Racconti di eccezionale ordinarietà

di Estel_naMar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Andrea ***
Capitolo 2: *** Max e Annie ***
Capitolo 3: *** Yashal ***
Capitolo 4: *** Jo e me ***



Capitolo 1
*** Andrea ***


ANDREA
  

 
 
A S. e O.,
per darvi il finale che non potete avere,
per porvi di fronte alla scelta che vi meritate.
A voi,
che ogni tanto vi distanziate,
ma che non smettereste mai di ricercarvi.
 



            «Beh, ma quindi sei tornata stabilmente in città, o sbaglio? Sono già dei mesi, no?», constatò Alessio, rivolgendosi ad Andrea, «E per favore, dai, non guardarmi così. Sai che lavorando fuori non sono mai qui e sono un po’ estraniato dal mondo!»
«Ah, io l’ho sempre detto che non sei mai stato abbastanza al passo col mondo, altrimenti non me lo chiederesti. Sì, confermo di sì. D’altronde, direi che essere stata via tre anni, tornando mediamente un paio di volte ad anno, sia stato più che sufficiente. Purtroppo, era proprio giunto il momento di riprendere e concludere finalmente i miei fantomatici studi. Quando sono partita li avevo messi in pausa, seppur durante i primi anni di università fossi partita in quarta. Quante cose sono cambiate, eh? Ti ricordi quanto ero presa e soddisfatta quando ho iniziato? E poi, chissà cosa è accaduto…», sorrise l’altra, voltandosi poi a guardare l’amico.
«Ah, beh… la vita chiaramente è accaduta, che altro sennò?», scherzò di rimando lui, sfregando il proprio gomito su quello di lei.

Era una classica serata estiva in un comunissimo paese sulla costa, la luna che rifletteva nel mare, a solo poche decine di metri di distanza dal muretto su cui i due erano appoggiati. Se c’era qualcosa del suo luogo natio che era mancata ad Andrea erano decisamente quelle serate in compagnia dei suoi amici nel loro pub preferito e la complicità che le caratterizzava, nonostante non fossero mai accompagnate da chissà quali strabilianti eventi. In particolare, però, le era mancato Alessio, una delle persone a cui maggiormente era rimasta legata; d’altro canto non avrebbe potuto essere diversamente: dieci anni di profonda e sincera amicizia non sono qualcosa che si dimentica facilmente.
«E comunque ti vorrei ricordare che qualcuno, qualcuno a caso eh, all’inizio, te lo aveva fatto presente che era una grandissima stronzata partire e che lo facevi solo perché avevi una paura pazzesca di affrontare le cose che avevi deciso di lasciare. Pff, dai, cos’è quella faccia? È la verità. Tanto ormai è andata e, in fin dei conti, è pure andata bene, no? Quando sei tornata ti ho vista tipo… totalmente rivoluzionata. Mi sei piaciuta ed era palese quanto anche tu ti fossi piaciuta, e sono stato felice per te, forse come mai prima. Ciò nonostante, però, ho il vago presentimento che ci sia qualcosa che non va e che non mi stai dicendo, ma ti conosco troppo: te lo leggo in faccia quanto in realtà tu voglia farlo.», Andrea si sentì colpita: era evidente quanto la distanza e gli anni non fossero stati sufficienti a cancellare la loro sintonia.

            
           «Dico davvero: ti va di parlarne?», aggiunse, poi, cogliendo un velo di rammarico nello sguardo dell’altra.
«Non c’è molto da dire, in realtà. Avevo trovato tutto, a Torino. Per permetterti di capire, anche se te l’ho detto innumerevoli volte: la sensazione era che quella città fosse stata creata a immagine mia, ed io a immagine sua. Mi sono sentita libera, finalmente, e, obiettivamente, sono sbocciata. Ho perfino trovato una compagnia di persone che avrebbero perfettamente potuto sostituire te e tutti gli altri.», ironizzò spintonandolo un po’ con la spalla, «Poi, all’improvviso è arrivato Gabriele e mi ha praticamente travolto e stravolto l’anima. Tu, che ormai sono anni che stai con Isabella, dovresti ben sapere di cosa parlo.», affermò Andrea guardando Isa in lontananza, che era seduta sui bancali in spiaggia, qualche metro più avanti, insieme con il resto della loro compagnia.
«Cioè, tipo… BOOM. È stato… aaah, non ho parole per descriverlo. È come se mi avesse messo nelle condizioni di smettere di avere paura, di vivere la mia relazione con tranquillità, di vivere appieno la gioia di amarsi e condividersi e soprattutto di non sentirne mai, mai, mai il peso. Uno scambio continuo e reciproco di opinioni, emozioni, tutto. E non mi sento nemmeno di dire che fosse troppo: eravamo semplicemente perfetti. È strabiliante: non lo avrei mai creduto possibile. Siamo pure riusciti senza alcuna difficoltà a districarci tra i nostri mille impegni, amicizie e via discorrendo. Ed ora, sebbene sia passato del tempo, a pensarci, continua a sorprendermi l’affinità che man a mano che ci conoscevamo e scoprivamo è stata nostra e ci ha profondamente caratterizzati.»
«Beh, sì, in pratica è come se avesse cancellato tutto quello che c’era stato prima. Che tra l’altro: ormai da quant’è che state insieme? Almeno un paio di anni, no?»
«Allora, devi tener presente che io mi sono trasferita a Torino durante settembre ed io e Gabri ci siamo conosciuti e iniziati a frequentare verso giugno dell’anno successivo. Inoltre, sono rimasta su per circa tre anni e qualche mese, in fin dei conti, anche perché poi il contratto di lavoro mi è scaduto a gennaio di questo anno. Questo per dire che in teoria ad agosto sarebbero tre anni, sostanzialmente.»
«Beh, cavolo. Inizia ad essere già una buona dose di tempo! Io e Isa stiamo insieme da cinque, non troppi di più, insomma.»
«Sì, però siete qui insieme; io sono qui da sola, come avrai potuto notare.»
«Sbaglio o qualche mese fa era sceso qua? E poi insomma: smettila di girarci intorno e di’ quale è il problema tra voi.»
«Forse il problema sta proprio nel fatto che per la prima volta in tutta la mia vita mi sono completamente lasciata andare. Tu lo sai molto bene: io sono una persona totalmente e costantemente trattenuta. Eppure, in questa relazione, sono riuscita a lasciarmi e smollarmi un po’. Mi sono abbandonata nelle braccia di qualcun altro: lasciata cadere senza appigli, senza sapere dove sarei finita. Ed ora sono qui... e mi sento completamente… svuotata, come se questa relazione mi avesse aspirato via tutta l’anima ogni qualvolta che ne cedevo un pezzo a lui.»
Alessio poteva vedere gli occhi della sua migliore amica farsi lucidi. «Il fatto è che ho dato così tanto… ed ora mi sento così sola, spezzata. Ho dato tutto quello che avevo, tutto quello potevo dare… ed ora… ora non ho più niente.»
  

Pausa. Paura. Paura. Pausa.
  

Un lungo intervallo di trenta secondi che ad Andrea erano parsi non finire mai, e poi il calore, quello di un amico che vede una delle persone che più amava rompersi dinnanzi a lui. L’abbracciò forte, con tutto il conforto che poteva trasmetterle, come se tentasse di ricomporre le sue fragilità, ma nessuno ne aveva la capacità, né nessuno avrebbe mai davvero voluto… nemmeno lei stessa. Andrea, come mai prima, aveva imparato ad apprezzarle, consapevole che quelle erano anche la sua più grande bellezza e qualità.
«Sai di avere la facoltà e l’opportunità di scegliere, vero? E sai che se scegli te stessa, anziché voi, non farai un torto a nessuno né farà di te una brutta persona?»
«Sì, ovviamente, ma… ho ed abbiamo lottato così a lungo per arrivare all’apice, per essere quelli che eravamo, che adesso ho solo il timore di lasciare tutto solo perché, come ho sempre fatto in tutta la mia vita, non ho davvero il coraggio di viverlo, di vivere la felicità che mi merito e che ho trovato in lui, in noi e nella persona che sono stando insieme… troppo spaventata dal perderla, cosa che di fatto sta accadendo.»
«Oh, Andrea! Smetti di fare la stupida ragazzina. Sei andata a Torino che eri un piccolo animaletto sperduto (nessuno lo negherebbe) e pieno di remore, ma avevi una serie di certezze che per te erano imprescindibili, e lo sai bene. Perciò smettila perché davvero: lo sai, lo sai che non lo hai raggiunto né lo raggiungerai mai quell’apice, che nessuno lo raggiungerà. Così come sai che quella felicità potrebbe non essere per sempre, perché il per sempre non esiste nell’avanzare del tempo, bensì nell’istante, in quel singolo e circoscritto istante. Perciò non credere, neanche per un momento, che decidere di chiudere questa relazione, perché in questo momento quello che ti provoca è sofferenza, possa in qualche modo cancellare o rimuovere la felicità che avete vissuto. E dall’altra parte non puoi neanche intestardirti con questa serie di interrogatori per cui “eh, ma se ci dividiamo perché ho paura di star bene?” e via discorrendo, perché se tu stessi così bene non te li porresti. Non ti balenerebbero neanche lontanamente in testa: saresti troppo impegnata ad essere felice. Con questo non voglio dirti che dovresti chiamarlo e lasciarlo, né voglio influenzarti. Semplicemente esigo, come tuo amico e come persona stanca di vederti star male, che tu compia una scelta consapevole, dove la consapevolezza è solo ed esclusivamente legata a ciò che tu stessa hai conosciuto ed imparato, negli anni prima di Gabri ed in quelli con lui. Ho il dovere di ricordarti della persona che sei, anche quando te la dimentichi, anche quando ti metti da parte.»
Lei si voltò a guardarlo. Qualcun altro al suo posto avrebbe fatto una qualsiasi cosa: dal mettersi a piangere, dall’urlargli la propria rabbia in faccia, tirargli un cazzotto o fuggire via, per quelle parole così taglienti in un momento così poco adatto, ma non Andrea. Lei lo guardò con gli occhi di chi voleva dargli ragione e al contempo mostrargli quanto distante fosse dalla realtà: «Non ho dimenticato, Ale. Una come me, una persona che affronta la vita con la stessa intensità e debolezza e forza che ci metto io, non può dimenticarsi la persona che è e le idee che hanno portato ad esserla. E non posso permetterti di sbagliare su questo. E dopo cinque anni con Isa dovresti sapere di non poter dare per scontata la felicità, né guardarla con così tanta superficialità: lo sai benissimo che non si può scappare semplicemente perché in parte ci fa anche soffrire. E poi sì: io credo fermamente nell’idea che spesso non riusciamo a vivere la nostra serenità solo perché si ha paura di farlo. Non so, adesso, se questo sia davvero il caso, ma so che nella mia vita questa sensazione l’ho vissuta in più e più occasioni. In ogni caso, credo di sapere cosa farò con Gabri, ma non devi preoccuparti. So che la perfezione che con Gabri abbiamo avuto resterà lì, indelebile per entrambi.»
«Allora non aver più paura del vuoto che senti perché non sarà mai davvero tale.»
«Sai, nei mesi che passavano ho sempre tentato di rimanere concreta e realistica rispetto alle nostre prospettive future ed effettive. Ho sempre cercato di rammentarmi, di tenere a mente la vita che Gabri ha scelto e quella che ho scelto io scegliendo lui. Non credo che per lui sia più semplice che per me, anzi, probabilmente si porta anche appresso un non indifferente – seppur infondato – senso di colpa per questa situazione che sono sicura stia provando anche lui.»
«Ci siamo così amati, ci stiamo così amando… Eppure, è da quando sono tornata qui che ci sentiamo così poco, che manca quella parte di scambio reciproco che credo sia fondamentale nelle relazioni (o che, se non altro, lo era nella nostra). Non parliamo più granché e questo ci fa soffrire. Questa lontananza neanche troppo involontaria, ci fa soffrire. Il fatto di scegliere quotidianamente di non parlarci è l’emblema della nostra condizione: quasi come se fosse un vano tentativo di abituarci pian piano ad una distanza che prima o poi sarà totale.»
«D’altronde, questa distanza tangibile che stiamo mettendo tra noi provocherà pur sempre meno dolore della distanza a cui comunque non possiamo prescindere durante il nostro sforzo di sentirci vicini.», concluse amaramente Andrea, facendo segno ad Alessio di dirigersi verso gli altri: non voleva rovinargli il venerdì sera assillandolo con i suoi problemi e in più anche lei aveva bisogno di mettersi in pari con una buona dose di superficialità che solo l’alcol avrebbe potuto procurarle.

  
           Come spesso era capitato, la serata aveva preso la solita piega: un gruppo di amici, seduti sulla sabbia fresca di una notte estiva, i piedi scalzi che più di tutti ne assaporavano l’essenza, le birrette bionde del supermercato, dapprima, i superalcolici e le foglie di menta al loro interno, poi, e le canne che sempre giravano – perché si sa: se si fuma in compagnia, tutti i compagni devono fare almeno un tiro – e la chitarra, creatrice di colonne sonore di tutta una vita. E poi le risate nei loro vani tentativi di improvvisare o intonare una qualche melodia mentre erano palesemente troppo alterati per farlo. E Andrea, che ne stava lì a sorridere e scherzare, nel silenzio attonito della sua mente troppo sovraccarica e stanca per riuscire davvero a partecipare. Il tempo dentro sé che stava scorrendo ad una frequenza differente da quella della realtà e lei che si stava facendo cullare da quella sensazione soprannaturale, nella ferrea decisione di non volersi davvero risvegliare.
Ma poi si voltò perché, sebbene in ritardo, anche lei poté percepire quel frastuono legato ad un vociare esterno e lontano, da cui avrebbe preferito non farsi avvicinare, perché nonostante tutto, nonostante non fosse o volesse essere presente, lo era ed aveva visto, nella penombra, da cosa proveniva.

Andrea e Gabriele si erano conosciuti casualmente a Torino perché lui aveva partecipato ad un servizio fotografico tenuto dal capo di lei, un fotografo di fama internazionale, per il quale lavorava. Gabriele posava per una rivista italiana: ne era il volto, in quella copertina del mese di giugno di qualche anno prima. Egli, infatti, aveva studiato recitazione in una università inglese e dopo una serie infinita di provini, c’era stato quello giusto, ed era stato preso nel ruolo di co-protagonista in una serie tv britannica. Era partito dall’Italia alla ricerca di un luogo nel quale realizzarsi ed era uno di quelli che ci era riuscito, e poi aveva conosciuto lei qualche anno dopo, proprio quando, sulla cresta della fama che lo aveva coinvolto, si era giocato tutto in progetto nella sua amata città, Torino: quello che aveva agito era stato un all-in, e gli anni a venire avevano confermato che lui aveva vinto la sua personale partita.
Da quel momento, alcune delle loro abitudini erano dovute cambiare, banalmente per preservare la libertà con la quale avevano imparato a vivere la loro relazione – inizialmente, infatti, la fatidica serie di lancio non era stata mandata in onda Italia, motivo per cui ancora non lo placcavano ovunque egli andasse.
Ma non era per questa nuova assenza di privacy o per il cambiamento della loro routine che il loro rapporto si era inceppato. Era, piuttosto, per il troppo amore, un amore la cui lontananza li stava consumando dentro ed Andrea non riusciva più a sostenerlo. Riponeva la più totale fiducia e la più grande stima in Gabriele e provava nei suoi confronti dei sentimenti tanto profondi da non riuscire a sopportarne il peso effettivo.
Andrea si voltò e d’improvviso realizzò che forse avrebbe dovuto aprire i messaggi che aveva ricevuto nell’ultima settimana, anziché ignorarli. Si voltò e vide un uomo sorridente posare gentilmente e con sincera disponibilità per un’orda di sconosciuti che lo avevano assalito; si voltò e vide un uomo che, nello sbadato tentativo di non sembrare maldisposto nei confronti delle persone che lo circondavano, cercava un qualche sguardo conosciuto. E che, nel girarsi nell’unica direzione davvero plausibile, il mare, finalmente lo aveva potuto trovare.

Senza smettere di fissarlo, con il battito accelerato, il respiro che si era fatto affannoso, la brillantezza nel suo volto e le gambe tremanti, Andrea si alzò e barcollante si diresse verso di lui. Gabriele, dall’altra parte, si scusò con le persone che gli bloccavano assiduamente il passaggio e si mosse, senza smettere di fissarla, col battito accelerato, il respiro affannoso, la brillantezza nel suo volto e le gambe tremanti, verso di lei.
Arrivati l’uno dinnanzi all’altra, Gabriele capì di aver bisogno di sorreggere la debolezza di Andrea e Andrea di avere la necessità di sostenere quella di Gabriele. Si osservarono come si osserva qualcosa di nuovo e curioso, qualcosa di prezioso e raffinato e delicato. Erano due cristalli che si erano levigati assieme fino a divenire sottili e gracili, al punto di rischiare di rompersi e non potersi ricomporre più.
Niente esisteva intorno al fuoco che formavano e all’energia che sprigionavano: le persone erano divenute spettatrici di qualcosa che non conoscevano, ma che potevano avvertire dalla loro gestualità impercettibile e implacabile. Si sfiorarono le dita, quasi per errore, e le ritrassero nel timore di non potersi permettere più neanche un secondo, ma le avvicinarono di nuovo, quasi a sfidare le ostilità, quasi a sfidare loro stessi, fino a legare le loro mani e i loro sentimenti. Nel silenzio dei loro sguardi carichi di emozioni e nella gentilezza dei loro tocchi, finalmente si aprirono alla consapevolezza del loro peculiare “per sempre”.

 Si baciarono, di nuovo, e si strinsero in uno dei loro immensi abbracci e furono felici, almeno per un’altra volta.

 



 

LOOK AT ME!

Salve a tutti. In primo luogo una precisazione: il mio nome non è Abigail, lei è una persona fittizia a cui lascerò scrivere questa serie di racconti,
ma esiste solo nella mia mente e nella mente di chi legge.

Entrando nel merito dei racconti, come preannunciato nella descrizione, tratteranno di persone comuni. Le loro storie saranno narrate secondo gli occhi che ho donato ad Abbie e quindi secondo le sue personali interpretazioni, più che dai miei.
Sono persone che io, nella mia vita "reale" o lei, nella sua personale, abbiamo incontrato o immaginato di incontrare.
Persone i cui sguardi ci hanno narrato una storia nella sua semplicità e che, in virtù di questo, ho ritenuto valesse la pena raccontare.
Fatti accaduti o meno, sono solo spiragli delle loro vite e dei loro "tutto".
Di ognuno di loro non verrà aggiunto niente in più a ciò che è descritto nel singolo capitolo.
Non posso dare un seguito a vite che non conosco e che non mi hanno lasciato intravedere nulla in più di ciò che mi sono permessa di scrivere.
Come per questo primo racconto, Andrea, capiterà spesso che il finale di ognuno di essi sia aperto:
quel "poi" che c'è, ma di cui io non tratterò, è solo negli occhi di chi legge, quindi è a discrezione vostra.

Come forse avrete notato, non solo è il primo racconto che pubblico, ma è anche la prima storia. Questa raccolta fa parte di un piccolo mondo di vite comuni che ho creato nella mia mente e di cui anche Abbie è parte integrante.
Spero di avere il tempo e la costanza di aggiungere tutto ciò che lo riguarda e spero che vogliate seguirmi in questo percorso.

Per il momento, sarei molto felice di ricevere delle recensioni/opinioni esterne, fondamentali per uno scrittore o candidato tale, al fine di migliorarsi sempre e apprendere quanto più possibile da ogni cosa che ci venga offerta.

Se siete giunti fin qui, un particolare grazie.
 Bongi.


Edit: visto che sono un po' pigra e lenta nella vita, scrivo direttamente qua, perché non mi è dato sapere quando riuscirò a rispondere a tutti!
Per coloro che abbiano fatto presente un uso non adatto del linguaggio nei dialoghi: è una cosa perfettamente ponderata :)
Difatti, mi piace pensare - ed in realtà ho la conferma del fatto che questo può tranquillamente accadere - che ci siano occasioni nelle quali si possa lasciare spazio a riflessioni non necessariamente colloquiali e anzi: tanto più può succedere quanto più è profondo il rapporto tra due persone. I dialoghi narrati qui, infatti, sono dei dialoghi che le mie orecchie si sono trovate ad ascoltare innumerevoli volte, soprattutto nei casi in cui avessimo alzato un po' il gomito e la sbronza ci avesse spinto verso una delle varie riflessioni sui massimi sistemi o sull'esistenza tutta :P 
Quindi insomma, è stata una scelta consapevole e cercata :)

 

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Capitolo 2
*** Max e Annie ***


MAX E ANNIE

 



  

A R., 
perché grazie a quella singola notte
mi hai permesse di credere.
Grazie, perché nulla ci rovinerà.

 



           Ti racconterò una storia. Parla di tutto quello che due persone possono essere, ma che non saranno mai. Parla di un frangente, di un “per sempre” cristallizzato nel tempo, parla di affinità.

Io sono Massimiliano, ma puoi chiamarmi Max, che è l’unico nome che puoi dire se vuoi farmi voltare. Ecco, questa storia parla un po’ di me… e un po’ di Annie. Parla di quando, con lei, mi sono voltato una volta di troppo e l’ho persa di vista. Ma parla anche della bellezza della potenzialità che ci ha caratterizzati, la quale mai smetterà di darci speranza verso il futuro.


Non ci conoscevamo: ci aveva messi in contatto un’amica in comune asserendo semplicemente che potevamo trovarci, senza sbilanciarsi oltre, ma in fondo… non che noi avessimo davvero l’esigenza che lei lo facesse. Ricordo che passai un pomeriggio intero a domandarmi se sarebbe stata Annie a scrivermi o se invece avrei dovuto farlo io. Non mi interessava particolarmente la risposta: pensai che dovevo agire come sentivo, senza pormi ulteriormente il problema.

Esordii nel più originale dei modi: «Ciao, io sono Max. Mi ha dato il tuo numero Cassandra, credo ti abbia avvertita», misi le mani avanti, sperando che Cass lo avesse effettivamente fatto.


Mi rispose, dopo non troppo tempo, il suo nome era Annie, per l’appunto. Ci ponemmo le stesse domande che si pongono le persone che si approcciano sui siti di incontri, tastando un po’ il terreno. Lei non pareva sbilanciarsi, non mi era chiaro se ci sarebbe stata, se le stessi risultando simpatico, minimamente interessante o comunque uno con cui non avrebbe rifiutato di uscire. Rispondeva con entusiasmo ai miei quesiti indagatori: non disprezzava parlare dei suoi interessi, né ascoltare come i miei fossero in qualche modo simili ai suoi, ma non approfondiva mai davvero quando doveva esporre se stessa. La ritenni un po’ sostenuta e mi chiesi in cosa potessi ritrovare quell’affinità di cui Cassandra narrava quando me ne aveva parlato, visto che io, al contrario, sono una persona estremamente aperta. Che poi… inaspettato che una persona non voglia esporsi con un perfetto sconosciuto… Pff, cosa mi sarei mai dovuto aspettare?


Decisi presto di scoprirlo e mi feci avanti: «Ti va di vederci uno di questi giorni? Io starò in città ancora una settimana, poi devo tornare a Roma, però mi piacerebbe molto», studiavo a Roma e sarei rimasto nella mia città natale ancora soltanto poco tempo. Non ero sicuro dell’esito, ma le ore stringevano, perciò non potevo perdere giornate.

«Non lo so, non mi dispiacerebbe», non mi dispiacerebbe, pff, che è comunque diverso da un “mi farebbe piacere”… meglio di niente, «Questa settimana, però, ho sempre un sacco di impegni: tra università, riunioni, lo sport, non saprei proprio quando», stava chiaramente tergiversando.

«Così, de botto: stasera? Hai da fare?», non avrei mollato.

«Sto andando a giocare un’amichevole in trasferta, proprio adesso. Non so per che ora tornerò, ma, per esperienza, presumo rincaserò a notte inoltrata», e invece, come si dice a Roma, mi aveva pisciato proprio bene bene.

Risposi chiarendole che volevo fidarmi di Cass, sperando di convincere anche lei a fare altrettanto, e che avrei tentato di nuovo.




           Nei due giorni successivi dialogammo per un numero indefinito di ore, di tutte le stronzate possibili e immaginabili. Da parte mia, devo ammettere che non avrei descritto quella situazione con un entusiasta “è scattata la scintilla”, malgrado ciò ero curioso e ammaliato e volevo continuare a parlarle.

Avevamo passati musicali simili, molto vicini al rock. “Come un po’ tutti, del resto”, direte voi, d’altronde per ogni millenials definibile tale deve esserci stata quella fase adolescenziale in bilico tra la rabbia e la ribellione e il loro opposto (che personalmente evidenzio come tutto ciò che riguarda quello che è populista e conformista e superficiale e pop e da discoteca e… potrei andare avanti per ore, ma non è questo il punto). Lei non aveva un passato metallaro come me, quello no, ma si era comunque innamorata di tutta quella musica di denuncia, di manifesto, di opposizione, quella che veicolava pensieri politici, dolore, sofferenza, quella che non aveva paura di parlare di tutto ciò che rientrava in quella grande scatola vuota che è il diverso.


Eppure, non era neanche solo questo: ad un certo punto, d’improvviso, probabilmente a causa di qualche bias o associazione euristica, mi aveva domandato di quale orientamento politico fossi uscendosene con “senza pensarci: destra o sinistra? Fai la tua scelta”. Ebbi l’impressione che si aspettasse una risposta ben precisa.
 Mi parve quasi confidare nel fatto che io le dessi il responso che si aspettava, come se sperasse che non fosse differente da quello che avrebbe dato lei se qualcuno le avesse posto quello stesso quesito; quasi come se, nel caso in cui quello che io sono (perché in certi casi l’ideologia politica definisce parte del proprio essere) avesse per qualche strano allineamento stellare coinciso con quello che lei presumeva, potesse effettivamente concedersi la possibilità di conoscermi e scoprire che in fondo in fondo potessi anche piacerle.

«Pff, domanda che non sussiste. Sinistra, ovvio», credo di non averla né delusa né stupita… non quanto fui stupito io nel vedere, per la prima volta, da quando parlavamo, un interesse sincero nei miei confronti. Avevo ovviamente soddisfatto le sue supposizioni, esattamente come lei soddisfò le mie con quel suo “oh, meno male” che mi mandò in risposta.


Parlammo e parlammo ancora e i giorni passavano: me ne restavano due per vederla e l’avevo informata a riguardo, eppure Annie continuava a rifiutare i miei inviti, come se avesse un qualche tipo di timore. Timore non tanto nei miei confronti, quello non sembrava interessarle troppo, quanto nei suoi. Era palese che ci fosse qualcosa che la bloccava, ma cosa? Non è così che fanno le persone? Non si conoscono per i motivi più disparati e poi, se notano che c’è un interesse, si incontrano, escono in solitaria, senza la presenza di altri, per vedere come va?


Dalle uniche due foto del profilo che avevo potuto scrutare, quelle di telegram e whatsapp, era una ragazza carina, sebbene avesse rifiutato di dirmi il suo cognome, impedendomi – più o meno volontariamente – di aggiungerla ai miei amici facebook o cercarla su instagram. Riflettendoci un poco, mi si aprirono tutta una serie di scenari in mente, ognuno dei quali approdava alla medesima conclusione: e se Annie non fosse la persona che diceva di essere? Ero stato vittima di un catfish? Cassandra mi aveva preso in giro? Cassandra mi aveva preso in giro, un’alternativa piuttosto plausibile. Magari adesso si stava divertendo con qualche suo amico o amica. Poteva essere, ma non potevo darlo per scontato. Anche perché in fin dei conti si era sempre comportata piuttosto bene con me.


«Mandami un audio, sono curioso di sentire il tuo accento, hai detto di essere toscana e io amo l’accento toscano», chissà cosa deve aver pensato di me quando dal niente me ne uscii così. Probabilmente lei stessa dedusse la cosa giusta.

«La mia voce fa schifo negli audio», che era un modo carino per non dire “questo mi crede un uomo/questo mi crede Cass/questo mi crede una qualsiasi persona, ma non me”. Se mi avesse risposto così avrebbe avuto ragione: era esattamente quello che pensavo.

Decisi che sarebbe dovuto spettare a me il compito di compiere il primo passo: «Farò lo stesso con te così anche tu sentirai la mia voce. Ciao, sono Max, piacere di sentirti. Dimmi tutto quello che vuoi, tutto quello che ti passa per la testa, mi accontenterò», le mandai un audio del genere, un audio che in realtà conteneva molte più parole con la lettera “b”, dettaglio che la fece sorridere mentre lo ascoltava, mi informò. D’altronde, erano anni che abitavo a Roma e metà della mia famiglia veniva comunque da lì: il mio accento era non poco marcato.

«Ciao Max, sono Annie. Sono un po’ a disagio e in imbarazzo nel fare questa cosa. Non so cosa dirti, perché non so chi sei. Quindi improvviserò e trarrò ispirazione da quello che mi sta intorno, ergo, la mia stanza», interessante, non posso biasimarla: in tempi di carestia d’idee, bisogna saper accogliere anche i più banali spunti.
«Ho una camera piena di oggetti: deve rappresentarmi in tutto e per tutto. Dunque, sulla parete intorno a mio letto sono affissi una serie infinita di poster, delle iniziative che ho organizzato, quelle a cui ho partecipato, di qualche rivista fica, tipo de “L’Espresso” o dell’“Internazionale”. Ho appeso a dei chiodi uno spago a cui ho attaccato un sacco di foto della mia infanzia, soprattutto con i miei fratelli, che sono le mie persone preferite nel mondo, e un sacco di cartoline dei luoghi che ho visitato. Subito dopo ci sono un po’ di biglietti dei concerti a cui sono stata, come i Pearl Jam o i Foo Fighters, per dirne un paio», uh, colpo al cuore, maledetto che non regge. «Ecco, poi vediamo… Devo proprio sembrarti un po’ scema, perdonami, ma non ho proprio fantasia, oltreché essere davvero tanto a disagio», ribadì, doveva esserlo davvero… Mi venne da sorridere un po’ ebete, apprezzando lo sforzo che stava compiendo per accontentarmi. «Ah sì, poi c’è la cosa che preferisco: un poster in A1 di Star Wars – Il ritorno dello Jedi, in versione originale, che era la copertina di un libro-fumetto da collezione. È enorme e si impone su tutto, d’altronde non che la Forza possa fare qualcosa di diverso. E poi niente, ho la tv e la Play Station ed un sacco di giochi super emozionanti, con cui non voglio annoiarti»

Ora come facevo? Ero fregato. Palesemente, nulla da fare. Totalmente e sfacciatamente fregato. Tutto per colpa di Cass e di uno stupido audio.

Le piaceva Star Wars, aveva dei giochi che definiva fighi (e mi fidai inconsciamente del fatto che lo fossero) e i due gruppi che aveva nominato erano tra i miei preferiti. Ero fregato.

«Sei un po’ nerd», asserii semplicemente, nella speranza che mi dicesse che sì, lo era e che lo era anche molto di più di quanto mi avesse detto in quel minuto e mezzo di sproloqui. «Vuoi vedere su cosa ho lavorato negli ultimi mesi? Se lo vedi tu muori male, ti avverto», inviai dopo aver sorriso un po’ tra me e me.


Lei nel frattempo mi aveva mandato quella meravigliosa gigantografia della copertina di Episodio VI, dio… E poi aggiunse un ulteriore audio, palesemente più tranquilla: «Comunque, nel tuo parlato, l’accento veneto lo senti altro che te, eh. Perdonami, ma proprio non lo hai, non che mi dispiaccia: va bene anche così» va bene anche così.

In tutta risposta le mandai la foto del mio Stormtrooper versione lego e poi i video di me alle prese con la sistemazione della colonna sonora d’allora nuovo episodio uscente, episodio VIII. Aver scelto di fare della musica la mia vita, sebbene in un modo meno canonico di quello che ci si aspetta – in qualità di tecnico del suono –, avrà pure i suoi pro. Ne rimase apertamente e palesemente ammaliata.


Era il momento di sondare il terreno ancor più in profondità, non potevo farmi sfuggire l’attimo; dovevo solo buttarmi e incrociare le dita: «Però, in tutto questo, preferisco Il Signore degli Anelli», ecco, lo avevo detto. O la va o la spacca.

«Ah, sì? Ora valuto il tuo livello di conoscenza in merito»

«Prego, signorina, vada»

Di tutta risposta, mi arrivò la foto di un tatuaggio, contenente una singola parola. Io l’avevo detto: F-R-E-G-A-T-O.
 Non potevo nascondere il mio stupore e le mandai in risposta un serie di messaggi a singole parole: «Aspetta. Aspetta. Cazzo. Non vorrei sparare una stronzata. Dovrebbe essere un soprannome, no? Non è Granpasso?»


Un cuore. La sua risposta fu un cuore seguito da un “Bravò” e aggiunse poi: «Se l’hai cercato nel mondo dell’internet, però, non vale, eh!»

«Figurati, sono troppo sicuro delle mie conoscenze per scadere così in basso. Cosa regala Galadriel a Gimli?»
«Pff, così scontato e semplice», mi prese un po’ in giro, «Una ciocca dei suoi fottutissimi capelli?»
«Allora, intanto ti calmi» scherzai un po’, «Erano tre, mia cara. Ma lui gliene aveva chiesta una soltanto»
 «Dai, direi che possa tranquillamente rientrare tra le risposte corrette. Comunque, temo di perderlo questo gioco, anche se a lanciarlo sono stata io, quindi direi di chiuderlo qua, in parità»

«Nîn o Chithaeglir lasto beth daer; Rimmo Nîn Bruinen dan in Ulaer!», le scrissi, stimolato dal momento – altissimo – che sentivo di star vivendo in quel momento.

«Ribadisco: questa cosa finirà male. Ho un secondo tatuaggio con scritto “I Aear cân van na mar”»
«Cos’è: il mare ci chiama o qualcosa del genere giusto? Scusa, non lo rileggo da molto»
«Si, è letteralmente “il mare ci richiama sempre a casa”. È ciò che Elrond dice ad Arwen quando devono partire. E comunque sì, non è quel tipo di libro che si presta alla lettura “come passatempo”»



BOOM.
 


Non so in che altri termini spiegarlo se non questo. Incredibile, davvero incredibile. Madonna, Cassandra, quanto ci avevi preso.

«TROVA DEL TEMPO PER ME», me ne uscii. Mi aveva totalmente conquistato, invaghito, catturato… in un modo che neanche avrei mai ritenuto possibile. Volevo vederla, adesso più che mai. Volevo coronare quel momento, concretizzarlo e raccontarlo ai posteri come “quell’attimo in cui avevo conosciuto LA persona della vita”, quell’attimo in cui mi aveva chiuso nella sua morsa e io non avevo fatto niente se non crogiolarmici dentro, trovandola la cosa più comoda, confortevole e naturale del mondo. Incredibile, davvero incredibile.

In risposta mi raccontò dei giochi da bambina, del Monte Fato che altro non era se non una dolce collinetta che tuttora rappresentava uno dei suoi luoghi preferiti nel mondo, nella quale anche lei poté prender parte alle grandi battaglie della terza era. Mi raccontò di come lo aveva letto la prima volta, il Signore degli Anelli, attraverso gli occhi di suo padre, il quale, accompagnandola a scuola alle elementari, mentre camminavano, le raccontava delle pagine in cui si era imbattuto la sera precedente prima di appisolarsi.


«Io piansi, quando vidi per la prima volta Il ritorno del Re, al cinema. Mi travolse completamente; sarà che ero piccolo, ma ha rivoluzionato il mio modo di vedere le cose. Anch’oggi mi emoziona e commuove in una maniera non comparabile a nient’altro»

«Io piango ogni volta. Senza vergogna o ritegno, per altro. Il discorso struggente di Sam in ricordo della contea, le aquile… come può una persona restare indifferente a cotanta meraviglia? Te lo dico io. È molto semplice: non può; ed è giusto così», sospirò e riprese: «Ma poi sono così invaghita e presa, che ho visto infinite volte ciascuno dei dischi dedicati ai contenuti speciali, tanto per non averne mai abbastanza e interfacciarmi appieno con tutto ciò che riguarda quel mondo. Penserai che forse sono un po’ esagerata, ops» Era ufficiale: non sarei potuto sopravvivere a tutto questo.


«Aaah», sospirai rumorosamente all’inizio dell’audio che le stavo mandando, quasi come per liberarmi di un po’ di quelle sensazioni che mi stavano pervadendo e che palesemente non stavo riuscendo a controllare o gestire, «Io… Io, pff… Attaccato al letto della camera a Roma ho l’anello, l’unico anello. Tipo come una presenza, un simbolo che vegli su di me ogni giorno. Ho tutti i cofanetti e quando sono usciti gli ultimi, con una versione dei film ancor più lunga, ho preso pure quelli. E li ho guardati, un numero inquantificabile di volte. Ho letto tutto ciò che potevo leggere e sto cercando di terminare I racconti perduti. Difficile, eh, però: tanto materiale»

Presi una pausa, fu doveroso: assolutamente necessaria per non implodere: «Ti capisco. Ti capisco perfettamente, in un modo che non avrei neanche mai ritenuto possibile. E basta: mi hai proprio conquistato. Non posso aggiungere altro. Non so, ti vengo a fare la serenata sotto casa, mi metto a suonare il flauto, il mandolino, ti procuro dell’erba pipa... Dimmi cosa posso fare per riuscire a farmi concedere un poco del tuo tempo, te ne prego»


«Quel sospiro iniziale… è tipo…», non terminò la frase. Rimase sospesa lì, nei meandri di una conversazione fatta di sguardi e gestualità, sebbene in assenza della condivisione letterale degli spazi, anche perché quello che stavamo condividendo in quel momento non vi sarebbe neanche potuto entrare.

«Ti è piaciuto eh? Era fatto più o meno consapevolmente. Perché… Boh, cioè… Non potevo, non… Aaaah, scusa. Dai, Annie, dai…», bene: ero pure arrivato ad un livello tale di coinvolgimento stile “adolescente alle prese con la prima cotta” da non riuscire neanche a formulare una frase con senso. Perfetto. Bravo Max, cosa mai ci saremmo potuti aspettare dai tuoi ventisei anni…

 

Sorrise, me lo sentivo, sorrise di fronte al mio essere completamente impacciato. «Eh, io, come ti dicevo, non sono in grado di darti garanzie, purtroppo». Non riuscivo a non pensare ai giorni precedenti: alla sua indecisione, al suo starsene sulle sue, al non esporsi, al rifiutarmi malamente; non riuscivo a non pensare a Cass, a quanto sospettavo che quella volta l’avesse fatta fuori dal vaso. E invece…
Eppure, quel purtroppo era tutto: per la prima volta, dal poco, ma intenso tempo che ci conoscevamo, aveva esplicitato un rammarico all’idea che effettivamente potessimo non vederci. In fondo, era ben più che probabile che anche lei desiderasse ciò che desideravo anche io.

E allora esplicitai questo tipo di pensieri, nel marasma dovuto a questa nuova consapevolezza che mi aveva fatto acquisire una sicurezza di cui non disponevo fino a quel preciso momento: «Sai, cara, ho il presentimento che tu adesso abbia cambiato idea. Sai perché? Perché ti ho fatto vedere il mio lato un po’ più nerd. E questa cosa ti è piaciuta. Altroché se ti è piaciuta, capito? Ti è piaciuta…», terminai sussurrando tra me e me, più rivolgendomi a lei.


L’avevo messa in un angolo, angolo poi non così claustrofobico: «Boh, sì. Alla fine, mi piacciono le persone nerd, le persone che ascoltano buona musica – o quella che io ritengo tale – e sì: mi è piaciuto. Per il modo di parlare, per le tue idee politiche – che vogliono pur sempre dire molto su una persona –, per come hai messo in luce le tue emozioni… Buono per te, direi, no?», buttò fuori di getto. Parlando velocemente e mangiandosi qualche parola nella frenesia. Mi fece tenerezza e al contempo mi sbalordii per la sincerità che mi dimostrò.



           L’ultimo messaggio lo inviai esattamente alle 4.08 del mattino: non lo vide, probabilmente era pian piano collassata. Come biasimarla, aveva pure un po’ di febbre e ciò nonostante era stata fino a quel momento a dialogare con me di tutte le stronzate che ci venivano in mente. Ammirevole, e sicuramente sintomatico del fatto che anche da parte sua, ormai, ci fosse un lampante interesse.

Mi sono sempre domandato, nella vita, come si potesse invaghirsi velocemente di qualcuno: non mi era mai successo. Di norma, infatti, la profondità e la sintonia che in qualche modo – per quanto in parte superficiale ed infondata – avevo percepito nel parlare con lei era qualcosa che cresceva nel tempo dilatato: non l’avevo mai provata di colpo, dal giorno alla notte. Eppure, era lì. E io non volevo fare altro se non abbracciarla e farla mia: non volevo neanche concepire l’ipotesi per la quale non avremmo potuto incontrarci e mi fossi fatto sfuggire l’opportunità di vivere appieno questa cosa.


La mattina dopo, a entrambi spettavano importanti appuntamenti, quindi non ci sentimmo fino al primo pomeriggio, momento in cui le chiesi come fosse andato il colloquio col professore a cui si era dimenticata di inviare parte del suo esame – benché l’avesse svolto – entro la scadenza; lei di rimando mi domandò se allora avessi dovuto cambiare occhiali dopo la visita. La mia risposta era positiva, mio malgrado, sarei andato subito a cambiare la montatura.


Alle dieci di sera le domandai a che punto fosse della sua importante riunione serale: «Eh, sono ancora qua: abbiamo chiaramente iniziato in ritardo, ed io non ho neanche cenato dopo il mio allenamento. Non so quanto durerà e sto tipo malissimo: ho un martello al posto della testa, vorrei strapparmela di dosso», sorrisi amaramente, dispiaciuto per la sua situazione e dispiaciuto perché quel tipo di risposta mi faceva prevedere l’ennesima buca. Non lo avrei accettato.

«Dai, ti porto io del moment, giuro, tutto pur di non farmi balzare di nuovo, domani parto...»
 «Eheh», rise un poco, «non credo di avere la forza nemmeno per fare due chiacchiere sui gradini di casa», terminò con uno strano tono, che non riuscii davvero a comprendere.

«Va bene», la assecondai, arrendendomi alla sua indecisione. Ne rimase spiacevolmente colpita, presumo.
 «A parte tutto, comunque, le circostanze in cui ci siamo incontrati non sono delle migliori. Tu che torni a Padova negli stessi periodi in cui di solito io torno a casa; adesso che siamo quindi insieme, ma io sono oberata dagli impegni… Non siamo proprio le persone più fortunate del mondo», quanta verità in quelle brevi frasi. Chissà, se ci fossimo conosciuti in frangenti differenti.


«Potrei anche dirti: "vieni qua sotto casa", giusto per fare un po’ di chiacchiere, ma nella consapevolezza che sarebbero davvero soltanto quello e che non ti chiederò di salire. In più, sappi che se tocco il letto muoio: sono arrivata a stare così male che non riesco nemmeno più a fumare, praticamente»

«Non fumerò, prometto che non fumo»

«Non fumerai? Non sarebbe un problema, non preoccuparti»

«Il moment quanto mi uccide lo stomaco se lo prendo senza aver mangiato prima?»

«Non troppo dai, il giusto»

«Ottimo direi. Guarda te a che punto sono arrivata. Mi salvi dal mal di testa, quando potrei semplicemente dormire, pff… cosa non si fa»

«Dai, suvvia, smetti di lamentarti: fra potrai godere di una compagnia a dir poco fantastica»

«Eh, se non mi addormento prima»

«Non ci provare. Salgo in bici e mi faccio i chilometri per te»

«Uhm… I chilometri, non prendermi in giro»

«Sono ben tre»

«Pensa, la stessa distanza che mi separa ogni mattina dalla facoltà»

«Ah, peccato, pensavo fosse la distanza che avevi messo tra te e il tuo letto. A cui, ribadisco, non ti devi avvicinare nemmeno per sbaglio»

«Tranquillo, mi sono messa nella posizione più scomoda del mondo, sdraiata sul pavimento. Non sarebbe possibile addormentarmi»

«Beh, io nel dubbio sto volando lì. Giuro. Tra l’altro, se tu potessi offrirmi una felpa al mio arrivo sarebbe stratosferico, ché ormai sono partito e mi son reso conto che si è fatto freschino ed ho solo una t-shirt»
 Aveva fatto la sua mossa e, come mi ero ripromesso, avevo deciso di coglierla. Aumentai la velocità delle pedalate sulla mia bici malconcia e mi sentii leggero come non mai.



  

         Non mi ero mai soffermato troppo a osservare l’argine del Bassanello, il canale che, in parte, mi separava dalla mia destinazione. L’acqua era scura e rifletteva la luce della luna, in una limpidissima e quiete notte. Prima non avevo notato la presenza del vento, ma il movimento dell’aria dovuto al mio andare più veloce che potevo era effettivamente un po’ oltre al banale “rinfrescante”, come se fosse davvero un problema, quello.
 Figuriamoci, erano mesi che non mi sentivo così in fibrillazione, sinceramente eccitato all’idea, più di quanto avessi preventivato. Non sapevo cosa aspettarmi e questo di norma mi avrebbe spaventato, ma, arrivato a quel punto, non mi balenava neanche in testa quel timore. Io avevo visto, di questo ero certo con tutto me stesso e adesso stavo letteralmente fluttuando. Mi allietai a quella presa di coscienza.

 

Padova in settembre è qualcosa di affascinante: è il periodo in cui pian piano si poteva assistere al ritorno degli studenti che popolano la città e in cui i colori brillanti dell’estate lasciano spazio a quelli caldi dell’autunno. Non avevo mai creduto nella meteoropatia, ma in quella notte sarebbe stato tutto perfettamente percettibile pure agli occhi di un osservatore sconosciuto. Il cielo era terso: ancora vi si poteva ammirare il triangolo estivo che lo dominava, tra le altre costellazioni. La luna, calante, era l’unica fonte di chiarore realmente apprezzabile nei dintorni e creava un affascinante gioco di luci e ombre tra le foglie degli alberi.

Era silenziosa, quella serata nel bel mezzo della settimana, forse perché troppo rumoroso ero io e i miei pensieri. Mentre proseguivo la mia corsa sul mio possente mezzo, tentai invano di proteggermi dal freddo che stavo provando, inconsapevole del fatto che avrei dovuto proteggermi da ben altro.


In lontananza si riuscivano ad ammirare le cupole di Santa Giustina sulle quali rimbalzava la luce dei lampioni che governano Prato della Valle, la piazza più grande della città. Panorama che, nella sua semplicità, mi aveva strappato un sorriso tra un respiro e l’altro. Mandai un messaggio ad Annie invitandola a scendere, visto che ero praticamente giunto, poi svoltai nell’ultima via prima di arrivare a destinazione: una zona residenziale poco dietro Prato, zona in cui di solito si trovano più famiglie che studenti, e invece eccola là.




           Annie portava una gonna beige con sopra una fantasia di disegnetti rossi, neri e panna, una canottiera nera col pizzo, un felpone nero con zip aperta e delle birkenstock ai piedi. In mano aveva la felpa destinata a me. Nel vedermi si scostò una ciocca di capelli dal viso, abbassando un poco lo sguardo e portandola fin dietro l’orecchio. Aveva una lunga chioma castana scura con dei boccoli non troppo definiti, gli occhiali sul naso e un po’ di borse sotto gli occhi: tutta una serie di dettagli che mi fecero sorridere al pensiero che avesse scelto di non sistemarsi per l’incontro che la aspettava. Non come se non fosse abbastanza importante da farlo, bensì il contrario. Forse lo era così tanto da tenerci particolarmente ad essere apprezzata per quello che era in quel giorno: una ragazza un po’ stanca, appesantita, febbricitante che, nonostante tutto questo, aveva deciso di vedersi con uno sconosciuto, solo perché qualcosa era scattato tra loro. Volli credere fosse questo il ragionamento che si era ritrovata a compiere.


Premette il pulsante d’apertura del cancelletto del giardino, arrivò verso di me e me lo aprì aiutandomi, così facendo, ad appoggiare la bici dentro il cortiletto, la notai scrutarmi nel mentre, poi mi guardò: «Piacere, io sono Annie» e mi porse la mano.

Io le sorrisi di rimando: «Piacere, Max», gliela strinsi e sentii dei brividi percorrermi la schiena e le braccia e il corpo tutto.

«Cavolo, se non avessi lavato il telo giusto ieri, avremmo potuto metterci sull’erba in giardino. Invece dovremo accontentarci dei gradini», se ne uscì, mentre tirava fuori il tabacco.

La osservai stupito: aveva detto che avrebbe evitato, visto come stava, e lei se ne accorse: «Ho deciso che non posso escludere la nicotina dalla mia vita, soprattutto adesso», mi rispose come se mi avesse letto la mente, poi si abbassò e si sedette.


«Tieni. È la mia preferita, un grande onere ed onore, sappilo», aggiunse poi porgendomi una felpa bordeaux. La indossai subito e mi pervase un odore misto a detersivo al borotalco e profumo di lei.
«Grazie, non hai davvero idea di quanto tu mi stia salvando. Sono tipo… un polaretto! Maledetto settembre, quando di giorno ci sono ancora venticinque gradi e la sera cala fino a quindici! Come fa una persona a saper vivere? Mah», rise un po’. Mi abbassai e mi misi accanto a lei. «Non hai idea di come mi sento adesso. Sono arrivato qua velocissimo. È davvero stranissimo. Non riesco a descriverlo a parole. Senti», le presi la mano e me la misi sul petto, per farle sentire quanto il mio battito fosse accelerato in quel momento, restando vago sulle ragioni di tale agitazione.

Annie mi fissò un attimo negli occhi, quasi a capire se le sue intuizioni rispetto alla mia affermazione fossero giuste: erano sicuramente giustissime. Cosa sono tre chilometri in dieci minuti? Niente che giustifichi l’accelerazione eccessiva del mio cuore.


Era un po’ in ansia, dopo aver chiuso la sua sigaretta passando delicatamente la lingua sulla cartina, la accese e aspirò. «Che pensi?», mi venne spontaneo chiederle.

«Non lo so. In che senso che penso? Che penso di cosa?»

«Che pensi in questo preciso istante, di me, della situazione, di tutto», cercai di chiarire.
Si girò e si guardò intorno pensante: «Alla fine hai fatto cambiare subito la montatura, giusto? Mi piacciono questi tuoi nuovi occhiali»

«Oh, primo scoglio superato. Sei la prima persona, a parte mia madre, che mi vede in questa veste. E l’opinione della mamma non conta davvero in certi casi, ti pare?»

«Li trovo un’ottima scelta, ti stanno bene. E comunque non sei l’unico a stare in quella situazione, sai?», mi rincuorò facendo un cenno col capo in direzione del mio petto e arrossendo leggermente, mentre si torturava il dito in cui portava un anello. Era palese quanto non si sentisse troppo a suo agio all’interno di quella situazione, allora decisi di parlare di qualcosa che le consentisse di sentirsi tranquilla e al sicuro, così che smettesse di preoccuparsi di avere il controllo su tutto ciò che la circondava e su quello che stava provando.



           Parlammo tantissimo, esattamente come avevamo fatto nei giorni precedenti, ormai era quasi l’una di notte. Subito rimasi coinvolto e colpito dalla sguaiatezza della sua risata, quella spontanea e reale che le prendeva quando sparavo una delle mie cazzate; e fui fin da subito lieto di riuscire a farla ridere con cotanta serenità.
 «Sai, non prendertela, ma è proprio divertente l’espressione che si forma sulla tua faccia quando ridi così», la presi in giro un po’, strizzandole un pochetto la guancia così come si fa coi bambini, le mi lanciò uno sguardo torvo più per questo gesto che non per l’uscita che le avevo fatto.

«Sai, da piccola ero costantemente circondata da persone che quando mi conoscevano si ritrovavano davanti una bambina col viso paffuto e queste guance immense: una calamita per tutte quelle mani. Ma vedi, il fatto è che… La mia pelle non è elastica, tipo… Non lo è affatto. Eppure, le persone non parevano capirlo e continuavano a stringerle. Le odio tutte. Però tu lo hai fatto con delicatezza, apprezzabile», mi sorrise di nuovo e allora fui io ad essere spiazzato e segretamente felice per questa sua ammissione.


Mi alzai di scatto e mi parai davanti a lei, abbassandomi poi alla sua altezza e prendendole le mani; Annie ne fu sorpresa: «Ti prego, ti prego: hai voglia di farmi un massaggio? Tipo qua tra spalle e collo, che ci ho preso tutto il vento venendo in qua… me lo devi», la supplicai indicandole il punto preciso.

«Ahaha, posso farlo se e solo se poi contraccambi»

«Andata»
«Dimmi se qualcosa non ti torna, se premo troppo o troppo poco e dove ti fa male più precisamente», disse spostandosi sul gradino più alto e permettendomi si sedermi tra le sue gambe divaricate, iniziando poi a massaggiare il trapezio.

«Va benissimo, è la cosa più rilassante del mondo», e mi lasciai cullare per dieci minuti dalle sue mani calde sulla mia pelle. Sapeva decisamente dove andare a toccare: quali sono i punti in cui spesso si formano le contratture e come fare a scioglierle o alleviare il dolore. Passò pian piano al collo e alle orecchie alla testa, che toccava delicatamente, provocandomi dei brividi. Ero totalmente assorto.


«Sai, anni e anni di sedute dal fisioterapista dovranno pur avermi lasciato qualcosa!», mi disse risvegliandomi dal mio stato di trance.

Rimanemmo così: con lei che metteva le mani tra i miei riccioli facendo movimenti circolari con le dita e io che stavo trovando la pace dei sensi; avrei potuto addormentarmi tra le sue braccia, tanto era naturale quel momento che stavamo vivendo. Io, quasi a cercare di contraccambiare quella rilassatezza che mi stava concedendo mi appoggiai con i gomiti sulle sue ginocchia e con le mani iniziai a fare quei medesimi movimenti impercettibili lungo le sue gambe.

Benché le dessi le spalle e non potessi vederla, percepii il suo desiderio di ritrarsi, che si palesò con lei che per qualche secondo interruppe il gesto a cui mi stava abituando. Non volevo metterla a disagio col mio tocco, ma semplicemente partecipare attivamente a quell’interazione che ci stava legando.

«Cosa ti spaventa?», le domandai continuando a sfiorarla sul polpaccio.


Si ritrasse definitivamente: «Io non… Non so. Quello che sento, probabilmente. Mi spaventa il fatto che non mi senta pronta a questo tipo di sensazioni… eppure sono qui»

«Sappi che non ho la benché minima intenzione di fare una qualsiasi cosa che possa metterti a disagio. Solo… è un bel momento questo, no? Non averne timore», mi girai a guardarla con la coda dell’occhio, «Dai, scambiamoci. Ti restituisco il favore», decisi per cercare di spezzare e limitare quel suo allontanarsi emotivamente da me.

Si alzò e spostò davanti, si mise giù, le gambe distese e le spalle un po’ crucciate in avanti, continuando in quella sua chiusura. Non lo avrei accettato.


«Per farti fare un massaggio minimamente decente, mia cara, dovrai stare molto più dritta e rilassata rispetto a come sei adesso, sappilo», allora le puntai una mano nella parte alta della schiena, proprio al centro, e con l’altra le portai indietro una spalla, per farle capire il movimento, che imitò con l’altra.
 Sbuffò di soppiatto ridendo un poco.

«Ora devi lasciarti stare tra le mie mani. Se rimani sostenuta rischio soltanto di provocarti ulteriore dolore, pallavolista rotta»

«Ok, amico. Sia mai di peggiorare la situazione del mio corpo, che è già abbastanza a puttane»
E allora e solo allora, si lascio andare. Le legai i capelli in malo modo, onde evitare di tirarglieli per sbaglio, e cominciai. Trovai sbalorditivo quanto il suo corpo rispecchiasse perfettamente il suo modo di essere: era tirata, contratta, rigida; inconsciamente, di tanto in tanto, si opponeva a quel massaggio confortevole che mi accingevo a procurarle, ma quando si dava l’opportunità di goderselo, permetteva al suo corpo di muoversi in simbiosi col mio tocco, andando a creare una danza di rilassatezza di cui palesemente aveva bisogno.

«Non so che tipo di impressioni avresti di me se solo tu potessi vedere la mia faccia in questo momento», iniziò a ragionare ad alta voce.

«Perché?»
«Oh, beh… perché credo stia oscillando tra l’"oh mio dio ora mi addormento da quanto sto bene" e tutta una serie di smorfie facciali legate alla sofferenza»

«Oh, no! Ma tu fammelo presente se premo troppo e ti faccio male!», rallentai preoccupato.
«No, figurati, cioè: è un tipo di dolore che mi fa stare bene. Continua tipo all’infinito, tipo in eterno, tipo sempre, te ne prego! Sono drogata di massaggi!», mi rassicurò ridendo; e come richiedeva, così feci.

Pian piano che proseguivo, involontariamente, avevo iniziato ad avvicinarmi sempre più a lei, spostando il mio busto in avanti. Avevo potuto sentire il suo respiro stabilizzarsi e farsi lento, sintomo del fatto che si stesse effettivamente abbandonando. Fui ammaliato dalla consapevolezza dell’effetto che stavo avendo ed anche un po’ agitato all’idea che di nuovo si allontanasse da me se avesse scoperto la mia vicinanza, che non era soltanto fisica, bensì emotiva… soprattutto emotiva.

Le tolsi l’elastico, quasi per avvertirla che di lì a poco avrei terminato col mio lavoro, e iniziai a trillarle i capelli, seguendo le onde dei suoi boccoli, come aveva fatto lei coi miei. Parve apprezzare quel mio gesto e, nella timidezza, strinse un po’ le spalle, incrociò le braccia ed iniziò a strusciare le mani tra il collo e la clavicola. Poi lasciò la testa cadere all’indietro, fino ad appoggiarla al mio petto, non troppo distante dal mio mento.

Rimanemmo in quella posizione, taciti, per qualche minuto. Non avevo mai ascoltato così tanto in così poco rumore; davvero: tuttora, trovo stupefacente quanto fossimo a nostro agio l’uno con l’altra. Avevamo una sintonia ed una tensione che, sono sicuro, avrebbe potuto essere percepita anche dall’esterno da noi. Stavamo lasciando incontrare il flusso delle nostre emozioni, che si muoveva al ritmo concesso dai soli nostri respiri.
«Domani devo tornare a Roma», affermai amareggiato. Se solo non mi avesse dato buca tutte quelle volte, se non avessimo aspettato la mia ultima notte in città per vederci, se Cass me l’avesse presentata prima, se solo le circostanze fossero state almeno un poco più clementi con noi… «Non voglio invadere i tuoi spazi, li rispetterei, qualora non volessi rispondermi, ma… Perché non hai accettato subito? Di cosa avevi paura?»
«Di cosa, chiedi? Di tutto, ovviamente. Avevo solo il timore di non piacerti, ho sempre il timore di non piacere»
«Ma tu hai una gigantografia di Star Wars, ascolti musica che piace anche a me, sei di sinistra – fermamente convinta, tra l’altro – e ti fai guidare dal Maestro Tolkien nella vita… Potevi essere pure un porcellino d’india incapace di proferire parola: ormai mi avevi già catturato!», sdrammatizzai, cercando di non prendermi comunque gioco delle sue insicurezze e cercando di rassicurarla.

«Beh e “questo” a te non ha spaventato da morire?», chiese indicando se stessa e poi me.
«Assolutamente, ma solo perché so della mia imminente partenza»


Allungò il braccio all’indietro, riprendendo a toccarmi i capelli con la mano, mano che presi e che portai sulla mia guancia, perché sentivo che si era creata una confidenza tale da poterlo permettere, e mi ci strofinai leggermente. Gliela baciai, prima che sfuggisse dalla mia presa. Poi strinsi a me il suo corpo, respirando il profumo dei suoi capelli. Sapevano di cocco e qualche olio che non ero stato capace di distinguere: «Che prodotti usi per i capelli?»

Mosse la testa ed accennò un gesto con la mano, come per chiedersi il perché di quel tipo di domanda in quel momento, ciò nonostante mi rispose: «Attualmente uno shampoo all’olio di mandorla e un balsamo al cocco. Sono tipo i miei preferiti: mi lasciano i capelli morbidi. Speciali. Perché?»

«Volevo solo avere la chance di ricordarlo»




           Sarei voluto restare in quel modo ancora a lungo, con lei appollaiata tra le mie gambe e io che avevo l’opportunità di godere della sua presenza.

Continuammo a parlare ancora per qualche ora, toccando ogni argomento possibile e sorprendendoci a vicenda per la vicinanza del nostro modo di vedere la vita e il mondo, per la vicinanza dei nostri pensieri e per quella delle nostre emozioni. Poi si fecero le cinque e realizzai di dover dormire almeno sei ore prima di poter affrontare il viaggio.


Tergiversai per un’altra ventina di minuti, ma anche lei aveva percepito che era il momento: «Non ti tratterrò più a lungo di così. Vedo che vuoi restare, ma sai di non poterlo fare. Quindi smetti di sparare una cagata dietro l’altra per continuare a stare qua a ridere e scherzare», la guardai un po’ torvo per il modo schietto con cui mi aveva parlato, «Dai, non sto dicendo che non vorrei che tu restassi, ma solo che mi hai informata del fatto di dover andare a lavoro appena giunto a Roma e so del disagio di affrontare i viaggi con Trenitalia con la morte addosso!», fece una pausa, «Magari il tempo di un’ultima cicca? D’altronde, la cicca della buonanotte è d’obbligo, ti pare?!»

Le sorrisi e annuii: «Ovvio, la cicca della buonanotte non si nega a nessuno, sarebbe proprio maleducato da parte mia e io non vorrei mai esser considerato tale»


 Passammo quegli ultimi minuti che avevamo a disposizione a parlare del “domani” che ci aspettava, quello imminente e quello futuro, evitando di domandarci a vicenda come vi avremmo inserito quel “noi” che avevamo creato. Non so se valesse anche per lei – dopo quella sera ho sempre presunto di sì –, ma io me lo domandai interiormente per tutto il tempo restante. Poi il tempo scadde e noi non ne avevamo più a disposizione da concederci vicendevolmente.

«Max… è stato davvero un piacere», corrucciò le labbra mentre mi osservava, annuendo impercettibilmente, a conferma di ciò che stava asserendo.

«Giuro che mi farò perdonare per la mia partenza di domani»

«E io per non aver acconsentito a vederti una settimana fa, quando me lo avevi domandato per la prima volta, ma ormai è inutile dispiacersene», e a quel punto fu lei ad abbracciarmi e stringermi e farmi sentire il calore della sua pelle e del suo cuore… e io… ormai avevo preso il volo già da qualche ora, chissà se sarei anche stato capace di atterrare poi.


Mi staccai a quel pensiero e le diedi un bacio sulla fronte, Annie di tutta risposta mi accarezzò la guancia coperta da un po’ di barba. Ci fissammo di nuovo negli occhi: c’era un bacio sospeso nell’aria. Sicuramente entrambi lo sentimmo, sicuramente nessuno dei due aveva avuto il coraggio di permettere all’altro di coglierlo. Ne abbiamo impedito il suo naturale concretizzarsi. Allora, le strinsi di nuovo, ma ancor più dolcemente, la guancia con le dita, ridendo un po’. Raccolsi il mio tabacco da terra, recuperai la mia bici e uscii dal cancelletto.

Annie mi aveva guardato in ognuna di quelle azioni e mi guardava anche in quel momento, mentre mi accingevo a sedermi sul sellino, pronto alla partenza, la sua mano posata sulla guancia con la quale avevo appena giocato: «Ciao», mimò con le labbra, senza che le uscisse alcun tipo di suono, e con quella stessa mano accennò un saluto. Sorrisi ancora e le feci un cenno col capo incrociando il suo sguardo, un po’ più vuoto di prima, sperando di farle arrivare nitide le mie emozioni, poi mi voltai e tornai sulla via di casa.




           Sono passati due anni da quella sera. Non ho mai restituito ad Annie la sua felpa preferita, che mi sono dimenticato di togliere prima di partire e che lei aveva dimenticato di richiedermi.

Quella felpa l’ho persa, tanto tempo fa, esattamente come ho perso la possibilità di avere Annie nella mia vita in un modo meno effimero di quello che abbiamo avuto. Non l’ho più vista o più sentita: quella luna calante era tramontata innumerevoli volte ed aveva dato spazio a tante nuove lune. Di tanto in tanto la penso, sicuro che valga lo stesso per lei, e ogni volta che lo faccio mi rinnamoro di ciò che un pomeriggio ed una notte siamo stati.

Ci siamo persi, noi due… Persi in noi stessi, negli altri, nell’altro. Non c’era spazio per la reciproca presenza nelle rispettive vite, perché noi quello spazio abbiamo deciso di non concedercelo. Non c’era tempo, non c’era occasione.
Eppure, abbiamo avuto tutto: abbiamo percepito ed assaporato un’intensità rara e preziosa. Ci siamo cristallizzati al di sopra delle nostre vite e delle nostre realtà, elevandoci laddove ogni eventualità è possibile e percorribile… e siamo stati perfetti.


Non abbiamo condiviso nulla, ma al contempo abbiamo condiviso tutto: benché la quotidianità e le circostanze entro le quali ci siamo mossi abbiano avuto un peso tale per cui siamo stati eterni solo in quell’attimo circoscritto, noi in quello stesso attimo siamo un “per sempre” che niente potrà mai spezzare.
Alle volte mi capita di sentire odore di cocco o olio di mandorla e, in quel momento, di domandarmi come saremmo potuti evolvere, quanto più profondamente avremmo potuto impararci, quanto saremmo stati adatti l’uno all’altra. Eppure, al di là dei “non detti” e della precarietà della conoscenza che avevamo potuto apprendere, io l’ho sentito quel fuoco dentro, quelle farfalle nello stomaco, quella tensione emotiva e sessuale che mi ha tenuto scombussolato per una serie innumerevole di giorni.


Ed allora continuiamo ad esser lì, consapevoli di poter contare sempre sul ricordo di quelle sensazioni creatrici di un amore e una passione nei confronti delle sfaccettature della vita che mi muove tutt’oggi. Continuiamo ad esser lì, a fluttuare nel marasma delle eventualità che non abbiamo percorso, delle scelte che non abbiamo compiuto, a metà tra il rimpianto delle occasioni perdute e la speranza di quelle che così facendo abbiamo potuto accogliere.

E là, in quella trepidezza, ci siamo dispiegati e placati ed abbiamo trovato la nostra serenità.





  

LOOK AT ME!
Allora, qualche premessa che a questo punto appare doverosa:
1. Tutti questi racconti parleranno d'amore;
2. Non tutti ne parleranno in quest'accezione per lo più da luogo comune.
In generale, infatti, saranno molto più rivolti all'amore per la vita, alla “stupefacenza” della vita.
Ci tenevo a fare questo tipo di specificazione perché non vorrei che questa raccolta venisse inconsciamente inserita nel calderone delle "storie romantiche" (sempre nell'accezione di cui parlavo prima, obv), perché non nascono per essere inserite lì, ecco.
Detto ciò, spero che la lettura sia stata piacevole. Finalmente sono riuscita a terminare questo racconto che era solo abbozzato da molto molto tempo.
Come al solito, mi farebbe davvero piacere ricevere opinioni, spunti, critiche :)

Alla prossima,

 Bongi

 

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Capitolo 3
*** Yashal ***


LOOK AT ME!

Stavolta le note saranno prima del racconto, ritengo, infatti, siano necessarie alcune specificazioni.

EDIT: Innanzitutto, ho cambiato il raiting della raccolta in ARANCIONE perché si parla di disturbo del comportamento alimentare, in particolare in relazione all'obesità e, solo marginalmente, alla bulimia e all'anoressia.

Non ci sono dettagli particolarmente approfonditi rispetto ai modi attraverso cui si può affrontare e vivere tale condizione, ma credo fosse giusto fare questa specifica, visto che può comunque minare in qualche modo la serenità di coloro che sono più sensibili alle tematiche trattate - essendo che tutto ciò che è descritto credo sia assolutamente realistico.

Per rispetto di tutti, dunque, era giusto così.

 

Ho trattato un tema che, per una serie di motivi disparati, mi sta a cuore, spero di averlo espresso con la profondità e la complessità che merita.

Questo racconto è differente: è uno dei due effettivamente più introspettivi, ed è privo di dialoghi.

Ho voluto scriverlo perché recentemente mi sono imbattuta nel tema dell’“Identità corporea” ed ho voluto, dopo tutte quelle nuove conoscenze apprese, immaginarlo in un modo più reale e tangibile – rispetto a come viene spiegato in manuali, saggi o paper. 

Nel caso in cui qualcuno volesse approfondire il tema, ci sono una serie di saggi, nella corrente dell’Interazionismo Simbolico, che ritengo essere non solo molto interessanti, ma anche necessari per capire quanto sia profondo il legame tra la costruzione dell’identità personale e “l’altro da noi” e quanto un individuo e la sua socialità siano all’interno di un’interazione e un’influenza continua.
  Spero apprezziate questo scritto nella sua diversità.

 

Oltre ciò, volevo davvero ringraziare tutti coloro che sono passati da qua, che hanno lasciato una recensione, messo la raccolta tra le seguite, ricordate o preferite o chi semplicemente ha letto. Mi scaldate il cuore.

Spero di riuscire, prima o poi, a rispondere ad ognuno di voi, ad ora sto avendo difficoltà a farlo, motivo per cui sto scrivendo qua: grazie, grazie davvero.

 

Un altro ringraziamento speciale agli Offlaga Disco Pax e Max Collini, che con le sue parole mi ha stimolata nella stesura e revisione di quanto trovate sotto.

 

 

 

 

 

YASHAL

 

 

 

A te,

 perché non ti sei mai apprezzata abbastanza.

A te,

perché finalmente tu possa capire di andare bene, 

anche così,

anche sempre.

 

 

Estel: il nome che, secondo quanto narrato dal maestro Tolkien, gli elfi di Gran Burrone diedero ad Aragorn, ultimo legittimo erede di Isildur. Lo chiamarono Estel, che nell’antico elfico significava Speranza, l’unica rimastagli al fine di sconfiggere il signore del male di Mordor. 

Oggi vi presento Yashal, figlia del sole e amante della vita. Oggi, come ieri, come sempre, la speranza vive in lei: colonna portante di se stessa, luce in un'esistenza intera. Oggi vi presento Yashal e questo sarà un manifesto e una denuncia del suo vissuto, oltreché il più grande augurio che posso porgerle.

Esso non ha esplicite pretese, è unicamente la vana rappresentazione di quello che ha appreso, incanalato e fatto suo; è la rappresentazione di ciò che ha sempre sentito di essere, di quello che è e di quello che cerca di diventare. 

 

 

 

            Ebbene, vi è mai capitato di sentirvi bloccati? Di desiderare di uscire dai propri schemi? Di cercare risposte alternative alle medesime persistenti, insistenti e disarmanti domande? Vi è mai capitato di provare con tutta la forza e la volontà di cui disponete ad affacciarvi ad una finestra, al decimo piano di un palazzo, e lì provare a guardare in giù, e in lungo e largo, al solo ed unico scopo di godere del panorama nonostante le vertigini che da sempre vi affliggono, e, malgrado ciò, restare bloccati ben lontani dal vetro? Troppo distanti per ammirare, troppo vicini per non avvertire il pericolo e per non sentirvi al sicuro? Sono sicura di sì: d’altronde, in quanto individui, ognuno si sarà, almeno una volta nella vita, precluso una possibilità a causa del timore di ciò che sarebbe stato probabile incontrare al di là di quel vetro.

Ma è più che questo, vero?

 

Già. 

 

Pensate a questo, e poi elevatelo alla potenza, elevatelo al numero più alto che conoscente. E ripetetelo una volta ed una volta ancora. Ripetetelo. Ripetetelo. Ripetetelo. Ripetetelo.

Ripetetelo finché quel timore non sarà scomparso; ripetetelo finché quel desiderio non sarà scomparso, o quella forza, o quella volontà… o semplicemente il ricordo di tutto questo. Ripetetelo finché non avrete unicamente assimilato il gesto di ritrarvi e dimenticato ogni altra eventualità e sarete troppo chiusi, troppo distanti da tutto il mondo che si apre intorno a voi per poter compiere una qualsiasi azione che abbia come direzione la vostra serenità. 

Questo è, espresso malamente, ciò che Yashal ha lasciato le accadesse. 

E a chi poteva attribuirne la colpa? A se stessa? Alla società? Alle persone che ha incontrato? Alle esperienze che ha vissuto? Ai principi masochisti che governano questo mondo? È difficile. È sempre troppo difficile.

 

 

 

            Le scuole medie erano quel luogo meraviglioso in cui la propria esistenza, in modo o nell’altro, avrebbe necessariamente e indiscutibilmente preso una svolta. 

In qualche modo, Yashal, a ripensarci adesso, aveva il sentore di aver dimenticato ogni tipo di emozione o sensazione provata in quel periodo, come se non fossero mai appartenute a lei, ma non la memoria del fatto che qualcosa, in ogni caso, ci sia stato. E quelle emozioni sono lì, stampate nella sua mente, proprio come un film, proprio come se le guardasse dall’esterno, proprio come se fossero state vissute da qualcun altro; ma non era qualcun altro: era lei. 

Quello che oggi le balena in testa è esattamente il ricordo di quel fremito, quel misto di eccitazione ed agitazione legato al fatto che finalmente lei ed i suoi amici iniziavano a diventare grandi. 

 

Il colore del suo primo anno alle scuole medie era sicuramente un giallo. Un giallo per la vividezza, per la voglia di esprimersi e di voler intraprendere un nuovo percorso, nell’inconscia consapevolezza che irrimediabilmente ne sarebbe stata mutata.

Le prime cotte per quelli che erano ancora bambini come ancora era lei; gli smalti, l’ombretto, il rossetto… era solo la più classica delle ragazzine. Eppure, le medie erano anche gli anni della ribellione, delle scoperte, delle sigarette, del punk. Tutto era così impetuosamente e voracemente punk, senza che nessuno sapesse cosa punk volesse significare. 

Ci sono state tante nuove esperienze in quegli anni, così delicati e particolari, chissà quante cose le sarebbero potute andare diversamente.

 

Ma torniamo a noi: questo sarà il suo manifesto. 

Un manifesto per lei stessa e per tutti coloro che si sono sentiti allo stesso modo, non perché lo volessero, non perché ci si sentissero, ma solo perché qualcuno aveva calato su ognuno di essi dei significati che non gli appartenevano, ma che gli sono appartenuti.

Questa è la mia denuncia, il mio invito e la mia più grande speranza, Estel… per tutti quelli che non erano abbastanza forti o che avevano dovuto impiegare le loro forze in altro; per quelli che, così facendo, si sono lasciati sfuggire dei dettagli che non ritenevano sufficientemente rilevanti e che, malgrado ciò, col passare degli anni, sono diventati il tutto.

 

            

 

            Yashal ricorda ancora perfettamente quella volta, quando ancora era in prima media, in cui entrò in camera dei suoi genitori e, quasi per curiosità, salì su quell’artificio definito bilancia. Segnava circa cinquantacinque chili. Ebbene, a quanto pare, una ragazzina di undici anni non poteva pesare così tanto a una così ridotta età, le spiegò suo padre quella volta. Non contava il nuovo sport che aveva appena iniziato a fare e che stava modificando la sua muscolatura, o il fatto che di lì a un anno sarebbe alzata di ben dieci centimetri e che, sempre nello stesso arco di tempo, avrebbe avuto la prima mestruazione – e, quindi, un radicale cambiamento nel suo metabolismo.

 

Ma forse sono solo scuse, forse sono sempre e solo scuse, queste. Magari è vero, che non era normale. Ma normale per chi, poi? Per cosa? Ah, sì… i canoni. 

Quei canoni a cui, in quanto individui, ognuno deve sottostare; quei canoni che, creati non si sa bene in quale modo o da chi – la maggioranza, la massa, la società –, inevitabilmente governano ciascun essere umano; quei canoni che ognuno deve silenziosamente subire e soddisfare.

Gli stessi canoni che eliminano tutto ciò che fuoriesce dai propri limiti e lo isolano; lo ostracizzano in malo modo, lo stigmatizzano… e non chiedono mai scusa. 

E noi, poveri pazzi, semplicemente li lasciamo fare; non ci opponiamo, non li rifiutiamo. Questo è il peggior errore che un essere umano possa ritrovarsi a compiere e ne siamo pure consapevoli – ne siamo ben consapevoli –, ma nonostante ciò continuiamo a commetterlo ancora, e ancora, e ancora.

 

In ogni caso no: non fu quell’uscita ad incatenarla infelicemente a tutti i suoi “perché?”; bensì, furono tutte quelle successive proveniente da varie persone che si era ritrovata ad avere intorno.

Come scusa? C’è bisogno di maggior contesto?

Assolutamente, ritengo sia necessario.

 

 

 

            Yashal era in seconda media, circa a metà anno. Era un po’ che le cose non le andavano esattamente nel migliore dei modi e si era pure illusa che ci fosse la vaga possibilità di risolverle. 

Non fu così: i suoi genitori presero la scelta più saggia che potessero prendere due esseri umani. Il loro rapporto era terminato, il loro matrimonio finito, restavano solo loro. 

No, non fu neanche questo a bloccarla. Li odiò, forse, incapace di capirli, per molto tempo. Poi finalmente comprese: era la cosa migliore che potessero fare, nonché l’unica con senso logico e cognizione, dopo esser giunti alla consapevolezza che non esisteva rimedio alle loro divergenze.

 

Il mondo non sempre era bello e poteva far male, e ferire; fu la prima volta che se ne accorse. Però, in senso lato, andava bene così: non era un problema, non era mai stato un problema.

Magari fu l’istinto di sopravvivenza, quell’istinto a cui vengono affibbiati tutti quei comportamenti che si ha paura di spiegare: forse aveva canalizzato tutto ciò che poteva trovare dentro sé verso un unico scopo – quello di proteggerla dal dolore – al fine di smettere di odiare la vita e le persone; per mantenere sempre viva quella fiamma di speranza che, ormai fievole, sentiva ardere solo debolmente in sé. Ritenne che fosse più proficuo usare le risorse di cui disponeva lì, piuttosto che in altro; e si dimenticò di tutta la vita che c’era al fuori. Aveva lasciato andare se stessa e tutto quello che non era strettamente necessario. 

 

 

 

            Le sue amiche, in quel periodo, si preoccupavano di chi avesse baciato più ragazzi dell’altra, chi fosse l’ultima tipa che aveva limonato entrambi i cugini M nella piazzetta vicino alla mezzaluna. Yashal stava a guardare e pensava a sé e a cosa avrebbe potuto fare al fine di cogliere l’attenzione del ragazzo che le piaceva, ma non era abbastanza carina, non si teneva bene, era sempre troppo triste, troppo focalizzata sul tentativo di sopprimere il desiderio di spaccare cose o urlare contro persone. Era troppo distratta da ciò che silenziosamente la affliggeva il giorno e la notte. 

 

Lui le voleva pure bene, era un suo amico, ma lei non gli interessava in quel modo; maledetta friendzone, che esisteva da ben prima che esistesse un nome mainstream per definirla. 

Ecco, l’oggetto dei suoi sentimenti aveva un amico e di lui non si potrebbe proprio affermare che avesse il medesimo tatto nei suoi confronti: una volta Yashal stava percorrendo il corridoio della scuola durante l’intervallo e mentre parlava con una sua amica, si riferì a lei come quella tipa grassa che non sarebbe mai piaciuta a Lorenzo. Ok, poniamo il caso in cui non la stesse davvero interpellando, eppure… Yashal lo vide bene il suo sguardo posato sulla sua persona e la sentì quella frase: la sua mente non poté che dedurre che a lei fosse rivolta.

 

Quante volte la ripeté nella sua testa cercando di evitare che la assalisse e soffocasse, ma era troppo debole e, per quanta rabbia le facesse, non riusciva mai a impedirglielo: quella era la verità, l’unica verità che avesse mai conosciuto o dato per reale.

 

E poi c’erano loro: quelle compagne, che poi così compagne non erano; quelle con cui condivideva una passione e che erano troppo esuberanti per lei che, nelle sue già rodate insicurezze, era divenuta un bersaglio appetibile e perfettamente calzante. L’unico desiderio che aveva sempre avuto nei loro confronti era quello di entrare a far parte del gruppo, raggiungere quella fantomatica popolarità che pareva essere così fondamentale a quell’età e che era diventata imprescindibile per lei: conoscere le persone giuste, i ragazzi, i giri… pff, da che stronzate micidiali si era lasciata coinvolgere. Eppure, non era la persona adatta: non rientrava nei canoni, neanche quella volta.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

Magari vi starete chiedendo dove voglio arrivare, cosa sto facendo adesso, in questo preciso momento, ma ritengo che sia necessario lasciare alla sua storia il tempo e lo spazio che merita. 

Magari vi starete domandando perché, sebbene associasse a quanto esposto sopra tutto questo dolore, non abbia mai fatto niente per cambiarlo, perché non si sia mai opposta a quelle parole, perché non si sia messa a dieta e non le abbia dissacrate coi fatti. Ebbene, non è così semplice. Passare degli anni, così delicati, a sentirsi così fuori luogo fa scattare qualcosa di ben più grande della voglia di riscatto, e cioè semplicemente il desiderio di scomparire.

 

E allora è per questo che sono qui: voglio permetterle di fare fronte a queste vulnerabilità, così che possa finalmente prendere il coraggio che le è mancato per una vita intera. Magari potrà sembrarvi la persona più debole del mondo, in tal caso sappiate che non credo ci sarebbe nulla di negativo nell’esserlo, ma il punto è che non è il suo caso, non del tutto, almeno.

Yashal, infatti, per quanto poco possa essere emerso da ciò che ho narrato fin qui, ha sempre lottato e rifiutato tutte quelle verità che le venivano attribuite. Ogni qualvolta che qualcuno la spezzava, aveva sempre cercato di controbattere e negare e farsi valere, spesso ci era riuscita. Peccato che poi restasse sola e da sola non c’era più quella spinta, nel suo profondo, che la spronasse a difendere il suo orgoglio ferito, oltreché la sua persona.

 

Quando restava da sola quelle parole, che così assiduamente le sue orecchie avevano dovuto ascoltare, riemergevano e, sfreccianti e sprezzanti, facevano eco ad ogni suo pensiero. Di soppiatto si addentravano sempre più in profondità, agganciandosi arrogantemente tutte quelle piccole fessure che le sue insicurezze andavano formando; come dei parassiti, si nutrivano della sua sofferenza. Loro ci entravano dentro, le aprivano e ampliavano il labirinto della sua anima… e là lei le ha disperse. 

 

Per questo appare necessario che si renda consapevole di come sia giunta fino a questo punto: non le resta che ripercorrere quelle parole, tracciarne il percorso al fine di comprendere in quale meandro di sé si siano nascoste, e dopodiché… sradicarle. Deve prendere ciò che la uccide e farlo suo, farlo nostro; smettere di combatterlo e rifiutarlo, ma solo provare ad acquisire l’abilità di accettarlo e far sì che possa restare lì, in qualità di una parte fondamentale del suo essere, senza che necessariamente questo le provochi dolore o angoscia o strazio, come invece accaduto finora.

 

 

 

            Ci fu una volta in cui era a pranzo dai suoi nonni, uno dei molti. Chiese cosa fosse in programma come secondo piatto, allo scopo di decidere se prendere una seconda porzione della pasta della nonna, per la quale decise poi di optare indipendentemente dalla risposta che le sarebbe stata data. 

Tuttavia, successivamente, davanti ai suoi occhi si parò tale fatidico secondo, e sembrava così buono. Voleva almeno un poco assaggiarlo.

 

Suo nonno, nonno del quale Yashal conserva dei bellissimi ricordi e per cui nutre una stima che va ben oltre questo singolo episodio, le fece presente che forse avrebbe dovuto evitare, forse non era il caso di aggiungere ulteriori chili a quelli di cui già disponeva. 

Delle gocce d’acqua salata le percorsero la guancia, le nascose come possibile e abbandonò velocemente la tavola. Poco dopo se ne andò, troppo rotta da quelle parole che non volevano essere meschine, ma che furono solo causa di afflizione. Prese il suo motorino e vagò per qualche ora; nel mentre pianse, desiderando di riuscire a piangere via tutto ciò che considerava di troppo, come aveva fatto tante e tante altre volte ancora.

 

Anche sua mamma, un tempo, voleva assolutamente dimagrire, non accorgendosi di quando fosse già divenuta magra in seguito alla precedentemente citata situazione, la separazione, e aveva deciso che anche Yashal avrebbe dovuto fare lo stesso. Lo affermava per lei, perché stava esagerando; perché il cibo era buono, ma non così buono.

Perché forse per far fronte alle sue debolezze, alla paura del mondo che la assaliva ogni istante e alla paura della vita – che semplicemente la sovrastava – avrebbe potuto scegliere qualcos’altro.

 

 

 

            Poi un giorno, durante le superiori, trovò disperso nella memoria del suo amato portatile delle foto risalenti a pochi anni prima: era lei nel campo che più amava, portava dei pantaloncini corti, dei calzettoni in spugna con una stupida fantasia a righe e una canottiera rovinata. E lì si vide per la prima volta: era lei che si confondeva perfettamente con le sue compagne; lei che ricordava il periodo in cui quelle foto erano state scattate e che mai, mai, mai si era vista come tutti gli altri. Ma lo era; era uguale. Le sue cosce non erano più grandi, la sua pancia non aveva dei “rotolini in più”. 

E allora “perché?”, si tormentava continuamente.

 

Perché per anni le è stata fatta notare una diversità che non aveva? Perché quel problema, che non le era mai appartenuto, era stato proiettato su di lei? E perché non se ne era mai resa conto? Perché ha lasciato che divenisse suo?

 

Ci fu anche un secondo pranzo dai suoi nonni. La madre di suo padre stava servendo della pasta; Yashal le domandò di poterne avere di più di quanto le fosse stato concesso. Il marito di sua zia, che di peli sulla lingua non ne aveva avuti mai e che da sempre era malsanamente specializzato nel fare battute riguardo i palesi punti deboli di tutte le persone intorno a lui – un gran simpaticone, da questo punto di vista –, se ne uscì, come tante altre volte, con un “non sei già abbastanza in forma?”. 

E lì in parte fu strabiliante: il suo stomaco si chiuse d’improvviso al punto che quasi ne fu sollevata, come se si fosse appena liberata del peso della fame. Si alzò dalla tavola, apertamente ferita, asserendo di non essere più affamata e che quindi non avrebbe pranzato; poi, si chiuse nell’ufficio del nonno.

 

Quell’ufficio era straordinario: pieno di cultura e del lavoro che lo aveva accompagnato per più di cinquant’anni. Quella fu la prima volta in cui Yashal acquisì davvero consapevolezza. Chiaramente, in quasi tutte queste situazioni, forse a causa della sua giovane età, le discussioni erano più ampie e accese, decorate da alcuni suoi espliciti pianti e urla contro tutti coloro che non capivano e che non riuscivano a vedere le angosce che invano tentava di nascondere dietro ogni cosa che entrasse nel suo stomaco.

 

Eppure, quella volta, quel suo stomaco si chiuse e la presa di posizione delle sue zie, in difesa dello zio, che “effettivamente aveva ragione”, le permise di capire che a lei, di tutte quelle congetture e apparenze da mantenere per fare una buona figura agli occhi di “non aveva mai compreso chi”, non era mai importato granché, nonostante avesse permesso che le importasse. 

 

E ancora: “perché? Come è possibile che la presa degli altri su ognuno di noi fosse così potente?

Nella più banale e classica delle realtà, con totale naturalezza, aveva fatto sì che tutti quei problemi che non le appartenevano venissero riflessi su di lei e, a lungo andare, a forza di sentirseli ripetere, ci aveva creduto davvero anche lei. Li aveva dati per veri, e fu in quel momento che divennero la sua realtà.

Dimagrisci”, vorranno dirle alcuni; “Non te lo dice mica il dottore di mangiare fino ad ingrassare.”, la rincalzeranno altri.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

Certo, d’altronde è facile, no? Ma nessuno si sognerebbe mai di andare da una persona che soffre di anoressia e dirle semplicemente “ingrassa”, o magari sì, lo farebbe, però forse sarebbe un po’ un modo riduttivo e superficiale di aiutarla nel processo della presa di coscienza delle proprie angosce e dei propri mali. Forse le sue ragioni vanno un po’ oltre il fatto in sé, il modo in cui i suoi problemi si palesano, vi pare?

 

Del resto, è più comodo chiudere un occhio e addossare tutte le colpe di tale stato soltanto alla “mancanza di forza di volontà di una persona” e al fatto che “dai, è obiettivo: a certe persone semplicemente piace mangiare e non hanno controllo”. È sempre più comodo girarsi dall’altro lato e minimizzare l’angoscia di qualcuno, minimizzarla e poi mortificare una persona, senza ritenersi in parte responsabili nel crearla.

 

Il fatto è che ogni volta che qualcuno riduce o sdrammatizza qualcosa che per qualcun altro ha un peso insostenibile, automaticamente quella persona si sente di nuovo sbagliata, inadatta, come se quella sofferenza non fosse giustificata, ma lo è, non preoccupatevi di questo: lo è. 

Ogni angoscia ed ogni afflizione – e tutto ciò che comportano – sono sempre giustificate. Non è sbagliato provarle, non è sbagliato non farcela, non è sbagliato sentirsi piccoli e sovrastati, è lecito, è comprensibile, è umano.

 

 

 

            Poi ci fu l’apice. 

Dopo l’ennesima persona incrociata a caso in un locale o un qualche sconosciuto beccato in bicicletta che con nonchalance le urlava una qualsiasi frase riguardante il suo aspetto – dopo aver perso e ripreso, innumerevoli volte, dieci e oltre chili e aver costretto il suo corpo a dei cambiamenti disumani – Yashal ha pensato che, forse, se avesse vomitato se stessa sarebbe potuta stare meglio.

Le diete non funzionavano, dato che mai raggiungeva quello che davvero era il suo obiettivo e dato che, ogni volta, in qualsiasi caso, tornava esattamente dove aveva cominciato. 

 

Allora lei, nella più totale della disperazione, piangendo, si mise due dita in gola cercando di sputare fuori quello che odiava, tutto quello che le aveva causato così tanto dolore e che non la rendeva mai abbastanza, o giusta, o appetibile.

 

Si mise due dita in gola e, mentre stava prona sul water, non uscì niente, se non l’unico rumore di un rigurgito. Ritentò, più e più volte, ma, forse a causa del suo terrore nei confronti del vomito, il risultato fu il medesimo. Era andata in bagno per piangere lo schifo che si sentiva di essere, che si sentiva addosso come parte principale di se stessa, e se ne uscì piangendo ancor più lacrime, consapevole di essere incapace anche soltanto di buttare fuori ciò che disprezzava.

 

Sulla scia di quel sentimento, si ritrovò letteralmente ad invidiare coloro che avessero il problema opposto al suo, se non altro avevano trovato una soluzione che li faceva sentire, sebbene momentaneamente, un po’ meglio con loro stessi. Provava – e prova tutt’ora – un dolore tale da portarla a pensare agli altri con cotanta superficialità ed egoismo. Vi sembrerà la persona più debole del mondo adesso, ipocrita, meschina, insignificante. Una brutta persona, con brutti desideri: tutt’ora si domanda come possa anche solo averli fatti penetrare nella sua testa.

 

Per l’esser giunta fin qui, a comportarsi così ed avere questo tipo di pensieri ed invidie, non poteva e non riusciva ad addossare la colpa a terzi: era lei che mangiava, non lo faceva qualcun altro per lei. Il cibo, inizialmente, era stato una delle sue ancore di salvezza ogniqualvolta che ne avesse avuto bisogno; poi, è divenuto ciò che la trascinava verso il fondo, sempre e sempre più. E quei terzi, malgrado tutto, hanno innegabilmente contribuito a questo.

 

Perché adesso non fa qualcosa per cambiare la situazione?”, magari vi chiederete. Ecco il motivo per cui sto facendo queste dichiarazioni: voglio concederle l’opportunità di cambiare prospettiva, di vedere il mondo da un punto di vista differente dal suo; permetterle di acquisire nuova forza. Yashal ha tentato, fallendo, così tante volte, che ha ormai perso la fiducia nei confronti delle soluzioni che conosce. Dopo innumerevoli sforzi, dunque, appare evidente che vi sia una palese falla nel sistema. E allora, appare necessario partorire una strategia, incentrata sulla persona e sul modo in cui gli altri poggiano lo sguardo su di essa in funzione della sua corporeità.

 

È necessario trovare qualcosa che vada oltre il mero dimagrimento: avere dei chili in più, o in meno, non è un problema a priori, per quanto venga narrato essere così. 

Il lavoro che da fare su se stessa è immenso, come immensa si sente lei, ma questo non implica che non sia lecito rendere “l’altro” consapevole di quello che sta facendo, di quello che la società tutta sta facendo, ogni giorno, su coloro che, come Yashal, hanno già delle difficoltà. 

 

Non saprei asserire se sia un comportamento semplicemente legato alla cattiveria e meschinità che un individuo può raggiungere seguendo la massa o se qualcuno ritenga effettivamente utile sputare sentenze e umiliare qualcuno al fine di attivare un qualcosa in quella persona che la porti al dimagrimento. 

Indipendentemente, ecco, no: non è utile. È solo distruttivo e demoralizzante e svilente. L’unico esito a cui tutte quelle parole e frasi e atteggiamenti portano, è quello di nascondersi nell’unica cosa confortante di cui sono a conoscenza: il cibo.

 

 

 

            Una volta Yashal ed i suoi amici si trovavano nel loro locale preferito. Aveva presa la macchina, guidato per mezz’ora all’unico scopo di andare a vedere il concerto di un gruppo che ormai amava. Durante il concerto c’era questo ragazzo molto carino: portava un maglione con una fantasia blu, rossa e verde, jeans un pelo attillati, vans old-school, riccioli liberi, barbara dignitosamente folta. L’aveva colpita. Lo rivide qualche ora dopo, durante il dj-set, facendolo notare ad un’amica.

Provaci”, le consigliò nella più totale della disinvoltura. Le rispose che era lì con una tipa e che non le pareva il caso; l’amica aggiunse un “Beh, tanto lo sappiamo tutti che è perché non hai le palle di farlo.”.

Ma è più che questo, vero?

 

Ecco, vi assicuro che per la nostra giovane amica sentire quelle parole uscire dalla bocca di una persona così conscia dei suoi disagi e delle sue difficoltà fu arduo da digerire, sopportare ed affrontare. Non si trattava, infatti, di aver paura di un rifiuto: in fin dei conti, chi se ne frega del rifiuto. Si trattava, piuttosto, del timore che questo rifiuto andasse a sommarsi a tutta una serie di rifiuti che la sua mente, irrazionale e disturbata, avrebbe collegato irrimediabilmente a quel problema fisico che la accompagnava da una vita. Non era il rifiuto in sé, era che quel rifiuto stava dicendo “scusami, ma non sei abbastanza carina, non sei abbastanza magra, non sei abbastanza”; o meglio: sei così troppo da non essere abbastanza.

 

Che poi, ormai, non si trattava neanche più di questo. Il fatto è che se lo era sentito dire così tante volte di avere qualcosa che non va… Talmente tante volte era stata trattata come se fosse menomata – come se poi ci fosse qualcosa di negativo in questo –, come se fosse inferiore. Talmente volte l’avevano fatta sentire come se avesse qualcosa che di norma si tende a rigettare, che ormai i suoi pensieri non dovevano neanche farlo più quel passaggio.

Anzi: bastava un “no, mi fai cagare” di quelle persone così poco empatiche e così capaci di dimezzare l’autostima di qualcuno, o quel “no…” con quel tentativo di celare l’imbarazzo di quelle persone che invece non volevano dire ciò che pensavano apertamente, ma che lo pensavano lo stesso.

 

A questo punto i suoi pensieri non devono neanche più perdere tempo a bloccarla prima che sia troppo tardi; perché è già bloccata. E ci prova, davvero: ci prova, ci prova più forte che mai a smuoversi, ma semplicemente non ci riesce. 

 

Non ci riesce per ogni volta che qualche suo amico ha giudicato un culo definendolo troppo grosso e lei sapeva essere comunque più piccolo del suo;  per ogni volta che qualcuno commenta dicendo chi può vestire in un modo e chi no; per ogni volta che qualche amica si definiva grassa e lei lo era palesemente di più; per ogni volta in cui vedeva persone dimagrire e lei, che se ne stava lì nella consapevolezza di non esserne stata mai davvero capace; per ogni volta che scatta un qualsiasi commento seguito subito da un “no, ma per te è diverso”, ed è diverso solo perché chi aveva mosso quel commento aveva un qualche tipo di confidenza con lei, ma non si faceva problemi ad asserirlo con qualcun altro e qualcun altro non si faceva problemi a farlo con lei. Quindi no, non è diverso. 

 

Forse non è l’unica: si è tutti così costantemente e disperatamente bloccati, incapaci di agire, incapaci di muoversi. Incapaci. E fremiamo, sempre, all’idea di fare qualcosa che vada oltre i soliti noiosi e rodati schemi. 

Yashal, ogni volta che ci prova trema, ad esempio; ogni volta quasi viene assalita da degli attacchi di panico, quando nel silenzio prova a rompere tutto e alla fine… il niente. Resta lì e continua a limitarsi. E il respiro le si fa scostante, gli occhi umidi, nel suo corpo sente salire vampate di calore, le mani fremere, il cuore ad accelerare e… niente, niente di niente

Continua a non fare altrimenti, continua a chiedersi perché non vada bene per questa società e non giunge mai a una risposta: le arrivano solo conferme. Continua a pensare a quanto si sia sentita migliore ogni qualvolta nella vita fosse stata più magra.

 

Ed allora, vive distraendosi, fingendo una serenità che le è in realtà sconosciuta, finché, di tanto in tanto, piange lacrime che vorrebbe tenersi per altro, ma non c’è nient’altro che riesca a strappargliele fuori perché niente la distrugge quanto la distrugge questo. Si sta spezzando ogni giorno sempre più e ogni giorno tiene ben a mente le ragioni per cui non vuole permettere che ciò accada. 

 

Perché in fondo, Yashal, come dice il suo nome, sa che la vita è bella; e lei vuole amarla, lei vuole viverla. E in questa vita lei vuole amarsi ed apprezzarsi e non vuole più permettere a qualcosa di socialmente costruito di dirle di non essere abbastanza, di farla sentire come se non lo sia.

Ma è più che questo, vero?

 

 

 

            Non è ancora pronta, adesso, per quel passo che vada oltre il mero dimagrimento; per quel passo che vada oltre il cambiarsi fisicamente e miri, piuttosto, a un cambiamento nel proprio modo di pensare, agire e inquadrarsi. 

In qualche modo, però, è là che sta andando.

Un giorno, spero, leggerà queste parole e le sentirà così lontane. Farà cadere tutte quelle catene che a lungo si è portata appresso perché lanciate arrogantemente sulle sue spalle e finalmente starà bene.

 

E sarà la cosa più difficile che mai avrà fatto in tutta la sua vita, perché non ne conosce la via o il modo. Sarà difficile perché non riesce a chiedere davvero aiuto, perché ogni volta che ne parla, che ci pensa, sente il peso dell’umiliazione addosso, sente il suo personale giudizio addosso, il suo senso di insoddisfazione. 

E ogni volta ha il timore che prima o poi non avrà più il coraggio di tirare un calcio e spingere via tutte quelle voci che sente, voltarsi dall’altra parte e continuare con la sua vita.

 

Neanche riesce, ad oggi, a mettere a fuoco il risultato verso il quale vuole tendere, ma ne ha un’idea che, per quanto vaga, è l’unica cosa davvero vivida in lei. E per l’idea di quella tensione, di quella potenzialità, di quello che può trovare nel mondo se decidesse di aprirsi a esso, lei si muoverà.

E allora, e solo allora, sarà più di tutto questo.

 

Lei, finalmente, starà bene.

 

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Capitolo 4
*** Jo e me ***


Contest Generi a Catena indetto da Dark Sider sul forum di EFP

Genere: Introspettivo

Prompt: “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”

 

 

 

 

JO e ME

 

 

 

 

Ad Anna, 

senza la quale non avrei conosciuto

questa particolare realtà.

 

 

 

 

 

Sette, il numero massimo di ogni cosa, come si suol dire. A me erano bastati esattamente sette singoli giorni per percepire il bisogno impellente e intrattenibile di chiamare Jann e informarlo che avevo la totale intenzione di rivedere ulteriormente sia la pianificazione del lavoro per i mesi successivi, a cui avevo già apportato diverse modifiche, sia tutto ciò che riguardava il contenuto di quello che mi apprestavo a scrivere… proprio tutto tutto, insomma. 

 

Lui non si era troppo irritato per la mia incapacità di prendere una decisione e portarla al termine in base ai criteri comunemente concordati, però devo dire che il suo tono di voce titubante aveva tradito una non indifferente preoccupazione. Così, dopo essersi assicurato che non fosse un problema per il suo capo, mi aveva cordialmente informata che mi erano state concesse due settimane entro le quali avrei dovuto inviargli una nuova progettazione per quella che doveva essere la mia terza pubblicazione. 

 

Mentre sto scrivendo queste parole, ancora non mi è chiaro se la scelta presa sia stata semplicemente dettata dalla frenesia di ciò che avevo appena vissuto (e mi fossi quindi ritrovata vittima di un raptus momentaneo) o se, al contrario, l’idea balzatami con prepotenza in testa si rivelerà effettivamente meritevole di esser stata percorsa. 

 

Eppure, nel dubbio, eccomi qui. 

 

 

 

 

«Dai, su, Ab, prenditela questa pausa! Hai pubblicato un romanzo meno di un anno fa e passato i mesi successivi a promuoverlo… Non credo che qualcuno ti metterà alla gogna nel caso in cui archivi per un po’ il tuo computer e ti concedi del tempo per vivere, dai!», se ne era uscita un giorno Josefine in una delle nostre frequenti videochiamate.

Come darle torto, erano mesi che non distoglievo attenzione e forze dal mio lavoro, lavoro che mi stava oberando e sfiancando come mai avrei potuto immaginare. Ne ero stata assorbita così tanto da rimandare tutte quelle “occasioni di piacere” che, da un punto di vista puramente economico, dopo il successo ottenuto con le mie due precedenti pubblicazioni, potevo finalmente permettermi di soddisfare senza più gravare sui miei genitori… Che poi è quello che ci si aspetta da una persona alla soglia dei trent’anni.

 

«Jo, continui a ripetermelo ogni volta che ci sentiamo! Non serve che tu lo faccia, lo so, lo so», le avevo detto io in risposta, con anche un po’ di sufficienza, irritata dalla sua ostinazione e incomprensione nei confronti dell’attività che svolgevo. Josefine si era laureata un paio di anni di prima, ma nel percorso che l’aveva portata al raggiungimento di quel traguardo, le sue ambizioni si erano lentamente plasmate e in quel momento si stava dedicando unicamente al suonare in giro per le strade di Berlino. La ammiravo, per la tranquillità con la quale prendeva le sue decisioni, ma in quel periodo delle nostre vite… non era esattamente la persona che più avrebbe potuto capire cosa significasse lavorare a tempo pieno. 

 

«Sì, beh, non mi pare che tu stia facendo granché a riguardo, per questo ci tengo a fartelo presente ogni qualvolta ne abbia l’occasione!», mi aveva risposto imperterrita, ignorando il mio disappunto.

«Ho delle scadenze da rispettare: dobbiamo concordare la pianificazione per i prossimi nove mesi della mia vita ed ogni giorno perso adesso significa lavoro in più in futuro, Jo. Sono scadenze fisse e pure poco malleabili, non è che mi stia divertendo a starm-»

«”Perché io lavoro almeno otto ore al giorno, e sì starò al pc nello studio nella mia villetta borghese, ma la scrittura è ciò che mi consente di portare a casa la grana, non è che sia un passatempo, al contrario tuo che invece ti dai alla bella vita!” e bla, bla, bla….», mi interruppe lei canzonandomi un po’, che stronzetta: mi ha dato della borghese – quando si tratta di Jo non è mai un complimento. «Lo so, Ab. Non serve che ti giustifichi con me; malgrado ciò potresti fartele delle ferie, perché lasciatelo dire: credo proprio tu ne abbia bisogno!», risi di buon grado scuotendo un poco la testa, maledetta Josefine, sarebbe finita per convincermi del fatto che fosse vero – solo a posteriori ebbi la conferma di quanto lo fosse.

 

 

 

            Josefine e io eravamo amiche dai tempi della scuola primaria, provenendo entrambe da Brandeburgo Sulla Havel, una cittadina a sud-ovest di Berlino. Non ho ricordi della mia vita prima di conoscerla e sono sicura nell’affermare che per lei valga lo stesso. Abbiamo condiviso tutto, noi due… scuola, compagnia, ragazzi (!), tempo, passioni, sentimenti, esperienze. Ogni cosa fin da quanto eravamo solo delle bambine.

Approdando, poi, ad un’età più matura avevamo intrapreso strade differenti, ma non per questo ciò che ci legava è venuto meno, anzi. 

Josefine, terminato il Gymnasium, infatti, si era trasferita proprio nella capitale al fine di frequentare la facoltà di scienze politiche: non mi sarei potuta aspettare nulla di diverso da lei, con la personalità intraprendente e briosa che si ritrovava.

 

Entrambe noi ci eravamo affezionate da giovanissime ai temi delicati inerenti alla politica. Jo, in particolare, aveva presto iniziato a frequentare molti ambienti studenteschi deputati all’organizzazione di cortei, manifestazioni e, soprattutto, iniziative culturali (prima che politiche) che avessero lo scopo di sensibilizzare i cittadini affinché divenissero soggetti attivi nella società. 

L’ho sempre ammirata molto per la sua esuberanza e capacità oratoria ed è, senz’ombra di dubbio, la persona che più ho preso ad esempio. Un’inaspettata forza della natura, Jo, costantemente innamorata della vita e delle sue più ignote e inconoscibili sfaccettature, con una spiccata predilezione per la socialità e un’incantata aura di positività che coinvolgeva chiunque stesse a contatto con lei anche solo per una singola o sporadica manciata di secondi.

 

Fu proprio Josefine a convincermi, ormai diversi anni fa, a dedicarmi alla scrittura e alimentare quella passione che da sempre aveva fatto da padrone in tutto ciò che mi riguardava. Un giorno, all’ultimo anno, semplicemente mi chiese se mi fossi decisa sul da farsi e se avessi voluto seguire i consigli e le indicazioni dei miei genitori sull’università.

In parole spicciole mi chiese a che punto fossi della mia vita, se avessi preso un qualche tipo di decisione. Me lo domandò con nonchalance e ingenuità, senza considerare quanto per me quella domanda fosse ragione di sbigottimento e spaesamento. Erano mesi che io non pensavo ad altro, pur senza mai davvero pensarci. 

 

Realizzare che non avevo più il tempo e lo spazio per procrastinare e posticipare il risolvimento di quel quesito che era la mia esistenza, verso la fine dell’adolescenza e l’inizio di tutto il resto, mi mise un terribile senso di angoscia addosso, opprimente e sfiancante. La verità, infatti, era che io ero completamente e inesorabilmente smarrita. Non avevo le idee, le ambizioni e le certezze che vedevo in Jo e sicuramente non possedevo una qualche capacità innata che mi aiutasse a giostrarmi nel gioco dell’incertezza.

 

Ma Josefine lo sapeva, lei sapeva sempre tutto. 

Prese il quaderno che le avevo chiesto di leggere e correggere qualche mese addietro, me lo posò – lo lanciò, se proprio dovessi puntualizzare – sulle gambe, mi fece un occhiolino mentre un sorrisetto sghembo si faceva spazio tra le sue guance paffute e rosee e con la stessa facilità asserì: «Ab, mi chiedo davvero in che tipo di bolla tu viva. Che altro vuoi fare se non questo? Tu devi fare questo. E non guardarmi con quella faccia da rimbambita, su!»

 

Ebbene, erano mesi che non pensavo ad altro pur senza mai davvero pensarci, ma in quel momento tutto prese forma e consistenza, tanto era logico e scontato. Non avevo davvero bisogno di soffermarmi a ragionare su qualcosa che era così semplice. Nell’inconscio, ero perfettamente consapevole del fatto che niente nella vita mi avrebbe fatto sentire appagata quanto il profumo di un quaderno nuovo in attesa che l’inchiostro si riversasse sulle sue pagine vuote.  

Ogni volta mi sorprendevo e meravigliavo per il fiume di pensieri e parole che, incontrollabili, prendevano colore e movimento nella mia mente e premevano impazienti sui polpastrelli delle mie dita trepidando all’idea di concretizzarsi. Non avrei potuto fare niente se non questo, così questo fu proprio quello che feci.

Jo aveva studiato e si era laureata e io avevo studiato e pubblicato due romanzi. Eravamo felici e soddisfatte di noi stesse, alla faccia dei – per fortuna pochi – professori che durante la scuola premevano per disincantarci dai nostri sogni e incatenarci con fermezza alla realtà. 

 

«Dovresti smetterla di sfottermi, una volta tanto», le dissi; mi borbottò un “ma tu ti presti così bene!” in risposta, che ignorai e continuai: «Devo consegnare quanto prima la pianificazione che ci accompagnerà per i prossimi nove mesi, con tanto di struttura del nuovo romanzo, devo attenderne le revisioni e poi iniziare a studiare così da poter iniziare ad abbozzare»

«Ah, ma la pianificazione gliela devi mandare tu, non loro?»

«Beh, sì. Poi il team che mi supervisiona la rivedrà e la allineerà con gli impegni generali dei vari membri e della casa editrice»

«Allora direi che puoi tranquillamente prendertela quella settimana di pausa, no? Una settimana, una soltanto. Dai, devo farti vedere il posto in cui vivo da un po’ di mesi a questa parte. Ah! E farti conoscere Adrien che, come ti avevo detto, ti piacerà davvero molto!»

«Il francese?», le chiesi con un poco di malizia nel tono, «Una settimana, dici? È tanto tempo, ma forse si può fare. Posso provare a tenerla in conto: entro il weekend invio tutto il necessario a Jann e, una volta che mi avrà dato il responso, capirò e ti aggiornerò, contenta?»

«Eh sì, ti piacerà proprio il francese, almeno quanto piace a me. E sì: posso dirmi contenta. Ci sentiamo presto, babe», le mandai un abbraccio virtuale e chiudemmo la chiamata. Forse una settimana nella capitale avrebbe potuto essermi utile: un po’ d’aria fresca e nuova non fa mai male, d’altronde.

 

 

 

 

Brandeburgo Sulla Havel dista esattamente settanta chilometri da Berlino. I miei genitori hanno sempre dovuto recarvisi con molta frequenza a causa dei loro impegni lavorativi e, alle volte, avevano scelto di portarmi con loro trattenendoci lì fino al termine del weekend. 

Ogni volta che questo accadeva era, per me, sempre molto emozionante poiché loro guardavano alla città coi medesimi occhi curiosi e stupiti con cui la osservavo io. Ero solo una bambina quando il muro venne abbattuto e ogni breve gita là era un momento di scoperta e sorpresa per tutti noi che finalmente avevamo l’opportunità di conoscere Berlino nella sua interezza.

 

Negli anni l’ho vista cambiare, crescere e modellarsi, divenendo il fulcro pulsante e la principale nota di colore dell’intera Germania. 

«Vedi tutte quelle gru? Ci stiamo impegnando per far diventare Berlino bella», mi aveva detto dolcemente, una volta, l’addetta ai biglietti per salire sulla torre della televisione dalla cui cima avrei potuto ammirare tutta la città. Ne rimasi profondamente colpita e affascinata. Alla tenera età di sette anni, nella prima metà degli anni ’90, avevo percepito quelle gru sparse tra gli edifici come l’emblema dei cittadini: rappresentavano quella volontà di eliminare il male e il dolore che tanto a lungo li aveva caratterizzati al fine di mostrare al mondo quanto fossero migliori delle memorie che li riguardano – e che riguardavano la Germania tutta.

 

Pian piano Berlino si apriva dinnanzi a me permettendomi di conoscerne anche gli angoli più remoti, quasi fosse un libro aperto in attesa di essere sfogliato. Ogni volta che mi ci recavo vi disperdevo costantemente un pezzo del mio cuore, ma non era un problema: ero sempre ben lieta di cederglielo. Ogni parte di me che avevo lasciato lì, infatti, le apparteneva e non avrebbe potuto essere destinata a nient’altro.

Ed ogni volta, ancora, mi sorprendevo nell’appurare quanto poco la conoscessi e quanto molto ancora avrei potuto apprendere. Non vi erano monumenti o musei che fossero sfuggiti al mio sguardo, quella città, però, non si riduceva alla sua storia più cupa e oscura, bensì alla forte speranza che caratterizzava i suoi cittadini e alla loro volontà di trasmetterla a noi viandanti.

 

Fu proprio in virtù di ciò che cercai di impormi su Jann, colui col quale mi interfacciavo maggiormente tra tutto il team di gestione del progetto che mi riguardava, chiarendogli che quella settimana di stacco sarebbe stata effettivamente utile anche ai fini della mia scrittura.

Con sorpresa, come già accennato, dopo che i piani alti gli diedero il permesso, mi rispose che la scelta era unicamente mia, che le scadenze erano necessarie, certo, ma che la nuova pianificazione andava bene e, in ogni caso, doveva solo servire a darmi una linea generale per quanto concerne i tempi, al fine di tenermi in riga e ordinata nel mio lavoro. Se avessi avuto bisogno di una settimana di pausa, dunque, nessuno me l’avrebbe negata.

Beh, alle volte le cose basta chiederle con gentilezza e educazione.

 

«Oddio Abbie! Sono così felice che tu riesca davvero a venire!», aveva esclamato Josefine alla notizia: non riuscivamo a vederci da mesi, entrambe eravamo elettrizzate all’idea. Mi aveva consigliato di portare cose molto spartane: «Ricordi quando andavamo in campeggio con gli amici? Ecco: fai come se fosse lo stesso»

«Che vuol dire? Tipo tenda, materassino e quant’altro?»

«Esattamente», esattamente?

«Mi sono persa qualcosa? Non volevi farmi godere di un po’ di rilassatezza e serenità senza l’incombenza del lavoro? No?»

«Beh, sì, anche se io ho detto che ti avrei fatto godere la vita»

«Le due cose non coincidono?»

«Alle volte sì, alle volte no, chissà… Portati una tenda e non rompere tanto le palle, dai!», insistette poi senza darmi troppe spiegazioni. Non avevo alcuna idea di dove si fosse cacciata la mia tenda; sbuffai un poco, ma fui assolutamente certa che mi avrebbe aspettato qualcosa di sensazionale e sopra le righe.

 

 

 

Giunta all’Hauptbahnhof realizzai presto quanto dovessi sembrare un facchino e quanto scomodo potesse risultare muoversi con uno zaino di cinquanta litri stracolmo – non che qualcuno prestasse attenzione a me eh, sia chiaro. Anzi, la stazione era molto popolosa – lavoratori, turisti o comuni abitanti erano soliti frequentarla –, ma nessuno aveva davvero il tempo di fermarsi, erano tutti impegnati a raggiungere un treno, una delle linee della S-Bahn o una della U-Bahn. Eppure, io, se con la scrittura non fosse andata come speravo, nella vita non avrei desiderato altro se non potermi permettere di starmene seduta in una stazione ad osservare la varietà degli sguardi dei viaggiatori e poterne assaporare le aspirazioni e gli stati d’animo.

 

Negli ultimi due anni, da dopo la laurea di Jo, non mi era mai capitato di riuscire a tornare a Berlino semplicemente per il gusto di farlo, o di potermi muovere in libertà per la città. Oh, quanto speravo di riuscire a tornare all’orto botanico ed ammirare gli alberi in fiore! Quel giardino era magnificente: più di 43 ettari di superficie ed una varietà infinita di piante. Avevo potuto recarmici solo una volta in autunno, la mia stagione preferita, e i suoi colori caldi mi avevano avvolto l’anima facendola totalmente loro. Ciò nonostante, confidavo nel fatto che anche in primavera non dovesse essere poi tanto male, sebbene non vi fossero foglie cadenti che, come mi aveva insegnato Rilke, “Tutte queste cose che cadono, qualcuno con dolcezza infinita le tiene nella mano”

Detto ciò, mi sarei comunque accontentata volentieri. 

 

Dopo svariate peripezie tra la linea 7 e la linea 8, finalmente giunsi a Heinrich-Heine-Straße, dove avrei dovuto incontrare il volto familiare di Jo. 

«Ehi straniera! Ce ne hai messo di tempo!», mi urlò lei correndomi incontro e tentando invano di abbracciarmi.

«Mi dimentico sempre quanto tu ti appolpi alle persone, cavolo. Stavolta te lo faccio fare volentieri, però, Jojo», la feci sorridere mentre mi liberavo del peso dello zaino lasciandolo fracassare a terra senza troppi problemi, così da riuscire ad accogliere il suo corpo snello e caldo tra le mie braccia.

 

Appena ci dividemmo la squadrai un po’: avevo già notato nelle videochiamate diversi cambiamenti in lei, ma in quel momento potei appurarli con precisione: «La scorsa settimana sbaglio o questi non erano così?», le domandai mettendole davanti agli occhi una ciocca dei suoi lunghi capelli.

«Ah, sì, beh… Ho voluto aggiungere un po’ di contrasto con la mia pelle smorta!», i suoi meravigliosi capelli rossi naturali erano stati decorati con delle punte azzurre e cosparsi di qualche treccina colorata random che illuminava ancor più la sua pelle chiara e delicata dai mille nei marroncini. Stava sempre benissimo, questo era innegabile.

«Smorta, pff. Niente che ti riguardi potrebbe mai essere smorto»

«Hai ragione in effetti! Dai, dammi qualcosa che ti aiuto, dobbiamo camminare almeno per una decina di minuti e tu, vestita così morirai decisamente dal caldo. Quelli», precisò indicando gli anfibi che avevo ai piedi, oltreché le mie calze, «desidererai strapparteli via. È un maggio molto caldo questo e, soprattutto, che sta volgendo al termine!»

 

 

 

«Allora, sappi che, nel farti alloggiare nella mia modesta reggia, ho sinceramente confidato nel fatto che tu non sia mai stata una persona schizzinosa, visto che, come me, sei consapevole che in contesti come il campeggio i piedi possano esser lavati infinite volte, ma alla fine torneranno comunque neri; o che possa capitare di dover passare tra le tende con solo l’asciugamano indosso dopo esserci docciate nei bagni misti; o che i denti si lavano, chiaramente, alla fontanella più vicina – senza acqua potabile, ovvio…», Jo lasciò morire il discorso e io non stavo capendo la ragione di quelle premesse e giustificazioni.

 

La guardai sperando di captare qualcosa in più, ma nessun indizio traspariva dalla sua persona, così cambiai argomento: «…Questo Adrien insomma?»

«Ah! Lo amerai! È come se fosse la mia versione al maschile. Proviene da un paesino sperduto nella Normandia, abbiamo frequentato insieme un paio di corsi durante il nostro ultimo anno all’università e non appena terminato ci siamo dati alla bella vita… Che poi “bella”, quale eufemismo! Però ecco: ci divertiamo, facciamo busking in giro e raccattiamo un po’ di soldi, quello che basta per sopravvivere, almeno. Ogni tanto abbiamo suonato in qualche localetto giù nel Friedichshain, tipo al Centro Culturale Astra, te lo ricordi?»

«Come potrei dimenticarlo? L’ultima volta che ci sono stata ho offerto anche l’anima: avevo settanta euro nel portafoglio e il giorno dopo me ne erano rimasti meno di venti! Quindi, insomma, ti sei trovata un bel francesino eh? Come biasimarti, d’altronde…!»

 

«Ma no, sciocchina di una Abigail! Siamo solo molto amici, da un po’ di anni ormai e ci troviamo splendidamente insieme: ci comprendiamo allo schiocco di dita, esattamente come accade a me e te. Decisamente quello che mi mancava in questa città»

«Pff, farò finta di crederci, ma sappi che ti brillano gli occhi quando ne parli, vecchia porcellina!», io e Jo eravamo solite usare i nomignoli più stupidi per prenderci in giro. Lei di rimando rise scuotendo la nuca esclamando un “non hai capito proprio niente!”, poi mi parò un braccio davanti come a fermarmi e un sorriso emozionato le si formò sul volto.

«Benvenuta a TeePee Land!», esclamò aprendo il suo braccio in direzione di un cancello aperto alle sue spalle indicandomelo e facendomi cenno di proseguire, «Questa è la mia umile dimora… mia e di un sacco di altre persone e siamo tutti profondamente fricchettoni, sappilo»

«Non avevo dubbi», borbottai.

 

 

 

Davanti ai miei occhi potevo osservare un grande cartello in legno che delimitava l’entrata che citava “TeePee Land – bring yourself, please” ed un’altra serie di parole come “amore, amori, libertà, villaggio”.

Al di là scorgevo le prime tende appostate di lato al sentiero principale. Il posto era un po’ fatiscente: non era ordinato, non era bello, non era pulito e, anzi, potevo notare in vari punti, una serie di oggetti ammassati a casaccio – da bancali in legno malconcio a carriole o, in generale, cose usurate e distrutte dal tempo e dalle persone.

 

Mentre varcavamo l’ingresso seguii Jo farsi largo tra il labirinto di tende incrociando un paio di persone che la salutarono ridenti e intravidi un ulteriore cartello di fianco a una baracchina che pareva costituire un bar – abusivo, da quello che dedussi, ma sicuramente necessario – sul quale veniva dato un ulteriore benvenuto nel villaggio e veniva sollecitato il senso di responsabilità del lettore-visitatore ricordando che quella era un’area comune e quindi invitando al rispetto dello spazio e, di conseguenza, delle persone. C’era una specificazione, inoltre, in cui veniva condannato e non ammesso all’interno del villaggio sessismo, razzismo, aggressività e omofobia: mi sarei trovata decisamente a mio agio lì.

 

TeePee Land non era uno di quegli hotel a cinque stelle a cui mi ero, mio malgrado in realtà, abituata. Era letteralmente un villaggio abusivo al di fuori di un edificio abbandonato – e poi occupato – nel quale qualcuno aveva creato una comunità con delle regole ben precise circa la moralità e l’etica accettata al suo interno.

«Che posto è questo?», domandai a Jo esigendo di saperne di più.

«Questo? Eh, è un posto che apprezzerai perché rispecchia perfettamente il tuo amore per la vita e per gli individui. Qui siamo tutti una grande famiglia e ognuno di noi lavora al fine di mandare avanti la comunità, alimentando quel senso profondo di altruismo reciproco che dovrebbe essere alla base di ogni collettività», sospirò fiera e riprese «Adrien e io siamo capitati qui per caso, poco meno di un anno fa, dopo aver conosciuto dei musicisti ad Alexanderplatz che si erano fermati ad ascoltare una nostra esibizione e ci avevano chiesto se avessimo voluto suonare qui. Beh, inutile dire che rispondemmo di sì»

 

Jo mi accompagnò in un giro perlustrativo: mi mostrò l’angolo dedicato al teatrino formato da bancali in cui aveva strimpellato in una jam session la prima volta che lei e Adrien erano entrati nel villaggio e dove, mi spiegò, gli abitanti fissi erano soliti organizzare attività culturali e ludiche. I primi cittadini di TeePee Land si erano assestati in quel preciso spiazzo proprio in virtù della linea del muro di Berlino, proprio a pochi metri di distanza – si poteva scorgere l’East Side Gallery da là. Il fondatore era un operaio tedesco che durante la giornata lavorava fuori dalla città, ma che ogni giorno sceglieva di tornare nel villaggio a mangiare con tutti gli altri residenti.

 

«È un fatto molto importante questo, sai? Si pranza e si cena con quante più persone possibile; si cucina insieme attorno al falò su dei fornelli pressoché improvvisati, si fanno chiacchiere, si suona musica, si ascoltano le storie che qualcuno ha voglia di raccontare. Si cerca di fare gruppo, insomma, stare assieme e condividere tempo – la cosa più importante che una persona può scegliere di condividere con qualcuno, ti pare?»

Sorrisi ammaliata: «Beh, sicuramente è la prima cosa necessaria per riuscire a condividere anche altro, la più preziosa perché lascia spazio al resto, no? Sono contenta che tu mi abbia portata qua!»

«Ma io lo sapevo perfettamente che avresti apprezzato, Abbie! Conoscono bene i miei polli. E quel pollo che poi saresti tu lo conosco così a fondo, che non potevo ignorare quel bisogno di tornare in mezzo alla gente che tanto leggevo tanto nelle tue espressioni!»

 

Di solito ero io che lasciavo pezzi di me sparsi per il mondo. Quella, però, fu una delle prime volte in cui mi accorsi di quanto anche gli altri ne avrebbero lasciati a me, se avessi avuto il coraggio di accoglierli. Dare è sempre bello ed era qualcosa che avevo fatto volentieri molto spesso, ma altrettanto frequentemente avevo rifiutato di ricevere la medesima cura. Jo, invece, mi stava lasciando entrare in un angolo della sua vita di cui io non facevo parte, solo per il piacere e l’affetto che ci legava. La guardai e le volli ancor più bene di quanto non gliene volessi già. 

 

 

 

La zona adibita ai pasti era un’area comune dalla forma circolare: al centro vi si trovavano dei sassi che delimitavano il punto in cui si accendeva il falò e tutt’intorno si diramavano divani e bancali sui quali le persone potessero sedersi e cucinare in compagnia. Erano sicuramente di terza mano, con cuscini scuciti o sfondati, ma questo contribuiva a rendere il posto ancor più vissuto e provvisto di una peculiare eleganza. Avevano costruito una specie di gazebi con delle staccionate in legno, il cui tetto era costituito da banalissimi teli dalle fantasie orientali che ombreggiassero sui diversi posti a sedere. Lungo i legni che formavano i pilastri che tenevano in piedi la struttura, erano state affisse una serie di lucette di Natale e simili. Immaginai che di sera quel punto dovesse proprio avere il suo indiscutibile fascino. Poco più in là, invece, si trovavano degli alberi dove erano state attaccate una serie di amache e io amavo le amache, non vedevo l’ora di farvici un pisolino. 

 

Il luogo era sprovvisto di un aggancio diretto all’acqua perciò, quotidianamente, a turno, qualcuno doveva recarsi con un carrello stracolmo di barili, in uno stabile vicino così da averne a sufficienza per lavare pentole, padelle, bicchieri e quant’altro.

«Beh a volte è capitato che qualcuno saltasse il proprio turno e che ci ritrovassimo a lavare direttamente nella Sprea… Non guardarmi così, lo so che non è il massimo dell’igiene… è successo solo in qualche occasione sporadica, giuro!», mise le mani avanti Jo vedendo la mia espressione palesemente impensierita – e forse anche un po’ inorridita – a riguardo.

 

«Sai, di norma gli esterni possono trattenersi fino a massimo di sette giorni»

«Non hai detto che abiti qui da diversi mesi?»

«Beh, io e Adrien eravamo particolarmente simpatici, non so se permetterebbero a te di fare lo stesso!», mi fece una linguaccia continuando a prendermi un po’ in giro; in tutta risposta sollevai gli occhi al cielo ridendo… forse era un po’ vero, effettivamente. «A parte le minchiate, è tutto puramente a discrezione dei “capi”: i responsabili si riuniscono al termine del tempo nel caso in cui l’esterno abbia mostrato l’interesse a trattenersi più a lungo, e discutono rispetto all’apporto a lungo termine che quel determinato individuo potrebbe dare alla loro comunità»

«Beh, allora immagino sia vero che qualcosa di buono tu lo faccia di tanto in tanto»

«Pff, no, figurati. È solo merito di Adrien»

 

Quanto mi mancavano quei momenti. Io e Jo eravamo perfette nella nostra auto e vicendevole ironia. Eravamo cresciute nella consapevolezza di poterci confessare ogni cosa. Alle volte, le persone non capivano il tipo di rapporto che ci legava, visto quanto ci insultavamo a vicenda, così capitava che giocassimo sui loro dubbi, complici, inscenando litigate e incomprensioni e poi ridevamo assieme degli sguardi spaesati di coloro che avevano assistito alla cosa.

 

Mi guardai meglio intorno e in mezzo a tutti quei personaggi che erano gli abitanti del villaggio notavo così tanto da imparare e indagare, così tanto di affascinante e incredibile, che sono sicura mi brillassero gli occhi. Erano tutti così sorridenti e felici nel loro piccolo angolo di mondo (quasi) incontaminato, che subito non potei che domandarmi come fosse accaduto che, in una città che concede così tanti vizi e dipendenze, spunti e aspirazioni e ambizioni come faceva Berlino, qualcuno avesse deciso di abbandonare ogni cosa per liberarsi dalle catene della modernità e abbracciare tutte quelle piccolezze che tanto erano invisibili agli occhi meno allenati e attenti. 

 

Sembravano una comunità hippie degli anni ‘60 e io li ammiravo perché, per quanto mi ammaliasse l’idea alla base di TeePee Land e delle persone che ne facevano parte e per quanto comprendessi come quella fosse un’esperienza al di fuori dei canoni della normalità che ero assolutamente lieta di aver avuto l’occasione di compiere, non credo avrei potuto vivere secondo i loro principi con cotanta facilità, abbandonando i comfort di cui ero stata circondata da sempre. 

 

«Sai, fino a qualche anno fa era pieno di ratti, qui, mi hanno detto», rabbrividii un poco al pensiero: non avevo niente contro i topolini… ma i ratti? Pelle d’oca anche solo a sentirli nominare, soprattutto se concentrati in uno spazio piccolo e circoscritto, «Tranquilla Ab, al loro posto adesso ci sono un sacco di gattini. Guarda! Quello è Alien, guarda quant’è carino tutto sfigatino com’è!», esclamò Jo indicandomi un micetto tutto nero e spelacchiato con le punte delle orecchie bianche. Fui assolutamente sollevata.

«Quella è la mia tenda. Tu puoi metterti qua, tanto anche se siamo distanti una decina di metri non è che passeremo molto tempo nelle tende. Ti aiuto a montarla, poi ti porto da Detlev. È uno degli abitanti stabili del posto, un personaggio unico: è tipo un vecchio di settant’anni, in pensione, che passa le sue giornate a farsi tisane ai funghetti allucinogeni e cucinare per noi altri mentre ci parla della sua vita. Non hai idea di quante ne abbia vissute. Abita a Berlino fin da quanto è nato: è cresciuto in questa città. Quando hanno tirato sul il muro, aveva circa una ventina d’anni e, abitando proprio in prossimità della divisione, si era ritrovato a Berlino Ovest, mentre la maggior parte dei suoi amici erano a Berlino Est», aggiunse che questo fatto gli aveva completamente cambiato la vita, potendo lui fare avanti e indietro, mentre ai suoi amici non era consentito. 

 

Alla fine, aveva trovato l’amore e si era assestato nel lato Est della città e, in realtà, non gli era affatto dispiaciuto: stavano bene. Quando il muro, poi, cadde, lui e la moglie presero a girare per il mondo, ma lei si ammalò e presto morì, non avevano mai avuto figli, perciò Detlev continuò a fare esattamente quello che faceva con lei, finché non ha conosciuto questa realtà e Ben, uno dei fondatori di TeePee Land. Erano dieci anni, circa, che abitava nel villaggio.

 

 

 

 

«Oh, Adrien, dove ti eri cacciato in tutto questo tempo? Abbie, questo è Adrien», mi disse Jo non appena lui apparì alle mie spalle.

«Quindi tu sei la famosa Abigail! Jo parla spesso di te, piacere», gli sorrisi voltandomi nella sua direzione. Era un ragazzo non troppo alto, ma con un certo charme. I suoi occhi erano grigi e i capelli neri come l’acqua di un lago nella notte, mi domandai perché avesse deciso di radere la barba lasciando però quegli inquietanti baffi sulle sue labbra, ma mi morsi la lingua dicendomi che forse potevo evitare di fargli quella come domanda iniziale durante il nostro primo approccio. 

«Beh, adesso che finalmente ho conosciuto il compagno che mi ha gentilmente rimpiazzata nell’affiancare questa dolce pulzella, ditemi: che mi fate fare oggi?»

«Assolutamente niente, Ab. O meglio: potrai scegliere di seguirci se vorrai. Noi a breve andiamo a suonare in giro, oggi in teoria dovremmo farci l’Oberbaumbrücke, poi l’East Side Gallery a ritroso e, infine, procederemo fino ad Alexanderplatz. Ti unisci a noi?»

«Ma che domande mi fa? Ovvio che sì, tsk»

 

Josefine recuperò il marsupio colorato e rattoppato, quello stesso che la accompagnava fin dalla prima adolescenza, e il tamburello a sonagli, ormai un po’ rovinato, che le avevo regalato a uno dei suoi compleanni. Adrien dall’altra parte prese la chitarra e si fece passare la cinghia tra il braccio e la testa, manifestando l’intenzione di suonare letteralmente camminando in giro. 

E così fecero anche mentre si dirigevano verso l’uscita: il loro era come il canto delle cicale al cui passaggio risvegliavano tutto ciò che avevano tutt’intorno. Vidi quello che Jo mi aveva indicato come Detlev fargli un cenno abbassando il suo cappello verso il basso: ormai era troppo anziano per avere la forza di farsi tutto quel giro a piedi. 

Ammirai anche una serie di persone fare capolino dalle loro tende o alzarsi dalle loro sdraio, recuperare – qualora ne suonassero – qualche strumento ed unirsi all’allegra combriccola. 

 

«Tu sei nuova! Piacere ragazza, sono Cassandra», la bionda che mi si mise a fianco dopo avermi baciato le guance capii essere italiana dal suo accento, oltreché grazie all’intraprendenza con la quale mi si presentò, «Loro, invece, sono Emma e Nicholas, sono londinesi, ma Emma si è trasferita qua in Germania da un po’ di anni a causa del lavoro del padre, stanno spesso con noi», i due ci sorrisero. 

«Piacere mio ragazzi, sono Abigail, tipo la più vecchia amica di Jo!»

«Aspetta Abigail, prendi questa… ed anche questi!», mi disse Emma mettendomi una coroncina di fiori in testa e dandomi in mano dei fili al termine dei quali c’era un pesetto. Mi venne da ridere nell’appurare quanto facilmente quegli elementi potessero rientrare nello stereotipo degli artisti di strada. E forse sarà stato anche così, ma io mi sentii perfettamente a casa in mezzo a quegli sconosciuti che mi trattavano come una di loro che volevano farmi essere parte della loro contentezza. 

 

Eravamo finalmente fuori dal villaggio quando Cassandra urlò ad Adrien e Abbie di suonare un pezzo italiano, proposta che, con mio stupore, accolsero con genuino entusiasmo. 

Così Cassandra prese a cantare: «L’estate che veniva con le nuvole rigonfie di speranza, nuovi amori da piazzare sotto il sole» ed era incredibile perché tutti i presenti – eccetto me – conoscevano quella melodia. Emma e Nick mi presero le mani agitando le loro braccia e si rivolsero verso me cantando in un italiano dal dubbio accento: «Fiorivi, sfiorivano le viole e il sole batteva su di me e tu prendevi la mia mano mentre io aspettavo io teeee»

Jo mi guardò, senza mai smettere di intonare quelle parole che non capivo, ma che mi trasmettevano delle sensazioni di estrema positività. Il sole si poggiava su di noi, così come facevano gli sguardi dei passanti che presto avevano tirato fuori i loro telefoni per riprendere la nostra camminata di felicità o avevano deciso di aggiungersi a noi, lasciandosi coinvolgere non solo dalla musica, ma anche dalla capacità di intrattenimento di Emma e Nick che dopo avevano preso a giocare con i fili facendoli roteare in delle acrobazie che, nella loro semplicità, attiravano l’attenzione di tutti. 

 

Attraversammo il ponte e non appena giunti sull’altra sponda della Sprea, i ragazzi si fermarono lasciando un cappello a terra così da riuscire a raccogliere un po’ di soldi. Io mi assestai di lato, sui gradoni che davano verso il fiume, ad osservare l’incanto dei raggi che si facevano spazio tra le colonne e gli archi dell’Oberbaumbrücke e si riflettevano sull’acqua durante il tramonto. 

Stampato sul cemento una scritta che citava “Stop here, appreciate life for a minute, and smile”: non potei che ubbidire. 

 

Piansi una lacrima, tanto era potente quella richiesta che era sì banale, ma al contempo affatto scontata. Troppo spesso ero stata colta dalla frenesia, dal lavoro, dagli impegni, dal bisogno di fare, fare, fare e fare ancora; troppo spesso ero andata alla ricerca spasmodica delle cose, dimenticandomi di quello che contava e dei piccoli e ordinari dettagli che rendono l’esistenza così memorabile e magica e particolare. Mi ero ripromessa, tempo addietro, di non dimenticarlo mai, ma, alle volte, la vita vera non lascia molto spazio; o almeno: non lo aveva lasciato a me che mi ero completamente scordata.

 

Dopo riprendemmo a camminare, continuando a spargere gioia e amore per le vie, sicuri che in molti ne stessero godendo almeno tanto quanto me. Continuammo a cantare e danzare e giunti ad Alexanderplatz, Emma tirò fuori dalla valigetta che si era portata appresso una piccola piscinetta gonfiabile all’interno della quale, una volta che le fece raggiungere la sua massima dimensione, svuotò una boccetta e qualche bottiglia d’acqua appena riempite in una fontana. 

Nick le passò due aste di legno unite da uno strano e lungo spago che Emma immerse nel composto creato. La giovane aprì le braccia al cielo e subito dopo prese a correre lentamente per la piazza. 

 

Davanti ai miei occhi incantati si aprì uno spettacolo di sfumature viola, gialle e verdognole formato da bolle di sapone che presero a volare e posarsi dolcemente sulle mani dei bambini – e non solo – dal tocco più delicato. 

Immortalai quel momento nel mio telefono e nel mio cuore. Ero tornata a Berlino da solo pochissime ore e ancora un’altra volta si stava prendendo gioco di me e io glielo lasciavo fare, perché ero certa che non potesse esserci sensazione più memorabile ed emozionante di quella che stavo provando in quel momento. 

Negli sguardi avvinti e luccicanti della marmaglia di persone che si trovavano nella piazza in quel preciso istante e in quelli dei miei nuovi e vecchi amici che brillavano di riflesso a quello che erano stati capaci di creare negli altri, lì e solo lì io capii che dovevo cambiare rotta, che c’era qualcosa che mi aveva avvicinato alla scrittura in principio e che era la stessa cosa di cui volevo godere ancora una volta e una volta ancora. 

 

Guardai Josefine avvicinarsi a me sorridente cingendomi una spalla, io le presi il fianco e poggiai la mia testa alla sua spalla. Sentì perfettamente la mia gratitudine.

 

Fiorivi, sfiorivano le rose

E il sole batteva su di me

E tu prendevi la mia mano

Mentre io aspettavo te, mentre io aspettavo te

 

 

 

 

Le scintille del falò scricchiolavano dinnanzi al mio sguardo mentre me ne stavo appollaiata sull’amaca e continuavo a gioire del naturale talento musicale di Jo e Adrien: l’indomani sarei dovuta tornare a casa e io non volevo assolutamente perdermi niente di ciò che potevo cogliere di meraviglioso in quelle ultime ore rimastemi. 

Le loro voci creavano delle armonie che mi facevano rabbrividire al punto da sentire la spasmodica necessità di scrollare le spalle invitandomi a liberarmi delle mie agitazioni. Lui, con quella voce roca e graffiata che tanto mi scioglieva all’ascolto, e lei, col suo fare genuino e sempre capace di ammaliare chiunque le fosse appresso. 

 

I loro melodici canti si inseguivano in una corsa fluida e suadente che andava ben oltre il singolo pezzo che si apprestavano a suonare. Si allontanavo, ricercavano e riacchiappavano, incapaci di scindersi l’un l’altra, quasi fossero un’unica anima spezzata in due corpi che niente poteva se non tornare ad unirsi in una moltitudine di sfumature creatrici di allegria e serenità. 

 

Ogni loro evanescente movimento si disperdeva nell’aria circostante posandosi con dolcezza sugli individui e sulle superfici tutt’intorno; io stessa ne ero stata involontariamente avvolta, venendo trascinata con amichevolezza in quel limbo surreale che il fuoco del loro amore per la vita con estrema facilità andava contagiando ognuno di noi spettatori. 

 

Io non ero un’eccezione: non riuscivo a guardarli senza desiderare ardentemente che quella medesima forza, quella medesima passione, quel calore insito che li aveva spinti ad abbandonare ciò per cui avevano lavorato per anni optando per dedicarsi all’appropriazione di una profondità e un’attenzione per i dettagli più scontati di cui ogni esistenza è inconsapevolmente colma, divenissero anche un po’ miei. 

 

Il loro, forse, era stato proprio questo: un salto nel vuoto inconoscibile che è la vita all’interno del quale concedere gentilezza e armonia senza mai pretendere di riceverne in cambio, perché nulla li avrebbe fatti sentire sereni, appagati e, banalmente, felici quanto il sorriso di uno sconosciuto che per un singolo ed effimero frangente aveva scorto pace in mezzo a un cumulo di impegni e frustrazione.

 

Il tamburello a sonagli che Jo aveva preso in mano al cambio di canzone era ormai divenuto il mio strumento preferito: mi stava chiamando e invitando a ballare. Feci un cenno a Nick, l’inglesotto che da qualche settimana, mi era stato detto, si era trasferito a TeePee Land, affinché mi accompagnasse in quella danza che tutti noi esigevamo di compiere. 

 

Ballai e cantai e mi dimenai, abbandonandomi all’euforia, al piacere e all’incanto, e in mezzo ad un villaggio ricolmo degli estranei più familiari che avessi mai potuto immaginare di incontrare mi accorsi di quanto, nei mesi, avevo perso di vista il punto di riferimento che mi aveva sempre guidata verso i più nuovi e originali orizzonti. 

 

E mentre il fuoco scoppiettava calore e scintille in ogni dove, sulle note dirompenti di una notte berlinese, negli occhi di quei compagni intravidi ancora una volta quelle stessa luce che tanto spesso mi aveva abitato e che io avevo erroneamente e inconsapevolmente messo da parte. L’avevo lasciata sostituire con le abitudini, l’ordinarietà e la serietà della stabilità, ignorando il fatto che fossero cose che potevano tranquillamente coesistere, che non si escludevano a vicenda e che, piuttosto, rendevano la vita meritevole di essere vissuta. 

Perché in fondo non è altro che questo: delle schegge di luce che, solitarie, si addentrano in ogni individuo e lo fanno tremare e gioire e piangere e disperarsi e respirare; delle schegge di luce ed energia che illuminano fin là… proprio dove la notte finisce e albeggia un nuovo giorno.

 

L’indomani sarei tornata a casa, ma non avrei mai davvero abbandonato TeePee Land.

 

 

 

 

 

LOOK AT ME!

Amici, finalmente sono riuscita a pubblicare un altro racconto di questa raccolta nonostante l’ispirazione ben scarseggiante.

In questo caso, ancor più del solito: vi prego di segnalarmi errori e refusi (che temo ce ne siano abba).

 

Entrando nel merito, invece: per la prima volta – capiterà anche in un altro paio di occasioni, in teoria – ecco a voi Abigail! 

Spero che questo primo squarcio su di lei (e Jo e TeePee Land) vi sia piaciuto, questo racconto doveva un po’ spiegare le ragioni che l’hanno portata a scrivere questa raccolta, oltreché darle un minimo di background.

 

Poi qualche specificazione per voi:

- Non sono mai stata a TeePee Land, ma è una realtà esistente che mi è stata più volte raccontata e che ho ritenuto meritevole di essere narrata, spero di averlo fatto nel modo più realistico possibile. Unica specifica: i personaggi che ho descritto sono tutti inventati da me - sebbene li abbia "caratterizzati" a partire dalle descrizioni di persone reali che le mie conoscenze hanno davvero incontrato lì;

- La canzone citata quasi al termine è Sfiorivano le viole di Rino Gaetano, il quale mi ha accompagnato spesso in questa quarantena;

- I cartelli che ho nominato, presenti nel villaggio, erano realmente là, non so se nel frattempo siano stati tolti però;

- La scritta sull’asfalto nei pressi dell’Oberbaumbrücke potete davvero trovarla lì e davvero mi ha fatto commuovere la prima volta che sono stata a Berlino;

- A proposito di Berlino, sappiate che, salvo imprevisti, la ritroveremo anche in altri racconti perché è per me una città molto importante;

- Piccola nota finale: l’aneddoto che ho affibbiato ad Abbie riguardo i soldi spesi al Circolo Culturale Astra (ho tradotto il nome del locale, ma lo si trova davvero a Berlino) è davvero successo a me; il giorno dopo avevo il portafoglio vuoto e un mal di testa lancinante, ma ne valse la pena.

 

Attualmente non mi viene in mente altro, se non ringraziare Dark Sider per aver indetto questo contest e _Mhysa_ per il genere/prompt, perché mi hanno in qualche modo aiutato a concludere questo racconto che era in bozza da diverso tempo.

Purtroppo, non sono particolarmente soddisfatta del risultato, ma in questo periodo di magra temo di dovermi accontentare.

 

Grazie a chiunque vorrà passare da qua

 

Bongi

 

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