La compagnia delle ombre

di saraclove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. La morte delle ossa ***
Capitolo 3: *** 2. La danza dei biacchi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Stephen sapeva di non aver mai avuto un’ottima vista. I dottori dicevano che era un tipo di miopia congenita che aveva fin dalla nascita. Forse aveva a che fare con le modifiche genetiche che aveva subito il suo embrione quando era ancora nel grembo della madre.
Stavolta però era diverso, stavolta non aveva nulla a che fare con la miopia, stavolta tutto appariva così sfocato da fargli venire la nausea, come se avesse aperto gli occhi sott’acqua. Correva per un lungo corridoio bianco di cui non conosceva la fine e, anche se dei volti indistinti gli urlavano di fermarsi, lo minacciavano, tentavano di catturarlo, lui non smise di correre e si impose di non guardare indietro. La testa pulsava e la sirena dell’allarme non faceva che peggiorare le cose. Non era mai stato un ottimo atleta, aveva un corpo fragile, una salute cagionevole e per di più quella mattina non aveva preso gli antidolorifici per l’emicrania. Cercò disperatamente di inspirare dell’aria e deglutire la bile, ma ogni volta che respirava il dolore al petto diventava così forte da fargli dimenticare quello alla testa. Era come se qualcuno gli avesse strizzato il cuore fra le mani.
Ad un certo punto le pareti bianche scomparvero. Aveva raggiunto una foresta, la Foresta Nera. Infatti era tutto così buio…così mosso…
*
Riaprì gli occhi e si trovò davanti un volto talmente vicino che al minimo movimento della testa, i loro nasi si sarebbero toccati. Forse era una fortuna che non fosse in grado di farlo.
Il dolore lancinante alla testa ritornò assieme alla sirena, un continuo ronzio fastidioso che si era impresso nella sua mente. Tutto intorno girava ad una velocità nauseante, in un insieme indistinto di luci e ombre, ma in quel vortice riuscì a distinguere due occhi azzurri che lo fissavano imperscrutabili.
Non può essere…
Cercò di coprirsi e orecchie, mentre il nervo sulla fronte continuava a pulsare ad un ritmo accelerato, ma non riuscì a muoversi: le sue braccia non rispondevano più.
Quegli occhi azzurri, gli occhi dell’uomo che lo aveva educato a chiamare “padre”.
‘Non è possibile.’ si ripeté dentro di sé, rifiutandosi di credere alla sua vista. Era sicuro di aver corso abbastanza, di aver superato la massima distanza a cui poteva arrivare il GPS installato da qualche parte dentro di lui. Non potevano averlo già trovato.
I suoi pensieri si volsero inevitabilmente alla punizione che avrebbe ricevuto. Stavolta non sarebbe stata semplicemente una scossa elettrica. Probabilmente gli avrebbero tagliato le dita o rotto le gambe, per impedirgli di scappare di nuovo.
«No.…» tentò di protestare, ma uscì soltanto un verso soffocato.
No, no, no. Non sarebbe tornato indietro senza lottare.
«Calmati» sentì la voce roca di suo padre come un eco lontano, quella voce che aveva imparato a etichettare come minacciosa nonostante le cadenze perfettamente normali.
Scalciò con i piedi per tentare di alzarsi, ma neanche quelli obbedivano ai comandi.
Avanti gambe.
Quando riuscì finalmente ad alzare leggermente il ginocchio sinistro, ma una mano glielo spinse di nuovo a terra e lo tenne fermo.
«Lasciami, no, lasciami!» la gola si seccò e cominciò a tossire.
«Calmati, sei messo male».
No, no!
Le lacrime cominciarono ad annebbiargli la vista. Tutto cominciò a tremolare. Sbatté le palpebre per ricacciarle da dove erano venute. Non doveva piangere, doveva trovare un modo per scappare.
La testa smise di girare e la vista si schiarì.
Ma cosa…
Quel volto…stava cambiando forma. Il volto di suo padre stava lentamente scomparendo per lasciare spazio a dei lineamenti più giovanili e gentili.
«E’ meglio se non ti muovi, ok?» anche la voce era più squillante e aveva perso quella nota minacciosa. Anzi, possedeva un potere tranquillizzante. Sentì l’emicrania affievolirsi e la testa diventare più leggera.
«Bendategli le ferite» continuò quella voce che lo faceva sentire così bene…
Qualcuno gli toccò la spalla e si sentì come se lo avesse trafitto con un coltello. Urlò dal dolore. Adesso ricordava: era stato colpito con un proiettile durante la corsa. Sentì il sangue caldo e fresco ricominciare a scorrere giù dal suo braccio. La ferita si era riaperta.
«Scusami» disse una voce femminile. Cercò di individuare nella sua voce quella di qualche sua sorella, ma erano completamente diverse. Forse era un’infermiera...no, loro non chiedevano scusa per il dolore che provocavano. Si maledisse per non essersi accorto di altre presenze. In una situazione normale li avrebbe rilevati.
Quanti erano?
«Scusami, ma se vuoi che ti curi devi stare fermo e sopportare un po’».
Il dolore andò aumentando, ma si costrinse a stare fermo e a non urlare, mordendosi le labbra quasi fino a farle sanguinare.
«Non sono molto brava in queste cose, spero vada bene» disse la donna alla fine della medicazione. La benda era leggermente stretta, ma il dolore era diventato un semplice pulsare lontano.
«Come ti chiami?» di nuovo quella voce. L’emicrania si affievolì di nuovo e riuscì ad alzarsi. Il ragazzo dagli occhi azzurri lo aiutò mettendogli una mano dietro la schiena.
«Continua...» disse per tutta risposta «continua a parlare...».
Il ragazzo sorrise. «Sono felice che la mia voce ti sia d’aiuto. Mi chiamo Alex...».
Quel tipo era leggermente più grande di lui, sulla ventina, stranamente simile a suo padre e...
Divisa… indossava una divisa, non un camice o un mantello.
«...e loro sono Celine,» indicò la ragazza inginocchiata di fianco a lui che lo aveva bendato, «e Christofer» fece un cenno all’uomo di mezz’età alla sua sinistra. Santo cielo, indossavano davvero tutti delle divise. Si guardò intorno per vedere se c’era qualcun’altro. Erano solo loro. Era salvo.
«Siete veri?» chiese infine.
«Cosa?» intervenne l’uomo di mezz’età ridendo incredulo «dopo che ti abbiamo curato credi ancora che siamo delle allucinazioni?».
«No, non allucinazioni, intendo…» si bloccò per una fitta alla testa.
«Chris lascia parlare me» disse il ragazzo di nome Alex e il dolore sparì di nuovo. Era una specie di incantesimo?
«...siete dei veri soldati? Soldati dell’esercito dell’Ishdon? Non è un travestimento vero?».
«Si, siamo soldati dell’impero» Alex gli mostrò un distintivo.  «Quindi, puoi dirci come ti chiami e come sei finito qui?».
«Stephen, mi chiamo Stephen e vengo...» esitò «...vengo dalla città dei Corvi» cercò di restare sul vago. La capitale era abbastanza vasta da impedire loro di individuare un punto esatto. «Io...sono scappato. So che sono un vostro nemico, ma vi prego, portatemi con voi, nascondetemi da qualche parte. Farò qualunque cosa.» Il tono si fece implorante e disperato. In quel momento la prospettiva di essere un prigioniero di guerra o uno schiavo, o qualsiasi altra cosa era migliore che ritornare al laboratorio Kateline.
«Da cosa stai scappando?» domandò Alex, con lo stesso tono con cui si parla ai bambini.
«Dai Moisha e… da mio padre. Verranno a prendere anche voi.»

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Capitolo 2
*** 1. La morte delle ossa ***


«Perché non posso? Perché sono una donna?» Anastasia Wyatt sentiva il sangue ribollire e un’estrema necessità di urlare.
«No Stacy, non è questo...» cercò di spiegare suo padre seduto all’altro capo del loro minuscolo tavolo da pranzo, ma la sua voce sembrava un sussurro insignificante di fronte alle urla della figlia.
«Sì invece: una donna non può cacciare, non può comprare una casa, non può uscire da sola...» iniziò elencare tutti i divieti che le aveva insegnato fin da piccola contando sulle dita «e adesso non può diventare un soldato!» aprì le mani e le alzò al cielo.
«Ci sono già abbastanza uomini, non serve che anche tu-».
«Non serve? Non posso restare qui a far finta che tutto sia a posto e aspettare che magicamente la guerra finisca!» si alzò e sbatté le mani. Il tavolino traballò sotto il suo colpo. Era stato costruito a mano da suo padre e non era molto stabile.
«Cosa pensi che sia la guerra?» il tono dell’uomo diventò più acuto e il suo volto si tinse di un rosa poco rassicurante «Pensi che sia una cosa bella? Un gioco divertente?».
«So cos’è papà! Ho vent’anni! La guerra distrugge le case, le vite, i commerci. È per questo che non riesci ad andare in città, ed è per questo che la mamma non… non può essere curata. Ci ho pensato per un sacco di tempo sai? È la guerra la causa di tutto questo e io voglio andare in guerra per vincerla, così tornerà la pace e troveremo...troveremo i soldi per...» un nodo alla gola le impedì di continuare.
«Lo sai benissimo che lei...» si costrinse ad abbassare la voce, pur sapendo che dormiva «...che lei non ha più speranza. La sua malattia non ha una cura. Non ha bisogno di soldi, ha bisogno che tu, che noi le restiamo vicini nei suoi ultimi giorni. E tu pensi di partire per-».
«Per trovare una speranza. So che c’è, deve esserci!» le lacrime sgorgarono e si coprì il volto, correndo fuori.
«Aspetta! Stacy aspetta!».
Si sdraiò sull’erba e cercò di smettere di piangere. Suo padre aveva ragione, non c’era nessuna speranza, eppure non riusciva a smettere di sentirsi così arrabbiata.
Guardò il cielo sopra le colline del Gobbo. Era così bello e rilassante guardare le nuvole passare lente sopra di lei come pecorelle al pascolo e ascoltare il canto lontano degli uccelli cinguettare felici nel bosco dove cacciavano.
Presto la guerra sarebbe arrivata fin lì ad inghiottire il tutto. Ne avevano avuto un avvertimento tre anni fa, quando era iniziata: un villaggio al confine col regno di Raven, sulle montagne, era stato attaccato e completamente incendiato. Nonostante il suo villaggio si trovasse ad una certa distanza, di notte si sentirono gli spari, le urla e videro il fumo nero salire dalle cime come ceneri di un vulcano, ricoprire il cielo e inquinare l’aria. Molti fecero le valigie quella stessa notte e scapparono verso l’interno, verso la capitale. Rimasero in pochi, per la maggior parte anziani che non potevano muoversi.
Loro non potevano andarsene, non potevano lasciare indietro sua madre. E poi… suo padre era una persona ossessionata e conservatrice: non avrebbe mai accettato di lasciare quella casa - in realtà poco più di una capanna- dove avevano vissuto tutti i suoi antenati per nulla al mondo. Non era conservatore solo su quello, ma anche sulle tradizioni, sugli usi, sulle abitudini e sul ruolo della donna nella società. Credeva fermamente che ci fossero lavori che le donne non potevano svolgere, come ce n’erano altri che gli uomini non erano tenuti a fare. Era assurdo.
Sentì dei passi sull’erba vicino a sé, ma non si mosse. Sperò che il rossore sul suo volto fosse sparito.
«Posso sdraiarmi qui vicino a te?».
Non rispose, ma lui lo fece lo stesso.
«Quel ragazzo, Aron, sei preoccupata per lui, ti manca?» continuò a guardare le nuvole passare senza rispondere.
Aron Fry era il suo migliore amico praticamente da sempre. Aveva un anno in più di lei ed era uno dei pochi che era rimasto, assieme ai suoi nonni, quanto tutti se n’erano andati. Poi i suoi nonni morirono e vennero i soldati a prenderlo per arruolarlo nell’esercito. Da allora non ebbe più sue notizie. Non le spedì neanche una lettera, ma del resto non sarebbero mai arrivate a destinazione. Sì, le mancava parecchio, ma non era per lui che voleva andare in guerra. Era sicura che stesse bene. Non era un eccellente cacciatore e non sarebbe mai stato un ottimo soldato, ma lui sapeva sempre cavarsela.
«Che ne dici se andiamo a cacciare qualcosa per cena?» insistette l’uomo.
Suo padre sapeva quanto amava cacciare da quella volta in cui aveva preso un fucile e si era messa a rincorrerlo implorando di insegnarglielo. Insistette per una settimana, seguendolo ovunque mormorando “ti prego” fino a perdere la voce e alla fine cedette. Quello fu il primo cliché che fu disposto a rompere. Da allora fece pratica ogni giorno e superò in abilità l’amico. Forse era anche per questo che si era indignata di non essere stata arruolata: che importava se era una donna quando poteva fare meglio degli uomini?
Si alzò e decise di ascoltare la sua proposta, mentre il suo orgoglio le ripeteva che era solo per sfogare la rabbia e non perché volesse veramente obbedirgli. Andò in casa a recuperare un fucile e corse fuori verso il limitare del bosco, poco più in là. Varcò l’arco formato dai i due faggi col tronco inclinato che facevano da entrata e si inoltrò scavalcando tronchi caduti e rami sporgenti di cui ormai conosceva a memoria la posizione.
Si sentiva a casa lì, dove gli alberi le davano sempre il benvenuto e le facevano dimenticare tutto il resto, in quella terra di nessuno dove non c’era distinzione di sesso o di ricchezza.
Sapeva che suo padre la stava seguendo, ma non aveva importanza. Tutto quello che fece fu memorizzare la sua posizione per evitare di sparargli per sbaglio. Con la coda dell’occhio colse un altro rapido movimento alla sua sinistra. Si girò di scatto e avanzò agilmente tra i cespugli, col fucile puntato. Non era un bosco fitto quanto certe foreste a nord, ma la luce penetrava le foglie con fatica.
Non che questo fosse un problema per lei, aveva sempre avuto un’ottima vista anche al buio. Ad un certo punto lo vide: un piccolo cerbiatto che correva affannosamente con una radice in muso. Prese la mira e seguì i suoi movimenti fino a quando non scomparve dietro ad un faggio e non riapparve più.
“Furbo eh?” pensò tra sé mentre continuava ad avvicinarsi a passi felpati. Lo scorse di nuovo mentre inchinava la testa verso qualcosa e stava per premere il grilletto quando vide che non era solo. Il suo cuore perse un colpo e il fucile le scivolò di mano. Restò a fissare la scena, con la gola secca.
Un cervo adulto era a terra con una zampa incastrata sotto un tronco caduto e gemeva lentamente mentre cercava di liberarsi. Il piccolo gli stava portando da mangiare.
Qualcosa in quella scena la turbò profondamente. Ebbe un flashback di sé stessa che portava la zuppa di cervo a sua madre mentre lei gemeva dal dolore sdraiata sul letto.
Indietreggiò respirando affannosamente, agguantò il fucile e corse via, ma non aveva fatto più di due passi che si scontrò con una specie di muro soffice che non ricordava ci fosse mai stato. Alzò gli occhi dalla pancia gonfia di suo padre e lo vide guardarla con fare interrogativo.
«Trovato qualcosa?».
«N-niente» rispose cercando di nascondere il turbamento, ma lui capì che era una bugia. La superò e si diresse verso il punto da cui veniva.
«Aspetta» voleva urlargli, ma invece uscì solo un mormorio indistinto. Fu costretta a seguirlo.
Aveva sempre ucciso cervi e cerbiatti e allora perché questa volta sembrava tutto così sbagliato?
Quando arrivò, l’uomo stava già mirando al cervo adulto.
No.
Restò a guardare la sua schiena, paralizzata da qualcosa che non riusciva a capire e aspettò lo sparo… che non arrivò.
Suo padre abbassò il fucile.
«Ho visto tante volte la luce inquietante che avevi negli occhi quando uccidevi, era come se ti piacesse farlo. Cominciavo a preoccuparmi, capisci?» si girò a guardarla «Non è normale che una ragazzina ami uccidere gli animali invece che giocare con loro. La caccia non è un hobby, lo sai vero? Ma a quanto pare...» fece un cenno verso i due animali «hai ancora un cuore» fece un sorriso raggiante.
Stacy rimase sorpresa da quelle parole, ma ancora di più dalla sua risposta: «Volevo solo dimostrarti che ero in grado di farcela» abbassò la testa. Non sapeva come fosse giunta a quella conclusione, ma sapeva che era vero. Lui si avvicinò e le accarezzò la testa. Era imbarazzante, nonostante non ci fosse nessuno a guardarli. Ormai era alta quanto lui, eppure la trattava ancora come se fosse una bambina.
«Non devi dimostrare niente, so che hai talento. Non partire. La fuori ci sono persone con occhi come i tuoi, forse ancora più inquietanti. I soldati alla fine sono tutti semplicemente degli assassini. Noi uccidiamo per necessità, per sopravvivere, come fanno tutti gli animali in natura, ma loro uccido per i propri interessi, per avidità e potere. Non c’è nulla di naturale in tutto questo.» fece una pausa e quando riprese, il tono serio era sparito dietro ad un sorriso «Diamo loro una mano?».
All’inizio non capì, poi lo vide dirigersi verso il tronco caduto e lo seguì. Insieme lo alzarono quel poco che bastò per permettere al cervo di spostare la gamba e lo rilasciarono cadere a peso morto, col fiato corto. L’animale era ferito, così suo padre strappò un pezzo della sua camicia beige e la usò per legargli un ramoscello in modo da immobilizzare l’arto nel punto fratturato. Erano certi che tra qualche giorno sarebbe guarito, così tornarono a casa.
Durante il tragitto rimasero in silenzio, lei per l’imbarazzo e per la stanchezza, suo padre per la felicità e altra stanchezza.
Quella sera rinunciarono alla carne e mangiarono del pane con un’ottima minestra di verdure raccolte nell’orto di sua madre che ora stava curando lei.
Lei non si era ancora svegliata, ma forse era meglio così. Se si fosse alzata, sarebbe diventata cosciente del dolore alla gamba e non si sarebbe più addormentata per giorni. “Morte delle ossa”, è così che la gente comune chiamava la sua malattia, perché il suo vero nome era praticamente impronunciabile, tanto quanto era impossibile da curare. Era un tipo di cancro alle ossa, le avevano spiegato i numerosi medici che l’avevano visitata senza successo, era come un mostro che divorava pezzo per pezzo le ossa del corpo e lentamente si prendeva tutta la vita.
Finirono la cena e andarono a letto presto. Anche questo era una delle tradizioni inviolabili di suo padre: coricarsi al tramontare del sole.
Tuttavia, quella sera Anastasia non riuscì a chiudere occhio. Ogni volta che lo faceva, vedeva quella coppia di cervi e sua madre. Immaginava il giorno in cui avrebbe dovuto separarsi da lei, tentando invano di non provare dolore. Non si poteva mai essere abbastanza preparati ad una perdita del genere.
Ad un certo punto, circa a mezzanotte, si alzò di scatto, si vestì con tutto quello che aveva e pescò una borsa che aveva nascosto sotto il letto. La riempì frettolosamente di viveri, qualche risparmio, alcune munizioni per il fucile da caccia e… fu tentata di portarsi via l’album delle foto, ma si impose di non cedere ad inutili sentimentalismi, anche perché avrebbe aumentato il peso da portare.
Non era una decisione impulsiva. Aveva programmato quella fuga un migliaio di volte. Ogni volta però, arrivata a quel punto il buon senso prendeva il sopravvento e tornava sotto le coperte. Anche stavolta si sentì una stupida adolescente in crisi, ma quando raggiunse il corridoio e guardò nella stanza alla sua destra si riscosse. Sua madre dormiva profondamente, ma era un sonno destinato ad essere spezzato dal dolore o a durare per sempre. Era come il cervo ferito, solo che nel suo caso nessuno sarebbe venuto a salvarla. Fece un passo avanti, poi un altro e in qualche modo raggiunse l’entrata.
Quando si girò per prendere uno dei fucili appesi al muro, lo vide lì in piedi in fondo al corridoio. Suo padre la guardava con un misto di rassegnazione e disperazione. Una parte di lei voleva tornare indietro, abbracciarlo e chiedergli scusa per tutto quanto, ma si girò chiuse gli occhi e uscì nella notte.
Corse, corse a perdifiato su e giù per le colline pur sapendo che non l’avrebbe inseguita, corse anche quando le lacrime le annebbiarono la vista, fino a quando non le mancarono le forze e crollò a terra. Strisciò per raggiungere un albero sul ciglio di una stradina proveniente dalla città e vi si appoggiò cercando di riposare. Sapeva che lì, il giorno dopo o quello ancora, sarebbero passati dei carri che portavano rifornimenti al fronte.

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Capitolo 3
*** 2. La danza dei biacchi ***


Il carro arrivò all’alba del secondo giorno di attesa e fu una benedizione perché aveva praticamente finito le provviste, un po’ per la fame, un po’ per la noia, un po’ per il dolore. Anzi, non era un carro solo, ma ben tre vagoni, pieni zeppi di grano, verdure e qualche spezia. Gli uomini che li trasportavano furono incredibilmente riluttanti a caricarla con loro, ma dopo che li seguì per un bel pezzo di strada a mo’ di morta di fame, cedettero, forse per la compassione, e acconsentirono a farla sedere sul retro del carro centrale assieme ad un carico di patate. Le diedero anche un pezzo di pane scarso e un po’ d’acqua di cui fu molto grata.
Fu un viaggio estenuante. Continuava a dondolare a destra e a manca, mentre zigzagavano per evitare le buche sulla strada e a rimbalzare su e giù quando le centravano in pieno. Gli uomini, cinque in tutto completamente armati, erano incredibilmente taciturni e a tratti paranoici. Ogni volta che si allontanavano dai centri abitati si irrigidivano temendo di essere assaliti da chissà quale banda di briganti delle colline o animali inferociti. Alla fine, la cosa più grave che successe e che richiese la loro forza, fu la ruota di un carro affondata in una pozza di fango particolarmente profonda e dovettero spingere tutti insieme per riportarlo sulla strada. Nessuno di loro le fece domande, così come non risposero alle sue e la mancanza di un orologio le rese quelle tre ore di viaggio ancora più lunghe.
Si stava per appisolare quando notò una distesa di filo spinato in lontananza: erano arrivati. Balzò giù dal suo posto dalla gioia e percorse il resto della strada a piedi impaziente. Ce l’aveva fatta davvero!
Le guardie al cancello ispezionarono svogliatamente i carri e lasciarono passare gli uomini, ma lei venne brutalmente abbandonata, considerata da loro come un’estranea dopo tutto quel viaggio insieme. A quanto pare non avrebbe dovuto sperare in un loro aiuto.
Per un po’ restò ferma sulla porta a fissare e analizzare ogni centimetro di ciò che vedeva, stupefatta. C’erano tende e capanne disposte in modo ordinato ma poco uniforme e un discreto edificio in cemento che sembrava diviso in due sezioni, ristrutturato e curato nella parte più grande e decadente nella più piccola.
«Ragazzina, che cosa ci fai qui? Questo è un campo militare, non un campo di beneficenza e non facciamo elemosina.» sentì qualcuno brontolare al suo fianco.
«Cosa?» si girò a guardare il soldato in divisa dall’espressione contrariata «Ah, sì. Io...volevo-» Si bloccò intimidita dal suo sguardo indagatore.
«Appoggia prima il fucile» le ordinò.
«Sì», si affrettò ad obbedire.
«Che succede qui?» Un’altra guardia li raggiunse fumando una sigaretta.
«Ah, caporale. Questa ragazzina sembra essersi persa. È arrivata qui coi rifornimenti»
La guardò inclinando la testa «Be’, potremmo ospitarla per un po’, le donne non bastano mai» scherzò in tono arrogante, anche lui squadrandola da capo a piedi. Stacy si sentì avvampare.
«Io… non mi sono persa, volevo arruolarmi.» cercò di tenere ferma la voce e di sembrare sicura di sé.
I due si guardarono un secondo e poi scoppiarono a ridere.
«Ho detto qualcosa di divertente?» chiese quasi in tono di sfida.
«Vuoi arruolarti? Se vuoi c’è una fabbrica di proiettili poco lontano da qui. Se cerchi lavoro, lì ti assumeranno» la derise il secondo arrivato, ostentando una falsa gentilezza «Poi se vuoi possiamo incontrarci qualche sera...» espirò il fumo.   
Fu una fortuna l’aver appoggiato il fucile a terra, perché se ce l’avesse avuto ancora in mano gli avrebbe sparato. Lanciò un’occhiata alla sua arma.
«Io non-».
Lui sembrò accorgersi del suo sguardo. «Ah però, bel fucile!» si abbassò e fece per prenderlo.
«Non toccarlo!» le uscì in un tono quasi isterico di cui si pentì subito.
«E’ tuo? Dove l’hai rubato?».
«Non l’ho rubato» s’indignò «era di mio padre e ora è mio».
Un terzo uomo accorse. Da lontano vide che aveva un’andatura familiare.
«Ragazzi, c’è qualche prob-» si bloccò vedendola e trattenne il respiro.
Anche lei fece lo stesso per la sorpresa.
«A-Aron?» chiese incerta. Era quasi irriconoscibile in uniforme.
«Stacy!» gridò lui incredulo «Com’è possibile, Stacy? Che ci fai qui?».
L’abbracciò. Ricambiò l’abbraccio stringendolo forte a sé. Era da un anno che non si abbracciavano così e per la prima volta dopo tutto quel tempo provò la gioia della bambina spensierata che era quando non aveva ancora conosciuto gli orrori della vita. Sembrava che il destino le avesse fatto un dono facendolo incontrare con lui in quel campo tra mille altri.
«Aron, mi sei mancato!» esclamò quasi senza fiato.
«Anche tu!».
«Dio, mi sta venendo da vomitare. Chi è, la tua fidanzatina?» la voce sprezzante del caporale li interruppe e Stacy arrossì.
«Non sono...».
«E’ un’amica d’infanzia» spiegò Aron al posto suo. «Si chiama Anastasia. Stacy, loro sono Dave e Gillian» la presentò.
Dave fece un sorriso sbilenco «Ha detto che vuole arruolarsi».
«Davvero?» esclamò Aron rigirandosi verso di lei, ma era più felice che sorpreso. «Sapevo che il vecchio alla fine avrebbe ceduto! Sei una dannata testarda!» rise «Bene, lascia fare a me, ti accompagno allo sportello per le reclute. Guarda, ora sono anch’io un caporale!» indicò i suoi gradi, gonfiando fieramente il petto.
Gli sorrise. Non se la sentiva di rovinare il momento rivelandogli di essere scappata di casa.
«Ah, vedo che hai portato il fucile da caccia» notò l’arma ancora a terra «Qui non serve, almeno per le reclute, te le forniscono loro le armi. Ti possono dare il permesso di usare un’arma personale quando avrai imparato ad usare tutte le altre in modo accettabile. E-» a quel punto sembrò sentire il peso dello sguardo delle altre due guardie su di loro. Sorrise a Gillian invitandolo a parlare.
«Piacere di conoscerti, Anastasia» disse il soldato. Sembrava più amichevole dell’altro caporale arrogante di nome Dave. «Scusa per prima…Non pensavo dicessi sul serio.» Si portò una mano dietro la nuca, un po’ in imbarazzo «E’ che sei un po’...» fece roteare un dito davanti alla propria faccia «...sporca».
Si portò una mano al viso e quando la ritirò vide che era ricoperta di uno strato sottile di fango.
«Credo che tu abbia ragione» sorrise. Non si era minimamente preoccupata dell’aspetto che doveva avere in quel momento, in effetti doveva proprio sembrare una mendicante.
«Vieni» la richiamò Aron «Ti aiuto a darti una ripulita».
Annuì. Raccolse il fucile da terra e lanciò un’occhiata di disprezzo verso Dave prima di seguirlo. Raggiunsero una specie di lavatoio dove si sciacquò il viso dal fango e dalla polvere, poi si rifece la treccia specchiandosi nella superficie dell’acqua. Quando fu soddisfatta, Aron l’accompagnò da un uomo dalla faccia squadrata dietro il bancone di una delle capanne che registrò i suoi dati e le diede un foglietto con un numero. Non fece altre domande. Erano tutti molto freddi e taciturni in quel posto e non era capiva se fosse un bene o un male. Perlomeno, nessun altro le diede fastidio da quel momento in poi. Forse avere al fianco un caporale aiutava davvero. Si sentì orgogliosa dell’amico.
«Quello è il tuo numero da recluta. Devi passare un esame per poter diventare a tutti gli effetti un soldato e iniziare l'addestramento. Sei fortunata ad essere arrivata in questo periodo di tregua, gli esami sono molto più frequenti. Il prossimo dovrebbe essere tra quattro giorni.» le spiegò Aron mentre passeggiavano per il campo.
«In che cosa consiste questo esame?» chiese.
«Solitamente sono test fisici e mentali. Nulla di impossibile. Serve solo a capire se hai i requisiti per diventare un soldato»
Annuì sollevata. Costeggiarono un tratto di filo spinato.
«Dove stiamo andando?».
«Ah, dimenticavo, devi allenarti un po’ per l’esame. C’è una foresta qui a nord allestita apposta per fare un po’ di pratica, ti sto accompagnando lì»
«Una foresta? Ma è perfetto!» si meravigliò di quanto l’amico la conoscesse bene.
Cominciarono ad apparire alcuni alberi solitari, poi l’intera distesa oscura. Era molto diversa dal bosco sulle colline dietro casa sua, quella sembrava molto più fitta e selvaggia, un luogo dove il sole non aveva accesso se non fra le rare e piccole fessure tra le foglie che l’autunno stava strappando dai rami. Dalle sue viscere provenivano odori e rumori sinistri.
«La chiamano la Foresta Nera, non potevano scegliere un nome migliore, vero?» osservò Aron al suo fianco «Li vedi quelli?» indicò i bersagli sui tronchi.
Lei fece di sì con la testa. Erano semplici croci disegnate con inchiostro rosso sul legno, molti dei quali consumati dai colpi.
«Ci sono anche delle trappole. Puoi allenarti fino tramonto e se hai bisogno di mangiare chiedi a un qualsiasi soldato, mostrandogli il tuo numero. Puoi andare dove vuoi, ma non superare la linea bianca e soprattutto il nastro rosso. Questa è praticamente la foresta più grande del continente l’altra metà si trova in territorio nemico. Oltre quel nastro c’è il territorio neutro. Potresti trovarci lupi e serpenti letali di ogni specie.»
«Serio?» stava per mettersi a ridere, pensando che fosse un’altra delle sue storie dell’orrore che raccontava per spaventarla, ma poi vide la sua espressione e la risata le morì in gola. Rabbrividì.
«Bene, io ti lascio qui. Vorrei restare, ma devo fare il prossimo turno di guardia» notò la sua espressione contrariata «Andrà tutto bene finché rimani entro la linea.» le sorrise cercando invano di rassicurarla, poi si allontanò in tutta fretta. Probabilmente era in ritardo a causa sua.
Dopo essere stata circa cinque minuti a fissare gli alberi, trovò il coraggio di entrare. Decise di cominciare cercando questa linea bianca per capire il terreno a sua disposizione. Durante il percorso non trovò anima viva. Si chiese perché mai un terreno al confine col nemico non fosse perlomeno sorvegliato.
Aveva percorso così tanto terreno che ad un certo punto pensò con orrore di aver già superato quella maledetta linea, quando la vide in lontananza davanti a lei, tracciata in modo perfettamente visibile sul terreno e sulle rocce.
Rassicurata dall’immenso spazio a disposizione, cominciò ad allenarsi, all’inizio sparando incertamente, poi velocizzando sempre di più la corsa e centrando ogni bersaglio in modo infallibile, fino a finire i proiettili. Riuscì anche ad accorgersi in anticipo di una trappola a corda e la schivò. Ricaricò il fucile e continuò a sparare, sentendosi ancora incredibilmente carica nonostante tutto quello che era successo in quei due giorni. Ci voleva proprio una corsa tra gli alberi.
«Sei brava».
Si fermò di colpo sentendo all’improvviso una voce dietro di sé. Si girò di scatto quasi terrorizzata e puntò il fucile contro chiunque fosse, ma tutto quello che trovò fu un altro albero.
Qualcuno rise. Sembrava la risata di una ragazzina. «Sono quassù»
Alzò la testa e finalmente la vide seduta sul ramo particolarmente alto del faggio con le gambe penzoloni. La ragazza balzò giù con un colpo e Stacy indietreggiò presa alla sprovvista. Era giovane, potevano avere la stessa età, forse lei di meno. I capelli neri le arrivavano fino alle spalle, leggermente mossi e due occhi sottili dello stesso colore la fissavano ancora divertiti. Era magra, ma con le curve al posto giusto. Sembrava incredibilmente agile, non si era fatta niente dopo tutti quei metri di volo.
«Ciao, mi chiamo Myra» le tese la mano.
Lei l’afferrò incerta e la strinse delicatamente. «Anastasia».
Non indossava nessuna uniforme, anche se la sua giacca e i suoi pantaloni avevano comunque un che di militare, larghi e con le tasche ai lati delle ginocchia. Ai piedi portava un paio di anfibi neri che riconobbe come gli stessi che indossavano anche Aron e gli altri soldati. Cercò di sorridere e rendere meno offensivo il fucile.
«Sei una recluta anche tu?».
Lei sembrò pensarci su. «Non esattamente» rispose in tono vago alla fine.
Aspettò che desse altre spiegazioni, ma la ragazza si limitò a fissarla con un sorriso indecifrabile sulle labbra.
«Ehm… in che senso non-».
«Come dicevo, sei brava a sparare, dove hai imparato?» la interruppe bruscamente.
Lei esitò, pensando di finire prima la sua domanda, ma poi l’orgoglio prese il sopravvento: «Mio padre è un cacciatore, andavamo nei boschi a catturare cervi».
«Capisco. A differenza dei cervi questi bersagli dovrebbero essere una sciocchezza per te vero? Non c’è gusto a colpire degli alberi fermi».
«In effetti sono più uno scherzo» fece spallucce per non sembrare vanitosa.
«Anche mio padre era un cacciatore» dichiarò poi, alzando la testa per guardare le cime degli alberi.
«Era?» non poté fare a meno di notare l’uso dell’imperfetto.
«È morto quando ero piccola» stavolta fu il suo turno di fare spallucce per sottolineare che non le importava.
«Mi dispiace».
«Non importa, non me lo ricordo neanche così bene. È passato tanto tempo» riportò lo sguardo su di lei.
«Che tipo di animali cacciava? Prede grosse? Predatori?» superato il momento di shock fu quasi felice di aver trovato qualcuno con cui parlare della sua passione. Non aveva ancora capito chi fosse quella ragazzina, ma già le stava simpatica. Chissà, magari sarebbero potute diventare amiche, conoscendosi meglio.
«Non cacciava animali» esitò guardandola un attimo, «Cacciava umani» la fece sembrare una specie di rivelazione teatrale. 
«Oh», esclamò in tono soffocato.
«Un cacciatore di taglie sai? Ce ne sono ancora, è un lavoro piuttosto lucroso» precisò alla fine.
«Ah, sì» nascose un impercettibile sospiro di sollievo dietro ad un sorriso nervoso. La sua mente stava già creando mostri sanguinari e cannibali. Maledisse la propria stupidità. In fondo si trattava di un lavoro come gli altri, utile alla società.
«Stavo pensando...» riprese Myra «potresti usare me come bersaglio».  
«Cosa?» squittì in un attimo di confusione.
«Sono un bersaglio mobile no? Così puoi allenarti meglio».
Si ricordò di come era iniziata la conversazione «Sei sicura? Potrei ferirti o.…» lasciò la frase in sospeso. Non aveva mai sparato alle persone e se l’avesse uccisa? Cosa avrebbe provato? Era come uccidere un cerbiatto? Si ricordò le parole del padre…
«Non ti preoccupare, sono veloce. Avanti, mettimi alla prova».
Dubbiosa, alzò il fucile e mirò alle sue gambe. Lo sparo partì e colpì le foglie sul terreno. Lei non si era mossa di un millimetro. Aveva capito che l’aveva mancata di proposito.
«Non devi andarci piano, puoi mirare anche alla testa, fai finta che sia un cervo» la incoraggiò.
Stavolta sparò un colpo senza preavviso verso la spalla sinistra. Lei lo schivò con un movimento fluido del busto.
«Troppo lenta» cantilenò scherzosa.
«Ora ti faccio vedere!» finse di indignarsi.
E si impegnò davvero per colpirla, ma lei schivava un colpo dopo l’altro con una facilità quasi irritante. Ad un certo punto si mise a correre e fu costretta ad inseguirla. Sembrava un’ombra fuggente creata dal vento: si muoveva così velocemente che faceva fatica a starle dietro, figuriamoci a prendere la mira. Non le dava nemmeno il tempo di ricaricare il fucile. Non era paragonabile ai cerbiatti che fuggivano per puro istinto di sopravvivenza e spesso finivano per andare loro stessi dal cacciatore presi dal panico, ogni suo movimento era preciso e logico, seppur imprevedibile. Quella ragazza doveva aver per forza ricevuto un addestramento speciale.
Passarono mezz’ora così, poi Stacy si sentì sfinita e dovette chiedere una tregua. Si sedettero ai piedi di due alberi, una di fronte all’altra e risero.
«È stato divertente».
«Si, hai un'ottima mira» di complimentò l’altra.
 «Scherzi? Non ti ho nemmeno sfiorata» si lamentò Stacy «Come fai ad essere così veloce?».
Myra alzò le spalle «Non sono molto veloce in realtà. La maggior parte delle persone qui è molto più forte e veloce di me. Te l’ho detto, sei tu quella lenta».
Si chiese che razza di mostri dovevano essere gli altri soldati per essere più veloci di lei. Forse anche Aron era migliorato.
«Sembra che tu conosca bene questo …» sentì un sibilo sinistro al suo fianco «…posto». Si girò lentamente e balzò in piedi sgranando gli occhi alla vista delle fauci nere del serpente. «No, no, no» cominciò a imprecare al ritmo di una mitragliatrice, sputando parole che non sapeva neanche di conoscere. «La linea...» si guardò intorno ma non la trovò. Al contrario, vide in lontananza un nastro rosso svolazzare tra gli alberi. «Abbiamo superato la linea bianca!» urlò in preda ad un panico mai provato. I sibili attorno a loro aumentarono.
«Abbassa la voce o ne attirerai degli altri» le sussurrò Myra con un tono fin troppo calmo per la situazione in cui si trovavano. Si coprì la bocca e si girò a guardarla.
Sgranò gli occhi.
I serpenti non la stavano attaccando, ma le giravano intorno formando un cerchio, mentre si alzavano e ondeggiavano in una specie di danza sinistra e sibilante.
«Ma cosa...».
Sentì qualcosa strisciare sui propri pantaloni e stringersi sempre di più. Tremò mentre si girava lentamente per guardare la propria gamba e vide un anello nero cingerle la coscia e salire a spirale. Gemette, ma si costrinse a stare zitta. Un altro suo compagno si stava avvicinando. Il suo cuore sembrò voler uscire dal petto dalla forza con cui batteva.
«Non muoverti» continuò Myra e lei annuì con le lacrime agli occhi mentre guardava quella cosa orribilmente viscida risalire il proprio corpo.
Sentì la ragazza avvicinarsi a lei. Per qualche motivo i serpenti si spostavano al suo passaggio, ritornando sotto il letto di foglie. Prese quello avvolto attorno a lei le lo lanciò via con forza. Per un secondo vide una strana luce sfrecciarle negli occhi. “Non partire, là fuori ci sono persone con occhi come i tuoi, forse ancora più inquietanti”
Scosse la testa, non era il momento di ricordare quelle parole, in fondo le aveva appena salvato la vita. Un altro sibilo. Stavolta scattò d’impulso e corse verso il campo, fermandosi solo quando raggiunse il limitare della foresta e la luce del sole quasi l’accecò. Si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato.
«Dalle tue parti non ci sono serpenti?».
Sussultò. Non si era accorta che l’aveva raggiunta.
«No-» la sua voce tremava «Nel bosco dove viviamo ci sono solo animali innocui. C-come hai fatto?».
«Fatto cosa?».
«Far danzare i serpenti in quel modo».
«Ah, quello. Credo siano i serpenti, io non ho fatto proprio nulla» sorrise misteriosamente «Comunque non erano serpenti velenosi. Mai sentito parlare dei biacchi? Al massimo potevano ucciderti strozzandoti, non c’era motivo di urlare così tanto» la prese in giro.
In situazioni normali si sarebbe arrossita se qualcuno le avesse dato della vigliacca in quel modo, ma in quel momento la sua mente era ancora bloccata sulla prima parte del discorso. I serpenti danzavano in quel modo di fronte ad un umano? Non li aveva mai visti, ma era abbastanza sicura che non lo facessero.
«Comunque… grazie, per avermi salvato la vita».
«Oh ti prego, lo dici come se stessi per morire» sbuffò divertita «Be’, io devo andare, ci si vede in giro» e iniziò ad allontanarsi.
Avrebbe voluto fermarla e chiederle qualcos’altro, ma non trovò la forza. Solo allora, sentì la sua pancia brontolare. Guardò il sole e vide che era al punto culminante, perciò decise di andare a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Poi avrebbe continuato ad allenarsi, se mai avesse trovato il coraggio di ritornare lì dentro.

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