Pendolo arrugginito

di G RAFFA uwetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scelgo te ***
Capitolo 2: *** Pieghe tra le lenzuola ***
Capitolo 3: *** Anche gli incubi hanno fame ***
Capitolo 4: *** Pendolo arrugginito ***



Capitolo 1
*** Scelgo te ***



Prefazione: I sogni sono il rifugio ideale quando la realtà diventa opprimente.

In un mondo in cui la violenza gratuita sembra dominare anche le persone più insignificanti, i Governi hanno trovato il modo di usarli, a loro vantaggio, come terapia di riprogrammazione degli istinti umani.

Thomas Bourbon ha commesso un errore irreparabile e per questo verrà punito con la rieducazione del comportamento, per renderlo un uomo migliore. Ma si è rivelato un osso duro, un soggetto capace di resistere alla manipolazione governativa.

Cosa succederà al suo rilascio? Sarà in grado di fare la scelta giusta? O il rimorso prevaricherà su tutto?



Scelgo te


Le decisioni sono un modo per definire se stessi. Sono il modo per dare vita e significato ai sogni. Sono il modo per farli diventare ciò che vogliamo. (Dalai Lama)


Thomas Bourbon nacque il 29 febbraio del 1988 in una cittadina a nord di Edinburgo. Mentre il suo primo vagito riempiva di gioia i suoi genitori, in un punto imprecisato del pianeta, l’ingegnoso Anacleto Perdinci mise a punto un intruglio che, somministrato a più riprese alla moglie depressa, le fece tornare la voglia di vivere.

Qualche anno dopo, Perdinci fu lasciato dalla moglie che vendette la formula Sogni d’oro a una spietata multinazionale che ne migliorò le prestazioni.

Così, divenne possibile comprarla nei centri specializzati, in formato capsule, contro la depressione. Inoltre, poteva essere iniettata direttamente nel collo per vivere un momento da sballo, come piaceva dire ai giovani. Oppure, inalata con l’aiuto di speciali nebulizzatori (aerosol) che, a seconda del dosaggio degli ingredienti, aiutavano a creare scenari ad hoc nella mente del ricevente.

I negozi autorizzati crebbero come funghi in ogni parte del globo mentre alcuni Governi pensarono di sfruttare il ritrovato come sedativo per i criminali, che ne uscivano devastati e profondamente cambiati nella psiche.

Una notte, Thomas Bourbon, troppo ubriaco per rendersi conto delle proprie azioni, investì un passante con l’auto. La rabbia e la frustrazione, che covava in corpo da tempo, esplosero all’improvviso. Dominato da una furia cieca, massacrò di botte il corpo inerme lasciandolo privo di vita sulla strada.

Risalito in macchina, viaggiò in tralice fino a casa dove, due giorni dopo, i poliziotti lo prelevarono. Venne condannato, senza possibilità di appello, alla rieducazione attraverso un processo chiamato R.E.M.1, dove il soggetto veniva ciclicamente bersagliato da sogni positivi per cancellare qualsiasi forma di negatività.

Ben presto, si scoprì che Thomas Bourbon era un Onironauta2 puro, in grado di manipolare a proprio piacimento i sogni indotti. Così, lo isolarono in una stanza illuminata a giorno in fondo al tunnel che i condannati avevano soprannominato “il Miglio”, ininterrottamente immerso nell’irrealtà.

Chiunque lo percorreva, lasciava dietro di sé ogni cosa, pensiero o emozione che fosse. A lungo andare, la percezione di se stessi si diluiva negli intrugli iniettati in vena che li costringevano a sognare a occhi aperti situazioni idilliache e stucchevolmente melense. Un bombardamento onirico che distruggeva qualsiasi velleità di ribellione futura.

Thomas Bourbon andò ben oltre. Rinchiuso in quel circolo vizioso, riuscì a scindere ogni stimolo e a incapsulare i sogni, che faceva apparire secondo le proprie esigenze. Così facendo, mantenne stabile la propria coscienza e intatti i volti a lui familiari.

Ma a lungo andare, anche per lui, ciò che conosceva si era confuso con ciò che pensava di sapere. L’assuefazione a quell’intruglio propinatogli giocò un ruolo importante, perché chiunque nel proprio intimo ha il desiderio di ricercare la serenità.

Ora che il termine del rilascio era giunto, doveva scegliere a quale realtà appartenere, decidere quale dei mondi creati era la giusta verità. Perché là fuori, lui non era più nessuno, e avrebbe dovuto lottare per riottenere ciò che era suo di diritto, per cercare nella moltitudine ogni viso sognato. Una volta destato, non ci sarebbe stata nessun’altra opzione e, se la realtà sarebbe risultata diversa, avrebbe pagato caro il proprio errore.




Il suo sguardo era intenso come se volesse memorizzare ogni imperfezione sul volto di Asper. Eppure, – Considerò nella sua testa – quel viso così bello e angelico era troppo perfetto, quasi inumano e sbagliato.

Cacciò il pensiero inopportuno e si avvicinò lentamente, trattenendo il respiro, elettrizzato alla sola idea che stava per baciarla.

Asper aprì la bocca invitante, in un gesto fin troppo meccanico, ripetitivo. Thomas inarcò un sopracciglio, disturbato da un fischio che giungeva da lontano. Non demorse e, mentre le sue labbra sfioravano le sue…



Il risveglio fu tremendo, come accadeva da sei anni a quella parte.

«Denzel!» ringhiò Thomas. «Non potevi aspettare ancora un secondo?» chiese stizzito al commesso del negozio ‘I sogni sono desideri accessibili a tutti A&Z Company’.

«Non faccio io le regole,» rispose monocorde allungandogli la tessera magnetica. «Hai esaurito il credito. Eh, attento! La strega è sul piede di guerra,» aggiunse sottovoce indicando una donna bassa e grassa con gli occhiali dalle lenti spesse.

«Signor Bourbon!» la voce della titolare era esasperatamente stridula e flaccida come l’enorme addome che dondolava a ogni suo respiro. Thomas si districò dalla poltrona su cui aveva passato l’ultima ora, prese la tessera, strizzò l’occhio a Denzel e si precipitò fuori dal negozio.

«Brutto screanzato! Stia certo che la cancellerò dalla banca dati,» gli urlò dietro la megera, smozzicando le parole per l’affanno. Thomas, per nulla preoccupato e sicuro di sé, oltrepassò le porte scorrevoli a testa alta giusto per finire nelle accoglienti braccia di due energumeni dalla pelle olivastra.

«Lasciatemi! Sono un onesto cittadino, oltretutto invalido. Non avete diritto di trattarmi così!» strepitò senza successo mentre veniva trascinato dentro l’ufficio della direttrice. Dall’altra parte del negozio, coperto da un Distributore Automatico di Sogni, Denzel osservava la scena scuotendo la testa.

«Grazie, Abul e Zabal. Non ho più bisogno di voi.» La signorina Wendy Cooper guardava con sdegno l’uomo seduto al di là della scrivania. «Ho perso la pazienza, signor Bourbon. Non siamo un’opera umanitaria, per quello dovrebbe rivolgersi al P.I.P.P.E.S3. La mia azienda le ha fatto credito per troppo tempo...»

«Troppo Tempo? Sì, sì, certo. Come dice lei, vecchia bagascia senza cuore,» borbottò tra i denti Thomas, scimmiottando la sua voce stridula.

«Quindi saldi il conto immediatamente o sarò costretta a cancellare il suo nome dalla lista.»

«Senta, questa conversazione è imbarazzante e si ripete da quando ho messo piede qui quasi sei anni fa. Abbiamo un contratto che saldo regolarmente il ventotto di ogni mese. Ma lei, puntualmente, il ventisei mi dà la caccia quasi fossi un criminale,» sputò risentito.

«È solo che voglio essere sicura che lei paghi. Comunque, se lei mi concedesse le sue credenziali, signor Bourbon, questa spiacevole situazione cesserebbe all’istante,» disse melliflua mentre si leccava le labbra in un invito volgare. Thomas, schifato, si alzò facendo perno con i palmi aperti sulla scrivania, abbassò il capo per essere all’altezza del volto della donna e la guardò dritto negli occhi porcini.

«Qui tutti sanno cosa ne fa dei dati personali dei suoi clienti, di come li ricatta per ottenere dio solo sa cosa. Quindi, da me non riceverà niente di più che il pagamento dovuto.» Girò sui tacchi e uscì in strada sotto il sole impietoso del mezzodì.

«Dovresti smetterla di venire in negozio.» Denzel era appoggiato al palo in fondo al vicolo, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra secche. «Non serve a niente rifugiarsi nei sogni, Thomas, e dimenticarsi di vivere,4» disse triste.

«Vuoi farmi la predica? Non sei mica mia madre, sai?» lo aggredì astioso. «Fai tanto il moralista e poi tu li vendi quei sogni!»

«Lo dici come se ci speculassi sopra.» Scosse la testa amareggiato mentre spegneva la sigaretta schiacciandola contro il muro. Poi, con un movimento calibrato, la fece volare nel cestino del bar lì accanto. «Ti offro un caffè, ti va?» propose avviandosi all’interno del locale.

Denzel era un ragazzo come tanti, dal corpo ben delineato e una zazzera indomita in testa. Portava gli occhiali dalle lenti perennemente sporche di ditate e una fila di piercing rotondi su entrambi i lobi. Fumava solo quando era nervoso e beveva quantità industriali di caffè aromatizzato alla cannella. Secondo Thomas, aveva un solo difetto: pretendeva di insegnargli come vivere.

L’arredamento era in stile anni cinquanta con grandi stampe colorate sui muri e foto in bianco e nero di qualche divo dell’epoca. In un angolo, un jukeboxe cromato in color oro e ottone diffondeva la migliore musica in voga a quei tempi.

Si sedettero a un tavolino appartato, dagli alti sgabelli foderati in finta pelle rossa. In quel mentre, si avvicinò una ragazza minuta con in testa un foulard a scacchi, ingabbiata in una tuta di jeans troppo larga con una bretella che le penzolava su un fianco. Aveva un viso aperto, e vagamente familiare, mentre segnava meticolosamente l’ordinazione su un block-notes.

«Torno subito,» disse civettuola ficcandosi dietro l’orecchio la penna.

«Perché ti ostini a venire ogni giorno?» cominciò senza preamboli. «Lo sai che crea dipendenza assumere quell’intruglio.» Thomas sbatté le ciglia, sorpreso dalla veemenza con cui Denzel parlava. «Ti sta friggendo il cervello. Sono pronto a scommettere che cominci a dubitare quale sia la realtà.»

L’arrivo della ragazza interruppe quel fiume di parole ma non lo sguardo bellicoso di Denzel.

«Ma di cosa stai ciarlando? Sono in pieno possesso delle mie facoltà,» rimbeccò secco.

«Ne sei sicuro? Dimmi, da quanto tempo vieni al negozio?» Alzò la mano per fermare la sua risposta. «Perché chiedi sempre di visionare quel sogno? Cosa ti ha spinto verso quel particolare sogno? Sentiamo.» Appoggiò la schiena alla vetrata dietro di lui e incrociò le braccia al petto, in attesa.

«Queste sono questioni personali a cui non sono tenuto a rispondere. Però, il tuo sguardo mi suggerisce che non è ciò che vuoi sentirti dire,» aggiunse piccato. Per un momento, lo guardò ribelle negli occhi chiari, poi, sbuffando, si decise a rispondere. «Il 30 luglio saranno sei anni da quando ho messo piede per la prima volta nel negozio. Non puoi ricordare perché non eri stato ancora assunto,» precisò, quando lo vide alzare un sopracciglio.

«Quel sogno è stato creato apposta per me, secondo delle mie specifiche richieste. Ogni giorno rivivo gli ultimi istanti di vita di Asper, la mia ragazza, prima che muoia per colpa della bomba esplosa alla Maratona di Boston. Ogni dannatissima volta, mi invento un nuovo modo per salvarla,» berciò con occhi lucidi mentre si massaggiava inconsciamente la gamba mutilata.

Rimasero in un silenzio teso per alcuni istanti, poi Denzel scattò e portò le proprie labbra a un soffio da quelle di Thomas, il cui cuore prese a battere come un forsennato mentre inspirava bruscamente il suo odore di maschio.

«Risposta sbagliata.» E lo baciò.



L’aria era frizzante e solleticava piacevolmente la pelle. La grande città era rumorosa e gli alti edifici impedivano al sole di lambire le strade con il proprio calore. C’era una folla immensa, trattenuta a stento dalle transenne lungo il tragitto della maratona, quasi giunta alla sua conclusione.

Thomas aveva il cuore in fermento e lo strascico di un languore che gli intorpidiva la mente. Teneva gli occhi serrati, come a volere rimanere aggrappato a quelle sensazioni il più a lungo possibile. Il vociare dei passanti lo distrasse tanto da sentirsi costretto ad aprirli.

Il suo sguardo si posò immediatamente su una ragazza minuta il cui sorriso era capace di illuminare il mondo, teneva una sigaretta in bilico dietro l’orecchio.

«Come sono eccitata,» stava dicendo Asper, mentre le sue mani applaudivano. «È tutto così perfetto. Grazie, grazie mille Thomas.» Stava per rispondere quando una spalla sfiorò la sua e l’eco delle sue emozioni riprese vigore.

«Ecco il vostro drink,» disse gentile il cameriere. Era un ragazzo alto, dai capelli castani e gli occhiali storti sul naso. Portava una serie di piercing su entrambi i lobi. Thomas l’osservò incantato, respirando appieno il suo alito che sapeva di sigaretta appena fumata, caffè e cannella.

Non riusciva a capire perché quel cameriere lo turbasse così tanto. Abitava in una città sconosciuta, a mille miglia di distanza da casa sua con un intero oceano che li divideva.

Eppure, il suo volto aveva un che di convissuto e i suoi occhi tristi sembravano consapevoli del tafferuglio che si dibatteva nel suo petto.

«Cameriere! Cameriere!» urlò una voce acida tre tavolini più in là. «Sono ore che aspetto la mia ordinazione!» Una donna grassa, con un vistoso alone di sudore sotto le ascelle, i capelli crespi e le dita ingioiellate livide, si sbracciava sbuffando il proprio disappunto. Poco distante, due energumeni neri discutevano tra loro reggendo il The Boston Globe5 davanti a due tazze di caffè.

«Grazie,» riuscì a biascicare Thomas prima che il ragazzo si allontanasse sbuffando.

«Ti amo,» gli disse inaspettatamente Asper prendendogli le mani, e qualcosa ai bordi della sua visuale sfrigolò.

Divenne tutto irreale, metallico. Era come guardare il sole attraverso il riflesso di uno specchio opaco. I suoni, i colori e gli odori persero d’intensità fino a diventare vaghi ricordi. Ebbe uno spasmo di paura e, al contempo, la calma si impadronì di lui, come se tutto ciò fosse normale, un’abitudine a cui non era in grado di rinunciare.

Cercò di focalizzare il pensiero sulla ragazza che sedeva davanti, ma le si sovrappose un’altra figura. Era alta, mascolina, completamente immersa nel bagliore solare e sapeva di casa. Una fitta dietro l’orecchio gli fece chiudere gli occhi mentre le immagini si assottigliavano e sfumavano in un cono di luce che lo inghiottì.



«Bentornato, Thomas,» la voce preoccupata di Denzel attraversò la nebbia dove stava annegando e l’agguantò, trascinandolo a riva.

«Ti avevo avvertito,» continuò alterato. «Sei appena entrato nella fase acuta. Al tuo cervello basta poco per trasportarti nella prigione che ti sei creato con i tuoi stupidi sogni. Alla fine il tuo subconscio ha creato una dipendenza e, a breve, non sarai più in grado di distinguere la realtà dalla fantasia. Quindi fai la tua scelta e falla in fretta, perché lasciare libero arbitrio al fato potrebbe essere deleterio. Rimarresti prigioniero e cosciente del tuo errore senza alcuna possibilità di rimediare.» Dopo avergli passato un dito lunga la mascella ben rasata, uscì dalla sua visuale strappandogli un pezzo di cuore.

«Ti ho portato un punch caldo,» gli disse la barista porgendo una tazza fumante. «Che spavento. Sei diventato tutto pallido e il tuo amico non riusciva a svegliarti,» gli confidò agitata. «Ma poi, come nelle favole ti ha baciato e…» Thomas si alzò di scatto, facendo rovesciare il contenuto bollente sul pavimento. «Ehi! Che modi.» Ignorando le vertigini, e la zelante barista, che per qualche strano motivo sapeva chiamarsi Asper, Thomas si fiondò sulle tracce di Denzel.




Thomas rabbrividì. Tutt’intorno a lui il Tempo era consumato come una vecchia ciabatta mangiucchiata da un cane. Si sentiva stanco, appesantito nell’anima da un bagaglio non suo. Aveva le vertigini e lo stomaco gorgogliava come un ruscello ingrossato dalle acque piovane.

Per un breve istante ebbe paura. La sua mente abbracciò l’infinito spingendosi fino a sfiorare l’eternità del Tutto. Era così innaturalmente vasto che la sua coscienza stridette come un unghia intenta a graffiare l’ardesia. La sua essenza si espanse troppo in fretta, rischiando di collassare e perdersi nel nulla.

Strinse i denti e si aggrappò al ricordo di un volto mascolino dal sorriso sincero e gli occhi tristi.

Denzel.

Quel nome esplose nella sua testa, abbagliante come il sole estivo.

Sbatté le ciglia e gli occhi misero a fuoco un muro grigio. Avvertiva le membra rigide, pesanti come se fosse fatto di pietra. A fatica, mosse il mignolo destro mentre un dolore acuto e pungente gli perforò la carne.

«Non si agiti, signore. Ci vorrà un po’ prima che il suo risveglio sia completo e ogni movimento inutile le porterà solo sofferenza.» Davanti a lui si insinuò il volto paffuto di una donna. «Sono la dottoressa Cooper. Secondo i dati diagnostici in mio possesso, l’intera operazione è andata a buon fine. Lei è un uomo libero, congratulazioni.»

Thomas la guardò come se le fosse cresciuta un’altra testa. La donna piegò le labbra all’insù mentre dalla bocca le sfuggì una specie di grugnito.

«È normale essere un po’ disorientati, ma vedrà che nel giro di qualche ora tutto le apparirà più chiaro. Per ora le consiglio di riposare.» La donna uscì dalla sua visuale e, subito dopo, sentì spostare degli oggetti metallici. Allungò il collo fin che poté, ma l’unica cosa che riuscì a scorgere furono due energumeni incastrati dentro una divisa militare con tanto di mitragliatore tra le braccia.

«Non faccia caso a loro,» disse la dottoressa. «Sono innocui. Ora le somministro un antidolorifico. Ecco fatto, tornerò più tardi a vedere come sta.» Ammiccò verso i due uomini e se ne andò.

Rimasto solo, ebbe un fremito come se un pensiero infastidisse la sua mente per farsi acchiappare. Interdetto, cercò di chiudere gli occhi ma le palpebre sembravano non rispondere alla sua volontà. Preso dal panico, si agitò ma dovette scartare subito l’idea perché mille aghi gli perforarono il cervello. Mentre cercava di calmare il respiro, il suo sguardo si concentrò su una macchia scura del soffitto e, pian piano, la visuale si offuscò.

Il battito accelerato del suo cuore gli giungeva da lontano, un ronzio insistente come gli insetti d’estate. Si sentiva in pace e tutto quel bianco che lo circondava lo avvolgeva come una coperta.

Chi sono? Cosa faccio? Cosa voglio?

Erano domande semplici, eppure non era in grado di dare una risposta. Perché dentro di sé sapeva che c’era un quesito più importante, una questione rimasta sospesa che pretendeva la sua attenzione.

Un punto fermo? Lettere al posto di altre? Un’emozione viva?

Più si sforzava e più diventava sfuggente. Così si fermò e azzerò la mente, mettendosi ad ascoltare il silenzio.

Arrivò piano, come la brezza serale che accarezzava le pelli accaldate. Da lontano, come un gabbiano stanco che rientrava dal mare. Grande e luminoso, come la luna che scavalcava l’orizzonte. Un nome, l’unico a fargli battere forte il cuore.




«Denzel...» sussurrò. Allungò il braccio e premette le sue labbra su quelle del ragazzo. «Sono finalmente a casa e rimarrò per sempre qui con te. Potrò farti vivere in eterno nei miei sogni.»

«Ma tu…» Thomas mise un dito sulle labbra gonfie di Denzel e gli sorrise sereno.

«È ciò che voglio.»

Lo merito per averti ucciso più di sei anni fa, pensò Thomas mentre il suo cuore cessava di battere.




Il corpo di Thomas sobbalzò e mille spie presero a fischiare all’unisono.

«Che sta succedendo?» La voce stridula della dottoressa Cooper irruppe nella stanza un attimo prima della sua ampia figura. «No! No! Abul chiama immediatamente giù in infermeria. Zabel aiutami a tenerlo fermo devo iniettargli…»

Ma Thomas smise di agitarsi e sul monitor fecero mostra di sé tre linee piatte.


Se mi chiedono dove vorrei vivere, rispondo: “Dove vanno i sogni quando ci si sveglia”. (Fabrizio Cavagna)




Note dell’autrice: ho voluto dare un’interpretazione del tutto personale al prompt che ho scelto per il bando. Infatti ho cercato di rendere il sognare una cosa concreta, quasi uno spauracchio di cui avere paura. Ma al contempo, rimane comunque l’unico rimedio fattibile per correggere le imperfezioni dell’animo umano. Due facce contrapposte della stessa medaglia.

Spero di essere riuscita nel mio intento ma soprattutto di non avere sconfinato con le richieste della giudice.


Questa storia partecipa al contest ‘Tattoo Studio’ indetto da wurags, rilevato da Juriaka, sul forum con i seguenti prompt:

Fandom: originale.

Tatuaggio: Acchiappasogni – Il suo intento è quello di allontanare gli spiriti maligni dai sogni. Una persona con questo tatuaggio desidera scacciare l’influenza negativa, pensieri e sensazione paurosi, o tristi.

Citazione: Dito – Non serve a niente rifugiarsi nei sogni, Harry, e dimenticarsi di vivere. (Harry Potter e la Pietra Filosofale, JK Roowling)

Questa storia partecipa al contest ‘L’enigma dell’Uroboro’ indetto da _ Freya Crescent _ sul forum.


Buona lettura e i commenti sono graditi.



Leggenda

Genere: drammatico – introspettivo – malinconico.

Rating: giallo.

Coppie: het – slash.

Note-avvertimenti: Missing Moments – Tematiche delicate.

1Rimozione Emozioni Maligne.

2Spiegazioni su cosa consiste questa tecnica: https://it.wikipedia.org/wiki/Onironautica

3Promemoria Impossibili Per Poveri Emarginati Sognanti

4Cit. Harry Potter e la Pietra Filosofale.

5Testata locale.

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Capitolo 2
*** Pieghe tra le lenzuola ***



Prefazione: ‘Diventare grandi’ è un passaggio obbligatorio. Crea ansie e un terrore folle di non essere abbastanza, di correre e non arrivare mai da nessuna parte.

Buona lettura e i commenti sono graditi.



Pieghe tra le lenzuola


Nessuno si sofferma sul periodo di mezzo della vita, quello in cui il bruco lotta per diventare farfalla. (Anton Valigt)


Il letto era sfatto e le lenzuola fruste irritavano la pelle sensibile. Sbuffai, mi girai su un fianco e poggiai il braccio davanti al viso. Incastrata sotto il mento, l’altra mano teneva il bordo delle coperte lontano dall’orecchio.

Serrai le ciglia sul buio; la lucina notturna, incastrata nella parete, era un palo conficcato negli occhi. Il silenzio della camera aumentava il frastuono del mio battito, e il ronzio di mille vespe ramificava dentro la testa.

Tirai un profondo respiro, ingollando aria e saliva, l’attenzione rivolta al lento strusciare dei polpastrelli sul cuscino.

Un brontolio, uno scricchiolio, e il resoconto della giornata naufragava nella bottiglietta d’acqua accanto alla sveglia. Il rito del sonno nuovamente interrotto.

Altro fianco, altra visuale, altra prospettiva.

Ma chi vuoi prendere in giro! La voce della ragione urlò nella mia testa. La gola raspò e prese a morsi l’ossigeno, come fosse un macigno duro da digerire.

Alzai di scatto il capo, lo scossi e mille aghi schizzarono dietro le palpebre. Mi sentivo sospesa, eterea, una foglia sotto lo zoccolo di un cavallo in corsa.

Ripresi fiato, piano, quasi contando i passi che separavano il letto dal bagno. Nel tragitto, ipotizzai ogni ostacolo, ogni angolo, ogni imprevisto, finché l’improvviso fulgore che incendiò la plafoniera non riportò la calma.


Nemmeno il diavolo era ingannevole quanto l’apparenza.


Seduta sulla tazza del water, le dita artigliate ai capelli, mi sentii la regina che sapevo di non potere interpretare. Creai mondi fantastici, poesie dalle strofe scadenti, tele dai colori sgargianti.

Stai temporeggiando. E odiai quella voce petulante che mi derideva.

Ritrovare il materasso era come spiaggiarsi su un’isola deserta dopo avere fluttuato in balia delle onde, assieme a quella sensazione di barcollare che non mi abbandonava mai del tutto.

Strinsi gli occhi, le lenzuola incollate alla schiena sudata. Provai a ragionare, rilassando ogni nervo e muscolo che il cervello riusciva a raggiungere.

Vedi, basta poco. Mi convinse soddisfatta, le dita dei piedi che flettevano al di fuori della linea marcata delle coperte messe di traverso sul materasso.

Il languore prese il sopravvento, un centimetro alla volta, fino a fare sprofondare la testa nel cuscino. Dietro le ciglia serrate, la stanza era bombardata da sfavillii psichedelici. Ora l’armadio con l’ombra riflessa del letto. Ora la finestra con gli spifferi luminosi del lampione che perforavano la tapparella. Ora il filo intricato di tungsteno che si faceva beffe dal lampadario. Ora il mio volto come in una foto in negativo.


Unghie spezzate che graffiavano la mia resistenza.


I pensieri divennero ingorghi, mulinelli di parole e immagini sempre più densi, sempre più foschi, sempre più torbidi.

Deglutii e la gola si inceppò. La saliva vibrò come l’ala spezzata di una mosca, incastrata senza via di scampo nella ragnatela. Il panico dilagò come una slavina, facendomi scattare seduta sul letto. Le dita affossate nel materasso, gli occhi vitrei a contemplare il buio. Inspirai col naso, profondamente, fino a sentire i polmoni dolere, più volte, per essere certa di essere viva. Inghiottii e ogni cosa tornò al proprio posto, anche se il terrore non mi abbandonò del tutto.

Guardai a destra, a sinistra, senza arrischiarmi a bere un goccio d’acqua.

Mi lasciai scivolare tra le lenzuola, muovendo il corpo perché si adattasse alle pieghe. Arricciai le membra e incastrai le braccia sotto il petto, le mani chiuse a coppa sul seno acerbo.

L’insonnia è una brutta bestia. Ma la paura di cedere al sonno ti rende ancora più nervosa e irritabile. E non credo che prendere a testate il muro risolva la faccenda, insinuò ragionevole la solita voce.

Ogni sera, una volta poggiato il capo sul cuscino, le mie certezze sgretolavano via. Erano sabbia sul fondale in tempesta. La paura dilagava libera, incapace di cedere il passo alla sonnolenza.

Ricordai di avere letto da qualche parte che contare le pecore rilassasse. “Concentrarsi sul visualizzare, e tenere a mente il numero dei simpatici erbivori, allontana il desiderio morboso di essere sveglio nell’esatto momento in cui il cervello si addormenta.”

Ispirata, presi a muovere la gamba come il pendolo di un orologio. Avanti e indietro, indietro e avanti, senza seguire una particolare cadenza, snocciolando i numeri come grani del rosario.

Uno… due… tre; avanti e indietro… ventiquattro, venticinque; indietro e avanti… settantadue; avanti… novantacinque; indietro…




I toni neri e gialli diluivano nel verde bottiglia. Sagome scure erano annidate ai lati di una lunga strada: ombre minacciose che incombevano come falchi. L’aria era densa, umida, e sbrodolava via, come approssimative spennellate di un dilettante acquarellista. Ero in piedi, solitaria figura al centro della strada. Dinnanzi, un camion lanciato a folle velocità con l’unico obiettivo di centrarmi in pieno. Era una scena già vista, rivisitata mille volte e altrettante volte arricchita di nuovi particolari.


Un intrecciato loop aggrovigliato strettamente a un deja-vù. Un pasticciato uroboro a cui dovevo trovare in fretta una via d’uscita.


Mi buttai a terra, scansando ed evitando con precisione millimetrica ogni ostacolo che l’infernale mezzo proponeva per chiudere ogni via di fuga. Il cassone che mi sovrastava sembrava eterno e toglieva il fiato, chiudendo in una scatola sempre più ristretta la mia volontà. Annaspavo e mi infervoravo, osservando me stessa dall’alto compiere gli stessi gesti, le stesse movenze in un perenne rituale scaramantico. E poi eccolo lì, dopo infiniti minuti che parevano ore, il nuovo intoppo: luminoso e potente, abbagliante come un faro nella notte. Pochi secondi per decidere come concludere le danze, l’ultimo passo per non soccombere alla morte.



Mi accorsi di essere sveglia e incastrata nella mia testa. L’eco dell’incubo appena vissuto che strisciava lento sulla pelle sudata. Sentivo il cervello pesante e il morbido del cuscino dolere come una morsa.

Che strano controsenso, farfugliai nella mia mente mentre inseguivo mille dettagli. Eppure, chiusa in quello spazio angusto, tutto mi appariva chiaro. Avvertivo il mio corpo come se stesse affogando nella melassa, lontano e allo stesso tempo così vicino da essere intimo. Chiaro e scuro, realtà e sogno, ingaggiavano battaglia davanti ai miei occhi stupiti.

Sono sveglia, pensai. Ragiono e mi muovo. Ma come le parole appena formulate raggiunsero il cervello, mi accorsi di essere paralizzata, immersa in uno strano formicolio. Tentai un respiro profondo e scivolai nel panico quando non successe nulla.

Cercai di muovere la testa, le mani, le gambe. Mi sentivo pesante, le membra dure come la roccia: un tutt’uno con il vuoto che mi circondava. Il respiro mozzato nell’aria sempre più rarefatta. Mi sforzai, concentrando la mia volontà in un unico gesto, in un unico punto, che arroventò quasi fossi già sprofondata all’inferno.

Mi figuravo lottare, graffiare, mordere, dibattermi senza sosta. Tiravo fino a tendere i nervi e arcuare la schiena, le braccia piagate all’indietro strette nel giogo di fantomatiche catene. Eppure non mi muovevo, non un muscolo, non un tendine finché, ormai giunta allo stremo della disperazione, dalle mie labbra serrate, non sfuggì un grido, una parola, un’invocazione: «Mamma!»




Mi destai così, la gamba che scattava come un pendolo, la gola riarsa di chi aveva urlato a fondo, il corpo stanco di un maratoneta, dolori vividi che presto sarebbero mutati in lividi.


Ogni notte, qualsiasi cosa avessi affrontato durante la giornata, avrei rivissuto tutto con lucidità disarmante. Per tutto il periodo adolescenziale, come un cancro che, centimetro dopo centimetro, avrebbe divorato ogni mia volontà.



Note dell’autrice: tutto ciò che ho scritto l’ho vissuto personalmente nel periodo più buio che ogni essere umano è costretto ad affrontare: l’adolescenza.


La fobia trattata è la Somnofobia o Oneirofobia e una delle sue possibili conseguenze è la paralisi del sonno. Trovate le spiegazioni a questo link: https://angolopsicologia.com/oneirofobia-somnifobia-paura-di-dormire/, e a questo link: https://it.wikipedia.org/wiki/Paralisi_nel_sonno.


Questa storia partecipa al contest ‘Scriptophobia’ indetto da Soul_Shine sul forum.





Leggenda

Genere: introspettivo – horror.

Rating: verde.

Note: Missing Moments.

Coppia: nessuna.

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Capitolo 3
*** Anche gli incubi hanno fame ***



Prefazione: Gli incubi rappresentano le nostre paure, le angosce più profonde che tormentano le nostre anime.

E se così non fosse? E se gli incubi fossero entità a sé stanti?

Cosa celano quelli di Luana? Cosa vogliono da lei?

Questa storia partecipa al contest ‘Generi a catena’ indetto da Dark Sider sul forum.



Anche gli incubi hanno fame



Accarezzate dalla brezza, le tende rosa si muovevano appena. Gli scuri erano uno scudo contro il sole abbagliante e il frinire delle cicale aveva cullato Luana fino a farla addormentare.



I muri in cemento erano spogli tranne per i quattro tubi al neon, uno per ogni parete, che illuminavano dall’alto il tavolo e le apparecchiature ospedaliere. Una lampada da sala operatoria sovrastava una lettiga senza ruote e l’aria era satura dell’odore di disinfettante e medicinali.

Legata strettamente al materassino, c’era una giovane donna gravida. Il pancione riluceva di sudore sotto l’impietosa luce artificiale. Per quanto le era possibile, si dimenava, scuotendo il corpo, strattonando gli arti fino a farli sanguinare.

Luana raccolse il bisturi dal vassoio alla sua sinistra, mise la mano all’altezza dell’ombelico della ragazza e tagliò la carne fino al pube. Aiutandosi con un dilatatore per grossi animali, separò i lembi. Fece una seconda incisione sulla membrana uterina e, con la dovuta cautela, estrasse il neonato; con un colpo secco recise il cordone ombelicale.

Tenendolo davanti a sé si spostò di lato e immerse il corpicino in un catino. Lavò via lo sporco e l’avvolse in un grande asciugamano. Ritornò sotto la lampada e, per pochi istanti, rimirò il viso accartocciato del bambino in cerca di difetti. La pelle era screpolata e rosea, dalle palpebre serrate scivolavano grosse lacrime e la piccola bocca era spalancata, avida di ossigeno. Soddisfatta, attraversò tutto il locale e oltrepassò il muro come fosse fatto d’aria.

La nuova stanza era buia e sembrava non avere fondo. Luana voltò il capo a destra verso il camino, le cui fiamme creavano giochi di luce sulla culla dalle lenzuola bianche bordate di pizzo. Depositò il dolce fardello e, come il corpicino toccò il fondo, ogni rumore riprese vita.

Le urla agghiaccianti che scaturivano dalla gola della donna nell’altra stanza…



ridestarono Luana.


Stralunata, si passò la mano sul volto accaldato, cacciando dalla fronte una ciocca di capelli neri. Non riconoscendo subito la stanza, saettò gli occhi chiari attorno, nervosa. Sentiva battere forte il cuore, quasi avesse corso invece che riposare nel letto. Per riflesso, le dita abbandonate sul materasso stropicciavano il lenzuolo. Era un gesto abituale, uno strascico infantile che teneva lontano l’omino dei sogni.

L’improvvisa secchezza della gola la costrinse ad alzarsi.

Barcollando, raggiunse il lavabo incastrato nel muro, tra l’armadio e il cassettone. Sciacquò più volte il bicchiere prima che l’acqua fresca le lambisse le labbra aride. Ingollò a fatica due sorsi, la gola che bruciava in profondità.

Un guizzo nello specchio, appeso sopra il sanitario, attirò la sua attenzione: una striscia rossastra tagliava in due la sua faccia e spariva inghiottita dai capelli aggrovigliati.

Sussultò e il bicchiere si infranse sul marmo.

Allungò le dita tremanti verso il proprio viso e il riflesso rivelò che anch’esse erano sporche di sangue. Il gelo si impadronì di lei mentre si specchiava nei suoi stessi occhi vitrei; una saetta dolorosa le attraversò il cervello. Chinò il capo e, al posto del basso ventre, c’era una voragine. Provò febbrilmente a ricongiungere i lembi strappati e, quando si rese conto che un fluido denso e caldo le scivolava lungo le cosce, urlò.

Cadde a terra in una pozza ferrosa e viscida; il vagito di un bimbo riempiva la stanza.



Ovattati, avvertiva i colpi inferti alla porta... delle grida... Le sfuggiva il senso.



La culla di legno chiaro dondolava in un angolo; una mano mollemente adagiata sugli intarsi ne dettava il ritmo.

«Ottimo, ma non è mai abbastanza.» L’ombra attaccata alla mano si allungò su di lei, la sopraffece e il lezzo di fiori appassiti le invase la bocca.

Cercò di spostarsi, il rigurgito che le formicolava in gola. Allungò le braccia per aggrapparsi alle gambe della culla. Fece leva, ma cedettero come fossero gelatina; il resto del corpo pietra dura. Mosse la testa di lato, puntando la fronte in terra quasi fosse un artiglio.


In quell’istante, la porta si aprì e la luce fagocitò il pavimento. L’ombra rise sinistra e venne assorbita dalle pareti.


«Luana!» esclamò una voce femminile. L’infermiera si inginocchiò accanto a lei. «Ho sentito un tonfo e non hai risposto subito. Cosa è successo?»

«Oddio! Aiutami! Il mio ventre! Il mio bambino!» E si aggrappò a lei come un naufrago.

«Non c’è nessun bambino. Hai avuto un incubo.»

«Le mie mani, guarda, sono sporche di sangue. C’è sangue ovunque,» balbettò concitata, scuotendo le braccia della donna.

«Hai fatto cadere il bicchiere, Luana. Non preoccuparti, sono solo piccoli tagli.» Cercò di convincerla mentre l’aiutava a raggiungere il letto, ignorando i suoi vaneggiamenti. «Ecco, vedi? Ora pulisco e disinfetto tutto.»

Sul comodino c’erano varie boccette di medicinali. Prese un paio di pillole e l’aiutò a ingoiarle. Aspettò che facessero effetto, dopodiché uscì a chiamare un inserviente affinché riordinasse la stanza.


La clinica privata “Oasi di pace” era stata costruita un secolo prima all’interno di una pineta. Sprazzi verdi erano disseminati un po’ ovunque, muniti di comode panche a uso degli ospiti. Un sentiero battuto conduceva alla spiaggia privata sulla riva di un piccolo lago montano.

D’estate, le porte finestre venivano spalancate, e i pasti si consumavano su un’ampia terrazza arricchita da enormi vasi di begonie bianche.

Indifferente al sommesso cicaleccio che la circondava, Luana rimestava il cucchiaio nel piatto, la mano a sostenere il capo, gli occhi fissi oltre la barriera di fiori.

«Dovresti mangiare,» suggerì cordiale un inserviente. La ragazza fece spallucce e si alzò, raccogliendo il vassoio con il cibo ancora intonso. Strascicando i piedi, rientrò nella struttura e s’incamminò per il corridoio creato dai tavoli, proprio sotto il grande schermo sintonizzato su uno dei telegiornali nazionali.



È di queste ore il ritrovamento del cadavere di una giovane donna incinta, il cui corpo seviziato è stato abbandonato in uno scantinato di un palazzo fatiscente… Per risolvere questo efferato delitto, gli inquirenti stanno valutando varie ipotesi... La scomparsa del neonato è un vero mistero e per le forze dell’ordine si prospetta... La più probabile delle piste rimane quella del traffico di bambini… Vi mostriamo la foto della donna, speriamo che...



Luana fulminò con lo sguardo il televisore che, gracchiando, snocciolava le notizie del giorno. In quell’istante, alle spalle del cronista, campeggiò la foto con il volto della donna del suo incubo. Cacciò un urlo e il vassoio sfuggì alla sua presa.

Un paio di inservienti accorsero, convinti che si fosse fatta male. Invece, la trovarono appallottolata su se stessa che dondolava sulle caviglie magre. Teneva le dita artigliate ai capelli e il volto incastrato tra le gambe.

Impiegarono del tempo per convincerla a raggiungere la sua camera, darle un calmante e riportare ordine fra gli ospiti che avevano assistito alla scena.


«Quella la saltiamo,» disse l’inserviente dando uno sguardo alla lista consegnatale dalla capo sala.

«Poverina, hanno dovuto sedarla di nuovo. Non smetteva di urlare cose senza senso, come accusarsi dell’omicidio di qualcuno.» Paola infilò in uno scomparto del grande carrello le lenzuola sporche della camera 43.

«Hanno fatto bene! È un luogo di pace, questo. Poi tocca a noi sistemare ogni cosa, non certo a quegli smidollati con il camice bianco,» rispose scorbutica Cinzia mentre imbeveva con il detergente uno strofinaccio.

Erano due donne non molto alte e vestivano un camice colorato sulle forme abbondanti. Sotto la cuffia inamidata, portavano i capelli raccolti in uno stretto chignon. Calzavano scarpe comode dalla suola in gomma, che scrocchiava a ogni passo sul pavimento in linoleum.

«L’altro giorno ho ascoltato una conversazione tra la dottoressa Trance e il dottore Riguardi,» bisbigliò ammiccante Paola, serrandosi vicino all’altra donna. «È stata scaricata qui dall’Ospedale Centrale. A quanto pare è stata violentata dal marito ubriaco e strafatto, insieme a un paio di suoi amici. Figurati che era incinta all’ottavo mese e ha perso il bambino a causa delle percosse: le hanno letteralmente maciullato il ventre!»

«Ma cos’erano, bestie?» fece inorridita Cinzia mentre l’altra approvava scuotendo il capo.

«Da quello che ho potuto capire, un vicino, rientrando dal lavoro a notte fonda, l’aveva sentita urlare e ha chiamato i carabinieri. Una volta giunti sul posto, si erano subito resi conto che quegli animali erano preda delle allucinazioni, mentre si accanivano su di lei con furia inaudita. In ospedale, non hanno potuto fare altro che raccogliere il bambino a manciate.»

«Poveretta, ora capisco perché ha gli incubi. Anzi, non mi capacito di come abbia fatto a sopravvivere a tutto questo,» disse Cinzia, facendo un paio di volte il segno della croce mentre si allontanava lungo il corridoio.



La brace nel camino stava languendo e il suo tepore non raggiungeva le pareti di legno. Fuori dalla finestra, le foglie turbinavano, sbattendo contro il vetro umido di pioggia. Uno scialle giaceva scomposto ai piedi del piccolo divano, occupato da una donna incinta. Aveva lunghi capelli sciolti, un viso dolce e la punta di un attizzatoio conficcata in fronte.

Luana estrasse il ferro e con esso ravvivò il fuoco. Aggiunse ulteriori ciocchi per rimpolpare le fiamme affinché fossero abbastanza libere di intaccare le pareti.

Poi, si inginocchiò a lato del divano e sistemò il corpo ancora tiepido della gravida, in modo che il ventre prominente si incastrasse tra le gambe ripiegate, la pelle tesa a contatto con il tessuto ruvido.

Senza indugiare oltre, con le mani allargò il tessuto molle della vagina, favorendo così la fuoriuscita della testa del bambino. Aiutandosi con un trincia-pollo, sventrò la parte più bassa dell’addome e il neonato scivolò sui cuscini, ancora avvolto nella placenta. Strappò il sacco uterino e tagliò il cordone ombelicale.

Al suo interno, il bimbo rantolava in debito d’ossigeno, la sua pelle era bluastra e muoveva appena il piedino sinistro. Luana lo liberò della membrana e lo immerse in una bacinella di acqua calda, un secondo dopo, in una gemella, ma con il liquido ghiacciato. Per lo shock, il neonato fece il suo primo profondo respiro.

Soddisfatta, raggiunse la culla chiara. Mentre si chinava per depositare il prezioso fardello, la sua pelle sfiorò uno dei dobloni in rame che adornavano il bordo della culla; il fumo acre e il calore dell’incendio che si stavano propagando…



svegliarono Luana.


«Dove sono? Cos’è questo odore acre?» balbettò la ragazza, tra un colpo di tosse e l’altro. Era avvolta da una cappa densa e pesante, lingue di fuoco guizzavano come ballerini improvvisati di una fiera itinerante.

«Ma che sta succedendo?» chiese spaventata, coprendo la bocca con l’interno del gomito. Strinse gli occhi arrossati e la sagoma di una culla incominciò a intravvedersi da dietro la cortina di fumo.

«Ma cosa…?» Interdetta, si precipitò da quella parte.


La culla era investita dal sole accecante, un’ombra era china al suo interno.

«Chi sei?,» balbettò intimorita, i sibili delle fiamme un lontano ricordo. La figura si mosse lenta, come se il suo corpo dovesse continuamente assestarsi sullo sfondo che la circondava. Era longilinea, un velo opaco che deformava i colori. Tra le dita affusolate rigirava un doblone ramato. «Buon salve,» esclamò senza particolare enfasi, la bocca uno strappo di quello strano tessuto di cui era composto. « Se mi stai guardando, ahimè, credo sia giunto il momento di dirci addio.» Le parole giunsero a Luana da ogni direzione, come echi che si propagavano tra i buchi dello spazio.

«Non capisco,» ribatté perplessa, retrocedendo di un passo. La schiena sfiorò la parete dietro di lei e Luana avvertì il calore intenso che emanava. Si girò e, sgomenta, indietreggiò fino a toccare la culla, gli occhi fissi sul muro che si andava gonfiando.

Per un istante, le sembrò di attraversare una cascata gelida e fetida, colma di un dolore così acuto da lasciarla senza fiato. Annaspò in cerca d’aria e mosse le braccia come se stesse cadendo da un’altezza considerevole. Si arricciò su se stessa più volte, sentendo la gola bruciare e i polmoni collassare. Per infiniti istanti, rimase immobile in un limbo fatto di saette iridescenti e luce opaca, come la sbavatura di una lacrima che è già un lontano ricordo. Ricadde in avanti e, senza rendersene conto, affondò il viso in una poltiglia dall’odore ferroso.

Cacciò un urlo quando si rese conto che erano i resti di un corpicino. Si guardò attorno e capì di essere dentro la stessa culla dove, nei suoi incubi, adagiava i neonati.

Sbatté le ciglia e si ritrovò sdraiata sul letto della camera della clinica.

«Oddio, è stato un incubo. È stato un orrendo incubo,» balbettò flebilmente portando la mano tremante alla bocca.

«Devo dissentire.» Luana si pietrificò, il cuore incastrato da qualche parte, un flebile sussurro dentro la propria testa. «Io sono qui, con te,» asserì quella cosa di prima che puzzava inspiegabilmente di plastica bruciata. «Prima di congedarmi, ti lascio questo.» Depositò un doblone sul comodino. «È il dovuto compenso per avermi servito.»

«Compenso? Servito?»

«Anelavi a diventare madre. Bramavi con tutta l’anima di provare quella sensazione, quella pace terrena che invade la mente quando le donne partoriscono. Ti ho dato questo, mi sono preso i bambini.»

«Perché?»

«Perché anche gli incubi hanno fame, io prediligo i neonati.» Luana lo guardò raccapricciata, scuotendo forte la testa in segno di diniego.

«Sei un mostro! Ora che so tutto, preferisco uccidermi che assecondare te!» sbraitò.

«Ma tu sei morta.»



Le fiamme avide stavano avvolgendo il letto, consumando il corpo della ragazza, come il mare sbriciolava i castelli di sabbia.

«Stupide creature. Quand’è che imparerete che non decidete per voi stessi? Io mi nutro dei vostri cadaveri.»

Si voltò e la porta cedette.


Un inserviente si precipitò dentro la stanza di Luana, munito di un estintore. Non si avvide dell’ombra scura che, accompagnata dall’inseparabile culla, svaniva oltre il bordo disegnato della parete di fondo.



Ci hanno promesso che i sogni possono diventare realtà, ma hanno dimenticato di dirci che anche gli incubi sono sogni (Oscar Wilde)




Note dell’autrice: l’incubo non è il trauma subito da Luana che si manifesta ma è una creatura concreta e tangibile. Un parassita che si muove ai confini dell’illusione in cerca di cibo.

Questa storia partecipa al contest ‘Generi a catena’ indetto da Dark Sider con le seguenti indicazioni suggerite da Freya_Melyor:

genere: horror;

prompt: culla.



Leggenda

Genere: horror – angst – drammatico.

Rating: giallo.

Note/Avvertimenti: contenuti forti.

Coppia: nessuna.

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Capitolo 4
*** Pendolo arrugginito ***



Prefazione: per Samantha contano solo i soldi e il prestigio.

La sua carriera di avvocato è al culmine quando un uomo, che lei, sotto lauto compenso, aveva tenuto lontano dalla galera, compie una strage nella discoteca della sua cittadina. Scoppia lo scandalo e, inevitabilmente, la trascina con sé.

La vita della donna imbocca una pericolosa discesa. Saprà ravvedersi o scivolerà fin dentro l’inferno?



Pendolo arrugginito



Nel letto sfatto, Samantha Qalby si rigirava tra le lenzuola madida di sudore. Gli occhi si muovevano frenetici, quasi a rincorrersi nel volto pallido. Mentre digrignava i denti, masticava purulente parole di paura.

China su di lei, l’emissaria della Morte la vegliava, le dita scheletriche aperte a raggiera sopra il suo corpo.

«Guarda,» sussurrò, pregustando il suo terrore.



L’interno della casa era avvolto nell’oscurità. La fioca luce dei lampioni annaspava, imbrigliata nelle tende smosse dalla frescura della notte.

Per alcuni istanti, la sagoma di un uomo macchiò il pallore delle finestre; si muoveva a scatti, come un pendolo arrugginito.

Il silenzio greve, caliginoso come cenere lavica, si accartocciò in mille schegge che implosero assieme alla polvere da sparo.

Poi ci furono solo urla e dolore.

La Morte aveva di che sfamarsi in quella notte gravida di luna.



«Ti prego, ti scongiuro. Non voglio più vedere, non voglio più sentire,» supplicò la donna, accartocciata nell’angolo più buio di quella casa che odorava di ruggine.

«Non puoi esimerti, è una tua creatura. La tua avidità l’ha generato.»

«No! No! Non c’entro nulla, non è colpa mia.» L’emissaria della Morte si eclissò e la sua risata sprezzante fece tremare l’anima della donna.



Samantha scattò seduta sul letto, lo strascico del sogno imbrigliato nelle ciglia umide. Con un lembo del lenzuolo tamponò il sudore dalla pelle diafana. Da mesi era perseguitata dagli incubi: uno diverso dall’altro e tutti premonitori. Era così provata, per le frequenti notti insonni, che aveva perso il lavoro, tanto distratta e stanca da addormentarsi in aula.

Eppure, qualcosa era cambiato. Quell’ultimo incubo le era sembrato così reale, così vivido. Aveva avvertito la pelle sfrigolare nel punto in cui il primo proiettile esploso aveva colpito la carne della ragazza del sogno. Ed ebbe paura.

Si grattò il mento. Se avesse avvisato per tempo la ragazza? Forse avrebbe spezzato la catena e la sua vita sarebbe tornata quella di una volta.

Non aveva tempo da perdere, così recuperò in fretta i faldoni dei vecchi processi e cercò l’indirizzo.



Le villette a schiera a nord di Memphis sonnecchiavano addossate le une alle altre e le poche finestre illuminate ammiccavano alla luna.

Il viale che affiancava le case era silenzioso. Lampioni in ottone disegnavano ombre ai piedi dei tigli in fiore, la brezza della sera spandeva il loro profumo caldo e intenso. Era così concentrato, che il sapore dolciastro dei petali gialli scivolava lungo la gola.

L’uscio del numero civico 14 si spalancò; ne uscì una figura esile, i capelli lunghi che ondeggiavano a ogni passo. Scese i pochi gradini tenendosi avvinghiata alla ringhiera, un sacco nero a impedire i movimenti. Arrivata in fondo, buttò il fardello dentro un grande bidone nero, si stiracchiò come un gatto e sfilò da una tasca dei pantaloni l’occorrente per fumare. Assorta, sbuffò il fumo che ascese e si perse nel fitto fogliame.

«Mi scusi.» Samantha sbucò da dietro i tronchi. Indossava un maglione infeltrito, una gonna plissettata e basse scarpe dall’aria vissuta ma comoda. «Non mi conosce ma ho delle informazioni vitali da darle,» si affrettò spiegare, gli occhi incollati a quelli castani di lei.

Presa in contropiede, la ragazza si allontanò.

«La prego, Jennifer, mi deve ascoltare!» le intimò Samantha, afferrandola per il braccio.

«Non so come fa a sapere il mio nome ma mi lasci andare o comincerò a urlare così forte che mi sentiranno fino a...» Infastidita, e anche un po’ intimorita, cercò di liberarsi della presa ferrea della sconosciuta.

«Mi deve dare retta,» l’interruppe seccata. «Stanotte, lui...»

«Jennifer! C’è qualcuno lì con te? Ci stai mettendo troppo tempo.» La finestra del piano terra del civico 14 si illuminò e la sagoma di un uomo tarchiato occupò quasi tutto lo spazio.

«No. No, papà, arrivo!» Jennifer sussultò e buttò il mozzicone di sigaretta sull’asfalto. «Spero non mi abbia visto fumare,» borbottò terrorizzata.

«Faccia come crede.» Samantha allentò la stretta.

Jennifer si divincolò, affrettandosi poi verso casa, gli occhi bassi per non infastidire il padre. Prima di oltrepassare l’uscio, sbirciò verso la strada: quella signora emaciata se ne stava ancora lì, a guardarla accusatoria.



Più tardi, dall’altra parte della città, Samantha rincasò nel suo elegante attico, spalle curve e morale a terra.

«Stupida ragazzina!» mugugnò tra sé. Era una mocciosa sciocca come tutti i giovani d’oggi. Avrebbe dovuto ascoltarla, ma avrebbe imparato a sue spese.

Guardò disperata il suo appartamento vuoto in cerca di risposte. Cosa avrebbe dovuto fare? Un altro incubo e avrebbe potuto perdere del tutto la ragione.

Abbandonò le chiavi sulla mensola all’ingresso, si tolse le vecchie scarpe e le nascose sul fondo dell’armadio dei cappotti. Percorse il salone adiacente fino a raggiungere la propria camera. Solo allora si accorse che l’aria puzzava di stantio. Mentre sfilava dalla testa il logoro maglione, oltrepassò l’uscio e...



Nel letto sfatto, Samantha Qalby giaceva immobile, le lenzuola candide intrise del suo sangue; gli occhi spalancati e vitrei spiccavano sul volto cinereo. L’emissaria della Morte vegliava assorta, tra le dita scheletriche rigirava la pistola con cui la donna si era tolta la vita.

«Bentornata,» l’accolse.

«Non capisco. È uno scherzo? Siamo sul set di un film?» biascicò Samantha.

«Niente di tutto ciò. Prima di esalare il tuo ultimo respiro ti ho proposto un patto: in cambio di una vita salvata, avresti avuto un premio. Ricordi?»

«Chiunque tu sia, questa farsa è durata abbastanza. Fuori da casa mia e portati dietro il tuo stupido siparietto,» inveì, gesticolando forsennata verso il letto.

L’emissaria sorrise ferina e schioccò le dita. L’involucro che conteneva la donna si dissolse nell’aria e l’anima di Samantha si ritrovò nuda, inchiodata al pendolo che scandiva il Tempo.

«Non hai proprio ritegno. Pensi di essere più furba della Morte? Per un’ultima volta, ho voluto darti credito, ma non hai fatto ammenda dei tuoi errori. In vita sei stata un avvocato corrotto, che ha contribuito a lasciare in libertà dei criminali: papponi, pedofili, uomini violenti. Nella morte, ti condanno a subire in eterno i frutti delle tue colpe. Di volta, in volta, la tua anima abiterà il corpo acerbo di un adolescente che sarà perseguitato, maltrattato, violato. Così è deciso.»



La Vita è il ticchettio che scandisce l’ora.

La Morte è il silenzio tra una oscillazione e l’altra del pendolo.

Il Tempo è la velocità con cui la ruggine polverizza l’orologio. (G RAFFA uwetta)



Note dell’autrice: si pensa che a un passo dalla morte si riveda l’intera esistenza. E se così non fosse? E se ci venisse chiesto di rimediare a un torto fatto?


Buona lettura e i commenti sono graditi.



Leggenda

Genere: drammatico – soprannaturale.

Rating: giallo.

Note/Avvertimenti: nessuno.

Coppia: nessuno.

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