Rosa Nera

di Aperonzina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: l'autunno ***
Capitolo 2: *** Arianna ***
Capitolo 3: *** Una città spenta ***
Capitolo 4: *** Lei chi è? ***
Capitolo 5: *** Obiettivi da raggiungere ***
Capitolo 6: *** Conti in sospeso ***
Capitolo 7: *** Freddo ***
Capitolo 8: *** Qualcosa da immortalare ***
Capitolo 9: *** Scuola ***
Capitolo 10: *** Un sorriso ***
Capitolo 11: *** Tornare da te ***
Capitolo 12: *** Non ti avevo mai vista ***



Capitolo 1
*** Prologo: l'autunno ***


A te mio rimpianto,
Scrivo con timore,
Quest’ultimo pianto,
 
Grazie mio amore,
Di restarmi accanto
Attraverso quel nero fiore
 
 
Liberato dal mio pentimento, ripensavo a quel giorno d’autunno, capace di tramutare fine in inizio.
 
Quella sera doveva essere perfetta, l'autunno era sempre stata la mia stagione preferita, le strade erano ricoperte da un tappeto di foglie dai bellissimi colori che andavano dal giallo, all’arancione, fino al rossastro.
Sentire sotto gli scarponi di pelle l’erba secca e il terriccio umido era una sensazione che mi aveva sempre regalato serenità.
Serenità, certo non si poteva dire che mi appartenesse in quel periodo. Per essere precisi, le cose andavano così da circa sei anni e iniziavo ad essere un po’ stanco.
L’anniversario di quel giorno era vicino e i miei amici sapevano bene che se volevano evitare di farmi passare le serate in qualche pub ad ubriacarmi e successivamente nel letto di qualche sconosciuta, dovevano distrarmi.
Forse per quel motivo mi trovavo fuori dal Pulcinella quella sera, il ristorante in cui, possiamo dire, aveva avuto inizio la mia amicizia con Daniele e Rachele.
Loro due avevano avuto il lieto fine che si meritavano e ne ero davvero contento.
Non speravo di averne uno anche io, sono sempre stato del parere che ci sono poche persone al modo a cui capita la fortuna di trovare una famiglia, ma una vita passata ad attendere con ansia lo stesso giorno per sei anni di seguito no, non me la sarei mai aspettata.
Non che fossi un fallito, avevo la mia clinica odontoiatrica con il mio amico e socio Daniele, avevamo avuto successo nel lavoro e tutto sommato la mia routine non mi dispiaceva.
Avevo una bella casa a venti minuti in auto dalla città, degli amici e mi divertivo. Un uomo di mezz’età come me non ha bisogno di molto di più.
Ci credevo davvero eppure ero lì, fuori da quel ristorante con l’angoscia a pervadermi l’anima. Avevo sempre amato l’autunno, ma ogni anno che passava speravo sempre di più che passasse il più velocemente possibile.
Feci un lungo tiro di sigaretta, in modo da distendere lo stress, non volevo arrivare a cena con pensieri negativi, quella sera c’era una bella notizia da darmi.
Pensavano che non lo avessi capito, ma Rachele era da settimane che stava attenta a cosa mangiava e cosa beveva e quando l’altra sera aveva rifiutato un bicchiere del suo vino rosso preferito, avevo sorriso d’istinto. 
Rido al solo pensiero, farò finta di non sapere nulla, voglio vedere i loro volti allegri e convinti, voglio vederli felici.
Sorrido a nessuno, a loro, all’idea del bambino che stanno aspettando ed entro nel ristorante.
 
Note dell’autore: Questa è una storia che ho in programma da più di un anno e ho deciso che era il momento di pubblicarla. Ora o mai più insomma haha
Spero che questo prologo possa piacervi, fatemi sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 2
*** Arianna ***


Quella telefonata non era prevista, era strano che mi chiamasse un numero sconosciuto e quando accadeva, in genere non mi riservava belle sorprese.
Era stata davvero una bella serata, avevamo quasi finito di cenare, avevamo brindato al bambino che sarebbe arrivato e che aspettavamo tutti con ansia e ci eravamo davvero divertiti.
Stare con Rachele e Daniele era un po’ come staccare la spina, era come dimenticare quanto la mia vita stesse andando a rotoli pur non andando da nessuna parte e mi illudevo che mi andasse bene così.
Tutto sommato erano dei grandi amici, non potevano ridarmi ciò che avevo perso, ma erano uno spiraglio di luce in quelle notti che se trascorse da soli sembrano sempre troppo buie.
Già, era stata una bella serata, eppure ora mi ritrovavo con il telefono appoggiato all’orecchio a sentire la voce fastidiosa dell’ultima persona che avrei voluto ascoltare.
Avrei potuto riagganciare, è un gesto tanto semplice, quanto complicato quando la persona dall’altra parte ha fatto parte della tua storia, quella vera, quella prima della tua disfatta come individuo.
Quella voce era proprio come la ricordavo, fastidiosa, acuta e ora aveva quel tono che usava quando tentava di farmi pena. Di pena ne avevo provata varie volte nei suoi confronti, ma mai tenerezza o tristezza. Solo disgusto.
Ero stanco e volevo che arrivasse al dunque, avevo acceso un’altra sigaretta, in modo tale da evitare di sbraitarle addosso e darle almeno dieci minuti per parlare, dieci minuti, non glie ne avrei concessi altri.
Dopo uno sproloquio insostenibile, la notizia arrivò di getto, senza preavviso, senza che il mio cervello avesse il tempo per elaborarla.
Le mie labbra si dischiusero e la sigaretta che tenevo tra di esse cadde al suolo, la osservai spegnersi e riagganciai, non l’avevo salutata, non mi importava granché farlo.
Tornai nel ristorante e sedendomi osservai i volti felici dei miei amici, avrei voluto imitarli, non era giusto che io stessi così in un momento perfetto per loro.
Inevitabilmente i loro volti si incupirono, sentì la voce di Rachele che sembrava lontana come non lo era mai stata «Carlo» mi chiamava ma era come se avessi dimenticato come rispondere.
«Carlo, chi era al telefono?» fu Daniele ad interpellarmi la seconda volta e riuscì a girarmi, anche se in maniera quasi meccanica.
«Mia madre» dissi in un sussurro.
Percepì la perplessità dei due, come biasimarli, dopo vent’anni che non si hanno notizie della propria famiglia, dopo vent’anni che si è fuggiti dal proprio paese d’origine, una chiacchierata con la propria madre non è un evento così comune.
«È successo qualcosa?» Daniele lo chiese con dolcezza, sapevo che lo turbava la mia instabilità, sapevo di sembrare un pazzo e avrei voluto negare, fare finta di nulla, ma una sola parola uscì dalle mie labbra  «Arianna».
La coppia mi osservava confusa e io sapevo di non starmi spiegando, sapevo che un nome non poteva significare nulla, ma in quel momento era tutto per me e così articolai, pronunciai quello che non avrei voluto sentirmi dire «Arianna è morta».
Li vidi li sguardi confusi, come vidi la domanda che sorse nei loro occhi.
Chi era Arianna?
Mi ritrovai a chiedermelo io stesso.
Non risposi, il suo volto era impresso nella mia mente, mi chiesi se fosse invecchiata, mi chiesi come la malattia l’avesse consumata, mi chiesi che vita avesse fatto fino ad ora.
Poi ricordai l’ultima volta in cui la incontrai e mi risposi che forse non dovevo essere in lutto, mi dissi che forse, come me, anche lei era già morta sei anni fa.
 
Note dell’autore: Ciao! Ecco qui il secondo capitolo, so che al momento sono capitoli brevi e ancora è difficile capire dove voglia andare a parare la storia, ma voglio concentrarmi bene sull’interiorità dei personaggi, comunque presto sarà tutto un po’ più chiaro.
Intanto spero che questi capitoli vi piacciano, fatemi sapere cosa ve ne pare, accetto volentieri critiche e consigli! Tengo molto a questa storia, quindi se credete che possa migliorarla non esitate a farmelo sapere, grazie di essere arrivati fin qui!
 

 

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Capitolo 3
*** Una città spenta ***


Seconda classe, binario numero sette, direzione, Brescia.
I vetri erano puntellati da quelle che sembravano piccole macchioline di vernice.
I pavimenti del vagone erano sporchi e il rumore assordante e gli spifferi d’aria gelida non mi avevano permesso di chiudere occhio.
Imprecai sottovoce, nel 2019 era improponibile che un treno fosse tanto sciatto.
Mi guardai intorno per spiare gli altri passeggeri, poco davanti a me, un gruppetto di ragazzi scherzosi chiacchierava animatamente, di lato, una signora di mezz’età era intenta nella lettura di un romanzo e poco distante da lei, una ragazza di qualche anno più grande di me, probabilmente una pendolare, sistemava gli appunti sul suo portatile.
Nessuno sembrava soffrire particolarmente della scomodità di quel treno e questo non faceva altro che irritarmi ulteriormente, a volte mi chiedevo se fossi io l’unica a vedere la realtà, o se la mia realtà fosse completamente diversa da quella del resto del mondo.
Ero rannicchiata in un angolo lontano da tutti, avvolta nel mio cappotto nero, le cuffiette bianche alle orecchie e il filo che si attorcigliava tra le mie dita nodose mentre ci giocherellavo.
Era solo l’inizio di settembre ma io stavo congelando. Ero stanca, troppo stanca per quel vento, per le chiacchiere, per sopportare la serenità altrui, che invadeva la vita delle persone come me.
L’unica via d’uscita dal mondo reale era la musica, nonostante i System of down fossero passati di moda per alcuni, per me sarebbero sempre stati una via di fuga, il mio rifugio.
Era solo musica, eppure era in grado di comunicarmi molto più di quanto avesse mai fatto una persona in carne ed ossa.
Socchiusi gli occhi, concentrandomi sulla melodia, il resto non aveva importanza.
 
Quando scesi dal treno, la stazione di Brescia era affollata come mi era stata descritta. L’aria che si respirava in città non era tanto diversa da quella di Pordenone, ma il mondo sembrava grigio, le persone erano grigie, fredde, surreali. 
Il fatto di aver vissuto in campagna, circondata dai campi e dalla natura, non aiutava di certo a rendere quel paesaggio più piacevole, però dovevo ammetterlo, quella stazione sarebbe parsa tetra a chiunque.
Non mi fece troppa impressione, d’altronde, anche io agli occhi esterni, nonostante i capelli rossi e incolti facessero del loro meglio per rendermi appariscente, dovevo apparire anonima, spenta. Forse era la città perfetta nella quale stabilirsi.

 Raggiunsi la mia meta dopo aver viaggiato per una mezz’ora circa su un altro autobus fatiscente e così mi ritrovai in un quartiere singolare nella periferia della città. 
Chiunque in una situazione simile si sarebbe sentito elettrizzato, spaventato o quantomeno emozionato, ma io no. In realtà mi sentivo allo stesso modo da tanto, tantissimo tempo.
Le giornate erano tutte uguali e le occhiaie sul mio volto dimostravano quanto anche le notti potessero essere infinite certe volte.
Ero stanca, ma non avevo paura, non avevo nemmeno la forza di provare ancora paura.
 
Mi fermai davanti ad una bella villa con un cortile curato, avrei dovuto ritenermi fortunata, chi tiene così bene una casa, non può essere uno sbandato o un pazzo.
Risi di me stessa, era stato un pensiero stupido, mi ero fissata con i gialli in quel periodo e si sa che i peggiori criminali sono persone che non ne hanno affatto l’aspetto. Sperai non fosse quello il caso.
Presi un grande respiro e controllai il nome sulla cassetta della posta. Forse a ripensarci un po’ di paura l’avevo, ma quella era la casa che stavo cercando, dovevo solo suonare il campanello.
Rilessi il nome una seconda volta, giusto per essere sicura. A grossi caratteri neri, si poteva leggere chiaramente il nome dell’inquilino: Carlo Agazzi
 
 
Note dell’autore: Ciao! È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho pubblicato, come avrete notato, il personaggio narrante è cambiato, accadrà spesso in questa storia e un po’ ho cercato di cambiare leggermente anche stile di scrittura, per renderlo più affine alla protagonista di questo capitolo.
Cercherò di pubblicare il prossimo capitolo al più presto, spero questo capitolo vi sia piaciuto, grazie per essere arrivati fin qui!

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Capitolo 4
*** Lei chi è? ***


Da quella sera i miei incubi si erano come moltiplicati.
Nei miei sogni, al posto di un volto pallido e malato, ora c’era l’insistente voce di Arianna che mi accusava.
Ero stato io ad ucciderla, era colpa mia, così diceva.
Mi tolsi il lenzuolo di getto e aprii le tapparelle, ero stanco, quella maledetta non poteva darmi problemi anche da morta, non poteva incolparmi della sua malattia, non ora, non più.
Mi irritava pensare a lei così intensamente e francamente lo trovavo ingiusto. 
Avevo impiegato davvero tanto tempo per prendere la decisione di andarmene.
Trasferirmi a Brescia, parecchio lontano da casa, non era stata una scelta semplice, lontano da tutti, da lei, da quella che avevo sempre reputato la mia famiglia...
Non era stato semplice ma l'avevo fatto, perché il luogo in cui sono cresciuto non rappresentava più da tempo la mia casa, quelle persone non erano la mia casa, Arianna stessa non lo era più.
E ora era morta e se non era mai stata la mia famiglia, allora proprio non capivo perché avrei dovuto permetterle di tormentare le mie notti.
 

Mi stavo lavando la faccia quando il campanello interruppe il mio riflettere. 
La mia mente, intenta ad assecondare quei pensieri disfunzionali e malati, mi portò davanti alla porta di ingresso che indossavo ancora i pantaloni del pigiama e una canotta grigia, ma in quei giorni non mi importava granché delle apparenze, quindi aprì semplicemente la porta, con l’intenzione di cacciare chiunque avesse osato disturbarmi, di rifiutare qualunque venditore porta a porta o missionario della chiesa. 
 
Quando i miei occhi si scontrarono con quelli dell’ospite indesiderato, temetti di cadere a terra, perché la testa aveva iniziato a girarmi non appena i suoi occhi si erano posati su di me.
Capelli rossi e mossi, un viso fine e pallido dai lineamenti appuntiti e gli stessi occhi scuri che mi perseguitavano da sei anni nei miei incubi.
Persi un battito e trattenni il respiro per qualche secondo, lei si avvicinò di poco, come per darsi coraggio, le due fedi che portava al collo, legate insieme da una catenina, fecero un rumore fastidioso che sembrò penetrarmi i timpani e le sue labbra sottili che si arricciarono in segno di disappunto mi riportarono alla realtà. 
«Ehi» disse secca.
Quando ebbi finito di boccheggiare, mi schiarì la voce, il suo forte accento Friulano lo riconobbi subito, era quello che avevo sentito per tutta la mia infanzia e adolescenza.
Se pur arrivasse appena all’altezza del mio mento, e avesse una corporatura decisamente gracile, non potevo fare a meno di sentirmi agitato.
Non ci eravamo mai visti ma sapevo esattamente chi fosse, erano le sue intenzioni che non mi erano chiare.
«Che cosa vuoi?» fu tutto quello che riuscì a dire.
Lei si strinse nelle spalle, forse stupita dalla mia reazione e assunse un’aria di scherno, osservando la mia figura impallidita.
Sorrise appena «I nonni mi hanno detto che dovrò restare qui per i prossimi tre mesi» disse semplicemente.
Io corrugai d’istinto le sopracciglia «Cosa?».
«Ecco lo sapevo» esordì lei afferrando il manico della sua valigia distrattamente, «non ti hanno avvisato vero?» continuò scocciata.
Non riuscivo a capire se mi stessero facendo un brutto scherzo o se mi trovassi davvero in quella situazione assurda «Non c’è nulla che posso fare per te, mi spiace» dissi rigido.
Per un momento avevo sperato che sarebbe bastato così poco per farla andar via, ma la ragazza si alzò sulle punte, circospetta, tentando di sbirciare dentro casa «Beh, ho affrontato un viaggio di tre ore su un treno regionale, sporco e scomodo, ho vagato in questo paesino desolato per almeno trenta minuti prima di trovare questa casa» annunciò con un’apparente tranquillità che sembrava poter crollare da un momento all’altro »tutto, perché mi è stato detto che avrei dovuto lasciare la mia casa e venire a stare qui per qualche mese» continuò, il tono della voce ora nascondeva una punta di amarezza, «ora, mi spiace che tu non sia stato avvisato e tutto il resto, ma dopo il viaggio che ho dovuto affrontare, non ti sembra il minimo farmi entrare? Sai, anche solo per fare pipì».
Inizialmente rimasi sorpreso, il suo menefreghismo era ammirabile, chinò la testa da un lato, in attesa di una mia risposta.
Mi scappò uno sbuffo d’ira «Bastardi» dissi frustrato.
«Uhm, già, la gente è orribile, quindi? Vado? Resto? Mi faccio una passeggiata e intanto ci pensi?» rise alla sua stessa battuta.
Corrugai le sopracciglia a quella domanda, la sua impertinenza era incredibile, se in un primo momento mi aveva ricordato Arianna, il suo tono di voce e le sue parole acide mi fecero ricredere, comunque, non osai controbattere «I Tuoi nonni ti hanno detto di venire qui?».
La giovane annuì pensierosa «Più che altro mi hanno preso un biglietto di sola andata per Brescia e mi hanno spedita da te, però si, vedila un po’ come vuoi, non credo faccia la differenza».
Scossi la testa, al pensiero di quei due «Beh, qui non puoi restare, mi spiace» feci per chiudere la porta, non volevo saperne nulla.
Mi sorpresi quando mi accorsi di non essere riuscito a chiudere la porta e sentì uno strano rumore di ossa rotte, seguito da un urlo «Ahi!»
Spalancai nuovamente la porta, sbalordito, trovandola la ragazza in piedi su una gamba sola, mentre teneva tra le mani il piede destro con gli occhi lucidi dal dolore «Ma sei scemo?».
«Ma cosa?» esclamai allarmato, «sei tu che hai infilato il piede mentre chiudevo».
«Beh che altra scelta avevo?» chiese massaggiandosi il piede.
Quindi lo aveva fatto intenzionalmente? «Fa tanto male?».
«Ti stavo parlando! perché cavolo hai chiuso?» mi rimproverò, poi alzò lo sguardo, «davvero vuoi farmi tornare in città e affrontare tutto il viaggio da zoppa?» chiese indignata.
«Che? Ehm… è così grave?».
«Credo di non poterlo appoggiare» rispose infuriata lei, cercando di poggiarlo a terra, strizzando gli occhi per il dolore.
«Ok, senti mi spiace» cercai di mantenere la mia rigidità, ma da quando l’avevo incontrata, per qualche ragione non era stato semplice, «non puoi camminare?».
«Forse… ma fa un male cane» continuò adirata.
Era l’ultima persona con la quale avevo voglia di passare del tempo, ma erano le undici del mattino e nonostante fosse autunno il sole era pesante da sopportare quel giorno, per non parlare del fatto che aveva appena affrontato un viaggio di almeno tre ore per arrivare a casa mia e scoprire di dover tornare indietro, e per concludere in bellezza, le avevo pure schiacciato un piede nel tentativo di sbatterla fuori di casa, questo era troppo anche per me «Senti hai mangiato qualcosa in viaggio?» cedetti infine.
Lei rivolse nuovamente il suo sguardo su di me e mi venne quasi istintivo indietreggiare, come se il solo guardarmi negli occhi fosse una minaccia.
Scosse la testa in negazione «Non avevo soldi con me» spiegò «e l’idea di chiedere ai nonni mi disgustava».
Non commentai la sua affermazione, almeno su una cosa eravamo d’accordo «Senti, intanto entra in casa, puoi pranzare qua e riposarti un po’, poi vediamo cosa fare» ero disposto a riportarla a Pordenone in auto se voleva dire togliersela di mezzo.
Stava per rispondermi, quando una voce da dentro l’abitazione ci interruppe.
«E lei chi è?»
Mi voltai sorpreso, Vanessa, mi ero quasi dimenticato che aveva passato la notte da me.
La osservai stupito, sì, mi ero appena ricordato della sua presenza e non me ne vergognavo affatto.
In quel momento avrei voluto solo che se ne andasse, che se ne andassero entrambe, avrei voluto restare solo per sempre e soprattutto evitare quella domanda.
Così, la gola secca e la voce tremante, le risposi «Lei è mia nipote».
 
Note dell’autore: Ciao! Questo capitolo è un po’ diverso dagli altri e un po’ più lungo, non sono sicura di essere riuscita a mantenere la solita atmosfera ma spero che comunque il capitolo funzioni abbastanza bene, se avete consigli fatemelo sapere!
Spero comunque vi sia piaciuto, grazie di essere arrivati fin qui.

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Capitolo 5
*** Obiettivi da raggiungere ***


L’acqua che scendeva calda sul mio corpo infreddolito mi fece distendere i nervi, nonostante nel piccolo bagno ci fosse una vasca, avevo optato per una doccia veloce.
Il piede stava già migliorando, dovevo ammettere che avevo un po’ esagerato con tutte quelle lamentele, ma almeno mi avevano fatto guadagnare del tempo. Mi chiesi quando avevo imparato a recitare così bene.
Non mi pentì delle bugie dette a Carlo, se mi serviva per convincerlo a farmi rimanere da lui ancora per un po’, ne valeva la pena.
Sentivo che c’era qualcosa che ci accomunava, alla fine, eravamo scappati dalla stessa famiglia.
Anche io in parte ero stata cresciuta dai suoi genitori, i miei nonni infatti erano stati delle ottime figure genitoriali negli ultimi anni, ma ciò non mi bastava più.
Osservavo l'acqua scorrere sul mio corpo pallido e malaticcio, la vita sembrava voler abbandonare anche me. In realtà sembrava avermi abbandonata già da parecchio tempo.
“Sei anni”, pensai, era da sei anni che resistevo e ora ne avevo abbastanza, avevo preso una decisione e non sarebbero di certo bastate poche parole per convincermi a tornare a casa.
 
Quando uscì’ dal bagno trovai Carlo al tavolo della cucina, si, era il fratello di mio padre, ma chiamare zio un uomo che nemmeno avevo mai visto suonava strano.
Lo sguardo era puntato sul telefono con un’espressione singolare, non mi impegnai nemmeno a decifrarla.
«Come va il piede?».
Mi strinsi nelle spalle e presi posto difronte a lui «Sembra un po’ meglio, ma fa ancora male».
I suoi occhi si posarono su di me, scuri e penetranti «Che cosa vuoi da me Ginevra?» andò subito al sodo.
Le mie labbra si dischiusero leggermente, non mi aspettavo sapesse il mio nome, non pensavo nemmeno sapesse della mia esistenza fino a poco fa a dire il vero «Te l’ho detto…».
«Ho parlato con tua nonna, era preoccupatissima» mi interruppe.
Sentì il cuore fermarsi per un secondo, sapevo che il mio piano non era dei migliori, ma avevo pensato che la nonna non avrebbe mai considerato l’idea di chiamare Carlo.
Mio zio è sempre stato un argomento tabù in casa, sapevo poco di lui e recuperare le informazioni sul luogo in cui si trovava non era stato semplice. 
Certo non avevo pensato che avrebbe potuto essere lui per primo a contattare i miei nonni.
«Sono loro che ti hanno detto il mio nome?» le mie parole erano sempre così fuori luogo, così distanti da quello che avrei voluto dire. Che importanza aveva un nome in quel momento, forse nulla, ma a me sembrava vitale.
Lui sospirò pesantemente «Senti, non so che intenzioni hai, ma per colpa tua ho dovuto risentire mia madre e due volte in un mese è davvero troppo».
«Io me la sorbisco ogni giorno» sbottai, io stessa rimanevo spesso incredula dalla mia sfacciataggine.
«Silenzio!» urlò Carlo battendo una mano sul tavolo.
Sussultai appena, ma i miei occhi rimasero puntati nei suoi.
«Non ho intenzione di prendermi a carico l’errore di mio fratello e Arianna».
Non mi ferì particolarmente la sua affermazione, io stessa mi reputavo l’errore più grande dei miei genitori, ma comunque regnò il silenzio dopo la sua affermazione, dal suo sguardo sembrò che quelle parole avessero fatto più male a lui che a me.
 
Non so se stesse riflettendo sulla prossima mossa da fare, o fosse in qualche modo dispiaciuto, ma passò qualche minuto prima che parlasse di nuovo «Quelle due fedi sono loro?» chiese indicando la catenina che portavo al collo.
La presi tra le mani ed annuì «Lo sai come sono morti?».
Lo vidi sbiancare, ma non mi fermai «Mio padre, tuo fratello» rimarcai «si è ucciso assumendo troppi farmaci, cliché» dissi ironica e ancora una volta mi stupì del mio sangue freddo «mentre la mamma…»
«Ho già avuto i dettagli della morte di Arianna» mi fermò «arriva al punto».
Il mio sguardo ricercava il suo, volevo capire, dovevo sapere se la sua era totale indifferenza o se c’era un barlume di umanità, ma purtroppo aveva smesso di concedermi il suo sguardo da un po’.
«Tu hai guardato in silenzio, ti interessa così poco che nemmeno sapevi fosse malata» non lo stavo accusando, speravo solo in una reazione, «quando papà è morto, la mamma si è risposata con un altro uomo» spiegai infine, «questo è il punto, i miei nonni vogliono che vada a vivere con lui».
«E lui non vuole?».
«È pronto ad accogliermi» dissi stupendolo, poi tentai il possibile «sono io che non voglio, quindi ti prego, concedimi qualche mese, poi troverò un lavoro e non mi vedrai più».
Carlo Tacque e per minuti interminabili mi chiesi a cosa stesse pensando, poi aprì bocca «Quanti anni hai»?
«Quindici, a novembre sedici».
Lo vidi sospirare «Fino a Natale».
Lo osservai smarrita «Cosa?».
«Potrai restare fino alla fine di dicembre, poi, te ne torni a casa».
Non potevo crederci, aveva funzionato, aveva davvero funzionato!
Fece per alzarsi, poi sembrò venirgli in mente qualcosa di improvviso «Ah, andrai a scuola».
«Cosa?» quasi urlai.
«Andrai a scuola fino ai tuoi sedici anni, nel mentre puoi cercare lavoro o far quel che ti pare» non captai una minima variazione nella sua espressione facciale, «e il 24 dicembre, non mi importa quale sarà la tua situazione, te ne andrai da casa mia, se riesci prima meglio ».
Non disse altro, indossò il cappotto e uscì di casa, non mi aveva nemmeno detto in che stanza avrei dormito, si era limitato a lasciare un bigliettino con su scritto il suo numero sul tavolo della cucina.
Era una follia, lo sapevo, ma avevo addirittura quattro mesi, mi bastavano, me lì sarei fatta bastare.

Note dell’autore: Ciao! Finalmente si entra nel vivo, spero che si capisca bene il legame di parentela che c’è tra tutti i personaggi, per il resto, lo so ci sono ancora misteri, e questioni irrisolte, ma va bene così per il momento.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, grazie di essere arrivati fin qui!
 

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Capitolo 6
*** Conti in sospeso ***


Il suo sorrisetto iniziava ad innervosirmi.
Mi guardava con fare divertito, seduto difronte a me in quella vecchia osteria in cui stavamo passando la nostra pausa pranzo.
Per lui era facile, aspettava un figlio dalla donna che amava e credere di avere una ragazzina che gli gironzolava per casa non era un’idea poi così assurda o lontana.
Ma Ginevra non poteva restare a casa mia e Daniele lo avrebbe dovuto sapere più di chiunque altro. 
Tutti sapevano che avevo chiuso con i giovani, non mi piacevano, non volevo immischiarmi nei loro affari e soprattutto non volevo avere un'adolescente problematica in casa.
«Lei non può restare Dan, sono serio».
Il mio amico mi osservò, ora con più serietà, facendo un’ispezione accurata della mia figura e soffermandosi sul viso, che ormai da settimane era più sciupato di quanto non lo fosse mai stato «Ascolta Carlo, non so che rapporto avevi con la tua famiglia e con Arianna, d’altronde tu non ci parli mai di quella che è stata la tua vita a Pordenone» io feci un veloce cenno con la mano, come a scacciare le sue parole e invitarlo a continuare, lui si limitò a sospirare, «insomma, questa ragazza non ti fa un po’ tenerezza? È tua nipote e ti sta chiedendo di ospitarla, hai una casa enorme in cui non passi molto tempo, che sarà mai?».
Tenerezza… 
Ginevra era entrata nella mia vita da meno di un giorno e mezzo e tutti non facevano altro che preoccuparsi per lei. 
Eppure, nessuno pensava a come mi sentissi io, messo alle strette, invaso nella mia stessa casa. Nessuno metteva in conto che io non le dovevo nulla.
Eravamo come perfetti sconosciuti, perché avrei dovuto darle una mano?
«Non è una bambina, non può presentarsi a casa mia senza dire nulla a nessuno e pretendere ospitalità».
«Se lo avesse chiesto a qualcuno glielo avrebbero permesso? E soprattutto, tu l’avresti aiutata?» Daniele mi guardò severo, «nessuno ascolta veramente i giovani, forse se è andata via aveva le sue ragioni».
Ricambiai lo sguardo del mio amico con fare rassegnato, non sapevo più come fargli capire il concetto «I suoi problemi non mi riguardano».
«Allora perché non la cacci via?» mi provocò, «la lasci dormire nella tua stanza degli ospiti, le paghi l’istruzione e le permetti di vivere in casa tua fino a fine anno, sinceramente non ti capisco»
Non seppi rispondere, principalmente perché nemmeno io mi capivo.
La mia non era pena o dispiacere, di questo ne ero certo e se dovevo essere sincero, egoisticamente avrei preferito fosse così.
Purtroppo, però il futuro della ragazza non mi interessava, non provavo nulla per lei, se non fastidio e un’insana ansia quando ero in sua presenza. 
Quello che provavo era senso di colpa, non nei suoi confronti, certo, non avevo nessun debito con lei, ma con sua madre forse sì, forse, con Arianna, qualcosa in sospeso era rimasto e in quei giorni non facevo altro che pensarci.
Non praticavo nessuna religione e non avevo mai creduto a fato, destino e altre sciocchezze simili, ma iniziavo a chiedermi se quella non fosse una punizione da parte di Arianna, il pegno che avrei dovuto pagare per rifarmi nei suoi confronti.
Non avevo mai creduto a certe cose, ma ero stanco, chiamatelo senso di colpa, chiamatelo destino, quel giorno mi alzai per chiedere il conto e mentre guardavo il volto familiare della proprietaria dell’osteria, decisi che avrei pagato, che avrei estinto il mio debito una volta per tutte.
Infondo, si trattava solo di quattro mesi.

Note dell'autore: Ciao! questo è un breve capitolo di passaggio, spero vi sia piaciuto! Arriveranno presto aggiornamenti.

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Capitolo 7
*** Freddo ***


La prima cosa che appresi della mia nuova convivenza con Carlo fu che la sua clinica era in città e quindi mi sarei trovata spesso da sola. Ne fui felice, l’idea di trascorrere del tempo con lui non mi faceva impazzire.
Mi aveva dato poche e semplici indicazioni quella mattina, che trovai scritte in un biglietto abbandonato sul tavolo in legno della cucina:
“Tieni tutto in ordine come l’ho lasciato, non fare casino, non uscire di casa, se hai fame prendi quello che vuoi dal frigorifero.”
Sbuffai divertita, non che avessi intenzione di organizzare una festa.
Era già mattina inoltrata e non mi disturbai ad aprire la dispensa, da parecchio tempo svegliarsi era un incubo e obbligami a mangiare qualcosa prima di sera era quasi impossibile.
Non che a nessuno importasse se io morivo di fame o mi abbuffavo dalla mattina alla sera.
 
Il sole era già alto nel cielo e io mi aggiravo incerta per le stazze da giorno, era interessante vedere l’arredamento e poter capire un po’ la personalità di Carlo.
A partire dalla stanza dalle pareti grigie e il materasso rigido in cui avevo dormito quella notte, supposi che non fosse abituato a ricevere ospiti.
Invece la cucina era immacolata, come se nessuno la toccasse da anni, mentre il salotto catturò maggiormente la mia attenzione.
Non che fosse più vissuto, l’intero arredamento sembrava essere stato creato appositamente per quelle mura. Mobili in legno massiccio decoravano la stanza e i sopramobili erano poggiati in maniera ordinata e meticolosa, un leggero filo di polvere li ricopriva.
A differenza delle stanze notturne della casa però, questa almeno era ben illuminata da una grande vetrata che dava al giardino sul retro.
Anch’esso era perfetto e senza un filo d’erba tagliato male, a giudicare dalla perfezione delle siepi, Carlo doveva aver assunto un giardiniere, chissà, magari quella sarebbe stata la mia unica compagnia, avevo sempre legato facilmente con i collaboratori domestici, molto più che con i miei coetanei, almeno.
 
Mi ritrovai davanti alle porte vetrate ad ammirare le seggioline in vimini e il tavolino dello stesso materiale.
Era bello, ma come tutto il resto privo di personalità. Mi percosse un brivido, era come trovarsi in una casa disabitata ma estremamente curata.
Sospirai, rilassando la muscolatura, non c’era traccia di vita in quella casa, ma andava bene così, forse qui mi avrebbero lasciata in pace.
Mi aggirai ancora un po’ nella stanza, ammirando i quadri e poi mi sedetti sulla poltrona. Solo allora mi accorsi che il cuscino sembrava leggermente sformato, forse quello era il posto di Carlo.
Accarezzai per un breve istante il tessuto chiaro dei braccioli, per poi circondarmi le gambe con le braccia e rannicchiarmi su me stessa.
Ero scappata di casa per trovarmi in un posto altrettanto inospitale e ora non c’era davvero più nessuno con me, appoggiai il viso alle ginocchia, i dubbi mi affliggevano, i pensieri si intrecciavano in un vortice infinito e confusionario.
Non faceva freddo, ma a me sembrava di congelare.
 
Note dell'autore: Eccoci con un nuovo e molto breve capitolo, la storia va avanti lentamente, ma presto spero di riuscire ad entrare nel vivo, grazie di essere passati :)

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Capitolo 8
*** Qualcosa da immortalare ***


Questa mattina sono uscito di casa presto per fare delle commissioni per mio padre, passo di fetta dalla sua bottega e prendo al volo il pane da consegnare ad uno dei suoi clienti abituali.
E’ un po’ seccante, ma devo passare davanti alla bottega per andare a scuola, quindi non è un grande sacrificio.
Oltretutto uscendo al mattino presto riesco a scorgere i colori dell’alba e il cielo rosato ha la capacità di rendere ogni soggetto più affascinante e delicato.
Sì, quello di cui ho bisogno per questo progetto fotografico è la delicatezza, mi sto fissando con certi fiori semplici e svariati elementi naturali, ma ancora nulla è riuscito a catturare a sufficienza la mia attenzione.
Comunque mi guardo attorno, attento a cogliere ogni particolare che possa ispirarmi. La casa si trova un po’ fuori dal centro del paese e nella stradina sterrata che devo percorrere scorgo spesso spiazzi d’erba o parchetti, potrebbe essere la giusta occasione.
La fotografia mi appassiona da sempre, ma solo ultimamente mi sono iscritto ad un corso per macchine analogiche, sì lo so, non le usa più nessuno, ma l’arte è arte e io voglio sapere tutto sulla fotografia, da come è stata pensata e costruita la prima macchina fotografica, all’ultimo modello realizzato.
 
Intento nella ricerca dell’obiettivo perfetto arrivo davanti alla casa del cliente di mio papà senza rendermene conto.
Spingo il cancellino in legno che viene lasciato sempre aperto e mi faccio strada nel vialetto, ho sempre amato questa casa, anche se non ho mai visto l’interno, è bella e ha un cortile ordinato e curato, mi ha sempre trasmesso ordine e quiete.
Busso alla porta e aspetto paziente, non capita spesso che mi si faccia aspettare, ma oggi non sembrano proprio intenzionati a rispondere.
Odio le attese, non dimostrano serietà, non sono rispettose, ma so bene di non dover infastidire i clienti di mio padre con le mie fissazioni, quindi a malincuore non mi lamenterò.
Poi finalmente la porta si apre, porto già il viso verso l’alto, ma il mi sguardo incontra solo una chioma rossastra.
Osservo stranito la ragazza assonnata e spettinata che mi trovo davanti, mi è capitato più volte di essere accolto da donne diverse andando a consegnare il pane al signor Agazzi, ma mai me ne era capitata una così giovane.
I suoi occhi erano scuri e a giudicare dallo sguardo sembrava abbastanza scocciata, forse l’avevo svegliata, ma non mi sembrava un orario così improponibile.
«Questo è per il signor Agazzi» decido di non aspettare ulteriormente e le porgo la borsa del pane.
Lei sbuffa e quando le nostre mani si sfiorano per permetterle di afferrare la busta, qualcosa scatta nella mia mente.
È spettinata e forse deve farsi anche una doccia, la faccia è ancora stropicciata dal sonno ed è la cosa meno ordinata che io abbia mai visto.
Però è delicata, fine, piccola ed estremamente fragile.
Osservo ogni sua movenza e capsico che è lei il soggetto che cerco, è lei che devo fotografare, è quel contrasto di pelle chiara e capelli aggrovigliati, lunghissimi e rossi che voglio immortalare.
Riesco appena a presentarmi che lei ricambia con un semplice «Piacere, mi chiamo Ginevra, ciao» e mi vedo sbattere la porta in faccia.
Rimango per qualche secondo a fissare la porta un po’ intontito, in una situazione normale sarei furioso, è stata piuttosto maleducata, ma ora sono troppo preso dal pensiero di fotografarla per concentrarmi su altro.
Mi avvio con mille domande in testa, frequenterà la mia scuola? A giudicare dall’aspetto sembrava più giovane di me, sarà sua figlia? La figlia di una sua compagna forse… Ginevra…
Non era un granché bella, un po’ troppo gracile e il viso aveva un aspetto malaticcio, troppo pallida, gli occhi un po’ spenti, magari aveva il raffreddore, eppure qualcosa di lei mi ha colpito, potrebbe essere un soggetto interessante da fotografare, diverso da quello che faccio di solito.
Era cupa, annoiata, estremamente giovane eppure aveva un’aria così vissuta.
Ci penso a lungo finché non mi trovo davanti alla mia scuola e ci penso anche mentre mi addentro nel grande cortile.
Spero che il signor Agazzi abbia bisogno di altre consegne in questi giorni, voglio rivederla, devo parlarle, ho bisogno di immortalare quel suo sguardo sfinito.
 
 
Note dell’autore: Ciao a tutti! Prima di tutto grazie di aver letto anche questo capitolo.
Per prima cosa, parto già con le mani davanti haha ho cambiato il tempo verbale in questo capitolo e l’ho fatto intenzionalmente.
So bene che non è una cosa che si dovrebbe fare, i capitoli dovrebbero mantenere lo stesso tempo verbale e la stessa persona, ma volevo fare una sorta di esperimento.
Quindi se qualcuno vuole darmi il suo parere a riguardo lo accetto volentieri, anche perché mi chiarirebbe un po’ più le idee.
Con Carlo e Ginevra ho sempre utilizzato il passato remoto, perché mi sembra una forma più pesante e malinconica, mentre con questo nuovo personaggio, che vive una realtà decisamente più serena, mi trovavo meglio ad utilizzare il presente e mi sembra renda meglio la situazione.
Oltretutto per Carlo e Ginevra è come se fossero un po’ fermi nel passato e il passato remoto mi sembra rimarcare questa cosa in qualche modo.
Se deciderò di adottare questa tecnica comunque il personaggio appena presentato parlerà sempre al presente e viceversa con gli altri.
Essendo un testo molto introspettivo mi piaceva quest’idea anche se non è del tutto corretta, ma forse per capire se può funzionare bisogna addentrarsi ancora un po’ nella trama e capire se stona proprio o se comunque da un punto di vista di coerenza non funziona.
Non saprei, pubblico comunque il capitolo così come l’ho pensato perché non mi dispiace affatto e magari potrò ricevere consigli ininteressanti.
Magari è solo una mia fissa del momento, nel caso non funzionasse comunque più avanti modificherò il capitolo.
Spero come al solito che vi sia piaciuto, grazie aver letto fin qui, alla prossima!
PS: scusate se il commento è quasi più lungo del capitolo xD

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Capitolo 9
*** Scuola ***


Il mio primo giorno di scuola fu singolare.
Per ironia della sorte, il ragazzo che qualche mattina prima aveva suonato alla porta di casa, frequentava la stessa scuola a cui Carlo mi aveva iscritta e sotto sua richiesta, era venuto a prendermi quella mattina per accompagnarmici.
Era stata una passeggiata alquanto imbarazzante, i suoi occhi verde chiaro si posavano fin troppo spesso su di me, scrutandomi dalla testa ai piedi, la sua freddezza, completamente celata da un sorriso educato.
Non mi piaceva. Elia, così aveva detto di chiamarsi, era una di quelle persone impeccabili, quella mattina avevo scoperto che aveva due anni in più di me e avevo potuto notare dal suo sguardo la sicurezza che regnava in tutta la sua persona, era un bel ragazzo, a modo e sicuramente molto bravo a scuola. Ad una persona imperfetta come me, tutto questo faceva solo una gran paura.
 
Elia mi salutò appena fuori dalla mia aula «se hai bisogno di qualsiasi cosa, sono al terzo piano, 5°A» era gentile da parte sua, ma volevo evitare un altro incontro con lui, almeno finché non avrebbe dovuto riaccompagnarmi a casa, mi sentivo un po’ come se fosse la mia guardia del corpo e questo incominciava ad irritarmi,
 
Quando feci il mio ingresso in classe, ancora non c’era nessuno, le scuole di Brescia non erano poi tanto diverse da quelle di casa, stessi luoghi putridi e stesse pareti dai colori da ospedale.
Ciò che notai di differente erano sicuramente i compagni di classe, la freddezza che avevo riconosciuto sia in Carlo che in Elia, era chiara anche in praticamente tutte le persone che poco a poco entravano nella stanza.
C’era chi mi lanciava occhiate di sfuggita, chi mi squadrava apertamente e chi mi ignorava semplicemente.
Io restavo seduta in quell’angolo senza guardare in faccia nessuno.
Ero scappata di casa e stavo vivendo con una persona che non conoscevo, sapevo tener testa a Carlo, ma l’angoscia del primo giorno di scuola era sempre la stessa.
Brescia non era un posto rassicurante, quella scuola non era rassicurante, Carlo più di tutti non lo era e proprio mentre sentivo di dover rendere conto a tutti quegli sguardi, salutare o magari presentarmi, uno spiraglio di luce illuminò quell’aula buia.
Due occhi celesti incontrarono i miei, non so esattamente da quanto quella ragazza si trovasse difronte a me, ma mi rivolse un sorriso gentile, non falso o di circostanza come quelli di Elia, era reale, sincero, amichevole «Primo giorno di scuola?» mi rivolse la parola, notando che anche io la stavo guardando.
Sentì i muscoli rilassarsi un po’, ricambiai il sorriso.
 
Note dell’autore: Salve! Scusate se ci ho messo tanto! Visto quanto son corti i capitoli dovrei pubblicare più spesso, ma è davvero difficile lavorarci, soprattutto perché devo essere molto ispirata per scrivere in questo modo, breve e molto introspettivo.
Spero vi sia piaciuto, al prossimo capitolo!
PS: ho fatto una piccola modifica all’ultimo capitolo che avevo pubblicato, non cambia molto, ma come mi è stato consigliato, ho accorciato un po’ la parte iniziale e l’ho resa un po’ più fluida.
 
 
 

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Capitolo 10
*** Un sorriso ***


I miei occhi si aprono appena prima che suoni la sveglia, ho preso questa abitudine da bambina e ancora non mi è passata. Mi stiracchio e mi faccio rinvigorire dalla luce che entra dalle tapparelle che non chiudo mai del tutto.
Anche oggi è una bella giornata di sole, siamo a settembre e il clima è ancora mite, mi piace l’autunno, non fa troppo caldo da farmi colare il trucco, ma nemmeno così freddo da farmi congelare sul banco di scuola.
La mia casa è accogliente e anche se a quest’ora mia mamma e i miei fratelli dormono ancora, io lo prendo come il mio momento con papà, riusciamo giusto a fare colazione insieme, prima che lui corra al lavoro, ma mi va bene così.
Quando lui parte, in casa torna a regnare il silenzio ed il momento in cui mi preparo per andare a scuola è anche l’unico che passo in solitudine fortunatamente.
Tra i miei amici a scuola, i gemelli quando torno a casa, il corso di danza e quello di violino, la mia vita è un po’ frenetica.
Non amo la notte e ogni sera non vedo l’ora che arrivi il mattino per ricominciare la mia giornata, per parlare con le persone e divertirmi, la scuola mi piace, le persone mi piacciono, ballare e suonare mi piace, la vita mi riserva sempre un sacco di sorprese.
 
Incontro Melanie fuori dal cancello della scuola e finalmente ho qualcuno con cui parlare.
Melanie è la mia vicina di banco, e questa mattina, come tutte le altre, chiacchieriamo finché non arriviamo in classe.
Oggi però qualcosa di insolito attira la nostra attenzione, qualcuno è seduto al mio banco.
E’ una ragazza, ha lunghi capelli rossi e un viso pallidissimo, è in disparte e nella sua espressione vedo una grande negatività che non riesco a comprendere del tutto.
Deve essere agitata perché è nuova, mi avvicino sicura, Melanie sta un po’ in disparte, ma io non permetterò che quella ragazza si senta a disagio un secondo di più.
Mi piazzo davanti a lei e quando i pozzi neri che sono i suoi occhi si incatenano ai miei, anche se per un momento mi fanno vacillare, vista l’ostilità e la tristezza che celano, non mi faccio intimidire, certe volte basta dimostrarsi amichevoli per alleggerire la tensione «Primo giorno di scuola?».
La sua espressione muta in maniera quasi insolita, è un tentativo un po’ goffo, ma quello che mi rivolge sembra proprio un sorriso.
 

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Capitolo 11
*** Tornare da te ***


La presenza di Elia e di Anna, così aveva detto di chiamarsi la ragazza che avevo incontrato il primo giorno di scuola, divenne presto una costante nella mia vita.
Anna era la tipica persona che non più di un mese prima avrei odiato, era solare e allegra, ma fin troppo entusiasta di una vita che per me di interessante aveva un gran poco.
Un tempo mi avrebbe irritato la sua tendenza a vivere in un mondo illusorio più bello di quanto non fosse in realtà, ma ora non mi dispiaceva.
In sua compagnia le giornate sembravano un po’ meno lunghe, non sapevo perché le piacessi tanto, non ero certo il tipo di persona che da soddisfazioni, con la mia espressione seria e l’aria poco accogliente, ma Anna era sempre al mio fianco a scuola e ci teneva a presentarmi tutti quanti e a farmi fare nuove amicizie.
Non sapevo se la cosa iniziava a piacermi o ero solo accondiscendente, ma poco a poco le stavo permettendo di mostrarmi il suo mondo, così diverso dal mio, così stravagante, ma a tratti invidiabile.
Elia al contrario era una persona che non mi sarebbe dispiaciuta affatto, ma le poche cose che ci dicevamo nel tragitto da casa mia alla scuola erano bastate per farmelo detestare.
Aveva continuato ad accompagnarmi a scuola, nonostante avessi imparato la strada abbastanza in fretta.
Era un perfezionista, troppo preciso, troppo perfetto e mi guardava con quell’espressione curiosa e glaciale allo stesso tempo.
Non mi piaceva ma mi facevo andare bene anche lui, non ero più a disagio in sua compagnia e ogni volta che vedevo la casa di Carlo avvicinarsi, mi ritrovavo a rimpiangere le camminate con lui.
 
Quel giorno lo avevo passato come al solito in salotto, avevo portato poche cose con me da casa oltre ai vestiti.
Così passavo le giornate al computer o davanti alla televisione, le uniche attività non passive erano fare i compiti e cucinare prima che Carlo tornasse da lavoro, avevo sempre amato cucinare, ma in quella casa anche le miei passioni erano smorzate.
Mangiavamo in silenzio e dopo averlo aiutato a riordinare la cucina, come da tacito accordo, mi rinchiudevo in camera mia e ne uscivo solo per utilizzare il bagno.
Ci parlavamo il meno possibile, ci incontravamo di rado e andava bene così, la mia vita procedeva e i miei piani pure, quello che faceva lui non mi importava.
 
Quella sera la noia aveva preso il sopravvento, me ne stavo sdraiata sul letto scomodo in cui dormivo mentre guardavo il soffitto grigio.
Non so se fu la noia o la nostalgia di vivere in una casa rumorosa e piena di vita, ma presi distinto il mio telefono in mano.
Prima di partire per Brescia avevo bloccato tutti i contatti della mia rubrica, ma quella sera capì che non sarei potuta fuggire per sempre e decisi di sbloccare il numero dell’unica persona che forse avrebbe avuto ancora voglia di ascoltarmi dopo la mia fuga, così senza pensarci su troppo, digitai:
 
Ciao, so che è da settimane che non mi faccio sentire, ma ero arrabbiata. Come sempre, del resto.
Mi dispiace davvero di non aver risposto ai tuoi messaggi, è solo che non me la sentivo.
Comunque sto bene, ho anche iniziato la scuola, mi ha obbligato lui a dire il vero. Però va bene così, mi tengo un po’ occupata, qui è tutto abbastanza noioso...
 
Scrissi a lungo, raccontando tutto quello che mi era successo a Brescia, mi erano sembrate delle giornate morte, ma man mano che scrivevo mi venivano in mente sempre più cose.
scrissi di come era antipatico e sempre di malumore Carlo, di quanto fosse fastidioso Elia e dell’interessante amicizia, se così potevo definirla, con Anna.
 
“spero davvero tu non sia arrabbiato per come ti ho trattato.
Non avrei mai voluto, ormai sei l’unica persona con cui mi sento libera di essere me stessa, tornerò presto.
Buona notte”
 
Era già tardi quando finì di scrivere, “tornerò presto” non ne ero del tutto sicura, ma poche cose erano certe nella mia vita in quel momento.
Mi addormentai raggomitolata sopra le lenzuola, il telefono stretto tra le mani, nel tentativo di sentirmi più vicina al destinatario del messaggio.

Note dell'autore: Spero il capitolo vi sia piaciuto, pian piano conosceremo bene tutti i personaggi!

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Capitolo 12
*** Non ti avevo mai vista ***


Quella sera tornai tardi, ero rimasto a cena da Daniele e Rachele e devo dire che stare un po’ lontano da casa, quella stessa casa che un tempo era il mio rifugio, ora era rassicurante.
Quando entrai le luci erano spente e per un attimo credetti di essere solo.
Illuminando il salotto sentì’ immediatamente una lamentela che mi spinse ad oscurare nuovamente la stanza, Ginevra dormiva rannicchiata sul divano, un libro tra le mani che penzolavano dal divano.
Entrando in cucina notai anche che aveva cucinato per entrambi, non avevo potuto avvisare della mia assenza, lei aveva il mio numero, io non avevo nemmeno pensato di chiederle il suo.
 
Un qualche pensiero si impadronì della mia mente, ma era troppo flebile perché potessi dargli un nome. Ero turbato, questo era certo.
Mi avvicinai alla ragazza, che occupava poco più della metà del divano e cercai di chiamarla.
Dovetti scuoterla un po’ prima di ottenere una reazione, anche se fu solo un mugolio infastidito.
Sospirai stancamente La sollevai e lei, ancora addormentata, attorcigliò immediatamente le braccia intorno al mio collo e le gambe lungo la mia vita. Il profumo dei suoi capelli ricordava il mandarino e la sua pelle sapeva di pulito, le avrei attribuito un profumo più acido, invece era inaspettatamente dolciastro.
Come sospettavo non fu difficile trasportarla fino alla sua stanza, fu la stessa sensazione di quanto tieni in braccio una bambina, bè, in effetti lei era poco più di una bambina. 
 
La adagiai nel suo letto togliendole i calzini, da addormentata sembrava innocua, niente occhiate diffidenti e nessuna battutina pungente, era solo una normalissima adolescente.
Ginevra si accoccolò al cuscino, era incredibile quanto assomigliasse a sua madre in quel momento, quasi la cosa mi inquietava. Eppure, in Ginevra c’era qualcosa di diverso, aveva un viso molto più pallido e ora che la vedevo da vicino, sembrava molto più fragile. 
Mi resi conto che quella era la prima volta che la toccavo e la prima volta in cui la vedevo così da vicino. In realtà, mi sembrava di non averla mai guardata prima, almeno, non con la stessa attenzione di quella sera.
La stanza era immersa nel buio, l’unica luce proveniva dal corridoio, ma i suoi capelli rossi e i suoi lineamenti appuntiti risaltavano in quell’oscurità. Sembrava uguale a tutte le altre ragazze della sua età, eppure starle vicino mi faceva così male...
 
Restai a fissarla per un po’, finché non la vidi agitarsi nel sonno, mormorava qualcosa, una sorta di lamentela, la mia mano si portò quasi in automatico tra i suoi capelli, li accarezzai lentamente. Fu strano, ma in poco tempo sembrò calmarsi e riprese il suo sonno profondo.
 
Quella notte fu più serena del solito, feci un sonno piatto, senza incubi a tormentarmi.
Il giorno dopo, guadagnandomi un’occhiata confusa e un'alzata di spalle, chiesi a Ginevra il suo numero di telefono.
 
 Note autore: Ehi! Ciao a tutti, rieccomi finalmente, mi spiace se la sto tirando per le lunghe, ma ultimamente ho tante cose in testa e concludo poco :/ Spero passi questo periodo di blocco e mi auguro di velocizzare le tempstiche, grazie a chiunque sia arrivato fino a qui :)

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