A un rigore dal cuore

di Corydona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Gioco o non gioco? ***
Capitolo 2: *** 2. "Fatela giocare" ***
Capitolo 3: *** 3. Non svegliateci ***
Capitolo 4: *** 4. "Tu cosa faresti?" ***
Capitolo 5: *** 5. Tra favole e litigi ***



Capitolo 1
*** 1. Gioco o non gioco? ***


Piccola, ma doverosa premessa.
Questa storia fa parte del ciclo delle “Olimpiadi romane” ed è collegata, dunque, alle vicende di “Un tuffo al cuore”.
Tuttavia si può leggere anche separatamente, perché i filoni narrativi non vanno a intrecciarsi. L’unico inconveniente “serio” è non riconoscere i personaggi che sono comparsi anche nell’altra storia (ma tranquilli: ho cercato di trattare tutti come se comparissero qui per la prima volta!).
Anche per questa storia, come per Un tuffo” ho cercato di dare spazio rilevante allo sport e a quelle che sono le vicende personali di chi lo vive quasi come una professione (“quasi”, perché alle Olimpiadi non ci vanno gli sportivi professionisti; motivo per cui le nazionali di calcio maschile sono quelle under23).
Ho scelto di parlare del calcio perché è lo sport che seguo da più tempo e con alta intensità: ho trascorso quasi tutta la mia vita a guardare le partite (non solo quelle delle mie squadre, ma anche di altre con cui non ho nulla a che fare).
La scelta di trattare il calcio femminile deriva da due fattori: da un lato per il discorso “di genere”, per cui le calciatrici (purtroppo per molte persone) non hanno la stessa rilevanza dei colleghi uomini (anche se si stanno facendo grandissimi passi da gigante in questa direzione); dall’altro l’aver seguito tanto le vicende delle ragazze della nazionale, sia nel cammino di qualificazione sia durante i mondiali della scorsa estate. Qualche spunto a quelle vicende (almeno sul piano sportivo), l’ho effettivamente preso (basta leggere i capitoli 2 e 3 per vederlo), ma ho modificato parecchi dettagli e, soprattutto, la mia protagonista non ha una “gemella” reale.
Ho finito di ammorbarvi, buona lettura!


 

Prisca sorseggia nervosamente il suo cappuccino scuro, seduta proprio di fronte a me. A quanto pare, ci siamo entrambe svegliate presto, ed entrambe abbiamo preferito venire a fare colazione, piuttosto che rimanere in camera a rigirarci nel letto. O magari lei si è rigirata nel letto per qualche ora, prima che il sole facesse capolino. Per sfortuna, stavolta non siamo capitate in stanza insieme. È stata la CT a stabilire chi avrebbe dormito con chi, e noi ci siamo dovute adeguare per forza di cose. Non mi lamento: Bice è una compagna di camera discreta. E con “discreta” intendo che non c’è mai: sono più le notti che passa nella stanza di non-so-chi che nella nostra.

«Mi sento pronta» dice Prisca a un tratto.

«Per la partita?» le chiedo di rimando, imburrando una fetta di pane.

«Per tutto. Sento che potrei spaccare il mondo, anche se non sono neanche le sette di mattina.»

«Ecco, questo magari è un problema. Cerca di rimanere sveglia fino a questa sera.»

«Per te è facile, tu non giochi!»

«Grazie, eh.»

Addento la fetta di pane burro e marmellata, guardando il vuoto. Non c’era affatto bisogno che lei rimarcasse che stasera io sarò in panchina e non basta il sapore dolce delle more a farmi sentire meglio. Se non gioco, significa che non ho fatto abbastanza in allenamento. E io odio solo il pensiero di non aver dato il massimo; ciò che mi fa stare ancora peggio è la consapevolezza che io più di così non potevo fare.

«Scusa, ci

«Scialla, Prì

Scrollo le spalle. Anche se il nostro è sempre stato un rapporto diretto, a volte Prisca non si rende conto quando è che supera il limite. Prima fa il danno e poi si fa perdonare.

«Hai sentito, la zia, no? Con la Nuova Zelanda serve Anastasia, per come giocano loro… la mettono molto sul palleggio…»

«Così mi fai passare per una che non ha tecnica.»

«No, ma tu vai meglio contro le squadre più intense. Ti ricordi la partita contro il Milan? Ecco, lì sei andata alla grandissima…»

«Dovevi proprio tirare fuori il Milan?» sbuffo, contrariata.

Anche se lei parla sempre volentieri di quei novanta minuti, io continuo a sognare quello che è successo dopo il fischio dell’arbitro. I supplementari, in cui eravamo sulle ginocchia, sia noi che loro, e i rigori...

Bevo il mio cappuccino, più simile a un latte macchiato, cercando di allontanare il ricordo. Ma non ci riesco.

Il vento che mi soffia sul viso, il sudore che mi appiccica la maglia alla pelle… e lo scivolone al momento del mio rigore, quello decisivo. La corsa delle milaniste in segno di esultanza, la Coppa Italia sollevata grazie a un mio errore… Se avessi piantato bene il piede per terra, se fossi rimasta in equilibrio… forse avremmo potuto vincere noi. È stata solo colpa mia.

«Hai fatto tu il gol del pareggio, giusto?» insiste Prisca. «Tu, eh! Non io, non Nicoletta, non Giorgia… tu. Tu, Seré. D’accordo, non sei un’attaccante e non ti interessa neanche esserlo, ma quel gol l’hai fatto te. Te, t’aricordo

Scrollo le spalle. Può dire quello che vuole, non cambia il risultato finale di quella partita. Milan sei Roma cinque ai calci di rigore. Ma lei non va oltre il novantesimo, mentre io mi rifiuto di ricordare cosa è successo prima dei supplementari.

E mi fa incazzare, perché Prisca è competitiva tanto quanto me e mi secca che non capisca il fatto che io odio perdere. Che fosse solo aver perso una partita, poi! La sconfitta, in questo caso, pesa tutta su di me. Anzi, sulla mia gamba che ha ceduto al momento sbagliato.

Per fortuna intravedo da lontano Marta Colachini, la centravanti della Juve, che si guarda intorno spaesata, come se avesse bisogno di individuare qualcuno. Eppure, a quest'ora, siamo davvero in pochi. Agito la mano per attirarla qui, almeno Prisca la smetterebbe di fare qualsiasi cosa per tirarmi su di morale. Non voglio essere confortata, voglio solo che arrivino le nove e mezza per essere al campo di Tor di Quinto per la rifinitura, prima della partita di stasera. E poco mi importa essere in panchina, ora come ora. Voglio far vedere alla zia che, nonostante tutto, io ci sono e do sempre il massimo.

«Buongiorno» biascica lei, con la voce mezza impastata per il sonno, dopo essersi seduta al mio fianco.

«'Giorno» le rispondo con la bocca piena.


«Ho incontrato un tipo…» inizia a dire Marta, assonnata. «Mi ha chiesto se il discorso di Fiumani è venerdì o giovedì.»

«Annamo bbene» commenta Prisca. «Sul pezzo, questo qui.»

Certo che non ricordarsi quando il presidente del Coni parlerà a tutti gli atleti non è normale...

La nuova arrivata non aggiunge nulla, si limita a una scrollata di spalle, prima di sorseggiare la tazza con il tè caldo. «No, raga, ho sbagliato… ho preso quello alla pesca!»

«Vuoi fare cambio?» chiede un ragazzo dal tavolo vicino. Non era seduto, dev’essere appena arrivato.

«Oh, ciao» lo saluta Marta sorridendo. «Hai quello al limone?»

Con la coda dell’occhio mi sembra di vederla arrossire… possibile?

«Sì, sì, ma bevo entrambi» risponde lui. «Così ti eviti di tornare indietro mentre stai ancora dormendo!»

Prisca scoppia a ridere. Che stronza, di certo ha notato l’imbarazzo di Marta! «Ti prego, siediti con noi» lo invita. Se la conosco bene, non esiterà a combinarne una delle sue.

«Con piacere!» risponde il tipo, con un altro sorriso. Si sistema il ciuffo biondiccio con una mano, prima di afferrare il vassoio e di posarlo sul nostro tavolo. Prende posto al fianco della scema, proprio di fronte a Marta, con cui subito scambia la tazza di tè.

Lo scruto con attenzione, cercando di ricordare se l’ho visto altrove, o se questa è la prima volta che riesco a parlare con lui. Uno che non supera il metro e settanta me lo ricorderei… Scorro la lista mentale di tutti quelli con cui sono capitata al tavolo durante i giorni precedenti all’Olimpiade e mi rispondo che no, questo qui non l’ho ancora conosciuto. Rivolge un bel sorriso anche a me e Prisca e gli rispondo con un cenno del capo, addentando un altro morso di pane. Sia santificato colui che ha inventato la marmellata di more.

Il tipo guarda Marta, quasi scrutandola assorto con degli occhioni dolci, ma capisco subito che si tratta di una sua caratteristica fisica e non di un’infatuazione per l’attaccante. Lo spio di sottecchi, cercando di fare mente locale e ricordare chi diavolo sia. Escluderei innanzitutto gli sport in cui bisogna essere prestanti fisicamente, per il semplice motivo che questo qui non è grande e grosso; neanche il libero della pallavolo, perché so perfettamente chi è, con tutte le partite che ho visto. Conoscendo Prisca, prima o poi gli farà il terzo grado durante la colazione: devo solo aspettare per scoprirlo.

Non so chi sia stato il genio che ha suggerito che gli atleti dei vari sport avessero un contatto diretto, magari mischiandosi assieme in occasioni conviviali come questa, ma devo dire che l’idea non è male: invece di seguirci soltanto sui social o di vederci gareggiare da lontano, abbiamo modo più diretto di confrontarci. Ne parlavo giusto ieri a cena con una velista…

«Allora, vediamo se mi ricordo…» dice il ragazzo. «Con te ci siamo visti poco fa.»

Marta annuisce, con un altro sorriso. Ah, quindi era lui che non si ricordava quando è il discorso di Fiumani?

«E voi due… allora, ieri sera avete giocato insieme ai biliardini contro due ragazzi dell’under ventitré. E li avete anche stracciati. Direi calcio, sembravate molto in confidenza.»

«Vero, li abbiamo battuti tanto a poco» concorda Prisca soddisfatta. Ci tiene sempre a vincere, anche se è solo al biliardino.

Io mi limito ad annuire, con un sorriso nervoso. Si vedeva che eravamo in confidenza? Sono settimane che io e Lorenzo cerchiamo di non dare nell’occhio e un perfetto sconosciuto si è accorto che c’è... confidenza?

«Comunque, tu chi saresti?» gli chiede Prisca, ridacchiando. Si trova a suo agio con tutti, ma come fa? Le basta che si trovi un modo per ridere e farebbe amicizia con chiunque!

«Andrea Comini» risponde prontamente quello. «Tuffi.»

«Ah, sei tu!» esclama la mia compagna di squadra. «Ti seguo anche su Instagram, pensa te!»

«È il sonno!» scherza quell’Andrea.

Continuano a chiacchierare, mentre la mia attenzione è catturata da quanto accade intorno a noi. Sulle pareti campeggiano le immagini di grandi sportivi sui podi olimpici, mentre noi siamo tutti in attesa di fare del nostro meglio; e magari di emularli. La mensa si sta iniziando a riempire e devo allungare il collo in cerca di Lorenzo. Non so come, ma devo parlargli, devo assolutamente dirgli che forse ci stiamo esponendo troppo. Non posso mandargli un messaggio, correrei il rischio che lo veda qualcun altro: ma parlargli a voce è anche troppo rischioso… che diavolo dovrei fare?

Purtroppo, almeno per il momento, ho le mani legate.

Guardo Prisca ridere e scherzare, insieme a Marta e ad Andrea. Almeno lei non sente più la tensione per la partita di stasera.

 

***


Siamo nel tunnel che porta al campo dello Stadio Olimpico. Sognavo di giocarci da quando ne ho memoria; e anche se sto solo per fare il riscaldamento con le panchinare, l’emozione è comunque forte.

Guardo Prisca, che cerca di non ascoltare il casino che viene da fuori: le chiacchiere degli spalti, amplificate, rimbombano fin qui.

«Daje ragazze!» urla Elena, il nostro capitano, battendo le mani.

Noialtre rispondiamo con qualche altro grido di carica. Le vedo, hanno gli occhi di chi sta anche per arare il campo, pur di fare una bella partita. Le neozelandesi sono toste, ma noi abbiamo il cuore da mettere su quel rettangolo verde. Noi abbiamo il pubblico, i parenti sugli spalti che hanno comprato i biglietti da mesi in attesa di questa partita, gli amici che hanno fatto di tutto per esserci… E siamo pronte: ci siamo preparate per settimane per essere qui tutte insieme, abbiamo fatto gruppo già nel cammino che ci ha portate prima ai Mondiali e poi agli Europei.

E, ora, le Olimpiadi in casa.

Siamo in disordine, mischiate tra panchinare e titolari. Tutte insieme per farci forza, per caricarci per quello che molto probabilmente è l’evento più importante della nostra carriera sportiva. Più di una finale di Champions League, più del Mondiale che abbiamo giocato da outsider. Più di tutto. Le gambe, ora, non possono tremare.

«Dai, andiamo!» ci incita l’allenatrice della nazionale, che noi giocatrici chiamiamo zia quando parliamo tra di noi. Non ho idea di chi le abbia dato questo soprannome, ma è perfetto per lei.

E, allora, noi usciamo tutte insieme, con un boato ad accoglierci. Lo stadio non è strapieno, ma penso che qualcuno stia ancora facendo la fila fuori dai tornelli: Prisca ieri mi ha mandato un articolo di giornale che dava il tutto esaurito. E io so che i miei genitori e mio fratello ci sono, che hanno preso i biglietti in tribuna, vicini al campo, insieme alla famiglia di Prisca, ma insieme anche a quelle delle altre, perché è quello che hanno fatto nelle altre grandi partite della nazionale. Figuriamoci se si perdono l’Olimpiade in casa!

Mi guardo intorno, spaesata. Ero già stata qui sul campo, ma solo per vedere la Roma maschile… mai per giocare. Mai con il pensiero di ottantamila persone che potrebbero vedere me, se dovessi entrare nel secondo tempo.

Faccio qualche esercizio di riscaldamento in coppia con Simona, l’attaccante dai capelli blu, prima di andarci a sedere in panchina.

«Ma se ci mettiamo sulla pista d’atletica?» propongo. Mentre le altre finiscono di riscaldarsi possiamo rimanere in giro.

La punta dell’Inter si guarda intorno. «Ma se invece ci rimaniamo in piedi, sulla pista d’atletica?»

Sorrido. Figuriamoci se qualcuno ci dice che lì rompiamo le scatole…

Scambiamo un’occhiata complice. Sciolgo i capelli, e mi incammino verso la pista, al fianco di Simona.

«Ma che sta succedendo, laggiù?» mi chiede, guardando verso le titolari che si stanno riscaldando.

Mi volto: c’è una delle ragazze a terra, e qualcuno dello staff medico sta valutando le sue condizioni.

«Hai capito chi è?»

Scuoto la testa. Da qui non riesco proprio a scorgere di chi si tratti.

«Ci mancava solo questa… ma che sfiga!» commento.

«Villa, sei pronta?»

La voce della zia mi riscuote dai pensieri. Peggio di una doccia fredda dopo un allenamento sotto il sole di agosto.

«Dai, vai a finire il riscaldamento. Bastioni non ce la fa.»

Occazzo. È Anastasia.

«Mi devo riscaldare?»

La coach annuisce e mi stringe a sé proprio come, appunto, farebbe una zia. «Mi raccomando, loro giocano con la linea di difesa alta, quindi prova a infilarti seguendo i movimenti di Prisca e Marta.»

«Okey» dico, ma non so che senso abbia. Ancora non ho realizzato che sta succedendo.

«Fai il culo a tutte!» urla Simona alle mie spalle, strappandomi un sorriso.

Di certo non mi mancherà l’incoraggiamento.

«Dajje Villaaaaa!» grida infatti Prisca, non appena mi avvicino al gruppo delle titolari, ancora alle prese con il riscaldamento senza palla.

«Dai, Sere!»

«Forza Sere!»

Anche le altre mi incoraggiano, con le voci che si fondono tra loro. Sorrido appena, imbambolata, prima di fare mente locale. Ora devo solo ascoltare le indicazioni di Alessio, il membro dello staff che ci fa fare il riscaldamento.

Sono pronta.

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Capitolo 2
*** 2. "Fatela giocare" ***


“Tu sei una femmina, non puoi giocare con noi!”

Sorrido, in piedi tra Prisca e Carlotta. Chissà se quel ragazzino bastardo adesso ha realizzato un qualche suo sogno. Chissà se si ricorda di quella femmina che non ha fatto giocare, al campetto dietro la chiesa di San Felice, quasi quindici anni fa… Chissà se gli prende un accidente, al vedere dove sono.

La bambina davanti a me si gira e mi sorride.

«Dopo segni, vero?» mi chiede, innocente.

«Ci provo» le dico. Che altro dovrei rispondere a una bambina?

La banda inizia a suonare l’inno neozeandese, e io mi guardo intorno. Non devo neanche fare troppa fatica per trovarli, perché sono lì: mia madre, mio padre e mio fratello. Vedo anche i genitori di Prisca e quelli di Marta saliti da Bari.

Vedo i loro visi, che sembrano a un passo da me e lo so, non so come ma lo so, lo so che anche loro, tra tutte le ragazze schierate in ordine, stanno guardando proprio me.

«Dai, pronte!» sento incitare Simona dalla panchina, abbracciata a Bice ed Eleonora che le sono ai lati. L’altro inno è finito e ora tocca al nostro.

Poporopopopopopò...Non saprei dire quale sia lo strumento iniziale, ma sento le note vibrare attraverso il mio corpo, come se fossi io a essere suonata. Forse un po’ suonata lo sono davvero.

Sorrido, in balìa di qualcosa di incomunicabile. Come si esprime a parole l’adrenalina che mi scorre nel sangue, che mi fa guardare gli spalti carica di energia, che mi fa sentire viva?

E iniziamo a cantare, un po’ stonate, un po’ cercando di andare a ritmo con la musica, un po’ seguendo il pubblico, che va ancora per conto proprio.

Chiudo gli occhi, sentendo mie quelle parole. Certo, Mameli quando le ha scritte non pensava a una partita di calcio, né tantomeno a un evento di portata mondiale come sono le Olimpiadi…

Mi scorrono davanti le immagini di una vita, i bimbi del campo da calcio a Centocelle, che ho guardato giocare per qualche giorno, prima di decidermi a chiedere se potevo anche io. Il bambino che mi caccia via, le mie lacrime di rabbia contro quel ragazzino che avrei preso a schiaffi se non fosse intervenuto un papà…

Fatela giocare con voi.

Sento la mano di Prisca sulla mia spalla, come a volermi dire che lei è qui, che è con me… che ci sarà fino alla fine.

Il provino fatto per la Lazio, che mi ha scartata, e poi quello con la Roma, perché papà era convinto che fosse meglio provare subito con le squadre più importanti. Quando mi hanno presa, ho iniziato a saltellare per casa, perché non me lo aspettavo. Anche se io non ho mai tifato per la Roma.

E poi c’è stata la prima volta al campo di allenamento, dove c’erano anche le altre squadre giovanili, ognuna per conto proprio. Non dimenticherò mai quella ragazzina bionda seduta sul prato sintetico, quasi annoiata dai convenevoli iniziali dell’allenatore. Quella ragazzina che, una volta preso il pallone, non ha esitato a saltare tutte le altre come birilli. Quando me l’ero trovata di fronte, ho capito subito che stava per fare una ruleta e le ho tolto la palla dai piedi, pur rischiando di colpirle le gambe. Eravamo senza protezione, se l’avessi presa le avrei fatto molto male.

Sei la prima che riesce a fermarmi” aveva detto alla fine del primissimo allenamento.

Da quel momento, Prisca è sempre stata al mio fianco. Così come siamo adesso, anche se non siamo le sole, qui, con ottantamila persone sugli spalti e le delegazioni intere di Italia e Nuova Zelanda, più gli arbitri.

Forse noi siamo ancora le due ragazzine che a sei anni volevano giocare con i maschi, per far vedere di essere brave almeno quanto loro. Anzi, di più.

L’Italia chiamò, sì!

Il grido finale di tutto lo stadio mi riscuote. Aspettiamo che le neozelandesi vengano a stringerci la mano. Guardo i loro volti tesi, concentrati, e penso che loro non si aspettavano affatto di vedermi qui, e si staranno chiedendo se con me invece di Anastasia sarà più facile contrastare il nostro centrocampo.

Se, cor cavolo.

Dovranno passare il mio cadavere.

Scambio un’occhiata con Marisa Cicero. La regista stringe l’elastico dei capelli, concentrata.

«Daje regà

Non è un urlo, né un altro grido di incitamento, ma la voce di Prisca così calma mi fa pensare solo a una cosa: ha già studiato le avversarie e ha scorto nei loro gesti del prepartita qualcosa che le infonde fiducia.

«Io vedo verso fuori, tu buttati dentro, perché poi Alessia rientra per coprirti» aggiunge il dieci, rivolta a me.

Annuisco, mentre Elena va a prendere posto in mezzo alla difesa.

«Palla a noi» riesco a distinguere dal suo labiale, mentre parla a Carlotta.

Guardo l’arbitro dare la palla a Prisca e Marta, mentre Federica si tiene più larga sull’esterno, verso destra. Ho il cuore in gola. Non dipende da come sono messe le ragazze intorno a me, né dalle maglie bianche di fronte a noi, che ci stanno per venire incontro.

L’arbitro ha il fischietto in bocca. Una volta dato il via, non si torna indietro, l’Olimpiade inizia.

Butto fuori un profondo respiro.

Prisca tocca il primo pallone della partita, e lo fa verso Marisa. Faccio qualche passo avanti, studiando il piazzamento delle ragazze e quello delle neozeladesi. La Mari mi passa la palla e io scarico su Alessia senza neanche guardare: ho sentito il suono della sua corsa; so che è già lì, pronta a ricevere il passaggio.

Alessia galoppa verso la bandierina, Prisca si avvicina a lei, e io capisco di dovermi inserire in area.

La Ryan, la centrocampista con cui avrò a che fare per tutta la partita, mi insegue coprendo il buco che le sue compagne di squadra avevano lasciato scoperto, ma il filtrante di Alessia passa lo stesso.

«Sere!»

Non ci penso un secondo, perché la voce di Marta mi dà un segnale chiaro, che afferro al volo: lascio scorrere la palla tra le mie gambe.

Mi volto, e vedo la centravanti tirare, ma colpire le gambe della Cox, il difensore che la marcava. La palla finisce tra i piedi delle neozelandesi e allora solo un pensiero mi martella nella testa: correre indietro e andare a difendere.

Hannah Davies sta avanzando, mentre le sue compagne di squadra la seguono e noi cerchiamo di disporci in modo ordinato sul campo.

«Giada, lì! Spine! Spine, torna indietro!»

Le indicazioni della zia, ora per Federica Spinetti, mi rimbombano nella testa, anche se io sono lontana dalle panchine. Tra tutte le voci che risuonano nell’Olimpico, solo alla sua è permesso arrivare alle mie orecchie; anche se lei fosse negli spogliatoi e io nella fila più alta di spalti.

Corro a marcare stretta la Ryan, che dice qualcosa. Forse sta chiamando il passaggio alla compagna di squadra, ma non ne ho idea: mi sembra che parlino in codice.

Ma la Davies scambia con Christina Lewis, e la triangolazione la porta proprio davanti a Giulia.

Rimango ferma, pregando tutti i santi del paradiso. Il nostro portiere rimane in piedi e quando l'attaccante tira di piatto, per metterla nell'angolino basso, lei si allunga per prendere il pallone che però le sfugge.

Ci pensa Alessia a recuperare e a mettere in calcio d'angolo. Non posso neanche tirare un sospiro di sollievo, perché una delle neozelandesi corre subito per battere.

Noi ci disponiamo in due file parallele, per marcare a zona, anche se ho paura che per loro potrebbe essere facile saltarci. Guardo la Ryan, ma con un occhio alla palla che la Harris ferma sulla lunetta. Fisso la sfera come ipnotizzata, la vedo partire e involarsi. Mi scavalca, altissima.

Mi volto e vedo che Giada l'ha presa di testa, indirizzandola in avanti verso Prisca. Non ho il tempo di scattare: la palla finisce tra i piedi della Ryan, che tira verso la porta.

Sento delle esultanze ovattate, ma non sono delle nostre avversarie: è il pubblico italiano sugli spalti.

Giulia è a terra accartocciata, stringendo il pallone tra le mani e il petto, come un fagotto da nascondere.

Butto fuori un sospiro, mentre vedo Elena avvicinarsi al portiere e darle un buffetto sulla spalla.

Pochi secondi dopo la palla è tra i piedi di Marisa, che la lancia sull'esterno a Federica. Avanzo di qualche passo, scorgendo Alessia già pronta al raddoppio, anche se ora stanno giocando dall'altra parte del campo. Prisca si avvicina alla giocatrice della Fiorentina, come indicandole di puntare Liza Fisher, che le sta di fronte.

Ma io so, come sa anche Federica Spinetti, che quel segnale sta per un'altra cosa.

Fa una finta, come per nascondere il pallone alla neozelandese, con la Lewis che la sta raddoppiando, ma poi lo passa di tacco a Prisca, un metro alle sue spalle.

Il dieci avanza di un metro, poi tira a giro, verso il secondo palo.

Le ho visto fare gol così una marea di volte: il tempo sembra fermarsi mentre la palla sorvola le difese avversarie che, pur provando a prendere il pallone di testa, non ci riescono. In genere finisce sotto al sette, senza che il portiere avversario possa fare nulla.

Infatti vedo la Jones osservare imbambolata la traiettoria. Neanche ci prova, a saltare in alto: sa che sarebbe inutile.

Ma la palla prende in pieno la traversa e il suono che fa sembra colpirmi al petto. Mi scuote, come se avessi ricevuto una pallonata allo stomaco che mi impedisce di respirare.

Sento gli spettatori trattenere il fiato, come se già fossero pronti a esultare. Potrei quasi vederli portarsi le mani alla testa, infilando le dita tra i capelli.

Qualche voce indistinta arriva alle mie orecchie, ma subito dopo parte il coro "Italia Italia!". Capiscono anche loro che possiamo mettere in difficoltà le fortissime neozelandesi, e che ce la stiamo giocando alla pari.

Guardo Prisca, che invece sta scrutando il terreno, come se ci fosse una zolla non al suo posto. Non so come interpretarlo: non è da lei cercare delle scuse; ma forse sta solo raccogliendo la concentrazione necessaria per tirare meglio la prossima volta.

E meglio significa una cosa sola.

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Capitolo 3
*** 3. Non svegliateci ***


 Mi butto sul mio sedile negli spogliatoi. Qualcuno mi passa una bottiglia, ma non mi rendo neanche conto di chi sia: le mie attenzioni sono tutte per la zia, che sembra pronta a dire qualcosa.

 «Allora, loro sono più vulnerabili sul lato sinistro quindi, Giada e Spine, dovete attaccare da quella parte. Ma voglio vedere più cambi gioco, quindi passatela alla Mari che ci pensa lei. Alessia, devi proporti di più!»

 «Vabbuò, ma che teng'a fa'?» ribatte Alessia. «Io avanti ci vado!»

 L'allenatrice sembra non avere nulla da aggiungere al terzino campano, visto che continua il suo "giro".

 «Cicero, occhio a quando Alessia e Serena salgono, e soprattutto a quando Prisca rientra e allo scambio di posizione tra lei e Villa. D'accordo?»

 «No, perché se la Cox esce dalla difesa per marcare la Prisca…» obietta Marisa, ma non riesce a terminare la frase.

 «Allora deve inserirsi una tra Serena e Livia. Noce, prova a scambiare ogni tanto posizione con la Spine!»

 Sento mormorii di assenso. Livia Nocentini annuisce, senza dire nulla. Ma io scambio un'occhiata con Federica: siamo entrambe perplesse. Per quanto sia una buona attaccante, messa dietro sulla linea di centrocampo rischia solo di combinare qualche danno… quello non è proprio il suo ruolo. E poi sta meglio in avanti, dove può puntare l'avversaria e far passare la palla!

 Marisa si siede vicino a me.

 «Se la Ryan ti marca, tu scarica la palla. Io cercherò di liberarmi, ma se no dalla a Prisca o Ale. Per fortuna non mi stanno marcando e sono libera.»

 «La White potrebbe dire che ti devono prendere…» mormoro.

 Marisa scrolla le spalle, senza commentare.

 Elena si avvicina a noi.

 «Per ora sta andando bene, ma in difesa dobbiamo essere più compatte, sennò ci segnano.»

 Annuisco. So di essere stata un po' disordinata in fase difensiva, ma perché a un certo punto ho preso come una sfida personale la marcatura di Ryan... e penso che lei abbia fatto lo stesso con me. Per quasi tutto il primo tempo non ci siamo tolte gli occhi di dosso!

Un magazziniere mi passa la maglia da indossare nel secondo tempo. Mi tolgo quella sudaticcia e mi vado a dare una mezza sciacquata sotto la doccia. Mi cambio e ritorno sotto il tunnel che porta al campo.

 «La zia sta facendo un cazziatone a Colachins» sento dire alle mie spalle. Prisca. "Colachins" è il soprannome insentibile che ha affibbiato a Marta Colachini.

 «Porella… almeno non l'ha fatto davanti a tutte» commenta la voce di Giada.

 Mi giro appena, interrogativa.

 «Dice che deve muoversi e che non ha fatto un cazzo per tutta la partita» mi spiega Prisca, senza che io debba chiedere.

 Sospiro. Decisamente non vorrei essere nei panni di Marta…

 Mi fermo all'ingresso del tunnel, dove già c'è l'arbitro brasiliano, Clara Fernandes, che sta scambiando qualche parola con Sarah Ryan. A fine primo tempo si è lamentata un po' per una mia entrata… Abbella, se te volevo fà male, te facevo male. E mo stavi ancora a piagne.

 Sorrido. Se vuole farsi ammonire, questo è il modo giusto!

 Quando anche le altre azzurre sono qui, l'arbitro ci permette di rientrare in campo. Qualcuna delle neozeladesi esce insieme a noi, e vedo distintamente la Davies parlare con Giulia, forse di una delle azioni, o forse proprio di altro, perché il portiere della Juve sta sorridendo.

 «Marta!» chiamo la centravanti, che invece stava andando da Prisca. Mi si avvicina e le dico: «Quando la Mari ha la palla, tu buttati dentro, tanto Prisca esce, quindi deve esserci qualcuno. Occhio, dico ad Ale di metterla bassa, che loro di testa la prendono sempre!»

 Lei si limita ad annuire, rabbuiata. Non oso immaginare come sia prendere una lavata di capo durante una partita così importante…

 

 Le neozelandesi ci chiudono in difesa nei primi dieci minuti. Sono partite molto determinate e motivate, ma noi siamo concentrate e riusciamo a non concedere tiri in porta. Ma loro ci stanno tenendo nella nostra trequarti e ora come ora sembra complicato uscirne, visto che a ogni palla contesa riescono sempre a prenderla loro.

 Ce la stanno facendo sudare… ma se noi possiamo uscire da qui con un punto, potrebbe non essere troppo male. Anche se nessuna di noi ha intenzione di lasciare il campo senza aver segnato almeno un gol.

 Mi fermo un attimo a riprendere fiato, dopo aver deviato in angolo un filtrante. Sono dovuta ripiegare al posto di Alessia, che marcava l'esterno neozelandese. La Smith quasi si ferma lì per battere il piazzato, ma qualcuna la richiama e le dice di andare in difesa.

 Il pallone viene calciato dalla Ryan e io, ancora una volta, lo guardo scavalcarmi e finire verso il secondo palo, dove ancora una volta è appostata Giada. Ma Giulia chiama la palla e la smanaccia in avanti, verso Prisca, che, ad occhi chiusi, serve Federica, che già è partita in contropiede.

 Inizio a correre, senza sapere come finirà l'azione. Marta mi supera, buttandosi dentro l'area. Federica lascia il pallone a Giada, che deve essersi teletrasportata da un capo del campo all'altro.

 Arrivo alla lunetta davanti l'area di rigore e rimango ferma, mentre Giada arriva sulla linea del fondocampo. Le neozelandesi stanno tornando, sento i loro passi, i loro respiri. E anche la voce della Ryan che urla qualcosa alle altre.

 Il terzino alza appena la testa e vede Marta, pronta a ricevere sul dischetto del rigore.

 Il tempo si ferma. Ho capito cosa sta per accadere e, ne sono certa, lo hanno capito tutti.

 L'assist di Giada è rapido, ma per Colachins non è un problema. La prende di prima, forse un po' male, proprio di fronte a me.

 Un istante dopo la rete si smuove, con il portiere neozelandese a terra.

 Corro verso Marta, che a sua volta sta andando da Giada… e abbraccio entrambe gridando qualcosa.

 Dagli spalti si sente qualcosa, grida, esultanze, cori, insulti, nonloso.

 «Daje regààààà!» urla Prisca.

 Lo speaker dell'Olimpico annuncia: «Gol dell'Italia! Marta…»

 «Colachini!» è la voce unica che sentiamo attorno a noi.

 «MARTAAAA»

 «CO-LA-CHI-NI!»

 E così, per altre tre volte.

 Sorrido, tornando nella nostra metà campo insieme a Federica.

 Con la coda dell'occhio scorgo Marta andare dalla zia e abbracciarla. Forse ha meritato la ramanzina, ma io credo che ancora di più abbia meritato questo gol. Giusto per far vedere di che pasta è fatta.

 

 «Forse non l’hanno presa troppo bene» commenta Prisca ridendo. Ma come fa a ridere? Ci hanno chiuse di nuovo nei venti metri!

 Per fortuna il loro ultimo tiro è uscito poco sopra la traversa. Anche se ora è Giulia ad avere il pallone tra le mani, io non mi sento affatto tranquilla.

 E Prisca ride. Bah.

 «Su Giada, su Giada!» sento urlare dalla zia all'indirizzo del portiere.

 Il terzino destro riceve il pallone, ma lo passa subito a Marisa. Vedo Prisca avvicinarsi a me e so di dover prendere il suo posto in avanti, in modo da scambiarci di nuovo.

 Il numero dieci la tocca di prima per Alessia, che sta scappando verso la linea del fondocampo. Salta la Smith e si accentra, con la Ryan che subito le si avvicina.

 Le chiamo la palla, ma il passaggio viene intercettato dalla Lewis, che la lancia subito avanti, dove Hannah Davies la riceve, prima di iniziare a correre. La fuoriclasse neozelandese salta prima Marisa, poi Livia che era in ripiegamento. Giada la segue a ogni passo, senza lasciarla andare, ma la Davies si accentra e tira in porta.

 Giada allarga una gamba, per provare a deviare il pallone, ma a prenderlo è Carlotta, che è decisiva… purtroppo.

 Giulia si era già buttata dalla parte verso cui aveva tirato la Davies.

 Pareggio.

 «Ma che cazzo!» grida Prisca, scocciata. Ora è tutto tranne che sorridente. E ci credo.

 Finché la partita non finisce è meglio non gongolare troppo.

 Infatti passiamo altri dieci minuti barricate in difesa, cercando di contrastare il loro assedio. Prendo un paio di calci sugli stinchi, ma l'arbitro Fernandes fa finta di non vederci. Al quarto fallo che mi fa la Ryan per togliermi il pallone, finalmente si becca il giallo, eppure lei continua a protestare perché a suo dire sono entrata con i tacchetti sulle sue gambe due minuti fa.

 Certo come no.

 Rimango per un istante spalmata a terra sul prato: devo riprendere fiato. Devo far scorrere un po' di tempo, almeno per allentare la pressione psicologica sulle ragazze.

 «Daje, Sere

 La voce di Prisca stavolta è inespressiva. Alzo appena la testa e mi pulisco con le mani da un paio di fili d'erba che mi sono rimasti appiccicati sulle labbra.

 «Ci vorrebbe un gol» le dico, apatica. Come se io non fossi davvero qui, nel mio corpo, ma altrove, lontana anni luce da questo campo da gioco, da questa partita. Arriva qualche suono indistinto alle mie orecchie, forse dagli spalti.

 «Ci vorrebbe sì» concorda la mia migliore amica, porgendomi la mano per rialzarmi da terra.

 La afferro e mi tiro su. Guardo Elena, che sta parlando con l'arbitro e che lancia occhiate cagnesche alla Ryan, quasi a dirle che si è meritata il cartellino.

 «Oh, Seré, tutt'appost

 Annuisco ad Alessia, che già ha preso il pallone tra le mani, come se volesse battere lei la punizione per mettere un cross lunghissimo in area.

 «Lasciala!» le grida Prisca, che poi le indica la bandierina del calcio d'angolo, quella dove lo batteremmo noi. Significa che deve andare avanti. La punizione infatti è affidata al sinistro di Carlotta, che invece di lanciare lungo, come le neozelandesi si aspettavano, la passa quasi in orizzontale alla Mari, lasciata libera dalle attaccanti con la maglia bianca.

 E la nostra regista lancia di prima verso Alessia, che si è liberata dalla marcatura della Kelly, che aveva di fronte. Con una finta prova a saltare la Smith, ma il terzino non la perde d'occhio e la fa indietreggiare di un passo. Corro verso di lei, così la Ryan è costretta a inseguirmi, a meno di non permettere ad Alessia di servirmi all'ingresso dell'area.

 La mia compagna di nazionale si ferma, e dà un'occhiata a come siamo messe. Mi volto e mi accorgo che Marta è marcata stretta dalla Cox, ma Livia sta arrivando.

 Cerco di liberarmi della Ryan, anche se non è semplice: sembra quasi una sfida tra me e lei per questa zona del centrocampo.

 «Vai dentro!» mi grida Prisca. So che sta parlando con me, perché per le altre userebbe un soprannome astruso dei suoi.

 Giro alle spalle della Ryan, ed entro in area di rigore.

 Ma il pallone non passa, perché una delle neozelandesi lo intercetta e riparte. Fermo la corsa e torno indietro, verso la nostra metà campo.

 Sento il fiatone e le gambe che iniziano a pesare… per fortuna, però Elena riesce a recuperare la palla e la prima cosa che fa è passarla a Marisa, che va da Giada, che sta sgaloppando sulla destra.

 Federica, che l'aveva quasi sostituita in difesa nel momento dell'attacco delle nostre avversarie, inizia a correre; ma io sono già dalle parti dei loro difensori. Sono stata una lumaca in ripiegamento.

 «Alla Sere, alla Sere!» urla la zia. Il terzino della Fiorentina non può non sentirla, è solo a qualche metro da lei.

 Il pallone mi arriva preciso sul petto e lo metto a terra. Scorgo Prisca con la coda dell'occhio, e so dove sta per andare, perché ho visto anche io un buco tra le maglie bianche. Gliela passo rasoterra e lei la tocca quanto basterebbe per metterla in porta.

 Ma il portiere della Nuova Zelanda si stende e riesce a deviare con la punta delle dita.

 Alzo il pollice verso Giada, per dirle che andava bene, ma sento l'imprecazione rabbiosa di Prisca per un altro tiro che non è finito come voleva lei.

 La vedo prendere il pallone e andare dritta alla lunetta del calcio d'angolo. Elena e Carlotta salgono, ma alcune delle neozelandesi sembrano ferme.

 Mi volto e vedo una delle ragazze in maglia bianca distesa a terra, con Marisa che le dà una mano con i crampi. Do un'occhiata al tabellone: tra una cosa e l'altra siamo quasi al quarantesimo e ancora non ci sono stati cambi.

 Come non detto: nella zona del quarto uomo vedo Simona e i suoi capelli blu, che la rendono inconfondibile. Lo speaker dello stadio annuncia che è Marta a uscire per far entrare la centravanti dell'Inter.

 Mi passa davanti, ma la fermo per abbracciarla: se stiamo sull'uno a uno contro queste qui, è merito del suo gol.

 «Grande Colachins» le dico soltanto.

 Lei sorride, ma non dice niente e va fino dal quarto uomo.

 «Villa! Villa! Sei stanca?"»

 La voce della zia mi trapassa i timpani. Faccio segno che posso ancora continuare, e lei continua a chiedere la stessa cosa alle altre, mentre nel frattempo anche la White fa uscire la Ryan per la Taylor.

 Mi avvicino all'area di rigore neozelandese, pronta a intercettare se dovessero ripartire. Il pallone di Prisca passa di un soffio sulla testa di Elena, ma un difensore la rimette in angolo.

 «Serena!» urla la zia, mentre la Nuova Zelanda fa un altro cambio. Mi volto e vedo l'allenatrice paonazza in viso, tra il caldo e il fatto che sta gridando da quasi novanta minuti. «Battilo tu!»

 Non annuisco nemmeno, ma corro verso la bandierina, dove Prisca stava sistemando la palla.

 «Lascia» le dico soltanto. Lei annuisce, forse avrà sentito le indicazioni.

 Do un'occhiata veloce al centro dell'area, prima di prepararmi a battere l'angolo. Sono tutte marcate, ma Simona è lasciata in disparte, forse non si sono ancora accordate su chi deve marcarla. E a Marta chi ci pensava?

 Infatti la Martin va subito a prenderla. Niente, non posso metterla su Simona.

 Prendo la rincorsa e colpisco il pallone con l'interno destro. L'impatto è forte, ho messo tutta la forza che avevo: non volevo metterla precisa, ma forte. Volevo che quella palla corresse.

 E corre, fino a finire sulla fronte di Carlotta, che salta di qualche centimetro sull'avversaria. Completamente immobile, guardo il suo colpo di testa entrare in rete… sono pietrificata.

 Due a uno! Siamo due a uno!

 «Eddaje!» grida la voce di Prisca, che riconoscerei fra milioni.

 «Gol dell'Italia! Carlotta…»

 «Tor-ri-si!» sillaba lo stadio. E giù altre tre volte, come prima avevano fatto per Marta.

 Insieme alla mia migliore amica raggiungo le altre, che stanno esultando sulla pista di atletica, intorno al campo. Appena Carlotta mi vede, mi scuote con veemenza.

 Non so cosa mi dice, sento delle braccia intorno a noi, ma non capisco molto. Ritrovarsi al centro di un'esultanza è come essere ubriachi. Ma più bello: ubriachi di felicità.

 Torniamo sul rettangolo di gioco e riprendiamo il nostro posto, ognuna al fianco di un'altra maglia azzurra. Prima che si possa riprendere, la zia fa uscire Federica, oggettivamente stanca, ed entra Eleonora, che si va a mettere davanti a Livia, sull'esterno a destra. Dove prima era la Spine.

 La Nuova Zelanda dà di nuovo il via alle azioni, e si riversano un’altra volta in attacco. Ma noi siamo schierate bene e, anche se iniziamo a sentire la fatica di una partita che abbiamo giocato a mille, non siamo disposte a mollare niente.
Ormai siamo già durante il recupero, non manca molto.

 Livia intercetta un filtrante della Harris, la passa a Marisa. Le chiamo la palla e lei me la mette precisa sulla corsa. Supero la Lewis e la Smith, che mi stavano marcando e scorgo Prisca con la coda dell'occhio. È sola o quasi davanti a Emily Jones.

 Il mio assist la raggiunge e lei fa un banalissimo pallonetto, che però mette fuori gioco il loro portiere, che non ci arriva. La Cox prova a fare qualcosa, ma non ne ha il tempo.

 Scoppio a ridere nel vedere la mia migliore amica che si porta la mano destra al petto, battendola sullo stemma. Alessia corre da lei, quasi travolgendola, ma ci pensano Giada ed Eleonora a buttarla sull'erba.

«PRISCAAAA»

«PA-RI-NO!»

Si rialzano tutte in piedi, con Federica, arrivata dalla panchina, che svuota una bottiglietta  d’acqua sulla testa di Giada.
Prisca mi si avvicina, mentre torniamo verso il centro del campo. Mi dà una pacca sulla spalla e indica l’arbitro con un cenno del capo. Ha il fischietto in bocca.

È finita.

«E menomale che neanche dovevi giocare!» mi prende in giro il numero dieci. «Un assist a me e uno a Carlotta!»

Sorrido, inebetita, guardando Elena esultare lontano da noi, sotto la tribuna dove ci sono alcuni dei parenti. Chissà se Prisca ci sta pensando, a quel provino di tanti anni fa. Chissà se anche lei sta pensando a tutta la strada che abbiamo fatto insieme per essere qui.

Sento qualche coro provenire da più angoli dello stadio, con le tifose organizzate che seguono la nazionale in tutte le partite, anche nelle trasferte all’estero.

Se è l’inizio di un sogno, non svegliateci.

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Capitolo 4
*** 4. "Tu cosa faresti?" ***


 Mi butto sul letto. Per fortuna ho già fatto la doccia negli spogliatoi a fine partita, ma tra una cosa e l'altra è mezzanotte passata e sono distrutta. In realtà ho un ottimo motivo per rimanere sveglia, ma devo aspettare che Bice lasci la nostra camera. Spero che faccia come tutti gli altri giorni, che vada da qualcuno con cui ha una mezza tresca e che mi lasci sola. Anche se è tardi e lui domani ha la partita, ho bisogno di vedere Lorenzo.

 Devo capire se siamo ancora al sicuro… già durante il ritiro a Coverciano gli allenatori di entrambe le squadre erano stati abbastanza chiari sulle situazioni intime. Penso che se scoprissero di noi due, passeremmo dei guai grossi quanto il Bernabeu.

 Bice disfa il letto, come per fingere di averci dormito. Poi si mette in ascolto, con le orecchie tese dietro la porta, aspettando che i suoni nel corridoio si affievoliscano, il modo da avere il via libera per la sua avventura notturna.

 «Sere, a domani» mi dice soltanto, con un sorriso.

 In risposta, annuisco. Spero che, chiunque sia il tipo da cui va, sia uno a posto e che lei non ci rimanga troppo male. Sentendo in giro, qui nascono e muoiono molte avventure…

 Lei esce, e io resto sola. Mando un messaggio a Lorenzo e poi mi sdraio sul letto a pancia in su, ripensando alla partita.

 Sento ancora l'adrenalina scorrermi nelle vene. È stato magico, meraviglioso, spettacolare. Uno stadio pieno di gente, una partita tosta, ma che alla fine abbiamo portato a casa… E i miei sugli spalti, insieme a mio fratello. Spero che siano stati felici di vedermi giocare così: sono certa di aver fatto una buona partita.

 Il mio telefono vibra sulla coperta. Una sola parola.

 "Arrivo."

 È davvero triste riuscire a vederci solo di notte, soprattutto perché la nostra storia va avanti già da qualche mese, mentre chiunque penserebbe che si tratta solo di qualcosa di passeggero.

 Altro messaggio.

 "Aprimi."

 Lui è dietro la porta, e mi guarda con un sorriso innamorato e con gli occhi che brillano di felicità. Mi trattengo dall'abbracciarlo solo perché non possiamo correre alcun rischio, e lo faccio entrare in fretta.

 Lorenzo mi stringe a sé e anche io lo abbraccio. Mi lascia un bacio dolce sui capelli e ringrazio Iddio di averli lavati prima. Sarebbe stato imbarazzante con il sudore sulla testa.

 «Ho paura che ci scoprano» gli dico, non appena mi allontano da lui, che però tiene le mani ben piantate tra la mia schiena e il... fondo.

 «Ti preoccupi troppo, Sere. Siamo stati attenti finora, e continueremo ad esserlo.»

 Mi sorride, rassicurante, e io mi appoggio di nuovo a lui. Sento il suo profumo, il suo battito del cuore, il suo respiro.

 Gli racconto di stamattina, del tuffatore che ha notato una complicità tra noi…

 Lui non fa che sorridermi, come se tutto dovesse andare bene per forza di cose; come se il contrario non fosse contemplato. Lo odio quando è così positivo.

 «È normale che abbia notato un po' di complicità, su» mi dice. «Eravamo io e C* contro te e Prisca!»

 Annuisco. Non ho intenzione di insistere, so che con lui è inutile.

 «E la partita?»

 «Sei stata grande!» esclama a bassa voce. «Anche se ho pensato che ti volessi portare via uno stinco della Ryan, a un certo punto...»

 Scoppio a ridere, cercando di non fare rumore. E anche lui ridacchia insieme a me.

 «Ti dispiace se mi metto il pigiama?» Voglio stare comoda e sdraiarmi. Ma so cosa mi sta per dire.

 «Puoi anche toglierti i vestiti e non indossare niente» commenta, con un sorriso che ormai ho imparato a conoscere. Che gran paraculo.

 «No, Lori, non se ne parla. Tu domani giochi e non voglio che faccia uno schifo per colpa mia.»

 Mi allungo sul letto per togliere il pigiama da sotto il cuscino, mentre lui mi risponde.

 «D'accordo, amore, d'accordo. Ma voglio lo stesso lo spogliarello!»

 Istintivamente, gli lancio contro il cuscino, mentre Lorenzo continua a ridacchiare.

 «Deficiente» gli dico, a metà tra il serio e il faceto. Mi cambio e mi sdraio sul letto. Anche lui è in pigiama, e si sdraia al mio fianco. Mi sistemo accoccolata sul mio ragazzo, che mi abbraccia.

 «Sarebbe bello stare così tutte le sere» dice Lorenzo a un tratto.

 Sorrido. Sì, sarebbe bello, ma ci sono tante cose da considerare…

 Non dico nulla, lasciandomi sfuggire un sospiro.

 «Ci stai ancora pensando, vero?» mi chiede lui. Annuisco. Certo che ci sto pensando, eccome se ci sto pensando.

 «Marta dice che la loro allenatrice mi vorrebbe alla Juve… non ti dico che ci voglio andare, ma sarebbe un bel salto di carriera. Io voglio vincere e con loro posso farlo. Anche se perdere in Champions mi seccherebbe parecchio…»

 «Se ti cercasse il Barcellona? O il Lione? O il Psg? O…»

 «Amò, non lo so. Dovrei valutare tutto. E anche l'idea di andare a essere una delle tante non mi piace…»

 «Cazzo, Seré, 'nte piace gnente

 Eh, ha ragione. Non so spiegarlo, ma io voglio sentirmi protagonista di una squadra che vince. Magari della mia squadra… anche se temo che loro non mi cercheranno mai. Figurati se chiamerebbero proprio me.

«Prima Alessia ha detto che c’erano degli osservatori dalla Francia. Non so chi lo abbia detto a lei… Boh, io neanche dovevo giocare. Magari erano lì per Prisca.»

Sospiro. Non so che senso abbia parlarne. Sono solo parole, solo tanto fumo e ancora nessuna possibilità che ci si è presentata su carta. Anche se so benissimo che la Juve mi tiene d’occhio, nessuno mi ha contattata. Forse hanno detto alle ragazze in nazionale di convincermi ad accettare quando sarà il momento.

«Beh, Prisca è forte, può essere» mormora Lorenzo. «Ma se lei andasse via dalla Roma, tu cosa faresti? Cercheresti di andare insieme a lei?»

«Dipende dalla squadra… Tu cosa faresti?»

«Io penserei prima di tutto a me» mi risponde lui e, nel farlo, mi stringe a sé. «Cioè, se mi presentassero un bel progetto e una buona offerta, anche di soldi, io accetterei.»

«Ma quale progetto?»

«Boh, penso che una squadra che gioca in Champions o che vuole vincere il campionato possa andare bene. E che mi promettano di migliorarmi: magari giocare con qualche campione potrebbe aiutarmi.»

Sospiro. «Boh, Lorè, non lo so. Io vorrei… beh, lo sai cosa vorrei. Vorrei che mi chiamassero loro

Non riesco a dirlo, non potrei mai accettare l’idea di aver sognato troppo a lungo che potesse accadere quando invece non accadrà mai. Perché io me lo sento che non succederà. Figurati se succede.

«Ti ci porto in braccio io, fino in Inghilterra» sorride lui. «Se ti chiamano, tu vai.»

«E… e tu?»

Non posso fare a meno di chiederlo. La nostra storia e la nostra segretezza funzionano finché viviamo nella stessa città: addirittura in due nazioni diverse sarebbe complicato gestire una relazione.

«Io ti amo e ti voglio felice. Se la Juve dovesse chiamare me, però, non ci penserei due volte.»

«Ti pareva!» scoppio a ridere.

Lorenzo posa un dito sulle mie labbra. «Se ci sentono, ci ammazzano!» bisbiglia.

Nelle camere vicine ci sono Simona e Livia da una parte e Marisa e Prisca dall’altra… spero che siano tutte e quattro stanche e che si siano addormentate da un pezzo.

«Dici che potrebbero sentirci?» sussurro, prima di baciare un angolo della sua bocca. Provocarlo mi diverte, anche se in questa situazione potremmo passare dei grossi guai; non so se è proprio per questo che ho la tentazione. Dormire abbracciati quando Bice se ne va in giro è piacevole, ma non è la stessa cosa. E lo sa perfettamente anche lui.

«Sì, amore, potrebbero. Già è una fortuna che Cristian si faccia gli affari suoi…»

«Magari pensa che tu stia soltanto in giro a spassartela» commento, amaramente. Lorenzo è un bel ragazzo e ha davvero ammiratrici ovunque vada. Ho visto la fila di ragazzine che vogliono fare la foto con lui, quando capita che si fermi dopo gli allenamenti. Non dimenticherò mai quando ero con lui, Prisca e un altro ragazzo della Roma e una gli fa: «Ma tu ce l’hai la ragazza?»

Ricordo di aver sentito le mie orecchie andare a fuoco e di aver ringraziato i capelli sciolti che le coprivano. Non so come sia stato possibile, ma Prisca non si è accorta di niente; altrimenti le prese in giro sarebbero continuate fino alla fine dei tempi. Avrebbe capito che io ero interessata a lui e, anche se non era tutta la verità, mi avrebbe lo stesso messa in imbarazzo…


***


Mi risveglio con la spalla intorpidita, appoggiata come sono stata tutta la notte su Lorenzo. Mi sono addormentata senza neanche accorgermene.

 Lo scuoto appena, nel momento esatto in cui il mio telefono vibra per la sveglia. È ancora presto, se lui esce di qui non rischia di essere visto.

 Apre gli occhi e mi sbadiglia in faccia.

 «È già ora?» mi chiede soltanto.

 Annuisco. Sì, sono già le sei e mezza.

 Mi alzo dal letto, quasi spingendolo giù, e vado ad aprire la porta per controllare se la via è libera. Il corridoio è deserto.

 Lorenzo se ne va, sorridendomi. Si trattiene dal baciarmi solo perché la prudenza non è mai troppa, ne sono consapevole. Lo guardo arrivare in fondo e poi girare verso le camere dei ragazzi.

 Sospiro. Prima o poi ci scopriranno, ne sono certa; ma forse ne vale la pena, anche se il più delle volte non facciamo niente.

 Rientro in camera e mi siedo sul letto. Il mio telefono vibra proprio in questo istante. Chi è il folle già sveglio a quest'ora?

 Prisca.

 "Ti devo parlare. Andiamo insieme a colazione?"

 "Cinque minuti. Tacci tua, mi hai svegliata…" le rispondo, aggiungendo una faccina annoiata.

 E ora che ha da dirmi?

 Non mi resta che darmi una sciacquata al viso, cambiarmi e incontrarmi con lei qui fuori.

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Capitolo 5
*** 5. Tra favole e litigi ***


 

Prisca se ne sta in silenzio, mentre beve il suo solito cappuccino scuro. Non ha ancora spiccicato una parola, anche se ormai siamo qui da diversi minuti. I tavoli intorno a noi si stanno riempiendo: non è più tanto presto, anche se la squadra è rientrata tardi e noi due nello specifico abbiamo fatto le ore piccole.

Come sempre, sorseggio un po' del mio cappuccino, mentre lei gira il cucchiaino nella tazza. Mi sembra nervosa.

«Senti, Seré, non so come dirtelo» esordisce. Neanche mi ha dato il buongiorno quando ci siamo viste. Parla ora per la prima volta e mi sembra che stia per far scoppiare una bomba.

«A parole tue» le rispondo, forse un po' stupidamente.

Lei si guarda intorno, come volendosi accertare che nessuno faccia caso a noi. I tavoli intorno sono poco affollati, qualcuno fa colazione in silenzio, qualcun altro chiacchiera a bassa voce. Solo in un angolo distante da noi sento che qualcuno alza il tono, ma si capisce anche da qui che stanno ridendo e scherzando.

«Ieri c'era davvero qualcuno dalla Francia per guardare la partita» sputa fuori lei. «Alessia aveva ragione.»

«E tu che ne sai?» ribatto io, iniziando a imburrare il mio pane.

«Erano lì per me.»

Il coltello mi cade di mano e finisce sul pavimento, rimbombando. So che qualcuno si sta voltando verso di noi, ma non mi interessa. Prisca si è portata le mani al viso, come nascondendosi.

«Sei sicura?» le chiedo. Potrebbe essersi sbagliata Alessia, potremmo esserci sbagliate tutte… d'altra parte nessuna di noi conosce ogni singolo personaggio del nostro mondo, soprattutto quelli che si occupano delle trattative.

«Serena, ti è caduto questo» mi fa un ragazzo dalle braccia muscolose. Solo in un secondo tempo mi ricordo che si tratta di Rodolfo Pianesi, un ginnasta. E ricordo anche il commento di Prisca sul suo conto: "Un figo della Madonna con un nome brutto quanto la fame."

«Grazie, ma mi sa che dovrò prenderne un altro» gli rispondo con un sorriso, cercando di essere cortese.

«Tranquilla, ci penso io… rischi di far cadere anche l'altro, addormentata come sei!»

Scoppio a ridere, un po' per la sua considerazione, un po' per il nervosismo che sento ribollire dentro di me.

Rodolfo si allontana e io guardo Prisca, che si toglie le mani dal volto.

«Ecco, magari non incazzarti» mi dice.

«Io non mi incazzo, ma tu devi dirmi le cose come stanno.»

La mia voce è fredda, molto diversa da come lo è stata poco fa con il ginnasta. Ma con Prisca ho quel tipo di rapporto che permette tutto a entrambe.

«Lo sto facendo. Mi hanno chiesto loro di tenere il silenzio.»

«Prì, ndì stronzate. Nun sei capace a tené i segreti.»

«Per questo è stato difficile e per questo mi sento una merda.»

«Un po' lo sei.»

Le parole escono dalle mie labbra prima che riesca a fermarle. Forse dovrei connettere bocca e cervello prima di parlare, perché ora mi sento rossa quanto un pomodoro. Anzi, forse al confronto un pomodoro è pallido.

Ma lei sembra non aver sentito, anzi: prende il telefono e apre qualche app.

«Ecco qui.»

La voce di Rodolfo mi scuote appena. Lui mi sta porgendo un coltello pulito per il mio burro.

Lo ringrazio e lui se ne torna al tavolo dove aveva lasciato la sua colazione. Avrei apprezzato la sua gentilezza con più riconoscenza, se non fossi imbufalita con la mia migliore amica.

«Se ne è andato?» chiede Prisca, come se io non avessi emesso un suono.

«Sì» le rispondo.

«Bene, magari ora stai zitta e mi stai a sentire.»

Annuisco, anche se di malavoglia. Ma almeno lei non si è offesa.

Punta i suoi occhi azzurri su di me, seria.

«Mi hanno contattata a giugno. Sono settimane che sto prendendo tempo, perché io lo so, come lo sai benissimo anche tu, che nessuna di noi due rimarrà alla Roma per una stagione in più. E io voglio prima sapere che tu abbia una squadra di ottimo livello, perché altrimenti io pongo come unica condizione che tu venga con me.»

«Io non voglio essere raccomandata» ribatto. Certo che non vorrei allontanarmi da lei, certo che mi piacerebbe essere in una grande squadra insieme a lei… ma non in questo modo. «Non è neanche detto che poi lì ci troveremmo entrambe bene. A Roma io sono a casa, potrei anche rimanere un altro anno.»

«Ma nun dì cazzate, a tte basta solo ch’a Juve faccia davero quaa telefonata e piji il primo aereo pe' Caselle.»

In realtà quell'aereo lo prenderei volentieri per un'altra destinazione. E lei lo sa benissimo: anche se il loro interesse mi lusinga, il mio sogno è altrove.

Il mio sogno. Per quanto ho intenzione di limitarmi a sognare e basta, senza provare a raggiungerlo?

Scrollo le spalle. In più ho il pensiero di Lorenzo, che lei non ha… ma come le posso spiegare anche questo?

«Non è così semplice.»

Prisca si butta sul sedile. Sta trattenendo un'imprecazione, lo so.

«Certo, Seré, non è semplice. Per te niente è semplice. Ma ora stammi a sentire.»

Addento il pane con la marmellata e le faccio un cenno per dirle che la sto ascoltando.

«Sono abbastanza sicura che sono arrabbiati con me, perché ancora non ho dato una risposta.»

«Ma che squadra è?» le chiedo. Anche se temo di sapere già la risposta.

«Lione» sussurra lei.

Sospiro. Lione. Una delle squadre più importanti d'Europa – o forse la più prestigiosa in assoluto del continente – la sta cercando e lei non risponde subito di sì. Avranno pensato che è matta.

«E la Roma che ha detto?»

Lei butta fuori un grosso respiro. «Hanno ricevuto un'offerta bella pesante… ma se voglio rimanere, loro hanno tutti gli interessi a tenermi, visto quanto sono importante. Anche se sanno già come sostituirmi… dovrei solo dire di sì e andare, almeno secondo loro.»

«Vai, Prì

Mi fa male il cuore a dirlo, ma è giusto che lei vada all'OL. È giusto che lei abbia l'occasione di giocare grandi partite. È sempre stata molto più forte delle altre, ma non è mai voluta andare via dalla Roma.

Perché c'ero io.

«Se devi stare a pensare a me, butti il tuo tempo» continuo. «Devi pensare a te e a quello che è giusto per la tua carriera. Io ci sono e ci sarò sempre… ma possiamo pensarci quando avremo smesso, no?»

Lei sorride. «Sere, io… non voglio che ci perdiamo di vista. Non voglio che con te succeda quello che è successo con altre ex compagne di squadra, che sento solo per gli auguri di Natale o del compleanno.»

«Non succederà. Non sei solo una compagna di squadra.»

Una morsa mi stringe il cuore. È la mia migliore amica da una vita… e io non le ho detto di Lorenzo.

E le ho dato della merda, poco fa. Forse lo sono più io di lei.

«Oh, raga!» esclama la voce di Simona alle mi spalle. Sul vassoio della colazione ha un giornale ancora intonso.

Solleva il quotidiano, su cui campeggia il titolo: "Azzurre da favola".

In primo piano c'è una foto della nostra esultanza al gol di Carlotta, proprio nel momento in cui le ho raggiunte.

«Dove lo hai preso?» le chiede Prisca.

«Alla hall sono pieni!» ride Marisa, arrivata qui insieme alla punta interista.

«Dai, leggi!» dico io, curiosa di cosa ci sia scritto.

Le ragazze prendono posto, Simona spiega il giornale e legge il sottotitolo: «Il sogno olimpico inizia con le Sorelle d'Italia

«Dài qui, tu fai colazione» la incita Prisca.

Lei le passa il quotidiano con un sorriso, e gira il cucchiaino nel suo cappuccino.

«Volevano partire con il piede giusto, ma si è già trattato di un piccolo trionfo» inizia a leggere il numero dieci della Roma e della nazionale. «Dopo una partita sofferta e contro un avversario più qualificato e, sulla carta, molto temibile, le Figlie d'Italia…»

Trattengo una risata con uno sbuffo. Giornalista e titolista non si sono neanche messi d'accordo su come chiamarci!

«... hanno fatto una vera e propria impresa. Se durante il riscaldamento l'infortunio di Bastioni aveva complicato i piani di coach Rondelli, la grinta e i mille polmoni di Villa non ne hanno fatto sentire la mancanza. La centrocampista romana, infatti, si è resa protagonista del match, con ben due assist, e tanta qualità…»

«Non ho capito, ho i polmoni o la qualità?» esclamo. Ma sento il mio viso andare a fuoco. Ho già letto degli articoli sul mio conto, questa non è certo la prima volta… però sentire da altri che io sono stata "protagonista" della partita mi riempie di orgoglio.

«Tutti e due!» ride Marisa.

«Vai alle pagelle, vediamo che dicono!» incita Simona. Con uno sbuffo allontana un ciuffo blu dal viso e addenta il suo cornetto con la crema, mentre Prisca volta la pagina del giornale.

«Legati: sei e mezzo. Nulla poteva il nostro portiere sulla deviazione decisiva di Torrisi. Nelle altre occasioni ha sempre risposto presente. Allasio: sette e mezzo. Il terzino dai polmoni d'acciaio è letteralmente ovunque, sulla corsia di destra. Difende con ordine e attacca con i tempi giusti. Macis: sei…

«Su di voi che dice?» insiste Simona, con un gran sorriso.

Prisca scorre l'articolo con lo sguardo. «Cicero. La torinese è ormai una garanzia. Non ha bisogno di guardare le compagne per sapere dove sono piazzate: la palla finisce sempre precisa sui loro piedi

«"Sono Marisa Cicero, ma potete chiamarmi Andrea Pirlo!"» scherza Simona, strappando una risata a tutte e tre.

«Mi manca qualche trofeo per essere come lui!» esclama la Mari, continuando a ridere.

«Come lui chi?» chiedono da un tavolo vicino.

Simona saluta il ragazzo dalle spalle larghe che ha fatto la domanda. «Buongiorno, Giù

Lui ricambia con un cenno.

«Qui il tipo che ha fatto le pagelle ha detto che lei» e Simona indica Marisa «è come Pirlo, in sostanza!»

«Beh, se vincete, il paragone ci può stare!» esclama quello.

«Mi manca tipo qualche Champion's League» commenta la regista della Juve. «E anche qualche scudetto… lui ne ha vinti parecchi.»

«Dai, Prisca, continua!» esclama ancora l'attaccante dell'Inter.

«Allora… Villa: otto. Non prevista nello schieramento iniziale, la centrocampista fa subito valere le sue ragioni, mordendo più di una volta le caviglie della Ryan. Sempre presente in fase di attacco, utile anche in difesa.»

Strabuzzo gli occhi. «Utile in difesa? Ma che si sono bevuti?»

«Hanno ingigantito un po', ma ci sta» fa Prisca, ammiccando. «Non dovevi giocare e hai fatto una buona partita.»

«Sì, infatti» concorda Simona.

«Poi, poi, poi…» riprende la mia migliore amica. «Ah, ecco. Parino: otto. Un primo tempo giocato discretamente, da lei ci si aspetta sempre quella scintilla in più. Sempre pericolosa quando tira in porta, ma è riuscita a fare gol solo alla fine. Bene, quindi mi ha dato un bel voto, ma a sentire il giudizio avrei un sei striminzito!»

«Era solo la prima partita, avrai il tempo di fare a tutti il culo a strisce» commenta la Mari.

«E su Marta, che dicono?» chiedo invece io. Dopo la lavata di capo che si è presa dalla zia…

«Colachini: sei e mezzo. Dopo un primo tempo incolore, la juventina sblocca il punteggio. Poteva sfruttare meglio i cross di Leonardi e Allasio. Simpatico.» Prisca poggia il giornale facendo una smorfia di disappunto.

«Io sono senza voto, vero?» le chiede Simona, prima di finire di bere il suo cappuccino.

«Sì, dice che sei entrata quando la partita era già decisa» sbuffa Prisca. «Spero che Colachins non legga questa merda.»

«Eh, però un po' ha ragione…» sussurra Marisa, prima di guardarsi intorno. Anche se non si fa mai nessun problema nel parlare degli altri, appare indelicato anche a lei che Marta ci ascolti.

«Ma è bastata la ramanzina della zia, no?» chiedo io, scrollando le spalle. Il problema della centravanti è sempre stato quello di lasciarsi abbattere un po' troppo dal giudizio altrui. Anche nelle under della nazionale era così.

«In teoria sì, è bastata… ma conosci Marta» dice Prisca. «Lo sai che si butta giù con un nulla.»

«Oh.»

Simona accenna con la testa all’ingresso della mensa. Prisca e Marisa si voltano in quella direzione, io devo solo allungare un po’ il collo.

Marta sta entrando ora, chiacchierando con il tipo di ieri mattina e con un ragazzetto con la testa rasata a zero. Poverino, sicuro è una matricola… negli sport acquatici gliene fanno fare davvero di tutti i colori.

«Come si chiama lui?» chiedo, per stemperare la tensione.

«Andrea Comini» risponde prontamente Prisca. Non dimentica mai un nome, né una faccia; a meno che non sia ancora intontita dal sonno, come ieri quando non si ricordava di chi fosse quel ragazzo…

«Perché, chi è?» si impiccia subito la Mari.

«Un tuffatore, simpatico» le dico prima che Prisca possa combinare un danno dei suoi. Conosce benissimo la Mari, lo sa che se lei sa un pettegolezzo, questo si diffonderà alla velocità della luce…

«Nascondiamo il giornale?» chiede Simona.

Scuoto la testa. «Sarebbe da ipocriti. Preferisco che lo sappia da noi, piuttosto che scopra da sola che non glielo abbiamo mostrato.»

L’attaccante dell’Inter si volta. Alle nostre spalle ci sono Elena, Carlotta e Livia che fanno colazione in silenzio.

«Oh, raga, potete far vedere questo a Marta?» dice Simona. «Il giornalista è stato un po’ stronzo con lei, mentre invece ha elogiato tutte quante…»

«Da’ qua» le fa Elena, con la sicurezza che le è propria in campo e fuori. «Gliene parlo io.»

Noi la ringraziamo.

«Comunque io un’altra copia alla reception me la frego» commenta Prisca. «E mi tengo i ritagli.»

Scambia uno sguardo con me e io le sorrido. Sappiamo entrambe che la nostra discussione ancora non è finita, ma per il momento sotterriamo l’ascia di guerra. Siamo qui per vivere una favola, proprio come dice quell’articolo. Non mettiamo in mezzo le stronzate che vengono da fuori.

 

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