Locus Amoenus

di bekka981
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo luci ***
Capitolo 2: *** Tutto taceva ***
Capitolo 3: *** Quel brindisi ***



Capitolo 1
*** Solo luci ***


Vedo solo colori.

Sono luci.

Si accendono e si spengono ad intermittenza regolare.

Rosso. Due secondi. Buio.

Blu. Due secondi. Buio.

Bianco. Due secondi. Buio.

Ed inerte al caos che mi circonda fisso quelle luci, conto quei secondi che scorrono così lentamente da sembrare surreali, rivedo quell'ombra uscire allo scoperto, quel cappuccio nero, il volto oscurato, la mano nascosta nella tasca, il luccichio e poi...

Bang. Bang. Bang. 

…percepisco il vuoto dietro di me, l'impatto del mio corpo con l'asfalto e l'oscurità che mi travolge.

Non so cosa mi abbia svegliato, o quanto tempo sia passato, ma i miei occhi si sono aperti ed un cielo nero campeggiava sopra di me, uno sfondo così nero da non lasciarmi intravedere niente se non altro vuoto. Il vuoto più immenso ed infinito che possa esistere.

I secondi passano, io li conto, il sangue bagna la mia camicia e si estende sempre di più nella pozza rossa in cui mi trovo.

Un paio di occhi sbarrati mi fissano dall'alto mentre la sua voce urla frasi sconnesse.

Urla e piange.

I suoi singhiozzi suonano come un rumore straziante, le lacrime rigano vorticosamente le sue guance, le mani premono sul mio petto, sulla ferita aperta, cercano di fermare l'emorragia.

E tremano.

Mi urla di non morire.

Mi urla di resistere perché andrà tutto bene.

È tutto ok ed io starò bene.

Ma i suoi occhi dicono tutt'altro. Quel paio di fessure restano fisse nelle mie, colme di terrore, un terrore agghiacciante.

Ed io mi ritrovo a pensare a come mi hanno da sempre trasmesso tranquillità.

Avverto sulla punta della mia lingua quelle tre parole messe in croce, tutti si scordano di dirle, le danno per scontato. Io le avverto e sento il bisogno di pronunciarle, almeno una prima e ultima volta.

Ma appena apro la bocca, loro non escono, non si muovono.

Restano lì, sulla punta della mia lingua, senza farsi mai veramente sentire.

E non sento più il dolore lancinante al petto. Non sento più altri rumori e, con essi, anche la sua voce si dissolve lentamente.

La sua bocca continua a muoversi, ma non emette più alcun suono. Non sento più il tremore delle sue mani contro la ferita. Non percepisco più alcuna sensazione.

È preoccupante, vero?

Niente più bugie, niente più risposte rassicuranti dette solo per circostanza.

Niente cazzate.

È preoccupante. Sì, lo è, per forza.

Gli infermieri non intervengono e vedo solo quelle luci. Le luci di un’ambulanza. Si accendono e si spengono a rallentatore.

Rosso. Due secondi. I suoi occhi lucidi.

Blu. Due secondi. Le sue urla mute.

Sto morendo, e lui lo ha capito.

Continua ad urlare ed alle mie orecchie non arriva alcun rumore.

Continua a piangere ed io non sento il rumore dei suoi singhiozzi.

Vedo il suo viso farsi sempre più sfocato, le mie palpebre si fanno pesanti, iniziano a chiudersi, e lui resta lì.

Resta lì e mi guarda terrorizzato, con gli occhi sbarrati.

Sì, lo ha capito. Ha capito cosa sta per succedere.

Si agita sempre di più e mi urla contro, mentre le lacrime gli offuscano la vista. Mi prende il viso tra le sue mani, tocca il mio naso con il suo, una sua lacrima mi bagna la guancia ed urla ancora, e ancora.

Ma io non lo sento. Non lo sento più.

Bianco. Due secondi. Buio. E solo altro buio.

È successo troppo in fretta.

Così in fretta che nessuno ha potuto impedirlo.

Così in fretta da non lasciare il tempo di cogliere quell’attimo, quell’ultimo istante rimasto, quell’ultima occasione non sfruttata, che lascia dietro di sé una sola domanda a cui nessuno saprà mai dare una risposta.

Una domanda che fa trapelare quella sensazione orribile, ti travolge come una tempesta silenziosa e ti lascia solo un unico pensiero:

chissà come sarebbe stato.

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Capitolo 2
*** Tutto taceva ***


"I-io non so… non so da dove iniziare".

"Perché sei qui? Inizia da qui".
"...".
"Il resto verrà da sé".

 

⊳⋄⊲

 

Tre mesi prima

 

AVICE

 

 

Avete mai avuto una tradizione?

Intendo una di quelle consuetudini che si hanno periodicamente, o solo in un certo periodo dell'anno, a cui siete molto legati e senza le quali vi sentireste come vuoti.

Intendo uno di quei momenti semplici ma speciali, di cui non potete fare a meno perché ormai fa parte di voi.

Quando arriva quel momento ti scappa un sorriso e, tu, sai per certo che nessuno riuscirà a togliertelo per tutta la giornata. Sei in preda all'eccitazione. Ti senti fortunato, felice. Il cuore ti batte forte, così forte che tutti lo possono sentire, ma a te non importa.

No, non importa perché sei troppo concentrato a goderti il momento. Sei troppo emozionato, felice con l'adrenalina a mille, convinto che nessuno potrà mai privarti della tua tradizione.

È tua e puoi decidere solo te chi può farne parte e chi no.

È tua, fa parte di te e niente ti rende più felice che viverla.

Ecco, avete mai avuto una tradizione simile, un momento del genere a cui nessuno prima di voi ha mai pensato? Avete mai provato una sensazione simile, questa stessa gioia?

Io sì. Io avevo una tradizione simile.

Ogni autunno mio padre raggruppava le foglie cadute dagli alberi del nostro giardino. Ne creava un bel mucchio, cosicché io e mio fratello potessimo rotolarci dentro, l'uno accanto all'altro, come dei sacchi di patate.

Ogni autunno la nostra tradizione. Ogni autunno dei sacchi di patate.

Sentivo di avere tra le mani qualcosa di grandioso ed ero felice. Felice davvero, almeno fino a quando non la persi.

Fu lì che assimilai essa come il peggior male che mi potesse capitare.

Com'è che si dice? "Questa è un'altra storia"? Beh, no. Mi dispiace deludervi, ma niente può essere un'altra storia in questa storia. È tutto irrimediabilmente collegato.

Ma partiamo dal principio.

Iniziamo da quella mattina di settembre. La mattina che avrebbe dato inizio al nuovo capitolo della mia vita.

L'estate era finita. La pioggia bagnava delicatamente gli ombrelli della gente, e batteva forte sulla pietra grigia del marciapiede. Le cartolerie di Denver erano intasate da file ininterrotte di genitori, alla ricerca dei libri scolastici per i propri figli. L'aria era umida, spenta. Le strade trafficate. I clacson delle macchine creavano quel frastuono irritante. Le irritanti chiacchere tra le donne dai terrazzi dei condomini. Il dolce suono delle risate dei bambini che giocavano nel parchetto sotto casa.

Insomma, la solita atmosfera di città. Confusione. Clacson. Traffico. Voci sfuocate. Caos.

E prendetemi per strana, pazza o che so io, ma per me tutto taceva. Tutto taceva perché il mio orecchio era abituato, trascurava quei rumori. Così come trascurava le urla di quei ragazzi, radunati nella piazza principale di Denver per fare la differenza nel mondo.

Si trattava solo di una manifestazione per l'ambiente, organizzata da una ragazza che conoscevo solo di vista, e di cui non ricordavo il nome. Fatto stava che frequentava la mia scuola ed era simpatica, raggiante, estroversa. Aveva davvero tanti amici, tutti volevano conoscerla, ed io la invidiavo. Invidiavo la sua capacità di rapportarsi con la gente. Rendeva l'atto così facile, semplice.

Si comportava come una dittatrice che avrebbe potuto cambiare il mondo, o almeno tentava di esserlo. Aveva organizzato quella manifestazione in tutti i suoi minimi dettagli: le tappe, i percorsi, i motti, i cartelloni, il discorso in piazza. Tutto.

Perché lei voleva salvare il mondo dal cambiamento climatico. Tutti lo volevano.

Mi era stato chiesto di partecipare, ma dissi di no. Non potevo, quel giorno avevo un aereo che mi avrebbe portato fuori dall'America, lontano dai ricordi e, se fosse stato possibile, anche da quel giorno d'estate che aveva cambiato tutto.

Tuttavia la mia assenza nella piazza principale di Denver, a pronunciare le parole di quel discorso, apparve assurda a coloro che invece si presentarono. Perché tecnicamente ero io quella ragazza. La ragazza estroversa con mille amici, capo cheerleader, presidente del comitato studentesco, e miglior alunna dell'istituto.

Ero io.

Ma, nel caso non fosse chiaro, tecnicamente. Solo esclusivamente e assolutamente tecnicamente. Ciò che era al di fuori del tecnicamente non mi legava neanche lontanamente a lei. Non più.

La mattina della partenza, mamma era agitata. Voleva avere tutto sotto il proprio controllo, aveva l'ansia costante di aver dimenticato qualcosa, entrava e usciva dal portone di ingresso di casa ogni due minuti. Faceva avanti e indietro come una pallina da pingpong, ed i miei occhi, senza trovare niente di meglio da fare, la seguivano.

Seguivano la partita con la mente offuscata da risate lontane.

 

"Andremo a mangiare sushi. E' deciso!".

Lo sguardo contradditorio della mamma non perse tempo a fulminare papà, il quale, spedito e determinato, si era diretto verso l'auto senza guardarsi indietro. "Will!", lo chiamava come una belva. "Will, vieni qui!".

Io e Kyran, l'uno di fianco all'altro dietro la mamma che urlava, ci scambiammo un'eloquente sorriso divertito e guardammo la Peugeot rossa di papà uscire dal parcheggio, con sottofondo la voce squillante di lei.

"William!".

"Avice?". Sussultai sul posto, in piedi sullo stesso marciapiede, con lo sguardo perso tra le macchine. Incontrai gli occhi blu di lei e mi si formò un groppo alla gola. "Tesoro, dobbiamo andare. L'aereo parte tra mezz'ora", sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla, la leggera stretta che mi fece, prima di allontanarsi e farmi cenno di seguirla.

Guardai mia madre salire sul taxi che aveva chiamato, su cui aveva caricato le valigie, e da cui mi guardava interdetta. Spaventata. Preoccupata. Solo quando presi posto di fianco a lei e chiusi la portiera, si tranquillizzò. Mentre io fui travolta da un altro flash e trattenni spontaneamente il respiro.

La Peugeot rossa accostò di fianco al marciapiede, che precedeva l'ingresso di casa, e mamma non perse tempo a salire a bordo e rivolgersi a papà agitata, come sempre. "E' pesce crudo! Sai quante malattie porta il pesce crudo?".

Lei pretendeva una democrazia chiara e tonda nel loro rapporto, ma un idealista e spirito libero come lui non sapeva che significato recasse quel termine. Avevano pensieri opposti, caratteri opposti. Nessuno sapeva cosa fosse passata per la testa di entrambi il giorno in cui si erano uniti per la vita, ma si amavano e ciò bastava.

Intanto io e mio fratello avevamo preso posto sui sedili posteriori, e stavamo assistendo alla discussione. Eravamo così eccitati alla sola idea di poter assaggiare il paradiso di cui papà tanto parlava, e che mamma non ci aveva mai permesso di provare.

"Mmh, scommetto che uno c'è morto con il sushi. Giusto?", fece invece lui, mentre si immetteva nella strada trafficata. "E tu invece con i miei soldi, il mio stipendio, pagheresti la cena da… dov'è che volevi andare te? Ah, sì. Da La Nonna Genoveffa. Giusto?", disse guardandola con sfida.

Mamma non seppe ribattere, si ammutolì, e così io e mio fratello scoppiammo a ridere.

"Papà ha sempre ragione!", esclamò Kyran sporgendosi oltre il sedile, e rivolse una linguaccia alla mamma, in disaccordo.

"Sì, certo, e tua sorella andrà a quella festa!", ironizzò divertita. "Vero, Avice?".

Non voglio mentire. Le avrei voluto tirare uno schiaffo.

"Dai, su. Dove volete che vi porti, signore?", sdrammatizzò papà ridendo.

"Dove volete che vi porti?", domandò l'autista, distogliendomi dal flashback.

"Aeroporto, grazie", rispose mamma. La sua voce fremette, vibrò come la corda di una chitarra appena sfiorata. Ma io lo ignorai. Ormai avevo fatto l'abitudine ad ignorare gesti, atteggiamenti, frasi, imbarazzi. Mi risultava automatico.

Tramite lo specchietto retrovisore incontrai lo sguardo imperturbabile dell'autista, e deglutii mordendomi l'interno della guancia.

Gli occhi azzurri ed enigmatici di papà, contornati da rughe di espressione e la solita matita nera, si scontrarono con i miei tramite lo specchietto retrovisore. Lui strizzò il destro, ed io sorrisi.

"Tranquilla, principessa. La convinco io".

I miei occhi si inumidirono, ed una lacrima solitaria prese a rigarmi il viso.

Appoggiai la fronte sulla sua superficie fredda e fissai la nostra casa che si allontanava sempre di più, fino a sparire dietro la massa dei ragazzi con i cartelloni verdi e azzurri.

L'ultima cosa che vidi, prima di indossare le mie cuffie e chiudere gli occhi, fu la scritta di un cartellone verde.

"Non c'è un pianeta B". Era la mia calligrafia.

 

⊳⋄⊲

 

Dieci giorni dopo

 

Presi il rossetto e lo stappai, guardando il mio riflesso nello specchio.

Ero seduta a gambe incrociate in camera mia. Quel giorno sarebbe stato il primo che avrei trascorso nella nuova scuola, la Eastbourne High School.

L'ansia si percepiva.

Passai il rossetto sul labbro superiore, e poi su quello inferiore, colorandomi la bocca di un rosso fuoco. Premetti le labbra l'una contro l'altra e ottenni l'effetto desiderato. Mi colorai l'interno dell'occhio con una matita nera, misi due strati di mascara sulle ciglia e, successivamente, indossai una camicia a quadri neri e grigi sopra ad una maglietta nera ed un paio di pantaloni del medesimo colore.

Non appena finii di sistemarmi, rimasi a fissare il mio riflesso per qualche minuto.

Mamma diceva che un trasferimento equivaleva ad un nuovo inizio, una seconda possibilità per ricominciare da zero. Quindi avevo pensato che sarebbe stata l'occasione perfetta.

Avevo pensato che, se tutto attorno a me stava crollando ed assumeva un aspetto distrutto e diverso, anche io dovevo fare lo stesso. E fingere di non cambiare me stessa, ma convincermi invece che la ragazza riflessa nello specchio fossi io, mi rendeva la situazione più facile.

Se papà fosse stato lì, mi avrebbe detto che stavo sbagliando, che non era quella soluzione. Anche Kyran, convinto che papà avesse sempre ragione, sarebbe stato d'accordo. Fingevo di non sapere nemmeno questo.

Uscii dalla mia camera e mi fermai nel corridoio, tra la porta del bagno e quella della mamma. Sentii delle voci che bisbigliavano da dentro quest'ultima, e subito le riconobbi: mamma e Bob.

Stavano ridendo.

Lui le faceva sempre spuntare un sorriso, per questo ero felice che fosse al suo fianco, non la vedevo così contenta da molto tempo. 

Ma Bob non era il suo compagno, non stavano insieme. Erano solo migliori amici, carissimi amici di vecchia data.

Mamma da giovane abitava ad Eastbourne, aveva fatto tutte le scuole qui, e Bob era stato il suo compagno di avventure pazze e strambe al liceo. Avevano passato quei quattro anni assieme, prima che lei partisse per il college assieme al suo nuovo ragazzo. Papà.

Mamma e Bob avevano provato a mantenersi in contatto, ma non era servito a molto. Le amicizie a distanza non resistono a lungo. Lei non aveva più avuto notizie di lui e continuò con la sua vita, proseguì per la sua strada. Finì il college, papà le chiese di sposarlo, nacqui io e, sette anni dopo, Kyran.

Mamma aveva fatto scegliere a me la città che avremmo imparato a chiamare 'casa'. Perciò, io scelsi di pensare prima a lei che a me stessa e, facendolo sembrare un puro caso, puntai il dito sulla città dove aveva trascorso la sua adolescenza: Eastbourne.

Era considerata la città più tranquilla di tutta l'Inghilterra. La città dove tutti si conoscevano e si salutavano amorevolmente per strada. L'aria che si respirava per le sue vie era decisamente inebriante, mi rilassava e mi provocava una strana sensazione. Sapeva di 'casa'.

Mamma sembrava felice di essere tornata. Soprattutto perché lei e Bob non si sentivano da oltre vent'anni. Assurdo, ma era bastata una chiamata per farli riavvicinare così tanto e disintegrare quei venti anni di assenza, quasi come se non fossero mai esistiti.

Bob abitava in un palazzo in città, per caso l'appartamento accanto al suo era stato messo in vendita, ed io e la mamma lo avevamo comprato. 

Da come parlavano e come si guardavano sembravano due ragazzini del liceo. Era davvero imbarazzante, ma decisamente troppo bello vedere la mamma tornare a sorridere.

E poi Bob era simpatico, solare. Mi trovavo davvero bene con lui. E mica era brutto, eh? Capelli scuri, leggermente brizzolati, occhi verdi e un sorriso smagliante non si trovavano ovunque.

Aveva pure un ruolo importante in città.

Era lo sceriffo della centrale di polizia.

Ad Eastbourne Bob Cullen non passava di certo inosservato, ma chi lo avrebbe mai detto che nemmeno tre mesi più tardi avrebbe indagato su un omicidio?

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Capitolo 3
*** Quel brindisi ***


"Cosa avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi?".
"Vada a quel paese e ci resti fino alla fine dei suoi giorni".

⊳⋄⊲

Tre mesi dopo

ZOWIE

Sapevo tutto sulla Bibbia.

I miei genitori erano cattolicissimi. Avevano molta fede come tutta la nostra enorme ed immensa famiglia, ed io sapevo tutto sulla Bibbia perché loro ci tenevano a tutto ciò, perché io ci credevo. Credevo in Dio, che fosse davvero esistito e che la Bibbia non fosse solo un testo sacro, ma anche storico.

La Bibbia faceva parte di noi ed io ci credevo sul serio. Così come credevo che la mia scuola fosse una delle tante conseguenze dell'estinzione dei dinosauri.

Come fossero collegati? Non lo so, ma mi piaceva pensare che lo fossero.

La mia scuola non era grande come struttura, e non aveva nemmeno un che di particolare. Dalla strada si poteva intravedere un alto cancello grigio e arrugginito, affiancato da una lastra in metallo che riportava il nome della scuola, a caratteri cubitali. 

"EASTBOURNE HIGH SCHOOL".

Il cortile che vi seguiva era assai piccolo, e lo delimitavano ai lati due enormi querce e tre panchine, le quali si affiancavano a vicenda. L'edificio, invece, era di un colore pressoché cupo, così cupo e incolore che nessuno lo notava o ci faceva caso. La facciata era abbastanza semplice, la preannunciava una larga e vasta scalinata di pietra bianca, anch'essa limitata per tutta la sua lunghezza da due muretti in pietra marroncina, sui quali prendevano solitamente posto gli studenti. E successivamente, una sobria porta vetrata faceva da ingresso e conduceva all'atrio della scuola.

Dopodiché, procedendo lungo le piastrelle beige, seguivano i corridoi della scuola, delimitati alle pareti da lunghissime file di armadietti azzurri, le cui ante venivano sbattute di continuo, provocando un frastuono assordante che si confondeva con il vociare degli studenti.

Essendo al quarto anno conoscevo benissimo quella scuola come le tasche dei pantaloni del mio pigiama preferito con le papere. Avrei potuto girarla anche ad occhi chiusi, ma sarei andata a sbattere contro chiunque. I corridoi non erano mai -ma davvero mai- vuoti.
Sta di fatto che non avevo mai provato a girarla ad occhi chiusi e, forse, adesso ripensandoci me ne pento.

Nonostante tutto ero riuscita a delineare negli anni sei diverse categorie ben distinte di creature, diversamente precoci, in cui potevi imbatterti girando per i corridoi dell'Eastbourne. Avevo stilato così una lista ben accurata di quest'ultime.

I primi riportati nella mia lista erano i contadini di zucchine. Non so se avete presente, ma mi riferisco a quei randagi esseri di sesso maschile che utilizzano, in maniera esagerata, la loro zucchina in posti perfettamente usuali.

I bad boy di classe che si mostravano gentili e seri, per poi lasciarti lì in mezzo alla folla, sola e ferita.

E loro restavano lì tra la folla a non rivolgerti più un solo sguardo, in attesa di trovare la prossima preda, e convinti che una zucchina in mezzo alle gambe li potesse rendere superiori.

Risate, prego.

Di seguito c'erano le barbie gonfiabili, esseri di sesso femminile rivestiti da sottili strati di tessuto. Solitamente, o meglio, prevedibilmente parlando potevano indossare un vestiario abbastanza scontato e rivisto: la divisa da cheerleader.

Il lato però più sorprendente di queste personcine era il metodo che si usava per gonfiarle. Rammentate i contadini di zucchine? Ecco, nella mia scuola per gonfiare questo genere di creature si utilizzavano le zucchine.

Non so se da voi è la stessa storia, ma, se fosse così, scappate.

Chi invece faceva parte della terza categoria erano i cosiddetti vampiri, creature assai interessanti che, però, per timidezza o riservatezza si nascondevano dietro libri e ante di armadietti. Il più delle volte venivano contattati dai contadini di zucchine o dalle barbie gonfiabili, per svolgere compiti assai difficili che racchiudevano i segreti oscuri della matematica e della fisica.

vampiri erano chiamati tali perché, spesso, preferivano il buio di una stanza illuminata da una sola lampadina, piuttosto che stare fuori alla luce del sole. L'unico dubbio esistenziale che mi restava era la loro reazione ad una cipolla.

Una creatura difficilmente conosciuta e, come dire, inconsueta, era invece il camaleonte. A dire il vero non so come ci riuscissero, ma i camaleonti erano validissimi esperti di mimetismo. In qualsiasi luogo della scuola sapevano muoversi da un posto all'altro senza emettere alcun rumore, e trovare la giusta angolazione e postazione per passare inosservati.

Se tu che stai leggendo sei un camaleonte, sappi che hai tutta la mia stima, soldato.

La quinta creatura che andrò ora a descrivervi saranno gli astronauti. Oh, un'altra categoria di persone assai interessanti da conoscere e frequentemente viste percorrere nei corridoi.

Per astronauti mi riferisco a coloro che erano indifferenti ad ogni categoria e se ne stavano in disparte negli angoli remoti della scuola, in solitudine o con amici stretti. Erano persone che non stavano né antipatiche né simpatiche, perché in fondo non facevano niente per mettersi contro nessuno, se non girare per i corridoi senza proferire una sola parola con anima viva. Li ho definiti astronauti perché sembravano esattamente fuori dal mondo, come se si trovassero nello spazio.

Ed infine, come ultima categoria, trovavamo gli amici del Sole. Potrei definirli come le mie creature preferite, dato che erano quel tipo di persone che passavano il loro tempo a scherzare e strappare un sorriso agli altri. Loro invece erano perennemente solari, con quel sorriso stampato in faccia che non cessava mai di esistere. Stavano simpatici a tutti, nessuno escluso.

Probabilmente adesso vi chiederete di che categoria io facessi parte. Purtroppo mi duole dirvi che io non rientravo in nessuna delle precedenti. Io ero solo Zowie Cooper, e di Zowie Cooper non poteva esistere una copia e un simile.

Modestamente parlando ero unica, ma non pensiate che sia egocentrismo o altro. Io ero e sono solo realista, e vi posso affermare con certezza che di Zowie Cooper ne esistesse solo una, io.

Al suono della campanella le creature misteriose dell'Eastbourne si radunavano sempre in mensa, anche definita da me stessa Giungla. Tutte le categorie della mia lista erano presenti, e sedevano rispettivamente nei diversi e più tavoli che occupavano quella vasta sala. Non so se i camaleonti ci fossero mai o no, ma come ho già detto loro non si facevano mai vedere davvero, quindi mi era impossibile averne la certezza.

Al mio tavolo era seduto, come al solito, il mio gruppo di amici, ossia uno dei pochi che riportasse una varietà sproporzionata di categorie diverse. Come amici eravamo abbastanza uniti, ma non stavamo sempre insieme come delle sardine in scatola. A me non piacciono le sardine. Fanno schifo, e paragonare i miei amici a delle sardine lo è ancora di più.

In realtà non so come definire il mio gruppo di amici, ma era un qualcosa di solido, un po' come un cubetto di ghiaccio, e un tempo di questo non avevo niente da dire in contrario. Almeno così credevo, o mi facevano credere loro: Nolan, James, Holly e Theo.

Ma andiamo per ordine.

Nolan, membro dei contadini di zucchine, un cespuglio di capelli castano chiaro con due occhi azzurri cielo ed una spruzzatina di lentiggini sul naso. Era il capitano della squadra di basket della scuola, nonché mio fratello e, purtroppo, anche uno dei ragazzi più conosciuti e amati nella seguente struttura.

James, uno degli amici del Sole, un'agglomerato di spettinati capelli castano scuro e occhi marroni come la nocciola. Era conosciuto da gran parte dell'Eastbourne per la sua simpatia e allegria. Avremmo potuto definirlo il giullare del gruppo, ma lui odiava definirsi così. Preferiva essere definito l'Intraprendente, anche se concretamente non lo era affatto. Non faceva mai niente di intraprendente o che si potesse lontanamente avvicinare alla parola stessa. A volte sapeva dimostrarsi solo un imbranato assurdo.

Holly, membro fidato dei vampiri, nonché la mia migliore amica. Era la tipica ragazza castana chiaro con occhi del medesimo colore, e che veste sempre con molta accuratezza e garbatezza. Indossava sempre semplici camicette azzurrine o di altri colori pastello, pantaloni di velluto beige e, infine, semplici sneakers bianche. Era la più timida nel gruppo e, sicuramente, la più santa. Aveva un viso così dolce e ingenuo che nemmeno un camionista di strada vedovo e senza figli avrebbe potuto usufruire di lei.

Theo, appartenente alla categoria dei camaleonti, era invece il silenzioso del gruppo. Una massa di capelli biondi scuro o forse castani -non lo avevo mai capito-, e un paio di occhi azzurri con una sfumatura verde. C'era sempre fisicamente, ma sembrava essere costantemente assente con la testa. Io non lo conoscevo molto a dirla tutta, era James a conoscerlo meglio di tutti, ma avevo sempre pensato che dietro quella maschera di freddezza e imperturbabilità si nascondesse altro.

Ecco, perché lo chiamavo patata.

Solitamente la scena che seguiva ogni giorno al nostro tavolo era la seguente.

Nolan stava al telefono, alzava di tanto in tanto gli occhi per partecipare alla conversazione, e mangiava il suo solito panino con salame e lattuga.

Theo mangiava i suoi cracker accompagnati con una Coca, e fissava il vuoto inerte e impassibile a qualsiasi cosa.

James ci raggiungeva al tavolo dicendo che gli era successa una cosa assurda e, tra una frase e l'altra, tardava sempre il sadico momento in cui ce l'avrebbe raccontata.

Holly ci raggiungeva per ultima inventando scuse, come che il professore l'avesse trattenuta, o una fila lunga alle macchinette per la bottiglietta d'acqua. Solo i lunedì riusciva ad arrivare in orario, ma questo solo perché avevamo lezione di matematica insieme l'ora prima.

E poi, c'ero io che parlavo di un qualcosa per riempire il silenzio che precedeva l'arrivo di James, mentre ghermivo il mio panino di tutto e di più, purché fosse stato commestibile.

"Ragazzi, mi è capitata una cosa assurda stamattina", ed ecco che il silenzio si ruppe.

Quel giorno la cosa più assurda che era capitata a me, invece, era stata non trovare le arachidi nella macchinetta della scuola. Che vergogna!

"Così. Di punto in bianco ti viene in mente?", seduta di fianco a me, Holly alzò gli occhi dalla sua insalata e sorrise.

Mi voltai a guardare la mia migliore amica ed inarcai un sopracciglio. "Ma James si mette scarpe diverse la mattina. Cosa pretendi?", le rammentai.

Io e la mia amica scoppiamo a ridere, mentre il ragazzo in questione diventò improvvisamente cupo e nervoso. "È successo solo una volta", protestò e puntò i suoi occhi color nocciola su di me.

Correggo. Cinque.

Nolan distolse lo sguardo dallo schermo del suo telefono e sorrise divertito verso il quasi moro. "La tua divisa da basket rosa però resterà sempre nel mio cuoricino", e si portò la mano al cuore con orgoglio.

Ricordo come se fosse ieri quel giorno. La madre aveva fatto confusione con il bucato proprio il giorno prima della partita. In campo si vedevano quattro giocatori con la divisa bianca e uno con la divisa rosa. È stata la partita sportiva più bella che io abbia mai visto.

L'espressione fulminea di James rivolta verso mio fratello fece ridere tutti e tre, ma ancora una volta Theo osservò la scena senza esprimere alcuna emozione.

James batté il pugno contro il tavolo per placare la confusione, e di colpo smettemmo di ridere e lo guardammo in attesa che prendesse parola, per stare bene attenti alla sua prossima perla. Tuttavia lui rimase in silenzio e aprii invece la bocca in una smorfia. Una smorfia di dolore, parve.

E fu così che il camaleonte del gruppo proferì le sue prime parole del giorno abbozzando un piccolo sorriso. "Ti sei davvero fatto male battendo un pugno contro il tavolo?".

Per poco Nolan non sputò l'acqua che stava bevendo.

Nel frattempo il nostro amico del Sole si massaggiava la mano infortunata e ci rivolgeva un sorriso mezzo divertito. "Ragazzi comunque, seri, davvero non avete notato la pecora nera?".

James Holloway era fatto così, cambiava argomento come cambiava le mutande. Nolan diceva sempre che anche io facevo lo stesso, ma io cambiavo sempre le mutande.

"Piuttosto, sicuro di essere sobrio oggi?", mio fratello ruppe il silenzio creatosi, sporgendosi in avanti sul tavolo. Lo guardò con intesa e, quasi con tenerezza, aggiunse: "A me puoi dirlo, amico".

Chissà se aveva preso la roba da Allen. Anche se non lo sopportavo, dovevo ammettere che tutti a scuola dicevano che era roba buona la sua. 

Oh, Allen, Allen. Di lui sì, che avrebbe usufruito quel camionista di strada vedovo e senza figli. Forse ero gelosa.

James continuò a ridere e diede un morso al suo panino, scuotendo la testa con un sorriso. "Non sono cannato o altro, e non ho visto una pecora, ragazzi!". Tirammo tutti un sospiro di sollievo. "Ho visto la pecora nera", e così la sensazione di sollievo che probabilmente ci aveva pervaso tutti e quattro si disintegrò.

Nolan mi lanciò un'occhiata sorniona da te lo avevo detto, e giuro che gli avrei rovesciato in testa l'insalata di Holly solo perché probabilmente aveva ragione.

Nel frattempo Theo passò l'acqua a James e gli rivolse un'espressione da prendila fratello se vuoi tornare su questa Terra, ma il suo migliore amico lo guardò male e, appena afferrò quella bottiglietta al volo, gliela tirò di nuovo addosso.

James tornò a guardarci serio e, ignaro di aver accecato quasi Theo, disse: "Sono sobrio, ragazzi. È una metafora. Pecora nera. Ragazza nuova dai capelli neri e gli occhi azzurri. Ma dove vivete? Nel Far West?", ed iniziò a ridere senza motivo.

"Far West?", ribatté Theo.

"Ragazza nuova?", si interessò invece Holly.

Ragazza nuova, pensai io e, tra me e me, mentre addentavo il mio panino, sperai solo che non fosse un'altra appartenente alla categoria di barbie gonfiabili. Non avrei saputo tollerarla.

"Eccola. È arrivata appena in tempo", esclamò James con un sorriso, guardando probabilmente verso la porta della mensa. "Ditemi che non sembra la pecora nera di Eastbourne?". Ci voltammo tutti e quattro nella direzione in cui era puntata la sua attenzione, la vedemmo e il tempo si fermò.

La pecora nera aveva appena varcato la soglia della mensa con i suoi anfibi neri, così lucidi da permettere a chiunque di specchiarsi sopra, e marchiati sui lati da appuntite e taglienti borchie. Una larga giacca di jeans lasciava intravedere poco del suo corpo e faceva solo trasparire un'assai ingombrante felpa nera senza cappuccio, mentre pantaloni anch'essi scuri le fasciavano le gambe alla perfezione, ed i suoi occhi blu, contornati da una spessa linea nera, vagavano circospetti per la mensa e la ispezionavano come scanner.

Nell'aria era calato un denso silenzio di bisbigli e risatine, le teste degli studenti si erano voltate verso la sua figura, che attraversava il luogo circostante a testa alta. Si sentiva solo il rumore dell'impatto delle suole dei suoi anfibi contro il pavimento, mentre i suoi lunghi capelli neri, in contrasto con la sua pelle lattea, tendevano a caderle sul viso e ridurle così la visuale. 

Jessica Parker, la bionda ricca in compagnia delle sue amiche, messe tutte in tiro e degne di far parte delle barbie gonfiabili, sorseggiava la sua bibita in lattina senza zuccheri e la osservava con occhi annoiati, mentre una di loro le si avvicinò all'orecchio sussurrandole qualcosa e lei sorrise mestamente. 

Greg Landler invece, il castano chiaro dagli occhi grigi e fiero membro dei contadini di zucchine, nonché migliore amico del noto Dimitri Geller, suo simile, rideva ad una battuta sussurrata dalla voce maliziosa di Patrick, il rosso famigerato per essere uno degli amici del Sole più pervertiti.

La pecora nera passò di fianco al nostro tavolo senza distogliere lo sguardo di un solo millimetro dalla sua meta, l'unico tavolo ancora libero della mensa e, non appena prese posto a quest'ultimo appoggiandosi con i gomiti, come per magia il silenzio cessò e l'attenzione degli studenti tornò rivolta ai rispettivi gruppi.

Greg Landler tornò a discutere di fatti sconci con i suoi amici altrettanto sconci, ma si fece scappare quell'occhiata verso Jessica Parker che aveva ripreso serenamente a sorseggiare la sua bibita. Vomitevole.

"Sì, dai. Pecora nera ci sta", la voce di Theo mi distolse dai miei pensieri e mi fece tornare con la testa al tavolo a cui ero seduta. Voltai l'attenzione verso di lui, il quale, dopo il suo commento tornò indifferente a mangiare il suo pranzo. "Mi passate il ketchup?".

James ammiccò verso l'amico tirandogli una pacca sulla spalla. Holly distolse gli occhi dalla nuova arrivata con un velo di tristezza. Nolan non le staccava gli occhi di dosso, sembrava perso e incantato.

Maniaco, pensai prendendo un sorso del mio succo al mango. Voltai per una frazione di secondo gli occhi nuovamente sulla pecora nera, ma mi bastò esso per notare cosa stesse mettendo sotto i denti. 

Arachidi. Maledetta! Le mie arachidi.

"Zowie, non è una bella faccia quella", sentii subito dire da Holly.

"Ha preso le mie arachidi!", esclamai con una voce che sembrava quella di una bambina di nove anni. "Che microcefala, già la odio".

"A me fa più paura l'espressione di Nolan", intervenne James ridendo sotto i baffi.

Sentendo pronunciare il suo nome, il sottoscritto distaccò immediatamente gli occhi. "Eh?".

"Sei inquietante, Lan", gli dissi chiamandolo con il soprannome che spesso gli attribuivo. In risposta fece solo una smorfia contorta.

"Nolan, hai scelto quindi la tua prossima preda?", sentii ridacchiare James.

"Ma finiscila!", aveva esclamato Nolan scuotendo la testa, ma per sua sfortuna la sfumatura rossastra del suo viso lo tradiva in pieno.

Tornai così a guardare la ragazza nuova e casualmente incontrai i suoi occhi blu, mi stavano osservando. Erano davvero belli, il loro colore soprattutto, blu oceano. Creavano un contrasto quasi surreale tra la sua pelle così chiara e i suoi capelli corvini.

Alzai una mano a mo' di saluto e tirai fuori uno smagliante sorriso, pensando che se ci avessi fatto amicizia potevo anche prendere per ipotesi di dimenticare che mi avesse rubato le arachidi. Ero per le seconde possibilità. Purtroppo, come reazione al mio sorriso, mi guadagnai un'espressione alquanto spaventata e confusa.

Ma perché terrorizzo tutti?

Con gli occhi percorsi la mensa, mi scontrai di nuovo nel viso lentigginoso di Patrick che si leccava lentamente in maniera sensuale le labbra rivolgendosi ad un Dimitri Geller disgustato, poi trovai la mitica chioma bionda cenere di boccoli Taylor Drake che stava mordendo l'orecchio a Jimmy Henderson con tanto di occhi sbarrati, di seguito l'eccellenza dell'eccellenza della categoria dei vampiri Zena Miami con il viso olivastro contorto in una smorfia verso un punto indefinito nel vuoto, e poi, fui inaspettatamente travolta da due buchi neri.

Quei maledettissimi buchi neri.

A chi appartenevano? Oh no, niente spoiler.

Posso dirvi che il proprietario di qui buchi neri, appena percettibili sotto l'ombra del cappuccio tirato sopra la sua nuca, era l'eccezione alla regola. L'asterisco che segnalava la presenza di un appunto fuori schema. Colui che, come me, non rientrava in nessuna delle categorie che avevo stilato.

Posso anche dirvi che quello scontro ravvicinato ed inaspettato di sguardi mi provocò un brivido alla colonna vertebrale. Brivido che, tra parentesi, era solo esclusivamente dovuto ai tre mesi della sua assenza.

E per ultima cosa posso riferirvi che, ogni volta che incontravo il suo sguardo, mi sentivo quasi risucchiare e affogare in essi. Non sapevo se definirla una bella o brutta sensazione. Affogare è una morte orribile che non augurerei mai a nessuno, ma essere risucchiati da un qualcosa che non si conosce è intrigante. Una tortura curiosa.

Il più delle volte cercavo di non guardarlo troppo a lungo, per paura forse. Ma altre volte mi chiedevo cosa si provasse dopo essere stati risucchiati da quei buchi neri, se dopo essere affogati in essi ci fosse stato dell'altro.

Prima che sparisse nel corridoio, che affacciava sulla mensa, feci in tempo ad alzare il dito medio e lui a mimare con le labbra un: "Vaffanculo".

"Era lui?", mi domandò Holly con un piccolo sorriso divertito. In risposta feci solo spallucce.

Che siano maledetti i buchi neri, bevvi un altro sorso del mio succo al mango, a mo' di brindisi tra me e me, e rimasi a fissare incantata quel tratto di corridoio incredibilmente vuoto dopo il suo passaggio.

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