare con noi? Bill e Stan stanno costruendo delle bombe di neve fenomenali, ma non possiamo creare le squadre se siamo solo in tre.»

Eddie sospirò qualcosa, guardando verso la porta socchiusa.

«Mia madre non vuole che esca. Dice che potrei rompermi una gamba.»

«O potrebbe caderti il tetto in testa», concluse Richie con aria perplessa, «amico, devi smetterla di farti mettere sotto da queste cretinate. Vuoi che ci parli io? Sono sicuro che da me si farebbe convincere. Tua madre mi ama.»

«Mia madre ti odia, Richie.»

«Non era quello che diceva l'altra notte quando le infilavo...»

«Richie!» fece un verso disgustato, guardandolo come fosse un viscido maniaco sessuale.

«Se non vuoi chiederle il permesso, sgusci fuori dalla finestra con me. Nemmeno se ne accorgerà. Ti riporterò a casa prima che possa dire: pisellino è pronta la cioccolata calda.»

Come diavolo faceva a sapere della cioccolata calda?

«Non posso Richie. Potrei comunque rompermi una gamba cadendo dalla finestra...» gli rivolse uno sguardo di sfida. Ma a giudicare dal suo sguardo a Richie non importava poi granché della sua salute. A Richie sembrava non importasse poi molto di niente, a dire il vero.

«Potresti, ma secondo me varrebbe il rischio pur di passare un po' di tempo con i tuoi più cari amici. A me non importerebbe della tua gamba se fossimo in squadra insieme.»

Eddie lo guardò con tanto d'occhi mentre una risata gli sfuggiva dalle labbra.

«Bè, guarda un po', a me sì.»

«Solo stupidi dettagli. Potresti correre con una gamba sola e ancora non mi importerebbe, avrei Spaghetti nella mia squadra e poi potrei fargli questo per impedirgli di sentire bua alla gamba», gli aveva passato un braccio attorno al collo e strizzato le guance come non faceva... da un po' a dire il vero.

«Piantala Richie, eddai!»

«No, ancora un po' Spaghetti. Se non hai davvero intenzione di scendere, almeno fammi godere un po' delle tue guanciotte fresche e morbide.»

Eddie cercò di divincolarsi un po' come poteva ma non dovette sforzarsi più di tanto dacché sua madre, aveva preso a chiamarlo insistentemente dal piano di sotto.

«Pisellino tutto bene? Che stai facendo? Non farmi venire fin su!»

Eddie spintonò via Richie che aveva mollato un po' la presa, lanciandogli uno sguardo di morte.

«Tutto bene mamma, stavo solo cercando di scacciare un moscone fastidioso!»

Richie spalancò le labbra, fingendosi offeso dal paragone. Eddie si limitò a spingerlo di nuovo verso la finestra.

«E se dovessi rompermi io una gamba?» gli chiese, mentre scavalcava il davanzale.

«Penso potrei sopportarlo, fintanto che spazzerai via Bill e Stanley a suon di bombe di neve anche per me.»

Richie sorrise dall'altra parte.

«Diabolico Kaspbrak, diabolico. Mi mancherai, pisellino

Eddie gli diede un'ultima spinta e rise quando lo vide raggiungere il suolo, sano e salvo.

Se ne restò per un po' a subire il freddo dell'inverno, finché Richie non fu fuori dal suo campo visivo. Per un raffreddore ne sarebbe comunque valsa la pena.

 

***

 

Il motel in cui avevano scelto di soggiornare per quella notte era un buco orribile. Non molto distante dall'ospedale in cui avevano tirato tardi. La tabella di marcia per il rientro rovinata da un incidente con tre stronzi, omofobi attaccabrighe.

Certo, se Eddie non avesse reagito alla provocazione, lasciando che Richie si mettesse in mezzo, ora non sarebbe stato sdraiato su un materasso duro come il marmo che scricchiolava in modo sinistro ad ogni movimento.

Richie si era addormentato da un pezzo. Nonostante non volesse ammetterlo, l'episodio del pomeriggio e gli antidolorifici che lo avevano costretto a prendere lo avevano spossato più del previsto. Impossibile continuare il viaggio. Riposare, per Eddie, restava comunque la priorità.

Di sicuro però avrebbe preferito poterlo fare lui stesso, invece di restarsene così, occhi spalancati nella notte, a fissare quella macchia sul soffitto che avrebbe facilmente potuto essere umidità o sangue schizzato da qualche morto ammazzato i giorni precedenti.

Più che altro sperava di poter spegnere quel suo cervello in movimento. Che non aveva smesso un solo istante di pensare a come rispondere alla domanda che Richie gli aveva fatto al pronto soccorso. Spiegargli, quantomeno, perché aveva reagito a quella stupida, insensata maniera alle sue parole. Al fatto che Richie non avesse fatto altro che aprirgli il suo cuore, come mai si era concesso di fare. A spiegargli anche perché avesse reagito tanto male alle parole dei tre teppisti. Al perché li avesse sfidati apertamente, per una volta, tanto, senza paura delle dannate conseguenze.

Sapeva che era tutto collegato. Sapeva che c'era un filo conduttore che necessitava solo di essere districato come i fili delle cuffie di un ipod.

Fu solo dopo l'ennesima elucubrazione che sentì un lamento sommesso provenire dall'angolo della stanza in cui Richie stava riposando. Un lamento che non faticò a riconoscere poiché già più di una volta gli era capitato di sentirlo, nel bel mezzo della notte, già nella sua casa a Los Angeles.

Non un lamento di dolore, come si sarebbe potuto facilmente credere, date le condizioni del suo setto nasale, ma qualcosa che scavava molto più a fondo di così.

Eddie non gli aveva mai chiesto della natura dei suoi incubi, per vigliaccheria o semplice pudore, ma si era sempre preoccupato, in una qualche misura di fargli trovare del caffè caldo ogni volta che la mattina sembrava più sbattuto del solito. Di sollevarlo con zuccheri sani, con le ricche colazioni che gli preparava e con cui cercava di alleggerirgli la giornata.

Si mise seduto sul materasso e poi in piedi, avanzando lentamente verso il suo letto. Di solito gli bastava il suo tocco per placarlo, una distratta carezza per quietarlo. Per questo, quando si sedette sul materasso che scricchiolava quanto e più del proprio e gli passò una mano fra i capelli, si sorprese del lamento prolungato che gli sentì scaturire dalla gola. E del sobbalzo che gli vide fare, dopo che il suo respiro si era fatto accelerato.

Lo vide scattare seduto sul letto, un grido strozzato in gola.

«Eddie, Eddie per favore...»

«Sono qui. Richie... sono qui.»

Lo guardò voltarsi nella sua direzione, gli occhi spalancati, atterriti, umidi di lacrime che presto o tardi avrebbero trovato la loro strada.

«Eddie!» si sentì afferrare per la maglietta e attirare stretto nel suo abbraccio.

«Richie, va tutto bene...»

«Eri morto, eri morto, ti ho visto morire!»

«Non sono morto, sono qui...» cercò di passargli un braccio attorno alla schiena per fargli capire quanto fosse concreto e vivo fra le sue braccia.

«Lo avevo visto, nelle luci... ti avevo visto morire. A-avrei dovuto proteggerti, e non ci sono riuscito, avrei dovuto aiutarti e non ci sono riuscito. E IT ti ha preso e ti ha quasi ucciso e io non sono riuscito a fare niente... solo a guardare, solo a guardare. Non sono riuscito a proteggerti.»

«Richie, Richie basta, per favore.»

«Non ci sono riuscito...» lo sentì soffocare un singhiozzo e nonostante la gola avesse preso a fare male anche a lui, trovò la forza di scostarlo e trattenerlo per le spalle, per poterlo guardare direttamente in viso.

«Richie ascoltami bene: non è mai stato compito tuo, quello di proteggermi.»

Richie gli rimandò uno sguardo confuso, come se ancora dovesse convincersi di non essere nelle fogne di Derry, ma in un motel che forse gli faceva quasi concorrenza.

«Ma sono vivo. Guardami per bene, sono vivo. Nonostante tutto, sono vivo.»

«M-ma se solo non fossi rimasto lì a guardare, allora forse...»

«Allora forse, cosa? Avrei dovuto ringraziarti a vita per avermi fatto da cavalier servente? Richie...» sospirò, sentendo finalmente le parole prendere forma nella sua testa, più chiaramente di quanto non lo fossero mai state, «Richie...» ripetè, accarezzandogli il viso per permettergli di tranquillizzarsi, di spazzare via l'incubo che lo opprimeva tutte le notti. Era dunque questa la sua paura irrisolta? Quella di vederlo morire. Notte, dopo notte, dopo notte. Come la sua era quella di restare sepolto per sempre a Derry, senza i suoi amici, senza Richie.

Sentì sciogliersi la tensione che avvertiva sulle sue spalle e dagli occhi scivolargli via il terrore cieco dell'incubo che lentamente evaporava per quello che era. Solo un'illusione.

«Non era compito tuo salvarmi. Non era compito tuo proteggermi», mormorò una volta sicuro che Richie fosse cosciente di essere al sicuro. Sveglio e seduto su un materasso duro come pietra.

«Non ho mai chiesto a nessuno di farlo, eppure sembra che le persone abbiano sempre fatto a gara per proteggermi da qualcosa. Di tenermi al sicuro da qualcosa.»

Fece scivolare via le mani dalle sue spalle solo per poterlo guardare meglio, nel chiaroscuro della stanza.

«Non è il tipo di amore di cui ho bisogno. Anche se per tanto tempo è stato l'unico che fossi certo di meritarmi.»

«Eddie...»

Scosse la testa, facendogli cenno di lasciarlo continuare, senza interruzioni.

«Prima mia madre, poi Myra. È stato così facile lasciarmi travolgere da qualcosa che non chiedeva davvero niente in cambio se non devozione e pigrizia. Che mi risparmiava un sacco di inutili rischi. Non dovevo far altro che lasciarmi trascinare, lasciarmi proteggere, lasciarmi manipolare. Non dovevo pensare. Non dovevo azzardare».

«Non mi sarei mai accontentato di Myra se non avessi dimenticato, per ventisette anni cosa si provava a sentirsi amati e rischiare tutto per le persone che ami, come mi è successo l'estate in cui abbiamo affrontato uno stupido clown... assassino.»

«Un'estate piena di rivelazioni... quella.» lo interruppe Richie.

Eddie sorrise ed annuì senza rimproverarlo stavolta, per non aver taciuto. Sapeva esattamente a cosa si stava riferendo Richie e in parte era ciò a cui si stava riferendo lui stesso.

«Quando mi hai detto... quella cosa... davanti alla tomba di Stan...»

«Quella cosa non era una parolaccia, per una volta tanto.»

«Stà zitto Boccaccia, fammi finire, cazzo», gli aveva tappato la bocca per assicurarsi che non avrebbe detto altro. Gli passavi un dito si prendeva tutto il braccio, quel disgraziato.

«Quando mi hai detto quella cosa l'altro giorno, ho avuto paura. No, prima ne sono stato lusingato e poi ho avuto paura. Ho avuto paura di non meritare, ancora una volta quel tipo di amore che volevi offrirmi tu. Sei sempre stato al mio fianco, pronto a rassicurarmi ma anche a spronarmi, a spingermi a fare tutte quelle cose che mia madre invece mi impediva di fare. Un po' perché sei sempre stato una gran testa di cazzo impulsiva che non faceva altro che provocare e irritarmi e un po' perché invece... mi facevi sentire vivo e pronto a fare qualsiasi cosa. Anche a rompermi un braccio e gioire nel sentire dolore, per una volta tanto.»

Lo guardò.

«Ho avuto paura di non meritarmelo.»

«Hai avuto paura... dici», gli rispose a mezza voce Richie, una volta liberato della mano che gli teneva ingabbiate le labbra. «Avuto paura. Passato. E ora invece? Hai ancora paura?»

«No», rispose Eddie e fu improvvisamente, assolutamente sincero in questo, «non se l'alternativa sei tu che ti svegli gridando nella notte, pensando di non aver fatto abbastanza per proteggermi. O che intervieni prendendoti una testata al posto mio perché pensi che non mi meriti anche io una testata, di tanto in tanto. Mi merito quella. E mi merito Richie Tozier che dice di amarmi, senza impedirmi di cadere e farmi male. Che è pronto a rialzarmi, ma che mi permette di fare le mie scelte. E di beccarmi tutte le conseguenze del caso. S-se è questo che Richie vuoi offrirmi allora... sì, allora adesso lo accetto.»

Concluse, sentendosi improvvisamente liberato di un peso enorme.

Aver fatto chiarezza, in quella sua mente ingarbugliata di qualcosa che gli aveva sempre impedito di essere davvero se stesso.

Le sue paure, le sue ipocondrie, le (poche) vuote relazioni in cui si era impegnato per anni che non lo avevano mai sollevato da terra, ma solo mutilato, che gli avevano spezzato le ali ancora prima che tentasse anche solo, di prendere il volo.

Richie che gli aveva strappato uno stupido respiratore di mano, costringendolo a capire che non era ciò di cui aveva bisogno per farsi coraggio. Richie che inconsciamente lo aveva spinto a scappare da New York per raggiungerlo. Richie che gli aveva fatto scattare, di nuovo, qualcosa dentro. Che aveva sbloccato la tensione e la frustrazione che si portava appresso da anni, senza che riuscisse a dargli mai un nome. Richie che lo aveva baciato come nessuno aveva fatto mai, che lo aveva fatto e lo faceva sentire vivo, come nessuno aveva fatto mai. Che assecondava le sue decisioni, le sue idee, che lo stuzzicava, lo provocava, affinché si spingesse sempre oltre.

Richie.

Sentì il cuore esplodergli nel petto, mentre si chinava su di lui per impossessarsi bruscamente delle sue labbra, come a sancire quel sentimento che se ne era rimasto represso, soffocato per troppo tempo in fondo allo stomaco. Che aveva preso a sbocciare lentamente, ma che ormai era impossibile da arginare.

Ci aveva messo un po' troppo entusiasmo perché sentì Richie emettere un lamento soffocato e si ritrovò a ritrarsi più rapidamente di quanto gli si fosse sospinto addosso.
«Scusa...»

Il naso. Ci aveva cozzato contro senza quasi ricordare che ancora se ne stava imbellettato da un cerotto tutt'altro che estetico.

«No, non è niente», lo vide sorridere, «posso sopportare un po' di dolore se questo è l'entusiasmo del mio dolce, dolce Eddie.»

«Dolce un paio di coglioni...» stronfiò alzando gli occhi al cielo, «sono stanco di andarci piano.»

Richie gli rivolse uno sguardo interrogativo, forse un po' sorpreso.

Per questo Eddie gli si avvicinò di nuovo, la fronte contro la sua, così vicino, tanto vicino così da non essere costretto a guardarlo in viso, per non doversi confrontare con la sua confusione. Non era uno sguardo confuso ciò di cui aveva bisogno per spazzare via l'improvviso subbuglio che si era scatenato nel suo stomaco.

«Se puoi sopportare un po' di dolore per un bacio, allora anche io sono pronto per tutto il resto.»

disse, come se improvvisamente si fosse trasformato tutto in una stupida sfida. In un modo come un altro per lanciarsi in quell'ignoto che si era sempre impedito di affrontare.

«Eddie... ?»

Catturò di nuovo le sue labbra per impedirgli di parlare, una mano che si aggrappava all'elastico dei pantaloni per fargli capire fin dove si spingesse il suo obiettivo. Lo sentì sciogliersi sotto le sue attenzioni e rispondere altrettanto entusiasticamente dopo solo qualche istante di esitazione.

Si aggrappò a lui con tutta la forza di cui era capace, e si lasciò trascinare sul materasso, senza fare resistenza. Le mani di Richie che si erano già insinuate sotto la t-shirt sformata che usava per pigiama, le proprie che si erano aggrappate ai ricci ora un po' troppo lunghi dei suoi capelli.

«Sei sicuro?» si scostò Richie, la voce un sussurro, il respiro in affanno. «Forse dovremmo arrivarci per gradi, tu...»

Eddie gli accarezzò la nuca, guardandolo in quegli occhi già liquidi di desiderio, sentendosi improvvisamente più potente e coraggioso di quanto non lo fosse mai stato.

«Fai quello che vuoi. Mi fido di te, Richie», disse solo, lasciandosi trascinare di nuovo nell'accogliente oblio delle sue attenzioni.

Eddie non gli disse che lo amava, nemmeno una sola volta, quella notte.

Ma si preoccupò di fargli capire che qualsiasi cosa sarebbe successa da quel momento in poi, dai dolori o dalle gioie che se ne sarebbero seguiti, ne sarebbe solo valsa la pena.

 

Continua...

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

Trascinarsi fuori dal letto, al mattino presto, era un evento straordinario per Richie.

Era talmente abituato a dormire poco la notte che spesso era costretto a rimediare, dormendo più a lungo del necessario.

Ma da quando Eddie aveva deciso di invadergli casa e camera da letto, le cose erano cambiate.

Non più necessario il suggerimento di assumere quella blanda melatonina, qualche farmaco di dubbio gusto o scolarsi un'intera distilleria di whisky per lasciarsi inghiottire nell'oblio, no. Adesso gli era sufficiente avere Eddie che gli respirava a pochi centimetri dal viso, ogni notte. Che con il suo calore gli ottenebrava sensi e anima. Con una forza tale che persino quegli insensati incubi sul finale alternativo della loro (all'epoca) tragica storia d'amore, erano svaniti come lacrime... nella pioggia.

L'episodio del motel era stata una miccia inaspettata. Quello che era venuto dopo, ancora più sorprendente.

Eddie si era rivelato un amante tutt'altro che fobico. Tutt'altro che restio alla sperimentazione. E nonostante le precauzioni e la commovente cautela di Richie, memore delle proprie deludenti esperienze (con uomini e donne, i primi anni della sua, di sperimentazione), le cose si erano evolute ad una velocità imprevedibile. Eddie non faceva che chiedere di più, sempre di più, come se tutti gli anni persi in un matrimonio castrante, frustrante e in generale le sue (poche) deludenti esperienze (nessuna mai, nemmeno per sbaglio, con un uomo), ora richiedessero tutta la sua attenzione. Come se la notte in quel motel dalle condizioni igieniche tutt'altro che favorevoli, gli avessero sbloccato qualcosa dentro. Oltre ad avergli provocato un sacco di paranoie il mattino seguente, per questioni che poco o nulla avevano a che fare con il sesso.

Per quello Richie adesso era in piedi, nel bel mezzo della cucina, a fissare le lancette dell'orologio che segnavano appena le otto del mattino.

Doveva essere impazzito. Era praticamente l'alba!

Ed Eddie lo aveva lasciato solo, di nuovo.

Sì, perché se era vero che per Richie era più facile prendere sonno dopo aver strapazzato un po' il suo dottor K. la sera prima, era anche vero che svegliarsi, allungare il braccio e non percepire più il suo calore aveva sempre un che di spaventoso; il pensiero di aver solo immaginato quelle ultime settimane, un ciclico tormento. Ma quando si alzava e scorgeva i vestiti di Eddie in giro, lo spazzolino da denti sistemato accanto al suo, nel bicchiere sul lavandino e le pastiglie allineate metodicamente sulla mensola in bagno, tirava un sospiro di sollievo, maledicendo le abitudini mattutine di quel piccolo bastardo.

Possibile che Eddie fosse già diventato una tale costante nella sua vita quotidiana, da percepirne la mancanza per casa, per qualche stupida ora?

Recuperò una tazza di caffè bollente e il suo pacchetto di sigarette e, prima di poter anche solo immaginare cosa avesse intenzione di fare, era uscito dal suo appartamento, preso la porta d'ingresso al piano terra e uscito per strada.

Il quartiere in cui abitava era sufficientemente tranquillo e abbastanza eccentrico dal tollerare un uomo di mezza età, dall'aria stropicciata, bermuda e t-shit di una band sconosciuta per pigiama, seduto sui gradini d'ingresso di un palazzo appena ristrutturato, a far colazione con caffè e sigarette.

Fu così che lo trovò Eddie, di ritorno dai suoi allenamenti mattutini.

Già, perché Eddie era uno di quei salutisti psicopatici che uscivano la mattina presto per farsi una cazzo di corsetta al parco.

Eddie, che da ragazzino poteva correre veloce come il vento, che avrebbe potuto entrare nella squadra di atletica, ma che Sonia Kaspbrak aveva castrato con la scusa di un'asma inesistente.

Richie non riuscì a fare a meno di sorridere a ciò che stava osservando: una delle sue persone preferite di sempre, fasciato in un paio di pantaloncini che non potevano non ricordargli il ragazzino della sua infanzia, capelli sconvolti dal vento e il viso arrossato dall'allenamento.

Il ritratto perfetto della salute.

Così diverso dal pallido uomo che aveva tenuto stretto fra le braccia solo qualche mese prima, con la disperazione nel cuore.

La California con la sua estate senza fine donava a uno come Eddie. Non ci aveva mai pensato in questi termini e se ne compiacque.

Lo guardò rallentare e fermarsi alla base della scalinata, una mano a bloccare il cronometro del suo orologio da polso.

«Ti hanno sfrattato o aspetti l'ambulanza?» lo apostrofò questi, fissando con aria di disapprovazione la sigaretta che gli si stava consumando lentamente fra le dita.

«Paziente Tozier a rapporto», gli rivolse un saluto militare, facendo scoccare fra loro, da seduto, i tacchi delle sue infradito, «aspettavo il mio dottore di fiducia.»

Un po' di cenere cadde tristemente su uno dei gradini di cemento.

«Dovresti chiudere con quello schifo, lo sai?» gli si rivolse Eddie, mentre si asciugava la fronte con la manica della t-shirt. Una delle sue. Grande abbastanza da potercelo avvolgere due volte quel suo corpo agile e compatto.

«E perché? Basti tu a mantenere uno stile di vita sufficientemente sano per entrambi.»

«Tu credi? La tua mancanza di resistenza potrebbe influire negativamente sul mio umore.»

Richie sgranò gli occhi alla sua sfacciataggine, prima di scoppiare a ridere.

«Eds ne ha mollata una buona!»

«Piantala e spegni quella sigaretta», lo vide sorridere appena, concedendosi di avvicinarsi di un passo.

«Sei davvero il perfetto prototipo del newyorkese salutista che si sveglia all'alba per liberarsi delle tossine in eccesso, e poi via a lanciarsi nel circolo vizioso di psicotica isteria metropolitana.»

«Credevo di essere del New England».

Richie sorrise di nuovo: era da giorni che Eddie non era tanto in forma con i suoi tempi comici.

Lo guardò dal basso verso l'altro e poi ritorno, squadrandolo con aria valutativa.

«Se tutti quelli del New England somigliano a lei, signore, forse dovrei farci un giro», gli afferrò la mano con fare lascivo.

«Non per essere disfattista», Eddie si chinò appena verso di lui, «ma ho conosciuto un tipo di quelle zone con scarso buon senso e igiene discutibile.»

«A chi non piace sporcarsi un po', di tanto in tanto?» allungò le labbra, chiudendo gli occhi con espressione d'estatica attesa.

Tutto quello che ricevette da Eddie fu una mano in faccia.

«Lavati i denti e ne riparliamo.»

«Aw, dai, sono sceso apposta per aspettare il tuo ritorno come un cane fedele! E poi anche tu non profumi esattamente come un fiore di primavera.»

«Infatti era mia intenzione salire per fare una doccia», lo superò di un gradino, prima di voltarsi, «c'è una doccia enorme, in effetti, nell'appartamento del tizio a cui scrocco l'alloggio.»

Un invito, tutt'altro che inaspettato.

Richie recuperò la tazza di caffè abbandonata sulla scalinata e gettò nel cestino sulla strada il mozzicone della sua sigaretta. Si rimise in piedi, fronteggiandolo senza esitazione alcuna. Amava il fatto che, anche dal gradino di sotto, fosse più alto di Eddie.

«Finiamo l'acqua calda di quel bastardo, allora.»

 

***

 

Richie non aveva mai amato le biblioteche. Non perché la carta stampata gli facesse senso, come alla maggior parte dei ragazzini della sua età, ma per il silenzio snervante di tutto ciò che lo circondava.

Odiava restare solo con i suoi pensieri, e se, qualche volta, gli capitava di parlare tra sé e sé, era solo un modo come un altro per non pensare.

La biblioteca di Derry non era esattamente il luogo ideale per chi ama parlare tanto. Non era il luogo ideale per quella boccaccia di Richie Tozier.

Per quello la decisione di isolarsi in un posto che lo avrebbe costretto, una volta per tutte, a quel silenzio che lo avrebbe istigato a pensare.

Pensare a come buttare giù un paio di righe nella lettera che aveva deciso di spedire a Eddie Kaspbrak.

Non si sentiva audace come Ben, che riusciva a scrivere poemi strappa mutande con un paio di frasi ad effetto. Non prolisso come Bill Tartaglia, che sapeva raccontare un sacco di storie interessanti, quando quella sua lingua molle gli concedeva di farlo. Non caustico come Stan, non saggio come Mike, non tagliente come Beverly. Non petulante come Eddie.

Richie sapeva solo parlare a vanvera. E quella non era una qualità che si poteva riprodurre su carta. Non quando eri deciso a far passare un messaggio ben preciso. Un messaggio che si condensava in due semplici parole: mi manchi.

Sì perché Eddie gli mancava da impazzire.

La primavera che se l'era portato via si era trasformata in estate e l'estate non è una di quelle stagioni che puoi affrontare in solitudine, non quando i tuoi amici più cari si sono dispersi come foglie nel vento, uno dopo l'altro.

A Richie non restavano che i ricordi.

Uno su tutti quello di un bacio.

Un bacio, che si era detto non avrebbe mai dimenticato.

La cosa più dolorosa era stato constatare che Eddie non si era più fatto vivo. Nemmeno una sola volta per sbaglio, dacché se ne era andato. Non una lettera, non una telefonata.

Inizialmente aveva cercato di giustificare questa sua assoluta mancanza d'interesse al fatto che, forse, si stesse ancora orientando nella nuova città in cui era stato trascinato da sua madre, e in seguito... che Sonia Kaspbrak in persona non gli permettesse di avvicinarsi a un telefono o a una busta da lettere.

Questa convinzione però aveva cominciato a sgretolarsi quando nessuno dei suoi vecchi amici aveva tentato di contattarlo. O contattare Mike.

Come se si fossero tutti dimenticati di loro. Come si fossero dimenticati di Derry. In un'oblio senza spiegazione.

Per quello ora Richie si trovava ad osservare un foglio bianco che di certo non si sarebbe scritto da solo.

Aveva deciso di scrivere. Di mandare una lettera a Eddie, all'indirizzo provvisorio che aveva lasciato a Mike. In qualche modo gli sarebbe arrivata, in qualche modo gli avrebbe ricordato di quanto stronzo fosse stato nelle ultime settimane.

Nessuno bacia uno dei suoi migliori amici, sulle labbra, come fanno i fidanzati e poi sparisce per sempre.

Richie posò la penna sul foglio e scrisse: stronzo.

Poi lo cancellò con una riga. Un modo semplice e diretto per farlo sentire in colpa certo, ma appena sufficiente a fargli capire il vuoto che gli aveva lasciato dentro.

Si lasciò scivolare appena giù per la sedia e chiuse gli occhi, cercando di riportare alla mente quel giorno: le labbra soffici e umide di Eddie, gli occhi che brillavano della luce del tramonto.

Gli mancava, già. Gli mancava così tanto che a volte si trovava a passare di fronte alla vecchia casa dei Kaspbrak con la voglia matta di attraversare il vialetto, suonare, con la speranza che la mastodontica Sonia comparisse sulla porta, mandando all'aria la copertura che aveva messo in piedi pur di tenerli lontani.

Ma nella vecchia casa di Eddie si era trasferita una nuova famiglia. Una famiglia ordinaria. Con un cane che a Eddie avrebbe fatto venire l'orticaria per la paura delle allergie.

Ogni tanto vedeva i figli della giovane coppia giocare in giardino. Quel giardino a cui Eddie era praticamente vietato l'accesso. O li scorgeva affacciarsi a quella finestra alla quale lui stesso si era arrampicato così tante volte da averne perso il conto, per sgattaiolare nella sua camera da letto e fargli compagnia, quando gli era proibito uscire.

Ogni ricordo di quella casa faceva male. Male da impazzire. Tanto male che Richie superava l'impulso di suonare, pedalando lontano da lì, per non sentirsi scoppiare il cuore.

 

***

 

A Richie piaceva il profumo di quel nuovo bagnoschiuma.

Vagamente fruttato, delicato, che lo faceva sentire pulito, lindo come non si era mai preoccupato di essere.

Ma Eddie era un demonio ipocondriaco che mai gli avrebbe permesso di mantenere quel suo stile di vita disordinato, quantomeno non in sua presenza. Si rese conto di essere diventato la versione migliore di se stesso, da quando quel nanetto isterico era entrato con prepotenza nella sua vita.

E non gli dispiaceva. Non gli dispiaceva nemmeno avere vestiti che profumassero di bucato fresco o di avere lenzuola pulite, almeno due volte la settimana.

Gli ricordava un po' quanto gli piacesse il profumo che aveva sempre Eddie da ragazzino.

Quel profumo di pulito e... potpourri.

E ora gli piaceva averlo addosso. Un po' per via dei prodotti che lo obbligava a usare, un po' perché era fermamente convinto che Eddie glielo stesse trasmettendo per via epidermica, ogni volta che se lo ritrovava addosso, avvolto attorno a lui in un abbraccio che poco aveva a che fare con l'ipocondria. Quando gli infilava le mani dappertutto, la lingua e le labbra ad esplorare ogni centimetro del suo corpo, quando affondava in lui, strappandogli sospiri che si fondevano coi suoi.

Ci avesse ragionato un po' più a lungo si sarebbe trovato a dover correre di nuovo in bagno per una seconda seduta esplorativa in solitaria. Perciò si impose di godersi la calda sensazione del tessuto dell'accappatoio sulla pelle e ciabattare fuori dal corridoio e verso la sala da pranzo, fingendo di aver ampiamente soddisfatto i suoi desideri, in un quarto d'ora di doccia condivisa, ricca di benefit.

Eddie era seduto al tavolo, la luce del mattino che inondava la stanza e gli regalava un'aura quasi mistica: armeggiava con il portatile di Richie, apparentemente molto concentrato.

«Se stai cercando di decriptare la mia cartella dei porno, la pass è: Eduardo.»

Eddie rialzò uno sguardo da sopra lo schermo del pc, le sopracciglia aggrottate in un'espressione che poteva dirsi in parte colpevole, in parte di rimprovero.

«Chi diavolo ha bisogno di una cartellina dei porno, da quando hanno inventato Pornhub?»

«Woah... cosa stai cercando di dirmi, Spaghetti?»

«Niente che tu non sappia già... coglione.»

Richie superò la barriera del tavolo per finirgli alle spalle e capire cosa stesse cercando con tanta intensità.

«Ho una manciata di mail di lavoro da smaltire...» si giustificò senza provarci nemmeno a nascondere le sue faccende.

«Duemila mail non lo direi: una manciata, la chiamerei un'apocalisse informatica

Eddie sbuffò qualcosa, allungando una mano sulla tazza di spremuta che si era preparato per colazione.

«Credevo fossi ancora in aspettativa», continuò, schioccandogli un bacio sulla testa. Eddie aveva ancora i capelli umidi che sapevano di shampoo profumato. Dovette combattere contro i suoi istinti per non restarsene lì a sniffarlo come un segugio.

«In effetti lo sono...»

Richie sentì arrivare un MA grosso come una casa. Sufficiente a far crollare ogni imbarazzante impulso.

«... ma dato che ho appena prenotato un volo per tornare a New York, ero curioso di sapere cosa mi aspettava in ufficio».

Lo disse così, con una leggerezza che lasciò Richie letteralmente senza parole. Ed era così difficile, lasciare Richie senza parole.

Percepì l'esitazione di Eddie al suo rigido silenzio, come se si fosse appena reso conto di aver detto qualcosa di profondamente sbagliato. E infatti se ne restò lì fermo, con le mani ancora sulla tastiera del pc, prima di ruotare con il busto e inclinare la testa all'insù, per poterlo guardare.

«Va tutto bene?»

Con che coraggio poteva fargli una domanda simile? Aveva appena sganciato una bomba più sconvolgente di quella del suo divorzio e ancora si domandava se andasse tutto bene?

«Uhm, certo...» si ritrovò a confermare, con un tono che di rassicurante aveva ben poco. Come il fatto che le sue mani, adesso, non erano più sulle spalle di Eddie, e le sue labbra non più a pochi centimetri dai suoi capelli.

Si sentì schiaffeggiato moralmente con una tale forza che il naso riprese a fargli male, come dopo l'incidente di qualche giorno prima con quei ragazzini al parcheggio, ma senza le amorevoli cure che ne erano seguite.

«Rich...»

La voce di Eddie era preoccupata, ma Richie sembrava appena consapevole del suo tono, perché nel cervello gli era appena esplosa un'irrazionale rivoluzione neuronale.

 

***

 

«Quando mi hanno detto che eri qui non ci volevo credere...»

Eddie?

Richie ebbe un tuffo al cuore e riaprì gli occhi di scatto, appena consapevole del fatto che si fosse appisolato come uno stupido, lì, nello statico silenzio della biblioteca.

Perciò la delusione fu bruciante quando, invece di labbra di zucchero, si trovò ad osservare Mike Hanlon.

«Gesussanto, Mikey! Non sono sopravvissuto a un clown assassino per farmi uccidere da un infarto!»

Mike scosse la testa, ma sorrise.

«Scusami, ma in biblioteca uno dovrebbe venire per leggere in santa pace, non per schiacciare un pisolino.»

«Non stavo schiacciando un pisolino, cercavo un modo carino per cominciare una lettera.»

«Una lettera?»

«Sì, una lettera... sai cos'è? Dicesi lettera, quella comunicazione non verbale che...»

«So cos'è una lettera», sussurrò, dopo essersi reso conto che la bibliotecaria stava lanciando loro sguardi di fuoco, «a chi devi scrivere?»

Richie si strinse nelle spalle.

«A quella gnocca dell'ultimo anno.»

«Quale gnocca dell'ultimo anno?»

«Dai, la gnocca dell'ultimo anno. Tutti conoscono la gnocca dell'ultimo anno. Solo tu che non frequenti la scuola non la conosci...»

Mike si allungò sul foglio scarabocchiato.

«E alla gnocca dell'ultimo anno le scrivi: stronzo

Richie tornò a osservare la pseudo lettera solo per rendersi conto della gaffes e, senza pensarci una seconda volta, afferrò il foglio per distruggerlo, accartocciandolo rumorosamente.

La bibliotecaria li zittì con un verso d'ammonimento. E Richie il foglio se lo infilò in bocca, con aria di sfida.

«Volevi scrivere a Eddie?»

Per poco Richie non si strozzò con il foglio di carta, saliva e tutto il resto. Tossì così rumorosamente che la bibliotecaria prese a camminare verso di loro con aria minacciosa.

Richie afferrò Mike per un braccio, trascinandoselo dietro, fuori dalla struttura.

«Aria, finalmente! Ma che mi è venuto in mente di entrare in quella gabbia di pazzoidi sociopatici?» prese due profondi respiri come a riaprire i polmoni, «ci andiamo a prendere un gelato?» propose subito dopo, nella speranza che Mike decidesse di dimenticare l'accaduto rapidamente.

«Gli ho scritto anche io, sai... ?»

Ovviamente Mike non sembrava affatto intenzionato ad accantonare l'argomento. Ma improvvisamente Richie si ritrovò curioso. Che Mike e Eddie avessero mantenuto rapporti epistolari per tutte quelle settimane, senza coinvolgerlo?

«Non sapevo sapessi scrivere, Mikey, Mikey», lo canzonò sperando di nascondere l'improvvisa aspettativa che gli era montata addosso.

«Eddie non mi ha mai risposto, però.»

Richie si volse a guardarlo, l'aria di sufficienza che gli scivolava giù dal viso, dalle spalle, come svuotandolo.

«Come non lo ha fatto Stan o Ben. O Bill... o Bev.»

«Sei sicuro di aver azzeccato gli indirizzi? Sicuro di non averli spediti a Ezzie Cabracchi, residente nello stato del Mai?» cercò di sdrammatizzare quell'improvviso gelo che gli era scivolato nello stomaco.

Come se un'aria di tragedia fosse scivolata in mezzo a loro, raffreddando il caldo sole dell'estate.

«Non ho sbagliato indirizzi... le lettere avrebbero dovuto tornare indietro. Non lo hanno fatto», Mike si strinse nelle spalle.

«Probabilmente le hanno lette e se le sono dimenticate sulla scrivania. E poi cara mammina le ha buttate», Richie cercò una spiegazione razionale a un avvenimento del tutto... illogico. Senza sapere affatto di aver praticamente azzeccato l'ipotesi. Lo avrebbe scoperto, a sue spese e inconsciamente, solo qualche mese dopo.

Dentro, in fondo allo stomaco, sentiva già che qualcosa di orribile si stava muovendo, fuori da Derry.

«Probabilmente», si ritrovò a confermare Mike, lasciando suo malgrado trasparire quanto poco anche lui ci credesse.

«Sai che facciamo?» Richie prese un profondo respiro e alzò lo sguardo verso il sole, per tornare a sentirne il calore, cercando la sua luce, fino a restarne quasi accecato, «gliela scriviamo assieme una lettera a quell'ipocondriaco di Eds. E poi... poi gliela consegneremo a mano, non appena riusciremo a spostarci da questo buco di culo di città», sorrise «così saremo certi che la riceverà. E si sentirà una profondissima merda per averci snobbati in questo modo. Lui... e tutti gli altri.»

Allungò una mano che Mike strinse dopo un attimo di confusa esitazione.

 

Qualche settimana più tardi Richie si stava trasferendo con la sua famiglia, lontano dallo stato del Maine. Una lettera scritta a mano stretta fra le mani, seduto sul sedile posteriore della macchina di suo padre.

La settimana successiva, quella lettera, era finita nella spazzatura.

Il mese successivo Richie aveva dimenticato.

 

***

 

Ma adesso però ricordava.

E ricordava alla perfezione quella sensazione di vuoto che Eddie, con la sua partenza da Derry, gli aveva lasciato dentro.

Con quella frase, lanciata con noncuranza, aveva riaperto una ferita che credeva di aver saldato con il fuoco.

«Rich... ?»

Eddie aveva abbandonato la sua postazione per raggiungerlo al bancone della cucina.

«Cosa? Che c'è?» sbottò questi, voltandosi a guardarlo.

«Woah, ti calmi, che cavolo ti è preso?»

«Niente che ti riguardi, visto che: hai prenotato un volo per tornare a New York.»

Eddie gli lanciò uno sguardo perplesso.

«Sì... e sei arrabbiato esattamente, perché?»

Richie sgranò gli occhi, guardandolo come fosse pazzo.

«Ma sei scemo o mangi i sassi? Hai deciso di tornare a New York senza dirmi niente!»

«Veramente te l'ho appena detto...»

«Wow. WOW! Sapevo che eri una sottospecie di demonio formato famiglia ma non che avessi anche la sensibilità emotiva di un puntaspilli!»

Eddie allargò le braccia, incredulo e, invece di sciogliersi in sincero rammarico, deflagrò in una sonora risata.

Richie non fu certo di poterci credere. Come poteva essere tanto insensibile? O ottuso, perché ora era indeciso fra le due opzioni.

«Perché ridi? Che hai da ridere?»

«Perché sei un deficiente.»

«Io?»

«Sì, tu...»

«Non sono io quello che ha deciso di andarsene su due piedi, senza dirmi niente! Senza preavviso!»

«Non credevo fosse necessario un preavviso per tornare a New York, sapevi che prima o poi sarebbe successo.»

«Sì, ma non senza nemmeno uno straccio di spiegazione!»

Eddie sembrò comprendere lentamente quello che stava girando in testa a Richie e gli passò la voglia di ridere.

«Rich...» lo richiamò in tutt'altro tono, «devo tornare a New York per sistemare le cose con il mio lavoro. E definire il divorzio con Myra. Non avevo intenzione di restare per sempre a New York...»

Richie ridimensionò rapidamente tutto. Accolse quelle parole come una boccata d'ossigeno inaspettato e si sentì improvvisamente, inesorabilmente, stupido. Anche se affatto tranquillo, in ogni caso.

«Ho approfittato della tua ospitalità fin troppo a lungo, ma credo sia arrivato il momento di affrontare quello che mi aspetta dall'altra parte, non credi?»

Richie si trovò ad annuire appena, arreso. Certo che lo capiva, solo non si aspettava succedesse così all'improvviso.

«Tornerò in California appena avrò sistemato tutto, se ancora vorrai in casa un demone formato... famiglia con la sensibilità emotiva di un... puntaspilli? Sul serio Rich, un puntaspilli?» lo sentì ridere di nuovo e tutte le sinapsi tornarono a connettersi una con l'altra, creando di nuovo una parvenza di lucidità in quella sua testa bacata.

«È che non me lo aspettavo», si giustificò, sentendosi ancora in imbarazzo per la reazione di poco prima, fragilità emotiva di carta velina «potevi dirmelo che avevi intenzione di tornare a New York. Non avrei reagito come una checca isterica se mi avessi oliato la supposta con un po' di vasellina», tirò su con il naso, nonostante la battuta che voleva essere divertente, perché improvvisamente qualcosa di ancora più imbarazzante di una gaffe gli si stava sciogliendo negli occhi.

Stava davvero invecchiando. Ogni cazzo di motivo era buono per frignare come un moccioso.

«Hai ragione. Dovevo dirtelo», Eddie gli si era avvicinato senza esitazione e lo aveva avvolto in un abbraccio che Richie non rifiutò affatto. Patetico, doveva sembrargli davvero patetico. «Però ci hai messo davvero un sacco a uscire dalla doccia e dovevo fare qualcosa di produttivo per non pensare di tornare indietro da te e ricominciare tutto da capo.»

Richie si lasciò andare a un verso in bilico fra frustrazione e lusinga, prima di stringerlo un po' di più.

«Cerca di non metterci troppo in quella città di nevrastenici», disse solo, lasciandosi andare alla sensazione di aver superato un pessimo momento.

«Puoi scommetterci», lo sentì confermare e finalmente si sentì un po' meno avvilito.

 

Meno di una settimana dopo, Richie stava scaricando la valigia di Eddie dalla macchina con cui lo aveva accompagnato all'aeroporto.

Una valigia piccola, con dentro l'essenziale, per una volta tanto. A dimostrazione del fatto che sarebbe tornato, senza ombra di ragionevole dubbio. Eddie lo aveva fatto solo per rassicurarlo, senza poter fare a meno di lamentarsi, più volte, dello scarso spazio a disposizione. Richie gli fu silenziosamente grato per questo.

Lo spazzolino, alcune pillole e parte dei suoi vestiti sarebbero rimasti nel suo appartamento a ricordargli ogni giorno di non essersi immaginato tutto.

«Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni dentro?» gli domandò Richie, indicando con il capo i cancelli delle partenze, guardandolo mentre avvicinava a sé il piccolo trolley.

«E rischiare di venir tampinato dai tuoi ammiratori? Non ci penso nemmeno, ho bisogno di calma e tranquillità, prima di prendere un aereo.»

«Potevi tornare a New York in autobus: un road trip per giovani yuppies in carriera, è questo ciò che stai cercando? Il road trip della tua vita!» impostò la voce come un annuncio pubblicitario, trovandosi più a suo agio a fare lo scemo, piuttosto che affrontare quello che gli stava gironzolando in testa da troppe ore ormai.

«E metterci quattro settimane, anziché due ore.»

Quattro settimane senza Eddie? Certo che lo stronzo sapeva quali tasti premere per fare davvero, davvero male.

«Mi tocca ritrattare: un puntaspilli è molto più sensibile di te. Se non altro sente qualcosa quando viene impalato.»

«Beep-beep Richie. Fa' attenzione a come usi la parola impalare con me. Una delle due opzioni dell'ultimo anno non è stata affatto piacevole», gli rispose con aria di rimprovero, prima di sbuffare una risata alla sua espressione attonita. Se per il terribile ricordo dell'artiglio di IT o l'audacia della battuta sessuale.

Dio, quanto amava quell'uomo.

«Vieni qui, per favore, vieni qui, Eduardo, mi amor...» gli disse, attirandolo a sé. Le mani a raccogliere il suo viso e le labbra sulle sue, a coinvolgerlo in un ultimo, lunghissimo bacio.

Un bacio, nascosti in uno squallido parcheggio d'aeroporto, fra le macchine di sconosciuti che non avrebbero incrociato mai più di una volta nella loro vita. Il brivido valeva il rischio.

Avrebbe voluto tenerlo così per sempre o almeno il più a lungo possibile. Più a lungo di quel bacio rubato, quasi trent'anni prima.

«Chiamami appena arrivi», gli sussurrò sulle labbra, accarezzandogli le guance, sentendo appena, sotto le dita, la sua piccola bianca cicatrice in rilievo che ormai aveva imparato ad amare, tanto quella che aveva sul petto e di cui Eddie si vergognava ancora.

«Certo che ti chiamo», gli rispose, «non sono stato figlio di Sonia Kaspbrak per niente.»

Richie rise sommessamente e lo baciò ancora una volta. E poi un'altra ancora, prima di decidersi a lasciarlo andare.

«Fai buon viaggio, Spaghetti.»

«Una volta che avrò preso il mio Diazepan lo sarà di certo, boccaccia.»

Gli lanciò un bacio con la mano, guardandolo allontanarsi. La camminata veloce e il rumore del trolley che si perdeva sotto quello del motore di un aereo in decollo.

Richie sentì stringersi il cuore in modo del tutto irrazionale.

Da quando si era trasformato dal comico più sboccato e irriverente della west coast a un malinconico, tragico, smidollato romantico?

Inspirò a fondo e montò in macchina, decidendo di darsi una mossa. Aveva un sacco di lavoro da fare. Quelle due lunghe, solitarie settimane, le avrebbe fatte fruttare. Si chiese se fosse il caso di accendersi una sigaretta prima. Ma poi prese il pacchetto e lo gettò sul sedile posteriore. Forse ci avrebbe davvero provato a smettere. Razza di demonio ipocondriaco.

 

Aveva appena parcheggiato sotto casa che sentì arrivare due messaggi.

Il primo, che accese sul suo volto un sorriso ridicolo, era di Eddie.

Sto partendo, ci sentiamo dall'altra parte.

Il secondo, dal suo manager, Neil.

Apri questo link. Più un emoticon che poteva essere una zucca o un pene a seconda delle interpretazioni.

«Sibillino», commentò pigramente, mentre la pagina caricava lentamente sullo schermo del suo smartphone.

Richie spense il motore della macchina e per poco non gli venne un infarto.

Avevano appena sbattuto in rete, a tutta pagina, la sua relazione con Eddie Kaspbrak.

 

Continua...

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

A New York nevicava.

Il grigio dicembre della costa orientale si era assicurato di ricordare a Eddie quanto il sole della California fosse ingannevole, sotto molti punti di vista. E di quanto persino il suo soggiorno laggiù fosse stato una piacevole parentesi di un inverno che era solo all'inizio.

Si sentiva esausto, un po' per il viaggio, un po' per i calmanti che aveva preso per superare un volo altrimenti troppo lungo da sostenere, mentre il cielo grigio e l'aria gelida gli avevano dato la sferzata finale.

Grossi fiocchi di neve vorticavano e sfrecciavano come moscerini impazziti al finestrino del taxi che aveva preso per tornare a casa.

Casa, un concetto che ora aveva un significato piuttosto confuso.

Quella che aveva chiamato casa gli ultimi anni della sua vita ora non era più da considerarsi tale. Un posto dove tornare per un ultimo sopralluogo, per recuperare le ultime cose che Myra non aveva gettato (presumibilmente) fuori dalla finestra. Un posto che, in ogni caso, non aveva mai sentito veramente suo. Nemmeno la scelta dell'arredamento. Sempre accondiscendente nelle scelte della moglie, per evitare il contrasto. Per evitare di dare in escandescenze. Una terribile abitudine che aveva sviluppato nel corso degli anni. Castrare i suoi sbalzi d'umore con la moglie, lasciarli esplodere fuori, a lavoro o altrove, senza suscitare particolari simpatie nell'ambiente. Per quello aveva cominciato a correre. Ripreso... a correre. Una volta assodato che i suoi problemi con l'asma non erano poi così realistici e dopo la morte di sua madre in particolar modo, aveva intrapreso un piccolo, minuscolo passo verso la libertà, armato di scarpe di gomma e tessuto tecnico sportivo.

Anche ora gli sembrava di correre, lontano dalla sua vita di prima, lontano da quella casa che non era mai stata veramente, esclusivamente sua.

Le cose sembravano così diverse ora. La città stessa e l'atmosfera che respirava, gli sembrava quella di una vita fa. Eppure non era passato che poco più di un mese.

Un mese che gli aveva cambiato la vita in un modo che non avrebbe mai creduto possibile.

Avrebbe alloggiato in un appartamento poco fuori Manhattan. Richie lo aveva aiutato a selezionare un monolocale su uno di quei siti a breve permanenza, con possibilità di prolungare il soggiorno ce ne fosse stato bisogno. Eddie si era augurato di non doverlo fare, Richie gli aveva implorato di non renderlo necessario.

Cercò di capire se la linea del suo cellulare fosse tornata attiva. Era da quanto era sceso dall'aereo che il segnale era assente, come fosse stato inghiottito in una realtà alternativa che aveva tagliato fuori tutto il resto del mondo.

Provò comunque a chiamare Richie, indispettendosi alla voce pre-registrata dell'operatore telefonico che gli rispondeva, assente, dall'altra parte della cornetta.

«Ma che diavolo...» tronfiò a mezza bocca, troncando la comunicazione.

«È colpa del maltempo.»

«Come, prego?» Eddie aveva rivolto lo sguardo al tassista che lo stava adocchiando dallo specchietto retrovisore.

«Il segnale debole. È così da un paio di giorni. È colpa del maltempo. Questa neve è arrivata inaspettata, sono sorpreso che non abbiano chiuso gli aeroporti ancora.»

«Grazie al cielo, no. Un minuto di più su quel trabiccolo volante e avrei dato di matto.»

Lo sentì sbuffare una risata comprensiva.

«Nemmeno io amo volare. Anche se statisticamente sono più frequenti gli incidenti d'auto.»

Eddie gli rivolse un'occhiata fra il perplesso e il divertito.

«Ma non mi dica...» finse sincero interesse, e trovò del tutto superfluo raccontare a un perfetto sconosciuto che lavoro facesse per vivere.

«Ma non si preoccupi. In trent'anni che faccio questo lavoro, non ho mai avuto un incidente. Sono un autista prudente. Mio marito dice che sono fin troppo prudente, il che non è esattamente una caratteristica ideale per fare il tassista ma...»

Eddie inarcò un sopracciglio. L'uomo, che di tanto in tanto ancora lo sbirciava a bruciapelo dallo specchietto retrovisore, sembrò capire la sua domanda inespressa e indicò una fotografia sbiadita, agganciata al cruscotto del taxi: un uomo latino, di mezza età, dall'aria pacifica, gli sorrideva da dietro una pellicola traslucida.

«Gabriel. Mio marito.»

Il tono confidenziale ma leggero aveva colpito Eddie più dell'informazione in sé. La facilità con cui aveva elargito la confidenza, senza malizia, senza timore di essere giudicato o offeso. Senza lo stesso allarmismo con cui, lui stesso, aveva finto di essere il marito di Richie, solo qualche settimana prima, nella sala d'attesa del pronto soccorso di una città sconosciuta.

Avvertì qualcosa, in fondo allo stomaco, un senso d'accettazione del quale non aveva ancora mai capito di sentire il bisogno, fino a quel momento.

«Da quanto siete sposati?» si ritrovò a chiedere, cercando di rincorrere quella sensazione di sollievo e familiarità alla quale non era avvezzo. Non per argomenti simili, almeno.

«Quasi cinque anni, praticamente da quando è diventato legale, nello stato di New York.»

«Un bel traguardo...» sorrise.

«Considerato che stiamo insieme da quasi il triplo degli anni, direi che non è poi una cosa tanto straordinaria. Straordinario che ancora ci sopportiamo, dopo tutto questo tempo, quello sicuramente.»

Il pensiero di Eddie corse rapidamente a Richie. Da quanto tempo era concesso calcolare gli anni in cui loro si sopportavano? Era legittimo tener conto di quegli anni in cui avevano perso coscienza, l'uno dell'altro? O potevano benissimo ottenere un bonus per quello?

«Lei non è sposato?» si sentì domandare e, per un attimo, fraintese la domanda, perché fu sul punto di rispondere che no, lui e Richie non erano sposati; ma poi tutto assunse le tinte fosche di New York e lo riportò con i piedi per terra. Il volto della ex moglie a materializzarsi nella sua testa, come un monito.

«Lo ero», rispose asciutto, senza aggiungere molto alla conversazione.

«Oh, mi spiace...»

«A me no», sorrise per fargli capire che la scelta, per quanto dolorosa, era solo stata il trampolino di lancio per qualcosa di meglio.

Il telefono prese a squillare, strappandolo da elucubrazioni infelici.

«Tecnologia e meteo, fatalmente imprevedibili», commentò il tassista, mentre svoltava in un una via meno trafficata.

Eddie cercò rapidamente il cellulare che aveva infilato così a fondo nella tasca del cappotto che si maledì di non averlo tenuto a portata di mano.

Quando riuscì a recuperarlo il nome di Richie comparve sullo schermo e se ne sentì sollevato.

«Ehi, Richie... ho cercato di chiamarti prima ma non... ehi. Che succede? Frena, frena! Non sto capendo un bel niente, respira a dimmi che diavolo è successo. Sono via da meno di ventiquattr'ore e sei già entrato nel panico?»

Proprio sul più bello, la comunicazione cadde di nuovo.

«Ma che cazzo...» esalò, fissando lo schermo come se potesse rianimarlo seduta stante.

«Imprevedibili», commentò di nuovo il tassista con un sorriso sornione, «roba di lavoro?»

Eddie restò in silenzio valutando la risposta. Cosa sarebbe stato corretto dire o non dire, mentire o tacere semplicemente. Poi ricordò la sensazione colloquiale di pochi istanti prima e si ritrovò a scuotere la testa.

«No, ho solo un compagno paranoico... o almeno spero», rispose, cercando di non farne una questione di stato, nonostante quelle parole gli avessero vibrato sulle labbra come una frusta. E si sorprese a trattenere il fiato, come se il tassista fosse incaricato di sollevarlo dalla spada di Damocle sulla testa o il mondo pronto a crollare per via della scandalosa confessione.

«Le conviene chiamarlo da un telefono fisso, sono sicuro che avrà più fortuna...» gli rispose.

Il mondo era ancora al suo posto, la spada di Damocle era stata felicemente rimossa.

Eddie si rilassò sul sedile posteriore, guardando fuori dal finestrino: ancora quei fiocchi di neve molesti che sembrano dividerlo anni luce dal sole caldo della California.

Tutto qui? Si disse.

Avrebbe voluto abbassare il finestrino e urlarlo ai quattro venti.

Tutto qui.

 

***

 

Eddie odiava la scuola nuova.

Odiava i suoi compagni di classe che sembravano non capire affatto la natura di tutte le sue patologie. Odiava, più di ogni altra cosa, di quanto gli fosse ostile la natura dei ragazzi dell'ultimo anno, poco inclini a stringere nuove amicizie.

Si chiedeva spesso come avesse fatto a sopravvivere tutti gli anni delle scuole medie, giù a Derry. Aveva ricordi confusi di quegli anni, sapeva di aver avuto degli amici, certo. Se si sforzava davvero a fondo, forse poteva ricordarne persino i nomi, solo che la mente giocava strani scherzi. Come se più lanciasse lontano il sasso, più questo gli tornasse indietro con forza, respingendo anche il poco dei ricordi che era riuscito a collezionare negli ultimi minuti.

Perciò si era arreso alla triste realtà che probabilmente era sempre stato un ragazzino destinato alla solitudine. A non stringere amicizie più significative di brevi scambi scolastici.

Sua madre non era d'aiuto in questo senso, sembrava compiacersi del fatto che, terminate le lezioni, il suo Eddie tornasse a casa, finisse i compiti che gli erano stati assegnati e poi prendesse posto, silenziosamente, ubbidientemente al suo fianco, per guardare uno di quei programmi che a lei piacevano tanto.

Fu solo verso la fine dell'ultimo semestre, uno degli ultimi giorni della tormentata storia che lo avrebbe finalmente strappato a quelle maledette scuole medie, che Eddie strinse amicizia con il suo primo vero amico, dopo Derry.

Il suo nome era Gary. Un ragazzetto rosso di capelli, dall'aria dinoccolata e l'occhio pigro. Eddie era finito in infermeria a causa di un epistassi dovuta probabilmente al sole caldo sulla pista di atletica. Gary ci era finito perché era stato preso a calci negli stinchi dal bullo della scuola. La sua gamba si stava gonfiando in modo abbastanza inquietante.

«E non è nemmeno la cosa peggiore che mi sia capitata...» esordì questi, notando l'interesse di Eddie per la questione, «una volta sono finito in ospedale per sospetto trauma cranico. Non ero mai stato su un'ambulanza. È stato veramente fichissimo.»

Eddie gli rivolse una smorfia, un po' perplessa. Non avrebbe mai definito fichissima una corsa in ambulanza.

«Cos'è, non ci credi?»

«No, mi domando solo se non sia stato il trauma cranico a darti le allucinazioni su quanto sia stato figo.»

Gary lo fissò perplesso e Eddie ebbe l'immediato terrore di aver detto qualcosa di tremendamente sbagliato. Di aver osato troppo. Da dove gli era uscita una stupidaggine simile?

Era già pronto a chiedere scusa per la mancanza di tatto, quando Gary, che lo aveva osservato con aria distratta fino a quel momento, scoppiò a ridere.

«Sai che non ci avevo mai pensato? Potresti avere ragione! Cavolo, potresti davvero!»

Da quel giorno Eddie e Gary diventarono inseparabili.

Anche lui non sembrava avere molti amici, ma era piuttosto fiducioso che iniziare il liceo avrebbe cambiato il loro status di asociali-non-per-scelta e nonostante Eddie avesse, a prescindere, ben poche speranze che la sua esistenza mutasse tanto solo perché avrebbe cambiato scuola e compagni di corso, quando Gary lo urlava ai quattro venti riusciva quasi a crederci.

Si perché Gary era rumoroso ed esuberante (probabilmente il principale motivo che lo rendeva così attraente agli occhi dei bulli della scuola) e nonostante Eddie non avrebbe mai detto potesse andare d'accordo con qualcuno tanto diverso da lui, Gary gli piaceva. Gli piaceva molto. E gli piaceva in un modo che ancora non riusciva a comprendere, ma che gli faceva pensare a lui tanto spesso quanto si pensa a un dolce che non ti è permesso assaggiare.

Di tanto in tanto aveva come la sensazione gli ricordasse qualcuno. Qualcuno che molto probabilmente aveva conosciuto a Derry, ma quando era a un passo dal ricordare esattamente chi gli ricordasse, e perché la sensazione fosse tanto familiare quando confortante, l'impressione svaniva in un alone di nebbia.

Ben presto accantonò anche solo l'idea di doverlo associare a qualcuno del suo passato e si godette la nuova amicizia come un dono gradito.

Che lo accompagnò al liceo. Durante il primo, travagliato anno. E poi a seguire, mentre nuove amicizie si susseguivano e i primi turbamenti romantici cominciavano a sconvolgere le loro giovani esistenze. Eddie non riusciva a trovare nessuna delle ragazze del suo anno sufficientemente attraenti da comprendere tutto quell'insensato subbuglio ormonale, mentre si ingelosiva facilmente per tutti gli interessi che invece Gary sembrava rivolgere a quel gentil sesso che per lui aveva ancora poca attrattiva.

Gary lo rassicurava che un giorno avrebbe capito.

Eddie era così terrorizzato dall'idea che non lo avrebbe capito mai che si sforzò di essere come tutti gli altri.

Lasciò alla sua fase onirica tutti quelle insensate fantasie e si preoccupò di correre dietro a qualcuna di quelle ragazze che Gary si ostinava a presentargli.

Prima che potesse anche solo realizzarlo, era rimasto ingabbiato in una convenzione che poco aveva a che fare con la sua felicità.

 

***

 

Aveva appena sistemato il trolley accanto all'armadio del monolocale, quando il telefono prese a squillare di nuovo.

«Richie!» esclamò, muovendosi per casa, cercando un segnale più agile per intraprendere una conversazione senza troppi singhiozzi.

Si avvicinò a una delle finestre, che davano su un vicolo piuttosto squallido.

«Eddie? Eds, grazie al cielo. Sei più introvabile di Carmen San Diego.»

«Di chi?»

«Lascia perdere.»

«Ho cercato di chiamarti, ma il tempo qui fa schifo.»

«Ho visto al telegiornale. Non avresti potuto trovare un periodo più di merda per tornare a New York. Eddie Spaghetti e il Tempismo Maledetto.»

Eddie sorrise, mentre si metteva seduto sull'ampio davanzale e osservava refoli di neve volteggiare di fronte alla finestra.

«Mi spieghi che diavolo stavi cercando di dirmi prima?» gli domandò di nuovo, molto meno allarmato di quando sentiva la sua voce affettata dalle interferenze, forse più concitata di quanto non fosse realmente.

Ma il sospiro di Richie dall'altra parte della cornetta non sembrava preannunciare alcuna tregua.

«Eddie, mi dispiace così tanto...»

Una frase che decisamente non era preparato a sentirsi dire. Con un tono che non lasciava trasparire il solito umorismo spiccio di boccaccia.

Restò in silenzio per qualche istante, la testa che cominciava a macinare teorie, una più astrusa dell'altra.

«Hai intenzione di girarci intorno finché la linea non cade di nuovo o vuoi dirmi che succede?» si risolse a chiedere, evitando battute che si erano susseguite piuttosto rapidamente nella sua testa.

«Faccio prima a fartelo vedere.»

Eddie si ritrovò a fissare il proprio riflesso nel vetro, l'espressione perplessa di chi non riesce più a raccapezzarsi. L'istante successivo sentì la vibrazione del telefono che gli suggeriva l'arrivo di un messaggio. Mise in viva voce, per poter parlare con Richie e guardare i messaggi in arrivo.

«Spero non sia una foto del tuo pisello o metto giù», cercò di stemperare, osservando con perplessità il link inviato. Decisamente poco realistico gli avesse inviato un link per mostrare le sue parti intime.

«Maltese risponde in latino alla sua padrona: guarda lo sconvolgente video?» domandò non appena esplose il pop up sullo schermo del cellulare.

«Come?»

«Uomo vestito da Joker sventa una rapina in banca, guarda le immagini?»

«No, ma che cazzo, guarda più in basso! Non le vedi le foto?»

«Vedo un sacco di foto, Rich. Peeling del viso a cinque dollari, super offerta.»

«Oh, Cristo santo...»

Eddie sentì arrivargli un nuovo messaggio e questa volta era solo una foto.

Un'immagine sgranata dove si poteva comunque chiaramente riconoscere Richie che teneva le mani e guardava teneramente un altro uomo, voltato di spalle.

«Cos'è, volevi vantarti di esserti trovato un fidanzato?»

«Spaghetti, eddai, vienimi incontro!»

«Non capisco cosa sto guardando.»

«Capisco che probabilmente fra tutte le patologie che hai c'è pure la cataratta, ma almeno il tuo culo dovresti saperlo riconoscere!»

«Il mio... ?»

Ed effettivamente. No, non si riconobbe per le natiche, ma per i vestiti che indossava, sì. Una maglietta che Richie gli aveva prestato e un paio di pantaloni che indossava di rado a New York, ma leggeri e freschi per il clima di Los Angeles.

«Non sapevo ci fossero dei fotografi nei paraggi...» Richie con una voce che sembrava chiedere scusa ad ogni sillaba, come se fosse colpa sua.

Eddie esaminò la fotografia, senza sapere esattamente che pensare. Sebbene il problema, man mano che i secondi passavano, si palesava in maniera piuttosto chiara. Li avevano scoperti. O meglio, avevano cercato di catturare su pellicola il volto della nuova fiamma di Richie Tozier, comico abbastanza famoso, non esageratamente mondano, ma comunque meritevole di un succoso gossip casalingo. Non ci erano riusciti granché. Ma la foto sembrava aver sconvolto abbastanza Richie per costringerlo a chiedere scusa almeno un altro paio di volte, durante la conversazione. Una caratterizzazione decisamente fuori personaggio.

«Eds, mi disp...»

«Se dici un'altra volta: Eds, o mi dispiace, riattacco. Non è colpa tua», gli disse, ma lo sguardo continuava a cercare dettagli che permettessero, in qualche modo, di venir riconosciuto: la postura, il taglio di capelli, la linea del viso, preso appena di sbieco. E in ogni caso non stavano facendo nulla di male, si tenevano solo per mano. Perché tutta quell'agitazione, allora?

«Lo so, ma... è colpa mia se ti hanno messo sotto i riflettori. Dovevo essere più cauto.»

«Richie...» sospirò Eddie, cercando di accantonare il proprio disagio per mettere lui al sicuro, «so che è nella tua natura atteggiarti da prima donna, ma se vogliamo dirla tutta dovevamo essere in due ad essere cauti, perciò... Non mi si vede nemmeno. Sfido chiunque a riconoscermi in quella foto.»

«Bev ti ha riconosciuto.»

Eddie sgranò gli occhi.

«Scusa?»

«Bev... ti ha riconosciuto.»

«Non pensavo che frequentasse siti con Maltesi che parlano latino e bonus per la pulizia del viso o sa il cavolo...»

«Gliel'ho mandata io.»

«Cosa?»

«La foto... gliel'ho mandata io.»

«Perché le hai mandato la foto?»

«Perché sono andato nel panico! Tu eri in volo e poi non rispondevi, io avevo bisogno di un riscontro immediato. Il mio manager che mi ciarlava di cose da un lato e io che non sapevo che pesci pigliare dall'altro. Avevo paura di aver fatto un altro casino e mandato tutto a puttane! Io ho fatto coming out ma tu no, nessuno sa che sei il mio...»

«Bev, ora sì...»

«Bev... n-no?»

«Le hai mandato la foto. Mi ha riconosciuto. Beverly lo sa.»

«Non le ho detto niente di...»

«Oh, cazzo, Richard! Ha visto la foto, mi ha riconosciuto e le hai detto: okay, magnifico, ci sentiamo presto, grazie della consulenza?» cercò di farlo ragionare, senza dovergli tirare fuori le cose con le pinze.

«Okay, sì, io credo... cioè sì, sì, Beverly lo sa.»

«E anche Ben.»

«E... no! Perché dovrebbe saperlo anche Ben?»

«Oltre che negazionista ti è pure scoppiata una pustola nel cervello?!»

«Oh...»

Già... oh. Beverly e Ben che vivevano in simbiosi da mesi ormai, che parlavano e agivano come una coppia consolidata da ere geologiche? Che presumibilmente si dicevano anche cosa avevano mangiato per pranzo, e la telecronaca delle loro giornate minuto per minuto? Beverly sapeva. Ben sapeva. E forse...

«Mi dispiac-»

«Dì che ti dispiace un'altra volta e-»

«Mi spari in faccia come Samuel L. Jackson in Pulp Fiction?»

«Ma che cazzo stai dicendo?» Eddie era convinto gli si stesse intasando la vena.

«Scusami, okay? Ma sono Beverly e Ben, insomma, sapevano che eri venuto a trovarmi, si saranno fatti delle domande e sono i nostri migliori amici e...»

«Sì, ma non volevo...»

«... il problema essenziale è che nessuno là fuori possa riconoscerti, dobbiamo mantenere intatta la tua privacy per...»

«... che lo scoprissero così! Non era compito tuo farglielo sapere, cazzone!» riuscì a interrompere bruscamente e con un certo successo il suo flusso di parole. Magari il cazzone finale avrebbe potuto evitarlo ma gli era scivolato tra le labbra, così come gli scoppi d'ira che, a dire il vero, era un po' di tempo che non sperimentava.

Si rese conto di star ansimando e di essere andato in ebollizione come una pentola a pressione.

«Eddie...»

«No, niente Eddie, niente... altro», disse, avvertendo ancora qualcosa di feroce e bollente in fondo allo stomaco, «non era compito tuo dire o fare proprio niente. Hai avuto quarant'anni di tempo per decidere come e quando farlo sapere a qualcuno, chi ti ha dato il diritto di farlo per me, ah?»

Il silenzio di Richie, se non altro, sembrò consapevole.

«Dio, Eddie, io non...»

«Lascia perdere. Adesso non ho voglia di parlarne.»

«Eddie, aspetta-»

L'istante successivo aveva interrotto la comunicazione. O forse era caduta da sola, vittima di quel provvidenziale maltempo.

L'agitazione in corpo e le mani che gli tremavano. Non un solo istante per valutare razionalmente la cosa, solo il sapore acidulo di frustrata umiliazione nello stomaco.

 

***

 

La prima volta che Eddie si era confrontato con le sue più torbide paure era stato il giorno in cui IT gli aveva mostrato il lebbroso.

La paura delle malattie, delle infezioni, dei germi, di qualsiasi altra cosa che, la morte di cancro del padre prima e Sonia Kaspbrak con le sue esagerate, asfissianti raccomandazioni poi, tutto riassunto in un unico, disgustoso organismo fatto di carne marcescente e vomito.

Non contento però, si era accertato di aggiungere qualcosa che Eddie ancora non aveva considerato, qualcosa che sarebbe tornato a tormentarlo, molto più in là con gli anni.

Quel lebbroso in decomposizione, privo di naso e una disgustosa lingua che si srotolava dalle sue labbra, che si offriva, implorante, di succhiarlo gratis al piccolo Kaspbrak.

Eddie si era interrogato a lungo sulla natura di quelle parole. Il suo terrore più grande era quello delle dannate infezioni, perciò perché solo quella richiesta tanto esplicita, cruda e definitiva era stata la spinta finale che lo aveva fatto scappare a gambe levate? Richie si era preoccupato di spiegargli in modo colorito e fantasioso cosa succedeva a uomini e donne quando scopavano. E di come sifilide e HIV fossero malattie facilmente trasmissibili di quei tempi.

Ma poco più tardi la vera risposta l'aveva trovata il giorno in cui aveva baciato il suo migliore amico, prima di relegarlo in una scatola chiusa, dentro la sua memoria, per ventisette anni. E poi più avanti, durante gli anni del college, quando aveva capito che forse non era poi così insensibile al fascino maschile, sebbene certo fosse attratto anche dalle donne.

Un dualismo che non era riuscito ad accettare, finendo ingabbiato in un matrimonio del tutto inadeguato alle sue esigenze, ai suoi desideri. Una scappatoia definitiva a una realtà che non voleva vedere. A un lebbroso che gli aveva rivelato la sua natura ancora prima che lui stesso potesse capirne il significato.

Solo l'anno prima della sua fuga da New York, costretto a sedute del tutto necessarie dallo psicologo, era riuscito di nuovo a riportare a galla anni di frustrazione.

E a capire perché sentiva, così infinito e profondo, il desiderio di rivedere Richie.

Richie che aveva confessato di averlo amato. Richie che si era preoccupato di incidere di nuovo, nel legno, una promessa fatta più di trent'anni prima. Richie che aveva confessato al mondo la sua paura più grande, Richie al quale non riusciva a non dedicare un pensiero quando si svegliava al mattino e quando si coricava la sera.

Richie... che non si aspettava davvero lo avrebbe trascinato fuori dal suo guscio di ipocondrie, sessuali o meno, ma che desiderava rivedere, col quale desiderava parlare, per capire come avesse fatto a convivere con una cosa simile per così tanto tempo.

Il suo divorzio con Myra era stato deciso prima ancora che partisse per il viaggio verso Philadelphia. Il resto, ormai, era storia.

 

***

 

«Se questa non è una fortunata coincidenza!»

Bill Denbrough gli era praticamente volato fra le braccia, appena Eddie era entrato nella caffetteria.

Aveva ricevuto un messaggio, meno di ventiquattr'ore prima, dove Bill gli comunicava di essere stato praticamente costretto a rimandare di almeno un paio di giorni il volo da New York per Los Angeles, per via del maltempo. E quando aveva scoperto che entrambi erano nella Grande Mela, aveva insistito a tutti costi per una rapida reunion in pieno stile Perdenti.

Eddie aveva accolto quel diversivo con sollievo. Ancora irritato dalla brusca chiusura della telefonata con Richie, indeciso e tormentato su come affrontare il primo vero litigio che avevano avuto da anni.

Aveva rifiutato parecchie telefonate e messaggi dopo quello, deciso a schiarire la mente, godersi Big Bill per una colazione in santa pace.

«Fortunata non lo so, ma felice, sì», si sentiva sempre al sicuro con Bill. Ancora, dopo tanti anni, sebbene avesse perso, in parte, quella sua aura che lo aveva reso un gigante indistruttibile agli occhi di tutti i Perdenti, durante gli anni di quella lunga, orrorifica estate.

«Non sai quanto mi faccia piacere trovare una faccia amica, in una città tanto caotica. Come tu faccia a viverci, ancora non riesco a spiegarmelo», gli aveva indicato il posto in cui si era già sistemato, accanto a una delle finestre che davano sulla strada e permetteva di avere una visione del traffico cittadino e del turbine della neve.

«Ci sono tante cose che anche io non riesco ancora a spiegarmi, ma eccoci qui.»

Bill sorrise, prendendo posto di fronte a lui, richiamando la cameriera per un rapido ordine.

Eddie non aveva molta fame ma accettò con gratitudine del caffè.

«Allora, che mi racconti? Come ti sta andando?»

Eddie aveva già raccontato a Bill i fatti salienti della sua esistenza delle ultime settimane, degli ultimi mesi, prima della sua partenza per Philadelphia. Era stato il primo, ancora prima di Richie, ad essere messo al corrente del suo divorzio. E il primo a sapere che sarebbe volato a Philadelphia per andare a uno spettacolo del comico Tozier a teatro, dopo aver chiesto una lunga aspettativa dal lavoro. Da lì in poi solo vaghi accenni alla convivenza con Richie a Los Angeles. Una questione che tutti i Perdenti avevano considerato solo come una lunga, meritata vacanza.

«Sei ancora tutto intero, quindi suppongo che Boccaccia non ti abbia fatto a pezzi.»

Sebbene il suo interesse fosse genuino e informale, Eddie non riuscì ad accettarlo con la leggerezza con cui avrebbe dovuto.

«Dovresti preoccuparti per lui, non per me.»

«Oh, cazzo. Hai bisogno di aiuto per occultare il cadavere?»

«Servirebbe un miracolo per occultare una presenza tanto ingombrante, credimi.»

Bill scoppiò a ridere e persino Eddie si trovò, suo malgrado, a sorridere. Una conversazione che avrebbe potuto essere ricalcata pari pari da una delle tante della loro infanzia.

Dio, quanto gli mancavano quei giorni. Da quando i ricordi gli erano tornati, si trovava così spesso a rimpiangere alcuni aspetti della sua giovinezza. Una su tutte la quasi totale mancanza di reali preoccupazioni. Infanticidi a opera di un alieno mutaforma spaziale a parte.

Nel corso della mattinata, Bill aveva preso a raccontargli dei suoi impegni letterari in giro per gli Stati Uniti, delle presentazioni, del nuovo libro con il finale più soddisfacente che la stampa avesse mai avuto modo di recensire, di come fosse rimasto bloccato a New York dopo una tre giorni pazzesca di convegni e ospitate televisive e radiofoniche. Della moglie Audra, di come il loro rapporto si fosse finalmente ripreso, con impennate più o meno felici e di cui Eddie non riuscì a non rallegrarsi.

Eddie rispondeva evasivamente alle domande, cercando di spostare il focus sempre verso l'amico, verso Beverly e Ben, le notizie che riguardavano Mike. Si era sbilanciato sulla gita fatta ad Atlanta per omaggiare Stan e si era sorpreso del rammarico di Bill per non essere stato invitato.

Una classica mattinata fra amici che non hanno occasione per vedersi tanto spesso e che hanno un viscerale bisogno di connettersi.

«E tu, hai già ripreso a lavorare, Eddie?»

La domanda, casuale quanto caustica, gli venne in aiuto come pretesto ideale per portare la conversazione, fin'ora gradevole e spensierata, su un altro livello.

Per quanto tempo ancora avrebbe potuto tacere a Bill, uno dei suoi migliori amici, ciò che quella boccaccia di Richie aveva già in parte rivelato, altrove? Solo a pensarci, ancora sentiva lo stomaco entrare in ebollizione. Quanto avrebbe ancora potuto sfuggire a una conversazione senza cadere nel tranello di infelici menzogne?

Abbassò lo sguardo sulla tazza di caffè ormai tiepido e la fece ruotare fra le mani, stringendosi casualmente nelle spalle. Stanco di pensare, stanco di essere arrabbiato, stanco di fingere.

«In realtà avrei deciso di... licenziarmi.»

Anche se non aveva rialzato gli occhi poteva sentire su di sé lo sguardo sorpreso dell'amico.

«Dici sul serio?»

«Già. E di cercare un altro lavoro a Los Angeles.»

Puntò uno sguardo su Bill all'improvviso, come a sfidarlo a capire quello che gli passava per la testa. Sperando che Bill, avvalendosi di tutta la fantasia creativa che sfruttava nei suoi romanzi, potesse intuire, anche in minima parte, quello che aveva intenzione di dirgli.

Ma Bill se ne restava lì, serio e immobile, aspettando che fosse Eddie, in prima linea e senza appigli, a spiegare, una volta per tutte, ciò che non gli sarebbe stato imboccato.

E si rese conto di quanto in ogni caso, Richie con la sua sconsiderata confessione, gli avessi già di molto facilitato il compito. Un vaso di Pandora ormai destinato a traboccare.

«Ho... intenzione di restare a vivere a Los Angels. Con... con Richie.»

Un'informazione che poteva dire tutto e niente a dire il vero, ma che, se non altro, aveva gettato l'amo per qualcosa di più grosso o così almeno Eddie si augurò.

«Oh, dai, ma è una splendida notizia. Vivremmo molto più vicini di quanto non abbiamo fatto negli ultimi trent'anni.»

Eddie si ritrovò a sorridere. A questo non aveva mai davvero pensato. Ma la prospettiva cominciò a insinuarglisi dentro come un balsamo benefico di coraggio. Eddie Kaspbrak e Bill Denbrough, riuniti di nuovo sotto lo stesso cielo.

«Immagino che partire per Philadelphia sia stata una decisione saggia, dopotutto», Bill gli aveva sorriso di rimando, incoraggiante.

Aveva già capito? O era solo una sua stupida impressione?

«La migliore che abbia avuto da trent'anni, Bill.»

Lo guardò annuire pacificato e soddisfatto da quella risposta. A Eddie tremavano un po' le mani, sebbene non avesse ancora detto niente di davvero compromettente, e il cuore gli pompava nel petto come avesse appena fatto una rapida corsa attorno al locale. Avesse ancora creduto a quella stronzata dell'asma, avrebbe già messo mano al suo inalatore per placare una crisi respiratoria in arrivo.

Ma Bill sorrideva, gli stava seduto di fronte, ed era il suo migliore amico.

«Volare a Philadelphia e scoprire di essere innamorato di Richie Tozier. Assolutamente patetico, no?»

Si ritrovò a trattenere il fiato.

Perché finalmente lo aveva detto, pronunciato ad alta voce, chiaro e limpido più delle acque dei Barren in cui facevano il bagno da ragazzini. Scivolato dalle labbra, come una redenzione, priva di fraintendimenti.

Trasalì quando la mano di Bill afferrò la sua e, rialzando lo sguardo, si trovò a leggergli dentro il fatto che in qualche assurdo modo Bill sapeva, che aveva sempre saputo. Che aspettava, con la grazia e la perseveranza che lo aveva sempre contraddistinto, che Eddie glielo confessasse.

Eddie serrò le labbra e piegò la testa per nascondere il viso, gli occhi che altrimenti avrebbe visto inumidirsi, restituendo con forza la presa della mano dell'amico, tornando a respirare, per la prima volta dopo molto tempo, dopo molti, troppi anni di apnea.

«Farà bene a trattarti con tutti i crismi, quel disgraziato, perché non ci metterò molto a raggiungerlo per prenderlo a calci nel culo.»

Eddie sbuffò una risata liberatoria, sganciandosi da quella costipazione emotiva che altrimenti lo avrebbe trattenuto con lo sguardo a fissare quel tavolo ancora per troppo tempo.

«Mi sottovaluti troppo Big Bill», tornò a guardarlo, ancora rosso il volto, ma grato di quel momento, «temo di essere io a maltrattarlo più di quanto si meriterebbe.»

Il ricordo della telefonata del giorno prima e del trattamento che gli aveva riservato: le ore successive di silenzio passivo aggressivo. Si rese conto di essere stato uno stronzo di proporzioni cosmiche.

«Hai ragione. È che così grande e grosso, alle volte ci si dimentica che razza di palla emotiva sia, Boccaccia.»

«Oh, non ne hai idea... proprio no.»

Risero entrambi, l'aria alleggerita da una confessione che gravava sulla conversazione da troppo tempo.

«Gli altri lo sanno?» domandò Bill non appena la cameriera portò loro il conto.

«Beverly e Ben... ma non per volontà mia. Se capisci che intendo.»

«Beep-beep, Richie.»

Eddie scrollò le spalle, lasciando che la cosa si spiegasse da sola.

«A Mike lo dirò presto, promesso.»

Bills scosse la testa, come a sottolineare il fatto che non era una promessa che doveva fare a lui, ma solo a se stesso.

«Avevo una paura fottuta a dirtelo, lo sai?», ora gli veniva più facile anche scherzare o solo mettere su un piatto le emozioni.

«Però lo hai fatto».

Molto più di quanto non avesse mai confessato a chiunque, fino a quel momento. Nemmeno al diretto interessato era mai riuscito a dire a voce come sei sentiva veramente nei suoi confronti.

«Ero convinto che aver ucciso IT ci avrebbe liberato definitivamente da un sacco di inutili paranoie ma...»

Bill si fece serio, con quegli occhi blu che brillavano di una luce particolarmente rassicurante e fiera, da sempre, da quando non era che un moccioso in sella a una bici che sfidava il diavolo. Ancora un ragazzino determinato e coraggioso, dietro quella maschera da uomo adulto.

«Ucciderlo non ci ha liberato per sempre dalla paura, Eddie», lo vide annuire e piegare le labbra all'insù in un'espressione che sempre gli sarebbe stata familiare «... però ci ha insegnato come affrontarla.»

Denbrough che con poche parole sapeva rimettere in sesto interi universi. Infondere saggezza, calore e conforto. Big Bill. Sarebbe stato quello per Eddie, per sempre.

 

Tornò a casa che faceva buio, ormai. L'intera giornata persa fra ufficio, avvocati e trasloco.

Bill si era offerto di dargli una mano, il giorno successivo con quest'ultimo, dacché il suo volo era stato rimandato e non sarebbe partito che il fine settimana.

Eddie si trovò un po' meno solo, un po' meno perso in una città alla quale, inconsciamente, aveva già detto addio.

Si scrollò di dosso la neve che gli si era accumulata addosso dal taxi all'androne del palazzo e si sfilò di dosso scarpe e cappotto, decidendo di mettere sul fuoco una tisana bollente, prima di fare una doccia e andarsene di filato a dormire.

Decise solo allora di controllare lo stato dei suoi messaggi, del suo cellulare.

Aveva ignorato di proposito ogni impegno per tutto il dannato giorno, con la sola intenzione di non lasciarsi distrarre da niente altro che non fosse il motivo per cui era tornato in città.

E sbrigare tutto con la massima efficienza e rapidità.

Non si sorprese affatto di trovare una quantità di messaggi e chiamate perse, molte delle quali da parte di Richie.

Sentì uno sconsiderato moto d'affetto e un crescente senso di colpa per come lo aveva fatto macerare a fuoco lento per l'intera giornata. Non si sarebbe sorpreso di trovare messaggi che gli riversavano addosso maledizioni della peggior specie. Invece l'ultimo messaggio che leggeva nell'anteprima della chat di whatsapp, riservata alle loro conversazioni, pulsava con un enorme cuore rosso che non era convinto di poter meritare.

Aspettò che il bollitore finisse il suo lavoro e si versò la meritata tazza di tisana, rispose a un messaggio di Bill, per confermare l'impegno del giorno successivo, espresso le sue perplessità con Myra che pretendeva di riavere indietro le chiavi del loro vecchio appartamento in un paio di giorni al massimo, prima di decidersi a mettersi comodo sul divano e richiamare, finalmente, Richie.

Il telefono squillò più a lungo del necessario e Eddie non riuscì a fare a meno di rimanerci male, come si aspettasse che Richie si fosse letteralmente incollato il cellulare sul palmo della mano, pregando per una telefonata.

Solo all'ottavo, agonizzante squillo, qualcuno rispose.

«Eddie! Eddie...» la voce trafelata, come di qualcuno che aveva corso come un disperato per arrivare in tempo. Eddie si trovò a sorridere, odiandosi per questo.

«Ti ho chiamato per tutto il giorno, non hai risposto ai miei messaggi, credevo fossi caduto in un tombino e fossi scappato con le tartarughe ninja.»

Eddie scosse la testa, deciso a lasciarlo parlare ancora un po', non perché godesse particolarmente nel sentirlo affannato a stargli dietro con un sacco di stronzate pur di stemperare la tensione, ma perché fondamentalmente gli era mancato, così come gli era mancata la sua voce, persino le sue stronzate senza senso ed era deciso a godersele per un po'.

Sarebbe morto prima di poter davvero tenere il muso a Richie per più di quarantotto ore filate.

«Eddie mi stai ascoltando? Eds... ti prego...»

La sua voce si era affievolita sul finale e quello fu come il segnale per interrompere quel monologo punitivo.

«Purtroppo ti sto ascoltando. Ne hai dette di cazzate in trenta secondi di conversazione...»

«Eddie...» un sospiro di sollievo che un po' riuscì a sciogliere quel suo cuore di pietra.

«Dovresti pensare a fare un lavoro tipo... l'attore comico. Non sei poi così divertente, ma potresti sempre lavorarci su.»

«Sei ancora arrabbiato?» lo sentì chiedere. La voce che aveva perso un po' della sua baldanza. E la cosa gli dispiacque sinceramente.

«Non proprio», si risolse a dire, stanco di tenerlo inutilmente sulle spine, «no.»

«Avevi ragione, Eddie. Non era compito mio fare quello che ho fatto», Richie era partito, come se non gli servisse che un segnale per cominciare finalmente a parlare, «ci ho pensato tutto il santo giorno, ho pensato anche a come rimediare, ma non credo sia una cosa alla quale si può rimediare. Nemmeno chiamando di nuovo Beverly e gridare: scherzone! Buon pesce d'aprile, anche se è Dicembre. Perciò buon pesce di Natale! Che può sembrare una cosa porno, ma davvero non lo è, perché è il mese del Signore e le volgarità vanno messe da parte per una volta tanto, signor Richard Tozier. E ci ho pensato davvero a farlo, eh. A chiamare Beverly e inventarmi una scusa qualunque per ritrattare. Ma... ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto!» Eddie poteva quasi immaginarselo a gesticolare forsennatamente dietro la cornetta, mettere le mani avanti con aria atterrita e quasi gli venne da ridere.

«Ho provato a chiamarti e ti ho mandato dei messaggi per proporti delle soluzioni efficaci, che potresti leggere adesso o se preferisci te le illustro ad alta voce. Numero uno: fingersi morti. Emigrare verso un'isola del pacifico e ricominciare una nuova vita, dove nessuno sa che siamo gay.

Numero due: portarti in giro per Los Angeles e citofonare a tutti i campanelli e lasciare che sia tu a dire a tutta la città che sei gay...»

«Bisessuale.»

«... numero tre. Eh?»

«Bisessuale, Richie. Sono piuttosto sicuro di essere bisessuale.»

«Oookay. Bisessuale allora. Oh! Perfetto, questo ci porta alla soluzione quattro, dunque. Che era un'altra nei messaggi, e coinvolgeva dei gattini zombie con la faccia di Nicholas Cage, ma la cambiamo, improvvisando. Chiami Beverly, le dici che io mi sono sbagliato e che tu non sei gay, ma sei bisessuale. Che te ne pare?»

Eddie non riuscì a reprimere una risata. Non perché Richie avesse sfagiolato cose particolarmente divertenti (bè, un po' forse lo erano, dopotutto) ma perché era esausto anche solo per cercare di capire che diavolo stesse dicendo.

«Soluzione numero quattro, andata?» riprese Richie interpretando la sua risata come una tregua, «Numero quattro e uno signori della platea, numero quattro e due e numero quattro e tr...»

«Soluzione numero cinque: ti amo», Eddie interruppe bruscamente il conteggio. Un po' per per evitare gli salisse il mal di testa, un po' perché era davvero l'unica cosa da dire, arrivati a quel punto. L'unica sensazione di cui era stato sicuro da settimane, e che gli era esplosa nel petto, inarrestabile dopo la chiacchierata con Bill, quella stessa mattina.

Sentì Richie farsi silenzioso e solo dopo qualche istante, rilasciare un verso ambiguo che poteva essere qualsiasi cosa.

«Oh dio, Richie, non dirmi che stai piangendo.»

«No!», lo sentì negare con troppa veemenza per essere del tutto sincero, «ma tu devi aver battuto la testa, perché Spaghetti non ce l'ha un cuore.»

«Ce l'ho un cuore, brutto stronzo, solo a volte mi rendi difficile capire come usarlo.»

Lo sentì ridere appena e quel suo cuore un po' stropicciato si ammorbidì davvero un po' di più.

«Avrei dovuto registrare la conversazione, non sono sicuro che me lo dirai ancora, tanto presto, vero, Eds?»

«Non dovresti sfidare in questo modo la fortuna.»

«D'accordo», sembrò arrendersi, «ti ho già detto che mi dispiace?»

«Sì. Tipo un milione di volte», esalò assaggiando un po' della tisana che andava raffreddandosi nella tazza, «quello che invece non ho fatto io. Quindi dispiace a me. Non avrei dovuto reagire in quel modo, non stavi cercando di danneggiarmi.»

«Non lo farei mai, Eds...»

In quelle parole tutto l'amore e la tenerezza che Richie gli aveva sempre trasmesso. Si trovò a pensare a quanto fosse stato fortunato: a vivere. A sopravvivere. A ricordare, prima di tutto, cosa significava perdersi nel caldo abbraccio delle sue attenzioni.

«Lo so», si preoccupò di fargli sapere, «a volte mi scordo di aver a che fare con Boccaccia.»

«Cosa facciamo con la foto di quei paparazzi? Potrebbero uscirne altre...»

«Ci pensiamo quando torno.»

«E con tua moglie? Lo devi dire a Myra, suppongo, prima che lo sappia da qualcun altro. Non ti creerà dei problemi con il divorzio o... ?»

Già. A Myra non aveva pensato davvero. Le condizioni del divorzio erano state praticamente decise, ma che fine avrebbero fatto gli accordi non appena sarebbe saltato fuori tutto quanto? Perché Eddie fu certo, in quel preciso istante, di non avere alcuna intenzione di tenere nascosto tutto ancora a lungo. Di negare se stesso e Richie a un mondo che non era più lo stesso di trent'anni prima. Uscire allo scoperto con i suoi amici non poteva essere che l'inizio e Myra, nonostante tutto, forse, aveva davvero diritto di sapere. Anche se era già stato deciso che la loro separazione era avvenuta per ben altri motivi. Non aveva intenzione di fingere, nemmeno con lei.

«Penserò anche a quello, prima di tornare», si risolse a dire, perché non aveva realmente voglia di pensare, in quel preciso istante, sulle dinamiche della questione.

Sentì Richie sospirare, come se avesse intuito quale altro carico di problemi avrebbero dovuto affrontare.

«E quando torni?»

«Prima di dirti un'altra volta che ti amo.»

Di nuovo quel verso, questa volta un po' agonizzante, costruito ad hoc per lui.

«Dillo che stai cercando di vendicarti con l'arma più pericolosa della storia, Spaghetti.»

«Quale arma?» rispose divertito.

«La tua lingua», fece Richie in un pigro sussurro che sapeva di riappacificazione.

«Allora può darsi.»

«Dimmi qualcosa di sporco con quella tua lingua velenosa.»

Eddie ci pensò su, molto seriamente.

«Fango», disse.

Entrambi scoppiarono a ridere e fuori aveva improvvisamente smesso di nevicare.

Eddie avrebbe affrontato tutto, un passo alla volta.

E presto sarebbe tornato a casa.

 

Continua...

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Nota: per chi se lo stesse chiedendo, il passaggio del lebbroso e le malattie sessualmente trasmissibili è stato preso più dal libro che dal film.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

«Non male per essere la prima cosa che scrivi in totale autonomia.»

Richie non riuscì a non riservare al suo manager uno sguardo scettico. Seduti in soggiorno, durante una delle più miti giornate invernali di sempre. Piuttosto in contrasto con l'umor nero di Richie che non faceva che sbuffare e sperare in una catastrofe o una buona notizia per scuoterlo a dovere.

«Non male significa che funziona o non male significa: bel tentativo, Tozier, ritenta e sarai più fortunato?»

Neil si strinse nelle spalle, recuperando il suo smartphone per rispondere rapidamente a un messaggio.

«Sono il tuo agente, non un autore.»

«Mi domando perché diavolo te l'abbia fatto leggere», Richie attirò di nuovo a sé il portatile che custodiva tutto il materiale che era riuscito a partorire in quasi due mesi di lavoro costante e ispirato.

Aveva cominciato a lavorarci durante la sua convivenza con Eddie ed era riuscito a dare un'accelerata consistente, quando Eddie era tornato a New York. Un modo come un altro per tenere impegnata la mente. Non aveva mai realizzato un lavoro tanto intimo e personale. Qualcosa che sperava di vendere a qualche emittente televisiva. Nonostante amasse lavorare a teatro, aveva capito di aver necessità di fermarsi un po', di dare una parvenza di normalità a quella sua vita sempre in movimento.

«Possiamo prendere appuntamento con qualche produttore per discutere di questa tua nuova idea.»

«Ma se hai appena detto... ?»

«Ho detto che sono il tuo agente. Il tuo agente che si preoccupa di farti continuare a lavorare.»

Richie scosse la testa, alzando gli occhi al cielo.

Neil era stato la sua ancora di salvezza in diverse occasioni e si era sempre preoccupato di fargli ottenere quello che desiderava. Nonostante la brusca frenata durante il periodo in cui era fuggito a Derry, praticamente senza dare spiegazioni, Neil era riuscito a risollevare la sua carriera con un paio di agganci piuttosto sorprendenti. E a farlo rinascere, in maniera del tutto nuova e inaspettata, il giorno in cui Richie aveva deciso di gridare al mondo il suo sporco, piccolo segreto.

Non si sarebbe sorpreso, dunque, se anche questa volta sarebbe riuscito a fargli ottenere ciò che più gli premeva, per avere una sorta di stabilità, emotiva e casalinga.

Richie non faceva che proiettare la sua vita nel futuro in quei giorni di forzata solitudine. Cercando di restare coi piedi per terra, per quanto possibile. Al giorno in cui Eddie, finalmente, sarebbe ritornato a Los Angeles. E che forse, si sarebbe definitivamente stabilito da lui.

Le cose però non erano andate esattamente come si erano augurati. Come prevedibile, Myra non aveva reagito in modo pacifico alla confessione di Eddie. E la questione del divorzio aveva preso una nuova, inaspettata, complicata piega.

Le due settimane che si erano interiormente augurati erano diventate quasi un mese. Eddie, ingabbiato fra avvocati e questioni burocratiche difficilmente risolvibili in poco tempo, e Richie, chiuso in casa a scrivere, soffrire di solitudine e stordirsi, le sere insonni, con serie tv di ogni tipo.

Per questo ora la necessità di tenersi occupato in altro modo, a convincere Neil a prendere appuntamenti su appuntamenti, riunioni con produttori e registi.

«Inoltre dobbiamo cominciare a discutere quella tua intervista in tv della prossima settimana. Dobbiamo concordare le domande... e le tue eventuali risposte.»

«Oh, Dio... me ne ero completamente dimenticato.»

«A che servo io, altrimenti?» gli rispose, lo sguardo serio, freddo e pratico, affondato nei messaggi del suo cellulare.

«Vorranno affrontare la questione della tua nuova... fiamma. Fin'ora ci siamo limitati a un no comment, come intendi continuare?»

Richie si passò una mano fra i capelli, prima di recuperare la tazza di caffè, che aveva lasciato raffreddarsi sul tavolo del suo soggiorno.

«È una questione di cui preferirei parlare quando avrò chiara la situazione.»

Neil rialzò lo sguardo, inarcando un sopracciglio. Sorprendentemente posò il cellulare e intrecciò le mani sul tavolo, con aria fin troppo professionale.

«Non posso aiutarti se non mi spieghi com'è, questa situazione.»

Richie sollevò lo sguardo con aria colpevole. Non aveva parlato apertamente a Neil di quello che era successo con Eddie, nonostante fosse impossibile che non avesse capito che poteva essere lui, il vero motivo di tutta quella segretezza. Si erano conosciuti il giorno in cui aveva deciso di portarlo a Los Angeles e aveva saputo che lo avrebbe ospitato fino a data da definirsi. Che erano scappati ad Atlanta e poi... e poi le misteriose fotografie.

«Che cosa vuoi che ti dica, Neil... ?»

«La verità? Sono quindici anni che ci conosciamo. So di te più di quanto abbia mai saputo la tua... terapista...»

Richie sapeva che era vero. Neil era stato il primo e forse l'unico (a parte i suoi amanti occasionali) ad aver saputo, prima del resto del mondo delle sue tendenze sessuali. Lo aveva tirato fuori da situazioni al limite dell'imbarazzante, aveva risolto casini che, da solo, Richie non sarebbe mai stato in grado di affrontare. Era rimasto con lui durante gli anni più difficili della sua carriera, quando non riusciva nemmeno a gestire i suoi soldi o la vita sregolata dell'ambiente e ora si trovava nell'imbarazzante situazione di essere tenuto all'oscuro di una delle cose più importanti che gli fossero capitate nell'ultimo ventennio.

Il problema era che la questione non riguardava soltanto lui, ma anche e sopratutto Eddie. Eddie che stava affrontando, ora, un complicato divorzio, Eddie che ancora non era pronto ad affrontare con il mondo la sua relazione con Richie.

«È complicato.»

«Tu sei complicato, Richard.»

«Su questo puoi metterci la firma», finse di scrivere il suo nome nell'aria, prima di tornare vagamente serio, «è che non sono sicuro che lui sia pronto ad affrontare tutto quanto. A livello pubblico. E per pubblico intendo tutto il baraccone che sta dietro a questo circo che è il mondo dello spettacolo. Non che io sia una celebrità come... Tom fottuto Cruise o Leonardo vattelapesca DiCaprio ma il livello di stress che potrebbe affrontare da una cosa del genere mi mette ansia comunque. Penso che per adesso sia meglio essere discreti. Il più discreti possibile.»

Neil annuì.

«D'accordo», fece schioccare la lingua con un gesto del tutto comprensivo, «evitiamo domande sulla tua vita sentimentale, allora. Se mai dovessero incastrarci con qualche tranello, vedremo come uscirne senza fare il nome di Eddie.»

Richie ebbe un mezzo sussulto. Nonostante avesse ipotizzato che Neil avesse compreso, sentirglielo dire ebbe comunque il suo sporco effetto.

Lo guardò rimettersi in piedi e recuperare il suo cellulare con noncuranza, come se quel segreto fosse solo una questione pratica.

«Le battute casalinghe sono un po' deboli, a proposito. Rivedrei le ultime cartelle, prima di presentare il progetto a un produttore. Per il resto, credo sia uno dei lavori più divertenti e commoventi che tu abbia mai scritto, Richie.»

Alzò lo sguardo, sorpreso e anche preso un po' alla sprovvista con quel commento.

«Pensavo fossi il mio agente, non un autore.»

«Sono anche un tuo fan.»

Neil sapeva sempre come risollevargli il morale.

 

***

 

Richie si aggrappò al lavandino, all'ennesimo, sconfinato conato di vomito.

Aveva esagerato enormemente anche la sera precedente. La sua camera d'albergo era un disastro e a giudicare da come il contenuto delle sue valige era stato rovesciato un po' ovunque, nella sua stanza, il tizio che si era portato a letto la sera prima non era esattamente lo stinco di santo che gli aveva fatto credere. Era quasi certo che se avesse controllato dentro il suo portafoglio non ci avrebbe trovato niente di più che qualche centesimo.

Niente di nuovo nella strabiliante vita di Richie Tozier. Serate in giro per gli Stati Uniti, per il comico emergente più sboccato dell'ultimo decennio, party successivi fra lo scatenato e il delirante, in un eccesso di alcool e droghe di ogni tipo, sesso occasionale con uomini di cui faticava a ricordare il nome.

Di persone che sembrano volersi approfittare della sua neonata popolarità ne aveva incontrati, uomini che non sapevano chi fosse ma avevano una buona idea del suo guadagno, anche. Ladri però... era forse la prima volta che si trovava a dover far fronte a un'emergenza simile.

Ma non aveva nemmeno la forza di andare a controllare.

Si guardò allo specchio ritrovando il volto di qualcuno che, in quel momento lo disgustava enormemente, perciò si lasciò scivolare a terra, vinto dalla nausea e da un'emicrania da primato e recuperò il suo cellulare di seconda mano. Lo usava solo ed esclusivamente per chiamare Neil, il suo nuovo manager. Voleva essere sicuro di non perdersi un solo appuntamento e, considerata la frequenza con cui molta altra gente gli telefonava sul cellulare pubblico, era la soluzione più sensata che entrambi avevano trovato per evitare spiacevoli dimenticanze.

Compose il suo numero senza starci troppo a pensare e sospirò di sollievo, quando, con l'efficienza che lo contraddistingueva, Neil rispose.

«Richard? Hai idea di che ore sono?»

«Non lo so. È buio. Mezzanotte?»

«Sono le tre del mattino», seguì un inquietante attimo di silenzio, «sei ubriaco?»

«Mh. Non al momento. Ma non mi sento molto bene. In più... credo mi abbiano appena derubato.»

«Cristo santo, Richie! Dove sei?»

«In camera mia... a pochi passi da te.»

«Aspettami lì, arrivo.»

Richie impiegò qualche istante per trascinarsi sul pavimento e raggiungere la porta della sua stanza. Si preoccupò di aprirla appena, prima di accasciarsi nuovamente contro la parete, la testa che pulsava dolorosamente.

«Richie?» la voce di Neil, la porta che si apriva e i suoi occhi che lo individuavano nella semi oscurità. Quando l'uomo accese la luce, Richie si trovò a schermarsi come un vampiro alla luce del sole. Uno spettacolo piuttosto patetico, dato che se ne stava seduto, mezzo nudo, sul pavimento di un hotel qualsiasi.

«Mio Dio, ma che diavolo è successo qui dentro?» Neil sembrava aver notato il macello fatto di bagordi. Anche se Richie era piuttosto sicuro di non aver scaraventato in giro tutto quanto per il puro gusto di farlo, per quanto piuttosto brillo.

«Mi piacerebbe ricordarlo...» gracchiò per un istante, socchiudendo le palpebre, «potresti, per favore, spegnere la luce?»

«Certo, certo...» si era abbassato e lo aveva prontamente aiutato a rimettersi in piedi e farlo sedere sul letto, «chi ti ha derubato?»

«Non lo so. Cioè credo mi abbia derubato, controlla un po' se c'è ancora il mio portafoglio...»

Neil si allontanò giusto il tempo di dare una sbirciata in giro e Richie si abbandonò sul materasso, la testa che girava e girava.

«Il tuo portafoglio è qui, mancano carta di credito e... non so, avevi dei contati?»

«Più o meno duecento dollari. No, forse meno... ma insomma...»

«Okay. Chi è questo tizio? Almeno ti ricordi come si chiama?»

«Uhm... Albert? No, Andrew. Non lo so. Non me ne fregava un cazzo di come si chiamasse.»

«Ottimo», lo sentì sospirare ma Richie non si preoccupò di come potesse venir giudicato. La sua preoccupazione maggiore al momento era uscire da quell'impasse alcolica.

«Ce l'hai un'aspirina?»

«No. Ma chiedo alla reception. Intanto dobbiamo capire come bloccare la tua carta di credito.»

«Ci pensi tu, vero?»

«Hai altre opzioni?»

«Sei il mio angelo.»

«Sono il tuo agente, non il tuo angelo, non la tua babysitter. Dovremmo mettere in chiaro questa cosa, un giorno o l'altro.»

Richie sbuffò qualcosa infastidito, cercando di rimettersi seduto.

«Che stai facendo?» gli domandò Neil, vendendolo allungarsi verso il telefono sul comodino.

«Cerco di chiamare la reception per avere una cazzo di aspirina.»

«Ho detto che lo faccio io.»

«Hai detto anche che non sei la mia baby sitter.»

Neil sbuffò e gli diede una manata alla spalla per rimetterlo a posto. Operazione che ebbe davvero successo solo perché Richie, grande e grosso come era non riusciva a mantenersi eretto.

«Resta qui, torno subito.»

Lo vide sparire per qualche istante e fu certo di essere lì lì per addormentarsi quando sentì di nuovo l'uomo al suo fianco, un bicchiere d'acqua fra le mani e l'aspirina nell'altra.

«Ce la fai a prenderla?»

Richie buttò giù quello che gli veniva porto senza farsi mezza domanda. Erano solo due anni che Neil era il suo manager ma gli avrebbe affidato la sua incolumità, senza farsi alcuna domanda a riguardo.

«Grazie...» gli disse, ributtandosi sul letto, un peso sullo stomaco, la testa che ancora pulsava di alcool e malessere. Un groppo in gola che non riusciva ad espellere.

«Adesso riposa, scendo di nuovo. Devo capire come fare una denuncia alla polizia senza far sapere a chicchessia che il tizio che ti ha derubato è lo stesso che ti sei portato a letto. Perché te lo sei portato a letto, giusto?»

Richie riaprì un occhio, cominciando a realizzare proprio in quel momento, il disastro che avrebbe potuto nascere da quell'incresciosa situazione. Un vago senso di umiliazione a macerarlo, lì nel profondo dello stomaco, lo costrinse comunque ad annuire.

«Neil, io non posso permettere che sappiano che...»

«Non ti preoccupare. Ne usciremo, in qualche modo.»

Il modo in cui lo aveva detto, il calore con cui si era preoccupato di farglielo capire, gli fecero improvvisamente pensare che tutto sarebbe andato esattamente come Neil diceva. E le lacrime, quelle vere, quelle bloccate nella gola, cominciarono a scendere copiose, una dopo l'altra.

«Richard...»

«Non chiamarmi Richard per l'amor del cielo, sembri mia madre quando mi rimproverava da ragazzino...»

«Come ti pare...»

lo sentì alzarsi e gli bloccò un polso con la mano, a trattenerlo per un ultimo istante. Incerto di averlo offeso o meno.

«Mi dispiace. So che sei il mio agente, ma sei anche... un amico.»

Neil gli lanciò uno sguardo valutativo.

«Ne sono lusingato. Dio solo sa di quanto tu abbia bisogno di amici, in questo momento...»

Richie fece una smorfia.

«Sono sicuro di averne avuti. Tanto tempo fa.»

Sprazzi di ricordi che di tanto in tanto tornavano a risvegliargli la memoria. Sopratutto quando si sentiva solo. Una mesta rassegnazione e una profonda malinconia che il suo inconscio si compiaceva di stuzzicare. Ne aveva avuti, ne era certo, eppure non riusciva a ricordare i loro nomi, né i loro volti. Sentiva, incessante, il bisogno di parlare con qualcuno che potesse comprenderlo, profondamente, ma nessuno mai era mai riuscito a colmare quel vuoto che sapeva di avere una soluzione, da qualche parte, in quel vasto mondo.

«Cerca di riposare. Io provo a sistemare questo guaio.»

Il ringraziamento se ne rimase intrappolato fra le sue labbra, mentre la stanchezza prendeva il sopravvento.

 

***

 

Le luci di Natale avevano invaso Los Angeles. Nello specifico Pasadena. Sebbene Richie avesse sempre cercato di far credere, a chi non lo conosceva bene, che fosse di Beverly Hills o qualcosa di altrettanto chic, in realtà i suoi compensi da comico non arrivavano a tanto e Pasadena era, in ogni caso, un posto che riusciva a coprire tutte le sue esigenze, senza rischiare di farlo finire sul lastrico per via di affitti inconcepibili. A misura più umana e rilassante. Persino Eddie, che inizialmente era convinto di dover affrontare una stile di vita fatto di ville con piscina e strade silenziose e piene di videocamere, si era dovuto ricredere. Si era rilassato immediatamente a come in realtà la vita di Richie fosse piuttosto banale e ordinaria, da un certo punto di vista.

Il clima natalizio però non aiutava Richie in quella particolare fase della sua esistenza. Non aiutava la sua pseudo depressione, la sua forzata solitudine. Si era chiesto più volte che razza di vita avesse vissuto, fino a qualche settimana prima. Probabilmente infelice e grigia, probabilmente solo molto più impegnata e vuota dal punto di vista emotivo.

Natale in ogni caso non era una festa che amava festeggiare. Nemmeno se richiamato alle armi dai suoi genitori che ancora vivevano nel New England; lontano da Derry, ma sempre troppo vicino a un posto che preferiva evitare per un bel po'. Aveva già fatto sapere loro che avrebbe avuto degli impegni per Natale e comunque: come avrebbe anche solo potuto pensare di allontanarsi se ogni giorno sperava nella telefonata di Eddie che gli annunciava la data del suo ritorno?

Ogni volta che il suo telefono squillava, a dire il vero, sperava fosse Eddie. Ma spesso e volentieri erano impegni che non faceva che declinare.

In quel preciso momento il suo impegno telefonico si chiamava Beverly Marsh.

Stava fissando una vetrina particolarmente zuccherosa e carica di quel melenso spirito natalizio che Richie tanto denigrava, quando si trovò quasi a far cadere il cellulare, per la foga di rispondere.

«Pronto!», disse, dopo averlo recuperato in corner, a seguito di un paio di rimbalzi piuttosto comici, sul palmo della sua mano.

«Richie, tesoro... ?»

«Bev! Luce dei miei occhi.»

«Tutto bene? Ho sentito un certo rumore, prima...»

«Tutto perfettamente nella norma. Stavo imparando il nuovo numero da circo per il mio prossimo spettacolo...»

«Scusa?»

«Niente. Non ci fare caso. Sono in giro a fare shopping.»

«Uuuuh, hai deciso di dare una spolverata al tuo armadio di camice hawaiane tutte uguali?»

«Signorina Marsh il solo fatto che lavori nella moda, non le da certo il diritto di giudicare il mio guardaroba. Dovrebbe riconoscere una sfumatura turchese da una carta di zucchero...»

La sentì ridere e si trovò a fare altrettanto, come non faceva da giorni. Come se ne avesse perso la capacità. Doveva decisamente fare qualcosa per tirarsi su di morale. Entrò in un Café, deciso a stordirsi di zuccheri.

«Che buone novelle porti, oh mia dolce Beverly?»

«Nessuna in particolare, volevo solo sapere come te la passavi.»

Richie si prese un istante per ordinare un frappè al cioccolato da portar via e una ciambella vegana come solo a Los Angeles potevi trovarne in grosse quantità.

«Alla grande. Mi abbuffo per non pensare al fatto che ho deciso di smettere di fumare.»

«Stai scherzando, Richie?»

«Nope, my darling. Questo ragazzo ha deciso di darsi una regolata. Niente più fumo attivo a riempire i polmoni, che ci pensi lo smog!»

Pagò il cassiere, lasciandogli una cospicua mancia per impedirgli di chiedergli un autografo. Di certo lo aveva riconosciuto, perché era arrossito in modo del tutto inadeguato alla situazione. Richie non si reputava certo un qualunque sex symbol da passione istantanea.

«Non è vero! È merito di Eddie, vero? Non è possibile che tu abbia deciso di smettere di tua iniziativa.»

«Dio, Bev, non sono uno zerbino di siffatta natura!» prese un sorso del suo frappè e si sentì subito un po' meglio. O forse era solo avere a che fare con Beverly a farlo sentire meglio, «Sì, d'accordo, forse è colpa di quel nano schiavista.»

«Aw, cosa non si fa per amore.»
«Piantala.»

«Dai, Richie, è una cosa carina, un sacrificio davvero lodevole.»

«Dillo al cadavere del mio manager che giace sul pavimento del mio salotto. Non sono avvezzo a fare a meno della nicotina...»

«Ancora tanto nervoso?»

«Non ne hai idea. L'altro giorno quasi lanciavo una pianta dalla finestra perché ancora non faceva fiori, e poi ho scoperto che era finta.»

«Che idiota...» la sentì ridere di nuovo, «sei sicuro che sia il momento giusto per smettere di fumare? Mi sembri già piuttosto stressato di tuo. Notizie di Eddie?»

Non aveva davvero tutti i torti, ma l'idea di sorprendere Eddie al suo ritorno con uno stile di vita non certo sanissimo ma più tollerabile, era una cosa che aveva deciso nell'esatto momento in cui lo aveva visto partire; non avrebbe certo smesso ora per poi dover ricominciare tutto da capo.

«Non esattamente. È molto... uhm, impegnato.»

Beverly sospirò dall'altro capo della cornetta.

«E tu, Rich, tu sei impegnato?»

«In questo momento a farmi fuori un frappè al cioccolato. Stasera credo ordinerò una pizza e poi...»

«Richie...»

Si fermò di fronte all'ennesima vetrina addobbata a festa, ad osservare il suo patetico riflesso dal vetro. Si sentiva uno sciocco a mentire a se stesso e agli altri su quanto fosse... stupidamente triste.

«Cosa... ?», sospirò, sapendo che Beverly non gli avrebbe permesso di tergiversare ancora per molto, «Non sono esattamente impegnato. Ho un paio di interviste la prossima settimana. E sto cercando di piazzare uno show nuovo per la tv. Probabilmente sarò molto impegnato a breve. Magari dopo Natale, a questo punto.»

«Perché non vieni da noi? Ben ed io saremmo molto felici di averti qui per qualche giorno.»

«Nel Nebraska?» lo disse con aria più sorpresa che schifata, ma Beverly lo rimproverò comunque.

L'invito aveva stuzzicato la mente di Richie più di quanto si fosse concesso di fare fino a quel momento. L'idea di andarsene per qualche giorno, raggiungere amici che lo avrebbero fatto sentire amato, al sicuro e meno solo. Che forse gli avrebbero fatto dimenticare il Natale imminente e tutte le paranoie amplificate dal quel clima d'amore forzato e portato all'ennesima potenza, quando lui si sentiva così frustrato all'idea che qualcuno avesse costretto Eddie a restarsene a New York tanto a lungo.

«Anche volendo non potrei. Sto aspettando che...»

«Eddie torni a Los Angeles.»

Richie annuì ben consapevole di non essere visto, ma conscio che Beverly avesse ugualmente compreso, dal suo silenzio, la sua risposta.

«E poi non credo di essere pronto a vivere qualche giorno con la coppia perfetta per antonomasia. Un colpo al cuore non indifferente per un comico appena passabile.»

«Oh, Richie... potremmo sempre fare un threesome, sono sicuro che, se lisciato a dovere, Ben potrebbe accettare...»

«Ah non tentarmi, Bev.»

Sulle retrovie, da qualche parte, dalla cornetta di Beverly gridò: accettare cosa?

«Manda a Covone tutto il mio amore. Un bacio con la lingua. Ma digli di non preoccuparsi, è comunque troppo etero per i miei gusti.»

Beverly rise di nuovo.

«Tesoro, sappi che siamo qui, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, d'accordo?»

«Lo so. E chi si libera più di voi, ormai?»

«Cretino. Saluta Eddie da parte nostra. E chissà mai che un giorno non giri a noi l'idea di passarvi a trovare.»

«Questa sì che sarebbe un vero evento. Recuperiamo Bill e Mike, ovunque egli sia in questo momento, e organizziamo una reunion di quelle epiche stile Guns n' Roses! Ogni forma d'intrattenimento prevista, tranne i clown. Quelli preferirei evitarli per il resto della mia vita.»

«Beep-beep, Richie.»

«Già, ma per il resto, tutto sarà concesso», smorzò i toni, prendendo un altro sorso di frappé, «è stato bello risentirti Bev.»

«Anche per me, tesoro. Ci sentiamo presto e cerca di non impazzire...»

«Ah, per quello è già tardi. A presto.»

La sentì riagganciare e fece altrettanto. Ancora fermo di fronte a quell'insulsa vetrina che vendeva capi d'abbigliamento sportivo.

Era uscito per fare shopping e nemmeno ricordava più perché. La telefonata di Beverly lo aveva piacevolmente destabilizzato e solo in quel momento decise che se tanto valeva aspettare il Natale, lo avrebbe fatto, cominciando a cercare un regalo per Eddie.

Entrò in quel dannato negozio sportivo e gli dei tutti gli sarebbero stati testimoni se non fosse uscito con i pantaloncini da corsa più aderenti e vistosi che avrebbe trovato.

 

***

 

«Questo è per te...» Richie aveva allungato a Eddie un pacchetto tenuto insieme da pagine di giornale e spago. Un disastroso tentativo di pacchetto regalo. Ma Richie era certo di averci messo tutto l'impegno possibile. Era stato così incredibilmente elettrizzato all'idea di aver trovato il regalo giusto per Eddie da non aver pensato di acquistare anche una carta regalo che potesse fare al caso suo. Ma dopotutto, chi ce li aveva i soldi anche per la carta regalo? Era già tanto fosse riuscito a farsi fare uno sconto dal commesso che era rimasto impressionato dal suo racconto, del perché avesse deciso di fare quel particolare regalo. Il suo potere di persuasione non era poi così malaccio, dopotutto.

Lui e Eddie erano seduti sulle panchine, sul retro del cortile scolastico, quella mattina. Gli ultimi giorni di scuola, prima delle vacanze natalizie. Avevano dodici anni e nessuna preoccupazione al mondo.

«E questo cosa sarebbe?» Eddie sembrava sinceramente sorpreso e altrettanto sospetto sulla natura di quel gesto. Aspettava che l'inganno balzasse fuori all'improvviso, magari proprio fuori da quel pacchetto dall'aria disordinata.

«Un regalo? Forse ti sei scordato di farti il promemoria, Spaghetti, ma fra due settimane è Natale.»

«Oh...» Eddie guardò il pacchetto e poi di nuovo Richie, «giuro che se questo è uno scherzo...»

«Ma perché reagite tutti nella stessa maniera? Per una volta tanto che voglio fare qualcosa di carino per i miei amici!»

Eddie si strinse nelle spalle e recuperò il pacchetto, rigirandoselo fra le mani.

«Posso aprirlo?»

«No. Devi conservarlo così, fino a che non avrai quarant'anni», stronfiò Richie, «certo che devi aprirlo, testa di cavolo.»

«Sì, ma stai calmo...» gli lanciò uno sguardo in tralice, prima di cercare di sciogliere il nodo dello spago con cautela. E poi di scartare il resto, con una lentezza tale che Richie, nonostante l'eccitazione del momento, si appiattì sulla panchina e cominciò a russare sonoramente per fargli capire quanto la cosa fosse frustrante.

«Piantala Richie! Se non lo avessi stretto con tanta forza lo avrei già aperto!»

«Dovresti strappare la carta, non emulare nove settimane e mezzo!»

«Non lo hai nemmeno visto, quel film.»

«Non puoi saperlo...»

Eddie scosse la testa e cominciò a strappare davvero, forse per placare uno degli scatti d'ira che solo Richie era in grado di provocargli.

L'istante successivo si trovò a fissare un paio di paraorecchie color rosso fuoco. Li tirò fuori dal pacchetto, osservandoli con seria curiosità.

«Allora, Eds? Sono di tuo gusto?» saltò su Richie, ora decisamente più elettrizzato dallo scoprire la reazione dell'amico, «un regalo che nemmeno mamma Kappa potrà disapprovare, non credi?»

Eddie fissava il regalo e Richie alternativamente, apparentemente a corto di parole. Ancora incredulo, forse, non si trattasse di uno stupido scherzo.

«Magari con questi ti permetterà di uscire più spesso con noi, durante le vacanze.»

«Io non so cosa...»

«Cosa?»

«Non so cosa dire.»

«Grazie? Di solito si dice grazie, credevo te lo avessero insegnato.»

Richie cominciò a perdere un po' della sua baldanza. La reazione dell'amico non era esattamente quella che si era augurato. Troppo tiepida, troppo cauta e quieta. Non che si aspettasse gli saltasse al collo (anche se una parte microscopica e inconscia del suo cervello, forse si augurava davvero sarebbe andata così), ma che quantomeno reagisse con gratitudine, sì.

«Se non ti piacciono posso sempre andare a restituirli...» fece per allungare una mano e riprendersi il regalo, così come glielo aveva porto con entusiasmo solo pochi attimi prima.

«No!» esclamò allora Eddie, ritraendosi, tenendoseli stretti come fossero la cosa più preziosa che avesse, «sono miei...»

Lo guardò estenderli e solo dopo un istante, indossarli così come si presupponeva facesse.

Sembrava un elfo di babbo Natale. Quel suo giubbotto verde scuro e il cappello di lana, bianco crema, ora aveva anche i paraorecchie a tema. Richie si astenne dal commentare però: sapeva, per una volta tanto, che sarebbe stato decisamente troppo stupido interrompere un momento simile con la sua boccaccia. E poi lo trovava davvero carino. Più del solito, comunque.

«Mi piacciono un sacco, Richie» lo vide sorridere e il suo mondo esplose. L'entusiasmo ripagato.

«Bene! Anche perché ho fatto fuori tutta la mia paghetta!»

«Ah, cavolo Richie, io però non ti ho preso nulla...»

«Non importa... non mi aspettavo un regalo.»

Eddie si sfilò la sciarpa che lo ingolfava come un pinguino e si tirò su, fin sotto al mento, la zip del giubbotto che in ogni caso lo riparava a sufficienza dal freddo.

La sciarpa finì in un nano secondo attorno al collo di Richie, che invece sembrava essersi dimenticato fosse pieno inverno. La giacca semiaperta e il vento a scompigliargli i capelli.

«Che fai?», gli domandò un po' confuso. Il calore improvviso che lo investì non del tutto causato dalla lana attorno al collo.

«Te la regalo. Così siamo pari. E magari eviti di prenderti un malanno.»

«Ouch... ma non ne ho bisogno, io. Sono sano come un pesce persico!», però non se la sfilò quella sua sciarpa. Si rese conto che profumava di Eddie, «tua madre ti ucciderà appena scoprirà che me l'hai regalata.»

«Non mi ucciderà, perché non glielo dirò», fece Eddie con ovvietà, e per un istante parve a Richie quasi imbarazzato per ragioni a lui del tutto oscure, «non è la prima volta che qualcuno mi ruba qualcosa a scuola: i guanti, l'ombrello... di sciarpe ne ho a bizzeffe a casa, non sarà un problema.»

«Insomma il tuo regalo è un riciclo», palesò Richie, con aria di annoiato scherno.

«Se fai così me la riprendo e vaffanculo.»

«Aw, no, ormai mi ci sono abituato, ha lo stesso odoraccio del tuo fiato puzzolente.»

«Richie!» Eddie gli fu addosso, cercando di riprendersi la sciarpa. Finirono a beccarsi per un minuto buono finché non finirono, senza fiato, a causa del movimento e delle risate incontrollate.

«Buon Natale, Eddie Spaghetti» si risolse a dire Richie, una volta recuperato un po' di fiato.

«Buon Natale, Boccaccia.»

 

***

 

La sera porta consiglio, dicono. Ma a Richie portava più paranoie che altro. Seduto di nuovo, da solo, su quel divano che ora gli sembrava troppo grande senza Eddie, a guardare un programma televisivo che, se fossero stati insieme, Richie si sarebbe divertito a interrompere di continuo per stizzirlo.

A volte gli sembrava di essere tornato al periodo che gli piaceva definire AntiEddie, come se il giorno in cui era approdato a Los Angeles fosse stato il giorno X da cui aveva ripreso il conteggio della sua nuova esistenza.

Al periodo in cui si interrogava su cosa stesse facendo Eddie, tornato a New York dopo il ricovero a Derry. Come stesse vivendo la sua vita. Come avesse organizzato la sua esistenza, per riprendersi da un simile trauma. Quando pensava a Eddie, confinato in un appartamento a New York, asfissiato dalle amorevoli cure e dell'ingombrante presenza (di nome e di fatto) di sua moglie Myra. Una donna che gli aveva vissuto accanto più a lungo di quanto a lui fosse mai stato concesso. Che aveva il diritto di amarlo in qualsiasi modo possibile, come mai a Richie, credeva, gli sarebbe mai stato permesso di fare.

Sapeva di non doverla odiare. Di non avere alcun diritto di odiare una persona che a malapena conosceva e che si era sempre presa cura di Eddie. E che probabilmente Eddie, in qualche bislacco modo, amava. Così come aveva amato sua madre (si possono non amare le madri per quanto ce la mettano tutta a rovinarti la vita?). Ma non riusciva a pensare a Myra e non provare un prepotente senso di indignazione, frustrazione e malessere, come se in lei si concentrasse tutto ciò che lui, come uomo, non avrebbe potuto sperare di avere mai.

Ora che invece Eddie era suo, suo per davvero, era ancora Myra a frustrare e allontanare la conquista definitiva di quella felicità che aveva rincorso, più o meno inconsciamente, per tutta la sua vita.

Eddie era sempre irraggiungibile su quel dannato telefono, e quando finalmente riusciva a stabilire un contatto, era talmente stanco fisicamente e mentalmente che le loro conversazioni si limitavano a qualche inutile aggiornamento sulle loro giornate, prima che Eddie lo pregasse, più o meno velatamente, di potersene andare a dormire e poter scacciare un'imminente mal di testa, gastrite o qualsiasi malanno del tutto giustificato, dal clima e dallo stress.

Per quello Richie si era impedito di telefonargli nelle ultime ore. Sempre attento a lasciargli un messaggio incoraggiante. Messaggi ai quali, di regola, Eddie rispondeva prontamente, ma non quella sera.

Richie si trovò ad osservare di nuovo il suo telefono. Nessuna notifica a parte un messaggio di un paio di conoscenti che lo invitavano a uno stupido aperitivo, la sera seguente.

A Richie non fregava un cazzo degli apertivi, anche se avrebbe volentieri affogato tutta la sua frustrazione in una bottiglia di Bourbon. O un'intera stecca di sigarette.

Fu all'ennesima televendita idiota e l'ennesimo sguardo vano al cellulare che si mise in piedi, andando davvero a cercare qualcosa in cucina che frenasse, in qualche modo, quella delirante voglia di fumare.

E trovò la risposta in una bottiglia di whisky ancora intatta, nascosta sotto al lavandino.

La osservò a lungo, ripercorrendo mentalmente tutte le volte che aveva fatto uso di alcool per stordirsi e non pensare e a quanto si sentisse da schifo, il giorno seguente.

I ricordi della sua gioventù, della necessità di tramortire il senso della realtà per non realizzare quanto odiasse la sua esistenza al di fuori della sua carriera. Il senso di colpa ad abbatterlo ancora più del necessario.

Ma ora non era felice? Si era considerato felice nelle ultime settimane, sapeva di essere stato finalmente felice. Un sopravvissuto, in tutti i sensi, che aveva stabilito un equilibrio nella sua esistenza e aveva ritrovato qualcuno, a parte se stesso, per cui valesse davvero viverla appieno quella sua vita.

Che fine avevano fatto tutte le sue buone intenzioni? Eddie era riuscito a renderlo migliore. Eddie e i suoi ritrovati amici lo avevano spinto a capire quanto potesse essere migliore. Stan persino, con quella sua lettera, lo aveva spronato a farlo. E allora da dove nasceva quello stupido, frustrante, inadeguato, ingrato senso di abbandono? Sapeva che si trattava di una situazione temporanea, sapeva che nonostante gli inconvenienti degli ultimi giorni la situazione prima o poi si sarebbe risolta. Preoccuparsi era nella sua natura più di quanto avesse mai realizzato. Un buono spunto di discussione, la prossima volta che sarebbe finito seduto sul divano della sua terapista.

Ricacciò sotto al lavandino quella bottiglia che sapeva di dannazione e inspirò a fondo, focalizzando sulla situazione.

Eddie non rispondeva al telefono perché era un periodo difficile e complesso.

Lui si sentiva solo perché ripercorreva tristemente gli anni più bui della sua vita, prima del ritorno a Derry.

Aveva appena smesso di fumare.

E apparentemente il lavoro aveva subito una frenata, che invece avrebbe dovuto considerare come una meritata vacanza.

I suoi amici comunque erano là fuori, pronti ad ascoltarlo e ad accoglierlo a braccia aperte.

Un'eventualità confortante.

Riaprì gli occhi e annuì a se stesso.

Andò in camera, recuperò una maglia sgualcita, la stessa che Eddie usava per le sue sessioni di jogging mattutino, infilò un paio di bermuda estivi a basso costo, un paio di scarpe da ginnastica del tutto inadeguate, il suo ipod datato e pieno di canzoni d'annata e decise di uscire a correre.

Non avrebbe certo permesso che a ucciderlo fosse la tristezza.

Ci avrebbe pensato la buona salute.

Quando Eddie sarebbe tornato, avrebbe stentato a riconoscerlo.

 

Una settimana dopo, Richie era riuscito ad arrivare a un quarto d'ora buono di corsa ininterrotta, senza rantolare come una medusa sciolta al sole. I suoi progressi erano più che lodevoli, considerato il fatto che l'unica attività fisica che si era concesso negli ultimi mesi era la ginnastica da letto.

Era piuttosto orgoglioso dei risultati. Tanto da averlo spinto persino a parlarne in un paio di interviste televisive alle quali si era sottoposto i giorni precedenti. Non sarebbero andate in onda che dopo Natale perciò era piuttosto certo che, in ogni caso, la sorpresa per Eddie sarebbe stata comunque tenuta al caldo.

L'aveva messa sul ridere, come suo solito, ma la verità era che aveva preso la questione molto più seriamente di quanto avesse preventivato.

Il suo obiettivo era quello di arrivare a correre per almeno un'ora, senza fermarsi. Cosa che, per il momento, gli sembrava una chimera.

Andava a correre la sera principalmente, prima di cena, al tramonto, quando le vie di Pasadena erano più quiete, quando la gente rientrava dalle faccende pomeridiane per tornare a casa, per prepararsi ai bagordi serali. E in ogni caso, momento della giornata preferito a parte, per quanto ligio al dovere, Richie non era ancora pronto a sacrificare le sue ore di sonno mattutino per diventare un cazzo di maniaco della corsa.

Le strade erano addobbate a festa, ma nel tentativo di non sprecare fiato, era concentrato su quello più di quanto non si sfiancasse ad ignorarle.

Mancava meno di una settimana a Natale e Eddie ancora non era certo di poter tornare.

Aveva valutato l'ipotesi di essere lui a muoversi per raggiungerlo a New York, ma si era frenato dal proporglielo per non sembrare ancora tanto disperato. E dopotutto non era sicuro fosse una buona idea farsi vedere assieme in una città a Eddie tanto familiare.

Perciò correva, lavorava e si teneva impegnato con cose che di regola erano ben oltre la sua consueta routine. Chiamando persino i suoi genitori di tanto in tanto, oltre che i suoi amici lontani, e forzandosi di uscire per una cena o un aperitivo con alcuni amici dell'ambiente dello spettacolo che non erano poi tanto malaccio.

Era sul punto di decidersi a fare una pausa per prendere un sorso d'acqua quando il suo cellulare prese a vibrare.

Accese il bluetooth e si fermò accanto a un palo della luce, con la scusa di fare stretching.

«Neil...» rispose, la voce affettata dal fiatone.

«Oddio, non dirmi che stai continuando con quella tua follia del jogging.»

«Invero, mio caro, sono nel bel mezzo di un baccanale... perciò muoviti a dirmi quello che vuoi dirmi così torno a farmi quel tizio con l'uva nei capelli.»

«Spiritoso...» lo sentì stronfiare e sorrise di rimando, stirando il muscolo di una gamba all'indietro, aggrappandosi alla sua scarpa «Sarò rapido. Netflix sembra piuttosto interessata a sviluppare uno speciale con il materiale che gli abbiamo mandato la scorsa settimana...»

Richie quasi cadde a terra per la sorpresa.

«Scusa, come?» si aggrappò al palo come fosse l'unica cosa a mantenerlo stabile.

«Netlix ha mostrato interesse nella sceneggiatura che gli abbiamo inviato la scorsa settimana», ripeté Neil con pazienza, ben consapevole di quello che doveva aver scatenato quell'informazione nella mente di Richie.

«Non ci credo! Non eravamo nemmeno sicuri fosse materiale per quella piattaforma!»

«E invece... Ho fissato un appuntamento con la produzione lunedì prossimo.»

«Lunedì prossimo è il 23 dicembre.»

«E quindi? Credevo non ti importasse nulla del Natale.»

«In effetti... no, non mi importa nulla. Cazzo, sì! Ah, Netflix!»

Richie non si sentiva tanto euforico da... nemmeno ricordava più quanto. O almeno, sì, lo ricordava, ma niente che lo riportasse indietro meno di tre o quattro settimane.

«Segnatelo. Non ho intenzione di mandarti un memo ogni giorno da qui a lunedì prossimo.»
«Non c'è rischio me lo dimentichi, Neil. Netflix! Ho un abbonamento lo sai? Quello a quattro schermi. Pensi che me lo abbuonino nel caso dovessero produrre il mio show?»

«Certo, come no. Ora torna pure al tuo baccanale in tutina sportiva.»

«Neil...», lo frenò prima che riattaccasse, «lo sai che sei il mio angelo, vero?»

«Sono il tuo manager.»

«Yup... metto in agenda di non ringraziarti più.»

«Bravo.»

Richie riattaccò di nuovo, riprendendo a camminare verso casa, assolutamente dimentico che fosse uscito principalmente per fare esercizio. Camminava quasi sulle nuvole, tanto la notizia lo aveva sorpreso.

Se solo qualche mese fa gli avessero detto che avrebbe finalmente potuto arrivare a tanto...

Teneva ancora all'orecchio il suo auricolare bluetooth, quando prese coscienza che la prima persona a cui voleva comunicare la notizia fosse proprio Eddie.

Non ci pensò due volte quindi a far partire la chiamata, sperando di rallegrare anche lui, in qualche assurdo modo.

Ma come prevedibile nessuno rispose, nemmeno dopo un innumerevole quantitativo di squilli a vuoto.

L'entusiasmo si smorzò nuovamente, maledì se stesso per averci anche solo provato e aver così abbattuto la prima vera buona notizia dell'ultimo mese.

Riprese il cellulare e scrisse.

 

Eddie, mi chiami, quando puoi? Ho una bella notizia, magari ti tirerà su di morale.

 

Lasciò cadere di nuovo la mano e riprese a camminare, cercando di restare positivo, per quanto possibile.

Fu solo pochi istanti dopo aver imboccato la via di casa che il cellulare vibrò di nuovo. Non una chiamata ma un messaggio.

Da Eddie.

 

Ne ho una anche io.

 

E a seguire.

 

Alza gli occhi da quel cazzo di cellulare.

 

Richie si fermò di nuovo, osservando come inebetito il messaggio, prima che tutte le sinapsi del suo cervello si connettessero per arrivare alla soluzione più ovvia di quell'enigma.

Rialzò lo sguardo mentre un taxi gli passava accanto. Di fronte ai gradini del suo palazzo, a pochi metri di distanza, c'era Eddie. Eddie e una valigia grossa almeno quanto lui. Eddie con quei suoi vestiti impeccabili da Newyorchese asettico.

«Figlio di...» gli uscì dalle labbra in uno sbuffo, mentre quel piccolo bastardo alzava una mano in segno di saluto, come se nulla fosse. Come se non fosse partito da un intero mese e gli avesse negato le ultime telefonate e risposto a malapena a tutti i messaggi.

Richie cercò di mantenere un certo contegno, auto infliggendosi la pena di riservargli un infastidito benvenuto, cercando di ignorare il rimescolio allo stomaco e il formicolio alle mani, alla gola.

Era certo se la meritasse, un po' di freddezza, quello stronzo.

Ma man mano che si avvicinava e la silhouette di Eddie diveniva più nitida e riconoscibile, il suo sorriso tirato ed esausto dal viaggio si faceva più evidente e quei grandi, immensi occhi nocciola lo guardavano con una certa aspettativa, il contegno andava a farsi benedire, tanto che gli ultimi passi, Richie, li fece praticamente correndo.

E gli finì tra le braccia, serrandolo in una stretta così forte che quasi avvertì l'aria dei suoi polmoni uscire in un rantolo di protesta. Eddie però non sembrò in procinto di lamentarsene dacché gli stava restituendo l'abbraccio con la stessa forza, la stesso identico confortato trasporto.

Richie ne riconobbe il profumo, ne riconobbe il calore e finalmente sentì scivolargli di dosso tutta l'ingiustificata angoscia delle settimane appena trascorse.

Avrebbe voluto dirgli tante di quelle cose che non avrebbe saputo da dove cominciare.

Perciò preferì tacere tutto, tenere i discorsi per un secondo momento, prima di districarsi da quell'abbraccio e coinvolgerlo in un bacio che sapeva non avrebbe potuto rimandare.

 

Se lo trascinarono a lungo quel bacio, mentre cercavano, invano, di raggiungere il loro appartamento, senza riuscire a togliersi le mani di dosso, cercando di non dare inutile spettacolo.

Il tramonto aveva ormai lasciato spazio alle tenebre notturne e Richie se ne stava ancora aggrovigliato a Eddie, nella penombra della sua stanza, su quel letto che sembrava più un campo di battaglia adesso. Lo sentì muoversi e, per l'ennesima volta, gli impedì di allontanarsi troppo.

«Rich... per favore, lasciami andare», la divertita supplica, non fece che causare l'effetto contrario. La sua stretta di fece più serrata.

«Non posso. È una prescrizione medica la mia, dovresti prenderla seriamente.»

«La sto prendendo seriamente, ma se non mi alzo adesso, domani avrò bisogno di un fisioterapista... altro che prescrizione medica.»

«Esagerato. Sempre così drammatico, Spaghetti.»

«Ah, io sarei drammatico?» lo sentì sbuffare una risata e alzò lo sguardo.

«Ehi, non sono io quello ad essere praticamente sparito per un mese in quella orribile città di pazzi furiosi.»

Eddie lo guardò negli occhi, il sorriso che si faceva più quieto, affettuoso.

«Sai che é stata una scelta obbligata... le cose sono state più complesse del previsto», gli accarezzò i capelli e Richie fu quasi sul punto di ritrattare tutto, di chiedergli scusa. Quel piccolo bastardo dagli occhi enormi e irresistibili, «non è stato facile nemmeno per Myra. Se siamo riusciti a trovare un accordo che non mi spezzasse del tutto le gambe, è stato anche perché le ho concesso del tempo per rielaborare le cose.»

«Non sono sicuro di poterla giustificare, a prescindere. Ti ha tenuto in ostaggio per un intero mese», disse Richie. Il risentimento ancora latente che cercava di non far emergere, per amore di Eddie.

«Lo so, ma prova a metterti nei suoi panni. Quando le ho parlato si è subito convinta l'avessi lasciata per te. Quando era già stato stabilito che avevo chiesto il divorzio per altri motivi.»

«Quindi sa che... stiamo insieme?»

«Non le ci è voluto molto per mettere insieme gli indizi.»

«Mi spiace, Eds...»

Eddie gli diede un buffetto sulla testa.

«A me no. Per niente. Ora che lei sa, tutti gli altri possono sapere.»

E Richie capì che lo pensava davvero, riscaldandogli il cuore, frantumando definitivamente ogni inutile, stupida incertezza.

«Adesso...» riprese Eddie con aria decisamente più pratica, «me la vuoi dare la bella notizia che mi avevi promesso o dobbiamo restare qui a deprimerci ancora?»

Richie sorrise e si tirò un po' su, sentendo la schiena incriccata, comprendendo rapidamente quello che voleva dire prima Eddie, riguardo al fisioterapista.

«Certamente, my love. Quale notizia preferisci prima?»

«Ah, perché ce n'è più di una?» gli domandò divertito, la schiena ora appoggiata alla testiera del letto, l'aria sfatta ma deliziosa.

«Yep. Mi sono preoccupato di farti trovare diverse sorprese, per quando saresti tornato.»
«Uuuh, adesso sì che non sto più nelle mutande dalla curiosità.»

«Le tue mutande sono ancora sul pavimento, Eddie.»

«Allora!» lo sentì stronfiare, lanciandogli addosso il cuscino, «vuoi dirmi di che si tratta o devo torcerti il collo, prima?»

«D'accordo, d'accordo...» si ricompose, «La prima notizia è che... potrei aver smesso di fumare.»

Gli occhi di Eddie si fecero grandi, enormi.

«No!»

«Yesss! Un mese intero senza sigarette.»

«Nemmeno quelle elettroniche aromatizzate?»

«Pwah, per chi mi hai preso? Un hippie californiano?»

«Ah! Questa non me l'aspettavo, Rich.»

«Nah, nemmeno io. Ma c'è di più... ho cominciato ad andare a correre. Certo non sono in forma come te, ma... ehi, finché non stramazzo al suolo...»

Eddie cominciò a ridere, incredulo.

«Che cazzo è successo quando sono partito: sei caduto sui gradini di casa e hai sbattuto la testa?»

Richie finse una sorta di sconvolta indignazione.

«Razza di demonio senza cuore...», lo apostrofò di malagrazia, «d'accordo non è ancora finita.»

«Oddio no, che altro hai fatto mentre non c'ero?»

«Hai presente Netflix?»

«Sì... ? Non dirmi che hai disdetto l'abbonamento o potrei ucciderti per davvero.»

«Nope. Però magari avremo l'abbonamento gratuito visto che la produzione si dice interessata a sviluppare uno speciale con la sceneggiatura a cui ho lavorato di recente.»

Adesso Eddie non sembrava né divertito né incredulo. Solo sinceramente sconvolto e forse... estremamente, emotivamente orgoglioso.

«Cazzo, Richie! Sono... sono...» sull'orlo delle lacrime o qualcosa di simile, ma Richie non arrivò mai a capirlo perché Eddie lo ricompensò con un bacio l'ennesimo, fra lo scomposto e l'entusiasta.

Le cose si stavano assestando, Richie riusciva finalmente a realizzarlo.

«Ce l'ho anche io una sorpresa per te...» disse Eddie, non appena si decise a lasciarlo respirare.

«Già... lo sento...» fece Richie, infilandogli una mano fra le gambe, sotto le lenzuola.

«No, deficiente», lo schiaffeggiò divertito, prima di allontanarsi e rimettersi in piedi, «una sorpresa vera. Aspetta.»

Si passò una mano fra i capelli, sospirando appena per quella ritrovata serenità, esausto ma felice, dannatamente felice.

Si sistemò di nuovo su quel materasso ormai allo stremo, guardandolo frugare nella sua enorme valigia che si chiese se non avesse comprato nuova di zecca per portare via molte delle cose lasciate a New York.

Quando ne emerse, lo vide armeggiare per qualche istante, prima di ritrovarselo di nuovo seduto sul letto, nudo, ma con un paio di vecchi, malconci paraorecchie color rosso sbiadito sulla testa.

Ci mise qualche istante a fare il collegamento, ma all'improvviso ricordò tutto. E il suo cuore ebbe un sussulto inaspettato.

La panchina, il pacchetto fatto di carta di giornali e spago, la sciarpa di Eddie.

«Non... ci credo. Li hai... conservati per tutti questi anni?»

Eddie sorrise.

«A quanto pare. Credo sia una delle poche cose che mi sono sempre portato appresso da quando ero ragazzino. Nemmeno so perché... ma ora forse... lo so perché.»

Perché era un suo regalo. Il fottutissimo regalo di un ragazzino che aveva sacrificato la sua paghetta solo per fare una sorpresa al ragazzino per cui aveva una cotta.

«E nemmeno questa volta sono riuscito a farti un regalo di Natale come si deve, ma... magari apprezzi ugualmente il pensiero.»

Richie nemmeno sapeva che dire. Il regalo più grande era stato quello di vederlo tornare, senza preavviso, prima di Natale. Ma la conferma che nemmeno Eddie lo aveva mai inconsapevolmente dimenticato, per tutti quegli anni, fu un regalo ancora più commovente.

Alla faccia di tutti quei giorni passati, ricamati con strati di paranoia.

«Ci moriremo su questo letto, Spaghetti, perché dopo questa, col cavolo che ti lascio andare...»

Lo attirò a sé per il polso deciso a tenerlo inchiodato lì tutta la notte, paraorecchie compresi.

 

Continua...

 

 

Note: avete sentito la mancanza di Eddie per tre quarti del capitolo? Sì, anche Richie. L'idea era proprio quella. Alla fine del capitolo però ci ho preso un po' la mano, e non sono riuscita a esimermi dal farli interagire di nuovo perché avevo bisogno di un po' di sano fluff, perdonatemi. So che questa è una sezione horror ma... con la prossima storia mi impegnerò di più.

Questa nota solo per dire che probabilmente il prossimo sarà l'ultimo capitolo. Devo ancora decidere se metterci anche un epilogo o meno ma... insomma, siamo decisamente alla fine.

In questi giorni leggere e scrivere mi sta aiutando molto e magari ci sarà una piccola sorpresa 'grafica' al prossimo aggiornamento :)

Nel frattempo, saluti a tutti!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 

Eddie lanciò uno sguardo allarmato all'orologio digitale che Richie aveva sul comodino della camera da letto: le dieci passate. Quei numeretti luminosi che irradiavano il tragico avvertimento di quanto fosse in ritardo.

Si guardò allo specchio, cercando approvazione su un look di cui non era affatto certo. Un completo che non rispolverava da mesi. Si raddrizzò la cravatta, una sistemata ai capelli e poi l'ennesimo sguardo all'orologio: «Cazzo», imprecò un'ultima volta, prima di volare letteralmente fuori dalla stanza.

Passò di fronte a Richie che stava sorseggiando pacatamente il suo caffè, al tavolo della cucina, mentre faceva scorrere articoli di giornale sull'ipad. Nemmeno lo vide alzare gli occhi e lanciargli un lungo, valutativo, sguardo.

«Wow... non credevo che ancora ti andasse il completo della prima comunione», commentò divertito, anche se sembrava più ammirato che altro.

Eddie recuperò una tazza di caffè, un'abitudine che ormai era prepotentemente entrata a far parte della sua routine quotidiana e si voltò nella sua direzione, occhiate dardeggianti e tutto il resto.

«Non ti ci mettere anche tu, per piacere. Sono già piuttosto agitato di mio...» si passò una mano sulla cravatta, come a lisciarla, cominciando a chiedersi davvero se non si fosse agghindato in modo troppo formale.

«Aw, Spaghetti, guarda che il mio era un complimento disinteressato, non hai alcun motivo per essere in ansia.»

«Ah, certo, come no. Sono anni che non faccio un colloquio di lavoro.»

«Perché sei una persona noiosa e abitudinaria...»

«Vaffanculo.»

Erano passate poche settimane dal suo rientro a Los Angeles e Eddie aveva deciso che non avrebbe potuto restarsene ancora per molto con le mani in mano. E sopratutto non tollerava più di dover pesare sulle economie di Richie senza dare un contributo essenziale, nonostante lui non fosse per niente contrario a mantenerlo – e godesse enormemente a chiamarlo vezzosamente: il suo concubino.

«Andrà benone, Eds, capiranno immediatamente che razza di scrupoloso, rigoroso, meticoloso, petulante lavoratore tu sia.»

«Hai ingoiato un vocabolario dei sinonimi, stanotte?»

«Non solo quello, mio bel principe...»

Eddie face una smorfia disgustata e passandogli alle spalle gli lanciò una sberla sulla nuca.

«Devo andare», annunciò semplicemente, posando la tazza con il caffè ammezzato accanto a quella di Richie. Quest'ultimo allungò semplicemente una mano, afferrando la sua prima che potesse allontanarsi troppo.

«Sai per che ora finirai?»

Eddie si strinse nelle spalle: «Il colloquio è alle undici, per mezzogiorno sarò libero», o almeno, in cuor suo lo sperava ardentemente. Indossava la giacca da meno di un quarto d'ora e già sentiva caldo e pizzicore ovunque.

«Allora ti raggiungo per pranzo?»

«Ma non devi finire di lavorare alla tua sceneggiatura... ?»

«Dovrò pur mangiare, no?»

«D'accordo», concesse, valutando se allentare la presa per una volta tanto, rendendosi conto di aver davvero bisogno di focalizzare su un supporto morale futuro, in previsione del colloquio, «Ti chiamo quando ho finito», lo sguardo sulla sua mano, «adesso mi lasci andare, per favore?»

«Non ti stai dimenticando qualcosa?» lo frenò di nuovo Richie, con un sorriso che era tutto un programma e il mento proiettato verso l'alto come a reclamare qualcosa che ancora non era arrivato.

Eddie aveva intuito le sue intenzioni ma inarcò comunque un sopracciglio con aria valutativa: «Ho le chiavi della macchina. Il portafoglio. E il cellulare. Ho tutto.»

Richie sospirò un po' esasperato, allentando un po' la presa.

«La tua capacità di distruggere un'emozione è impressionan-», cercò di commentare, ma Eddie si chinò su di lui per rubargli un bacio di commiato e sedare qualsiasi protesta.

«Ci vediamo più tardi», commentò caustico, affrettandosi verso la porta.

«Che bastardo...» biascicò Richie in un sussurro divertito.

 

***

 

La casa era un caos perfetto.

Scatoloni ovunque. Libri e oggetti sparpagliati in ogni dove, fatta eccezione per il passaggio obbligato che portava da corridoio a sala da pranzo e cucina. Non di meno alle camere da letto.

Richie inciampò, per l'ennesima volta, in qualcosa che sbucava fuori dal percorso e per poco non si rovesciò addosso quello che restava del suo caffè.

Non aveva mai avuto particolari problemi a gestire il caos. Da ragazzino viveva in una stanza nella quale sembrava esplosa una bomba: vestiti sparpagliati ovunque, libri introvabili sotto pile di fogli e quaderni di scuola, cassette e compact disk sparsi in giro, in un vortice di fumetti a far da tappeto definitivo al parquet della camera. Ma erano almeno dodici anni che viveva solo (dopo anni di pessimi coinquilini, uno dei quali lui stesso) e da almeno la metà del tempo qualcuno che si occupava di sistemare tutto, mentre lui se ne stava in giro per gli Stati Uniti per i suoi spettacoli.

Quindi si destreggiava, in mezzo a quella folla di oggetti non identificati, con quest'aria di costante meraviglia. Come se fosse stato improvvisamente catapultato in un mondo fantastico e sorprendente. E pure un po' impolverato.

Chi invece sembrava mal sopportare tutto quanto, come immerso in una giungla minacciosa e disgustosa, era Eddie.

«Quello scatolone posatelo laggiù. Laggiù ho detto! Se lo avessi voluto qui, avrei detto qui, no? Siete sordi?!»

Eddie, che con la sua voce d'incanto stava dando amorevoli direttive ai traslocatori.

«State rovinando il parquet, non dovete trascinarlo: sollevatelo!»

Rendendosi assolutamente adorabile ai loro occhi.

Richie fu certo di averli visti attentare virtualmente alla sua vita con gesti piuttosto espliciti. Era riuscito a placarli solo con la promessa di un autografo e una foto ricordo, una volta concluso quel furioso via vai.

Si sedette al bancone della cucina, osservando lo spettacolo come fosse al cinema. Un full HD di Edward Kaspbrak che ronzava in giro per casa sua come un calabrone incazzato, dettando ordini a destra e a manca.

Occhi dell'amore o meno, non poteva fare a meno di pensare quanto adorabile fosse.

«Sapete leggere?! C'è scritto fragile, siete ciechi oltre che sordi?!»

Veramente adorabile.

Lo vide marciare nella sua direzione, fumando come una ciminiera. Richie allungò una mano per versargli un bicchiere di succo d'arancia. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, gli rifilò fra le mani il bicchiere, accompagnandolo con un sorriso tutto denti.

«Grazie», lo sentì stronfiare bruscamente, trangugiandone il contenuto come non bevesse da giorni, per dirigere poi di nuovo la sua attenzione agli operai che non facevano che portar dentro scatoloni.

«Sei più preoccupato tu della mia roba di quanto non lo sia mai stato io.»

«Non c'è solo la tua roba lì in mezzo, ci sono i mobili nuovi. Ci sono le mie cose... qualcuno dovrà pur preoccuparsene, dato che né tu, né quegli scaricatori di porto, sembrano capirne l'importanza.»

Richie ne capiva l'importanza eccome, ma sarebbe stato disposto a vivere in una topaia con un materasso all'angolo e un tavolo malridotto al centro della stanza, purché condivisa con Eddie.

Quando avevano deciso, su suggerimento di Eddie, di lasciare il vecchio appartamento di Richie e andare a vivere in un posto che entrambi avrebbero potuto chiamare casa, Richie era rimasto affascinato dalla perizia con cui si lui era preoccupato di cercare il posto ideale. Pro e contro stilati in una lista che sarebbe risultata maniacale anche al caso clinico più irrecuperabile del reparto psichiatrico di Los Angeles. Eddie gli aveva confessato che gli sembrava di fare finalmente qualcosa di attivo, nella sua vita, dato che Myra, in precedenza, aveva deciso persino il più piccolo particolare nella casa che avevano condiviso per più di dieci anni, così Richie lo aveva lasciato fare. Dopo settimane di ricerche infruttuose, era saltata fuori una villetta, piccola ma funzionale. Di fronte a un rigoglioso viale alberato. Provvista di un piccolo giardino e un porticato che a Eddie sembrava piacere particolarmente. Richie fantasticava spesso su quel porticato, le future serate passate a chiacchierare su una sedia a dondolo che si sarebbe preoccupato di acquistare al più presto. Gli piaceva l'idea di ricominciare in un posto nuovo, diverso. Qualcosa con cui avrebbe potuto creare nuovi ricordi con Eddie al suo fianco.

«Credo che dovresti solo rilassarti un po', non possiamo inaugurare questo posto con un ricovero in ospedale per esaurimento nervoso. Doveva essere una cosa divertente, no?» cercò di incoraggiarlo, accarezzandolo amorevolmente sulla schiena.

Eddie gli lanciò uno sguardo dispiaciuto.

«Lo so, è che vorrei solo che fosse tutto... perfetto?»

Richie gli passò un braccio attorno alle spalle, per attirarlo un po' a sé.

«La perfezione non esiste, Spaghetti, anche se ti ci svegli accanto ogni mattina», si indicò con aria teatrale, incoraggiandolo a ridere, «mi sembra già straordinario poter vivere con te, Eds. Non ho bisogno di molto altro.»

Eddie gli rivolse un sorriso fra l'imbarazzato e il grato.

«Piantala...»

«Sono dei professionisti. Lasciali fare, poi ci pensiamo noi a sistemare tutto come più ci aggrada. E ricorda che il poster di Magnum P.I. lo voglio sopra il divano.»

«Mai nella vita avremo un poster di Magnum P.I sopra il divano, Richie», il cambio d'atmosfera più repentino della storia.

«D'accordo. Allora in camera da letto. Immagina Tom Selleck a darci la benedizione ogni sera e ogni mattina. Come nemmeno nei miei sogni bagnati di adolescente.»

«D'accordo, penso mi trasferirò nell'appartamento accanto», Eddie si districò dalle sue braccia, «Ragazzi, cambio di programma! Fuori tutto, non ci vivo più con questo psicopatico!»

«Ragazzi, ci aggiungo un filmato con gli auguri alla mamma se lo placcate alla porta!»

Persino gli operai si misero a ridere.

 

***

 

Era la prima vera uscita pubblica per Eddie, quella della première dello speciale su Netflix.

Non amava particolarmente essere sottoposto alla tensione della stampa, ma mai avrebbe permesso a Richie di trascorrere una delle serate più appaganti della sua vita da solo.

Non erano passate molte settimane da quando Richie aveva, in qualche modo, reso pubblica la loro relazione. Qualcuno aveva perfino cercato di contattarlo per scrivere un pezzo su di lui, ma Richie era stato piuttosto chiaro sul non avere alcuna intenzione di mettere su pubblica piazza la sua vita privata a favore di gossip da rivista da quattro soldi. Aveva un compagno che rispettava e amava e che era riuscito a dare equilibrio alla sua vita, e di questo avrebbero dovuto accontentarsi. Dopo la prima ondata di mass media che avevano cercato di indagare più a fondo sulla faccenda, di scoprire i retroscena di quel nuovo compagno che, secondo fonti non del tutto specificate, era un amico d'infanzia di Richie, le cose si erano lentamente sedate in una routine accettabile. Di tanto in tanto qualche fastidioso paparazzo faceva loro delle foto, ma la monotonia e la mancanza di scandali di alcun tipo avevano scoraggiato le insistenze della stampa.

Solo l'account instagram di Eddie, che principalmente usava per postare fotografie di scarso interesse e non aggiornava con molta frequenza, era stato letteralmente preso d'assalto dagli ammiratori di Richie, quando aveva pubblicato un selfie di loro due assieme sulla spiaggia di Pasadena. Il pubblico era letteralmente esploso d'entusiasmo: Eddie ne era rimasto dapprima sorpreso e poi si era sentito straordinariamente, inspiegabilmente appagato da una sorta di collettiva approvazione. Infine era stato costretto a mettere l'account in modalità privata, per arginare una cosa ormai andata fuori controllo; ma il danno ormai era fatto. Richie ne aveva riso fino allo sfinimento, spiegandogli che prima o poi ci avrebbe fatto l'abitudine.

Però era certo che niente lo avrebbe mai abituato alle serate come quella. Nè a costringerlo a replicare tanto presto.

I flash dei fotografi, le interviste, l'atmosfera assurda del party di benvenuto e quello di commiato. Le chiacchiere di fondo e le occhiate di celebrità che faticava a riconoscere.

Non era esattamente il tipo di mondo di cui amava far parte, ma lo stupore e l'entusiasmo negli occhi di Richie, quella sera, erano sufficienti a fargli superare l'inadeguatezza del baraccone che girava loro intorno. Non riusciva a capire se era più orgoglioso o innamorato di lui o un misto di entrambi, ma la carica di affetto e ammirazione da cui si sentiva sopraffatto, arrivava a sedare la sua voglia di scappare a gambe levate, anche solo per il modo in cui Richie, per tutto l'arco della serata, si fosse sempre preoccupato di tenergli la mano o rincorrerlo non appena qualche giornalista lo allontanava da lui per rubargli una rapida intervista.

«Ancora un bicchiere di Champagne e corro a vomitare dentro il primo scollo di vestito che vedo», se non altro, nonostante l'atmosfera vip, Richie non sembrava poi tanto diverso dal se stesso di sempre. Eddie lo percepiva come un segnale incoraggiante. L'onestà di Richie come uomo e come artista, imprescindibili l'uno dall'altro, dicevano abbastanza sull'uomo con cui aveva scelto di condividere la vita.

«E allora smettila di bere...» Eddie gli sfilò dalle mani il bicchiere e bevve l'ultimo sorso tutto d'un fiato. Uno shot per darsi l'ennesima botta di coraggio della serata, nonostante i suoi sensi fossero già piuttosto sedati dall'alcool.

«Ehi... vacci piano, Eds o mi toccherà ricordarti chi sei e cosa ci fai a Los Angeles, come l'ultima volta che ti sei ubriacato.»

«Non eravamo a Los Angeles, l'ultima volta che mi sono ubriacato... ma a Philadelphia.»

«Dio benedica Philadelphia!»

Eddie alzò lo sguardo su di lui, un sorriso un po' sghembo. Su questo non poteva certo dargli torto.

La sua vita era completamente cambiata, in meglio, da quando era volato a Philadelphia per assistere al suo spettacolo, senza sapere cosa aspettarsi.

E diavolo! se Richie era maturato in tutti quei mesi. Lo spettacolo che avevano proiettato in anteprima allo speciale per Netflix gliene aveva data ampia conferma. Divertente e commovente. Una storia che ripercorreva gli anni della sua vita, fino ad approdare al sostanziale equilibrio e appagante felicità del presente. Eddie era certo che persino la critica sarebbe stata positiva a riguardo. Uno sguardo sincero e disincantato sulla sua vita. Senza compromessi o censure.

«Sono orgoglioso di te, Richie», disse solo; un po' l'alcool a parlare un po' la reale volontà di dargli quel riconoscimento che gli aveva sempre negato. Non per mancanza di fiducia o apprezzamento: se Eddie aveva sempre mantenuto le distanze era solo perché era certo di non essere la persona più qualificata per poterlo giudicare, in campo professionale o meno.

E Richie sembrò cogliere al volo l'occasione.

«Che hai detto?», lo sentì ripetere, portandosi una mano all'orecchio. Aveva sentito benissimo, lo stronzo. Ma per una volta tanto, Eddie decise di non costruirci una storia attorno.

«Che sono molto orgoglioso di te, Boccaccia!», disse, alzando di almeno un tono la voce, così che a sentirlo non fosse solo lui, ma anche le persone che stavano loro attorno, prendendo Richie di sorpresa.

«Adesso sì che mi viene davvero da vomitare», farfugliò questi, guardandosi attorno, sopraffatto.

«Piantala... e goditela, Rich», Eddie allargò le braccia come ad circondare tutto quanto, «questa gente è qui tutta per te. Una volta riuscivi a far ridere sei ragazzini in una cittadina dispersa nel Maine, adesso arriverai praticamente in tutto il mondo. Sei riuscito a realizzare il tuo sogno e questo è straordinario. Veramente straordinario. Ed io sono orgoglioso di te.»

Ribadire il concetto gli sembrava particolarmente importante in quel momento e quando rialzò lo sguardo si rese conto che Richie aveva gli occhi lucidi. Ormai era una consuetudine così consolidata che fu solo per indulgenza se si trattenne dal sospirare, vagamente esasperato.

«Giuro che non ti farò mai più un complimento in vita mia se ogni volta finisce in questo modo.»

«In che modo? Non sto facendo niente, lo giuro!» stronfiò Richie, sollevandosi gli occhiali per darsi un contegno ed evitare che si appannassero.

«Comunque è buffo, Eds...», riprese, la mano che ancora andava a cercare la sua «è bella questa cosa di Netflix, del lancio mondiale dello speciale e tutto quanto ma... è così strano, perché da ragazzini l'unica persona che desideravo far sempre ridere eri tu», gli disse.

Questa volta fu Eddie ad accusare il colpo. E gli tirò un pugno dritto nello stomaco per impedirgli di specchiasi nei suoi, di occhi umidi.

 

***

 

Se i genitori di Richie avevano accolto in modo pacato e tutt'altro che sorpreso il suo coming out pubblico (asserendo perfino di averlo già annusato, in tempi non sospetti), sembravano invece aver accolto con straordinario entusiasmo l'annuncio che Eddie Kaspbrak fosse il suo nuovo compagno.

Eddie chi? Il ragazzino asmatico che stava a Derry?

Sua madre lo aveva rammentato più rapidamente di quanto non avesse fatto suo padre. Forse grazie alla sua innata capacità di apprendere le cose senza doversi sforzare troppo. Una cosa che Richie aveva ereditato, e che gli era tornata utile, sopratutto durante gli anni scolastici e poi con la sua carriera. La memorizzazione aveva sempre avuto un ruolo fondamentale nella sua vita, lo aveva aiutato a sfangarsela nelle situazioni più assurde. Nonostante un disgraziato clown avesse forzato un po' la mano per costringerlo a dimenticare un paio di dettagli fondamentali della sua infanzia, questa cosa non gliel'aveva strappata per sempre.

Per quello Richie aveva deciso che fosse arrivato il momento di presentarlo ufficialmente ai suoi genitori o meglio, a ricordare loro che, a volte, le cotte infantili tornano e si concretizzano in modo del tutto inaspettato, dopo quasi trent'anni.

I suoi genitori ancora abitavano nel Maine. Ripercorrere quelle strade fu quasi catartico per entrambi, ma meno traumatico di quanto si fossero aspettati. Le terapie a cui entrambi si erano sottoposti dopo l'incubo del ritorno a Derry e tutto il resto avevano fatto la loro parte. E in ogni caso, erano sicuri di non avere più nulla di cui temere. Soprattutto adesso che erano insieme. Richie si sentiva sempre un tantino indistruttibile quando era con Eddie. Pensiero sdolcinato o meno era la sensazione che gli scatenava dentro ogni volta che realizzava quanto fosse stato fortunato a riaverlo nella propria vita.

«Sei troppo silenzioso per i miei gusti, sei nervoso, dottor Kappa?», indagò Richie che stava cercando una scusa qualsiasi per riempire il silenzio stampa: la macchina che avevano affidato loro dall'aeroporto non sembrava essere pratica per la ricezione di alcuna stazione radio.

«Di rivedere i tuoi?», lo sentì pronunciare, distraendosi dalla quieta contemplazione del panorama tutt'intorno. Si voltò nella sua direzione, mezzo sprofondato nel sedile del passeggero e Richie riuscì solo a cogliere il suo sguardo assonnato, prima di tornare a seguire la strada.

«Sì... ? E di essere tornato qui, anche.»

Eddie scrollò le spalle e si tirò un po' su.

«Non particolarmente. Sono solo un po'... pensieroso, tutto qui. Questo posto ti costringe... a pensare.»

Richie non riusciva a dargli completamente torto.

«Ma per i tuoi non sono nervoso affatto», si preoccupò di metterlo al corrente, «ci siamo già sentiti in videochiamata un paio di volte e comunque li conosco da quando eravamo due disgraziati con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate.»

«Eri tu, principalmente, quello con i pantaloncini corti.»

«Ah, ti sei scordato i tuoi bermuda color merda liquefatta?»

«Eddie Kaspbrak! Ma che parole usi?!»

Eddie rilasciò una risata, tornando a guardare fuori dal finestrino.

«No, non sono nervoso di incontrare i tuoi. In realtà sono felice di rivederli. Dovresti esserlo anche tu...»

Richie corrugò la fronte, intuendo a malapena quello che gli passava per la testa, con quella nota un po' malinconica.

«Ma io lo sono. Felice di rivederli, intendo.»

«Non era quello che volevo dire...»

Richie cercò di nuovo il suo sguardo che però gli fu negato. Il riflesso di Eddie dal finestrino, tutto ciò che gli era concesso durante quella rapida distrazione dalla strada.

«Eds...»

Lo sentì sospirare.

«Sono solo un po' stupito, tutto qui.»

«Stupito di cosa?» Richie sapeva che insistendo sarebbe riuscito a farlo parlare senza dovergli tirar fuori le parole con le pinze. Eddie era come un vaso di Pandora, quando lo convincevi ad aprirsi. Con pazienza e tenacia.

«Del fatto che che... insomma, mi abbiano accettato. Del fatto che sembrino entusiasti anche loro di rivedermi. Non li avessi sentiti per telefono probabilmente avrei fatto fatica a credere che non stessero fingendo.»

«Ah, i miei non riescono a fingere, su questo puoi scommetterci. E poi... che vai farneticando? Perché non avrebbero dovuto accettarti? Con un figlio come il sottoscritto, tu devi sembrargli una specie di santo redentore.»

Eddie tornò su di lui, le sopracciglia aggrottate, tipiche di quando stava pensando a qualcosa fin troppo intensamente.

«Mia madre non avrebbe mai accettato una cosa del genere.»

Richie per qualche istante sembrò sorpreso di quella uscita, ma poi capì: Eddie stava pensando a sua madre. Certo che stava pensando a sua madre. Il ritorno verso Derry e tutto il resto. Una madre alla quale, nonostante tutto, aveva voluto bene. Che aveva pianto il giorno in cui era morta e poi tutti gli altri a venire. Che ancora piangeva, di tanto in tanto. Era difficile lasciarla andare completamente, era difficile lasciar andare qualcuno che si era preoccupato di farti sentire così amato, sebbene non nel modo migliore in cui avrebbe potuto dimostrarlo. E così difficile da accettare che mai avrebbe potuto vedere come la vita di suo figlio era cambiata.

«Ma tua madre non è qui per biasimarti, Eds... non- Dio, credevo avessimo affrontato un sacco di volte questo discorso. Non devi cercare la sua approvazione anche adesso.»

Non arrivò alcuna risposta da Eddie e per un tragico istante temette di averlo offeso.

«Non sto cercando la sua approvazione, Richie», lo sentì dire, dopo un lunghissimo, esasperante silenzio «stavo solo pensando che...» Una pausa per trovare le parole giuste forse. «... che nonostante tutto ci avrei provato a portarti da lei così come tu stai facendo con i tuoi. Che non mi sarei vergognato di farlo, capisci che intendo?»

Richie allentò appena la pressione sull'acceleratore per prendersi tempo a voltarsi di nuovo nella sua direzione. La strada era deserta, nessuno avrebbe protestato per questo.

«Credo... di sì?»

«Sì, perché è importante che tu capisca... che non mi sarei nascosto. So che sembra facile dirlo ora che lei non c'è più ma... è importante per me che tu lo capisca. Se avessi una famiglia a cui presentarti lo farei, perché non ci sarebbe stato niente altro al mondo a rendermi più orgoglioso che presentarti alla mia famiglia. Ma tutto ciò che è rimasto della ma famiglia sono... io. E quindi dovrai accontentarti della mia parola...»

Richie accostò al bordo della strada, fermando definitivamente il veicolo.

Per potersi voltare del tutto verso di lui e guardarlo finalmente in viso come aveva desiderato fare per tutto il tragitto.

«Non c'era nemmeno bisogno di specificarla una cosa del genere, Eddie.»

«Invece sì. Invece era importante.»

Richie scosse la testa.

«D'accordo. Se era importante per te allora... va bene.»

«Non trattarmi con accondiscendenza, Rich... per favore.»

«Non è accondiscendenza, ascolta: stai facendo un discorso astruso. Perché non è vero che non ce l'hai una famiglia.»

«Se parli di quella zia che sta nel Vermont...»

«No, ma quale zia che sta nel Vermont, Spaghetti! Parlo di me. Credevo di essere io la tua famiglia, ormai.»

Lo vide sgranare gli occhi e aprire e chiudere un paio di volte le labbra, senza dire una sola parola, come un pesce fuor d'acqua.

«Cosa? Sei la mia famiglia, come lo sono i miei genitori. Forse di più dei miei genitori, dato che in questi ultimi mesi ho visto più te che loro. Ma in ogni caso...» allungò una mano per stringergli una spalla, «se vuoi presentarmi a qualcuno della tua famiglia consideralo già fatto. Credo di conoscermi piuttosto bene. E penso che nonostante tutto potrei accettare che frequenti un tizio come me. Io non mi frequenterei, perciò il tuo sacrificio lo affronto con enorme gratitudine.»

«Sta' zitto, Rich», esalò Eddie in un sussurro incerto.

«No, non credo che starò zitto. Non prima di avertelo sentito dire. Sono la tua famiglia, Eddie? Perché per me lo sei, ma non credo reggerei il colpo se mi dicessi che per te non è lo stesso.»

Eddie restò in silenzio per qualche istante, le labbra che tremavano appena, ancora mute, in un tentativo di dare una risposta che improvvisamente mise anche Richie in agitazione.

«Sei la mia famiglia, Richie. Certo... certo che sei la mia famiglia.»

Nemmeno si era reso conto di aver trattenuto il respiro.

«Bene», sussurrò con aria definitiva, «Bene...» ripeté, prendendosi tutto il tempo per sporgersi definitivamente verso di lui e attrarlo in un abbraccio che Eddie ricambiò senza esitazione.

 

***

 

«Non lo so perché questo cane ci sta seguendo, Kaspbrak!»

Eddie aveva cercato per tutta la mattina di seminare quel cane. Un incrocio fra un bracco e uno spinone color bianco e nocciola.

La sessione mattutina di jogging domenicale si era improvvisamente trasformata in una maratona per seminare quella palla di pelo che non faceva altro che pedinarli. E sembrava particolarmente attratto da quello scemo di Richie che gli dava più corda di quanto meritasse. Lo trattava con troppa familiarità per poter credere che fosse stato un incontro del tutto casuale.

Eddie aveva rallentato per correre al contrario, mentre Richie stava di nuovo accarezzando quell'ammasso di pulci.

«Cristo santo, Richie! Ma non lo vedi quel coso è ricettacolo di germi? È sporco e puzza quando una discarica. Probabilmente ha persino le zecche.»

«Ma quali zecche... ha il collare.»

«Che c'entra? Secondo te un cane con il collare non può avere le zecche? Lascialo perdere, il suo padrone tornerà a riprenderselo.»

Richie aveva rallentato fino a fermarsi.

«Non lo so, Eds, è qualche giorno che lo vedo gironzolare qui attorno. Secondo me si è perso.»

Lo vide chinarsi e dargli una bella grattatina dietro le orecchie. Eddie ebbe un brivido di ribrezzo.

Ma non potè far altro che interrompere la sua corsa, per tornare sui suoi passi.

«Ah! Allora lo ammetti che lo conosci.»

«Non so se lo conosco, non mi ha mai detto come si chiama. Frollino? Cookie Dookie? Chuck Le Blanc?»

E giù a spupazzarselo nemmeno fosse un peluche di cachemire... se mai fossero esistiti peluche di cachemire.

«Ti prego, Richie...»

«Dovremmo almeno denunciare di averlo trovato... che ne so, alla polizia? Non possiamo lasciarlo qui. Da solo», lo vide alzare uno sguardo supplice, «potrebbe finire sotto a una macchina o, Dio non voglia, ingoiare qualche polpetta avvelenata. Dottor Kappa, dall'altro della sua professionalità medica, non possiamo permettere che accada una cosa del genere, non crede? Mh? Non crede?»

«Ma di che polpette avvelenate vai farneticando?» Eddie si ritrovò già esasperato da quella assurda conversazione.

«Non lo sai? Hanno trovato almeno tre cani morti nell'ultimo... anno. Un pazzo. Sono sicuro che solo un pazzo potrebbe fare una cosa del genere a cosini tanto tenerosi.»

«Ma ti senti quando parli?» Eddie si ritrovò a far roteare gli occhi, «Teneroso non è nemmeno una parola.»

«Aw, non dicevi così l'altra sera quando ti cospargevo il corpo di olio balsamico e ti chiamavo con tutti quei vezzeggiativi che...»

«Piantala! Piantala...» si portò una mano di fronte al viso, strizzandosi gli occhi alla base del naso, per recuperare un po' di tranquillità mentale, «ormai è evidente che questo allenamento è saltato.»

Richie si rimise in piedi, il cane che sbavava come e più di una fabbrica di gelatina.

«Quindi andiamo a portare questo teneroso alla polizia?»

«Io non vado proprio da nessuna parte, tu ci vai. E spera che non finisca tutta l'acqua calda per la doccia, mentre sei fuori.»

Qualcosa dovette andare storto in quel discorso perché l'ora successiva Eddie e Richie la passarono entrambi al commissariato alla ricerca dei padroni perduti di tale... Gunter. Un cane che aveva tutta l'aria di essersi davvero perso.

«Signori, credo di avere una pessima notizia per voi...» l'ufficiale di polizia a cui avevano presentato il caso, li stava osservando dietro un paio di lenti a mezzaluna che Eddie era convinto di aver visto indossare solo a Silente, in uno dei duecento film di Harry Potter che aveva intravisto in televisione. Per un attimo Eddie fu convinto che stesse sbirciando in modo un po' troppo insistente la mise di Richie, che per la cronaca non aveva nulla di indecoroso a parte una maglietta tecnica che metteva in evidenza quella sue grosse braccia. Braccia di cui Eddie fu improvvisamente, estremamente geloso.

«Il padrone del cane risulta... deceduto. Da almeno un paio di settimane. Deve essere quel tizio stroncato d'infarto al parchetto dei cani. Una brutta storia.»

«Deceduto? Che diavolo vuol dire: deceduto?!» era scoppiato Eddie, mettendo in imbarazzo persino Richie sulla questione. L'ufficiale gli lanciò uno sguardo fra il perplesso e il risentito.

«Lo perdoni è solo sconvolto dalla notizia», intervenne Richie, e poi, in un mezzo sussurro, «analizza i rischi per lavoro, è una cosa che lo coinvolge sempre a livello personale...»

Il poliziotto fece schioccare la lingua mentre Richie tirava un calcetto a Eddie per sedarlo dal ribattere ulteriormente.

«Qual è la procedura, in questo caso, agente?» gli chiese, per dar modo di far scorrere la conversazione in modo rapido e indolore.

«La procedura è che questo cane finisca dritto dritto al canile...»

Eddie, suo malgrado, rilasciò un sospiro di sollievo: «Ottimo, bene. Ve ne occuperete voi, immagino», disse, sentendo di aver comunque fatto il proprio dovere di buon cittadino. Il poliziotto annuì e si rimise in piedi. L'ombra di Richie però prevenne qualsiasi altra azione e con la sua incredibile stazza si frappose fra l'agente e il... cane.

«No, un momento», disse solo, rendendo palesi le sue intenzioni.

«Richie?» indagò Eddie, già estremamente preoccupato dalla piega della faccenda.

Lo vide alzare una mano come a impedirgli di parlare.

«E se invece trovassimo qualcuno disposto ad adottarlo e prendersene cura, prima che finisca al canile?»

Il poliziotto inarcò un sopracciglio.

«Se il passaggio di proprietà viene registrato regolarmente all'anagrafe canina, non vedo perché no.»

Eddie sentì qualcosa di pericoloso serpeggiargli nello stomaco. Qualcosa che sembrava più panico che altro.

«Richie, ma che diavolo stai... ?»

«Conoscete qualcuno che potrebbe prendersene cura?» investigò il poliziotto, intuendo la risposta così come l'aveva già tragicamente compresa Eddie.

«Direi di sì!» Richie aveva risposto con troppo entusiasmo per essere ancora fraintendibile. «Questo cucciolone viene a casa con noi!»

«No!»

«Sì!»

«Richie!»

«Signori... ?»

Eddie lo sentirono urlare fino al terzo piano della stazione di polizia. Fu un miracolo se non passò l'intera nottata in cella.

 

***

 

«Sei proprio sicuro che non sia stata una sua idea, quella di portare a casa Gunter?»

Richie annuì con molta convinzione, mentre Mike si riempiva un altro bicchiere di vino.

Stavano entrambi osservando Eddie, fuori in giardino, in compagnia del cane. Avevano perso il conto di quante palline gli avesse lanciato affinché gliele riportasse, da quando aveva annunciato che lo avrebbe fatto muovere un po', per paura di vederlo ingrassare nel tempo quanto il suo padrone. Richie, nella fattispecie.

«La cosa divertente è che ha cercato di fingere che non gliene fregasse niente per almeno un paio di giorni, quando è venuto a casa con noi. E ora guardalo: la più affettuosa della madri», sospirò Richie, portandosi una mano al cuore con trasporto.

«Aw, Eddie ha un cuore buono, sotto quella corazza da...»

«Furetto isterico? Non hai nemmeno idea di quanto.»

«Furetto isterico?» rise Mike, sorseggiando il suo vino, «spero non sappia che lo chiami così o rischi di far esplodere casa.»
«Oh, ha nomignoli molto più coloriti di quello, te l'assicuro. E a riprova del suo cuore buono, posso dirti che alla fine, li accetta tutti quanti.»

Mike sorrise benevolo. Era arrivato a Los Angeles da un paio di settimane e dopo essere stato ospite di Bill e sua moglie Audra, era approdato da Richie e Eddie che gli avevano riservato una stanza per qualche giorno. Il suo viaggio non si era ancora interrotto, dopo anni di stallo a Derry. Stava scrivendo un libro e il suo anno sabbatico andava alla grande, a suo dire.

Mike meritava, forse più di tutti gli altri, di ricevere grandi soddisfazioni dalla vita, dopo essere stato il guardiano solitario di una cittadina maledetta. Di risorgere e prendersi tutto ciò che si era sempre negato.

«Non siete cambiati molto da quando vi conosco...» commentò.

«Vuoi dire che siamo rimasti due ragazzini?»

«Anche. Ma fidati se ti dico che è una cosa... estremamente confortante.»

Richie gli lanciò uno sguardo sorpreso, ma grato.

«Credo di capire che intendi.»

E lo capiva veramente. Sapere di aver recuperato con gli anni, tutta quella genuinità a cui era stato abituato da ragazzino. Ne aveva più che mai bisogno. E per Mike sembrava lo stesso.

«Ti ricordi il giorno in cui Eddie è partito da Derry?»

Richie sgranò gli occhi con uno sbuffo, quasi divertito.

«Credo non riuscirò a scordarlo di nuovo tanto facilmente», il batticuore, il trauma, la nostalgia, il cuore spezzato. Cose che non era certo di voler ripercorrere tanto presto.

«E te la ricordi quella lettera che ti ho aiutato a scrivere e che ti sei portato via... quando sei stato tu, quello a lasciare Derry?»

«Credo... di sì. Non ricordo esattamente cosa ci avevo scritto ma... penso di averla buttata qualche giorno dopo il trasloco. Ho dimenticato tutti voi con una rapidità sconcertante», e lo rammentò con rammarico e rimpianto, come fosse stata colpa sua, l'aver dimenticato.

Forse aveva cominciato a dimenticare tutti loro nel momento stesso in cui avevano varcato i confini della città. Non riusciva a pensare a niente di peggio.

Si era distratto con questi orribili pensieri giusto il tempo di vedere Mike armeggiare con la borsa che aveva posato a terra, accanto al tavolo di cucina e tirarne fuori un quaderno dall'aria decisamente vissuta.

Richie non seppe perché, ma il suo cuore prese a battere più rapido.

Guardò Mike allungargli quello che aveva l'aria di essere un vecchio foglio di quaderno, ingiallito dal tempo. Di almeno trent'anni.

«Non me lo dire...» esalò incredulo, riconoscendo immediatamente la propria scrittura e tutto l'inchiostro sprecato a cancellare e riscrivere frasi.

«Ho conservato la brutta copia, già. Ero convinto che un giorno sarebbe... servito a qualcosa. E immagino di aver fatto bene, visto come sono andate le cose. Credo che sia arrivato il momento che arrivi al suo destinatario.»

Richie recuperò la lettera, osservandola con un misto di nostalgia e commozione. Il se stesso di quattordici anni che guardava al futuro, convinto avrebbe avuto modo di rivedere molto presto tutti i suoi amici. E nello specifico Eddie. Lo stesso Eddie a cui aveva dato il suo primo bacio e che aveva pianto per giorni, dopo la sua partenza. Che aveva fantasticato di riabbracciare, con cui aveva immaginato di poter costruire un futuro, un giorno, nell'innocenza della sua gioventù. Lo stesso Eddie che adesso, per un fortuito e straordinario caso del destino, ora camminava per il giardino della casa che avevano scelto assieme, a giocare con il cane che avevano adottato assieme.

«Questo è veramente un tiro mancino, Mikey. Mi ero ripromesso di non mettermi a piangere come un deficiente quando sei entrato da quella porta, ma adesso...»

Mike gli diede una pacca sulla spalla, mal trattenendo una risata.

«Bill me lo aveva detto che sei diventato un sentimentalone, ma non pensavo fino a questo punto.»

«Lo sono sempre stato! Solo che non potevo farvelo vedere, ragazzi, andiamo. Avevo una reputazione da duro da difendere.»

«Oh, sì, ti ci sei sempre impegnato parecchio a farcelo credere.»

Si umettò le labbra e ripiegò la lettera, deciso a tenersela buona per quando il momento sarebbe stato opportuno.

«Ma il contenuto di quella lettera già diceva tutto il contrario. In una qualche misura speravo sarebbe finita così.»

«Così, con me che piango come un cretino?»

«Così con noi... ancora tutti insieme.»

Quando Eddie rientrò per lavarsi le mani da un Gunter che lo aveva sbavato più del necessario li trovò abbracciati.

«Per l'amor di Dio, mi sono allontanato solo per mezz'ora!»

«Non fare il geloso, Kaspbrak!» lo rimbrottò Mike, raccattandolo per un braccio e costringerlo a unirsi a quella disgustosa manifestazione d'affetto collettivo.

 

***

 

Eddie a volte ancora si svegliava nel cuore della notte, residui di un incubo che scivolavano via non appena riapriva gli occhi. La sensazione di disagio restava per qualche istante per poi evaporare, nel momento in cui si rendeva conto di avere Richie al suo fianco.

Spesso si prendeva del tempo per osservarlo, mentre dormiva. Le labbra appena dischiuse, i capelli arruffati e la sensazione del suo calore tutt'intorno alla stanza. Di tanto in tanto si rendeva conto che anche lui sognava. Probabilmente alcuni incubi sarebbero stati duri a morire. Probabilmente se li sarebbero portati appresso per sempre. Ma in fondo, un monito per non abbassare mai la guardia su una felicità che si erano tenacemente guadagnati.

Richie quella notte però non dormiva. Quando Eddie riaprì gli occhi, scosso dal brivido di occhi gialli nell'oscurità, sentì il calore della sua mano sul viso, dell'altra sul cuore. E furono i suoi di occhi che incontrò, rassicuranti e benevoli, anche se ancora un po' assonnati.

«Scusa...», mormorò incerto Eddie, «ti ho svegliato io?», si preoccupò di chiedergli. Non sapeva mai quanto fossero agitati i suoi sogni, finché Richie non gliene dava conferma, il giorno successivo.

«Nah...», il calore della sua mano sul cuore, mentre il battito accelerato lentamente si placava, «cos'era stavolta? Hai dimenticato di pulire le zampe al cane? O di spegnere il telefono prima di metterlo sotto carica?» Il modo in cui sdrammatizzava sempre, in questo caso era molto più che ben accetto.

«Forse non ho chiuso la porta del capanno in giardino», gli diede corda, in un rito che era diventato ormai consuetudine. Riportare gli incubi alla realtà quotidiana. Per averla sottomano, per renderla reale e concreta.

«Ouch. Domattina potremmo dover avere a che fare con una mandria di scoiattoli impazziti.»

«Non credo che gli scoiattoli si radunino in... mandrie. Forse branchi.»

«... e questo è tutto per oggi, su National Geographic.»

Eddie sorrise, andandogli incontro, cercando le sue gambe con le proprie.

«Torna a dormire, Richie.»

«Tornaci tu, io ho intenzione di restarmene qui ancora un po' in contemplazione del mio Spaghetti.»

«Contento tu...»

Lo sentì attrarlo a sé, avvolgerlo con le braccia. Se l'indomani avesse avuto mal di schiena per la posizione scomoda non se ne sarebbe lamentato più di tanto.

 

***

 

Richie sbirciò fuori dalla finestra che dava sul porticato di casa.

Come previsto Eddie si trovava lì, un manuale di lavoro sulle ginocchia.

Le sere autunnali in California erano miti e gradevoli e sapeva che finalmente avrebbero potuto sfruttare appieno il potenziale di quel dondolo tanto anelato, senza doversene necessariamente restare chiusi in casa con l'aria condizionata.

Recuperò un paio di bottiglie di birra fresca e uscì, lasciandosi investire dal profumo di cespugli odorosi. Gunter sonnecchiava in un angolo, accanto alla sua ciotola dell'acqua, come si fosse addormentato poco prima di ricordare che era uscito per bere.

Richie si sedette accanto a Eddie. Il dondolo cigolò rumorosamente, interrompendo per qualche istante il quieto silenzio del vicinato. Di tanto in tanto, rumori delle abitazioni vicine o di una macchina lontana.

«Tieni...» gli allungò una birra. Eddie rialzò la testa dal suo tomo fatto di dati statistici e formule che Richie non avrebbe mai compreso e l'accettò con gratitudine.

«Ancora fermo sulla tua presentazione di domani?» gli chiese retoricamente.

Era una settimana che Eddie si stava preparando, studiando tomi di libri e appunti dall'aria disordinata. Promozione in arrivo o meno, Richie ammirava la sua dedizione.

«Già. Ma penso di poter fare una pausa». Richiuse il manuale con un tonfo sordo e lo sistemò a terra, accanto a una pila di quaderni per gli appunti. Lo guardò stappare la sua birra: il tappo fece un verso buffo che svegliò il cane.

«E' arrivata una lettera», lo sentì dire, indicando con la testa una busta color avorio posata sul tavolino, accanto al dondolo. Il tono di Eddie non sembrava così casuale come voleva far credere. Richie ormai poteva dirlo a occhi chiusi.

«Per me?»

«Anche...» lo sentì indugiare, prima di portarsi la bottiglia alle labbra e mandare giù un corposo sorso di birra.

Richie lo guardò con sospetto e si allungò per recuperarla. La busta era già stata aperta e riportava sull'intestazione, l'indirizzo di Ben Hanscom e Beverly Marsh.

«Perché quei due idioti ci hanno mandato una lettera?»

Eddie si strinse nelle spalle, ma non lo guardò. Si rese conto che stava fingendo solo quando capì che la lettera era già stata aperta. E probabilmente già letta.

Ne sfilò il contenuto con sospetto, ritrovandosi a stringere fra le dita un biglietto dall'aria sofisticata. Sopra di esso erano incise lettere color argento e oro che annunciavano, senza troppi fronzoli, un matrimonio.

«Ma che figli di...» esalò Richie, rialzando lo sguardo su Eddie che gli stava restituendo un'occhiata piuttosto esplicita.

«Perché non ci hanno detto niente l'ultima volta che ci hanno chiamati?!» nemmeno si rese conto di aver alzato la voce di almeno un'ottava.

«Forse volevano farci una sorpresa», scrollò le spalle Eddie, che però stava già sorridendo, deliziato dalla reazione di Richie o forse solo dalla notizia.

Un matrimonio. Richie si era chiesto per mesi quando Ben e Beverly gli avrebbero annunciato una cosa del genere; in fondo era prevedibile, era nell'aria ma ora che gliel'avevano presentata su un cartoncino color avorio tutto imbellettato di lettere arzigogolare era riuscito comunque a restarne sorpreso.

«Diamine, sì che è una sorpresa. Chi cazzo si sposa in inverno?»

«Bev e Ben, a quanto pare», commentò serafico Eddie, posando la birra e ripulendosi le labbra con il dorso della mano.

Richie continuava a leggere e rileggere il cartoncino, sentendo qualcosa di caldo e piacevole alla base dello stomaco. Una conferma che la vita stava davvero andando avanti, stava completando il suo corso. Due anni interi erano trascorsi da quando erano tutti quanti riusciti a rimettere mano al proprio destino. Due anni interi dove finalmente avevano potuto scegliere in piena facoltà e consapevolezza di chi fossero, cosa farne, del resto delle proprie vite.

Se guardava indietro a tutto quello che aveva dovuto affrontare per arrivare lì, in quel momento, non rimpiangeva un bel niente. Nemmeno le scelte peggiori che aveva fatto negli anni più bui della sua esistenza. La scalata lunga e dolorosa per approdare a un sentiero in pianura, non privo di ostacoli ma decisamente più agevole.

«Bè, immagino dovremo chiamarli per complimentarci con loro.»

«Magari domani», sbadigliò Eddie, «anche Bill è d'accordo». Alzò il cellulare per mostrargli la conversazione che si erano scambiati, forse poco prima che Richie uscisse con le birre.

Farli penare un po' per la mancanza di tatto nel comunicare loro la notizia.

«Mi sembra giusto. Suspence. Siete due stronzi quando vi ci mettere tu e William, lo sai questo, vero?»

«Non siamo stronzi, solo vendicativi. Ci faremo perdonare con un regalo a sorpresa quando meno se l'aspettano.»

«Diabolici.»

Eddie rise appena, mentre Gunter di nuovo assopito, sbuffava rumorosamente e muoveva le zampe posteriori, sognando qualcosa.

Richie posò di nuovo la busta sul tavolino, aprendo a sua volta la birra.

«Chissà perché i matrimoni generano sempre così tanta felicità. Insomma... sono solo due firme su un contratto, no?» domandò, senza sapere esattamente dove volesse andare a parare.

«Immagino che le persone siano ferme a un concetto romantico di amore eterno. Contratto o meno. La conferma di una... promessa?» disse Eddie, pensieroso.

«Immagino di sì.»

«Anche se la storia e la statistica ci insegnano che niente dura per sempre, men che meno i matrimoni, sopratutto in America.»

Richie si volse per guardarlo: «Però tu ti sei sposato comunque.»

Eddie fece una smorfia e scrollò le spalle come a sottolineare il concetto.

«E faccio parte di quella percentuale di divorzi.»

«Oh, andiamo, di certo quando ti sei sposato non pensavi al divorzio.»

«Se lo avessi fatto, sarei stato più furbo, stipulando un contratto prematrimoniale conveniente. Ma Myra non era d'accordo... ed io neppure.»

«Allora ti sei sposato per amore, vedi?»

Eddie fece schioccare la lingua e bevve un altro lungo sorso di birra, forse per non esprimere immediatamente quello che gli girava per la testa.

«Mi sono sposato perché mi sembrava giusto farlo. Perché è quello che la gente si aspetta. Perché è così che funziona la società.»

Richie riuscì a cogliere l'amarezza nelle sue parole. Il senso di oppressione.

«Mi sembra una considerazione piuttosto cinica.»

«Lo è.»

«Quindi pensi che anche Ben e Beverly si sposino perché è giusto farlo?» tentò Richie, affatto consapevole del perché, improvvisamente, quella conversazione avesse assunto dei toni tanto importanti per lui.

Eddie non rispose subito, si prese del tempo per finire la sua birra e posare a terra la bottiglia vuota.

«No. Penso che si sposino perché è quello che si meritano», sorrise, «posso essere cinico su tante cose ma non su quello che provano i miei amici.»

Richie si ritrovò a sorridere a sua volta, di nuovo quella sensazione di calore in fondo allo stomaco, che no, non era per via della birra. Se lo guardò in modo strano nemmeno se ne rese conto, ma l'espressione sul volto di Eddie si era fatta improvvisamente troppo seria e valutativa per ignorarla.

«Che c'è?» gli domandò, toccandosi il viso come se ci fosse qualcosa che lo aveva costretto a guardarlo in quel modo. Ma sotto sotto impaurito che avesse colto il pensiero che era appena sbocciato nel suo cervello.

«Niente», gli rispose, prima di guardarlo rimettersi in piedi, e recuperare appunti, libri e bottiglia della birra vuota, «penso sia arrivato il momento di andare a letto, domani sarà una giornata intensa.»

Richie annuì, facendo ballare appena la birra rimasta nella sua bottiglia, accogliendo a occhi chiusi il bacio che Eddie si preoccupò di fargli arrivare sulla fronte. Lo sentì indugiare più del necessario, prima di lasciarlo andare.

«Porta dentro il cane, quando rientri. Non fare tardi», gli disse.

Richie annuì e lo seguì con lo sguardo fino a che la porta di casa non si richiuse alle sue spalle.

Lo sguardo tornò di nuovo sull'invito di matrimonio.

Il pensiero stava già germogliando e crescendo nella sua testa e sapeva che non sarebbe stato così facile estirparlo.

«Sei un coglione...» commentò, portandosi una mano al viso.

Gunter guaì nel silenzio, in segno di mesta approvazione.

 

***

 

Eddie fu svegliato dall'odore di qualcosa che stava bruciando.

Se inizialmente aveva pensato si trattasse solo dello strascico di un sogno particolarmente realistico, ben presto si rese conto che no, quello che sentiva non poteva essere una proiezione onirica del suo subconscio. La puzza di bruciato era reale e vagamente nauseabonda. L'insistente latrato di Gunter, anche. Si trovò seduto sul letto vuoto in un istante, a scendere dal materasso con il rischio di inciampare nei suoi stessi piedi per la fretta e precipitarsi verso la cucina, seguendo la scia di fumo che sapeva provenire da lì.

«Che sta succedendo?», chiese, adocchiando il cane che trotterellava nervoso, chiuso fuori in giardino, poi Richie in piedi dietro ai fornelli e subito dopo la vampata di fuoco che stava crepitando allegramente in una delle padelle.

Eddie accorse in aiuto, mentre Richie stava tentando di riempire una brocca d'acqua per spegnere l'incendio.

«Fermo, fermo! Per l'amor di Dio, niente acqua!»

Si chinò verso uno scaffale della cucina, per recuperare un piccolo estintore che si era preoccupato di acquistare in tempi non sospetti e dopo averlo sbloccato ne scaricò un po' addosso al fuoco che si spense con uno sbuffo inappagato.

Restarono così, fermi a contemplare il piccolo disastro di polvere bianca che ora imbrattava la cucina e i residui di fumo che si sparpagliavano pigramente per la stanza.

A Richie uscì un singolo, distratto colpo di tosse.

«Ma che stavi facendo?» domandò Eddie, posando l'estintore sul piano di cucina, osservando il contenuto della padella che ora non aveva più una forma riconducibile a nessun alimento commestibile.

«Cercavo di preparare uova per colazione», commentò, con una nota sconsolata nella voce.

«Flambè?»

«Non esattamente...» lo vide allungare la mano verso il manico della padella e ritrarla immediatamente per paura di scottarsi, «immagino che non si possano salvare adesso.»

«Direi di no», commentò Eddie, un po' rammaricato del fatto che gli incomprensibili sforzi di Richie si fossero esauriti tanto drammaticamente. Aprì la finestra lì accanto e improvvisamente gli venne da ridere.

«Non ci provare, Eds...», lo ammonì Richie, ma si capiva dal modo in cui aveva piegato le labbra che stava cercando di dissimulare lui stesso l'impulso di sghignazzare, «volevo farti una sorpresa.»

«Oh, sicuramente ci sei riuscito. Svegliarsi con la cucina in fiamme... grossa sorpresa», gli diede una pacca sulla schiena, mettendosi a ridere davvero ora: Richie non tardò a seguirlo, lasciando crollare tutta la spinta d'orgoglio che gli aveva impedito di farlo immediatamente.

«Ordiniamo qualcosa al bar all'angolo?» propose Eddie.

«Immagino che riprovarci non sia nelle opzioni.»

«Non prima di ripulire questo sfacelo almeno», aprì un cassetto e ne tirò fuori un paio di stracci, «tieni. Recupero i detersivi e chiamiamo il bar.»

Richie annuì sconsolato, recuperando la padella per svuotare le sue povere uova carbonizzate nel cestino della spazzatura. Per la prima volta Eddie realizzò che sembrava tenerci davvero.

«Ci possiamo riprovare domani se vuoi...» gli disse, avvicinando il tavolo, rendendosi conto solo in quel momento che era stato apparecchiato con tutti i crismi: tovaglioli puliti, le tazze per il caffè che avevano comprato a un mercatino dell'usato con le loro iniziali, del pane bianco, biscotti e marmellata e spremuta d'arancia in brocca. L'attenzione per i dettagli gli scaldò il cuore. Si chiese se non gli fosse sfuggito qualche evento particolare: ma il compleanno di Richie era ancora lontano, il proprio era già passato. E l'anno insieme lo avevano festeggiato un paio di settimane prima, bevendo birra e sbocconcellando pizza, con una maratona di horror in sottofondo, ai quali non avevano prestato grossa attenzione, intenti a far tutt'altro sul divano del salotto (grazie al cielo, privo della benedizione di Tom Selleck e del suo magnum P.I, poster che, per la cronaca, era stato relegato all'ingresso, ad accogliere Eddie ogni volta che rientrava a casa da lavoro(un piccolo compromesso pur di non averlo in camera da letto).

Solo dopo aver vagliato le varie possibilità si rese conto di una busta posata sul tavolo, fra la brocca di spremuta e la tazza che Eddie usava per colazione. Sopra la busta c'era scritto il suo nome in stampatello.

«Rich...» lo richiamò, sollevando la busta.

Quando Richie rialzò lo sguardo, lo vide modulare un «merda» con le labbra e infine abbandonare gli stracci nel lavandino.

«Non era previsto che accadesse così ma...» sospirò avvilito, «Richie non ne fa una giusta due punto zero, immagino.»

Eddie abbassò lo sguardo sulla busta, ora vagamente agitato sul contenuto, ma non meno curioso di capire che diavolo stesse succedendo.

«Posso aprirla? O... avevi in mente di aspettare?» gli domandò, sperando ardentemente che Richie non avesse un'altra sfilza di sorprese prima di permettergli di districare il nodo della vicenda.

«In realtà stavo aspettando la banda di musicisti e il drone che sgancia palloncini e coriandoli dalla finestra ma...» lo prese chiaramente in giro, «immagino che sì, tu possa aprirla.»

Eddie non sorrise nemmeno ma si limitò ad inarcare un sopracciglio e infine dissigillare quella benedetta o maledetta busta.

La prima cosa che lo colpì fu la scrittura decisamente disordinata, ancora incerta, vagamente infantile... ma assolutamente riconducibile a Richie. Tutte quelle cancellature e macchie, impossibili da dimenticare. Gli tornarono in mente i pomeriggi a fare compiti insieme a scuola o rinchiusi nelle loro camerette. Le volte che aveva cercato di copiare i suoi appunti, di interpretare le zampe di gallina di Richie. A sghignazzare ad ogni frase mal interpretata, sopratutto quando era Richie stesso ad essere incapace di capire che diavolo avesse scritto. Il ricordo lo fece sorridere come un imbecille.

«Che cos'è?», gli domandò, un po' titubante sul cominciare a leggere. Non del tutto sicuro di riuscire a simulare l'emozione di avere tra le mani qualcosa di tanto... vecchio. Qualcosa che lo riportava di certo indietro di decenni. A quando tutto era così meraviglioso e semplice e spensierato, per certi versi.

«Dovresti leggerlo per capirlo, Spaghetti. Non posso imboccarti proprio tutto.»

Eddie si umettò le labbra, indeciso se mettersi comodo o meno. A corto di risoluzioni efficaci, se ne restò lì, in piedi accanto al tavolo, ancora con i suoi boxer e la maglietta troppo larga di Richie, che usava per pigiama.

«Derry, Maine, 12 agosto, 1990», esordì, colpito perfino dalla data, «Caro Eddie... caro, per modo di dire», iniziò a leggere ad alta voce, prima di rialzare lo sguardo mentre Richie si stringeva nelle spalle e con un'occhiata un po' imbarazzata lo spronava a continuare.

Eddie fece per riprendere a leggere a voce alta, ma il suo sguardo prese a scorrere un po' troppo rapido sulla carta per permettergli di farlo davvero. E in un istante, contro la sua volontà, fu immerso in una silenziosa lettura della missiva, cancellature comprese.

 

''Caro Eddie,

caro per modo di dire.

Considerato il modo in cui sei praticamente scomparso in questi mesi, il caro è l'ultima cosa che ti meriti, per quanto mi riguarda. Ma Mikey, che mi sta aiutando a mettere insieme le idee per buttare giù queste poche righe, ha insistito che è così che si cominciano le lettere. Così l'ho scritto. Per salvare le apparenze.

La vera lettera che avevo intenzione di scriverti iniziava così: Eddie, sei uno stronzo. Di quelli che galleggiano e se ne stanno in giro per tanto tempo. Perché come altro potrei descrivere qualcuno che nemmeno si è degnato di rispondere alla lettera di Mike? O di comunicarci se aveva cambiato indirizzo, da quello che si era preoccupato di lasciarci, prima di partire? Se non ha mai nemmeno cercato di contattarci, sapendo perfettamente che aspettavamo sue notizie? Mi piacerebbe dirti che sei stato l'unico a trattarci in questo modo, ma la cruda realtà è che nessuno dei Perdenti, in questi mesi, si è mai fatto vivo. Se suona come un rimprovero è perché lo è. Mike ed io ci siamo preoccupati, quando nemmeno Big Bill o il buon Covone ci hanno mai risposto. Per questo ora mi trovo a scriverti una lettera. Che ho tutte le intenzioni di portarti a mano, il giorno che ne avrò la possibilità. Così non potrai proprio sfuggirmi e non potrai dire di averla persa. E nemmeno la mia amata signora Kaspbrak, potrà impedirmi di fartela arrivare, sebbene gelosa della relazione che mi lega a lei.

Vorrei chiederti come stai, come sta andando nella nuova città, nella nuova scuola, con i tuoi nuovi amici, ma suppongo siano tutte notizie che mi preoccuperò di estorcerti dal vivo, quando ci vedremo.

Perché saranno, credo, quelle più facili da chiedere ad alta voce, mentre quello che sto per scriverti forse non avrò mai il coraggio di dirtelo, guardandoti negli occhi.

La verità è che ci manchi, a Mikey e me.

Ma sopratutto a me... manca quella tua strabiliante capacità di reagire alle provocazioni. Voglio bene a Mike, ma non è esattamente la stessa cosa. È praticamente impossibile farlo incazzare. Con te era così facile. Un concentrato d'ira formato famiglia, pronto ad esplodere per ogni stupidaggine. Grazie per avermi tolto tutto il divertimento, Spaghetti.

Sopratutto a Mike, giusto per fartelo sapere. Perché l'estate qui è lunga e noiosa. Ogni tanto andiamo ancora ai Barren ad ascoltare la radio e lanciare legnetti in quelle acque putride per vederli galleggiare via, lontano da Derry, come piacerebbe fare anche a noi, un giorno.

Di tanto in tanto ancora torno alla sala giochi, per distrarmi un po', ma non funziona granché se non c'è nessuno con cui vantarsi dei risultati. É come se l'estate si fosse spenta e avesse perso un sacco di colore, da quando non ci siete più. Da quando tu non ci sei più.

Da quando tu non ci sei più.

E tutto ciò a cui riesco a pensare è il giorno in cui ci siamo salutati, prima della tua partenza. Ci ho pensato tanto, ci ho pensato spesso e mi chiedo quale diavoleria sarebbe uscita dalla mia boccaccia se mi avessi dato il tempo di parlare dopo quello che è successo, invece di scappartene via come hai fatto.

Probabilmente ti avrei solo detto che per me era lo stesso. Che è sempre stato lo stesso. Anche se non ho mai cercato di essere più esplicito di come lo sei stato tu.

Spero di rivederti presto, di ritrovarti bene e magari un po' cresciuto, qualche millimetro. Non mi aspetto molto di più, nanetto. Spero di poterti insultare dal vivo come meriti. E spero di poterti abbracciare di nuovo, Eds, Eddie... Spaghetti, stritolarti un po', e poterti dire, comunque, quanto ancora tu sia carino, carino, carino. Carino come piace a me.

Con affetto (questa me l'ha suggerita Mike come chiusura, un tocco di stile),

Richie 'Boccaccia' Tozier

 

P.S: Saluta Sonia da parte mia e dille che mi manca da impazzire. Lei sa.

 

Eddie non alzò subito lo sguardo, lesse e rilesse quelle parole, sentendosele entrare nelle viscere come continue stilettate. Una allo stomaco, una alla gola, un'altra al cuore. Molteplici al cuore.

Le cancellature, la scrittura nervosa, la frustrazione di Richie, la paura, il dolore, il risentimento e la malinconia. Tutte lì, evidenti nero su bianco. Per un istante se ne sentì sopraffatto, e si ritrovò a pensare al se stesso quattordicenne, impaurito e solo, senza memoria alcuna dei suoi precedenti tredici anni, un ragazzino convinto di essere indegno dell'affetto di veri amici, amici che non ricordava di aver mai avuto. O dell'amore di qualcuno che non fosse sua madre. Se solo Richie fosse davvero riuscito a raggiungerlo, gli anni successivi, a strapparlo via da quella mostruosa amnesia che lo aveva privato dei ricordi del periodo più gioioso della sua intera esistenza. I ricordi della persona che aveva amato... per una vita intera.

«Richie... questa è...»

«Una lettera. Che ho scritto almeno trent'anni fa», rispose Richie sottolineando l'ovvio, come non fosse sicuro di cosa dire o fare. Come non lo fosse stato davvero nemmeno mentre progettava di fargliela leggere, quella dannata lettera.

«Come... ?»

«Mike, quando è stato qui», prese di nuovo la parola, forse conscio che Eddie non avesse granché voglia di parlare o di fargli capire quanto la voce fosse compromessa. Impossibile però nascondere quanto gli tremassero le mani, «questa è la brutta copia di una lettera che non ho mai spedito. Avevo intenzione di portartela a mano, un giorno. Ma non potevo certo prevedere che mi sarei dimenticato di te... e della lettera, una volta uscito da Derry».

Il pensiero di Richie che varcava i confini di quella maledetta città e lentamente si lasciava scivolare via tutti i ricordi dell'estate di IT, dei Perdenti e del suo Eddie Spaghetti fu un'altra sferzata allo stomaco. I suoi buoni propositi, le sue speranze, cancellate con un colpo di spugna.

Immediatamente comprese tutto quello che Richie doveva aver passato per causa sua. La concretezza di un bacio, di una rivelazione e l'impossibilità di avere alcuna ricompensa o gratificazione. Dimenticare e essere dimenticato.

Un'ingiustizia grande quanto l'universo.

«Mi sembrava il momento giusto per fartela avere...» concluse e Eddie lo guardò con aria interrogativa, anche se ancora apertamente turbata.

«Oggi? Perché oggi?»

Richie si strinse nelle spalle.

«Perché oggi sono esattamente due anni che sei tornato nella mia vita», commentò con un sorriso incerto, «so che gli anniversari non sono esattamente il tuo forte, Eds, ma credo di aver marchiato a fuoco quella data... nel cervello, per sempre.»

Due anni. Come aveva fatto a non pensarci? Due anni prima, di un giorno come quello, Eddie Kaspbrak scendeva dalla sua macchina e si fermava di fronte alla Giada dell'Oriente. La paura e l'incertezza di un incontro con persone che non vedeva da ventisette anni, per prestare fede a un patto che aveva giurato di mantenere quando non era che uno stupido ragazzino con il braccio ingessato. E l'ansia di riabbracciarli tutti. Tutti quanti. Nonostante il serpeggiante terrore latente che gli vibrava nello stomaco.

Ma era solo quando aveva rivisto Richie che molti dei suoi ricordi avevano preso a sbloccarsi, uno dopo l'altro, risvegliati dal suono di un gong.

Due anni che Richie Tozier era tornato nella sua vita. Ed era tornato per restarci. Restarci, presumibilmente per sempre.

Eddie si ritrovò ad augurarsi che sarebbe stato per sempre. Due parole che presero concretamente forma nella sua testa.

«Sono un idiota...», commentò solo, sentendosi sopraffatto da qualcosa a cui adesso riusciva a dare un nome. Gli camminò incontro, mollando la lettera sul tavolo, per raccogliere con una mano il colletto della sua camicia, affondargli l'altra fra i capelli e attirarlo bruscamente a sé per un lungo bacio. Che non voleva essere il mero pretesto per chiedergli scusa per non essersene ricordato. Solo un bacio che in quel momento si augurò riuscisse a trasmettergli quanto lo amasse. Quanto lo aveva sempre amato.

«Nonostante le uova carbonizzate, posso affermare che questa cosa sia stata un estremo successo», mormorò Richie, un po' scombussolato, non appena gli fu concesso di riprendere fiato.

Eddie alzò di poco lo sguardo, il pugno ancora chiuso sulla stoffa della sua camicia: lo scrutò con fermezza. Leggergli negli occhi quel deliziato appagamento e tutta la tenerezza del mondo in quel sorriso un po' sghembo, lo spinse a una decisione impulsiva ma decisiva.

«Potrebbe ancora migliorare...» gli disse, senza distogliere lo sguardo, deciso a tenerlo inchiodato lì nei suoi occhi, fino alla fine del tempo, fosse stato necessario.

Richie inarcò un sopracciglio, invitandolo a continuare verso qualsiasi direzione avesse intenzione di intraprendere.

«Potrei chiederti di sposarmi», disse.

Gli occhi di Richie si sgranarono per la sorpresa sotto le lenti spesse dei suoi occhiali.

«Eddie... ?»

La risata e il singhiozzo liquido che ne seguì, il volto arrossato, le lacrime emotive di consuetudine, furono il modo più esplicito per Richie di pronunciare il Sì, più rumoroso ed entusiasta della storia.

 

Fine.

 

 

Nota: Finalmente sono riuscita a concludere la storia. Ci ho messo un po' stavolta, perché, sebbene sapessi dove volevo andare a parare non riuscivo a trovare il modo giusto per farlo. La creatività è andata un po' a farsi benedire in questo periodo oscuro e dato che in questo momento, un po' come Richie, sono anche particolarmente emotiva, credo mi sia scappata una colata di melassa non preventivata. Comunque sono anche convinta che, dopo tutta l'oscurità che libri e film gli hanno riservato, i nostri due se lo meritassero un lieto fine. Perciò ve lo regalo così. Grazie a chiunque abbia speso un po' del suo tempo per leggere tutto, grazie anche a chi ci ha tenuto a farmi sapere cosa ne pensasse: il supporto è stato super gradito e prezioso!

Ma dato che sono stata risucchiata in un turbine di palloncini rossi da troppi anni ormai, credo che sentirete ancora parlare di me, in questi lidi. Con una storia che mi ronza nella testa da un po'. Perciò, alla prossima!

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