Memorie di Spettri

di MoeniaDea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una città europea ***
Capitolo 2: *** Madrid/Parigi ***



Capitolo 1
*** Una città europea ***


 Capitolo 1: Una città europea.
 
Il suono del pianoforte si diffondeva nella villa abbandonata. La luce entrava nelle grandi vetrate della vecchia biblioteca, con al posto dei libri solo ragnatele e polvere, illuminando il vecchio tappeto e il pulviscolo che danzava nell’aria. Nonostante l’età, lo strumento era perfettamente accordato, la sinfonia prodotta aveva qualcosa di triste e melanconico, sposandosi col luogo.
L’uomo che suonava, avvolto stretto nel suo cappotto nero, muoveva le lunghe dita sui tasti. Continuò così fino a che il suo orologio da polso, col vetro scheggiato, segnò le undici di sera. Il pianista allora smise, chiuse la custodia della tastiera, e prese la candela sulla coda. Si mosse nella casa fino alle cucine, e da lì entrò in una piccola porta decorata con angeli e croci. Scese le scale oltre di essa, e si trovò nella cripta. Dentro ad essa, erano conservate due bare marmoree, di cui una per un bambino. L’uomo tolse la polvere dalle lettere dorate, e rimase a fissarle per un tempo apparentemente infinito.
Quando tornò dai suoi pensieri, decise di uscire. Tornò nella biblioteca, recuperò il suo cappello e indossandolo uscì nel parco della villa. Quando fu in strada, rimase ancora a fissare la strada prima di andare a prendere il tram. Ma un rumore di passi attirò la sua attenzione: una signora anziana, vestita interamente di nero, coi radi capelli bianchi in testa sciolti, lo fissava. Un movimento della testa dell’uomo permise alla luce della Luna di illuminargli il viso.
La donna sgranò gli occhi, le lacrime iniziarono a scendere. – Signorino… Julian.
- Hola, Jacinta. – rispose l’uomo, con un sorriso infernale.
Un freddo vento dal mare scacciò le ultime nubi dalla notte barcellonese.
 
*
 
Fuori dalle vetrate del locale si vedeva la galleria in stile di inizio '900, con la luce che filtrava dai lucernari e le persone che passeggiavano guardando le vetrine di negozi storici. Fëdor guardava fuori, e con l’indice destro fingeva di dirigere un’orchestra, cantando il motivo a bocca chiusa, pur di sopperire all’assenza di musica nel locale. Un cameriere si avvicinò e gli mise sul tavolo davanti la tazza col caffè, con affianco un dolcetto a forma di barca avvolto da stagnola dorata. Il russo scartò il cioccolatino e lo mangiò in due morsi. – Non mi son mai piaciute le nocciole – poi iniziò a bere la bevanda calda. – E a te... – un sorso.  – Calvino? –
- Amo le nocciole. – l’uomo dall’altro lato del tavolo sorseggiò il suo caffè, giocando con la carta del dolce. Osservò l’orologio al polso, corrucciando la fronte. – Forse è meglio che vada. Ecco l’indirizzo dove ci sarà l’incontro. Arrivato lì, mostra questo biglietto, ti faranno entrare nella cantina sotto al negozio e poi da lì potrai accedere al sistema fognario. È una vecchia galleria di epoca romana, usata ancora in periodo medievale. Ormai è usata solo per le acque piovane. – Prese dalla tasca della giacca il biglietto, e lo porse al russo.
Fëdor sorrise. – Non potevi portarmi in un luogo migliore.
L’italiano bevve dalla sua tazza. – Non sono affari miei, ma perché ti interessa così tanto quel libro?
- Che domande, per liberare il mondo dalla gente coi poteri. – il russo sorrise, e quel sorriso era come la lama di un coltello: fredda e affilata.
 
Il russo arrivò al negozio indicato nel biglietto, lo mostrò e finalmente ebbe accesso alla galleria dell’incontro. Per lui, due cose accomunavano le città di tutto il mondo: il cielo e le fogne. Lui amava le seconde. Il commesso del negozio gli aveva detto di svoltare a sinistra e proseguire fino a che non avrebbe trovato un’altra porta di colore rosso.
Fëdor arrivò, ed entrando trovò un uomo alto e biondo, vestito elegante e dall’aria sperduta. Si guardava attorno disorientato, e appena fine il russo si spaventò. Nella stanza, illuminata da una lampadina ad incandescenza scoperta, vi era un tavolo di legno e due sedie rovesciate. Una pallottola era conficcata nel muro di fronte alla porta, e l’aria era pregna di puzza di fumo. Dostoevskij fece per andarsene, ma il biondo si schiarì la voce.
– Sei l’altro committente?
Il russo si voltò. – Sì, e quindi? Non vedi che la fonte è scomparsa?
L’uomo si sistemò la cravatta e porse la mano. – Francis Scott Fitzgerald. – Fëdor non ricambiò. – Ad ogni modo, ti stavamo aspettando quando un tizio vestito di nero è entrato e ha rapito la nostra fonte.
Fëdor sorrise. – Rapito?
- Ha urlato qualcosa tipo “La sombra del viento” e subito non ho più capito chi avevo davanti. Credo che il suo potere crei amnesia.
- O prosopagnosia.
Francis liquidò la questione col gesto di una mano. – Ad ogni modo, intendo scoprire chi è e perché ha rapito Sojiro.
- Sojiro?
- L’informatore. In tua attesa mi sono concesso due chiacchere. Non potevo certo aspettarmi un rapimento da un uomo così premuroso.
- O un finto rapimento.
I due uomini smisero di discutere a causa di un rumore di passi in avvicinamento. Sulla porta apparve Calvino. – Allora? Tutto fatto?
- No. – fu l’unica risposta del russo uscendo dalla stanza. L’americano lo seguì.
Calvino fissò la stanza, e prima di andarsene si avvicinò alla pallottola conficcata nel muro. Fuori aveva cominciato a piovere, e le acque del condotto iniziavano ad ingrossarsi.
 
*
 
L’auto attraversava il viale alberato, uscendo dal centro cittadino e diretta all’aeroporto. Calvino e Dostoevskij erano soli, con Italo che guidava. Procedevano lenti nel traffico della sera, mentre il cielo all’orizzonte si infiammava di rosso e giallo e lasciando intravedere Venere. Fëdor aveva spiegato l’accaduto al compagno, e lui di tutta risposta aveva pensato a chi poteva aiutarli.
La pallottola nella stanza era stata lasciata ad analizzare, e i risultati sarebbero arrivati solo il giorno dopo, quando sarebbero stati a Madrid.
- Manterrai la promessa, vero? – chiese all’improvviso Italo al suo compagno.
Il russo tirò fuori quel suo sorriso simile ad un coltello. – Puoi contarci.
 
*
 
Il gruppo iniziò a suonare Monk’s Dream – Take 8 mentre una giovane cameriera posava sul tavolo i due bicchieri di whisky, ognuno con quattro grossi cubi di ghiaccio, e tre bicchieri d’acqua, uno grande con ghiaccio e due piccoli senza.
La clientela del jazz bar era composta da molti adulti vestiti bene, e qualche giovane coppia. La vista delle grandi finestre era su una piazza frequentata da alcuni skater, raggiunti subito da altri giovani appena scesi da un pullman blu.
Francis e Hermann bevvero metà del loro bicchiere d’acqua prima di sorseggiare il whisky.
- Non male. – disse il biondo.
- Per niente. - rispose l’altro.
I due posarono i bicchieri in contemporanea, facendo tintinnare il ghiaccio. La band si lanciò nel pieno dell’esecuzione. Una nuova coppia entrò e un’altra, seduta vicino alla porta, la richiamò.
- Francis, cosa pensi di fare?
- L’uomo ha detto “Sombra del Viento”, sicuramente il suo potere. Come potremmo rintracciare un uomo sapendo solo questo?
Melville bevve un altro sorso del whisky e osservò il quartetto jazz continuare a suonare. – C’è un uomo, a Parigi, e nessuno meglio di lui conosce i dotati di tutta Europa. Da qui, con Moby Dick, possiamo arrivarci senza problemi in poche ore. – bevve un altro sorso. – Ma devi sapere una cosa su di lui: doveva essere il capo della Gilda al mio posto.
Fitzgerald sorrise. – E chi sarebbe questo?
- Hemingway.
Il biondo si chiuse nel silenzio per alcuni minuti, il tempo di sentir la fine dell’esecuzione. – Alcott, inizia a pensare dei piani. Nel frattempo, rechiamoci a Parigi, ma con calma: facciamo che arrivarci domattina.
Il gruppo iniziò a suonare Blue Monk.



Nota dell'autor
hola todos, benvenuti nella mia prima storia a capitoli ever (pubblicata su EFP, sia chiaro). un grande grazie a Frizzina per avermi consigliato (costretto) a lavorare a questo lavoro, dopo la mia flashfic. e anche a Time Wings per il supporto. VVB ragazze <3
questa storia è in parte nata durante la rilettura de "L'ombra del vento", uno dei miei romanzi preferiti. il mio obiettivo era narrare la storia di come Fjodor e Francis hanno saputo del Libro e la sua locazione a Yokohama, e visto che c'ero, aggiungere un po' di tragedie *arcobaleni*
ordunque, che dirvi: grazie per aver letto sta robaccia.
a presto,
MoeniaDea.

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Capitolo 2
*** Madrid/Parigi ***


Capitolo 2: Madrid/Parigi
 
La luce del sole mattutino si specchiava nelle torri di vetro all’ingresso del Museo Reina Sofia. Il russo e l’italiano entrarono nell’edificio, superando tutte le sale e le opere fino a giungere in quella del Guernica, dove l’enorme quadro era esposto da solo in una stanza bianca. Davanti alla tela picassiana c’era un uomo in un impermeabile beige, coi capelli castani che cadevano fino al collo. Fëdor si fermò, ma il rumore dei tacchi sul pavimento attirò l’attenzione dell’individuo, che voltandosi fece sorprendere il russo: non era Osamu Dazai, ma rimaneva un personaggio altrettanto pericoloso.
L’uomo, sulla cinquantina, aveva la barba di tre giorni che cresceva ispida sul volto, una sigaretta spenta tra le labbra e l’aria di essere un detective di lungo corso.
Calvino si avvicinò porgendo la mano. – È un piacere rivederti, Miguel.
- Perché quel ratto di fogna è con te? – Cervantes lo fissava stringendo tra i denti il mozzicone.
- È il cliente di cui…
- È un essere spregevole. Don Chisciotte della Mancia!
Si materializzò un uomo a cavallo, con l’armatura che lasciavo scoperto il viso, arcigno e sottile con due lunghi baffi e pizzetto a decorarlo. Aveva in una mano la lancia e nell’altra lo scudo. Brillava di una luce dorata. Aveva già puntato l’arma verso Dostoevskij quando Calvino intervenne.
- I Nostri Antenati: Cavaliere Inesistente!
Un secondo cavaliere, in armatura medievale completa e brillante di verde, si parò davanti al Don Chisciotte di Cervantes. Teneva alto il grande scudo con sopra un’aquila nera, e nell’altra mano una grossa spada.
- Mi dispiace, Miguel, ma non posso lasciarti fare del male a quell’uomo, soprattutto dentro a un museo. – poi si voltò verso Fëdor, che stava ridacchiando osservandoli.
- Perché non vi sposate voi due?
Lo spagnolo si voltò stizzito, e tornò a fissare l’opera. – Ad ogni modo, ho quello che mi avevi chiesto, Italo. – prese da una tasca dell’impermeabile una busta marrone e la consegnò. – Lì troverai vita e miracoli di Julián Carax. È originario di Barcellona, e risulta che qualche anno fa sia rientrato in città. Ho già mobilitato alcuni miei uomini ieri sera, ma ancora niente.
- Come fai ad essere sicuro sia lui?
- Il Dipartimento per i Poteri della Spagna ha un catalogo di tutti i dotati. Appena li scopriamo, finiscono lì. Ma immagino che anche in Italia abbiate una cosa del genere. – si voltò per uscire. – Il suo potere è una bella rogna: causa amnesia a breve termine, o anche solo impedisce di riconoscere le persone… aveva un nome strano…
- Prosopagnosia. – gli disse Fedor. Cervantes gli lanciò un’occhiataccia.
- Ad ogni modo, è arrivato al punto da usare il suo potere per ingannare i suoi inseguitori. Lo scorrere degli eventi lo stava portando direttamente tra le nostre braccia. Tuttavia, è fuggito a Parigi senza lasciare traccia. I genitori sono morti, e i pochi amici dichiaravano di averne perso le tracce da tempo. Ma se davvero è tornato a Barcellona, lo beccheremo presto.
Uscendo dal museo, prima di entrare in auto, Dostoevskij fermò Calvino. – La tua rete di contatti è sorprendente, se sei riuscito in così poco tempo a contattare l’uomo giusto che ci ha subito fornito le informazioni. Non c’è che dire, ma ricorda: non fare passi falsi. – l’ultima cosa che vide l’italiano prima di salire sul mezzo era il gelido sorriso del temporaneo “compagno”.
 
*
 
Il sole si rifletteva sulla Senna e sulle vetrate del Musée d’Orsay, scaldando i turisti in quella fredda mattina autunnale che attendevano di entrare nell’edificio. Nessuno si accorse dell’enorme balena bianca sopra alle loro teste, complice la modalità invisibile di quest’ultima.
Un’automobile nera attendeva vicino all’entrata del museo, e Fitzgerald ci salì insieme ad Alcott e Melville. L’autista entrò in città, e percorse Boulevard Saint-Germain nel traffico mattutino, per poi svoltare in Boulevard Raspali e trovarsi un quarto d’ora dopo nella zona di Montparnasse. La città scorreva oltre il finestrino, ma in quel momento Francis era altrove con la testa: cercava di ricordare cos’era accaduto il giorno prima in quello stanzino, ma i suoi ricordi si facevano offuscati da quando si apriva la porta fino all’arrivo di Dostoevskij.
 
La macchina parcheggiò davanti a un bar, coi tavolini fuori coperti dal una tenda rossa con scritto a caratteri bianchi “La Rotonde”. Due individui erano seduti ad un tavolino a discutere animatamente, ed ignorarono i nuovi avventori mentre entravano nel locale.
L’interno era un lungo corridoio, ampio all’incirca cinque metri; sulla parete di destra c’era l’ingresso per la sala adiacente, occupata da alcuni tavoli ed un ampio bancone in legno. Dietro a quest’ultimo, numerose bottiglie di alcolici erano ordinate su una moltitudine di mensole. Vi era solo un uomo anziano, con la barba grigia che giungeva fino al petto e vestito solo con una camicia bianca e un paio di pantaloni beige. Il signore stava fumando distrattamente osservando la strada fuori, visibile da un’ampia finestra. Aveva l’aria di un militare in pensione.
Le pareti delle due stanze erano ricolme di poster, quadri, foto con dediche e specchi.
Melville si avvicinò al bancone. – Un doppio whisky liscio.
- Non avevi smesso di bere la mattina, vecchia balena? – il barista spense la sigaretta. – Piuttosto inizia a parlare, così ti secca la gola e hai una buona ragione per chiedere da bere.
L’altro ridacchiò. – Il solito burbero. Speravo che gli anni e la bella vita ti avessero addolcito Ernest. – Hemingway sospirò. – Ad ogni modo, siamo qui per chiederti di identificare un tizio che si è impicciato nei nostri affari. Quelli che vedi con me sono Louisa May Alcott, stratega della Gilda, e Francis Fitzgerald, capo attuale.
- Hai lasciato il posto a un damerino?
Francis tossì. – Signor Hummingday…
- Hemingway!
Il biondo ignorò col gesto di una mano. – Ci può dire chi usa un potere chiamato “La Sombra del Viento?”
L’anziano impallidì a quelle parole, iniziò a tremare come se tutto il calore nella stanza se ne fosse andato. – Julián… cos’ha fatto? Sta bene?! Dove si trova ora?! – si era sollevato oltre il bancone, la paura e la preoccupazione nei suoi occhi lo avevano fatto sembrare ancora più vecchio, come un padre che assiste alla morte del figlio.
- Io voglio sapere dove sta ora. Lo ha chiamato Julián. Ce ne parli, se ci tiene alla proprietà del locale. Per me è niente comprare l’intero palazzo e demolirlo. – Francis era sicuro di sé, non intendeva andarci piano neanche con un vecchio membro della Gilda.
Ernest camminò fino alla sedia più vicina, e si lasciò cadere sopra. – Julián Carax era il mio pianista. – indicò un pianoforte da parete situato tra il bancone e l’ingresso della sala. – Tutte le sere suonava per me, fino alle 24, e durante il giorno suonava in una scuola di danza o si godeva la vita a Parigi. Si era presentato da me come Lain Coubert, ma scoprì il suo nome leggendolo dal passaporto una sera che lo portai ubriaco nella sua mansarda. Viveva lì con un gatto bianco chiamato Kunst. Il passaporto era spagnolo, lessi che era nato a Barcellona, eppure parlava perfettamente francese. Giorni dopo eravamo rimasti soli alla chiusura del locale, e mi ha raccontato tutto: era scappato qua a Parigi da casa per fuggire al rischio di entrare nell’esercito, lasciando la donna che amava e il padre di questa ferito in uno scontro, e sapeva il francese e suonare il piano grazie alla madre. – si fermò e asciugò una lacrima. – Per me era come un figlio, volevo salvarlo dal suo orribile passato. Allietava le nostre serate, almeno fino a quando il governo francese non decise che bisognava porre fine alla libertà dei dotati di poteri.
 
*
 
Il traffico della capitale spagnola all’ora di punta congestionava Paseo del Prado, e l’auto dei tre uomini riuscì a fatica a muoversi attraversando l’incrocio con Calle de Alcalá. Dopo quaranta minuti, il gruppo giunse dalle parti del Ministerio de Interior. Fëdor si schiarì la voce.
- Oh, Miguelito, - l’ispettore si voltò stizzito verso il russo. – Cosa starai mai pensando di fare?
- Purtroppo non piantarti una pallottola tra gli occhi. – Cervantes scese dalla macchina, e contemporaneamente dall’ufficio gli venne incontro una giovane donna, vestita con un tailleur e i capelli neri raccolti in cima alla testa. La luce del sole si riflesse sugli occhiali di lei. Consegnò all’uomo una busta e ritornò nell’edificio.
Miguel tornò in auto e aprì la busta. – Abbiamo il volo per Barcellona tra due ore, e con l’autostrada saremo in aeroporto in quarto d’ora. Dove volete pranzare? Ho un certo languorino.
 
Il locale era situato in Plaza de la Independencia, e le sue ampie vetrate era situate di fronte alla Puera de Alcalá. La clientela del ristorante all’ora di pranzo era composta per lo più da impiegati e uomini d’affari, per lo più seduti da soli al tavolo. Il rumore di posate era coperto dalla musica che fuoriusciva dalle casse, che Calvino riconobbe in Jam Blues di Charlie Parker.
- Ho questo disco a casa, è uno dei miei preferiti.
Fëdor ingoiò il suo boccone. – C’è qualcosa di… volgare nel jazz, ma allo stesso tempo è meraviglioso come una tale musica possa essere nata dal basso, ai confini col mio regno.
Cervantes prese il suo boccale di birra. – Ancora questa storia del tuo regno nelle fogne? – bevve un sorso rumoroso. – Non ne posso più, e te ne ho sentito parlare solo quella volta a Bilbao.
- Oh, allora ti ricordi. Che onore.
Lo spagnolo lanciò al russo uno sguardo scontroso. – Un giorno la pagherai.
Dostoevskij fece spallucce. – Ma non è questo il giorno. – si alzò. – Dovrei andare in bagno, paga lei il conto, detective? – quella parola uscita dal suo freddo sorriso fece innervosire ancora di più Miguel.
- Affoga nel cesso.
Mentre il russo era assente, Cervantes fissò Calvino per un paio di minuti. – Dimmi, con quale scusa quello lì ti sta tenendo per le palle? – un cameriere lo fissò scocciato. – Non ci credo che lo fai per bontà o…
- Cosa è successo a Bilbao? – Miguel lanciò un’occhiata d’acciaio. – Ha in ostaggio mia…
Prima che potesse finire la frase, Fëdor era già tornato. Prese il suo mantello dalla sedia. – Andiamo?
 
Mentre erano sulla strada per l’aeroporto, i tre iniziarono a parlare di Julián Carax. Cervantes fece il sunto di quello che sapevano su di lui.
- Sappiamo che era figlia di un artigiano e una maestra di pianoforte francese, il cognome lo ha preso dalla madre quando il padre venne a mancare che lui aveva solo tre anni. Sembra che tutte le estati andasse con la madre in Provenza dai nonni. Riuscivano a malapena ad avere i soldi per mangiare, fino a quando sua madre divenne amante di un tale Don Aldaya, un potente industriale. Il ragazzo lo uccise la notte di Natale, mentre lui era solo nella biblioteca della sua villa. Quell’uomo voleva mandarlo nell’esercito perché aveva scoperto che tra Julián e sua figlia Penelope era nata una storia d’amore, nascosta dalla cameriera di lei Jacinta. Pochi mesi dopo la fuga di Julián, l’impero commerciale di Aldaya iniziò a crollare, ed oggi non rimane niente se non i ruderi della sua villa a Barcellona.
- La ragazza è ancora a Barcellona, no? Potremmo chiedere a lei… forse Carax è tornato per questa Penelope. – iniziò Calvino.
- Penelope Aldaya è morta. Hanno almeno avuto la creanza di comunicarlo all’anagrafe prima che tutto crollasse e gli eredi scappassero in Argentina.
- Oh. – Italo rimase in silenziò, quando il suo telefono squillò. Rispose, e a chiamata terminata comunicò ai due “compagni” cosa gli avevano riferito. – La pallottola nel muro della stanza di ieri viene da una vecchia rivoltella non registrata. Ma il modello è uno di quelli più commerciati a Parigi, e sembra che a occuparsene sia il vecchio Hemingway.
- La cosa si fa sempre più interessante. – commentò Cervantes.
Fëdor ascoltava e osservava fuori dal finestrino il paesaggio: alberi e capannoni industriali si alternavano mentre uscivano dalla capitale spagnola. Sotto al suo berretto bianco, iniziava ad avere chiare le prossime mosse. Tutto era a suo favore.
 
*
 
Hemingway si recò al bancone e si versò da bere. In un bicchiere senza ghiaccio versò due dita di whisky scozzese, e riprese poi a parlare dopo averne bevuto metà in un sorso. – La chiamiamo Notte del Terrore. Dieci anni fa, poco prima della mezzanotte, uno dei miei tanti informatori in città è entrato di corsa nel locale. Ha solo urlato “Il governo! Sta arrivando!” e tutti quanti i miei clienti sono andati nel panico. “La Rotonda” è il locale di riferimento a Parigi per i dotati, chiunque viene qua per avere un senso di protezione. Ma il Dipartimento per il Controllo aveva deciso che bisognava schedarci e arruolarci nel loro “esercito”. Quella sera gente come Zola, Leblanc, Sartre… tutti se ne sono andati. Sono rimasti pochi anziani come me, ritenuti “inutili” per il loro progetto. – bevve il resto del bicchiere. – Julián… lui è fuggito grazie al suo potere. L’Ombra del Vento ha la capacità di causare amnesia, ma nel tempo quel ragazzo è stato capace di usarlo in maniera subdola, come facendo scordare il suo volto, o rendere invisibile il suo corpo, o ancora far dimenticare alla gente di aver già fatto un determinato percorso, obbligandolo a fare all’infinito…
Melville lo fermò, e gli versò da bere un altro goccio di whisky. – Dimmi, Ernest, come ha fatto a entrare nelle tue grazie un soggetto simile?
- Un giorno è venuto qui, e ha chiesto di venire assunto come pianista. Io ero titubante, sapete no… uno sconosciuto entra e si propone per suonare nel tuo locale. Era certamente una bella presenza, nonostante quella cicatrice sullo zigomo, ma gli chiesi prima di mostrarmi cosa sapeva fare. Suonò un notturno di Chopin e poi un paio di pezzi di Offenbach. Lo assunsi. – alzò lo sguardo verso il vecchio amico, e pensò che il tempo non era stato generoso con loro. – Potrebbe essere ovunque, ma in cuor mio sento che è a Barcellona.
Francis batté le mani. – Andremo a Barcellona.
Il vecchio Ernest lo fissò. – Con quella vecchia bagnarola di Moby Dick?
Melville lo guardò con sguardo malinconico. – Non è più una vecchia bagnarola.


nota dell'autor
HOLA! BONJOUR! BONSOIR!
come state piccoli lettori e piccole lettrici? spero abbiate gradito questo capitolo ricco di *drama pose* passato. yeah, I'm a drama queen. and a Drama De*(s). 
sono curios* di sapere le vostre opinioni, essendo la mia prima ff di BSD e avendo inserito ben 4 oc per non trovarmi a disagio. e sappiate che nella mia testa ne nascono di nuovi tipo SEMPRE
as always, big thanks a Frizzina per consigli, supporti, visioni, vinili e insulti.
il prossimo capitolo non ho idea quanto sarà lungo, perché ho tante idee ma ops se viene fuori tipo 8/9 pagine divido in due perché per me i wall of text sono stancanti af. *fissa Frizzina e le sue 8 pagina di Cap2 di Arahabaki
ECCO 
ANDATE A LEGGERE LA FF DI FRIZZINA. mille volte meglio, parola di divinità poco egocentrica.
ergo mi dileguo. ho dei libri da leggere, del tea da bere, e una città su Animal Crossing New Leaf che non si gestisce da sola.
a presto,
- MoeniaDea

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