Giardini di Pietra

di _Unmei_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 1

 
_________________
 
 
Genova, gennaio 1914
 
Ogni inverno è sempre peggio: freddo e umidità mi fanno star male, mi ammalo facilmente, tossisco fino a farmi mancare il fiato e il mio respiro sibila… a sentirmi faccio pena e schifo persino a me stesso.
Il mio medico pretenderebbe che me ne restassi chiuso nella mia confortevole casa, al caldo, con una coperta sulle ginocchia, e che impegnassi il mio tempo al più leggendo, evitando ogni fatica, uscendo raramente; vorrebbe anche che rinunciassi ai sigari e alla pipa, quell’idiota. Peggiorano la mia tosse, dice, come se ciò avesse il potere di farmi preoccupare. Le passeggiate e il tabacco sono due delle poche consolazioni che mi restano, e lui vorrebbe togliermele! Tanto varrebbe seppellirmi subito che, in ogni caso, le mie ragioni di vita sono esaurite ormai da tempo.
Non do mai retta a quel cavasangue, e anche stamattina sono uscito, tra i rimproveri di quella seccatrice della mia governante (gran brava donna, per carità, ma più opprimente di una moglie… o di come immagino debba esserlo una moglie), e infagottato nel mio cappotto scuro ho passeggiato fino al cimitero, una strada che mi sembra sempre più lunga, più faticosa, e ancora una volta sono giunto ai miei amati giardini di pietra… sono giunto fino a lui.
 
Staglieno è un luogo pieno di quiete e silenzio; altrove non potrei sentirmi altrettanto bene, non potrei mai trovare una simile pace se non fra i suoi vialetti, e nelle lunghe gallerie dove i miei passi echeggiano su un pavimento di lapidi. C’è tanta triste, dolente bellezza intorno, e un senso di speranza, di paura e attesa. E per me c’è anche il ricordo dolce-amaro della mia giovinezza, la prova scolpita nel marmo candido di chi ero un tempo, e la consolazione che un giorno, che ormai non credo lontano, anche io sarò solo un nome su una di queste pietre:
 
“Riccardo Varnesi – Scultore”
 
Sì, un tempo lo fui, e uno dei migliori: sentivo la grazia e il calore pulsare sotto il freddo marmo, in attesa che io li liberassi; così come il pittore vede sulla tela ancora immacolata splendere la sua opera, così come lo scrittore brucia notti e candele per raccontare di personaggi che non esistono e che tuttavia sono più vivi di lui.
Era l’arte che adoravo, il mio grande amore.
Gli amori sono sempre destinati a finire, o ad affievolirsi, dicono i cinici, ma non questo: quanto ancora desidero far vivere la pietra, quanto farebbe sentire vivo anche me! Mi pesa sentire il richiamo di una musa crudele che m’ispira, che mi invita seducente ben sapendo che non posso più soddisfarla come vorrei e dovrei.
Le mie mani, un tempo così forti, quanto le odio ora che sono inutili, deformate dall’artrite, avvizzite e doloranti, deboli! Per me è grande fatica persino scrivere queste parole, procedo con lentezza, devo fare pause… quasi non riesco a reggere la stilografica, figuriamoci scalpello e mazzuolo!
Le mie mani sono deboli come tutto il resto di me, come la mia salute; in gioventù non avrei mai creduto che un giorno avrei rimpianto quel corpo che mi sembrava ordinario, ma che era forte e sano, instancabile e vigoroso. Ero alto, e mi sono dovuto curvare sotto il peso degli anni senza la possibilità di ribellarmi, nonostante tutto il mio orgoglio.
Né avrei immaginato di ricordare con nostalgia il mio volto un po’ squadrato, i capelli e gli occhi scuri che mi sembravano tanto banali; invece ora lo faccio tutti i giorni, scrutando nello specchio quell’odiata ragnatela di rughe, i capelli incanutiti, gli occhi sempre arrossati: no, quella maschera patetica non sono io!
C’è una parte del mio cuore arido e amareggiato che è rimasta immutata; lì un giovane uomo di trent’anni mi urla di smettere di compatirmi e di tornare a essere me stesso.
Ma che ne sa lui?
Io ho ottant’anni, e non trenta, e tutto di me sta cadendo a pezzi.
 
Una cosa però è ancora buona, nonostante tutto: la mia vista.
È perfetta come quando ero un ragazzo, e così posso vedere con chiarezza, eternamente giovane nel marmo, il volto bellissimo che tanto ho amato, che ancora amo e amerò per sempre. Il volto per il quale cammino fino al cimitero, sotto la fredda pioggia invernale e sotto il fulgido sole dell’estate.
Il volto verso il quale anche stamattina ho alzato lo sguardo, riempiendomi della sua bellezza, della sua dolcezza, di quell’espressione incredibile che lui aveva, e che forse non mi è nemmeno riuscito di cogliere del tutto.
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell’angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Cinquant’anni fa… mezzo secolo.
 
Avevo ventinove anni ed ero abbastanza famoso e richiesto; lo sarei diventato molto di più, e avrei insegnato nelle migliori accademie, ma ancora non lo immaginavo, e quel che avevo già mi sembrava moltissimo. Mai la vita mi sarebbe potuta sembrare più rosea: che può volere di più un artista se non vedere apprezzate le proprie opere?
Gli artisti sono egocentrici e narcisi: lodi e ammirazione com’è ovvio mi riempivano di orgoglio, forse persino di vanagloria, e io ne ero sempre affamato, però, in realtà… in fondo ho sempre scolpito per amore della bellezza. Perché mi sarei sentito vuoto e inutile, senza, per l’emozione di creare e l’appagamento di portare nel mondo qualcosa che prima non c’era; se pure mi avessero condannato a non mostrare mai a nessuno le mie statue, a essere l’unico a poterle vedere, io avrei continuato, sempre, a dare vita al marmo. Non sarei mai stato infelice, credevo, fino a che avessi potuto farlo.
 
Quando il signor V.S., uomo molto in vista e facoltoso, appartenente all’aristocrazia cittadina, si rivolse a me perché realizzassi un’allegoria per la tomba di sua madre, in quello stesso cimitero che già ospitava opere di scultori la cui fama andava ben oltre la mia, mi sentii onorato. V.S. non mi diede particolari istruzioni; mi disse solo che desiderava un monumento si rifacesse a modelli cinquecenteschi, e che sarebbe stato posto nel porticato superiore a ponente. Era quella, e ancora è, una delle aree più costose del cimitero; la cifra stessa che mi offrì per la mia opera mi frastornò: sessantamila lire, solo per il mio lavoro, più il finanziamento di ogni spesa per materiali e manovalanza. Appartengo a una famiglia benestante, diciamo pure ricca, avrei potuto vivere di rendita, ma quella somma lo stesso mi tolse il fiato, perché non mi era mia stato offerto così tanto, prima d’allora.
Ancora non avevamo finito di discutere, e già nella mia mente prendeva forma quello che avrebbe dovuto essere il monumento; riflettevo sui dettagli, sulla simbologia che avrei usato, e quella sera stessa iniziai a mettermi all’opera. Nei giorni successivi tracciai schizzi su schizzi, realizzai numerosi piccoli modelli di creta, proposi le mie idee, che vennero approvate, e quando ebbi chiaro – quasi del tutto – ciò che volevo, comprai il marmo.
E iniziai a scolpire.
Oh, quanto mi manca! Nulla mi faceva sentire meglio, né i miei amici, né i piaceri materiali; ero capace di trascurare chiunque e qualunque cosa, di dimenticare anche di mangiare, solo per lui, il candido marmo. Passavano i mesi, e mi dedicavo solo a quell’opera, dedicandole quasi ogni istante di veglia, lavorando a un ritmo tale da procedere ben più in fretta del previsto.
Passò un anno e mezzo; avevo già scolpito l’allegoria della Fede, dalle sembianze di una donna incoronata che regge un crocefisso, e sarebbe stata posta sul sarcofago, e stavo lavorando l’allegoria della Speranza, nelle sembianze di un angelo riccioluto, dall’espressione un po’ malinconica, che a lei volgeva lo sguardo. Lui sarebbe stato posto alla destra del sarcofago… e in quanto al sarcofago stesso, ancora dovevo iniziare a scolpirlo, ma già lo avevo accuratamente raffigurato su carta: la famiglia dolente che vegliava al letto della defunta.
Era l’altra allegoria a darmi pena, la statua che volevo porre sulla sinistra; un altro angelo a guardia della tomba, a custodire chi vi fosse sepolto fino al giorno della resurrezione. Nella resurrezione, in realtà, credevo ben poco; in fondo al mio cuore speravo, e forse spero ancora, di poter rivedere tutte le persone care che ho perduto, una volta che mi sarò lasciato alle spalle questa vita… ma la razionalità mi ripete che quando la morte spegne una luce, non ne accende nessuna in cambio. È la fine di tutto, il cadere del sipario, lo spiegarsi del sudario; tutto il resto sono favole con cui cerchiamo di consolarci.
Il Sonno Eterno! Un nome più gentile per la morte…
Il Sonno Eterno, l’Eternità, certo, ecco chi sarebbe stato l’altro custode del sepolcro. Ma che aspetto poteva avere un angelo che rappresentasse qualcosa di tanto misterioso, qualcosa che tutti temono? Desideravo un volto insolitamente bello e dolce, perché nei miei pensieri la Morte, per quanto fosca e temuta, non è crudele: l’ho sempre vista, in fondo, come un abbraccio d’oblio che ti scioglie da ogni miseria, o che almeno ti risparmia quelle sicuramente la vita ti infliggerebbe.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a immaginare un viso adatto, e la giusta espressione, nulla che incarnasse al meglio la mia idea: se un angelo della morte esisteva, a me precludeva la sua vista.
 
Intanto era giunta la fine di novembre e le temperature erano insolitamente basse, come ora, ma a quei tempi il freddo che entrava nelle ossa ancora non mi faceva star male. Anzi, lo amavo, quel mese considerato da tanti grigio e triste, non più autunno, non ancora inverno; lo trovavo dolcemente malinconico.
Quel pomeriggio avevo deciso di fare una lunga pausa e di distrarre la mente con una camminata, sperando che mi portasse ispirazione. Ma mentre ero fuori prese a scendere una fine pioggerella, e interruppi la mia lunga passeggiata entrando in un caffè, un locale modesto, vecchio e non molto grande, in una via in cui passavo raramente. Il posto era fumoso, il pavimento di legno coperto da un sottile strato di segatura. Avrei semplicemente bevuto del brandy con acqua calda e sarei uscito senza nemmeno aspettare che spiovesse, se non fosse stato per la persona che, al centro della sala, iniziò a suonare meravigliosamente il violino. Una melodia che partiva ariosa, malinconica, che si sarebbe ben accordata a tramonti sfocati dalla nebbia, o al fuoco morente in un camino.
Ma poi la musica si faceva più rapida, acuta, vivace… era un Capriccio di Paganini, il ventunesimo.
Sono un artista, la bellezza mi folgora, mi ammalia al punto di estraniarmi da tutto, da rendermi indifferente al tempo che scorre: affascinato potrei passare ore a osservare un dipinto, una scultura, la vetrata di una cattedrale gotica e i giochi della luce che l’attraversa; così pure rimasi ammaliato, senza parole, davanti a quel violinista.
Il ragazzo suonava con gli occhi chiusi e un vaghissimo sorriso, inebriato dalla musica, e non so dire se fu la bellezza della melodia o quella di colui che la eseguiva a incantarmi a tal modo.
Il suo viso era incantevole, delicato; non sembrava maschile, ma certo nemmeno femminile, quasi fosse quello di un bel fanciullo, cresciuto senza che i tratti e gli zigomi si fossero induriti nel raggiungere l’età adulta.
I capelli erano piuttosto lunghi, mossi da morbide onde e sparsi sulle spalle, di un biondo scuro dai riflessi dorati, e sembravano puliti e curati, nonostante lui avesse l’aria di essere di molto modeste condizioni.
O meglio… gli abiti che indossava sembravano di ottima fattura e buona stoffa, ma erano consumati e lisi, la rendigote gli era stretta, i pantaloni consumati sulle ginocchia, e gli orli erano stati rivoltati; le scarpe erano sformate e molto malridotte.
Gli andai più vicino per osservarlo meglio, e cercai di esaminare il suo strumento; aveva un suono perfetto, caldo e potente, e potei vedere che era un pezzo di artigianato pregiato, probabilmente molto vecchio, e certo nessuno meno che facoltoso si sarebbe potuto permettere qualcosa di simile. E nella sua povertà, quel ragazzo possedeva una dignità e un portamento che avrebbero fatto sfigurare anche un signore dell’alta società.
Chi era, mi chiesi, era forse stato ricco prima di conoscere le ristrettezze?
Intanto lui suonava, e la musica, così espressiva, m’incantava, mi trasportava lontano, e non mi trovavo più in un modesto caffè, ma in un meraviglioso teatro, o in un nobile palazzo dagli alti soffitti affrescati e ampie scale di marmo.
 
La musica accelerò e poi finì, e lui si inchinò, un movimento sciolto e leggero, e mentre tutti gli altri presenti applaudivano e gettavano monete nella custodia del violino aperta ai suoi piedi, solo io ero rimasto immobile, a bocca aperta e con il cappello in mano, a fissarlo come fosse un’apparizione celestiale.
Lui rialzò la testa e mi vide, e dovevo sembrare bene un idiota, perché con espressione sconcertata ricambiò il mio sguardo, perplesso per un attimo, e poi fece un gran sorriso, e fu come se tutto il suo volto si illuminasse; i suoi occhi verdi, un verde scuro di foresta, luccicarono come se avesse capito fino a che punto ero stato conquistato.
… gli avessi voltato le spalle, me ne fossi andato, fossi fuggito da quel posto e da lui, forse sarebbe stato meglio.
Sicuramente sarebbe stato meglio.
E invece restai, segnando la mia vita.
 
Mi avvicinai ancora di più, avrei voluto esprimere con parole che lo colpissero, parole che non avrebbe mai dimenticato, ciò che avevo pensato di lui, l’emozione che mi aveva dato con il suo violino, ma mi riuscì di fare solo un gesto con le mani, e di proferire un misero:
 
“Sei bravissimo.”
 
Lui sorrise ancora e si portò una mano al petto, accennando un mezzo inchino, dedicato a me soltanto, poi mi rivolse ancora uno sguardo, benevolo e divertito, come se avesse capito lo stesso tutto ciò che avevo sperato di dirgli.
Come poteva il suo viso essere così eloquente, come poteva riuscire a esprimere così tanto con un semplice sguardo?
Restai assorto: un volto incantevole, senza sesso e senza età, un sorriso così mesmerizzante… il pensiero mi colpì: poteva essere lui, il mio angelo della morte?
Dopo essermelo chiesto capii che per lui non avrei più potuto pensare a nessun altra incarnazione.
Ma il mio violinista già aveva raccolto la sua roba, una sacca a tracolla in cui aveva posto anche il violino, e se ne stava andando.
 
“Aspetta!”
 
Lo chiamai, quando ormai era sulla soglia, una mano già protesa verso la porta. Lo raggiunsi e afferrandolo per un braccio lo feci voltare verso di me; un gesto sgarbato e invadente, lo so, ma ero fuori di me, scombussolato da una tempesta di emozioni confuse e di ispirazioni artistiche, e penso che ciò possa in parte giustificarmi.
 
“Io… voglio proporti un lavoro.”
 
Dissi, incrociando la sua espressione meravigliata. Il modo tanto diretto in cui posi la mia offerta non faceva che confermare che stavo sragionando… non era così che si comportava un gentiluomo! Per Dio, immagino di essere sembrato una specie di pazzo!
Così mi scusai e mi presentai in maniera più civile, gli dissi il mio nome e cognome e il mio mestiere, sperando di sembrare un uomo per bene, e riformulai la mia richiesta.
 
“Devo finire un gruppo scultoreo, mi serve un modello.”
 
Tacqui qualche secondo, poi mi affrettai ad aggiungere:
 
“Oltre a una paga, posso offrirti vitto e alloggio fino al termine dell’opera, se ne hai bisogno.”
 
Aveva l’aria di vivere in qualche squallida camera piccola e fredda, e avevo ragione di credere che l’offerta di una casa riscaldata e pasti sicuri fosse per lui più che allettante.
Inarcò le sopracciglia e mi sorrise ancora; mi osservò con attenzione, e infine annuì, prendendomi una mano e stringendola. Poteva essere un assenso, quello? Che strano ragazzo!
 
“Io mi sono presentato; qual è il tuo nome?”
 
Si portò una mano alla gola, e con l’altra indico la propria bocca, socchiudendola; facendo quel gesto scosse lievemente la testa.
Capii, e stavo per aprire bocca e dire un ‘mi dispiace’ che, credo, sarebbe stato fuori luogo, ma prima che potessi farlo lui mi prese di nuovo la mano e sul palmo traccio dei segni: lettere dell’alfabeto in uno stampatello grande e chiaro.
 
“Florent.”
 
Tradussi, quando ebbe finito, e lui annuì, e mi strinse ancora una volta la mano.
 
Così, da quel locale in cui ero entrato da solo, uscii in compagnia, con al mio fianco un giovane di cui non conoscevo nulla, se non il nome; quasi non credevo d’aver agito tanto d’impulso, ma ero stato folgorato… era l’amore stesso per l’arte che governava la mia vita a guidarmi. O così almeno mi ero detto.
A guardare Florent quasi mi sentivo impacciato, per il suo sguardo intenso, e il suo portamento sicuro; forse, poiché era povero e più giovane di me, mi aspettavo da lui deferenza e soggezione, e invece era sicuro di sé, per nulla intimidito, pieno di fierezza, avrei detto, come un principe.
Allo stesso tempo pero egli mi sembrava dolce, e davvero lo era, come avrei poi scoperto; dolce, profumato e vellutato come miele tiepido… ma tutt’altro che fragile, o indifeso, altra cosa che avrei poi sperimentato di persona. Sì, aveva forza, coraggio, e carattere, e se avesse voluto avrebbe potuto far danzare il mondo sulle corde del suo violino.
Mi schiarii la voce e inumidii le labbra, sentendomi immotivatamente nervoso.
 
“Hai qualcuno da avvisare? Devi andare a prendere qualcosa? Ti serve forse…”
 
Lui mi rispose scuotendo la testa, continuando a guardare di fronte a sé, e trovai triste che non avesse niente e nessuno di cui preoccuparsi, né averi, né famiglia, nemmeno un amico da salutare; quella mancanza di legami faceva quasi pensare che non avesse un passato, non uno felice, e mi diede una sensazione di tale solitudine da stringermi il cuore. Ma lui non era turbato, la sua espressione era serena, e nel freddo non tremava, nonostante i suoi abiti fossero troppo leggeri per la stagione.
Aveva smesso di piovere, il cielo si stava sgombrando dalle nubi, e facemmo un po’ di strada a piedi, poi fermai una carrozza scoperta e comandai al cocchiere l’indirizzo di casa mia; attraversammo la città infreddolita, passando davanti a ricchi palazzi e a mendicanti laceri, vecchi barcollanti e bambini infagottati per mano alle loro madri.
Superammo una curva ed avemmo davanti l'aspro mare che non mi stanco mai di contemplare; respirai l’aria profumata di salsedine, guardai il sole che si preparava a lasciare spazio all'oscurità, tingendo il cielo e le nuvole rimaste di rosso e di viola. Era incantevole, e provai una gran sensazione di leggerezza, di fiducia, di impazienza di rimettermi al lavoro. Sentivo solo il rumore degli zoccoli del cavallo e non quello della tempesta in avvicinamento, che avrebbe stravolto la mia vita.

__________

NdA


Anni fa, visitando il Cimitero di Staglieno a Genova, vidi una statua di un angelo che mi colpì moltissimo, per la sua posa e la sua espressione. L’angelo rappresenta appunto il Sonno Eterno, o l’Eternità, come stanno a indicare la corona di bacche di papavero che ha sul capo e il cerchio che tiene in una mano.
Si trova sulla tomba Bracelli-Spinola, scolpita dallo scultore Santo Varni, che in Genova e in altre città realizzò molte importanti opere (per esempio, in Staglieno sono una quarantina, tra cui la grande statua della Fede, e quella dedicata alla moglie Giuditta).
Stando a quanto dice il libro su Staglieno “Giganti di Marmo”, la tomba Bracelli-Spinola costò all’epoca, 1864, sessantamila lire; secondo il convertitore del Sole 24 Ore, equivarrebbero a poco più di trecentomila euro dei giorni nostri.
Ovviamente il mio Riccardo e il vero scultore non hanno nulla da spartire, a parte la città di nascita e il mestiere!
 
Quanto a me, la statua appunto mi colpì moltissimo, e m’ispirò all’istante. Scrissi di getto una prima versione di questa storia, che ora,a rileggerla, mi fa accapponare la pelle per gli errori di tutti i tipi che contiene… va bene buttare giù con entusiasmo, ma santo cielo!
In questa versione ho cercato di porre rimedio, e anche di dare più spessore ai personaggi, di rendere un po’ più vive le ambientazioni.
È una storia diversa dal mio solito: è più breve sia numero di capitoli (saranno 11 o 12) che per lunghezza degli stessi, fin dall’inizio si sa come finirà, ma soprattutto è scritta in prima persona, e non so quanto sia nelle mie corde scrivere da questo punto di vista… specie quando si tratta di mettersi nei panni di un ottantenne amareggiato vissuto oltre un secolo fa.
Spero che comunque vi sia piaciuta! Se vi va lasciatemi un commento, perché sono davvero curiosa di sapere che ne pensate di Riccardo e di Florent. Sulla mia pagina Facebook  tra le foto potrete trovare qualche immagine della statua e del cimitero; via via ne aggiungerò altre, anche dei luoghi di cui si parla nella storia,  
e metterò le musiche che verranno citate. La pagina è QUI
 
Posterò i nuovi capitoli con cadenza abbastanza distanziata, in modo da poter andare avanti (spero!) con la scrittura di altre storie. Se intanto voleste leggere un’altra mia storia, quella a cui tengo di più è Tenebra e Luce, e la trovate QUI. È sempre slash, ma a sfondo fantasy.

Intanto, grazie per aver letto fin qui <3

 
 

 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 2

 
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Florent è un nome che scorre fra le labbra come un delizioso liquore zuccherino, vero? È dolce e morbido, aggraziato; per pronunciarlo la bocca si muove lieve, come per un sospiro carezzevole. È un fruscio di seta su seta.
Il mio nome è duro, con quelle R che graffiano, e le C secche come un colpo di bastone. Ditelo, provateci: Riccardo. Un uomo con un nome come questo dovrebbe essere più forte di quanto sono io.
 
La mia casa era, a quei tempi, una villa quasi ai margini della città; costruita all’inizio ottocento, apparteneva alla mia famiglia da cinquant’anni. A quei tempi ormai ci vivevo da solo, e anche se era troppo grande per me, e avrei potuto trasferirmi in centro, preferivo restare lì: avevo bisogno di spazio per scolpire, e l’isolamento non mi è mai dispiaciuto. E poi amavo avere il mare così vicino, al di là della strada, e poterlo vedere in qualunque momento; non mi stancava mai, mi ci perdevo, e mi riempiva il cuore.
La casa aveva anche un vasto giardino, un po’ trascurato e selvaggio, che mi andava bene così, e una piccola dependance in cui viveva Matilde, la mia governante di allora: una donna nubile dai capelli grigi e l’aspetto severo, che celava in realtà un animo gentile e premuroso. Era anche un’ottima cuoca, e lavorava per la mia famiglia da prima dell’inizio dei miei ricordi… da prima della mia nascita, anzi. Quando i miei genitori si erano trasferiti in Toscana, cinque anni prima, le avevano proposto di seguirli, ma lei aveva preferito restare; non voleva abbandonare la città dove aveva sempre vissuto e, aveva detto, non si fidava a lasciare me e la casa nelle mani di un’altra governante.
Matilde guardò perplessa lo snello giovanotto che mi era accanto e, quando le ebbi spiegato il perché della sua presenza, per un attimo pensai di sentir piovere critiche, poiché per quanto egli fosse di nobile aspetto, era chiaro si trattasse di un vagabondo. Florent prevenne ogni sua parola: sfoderò un sorriso affascinante e al tempo stesso colmo di un’innocenza quasi fanciullesca, e si esibì in un aggraziato inchino. Quale donna non verrebbe conquistata da un tale gesto? E quanti inchini poteva aver ricevuto nella sua vita, la mia lodevole governante?
Dall’espressione di Matilde capii che Florent doveva aver passato l’esame, e ne ebbi subito conferma quando annunciò, con una bruschezza che sapeva d’imbarazzo, che avrebbe fatto scaldare l’acqua per preparargli un bagno.
Nel mentre guidai Florent in una delle stanze riservate agli ospiti, che erano sempre pronte a ricevere qualcuno, nonostante tale evenienza si verificasse ben poco di frequente.
Entrai e accesi ogni lume a olio vi fosse presente, perché ormai si era fatto buio, ed eccola, l’ampia camera per il mio ospite; il pavimento era una profusione di tappeti preziosi, le pareti abbellite da quadri e stampe di buon gusto, e su una si apriva un’ampia finestra che dava verso il mare; l’elemento più di spicco era il grande letto a baldacchino in mogano, dalle linee sobrie e pulite. Completavano l’arredamento un divanetto, un tavolino da caffè con due sedie, un guardaroba, un secretaire e un bel paravento dietro al quale si celavano brocca e catino. C’era anche una stufa in porcellana policroma, un piccolo capolavoro proveniente da Meissen.
 
“Una volta che sarà accesa – dissi, indicandola – qui dentro ci sarà il giusto tepore; starai benissimo.”
 
Consideravo quella stanza bella e accogliente, arredata con gusto e ricchezza, ma senza eccedere in un inelegante sfarzo; eppure Florent non sembrava impressionato, c’era piuttosto sul suo volto qualcosa che somigliava a una lontana nostalgia. Mi ero forse aspettato che si guardasse in giro con tanto d’occhi, stupito e intimorito, e la sua tranquillità un po’ mi indispettì e un po’ m’incuriosì. Lui tornò a guardarmi e di nuovo mi sorrise, portandosi una mano al cuore, e io ormai sapevo che era il suo modo di dire grazie.
 
“Dopo se vuoi ti mostrerò la casa, e il mio studio, naturalmente… è la cosa più importante, il motivo per cui sei qui. Vorrei iniziare a lavorare il prima possibile… certo non oggi, e certo non scolpendo. Devo fare degli schizzi, studiare la tua figura…”
 
Ero di nuovo imbarazzato, con il cuore che batteva un po’ troppo in fretta, messo in difficoltà dal suo sguardo troppo diretto e dalla sua bellezza; mi congedai, dicendogli che presto sarebbe giunta Matilde per condurlo al suo bagno, e lo lasciai libero di prendere possesso della camera.
Trovai rifugio in salotto, davanti al camino facendo ondeggiare il brandy nel bicchiere; mi sentivo travolto da emozioni contrastanti, da euforia, trepidazione, e tanti dubbi. Cominciavo seriamente a chiedermi come dovessi comportarmi, come rivolgermi a lui; fino a quel momento mi ero preso la libertà di dargli del tu, e come atteggiamento era stato piuttosto villano, lo ammetto. Lui, d’altra parte, non si era dimostrato offeso.
Ma offendersi di che, poi? Dopotutto non era che un mendicante che elemosinava spiccioli suonando il violino, e che probabilmente si sfamava con la magra zuppa delle mense dei poveri, o quando poteva con una pagnotta offerta da un fornaio di buon cuore.
I pensieri si affastellavano confusi, addirittura mi chiesi se davvero la mia era stata una buona idea; in fondo ho sempre con me lapis e taccuino, avrei potuto abbozzare velocemente un ritratto del ragazzo mentre ero al caffè, non c’era davvero necessità di portarlo con me. Mi attraversò la mente persino l’immagine di me stesso, nel mio letto con la gola tagliata, e la casa svaligiata da ogni prezioso che non fosse chiuso al sicuro nella cassaforte… giusto castigo per aver fatto entrare in casa mia uno sconosciuto di cui non conoscevo che il nome, sempre che mi avesse dato quello vero.
Ero così perso in quelle cupe elucubrazioni sul mio destino segnato che quasi sussultai quando sentii bussare, e il vigore con cui quei colpi erano stati battuti mi fece intuire che non si trattava dei primi, e che io ero stato troppo sovrappensiero per rispondere. Finalmente diedi l’avanti, e Florent aprì la porta, ma rimase sulla soglia; Matilde stava accanto a lui, con aria piuttosto compiaciuta. La mia buona governante disse che doveva terminare di preparare la cena, e che sarebbe venuta a chiamarci quando fosse stata pronta; diede una stretta amichevole alla spalla di Florent e ci lasciò soli.
Io lo osservai.
Dopo quel bagno sembrava che il suo viso rilucesse, l’espressività ancor più intensa e vivace, forse perché l’acqua calda si era portata via anche una buona dose di stanchezza. I suoi capelli erano ancora umidi e sembravano così un po’ più scuri. I pantaloni che indossava, la camicia e la giacca da camera di colore blu li riconobbi come miei, benché non li portassi più da anni. Gli erano un po’ larghi e un po’ lunghi, ma almeno erano puliti, e Matilde aveva fatto bene a prendere l’iniziativa di darglieli; sciocco io, piuttosto, a non averci pensato. C’erano altri abiti che non portavo più, e che giacevano dimenticati nei bauli: con il ritocco di un sarto avrebbe potuto vestirli bene… certo non poteva tornare a indossare i suoi logori panni.
 
“Vieni! – gli dissi – Non restare sulla soglia.”
 
Entrò, e subito una cosa attrasse la sua attenzione; fece brillare i suoi occhi e sorridere le sue belle labbra rinascimentali: il pianoforte verticale con i candelabri d’argento che stava contro la parete sulla destra. Si avvicinò allo strumento, accarezzando con rispetto il legno lucido, poi il leggio; sollevò il copritasti e accennò ‘Für Elise’; mi guardò e fece un cenno con la testa, verso di me e di nuovo verso il piano.
E io capii.
 
“Sì, lo so suonare. Discretamente, direi. Fu mia madre a volere che imparassi, quand’ero bambino, ma non sono certo bravo quanto tu lo sei con il violino. Non è la musica, la mia arte. Se ami suonare il pianoforte, sentiti libero di usarlo quando preferisci.”
 
Ricordo bene la cena che consumammo insieme, quella prima sera; è tutto vivo nella mia mente, come fosse appena avvenuto: i ricami sulla tovaglia, il vino rosso e forte, il pane tiepido e croccante, il profumo denso dello stufato, e il suo sapore.
Ricordo lui, dall’altro capo del tavolo, e quanto fosse perfetto il suo galateo, anche migliore del mio. Avevo immaginato, in quella che era un’ulteriore prova della mia presunzione, che si sarebbe avventato sul cibo come un lupo affamato, e con i modi di un selvaggio; invece, oltre a comportarsi come un signore, non chiese altro oltre alla prima porzione.
Ero sempre più curioso; desideravo ardentemente conoscerlo meglio, venire a capo della contraddizione che sembrava incarnare, lui, così distante ed enigmatico. Lo guardavo, e pensavo a quanto avrei voluto che potesse parlare, perché la sua voce sarebbe certamente stata come tutto il resto di lui: angelica, ammaliante.
In quel momento non me ne rendevo del tutto conto, ma mi ero fatto stregare da lui in quelle poche ore. O meglio, avevo capito di esserne affascinato, quel che ancora non coglievo era quanto profondamente lo fossi. Florent non aveva fatto nulla per attirare la mia attenzione, era stato semplicemente se stesso, con il suo sorriso luminoso e innocente, e gli occhi scrutatori di un gatto.
Ci ritirammo presto quella sera; lui si portò nella stanza uno dei miei libri, “La Mare au Diable”, di George Sand, e quella fu per me per un’altra sorpresa: conosceva il francese, dunque? Che non fosse un comune mendicante l’avevo ormai capito, ma mi trovai anche a chiedermi da quanto lontano venisse… io mi diedi dello stupido, perché se il suo nome era Florent, le sue origini avrebbero dovuto essermi chiare.
Mi rigirai a lungo fra le coperte, quella notte, senza riuscire ad afferrare il sonno; il mio pensiero continuava a tornare a lui, e mi chiedevo che stesse facendo. Leggeva, forse? O, sprofondato in quel letto caldo e pulito, magari già dormiva? Chissà da quanto tempo non aveva la possibilità di passare una notte in maniera tanto confortevole.
O magari anche lui era sveglio e sentiva una sottile agitazione, e pensava, e si faceva domande su di me e sui giorni che l’avrebbero aspettato… non glielo chiesi mai, cosa fece e che pensò quella notte.
Che stupido.
Quanto vorrei saperlo.
 
Devo raccontare di come lavorai con lui? Non credo sia necessario, e nemmeno possibile. Se dovessi spiegarvi la tecnica, voi non avreste interesse nei termini specialistici, li trovereste sterili e inutili. Certo non vi interessa sapere di subbie e gradine, dell’importanza che c’è anche nel gesto di scegliere un attrezzo. E non posso comunicare a parole ciò che significava per me dare forma al marmo, prendere la pietra e trasformarla, dare l’illusione che sia lieve come merletto, cedevole come carne, soffice come capelli riccioluti.
No, non descriverò come lavorammo insieme, non parlerò degli schizzi preparatori, dei modelli che realizzai, di quando finalmente iniziai a scolpire… non è necessario. E la statua è sempre al suo posto, e lì rimarrà per decenni e forse secoli: se desiderate immaginare non avete che da andare a vederla.
Voglio parlare invece di lui, e non solo della dolcezza e della forza del suo carattere, ma anche della sua bellezza, del suo corpo, i muscoli snelli, la pelle diafana… pelle d’alabastro, e capelli d’oro antico, e gli occhi verde scuro, splendidi, orlati di nocciola.
Sapeva d’esser bello.
Certo che lo sapeva, non lasciava dubbi lo sguardo che mi fissò addosso la prima volta che lo ritrassi, mentre lento lasciava scivolare la vestaglia, scoprendo il petto nudo: era fiero e persino audace, privo di ogni timidezza. Impudico, eppure pieno di tenerezza. Mi guardava dritto in viso, sorridendo lieve a labbra chiuse, e ne arrossii.
 
Ero confuso su me stesso e sulle mie emozioni, in quei primi tempi; sconvolto dall’attrazione che provavo e che, spaventato, turbato, incapace di accettare, cercavo di nascondere nell’angolo più recondito del mio cuore, al di fuori dalla mia stessa portata.
Avevo già amato degli uomini, anni addietro, e ciò che ne avevo avuto era stato dolore e abbandono; non volevo che accadesse di nuovo. Già da tempo mi ero ripromesso che mai più, mai più avrei ceduto a quel genere di sentimenti… la solitudine piuttosto, ma affidare ancora il mio cuore a un uomo, no. Mai.
Ed ecco che Florent risvegliava in me un tipo di attrazione, un bisogno che credevo di aver sepolto, e io temevo che intuisse tutto, che la luce nei suoi occhi significasse ‘ho capito benissimo qual è il tuo segreto’.
Così cercavo di ignorare, di rinnegare tutto ciò che provavo; lo avrei fatto a lungo, perché ero, e ancora sono, un uomo testardo… e sciocco, e vigliacco.
Ma adesso, decenni dopo, sul filo dei ricordi, posso raccontare senza finzioni di quando iniziai a innamorarmi di lui, e del perché; e sono anche vecchio abbastanza da poter giustificare con l’età il sentimentalismo e i discorsi sconnessi.
Il quando, già vi sarà chiaro, fu subito, o quasi. E il perché… per tutto.
Per la grazia in ogni suo gesto, per il suo sorriso, per il suo sguardo, per tutto ciò che intuivo in lui ancor prima di riuscire a conoscerlo profondamente; per il suo fascino così spontaneo, candido e seducente al tempo stesso… per come mi rapiva il respiro e mi colmava d’emozione ogni volta che suonava il violino. E più gli stavo accanto, più l’innamoramento, quel batticuore capriccioso, mutava in più solido amore, e più io mi illudevo di poter far finta di nulla.
 
La prima sera, come ho detto, ci coricammo presto, poco dopo cena. La seconda sera restammo insieme, nel salotto, entrambi leggendo. Di tanto in tanto gettavo verso di lui occhiate da sopra il libro, e qualche volta nel farlo incrociai il suo sguardo che mi osservava; mi sentivo esplodere il cuore, e lui sorrideva, con sulle guance un tocco di rossore.
La terza sera suonò il violino, e di nuovo lo ascoltai, stregato; una partita di Bach, una fantasia di Telemann, un divertimento di Mozart… suonava, e io non mi sarei mai stancato di ascoltarlo; fuori pioveva piano, ma per me il mondo iniziava e finiva in quella stanza. Dopo una mezz’ora mi schiarii la voce e gli chiesi:
 
“Potresti suonare il brano di quel giorno? Quando ci incontrammo… Paganini, ricordi?”
 
Lui annuì, e suonò.
Suonò quel capriccio, e suonò Chopin e Vivaldi, e musiche che non conoscevo; passò da melodie languide a danze popolari e poi tristi armonie che sembravano parlare di amori infelici, perduti. Sentirlo suonare così, solo per me, era quasi troppo.
Era dolce la stretta al cuore che provavo allora, mentre è crudele quella che provo ora, ripensandoci; fa male, e le lacrime che mi salgono agli occhi bruciano.
 
La quarta sera credevo e speravo suonasse ancora, ma invece che con il violino venne da me con il taccuino e la matita che abitualmente portava con sé, e che usava talvolta per comunicare. Mi sedette accanto sul sofà, e mi era tanto vicino che quasi mi sentii a disagio, perché mi si presentava alla mente la sua immagine mentre posava per me, a petto nudo.
 
“Cosa c’è?”
 
Florent aprì il taccuino e su un foglio tracciò la lettera A in stampatello, me la indicò e poi richiamò il mio sguardo; chiuse la mano destra in un pugno morbido, tenendo il pollice fuori appoggiato sulle altre dita, e intanto mi fissava. Vedendomi confuso tornò a indicare la lettera sul foglio, e ripeté il gesto; capii, e mi sentii un idiota per non averlo fatto subito.
 
“Questo segno indica la A, vuoi dirmi?”
 
Felicissimo annuì vigorosamente, e io replicai il suo gesto.
 
“Beh, questo è facile, lo ricorderò.”
 
Lui tracciò dunque una B, e mi mostrò il segno corrispondente, per il quale erano necessario tenere la mano aperta, con il pollice ripiegato sul palmo, e io obbediente seguii il suo esempio.
Lettera dopo lettera, quella sera Florent mi insegnò a comprendere ancor meglio la sua voce silenziosa. Lo ricordo anche adesso, quell’alfabeto; lo imparai subito, e la prima vera parola che composi fu il nome di lui.
Non il mio, come si potrebbe pensare… il suo.
All’inizio ero un po’ lento, a dire il vero, nel capire ciò che Florent “diceva”: le sue mani erano agilissime e veloci, non riuscivo a star dietro alla loro danza, ma lui comprese la mia difficoltà prima che l’esprimessi; rallentò, dandomi modo di acquisire familiarità. Io gli parlavo a voce, e lui mi rispondeva in quel modo, e mi parve di averlo molto più vicino, più reale, non più l’incarnazione silenziosa di una creatura celeste.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 3

 
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I giorni passavano, diventavano settimane, e il mio rapporto con Florent si approfondiva. Potendo ‘parlare’ con lui avevo avuto modo di conoscerlo meglio, scoprendo un animo acuto, un temperamento romantico, sensibile, pieno di slanci. Sapevo chi erano i suoi poeti preferiti, i romanzi che amava, le capitali straniere che sognava di visitare. Mi aveva detto di invidiare la mia abilità, di guardare con incredula ammirazione in modo in cui traevo figure dalla roccia, ma anche per quella nel ritrarre… mi aveva chiesto di tenere uno degli studi che avevo fatto sulla sua figura.
Avevo sempre accolto gli elogi con compiacimento; perché non avrei dovuto? Sapevo di essere bravo in quel che facevo, e ho sempre detestato la falsa modestia. Eppure con lui mi trovavo a schermirmi, dicendogli che ero io a invidiarlo, per la sua maestria con il violino, ero io ad ammirare il modo in cui riusciva a infondere tante emozioni nelle musiche che suonava.
Ma per il resto, ignoravo tutto di lui. Gli avevo posto domande, circa un mese dopo il nostro incontro... non avevo saputo resistere oltre alla curiosità. Dove fosse la sua famiglia, se avesse origini francesi come il suo nome faceva supporre, quale fosse il suo cognome e chi gli aveva insegnato a suonare il violino in maniera tanto divina… ma lui non aveva risposto. Sorrideva, ma in maniera triste, scuoteva la testa, ‘a che ti serve saperlo?’ diceva, facendo danzare le dita.
 
“Non ha importanza, non chiedermelo, è un tempo finito.”
 
Un’ombra di rimpianto, di dispiacere, gli aveva offuscato il viso, facendomi pentire della mia invadenza. C’era qualcosa di molto doloroso nel suo passato, questo mi fu chiaro; che non volesse condividerlo con me mi feriva. Ma era comprensibile, in fondo: come potevo pretendere di conoscere dettagli tanto personali? Chi ero, per lui? Gli stavo dando, almeno per il momento, una casa, un lavoro, una paga, ma questo non bastava a fare di me un amico.
In realtà Florent era quel tipo di persona che cerca di essere forte e sorridente in ogni avversità, che tiene sottochiave il proprio dolore, e fatica a confidarsi, a condividerlo, persino con chi gli è più vicino; lo avrei compreso solo più tardi.
Quella volta mi scusai per le mie domande indiscrete, e promisi che non avrei insistito; lui di nuovo sorrise, ma fu un sorriso vero, le ombre rapidamente scomparse dal suo volto.
 
“È una bella giornata! Non lavorare oggi, passeggiamo!”
 
E io come potevo non cedere? Mi sarei arreso a qualunque richiesta, e nemmeno mi dispiaceva perdere un giorno di lavoro. Ero appena agli inizi, ma già mi ero accorto di procedere a rilento, nello scolpire il bell’angelo del Sonno Eterno. Perché, pensavo, quando avrò finito lui andrà via. Lo perderò. Quando avrò finito non lo vedrò più, non ascolterò più il suono emozionante del suo violino, né lui mi stregherà con il suo sorriso. Pensavo ‘ci metterò anche dieci anni, purché rimanga qui’, e a volte, scolpendo, mi fermavo con il martello a mezz’aria e indugiavo rapito a guardarlo, con il cuore dibattuto in una tempesta di colpevolezza e di negazione.
Ostinatamente mi rifiutavo di ammettere i miei sentimenti, di chiamarli con il loro nome. Era solo la fascinazione di un artista per una bellezza tanto pura, ecco tutto.
Che stupido. Tanto da illudermi che lui non avesse capito, tanto da credere di non essere trasparente e che i miei sguardi apparissero neutrali, il mio interesse pacato. Non credo che avrei mai avuto il coraggio di avvicinarmi a lui e confidargli il mio turbamento, la mia attrazione; sarebbe stato impensabile farlo anche se fosse stato socialmente accettabile… ero troppo ferito, troppo chiuso. Forse troppo spaventato.
Fu Florent a mettermi davanti a me stesso, spingendomi in un angolo senza possibilità di fuga, in una seduzione lieve e gentile, ma senza scampo
 
Uscimmo a passeggiare, quel giorno, e la sera, dopo cena, Florent mi trascinò a forza verso il pianoforte, costringendomi a sedere sullo sgabello imbottito davanti allo strumento; mi mise le mani sulla tastiera e fece il gesto del danzare delle dita sui tasti.
Era allegro, entusiasta, e io inerme davanti al suo sorriso; avevo capito che desiderava suonassi, e avrei voluto dire di no, che erano almeno due mesi che non toccavo i tasti, e in ogni caso non suonavo mai per nessuno: lo facevo per me solamente, quando nemmeno Matilde era in casa.
Avrei voluto dirglielo, davvero, ed essere capace di alzarmi e andare alla mia poltrona e riprendere il libro che stavo leggendo in quei giorni, ma se guardavo Florent in viso le parole mi abbandonavano, così come la volontà di dirgli di no.  Poi feci caso allo spartito sul leggio.
Era vecchio, nemmeno ricordavo più di averlo.
Beethoven. "Sonata n. 9 in La maggiore. Opera 47, Kreutzer."
Un pezzo per piano e violino.
Compresi, e ritrovai la favella.
 
“No! Oh, proprio no! È un pezzo troppo difficile, non sono all’altezza!”
 
Lui inarcò le sopracciglia; andò al tavolo e aprì la custodia del violino – che io nemmeno avevo notato – e tornò da me. Suonò un accordo, breve e secco.
 
“Non insistere, Florent!”
 
Un altro accordo, più alto e veloce.
 
“Ho detto che non - ”
 
Mi interruppe ancora, dispettoso, netto e preciso come una bacchettata; avrebbe continuato così, lo sapevo, a troncarmi le parole fino a che non avessi acconsentito a ciò che desiderava.
Nulla m’impediva di alzarmi e di andarmene, ma ormai ero sottomesso a quell’angelico tiranno.
 
“D’accordo, hai vinto. Ci proverò, ma non lamentarti se sarò inascoltabile. E solo il primo movimento, certo non pretenderai di suonarla tutta!”
 
Florent mi gratificò con uno dei suoi sorrisi e disegnò nell’aria un cerchio con l’archetto; e io bofonchiai qualcosa sul mio non essere all’altezza e sull’umiliazione che mi aspettava.
Lui era in piedi vicino a me, sereno, pronto a suonare, con la naturalezza di chi aveva la musica nel sangue e conosceva la melodia a memoria, mentre io sedevo impacciato, rigido come uno stecco e con le mani che mi si stavano facendo sudate.
Fu lui ad iniziare, brusco e acuto, per poi subito sfumare, crescere e spegnersi nuovamente, lasciando che mi inserissi io, in quelle battute ancora lente, che mi concedevano almeno di riflettere, di guidare consapevolmente le mani che sulla tastiera d'avorio si muovevano impacciate.
Il violino si inserì ancora, acuto, quasi discordante, perfetto, in quella melodia strana eppure armoniosa; saliva e sfumava, chiamava e il piano rispondeva, le due voci parlavano sempre più sommessamente sino a finire nel silenzio... ed esplodere d’improvviso, il violino a condurre e il piano a seguire, sempre più veloci, per poi scambiarsi i ruoli, e le note a mescolarsi, fondersi, rincorrersi, sovrapponendosi senza però soffocarsi.
E continuando mi resi conto che stavo diventando più sicuro; come potevano le mie mani muoversi così rapide? Le guardavo come se non mi appartenessero, come fossero stregate, al di fuori della mia capacità di controllo; commisi degli errori, qualche stridente stonatura, ma non me ne curai e andai avanti.
Florent di certo li colse, ma non vi badò: faceva vibrare acutissimo il suo strumento, una musica piena d'energia, una burrasca che scuoteva tutto intorno a noi, aria e cuori, che si placava solo per esplodere di nuovo. Suonava con una tale foga che temetti che il violino avrebbe preso fuoco tra le sue mani... e io sempre lo accompagnavo, e lui accompagnava me, con note che erano come singhiozzi, e la musica continuava a salire e sfumare, a sussurrare e gridare, imprevedibile, e io non capivo più nulla in quella organizzata confusione, lenta, frenetica, vortice di musica che mutava di continuo.
 
Un'opera folle e magnifica, grondante passione, che mi stava togliendo il fiato e mi faceva venir caldo; lanciai uno sguardo a Florent che, come spesso faceva, suonava a occhi chiusi, ed era stupendo mentre eseguiva uno dei passaggi più intensi del pezzo, con il capo reclinato e le guance arrossate. Nella sua espressione coglievo così tanto piacere, tanto coinvolgimento che quasi mi parve immorale continuare a guardarlo: mi sembrava di spiarlo in un momento profondamente intimo, o di… di stare facendo l’amore con lui attraverso la musica.
Soffocai un gemito a quel pensiero, e un brivido mi fece tremare una nota; tornai a guardare la tastiera, imponendomi di levarmi certe idee dalla testa, e continuai a suonare senza più alzare gli occhi, ma ormai il danno era fatto e l’immagine non mi abbandonava.
Fare l’amore con lui, attraverso quell’incredibile Sonata a Kreutzer.
 
La musica sfumò un’ultima volta, ingannevole, risorse con le potenti noti finali, e cessò quasi inaspettatamente; rimasi immobile a fissare i tasti e le mie mani, e inspirai profondamente, ancora turbato dal pensiero che ero stato capace di concepire.
No, no, no! Mi ripetei, è la bellezza che mi attira, solo come artista… la sua grazia, la sua eleganza, il suo talento, ma non lui…
… non lui.
 
Sobbalzai nel sentire una mano posarsi sulla mia spalla, a tal punto che quasi mi scostai; alzai subito il viso verso Florent, che mi stava sorridendo. Posò il suo strumento, mi fece cenni rapidi che ormai avevo imparato a conoscere bene.
 
Bravissimo.”
“No, non è vero. Ho commesso molti errori.”
Non tanti.”
“Oh, ti prego! Anche un soltanto è troppo, e ferisce le orecchie.”
 
Florent aggrottò appena le sopracciglia e mi guardò, pensieroso. Andò al tavolo, prese il suo taccuino e la matita e scrisse qualcosa, velocemente; poi tornò da me, e mi porse il quadernetto.
 
Mi è piaciuto suonare con te, mi sono divertito. Che importanza può avere, dunque, qualche errore? E se credi di non essere stato bravo, per migliorare dovrai solo esercitarti. Magari con me. Suoneremo ancora insieme? Ne sarei felice!
 
Lessi più volte quelle parole, e le mie mani ebbero un fremito. Alzai lo sguardo verso Florent e lui aveva un’espressione dolce, paziente, e anche un po’ incerta; avrei voluto dire qualcosa, ma la voce aveva abbandonato, perso com’ero nel verde bosco dei suoi occhi.
 
Per favore?
 
Segnò lui. Rimasi a fissarlo, provando il travolgente bisogno di cedere, di toccarlo, di prendere le sue mani e stringerle anche solo per un momento e sentire il loro calore; mi sarei accontentato, me lo sarei fatto bastare. Ritrovai la voce.
 
“Sono certo – dissi piano, soffocando sentimenti prigionieri – che se tu potessi parlare, la tua voce sarebbe meravigliosa come quella del tuo violino, e altrettanto ammaliante. Non potrebbe essere che bella, armoniosa, e incanterebbe tutti, proprio come la musica che suoni.”
 
Le mie parole lo sorpresero. Oh, sorpresero anche me! Erano sfuggite al mio controllo, e se avessi potuto me le sarei ricacciate in gola.
Florent inarcò le sopracciglia, spalancò gli occhi, e sembrò per un momento quasi sperduto, quasi più giovane. Fui certo di aver detto qualcosa di sbagliato, di essere stato insensibile nel sottolineare tanto esplicitamente il suo mutismo, di avergli causato dolore. Stavo per scusarmi, glielo dovevo, ma le sue mani furono d’un tratto sulle mie guance, a stringermi il viso con delicatezza. Si chinò su di me e i nostri volti furono vicini come mai lo erano stati; il suo respiro mi sfiorava, ed era fresco e leggero.
Le sue labbra si mossero, lentamente, scandendo le sillabe, come chi non è abituato a farlo, e riconobbi su di esse il mio nome.
Riccardo.
Florent ovviamente non emise suono, eppure io lo sentii. Chiaramente, dentro di me, udii la sua voce chiamarmi, ed era soave, e calda, e piena d’affetto.
Ebbi una vertigine, mi sembrò che il pavimento ondeggiasse, ma le emozioni non erano ancora finite, perché lui sorrise e si avvicinò ancor di più, tanto che credetti volesse baciarmi.
Cosa non provai in quel momento! Il cuore mi era impazzito nel petto a tal punto che temevo sarebbe scoppiato, e le mie mani si mossero d’istinto andando a posarsi sui suoi fianchi.
Il mio povero animo era scosso come un esile alberello nella furia della tempesta, e io, uomo adulto, come potevo essere tanto emozionato per un semplice bacio?
Ma Florent non mi baciò, come credevo e come sognavo: intrecciò le sue dita dietro il mio collo, appoggiò la fronte contro la mia e rimase così, fermo.
Lo rimase abbastanza a lungo da rendere tutto possibile: avrei potuto prendermi le sue labbra senza difficoltà e qualcosa, nella sua bocca incurvata da un tenero sorriso, mi fece capire che la mia intrusione sarebbe stata lietamente accettata, benvoluta… ricambiata.
Le sue labbra rosee, vicine, che dovevano essere così morbide! E la sua bocca dolce, la sua lingua deliziosa…
Fui un vigliacco, e rimasi immobile. Impietrito, come uno stupido, fino a quando lui si raddrizzò, e accarezzandomi si separò da me. Prese il suo violino e uscì dalla sala, lasciandomi solo e in subbuglio, pieno di desiderio e di ancor più timori.
 
Se prima mi ero accontentato di guardarlo da lontano, e mi ero illuso che l’attrazione che sentivo fosse solo artistica, platonica come l’ammirazione verso un capolavoro, ormai non potevo più negare la brama fisica che sentivo. Volevo lui, in carne e ossa, lo desideravo con tanta forza da stare male. Volevo sentire la sua pelle nuda e calda contro la mia, volevo toccarlo, e volevo le sue mani addosso, volevo affondare il viso nella morbidezza dei suoi capelli, e volevo prendermi la sua bocca, ancora e ancora. Doveva essere vellutata, tiepida e meravigliosa: l’avevo immaginata così chiaramente in quegli istanti, che l’esserne stato privato mi era insostenibile.
Il desiderio che provavo, la carnalità che lui mi aveva fatto sfiorare con tanta naturalezza, mi impedivano di continuare a negare il sentimento che aveva messo radice in me, di chiamarlo vigliaccamente con un nome che non era il suo.
Ma altrettanto vigliaccamente, benché consapevole di ciò che provavo, decisi di ignorare quel sentimento, di non cedere alla tentazione che Florent mi aveva fatto assaggiare.

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NdA

Grazie di cuore a chi ha letto fin qui. Lo so, lo so, Riccardo è esasperante, ma nel prossimo capitolo si saprà perchè è così spaventato dall'attrazione e dal sentimento che prova per Florent; intanto, abbiate pazienza con lui!



 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 4

 
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Sono passati tre giorni dalle ultime parole che ho scritto, e sono stati giorni in cui la mia mente tornava al passato con ancor più insistenza del solito; anche di notte succedeva: ho sognato la mia perduta giovinezza, ho sognato Florent, e nel sogno ho creduto che fosse questa mia presente e triste realtà a non esistere.
Non sono vecchio. Florent è con me, va tutto bene. Che sollievo, e che strani pensieri!
Atroce tornare alla veglia, alla solitudine, a questo corpo offeso dal tempo. Sarebbe stato bello morire nel sogno e restarci per sempre, ma sono ancora qui, e dunque continuo a raccontare.
 
Credo di essere un uomo ostinato, ora meno che in gioventù, perché che senso ha intestardirsi quando ormai tutto è perduto? Un tempo, spesso, non mi arrendevo nemmeno di fronte all’evidenza del mio torto, adesso sono troppo vecchio per continuare a confondere l’orgoglio con la vuota caparbietà. Per questo allora non volevo cedere alla lusinga di Florent, e mi comportavo come se quel momento tanto intimo non fosse mai accaduto.
Non avevo scrupoli morali, o religiosi, tutt’altro: già allora la mia fede era scarsa, e non era certo la paura del cosiddetto peccato che m’impediva di abbandonarmi alla passione.
Non avevo una fidanzata cui porgere il braccio, e vivevo in quella grande casa praticamente da solo, eccezion fatta per le ore in cui Matilde prestava servizio; in ogni caso la sua presenza era discreta, e inoltre trascorreva le ore libere e la notte nella sua piccola dependance, cosa che mi lasciava tutta l’intimità del mondo, e che mi avrebbe permesso di scivolare facilmente nel letto del mio violinista… se solo avessi voluto.
E invece persisteva dentro di me l’idea che il sentimento che provavo fosse sbagliato e pericoloso, ed ero convinto che, se avessi saputo aspettare abbastanza a lungo, sarebbe svanito da solo, consumato da se stesso.
Avevo paura, ecco la verità.
Avevo paura di restare scottato, mortalmente ferito, come mi era già capitato in altre occasioni: nelle uniche due relazioni omosessuali, le uniche due relazioni e basta, a dire il vero, che io avessi mai avuto.
 
La prima volta non ero nemmeno quindicenne, e terribilmente innocente (dovrebbe essere proibito essere così innocenti!), e lui era un buon amico di mio padre… e un suo lontano cugino, pure; un uomo di trentacinque anni, molto ricco e altrettanto bello, amante dell’arte, del lusso e dei viaggi. Si chiamava Ludovico; mio padre era sempre cortese con lui, fino all’eccesso, perché apparteneva a una famiglia molto potente nella sfera politica.
Nei primi ricordi che ho di lui, io ero un bambino di sette, otto anni, e lui un giovanotto che già aveva girato il mondo: aveva viaggiato in Europa, ma era già stato anche in Egitto, in Russia, e poi negli anni successivi in Cina, in India. Amavo sentirlo parlare dei suoi viaggi, lo riempivo di domande, e lui soddisfava con pazienza la mia curiosità, sempre gentile, sorridente. Mi portava doni provenienti da quei paesi lontani, mi regalava stampe che ritraevano paesaggi che non avevo mai visto. Lo ammiravo, ogni sua attenzione mi riempiva d’orgoglio, e non c’era niente che desiderassi quanto diventare suo amico. Ero un bambino, lo adoravo, pendevo dalle sue labbra, ma i miei sentimenti erano innocenti… cambiarono, però, intorno ai dodici, tredici anni, entrando nella pubertà. Vederlo, ascoltarlo, anche solo attendere le sue visite, mi dava un’emozione diversa e sconosciuta; anche il tocco della sua mano, quando mi accarezzava la testa, mi dava il batticuore. Pensavo che avrebbero dovuto infastidirmi, quelle carezze sulla testa, perché erano un gesto che si riserva ai bambini, e non mi sentivo più tale, stavo crescendo… e invece le bramavo, e non sapevo perché. Mi era difficile restare per mesi senza vederlo, quando era in viaggio, e quando tornava la gioia mi colmava… nuovi racconti, nuove ore da passare insieme.
E non solo rispondeva alle mie domande, ma pure ora si interessava alle mie passioni, alle mie letture, ai miei sogni. Lodava i miei disegni, mi spronava e consigliava; era l’unico a incoraggiarmi nella mia nascente passione per l’arte, mi parlava di pittori e scultori delle epoche passate... mi regalò  Vite del Vasari. Li ho tutti ancora oggi, i suoi regali.
Altro tempo passò. Ero entrato ormai nell’adolescenza, e i miei batticuori aumentavano; le guance mi si imporporavano al suo tocco… una mano sulla spalla quando camminavo al suo fianco, o una breve stretta sul ginocchio quando gli sedevo vicino. Non sapevo come identificare ciò che provavo, non riuscivo a dargli un nome, conoscevo solo la strana sensazione che la vicinanza di Ludovico mi dava, e il desiderio di stare con lui più tempo possibile; essergli vicino, avere la sua attenzione, la sua approvazione.
Non avevo nemmeno quindici anni, dicevo… li avrei compiuti sul finire di ottobre. Era ancora primavera quando, mentre da soli passeggiavamo su un sentiero sulle alture fuori città, Ludovico mi chiese se mi sarebbe piaciuto passare l’estate con lui, in Francia; Parigi era la meta principale, ma avremmo toccato anche altre città. Ero incredulo, folle di gioia, il cuore impazzito: Parigi! E con lui, noi due insieme, per interi mesi!
Oh, sì! Sì!
Risposi, ma quasi subito il mio entusiasmo si smorzò: rabbuiato mormorai che mio padre non avrebbe certo acconsentito.
Ludovico mi posò una mano sulla guancia; la lasciò ferma lì, carezzandomi con il pollice, poi la fece scivolare lentamente sul collo, stringendo appena.
Parlerò io con tuo padre.
E mi sorrise, di un sorriso che non dimenticherò mai. Ero innocente, l’ho detto: non avevo saputo riconoscere in esso la brama… sapevo solo che la sua mano lì sul collo, le dita che si insinuavano sotto il colletto, sulla mia pelle nuda, mi davano una vertigine, un dolce tuffo al cuore, uno svolazzare alla bocca dello stomaco.
 
Partimmo a metà giugno; via nave, fino a Marsiglia, dove restammo qualche giorno. Per la prima volta in una città straniera, mi sentivo straordinariamente libero; cercavo di parlare nel mio ancora incerto francese, anche con Ludovico, e fantasticavo su ciò che avremmo visto e fatto a Parigi.
Lui ascoltava paziente, e poi mi raccontava di Notre Dame e del Louvre, della Sainte Chapelle e della cupola dorata degli Invalides, dei Giardini del Lussemburgo e delle Tuileries. Passeggiando talvolta mi cingeva le spalle con un braccio, o mi posava una mano fra le scapole, e poi la lasciava scivolare lenta giù lungo la schiena, e mi sembrava di sentirla bruciare, meravigliosa, attraverso i vestiti.
La sera del nostro terzo giorno lì, inevitabilmente mi ritrovai nudo sotto di lui, languidamente abbandonato alla sua bocca e alle sue mani, inebriato di vino rosso e forte che mi aveva offuscato la mente ma acceso i sensi.
E fu così per quasi ogni notte di quella lunga estate; da Ludovico appresi molto altro, oltre alla storia e all’arte… cose che certo non avrei potuto raccontare a mio padre.
Mi fece leggere libri e sonetti di cui mai avrei immaginato l’esistenza, il cui contenuto indecente mi faceva arrossire, e me li faceva leggere a letto, ad alta voce, per gustare la reazione che provocavano nel mio corpo, e intanto baciarlo, toccarlo e stuzzicarlo fino a quando non riuscivo più a seguire le parole sulla pagina, e la mia voce si spezzava, ansimante, e il libro mi scivolava dalle mani.
Mi insegnò a dare e a prendere piacere, ad abbandonarmi a giochi erotici a volte dolcissimi e a volte perversi, e mi insegnò anche che non c’era nulla di male in questo. I suoi racconti mi parlavano di cose a cui prima non aveva mai accennato… mi descrisse bordelli profumati d’incenso e di gelsomino, con i loro delicati fanciulli educati alla poesia e alla voluttà, ma mi parlò anche di strade squallide dove nel fango potevi trovare veri gioielli. Talvolta comprava i favori di quei ragazzi, e ripagava quell’ora di piacere effimero con abbastanza denaro da permettere loro di sfamare se stessi e le loro famiglie per un mese.
E poi diceva che io ero diverso, e che lo facevo impazzire, perché ero puro e fiducioso, e vorace e curioso; mi baciava il palmo della mano e scendeva giù fino al polso, e mi chiamava il suo eromenos.
I nostri giorni erano fatti di bellezza, di arte e poesia e storia; dopo Marsiglia, Arles, Avignone, e finalmente Parigi… e le nostre notti di passione, ed io ero vorace, proprio come lui aveva detto. Lo amavo, e desideravo che quell’estate non avesse mai fine; lo amavo, e non so se lui mi amasse nello stesso modo, ma so che ero felice, e che nel mondo che lui tesseva per me esistevano solo grazia e bellezza, e il futuro era radioso.
Quando rientrammo a Genova mi disse di non temere: anche se eravamo tornati nei nostri soliti panni, la nostra storia sarebbe continuata, e che saremmo partiti di nuovo insieme, appena possibile.
Stava via interi mesi per i suoi viaggi, ma quando tornava a casa mi dedicava il suo tempo, come e più di prima. Mi portò a Firenze e a Roma, l’anno successivo. In Grecia, quello dopo ancora; qualche mese prima della partenza mi aveva regalato Periegesi della Grecia, di Pausania, dicendomi che si trattava di un indizio piuttosto lampante sulla nostra meta, e io impazzii d’eccitazione e impazienza.
Mi promise che una volta avessi terminato gli studi saremmo rimasti in viaggio un anno intero, che saremmo andati ovunque volessi.
Ma non accadde.
Qualche mese dopo il ritorno dalla Grecia partì ancora, alla volta di Tunisi, per affari, e sulla via del ritorno si ammalò: febbre alta, dolori, tosse. Poi una debolezza tale da non riuscire nemmeno a stare seduto, episodi di delirio. Tutto questo me lo dissero, perché non potei incontrarlo, era tenuto in quarantena; protestai, insistetti, pregai di poterlo andare a trovare, ma fu inutile. Potei solo mandargli delle lettere, in cui nemmeno mi era permesso esprimere i miei veri sentimenti; gli scrissi di quanto avrei voluto essergli accanto, che avrei insistito fino a ottenere almeno una breve visita.
Prima di peggiorare troppo lui fece in tempo a rispondermi, in una grafia stentata che non sembrava nemmeno più la sua. Diceva che sarebbe stato felice di vedermi, ma che no, non dovevo andare da lui: temeva di infettarmi, per quanto il pericolo potesse essere ridotto, se fossi rimasto a distanza. Non voleva correre il minimo rischio, e non voleva nemmeno che lo vedessi in quelle condizioni, che definì indecenti e patetiche. Intanto il ricordo dei nostri viaggi gli avrebbe tenuto compagnia, e io avrei dovuto pensare a quelli che avremmo fatto in futuro. Sì, perché non dovevo disperare: aveva la febbre tifoide, dunque sarebbe potuto guarire, non era una condanna a morte.
E invece lo fu.
Le sue condizioni precipitarono, la febbre si alzò ancora, rimanendo costante, e lui rientrò nel delirio per non uscirne più, se non con la morte.
Ludovico, che mi aveva mostrato quanto fossero fiammanti i colori della vita, se ne andò così, soffrendo, e io che avrei voluto essergli accanto, stringerlo, accompagnarlo tra le ombre tenendolo fra le braccia… io non potei nemmeno assistere al suo funerale, perché la tensione e il dolore, il digiuno e le notti insonni, mi logorarono al punto da farmi ammalare a mia volta.
Nel mio letto, le coperte tirate sopra la testa, piansi e piansi, come non si conviene a un uomo; soffrii follemente, e soffrii in modo ancor più crudele perché non potevo dar sfogo liberamente a tutto il mio dolore, in famiglia… tutti sapevano quanto fossi affezionato a Ludovico, quanto lo ammirassi e quanto forte fosse la sua influenza su di me, ma nessuno sospettava ciò che davvero esisteva fra noi. Era un pensiero talmente estraneo ai miei genitori e agli altri familiari che nemmeno sarebbero riusciti a concepirlo.
 
Comincia a pensare di non volermi innamorare mai più, per non soffrire ancora, e per l’ideale romantico di essere fedele a Ludovico fino alla morte... e volevo morire presto anche io, perché mi sembrava di non aver più futuro, niente aveva più senso, e ogni persona intorno a me appariva sbiadita, banale, stupida, in confronto al mio perduto amore.
Tuttavia non morii, e a piccoli passi incerti tornai al mondo, seppure con un buco nel cuore. Passarono tre anni, e mi innamorai di nuovo. Lui si chiamava Patrizio, ed era un mio compagno di studi; era poco più grande di me, aveva i capelli rosso mogano, dolci occhi scuri e una leggera spruzzata di lentiggini sul viso. Aveva un’indole dolce, remissiva, e i nostri caratteri erano equilibrati fra loro; tra noi non c’era una figura dominante come era stata quella di Ludovico, né c’era la stessa passionalità, la stessa sete reciproca. Non c’era quell’ubriacatura di bellezza e quel fulgore di bramosia, il nostro  era un rapporto quieto e tranquillizzante, fatto di intimità e sussurri, un reciproco appoggio che si consolidava ogni giorno, diventando un punto fermo che dava sicurezza; era il mio faro in una lunga notte di solitudine.
A Patrizio tacqui di Ludovico e di tutto ciò che era stato, ma mi misi a nudo per tutto il resto: gli raccontai i miei sogni e le mie speranze, gli confessai paure e desideri, gli consacrai i miei sentimenti e gli promisi il mio futuro.
E lui mi tradì.
Non semplicemente trovando un altro amante… quello, forse, sarebbe stato più facile da sopportare.
Dopo quasi due anni dall’inizio della nostra relazione, senza un segnale, senza un indizio a precederlo, mi disse: ‘mi fidanzo’.
Impiegai qualche secondo a recepire il significato di quelle parole, e all’inizio non riuscii nemmeno a ribattere, restai pietrificato mentre lui continuava: sarebbe stato meglio se non ci fossimo più frequentati, nemmeno come amici, se avessimo dimenticato ciò che ci aveva legati.
Mi riscossi, e cercai di lottare; gli dissi che non poteva, che lo amavo, lo presi per il bavero e lo bacia, e lo implorai, e insultai, e quasi lo picchiai… non servì a nulla.
 
“Non possiamo continuare – rispose – dobbiamo pensare al nostro avvenire, al posto che occuperemo in società, alle responsabilità che ci attendono. Questo è un amore senza futuro: siamo due uomini, Riccardo, la vita insieme che tu vorresti non ci è permessa. Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe finita in questo modo, solo tu non lo vedevi. Io ti amo ancora, ma spero che questo sentimento si esaurisca presto… e questo avverrà in minor tempo se non ti vedrò più. Per questo ti dico addio.”
 
Aggiunse che io avrei dovuto fare lo stesso, e prendere il ruolo che la società si aspettava; mi mancò la forza di replicare, e lo lasciai andare, chiedendomi chi avessi amato in quegli anni, e se davvero fosse stato amore, da parte sua. Si fidanzò, un anno dopo si sposò, si trasferì a Roma, e a me restarono solo le sue parole di commiato e l’amarezza, e mi convinsi che davvero non poteva esserci speranza per me: due volte avevo amato, due volte avevo perso. Ludovico mi era stato strappato dalla morte, Patrizio dalla vita. Non soffrii come per il lutto devastante di pochi anni prima, nemmeno lontanamente, ma mi sentii così amareggiato e deluso da pensare che forse era vero: non poteva esserci amore per quelli come me. Potevo solo scegliere se seguire la strada di Patrizio e adattarmi alle aspettative del mondo, o restare solo. Scelsi la solitudine.
Così ad appena ventidue anni chiusi il mio cuore, e da quel momento evitai ogni relazione che andasse oltre la semplice amicizia: non volli nuovi amori, nemmeno superficiali, nemmeno mercenari. Mi ritrassi a tal punto in me stesso da riuscire a vivere dimenticandomi della carnalità, spegnendo ogni attrazione che provava ad accendersi in me. Quasi riuscii a convincermi di non aver mai provato niente di profondo per Patrizio, quasi mi illusi che l’amore afoso e sfolgorante che mi aveva legato a Ludovico fosse stato una specie di sogno.
Ecco, semplicemente, mi arresi. Per dolore, per delusione, per paura, bandii l’amore dalla mia anima e vissi in tal modo per otto interminabili anni, traendo consolazione e felicità solo dall’arte e dalla scultura, nella quale riversavo tutti i miei sentimenti, dal più basso al più sublime, sfogandovi tutta la passione che tenevo prigioniera.
 
E poi incontrai Florent.
 
Pensate alle spaventose condizioni del mio cuore, impietrito da tanto tempo. Pensate alla tempesta che quel ragazzo causò, e al mio desiderio di fuggire, alla mia paura, a quant’ero disabituato all’amore e all’intimità. Immaginate i miei desideri contrastanti di dare un’altra possibilità ai sentimenti, e di costruire un muro ancora più alto dietro cui barricarmi.
Forse così capirete perché negavo, perché cercavo di scappare da me stesso, perché quell’attrazione mi sconvolgeva e non volevo cederle.
Continuai il mio lavoro, vivendo al fianco di Florent ogni giorno; suonammo ancora insieme, facemmo passeggiate, giri in carrozza… andammo a teatro, passammo tante serate in piedi fino a notte fonda, leggendo l’uno vicino all’altro. Lui talvolta trasformava la semplice prossimità in contatto, sfiorandomi nel passarmi vicino, o sedendosi accanto a me sul sofà, più vicino del necessario; sentivo così fortemente la sua presenza che il mio corpo fremeva da capo a piedi. E poi lui si allontanava, mi guardava colmo d’attesa, se ne andava, aspettava che facessi qualcosa.
Ma io, codardo, non riuscivo a far nulla, e poiché non volevo abbandonarmi ai miei sentimenti, consacravo il mio desiderio nello scolpire il simulacro di Florent. Non avevo altro modo per accarezzare il suo corpo, se non quello indiretto datomi dal marmo e dallo scalpello. Al fine giunsi a provare un attaccamento quasi morboso per quella statua; non ero sicura di volerla portare a termine, perché mi sarebbe stata portata via. E perché una volta finita mi sarei dovuto separare anche da Florent. Non volevo finirla perché mi aggrappavo a lei per mantenere il controllo, e perché almeno quel viso inanimato lo potevo accarezzare senza timore.
Poi…
Poi una sera andai nel mio studio, da solo. Accesi tutti i lumi, che crearono una bella luce calda e gentile, e mi avvicinai all’angelo di pietra, ammirando il mio lavoro. Ammirando l’angelo stesso, rapito dai miei sentimenti.
La statua non era ancora terminata, ma fino all’altezza della vita era già quasi perfetta; il petto, le braccia, erano lisci e flessuosi come i suoi, i capelli sembravano veri, il viso… oh, il viso! Restai a guardarlo come avevo guardato Florent in carne e ossa la prima volta, ammaliato. Come in un sogno, come fuori dal mio controllo, salii sulla scaletta per essere alla stessa altezza di quel volto marmoreo; lo accarezzai, e scesi con la mano lungo il collo, sulla spalla e poi sul petto, dove la fermai all’altezza del cuore, come se mi aspettassi di sentirlo battere sotto le mie dita. Il mio respiro era veloce, leggero; non potevo, non volevo, avere Florent, ma quella era una statua, solo una statua, anche se bella e perfetta. Era una statua ed era mia, perché io l’avevo scolpita, e quindi avevo il diritto di fare ciò che volevo.
Baciai le fredde labbra di marmo, una mano sul petto, l’altra sui suoi capelli; un bacio lungo, in cui immaginai di avere davvero lui, e di sentire il suo calore sciogliere i miei terrori. Ma Florent avrebbe potuto spezzarmi il cuore, la statua no… e con gli occhi chiusi potevo sognare quanto ne avevo bisogno.
Quando infine mi staccai rimasi a guardare da vicino il lievissimo, appena accennato, sorriso sulla bocca che avevo lambito; accarezzai le labbra inerti e confessai il mio amore con voce malinconia, addolorata, quasi colpevole.
Scesi dalla scaletta, e voltandomi mi accorsi di non avere solo la compagnia del Florent di marmo, poiché quello in carne e ossa mi stava osservando dalla soglia, avvolto nella sua vestaglia cremisi.
 
La terra mi mancò da sotto i piedi. Ero così sconcertato da non capire se il viso mi fosse sbiancato o se stesse andando a fuoco, giacché dall’espressione di Florent era evidente che aveva assistito a tutto.
E quell’espressione non era arrabbiata, o infastidita, o di derisione… era dolcissima, stupenda, così piena di tenerezza, ma anche di trionfo, da farmi tremare. Mentre restavo lì, penosamente paralizzato, lui venne verso di me con incedere silenzioso.

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NdA

Ecco spiegato perché Riccardo fosse così esitante nel prendere l'iniziativa, nonostante i segnali positivi di Florent a tal proposito. Non posso farci niente, devo avere almeno un personaggio con dell'angst pesante addosso, altrimenti non mi diverto. Infatti sto tentando di scrivere una nuova storia in cui tutti sono sereni, e sono in difficoltà, va evidentemente contro la mia natura.

Grazie per aver letto, al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 5

 
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Volevo fuggire, sprofondare, scomparire. A ogni passo di Florent il mio panico si gonfiava, il cuore impazziva, la mente si affannava alla ricerca di una scusa per il mio patetico comportamento… disperavo per una giustificazione, quando sapevo che non ce ne’era bisogno, che lui non la voleva. Quando mi fu vicino mi rivolse un sorriso di velato, blando rimprovero; in esso si rifletteva cristallino il suo pensiero:
 
“Perché baci quella, quando io sono proprio qui?”
 
Paralizzato dalla vergogna, soffocato dall’umiliazione, riuscii a balbettare solo qualche parola di scusa; avrei voluto fare un passo indietro, o con andatura veloce e sicura uscire dallo studio, ma non mi riuscì di fare né l’una né l’altra cosa. Così Florent mi catturò.
Le sue mani mi incorniciarono il volto, ed erano fresche e leggere, deliziose sulle mie guance che scottavano; i suoi occhi non lasciavano i miei, e brillavano, luccicavano, raccontavano quanto era sciocco continuare a respingere il mio stesso sentimento, che era impossibile negare l’accaduto, o nascondersi dietro a finzioni che non avevano ragione di esistere.
La vita che ti offre un’altra possibilità…
La vita che ti dimostra che tutto è perduto solo nel momento in cui lo credi.
Che un nuovo inizio è venuto a cercare te, quando tu eri troppo stanco e disilluso per cercare lui.
Il terzo volto dell’amore, il suo!
Perciò non mi ritrassi quando infine mi tirò a sé, e chiusi gli occhi nella fiducia e nel trasporto, gioendo di averlo finalmente tra le braccia.
La sua bocca era tenera, amabile; senza fretta mi dava il tempo di abituarmi di nuovo ai baci, allo sfiorarsi, cercarsi delle lingue, di imparare a respirare ancora nel modo giusto. Era passato così tanto tempo da quando avevo sentito un petto muoversi contro il mio che un pensiero mi strinse la gola: avevo perso troppi anni e non potevo averli indietro… ma ciò che Florent mi offriva pareggiava il conto.
Mi staccai appena un po’ da lui, per guardarlo, desiderando imprimere per sempre nella mia mente il suo viso in quel momento, l’espressione trasparente, fiduciosa, intensa, piena di tenerezza; mi piaceva pensare di essere il primo ad ammirarla, ma sapevo che quasi certamente non era vero, e dopotutto non mi importava: mi bastava che appartenesse a me, e a me soltanto, da quel giorno in avanti.
Tutto sembrava un miracolo di bellezza; tornai a baciarlo, e per un lungo istante fui beato. Desiderai che durasse per sempre, di diventare io stesso muto, e capace di parlare solo attraverso i baci, per poter tessere infiniti discorsi con lui, discorsi incomprensibili al resto del mondo, che avremmo capito soltanto noi due.
Lo amavo, perciò tutto era facile. E infinitamente difficile.
Da vigliacco qual ero, e sono, in un momento così sublime, così sospirato, d’improvviso mi si affacciò alla mente la paura dell’abbandono, e tutti i vecchi fantasmi, gli echi delle sofferenze… delle lacrime di infinito dolore versate per Ludovico, e quelle di rabbia sprecate per Patrizio.
Che tipo di lacrime avrei pianto per Florent?
Che avrei fatto quando anche lui se ne sarebbe andato, quando mi avrebbe lasciato e io non avrei avuto più nulla in cui rifugiarmi, perché la mia arte sarebbe diventata un richiamo al suo ricordo, e i colpi di scalpello non sarebbero stati più carezze, ma pugnalate a me stesso inflitte…
 
Mi staccai di nuovo da lui, ma per fuggire, senza il coraggio di guardarlo in viso, ripetendo non posso, mi dispiace, mi dispiace. Sciolsi l’abbraccio, rinunciai al calore che mi donava, anche se sapevo bene di averne un infinito bisogno.
Di fretta me ne andai in camera, mi spogliai e mi infilai nel letto, senza nemmeno chiudere le imposte, o tirare le tende; guardavo il soffitto nell’argentea luminosità della luna piena e ascoltavo il cuore rimbombarmi nel petto. Mi figuravo il giorno successivo: che avrei detto, che avrei fatto?
E Florent? Che avrebbe pensato di me?
Tutto il male possibile, certo. Mi avrebbe disprezzato, e a ragione.
Sospirai e chiusi gli occhi, ma dietro le palpebre continuai a vedere lui, lui deluso da me. Sapevo con certezza che non avrei trovato requie, che la notte sarebbe stata insonne, un incessante rigirarsi fra le lenzuola. Era forse troppo tardi per tornare sui miei passi? Per presentarmi nella sua stanza e chiedergli di accettarmi ancora, di avere pazienza con me?
Riaprii gli occhi di scatto quando sentii la porta schiudersi; un rumore appena percettibile che però risuonò con chiarezza nel silenzio della notte.
Lui.
Florent si avvicinò al mio letto, camminando a piedi nudi sul tappeto, e io ero lì immobile, di nuovo incapace di fare o dire alcunché.
Lo lasciai fare quando sedette sul letto, vicino a me, quando mi accarezzò la testa e mi baciò la fronte, come si fa per consolare un bambino; e poi ancora i suoi baci leggeri sulle guance, sulle tempie, sulle labbra. Erano dolci, tranquillizzanti, insistenti e pazienti allo stesso tempo. Quando infine smise, restò a guardarmi con occhi pieni di attesa e di speranza; io scostai le coperte, mi feci un po’ da parte, e gli dissi “Vieni”, suonando rauco.
Lui si infilò lesto, si accoccolò contro di me, mi posò la testa sul petto, e io coprii entrambi. La mia mano esitò solo un istante, e poi presi ad accarezzargli i capelli; il suo calore, il suo profumo, il suo respiro… mi sentivo dolcemente sommerso, perduto. Mi ritrovai a parlargli, a raccontargli ciò che non avevo mai detto a nessuno. Gli confessai perché scappavo, i miei amori passati, il lutto che mi aveva schiantato, l’abbandono che avevo patito, la paura di innamorarmi troppo di lui e di lasciarmi andare. Perché la solitudine era più semplice, nella solitudine non correvo rischi, e in fondo ormai ero abituato a essa, e quasi non la sentivo più… se non delle volte, di tanto in tanto, la sera, quando mi strangolava con tanta amarezza e ferocia che dovevo affogarla nel liquore per poter respirare ancora.
Parola dopo parola, frase dopo frase, venne tutto fuori con una facilità che non credevo possibile; il bisogno di sfogarmi che non credevo di avere era infine stato liberato. La tristezza si scioglieva, scivolava via, gli spettri del passato svanivano, lasciandomi più leggero, immacolato. I timori sembravano meno foschi, così come le ombre minacciose di un bosco tornano a essere semplici alberi al sorgere del sole… da forme spaventose che erano, distorte dalla fantasia e dalla paura. Di paura in quel momento me ne era rimasta una sola: di essermi addormentato, dopotutto, e di stare indugiando in un sogno liberatorio.
 
Florent mi ascoltava, e continuava ad accarezzarmi, il tocco delle sue dita mi confortava e incoraggiava; era amorevole, indulgente, era la mia salvezza, la via d’uscita al vuoto cui mi credevo condannato. Lasciai che mi curasse, che facesse in modo di far tornare a battere il mio cuore e a scorrere il mio sangue; le sue labbra mi rianimavano, mi davano il respiro togliendomelo, si staccavano dalle mie giusto il tempo di farmele cercare, affamato, e poi tornavano come dispensatrici d’amore. Mi riportava i brividi a cui avevo rinunciato, sembrava che la mia pelle, rimasta insensibile per tanto tempo, dimentica di come fosse la vicinanza, stesse reimparando tutto. La voglia di contatto formicolava nel mio corpo, mi scuoteva fino a farmi tremare. Florent, Florent… potei stringerlo, assaggiarlo, reclamarlo; così tanto lo desideravo che le mie mani vagavano sotto la sua vestaglia impazienti ma sperdute, tentando di prendere quanto di più e più in fretta potevano, prima che il sogno finisse.
Appartenere di nuovo a qualcuno, lasciarsi andare, offrirsi e possedere, ritrovare il senso smarrito, ecco cosa volevo. Essere felicemente indifeso, che le emozioni di entrambi mi si riversassero addosso, che violente e gentili mi sconvolgessero, mi resuscitassero.
Sciolsi il nodo della cintura della sua vestaglia, poi i pochi indumenti che indossavamo vennero abbandonati per terra, e potei contemplare Florent nella completa nudità; era perfetto come un giovane dio, ma nessun Apollo fu mai così aggraziato. I miei occhi indugiarono sul suo sesso turgido ed eretto, e in un riflesso ben oltre il mio controllo mi leccai le labbra, con brama, impazienza; il mio corpo stava rispondendo con un delirio di anticipazione. Eravamo in ginocchio, l’uno di fronte all’altro, e Florent sorrideva; mi prese le mani e se le portò al petto, le guidò giù, sul ventre, poi sui fianchi, e dietro, sulle natiche. Le afferrai, le strinsi forse con fin troppa forza, e lo tirai a me; le sue braccia mi cinsero, la sua bocca fu di nuovo sulla mia.
Gentile, ma possessivo, appassionato eppure delicato, languido e flessuoso come un gatto che  si struscia facendo le fusa, Florent mi sopraffaceva. Accarezzandomi, esplorandomi, le sue mani mi restituivano l'innocenza, la felicità, l’ardore, la fiducia, e io mi abbandonavo a esse beato, ma avrei anche potuto piangere di gioia, adorando ogni suo gesto.
Non mi interessava null'altro, in quel momento, che noi due, la nostra pace, la sensazione di avere qualcosa di eterno ad avvolgerci e proteggerci, qualcosa di unico che ci rendeva diversi e più felici di tutte le altre persone al mondo. Ero certo che non potesse esistere, né fosse mai esistito, nessuno altrettanto innamorato.
Passammo ore a coprirci vicendevolmente di baci e carezze, a esplorarci, a divorarci; lasciai segni sul suo corpo, e lui li lasciò sul mio… ci donammo piacere a vicenda, più volte, sempre più languidi e sempre più voraci. Il suo volto affondato tra il mio collo e la spalla, il suo respiro affannato, le sue ciglia umide. I nostri corpi si muovevano in un’armonia meravigliosa, perfetti l’uno per l’altro, come i nostri cuori, e il solo ricordarlo mi strazia.
 
Quella notte, nel mio letto troppo grande per uno e troppo piccolo per due, Florent dormì stretto a me. Il suo respiro era tranquillo e regolare, seguirlo era un invito a scivolare a mia volta nel sonno; non volevo, però, non ancora. Ancora per un po’ volevo vivere quel momento, la prima notte insieme, mentre lui sognava sul mio petto. Avevo tempo per cedere al sonno e alle palpebre pesanti; intanto lo accarezzavo, mi beavo incredulo del suo tepore, giocavo con i suoi capelli, mi stupivo ancora una volta di quanto il suo corpo sembrasse fatto apposta per unirsi al mio. Se ne avessi il potere, vorrei tornare in quel preciso istante, e rivivere tutto ciò che doveva venire, e poter cambiare il nostro finale.
Quante volte mi sono attaccato ai ricordi cercando il fantasma di quel calore; mi dona una breve consolazione, l’ombra di un sorriso nostalgico, ma poi mi lascia amaro e triste. Sempre più spesso sogno i tempi perduti, e mi vedo di nuovo giovane, ancora sano e forte, nella mia vecchia casa, e c’è anche lui.
Lui, che posa per me, che mi sorride, che suona il suo violino, o mi conduce al pianoforte; scarabocchia su un foglietto ‘mon petit Chopin’ e me lo consegna ridacchiando, ben sapendo che né petit né Chopin mi si addicevano… ma suo lo ero, completamente.
Lo vedo, sulla poltrona di velluto, intento a leggere, o con lo sguardo assorto mentre guarda il mare dalla finestra, o che passeggia con me sul lungomare, e ogni tanto mi sfiora la mano… la stringe e la trattiene per un po’, quando nessuno ci può vedere.
E vedo noi tornare a casa e fare l’amore.
 
Vorrei morire nel sonno, sognando di noi… l’ho già detto, forse? Anche se fosse posso ripeterlo, sono vecchio e l’età può giustificare gli scherzi della memoria. E comunque è la verità, e la verità non viene mai ripetuta troppe volte.
Morire sognando di noi, avrei il sorriso sulle labbra; sarebbe una dolce consolazione.
Il pensiero della morte mi riempie di impazienza: so già che la fine è vicina, il mio corpo è esausto, il cuore debole, e lasciare la vita non mi spaventa, perché la morte è non-esistenza, è il nulla, e il nulla non si può temere, il nulla non ti può ferire. Nel nulla c'è la mia pace, l'estinzione del rimorso.
L'unica cosa di cui ho paura è aprire di nuovo gli occhi ogni mattina, vecchio e stanco e solo e inutile, e trascinarmi un giorno ancora.
 
Non posso più accarezzare Florent, ma ogni volta che vado al cimitero accarezzo la sua statua. È posta troppo al di fuori dalla mia portata, e troppo in alto, perché io possa baciarla sulle labbra, o anche solo toccarle, ma posso sfiorare con le dita la sua veste. Forse è proprio l’orlo di questa che dovrei baciare, come un penitente, supplicando perdono.
Sì, abusare delle mie ginocchia doloranti e oltrepassare la bassa inferriata che mi separa dal sepolcro, baciare l’orlo della veste, e i piedi che da essa spuntano.
Tante volte, davanti all’effige in pietra del mio Florent, senza che potessi farci niente, ho sentito lacrime amare, nostalgiche, piene di strazio, scorrermi sul viso. Non posso fermarle, non ci riesco e nemmeno lo voglio: lascio che scorrano, colpevoli e pentite. E non m’importa ciò che può pensare chi mi vede… sono solo un vecchio che piange davanti a una tomba.
Per chi piange questo vecchio, magari si chiedono. Una moglie, un figlio, un fratello?
Niente di strano, fa persino pena, pover’uomo. A un vecchio le lacrime si possono anche perdonare.
Loro non sanno, non possono immaginare.
In questa tomba è sepolta la mia vita.
 
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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 6

 
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Quanto ero felice, in quei primi tempi benedetti, quanto sentivo il cuore leggero. Mi sembrava un miracolo! Non mi ero del tutto accorto di quanto il calore fosse scomparso dalla mia vita, e solo con Florent accanto avevo smesso di avere freddo. Erano giorni così perfetti, così luminosi, che non pensavo al futuro… non a uno lontano, almeno: mi sembrava che tutto potesse cristallizzarsi in un eterno e meraviglioso presente. Per sempre giovani, per sempre felici.
Non conoscevo più pensieri tristi, le preoccupazioni si erano dissipate, non temevo più il giorno in cui avrei finito la statua, perché sapevo che Florent non se ne sarebbe andato: sarebbe rimasto con me, e il pensiero mi riempiva di gioia incredula.
Avrei trovato una scusa per giustificare la sua presenza stabile in casa mia, se fosse stato necessario, ma nella mia euforia non me ne preoccupavo, non m’interessava. Non ero la più socievole delle persone, e anche se Florent viveva da me ormai da mesi, ben poche persone ne era a conoscenza: non amavo avere ospiti, e incontravo i miei amici nei caffè, o nei circoli artistici. I miei familiari, invece, abitavano ormai tutti lontano.
Ma se pure la voce si fosse sparsa, se tutti avessero saputo, se i pettegolezzi si fossero sprecati, non m’importava: ero un artista, e agli artisti si perdona molto. E anche Florent lo era: uno straordinario violinista che avrebbe meritato di suonare nei più grandi teatri, e non per strada, elemosinando qualche moneta. Avrei potuto far sì che ciò accadesse, conoscevo le persone che avrebbero potuto aiutarlo a varcare le porte di quel mondo.
Ma prima, una volta che avessi portato a termine la commissione che mi era stata affidata, avrei voluto fare un lungo viaggio con lui; portarlo in posti splendidi, che non avesse mai visto prima, come Ludovico aveva fatto con me. Volevo regalargli la bellezza, volevo stupirlo, volevo che fosse ubriaco di gioia.
 
La mia preziosa Matilde aveva preso in simpatia Florent. Lo aveva fatto fin dal primo momento, ma ormai mostrava un atteggiamento quasi materno nei suoi confronti; premurosa, sorridente, aveva ricamato la sua iniziale sulle camicie che gli avevo fatto fare, e sui fazzoletti. Florent a volte suonava per lei, non solo pezzi di grandi compositori, ma anche motivi popolari, o divertendosi a trarre dalle corde suoni che sembravano versi di animali: il nitrire di un cavallo, il garrire dei gabbiani, il muggire di una mucca. Capitava che l’accompagnasse a fare compere, e certi giorni passava qualche ora con lei in cucina, aiutandola con la cena: lo trovai una volta che affettava verdure, e un’altra sporco di farina mentre divertito imparava a fare i biscotti. Erano anicini, ricordo, e gli vennero bene, profumati e leggeri… ne fu compiaciuto. Mi pare di rivedere la sua espressione di aspettativa mentre li assaggiavo, e il suo sorriso quando gli dissi che erano ottimi. È passato mezzo secolo, ma sembra tutto così vivido, molto più reale di questo presente grigio e spento.
Potessi avere indietro uno solo di quei giorni, accetterei di riviverlo mille e mille volte, pure sempre uguale, senza stancarmi mai.
 
E un giorno accadde che Matilde ci sorprese durante un bacio.
Era sera, dopo cena, e credevo – credevamo – che fosse già tornata nella sua dependance, e di poter avere tutta la libertà che desideravamo; di poterci baciare non solo dietro una porta chiusa, ma anche di poterci fermare a farlo sulle scale, le mie mani che gli stringevano i fianchi, le sue che mi sbottonavano la camicia.
La sua esclamazione di stupore quasi non la cogliemmo subito, presi com’eravamo, ma dovette fare un passo indietro, o forse cercò di allontanarsi in fretta senza farsi notare, e urtò la consolle contro la parete, producendo un rumore che ci portò a separarci.
Ricordo bene la sensazione gelida che provai, lo sbigottimento e l’agitazione, e l’espressione mortificata sul volto di lei. Si scusò e si allontanò in fretta, prima che io potessi riprendermi dalla sorpresa e dire qualunque cosa. Avrei voluto seguirla e tentare di spiegarmi, ma Florent mi trattenne stringendomi un braccio; lo guardai, e mi sorrise appena, scuotendo leggermente la testa.
Tornò a prendersi le mie labbra, e per un po’ non pensai a ciò che era successo, anche se più tardi, nella notte, non riuscii a prendere sonno.
Non mi vergognavo di ciò che ero, né di amare Florent, però… però volevo bene a Matilde, che era stata una presenza costante e affidabile nella mia vita, comprensiva e gentile. Si era guadagnata il rispetto e la fiducia dei miei genitori prima, e il mio affetto di bambino poi, e tale affetto era rimasto immutato negli anni. Quello, e la stima che avevo di lei: Matilde era più che una domestica, le volevo bene, e non avrei sopportato di vedere il biasimo nei suoi occhi. Se dopo ciò a cui aveva assistito mi avesse mostrato disprezzo, se avesse visto l’amore che c’era tra Florent e me come un peccato, se avesse voltato le spalle a me, e anche lui… non avrei potuto sopportarlo.
Il giorno dopo lei non fece cenno a quanto era successo, si comportò come sempre, e non mi parve di trovare nessuna ostilità o giudizio nei suoi occhi; forse avrebbe continuato a tacere, facendo finta di nulla, eppure io sentivo il bisogno di sapere, e anche di spiegarmi, forse.
Il giorno ancora successivo mi alzai prima del solito e andai in cucina prima che lei arrivasse, e l’attesi.
Quando giunse non sembrò stupita di trovarmi lì; mi sorrise e mi chiese di aspettare un attimo, mentre caricava legna nella cucina e metteva un bollitore a scaldare.
Venne poi a sedersi di fronte a me, al tavolo, e mi trovai a corto di parole, nonostante avessi riflettuto molto su cosa, e come, dirle.
 
“Matilde…”
 
Iniziai, cercando di mostrarmi il più controllato possibile.
 
“… so che la scena a cui hai assistito l’altra sera, fra me e Florent deve averti turbata, ma, devi capire… anche se non è accettato dalla società, e della religione, i sentimenti che ci legano sono profondi. E buoni. Noi - ”
“Non sono stata turbata, solo stupita. E a ripensarci, forse non avrei dovuto esserlo.”
 
Mi aveva interrotto, fatto insolito, ma lo aveva fatto con voce gentile e l’espressione comprensiva, come se in quel modo avesse voluto trarmi da un impaccio.
 
“Si preoccupa che possa pensar male di lei? E di Florent?”
“Molti sarebbero disgustati.”
 
Risposi, cupo, e lei annuì.
 
“Lo so. Non io, però. Se mi permette, vorrei raccontarle una storia. Sa già che ho due fratelli, e due sorelle, tutti più giovani di me, e che quando ho dei giorni di libertà vado sempre a trovare loro, e le loro famiglie.”
 
Certo che lo sapevo, e conoscevo anche i loro nomi, e quelli dei loro figli, i nipoti di cui ogni tanto Matilde mi parlava. Cercherò di trascrivere le sue parole come meglio le ricordo, anche se sarà impossibile rendere l’emozione di cui erano imbevute: la malinconia, la tenerezza e il rimpianto.
 
“Però avevo anche un altro fratello, maggiore di me di cinque anni, Francesco. Era un bel ragazzo, alto e forte… ma soprattutto era gentile, volenteroso, e un gran lavoratore. Era intelligente, e avrebbe meritato di poter studiare, ma lui voleva aiutare la famiglia, per questo si diede un gran da fare già da ragazzino. Nostro padre ce lo portava a esempio, invitandoci a essere altrettanto rispettosi e laboriosi, non aveva che parole di lode per lui. E io gli volevo un gran bene, era davvero il miglior fratello che si potesse desiderare. Nonostante lavorasse tanto, trovava sempre un po’ di tempo da dedicare a noi piccoli… ci raccontava storie buffe, ogni tanto ci portava dolcetti, piccoli giocattoli. Poi, un giorno, quando io avevo tredici anni, mio padre lo sorprese con un altro giovane, in una situazione, da quel che compresi, anche più compromettente della vostra con Florent.”
 
E lì si torse le mani, e dovette fare una pausa prima di poter parlare di nuovo.
 
“Lo picchiò, gli disse parole terribili. Nostra madre non provò nemmeno a difenderlo, piangeva e basta. E non si oppose nemmeno quando nostro padre lo cacciò di casa, e ci vietò di vederlo, anche solo di nominarlo. Se parlava di lui, era solo con epiteti che non voglio ripetere. E io non capivo… non capivo. Continuo a non capirlo, anche se sono passati più di quarant’anni. Era sempre lo stesso figlio che lavorava duro per portare dei soldi a casa e sostenere la famiglia. Era sempre Francesco, il figlio educato e diligente, il fratello affettuoso e generoso… cos’era cambiato? Anche se era un peccato, quello che aveva commesso, non era forse degno di essere perdonato? O almeno accettato dalla sua famiglia. Nonostante il divieto di mio padre, incontrai Francesco più volte, di nascosto, anche se lui temeva per me e per come sarei stata punita se fossi stata scoperta. A me non interessava: gli volevo bene, come potevo accettare di abbandonarlo? E continuando a incontrarlo avevo la costante riprova che era il mio fratello di sempre, buono e amabile, non il depravato che mio padre citava con sprezzo. Per cui decisi che se un giorno avessi incontrato… altri come lui, non li avrei mai giudicati sulla base di quell’unico aspetto.”
 
“Dov’è ora questo tuo fratello?”
 
Le chiesi, anche se il fatto che non avesse mai accennato a lui, prima, mi faceva temere il peggio. E ne ebbi ragione. Aveva gli occhi lucidi, e quando sbatté le palpebre una lacrima le scivolò lungo la guancia.
 
“Morì in un incidente sul lavoro, al porto. Aveva soltanto ventidue anni.”
 
Mi sporsi a stringerle le mani che teneva poggiate sul tavolo, e le dissi quanto ne ero addolorato, e che se Francesco fosse stato ancora vivo sarebbe stato un onore per me conoscerlo, perché per aver meritato un affetto tanto profondo doveva essere stato davvero una persona di valore.
Ciò che mi disse Matilde, ricambiando la mia stretta, ancora mi tocca il cuore.
 
“Io la conosco da quando era nella pancia di sua madre. L’ho vista gattonare sul tappeto, e l’ho vista crescere nell’uomo di talento che è… come potrei smettere di volerle bene e di provare rispetto per lei solo perché è innamorato di un ragazzo buono come Florent? Io anzi ho pensato… ho pensato che forse anche lui è stato cacciato dalla sua famiglia, com’era accaduto a Francesco, per lo stesso motivo. Ma per fortuna ha incontrato lei, e la sua sorte non sarà sfortunata come quella di mio fratello!”
 
Avrei voluto dirle tanto, ma riuscii solo a ringraziarla, perché la gratitudine e la commozione mi soffocavano con dolcezza, e adesso nel ripensarci le lacrime minacciano di scendere.
Sentimmo un timido bussare, benché la porta fosse rimasta aperta, e voltandoci vedemmo Florent sulla soglia, che ci guardava. L’espressione serena, una mano poggiata sullo stipite, l’altra sul cuore; Matilde si alzò e fece un passo verso di lui, aprendo le braccia. Non servì altro: lui entrò e andò ad abbracciarla, e io pensai che forse l’aveva capito subito, che Matilde non ci avrebbe voltato le spalle.
 
***
 
E dunque, nel nostro angolo di mondo, avevamo trovato felicità e comprensione. Ogni notte ci addormentavamo stretti l’uno all’altro, dopo aver fatto l’amore, e ogni sera mi sembrava di scoprire il corpo di Florent per la prima volta: provavo la stessa emozione, la stessa adorazione.
Lui era al tempo stesso puro e audace, seduttore e innocente; il rossore sul suo viso, il luccichio nei suoi occhi, la brama della sua bocca e delle sue mani curiose… tutta quella meraviglia era mia, e quasi non ci credevo.
Per quanto fossero reciproci i nostri giochi d’amore, quelli più teneri come quelli più impudichi, ero stato solo io a possedere fino in fondo il suo corpo; a entrare dentro di lui e perdermi. Dopo che cedetti all’amore, dopo aver già condiviso tante volte il letto e la passione, mi ci vollero settimane prima di trovare il coraggio di farlo, di chiedergli il permesso. Era un atto così intimo e così… potente. Temevo che mi avrebbe respinto, che sarebbe stato troppo, per lui, che l’avrebbe trovato disgustoso. Invece aveva sorriso, si era stretto a me, mi aveva baciato, e aveva annuito.
 
Tutto.
Segnò.
Voglio. Di te.
 
Mi persi così, nel suo calore, nell’espressione del suo viso, con il cuore che traboccava; non aggiungerò altro, perché sono emozioni che desidero restino per sempre mie… mie e sue. Private, come le lacrime di gioia, di commozione e sollievo che versai contro la sua spalla, nel culmine del piacere.
Ecco, ero stato sempre io a prendere Florent e non era mai accaduto il contrario, perché c’erano certe ferite nel mio cuore che temevo si sarebbero riaperte, se ancora una volta mi fossi donato completamente all’amore.
Ma era divenuta così tanta e profonda la mia fiducia in Florent, e tanto si era alleggerito il mio cuore, che quella sera, la sera del giorno in cui Matilde ci aveva confermato il suo affetto, che non abbi più paura, ma solo desiderio. Avevo bisogno di essere completamente suo, di infrangere quell’ultima barriera, e di dimostrargli quando profondamente gli appartenessi.
Glielo dissi, già nudi fra le lenzuola; tutto ciò che provavo, tutto ciò che volevo, il desiderio che mi stava consumando, e lui mi baciò con passione, mi guardò con occhi brucianti, mi strinse i fianchi con una forza che non immaginavo, nelle sue mani affusolate.
Il mio corpo non più abituato ad accogliere prese Florent dentro di sé con una fitta inevitabile che fu però benvenuta, desiderata; accettai quel dolore fino in fondo, con gratitudine, cosciente che era quasi una benedizione. Florent fu attento, premuroso, e il dolore si affievolì, e poi fu solo piacere, calore, estasi, voluttà; furono le mie mani che si aggrappavano alla sua schiena e poi vagavano fra i suoi capelli folti e morbidi. Fu la mia voce a perdersi nel suo nome, a dire e ripetere 'ti amo' per entrambi, fino a quando le parole mi uscirono incomprensibili, confuse dal culmine del piacere, dal respiro mozzato.
 
Si abbandonò fra le mie braccia, dopo. Mi prese il volto fra le mani e mi baciò... mi riempì di baci, e di sorrisi che erano quasi timidi.
E io avrei dovuto essere un uomo migliore, per meritare così tanto.
 
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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 7

 
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Un mattiniero raggio di sole si faceva strada fra i tendaggi di broccato, illuminando la stanza di una luce gentile. Florent dormiva quieto fra le lenzuola, con le labbra socchiuse e le ciglia tremanti per chissà quale sogno; io gli sedevo accanto, accarezzandogli con delicatezza i capelli, beandomi della quiete del mattino.
Fumavo una sigaretta francese, un piccolo vizio che mi concedevo raramente; ancor meno da quando vivevo con Florent, che non apprezzava il loro aroma dolciastro, e che arricciava il naso quando tentavo di baciarlo dopo averne fumata una. Quando l’ebbi terminata mi alzai, indossai una vestaglia e andai a scostare le tende; fuori dalla finestra c’era Venezia.
 
Ci trovavamo lì da una settimana, eravamo arrivati di sera, in tempo per vedere il tramonto infuocare la città, e il cielo riempirsi di colori accesi, per poi scurirsi, mentre l’acqua dei canali si faceva sonnolento inchiostro.
Soggiornavamo al Danieli, in uno splendido alloggio riccamente arredato che comprendeva un salotto e due camere da letto, e balconcini affacciati sulla laguna. Poltrone barocche rivestite di damasco, vetri artistici e soffitti affrescati, mobili preziosi e lucidi marmi… era una sistemazione costosa anche per le mie tasche benestanti, ma volevo che Florent avesse il meglio, che i nostri giorni in quella città fossero memorabili sotto ogni punto di vista.
Era stato proprio Florent a chiedermi di recarci in quella città, all’inizio senza nemmeno spiegarmi il perché.
Accadde una sera, dopo un concerto al Carlo Felice. La musica, immancabilmente, lo rapiva, e io ne approfittavo per spiare di tanto in tanto il suo viso, l’espressione intenta, gli occhi brillanti. Ma a un certo punto, quella volta, sembrarono luccicare di lacrime trattenute e non di delizia, e intanto stringeva le labbra fra i denti.
Ne fui turbato, quasi spaventato. Il brano era di Vivaldi, ‘La Tempesta di Mare’; era splendido, irrequieto, davvero acque agitate in musica, con un intermezzo quieto come l’occhio di un ciclone… ma perché tanta energia travolgente avrebbe dovuto mettere quell’espressione addolorata sul suo viso?
Mi sedeva accanto a teatro, e anche sulla carrozza che ci riportava a casa, ma si fece così assorto e indifferente a tutto da sembrare lontanissimo. E poi, ancora, la sofferenza nei suoi occhi, la piega amara delle sue labbra, come fosse sull’orlo del pianto. Florent, sempre risplendente di serenità e di gioia di vivere, che dava l’idea di una forza quieta e resistente che non temeva nulla, ora sembrava sperduto e fragile. Mi straziava il cuore a vederlo così, ma il mio stupore e la mia preoccupazione erano tali da non sapere che fare per consolarlo, per rassicurarlo. Non ero abituato a consolare le persone… se almeno avessi saputo cosa non andasse, forse avrei trovato le parole giuste, ma mi trovavo nell’ignoranza. Gli chiesi spiegazioni, sperando che con i segni,almeno, mi dicesse qualche parola, o che scrivesse nel taccuino qualche frase che mi illuminasse, ma lui scosse la testa, senza nemmeno guardarmi in viso. Compresi che era inutile insistere, che dovevo pazientare, e sperare che prima o poi decidesse da solo di sciogliere i lacci del suo cuore.
Nella notte lo sentii rigirarsi a lungo, mentre nel letto si teneva lontano dalle mie braccia; rivoltarsi, ricercare vanamente il sonno, sospirare, arrendersi.
Accese il lume sul suo comodino, e le sue mani danzarono.
 
“Portami a Venezia.”
 
Dunque, eccoci.
Si era nel pieno dell’estate, e Venezia splendeva. Ne restai incantato; ne avevo visto illustrazioni, dipinti, avevo osservato da vicino le opere del Canaletto nella loro miracolosa precisione, ma la realtà restava inarrivabile e magica, e provai il desiderio irrealizzabile di vederle la Serenissima ai tempi del suo massimo splendore. Non conoscevo per niente la città, nemmeno lontanamente immaginavo che più avanti ci avrei vissuto per vent’anni, e che ogni calle e ogni campo mi sarebbe divenuto familiare. Florent, però… lui si muoveva sicuro in quel dedalo, senza perdersi mai; mi fece da guida, mostrandomi chiese ed eleganti palazzi, scivolando in gondola lungo i canali, o passeggiando senza fretta. Glielo chiesi, se fosse di lì, e lui annuì, ma non aggiunse altro.
Quel giorno, dopo una lunga passeggiata a Castello, ci dirigemmo alle Procuratie Nuove per bere qualcosa al Caffè Florian. Quanto tempo passai in quel luogo, nei miei anni veneziani! Quasi ogni giorno, d’inverno nelle sue belle sale dipinte e dorate, sui divani di velluto rosso… o nella bella stagione, seduto all’aperto, a guardare la vita scorrere in Piazza san Marco.
Sto divagando.
Sedevamo al Florian, dicevo, davanti a due calici di vino bianco e fresco, e sollevai l’argomento che ormai non mi lasciava pace; non solo il motivo del turbamento di Florent quella sera a teatro, il motivo che ci aveva condotti fin lì, ma anche l’ormai ovvio fatto che il suo passato fosse legato a Venezia. Solo quello avevo capito, e non mi bastava.
 
“Siamo qui ormai da giorni, e ancora non mi hai voluto rivelare perché siamo venuti. Né perché eri tanto inquieto quando me lo hai chiesto.”
 
Mi guardò, e sorrise; un sorriso con cui sembrava voler ignorare le mie domande, far finta di nulla, come non le ritenesse importanti. O come se qualche paura lo frenasse dal rispondere.
 
“Eri agitato – insistei – e non lo sei mai. Mi sembravi così infelice, e persino spaventato… come puoi credere che io non mi preoccupi, per questo? Che non soffra nel vederti soffrire?”
 
Florent non mi guardava più, teneva gli occhi fissi sul bicchiere, e io continui, amareggiato.
 
“E che non soffra anche nell’apprendere che non ti fidi abbastanza di me da confidarti.”
 
Lui rialzò gli occhi, spalancati, l’espressione stupita, quasi l’avessi colpito. Dovette comprendere quello che provavo, e annuì.
 
“Domani saprai tutto.”
 
Disse.
Certo non usò la voce, ma i gesti, ma anche quello era parlare, e visto che solo io lo potevo capire, mi sentivo onorato e speciale: condividevamo qualcosa da cui tutti gli altri erano esclusi. Ero felice di aver ottenuto quella specie di promessa, ma lui si fece così mesto e adombrato che quasi mi pentii della mia insistenza.
Quasi.
Volevo sapere. Dovevo sapere. Come avrei potuto aiutarlo, altrimenti? Come avrebbe potuto essere completamente mio, se mi avesse tenuto nascosto qualcosa?
Vedendolo così pensieroso, cercai di distrarlo: parlai e parlai, mentre continuavamo la nostra passeggiata, Probabilmente dissi molte sciocchezze, tanto che non rammento quasi nulla. Ricordo però la frase che scacciò la tristezza dai suoi occhi.
 
“Sei un veneziano, Florent, e io un genovese. Vecchi nemici. Non è splendido il modo in cui abbiamo risolto un tale conflitto storico?”
 
Allora lui sorrise, e mi strinse fugacemente la mano.
 
***
 
Il giorno dopo, la mattina prestissimo, uscimmo; nel cielo c’erano le striature rosate dell’alba. Mi trattenni dal fare domande a Florent e mi limitai a seguirlo, sentendomi euforico e agitato, soddisfatto e spaventato… e nemmeno sapevo bene da cosa. Forse dalla consapevolezza che era doloroso, quel che stavo per scoprire. Però, condividendo il suo dolore, avrei potuto alleggerirgliene il peso.
Florent ingaggiò dei barcaioli; consegnò loro un foglio, su cui doveva aver scritto dove desiderava essere condotto, e mostrò il denaro che era disposto a sborsare.
Io osservavo a qualche passo di distanza, ma vidi bene l’espressione incerta sul volto dei due uomini che avrebbero dovuto remare. Si scambiarono uno sguardo, qualche parola in dialetto, e Florent fece un gesto spazientito; si riprese il foglio e a matita aggiunse qualcosa, lo ricacciò in mano a uno dei due. Di nuovo mostrò i soldi, e io immaginai che avesse aumentato la sua offerta, pur di essere condotto dove voleva; il denaro è sempre un ottimo metodo di persuasione: quelli infine accettarono, e potemmo salire sul loro sandolo.
Fu una traversata piuttosto lunga, effettuata un po’ a remi, un po’ a vela; provai a chiedere il nome della nostra meta, ma i due uomini si volsero a Florent, e lui scosse la testa. Compresi che non avrei ottenuto risposta e che potevo solo attendere; in silenzio osservavo Florent, che di nuovo si era fatto mesto… e teso, avrei detto.  
Avrei voluto prendergli una mano, tenerla per tutto il tempo; avrei voluto accarezzargli i capelli, e rassicurarlo, stringerlo a me, ma niente di tutto ciò ci era consentito, in pubblico. Mi accontentai di sfiorargli una spalla, di sorridergli rassicurante, e lo lasciai, sperando che quel gesto bastasse a esprimergli la mia vicinanza.
Raggiungemmo un isolotto, infine. La barca attraccò in un piccolo molo, e scendemmo; i nostri due accompagnatori ci avrebbero atteso lì, e io mi augurai che lo facessero davvero: una parte di me temeva che ci derubassero e abbandonassero in quel posto isolato. Florent invece non sembrava preoccupato, e s’incamminò lungo il sentiero lastricato che si inoltrava all’interno. Vedevo, in lontananza, una villa, seminascosta dagli alberi.
Attraversammo un giardino, e notai l’erba alta, le siepi non potate e gli alberi che sembravano incustoditi da tempo… qualche anno, forse; erbacce in abbondanza spuntavano anche fra i lastroni del sentiero. Incontrammo statue e panchine di pietra lungo il percorso, e fontane tristemente asciutte.
Raggiungemmo la villa, ed era grande, bella, di pregevole architettura, ma anche su di essa gravava un’atmosfera spettrale di abbandono; nel silenzio si udiva solo il cinguettare di qualche uccello, ma ciò non portava allegria allo scenario. Al contrario sembrava, per contrasto, sottolineare la desolazione di quel luogo.
Florent si fermò un istante, poi riprese a camminare, stringendosi le braccia al petto come se sentisse freddo. Giunse alla scalinata che conduceva al portone, e iniziò a salire lentamente i gradini, mentre io mi fermai, restando a guardare; mi costava, ma lo consideravo un gesto di rispetto, perché ormai avevo intuito cosa fosse quel posto, e pensavo che lui desiderasse un po’ d’intimità, qualche momento per governare le emozioni.
Florent giunse al portone, e vi posò le mani e la fronte; rimase così, immobile, per lunghissimi secondi, poi si lasciò scivolare giù, di colpo, inginocchiandosi a capo chino, le spalle curve, come se avesse perso ogni energia.
Mi precipitai da lui, dimenticando ogni parvenza di riservatezza; mi accucciai al suo fianco e lo circondai con le braccia, lo baciai su una tempia e finalmente potei tenerlo stretto a me.
 
“Questa era casa tua? Vivevi qui?”
 
Florent annuì, si girò nel mio abbraccio e restò appoggiato a me, premuto contro il mio petto come in cerca di un rifugio, le mani strette al bavero della mia giacca. Tremava un po’, e solo quando smise di farlo si svincolò dalla mia stretta, alzandosi su gambe malferme. Compì solo qualche passo e andò a sedere su uno scalino, inclinandosi per poggiare la spalla contro una colonna. Senza guardare, con una mano, mi indicò una targa di marmo scolpita sopra il portone.  Recava uno stemma, e il nome di famiglia; mi sorrise, triste e rassegnato, come se fosse certo che da quello avrei capito tutto.
Aggrottai le sopracciglia, osservando la targa. Lo stemma non mi diceva nulla, ovviamente, ma il nome, Grimani Renier, mi sembrava di averlo già sentito. Lo ripetei a bassa voce, scavai nei miei ricordi, e d’un tratto rammentai.
I Grimani Renier!
Boccheggiai, e tornai a guardare Florent; mi stava osservando, ma in quel momento distolse gli occhi.
Era una notizia di quattro anni prima, e aveva fatto scalpore anche lontano da Venezia.
Umberto Grimani Renier; il suo nome ricordavo con precisione, quelli di tutti gli altri no. Apparteneva a una famiglia che aveva radici nell’antico patriziato veneziano; era un armatore, un grande proprietario terriero, un noto collezionista d’arte. Ma una serie di sventure in mare e di investimenti sbagliati gli causò ingentissime perdite; si buttò in imprese rischiose e dissennate nella speranza di recuperare i capitali perduti, ma ottenne solo nuovi tracolli. E una certa passione per il gioco d’azzardo fece il resto.
Cercò di mantenere le apparenze, ma fu costretto a vendere una dopo l’altra navi e proprietà, ville e terre… dovette anche mettere all’asta i pezzi della sua preziosa collezione, tutto per pagare i debiti e salvare almeno l’onore. Ignoro se fosse riuscito a saldarli tutti, ma so che amici e soci gli avevano voltato le spalle, e immagino che a un certo punto la sua sanità mentale non doveva più essere integra.
Perché un giorno d’estate… forse ubriaco, forse disperato, di certo impazzito, uccise la moglie, una bellissima e colta donna francese, soffocandola. Uccise, sparando loro, il figlio maggiore e quello più giovane. Uccise persino l’anziano e fedele domestico che era rimasto al suo servizio anche nella disgrazia, e infine… si impiccò. Lasciò dietro di sé poche righe in cui spiegava il proprio gesto, la paura, la disperazione e la vergogna, e in cui chiedeva perdono.
Solo il figlio di mezzo era scampato al massacro, un giovane di diciotto anni appena compiuti di cui non si trovò più traccia.
Sentivo come un ronzio nella testa, e un peso sul petto che mi impediva di respirare liberamente. Mi sembrava che quel caldo mattino d’estate fosse diventato gelido, che se avessi provato a muovermi la vertigine mi avrebbe inghiottito. Florent guardava il prato davanti a sé con occhi vacui, e fu su gambe malferme che andai sedermi accanto a lui; non sapevo cosa dirgli, perché sentivo che ogni parola sarebbe stata vuota e insulsa. Era talmente spaventoso, ciò che avevo appena scoperto… come si può confortare qualcuno che ha vissuto una mostruosità del genere?
 
“Tu sei… tu sei il figlio che si salvò.”
 
Dissi, come uno stupido, e il suo assentire fu così leggero da essere quasi impercettibile.
 
“Come facesti a… cosa ti successe?”
 
Florent trasse di tasca taccuino e matita, e scrisse.
 
“Ero andato in città. Ero uscito all’alba, tutti ancora dormivano… un mio buon amico, Gabriele, era venuto a prendermi. Nel pomeriggio c’era un concerto all’aperto in piazza San Marco a cui desideravo assistere... volevo passare una giornata serena, lontana dalle angosce della mia famiglia. Avevo intenzione di rincasare di sera, ma lo feci solo la mattina successiva. E trovai ”
 
Lasciò cadere matita e taccuino; le mani gli tremarono, e le congiunse, intrecciando le dita e raccogliendole al petto. Il respiro ansante, il capo chino.
Capii che si stava dominando per non cedere alla commozione e ai ricordi, alla schiacciante pressione emotiva che quel posto esercitava su di lui. Per anni doveva aver cercato di dimenticare, di seppellire quel dolore il più profondamente possibile, e ora…
 
Mio amato Florent, non è necessario mostrarsi sempre forti, incrollabili anche quando la sofferenza ci strazia e reclama le nostre lacrime. Se desideri piangere, piangi… non ti farà male. E se vuoi che non ti veda, chiuderò gli occhi, ma intanto ti stringerò fra le braccia, e ti chiederò scusa, perché tante volte ti avevo chiesto del tuo passato, senza sapere quanti brutti ricordi, quanti incubi, nascondesse.
 
Parole che pensai, ma non pronunciai; lo presi però fra le braccia. Lo strinsi, muovendomi piano come per cullarlo, per avvolgerlo completamente nel mio calore e nel mio amore, e farlo sentire meglio, così come io mi ero sentito sereno e al sicuro sfogandomi fra le sue braccia, la nostra prima notte d’amore insieme. E so che le mie pene non erano paragonabili alle sue, ma in quel momento stavo soffrendo insieme a lui, e il mio unico desiderio era farlo stare meglio.
Lo strinsi ed accarezzai finché fu lui ad alzarsi, a occhi ancora asciutti, perché nonostante tutto non aveva versato nemmeno una lacrima; mi tese una mano, e tenendoci così facemmo il giro della villa. Camminammo fino a raggiungere un piccolo frutteto; gli alberi, seppur trascurati da anni, erano carichi di pesche, piccole e bruttine, ma dolcissime, come scoprii dopo averne colta qualcuna. C’era anche un gazebo, ed è lì, seduti all’ombra su una delle panchine di pietra, che venni a sapere il resto.
Florent non era cresciuto in quella villa. Vi trascorreva qualche settimana d’estate, da bambino e da ragazzino, ma la sua famiglia abitava in un bel palazzo antico che dava sul Canal Grande. In quella casa solitaria la sua famiglia si era trasferita quando lui aveva sedici anni, perché il palazzo era stato venduto per far fronte ai debiti. Florent pativa quell’isolamento, e quando poteva fuggiva in città e vi trascorreva qualche giorno, ospite del suo amico Gabriele. Come quella volta fatale. Non aveva avuto il permesso di andare, perciò si era allontanato di nascosto.
Quando era rientrato e aveva trovato il massacro, al proprio fianco aveva quell’amico con cui aveva passato ore spensierate in città, felice e ignaro del destino che aveva scampato. Era stato quel giovane a sorreggerlo e a portarselo via, lontano dalla morte e dal sangue; fu attento che nessuno lo vedesse e lo portò in casa propria, poi diede l’allarme.
Per quasi due mesi Florent era rimasto nascosto nell’alloggio di Gabriele, sconvolto, insonne, sperduto, poco più di un ragazzino. Ricordo la notizia della strage, e ricordo vagamente le ipotesi che si fecero sulla scomparsa del figlio di mezzo: a volte assurde, a volte vergognose e crudeli. Ma non vi badai più di tanto, a quei tempi: perché mai avrei dovuto?
Poi, una notte di luminosa luna piena, Florent si fece riaccompagnare alla villa; i morti giacevano sepolti al cimitero, il sangue era stato lavato via, ma niente altro era cambiato. Il portone era aperto, ma nessuno era più entrato, nemmeno gli sciacalli, per rubare i pochi pezzi di un qualche valore rimasti in casa; la disgrazia era recente, ma molto in fretta si era sparsa la superstizione che quel luogo portasse male, che le anime degli assassinati lo infestassero. Florent non rimase molto: ficcò alcuni abiti in una sacca da viaggio, un pettine, uno specchio, e una boccia di profumo. Taccuini e matite, un piccolo libro di poesie, del denaro datogli dal suo amico. E, naturalmente, il suo amato, inseparabile violino.
Un paio di giorni dopo partì, con l’aiuto di Gabriele, che gli diede altro denaro e provvide a metterlo su una nave. Sbarcò in Emilia, senza sapere ancora dove sarebbe andato e cosa avrebbe fatto, sicuro solo di doverci riuscire con le proprie forze.
C’erano tante cose che non capivo, e glielo dissi: perché andarsene così, per vivere nella miseria e nell’incertezza? Doveva pur avere qualche parente che potesse accoglierlo!
Scrisse la sua risposta, nella quale riuscii a percepire tutta la sua rabbia, come l’avesse espressa a voce.
 
“Parenti? Quali? Quelli che non avevano aiutato mio padre, che gli avevano voltato le spalle? Quelli che mi consideravano un minorato perché non posso parlare? Quelli che probabilmente mi avrebbero rinchiuso in un istituto per tarati?”
 
E allora, protestai ancora, perché non aveva chiesto aiuto al suo amico, a Gabriele? E come aveva potuto, lui, consentirgli di andarsene in quelle condizioni disperate? Io mai, mai gli avrei permesso di…
Florent non mi lasciò finire.
 
“So che non puoi capire. Non potevo, non riuscivo a restare a Venezia. Troppo dolore. Così sono… scappato. Anche io sarei dovuto morire quella notte. Pensai che l’essere vivo significasse dover iniziare da zero. Altrove.”
 
Si voltò a guardare da dove eravamo venuti, verso la villa.
 
“Gabriele comprese ciò che provavo. Non fu felice della mia decisione, provò a farmi cambiare idea, ma alla fine mi lasciò libero di scegliere. Mi aiutò ed ebbe fiducia in me.”
 
Non approvavo, e glielo dissi. Era follia. Io non l’avrei lasciato andare, e se non fossi riuscito a trattenerlo, sarei partito insieme a lui. Florent sorrise, quel suo sorriso dolcissimo che mi manca così tanto, e mi accarezzò il viso.
 
“La madre di Gabriele era molto malata, di tisi, e lui non voleva né poteva lasciarla. Né io avrei voluto lo facesse. Mi spostai spesso… prima in Emilia, poi in Lombardia. A Milano rimasi quasi un anno. Poi andai in Piemonte, a Torino, e anche lì restai piuttosto a lungo. Ripresi a vagabondare, e infine giunsi a Genova. Un’altra città di mare, anche se completamente diversa… mi piacque moltissimo. Trovai alloggio in una minuscola soffitta in una viuzza vicino alla cattedrale. Ci stavano a malapena un letto, un tavolo e una sedia. C’era anche un baule, ma tutti i miei averi li portavo sempre con me nella sacca, perché temevo di essere derubato da chi era ancor più povero di me. Lì ho vissuto sei mesi. Poi ho incontrato te.”
 
Posò la matita e con la mano fece i suoi velocissimi segni.
 
Fiorenzo.
 
Sulle prime non capii, quindi lui ripeté e poi si toccò il petto.
 
“Fiorenzo… sei tu?”
 
“Il mio vero nome. Ma mia madre mi ha sempre chiamato Florent. E tutti quelli che mi volevano bene.”
“Allora continuerò a chiamarti Florent per sempre.”
 
Vidi la commozione nei suoi occhi; strinse le labbra in un sorriso tremulo e annuì, tornando fra le mie braccia, forse anche per poter nascondere il viso contro la mia spalla. Restammo nel gazebo per un po’, stretti l’uno all’altro, e poi passeggiammo per il frutteto, mangiando qualche pesca e impiastricciandoci di nettare zuccherino. Era una giornata luminosa e serena, e ancora mi sembrava impossibile che tanto orrore avesse toccato quel luogo.
Mentre tornavamo verso il molo, Florent si fermò a guardare la villa; un brivido gli attraversò le spalle, deglutì, e il suo respiro si fece profondo, tremante, come se stesse trattenendo il pianto. Mio povero Florent. Mio coraggioso, orgoglioso, dolceamaro Florent, che se avesse potuto leggere tutta quella compassione nel mio cuore mi avrebbe forse dato uno schiaffo.
 
“Vuoi… vuoi entrare?”
 
Scosse la testa; feci per prenderlo per mano, ma mi sfuggì come acqua tra le dita. Corse in avanti, diretto al molo, senza fermarsi al mio richiamo, lasciandosi alle spalle il passato e la sua vecchia dimora.

__________

NdA


Ecco svelata la storia di Florent; non finisce qui, altri particolari sul suo passato verranno dati nel capitolo successivo. Spero l’abbiate trovata interessante, perché è una delle parti che più ho amato scrivere; questo sia perché ci tenevo ad approfondire un po’ Florent, o Fiorenzo Grimani Renier, sia perché cominciano a fare capolino certi aspetti del carattere di Riccardo non proprio positivi.
Il nome completo di Florent l’ho scelto fra cognomi importanti, di patrizi e dogi, non c’è nessun caso di cronache familiari sanguinarie che li riporti.
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate… in ogni caso, grazie per aver letto!


 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 8

 
_______________
 
 
Comprai quella casa, molto tempo dopo. La feci restaurare, perché gli anni d’abbandono avevano lasciato il segno; la riportai allo splendore, il giardino e il frutteto furono nuovamente curati, statue e panchine vennero ripulite, le fontane tornarono a zampillare. Nei vent’anni e più che vissi a Venezia trascorsi lì le mie estati, nonché i giorni in cui sentivo più forte il bisogno di solitudine.
Avevo acquistato anche un bell’alloggio di due piani in campiello del Remer, ed era lì che abitavo il resto dell’anno; mi sarebbe piaciuto diventare il nuovo padrone del signorile palazzo in cui Florent era cresciuto ma, anche fosse stato in vendita, era molto al di là delle mie pur floride disponibilità economiche. Mi accontentavo di ammirarlo quando in gondola scivolavo lungo il Canal Grande, immaginando come dovessero essere le sue sale, chiedendomi quale fosse, tra le finestre, quella a cui Florent si affacciava per guardare fuori dalla propria stanza.
 
Mi piaceva vivere a Venezia, sia nel cuore vivace della città che nella villa solitaria sull’isola. Quella era una casa davvero troppo grande per un uomo solo, ma non importava: amavo quelle stanze dai soffitti affrescati e dagli stucchi eleganti, amavo ogni suo angolo e ogni suo particolare… la amavo anche se mi metteva sempre addosso tanta malinconia e rimpianto. Eppure, nonostante il male al cuore, era lì che andavo quando desideravo silenzio e raccoglimento.
Sbagliavano le voci superstiziose; l’unico fantasma che si aggirava fra quelle mura ero io; io, in cerca dell’ombra del passato lì trascorso. Pensavo a Florent e agli anni che aveva vissuto in quel luogo, e mi auguravo che anche in una situazione tanto difficile avesse avuto dei giorni felici. Che non gli fosse mancato l’affetto, che avesse conservato la speranza di un futuro sereno, libero da debiti e preoccupazioni… che avesse sempre trovato consolazione e gioia nel suonare il suo violino.
E immaginavo che, tendendo l’orecchio, avrei potuto sentire l’eco lontana della musica, come lo sbiadito ricordo di un sogno.
 
In quella giornata della mia giovinezza, dopo aver lasciato l’isola, Florent non accennò più al proprio passato, né diede segno di essere turbato; sorrideva, ma lo faceva troppo e in un modo che non mi sembrava sincero. Era una maschera, e una barriera, un muro dietro al quale si nascondeva… io, però, riuscivo a vederlo lo stesso. Provai a chiedergli se si sentisse bene, se desiderasse rientrare subito nella tranquillità del nostro alloggio, e lui rispose che era tutto a posto, di stare tranquillo, che il brutto momento era passato e ora si sentiva sereno.
Volle andare alla basilica dei Frari, uno dei luoghi che amava di più, e di cui anch’io m’innamorai: era tanto imponente e ricco d’arte da non cessare mai di riempirmi di meraviglia e ammirazione. Ogni volta che la visitavamo sostavamo qualche minuto davanti al monumento funebre a Canova, e mi scuoteva ed emozionava il pensiero che a pochi passi da me ci fosse il cuore del venerato maestro, custodito in un’urna. Non sono mai stato un cristiano devoto, ma a quel grande scultore non mancavo mai di rivolgere una preghiera laica.
Poi tornammo a Piazza San Marco, e al Florian, dove ormai eravamo presenze abituali; prendemmo caffè con il brandy, e piccoli, deliziosi biscotti di frolla. Facemmo acquisti: in una libreria antiquaria comprai i quattro libri dell’architettura del Palladio, in un’edizione vecchia più di duecento anni; a Florent regalai dei bellissimi gemelli d’oro e opale, realizzati da un orefice che aveva la sua bottega in Dorsoduro. Sulla via del ritorno spiegai al mio amato che per gli antichi romani quella gemma rappresentava la speranza e la purezza d’animo, e che credevano proteggesse dalle malattie la parte del corpo su cui veniva posta.
 
“Perché i polsi sono importanti, per un violinista. E perché la tua nobiltà d’animo splende come i riflessi di questa pietra… e perché la speranza illumini sempre il tuo cuore.”
 
Florent mi prese per il gomito e mi trascinò in una calle in ombra, strettissima, tanto che una persona, camminandovi, quasi sfiorava le pareti con le spalle; lì mi prese il viso fra le mani e mi baciò.
Una follia, ma quanto fu meraviglioso!
Lì gli tolsi dalla camicia i gemelli d’argento che indossava e gli misi quelli appena comprati; non ebbi il coraggio di confessarglielo, ma nel mio cuore era quasi come se gli stessi mettendo al dito un anello nuziale. Lui mi baciò un’altra volta, e poi uscimmo di nuovo nel sole, diretti all’albergo. Ricordo… sul ponte della Paglia sostammo per un po’, perché Florent mi chiese di realizzare per lui uno schizzo del ponte di Sospiri. Quel che feci fu un po’ più che uno schizzo, ma a lui non dispiacque aspettare; mi stava accanto, guardandomi disegnare, e ogni volta che mi voltavo a guardarlo, mi sorrideva.
Tutto sembrava perfetto, ma in me persisteva cocciuta la sensazione che il cuore di Florent fosse ancora in tumulto; tutto ciò che mi aveva raccontato, aveva rivissuto, non poteva essere già stato lasciato alle spalle come una faccenda di poca importanza. Non insistetti, ma mi aspettavo di vederlo crollare.
E non sbagliavo.
 
Andammo a dormire presto quella sera, e mi svegliai, senza un apparente motivo, mentre batteva la mezzanotte. I rintocchi terminarono, la stanza sembrava silenziosa, ma in quella quiete, immobile a fissare il buio, sentii un rumore lieve; come un singulto represso, soffocato nel cuscino.
 
“Florent?”
 
Quasi sempre dormivamo abbracciati, o almeno vicini, sfiorandoci; in quel momento invece se ne stava discosto. Quando a letto lo chiamavo, se era sveglio mi rispondeva stringendomi, baciandomi il viso, o una spalla; in risposta ebbi solo il fruscio delle lenzuola. Era sveglio, ne ero certo, ma mi aveva ignorato.
Alla cieca accesi il lume sul comodino e mi voltai verso di lui, chiamandolo ancora, e vidi la sua sagoma che mi dava le spalle strettamente rannicchiata sotto il lenzuolo, che aveva preso tutto per sé, mentre io dormivo scoperto, per via del caldo.
 
“Florent, stai bene?”
 
Cercai di scostare il lenzuolo, ma lui si oppose, trattenendolo e dando anche un brusco strattone, dopo le mie insistenze. Mi rattristò vederlo così, mi angosciò il senso d’impotenza che provai… e mi irritò il suo evitarmi. Perché non cercava il mio appoggio, il mio abbraccio? Non mi considerava degno, forse? Non si fidava abbastanza da mostrarmi un momento di sconforto? Per un attimo montò in me l’offesa, ed ebbi la tentazione di voltarmi dall’altra parte e riprendere a dormire, di parlargli duramente, lasciando che affrontasse da solo il suo dolore, se riteneva che il mio interessamento fosse una seccatura.
Erano pensieri stupidi, figli del mio ego ferito… infantili, addirittura. Forse ero spaventato dall’idea di non essere importante per Florent quanto lui lo era per me, e la rabbia che sentivo era in realtà solo insicurezza. Me ne resi conto in fretta, e mi vergognai; in definitiva, l’amore vinse. Non tentai più strappargli delle parole: lo abbracciai attraverso la barriera del lenzuolo. Quello poteva bastare, per fargli sapere che c’ero; lo sentivo tremare, e continuai a tenerlo stretto, accarezzandolo consolatorio, lasciando, di tanto in tanto, leggeri baci sulla sua nuca. Il tempo passò e lui si quietò, tanto che credetti si fosse addormentato, ma sbagliavo. Emerse dal suo rifugio e si voltò verso di me; il suo viso era così malinconico e sperduto che mi si spezzò il cuore. Toccai con esitazione le sue ciglia ancora umide, sperando di portare via un po’ di tristezza, insieme alle lacrime.
 
“È stato terribile per te tornare lì, vero? Rivedere quella casa, forse persino rivedere questa città. Mi dispiace. Vorrei poter fare qualcosa per… per rimediare. Per farti sentire meglio. E poi… scusa per le volte in cui, in passato, ti ho chiesto della tua famiglia. Se avessi immaginato quanto dolore provocavano le mie domande…”
 
Florent mi zittì posandomi due dita sulle labbra, i suoi occhi ancora tristi, ma l’espressione raddolcita da un piccolo sorriso. Prese il taccuino sul suo comodino, e iniziò a scrivere.
 
“Ricordi il concerto al Carlo Felice? L’ultimo brano che suonarono, “La Tempesta di Mare”… non era in programma. Fu anche l’ultimo brano che ascoltai quella volta, anni fa. Quando uscii di nascosto per ascoltare il concerto all’aperto, in Piazza San Marco. Capisci?”
 
Non so se capii veramente: anche con tutto l’impegno e l’empatia, non era una sofferenza che potevo figurarmi appieno. Troppo vasta, troppo profonda, troppo cupa. Né sapevo cosa avrebbe potuto essere di consolazione, in quel momento, per lui che aveva perso tutto da un momento all’altro, che solo per caso si era salvato. La morte aveva gettato la sua ombra tanto vicino a Florent da farmi rabbrividire. Il solo pensarlo mi faceva desiderare di stringerlo a me con tutta la forza che avevo, e non lasciarlo andare mai.
 
“Perché non me?”
 
Sottolineò tre volte quella frase, rabbiosamente, e io non la capii. Come avrei potuto? Non avrei mai potuto concepire un sentimento del genere.
 
“Perché mio padre non ha preso anche me? Perché non mi ha aspettato? Perché non mi ha voluto? Perché si è portato via tutti e mi ha lasciato solo?”
 
Allora compresi quel che gli passava per la testa, il suo pensiero contorto, insano.
Sentirsi abbandonato perché era sfuggito alla morte, e chiedersi perché il padre non l’avesse atteso per prendersi anche la sua vita, perché avesse compiuto quel gesto insano proprio quando lui era lontano da casa. Gli voleva troppo bene per ucciderlo, o non gliene voleva abbastanza?
Avevo considerato solo la sofferenza atroce dell’aver perso la propria famiglia, ma non mi aspettavo quella dell’essere sopravvissuto. Se già prima era difficile trovare le parole per consolarlo, ora mi sembrava impossibile.
 
“Florent, lui non era in sé. È stata la follia a guidarlo. Non credo fosse un uomo cattivo, ma era impazzito, o era così disperato da non riuscire a ragionare, da non vedere una speranza. Né per lui, né per nessuno. Doveva avere terrore della miseria, del disonore, del futuro stesso. Forse era qualcosa che ribolliva nel suo animo da tempo, e infine è esploso, la sua mente si è spezzata... ed è avvenuto mentre tu non c’eri. E non credo che, dopo aver fatto ciò che fece, sarebbe stato in grado di attenderti per prendere anche la tua vita. Non sei vivo perché ti amava di più o di meno degli altri: è stato il caso a salvarti. Ti prego, siine grato.”
 
Avevano un senso, quelle mie parole? Non credo che fossero eloquenti, o anche solo convincenti, ma l’emozione mi strozzava. E forse era meglio così: la ragionevolezza, la logica, non avevano posto; sarebbero state inadatte, impersonali. Io volevo essere per lui dimenticanza e sostegno, rifugio e serenità. Visto che non riuscivo a esprimere a voce ciò che provavo, pensai che la vicinanza fisica avrebbe costituito la migliore consolazione.
I miei baci furono leggeri, le mie carezze insistenti; sulle prime lui fece per respingermi, come per un qualche tipo di pudore della propria fragilità, ma fu solo un attimo. Sospirò, cercò la mia bocca e si abbandonò a me, completamente, con fiducia. Era languido, ma in un modo che andava oltre la sensualità, il desiderio; era come se, più che mai, cercasse un’unione completa, spirituale. Come se cercasse appartenenza. E io sopra ogni altra cosa volevo che si sentisse amato, al sicuro. Con i baci di farfalla che si erano fatti rapaci, eppure sempre pieni di dolcezza e devozione, gli promettevo che mai più nulla di male gli sarebbe successo.
Il mio cuore impazzì come la prima notte che ci amammo, e mi resi conto di essermi commosso solo quando vidi le mie stesse lacrime cadere sul suo volto.
 
Più tardi Florent, finalmente sereno, dormiva stretto a me, una mano intrecciata alla mia. Io ero lì, a occhi aperti, e vegliavo, per poterlo destare se gli incubi lo avessero assalito.
Vegliavo, e mi sentivo un verme. Un infame e un immorale, e a ripensarci ancora provo lo stesso disgusto di me stesso, a distanza di mezzo secolo, perché…
Perché nonostante quanto ancora fosse cocente il dolore di Florent, e quanto orribile dovesse essere stato scoprire i cadaveri dei propri cari… nonostante il lutto straziante, e la dura vita che aveva conosciuto dopo quel giorno… nonostante tutto ciò, nelle ultime ore nel mio cuore aveva messo radici un’oscura e perversa gioia.
Perché quella sventura lo aveva condotto fino a me.
Perché ero l’unica persona che lui avesse, e perciò non mi avrebbe mai, mai lasciato.
Pensai che se nulla di male gli fosse mai accaduto, se suo padre non avesse commesso quel sacrilegio… o se addirittura non fosse stato sommerso dai debiti… se tutto nella sua vita fosse andato bene, Florent, spensierato e felice, non avrebbe lasciato Venezia, e non ci saremmo mai incontrati.
La sua tragedia era la mia fortuna, e io ero grato che fosse accaduta.
Esultavo della rovina che aveva distrutto la sua famiglia, che gli aveva tolto tutto, rendendolo solo mio.
 
Forse questa schiacciante solitudine nella mia vita è la punizione per gli ignobili pensieri di quella notte lontana, il meritato castigo per il mio cuore egoista.

__________

NdA


Il campiello del Remer dove Riccardo prese casa si trova vicino a Ponte di Rialto, più o meno di fronte all’Erberia. È un angolo davvero delizioso! Ma ha il suo lato macabro…
A Venezia le leggende e le storie di fantasmi abbondano, e una riguarda anche questo campiello. Si racconta che una sera del 1598, il doge Marino Grimani si trovava a passare da quelle parti, e udì delle urla femminili; vide fuggire in direzione del campiello una donna, inseguita da un uomo armato di spada. Li inseguì, riconoscendo poi in essi la nipote Elena e il di lei marito Fosco Loredan, che folle di malriposta gelosia voleva uccidere la moglie. Il doge si frappose fra loro, offrendo protezione alla nipote; il marito si finse remissivo, ma poi, con l’inganno, distrasse il doge e decapitò la moglie. Sulle prime il doge, stravolto dall’ira, fece per attaccare Fosco, ma poi si frenò. Decretò invece che l’assassino si recasse a Roma, con il cadavere sulle spalle e la testa mozzata fra le mani, e al cospetto del Papa mostrasse il suo crimine, perché fosse lui a stabilire la punizione.
Ma il Papa fu talmente sconvolto che non lo volle nemmeno ricevere, così Fosco tornò a Venezia e, nello stesso luogo dove aveva ucciso la moglie, si gettò in acqua con la testa di lei. Da allora, si dice, di tanto in tanto il cadavere riemerge tenendo fra le mani la testa di Elena.
 
(se vi interessano storie come questa, vi consiglio ‘Leggende veneziane e storie di fantasmi’ di Alberto Toso Fei. Il libro è interessante ed è un’ottima “guida turistica alternativa”)
 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 9

 
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Le mie mani, l’ho già accennato, sono doloranti e deformate dall’artrite; tutte queste pagine, vergate poco a poco in una grafia angolosa, mi sono costate ore di sofferenza fisica, oltre che dell’anima. Negli ultimi dieci giorni non ho scritto per nulla: troppo forte il dolore, impossibile reggere la penna per più di pochi minuti; solo oggi riesco a riprendere la stilografica.
Una cosa però non ho mancato di fare, ogni giorno: recarmi al cimitero, per salutare il mio Florent di marmo… per porgergli le mie scuse, riempirmi gli occhi del suo volto e sfiorare la sua veste. Mi pento, a volte, di non aver mai voluto farci fotografare; in qualsiasi momento avrei potuto rivedere il suo viso, e il mio insieme al suo, ritrovandoci giovani e ancora felici. Ma consideravo la fotografia qualcosa di così freddo e sterile, così privo di anima rispetto a un ritratto, o a una statua, che mai nemmeno lo proposi. Fotografia o no, il suo volto è ben impresso nella mia mente, come se lui fosse ancora insieme a me; a guardare la sua statua, al bianco marco sovrappongo i suoi colori
Sosto davanti a lui a lungo, a volte passano ore senza che io me ne renda conto, poi di solito faccio una passeggiata per il cimitero, leggo epitaffi ipocriti su tombe di sconosciuti, seggo su una panchina, rifletto.
Oggi a quella passeggiata fra le tombe ho dovuto rinunciare, perché mentre ancora ero in raccoglimento davanti al sepolcro, ho sentito una voce conosciuta chiamarmi, intrisa di rimprovero.
Era l’altro cavasangue, quello giovane.
Il mio medico ha una certa età e anela ormai al ritiro, e sta man mano lasciando i pazienti al suo assistente, un giovanotto che non avrà nemmeno trent’anni, e che se è possibile è persino meno accomodante del suo mentore. È alto, ancor più di me; o forse lo è semplicemente quanto lo ero io da giovane, e il suo viso è dipinto in colori nordici: capelli biondo chiaro, occhi di un verde pallidissimo. Ha tratti decisi e una mascella volitiva; solo raramente l’ho visto sorridere, e il suo atteggiamento è distaccato e severo, capace di incutere soggezione, anche se certo non in me. Ha un certo fascino innato, del quale suppongo sia del tutto inconsapevole. Come potrebbero rendersene conto, d’altra parte, quando tutta la sua vita è concentrata sul lavoro, sullo studio, e sul rendere la mia esistenza ancor meno sopportabile?
 
“Signor Varnesi – l’ho sentito chiamarmi – è di nuovo qui! Sa che i suoi dolori peggioreranno, se si ostina a uscire con questo tempo umido! O dovrò forse rifiutarle la morfina, la prossima volta che soffrirà come un cane?”
 
Talvolta ha anche una maniera di esprimersi che poco si addice a un medico. E ditemi se arrivato alla mia età devo patire le prediche di qualcuno che potrebbe essere mio nipote. Avrei voluto ignorarlo, ma sapevo che non si sarebbe fatto scrupolo di trascinarmi via con le brutte maniere. Così, con gli occhi fissi sul mio Florent come a cercare comprensione, gli ho risposto.
 
“Di questi tempi addestrano i medici all’arte del ricatto, pare. Che stranezza. Quand’ero giovane si limitavano a insegnar loro l’arte di far morire la gente anche solo per un’unghia incarnita.”
 
Speravo di irritarlo, ma lui ha risposto placidamente.
 
“Mi risparmi il sarcasmo e mi segua; ho parcheggiato l’automobile appena fuori dai cancelli.”
 
L’automobile. Detesto quei trabiccoli dalla loro prima apparizione sulle nostre strade; avrei preferito tornare a casa a piedi, ma, rassegnato al fatto che quel seccante discepolo di Ippocrate non me l’avrebbe mai permesso, mi sono avviato per conto mio, con uno sbuffo seccato e senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Forse si era presentato a casa mia per controllare come stessi, e la mia governante l’ha pregato di venire a cercarmi per ricondurmi all’ovile; ciò a ulteriore riprova che sia lui che lei sono incapaci di badare agli affari propri.

Sono ingiusto nei loro confronti. Dovrei essere grato per la cura che hanno nei miei riguardi… e in realtà lo sono, ma è come se l’amarezza traboccasse da me in ogni istante, riversandosi sugli altri. Il mio carattere non era così ruvido, un tempo, ma immagino che la vecchiaia abbia esasperato i suoi tratti peggiori. Per una volta ero stato sul punto di scusarmi, ma prima che lo facessi è stato lui a prendere la parola.
 
“Lei viene sempre qui, davanti a quella tomba. Era… era una persona a lei cara?”
 
Non mi aspettavo una domanda del genere da lui, sempre piuttosto taciturno, e discreto riguardo emozioni e sentimenti: non mi ha mai chiesto nulla sulla mia famiglia, o sulla mancanza della stessa. Né sul mio privato, a meno che non riguardasse abitudini che possono avere influssi deleteri sulla mia salute.
 
“È la mia tomba.”
 
Gli ho risposto, piattamente.
Ed è la pura verità. Però lui non può capire, e io non posso spiegare: è una storia troppo lunga, troppo amara per essere raccontata a voce. Scrivere è diverso. Scrivere è una confessione che rivolgo a tutti e a nessuno, e che potrà anche finire tra le fiamme del camino. È uno sfogo e una punizione, perché mettere su carta la mia passata felicità, e la sua fine, è ancor più doloroso che rievocarle solo nella mia mente.
E poi non sopporterei di vedere il biasimo sul volto di quest’uomo, né voglio subire il suo giudizio; non perché abbia paura di ciò che potrebbe pensare, sapendo che ho amato un ragazzo… io temo che possa dirmi ad alta voce ciò che la coscienza mi sussurra da mezzo secolo.
È stata tutta colpa mia.
Posso incolpare soltanto me stesso.
 
Non ho aggiunto altro a quella breve spiegazione, e con una mano ho sfiorato il mio Florent di liscio marmo, promettendogli che sarei tornato il giorno successivo, e ho seguito il mio giovane dottore in silenzio. Un silenzio, teso e pesante, che è durato per tutto il tragitto verso la mia dimora, e che non trovavo la forza o la volontà di rompere. C’è sempre stata questa incomunicabilità, fra noi, e mi rendo conto che è tutta dovuta all’atteggiamento ostile che ho avuto verso di lui fin dal primo momento. Ragionando me ne dispiaccio, perché è un uomo intelligente, e sotto la sua scorza professionale si intuisce un animo sensibile e paziente (e ama la poesia, più di una volta ho visto piccoli libri fare capolino dalla tasca della sua giacca: Shelley, Keats, Coleridge); non ha mai fatto nulla per guadagnarsi la mia antipatia, e anzi ha cercato di instaurare un buon rapporto con me, all’inizio; solo dopo qualche tempo si è adeguato all’atteggiamento freddo che gli rivolgo. Sono consapevole che sarebbe un’ottima persona da avere come amico, e che non ha alcuna colpa dei fantasmi che suscita nei miei ricordi… ma lo stesso non riuscirò mai a guardarlo in faccia senza provare disagio, a discorrere con lui in serenità. È illogico, ma non riesco a farne a meno.
Tutto questo perché lui somiglia in maniera impressionante all’uomo che detestai fin dal primo incontro, cinquant’anni fa.
L’uomo che odiai quanto Florent lo amava.
L’uomo la cui comparsa segnò la mia rovina, perché da insicuro egoista quale fui e sono, non seppi fidarmi e ferii chi non avrei mai voluto addolorare.
 
Il tragitto in macchina verso casa mia è trascorso quasi tutto nel completo silenzio, in mutuo disagio. Mi sono permesso, ogni tanto, di osservare il dottore, ma non penso che ne sia accorto, concentrato com’era sulla guida. Per ironia della sorte non solo somiglia fisicamente a quell’uomo, ma anche il nome è assonante: lui è Daniele, l’altro era Gabriele.
Gli ho detto, secco, a un certo punto:
 
“Siamo quasi arrivati; mi lasci qui, voglio proseguire a piedi.”
 
Visto che non mi ha dato retta, continuando a guidare come nemmeno avessi parlato, ho ripetuto le mie parole, sottolineando che glielo stavo ordinando. Lui ha risposto placido, senza togliere gli occhi della strada.
 
“Non sono il suo autista, quindi non può darmi ordini. Inoltre questa umidità non fa bene alla sua artrite, né il freddo giova alla sua salute in generale.”
 
La sua tranquillità mi ha irritato, e allo stesso tempo ha prosciugato le mie energie; mi sono sentito d’un tratto spossato, di una fiacchezza più mentale che fisica. Stanco di avere a che fare con chi non mi può capire, disperato per la mia incapacità di cercare conforto nella vicinanza di altre persone.
Ho emesso uno sbuffo seccato, nella speranza di non far capire quanto mi sentissi turbato.
 
“Ebbene, anche se peggiorassi che importerebbe? Sono già fin troppo vecchio, e non mi importa più di vivere, poiché non ho più nulla da realizzare. Se vuole veramente aiutarmi perché non mi permette di morire il più in fretta possibile?”
“Smetta di fare discorsi assurdi.”
“Assurdi? Ma non ha gli occhi per vedere che trascino il mio corpo e i miei giorni come inutili fardelli? E lei avrebbe il potere di porre fine a tutto questo con facilità, se volesse… dandomi l’unico aiuto di cui ho davvero bisogno. Certe medicine non servono solo a guarire, o sbaglio?”
 
A ripensarci, mi sembra impossibile d’averglielo chiesto davvero. Di darmi un veleno che ponga fine alla mia vita, a tutti i miei rimpianti, alle mie sofferenze.
Ed è stato lì che lui ha accostato la macchina e si è fermato, voltandosi finalmente a guardarmi con occhi di fuoco; l’ho visto serrare i muscoli della mandibola, e contrarre gli angoli della bocca. E quando ha parlato, il suo tono possedeva una calma gelida che mi ha fatto avvampare.
 
“Non posso accontentarla, signor Varnesi. Eppure lei, nonostante le sue mani sofferenti, ancora si ostina a radersi da solo tutte le mattine… e i rasoi tagliano, o sbaglio? Perché dovrebbe aver bisogno del mio aiuto in questo senso?”
 
Ho taciuto, cercando di mostrarmi impassibile, anche se avrei voluto urlare, e piangere, e confessare… magari dopotutto quest’uomo può capire. Per la prima volta mi sono accorto che anche nei suoi occhi c’è l’abisso, e l’espressione del suo volto è una tavolozza composta di rammarichi e tristezze. Era come se avessi toccato un nervo scoperto, come se le mie parole avessero scoperchiato vecchie tombe, destando i fantasmi che in esse avevano dimora.
Ci siamo fissati ancora qualche secondo, poi si è rimesso sulla strada, proseguendo verso casa, e la cortina del silenzio ci ha separato ancora una volta. Mentre guidava, io riflettevo sulle sue parole, così vere. Ogni giorno potrei farlo io stesso, ho un rasoio affilato, ho persino una pistola. Ho la fantasia del mio funerale impressa nella mente ormai da anni.
E tuttavia, vivo.
Arranco.
È una sorta di autoinflitta punizione? È vigliaccheria?
È l’assurda, impossibile speranza di svegliarmi un mattino di nuovo giovane, e che uscendo per strada, godendo di gambe vigorose, muscoli svelti e polmoni capaci di respirare senza fatica, le mani di nuovo forti e agili, io possa incontrare un Florent altrettanto giovane? E riparare all’errore, percorrere la strada che abbandonai così tanti anni fa.
 
Sono a casa, ora, di nuovo solo. Continuo a scrivere ciò che fu, e dalla finestra vedo cielo scuro, e mare agitato.
 
***
 
Ci fermammo a Venezia altre due settimane, e furono splendide. Non vidi più la tristezza negli occhi di Florent, i suoi sorrisi e il suo entusiasmo tornarono a essere autentici; era come se tutti i demoni fossero stati esorcizzati, e se magari non erano davvero spariti, almeno sembravano profondamente addormentati.
In quei giorni visitammo chiese e palazzi, e talvolta mi fermavo a riprodurre su un album le decorazioni e le statue che ne ornavano le facciate. Girammo la città in lungo e in largo, e la sua bellezza continuava a riempirmi d’ispirazione; ritrassi anche gli angoli per me più suggestivi, e pure Florent ci provò… devo dire, per il disegno non aveva certo lo stesso talento che aveva per la musica, ma era divertito e comunque orgoglioso di quelle opere sbilenche e prive di proporzioni. Le amavo anche io, e amavo l’espressione concentrata sul suo viso, il modo in cui si mordicchiava il labbro, mentre disegnava.
 
Raggiungemmo Murano e Burano e comprammo doni per Matilde, di vetro variopinto e merletto delicato; andammo a Torcello, e al Lido dove passeggiamo su una spiaggia sabbiosa così diversa da quelle a cui ero abituato. Andammo a teatro, per gran concerti e commedie dialettali. Furono giorni felici, e quando venne il momento di ripartire ci promettemmo che saremmo tornati, l’anno successivo.
 
Anche a Genova i nostri giorni furono splendidi, fatti di arte, di amore, di musica.
Già, la musica. Avevo carezzato l’idea di presentarlo alle persone che avrebbero potuto introdurlo a una carriera da violinista, che certo sarebbe stata luminosa, visto il suo talento… lui lo avrebbe meritato.
Invece decisi che non avrei mai fatto niente del genere, perché la notorietà me l’avrebbe rubato, e io volevo che Florent fosse solo mio. Volevo essere tutto, per lui, che nessuno e nulla lo distraesse da me.
E mi assolsi, dicendomi che se lui avesse desiderato qualcosa di più di quel che aveva, me lo avrebbe detto. Che se avesse cercato la fama, sarebbe stato più che capace di ottenerla da solo, anche prima di incontrarmi… gli sarebbe bastato bussare alla porta di un conservatorio per trovare fortuna e riconoscimento.
I giorni trascorsero lievi e bellissimi, senza nemmeno un’ombra a turbarli, e io non potevo desiderare nulla di meglio di ciò che già avevamo.
Sarebbe dovuto essere così per sempre. Forse lo sarebbe stato se, quel giorno, non fossimo usciti, o se avessimo preso un’altra strada.
 
Eravamo a metà di un novembre tiepido e gentile; piazza Banchi era animata come sempre, piena di gente affaccendata e di perditempo, di uomini d’affari e di servette intente alle loro commissioni, che però non mancavano di approfittare dell’uscita per fermarsi a chiacchierare.
Il sole si rifletteva sulle vetrate della Borsa, e a volte il vento ci portava il grido dei gabbiani, dal mare vicino. Avevo intenzione dei comprare dei pennini in una delle botteghe sotto la chiesa di San Pietro, ma prima mi fermai per mostrare una curiosità a Florent.
Già gli avevo raccontato, in un’altra occasione, che in quella piazza, sulla scalinata della chiesa, era stato assassinato il compositore Stradella, forse caduto sotto i sicari mandati dal fratello della sua amante. Già una volte l’uomo era stato accoltellato, per aver ‘rubato’ l’amante a un nobile veneziano… uomo di passioni che non era in grado di contenere o di controllare. In un certo senso lo sono stato anche io.
Ricordo che il giorno successivo Florent volle tornare lì con il violino, e omaggiò lo  sfortunato compositore eseguendo una sua sonata proprio sulla scalinata dove aveva trovato la morte. Catturò l’attenzione di tutti, anche se non so quanti avessero colto il tributo, e quando –
Sto divagando troppo. Non dovrei.
L’assassinio di Stradella, raccontai, non era l’unica storia macabra legata a piazza Banchi, che un tempo lontano era il luogo deputato alle esecuzioni capitali. Gli mostrai, nella pavimentazione, una pietra più scura di tutte le altre, come annerita dal fuoco, che segnava il punto dove era stata arsa una povera donna di nome Cattarina, accusata di stregoneria, più di duecento anni prima.
Leggenda vuole che quella pietra sia sempre calda, gli dissi, brucia, anche d’inverno.
Florent si chinò a toccare la pietra, e mi rivolse un’occhiata scettica da sotto in su, inarcando un sopracciglio.
 
Non brucia. Per niente.
 
E si raddrizzò, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Erano cresciuti visibilmente dal giorno del nostro primo incontro… era passato quasi un anno ormai. La mia mano fremette per il desiderio di accarezzarli, di perdersi fra quelle onde morbide; e poi posarsi sulla sua nuca, attirarlo a me e baciare le sue labbra, ma non era certo cosa che potessi fare in pubblico. Ci scambiammo un lungo sguardo e un sorriso, ed ebbi la sensazione che avesse colto il mio desiderio e che, almeno nelle intenzioni, si lasciasse andare alle mie carezze, ricambiasse il mio bacio.
Poi sembrò vedere qualcosa con la coda dell’occhio. Qualcosa che catturò la sua attenzione e il suo sguardo, che fece esitare il sorriso sul suo volto, e che poi lo cancellò, rimpiazzandolo con un’espressione che… che ancora mi riesce difficile definire.
Sorpresa, incredulità. Speranza, timore. Esitazione, certezza. Tutto insieme, in un’emozione che sembrava averlo paralizzato. Non ottenni la sua attenzione, chiamandolo, dunque gli strinsi leggermente un braccio, e mi accorsi che tremava, ma nemmeno allora mi diede retta. Allora seguii il suo sguardo, ma non riuscii a cogliere chi o cosa stesse guardando.
D’un tratto si liberò della mia pur gentile stretta e corse in avanti, incurante di urtare altre persone, e io gli andai dietro. Lo vidi raggiungere un uomo alto dai capelli chiari, che fino a un momento prima era di profilo, e ora si era voltato e stava allontanandosi. Florent lo raggiunse e lo afferrò per un braccio, lo tirò, costringendolo a voltarsi.
Sul bel volto dello sconosciuto vidi stupore e irritazione, ma durarono solo un istante: appena i suoi occhi si posarono su Florent la sua espressione mutò, e la durezza svanì. La sorpresa, l’esitazione, erano le stesse che aveva dimostrato Florent poco prima, forse anzi erano ancor più accentuate.
Rimasero a fissarsi, riempiendosi gli occhi l’uno dell’altro, e io potevo solo guardare, incapace di intervenire, di chiedere cosa stesse succedendo.
Quando l’uomo parlò, rivelò una voce bella, ma rauca per l’emozione, e un accento che mi era divenuto familiare, a Venezia.
 
“Florent, sei… sei proprio tu?”
 
E come se quella fosse stata la formula magica per spezzare l’incantesimo che aveva immobilizzato l’aria e il tempo intorno a noi, Florent fu scosso da un brivido e gettò le braccia al collo del forestiero, lasciandosi avvolgere dal suo braccio, stringendosi a lui come se mai più lo avesse voluto lasciar andare.
E io lì, intontito, con la bocca secca e un abisso che mi si apriva sotto i piedi, nel vedere quell’uomo che non conoscevo poggiare la guancia contro la testa di Florent, persino lasciare un lieve bacio furtivo sui suoi capelli, e una lacrima che fra essi andò a morire.
 
***
 
Qualche ora dopo, quell’uomo sedeva nel salotto di casa mia, e forse avrete intuito di chi si trattava: Gabriele, l’amico di cui Florent mi aveva parlato quel giorno a Venezia. L’amico che era stato l’appiglio nell’incubo che lo aveva colpito.
Ed era chiaro che quell’amicizia che li aveva uniti era ancora viva e forte, nonostante gli anni di lontananza; vedevo la felicità dell’essersi ritrovati trasparire nei loro sguardi, e sentivo crescere in me un’emozione ostile e distruttiva. Solo pochi mesi prima non avrei mai creduto di poter provare qualcosa di simile. Ascoltavo le parole dell’intruso, e una parte di me vi prestava attenzione, ma un’altra, maligna, deviava la mia mente verso fantasie che mi facevano male; erano immotivate, eppure mi accecavano… mi facevano fremere, a stento mi trattenevo dal serrare i pugni per la tensione.
Ero geloso.
E non di quel sentimento leggero, sciocco e un po’ infantile che è presente in tante relazioni, senza però far danni: la mia era quella gelosia velenosa che brucia e distrugge. Nella mia testa si ripeteva la domanda
… cosa c’era stato davvero tra di loro?
Cosa?
E c’era ancora? Avrebbe potuto esserci di nuovo?
Perché nel loro abbraccio non avevo visto solo amicizia: c’era troppa tenerezza, troppa intimità, troppa commozione. E poi il cercarsi dei loro sguardi, mentre erano seduti fianco a fianco sul mio divano, i sorrisi che si scambiavano, e la felicità sui loro volti…
Quando Florent parlava con lui non usava l’alfabeto manuale che adoperava con me: usava entrambe le mani, compiendo gesti del tutto diversi. Era un modo di comunicare più lesto e fluido, che gli permetteva di esprimersi quasi alla velocità della lingua parlata; era evidente che quei gesti equivalessero a intere parole, non a singole lettere. Non erano un semplice alfabeto, ma un linguaggio, quindi più complesso, probabilmente non facile da imparare. Compresi perché Florent avesse preferito insegnarmi un codice più elementare, all’inizio, ma non mi spiegavo perché non fosse andato oltre; avevamo avuto tutto il tempo, avrebbe potuto istruirmi. E invece…
Provai un senso di tradimento.
Immagini mi sfilavano davanti agli occhi, beffarde.
Del mio Florent sotto i baci e le carezze di quell’uomo, mentre annegava nel piacere datogli dal suo tocco e si avvinghiava a lui, ansimante. Il mio cuore accelerava e sentivo il petto in fiamme, al pensiero di tale passione: un Florent più giovane e inesperto che da quell’uomo apprendeva l’arte di amare, come io l’avevo appresa da Ludovico. I trucchi, le carezze, i movimenti con cui ora mi faceva impazzire… avevo ritenuto poco importante che Florent avesse avuto altri amanti prima di me, ma in quel momento il solo pensiero mi faceva tremare di rabbia cieca.
Maledii l’incontro di quel giorno, maledii me stesso per aver perso tempo in piazza: se, come avevo inizialmente intenzione, avessi prima portato Florent a pranzo in quella locanda in Sottoripa che tanto gli piaceva, Gabriele sarebbe andato per la sua strada, Florent non l’avrebbe visto, io non sarei stato divorato da un demone.
Mi sembrava di avere la gola piena di sabbia, il respiro mi trafiggeva di spilli. Era follia, lo capisco e me ne vergogno, ma a quei tempi non me ne rendevo conto; ero diviso tra il desiderio buttare quell’uomo fuori dalla mia casa e quello di farmi da lui raccontare il più possibile su Florent e sul suo passato, sul loro legame. Consideravo Gabriele un pericolo e un rivale, ma aveva conosciuto un Florent che io non avevo potuto incontrare, e che forse era diverso da ciò che era adesso. Un Florent forse perduto, di cui volevo sapere tutto il possibile.
Quindi forza il mio contegno, ingoiai l’avversione, e spremetti un sorriso.
 
“Voi due sembrate molto legati. La vostra è dunque un’amicizia di vecchia data?”
“Oh, vecchissima, possiamo dire. Florent aveva otto anni, quando lo conobbi – e non dimenticherò mai lo sguardo pieno di protettivo affetto che posò sul mio amato – e io venticinque. Venni assunto da suo padre come maestro di musica.”
 
Vidi la malinconia sul suo volto, mentre sembrava volgere la mente a un passato di cui restava solo cenere, ma che lui doveva rimpiangere. Era stato a fianco di Florent per dieci anni, prima della tragedia, aveva frequentato la famiglia, doveva essersi creato un legame fra loro, e certo anche il suo dolore doveva essere stato lacerante. Forse pure lui ne portava le cicatrici, e nei suoi ricordi doveva esserci impressa, indelebile, quella scena di morte. Ciò però non serviva a farmi provare empatia per lui, ma solo a farmi sentire ancor più escluso dal loro rapporto.
Gabriele guardò Florent, come a chiedergli il permesso di continuare il racconto, e al suo annuire proseguì.
 
“Quando venni assunto non sapevo niente di Florent, tranne le sua età. Ignoravo che non potesse parlare, non ne venni a conoscenza se non nel momento in cui lo incontrai. Forse era un modo per mettermi alla prova, per vedere quale sarebbe stata la mia reazione, come mi sarei comportato con lui. Fu uno strano scherzo del destino, perché a sua volta il padre di Florent non era al corrente che il mio fratello più giovane avesse lo stesso problema. Anzi, lui ha avuto in sorte maggiore sfortuna, perché non può nemmeno udire. A quei tempi Florent era un bambino chiuso, timido... i suoi genitori speravano che la musica lo aiutasse ad aprirsi, a esprimersi. Florent già amava la musica, era affascinato dal violino, e si fidò di me più facilmente del previsto. Era entusiasta di imparare il linguaggio universale delle note e dell’armonia. E così io pensai che avrei potuto insegnargli anche un altro modo di esprimersi… Conoscevo bene l’alfabeto manuale e la lingua dei segni per via di mio fratello: frequentava una scuola per sordomuti gestita da un sacerdote che conosceva molto bene le opere di Ponce de Leon, di Juan de Pablo Bonet, diversi alfabeti, e la lingua dei segni… più di una, in verità. E così pensai che avrei potuto insegnarli a Florent.”
 
Il suo maestro di violino.
Il suo maestro di violino!
 
E io che nei primi tempi mi ero domandato curioso a chi andasse il merito d'aver istruito alla musica Florent, chi avesse affinato il suo talento in modo tanto superbo! Ora che lo avevo davanti avrei dovuto ringraziarlo, ma non ci riuscivo. E sì che non solo per la musica meritava la mia gratitudine, ma anche per avergli insegnato un modo per esprimersi, per aver contribuito a renderlo quel giovane splendido che era.
Intanto lui si era interrotto e aveva rivolto lo sguardo in basso. Restò in silenzio per qualche istante, assorto, e quando rialzò gli occhi li aveva lucidi.
 
“Gli insegnai il semplice alfabeto, prima, e poi un linguaggio più complesso. E istruii, ovviamente, anche i suoi genitori, i fratelli, i domestici, affinché lo potessero capire. Florent era entusiasta, imparò molto in fretta… mi affiancò nell’insegnamento, a un certo punto. Gli altri ci misero un po’ per imparare a leggerlo con scioltezza, ma erano pieni di buona volontà. Fu un periodo davvero felice, nonostante... nonostante certe preoccupazioni.”
 
Poi rievocò episodi sparsi, quasi sempre legati alla musica, a gite, alle bellezze della loro città. Tutti momenti felici, spensierati, e il volto di entrambi rispecchiava quelle emozioni luminose, i loro sguardi brillavano, mentre con i ricordi vagavano nel passato. Gabriele non parlò della caduta in disgrazia della famiglia, non accennò a quella notte fatale che aveva segnato il destino di Florent, e di conseguenza il suo.
E certamente anche il mio.
 
Gabriele era arrivato a Genova il giorno precedente, e vi sarebbe rimasto per una decina di giorni: doveva sistemare alcuni affari riguardo un’eredità che aveva ricevuto. Per me rappresentavano un tempo orribilmente lungo, ma cercai di essere civile e feci buon viso a cattiva sorte: con tutto il garbo che potevo lo invitai a soggiornare a casa mia, in quel periodo.
Con altrettanta cortesia (e se fu simulazione finse meglio di me) egli rifiutò, tra le proteste gesticolanti di Florent. Lui gli afferrò le mani, sorridendo, l’equivalente di zittirlo bonariamente, e gli promise che si sarebbero comunque visti ogni giorno. Di solito aveva impegni, al mattino, ma per il resto del tempo era libero, e gli sarebbe piaciuto visitare la città e i dintorni insieme a noi, se avessimo voluto fargli da guida.
Me ne dissi entusiasta, con sulle labbra il sorriso più falso del mondo.
 
__________

NdA


Il compositore barocco citato nel capitolo, Alessandro Stradella, doveva essere un tipo interessante. Già a vent’anni era molto noto e richiesto; viveva e lavorava a Roma, ma inizio del 1677 fuggì a Venezia, dopo essersi cavato da uno scandalo, che l’aveva portato pure in carcere, per aver cercato di combinare il matrimonio fra una donna comune (leggi “cortigiana di dubbia moralità") e il parente di un cardinale.
A Venezia venne assunto da un nobile, Alvise Contarini, come insegnate di musica per la propria amante, e Stradella trovò che fosse una buona idea intrecciare una relazione con la donna e fuggire insieme a lei a Torino, con l’intenzione di sposarsi.
Nell’ottobre del 1677, in quella che è oggi Piazza San Carlo, venne accoltellato da due sicari, probabilmente inviati proprio da Contarini. Portò a casa la pelle, ma il matrimonio sfumò, e così pure la possibilità di essere assunto alla corte sabauda.
All’inizio del 1678 si trasferì quindi a Genova, dove venne ben accolto e dove compose musica sacra e da camera, musica drammatica e operette, anche su commissione di nobili locali. Continuò pure a impartire lezioni a ricche fanciulle.
Morì accoltellato in Piazza Banchi, sulla scalinata della chiesa di San Pietro, nella notte del 28 febbraio 1682. Il mandato per il suo assassinio venne forse da un nobile della famiglia Lomellini, che sospettava una relazione fra il compositore e la propria sorella, sua allieva. Lomellini venne comunque prosciolto per insufficienza di prove, e c’è chi pensa che i sicari fossero stati inviati ancora una volta dal veneziano Contarini.
Tanto per non farci mancare i fantasmi, si dice che in certe sere si possa sentir risuonare nella piazza la musica di Stradella.
Se volete ascoltare qualcosa di suo, ecco:
 
 https://www.youtube.com/watch?v=nvbLZoiWJeI
Non so voi, mai io sento grande simpatia per quest'uomo, che aveva con evidenza una testa molto dura.
 
Grazie per aver letto fin qui!
 

 


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 10

 
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Quando fummo di nuovo soli, Florent mi guardò con serio rimprovero; per quanto avessi cercato di mostrarmi amichevole, lui mi aveva smascherato. Potevo aver ingannato Gabriele, forse, ma non la persona a me più vicina, che mi conosceva bene e sapeva leggere sul mio viso e nel cuore.
C’era un’espressione preoccupata nel suo sguardo, quasi ferita, e una piega triste sulle sue labbra, che solo poco prima avevano salutato Gabriele con un sorriso.
 
“Cos’hai? Cosa non va?”
 
Proprio perché mi conosceva tanto a fondo, mi chiesi come potesse non capire. Forse perché aveva troppa fiducia in me, forse perché la mia gelosia era tanto assurda da essere per lui inconcepibile... forse perché non l’aveva mai sperimentata. Cercai di spiegarglielo, ma le mie emozioni erano così turbate che l’eloquenza mi tradì.
 
“Tu, con lui. Guardandovi mi sentivo… escluso. Distante da voi, che vi conoscete da anni, che avete un passato in comune. E mi è sembrato che, di fronte a questo passato, il sentimento che ci lega passasse in secondo piano. Ora che l’hai ritrovato – quanto esitarono quelle parole sulle mie labbra – cosa hai intenzione di fare?”
 
Florent mi guardò con occhi increduli.
 
“Cosa pensi ci fosse tra lui e me?”
 
Invece di rispondergli come avrei dovuto, di scusarmi, calmarmi e riacquistare la ragione, mi esposi ancora di più al ridicolo.
 
“Gli parlavi in modo differente! I segni che usavi erano diversi, non potevo capirli, e mi sentivo uno stupido. Perché non hai insegnato anche a me quel linguaggio? Abbiamo avuto tutto il tempo!”
 
Ero più che geloso: ero risentito, arrabbiato, persino impaurito. I sentimenti figli dell’amore offeso si agitavano dentro di me, con tutte le loro spine, come se il mio cuore si fosse trasformato in un pulsante cespuglio di rovi.
 
“E il modo in cui gli sorridevi. Il modo in cui lo guardavi, e gli stavi vicino.”
 
Aggiunsi, sottovoce, perdendo un altro po’ di dignità.
Solo a me. Quella dolcezza doveva riservarla solo a me!
Florent mi prese il volto tra le mani, e la sua espressione era colma di dispiacere e preoccupazione. E di delusione, anche; così tanta che mi sentii morire, che mi vergognai. Scosse la testa con lentezza, mi diede un casto bacio sulle labbra. Le mie erano aride, le sue così morbide…
 
“Ti insegnerò ciò che vuoi. E ti amo. Tanto. Ti prego.”
 
Era così evidente, il suo amore! Come potei mai dubitare? Eppure lo feci, come un idiota, un debole, un vigliacco. Mi aggrappai alle sue parole, ma esse non cancellarono del tutto il risentimento; ero arrabbiato con lui e allo stesso tempo disgustato di me stesso. Ero sul punto di supplicarlo e non sapevo nemmeno bene di cosa… di perdonarmi? Di non vedere più Gabriele? 
 
“Florent!”
 
Riuscii solo a dire, e lo attirai a me, lo strinsi, lo divorai di baci con furia e urgenza, per ribadire a lui e a me stesso che era solo mio, e farlo sentire in colpa per avermi indotto a pensare il contrario. Andammo in camera da letto, facemmo l’amore, e perdendomi in quella passione cercai di annegare le mie paure, di cancellare i sospetti che stavano insudiciando i miei sentimenti. Mi sembrò di riuscirci, grazie a Florent: alla sua dolcezza, alla sua voluttà, al modo in cui mi cercava, e si dava a me… come se io fossi tutto, per lui.
Dopo, quando riposavamo fra le lenzuola e Florent con l’indice pigramente scriveva sul mio palmo, lettera per lettera, parole d’amore intramezzate da baci, il mio cuore sembrava placato.
Ero stato stupido, esagerato, e avevo provocato un danno. Avevo dato un dolore a colui cui volevo donare solo felicità.
Dovevo rimediare, mi dissi. Lo giurai a me stesso. E non avrei ripetuto lo stesso sbaglio; non avrei mancato di fiducia, non avrei dato retta alle mie insensate, esagerate paure.
Avrei cercato di stringere amicizia con Gabriele, perché era importante per Florent, e perché gli dovevo gratitudine: gli aveva insegnato a suonare il violino, gli aveva dato una lingua per esprimersi, lo aveva aiutato nel suo periodo più buio… aveva contribuito a renderlo la persona meravigliosa che era, radiosa, affascinante e gentile.
Buoni propositi sprecati.
 
Così come aveva promesso, Gabriele venne da noi quotidianamente; non solo: acconsentì alle preghiere di Florent e decise di fermarsi ulteriori dieci giorni a Genova, oltre a quelli già programmati. La gioia di Florent fu pari solo al mio fastidio, ma ancora una volta cercai di non darlo a vedere, e di fingere in maniera più credibile. Rammentai a me stesso ciò che mi ero prefisso e cercai di essere invece felice per loro.
Ogni giorno pranzavamo insieme, e quasi ogni giorno facevo da guida per visitare la città e i dintorni, e mi costringevo ad accettare anche che passassero del tempo insieme da soli, così come era necessario a due persone con un legame profondo che dopo anni si erano ritrovate. Un pomeriggio – Florent non c’era, si era offerto di accompagnare Matilde in non ricordo che commissione - mostrai a Gabriele il mio studio, le statue a cui stavo lavorando.
La sua meraviglia e ammirazione furono sincere, questo lo posso dire; non ebbe che parole di lode, entusiaste, e in altre circostanze ne sarei stato lusingato. Invece, sempre rodeva quel tarlo maligno, ed esso quasi impazzì quando Gabriele si soffermò davanti alla statua, ormai completa, di Florent; sorrise, e persino nel guardare quel marmo scolpito i suoi occhi rilucevano d’affetto. Gli dissi ciò che rappresentava, e lui anticipò la mia spiegazione.
 
“L’angelo del Sonno Eterno, certo. La simbologia è chiara: il cerchio che regge, la corona di bacche di papavero sulla testa. E la sua espressione, con quegli occhi socchiusi, è dolce e misteriosa, è difficile smettere di guardarla. Ma ciò che più mi colpisce, sa, è la sua posa. La trovo insolita, per un angelo: la mano sotto il mento, l’inclinazione della testa… nel complesso questa statua ha quasi un che… di languido. Seducente.”
 
Mi guardò, inarcando le sopracciglia.
 
“Non è una critica, tutt’altro! La trovo magnifica.”
 
Avrei dovuto ringraziarlo, avrei potuto discorrere di arte e raccontargli l’emozione che era per me trarre la vita dal marmo; e invece, dopo essere rimasto a fissarlo per qualche secondo, furono altre le parole che uscirono dalla mia bocca. Lo fecero quasi al di fuori del mio controllo, diedero voce a un pensiero che era con me da quando Florent mi aveva raccontato la sua storia.
 
“Come ha potuto lasciarlo fare? Come ha potuto permettere a Florent di andarsene in quel modo?”
 
Comparve lo stupore sul volto di Gabriele, e poi un sorriso amaro.
 
“Permetterglielo? Lasciarglielo fare? E che autorità avevo, io, per impedirglielo? Florent soffriva, e sperava che un cambiamento radicale lo aiutasse a distogliere la mente dall’orrore. Anche se potevo capirla, non ero felice della sua decisione. Cercai di dissuaderlo, di farlo ragionare, ma alla fine non potei che arrendermi.”
“Io non avrei ceduto! A costo… a costo di rinchiuderlo! Sì, finché non fosse rinsavito!”
 
C’era un’espressione strana sul viso di Gabriele, come se provasse un misto di pena e disgusto di me; sotto il suo sguardo di compatimento mi sentii avvampare.
 
“E rinchiuderlo sarebbe stato un atto d’amore? Capivo quello che provava, ho detto, e pensavo che sì, allontanarsi poteva fargli bene. Ma avrei voluto che aspettasse, per poter sistemare i miei affari e le mie responsabilità, e andare con lui. O che accettasse di trasferirsi presso mia sorella e mio cognato, che vivono a Roma… l’avrebbero accolto a braccia aperte, se io glielo avessi chiesto. Florent non volle. Credo che andandosene da solo volesse dimostrare qualcosa a se stesso… di essere forte, in grado di farcela da solo. E da me stava cercando fiducia: voleva che credessi in lui, non che lo tenessi al riparo da tutto.”
“Dunque era fiducia permettere che finisse a vivere per strada, senza sapere che fine avrebbe fatto, e che -”
“Florent promise che sarebbe stato via solo per qualche mese, sei al massimo!”
 
Sbottò, ma fu solo un momento, e ritrovò subito la calma.
 
“Mi assicurò che avrebbe scritto ogni settimana. E non doveva andarsene a mendicare: quando partì gli diedi una somma di denaro sufficiente ad assicurargli pasti decenti e una camera dove dormire, per quanto modesta, ovunque fosse andato. Aveva con sé il violino, e mi disse che con quello avrebbe potuto guadagnare anche qualche soldo in più, che non dovevo preoccuparmi. Ma io lo facevo, ovviamente.”
 
Volse gli occhi alla statua, ed erano pieni di malinconico rimprovero.
 
“Mantenne la parola: mi scrisse tutte le settimane, per qualche mese. Tutto sembrava andare bene, lui si diceva sereno, persino di buon umore, e io mi rassicurai un po’. Ma poi venne una lettera in cui scriveva che non bastava… che non gli erano sufficienti quei mesi, che doveva staccarsi di più dal passato. Che mi avrebbe scritto di meno, ma che dovevo stare tranquillo. E invece non scrisse più.”
 
Tornò quindi a volgere lo sguardo a me.
 
“Provai a raggiungerlo. Partii poche ore dopo aver ricevuto la lettera, ma lui già non si trovava più nella città da cui l’aveva spedita. Lo cercai e cercai, inutilmente. Mi disperai, mi arrabbiai con lui, pregai. E ora, quando ormai avevo abbandonato la speranza, l’ho ritrovato, e sta bene, è felice. Grazie. Sapere che è al sicuro e che qualcuno sta avendo cura di lui mi libera da un peso enorme.”
 
Ecco, lui mi ringraziava quando io riuscivo a sentire solo avversione nei suoi confronti. Provai senso di colpa, breve, fugace: giusto il tempo di riconoscere quell’emozione, che essa venne rimpiazzata dalla solita ostilità. Era più forte di me, e non bastava quel racconto a spegnere la gelosia per ciò che lui e Florent avevano condiviso, e per ciò che ancora li legava. Spiazzato e colpevole esitai nel rispondere, e prima che potessi aprir bocca Florent entrò nello studio. Ci raggiunse sorridendo e guardò la statua; ne riprese fedelmente la posa, e lui lo fece per scherzare, ma a me si strinse il cuore perché era vero: era languido e seducente, eppure etereo, e io avevo paura di perderlo.
Poi ridacchiò e segnò:
 
“Tè e biscotti.”
 
Prese entrambi sottobraccio, portandoci in salotto; tutti e tre avevamo il sorriso sulle labbra, ma il mio era l’unico a tremare.
 
***
 
Ora sono qui, davanti al fuoco crepitante di un camino; scrivo e fumo, e fuori sta piovendo. Tra poco sarà ora di cena, così ha detto la governante, ma io non ho appetito; non ne ho quasi mai, e oggi ho già saltato il pranzo. Se rifiutassi anche la cena, la buona donna protesterebbe ora e se ne lamenterebbe con il medico domani, e io dovrei soffrire due volte, quindi mi sforzerò di mandare giù un po’ di consommé e una fettina di lesso.
Ma ho ancora tempo, per ricordare e per scrivere, prima di andare a tavola.
 
Dopo aver perso Florent, per anni riempii la mia vita di rumore, di persone, di impegni. Viaggiai, insegnai nelle accademie più rinomate, ebbi importanti committenti, conquistai grande fama; conobbi scrittori e pittori che resteranno nella storia.
Ero celebrato, ero invidiato.
Ebbi degli amanti; storie brevi e scontate, prive di batticuore.
Ebbi qualche raro buon amico, che ormai è morto.
Provai a fuggire, ma finii con lo scappare proprio là dove mi sarei fatto più male. L’ho già detto: vissi per anni a Venezia, e per di più trascorsi i lunghi mesi estivi in quella che fu la sua casa.
Forse desideravo inconsciamente che il dolore piantato nel mio cuore continuasse a farmi sanguinare, e lo coltivavo con dedizione perché crescesse e mettesse radici in tutto il mio animo. Vivere a Venezia, soprattutto quando andavo a stare in quella villa, erano allo stesso tempo la mia consolazione e la mia punizione.
E così è passata tutta la mia vita, e mi rendo conto che, nonostante il successo, è stata insignificante e vuota: solo forma, priva di sostanza. Scintillio di oro falso.
Mi barricai in me stesso, quasi del tutto incapace di lasciarmi andare, di intraprendere rapporti profondi e sinceri. Non vivevo da eremita, no; solo quando mi trasferii a Venezia, ormai ingrigito e stanco, mi diedi a una vita quieta.
Prima, però… prima uscivo spesso e ridevo altrettanto, sfoderando un cinismo brillante che non ero a conoscenza di possedere, che non aveva mai fatto parte di me. Così reagivo alla disperazione. Visto da fuori apparivo arguto ed estroso, la gente che contava mi voleva, mi cercava, mi invitava a feste sfarzose, a eventi solenni. Tutto quel chiasso soffocava la voce dell’angoscia, così potevo andare avanti giorno dopo giorno, illudendomi di stare diventando più forte, di stare vincendo, di non avere bisogno di ciò che avevo perduto.
Ma quando tutto intorno a me taceva e la mia mente non era più occupata dai vorticosi pensieri con cui sempre la distraevo, quando non avevo da leggere, disegnare, scrivere, scolpire, e restavo in compagnia di me stesso… mi colpiva infallibile e devastante la precisa consapevolezza che sarei sempre stato solo
Per tutta la vita, fino alla morte… solo.
Potevo vedere la distesa dei giorni che erano il mio futuro spiegarsi davanti a me come una pianura sempre uguale, il cui bordo andava a precipitare nel nulla. Una pianura arida, deserta, dove niente sarebbe mai germinato.
E quando mi rendevo conto di quanto fosse enorme quel nulla, quanto soverchiante la solitudine che mi aspettava, quante emozioni e quanta forza interiore mi sarebbero state negate, mi tremava il cuore in petto, mi si mozzava il respiro. Sentivo le lacrime risalire pericolosamente la strada verso gli occhi, pronte ad affacciarsi a vedere la luce.
Mai lo permisi loro, a quei tempi. Le ricacciavo sempre nel più profondo pozzo di me stesso, lasciavo che si accumulassero, forse sperando di riuscire ad affogarci dentro, prima o poi.
Così ingoiavo le lacrime e aggrottavo le sopracciglia, e fuggivo nel mio studio, colpivo la pietra con violenza, come avessi voluto assassinarla; le schegge mi volavano addosso, ferendomi al volto. Una volta temetti di perdere un occhio.
Qualche volta distrussi le mie creature quando erano già quasi terminate, riducendole coscientemente a informi cumuli di pietra, e mi sentivo un assassino.
 
Avevo cinquantaquattro anni quando, nel 1888, mi trasferii a Venezia, inseguendo il fantasma di Florent.
Respirando la stessa aria, navigando gli stessi canali, camminando per le stesse calli che aveva percorso lui da bambino e ragazzo, mi illudevo forse di trovare un varco nel tempo, e svoltando uno stretto angolo, trovarmelo davanti splendente di gioventù. E in quelle mie lunghe camminate, il labirinto di Venezia mi divenne così familiare che ancora oggi potrei percorrerlo a occhi chiusi… dal Ghetto all’Arsenale, da San Simeon Piccolo alla Basilica della Salute. E lo scrigno dorato di San Marco, certo, e i Frari, la chiesa che preferivo… lì dove sempre recitavo la mia preghiera laica a Canova.
Passeggiavo, scolpivo, mi facevo raccontare dai domestici le vecchie storie di fantasmi, di streghe, di demoni e di assassini e di amanti sfortunati, che sembravano aver sempre popolato ogni calle e ogni campo di quella strana città.
Mi raccontarono anche degli antichi proprietari della mia villa, i nobili Grimani Renier, e della loro fine sanguinosa, senza sapere quanto il cuore mi si stringesse e soffocasse nel sentir nominare il figlio mezzano, e le ipotesi che sulla sua scomparsa si erano fatte.
Ero a Venezia quel mattino d’estate del 1902 il campanile di San Marco crollò su se stesso con un cupo boato che scosse la laguna e gli animi, lasciandosi dietro solo rovine, e lo sgomento e l’orrore portati dalla caduta di un simbolo considerato immortale.
Ma meno di dieci anni dopo esso svettava ancora: al suo posto, riportato allo splendore, festeggiato come un dio risorto. I veneziani avevano ripristinato la gloria e la bellezza da un cumulo di macerie… mi sembrò ingiusto che fossero riusciti là dove io avevo fallito.
 
Perché soffrivo così tanto, perché non sono mai riuscito a riprendermi, a lasciar andare il passato per poter vivere e amare di nuovo?
Questo l’ho sempre saputo bene: non potevo incolpare nessuno della mia sorte infelice se non me stesso. Non era stata la morte a strapparmi l’amore, non il destino avverso, né era stato Florent a farmi del male. Non era stata colpa di un altro.
Ero stato abbandonato perché io ne avevo creato le condizioni, ed era giusto che mi punissi.
Non mi maledirò mai abbastanza.

__________

NdA


Nei secoli il campanile di San Marco ha subito danni in abbondanza, tra fulmini, incendi e crolli parziali. Il mattino del 14 luglio del 1902 però crollò completamente, lasciando solo un enorme cumulo di macerie (e  praticamente per miracolo la basilica non subì danni). Era già da tempo che il campanile dava brutti segnali; così preoccupanti che, la sera del 13 luglio, con gran mugugnar dei veneziani, era stato annullato all’ultimo momento un concerto all’aperto che doveva tenersi lì sulla piazza.
Immagino che Riccardo fosse nei pressi, quando il crollo accadde. Era al Florian a far colazione, ed ecco lo schianto, le urla, il boato… accorse subito, con la polvere ancora sospesa nell’aria, stranamente calmo nel panico generale, andando controcorrente mentre la gente fuggiva, per restare impietrito a lungo davanti alle rovine.


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 11

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Non so nemmeno come raccontarlo, quello che fu l’inizio della rovina; mi sembra di stare vomitando il cuore, di non trovare abbastanza aria per respirare, ma questa mia confessione va portata fino in fondo. E poi, che stupido! A ben pensarci, l’inizio della rovina fu nel momento stesso in cui Florent e Gabriele si ritrovarono, e io cominciai a esprimere il peggio di me.
 
Per la maggior parte del tempo eravamo tutti e tra assieme, e controvoglia sopportavo che quei due passassero delle ore da soli, anche quando restavano semplicemente a casa mia, intenti a chiacchierare e a suonare in salotto, mentre io lavoravo nello studio. Al più facevano qualche passeggiata sul lungomare davanti a casa, dove potevo vederli affacciandomi alla finestra, o seguendoli dalla terrazza con sguardo livoroso.
Il loro tempo insieme si moltiplicò nella settimana supplementare in cui Gabriele si fermò a Genova: era libero dagli impegni del mattino, e già alle dieci faceva la sua a me sgradita comparsa. Devo dire, a essere onesto, che chiese il mio permesso per potersi presentare così presto, e dopotutto come avrei potuto negarglielo? Che figura meschina avrei fatto davanti a lui, e soprattutto davanti a Florent? Che motivi avrei potuto addurre, per impedire a due vecchi amici di incontrarsi?
Quindi avevo acconsentito, sforzando un sorriso e fingendo leggerezza, ma ero tutt’altro che lieto. Scolpire era sempre stato per me un piacere e un rifugio, eppure in quei giorni nemmeno quello riusciva a darmi felicità: la mia mente tornava sempre a loro, al reciproco affetto che dimostravano, alla serena intimità che era sempre evidente. Il tarlo cresceva sempre di più dentro di me: non possono essere stati semplicemente amici, mi ripeteva… e io cercavo di metterlo a tacere.
Anche se fosse, non importa ciò che c’è stato! Florent ora è mio!
Ma il tarlo rideva delle mie proteste, insisteva, continuava a rodere; mi parlava, ed era una voce maligna. Era un demone.
In loro compagnia come sempre cercavo di mantenere modi cordiali, di essere di buonumore, ma la forzatura e falsità del mio atteggiamento erano penosamente evidenti; c’era una stonatura nei miei sorrisi, e c’erano spine. Florent e Gabriele fingevano di ignorare quella mia sotterranea ostilità, ma li avevo colti, talvolta, a scambiarsi sguardi significativi, perplessi, e mortificati. Certo dovevano preferire le ore che passavano da soli, senza la mia presenza ad ammorbare l’aria… ne ero consapevole, e ciò inaspriva ancor di più i miei sentimenti.
Un’altra cosa che vedevo sul viso di Gabriele era il desiderio di redaguardirmi, di avere spiegazioni; ma non lo fece mai. Fu Florent, credo, a chiedergli di mantenere il quieto vivere, per non distruggere il già malfermo equilibrio della situazione. 
Ma il peggio era il mio comportamento nei riguardi di Florent quando tornavamo a essere lui e io, la sera, senza il terzo incomodo. Non toccai mai l’argomento, né accennai alla mia gelosia, non chiesi nulla su come trascorressero il tempo quando erano soli, né volli sapere di più sul loro comune passato e sui sospetti che avevo su di esso; ma bastava il mio offeso distacco a dire tutto. Il mio ostentato comportarmi “come niente fosse” era in realtà un’accusa, un rinfacciargli la gioia che trovava nella compagnia di qualcuno che non ero io.
Poi vedevo lo sguardo di Florent, pieno di dolore. Mai di rabbia, mai di risentimento, solo di dispiacere… e mi pentivo.
 
Per favore
 
Mi diceva.
 
Per favore
 
Solo quello, perché era ovvia la sua preghiera. E io gli prendevo le mani e le baciavo, gli chiedevo di suonare per me, e poi di suonare insieme, e tutto mi sembrava di nuovo perfetto: solo noi due, com’era giusto che fosse.
E dopo, a letto, c’era qualcosa di più possessivo del solito, nel mio fare l’amore; qualcosa di ansioso, di afflitto. C’era mio dispiacere per il dolore che gli stavo dando, i sospetti che continuavano a bisbigliare, la mia paura, persino! La paura di venire abbandonato, che Florent decidesse di tornare a Venezia con quell’uomo.
Oh, quanto temevo l’abbandono! Ripensavo a Patrizio e a come mi ero sentito ferito… ripensavo a Ludovico, e a quanto ero stato devastato. Sentivo che se avessi perso Florent il dolore sarebbe stato ancora più grande, che non sarebbe mai svanito… che non ci sarebbero più state bellezza e gioia nella mia vita, perché era lui che mi aveva reso grato per ogni nuovo giorno, lui che mi aveva donato completezza. Il solo pensiero di non averlo al mio fianco mi faceva sentire sperduto.
Lì, a letto, tra le sue braccia, un po’ alla volta, la gelosia e tutte quelle paure sfumavano, si chetavano: i baci di Florent, le sue carezze, la sua passione e la dolcezza, gli sguardi pieni di calore e le dichiarazioni d’amore che con il dito mi scriveva sul palmo della mano, paziente, decine di volte…
I sospetti e le paure sfumavano, mi apparivano ridicoli, e mentre cedevo al torpore mi ripromettevo che li avrei messi da parte, che mi sarei comportato in modo migliore, che, persino, mi sarei scusato.
Buoni propositi che svanivano con la luce del mattino.
 
Non era mia intenzione origliare, ma un giorno, non visto, sentii Gabriele rivolgersi a Florent.
 
“Non tornerò subito a Venezia, ho intenzione di viaggiare un po’, nei prossimi mesi. Su quel taccuino ho trascritto il mio itinerario, gli indirizzi dove soggiornerò… mi aspetto di trovare già una tua lettera ad aspettarmi, alla mia prima tappa. E pretendo che tu poi mi scriva regolarmente, e che risponda alle mie lettere: non voglio, di nuovo, morire di preoccupazione, e ritrovarti solo per puro caso. Sono ancora un po’ arrabbiato, sai, mio caro?”
 
Non potevo vedere cosa Florent gli avesse risposto, solo intuirlo dalle parole di Gabriele.
 
“Lo so. Ma non immagini quanto io abbia patito; ora voglio essere sicuro che tu stia bene. Perché nel caso qualcosa non andasse… - si interruppe, e passò un po’ prima che riprendesse a parlare – Come vuoi, d’accordo; ho capito.”
 
Ancora il silenzio della risposta di Florent, e poi:
 
“Certo che ci rivedremo. Ogni anno: non ti perderò mai più di vista.”
 
Mi feci indietro, allora, con il cuore che martellava. Avrei dovuto essere felice di quelle parole, perché significavano che Florent voleva restare con me, che le mie paure erano solo frutto della mia immaginazione e di un’insicurezza che ero incapace di dominare.
Invece non mi sentivo sollevato, non mi bastava ciò che avevo sentito: non volevo che restassero in contatto, non volevo che si rivedessero… volevo che, passati quei giorni, Gabriele sparisse per sempre. Ero stupido a tal punto, sì.
Avrei voluto gettare quel taccuino fra le fiamme, ma non lo feci; nemmeno lo cercai, fra le cose di Florent, per spiare cosa vi fosse scritto. Fu un atto di fiducia, credo; di rispetto. Almeno questo è qualcosa di cui non devo vergognarmi.
Il giorno successivo mi attardai più a lungo nel mio studio, e quando ne uscii erano ormai le tre pomeridiane; pensavo di dovermi scusare per essermi fatto attendere, e invece scoprii che Florent e Gabriele erano usciti. E non erano solo a pochi passi da casa, sul lungomare: erano andati in centro, mi disse Matilde, già da qualche ora; non ero stato avvisato perché non avevano voluto recarmi disturbo.
È un’espressione forse abusata, ma tutto si fece scarlatto per me, in quel momento: fu davvero come se una nebbia rossa mi avesse offuscato la vista, e una volta di più guardai il mondo da dietro lo spesso velo della mia gelosia morbosa.
Uscii immediatamente, era impensabile che rimanessi a casa attendendo il loro ritorno. Il mio cuore martellava, mi sembrava d’aver subito un oltraggio, mi chiedevo come si fossero permessi… mi sentivo pieno di collera, di stizza, di quelle emozioni che sono il lato oscuro dell’amore, che lo avvelenano e lo soffocano. Non sopportavo…. non tolleravo che Florent avesse un altro legame importante. Il mio desiderio di possesso non lasciava spazio alla libertà, né per me, né per lui.
Avrei potuto fermare una carrozza, ma preferii andare a piedi, per calmarmi e schiarirmi la mente; intanto ragionavo su dove potessi trovarli. Florent amava la zona del porto, e i portici di Sottoripa, ma anche Via Aurea con i suoi palazzi nobiliari, e Via Madre di Dio con le sue chiassose osterie.
Ero nei pressi del Palazzo Ducale quando sentii, non troppo distanti, le dolci voci di due violini.
Scesi per via San Lorenzo, e in quei pochi passi che compii con lentezza il cuore prese a battermi svelto come per una corsa.
Li trovai che suonavano davanti alla cattedrale; fianco a fianco, le custodie degli strumenti aperte ai loro piedi. Restai a guardare loro, e la gente ferma ad ascoltarli… chi passava non poteva fare a meno di fermarsi. Tutti erano incantati dalla musica, catturati dalla loro bravura e bellezza; molti gettavano monete nelle custodie, e chi doveva andarsene continuava a voltare la testa verso di loro, allontanandosi, si soffermava ancora un istante, come se non si volesse staccare, attratto dal dorato torrente di note.
L’aria romantica si trasformò in una vivace ballata, e il sorriso sbocciò sulle loro labbra. Si guardavano l’un l’altro, suonavano in perfetta armonia, e allo stesso tempo il loro sembrava un duello di bravura. Tale era l’eccellenza della loro esecuzione che per un po’ persino la mia gelosia si sopì; provai fierezza nel pensare che quel giovane capace di suonare tanto divinamente vivesse al mio fianco, e mi scese nell’anima una tale sensazione di pace che sorrisi, persino.
Continuai ad ascoltare, e fu la volta del Canone di Pachelbel, un brano che non mancava mai, né manca tuttora, di innalzarmi il cuore; quando si spensero le ultime note i musicisti abbassarono gli strumenti, e gli applausi mi strapparono dall’incantesimo di serenità in cui ero confortevolmente caduto. Gabriele e Florent ringraziavano con teatrali inchini, mentre altre monete cadevano nelle custodie; ne avevano raccolte parecchie, chissà da quanto stavano suonando. Le raccolsero e le distribuirono ai mendicanti che stazionavano sulla scalinata della cattedrale, nel più assoluto stupore di questi ultimi.
E poi finalmente Florent si accorse di me e mi venne incontro; sul suo viso un’espressione lieta, e io non capivo più nulla, diviso com’ero fra i miei sentimenti.
Mi diedi dell’idiota, mi ripetei che lui non mi avrebbe mai tradito, mai ingannato… ma quella voce beffarda prese a sussurrare che in realtà forse lo aveva sempre fatto.
 
Pensaci: viveva praticamente per strada, e ha incontrato uno stupido benestante che si è innamorato di lui, gli ha offerto una buona paga per un lavoro di nessuna fatica, e una bella casa accogliente. Può aver calcolato che fingere amore e concedersi a te fossero un prezzo vantaggioso, per una vita tanto comoda.
 
Scacciai quei pensieri, infuriato con la parte di me che li aveva concepiti. Florent non si sarebbe mai comportato così; aveva vissuto come un vagabondo per anni, sebbene il suo aspetto e le sue doti gli avrebbero permesso di trovare con facilità qualcuno che lo mantenesse. Uomini ben più ricchi e brillanti di me, eppure era me che aveva scelto, me che aveva seguito.
 
E chi ti dice che abbia seguito solo te? Forse sei uno fra tanti. Forse passa da uno stupido all’altro!
 
Florent mi prese una mano, la strinse brevemente e poi la lasciò per segnare parole di benvenuto; i suoi occhi erano ancora accesi dalla musica, il suo volto illuminato dalla più pura felicità. Di lì a poco giunse anche Gabriele, con entrambi i violini; mi salutò con cortesia e porse lo strumento chiuso nella sua custodia nera al mio amato.
 
“Sei davvero ancor più bravo di allora; il talento più grande che io abbia mai incontrato, amico mio – poi si rivolse a me – Le ho già espresso la mia riconoscenza, ma torno a farlo. Grazie per l’aiuto che ha dato a Florent, e per la cura che avete di lui. Il non sapere come stesse e dove fosse mi ha oppresso per tanto tempo; quando fra pochi giorni ripartirò, invece, lo farò con il cuore più sereno.”
 
Erano parole sincere, piene di gentilezza; erano anche, forse, un tentativo di amicizia, eppure mi irritarono, mi sembrava di leggervi malizia e inganno, lo vedevo come il tentativo di rabbonirmi dopo avermi volontariamente offeso.
Non è solo a Florent che debbo delle scuse, anche davanti a Gabriele dovrei cospargermi il capo di cenere.
Ringrazia con distacco, con un sorriso che era solo sulla mia bocca, e non negli occhi; mi inventai che avevo bisogno di Florent, che doveva posare per dei bozzetti e non volevo perdere tempo. Era una bugia, certo; Florent mi guardò con stupore, ma non protestò; salutò Gabriele, gli diede un rapido abbraccio, e appuntamento al giorno dopo. Quando c’incamminammo insieme, l’espressione spensierata e radiosa era scomparsa dal suo viso.
Non volevo tornare a piedi, avrei voluto prendere una carrozza, ma Florent prese a precedermi di qualche passo; non mi diede retta quando gli chiesi di fermarsi, e capii che non aveva intenzione di salire a bordo con me. Desistetti quindi, e lo raggiunsi; camminavamo vicini, ma era come se ognuno di noi fosse solo: restai in silenzio a lungo, lanciandogli di tanto in tanto occhiate che lui non ricambiava, provai a sfiorargli una mano, e lui la ritrasse. Quando provai a chiamarlo non mi fece nemmeno un cenno.
Fu solo giunti a casa che potei finalmente costringerlo a guardarmi: stava subito dirigendosi verso le scale, ma lo fermai, tirandolo a me, obbligandomi a fronteggiarmi.
E non mi fu facile sostenere il suo sguardo, mi sentii schiacciato sotto tutta la delusione, il dispiacere, la confusione che vidi nei suoi occhi. E l’ira. Sì, c’era anche quella.
La parola ‘scusami’ premeva sulle mie labbra, ma non riuscivo a pronunciarla. Ero uno sciocco e un egoista, ma stavo anche soffrendo, tanto da voler urlare, da voler pregare Florent di strapparmi quella parte malata di cuore che stava rovinando la nostra serenità. Lui riuscì a capirmi, a trovare un po’ di compassione, e fece un sospiro; mi accarezzò il viso, lo prese tra le mani… mi aspettavo un bacio, ma non arrivò. Mi abbracciò, invece; mi tenne stretto a lungo, e intanto io a testa china riuscivo solo a mormorare ‘non posso farci niente, niente’, e a occhi chiusi mi perdevo nel suo calore, nel suo profumo. Florent, il mio Florent.
Intanto mi chiedevo se ormai avrei dovuto convivere con il terrore che qualcuno me lo portasse via, o che lui si stancasse di me e se ne andasse. L’amore si stava trasformando in ossessione, e a malapena mi rendevo conto di quanto fosse profondo quell’abisso.
 
Il giorno dopo era necessario che partissi. Saremmo dovuti partire entrambi, in realtà.
Ero stato invitato da un mio committente, quasi un amico, per il quale avevo realizzato in passato due riproduzione di bassorilievi di epoca romana. Voleva discutere per un’altra commissione, più importante e, visti i buoni rapporti in cui eravamo, mi offriva ospitalità e qualche giorno di vacanza nella sua villa nei pressi di Rapallo. Era deciso già da un po’, e sarebbe dovuto venire anche Florent: avevo chiesto che l’invito fosse esteso a lui, magnificando la sua bravura di violinista, e la preziosa ispirazione che mi aveva donato per l’angelo del Sonno Eterno.
Ma tutto questo era stato prima che arrivasse Gabriele.
Florent aveva già chiarito che non sarebbe più venuto: non voleva rinunciare al tempo che aveva a disposizione con il suo vecchio amico. Mi pregò di capire, mi ricordò che i loro giorni insieme erano contati; gli vidi negli occhi l'apprensione, così insolita da parte sua. Temeva, forse, che fraintendessi il suo desiderio e prendessi male le sue parole; visto il mio comportamento degli ultimi tempi ne aveva ogni ragione.
Gli avevo risposto che sì, comprendevo, sarei andato da solo. Che altro avrei potuto fare? Certo non obbligarlo a venire con me, gettando via ciò che restava della mia dignità.  
Però anche questa sua decisione contribuì ad aumentare il mio astio, a nutrire i miei sospetti. Ero stato sul punto di rinunciare a partire, di inventare una scusa per rimandare quell’impegno che fino a un paio di settimane prima era stato tanto gradito… ma di nuovo pensai a quanto sarebbe stato poco onorevole da parte mia; immaginai quel che Florent avrebbe pensato di me, a come sarei apparso ai suoi occhi.
E quindi andai, masticando amaro.
Mentre la mia carrozza si allontanava, di primo mattino, riflettevo. Sapevo che Gabriele si sarebbe fermato ancora quattro giorni; potevo abbreviare il mio soggiorno a Rapallo e fare ritorno in anticipo, ma non tanto da doverlo rivedere ancora. Potevo rientrare già il giorno in cui lui sarebbe partito, e riprendere la mia vita con Florent dove l’avevo lasciata. In pace, libero dalla gelosia, senza di lui. Avrei riempito Florent di regali: libri, spartiti, profumi, nuovi completi realizzati nelle migliori sartorie.
Saremmo andati a teatro, a concerti, avremmo fatto le nostre lunghe passeggiate, viaggi nelle città più belle, e avremmo avuto indietro tutta la nostra felicita.
 
Se lui sarà ancora lì, quando tornerai.
 
Insinuò la voce maligna.
Cercai di non ascoltarla.
Avevo fiducia in Florent, mi ripetei. Tutto sarebbe tornato come prima.
Ci credevo davvero.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Giardini di Pietra
 
Capitolo 12

 
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In quei pochi giorni di lontananza cercai di liberare il mio cuore dai fantasmi che lo infestavano, di tenere la mente lontana dai cattivi pensieri; ero partito dando fiducia a Florent, e dovevo mantenerla. Di giorno era facile: il mio amico era un ottimo anfitrione, sua moglie, che ancora non avevo conosciuto, una splendida padrona di casa, di grande cultura, con la quale era un piacere discorrere. Le ore trascorrevano piene, non avevo veramente il  tempo di ascoltare i miei demoni; la sera, però, era diverso. Quando ero solo i dubbi tornavano.
Così scrivevo a Florent: lettere in cui gli chiedevo perdono, e promettevo che sarei stato migliore, in cui confidavo la mia paura dell’abbandono, di perderlo per qualcuno che lo conosceva meglio di me. Da più tempo di me. Ammettevo che la mia gelosia era segno di debolezza, di insicurezza, e lo pregavo di comprendere, di non fare più niente che potesse scatenarla.
E appena finito di scriverle le bruciavo.
In fondo, mi dicevo, non erano per i suoi occhi, ma per cercare di buttare fuori un po’ del mio veleno; al mio ritorno, coi fatti e non con le parole gli avrei dimostrato la mia devozione.
E tuttavia non bastava. Mi rigiravo tra le coperte, odiando essere da solo in quel letto, e il demone di sussurrava chissà se anche lui è solo, oppure…
Oppure.
Lui, tra le braccia di un altro.
Lui, che decide di tornare alla sua città natale.
Lui, che non ha più bisogno di me e mi abbandona.
Le notti erano un inferno di brutti pensieri.
 
Mantenni ciò che mi ero proposto e ripartii alla volta di Genova qualche giorno in anticipo rispetto al previsto, benedicendo di trovarmi a così esigua distanza da casa. Ancora poco, mi dicevo in carrozza, ancora poco e avrei di nuovo avuto Florent tra le braccia, e di nuovo saremmo stati solo io e lui. Sorridevo, immaginando che ogni problema si sarebbe dissolto.
Giunsi a destinazione nel primo pomeriggio, scaricai io stesso il mio magro bagaglio e congedai la carrozza; scrutai le finestre di casa, ma nessuno si era affacciato, nessuno era uscito ad accogliermi.
Mi parve strano che nessuno avesse udito la carrozza; entrai e chiamai Florent; non mi giunse risposta; provai a chiamare anche Matilde, ma nemmeno lei sembrava essere in casa. Ragionai che lei dovesse essere uscita per delle commissioni, e lui l'avesse accompagnata, ma tanta era la mia voglia di rivedere Florent che irrazionalmente non mi rassegnai alla sua assenza, e lo chiamai ancora, cercandolo, e ricacciando indietro i brutti pensieri che tanto mi avevano tormentato: tornare e non trovarlo più. Scoprire che se ne era andato, e che ero di nuovo solo.
Non lo trovai né in salotto né nel mio studio, tanto meno nel giardino sul retro; mi precipitai allora al piano superiore, in camera sua: forse era allo scrittoio, o stava leggendo, e nella concentrazione non mi aveva sentito. Forse stava riposando. Bussai alla porta ed entrai, ma la stanza era vuota.
Mi saltò subito agli occhi il letto sfatto, e percepii distintamente un profumo aleggiare nella stanza… un profumo legnoso e fresco, un po’ speziato, molto diverso da quello che portava Florent, che sapeva di lavanda, di iris e ambra.
Quel profumo estraneo avevo imparato a conoscerlo negli ultimi tempi: era inconfondibile, era quello che avevo sentito ogni volta che mi ero trovato accanto a Gabriele.
Il cuore mi precipitò nel più profondo, ghiacciato, pozzo dell’inferno.
Mi avvicinai al letto, ma fui troppo vigliacco per cercare su di esso le prove del tradimento; distolsi gli occhi dalle lenzuola in disordine, dai cuscini stropicciati e il mio sguardo si posò sul comodino dove scintillava un oggetto: l’orologio da tasca dell’odiato veneziano. Impossibile non riconoscerlo: d’oro smaltato, elegante e di gusto squisito, un piccolo capolavoro. Dimenticato lì, con la sua catena d’oro e i ciondoli con le sue iniziali: GB, Gabriele Vidal.
Oltre il dolore e la rabbia sentii montare in me un consumante senso di umiliazione. Li immaginavo mentre amoreggiavano, mentre si possedevano, mentre ridevano alle mie spalle, e avrei voluto rovesciare ogni mobile in quella stanza, prendere a calci le pareti, urlare. Forse se l’avessi fatto, sputando subito tutto il fiele che mi scorreva dentro, poi le cose sarebbero andate diversamente, sarebbero andate meglio. Sarei stato più lucido, meno impulsivo, e tutta questa patetica confessione non sarebbe mai esistita.
Passarono quasi due ore prima che Florent rincasasse, e io passai quel tempo in salotto, mandando giù più brandy di quanto fosse saggio fare. L’alcol aveva anestetizzato il dolore, ma anche fomentato la rabbia, e annebbiato ancor di più la mia mente; mi tremavano le mani e la tensione mi irrigidiva le spalle e la schiena.
Non riuscivo a pensare ad altro che al tradimento, non trovavo altra spiegazione. Andavo su e giù per la stanza come una bestia feroce in gabbia.
Quando lui rincasò… quando mi trovai davanti Florent l’incendio del mio rancore divampò ancor più violento, senza controllo. Forse fu colpa della sua espressione tranquilla, innocente, che mi sembrò una presa in giro. Arrivò quasi di corsa, cercandomi, perché aveva visto il mio bagaglio abbandonato in entrata; venne verso di me tendendomi le braccia, radioso, sorridente. E poi esitò, si fermò. Aveva visto la mia faccia scura, aveva visto che non ricambiavo il suo sorriso, che non gli andavo incontro; mi fissò con espressione curiosa, e preoccupata. Forse presagì il pericolo.
Mosse le mani per parlarmi… e io persi di vista me stesso.
 
Mi è straziante raccontare, mi sento soffocare di agonia e disonore, ma giunto a questo punto non posso tacere, e se fino a ora ho avuto forse la vostra compassione, è giunto il momento che mi venga tributato il disprezzo che merito.
Aggredii il mio Florent con parole terribili, e non riesco a metterle su carta, nemmeno a ripeterle sottovoce, perché provo una vergogna tale, una disperazione, che mi incenerisce il cuore e la lingua. Gli gridai insulti e accuse, tremante di collera… mi mossi di scatto verso di lui, e mi sembrava di agire al di fuori della realtà, quasi come se un altro avesse preso il mio posto.
Oh, se solo lui avesse potuto parlare! Se a sua volta avesse potuto urlare, darmi del maledetto imbecille, mandarmi al diavolo… forse le sue parole avrebbero penetrato i fitti veli in cui mi dibattevo. Mi avrebbero risvegliato, e mi sarei calmato. Forse sarebbe bastato. Ma a respingere le mie accuse c’era solo il suo ovvio silenzio stordito e incredulo. Florent indietreggiò d’istinto… provando timore di me! Orribile, orribile!
Alzò le mani, facendo gesto di fermarmi, e io lo afferrai, al polso sinistro, e a metà dell’avambraccio destro, lo spinsi indietro, bruscamente, rovesciando una pesante sedia nel cammino, fino a costringerlo contro il muro.
 
"Che cosa hai fatto? Come hai osato tradirmi? Cosa hai fatto? Con lui… Cosa hai fatto?" 
 
E dopo aver posto la domanda che tanto mi ossessionava, io stesso diedi la risposta; tremenda, volgare, inascoltabile.
Gli rinfacciai crudelmente di averlo raccolto dalla miseria, di averlo preso in casa mia, ripulito, rivestito, di averlo riempito di doni e di aver esaudito ogni suo desiderio, di averlo fatto vivere negli agi, amato e adorato. E lui mi ringraziava con l’infedeltà!
Quante volte ripetei quella frase, cos’hai fatto, con lui. E quanti epiteti orribili gli gettai in faccia, con il respiro corto, strattonandolo, stringendolo sempre di più. Opponeva resistenza, cercava di liberarsi, ma io ero più forte, e furioso al punto da avere le energie moltiplicate; tenerlo prigioniero era semplice, e mi dava un perverso senso di piacere, di potere. Ero soddisfatto dalla sua espressione di panico, la consideravo un’ammissione di colpevolezza, la prova che avevo ragione nell'accusarlo.
Ma non durò molto il suo smarrimento: la sua espressione si indurì, le sue sopracciglia si aggrottarono. Aveva capito di non poter liberare le braccia, e così mi sferrò un gran calcio. Il dolore fu un lampo acuminato, vidi scintille infuocate davanti agli occhi, urlai di dolore e provai una nuova ondata di rabbia; allentai la presa e lui mi sfuggì, ma fu solo un attimo. Lo riafferrai prima che riuscisse a sfuggirmi, ancora, per il braccio, e lo strinsi ancor più forte, lo storsi, mi gettai su di lui con il mio peso, e travolgemmo un tavolino. Il suo bracciò si piegò malamente, gli sentii emettere una specie di lamento roco… rovinammo a terra.
Inebetito, restai lì, su di lui, continuando a stringerlo, e Florent immobile, boccheggiante, il volto stravolto era cereo, persino le sue labbra erano sbiancate; non lottava più, e i suoi occhi erano pieni di lacrime.   
Solo allora mi resi conto di ciò che avevo fatto, della bestia che ero stato. Mi venne la nausea. E mi finalmente accorsi di stare ancora stringendolo, e dell’espressione di dolore sul suo volto; lo lasciai all’istante, come se scottasse, mi feci indietro, e lui si raggomitolò, tenendosi il braccio, ma sembrò non trovare alcun sollievo. Piangeva anzi, silenziosamente, e tremava. Quale dolore terribile stava provando?
Come… come ho potuto fargli una cosa simile?
Rinsavii all’istante, drenato di ogni furore, ma anche di ogni forza; mi riavvicinai a lui con il cuore pesante, con la nausea che mi stringeva lo stomaco, e sussurrai non so quale stupidaggine per cercare di rassicurare lui, o forse me stesso. Volevo aiutarlo, lo desideravo davvero, ma come feci il gesto di toccarlo lui si scansò.
 
“Voglio solo vedere come stai…”
 
Dissi, e quella voce fragile non sembrava nemmeno la mia. Lui non mi diede retta; si rialzò, un po’ malfermo, e ancora barcollò quando fu in piedi. Ma non perse tempo, e si allontanò in fretta, e prendendo la porta quasi finì addosso a Matilde, che messa in allarme dal trambusto era accorsa. Mi rivolse un’occhiata terribile, in cui c’erano in eguali misura terrore e accusa; protettiva, cinse con un braccio la schiena di Florent e se lo portò via, dicendo che si sarebbe presa cura di lui.
Restai lì, da solo, pietrificato, inerme, e spaventato come appena sveglio da un incubo.
Solo che l’incubo stava ancora continuando.
 
Mi ci volle un buon quarto d’ora per ritrovare l’uso delle gambe, e avere il coraggio di andare da Florent. E tempo dopo, quando ebbi accompagnato il medico alla porta, mi mancò il coraggio di tornare da lui. Il suo braccio destro era rotto, ed ero stato io. La colpa era mia.
Una frattura del radio, non grave, aveva rassicurato il medico; ma  non mi sentivo tranquillo, il pensiero che Florent potesse aver subito un danno permanente mi angosciava. Se la sua capacità di suonare ne fosse stata danneggiata, anche solo in minima parte, il rimorso mi avrebbe ingoiato tutto intero, mi avrebbe distrutto e tormentato per il resto della vita.
Il dottore dunque andò via, ma solo per prendere ciò che gli serviva: bende gessate, che gli applicò con l’assistenza di Matilde, perché io ancora non avevo trovato il coraggio di mostrarmi a Florent. E quando ebbe finito e se ne andò di nuovo, scappai a rifugiarmi nel mio studio, ma non fu una buona idea: c’era la statua di Florent, lì, e non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, e più la guardavo, più mi sentivo male. Provai a coprirla, ma non servì.
Così fuggii ancora; tornai in salotto, dove il tavolino rovesciato mi ributtò in faccia una volta di più ciò che avevo fatto. Non ebbi nemmeno la forza di tirarlo su, sedetti pesantemente sul sofà con la testa fra le mani. Avrei voluto bere ancora, ubriacarmi fino a svenire, per cancellare quella sobrietà tanto dolorosa; ebbi almeno il buonsenso di non farlo, e fu forse l’unica buona decisione di quel giorno.
In preda allo sconforto, sarei stato probabilmente capace di rimanere lì nascosto per giorni, non fosse stato per la mia governante. Arrivò dopo un paio d’ore, entrò senza bussare, cosa che non aveva mai fatto prima d’allora; mi guardò severamente, sconsolata, piena di delusione, e io sentii di non avere né la forza né il diritto di riprenderla.
 
“Si è addormentato poco fa. Il medico gli ha dato un sedativo, riposerà a lungo.”
 
Mi informò, con voce che vibrava d’accusa. Assentii, ma non risposi, e lei parlò ancora.
 
“Ho sentito quello che gli diceva, prima. Come non avrei potuto? Stava urlando!”
 
Sapevo che Matilde si era molto affezionata a Florent, sapevo che mi voleva bene, e che felice che avessimo trovato amore l’uno nell’altro. Ma sapevo anche che lei c’era stata, durante la mia assenza, e se Gabriele in quei giorni si era fermato a casa mia… se lui e Florent erano stati più vicini del solito, lei doveva esserne a conoscenza. Doveva aver visto… doveva aver almeno capito qualcosa! Dai sorrisi, dagli sguardi, dal loro essere così vicini. Doveva sapere che Gabriele si era fermato la notte! A me il tradimento sembrava tanto evidente, perché a lei no?
 
“E non avrei dovuto? Dopo quello che mi ha fatto! È stata la sua infedeltà a provocarmi.”
“Come potete pensare… quel ragazzo vi ama così tanto!”
“Così tanto? – alzai la voce – Tanto da essermi infedele? Ho visto il letto sfatto, e l’orologio prezioso che quel farabutto ha dimenticato sul tavolino. Ho sentito il suo profumo che ancora aleggiava nell’aria, a tal punto era fresco il tradimento!”
 
Sapevo di essere in torto, ma parlai con impeto, bisognoso di sfogarmi, di giustificarmi ai suoi occhi. Come potesse esistere una giustificazione alla violenza che avevo usato! Matilde mi lasciò fare, e poi, quieta e paziente, prese a spiegare. Non avrebbe potuto usare un tono migliore, per umiliarmi.
 
“Florent è stato male. Il giorno successivo alla sua partenza si è risvegliato febbricitante, e la temperatura gli è poi salita rapidamente. Il signor Vidal era venuto qui, come le altre volte, e si è subito preoccupato; dovevano uscire di buon ora e prendere il battello per Portofino, per trascorrere lì la giornata. Il signor Vidal si è preoccupato e ha annullato tutto, nonostante le insistenze di Florent. Quel benedetto ragazzo… dove pensava di andare? Ormai scottava!”
 
Mi sentii sprofondare; davvero, mi parve che il pavimento sotto di me cedesse, o forse erano solo le mie gambe a farlo.
 
“Florent è stato male?”
 
Chiesi, con un fil di voce, e Matilde annuì.
 
“Febbre, spossatezza. Un po’ di nausea e mal di gola. Il signor Vidal andò a chiamare un medico; dopo aver visitato Florent quello disse che non c’era da preoccuparsi, che sarebbe bastato il riposo, e una blanda medicina che gli avrebbe prescritto. Nulla di grave, insomma; soprattutto, doveva riposare. Il signor Vidal è rimasto al suo fianco, trasferendosi qui… gli ha tenuto compagnia di giorno, leggendo e suonando per lui, e lo ha vegliato di notte, limitandosi a sonnecchiare qualche ora sul divanetto. Era così in apprensione che Florent l’ha persino scherzosamente rimproverato.”
“E quindi…”
“E quindi non so che le sia saltato in testa! Come lei possa aver visto una tresca dove c’è una sincera amicizia, un affetto fraterno… non lo so davvero. Come può aver pensato una cosa tanto brutta di Florent?”
 
Balbettai qualche scusa, patetico, ma non avevo una risposta, solo la mia follia. Matilde scosse la testa, stanca, e continuò nella sua spiegazione.
 
“Oggi il signor Vidal doveva partire, non poteva rimandare ulteriormente; Florent si sentiva ormai molto meglio, e ha voluto a tutti i costi accompagnarlo alla stazione. Non c’è stato verso di farlo desistere, e alla fine l’ha avuta vinta. Ma perché non tornasse indietro da solo, sono andata anche io con loro. A ripensarci ora, avrei fatto meglio a restare a casa: almeno avrei potuto accogliervi e impedirvi di ingannarvi con una fantasia tanto malata.”
 
Capite il terribile equivoco, la mia idiozia, il male che avevo causato? L’offesa, il danno!
Mi sentii assalire dalla nausea e dalle vertigini. Le parole crudeli che avevo gettato in faccia a Florent mi pesavano come macigni, mi soffocavano; l’aggressione era come una fredda lapide sulla nostra felicità. Chinai la testa, me la strinsi fra le mani sperando di soffocare il dolore e il ronzio che la riempivano. Desideravo stare solo, ma Matilde non ebbe pietà, e aggiunse altri dettagli alla sua spiegazione, per rinfacciarmi ancor di più il male che avevo compiuto, e perché il senso di colpa potesse rodermi ancora di più. Tra le altre cose, l’orologio d’oro, il gioiello che io credevo dimenticato da Gabriele nel rivestirsi, dopo l’amore… era un regalo che aveva lasciato in ricordo a Florent, in amicizia e innocenza.
 
Guardati, mio signore, dalla gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che schernisce la carne di cui si nutre.
 
Quanto mi è adatta questa citazione, e quanto vorrei aver rammentato prima la lezione che l’Otello impartisce. E sono stato peggio di lui, nella gelosia, perché non avevo uno Iago a raccontarmi menzogne, a tessere inganni: feci tutto da me.
Avrei dovuto pensare agli occhi sorridenti di Florent, quando mi guardava; alle sue mani fresche e fini, con i polpastrelli induriti dall’uso del violino. Se fossi stato lucido, mi sarei reso conto che non c’era alcuna falsità, in lui.
Se fossi stato saggio, avrei riconosciuto i miei dubbi e le mie fissazioni come sciocchezze.
E se fossi stato un uomo davvero degno di tal nome, non ne sarei stato nemmeno sfiorato.
Per quanto avvertissi come enorme il peso della colpa, ancora non mi rendevo conto del tutto della gravità della situazione: dentro di me credevo che chinandomi umilmente davanti a Florent, battendomi il petto e implorando il suo perdono, avrei ottenuto l’assoluzione.
M’illudevo che l’amore fosse una medicina universale… e invece a volte nemmeno l’amore è abbastanza; nemmeno lui può far dimenticare ogni torto.
 
Andai in camera di Florent; dormiva, tranquillo e pallido. Sedetti al suo fianco, pronto a restare lì anche per ore: volevo esserci quando si fosse svegliato, volevo offrirgli subito il mio pentimento.
Per tutto il tempo non feci che pensare alle parole che gli avrei detto, cercandole, soppesandole, scartandole; mi aggrappai a quella ricerca come un naufrago a un rottame di legno, cercando di non affogare… le parole giuste per esprimere la mia preghiera di perdono, per fargli capire quanto mi sentissi ignobile e miserabile.
Credevo di averle trovate, a un certo punto, eppure, quando infine lui aprì gli occhi e il suo sguardo incontrò il mio, per poi distogliersi, andarono tutte in fumo. Il fardello che impietoso mi schiacciava raddoppiò, l’angoscia mi travolse, e non riuscii a controllarmi. Tra le lacrime iniziai a parlare. Piansi, implorai perdono, e con frasi sconnesse cercai di spiegare ciò che avevo equivocato, e perché. Come se lui non lo sapesse già benissimo, come se non lo avessi reso chiaro con le parole che gli avevo urlato in faccia. Avevo dubitato di lui, lo avevo aggredito, che doveva farsene delle mie scuse? Le ascoltò, indifferente e lontano, guardando davanti a sé senza più rivolgermi un’occhiata.
Senza curarsi delle mie mani che, disperate ed esitanti, lo cercavano, gli accarezzavano il capo, gli stringevano il braccio sano attraverso le coperte, si posavano sul suo petto. Ignorava qualunque cosa facessi, come se nemmeno ci fossi.
Mi stava punendo, e aveva ragione.
 
~°~
 
Quei giorni mi appaiono immersi in un’acqua scura e fredda, che leva il fiato e intorpidisce il corpo. Ricordo lui, il braccio al collo, ad accarezzare con amore e desiderio il violino, pizzicare le corde ogni tanto, e suonare qualche nota al piano, con una mano sola, per distrarsi.
Ricordo la speranza con cui ogni mattina aprivo gli occhi: che lui si sarebbe avvicinato a me, avrebbe sorriso, e mi avrebbe concesso di abbracciarlo di nuovo, permettendo che tutto iniziasse a tornare come ai giorni migliori.
E ricordo altrettanto bene la delusione e il tormento che mi erano compagni al momento di richiuderli e dormire.
Doni, preghiere, pianti, promesse; nulla valse. Minacciai d’uccidermi, e mi guardò come si guarda un povero idiota. Non mi teneva più compagnia mentre scolpivo, come spesso faceva un tempo; non sedeva più accanto a me sul sofà, trascorrendo placide ore serali leggendo l’uno vicino all’altro. Usciva, e trascorreva fuori ore, passeggiando sul lungomare, o a volte scendendo sulla spiaggia, sedendosi a guardare le onde stretto nel cappotto. Venne e passò Natale, e fu triste e cupo.
E così pensai, delirai, che se volevo che mi ascoltasse, che mi perdonasse, dove obbligarlo ad accettare la mia compagnia, perché si rendesse davvero conto di quanto fossi pentito e disperato; dovevo togliergli la possibilità di evitarmi, di ignorarmi.
Presi a impedirgli di uscire senza di me, ma anche di restare da solo a lungo in casa; ero sempre con lui, trascurai anche il mio lavoro pur di non lasciare il suo fianco. Spesso dormivo nella sua stanza, sul divanetto, e gli raccontavo di come potevamo tornare a essere felici, e che avrei avuto fiducia, non avrei dubitato più; gli ripetevo quanto mi mancava, e continuavo a chiedergli assoluzione. Ebbi paura, a un certo punto, che lui avrebbe potuto fuggire di nascosto, di notte, se mi fossi profondamente addormentato, così trascinavo il divanetto davanti alla porta per sentirmi più sicuro. Ero pazzo.
Gli parlavo di fiducia togliendogli la libertà, inseguivo testardamente il perdono senza accorgermi che con tanta folle insistenza lo allontanavo ancora di più. Di certo esisteva il modo per addolcirgli il cuore, perché lui era orgoglioso ma non crudele: avrebbe accolto e sanato il mio dolore, accettato il mio rimorso, se fossi stato capace di porgerlo nel modo giusto. Voglio crederlo... voglio ancora pensare che una possibilità esisteva.
Ma quale era, il modo giusto? Anche ora non sono certo di averlo capito, e a quei tempi ne capivo ancor meno, e tremavo nel profondo del cuore, quando lui schivava il mio sguardo.
Non valsero le volte che mi inginocchiai di fronte a lui, che pregai, che gli carezzai le guance lisce; le volte in cui gli poggiai la testa in grembo e quelle che le mie lacrime gli inumidirono la veste da camera di seta scura. Piangevo, singhiozzando aspro, aspettavo di sentire la sua mano tra i capelli, ma nulla mai avvenne.
Nulla, per tutto il tempo che il suo braccio impiegò a guarire. 
 
E guarì infine, e il dottore ribadì le rassicurazioni che aveva già fatto altre volte in quel periodo: Florent avrebbe recuperato pienamente, presto avrebbe potuto tornare a suonare il violino.
Ciò fece brillare di felicità gli occhi di lui, e fece respirare meglio me, ma quel conforto non era sufficiente a darmi la pace, ad alleviare in qualche modo il peso del mio atto. Non ebbi la forza o il coraggio di esprimere a Florent il mio sollievo: temevo mi rinfacciasse la mia colpa, che con sprezzo rifiutasse la mia gioia, perché che diritto avevo di rallegrarmi, dopo essere stato la causa del suo incidente? Per non parlare degli insulti che gli avevo rivolto. Avrei meritato la sua freddezza e anche la sua rabbia, e come un vigliacco preferii non affrontarle. Rimasi in disparte, incapace di dir nulla, io che nelle settimane precedenti lo avevo riempito di parole; in disparte, pensando ai giorni spensierati che avevamo vissuto, e a come li avevo creduti eterni.
Fu Florent a venire da me, e io restai immobile, sicuro che mi avrebbe colpito, e a ragione. Anzi, speravo ormai che lo facesse, che mi rendesse ciò che gli avevo inflitto.
Mi guardò serio, i suoi occhi più intensi che mai, e i suoi pensieri indecifrabili… e poi sulla sua bocca si disegnò un lievissimo sorriso; in cuor mio imploravo non so chi di un miracolo.
Dopo avermi osservato a lungo, Florent posò sulle mie labbra un casto bacio; indugiò su di esse con dolcezza, e così grande fu il mio stupore, la mia incredulità, che nemmeno riuscii a ricambiare. Erano meravigliosamente morbide, tiepide, familiari… e mi erano mancate così tanto! Fu come se un delizioso e salvifico tepore mi avvolgesse, dopo essere quasi morto di freddo. Si staccò da me, per guardarmi, e io mi persi nei suoi occhi; con la punta delle dita gli sfiorai la bocca, le guance, i capelli, pieno di reverenza, e infine lo avviluppai tra le braccia.
Fu un momento di pure felicità: il mio animo si innalzava, il mio respiro era leggero, il futuro era di nuovo un posto in cui era possibile vivere. Ma l’atteggiamento affettuoso di Florent era un canto di sirena, era la dolcezza che mi rovinò.
Avrei voluto fare l’amore con lui quella notte, ma non me lo concesse. Giusto, pensai: non potevo pretendere di avere tutto e subito; che mi punisse ancora un po’, lo meritavo.
Almeno potei stringerlo fra le braccia, dormendo di nuovo nello stesso letto, e sentirmi finalmente in pace. Non del tutto, però: ancora non volevo che uscisse da solo, ancora non riuscivo a stare separato da lui per più di un’ora, anche se eravamo comunque sotto lo stesso tetto.
Florent mi assecondò, sembrava pieno di indulgenza, di pazienza; mi dedicava tutto il tempo che gli chiedevo, mi sorrideva, mi rassicurava.
Nei giorni successivi uscimmo per le nostre solite passeggiate, di sera cenammo fuori, andammo a teatro… suonò per me, brani semplici e tranquilli, perché, anche se aveva il permesso del dottore di dedicarsi al suo amato strumento, doveva andare per gradi. Non era ancora il tempo di virtuosismi, e se avesse provato a cimentarsi di certo glielo avrei impedito, ma non vedevo l’ora di ascoltare di nuovo il suo incredibile talento all’opera. Sognavo quel momento… e sogno è rimasto.
 
Trascorsero un paio di settimane; Matilde andò via qualche giorno. Quella sera Florent e io andammo a un concerto, e dopo ci fermammo a bere qualcosa; sulla via del ritorno ero un po’ brillo, e Florent mi sorrideva così dolcemente che a fatica mi trattenni dal baciarlo, dal toccarlo. In carrozza, però, ebbi l’audacia di prendergli una mano e carezzargli il palmo con le labbra, e poi di pormela sul petto, perché sentisse quanto il cuore mi batteva veloce.
A casa, sul divano, lo baciai davvero; a lungo, profondamente, facendo correre le mani sotto i suoi vestiti; lui si tolse giacca e camicia, e potei inebriarmi della sua pelle calda, sussurrando il suo nome, il mio amore, e mille promesse. Desideravo fare l'amore con lui per ore, per giorni! Quando mi feci più audace Florent mi fermò, gentile ma sicuro; mi aveva concesso di più, ma ancora non avevo ottenuto tutto il suo favore.
Va bene, gli dissi, va bene. Aspetterò.
Avrei continuato a pazientare, a sopportare il castigo, e sarebbe stato più facile ora che, mi sembrava, Florent aveva mosso un altro passo verso di me, che il suo cuore si era un altro po’ addolcito. Tornai a soli baci e carezze, e lui mi ricambiava con ardore; si alzò, a un certo punto, e alle mie proteste, al tentativo di trattenerlo mi fece cenno di avere pazienza solo qualche minuto. Si allontanò, e tornò con due calici, e una bottiglia di vino rosso, forte e profumato. Ne versò per entrambi, e brindammo ai giorni futuri.
E poi versò e versò,  ma solo a me; non diedi peso al fatto che lui avesse a malapena bevuto metà del primo calice, perché Florent era molto parco con gli alcolici; lui non apprezzava molto, mi aveva detto, avere i sensi offuscati.
A me piaceva, invece, e mi piaceva anche quel vino pregiato che, essendo quasi a digiuno, non ci mise molto a farmi girare la testa. Accettai ogni volta che Florent versava, tra i baci, tanto che finii la bottiglia e, stanco per la lunga giornata, illanguidito dall’alcol e dalla felicità, sopraffatto mi addormentai sul divano, ebbro e sorridente.
 
Quando mi svegliai era mattina, e Florent non era accanto a me. Mi alzai, un po’ dolorante per aver dormito in una brutta posizione, e lo chiamai.
Lo chiamai, lo chiamai.
Lo cercai in camera sua, dove il letto era intatto, e poi per tutta la casa, e nello studio, in giardino, facendomi sempre più frenetico e spaventato. Uscii, percorsi la passeggiata del lungomare, scesi in spiaggia… niente.
Avevo già capito, anche se tentavo di negare con tutto me stesso, e perseverai nella menzogna per ore intere, mentre il mio cuore sembrava rallentare, battere sempre più piano, ma senza mai spegnersi, in agonia.
Vagai in città, dal porto ai quartieri più nobili, visitai i suoi locali preferiti, che fossero locande popolari o raffinati caffè, fermai tante persone, descrivendo Florent e chiedendo loro se lo avessero visto. Nulla.
Tornai verso casa che si stava facendo scuro; nell’anima nutrivo ancora la folle speranza che rientrando l’avrei udito suonare il violino. Lui sarebbe stato lì, in salotto, perché era solo uscito per passare qualche ora in città, e le nostre strade non si erano incrociate… gli avrei raccontato di quanto mi ero spaventato, e lui avrebbe scosso la testa, sorridendo di me e della mia sciocca paura, e alla fine ne avrei riso anche io.
Ma una volta arrivato trovai solo il buio ad attendermi dietro ogni finestra.
 
Florent si era portato via poche cose, nella stessa sacca logora che custodiva tutti i suoi averi quando lo conobbi. Un pettine, un piccolo specchio e la sua boccia di profumo; i taccuini e le matite, un cambio di vestiti, e dall’armadio capii che aveva scelto i più semplici. Il suo amato e prezioso violino, ovviamente. Aveva preso con sé l’orologio di Gabriele, e di tutti i miei regali aveva portato via solo i gemelli che gli avevo donato a Venezia.
Non aveva preso denaro, nemmeno una moneta; forse li considerava soldi soltanto miei, e non aveva voluto toccarli. Nella mia preoccupazione avrei preferito che si fosse portato via tutto quel che c’era in casa, che avesse depredato anche l’argenteria e i gioielli di famiglia, purché ciò gli assicurasse un po’ di benessere.
Ciò che provai, ciò che pensai, è avvolto nella nebbia del trauma. Per tutta quella notte rimasi sveglio, seduto immobile sul letto di lui, strizzando gli occhi di tanto in tanto e scuotendo la testa, come quando ci si accorge di stare avendo un incubo e ci si vuole svegliare.
Certe volte lo faccio pure adesso, ma ancora non riesco a destarmi.
 
La sua lettera la trovai solo il giorno successivo.
 
~°~
 
Non ho niente da aggiungere, anzi, ho parlato anche troppo.
Florent, ho detto, l’ho cercato affannosamente, ma non l’ho trovato mai, né ho avuto sue notizie, quasi fosse esistito solo nei miei pensieri. Cercai di rintracciare anche Gabriele Vidal, ma pure su di lui non trovai niente. Per quanto io l’avessi detestato, potevo solo sperare che Florent l’avesse raggiunto, trovando accanto a lui rifugio e tranquillità… amicizia e affetto, una bella casa, agiatezza e serenità. Che invece potesse essere tornato a vivere di elemosina, suonando il violino per strada e dormendo in squallide soffitte, era un pensiero che mi faceva nausea e orrore.
Ricordavo bene che Gabriele gli aveva affidato un taccuino che riportava il suo itinerario e gli indirizzi a cui contattarlo; di certo Florent doveva averlo raggiunto, mi ripetevo, bisognoso non tanto di un riparo, quanto di conforto. E io quanto volte mi sono pentito e maledetto di non aver gettato mai nemmeno un’occhiata a quelle pagine, memorizzando almeno un paio di indirizzi!
Florent… se è vivo, adesso anche lui è vecchio, però non riesco a immaginarlo canuto e fragile, ammalato. Per me sarà sempre l’angelo splendido del Sonno Eterno, dall’espressione dolce, misteriosa e un po’ irridente, e se Dio e gli angeli esistessero davvero, vorrei che fosse lui a chiudermi gli occhi, ad accogliermi, quando morrò. Ma in Dio e negli angeli in fondo non credo, sono una speranza fragile a cui ormai ho rinunciato: nessun paradiso ci sarà in cui potrò incontrarlo e chiedergli scusa.
Ma nella morte buia, almeno, lo potrò finalmente dimenticare.
 
~°~
 
Riccardo,
 
pure se ora io dicessi d’amarti, tu forse non mi crederesti!
Eppure nonostante tutto ancora ti amo!
E se ti angusti per ciò che è successo, probabilmente lo fai per i motivi sbagliati. Ti perdono per le parole cattive, perché un uomo preso dalla rabbia spesso parla al di fuori di se stesso, senza distinguere più tra il vero e l’illusione che i suoi occhi credono di vedere.
Anche per il mio braccio ti perdono: so che ne sei straziato, e hai già patito abbastanza, per il senso di colpa e per la lontananza che ti ho imposto.
Non devi credere che per questi motivi io, offeso, me ne sia andato, né che lo abbia fatto per paura nei tuoi confronti. No, perché in realtà l’esibizione della tua superiore forza fisica ha finito con il lasciarti del tutto debole e indifeso di fronte a me, come mai lo eri stato.
 
Ciò che mi ha addolorato, amareggiato, e che mi porta fuori da questa casa è più grave, Riccardo. È la mancanza di fiducia che mi hai dimostrato. L'avermi considerato, anche brevemente, un opportunista.
Cosi poco credi in me e nel mio amore da pensare che potrei tradirti non appena tu ti volti? Così scarsa fede hai in me e nel sentimento che ti porto? Mi pensi così superficiale e falso?
E anche un’altra cosa: non avrei desiderato al mondo nulla di più che tu e Gabriele diventaste amici. Le persone più importanti per me siete voi due: colui che amo appassionatamente come compagno, e colui che fu ed è il mio più caro amico, il mio buon maestro. Sarei stato così felice di avervi entrambi accanto a me, di vedervi stringere un legame… ma tu per lui hai dimostrato solo diffidenza, e poi astio, e immotivata gelosia, quasi disprezzo. Oh, sei sempre stato molto civile, e non l’hai mai detto ad alta voce, ma l’ho capito lo stesso molto bene. E anche lui. Questo mi ha fatto piangere, e disperare, quanto tu non potevi vedermi.
E nonostante ciò, quando prima di andarsene Gabriele mi disse di essere preoccupato per me, gli risposi di non essere sciocco. Ancora speravo che ritrovare il Riccardo di sempre.
 
In questa storia il nostro amore si è ammalato, sai? Vorrei pensare che tutto possa tornare com’era fino a pochi mesi fa, a quella felicità luminosa e perfetta, ma ciò che leggo nei tuoi occhi e nei tuoi gesti è una tale paura di perdermi che temo finirai col rinchiudermi del tutto… in una gabbia grande e dorata, forse, ma pur sempre una gabbia. Il tuo sguardo su di me sarebbe completamente diverso da quello che mi ha fatto innamorare, che era così colmo di fiducia, gioia, e devozione. E avrei sempre presente il ricordo di come hai respinto una delle persone più importanti della mia vita, amando di me solo ciò che ti appartiene, solo ciò che ti riguarda.
 
Vado via, Riccardo, anche se ti amo come forse non amerò mai più nessuno… non voglio soffocare in un rapporto che potrebbe recare danno a entrambi. Credo soprattutto che tu abbia bisogno di riflettere, e di capire perché siamo giunti a questo.
Cercami, se vuoi; forse mi troverai, se il destino lo vorrà, e forse quel giorno avrai compreso.
E se così sarà, allora potrei tornare da te, ricostruire la nostra felicità, suonare di nuovo per te… suonare di nuovo insieme, violino e pianoforte, nella loro perfetta armonia.
Ma ora addio; scusa solo per il piccolo inganno amoroso con cui ti ho fatto abbassare la guardia, per l’ultima passione che non ti ho concesso, e per il vino con cui abbiamo brindato, per cui tu ora dormi sognando sereno e io scrivo e sono pronto ad andare.
Sì, in parte questa è anche una vendetta, una ripicca: sono orgoglioso, e tu lo sai.
Ma sicuramente sai anche che se tu avessi avuto fede, avrei preferito morire che lasciarti.
Sono io, il tuo
 
                            Florent.

 

 
____________________________________
 
NdA

Un'altra storia è giunta alla fine, e questa volta mi lascia più malinconica del solito.
Mi piacerebbe, un giorno, scrivere una AU ambientata ai nostri tempi, in cui Riccardo e Florent si incontrano di nuovo, e hanno la possibilità di essere felici e spensierati, di avere un lieto fine.
Questa storia, però, non poteva finire in altro modo... le altre mie fic hanno avuto conclusioni diverse da quelle inizialmente pensate, ma in questo caso non mi sono discostata dall'idea iniziale. Forse è aver tratto l'ispirazione da una statua vista al cimitero ad aver messo il sigillo sul finale (credo non dimenticherò mai il momento in cui la vidi la prima volta, da lontano, e come le sono praticamente corsa incontro.  C'è gente che magari ricorda così il colpo di fulmine per il grande amore, io ho una statua a Staglieno... mai detto di essere normale, d'altra parte. Se fate un salto sulla mia pagine, ne ho inserito un'immagine a figura intera).
 
Grazie a chi ha seguito Riccardo e Florent fin qui.

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