Descendants' Dive Into The Heart

di Lady I H V E Byron
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue - La storia fino adesso ***
Capitolo 2: *** Mal's Story ***
Capitolo 3: *** Mal's Dive Into The Heart ***
Capitolo 4: *** Evie's Story ***
Capitolo 5: *** Evie's Dive Into The Heart ***
Capitolo 6: *** Jay's Story ***
Capitolo 7: *** Jay's Dive Into The Heart ***
Capitolo 8: *** Carlos' Story ***
Capitolo 9: *** Carlos' Dive Into The Heart ***
Capitolo 10: *** Ben's Story ***
Capitolo 11: *** Ben's Dive Into The Heart ***
Capitolo 12: *** Chad's Story ***
Capitolo 13: *** Chad's Dive Into The Heart ***
Capitolo 14: *** Audrey's Story ***
Capitolo 15: *** Audrey's Dive Into The Heart ***
Capitolo 16: *** Uma's Story ***
Capitolo 17: *** Uma's Dive Into The Heart ***
Capitolo 18: *** Harry's Story ***
Capitolo 19: *** Harry's Dive Into The Heart ***
Capitolo 20: *** Gil's Story ***
Capitolo 21: *** Gil's Dive Into The Heart ***
Capitolo 22: *** Jane's Story ***
Capitolo 23: *** Jane's Dive Into The Heart ***
Capitolo 24: *** Lonnie's Story ***
Capitolo 25: *** Lonnie's Dive Into The Heart ***
Capitolo 26: *** Doug's Story ***
Capitolo 27: *** Doug's Dive Into The Heart ***
Capitolo 28: *** Epilogo - Conseguenze ***



Capitolo 1
*** Prologue - La storia fino adesso ***


Note dell'autrice: boom, boom baby! Queste piccole belle storielle sono legate a questa, a sua volta parte di un contest:
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Per raccontare di Auradon, è opportuno iniziare dal mondo primordiale da cui tutti i mondi discendono: Auropoli.

Il giorno in cui venne definitivamente distrutta dall'Oscurità, una luce, piccola, ma luminosa, riuscì a separarsi dal cuore del mondo, vagando, raminga, nell'universo, per anni, decenni, forse secoli.

Quella luce venne scoperta da uno stregone, Yen Sid, da cui creò una bacchetta.

Grazie a quella bacchetta ed all'aiuto degli altri maghi, fu possibile creare un nuovo mondo: Auradon, il secondo mondo discendente di Auropoli, dopo Scala ad Caelum.

Quel mondo sarebbe divenuto un mondo-rifugio per coloro che avevano perduto il proprio mondo a causa dell'Oscurità, insieme alla Città di Mezzo. Tuttavia, non sarebbe stato semplice accedervi: in tutti i mondi, infatti, furono creati dei passaggi magici, per raggiungere Auradon. Ma quei passaggi erano conosciuti solo a poche persone, chi era a stretto contatto con i maghi fondatori.

Infatti, Auradon non era solo un mondo-rifugio: poco dopo la creazione di Scala ad Caelum, venne creato un altro mondo, l'Isola degli Sperduti, una prigione per coloro che avevano commesso reati gravi contro il proprio mondo. Lasciati soli a loro stessi, i reclusi diedero inizio a varie sommosse, per il comando dell'isola.

Non fu un caso, se Auradon venne fondata adiacente all'Isola degli Sperduti. Non era, dunque, solo un rifugio per chi aveva perduto il proprio mondo, ma era anche la sorvegliante dell'Isola degli Sperduti.

Il ruolo di protettrice venne affidato alla Fata Smemorina. Merlino, la Fata Azzurra e le tre fate buone sarebbero stati il suo supporto.

Ci vollero anni, per rendere Auradon il mondo in cui le persone potevano ricostruirsi una vita, e non poteva essere possibile senza l'aiuto di Paperon de' Paperoni, magnate di fama cosmica. I suoi affari, iniziati nel Castello Disney, si erano propagati fino a Radiant Garden, poi alla Città di Mezzo e Crepuscopoli, e, infine, anche ad Auradon. Da un certo punto di vista, quindi, mezzo universo apparteneva a Paperon de' Paperoni. Ma, almeno, Auradon avrebbe avuto edifici adatti ad ospitare dei profughi: un dormitorio, delle abitazioni, piazze, negozi, una scuola, persino una cattedrale.

L'interno e l'esterno erano in architettura gotica, con vetrate raffiguranti le Sette Principesse di Luce, ed un affresco sulla Guerra dei Keyblade, con una luna a forma di cuore al centro, Kingdom Hearts.

Alla fine della navata principale, oltretutto, furono sistemati quattro troni. Quattro troni, per i quattro sovrani di Auradon.

Stava scritto, infatti, che un mondo creato dalla luce del mondo primordiale sarebbe stato governato da quattro discendenti di Principesse della Luce.

In effetti, tre Principesse di Luce, Aurora, Biancaneve e Cenerentola, poco prima che i loro mondi venissero consumati dall'Oscurità, avevano dato alla luce dei figli.

Purtroppo, solo la figlia di Aurora, Audrey, ed il figlio di Cenerentola, Chad, avevano raggiunto Auradon. Della figlia di Biancaneve non si ebbero notizie.

Anni dopo, arrivò anche il figlio della Principessa di Luce Belle, Benjamin.

All'età giusta, Audrey, Benjamin e Chad sarebbero stati incoronati sovrani.

Auradon sarebbe stata al loro comando: potevano apporre tutte le modifiche che volevano.

E Benjamin sapeva già cosa fare, una volta re: accogliere i bambini e gli adolescenti dell'Isola degli Sperduti ad Auradon.

Infatti, nell'Isola degli Sperduti, non giungevano solo i criminali. Tra di loro, c'erano anche bambini, adolescenti, esiliati nell'Isola degli Sperduti a causa dei capricci dei veri criminali destinati all'Isola.

Benjamin non tollerava che degli innocenti vivessero tra i criminali.

Ma occorreva, però, fare una prova: chi cresceva in mezzo ai criminali, dopotutto, diveniva egli stesso un criminale.

Vennero, infatti, scelti quattro ragazzi che non erano stati segnalati dalle pattuglie per sommosse o furti gravi: Mal, Evie, Jay e Carlos.

Inizialmente, erano contenti di uscire da quella prigione. Ma, il giorno prima della partenza, qualcuno fece irruzione nel loro rifugio: Pietro Gambadilegno. A causa dei suoi crimini, l'ultimo dei quali aver sabotato un festival nella Città Disney, era stato esiliato nell'Isola degli Sperduti, e in poco tempo era riuscito a prevalere sui criminali, autodenominandosi “Re degli Sperduti”. Ma un giorno era scomparso nel nulla. E, nello stesso modo, era riapparso nell'Isola, con una missione per i quattro ragazzi, su ordine di Malefica, madre di Mal: rubare la bacchetta chiamata “cuore di Auradon”.

A causa del timore che provava nei confronti della madre, Mal accettò la missione.

Le tentò tutte, pur di impossessarsene: corruppe Jane, la figlia della Fata Smemorina e di Mago Merlino, ed incantò Benjamin con un incantesimo d'amore. Entrambi i tentativi, però, fallirono.

Tutto si riversò sul giorno dell'incoronazione dei tre sovrani. Mal era in procinto di prendere la bacchetta, ma Jane la bruciò sul tempo.

-FAMMI DIVENTARE BELLA O LO FARÒ DA SOLA!-

Jane era ossessionata sul proprio aspetto, invidiando quello della principessa Audrey. Mal, accortanese, le aveva proposto un accordo: l'avrebbe aiutata a migliorare il proprio aspetto, in cambio del cuore di Auradon.

Ma Jane fallì nel tentativo, e Mal non esaudì, quindi, la sua parte dell'accordo.

Questo aveva spinto Jane ad impossessarsi della bacchetta, sperando esaudisse il suo desiderio di vanità.

Riconoscendo l'Oscurità dei suoi intenti, la bacchetta iniziò ad incrinarsi.

Quella piccola incrinatura bastò per far attirare Pietro e Malefica ad Auradon.

Tuttavia, Mal ed i suoi amici non si schierarono con loro: ad Auradon potevano ricostruirsi una vita, avevano opportunità che né nel loro mondo d'origine, né nell'Isola degli Sperduti avevano avuto.

Per questo, decisero di battersi contro di loro.

I tre sovrani, nel tentativo di proteggere Auradon, ricorsero alla loro Luce. Ma non era allenata, e loro la usarono tutta in un solo colpo, rischiando il collasso.

Fu Mal a cacciare la madre da Auradon, con l'aiuto di Yen Sid.

I tre sovrani si ripresero dopo pochi giorni, e venne tenuto un processo contro Jane: se non fosse intervenuta Mal in sua difesa, avrebbe perduto ogni privilegio. La sospensione da lezioni ed attività varie fu limitato a sei mesi.

Quei mesi, in compenso, furono intensi per i tre sovrani. Il progetto di re Benjamin non riuscì a proseguire e, oltretutto, non aveva nemmeno tempo per Mal. Nonostante l'incantesimo d'amore fosse svanito, lui provava davvero qualcosa per lei. Era lei, ancora, a non essere sicura dei suoi sentimenti.

Fu una lite con Benjamin stesso a metterla definitivamente in confusione. Decise, infatti, di tornare nell'Isola degli Sperduti.

Benjamin, deciso a riappacificarsi con la sua ragazza, decise di seguirla. Ma venne, però, rapito da una banda di pirati comandata da Uma, figlia della Strega del Mare Ursula. Sarebbe stato liberato solo in cambio del cuore di Auradon, per permettere a lei ed alla sua ciurma di lasciare l'Isola degli Sperduti.

Ma ciò che le venne consegnato non era la vera bacchetta, ma un falso. Perciò, Uma attuò un altro piano: anche lei incantò Benjamin con un incantesimo d'amore, per spingerlo ad eludere la barriera.

Fu in quel momento, che Mal comprese i suoi sentimenti per lui. Un bacio annullò l'incantesimo.

Uma, in preda alla rabbia, si trasformò in Kraken, minacciando di distruggere tutta Auradon. La sua rabbia, però, non era dovuta al fallimento: in lei, infatti, albergavano sensazioni amare quali vendetta e rancore. Un tempo, nel suo mondo natale, anche lei aveva amato. Ma aveva perduto il suo amore per colpa di un uomo malvagio. Era per quell'uomo che voleva lasciare l'Isola degli Sperduti.

Quella rabbia, fuori dalla barriera dell'Isola, aveva risvegliato dei poteri sopiti in lei per troppo tempo. Per proteggere Auradon, anche Mal si trasformò: in drago, come sua madre.

Dopo lo scontro, Uma scomparve, immergendosi negli abissi.

Non passò molto tempo, prima che Benjamin chiedesse ufficialmente la mano a Mal. Tra gli abitanti di Auradon cominciava a diffondersi la voce di chi volesse Mal all'ultimo trono di Auradon, o, magari, al posto dell'attuale regina, Audrey. Lei, in preda all'invidia, decise di chiudersi nella sua stanza.

Un uomo la stava attendendo, un uomo con un lungo soprabito nero ed i capelli grigi, lunghi. Audrey sapeva si trattava di un membro dell'Organizzazione XIII, ma ascoltò comunque la sua offerta: le avrebbe permesso di essere più forte, temuta, rispettata, in cambio del Cuore di Auradon.

Tentata da quell'offerta, Audrey accettò: la bacchetta mutò forma, appena riuscì a toccarla, divenendo uno scettro. E anche lei cambiò aspetto.

Inutili furono i tentativi di Benjamin e Chad di farla tornare in sé, ma Benjamin venne tramutato in una Bestia e Chad venne pietrificato.

Solo una magia più antica di Auropoli stessa poteva tenere testa allo scettro.

Mal ricorse all'aiuto di suo padre, Ade, il dio degli inferi, che le diede una pietra speciale. L'Olimpo, infatti, esisteva da ere prima della fondazione di Auropoli.

Quella pietra sola non bastò. Uma, per fortuna, unì le forze con Mal, e, insieme, affrontarono Audrey. Uma, infatti, discendeva da Poseidone, il dio del mare, fratello di Ade.

Audrey fu liberata dall'Oscurità, ma cadde in un sonno profondo. Furono Benjamin e Chad a risvegliarla, usando la Luce nei loro cuori.

Il Cuore era tornato ad essere una bacchetta, ma le crepe non accingevano a fermarsi, anzi. Divenivano sempre più profonde. Auradon avrebbe perduto presto la sua difesa.

Jane, Uma e Audrey. Superbia, Vendetta ed Invidia.

Tre nomi. Tre sentimenti negativi. Tre frammenti di Oscurità che avevano iniziato a macchiare di nero il cuore luminoso di Auradon. Ma non a tal punto da causarne la sua distruzione.

Infatti, in mezzo a queste tre storie, ce n’è un’altra: il ritrovamento tra Carlos, figlio di Crudelia De Mon, e suo padre Xigbar, un membro di un gruppo chiamato OrganizzazioneXIII.

Quando Carlos lo aveva incontrato, era passata poco più di una settimana dall’avvento di Malefica ad Auradon. Da allora si erano incontrati spesso, all’insaputa degli amici di Carlos e anche di Rudy.

Avevano istaurato un legame che il ragazzo non aveva mai instaurato con la madre Crudelia.

Ed era stato proprio quell’affetto per il padre a spingere Carlos ad uccidere sua madre.

Nessuno sapeva come fosse riuscito a tornare nel suo mondo d’origine e come l’aveva uccisa. Ma il matricidio gli aveva riempito il cuore di Oscurità.

Aggravato da quella di Jane, Uma ed Audrey, il Cuore di Auradon si distrusse: priva, ormai, di difesa, Auradon venne invasa dagli Heartless, causandone la distruzione.

Era inutile fuggire da essi. Nessun muro o porta poteva trattenerli.

Gli abitanti di Auradon e dell’Isola degli Sperduti sprofondarono nell’Oscurità ed i loro cuori confluirono in un regno artificiale creato dall’OrganizzazioneXIII, Kingdom Hearts. Per sempre.

Accadde, però, che un ragazzo armato di un’arma antica, il Keyblade, affrontò l’OrganizzazioneXIII e liberò i cuori rinchiusi in Kingdom Hearts.

Nessuno sapeva perché, ma tra gli abitanti di Auradon, solo tredici tornarono umani: Mal, Ben, Evie, Doug, Jay, Lonnie, Carlos, Jane, Uma, Harry, Gil, Audrey e Chad.

Ricomparvero nella Città di Mezzo, il secondo mondo di rifugio.

Avevano perso la vita che avevano creato su Auradon, ma dovevano trovare un modo per difendere tutto ciò che rimaneva loro.

Avevano studiato il Keyblade, i suoi poteri, le sue origini. Decisero, quindi, su consiglio di Carlos, di divenire Custodi.

Si erano recati presso Yen Sid, che acconsentì ad istruire i profughi di Auradon all’uso del Keyblade.

Ma per ottenere il proprio Keyblade, ognuno di loro doveva sottoporsi ad una prova: il Tuffo nel Cuore.

Esplorare il proprio cuore e sconfiggere la propria ombra.

Solo così avrebbero beneficiato del potere del Keyblade.

Ognuno di loro cadde in un’Oscurità senza fine, fino a notare una luce avvicinarsi sempre di più e assumere la forma di una piattaforma fatta in vetro colorato…


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Note finali: ok, ora vi spiego come saranno le prossime storie: praticamente ci sarà un background di tutti i Descendants con storie che ho inventato io, che anticiperanno il loro Tuffo nel Cuore, in cui si noterà il loro "legame" con i personaggi del videogioco Kingdom Hearts.

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Capitolo 2
*** Mal's Story ***


Note dell'autrice: ok, qui inizia il vero AU; ho stravolto le storie dei Descendants, per renderle canoniche alla trama di Kingdom Hearts; e in questo gioco, ogni cartone Disney ha un proprio mondo. E prima di iniziare il Tuffo nel Cuore di Mal, diamo un'occhiata alla storia che ho scritto su di lei. Se non vi torna qualcosa, tanto verrà chiarito nei background di tutti gli altri.

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Mal's Story



Girava una leggenda, in un regno, ovvero che, un giorno, una potente forza oscura sarebbe giunta per eliminare la Luce di quel regno, e farlo sprofondare nell’Oscurità.
I sovrani erano timorosi per la sorte del loro regno. E di recente si era sparsa la voce che Malefica, la strega più potente del regno, avesse deposto un uovo di drago. Non esisteva nulla di più malvagio di Malefica stessa: qualunque creatura nata da lei, dunque, sarebbe stata malvagia quanto lei.
Forse sarebbe stato il nascituro di Malefica la potente Oscurità che avrebbe portato il regno alla distruzione.
I sovrani non potevano permetterlo. Con l’aiuto delle fate, infatti, riuscirono a rubare l’uovo di Malefica ed esiliarlo in un mondo lontano dal loro.
Questo provocò, per la prima volta da anni, disperazione in Malefica. Affranta, aveva deciso di togliersi la vita, facendo crollare il suo castello intorno a sé.
Aveva raggiunto il regno dei morti, ma scoprì che la sua ora non era ancora giunta e che non poteva morire.
Ade, il dio dei morti, da sempre aveva ammirato Malefica, il suo potere, il suo rigore. Malefica aveva trovato in lui un valido alleato e confidente: era stato lui ad averle suggerito un valido piano di vendetta.
-Non puoi permetterti di morire, quando un intero regno sta prosperando sul corpo di tuo figlio. O figlia.-
Questo l’aveva spinta a tornare nel mondo dei vivi, e vendicarsi su Aurora, la figlia di re Stefano, a sua volta figlio dei sovrani che avevano rapito il suo primogenito.
Il primo figlio o figlia di Malefica era nato da una relazione tra draghi. La secondogenita, Mal, dall’unione della Signora di tutti i mali e del Dio dei morti.
Malefica non poteva permettersi di perdere la figlia come aveva perduto il primogenito.
Rinchiusa in una torre del castello di Malefica, Mal crebbe senza sapere nulla del mondo esterno.
Non aveva contatti con il mondo esterno, con l’eccezione dei seguaci della madre, quando le portavano i pasti, e della madre stessa.
Non aveva nemmeno conosciuto suo padre Ade: Ade aveva permesso a Malefica di tornare nel mondo dei vivi proprio il giorno della festa di battesimo della principessa Aurora. Da allora, non erano rari i loro incontri. Ma, poi, le loro visite diventavano sempre più rare, fino a non incontrarsi più. I loro doveri erano venuti prima dei loro sentimenti. Malefica dovette accudire Mal da sola, dopo averla data alla luce.
Le era concesso uscire dalla sua stanza solo una volta alla settimana. Ma doveva restare all’interno del castello; non appena si avvicinava al ponte levatoio, Diablo iniziava a gracchiare, a mo’ di allarme.
E se non era Diablo era Pietro Gambadilegno, il nuovo tirapiedi della madre.
Le urlava: -Ah-ah! Beccata!- e poi se la caricava sulle spalle per condurla nella sua stanza.
-Io proprio non ti capisco. Hai un castello tutto per te e tu vuoi scappare. Così farai spezzare il cuore alla tua povera mamma. La capisci, vero? È così sola, fa di tutto per proteggerti e tu la vuoi abbandonare. Che figlia ingrata che sei, Mally.-
“Mally”. Odiava quel nome. Specie quando veniva pronunciato da quel gatto obeso. Cercava in ogni modo di costringerla a non tentare la fuga, con i sensi di colpa.
E funzionavano. E quei giorni, Malefica si recava nella sua stanza, rimproverandola di aver tentato di fuggire, di essere un’ingrata. I soliti rimproveri di un genitore.
Mal non sapeva i sentimenti che provava per la madre: se odio o devozione. O entrambi.
Aveva sentito dire, soprattutto da Pietro, che Malefica aveva quell’atteggiamento verso di lei a causa del rapimento del primo figlio da parte dei sovrani genitori di Re Stefano. “Per il bene del regno”, come avevano detto. Ed era per questo che non voleva che la figlia scappasse dal castello.
Ma non per affetto o premura.
Malefica non era capace di provare amore. Aveva in mente un piano, con la figlia.
Vivendo da reclusa, a Mal non erano concessi molti svaghi: giocava con delle bambole o leggeva dei libri che i seguaci della madre le portavano dalle razzie dei villaggi circostanti, dipingeva sui muri, affinando, poco a poco, il suo talento con il disegno; ma, soprattutto, stava seduta sulla finestra, fissando la nebbia che circondava la Montagna Proibita.
La fissava continuamente, immaginando cosa celasse: a volte immaginava un prato fiorito e tanti alberi, talmente alti che, non appena si fosse arrampicata, sarebbe stata capace di vedere tutto il mondo; a volte un villaggio con tanti bambini della sua età con cui giocare e ballare il girotondo; una volta aveva persino immaginato di vivere in un mondo dove tutto era fatto di dolci e il suo era l’unico regno del carbone perché la madre ed i suoi seguaci erano cattivi; oppure che lei e sua madre fossero le uniche umane di tutto il creato ed il resto degli abitanti dei regni fossero animali parlanti che avevano ammazzato gli umani per le loro cattiverie e la nebbia serviva a tenerli lontani.
Questi e molti altri pensieri.
Qualunque cosa per distaccarsi dal suo pensiero e timore principale: rimanere rinchiusa in quella torre fino alla morte.
La sua possibilità di libertà arrivò al suo quattordicesimo anno di età; anche se non era proprio libertà quella che ottenne.
Sul muro era apparsa una macchia enorme, oscura, divenendo grande abbastanza da far passare una persona. Infatti, da quella macchia comparve un uomo: carnagione scura, capelli grigi e lunghi, e due occhi rossi brillanti che fissavano la ragazza, spaventata da quello sconosciuto. Portava persino un soprabito con una strana spilla al centro del petto, un cuore nero.
Mal voleva urlare, ma l’intruso riuscì a coprirle la bocca con una mano. La fissò negli occhi con sguardo freddo e minaccioso.
-Mi sarai utile con tua madre, piccola colomba.- le aveva sibilato. Un appellativo persino peggio di “Mally”.
L’aveva presa per i capelli viola e trascinata a forza in quel portale, nonostante le proteste e le grida.
Nessuno accorse per salvarla.
Mal si ritrovò in un nuovo castello. Una nuova prigione. Era un castello messo meglio di quello di sua madre, ma si rivelò essere la sua nuova prigione.
Ed era stata messa in una vera prigione, dopo averla sottoposta a torture psicologiche ed averla spaventata con esseri oscuri, formiche giganti con grandi occhi gialli, persino più spaventosi dei seguaci della madre, e con un essere ancora più spaventoso che appariva spesso alle spalle dell’uomo, una creatura senza gambe, dal torso con un foro simile ad un cuore e bocca digrignata ma bloccata da bende.
Non faceva altro che piangere e tremare, all’ombra di quella fredda e umida prigione.
Le visite dell’uomo erano frequenti e le torture continuavano.
Mal pensava di essere di nuovo da sola.
Ma un'altra persona venne condotta nelle prigioni da quelle creature oscure: un ragazzo. Aveva lo sguardo assente, nonostante la luce nei suoi occhi cerulei.
Non riuscì, però, a vederne il volto. E lui camminava senza averla vista.
Parlava di rado; specialmente per lamentarsi dei continui pianti di Mal. Erano quelle le loro conversazioni.
Non si erano mai visti in faccia: avevano memorizzato il tono della voce dell’altro e persino i propri nomi.
Il ragazzo si chiamava Riku: veniva da un’isola, da quanto aveva raccontato. E un’isola è, di norma, circondata dal mare. Lui si sentiva un prigioniero nella sua stessa casa. Voleva vedere i mondi al di fuori del suo, viaggiare, scoprire cose nuove, scoprire perché di tutti i mondi esistenti, lui fosse “proprio capitato in quello più noioso”, come aveva detto.
E, per questo motivo, si sentiva responsabile per la sua distruzione. L’unica cosa che rimpiangeva, era essere stato separato dai suoi amici, dalla sua famiglia. Sperava, al suo risveglio, di trovarli al suo fianco.
Mal comprese l’affinità tra lei e Riku: entrambi due anime prigioniere alla ricerca di una via di fuga.
Ma Riku aveva una famiglia. E degli amici.
Lei era sola. Lei avrebbe avuto delle ragioni valide per distruggere il suo mondo. Lui non le aveva.
Aveva distrutto il suo stesso mondo, la sua casa, per capriccio. Mal non si fece scrupoli a rimproverarglielo.
E, in quel momento, Riku sentì il suo orgoglio spezzarsi: era ben cosciente delle conseguenze delle sue azioni, ma non poteva più tornare indietro.
E si rese conto che, in confronto a quello che Mal gli aveva raccontato su di sé, sì, in effetti aveva molte meno ragioni di lei di distruggere il suo mondo.
Nonostante il rimprovero, i due divennero amici: lei sarebbe rimasta ore ad ascoltare le storie che lui raccontava su di lui, sulle avventure nella sua isola con i suoi due migliori amici, Sora e Kairi. E la compassione che lui provava per lei aumentava ogni volta che Mal raccontava della sua vita da reclusa nel suo stesso castello.
Si erano promessi che, una volta riusciti a scappare dalle loro prigioni, sarebbero partiti insieme alla ricerca di Sora e Kairi.
Erano troppo distanti l’uno dall’altra, ma con il cuore si erano stretti il mignolo.
Purtroppo, non ebbero modo di realizzare il loro desiderio: l’uomo dagli occhi rossi era tornato nelle prigioni ed ordinato alle formiche giganti di prendere Mal.
Appena portata all’esterno, la ragazza aveva allungato la mano verso la cella di Riku, chiamando il suo nome, in lacrime.
Per la prima volta, vide qualcosa muoversi, dietro le sbarre: una sagoma non molto alta, lievemente muscolosa, a giudicare dal braccio che aveva allungato verso l’esterno. E, tra il buio e le sbarre, vide uno dei suoi occhi cerulei, e una ciocca di capelli albini. Non vide mai il suo volto. Ma non si sarebbe mai scordata della sua voce.
E anche la sua voce esprimeva preoccupazione e paura insieme, mentre chiamava il nome della ragazza.
-Riku!-
-Mal!-
Mal non fu condotta in una stanza da letto, come al solito: fu portata in un salone, con un grande portale a forma di cuore.
-Ora ho tua madre in mio potere.- le sibilò l’uomo dagli occhi rossi, sorridendo malignamente, dopo averle afferrato un braccio –Finché le dirò che sei ancora mia prigioniera, farà tutto ciò che le ordinerò. Non si renderà mai conto di essere manovrata. Quindi, ora non servi più, piccola colomba.-
Senza aggiungere altro, spinse Mal verso il portale. Lei non fece altro che urlare, cadendo in un abisso senza fine.
Quell’uomo, Ansem, voleva usare la ragazza come esca per Malefica. Voleva fare leva sulla sua brama di potere, per farle guidare il suo esercito di creature oscure, Heartless, come suo comandante. O, almeno, era quello che credeva lei. Ma per convincerla ad accettare l’offerta, doveva rubare la cosa a cui lei teneva più al mondo: sua figlia.
Non era una madre affettuosa, ma Mal era davvero importante per Malefica, tanto quanto uno strumento di necessità.
E funzionò.
In realtà, Malefica non era altro che un capro espiatorio, uno specchio per le allodole da usare contro l’Eroe del Keyblade. E non sarebbe stata solo lei la prigioniera nella sua rete: altre persone malvagie come lei divennero suoi “schiavi”. E tra loro anche Ade, padre di Mal, ed il primo amico di lei: Riku.
Pensava che il portale non avesse una fine, che avrebbe terminato lì i suoi giorni.
Ma poi rotolò su qualcosa di duro: una strada.
Era buio, ma riusciva ugualmente a scorgere sagome di case e persone.
Trovò un rifugio presso un vicolo, attendendo la mattina.
Era stata inviata in un luogo chiamato L’Isola Degli Sperduti; ivi vivevano persone esiliate dai loro mondi d’origine per aver compiuto atti illeciti.
Avendo vissuto in una torre per tutta la vita, fu uno shock, per Mal, vivere in mezzo alla gente.
Era solo abituata agli scagnozzi della madre ed a Pietro: nulla di paragonabile agli abitanti dell’Isola degli Sperduti.
Scoprì fin dal principio di non potersi fidare di nessuno e contare sulle proprie forze.
Fino all’incontro con tre ragazzi: Evie, Jay e Carlos.
Si raccontarono le loro storie, scoprendo punti in comune: per questo riuscirono a stringere subito amicizia.
La vita, nell'Isola degli Sperduti era ardua per tutti e quattro, ma uniti avevano superato ogni ostacolo ed erano pronti a darsi una mano a vicenda.
Tra gli abitanti dell'Isola, loro non facevano del male a nessuno e non partecipavano a nessuna sommossa. Non in tutte, almeno.
Ciò li aveva messi in posizione di vantaggio per il decreto del futuro re Benjamin: Mal ed i suoi tre amici, infatti, erano stati scelti come prova per un progetto di integrazione tra Auradon e gli abitanti dell'Isola degli Sperduti, specialmente quelli che erano stati inviati lì per sbaglio, soprattutto i bambini.
Ma la sera prima del trasferimento ad Auradon, Mal venne sorpresa dall'ultima persona che si aspettava di vedere: Pietro. Era apparso nel rifugio creato da Mal, Evie, Jay e Carlos, da un portale oscuro.
-Mally! Che piacere rivederti!- l’aveva salutata –Oh, se tua madre ti vedesse…! Ok, saltiamo i convenevoli. Sono qui con una missione per te, Mally, da parte di tua madre.-
Doveva rubare una bacchetta, a quanto pare, una bacchetta molto importante, per Auradon, praticamente un cimelio.
Mal non aveva avuto modo di fare domande; Pietro era già svanito.
Non sapeva spiegarsi come sua madre fosse stata a conoscenza del fatto che si trovasse ad Auradon. Forse Ansem l’aveva ingannata di nuovo. Ma non importava.
Non voleva affrontare l’ira di sua madre: più volte, nel castello, aveva sentito cosa accadeva, quando si arrabbiava. Come minimo, fulminava tutti quelli che incontrava.
Doveva rubare la bacchetta di Auradon con ogni mezzo possibile.
All'inizio, Mal aveva corrotto Jane, la figlia di Mago Merlino e della Fata Smemorina, promettendole tutto quello che desiderava, se l'avesse aiutata a rubare il libro di magia del padre.
Lì, sperava di trovare una pozione o un incantesimo in grado di farle ottenere quella bacchetta.
Arrivò persino ad incantare Benjamin, figlio della Principessa di Luce Belle e futuro re di Auradon, con un incantesimo d'amore, per avere più possibilità di avvicinarsi alla bacchetta.
Ma lui, come previsto, le stava rivolgendo tutte le attenzioni possibili e non l'aveva nemmeno fatta avvicinare alla bacchetta.
Le possibilità si azzerarono quando Audrey, con l'aiuto delle tre fate buone Flora, Fauna e Serenella, aveva scoperto la vera identità dei quattro ragazzi che avevano accolto ad Auradon, incentrandosi sul fatto che Mal fosse la figlia di Malefica, la strega che aveva rapito le sette Principesse di Luce, tra cui le madri dei futuri tre sovrani, per far sprofondare i mondi nell'Oscurità.
Tutta Auradon allontanarono i quattro ragazzi. Fu solo grazie a Benjamin che non furono rispediti nell'Isola degli Sperduti.
Mal era di nuovo al punto di partenza. Tutto si concentrò proprio nel giorno dell'incoronazione dei tre sovrani di Auradon, Benjamin, Audrey e Chad.
Lì scoprì la vera natura della bacchetta che doveva rubare: essa proteggeva Auradon dall’Oscurità. E senza protezione, quel mondo sarebbe caduto nell’Oscurità.
Ecco perché Malefica era interessata a quella bacchetta.
Ma non fu lei a rubarla, ma Jane, corrotta dalla proposta fattole da Mal, ovvero essere bella.
La difesa magica cominciò a vacillare, il giusto per far irrompere Malefica e Pietro nel mondo.
Ma Mal non consegnò la bacchetta alla madre: non voleva tornare alla sua vecchia vita da reclusa e prigioniera. Ad Auradon aveva avuto delle opportunità, poteva essere se stessa, e non la copia della madre.
Questo bastò a farle raccogliere abbastanza coraggio per affrontare la madre, con l'aiuto dei suoi amici, dei tre sovrani e anche dello stregone Yen Sid.
Tutta Auradon fu grata a Mal di aver scacciato Pietro e Malefica e impedito che l’Oscurità si impadronisse del mondo, convincendosi, finalmente, che lei non era come sua madre. O suo padre, come avrebbero scoperto anni più tardi.
Benjamin fu liberato dall'incantesimo, ma lui, in realtà, lui era già innamorato della ragazza.
Mal si sentiva sempre a suo agio, in compagnia di Benjamin, ma non era ancora sicura dei suoi sentimenti: non aveva smesso di pensare a Riku, dal suo esilio nell'Isola degli Sperduti, chiedendosi continuamente se fosse riuscito a sopravvivere all'uomo dagli occhi rossi. I suoi sentimenti erano per lui. Ma non poteva negare di provare qualcosa anche per Benjamin.
Ma gli abitanti di Auradon avevano già sparso la voce che lei fosse la fidanzata di re Benjamin. Non la abbandonavano un secondo, facendole domande su domande sulla loro relazione. Benjamin non c'era per portarla via da quell'orda di curiosi. E nemmeno i suoi amici. Dovette scappare, con la scusa della toilette.
In uno di quei momenti, infatti, le capitò di rivedere Riku, cresciuto, molto alto, persino più di Benjamin.
Entrambi erano felici di rivedersi l'un l'altra, salvi da Ansem, l'uomo con gli occhi rossi.
Mal gli implorò di riportarla nell'Isola degli Sperduti, dove nessuno si aspettava qualcosa da lei, dove poteva essere al sicuro.
Riku esaudì tale richiesta. La riportò nel rifugio che aveva costruito con Evie, Jay e Carlos.
Lì, espressero senza parole quello che provavano l'uno per l'altra. Fino ad allora, Mal aveva sempre pensato di amare Riku: ma, una volta baciato, non aveva sentito quello che le era stato descritto come “il bacio del vero amore”.
Nel frattempo, Benjamin, insieme ad Evie, Jay e Carlos, si era recato nell'Isola degli Sperduti, con la speranza di ritrovare Mal e convincerla a tornare ad Auradon, scusandosi per il male che le aveva recato.
Ma fu rapito da Uma, la figlia di Ursula, una ragazza che voleva uscire dall'Isola degli Sperduti, arrivando a ricattare Mal: la vita di re Benjamin, per la bacchetta di Auradon.
Ricatto che Mal accettò: amava ancora Ben, e avrebbe fatto di tutto per lui.
Tuttavia, non fu la vera bacchetta che diede ad Uma, ma una copia realizzata da Carlos.
Benjamin venne liberato, ma Uma scoprì presto di essere stata ingannata.
Per vendicarsi, fece un incantesimo su di lui, lo stesso usato da Mal non molto tempo prima.
Mal comprese i sentimenti che provava per Benjamin: lo dimostrò il bacio che gli diede.
Avrebbe conservato Riku nel cuore, ma solo con Benjamin si sentiva completa.
Uma, furiosa, si trasformò in kraken. Mal, per proteggere coloro che amava, si trasformò in drago, come sua madre.
Vinse la battaglia, mettendo Uma in fuga.
Non passò molto tempo, prima che Benjamin annunciasse il suo fidanzamento ufficiale con Mal.
L'intero regno fu euforico alla notizia. Addirittura, qualcuno si lasciò sfuggire che la volessero come regina.
Quel commento fece infuriare Audrey: temeva che volessero Mal al posto suo, come regina di Auradon.
Ma quel trono era suo di diritto, in quanto figlia di una Principessa di Luce e futura Principessa di Luce a sua volta.
Nessuno sapeva come, ma, il giorno successivo, Audrey era apparsa all’interno della Auradon Prep completamente diversa. Più oscura, maligna.
Era stata corrotta dall’Oscurità. Lei, la figlia di una Principessa della Luce.
L’unico modo per fermarla si rivelò essere l’aiuto da parte del padre di Mal, Ade, dio dei morti.
Fu invocato dalla figlia tramite un antico incantesimo che aveva scoperto in un libro di storia.
Ade acconsentì ad aiutare la figlia, preso da un particolare e curioso affetto paterno per lei, e le diede una pietra in grado di rafforzare i suoi poteri.
Mal, però, non poteva affrontare i malefici di Audrey da sola, ed i suoi amici non erano sufficienti: Uma era tornata, e con sé aveva portato Harry, figlio di Uncino, e Gil, figlio di Gaston, i suoi due scagnozzi. Decisero, tramite accordo, di collaborare contro Audrey: Uma avrebbe aiutato Mal a patto che liberasse lei ed i suoi due scagnozzi.
E la promessa era stata mantenuta.
L’Oscurità di Audrey era stata rimossa dal suo cuore, grazie alla pietra di Ade e dall'intervento di Benjamin e Chad. Lei era salva, ma non ricordava nulla degli ultimi avvenimenti.
Auradon era finalmente in pace. L’integrazione con l’Isola degli Sperduti sembrava funzionare.
Tuttavia, un giorno, il cielo si fece scuro: una grande sfera rossa aveva preso il posto del sole.
E stava assorbendo ogni frammento di Auradon.
E delle creature oscure spuntavano dal nulla e rubavano il cuore di ogni abitante.
Heartless. Mal aveva già visto quelle creature, quando era prigioniera di Ansem.
Sperava ogni giorno di non vederle mai più. Erano orrende e crudeli. Ben era stato il primo a cadere, nel tentativo di salvare la sua ragazza ed il suo mondo. Ma fu tutto inutile.
Anche Mal fu tra le vittime. E come loro, anche lei cadde in un’Oscurità senza fine.
Ma poi si svegliò. Non era ad Auradon: era in una città dal pavimento in pietra.
E, per fortuna, non era sola: i suoi amici erano con lei, anche Ben, Chad, Audrey, persino Uma, Harry e Gil.
E si trovavano nella Città di Mezzo, primo luogo di rifugio per tutti coloro che avevano perduto il proprio mondo.
Si erano ricongiunti con la Fata Smemorina, madre di Jane, che spiegò loro gli ultimi avvenimenti, di come Sora avesse liberato tutti i cuori una volta aperto il Kingdom Hearts artificiale dell’OrganizzazioneXIII, e fatto tornare le persone normali.
Ma Auradon era perduta. E loro tredici erano gli unici sopravvissuti.

Aver perduto il mondo in cui non era una prigioniera, ha sconvolto Mal. Convinta da Carlos, decide di seguirlo per ottenere l'arma chiamata Keyblade, per proteggere tutto ciò che le rimane.
Viene a sapere che anche Riku è un Custode del Keyblade, questo la incentiva nella sua decisione.
E, soprattutto, dimostrare di non essere la copia di sua madre...

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Capitolo 3
*** Mal's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: ed ecco ciò che da il titolo a questa fanfiction; benvenuti nella mia mente distorta XD

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Mal's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Mal sentiva il suo corpo pesante: stava sprofondando nell’Oscurità.
Teneva gli occhi chiusi, assorta in un sonno profondo.
Una luce viola la spinse ad aprirli: una piattaforma, sotto di lei. Si stava avvicinando sempre di più.
C’era lei, raffigurata su quella piattaforma. Sullo sfondo un castello oscuro: quello di sua madre Malefica.
La sua casa d’origine.
Yen Sid non aveva rivelato nulla sul Tuffo nel Cuore: era un segreto, aveva detto. Aveva solo rivelato che ognuno di loro avrebbe dovuto superare delle prove.
Era forse quella piattaforma il suo cuore?
Mal atterrò in piedi: non atterrò d’impatto. Era come se la gravità fosse diminuita man mano che scendeva.
Si guardò intorno: buio. L’unica luce era la piattaforma a lei sottostante.
Sembrava un rosone di una chiesa gotica. Quel tipo di arte l’aveva sempre affascinata.
Ma vedere se stessa… un brivido le scese lungo la schiena.
Avvertì l’impressione di non essere sola: si voltò di scatto.
Un ragazzo albino e dagli occhi cerulei la stava fissando, serio.
Mal sentì il suo cuore battere forte e sorrise: Riku. Il suo primo amico.
Gli corse incontro, con l’intento di abbracciarlo.
-Riku!- esclamò –Oh, che bello che sei qui! Ma è strano. Il Maestro Yen Sid ha detto che…- il ragazzo non si muoveva; rimaneva fermo; e non cambiò espressione del volto: quello sguardo serio, come se la stesse studiando –Riku? Aspetta… come hai fatto a rimanere così?-
Era esattamente come lo aveva incontrato la prima volta: non molto alto.
Ma lo aveva rivisto, durante la sua permanenza ad Auradon, seppur di sfuggita, ed era diventato alto, quasi quanto Ben, forse poco di più.
Dal suo esilio nell’Isola degli Sperduti, non aveva smesso di pensare a lui, preoccupata per la sua sorte, preoccupata per cosa gli avesse fatto Ansem, l’uomo che li aveva rapiti entrambi, anni prima.
Per fortuna, Yen Sid le aveva raccontato la sorte favorevole del ragazzo: da quel giorno altro non bramava che rivederlo.
Ma il ragazzo di fronte a lei non era il vero Riku.
Questi aprì la bocca.
-Di cosa hai più paura?- domandò.
Mal fu leggermente stranita da quella domanda.
-Ecco…- erano tante le cose di cui aveva paura; non poteva elencarle tutte; forse solo di una cosa aveva più paura.
-Che qualcuno faccia del male alle persone che amo.-
A quella risposta, Riku svanì.
Era solo un’illusione, come pensava Mal.
Poco distante dalla piattaforma dove si trovava lei, ne apparve un’altra, legata alla prima da una strada fatta di vetri colorati.
Mal la percorse, un po’ incerta ed un po’ intimorita: poteva essere una trappola.
Raggiunse la prossima piattaforma: trovò una figura femminile al centro. Esattamente come Riku, la stava fissando.
Mal le corse incontro.
-Rosa?-
Rosaspina. Ovvero Aurora. Mal aveva tentato una fuga dal castello di sua madre, quando era piccola. Era entrata nel bosco circostante, camminando senza timori. Anzi, era affascinata dalla vegetazione e dalla fauna che l’abitava. Poi, aveva udito un canto. Un canto meraviglioso.
Si era nascosta in un cespuglio, notando una ragazza di poco più grande di lei che camminava cantando.
Aveva dei bellissimi capelli dorati che ondeggiavano ad ogni suo passo.
Non aveva mai avuto il coraggio di avvicinarsi: le piaceva solo sentirla cantare.
Solo una volta aveva udito il suo nome da tre donne.
-Rosa!-
-Rosa!-
-Rosa!-
Mal uscì più volte dal castello, per sentire di nuovo la bellissima voce di quella ragazza.
Ma venne, in seguito, scoperta da Diablo e Pietro. E da allora, le venne proibito di uscire.
Mal e Rosaspina non si erano mai conosciute; ma per Mal, lei era molto importante. Rappresentava la libertà.
-Cosa è più importante per te?- le domandò Rosaspina; aveva gli stessi abiti e lo stesso aspetto con cui l’aveva “conosciuta”, esattamente come era capitato con “Riku”.
-Un’altra domanda…?- non rifletté a lungo; da quando si era stabilita ad Auradon, aveva scoperto una cosa da cui non si sarebbe mai separata –Ben.-
Anche Rosaspina svanì.
Un’ultima piattaforma apparve. Un’ultima persona al suo centro, che attendeva la ragazza.
Tre piattaforme. Tre persone importanti per Mal. Per ordine di conoscenza.
L’ultimo era proprio Ben. Il suo ragazzo. La sua vita.
L’ultima domanda.
-Cosa vuoi dalla vita?-
La risposta non si fece attendere: Mal aveva un solo desiderio.
-Vivere serenamente la mia vita, con Ben al mio fianco.-
Anche Ben fece la stessa fine di Riku e di Rosaspina. Svanì.
Ma, quasi simultaneamente, apparvero due oggetti, quasi trasparenti: un paio di ali e dei guanti artigliati. Ricordavano ali ed artigli da drago.
Mal li fissò entrambi, confusa, ma anche affascinata.
-Ma cosa…?-
“Sei a metà del tuo viaggio, Mal…” udì, nella sua testa “Il tuo viaggio nel sfuggire dalle ombre del tuo passato.”
Lei sobbalzò, guardandosi intorno.
-Chi c’è?!-
Non vide nessuno. Solo lei era presente.
“Ma non temere. Affidati al tuo potere, alle persone intorno a te, e nessun ostacolo sarà in grado di trattenerti. E riuscirai persino a scacciare i tuoi timori.”
-I miei timori? Di cosa stai…?-
Apparve una porta, vicino a lei. Una delle tante porte che era solita vedere nei corridoi della Auradon Prep, specialmente quelle delle classi.
Non vedeva altre vie, nella Stazione del Risveglio: le precedenti piattaforme erano svanite e con esse i sentieri.
Dedusse che quella porta fosse l’unica via di uscita.
-Cosa mi attenderà, ora…?- mormorò, allungando una mano verso la maniglia.
Intravide della luce, dallo spiraglio della porta.
La aprì completamente, per esserne sommersa.
Non le fece male. Nonostante le sue origini oscure, la luce non le fece male.
Stava scacciando l’Oscurità dal suo cuore; forse era quello il motivo.
Quando riaprì gli occhi, non era più nella Stazione del Risveglio. Nemmeno nella torre di Yen Sid.
Ma si trovava comunque in un luogo familiare: un castello cupo, in rovina. Su una montagna circondata da nuvole oscure.
-Questo…- notò, stupita –Questo è il castello di mia madre?!-
Si trovava proprio poco distante dal cancello principale, lo stesso luogo che lei, da piccola, non poteva superare. Non senza che Diablo si mettesse a gracchiare o Pietro a sbraitare.
Non vide nessuno. Il castello era disabitato. Era ancora più tetro e spaventoso di quanto Mal ricordasse.
Ma fece ugualmente un passo in avanti.
Dopo tanti anni, era tornata nel castello di sua madre. Sembravano essere passati secoli dall’ultima volta in cui aveva camminato al suo interno.
Le ritornarono in mente tutte le sensazioni che provava, ad attraversare i corridoi di quel castello, del senso di angoscia nel non poter uscire liberamente, di sua madre, che non faceva altro che sorvegliarla.
Ma qualcosa era cambiato: il corridoio che conduceva alla sala del trono era cambiata: non importava dove andasse Mal, dei muri comparivano improvvisamente dal nulla, come se le stessero impedendo di proseguire.
Non era così, nella vita reale. Lì si rese conto che, nonostante fosse come lo ricordava, quello non era davvero il castello di sua madre Malefica: era un’altra prova del Tuffo nel Cuore.
-Cosa faccio, adesso?-
Mal era disperata.
Quei muri le riportarono alla mente la sua stanza, il suo unico mondo, prima del rapimento di Ansem. Per tutta l’infanzia, non aveva visto altro che muri.
Delle lacrime scesero dalle sue guance, al pensiero della sua infanzia triste e solitaria. Senza amici, senza svaghi, senza libertà. Tutte cose che aveva ottenuto ad Auradon. Cose cui non poteva farne a meno.
Non aveva ancora nemmeno un Keyblade. Avrebbe trovato l’uscita più facilmente.
Ma era quella la prova per ottenerne uno.
Non poteva tirarsi indietro. Doveva comunque trovare un modo per superare quel muro.
Ansem, da un certo punto di vista, l’aveva liberata da quella prigione: infatti, era stato proprio lui a condurla nell’Isola degli Sperduti.
Aveva superato ogni difficoltà. Fino a divenire futura Regina di Auradon. Il pensiero di doverlo ad una persona come Ansem la fece rabbrividire.
Lo stesso uomo che aveva spinto Riku a cedere all’Oscurità, da quanto le aveva riferito Yen Sid. Ma anche lui ne era uscito vincitore. Perché era forte, aveva abbattuto le sue barriere e si era imposto sull’Oscurità di Yen Sid: e ad averlo aiutato erano stati i suoi amici Sora e Kairi.
Ma Mal non aveva nessuno dei suoi amici ad aiutarla: era da sola. Il Tuffo nel Cuore era una prova individuale. Ciò che si vedeva nelle sue profondità era ciò che si celava nel proprio cuore.
Ecco come Mal ricordava il castello di sua madre: pieno di muri e senza vie d’uscita.
Si guardò intorno, alla ricerca di un percorso. Fece un altro passo, e un altro pezzo di muro apparve, accanto a lei.
Ma non per bloccarla, non nella direzione in cui si stava dirigendo.
Stava seguendo i suoi passi. Ne fece un altro: il muro stava proseguendo.
Non era una trappola: era un corridoio. Lei doveva indovinare il percorso esatto.
Ecco quale era la sua prova, dedusse.
Camminò in avanti, fino a quando il muro non la ostacolò. Le bastava semplicemente cambiare direzione, per proseguire.
Stava creando una specie di labirinto.
A volte doveva tornare indietro, proprio perché finiva in un vicolo cieco.
Poi, finalmente, giunse nei pressi di un’entrata buia.
Era la sua unica via. Non poteva tornare indietro: doveva andare solo avanti, per ottenere il suo Keyblade.
Entrò in un’ampia sala, che ricordava bene, dalla sua infanzia: la sala del trono di sua madre.
Nei rari giorni in cui le era permesso uscire, Malefica permetteva alla figlia di sedersi con lei, sul trono, e assistere ai suoi discorsi con i suoi seguaci. Lì aveva imparato come essere una leader, insegnamenti rivelati utili per sopravvivere nell’Isola degli Sperduti.
Era come la ricordava: tetra, fredda, buia. Provò nuovamente la sensazione che provava quando era piccola: timore. Quel luogo l’aveva sempre terrorizzata.
Camminò, salendo i gradini che conducevano al trono di pietra. Non era cambiato, né corroso dal tempo.
Lo toccò: freddo, come la sensazione che incuteva la sala.
Lo osservò: un giorno, quel trono sarebbe spettato a lei, come figlia di Malefica. Ma il suo mondo di origine era stato distrutto, e con esso il castello. E quindi anche il trono.
Ciononostante, adesso era lì, proprio come lei ricordava. Sentì una forte tentazione: si sedette. Ricordò i momenti in cui sua madre le permetteva di sedere sulle sue ginocchia. I rari momenti di contatto tra madre e figlia. Non c’erano mai state carezze, né abbracci tra loro. Solo fredde parole sul non uscire dal castello e la storia che soleva raccontarle ogni sera.
La storia di un custode del Keyblade che aveva sei allievi, a cui, poco prima della sua scomparsa, aveva affidato ognuno un compito ed un libro. I tempi correvano pacifici, fino allo scoppio della Guerra del Keyblade, di cui sia la Fata Smemorina che Yen Sid aveva parlato a Mal e agli altri ragazzi. Solo uno degli allievi era sopravvissuto alla Guerra, il più giovane, che non vi prese parte. Il Maestro, infatti, gli aveva affidato il compito di portare una scatola nera lontano dalla Guerra. E proprio per questo, aveva trovato un modo per sopravvivere nei secoli, per realizzare l’ultimo desiderio del suo Maestro.
A Mal piaceva quella storia: l’affascinava.
Ancora, però, non sapeva che si trattava di una storia vera.
-Ti piace, non è così?-
Quella voce la fece sobbalzare ed alzare dal trono.
C’era qualcun altro nella sala, nell’ombra. E stava procedendo verso di lei.
Rimase sgomenta nel vedere il volto di quella sagoma: se stessa!
Era vestita come sua madre, con un copricapo con le corna e un abito lungo e viola con le maniche larghe. E aveva persino il suo scettro.
La seconda Mal sorrise, carezzando un bracciolo del trono di pietra.
-Sì, questo trono ti è sempre piaciuto.- fece ricordare alla vera Mal –Nostra madre diceva sempre che sarebbe toccato a noi, quando sarebbe giunto il momento…- osservò quella reale; persino gli occhi erano come quelli della madre –Che c’è? La mia vista ti ripugna? Ti terrorizza? -
Mal era impallidita alla vista di quella figura: stava, infatti, indietreggiando.
-Tu chi sei?- domandò, quasi balbettando.
L’altra rise.
-Come, chi sono? Io sono te. Migliorata, oserei dire.-
-Come… come sei vestita…?-
-Ti piace?- l’altra Mal fece un giro su se stessa, mostrando tutto il completo –Devi avere l’aspetto adatto, per far paura alla gente. Come nostra madre. In altre parole, io sono te, se fossi rimasta qui, a casa.-
-Io vedo di fronte solo una copia di mia madre.- tagliò corto la vera Mal, disgustata –Anche nel tuo atteggiamento, io vedo molto di mia madre.-
-Perché è quello che sei destinata a essere, Mal. Anzi, che siamo destinate a essere.- l’altra Mal si sedette sul trono, senza smettere di sorridere –Ah… adoro la sensazione che provo ogni volta che mi siedo in questo trono. Mi fa sentire una vera regina. Anche di più. Con tutto il potere nelle mie mani e tutti che mi temono.- osservò quella vera –Tu diventerai regina, non appena sposerai la bestiolina. Ma è davvero quello che vuoi? Non ti permetteranno di essere quello che vuoi. Dovrai seguire delle regole. E tu non ami i muri, tantomeno le catene. Tu vuoi essere libera.- si alzò, avvicinandosi a lei –È sempre stato questo il nostro desiderio, ogni volta che osservavamo fuori dalla finestra della nostra camera e immaginavamo il mondo oltre le nuvole oscure di questo castello! Ma tu non hai fatto altro che entrare in prigioni su prigioni, e ora ti sei messa in testa di divenire custode del Keyblade?! Segui lo stregone e non avrai altro che regole! Ma se cedi all’Oscurità, con il Keyblade nelle tue mani… osserva…-
Aveva compiuto un movimento circolare della mano intorno allo scettro, come faceva sua madre con il suo.
Mal assistette ad una visione: fuoco, distruzione, se stessa drago che sterminava un intero villaggio; poi tornava se stessa, con l’aspetto dell’altra Mal, ed un Keyblade in mano. Rideva, esattamente come sua madre.
Era orrendo.
Non le era piaciuto.
-Io so, che nel profondo del tuo cuore, tu lo desideri.- sibilò l’altra Mal, continuando a sorridere malignamente –Essere libera, temuta, potente. Io sono quella parte malvagia che tu stai reprimendo da anni. Io sono quella che può compiere quelle prodezze, se permetti all’Oscurità di insidiarsi nel tuo cuore. Non devi aver paura. Sarai potente. Nessuno mai più oserà mettersi contro di te. Tutti ti temeranno. Solo allora otterrai il potere che ti spetta da signora di tutti i mali. Il potere, il vero potere è libertà. Persino Riku lo sapeva, e per questo ha ceduto all’Oscurità.-
Riku. Il suo primo amico.
Un prigioniero nella propria dimora che ambiva alla libertà, proprio come lei.
E solo più tardi aveva scoperto il prezzo che richiedeva la libertà che tanto ambiva. E tutt’ora ne portava i segni.
-Ma se ne è pentito, non appena ha notato cosa ha causato.- ricordò Mal; lo aveva visto nei suoi occhi, il giorno in cui lo aveva incontrato ad Auradon; aveva visto il pentimento, ma anche l’intenzione di redimersi –L’Oscurità esige un prezzo che non sono disposta a pagare. Riku mi ha chiarito questo fatto. Ed è davvero ridicolo sentirmelo dire, ma sono grata ad Ansem per avermi strappato da questo destino. Nemmeno lui avrebbe immaginato che mi sarei spinta fin qui. Lui, magari, si aspettava che morissi all’Isola degli Sperduti, da sola. Invece ce l’ho fatta. Ho visitato dei mondi al di fuori del mio, ho degli amici, un fidanzato meraviglioso, ed ho intenzione più che mai di ottenere un Keyblade. Tutto questo, senza usare l’Oscurità. Ce l’ho fatta con le mie forze. E attenderò con ansia il giorno in cui potrò ricongiungermi con Riku, per dimostrarglielo. L’Oscurità è per le persone deboli che piangono al primo ostacolo. Io non sono debole! Tu lo sei!-
Una risposta velenosa.
Lo sguardo dell’altra Mal si fece freddo. Deluso. Maligno.
Proprio come Malefica.
Urlò di rabbia, colpendo la vera Mal con il suo scettro. Ella cadde da un’altezza di tre metri: era proprio vicina al bordo del soppalco del trono.
Cadde di schiena sul pavimento di pietra.
Non si ruppe niente, per fortuna. Ma avvertiva ugualmente un dolore lancinante alla schiena, che quasi le impediva di rialzarsi.
Ma poteva guardare in alto e in avanti: vide l’altra Mal affacciarsi dal soppalco, ancora con quello sguardo freddo e maligno: lo scettro, come i suoi occhi, si stava illuminando.
Alzò le braccia: delle fiamme giallo verdi si estesero intorno a lei, circondandola.
Divenne una spirale di scintille viola e nere, che si posò a pochi passi dalla vera Mal.
-Non accetti quello che sei?- fece l’altra, minacciosa –Allora resta pure nel posto che hai scelto di stare e subisci quello che meriti! Sei una sciocca a rifiutare i doni che offre l’Oscurità! Potevamo essere la strega più potente di tutti i mondi, persino più di nostra madre! Osserva ciò che hai perso!-
Vi fu un lampo, seguito da un tuono: l’altra Mal fu completamente circondata da quelle fiamme giallo verdi.
Un’ombra si stava elevando, da esse, divenendo sempre più mostruosa e gigantesca.
La vera Mal riprese le forze, appena in tempo da osservare, con sgomento la figura materializzata di fronte a lei: un drago. Se stessa drago. Dalle squame viola, come l’abito che indossava.
Stava ringhiando. Contro di lei. E dalla sua bocca stavano già comparendo delle fiamme.
Anche la vera Mal poteva trasformarsi in drago. Si rialzò, cercando di concentrarsi.
Non accadde nulla.
Si ricordò, inoltre, di avere il potere del fulmine, dalla sua parte. Ma non sentiva alcuna magia scorrerle nelle vene.
Forse era dovuto alla paura che stava provando. Era così. Stava tremando, di fronte alla sua nemesi.
Mal-drago fissava insistentemente quella vera, senza sbattere le palpebre. Poi inspirò.
La ragazza dedusse la sua mossa: infatti scappò. Il drago espirò delle fiamme, in sua direzione. Il salone bruciò.
Mal non fu colpita dalle fiamme; tornò nello spiazzo dove aveva percorso il labirinto: i muri erano spariti.
Tuttavia, corse ugualmente, in direzione del cancello d’ingresso.
Non aveva armi con cui affrontare se stessa drago. L’unica via era la fuga.
Correva ed ansimava.
Ma il drago la trovò, bloccandole la via di fuga.
Mal era in trappola. Indietreggiò, sempre più scossa dalla paura. Il drago le ringhiò di nuovo.
La colpì con un colpo di coda, anziché di artigli o con una fiammata. Mal venne scaraventata lontano.
Si rialzò e corse di nuovo, alla ricerca di una via d’uscita, verso le torri.
Una fiammata giallo verde le bloccò la strada.
Da un lato il drago. Dall’altro le fiamme.
Mal era in trappola.
Niente armi. Niente magia.
Non riusciva a scagliare fulmini. Il drago la terrorizzava. Se stessa la terrorizzava. L’essere di fronte a lei, in fondo, era lei stessa, se avesse seguito le orme della madre. Se fosse diventata come lei.
Quindi, quello sarebbe stato il suo aspetto, se Ansem non avesse irrotto nella sua stanza per poi rapirla.
Aveva paura di se stessa.
Intanto, il drago avanzava sempre più minacciosamente, con la bocca pronta a sputare fiamme.
Mal indietreggiava. Si voltò indietro per un attimo: era sempre più vicina al muro di fiamme.
-Che faccio? Che faccio?- mormorava, sempre più disperata -Maestro Yen Sid! Aiutami!-
Era inutile urlare. Yen Sid non poteva sentirla. Era nel suo cuore. C’erano solo lei, le sue paure e la sua ombra.
Non aveva raccontato molto del Tuffo Nel Cuore; anzi, non aveva detto quasi niente.
Tranne una frase, molto vaga. Rivelò che, per il Tuffo, era tutto ciò che dovevano sapere e tenere a mente.
-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Cosa significava? Mal ancora non lo aveva compreso.
Nel suo cuore provava solo paura.
Non aveva la mente adatta ad affrontare il drago.
Tuttavia, ricordò un’altra lezione di Yen Sid e anche della Fata Smemorina, sulla magia, dal giorno in cui aveva scoperto di saper lanciare i fulmini: la magia era fatta di emozioni e sentimenti. Qualsiasi sentimenti.
Non aveva bisogno di concentrarsi. Non doveva usare la mente, per usare la magia.
La paura. La paura che stava provando era la chiave.
La paura era un’emozione. Doveva incanalare quella paura e alimentare il suo potere.
Così fece: non si trattenne. Cedette alla paura.
Sentì qualcosa nelle mani: qualcosa pronto ad esplodere.
Determinata, rivolse i palmi verso il drago, ed i suoi occhi si illuminarono di verde: due fulmini lo colpirono in pieno petto, facendolo retrocedere di diversi passi.
I due fulmini erano potenti.
Mal si osservò le mani, sorridendo.
-Ora so cosa fare…- mormorò.
Mal-drago, nel frattempo, si era ripreso e rialzato, nonostante l’impatto: avanzò minaccioso verso la ragazza, spalancando le fauci, per sputare altre fiamme.
Ma Mal glielo impedì: scagliò un altro fulmine, nella sua bocca. Il drago urlò di dolore.
Qualcosa volò dalla bocca, cadendo vicino a Mal: un dente.
Un dente di drago, appuntito.
Non efficace come arma, ma almeno non avrebbe combattuto disarmata.
-Non ho paura di te, mostro!- esclamò, determinata; la paura era scappata dal suo cuore; si sentiva finalmente pronta ad affrontare se stessa –Fatti avanti!-
Il dente si illuminò, circondandosi di fumo viola.
Cambiò forma. Diventava sempre più grande, nero, ed assumeva la forma di una chiave.
Mal si stupì: il suo Keyblade. Ricordava sua madre versione drago, con la testa con le fauci spalancate come lama e le ali come elsa.
Restò ferma a rimirarlo: era bello. Esattamente come desiderava. Quindi era quella la manifestazione del suo cuore, pensò. Ma non ne fu affatto turbata, anzi.
Mal-drago era sempre più furioso: del sangue viola stava colando dal punto in cui il dente era stato staccato.
Si avvicinò di nuovo alla ragazza: lei puntò il Keyblade in avanti, senza alcun timore.
Il drago sputò di nuovo fiamme. Mal contrattaccò con un fulmine, scagliato non dalle sue mani, ma dal Keyblade. Sembrava più potente di quello che scagliava dalle sue mani.
Resistettero entrambe. Ma i loro attacchi erano troppo potenti: si creò un’onda d’urto che le divise ancora di più, scagliandole lontane l’una dall’altra.
La vera Mal cadde di nuovo vicino al muro di fiamme: per poco non si bruciò i capelli.
-Non possiamo continuare così.- dedusse, notando Mal-drago rialzarsi –Devo usare un’altra strategia.-
Puntò il Keyblade in avanti: un raggio di luce fece svanire il muro di fiamme giallo verdi.
Salì le scale di corsa.
Il drago si era lanciato al suo inseguimento, cercando di agguantare la ragazza con gli artigli.
Le scale erano a chiocciola, costruite intorno ad una torre. Il drago cercava di alzarsi per prendere la preda. Ma Mal era più rapida e riusciva ad evitare i colpi.
Raggiunse la cima e chiuse la porta.
Si guardò intorno. Quelle mura le erano molto familiari: la sua stanza. Ancora con i suoi disegni sui muri, i suoi giochi, i suoi libri, persino il suo letto. Non era cambiata affatto. O forse, tutto il castello era un’illusione del Tuffo Nel Cuore creato basandosi dai suoi ricordi, del castello di sua madre.
Si affacciò alla finestra, ma non per osservare il panorama come soleva fare da piccola; bensì, per osservare in basso.
Mal-drago stava continuando a scalare la torre. Il dolore causato dai fulmini lo stava debilitando.
Era il momento.
Mal tornò alla porta. Fece un bel respiro. E poi corse verso la finestra. Saltò. Impugnò il Keyblade con entrambe le mani. E la lama rivolta verso il basso.
-Ecco quello che meriti tu, mostro!- esclamò.
La lama si conficcò nella testa di Mal-drago.
Lasciò la presa sulla torre.
Entrambe caddero nel vuoto.
Mal avvertì una strana sensazione nell’aria: il mondo intorno a lei si stava disintegrando, in tanti frammenti di vetro. E l’altra Mal svanì in una nuvola di fumo.
Era rimasta da sola. A vagare, a cadere di nuovo nel buio.
Perché la sua prova era conclusa.
Aveva superato Il Tuffo Nel Cuore.
Aveva affrontato se stessa, il suo lato malvagio.


"Once upon a time a girl tried harder,
Once upon a time she tried again.
Once upon a braver choice
she took a risk, she used her voice."

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Capitolo 4
*** Evie's Story ***


Note dell'autrice: qui ho combinato anche pochi elementi di Once Upon A Time; tanto penso di scrivere una storia completa su Evie. Come con qualche altro Descendant.


Evie's Story
 


Un matrimonio combinato, voluto dalla madre, aveva costretto Grimilde a sposare un vecchio re, vedovo, e con una figlia piccola.
Questo re, nella sua corte, aveva un cacciatore. Il fato volle che la regina si innamorasse di questo cacciatore, ammaliata dall’aspetto e dal suo spirito libero.
Rimase incinta, dando, poi, alla luce una bambina, a cui diede il nome Evie.
Il vecchio re volle che nel regno si dicesse che Evie era figlia sua. Ma anche lui sapeva che non lo era.
Ma non rivelò nulla, per il bene del regno.
Tuttavia, figlia bastarda o meno, tutti amavano Evie. Soprattutto Biancaneve, la sua sorellastra.
Alla morte del re, il governo del regno passò a Grimilde, fino a quando Biancaneve non avrebbe compiuto la maggiore età.
Fu in quel periodo in cui la regina iniziò a dare i primi segni di Oscurità: era ossessionata dal suo aspetto, e dal timore di divenire vecchia e brutta, con il tempo.
Non era chiaro cosa avesse scatenato questa sua nevrosi.
Si diceva fosse a causa di Biancaneve: Grimilde temeva che un giorno la bellezza di Biancaneve avrebbe superato la sua, e che il regno avrebbe apprezzato più la principessa che lei, in quanto legittima erede al trono. Era per questo che l’aveva ridotta a serva nel suo stesso castello.
-Visto che ti piace tanto stare con Johanna…- le aveva detto, acida –Da adesso in avanti ti incarico a svolgere le faccende domestiche con lei.-
Johanna era la serva personale di Biancaneve e, successivamente, anche di Evie, una vedova che aveva prestato i suoi servigi anche con la regina madre di Biancaneve.
Con Evie l’atteggiamento di Grimilde era diverso, dovuto al fatto che fosse la figlia: non era affettuosa, nei suoi confronti, ma non le aveva mai fatto mancare niente, giocattoli, vestiti, gioielli.
Evie crebbe viziata e capricciosa. I servi, infatti, non sopportavano i suoi continui capricci. Solo con Biancaneve riusciva a calmarsi, anche con Johanna. A Biancaneve faceva piacere passare il suo tempo con la sorellastra e lo stesso si poteva dire di Evie. Passavano ore a pettinarsi, farsi le trecce e giocare con le bambole.
Evie non comprendeva il motivo per cui la madre odiasse Biancaneve: all’epoca, era ancora troppo piccola per comprendere. E non capiva nemmeno perché i servi si parlavano sempre l’un l’altro sottovoce, ogni volta che la vedevano.
Nonostante la regina avesse proibito alla servitù di parlare a bassa voce, Evie continuava a sentire i servi parlare male di lei: che da grande sarebbe divenuta esattamente come la madre.
Biancaneve aveva cercato di dissuaderla da quelle voci, dicendole che non erano vere e che i servi erano solo dei superficiali che si erano sempre rifiutati di comprenderla.
Evie voleva solo la compagnia di Biancaneve e di Johanna; non voleva nessun altro con lei.
Grimilde aveva proibito alla figliastra di avvicinarsi alla figlia. Ma sospese l’ordine, per il bene della figlia e per non assistere ad uno dei suoi capricci.
I servitori sorpresi a parlare male della principessina scomparivano sempre in circostanze misteriose.
Questo pose fine ai mormorii della servitù.
Pur essendo principessa, a Biancaneve non era concesso partecipare alle udienze con la matrigna. Ma a Evie sì. Non ascoltava mai le suppliche del popolo alla madre: si portava sempre una bambola con cui giocare.
Ma un giorno, le guardie portarono una persona al cospetto della regina: un ragazzo. Alto, castano, molto bello. E portava degli abiti strani, non da popolano.
“Forse è un giramondo” aveva pensato la bambina, affascinata da quel forestiero.
Quella sera aveva deciso di fargli visita, nelle prigioni.
Gli aveva persino offerto metà della sua cena.
 -Io ti ho dato metà della mia cena, ora tu devi fare qualcosa per me, signore.- gli aveva detto, con tono altezzoso, come era solita rivolgersi ai servi –Devi rispondere a delle domande.-
Lo aveva osservato da vicino: era ancora più bello di quanto sembrasse da lontano.
Il forestiero rispose a tutte le domande della principessina, rivelando, in primo luogo, il suo nome, Terra.
Ella aveva intuito bene: era un giramondo; tuttavia, non per piacere di visitare il mondo, le aveva detto il ragazzo.
C’erano creature che minacciavano il regno e che solo lui poteva eliminare grazie ad un’arma chiamata Keyblade.
Evie ascoltò attentamente il prigioniero, sempre più affascinata dal suo aspetto e dai suoi occhi blu brillanti.
-Beato te che puoi andare dove vuoi.- disse la principessina, sedendosi per terra, con la schiena appoggiata al muro -La mia mamma mi proibisce di lasciare il castello. Mi proibisce persino di parlare con mia sorella Biancaneve. Dice che lei ha una cattiva influenza su di me e che potrei diventare come lei, ovvero una principessa sguattera. Forse, in fondo, non mi dispiace essere come Biancaneve. A lei vogliono bene tutti. Mentre a me nessuno vuole bene. Dicono che sarò come la mia mamma, da grande, perché sono sua figlia.-
Terra si indignò a quelle parole: mise le mani sulle sbarre, sporgendosi di poco.
-Evie.- disse, serio -La gente dice cattiverie perché non ti conosce. Non devi permettere a nessuno di dirti cosa sei. Solo perché tua madre tratta tutti con superiorità non significa che tu debba essere come lei. Tu puoi essere qualunque cosa tu vuoi essere, piccola.- Terra aveva dato ad Evie un insegnamento fondamentale per lei e per il suo futuro.
Avrebbe tanto voluto rimanere lì e parlare ancora un po' con il forestiero, ma Evie dovette lasciare presto le prigioni per tornare in camera sua.
Il giorno seguente, si scoprì che Terra era evaso. E pareva avesse aggredito Biancaneve.
La principessa era ancora scossa. E la regina decise che ella non doveva uscire senza scorta.
Per calmarla, le suggerì di recarsi in un prato intorno al castello. In sua compagnia ci sarebbe stato il cacciatore, padre di Evie.
Il suo aspetto era peggiorato, in sette anni: dopo essere venuto a conoscenza che non gli sarebbe stato permesso di avvicinarsi alla figlia, era caduto in depressione. Spendeva, infatti, le monete che il re gli dava come sussidio alle taverne, bevendo birra. La bellezza che aveva colpito Grimilde era svanita ed il ventre si era gonfiato a dismisura. L’unica cosa che aveva conservato della sua bellezza erano gli occhi verdi.
Evie era ancora convinta di essere la figlia del re. Sua madre ancora non le aveva detto la verità e mai glielo avrebbe rivelato.
Quel giorno, Evie rimase da sola. Biancaneve era scomparsa e con lei anche il cacciatore.
Non avrebbe mai dedotto che era stato tutto macchinato dalla madre: successivamente la visita di Evie a Terra, fu Grimilde a recarsi nelle prigioni, con un patto da proporgli: nell’udienza, lui aveva menzionato un tale di nome Xehanort, di cui era partito alla ricerca. Ella avrebbe acconsentito ad aiutarlo a trovare Xehanort, se avesse ucciso Biancaneve. Per questo lo aveva liberato.
Ma al momento di alzare il Keyblade su di lei, Terra rinunciò, mosso da pietà verso la principessa.
Non aveva motivo di ucciderla; tuttavia, Grimilde era andata su tutte le furie, provando persino a sigillare il forestiero nello Specchio Magico. Ma nulla era impossibile, per il Keyblade: Terra era riuscito a liberarsi di quella prigione. Ciò costrinse Grimilde ad esaudire la richiesta del ragazzo, con la promessa di lasciare il regno senza più tornare.
E così era stato. Evie non avrebbe mai più rivisto Terra. E nemmeno Biancaneve o suo padre.
Anche il cacciatore risparmiò la vita di Biancaneve, suggerendole di scappare via. Non poteva farlo. A Evie si sarebbe spezzato il cuore.
Ingannò la regina, anche a costo di incontrare la morte. E Grimilde non era avvezza ai processi.
Era un sacrificio per lui sopportabile: non avrebbe sostenuto lo sguardo di disprezzo della figlia Evie, mentre veniva accusato di omicidio della principessa, e lei non avrebbe pianto per uno sconosciuto. Era meglio, per lei, vivere ancora nell’ignoranza.
L’unica persona che restava vicina a Evie era Johanna, la serva.
Udire della morte di Biancaneve l’aveva fatta precipitare nella tristezza e nel mutismo: aveva perso sua sorella, la sua migliore amica.
Pochi giorni dopo scoprì che l’artefice di tutto era stata sua madre.
Mossa dalla curiosità, infatti, era entrata nella stanza dello Specchio Magico.
Fu lì che scoprì tutto: della morte del re, di suo padre, il cacciatore, di Terra e di Biancaneve. E di come, in tutte le loro morti e scomparse, vi fosse la mano di sua madre.
Per la prima volta, provò odio nei confronti della madre.
Grimilde sorprese la figlia nella sua stanza.
-Evie! Cosa fai qui?!-
-Bugiarda!- le aveva urlato la figlia, con le guance rigate dalle lacrime di rabbia e odio –Mi hai mentito! Hanno tutti ragione! Sei davvero cattiva, mamma!-
-Evie, tutto quello che ho fatto, è stato per il tuo bene.-
-No! Tu pensi solo a te stessa, mamma! Hai fatto uccidere Biancaneve per capriccio! E sai quanto le voglio bene! Io non voglio stare qui! Non voglio essere come te!-
Poi parlò allo Specchio: il volto era ancora lì.
-Mago dello Specchio Magico, ti prego, portami in un luogo dove il mio fato non sia tragico!- recitò.
-Tu vuoi scappare da un destino ingiusto, ma solo il caso sa se il luogo in cui andrai sarà con te giusto.-
Lo Specchio divenne un portale. Grimilde ne rimase stupita e sgomenta: ma Evie era lei per metà. Lo Specchio poteva agire con i consanguinei.
-Evie, non andartene, ti prego.-
Ma la principessina aveva già preso la sua decisione.
-No, mamma. Io non posso più fidarmi di te. E forse incontrerò di nuovo Terra e mi porterà con lui.-
Saltò dentro il portale senza indugio. Non le importava dove sarebbe andata: qualunque luogo sarebbe stato meglio della prigione di bugie della madre.
Finì in un luogo chiamato l’Isola degli Sperduti. Era un luogo squallido, persino più dei villaggi circostanti al castello. Gente che rubava per strada, puzza di fogna, risse in ogni angolo.
Abituata in un ambiente dove ognuno soddisfaceva ogni suo capriccio, per Evie fu uno shock trovarsi in un posto simile.
Non era più una principessa, nonostante il vestito che portava.
Una banda criminale cercò di rapirla, ma l’intervento di un bambino circa della sua età lo impedì: quel bambino si chiamava Jay e scoprirono avere molte cose in comune.
A loro, successivamente, si unirono Carlos e Mal.
I quattro divennero amici.
Evie iniziò a provare per Mal gli stessi sentimenti che provava per Biancaneve: una sorella.
Questo supporto fu di grande aiuto per la figlia di Malefica, nei giorni in cui furono inviate ad Auradon insieme a Jay e Carlos, per il programma di integrazione.
Auradon fu come una seconda casa per lei: ritrovò l’entusiasmo ed il sollievo che provava nel castello, prima della scomparsa di Biancaneve.
E scoprì, inoltre, di avere un talento naturale per il cucito: nell’Isola degli Sperduti, infatti, il suo vestito si era rovinato. Aveva dovuto usare delle vecchie stoffe per cucirsi un nuovo abito. Johanna glielo aveva insegnato e lei se ne appassionò.
Non aveva, però, dimenticato il prigioniero di nome Terra, il suo volto, i suoi occhi, le sue parole. Ogni giorno sperava che giungesse ad Auradon.
Ma incontrò un ragazzo che, da un certo punto di vista, gli somigliava, di aspetto: Chad, il figlio di Cenerentola.
Esattamente come era accaduto con Terra, Evie era rimasta colpita dal suo aspetto.
I due avevano iniziato a frequentarsi, ma con un triste epilogo: Audrey, la figlia di Aurora, non appena Mal aveva incantato Ben con un incantesimo di amore, spingendolo a lasciare la sua promessa sposa, iniziò a sedurre Chad e, di conseguenza, lui lasciò Evie. E non solo: alla prima occasione, lui l’aveva denunciata ai professori della Auradon Prep per aver copiato durante i compiti in classe grazie ad uno specchio magico.
Prima di giungere nell’Isola degli Sperduti, infatti, Evie era riuscita a creare una replica dello Specchio Magico della madre, incantando uno specchio più piccolo grazie ad un libro di incantesimi.
Ma l’intervento di un ragazzo aveva salvato la ragazza: Doug, il figlio di Cucciolo.
Dal primo incontro con la ragazza, si era invaghito di lei. Ma Evie non lo reputava abbastanza bello per lei.
Il tradimento di Chad, però, le fece aprire gli occhi.
Si illudeva che Chad assomigliasse in tutto e per tutto a Terra: bello e gentile. Ma si sbagliava.
La gentilezza che cercava la trovò in Doug, oltre ad un valido alleato, una spalla su cui piangere, una persona con cui confidarsi ed essere davvero se stessa.
Grazie ai suoi consigli, infatti, Evie divenne la miglior sarta di Auradon e comprarsi un’abitazione.
Non riusciva a vivere senza Doug: ne ebbe la prova nei giorni in cui Audrey aveva maledetto Auradon.
L’intervento di Ade, padre di Mal, nel salvare Auradon diede l’illusione a tutti gli abitanti che finalmente Auradon fosse in pace.
Ma arrivarono gli Heartless e Auradon fu sommersa dall’Oscurità.
Doug si era sacrificato per Evie, ma anche lei fu aggredita da un Heartless che le strappò il cuore dal petto.
Al suo risveglio, si ritrovò nella Città di Mezzo, insieme a Doug ed ai suoi amici.
Aveva ripreso il suo impego da sarta, per mantenere economicamente gli amici.
 
Ma sa che non è abbastanza: anche lei acconsente a divenire una Custode del Keyblade, per non ripetere mai più gli eventi di Auradon. Yen Sid avverte ognuno di loro dei pericoli del Tuffo Nel Cuore. Ma Evie non ha paura: è in gioco il suo futuro.
Ed il ritrovamento di Terra.
La notizia della sua scomparsa le aveva dato un valido motivo per divenire Custode del Keyblade…

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Capitolo 5
*** Evie's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: qui saranni ben palesi i riferimenti a "Once Upon A Time"; e anche a "I fratelli Grimm e l'incantevole strega" e Kingdom Hearts 2.8; forse questo sarà il capitolo più lungo

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Evie's Dive Into The Heart

 
https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Era come essere cullati dalle onde del mare. Ma invece che galleggiare, Evie stava sprofondando.
Quando riaprì gli occhi, si era resa conto di essere in un luogo oscuro.
I suoi lunghi capelli blu ondeggiavano, come se fosse stata effettivamente in acqua.
Una luce la spinse a guardare in basso: era una piattaforma di vetro colorato blu.
Su di esso vide una figura: se stessa.
Con intorno i volti delle persone a lei care: Doug, Biancaneve, Johanna, i suoi amici… e anche sua madre.
Atterrò in piedi. Il rumore dei tacchi riecheggiò in quel vuoto.
-Questo è… il mio cuore?- domandò la ragazza, guardandosi intorno.
Yen Sid non aveva detto molto sul Tuffo nel Cuore: solo che avrebbero superato delle prove, per poi ottenere il loro Keyblade.
Evie era curiosa di sapere come sarebbe stato il suo Keyblade. Nella sua mente lo aveva già immaginato.
Ma ciò che la preoccupava erano le prove.
Cosa avrebbe dovuto affrontare? Non era armata. Sperò non si trattassero di prove fisiche.
Si voltò un’ultima volta, verso il centro della piattaforma.
Notò un’altra sagoma.
Il respiro le si mozzò in gola.
-Doug?!-
Il suo Doug. Era lì. Con lei.
-Cosa fai qui?- domandò, avvicinandosi a lui –Non dovresti affrontare anche tu il Tuffo Nel Cuore?-
Lui continuava a fissarla, freddo, impassibile, nonostante il sorriso dolce.
-Di cosa hai più paura?- domandò, nello stesso modo.
Quella domanda incuriosì Evie.
-Cosa…? Cosa intendi con questo…? Andiamo, mi conosci, Doug. Lo sai di cosa ho paura. Perché mi fai questa domanda?-
Non comprese il significato di quella domanda. Doug rimaneva in silenzio. Senza sbattere le palpebre.
Neppure si muoveva. Era come diventato una statua.
-Andiamo, Doug. Se è uno scherzo non fa ridere. Dai!-
Lui continuava a non muoversi ed a rimanere in silenzio.
Evie era in trappola: stava facendo il giro di tutta la piattaforma, alla ricerca di una strada invisibile. Ma ovunque toccasse il suo piede, esso cadeva nel vuoto. E se fosse caduta anche lei, non si sarebbe più destata.
-Niente! Non c’è niente! Perché non mi aiuti, Doug?! Di solito, hai sempre la soluzione a tutto! Ti vuoi muovere da lì?!-
Non reagì. Non rispose. Non si mosse. Continuava a stare fermo.
Era come se stesse attendendo qualcosa.
Come una risposta.
-Doug! Mi vuoi rispondere?!- riprese lei, avvicinandosi nuovamente a Doug.
Continuava a fissarla con sguardo vuoto.
Lei era confusa: non si era mai fatto scrupoli ad aiutarla. Perché rimaneva fermo?
Sospirò.
-Senti, se rispondo alla tua domanda, mi dai una mano a uscire da qui?-
Nessuna risposta.
-Lo prendo come un sì.- dedusse lei, forse sfinita dall’ansia; non sapeva dove andare; doveva solo rispondere ad una domanda –Di cosa ho paura, hai detto? Diventare come mia madre.-
A quella risposta, Doug svanì.
-Doug!-
Finalmente, comprese.
-Oh… non era quello vero… Che sciocca. Avrei dovuto scoprirlo subito.- rise, per nascondere l’imbarazzo.
Notò qualcosa al bordo della piattaforma: un sentiero, fatto anch’esso di vetro colorato. Conduceva verso un’altra piattaforma con vetrate gotiche.
Trovò un’altra figura, al centro. Sembrava aspettarla.
Come Doug, la stava fissando con un dolce sorriso.
Un volto che Evie non aveva visto da anni.
-Biancaneve!- esclamò, correndole incontro.
Si aspettò un abbraccio da parte sua.
Ma Biancaneve non si mosse, esattamente come Doug.
Questo incupì Evie. Non era la vera Biancaneve. Era un’illusione. Come Doug, poco prima.
Biancaneve. Sua sorella. Aveva scoperto che non erano consanguinee, ma non le importava. Per lei, Biancaneve era sua sorella, non le importava che non avessero lo stesso padre.
La sua compagna di giochi.
Quando aveva udito della distruzione del suo mondo, il primo pensiero di Evie fu ovviamente rivolto a Biancaneve.
Ma aveva provato sollievo alla notizia che l’Eroe del Keyblade Sora avesse salvato le Principesse del Cuore, tra cui Biancaneve.
Sperò di rivederla, al termine del suo addestramento.
E quasi non volle credere che anche Doug provenisse dal suo stesso mondo. E, soprattutto, che fosse il figlio di uno dei Sette Nani. Questa coincidenza l’aveva sempre fatta ridere.
-Cos’è più importante per te?- domandò Biancaneve.
-Un’altra domanda? Ma siamo nel Tuffo nel Cuore o un’interrogazione?- sbuffò la ragazza, ma anche sollevata; sarebbe stato più problematico se avesse dovuto affrontare un nemico disarmata; lei non era portata per il combattimento, a differenza di Jay o Mal; ma aveva deciso di aiutare i suoi amici, nel divenire custode del Keyblade; non poteva restare con le mani in mano e in disparte; avrebbe fatto qualunque cosa per loro; quindi rispose alla domanda –Le mie creazioni. Perché mi fanno dimostrare che non sono una nullità, come ho sempre pensato di essere, per colpa delle false voci su di me.-
Ricordava bene, quando ancora viveva nel suo mondo, di come veniva additata dalla servitù, come venisse chiamata “copia della madre”. Non voleva essere come sua madre. Non da quando aveva scoperto la verità su di lei.
Non era contenta della sua morte, ma sentiva comunque una parte di lei che aveva tirato un sospiro di sollievo a quella notizia.
Evie aveva sempre fatto il possibile per non apparire egoista, viziata e vanitosa come lei.
Per questo aveva sviluppato la passione per il cucito e la sartoria. Per sfuggire da quella figura.
Anche Biancaneve svanì. E un’altra piattaforma apparve.
E una terza figura ad attenderla, al centro. L’ultima che si aspettava di incontrare: un ragazzo alto, castano, brillanti occhi blu.
-Terra!-
Esattamente come lo ricordava. Erano passati dieci anni dal suo incontro con quel misterioso e bellissimo forestiero. Yen Sid le aveva parlato di lui, delle sue origini, del suo destino.
Evie ne era rimasta sgomenta: Xehanort, l’uomo contro cui i sette guardiani della Luce avrebbero dovuto combattere, si era impossessato del suo corpo, reincarnando il suo cuore in lui.
Dal primo momento in cui aveva iniziato il suo percorso da custode del Keyblade, sperava di rivederlo.
Scoprire che era scomparso era stato per lei come se un intero castello le fosse crollato addosso.
Vederlo di fronte a lei fu strano. Sapeva che non era quello vero. Non lo avrebbe abbracciato.
Era un’illusione.
-Terra…- mormorò lei, triste –Non meritavi quello che Xehanort ti ha fatto. Quel maledetto si è preso una cosa che non gli apparteneva affatto. Per colpa sua, il mio mondo, quello di Mal e molti altri sono svaniti nell’Oscurità. Io ho perso te. Volevo tanto incontrarti di nuovo. Speravo di incontrarti di nuovo. Quando ti ho incontrato ero solo una bambina viziata, ma già sentivo, in qualche modo, di essere legata a te. Volevo tanto venire con te, quando sei scappato. Scappare da casa mia con un bellissimo principe, come accadeva nelle favole che leggevo da piccola. Tu per me lo eri, un principe. Tu sei la ragione per cui adesso voglio diventare custode del Keyblade. Per ritrovarti. Vorrei tanto che fossi qui, a guidarmi. Non so cosa fare. Anche se non sei quello vero, ti prego, dimmi, cosa faccio, adesso?-
Come aveva già intuito, Terra non le rispose. La fissava nei suoi occhi blu, passivo, indifferente.
-Cosa ti aspetti dalla vita?- le domandò, infatti.
Evie sospirò: già si aspettava di non ricevere alcuna risposta. Ma voleva almeno provarci.
-Dimostrare agli altri, soprattutto a me stessa…- iniziò, con un filo di voce –…che sono meglio di mia madre. Che non sono una principessa viziata, come tutti pensavano che fossi.-
Terra svanì, ancor prima che Evie riuscisse almeno a toccargli una mano.
Ma rimase da sola.
Abbassò lo sguardo. Strinse il pugno, determinata.
-Terra, ti salverò.- mormorò. Non aveva mai smesso di pensare a Terra. Più che mai, dopo essere venuta a conoscenza del suo destino. Se non lo avessero salvato i suoi amici, ci avrebbe pensato lei.
Notò della luce brillare di fronte a sé: vide due specchi. Erano eterei, non poteva toccarli.
“Sei a metà del tuo viaggio, Evie…” udì, nella sua testa “Il tuo viaggio per sfuggire dal tuo timore di essere come tua madre.”
-Cosa? Chi c’è?-
“Ma non devi temere. Tieniti stretta ciò che ti è più caro, tutto ciò che hai creato, e non avrai mai la tentazione di camminare per la strada che hai giurato di non camminare mai.”
-Vuoi dire… essere come mia madre? Per evitare di essere come lei?-
Apparve una porta, vicino a lei.
“Prosegui la tua prova, Evie. Non avere timore. Il tuo cuore sarà la tua chiave guida.”
Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida. Le stesse parole di Yen Sid, prima di iniziare il Tuffo Nel Cuore, nonché le uniche.
Non aveva ancora compreso il loro significato.
Inoltre, provò timore, guardando quella porta.
Dove l’avrebbe condotta? Era forse una trappola? Un’altra sfida.
Non vedeva altre vie d’uscita. Evie dovette aprire quella porta.
Nonostante la luce accecante, entrò lo stesso, continuando a camminare.
Finì nuovamente in un luogo oscuro, ma mai quanto quello di prima.
Era una stanza spoglia, buia.
Evie ricordava quella stanza: la prima ed ultima volta in cui vi aveva messo piede era stato pochi attimi prima di finire nell’Isola degli Sperduti.
Quella era la Stanza dello Specchio Magico. Era tornata nel suo castello. Nel suo mondo.
E lo Specchio era ancora lì. Circondato dai segni zodiacali. Esattamente come ricordava.
Da piccola le sembrava gigantesco. Si avvicinò, salendo i gradini. Non era così grande, in fondo.
Notò un particolare che la fece rabbrividire.
-La mia immagine… non è riflessa! Come è possibile?!- notò, confusa e sgomenta; quello vero aveva riflettuto la sua immagine.
Non era davvero nel castello di sua madre: era un’altra prova del Tuffo nel Cuore.
Ne ebbe ulteriore prova, quando udì dei passi ed una voce a lei molto familiare.
-Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?-
Evie impallidì appena vide il volto della persona appena entrata: se stessa!
Indossava un abito lungo nero, e i capelli erano raccolti al centro del cranio, in alto, in una coda.
E lo sguardo, il sorriso… uguale a quello di sua madre Grimilde.
Era bellissima.
Aveva uno scrigno in mano, con un cuore trafitto da un pugnale al centro.
La vera Evie indietreggiò di un passo.
-No… non può essere…-
Il sorriso dell’altra si tramutò in un’espressione disgustata.
-Cielo…- disse, nel medesimo tono, avvicinandosi a quella vera e girandole intorno, per squadrarla meglio –Come ti sei ridotta… Potevi essere bella, se fossi rimasta al castello e avessi deciso di farti gli affari tuoi. Invece hai preferito scappare da nostra madre. E guardati… sciatta, con un vestito squallido!-
-Non è squallido!- ribatté la vera Evie –È un dono!-
La sua tuta da allenamento. Fornitale da Yen Sid. Esattamente come il resto dei profughi di Auradon.
-Quello che è. Ma non è un abito degno di una principessa, Evie…- riprese l’altra Evie, fermandosi di fronte a lei –Avresti evitato tutto questo. Se fossi rimasta da nostra madre, avresti avuto tutto quello che volevi. Abiti meravigliosi, gioielli sfarzosi, decine di principi e nobili che sarebbero caduti ai tuoi piedi, per la tua mano!-
-Non volevo niente di tutto questo! Non voglio niente di tutto questo! Non sono mia madre! Ho la mia vita, adesso, ed è molto meglio di quella di corte!-
-Menti a te stessa, Evie. Dopotutto, io sono te. E lo sento… quella parte del tuo cuore che reprimi. Sì, tu rimpiangi quella parte della tua vita, in cui potevi avere tutto quello che volevi, senza fare niente. Bastava solo un ordine e ogni tuo capriccio veniva soddisfatto.-
-Non sono più quella persona. Ero piccola. Sono cresciuta, sono cambiata.-
-Allora come spieghi la mia presenza, qui? Con questo abito meraviglioso?-
Era davvero così? Davvero sentiva nostalgia della sua vita da principessa?
Evie aveva imparato a badare a se stessa, dal suo esilio nell’Isola degli Sperduti. I primi giorni erano stati ardui; ma con l’arrivo di Jay, avvenuto circa una settimana dopo di lei, tutto si era fatto più semplice e lieve. Ancora di più con Carlos e Mal.
Sarebbe morta di fame o rapita da una banda criminale, se non avesse incontrato loro. Grazie a loro, non era più una principessa viziata e capricciosa, ma una ragazza forte e indipendente, che aveva persino iniziato un’attività propria, grazie anche a Doug. Ma dentro, in profondità, sentiva davvero la mancanza dei suoi giorni nel castello. Lasciar fare tutto il lavoro ai servi, vestire abiti eleganti, come l’altra Evie, partecipare ai balli…
Aveva represso quel desiderio, per il proprio bene. Il suo mondo era ormai distrutto e non poteva tornarvici.
-Tu sei solo un’illusione.- dedusse la vera Evie –Non sono vanitosa. Non sono come mia madre. La vanità l’ha condotta alla morte. Non voglio fare la sua stessa fine!-
-Sul serio? Hai davvero creduto che nostra madre odiasse quella Biancaneve per quella storia assurda?- l’altra Evie stava ridendo –Stupide voci messe in giro da servi ignoranti. Vuoi conoscere la verità, Evie? Guarda qui dentro, allora.-
Le aveva porto lo scrigno, per poi aprirlo.
La vera Evie lo osservò con sospetto.
-Cos’è?-
-Il cuore di nostra madre.- rivelò l’altra Evie –Tutti i suoi sogni, le sue emozioni. Tutto ciò che ha perso, per diventare la donna che conosciamo. Prendilo.-
Era un cuore. Luminoso. Sembrava un rubino. Era un rubino.
Evie lo prese, incuriosita.
-Questo… è il cuore di mia madre…?- domandò, sospetta, ma anche allarmata –È così freddo…-
-È diventato così con il tempo. Quando a una persona privi dei sogni, dei desideri, il suo cuore diventa freddo e duro come una pietra. E non provi più nessun sentimento. Non quelli positivi, almeno.-
Quel cuore divenne sempre più luminoso, fino a divenire una sfera di luce.
Levitò.
Cambiò forma, di fronte allo sguardo stupito della vera Evie e a quello indifferente dell’altra Evie.
Un Keyblade.
La lama aveva la forma di un cuore di rubino con una corona sulla parte superiore.
La vera Evie la girò più volte, per ammirarlo meglio. Ne rimase affascinata.
Yen Sid aveva rivelato che il Keyblade rispecchia ciò che il portatore è nel suo cuore: quel Keyblade era pieno di gioielli. Era quindi ancora vanitosa? O rispecchiava la sua passione per la moda?
-Quindi è così? Vuoi davvero scoprire quello che è accaduto a nostra madre…- riprese l’altra, camminando verso lo Specchio; non si fermò; ci passò attraverso, con sgomento di quella vera; era diventata parte dello Specchio; era come se stesse riflettendo un altro lato di Evie –Allora, vieni. Scoprirai tutto.-
Allungò una mano: passò attraverso lo Specchio, prendendo quella vera, senza darle il tempo di indietreggiare, e la tirò con forza presso sé.
Fu come entrare in una stanza. Ma con forza. Atterrò quasi sulle ginocchia, come se qualcuno le avesse fatto lo sgambetto.
Era entrata in un’altra stanza: un corridoio senza fine, pieno di colonne.
Provò una strana sensazione: quel corridoio le dava la stessa impressione che provava in un camerino con due specchi uno di fronte all’altro, che riflettevano la sua immagine all’infinito.
Ma non c’era la sua immagine: solo delle colonne alte quanto il cielo.
Lo stesso pavimento era uno specchio, che, tuttavia, non rifletteva la sua immagine.
-Che posto è questo…?- domandò, confusa, senza avere nessuna idea di dove andare. Quel luogo era sgombro e privo di muri, ma era sempre un labirinto.
Udì una risata. La risata di una bambina.
Si voltò: vide una bambina vestita come una principessa. Era lei che rideva. Ma non era una risata maligna.
Era una risata divertita, come se stesse giocando.
Quella bambina era se stessa. Era lei da piccola.
Corse per una direzione. Evie decise di seguirla.
La sua presenza era stata provvidenziale: avrebbe vagato in quel colonnato all’infinito.
Ad ogni passo, si rendeva conto di avere l’impressione di camminare sull’acqua: il pavimento lasciava increspature. Era uno specchio d’acqua.
Vide qualcosa, in lontananza; la bambina vi era sempre più vicina: uno specchio. Uguale a quello di sua madre.
Non appena Evie fu di fronte, la bambina svanì.
-Cosa significa?- domandò lei, osservando, confusa, quello specchio; ancora la sua immagine non veniva riflessa, nemmeno quella del colonnato.
Apparvero delle onde, nel vetro. Si materializzarono delle immagini.
Evie vide una collina erbosa, un albero di melo, e due innamorati sotto di esso. Una donna con lunghi capelli neri raccolti in una treccia vestita con una tenuta da equitazione e un uomo, molto bello, con abiti laceri. Entrambi sembravano tristi e preoccupati. Poi l’attenzione della donna venne rivolta lontano dall’uomo, verso un cavallo imbizzarrito, cavalcato da una bambina. Anche lei era salita a cavallo, per accorrere in suo soccorso.
Evie stava osservando come ipnotizzata quella scena: quella bambina, quella donna… avevano un aspetto familiare. Le bastò scavare nella sua memoria, per ritrovare il volto della bambina: era Biancaneve!
-Aspetta, quella donna…- fece la ragazza, acuendo la vista; la donna era uguale a lei, il suo stesso sorriso, la sua espressione –Mamma…?! Quindi è così che si sono conosciute! Che coraggio che ha avuto, la mamma! Chi immaginava che fosse brava a cavalcare?- le era sfuggito un sorriso e una nota di orgoglio per la madre.
Seguirono altre immagini: un re, padre di Biancaneve, che chiedeva la mano di Grimilde e la madre di lei, la nonna di Evie, che aveva accettato al suo posto.
Lei era di nuovo corsa dall’uomo dagli abiti marroni, il suo stalliere, disperata: stavano pianificando di scappare insieme. Ma Biancaneve li aveva sentiti, e, inizialmente, aveva promesso a Grimilde di non farne parola con la madre. Tuttavia, la sua ingenuità la spinse a rivelare la verità alla madre di Grimilde, per premura nei confronti di quest’ultima: ella, infatti, un anno prima, aveva perso sua madre e non voleva che Grimilde perdesse la sua.
Non poteva aspettarsi quello che accadde quella notte: la madre di Grimilde, infatti, aveva ucciso lo stalliere di fronte alla figlia. Era una donna ambiziosa, infatti, e quindi non riteneva lo stalliere all’altezza delle sue aspettative e della figlia.
Fu alla prova dell’abito che Grimilde scoprì il coinvolgimento di Biancaneve nella morte dello stalliere.
La visione finì, di fronte allo sguardo scioccato di Evie.
Lo specchio si oscurò: una macchia nera era partita dal centro, estendendosi come una macchia d’inchiostro sulla carta fino a ricoprirlo di nero. Si posò sul pavimento, divenendo esso stesso una macchia nera. Qualcosa emerse da lì: una figura. Non sembrava umana, tantomeno mostruosa, come un Heartless.
Vedeva solo due occhi gialli luminosi, in quell’ombra. E la figura stava assumendo una forma.
-Mamma…?-
La sagoma era come quella di Grimilde. Fissava Evie con odio e disprezzo.
Le diede persino un manrovescio, che la fece scaraventare ad un metro di distanza.
Evie atterrò sull’acqua, senza bagnarsi. Quel colpo l’aveva presa alla sprovvista.
Li sentì. Con un colpo, aveva sentito delle emozioni oscure: rabbia, odio, tristezza, delusione, lutto, vanità, invidia, gelosia. Tutte emozioni che l’avevano fatta sprofondare nell’Oscurità e resa la Regina Cattiva.
-Mamma! Sono io, Evie!- esclamò lei, rialzandosi. Ma l’ombra avanzava minacciosa, senza rispondere, ancora con lo sguardo carico di odio.
La ragazza si alzò, e corse tra le colonne, sperando di seminare quell’ombra.
Si nascose dietro una di esse, riprendendo fiato.
Quei sentimenti oscuri l’avevano sconvolta: era come se li stesse provando ella stessa. Facevano male. Le stavano straziando il cuore.
-Quindi è così che mamma si sentiva… Fa male…- mormorò, lottando contro quelle sensazioni. Doveva rimanere lucida di mente e concentrata per la sua prova.
Si accorse della presenza dell’ombra. Schivò il suo colpo, scattando in laterale. La mano distrusse una parte dell’ombra.
L’essere di fronte a lei non era sua madre: Evie doveva difendersi. Aveva già combattuto con una spada, in passato. Ma il Keyblade era differente. Più pesante.
Ma doveva almeno provarci.
Schivò un altro colpo, ma decise anche di contrattaccare: girò su se stessa, effettuando un colpo orizzontale. Tagliò l’ombra in due.
Essa svanì quasi subito, in una piccola esplosione nera.
Ma qualcosa galleggiava nell’aria, nello stesso punto in cui, forse, l’ombra aveva un “cuore”.
Un rubino. Aveva una forma strana, rotonda di sopra e spigolosa di sotto.
Alla ragazza bastò mettere la mano sotto, per sentire una sensazione di tristezza, di lutto: stava avvertendo la sofferenza della madre alla perdita del suo vero amore. Ma anche rabbia ed odio verso Biancaneve.
-Il suo primo passo verso l’oscurità…- mormorò, provando, per la prima volta, pietà per la madre -Come ha potuto, la nonna…?-
Si era sempre chiesta, infatti, perché sua madre non le avesse mai parlato dei suoi genitori, specialmente  della madre. Ora aveva compreso.
-Quindi è per questo che mamma odiava Biancaneve. Non per la vanità.-
Se stessa bambina riapparve di nuovo.
La condusse verso un nuovo specchio.
Ed assistette ad una nuova visione: i primi giorni di sua madre Grimilde al castello del re e di Biancaneve. La vide, sola, triste. Almeno aveva chiesto che l’albero di melo vicino al suo castello fosse piantato nel cortile. Evie comprese perché sua madre aveva sempre avuto a cuore quell’albero: era lo stesso dove si incontravano lei e lo stalliere.
Ma poi, la vide in compagnia di un altro uomo, bello come lo stalliere: era il cacciatore.
Evie vide lo sguardo della madre, ogni volta che lo guardava. Era palese che si fosse innamorata di lui.
Ed era ricambiata.
Per questo aveva tradito il re: e la figlia che aveva partorito non era la figlia del re e sorella di Biancaneve.
Evie era la figlia del cacciatore.
Nutriva rispetto per il marito, ma non amore. Aveva riscoperto l’amore, con il cacciatore.
Era la sua chiave per la fuga dal mondo che non aveva mai voluto. Ma, di nuovo, i suoi piani di fuga fallirono.
Ma il re sapeva la verità, sapeva che Evie non era figlia sua. Aveva ordinato a Grimilde di tacere sulla vera ascendenza della piccola, e al cacciatore aveva proibito di passare del tempo con lei e lo aveva bandito dal castello, per tradimento.
Per il regno, Evie era la seconda figlia del re. Nessuno avrebbe accettato una figlia bastarda.
Se la voce si fosse sparsa, i popolani si sarebbero avventati su Grimilde, con nomi offensivi o a lapidate.
Il re voleva solo la pace, nel suo regno.
Ma non teneva in considerazione i sentimenti della moglie.
Grimilde sostituì l’amore che provava per il cacciatore, con la delusione che provava per il re: un’altra persona le aveva privato dei suoi sogni.
La sua occasione di vendetta arrivò alcuni anni dopo, con l’arrivo di un nuovo forestiero, proveniente da una terra lontana.
Il cacciatore era stato bandito dal castello, ma Grimilde continuava comunque a fargli visita: lui, depresso dalla separazione della donna che amava e dalla figlia, aveva iniziato a bere ed ingrassare. E la sua bellezza era svanita. La sua vista la ripugnava, ma era comunque una delle poche persone cui lei si fidava.
Gli affidò un compito: catturare un serpente velenoso e rinchiuderlo in una cassa.
Quella notte, si venne a conoscenza che il re era morto a causa di un morso di serpente. Una strana scatola era stata ritrovata nella stanza del forestiero ospite del castello.
Lui era scomparso. Misteriosamente.
Nessuno avrebbe mai dedotto che fosse stata Grimilde ad uccidere il re. O meglio, nessuno avrebbe mai dedotto i motivi che l’avevano spinta ad uccidere il re. Per vendetta. Anche contro Biancaneve: esattamente come aveva fatto lei anni prima, le aveva privato della persona cui teneva di più al mondo.
Si era servita del forestiero: lui aveva mostrato interesse per lei, dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lei. Una volta l’aveva persino definita “La più bella del reame”, e questo aveva lusingato la regina.
Ma lei aveva approfittato della sua infatuazione, rendendolo, poi, un capro espiatorio per la morte del re, per gelosia. Era stata, infatti, ritrovata una lettera, nella stanza del traditore, in cui era manifesto il suo amore per la regina e l’intenzione di uccidere il re, per gelosia.
Di norma, Grimilde avrebbe dovuto condannarlo a morte: ma la stessa notte in cui il re era stato assassinato, lanciò un incantesimo sul forestiero, rinchiudendolo in uno specchio. Decise di far buon uso dei suoi consigli e, per lei, “era uno spreco rinunciare ad una tale risorsa”.
Quello specchio divenne il suo consigliere.
-Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?-
Forse la sua presunta vanità, era iniziata proprio dalla lusinga di quel forestiero.
Evie era sempre più sconvolta: lei era ancora piccola, quando conobbe quel forestiero. La notizia della morte del re aveva sconvolto persino lei. Biancaneve aveva persino pianto tutto il giorno.
Non avrebbe mai creduto sua madre capace di tale cattiveria.
Pur essendo già a conoscenza del fatto che non fosse la seconda figlia del re, quella notizia le lasciava continuamente l’amaro in bocca. Lei e Biancaneve non erano sorelle.
Ed il re aveva separato un padre dalla propria figlia per il bene del regno. Il re padre di Biancaneve era una persona buona e gentile, ma anteponeva sempre il regno a qualsiasi cosa. Anche il bene delle persone a lui vicine, per non turbare la pace.
Evie dovette nuovamente affrontare l’ombra della madre, per proseguire la sua prova. Ottenne un altro rubino, della stessa forma del precedente.
In esso, Evie percepì la delusione e la solitudine della madre: altri sentimenti oscuri per alimentare la sua Oscurità.
Stava versando lacrime per lei. Non per la donna crudele che aveva ucciso Biancaneve, ma per la donna che non aveva avuto le sue stesse opportunità ed aveva visto i suoi sogni infrangersi per colpa di altre persone.
Quel rubino si unì all’altro: insieme, formavano la parte superiore di un cuore.
Finalmente comprese perché il cuore di sua madre fosse un rubino: era diventato freddo e duro a causa della sua sofferenza. Come aveva rivelato l’altra Evie.
Come sarebbero andate le cose, se fosse riuscita a fuggire con lo stalliere? O con il cacciatore? Sarebbe stata un’altra persona.
Sarebbe stato forse anche il suo destino, se avesse perduto Doug?
Mentre ci pensava, se stessa bambina si presentò di nuovo di fronte a lei, sorridendo. Poi corse da un’altra parte.
Un terzo Specchio: forse l’ultimo, in base alla forma che il cuore stava assumendo. I bordi posteriori delle parti superiori erano molto vicini: sarebbe bastato un ultimo pezzo, per completarlo.
Vide Biancaneve, nel suo abito di stracci, intenta a lavare i gradini esterni. Non giocava più con la sorellastra come prima, dalla morte del re. Grimilde l’aveva degradata a serva nel suo stesso castello.
Fu lì che incontrò Florian, principe del regno confinante.
Evie osservò tutto dalla finestra della sua cameretta, ridacchiando divertita. Ma anche Grimilde assistette alla scena: era palese ai suoi occhi, l’invidia e la rabbia sempre più crescenti nel suo cuore.
A lei era stato negato l’amore: non avrebbe permesso a Biancaneve di essere felice.
La visione si interruppe, mostrando un giorno che Evie ricordava molto bene: il giorno del suo primo incontro con Terra. Era stato catturato dalle guardie e portato dalla madre.
Non rivide il momento in cui si era recata da lui, nelle prigioni, ma vide cosa era accaduto in seguito: sua madre aveva proposto un accordo con Terra. Lei gli avrebbe concesso la libertà e tutte le informazioni che aveva richiesto, se avesse preso il cuore di Biancaneve.
Era la stessa notte dell’aggressione contro Biancaneve.
Terra non aveva completato la missione: non se la sentiva di alzare la sua spada contro una persona innocente. Questo aveva fatto infuriare la regina: lesta, aveva ordinato alle guardie di catturarlo e metterlo a morte. Ma Terra era riuscito a fuggire. Evie non lo vide più.
Biancaneve era ancora sconvolta dalla disavventura.
Grimilde non si scoraggiò per il fallimento: il piano per ucciderla era ancora in atto. Coinvolse il cacciatore, riportato a corte dopo la morte del re.
Pur avendo timore della regina, che ancora amava, nemmeno lui osò uccidere Biancaneve. Per il bene della figlia Evie. Avrebbe sofferto, alla morte dell’amata sorellastra. E lui non voleva farla soffrire.
Anzi, esortò la principessa a scappare.
Si era sacrificato per Evie, la figlia che non aveva mai accudito, abbracciato, amato come un padre, ma a cui aveva sempre pensato.
Yen Sid aveva già rivelato a Evie che Biancaneve era ancora viva e questo l’aveva rallegrata. E Sora l’aveva salvata da Malefica ed il suo mondo era stato ripristinato.
Ma aveva perso suo padre, per questo.
Grimilde poteva far uccidere Florian, per far soffrire ulteriormente Biancaneve, ma non lo fece. Anzi, aveva elaborato un piano ancora più malefico: costringerlo a sposare Evie, unica erede al trono, alla morte di Biancaneve, per unire i regni. Ma il piano era fallito con la fuga della bambina.
La visione finì, ed il cuore di rubino, finalmente fu completato. Sentì l’invidia della madre, nei confronti di Biancaneve e Florian, nell’ultimo frammento.
Notò un ultimo specchio di fronte a sé: la sua immagine ancora non era riflessa. Vide solo la stanza oscura dello Specchio.
Uscì, triste, malinconica.
Il cuore di rubino era sparito. Probabilmente era solo un’illusione; ma i sentimenti che provava, i sentimenti di sua madre… erano veri.
L’altra Evie era ancora lì, in attesa.
-Allora? Cosa dici di quello che hai scoperto?- disse, altezzosa.
La vera Evie aveva lo sguardo vuoto. E la mano chiusa a pugno sul petto.
-Ho sentito… le sensazioni della mamma…- disse, con un filo di voce –Ho visto la sua vita… i suoi primi passi verso l’Oscurità…- fece una piccola pausa –Avevi ragione. Non è per vanità che voleva uccidere Biancaneve. C’era molto altro dietro.-
-Servitù ignorante e pettegola.- aggiunse, acida, l’altra Evie; poi girò intorno a quella vera –Vedono solo dal buco del tombino delle fogne in cui vivono e credono che quello sia il mondo. Ma è un foro piccolo. Solo sollevando il tombino sarebbero in grado di vedere il mondo per intero. E tu hai voluto credere a loro, Evie. Ma ora i tuoi occhi hanno visto, cosa ha dovuto passare nostra madre. Credi sia stata felice di essere chiamata “La Regina Cattiva”? Lei non voleva neanche essere regina! Ha dovuto accettare questo destino per colpa dell’egoismo delle persone! Ha rinunciato all’amore, per avere il potere di schiacciare tutti coloro che l’hanno fatta soffrire!-
-Compresa Biancaneve?-
-Lei soprattutto. Ha iniziato lei, dopotutto. Lei è stata la causa della discesa nell’Oscurità di nostra madre. Se non avesse fatto la spia, adesso nostra madre sarebbe felice.- si fermò, fissando la vera Evie sospetta e con rimprovero -Ma tu le vuoi ancora bene! Come puoi voler bene alla persona che per prima ha fatto del male a nostra madre?!-
-Biancaneve non voleva tutto questo…- Evie aveva alzato lo sguardo, ancora assente ed apatico –Non era sua intenzione far soffrire mia madre… Voleva aiutarla. E anche mia madre lo sapeva.- osservò il suo Keyblade, specialmente il cuore che aveva come lama –Ho sempre pensato a mia madre come malvagia, vanitosa, piena di odio e invidia contro tutto e tutti. Ma quegli specchi mi hanno mostrato una persona completamente diversa: una donna meravigliosa che aveva dei sogni che meritava di perseguire.- stava di nuovo piangendo per quella Grimilde –Ho sentito tanto odio e rabbia, quando ho affrontato le sue ombre. Ma, impugnando questo Keyblade, e tenendo in mano il cuore di mia madre, ho percepito altrettanto amore. Per lo stalliere e per il cacciatore, mio padre. Non meritava questo destino. Per tutti questi anni, ho sempre avuto paura di me stessa, che un giorno sarei diventata come la Grimilde che ho conosciuto. Ma ora non sono mai stata più felice di scoprire che, effettivamente, sono come lei. Anche io ho dei sogni, che intendo perseguire, e anche io sono innamorata di una persona che ha visto oltre la figlia di una regina cattiva. Mamma avrà pure sofferto, ma questo non giustifica quello che ha fatto a Biancaneve, al mio patrigno ed a mio padre. Non farò la sua stessa fine, non cederò all’odio o all’invidia.- scese i gradini dello Specchio, passando accanto all’altra Evie, sorridendo, sollevata -Seguirò definitivamente il consiglio di Terra: posso essere qualunque cosa io voglia essere. Ho finalmente accettato me stessa. Adesso mi sento davvero in pace.-
I suoi tacchi riecheggiavano rumorosamente nella stanza. Stava camminando verso l’uscita, serena e sorridente. Si era tolta un peso dallo stomaco e dal cuore: aveva accettato se stessa, la parte che in passato le avevano deriso di avere.

L’altra Evie, però, appariva furiosa. E delusa.
-Davvero pensi che sia finita qui…?- ringhiò, stringendo la mano a pugno –Io non penso proprio, sorella!-
L'uscita si sigillò, divenendo un muro. Evie era bloccata.
L'altra rise, malignamente.
-Non ho mai sentito nulla di più stupido!- derise, sistemandosi i capelli –Accettare te stessa per questi motivi assurdi! Tsk! Non era quello che volevo sentire! Perché?! Perché sei così sciocca?!-
Evie tastò il muro, alla ricerca di un'apertura. Neanche usare il Keyblade era stato d'aiuto.
-Stare con il figlio del nano più stupido ti ha annebbiato il cervello! No! No! No! Non è questo quello che volevo farti capire, sciocca!- imprecò l’altra Evie, camminando avanti e indietro, esasperata –Noi dobbiamo prendere ad esempio nostra madre, per imparare dai suoi errori ed essere delle regine migliori di lei! Non devi accontentarti, Evie! Tu meriti molto di più di quello che hai! Il regno poteva essere tuo, se quel codardo di nostro padre avesse avuto il fegato di uccidere quella sciocca di Biancaneve!-
-Biancaneve non era una sciocca…- mormorò Evie, avanzando con passi pesanti verso l'altra –E non osare parlare così di Doug, mostro!-
Eseguì un fendente con giravolta sull’altra Evie, diretta al ventre.
Il Keyblade non colpì niente.
La vera Evie si stupì, mentre l’altra rise malignamente.

Era come se avesse colpito un fantasma. O il niente.
-Non puoi eliminarmi, sorella.- le disse, sorridendo, sicura –Io sono te, dopotutto. Sono il tuo riflesso. Non puoi uccidere il tuo riflesso. E non puoi nemmeno fuggire da me. Ti serve la chiave.-
“La chiave? Vorrà dire il Keyblade?” pensò quella vera, in difficoltà. Non poteva ferire l’altra sé. E nemmeno fuggire: dove un tempo c’era l’entrata, c’era un muro.
Era isolata. In trappola.
Si voltò di nuovo verso lo Specchio: da lì aveva acceduto in una sorta di dimensione mistica, in cui aveva scavato nel cuore della madre Grimilde. Ma era l’altra Evie a controllarlo, non lei.
Rifletté, ricordando un particolare: ella era riuscita a passarvi attraverso, come fosse una normale apertura nel muro.
E non solo.
“Non puoi eliminarmi. Io sono il tuo riflesso.”
-Il mio riflesso…- mormorò quella vera.
Continuava a fissare lo Specchio: la sua immagine ancora non era riflessa.
Osservò l’altra sé: sembrava turbata da qualcosa.
-Ovvio che non posso eliminarti. Sei il mio riflesso.- disse, ripetendo le parole dell’altra sé –Il riflesso del mio lato peggiore. E io odio questo riflesso. E c’è solo un modo per eliminarlo…-
Caricò il Keyblade dietro la schiena. L’altra Evie si mostrò preoccupata.
-NO! FERMA!-
Ma l’arma aveva già colpito lo Specchio, frammentandolo.
L’altra Evie urlò di terrore e dolore insieme: sul suo volto e sul suo vestito erano comparse delle crepe, come nello Specchio.
Era lo Specchio la chiave. La chiave che avrebbe riportato Evie nel mondo reale, nella Torre di Yen Sid.
L’altra Evie era letteralmente il suo riflesso: il riflesso della sua parte malvagia. Quindi, da un certo punto di vista, rifletteva la sua immagine.
-CHE COSA HAI FATTO?!- urlò lei. Dei frammenti si stavano separando dal suo corpo, cadendo sul pavimento.
La vera Evie la osservò terrorizzata, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta.
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Aveva compreso le parole di Yen Sid e compiuto ciò che il suo cuore le aveva richiesto di fare.
-Quello che andava fatto, “sorella”!- aveva risposto la vera Evie, con sguardo da sfida.
Continuò a colpire lo Specchio con il Keyblade, piena di rabbia. Verso l’altra se stessa.
Ella continuava a guardarsi le mani, urlando. Non sapeva cosa fare. Anche i suoi poteri erano svaniti.
-CHI È LA PIÙ BELLA DEL REAME?!- fu l’ultima frase dell’altra Evie, prima di frammentarsi completamente.
L’ultimo colpo di Keyblade sullo Specchio aveva rimosso tutto il vetro dalla cornice. Senza uno specchio, non esisteva alcun riflesso.
Evie osservò quei frammenti, disgustata da ciò che sarebbe potuta diventare, se anni prima avesse deciso di rimanere al castello di sua madre, anziché esiliarsi nell’Isola degli Sperduti.
-Non ha alcuna importanza.- fu la risposta della vera, pestando i frammenti sotto il suo stivale.
A quel colpo, l’intera stanza si frammentò. Evie cadde di nuovo nel vuoto e nel buio, quasi urlando.
Il Tuffo Nel Cuore era superato. Quel luogo non doveva più esistere.
Evie aveva accettato se stessa. Aveva accettato la parte di sua madre dentro di lei.



""Break the spell, we were born this way
Be yourself, forget the DNA"


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Note finali: con Evie, presto o tardi, farò una storia a parte, con vari elementi di Once Upon A Time; questo è solo un preludio

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Capitolo 6
*** Jay's Story ***


Note dell'autrice: secondo la raccolta di fiabe "Le Mille e una notte", il gran visir della favola "Aladino" aveva davvero un figlio che voleva far sposare con la figlia del sultano. Questo, tra le altre cose, ha ispirato questo background su Jay. E su Jafar mi sono ispirata a "Once Upon A Time in Wonderland".
 

Jay's Story


L’unica ambizione di Jafar era governare su Agrabah. E doveva divenire sultano, per questo.
Ma lui era un gran visir, e, per giunta, proveniva dalla strada, era l’umile figlio di una guaritrice.
Tuttavia, scorreva del sangue reale, in lui, ma questo, al precedente sultano, suo padre, non importava.
Lo aveva accolto nella sua corte, come coppiere, ma nessuno doveva sapere che fosse il suo figlio illegittimo.
Riusciva, comunque, a partecipare agli incontri con i diplomatici. Lì vide il suo fratellastro, il figlio legittimo del sultano, un bambino viziato, ma inetto. Negli incontri diplomatici non sapeva neppure rispondere alle domande su Agrabah. Rispondeva sempre Jafar ed in modo esaustivo, dimostrando un’arguzia notevole per un ragazzo cresciuto nella strada. Il sultano, per difendere i suoi interessi, diceva ai diplomatici di disporre di una servitù acculturata.
Il principe mostrò presto invidia per il coppiere: a volte, si introduceva di notte nelle sue stanze e lo picchiava.
Il giovane Jafar provò a protestare con il sultano suo padre, ma ormai questi non lo riconosceva come figlio, ma come servo.
Per questo, qualche anno dopo, Jafar lo aveva avvelenato, insieme al principe. Sperava che Agrabah sarebbe divenuta sua. Per vincoli di sangue, lo era di diritto.
Ma nessuno era a conoscenza del figlio bastardo del sultano, neppure i documenti reali.
Fu un parente del sultano, un cugino di primo grado, ad ottenere il diritto di governare su Agrabah.
Questo cugino aveva già conosciuto Jafar: anche lui aveva assistito a degli incontri diplomatici, in cui Jafar, spesso, aveva risposto per conto del principe. Ammirato da quell’arguzia, decise di nominarlo Gran Visir.
Sarebbe stato il consigliere personale del sultano, praticamente sarebbe stato lui a governare su Agrabah.
Ma non gli bastava: non voleva essere Gran Visir. Voleva diventare sultano.
Alla sua nomina, il nuovo sultano gli aveva affidato una concubina, una donna bella quanto servile.
Ella cercava in tutti i modi di sollevare il morale spesso a terra di Jafar.
Solo la notizia di essere incinta di suo figlio lo aveva un poco sollevato. Ma non per il pensiero di divenire padre, bensì per i piani che già aveva architettato per il nascituro.
Il sultano aveva una figlia, Jasmine.
Se avesse avuto un maschio, avrebbe convinto il sultano a farlo sposare con la principessa.
Il figlio sarebbe divenuto sultano. Ma se lui e la regina fossero morti, il governo sarebbe passato al parente più vicino, ovvero Jafar.
Questo era il suo piano.
Infatti, la concubina diede alla luce un maschio.
Jasmine era contenta di avere finalmente un compagno di giochi; infatti, lei ed il figlio di Jafar, Jay, stavano sempre assieme, giocavano sempre assieme.
Il Palazzo era tutto per loro: si divertivano sempre a nascondersi dietro le colonne, sfuggendo alle guardie che li rimproveravano di fare troppo casino.
Il piano di Jafar stava proseguendo: era lieto della vicinanza tra il figlio e la principessa. Una volta divenuti grandi non avrebbero esitato a sposarsi, secondo lui.
Ma Jay e Jasmine non riuscirono mai a vedersi come una coppia: piuttosto come fratello e sorella.
Erano ancora bambini, allora.
Ma un sogno da seguire insieme lo avevano: erano stufi delle regole del palazzo. Quando sarebbero diventati grandi, sarebbero scappati da quella prigione d’oro, per essere liberi.
Jasmine, essendo principessa, era più sorvegliata. Solo Jay, a volte, riusciva a scappare dalle mura del palazzo senza farsi vedere dalle guardie.
Era affascinato dalla vitalità della città: le persone, i banchi del mercato. Dava molte più opportunità del palazzo.
In una di queste fughe, notò un bambino particolare: camminava tutto acquattato e in punta di piedi verso un banco, rubando, senza farsi vedere, delle mele.
Ma c’erano delle guardie di pattuglia, e videro subito quel bambino. Lesti, si erano dati al suo inseguimento.
Il bambino aveva circa l’età di Jasmine, ma riusciva ugualmente a passare negli angoli più stretti, dove le guardie non lo avrebbero inseguito.
Jay era affascinato da quel bambino: era libero, senza regole. Non come lui e Jasmine, costretti in una gabbia dorata.
Era per questo che usciva dal palazzo ed entrava nel bazar, per vedere quel bambino e sperare di parlargli.
Ma non riusciva mai nell’impresa.
Tuttavia, la sera tornava nel Palazzo e raccontava a Jasmine per filo e per segno quello che vedeva ad Agrabah.
Le sue fughe, però, non potevano durare all’infinito: più volte era stato beccato dalle guardie reali in città.
Ma non gli fu più permesso di uscire da quando suo padre Jafar aveva acquistato un pappagallo, Jago, che si metteva a strillare ogni volta che Jay si avvicinava al muro.
E Jafar lo brontolava, per questo: ogni giorno, gli raccomandava i comportamenti da seguire nel Palazzo, quindi non giocare come fosse un selvaggio, non urlare, e, soprattutto, non abbandonare il Palazzo.
Gli stava praticamente insegnando come essere un sultano.
Ma Jay non sembrava interessato. Allora aveva quasi nove anni. E Jasmine undici.
Era ancora presto per parlare di matrimonio.
Ma Jafar non riusciva ad attendere la sua occasione per governare su Agrabah.
Doveva e voleva persino divenire più potente del sultano.
Quella notte, ricevette una visita da parte di un forestiero, vestito con un cappotto nero. Dalla voce, era anziano. Più di lui e del sultano.
Quell’uomo si era presentato come Xehanort. Sembrava sapere tutto di Jafar e dei suoi desideri.
Ed era disposto ad aiutarlo a realizzarli, ma tali desideri richiedevano una notevole quantità di Oscurità nel cuore. E Jafar, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva ancora due luci che gli stavano impedendo di cedere all’Oscurità: la concubina ed il figlio.
Occorreva spegnerle, se ancora ambiva a governare Agrabah. Non aveva più bisogno del figlio.
Il giorno seguente quella visita, infatti, la concubina di Jafar era misteriosamente scomparsa. Volatilizzata. Come se non fosse mai esistita.
Nemmeno gli abbracci di Jasmine erano serviti per consolare il piccolo Jay.
Aveva perso la madre: Jasmine sapeva perfettamente cosa provava, avendo perso anche lei la madre, da piccola.
La concubina non era scomparsa: Jafar l’aveva assassinata. E poi aveva portato il corpo nel deserto, in attesa che la tempesta di sabbia la seppellisse.
Il prossimo sarebbe stato Jay.
A lui venne riservato qualcosa di ben peggiore della morte: Jafar lo aveva portato nelle segrete; Jay pensava per l’ennesima lezione.
Ma suo padre sembrava molto più freddo del solito: si fermò proprio in mezzo alla stanza.
-Avvicinati, Jay.-
Il bambino, con passo insicuro, prese posto accanto a lui.
-Tu sai qual è la cosa a cui tengo di più, non è vero?- domandò, quasi a bruciapelo, senza guardare il figlio negli occhi.
Jay annuì, deglutendo. Ormai la bocca era divenuta secca. Anche la vista di suo padre gli provocava timore.
-La tua carica.- disse, con un filo di voce.
-Esatto, figliolo.- prese a camminare, lentamente, dietro il figlio, che era come paralizzato, intento a fissare le mattonelle del pavimento –La mia carica di gran visir… è la cosa più importante della mia vita, che intendo conservare il più a lungo possibile.-
Si fermò di nuovo.
-Ma questo non mi basta. Sarò pure la persona più importante del regno, dopo il sultano, ma non mi basta. Io voglio il potere. Quello che non svanisce mai. E sai una cosa, figliolo? Ora so come ottenerlo!-
Jay si voltò di scatto verso Jafar, fingendosi entusiasta. O forse lo era davvero. Dopotutto, da bambini crediamo sempre che i propri genitori siano dèi, li amano, li venerano, credono che abbiano sempre ragione su ogni argomento.
Jay temeva suo padre, ma nello stesso tempo, non sapeva perché, lo venerava.
-Tuttavia…- quella singola parola e l’occhiata fredda di Jafar fecero svanire il sorriso di Jay –Ci sono ancora degli ostacoli, che mi stanno impedendo di ottenere quel potere.-
Il bambino era confuso.
-Tu.-
Conficcato tra due mattonelle, vi era una particolare pietra rossa, che si illuminò.
Da quel punto, si estese gradualmente un portale, sotto forma di sabbie mobili. Girava intorno a se stesso, a spirale.
Il bordo quasi sfiorò i piedi di Jay. Perse l’equilibrio, barcollando all’indietro. Si aggrappò ad una manica della tunica del padre, per non cadere.
-NO! PADRE! TI PREGO!- supplicò, quasi piangendo –NON MANDARMI VIA!-
-Devo, Jay.- ribatté, freddo, Jafar –Se tu rimani qui, sarò solo un patetico gran visir. Devo rinunciare a te, se voglio essere di più. Mi sono liberato di tua madre e il fatto che ti stia mandando in un altro mondo, anziché prendere la tua vita, è un chiaro segno che sono ancora debole e che, in un modo o nell’altro, tengo a te. Ma esiliarti in un altro mondo è come se fossi morto, per me. Mi basterà dimenticarti e il gioco è fatto. Io non sono stato fatto per essere tuo padre. Troppe responsabilità e, soprattutto, troppo AMORE. Non la prendere sul personale. Addio, Jay!-
Diede uno strattone al braccio e Jay, alla fine, cadde.
L’ultima cosa che vide, prima di essere inghiottito da quel portale, era il volto freddo di suo padre. E qualcosa illuminarsi nella sua mano: un bastone a forma di serpente.
Atterrò su qualcosa di duro. Per poco non si ruppe un braccio.
Sembrava una strada: era ruvida al tatto, ma almeno non lasciava tracce di sabbia sulle mani come le strade di Agrabah.
Ma l’ambiente intorno a lui sembrava davvero il mercato di Agrabah: banchi con delle tende come tetti, merci esposte sui banchi, gente che cercava di rubare.
Presto, anche Jay imparò a rubare da quei banchi.
I suoi abiti sfarzosi davano troppo nell’occhio. Ad Agrabah gli bastava indossare una veste per coprire i suoi abiti, quando scappava dal palazzo per andare in città. Ma lì non trovò niente.
Per questo aveva dovuto vendere alcuni dei suoi gioielli. Tranne un anello: apparteneva al padre Jafar, a sua volta appartenuto a sua madre, donatole dal precedente sultano.
Per il male che suo padre gli aveva fatto, sarebbe dovuta essere la prima cosa di cui liberarsi.
Ma non lo fece: quell’anello divenne per Jay un modo per ricordarsi del suo mondo di origine e, soprattutto, un oggetto collegato al sentimento di vendetta che provava per suo padre. Una volta compiuta, se ne sarebbe liberato.
Con quello che aveva ottenuto dalla vendita dei gioielli riuscì a procurarsi degli abiti, idonei per non dare nell’occhio nel posto che gli abitanti chiamavano “L’Isola degli Sperduti”, dove venivano esiliati tutti coloro che erano stati banditi dai propri mondi. Una prigione, insomma.
Con i soldi che gli erano rimasti riuscì a comprarsi da mangiare. Ma non durarono in eterno.
Ricordò i movimenti del bambino di Agrabah, per rubare le mele. Ed altri generi alimentari.
Presto entrò in competizione con un altro bambino, Harry: a lui riusciva facile rubare le cose grazie all’uncino che portava alla mano sinistra. I due divennero subito nemici.
Ma Jay non rimase a lungo da solo: vide un gruppo di adulti intorno ad una bambina dai capelli blu, e lui accorse a salvarla.
La bambina si presentò come Evie, ed era una principessa. Da quel giorno divennero inseparabili.
Al loro piccolo gruppo si unirono Carlos e poi Mal, bambini che avevano vissuto esperienze simili alle loro.
Jay si affezionò ai suoi amici dal primo momento: in loro, specialmente in Mal, riconobbe una parte di Jasmine. Erano come fratelli, per lui.
Il vizio dei furti non lo abbandonò: era lui a procurare i generi alimentari agli amici.
Lo stesso avrebbe fatto ad Auradon: lui, insieme ai tre amici, era stato scelto per un programma di integrazione proposto dal futuro re Benjamin.
Aveva imparato a rubare con efficienza, nell’Isola degli Sperduti, quasi al pari del bambino di Agrabah, un vizio che prestò dovette abbandonare: su proposta della Fata Smemorina, Jay era entrato nella squadra di scherma, dimostrando forza e valore.
Erano la rabbia e la vendetta contro il padre ad avergli acceso quella fiamma.
Doveva prepararsi per il giorno in cui lo avrebbe affrontato ed eliminato.
E quel desiderio accrebbe quando, insieme agli amici ed al gruppo di Uma, si era recato in un luogo chiamato il Castello dell’Oblio: secondo la Fata Smemorina, era un luogo in cui perdere era trovare e trovare era perdere. Ma sembrava che all’ultimo piano vi fosse una sfera in grado di riflettere qualsiasi cosa.
Jay si addentrò in quel castello, per scoprire il vero destino della madre.
La rabbia e l’odio che provava per il padre accrebbe sempre di più, una volta scoperta la verità: suo padre aveva ucciso sua madre e abbandonato lui per il potere e sottomettere Agrabah.
Tale rabbia era così bruciante che scoprì che non erano solo Mal e Uma a lanciare incantesimi: era entrato un intruso, nella stanza della sfera, e Jay sentì l’impulso di difendere i suoi amici.
Cedette alla rabbia, e questa gli fece scoprire il potere del fuoco che scorreva nelle sue vene. E non solo: affrontando quel ragazzo, Axel, si trasformò persino in un cobra gigante.
Il potere di suo padre scorreva persino nelle sue vene. Non fu felice di questa somiglianza, ma, nello stesso tempo, lo era: avrebbe avuto il potere adatto per eliminarlo.
Questi ultimi eventi erano avvenuti postumi al salto nell’Oscurità di Audrey.
Ma prima della distruzione di Auradon.
Jay fu tra i primi a cadere per colpa degli Heartless, per difendere i suoi amici. I suoi poteri non erano stati sufficienti, e non aveva nemmeno avuto il tempo di trasformarsi di nuovo in cobra. Come nemmeno Mal in drago.
Al suo risveglio, si ritrovò nella Città di Mezzo, con i suoi amici ed il gruppo di Uma.
Grazie alla Fata Smemorina, vennero informati sugli ultimi fatti, su Sora, sull’OrganizzazioneXIII.
Nella Città di Mezzo ricostruirono tutti una vita, grazie a lei. Ogni tanto veniva loro concesso di andare a Crepuscopoli, dove Jay, Lonnie, Uma e Ben parteciparono al Torneo Struggle, il cui vincitore fu Jay.
L’allenamento nella squadra di scherma di Auradon lo aveva formato bene.
Ma non era abbastanza. Sentiva che non era abbastanza per esaudire il suo desiderio di vendetta contro il padre.
 
Per questo anche lui è d’accordo col divenire Custode del Keyblade. Era rimasto affascinato dalla storia di questa misteriosa arma dalle lezioni della Fata Smemorina. Inoltre, era l’unica arma in grado di eliminare gli esseri che avevano distrutto Auradon, gli Heartless. Magari, anche quella sarebbe stata la chiave che lo avrebbe aiutato contro suo padre. Lui è ben cosciente dei pericoli cui andrà incontro nel Tuffo nel Cuore. Ma Jay non ha paura: niente lo avrebbe fermato dal suo intento.
Avrebbe vendicato la madre ed il suo esilio nell’Isola degli Sperduti…
 

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Capitolo 7
*** Jay's Dive Into The Heart ***


 

Jay's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

A Jay piaceva nuotare. Anche fare immersioni.
Ma non era proprio acqua quella in cui stava sprofondando.
Era l’Oscurità.
Ma sentiva qualcosa, sulla sua pelle, che gli dava l’impressione di essere in acqua.
“Dove mi trovo…?” pensò, mentre riapriva gli occhi.
Sentiva i lunghi capelli castani solleticargli le guance. Chad e Doug, con l’inizio degli allenamenti con il Keyblade, avevano deciso di tagliarseli, ma lui non voleva. Gli piacevano lunghi. Anche se, di tanto in tanto, si impigliavano nei bottoni della tenuta di allenamento.
Una luce gialla proveniente dal basso lo spinse a voltarsi: era una piattaforma d vetro colorato. C’era lui, con i suoi amici Mal, Evie e Carlos, Jasmine e sua madre.
Atterrò su di esso con delicatezza.
-È forse questo… il Tuffo nel Cuore…?- mormorò, guardandosi intorno.
Il buio gli metteva i brividi. Quel buio in particolare.
Era da solo. E senza armi. Ma se riusciva a superare quella prova, avrebbe ottenuto il suo Keyblade.
Yen Sid non aveva detto nulla su cosa avrebbero affrontato. Solo che sarebbero entrati ognuno nel proprio cuore e superato delle prove. Avrebbero affrontato loro stessi, da un certo punto di vista.
Il loro cuore proponeva loro gli ostacoli da superare.
-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.- aveva detto, prima che ognuno di loro iniziasse il proprio Tuffo nel Cuore.
Jay pensò a quella frase.
-Ma cosa vorrà dire? Mah. A volte quello parla per indovinelli.-
Alzò lo sguardo: non era da solo, in quella piattaforma.
Vide di fronte a sé una sagoma familiare.
-Mamma?!-
Sua madre. La concubina di suo padre.
Come la ricordava. Con i suoi lucidi capelli neri color della notte, gli occhi pieni di amore e affetto ed un sorriso dolce che poteva addolcire un cuore di pietra. Ma non un cuore oscuro come quello di Jafar.
-Di cosa hai più paura?-
-Cosa? Che domanda è? Cosa fai qui, mamma? Io ti ho vista, nella sfera del Castello dell’Oblio! Eri morta! Come puoi essere qui?-
Lei non rispose: continuava a fissare il ragazzo, ma era come se stesse fissando il vuoto. Il suo sguardo era dolce, ma assente.
-Mamma…? Stai bene…?-
Jay era confuso. Perché sua madre non stava rispondendo? Perché non si stava muovendo? Se fosse stata quella vera, avrebbe abbracciato subito il figlio.
Fu lui a fare il primo passo, ma le sue braccia oltrepassarono il corpo della donna di fronte a lui.
Solo allora comprese: quella non era sua madre.
-Oh, ecco a cosa si riferiva Yen Sid…- si morse entrambe le labbra; rispose alla domanda della “madre” –Essere incapace di proteggere i miei amici.-
La donna svanì. Esattamente come era “svanita” il giorno in cui era stata annunciata la sua scomparsa, al Palazzo Reale. Come se non fosse mai esistita. Per colpa di suo padre Jafar.
Infatti, Jay lacrimò. Perdere sua madre era stato un colpo troppo forte per lui. Era un bambino, allora, ma portava ancora quel peso nel petto. E scoprire che era stato suo padre a portarla via da lui non faceva altro che aggravarlo.
Accanto alla piattaforma era comparso un sentiero fatto anch’esso di pietre colorate. Conduceva verso un’altra piattaforma, pieno di vetrate gotiche.
C’era sempre raffigurato lui, sulla piattaforma. Quella piattaforma era il suo cuore. E ciò che lo legavano alla Luce, nonostante fosse il figlio di una persona malvagia che aveva ceduto all’Oscurità.
Notò un’altra sagoma familiare a lui.
-Jazy?!-
Jasmine. Così la chiamava, quando era piccolo.
La sua migliore amica dell’infanzia. Per lui come una sorella maggiore. Lei era sempre premurosa con lui. Esattamente come lui era premuroso con i suoi amici.
Come sua madre poco prima, anche lei lo stava osservando con sguardo dolce, ma assente.
-Cosa è più importante per te?- domandò.
Lui non indugiò sulla risposta.
-I miei amici.-
Doveva salire sull’ultima piattaforma. L’ultima domanda.
Vide un bambino. Lo stesso bambino che notava nelle sue fughe dal Palazzo Reale che riusciva a rubare della frutta dai banchi senza farsi vedere. Lo ammirava. Per lui era il simbolo della libertà. Senza regole, senza restrizioni, senza obblighi. Eri padrone di te stesso.
Yen Sid gli aveva rivelato che il suo nome era Aladdin. Sora, l’Eroe del Keyblade, lo aveva aiutato più di una volta contro gli Heartless, contro Jafar e salvare Jasmine. Anche lui era grato a Sora.
Ma Jay lo ricordava ancora bambino. Aladdin, Jasmine, sua madre, li aveva visti esattamente come li ricordava.
-Cosa ti aspetti dalla vita?- gli domandò Aladdin bambino.
Molte cose, avrebbe risposto Jay. Ma una risposta ce l’aveva.
-Essere una persona migliore di mio padre. E tornare, anche per un giorno, ad Agrabah.-
Aladdin scomparve. E una porta apparve al suo posto. Ma di fronte a Jay era apparso anche un oggetto etereo, quasi trasparente: una frusta.
“Sei a metà del tuo viaggio, Jay…” disse una voce, nella sua mente “Il viaggio che hai deciso di percorrere per vendicarti di tuo padre per la sorte subita da te e tua madre. La vendetta conduce all’Oscurità.”
-Lo so, ma non posso permettere che lui agisca impunemente per quello che ha fatto!-
“Un’altra persona ha compiuto giustizia al tuo posto. Ma lui ancora non è stato eliminato del tutto. Se le vostre strade si rincroceranno, dovrai compiere una scelta.”
-Una scelta?-
La voce tacque.
-Andata…- sospirò il ragazzo.
Notò la porta.
-Beh, tanto vale buttarsi…-
La aprì, restando accecato da una luce brillante.
La prima prova del Tuffo era superata. Doveva affrontare l’ultima. La più ardua.
Jay riaprì gli occhi: si trovava in un ampio salone. Pieno di tappeti ed arazzi. E statue dorate.
Ed un trono in mezzo.
-Sono a casa?- si stupì.
Era nel Palazzo Reale di Agrabah. Era nel suo mondo d’origine.
Quel luogo gli fece ritornare in mente i momenti che passava in compagnia di Jasmine: il sultano permetteva ad entrambi di giocare nella sala del trono. Il sultano era sempre stato buono con Jay. Lo trattava come un figlio. E Jay aveva sempre ammirato il sultano.
Toccò una colonna: amava ancora il liscio del marmo. Fu una sensazione quasi nostalgica, collegata a quando giocava a nascondino con Jasmine.
Non aveva toccato quelle pareti di marmo da quasi dieci anni.
Rise, ma versò anche qualche lacrima di nostalgia.
Gli mancava Agrabah. Non avrebbe mai pensato che gli mancasse la sua vecchia vita. Amava la vita che conduceva ad Auradon e non gli dispiaceva quella attuale, ma aveva come sotterrato il suo cuore ad Agrabah. Era il suo mondo d’origine, dopotutto. Erano solo suo padre Jafar, quel chiacchierone di Jago e la costrizione all’interno del palazzo le uniche macchie nella sua vita. Ma Jasmine, il sultano, sua madre, erano le sue luci che occultavano quelle macchie.
-Ti mancava, non è vero?-
Quella voce lo fece sussultare e distogliere dai suoi pensieri del passato.
Nello stesso punto in cui era solita apparire Jasmine, ogni volta che giocavano a nascondino, apparve un ragazzo vestito di nero ed un turbante piumato sulla testa.
In mano, aveva un bastone a forma di serpente.
Ma non era suo padre a tenerlo. Era lui stesso.
Aveva visto se stesso, negli stessi abiti del padre.
Anche l’altro se stesso stava sfiorando il marmo con le dita delle mani.
-E dire che, se il precedente sultano nostro nonno avesse riconosciuto nostro padre come suo figlio, tutto questo poteva essere nostro…- sibilò l’altro Jay, con voce maliziosa, esattamente come suo padre Jafar –Anzi, se non ti avesse esiliato, avrebbe convinto il sultano a sposare Jazy con noi e divenire sultani a nostra volta.-
Aveva visto anche questa realtà, nella sfera del Castello dell’Oblio. Una realtà in cui lui si era sposato con Jasmine, ma Jafar era comunque riuscito ad uccidere il suo stesso figlio, la nuora ed il consuocero per governare su Agrabah.
Se Xehanort non gli avesse proposto un piano per ottenere quel tipo di potere che tanto ambiva.
Jay arretrò, sospetto. Quel ragazzo aveva il suo stesso volto, ma non poteva essere lui.
-Chi sei tu…?-
-Come chi sono? Io sono te.- fece un giro su se stesso, per pavoneggiarsi di fronte al vero Jay –Non mi dona la mia mise da sultano? Forse è un po’ larga, ma almeno sono libero di muovermi come voglio. Niente da dire sul tuo completo, comunque. Solo… non è idoneo per un legittimo sultano.-
-E chi ti dice che sia il legittimo sultano di Agrabah?- ribatté il vero Jay –L’uomo che chiamavo padre era un figlio bastardo. E i bastardi non devono governare Agrabah. E anche io sono un bastardo, dopotutto. No, le cose vanno bene così come sono.-
L’altro strizzò lievemente gli occhi, serio.
-Jay, da quanto non metti piede ad Agrabah? Dieci anni?- sibilò, avvicinandosi a lui –Su cosa ti basi per dire queste cose? Sulle parole di uno stregone? Cosa ti fa credere che le cose stiano bene, ad Agrabah? Guarda qui fuori.-
Si erano affacciati dal grande balcone. Jay e Jasmine giocavano sempre lì, quando il sultano riceveva diplomatici o sudditi, o, altrimenti, chiamava la madre di Jay e faceva accompagnare i bambini nella stanza della principessa.
Dieci anni prima, Jay vedeva sempre un’Agrabah fiorente, in pace.
Ma, in quel momento, vide un’Agrabah completamente in rovina, vuota, come se fosse scoppiata una guerra interna.
-La nostra “sorella” Jazy sta per sposare un tizio a cui non importa divenire sultano. Uno cresciuto dalla strada, oltretutto!- rivelò l’altro Jay, indicando la città –Lui non ama le prigioni. Vuole essere libero! Ma credi che nostra sorella glielo permetta? O il sultano? Lo costringeranno a seguire regole che non rispetterà. La sua responsabilità sarà tale da farlo cadere nel dubbio e nell’oppressione. Sarà completamente incapace di governare Agrabah, a tal punto da farla insorgere dall’interno. Questa che vedi, è un’Agrabah governata dall’uomo che ha eliminato nostro padre! L’eroe della città! Uno straccione, un topo di strada! Se fosse nelle nostre mani…-
-…potrebbe persino essere peggio…- concluse Jay, sgomento da quello spettacolo; guardò l’altro, un misto tra rabbia e paura –No, non credo a quello che dici. La città che vedo di fronte… può essere solo come poteva diventare se Aladdin e Sora non avessero fermato mio padre. Aladdin non è incapace, lo so.-
-Oh…- aveva usato un tono da falso innocente –Dici così solo perché ha aiutato un Eroe del Keyblade contro un malvagio?- strinse sempre più la presa sul bastone -Svegliati, Jay. Combattere un male non ti rende automaticamente degno di governare un’intera città.-
-E nemmeno disporre di un potere distruttivo, come quello di nostro padre.- Jay si era fatto sempre più cupo.
-Chi ha il potere, comanda. È la prima regola.-
-Ma non ti rende un buon sovrano.-
-Bisogna anche avere sangue reale.- si era avvicinato a quello vero, mettendo una mano sulla sua spalla -Ed è quello che abbiamo anche noi, Jay. Nostro nonno era un sultano. E noi siamo suoi nipoti. La città è nostra di diritto.-
Gli aveva persino indicato l’anello che portava al dito: l’anello di Jafar. Entrambi i Jay lo avevano.
Per uno segno di orgoglio e diritto di regnare su Agrabah, per l’altro solo come monito per adempiere la sua vendetta e per ricordarsi del suo mondo d’origine.
-No, il diritto spetta a Jasmine.- disse quello vero, distogliendo lo sguardo dall’anello -Io non sono ambizioso come mio padre. Non saprei nemmeno da dove cominciare. No, è meglio così. Jasmine sarà una regina migliore di me. E con Aladdin al suo fianco la città non può fare altro che prosperare. Lo so perché lo sento. E lo sai anche tu.-
La stretta sul bastone si faceva sempre più forte. Come lo sguardo dell’altro Jay sempre più deluso.
-Tu ancora resisti!- esclamò, battendo quel bastone per terra; si scatenò un’onda d’urto che fece cadere quello vero –Avrai quello che ti spetta, Jay!- sibilò, avvicinandosi a lui -E lo vorrai a tutti i costi, che ti piaccia o no!- agguantò quello vero e gli mise il bastone a pochi centimetri dagli occhi; gli occhi del bastone si erano illuminati di rosso, con delle spirali bianche. Erano magnetiche. Il vero Jay avvertì la tentazione di osservarli senza sbattere le palpebre.
-Tornerai ad Agrabah e rivendicherai il tuo posto al trono.- sibilò l’altro Jay; quella voce entrò nella testa del vero.
-Tornerò ad Agrabah…- ripeté, con voce atona e piatta -…e… rivendicherò…-
Non poteva finire la frase: sarebbe stato alla mercé di se stesso.
Ma quello era il suo cuore. E quella non era la vera Agrabah. Ogni giorno temeva cosa sarebbe capitato alla sua città, con il potere che suo padre aveva ottenuto dall’uomo chiamato Xehanort.
Quella città era solo il riflesso dei suoi timori.
Lo aveva compreso dal primo momento in cui l’aveva notata. Yen Sid, giorni prima, gli aveva mostrato Agrabah, su sua richiesta. Aveva visto Jasmine, Aladdin, il sultano, persino il Genio amico di Aladdin. Erano sereni. E la città era tutt’altro che in rovina.
Con quel pensiero in testa, Jay riuscì a chiudere gli occhi ed a spezzare l’incantesimo del bastone.
-No!- esclamò, dando un calcio all’altro e toccando la sua mano.
L’altro Jay scattò all’indietro, urlando di dolore: la sua mano era ustionata, a causa di un incantesimo di fuoco di quello vero.
-Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida…- Jay aveva raccolto il bastone a serpente –Ora ho capito cosa intendeva il mio maestro. Ho visto la vera Agrabah. È in pace. E Jasmine… non l’ho mai vista così felice in tutta la sua vita. Ho tenuto quella visione nel cuore. Ed è stato il mio cuore a dirmi che quello che ho visto era vero. Niente che abbia a che vedere con la tua illusione! O la tua maledetta magia!-
Aveva alzato il bastone per aria, con lo scopo di distruggerlo. L’altro stava implorando con lo sguardo di non farlo.
Ma il bastone si era completamente illuminato: questo fermò il vero Jay.
Stava mutando forma: la coda si stava incrociando con il suo polso, formando un’elsa ed un’impugnatura. E la testa del serpente si era fatta leggermente più grande ed aveva aperto la bocca, mostrando le zanne.
Un Keyblade.
Il suo Keyblade.
Aveva superato un’altra prova.
Questo fece infuriare l’altro Jay.
-Credi che questo inconveniente mi fermi, Jay?!- esclamò, deluso –Hai dimenticato che io sono te?! E se tu hai dei poteri, li ho anche io! Ma io sono più potente di te!-
I suoi occhi erano diventati gialli e le pupille si erano strette verticalmente. E mentre parlava, una lingua strana era uscita dalla sua bocca, una lingua biforcuta.
Stava diventando più grande e la sua pelle era sempre più squamosa.
Jay arretrò di un passo, terrorizzato: l’altro Jay si era trasformato in un cobra gigante. Come aveva fatto lui stesso contro il ragazzo di nome Axel, nella sua avventura nel Castello dell’Oblio.
Lì aveva scoperto di detenere i poteri del fuoco.
Ma in quel momento stava per affrontare se stesso in forma di cobra gigante.
-Andiamo, Jay!- si disse, per darsi forza e coraggio –Puoi farlo anche tu! Lo hai fatto una volta e lo puoi fare di nuovo!-
Cercò di concentrarsi, pensando ai sentimenti che aveva provato quel giorno. Alla rabbia, in particolare. Non ci riusciva. La paura di se stesso lo stava deconcentrando.
Jay-cobra si era avvicinato a quello vero con uno scatto, e, con lo stesso movimento, sferrò un attacco di fauci.
Il vero Jay saltò all’indietro, evitando l’attacco.
Non era la prima volta che impugnava una spada: sperò che l’addestramento con la spada, ad Auradon, desse i suoi frutti. Ma quel Keyblade era pesante. Più della spada cui era abituato.
Ma non doveva mostrare la sua difficoltà o l’altro se stesso avrebbe vinto.
Jay scappava, evitando ogni attacco del cobra. Non gli lasciava occasione per contrattaccare.
L’ultimo attacco dell’altro se stesso danneggiò persino una colonna: i suoi denti erano ancora integri.
Ma Jay ancora non riusciva a colpirlo con il Keyblade.
“È troppo veloce.” pensò, nascondendosi dietro una colonna; essa non fu un ostacolo per il cobra, che la distrusse; Jay dovette eseguire una capriola per non rimanere schiacciato dai detriti “E i suoi denti possono persino perforare il marmo. Cosa faccio?”
Nascondersi si era rivelato inutile: ogni ostacolo o nascondiglio veniva abbattuto. La sala del trono era piena di detriti ed arredamenti distrutti.
Jay non aveva più alcun posto in cui nascondersi.
-Io sono te, stupido!- esclamò il cobra, sicuro –Conosco i tuoi modi di agire e anche i tuoi punti deboli! Non puoi sconfiggermi!-
Jay si sentiva con le spalle al muro. Non poteva contrattaccare. E non c’erano più nascondigli. L’altro se stesso gli aveva inibito i suoi punti forti.
Ma aveva detto una cosa giusta: erano la stessa persona. Stesse debolezze, stessi punti di forza.
Jay doveva fare qualcosa che non era solito fare: cercare una strategia. Era Mal la stratega. Doveva prenderla ad esempio e sperare di affrontare se stesso.
Schivando l’ennesimo colpo di coda, trovò una probabile via d’uscita: un arazzo, rovinato dalle zanne del cobra. E si trovava proprio sotto di esso.
Fece una capriola di lato e lanciò il Keyblade.
Il cobra rise.
-Non sei bravo nei combattimenti a distanza, Jay! Mi hai mancato in pieno!-
Ma non era al cobra che Jay aveva mirato: le corde dell’arazzo si erano tagliate con il Keyblade, ed esso cadde sul cobra, accecandolo.
-Ahh! Maledetto! Maledetto!- imprecò, scuotendo la testa –Dove sei?!-
Jay rise: era uno spettacolo buffo da vedere.
-Ora non fai più il gradasso, eh, ragazzone?- derise; puntò il cobra con il Keyblade –Se giochi col fuoco, ti scotti e basta.-
Inaspettatamente, dalla bocca del serpente-Keyblade uscì una potente fiamma, che colpì l’arazzo. Di conseguenza, ferì Jay-cobra, che urlò.
Quello vero fece dei passi indietro, allarmato, ma anche sorpreso dal suo potere.
-Caspita!- commentò, osservando il suo Keyblade –Che fiammata, gente. Questo potenzia il mio potere! Forte!-
Il cobra si stava ancora dimenando per togliersi dal muso l’arazzo in fiamme. Alla fine, riuscì a liberarsi.
L’arazzo ancora in fiamme cadde per terra. Lasciò dei chiari segni di ustione sul muso del cobra.
-Guarda cosa mi hai fatto, maledetto!- esclamò, aprendo le fauci, diretto al vero.
Lui saltò lateralmente e colpì la testa con il Keyblade, puntando ad un occhio.
Il cobra urlò di nuovo: il sangue scendeva dal globo oculare.
Qualche goccia cadde anche su Jay: deteriorò una parte della sua tenuta da allenamento, toccando anche la pelle. Bruciava, come acido solforico.
Scorreva letteralmente del fuoco nelle sue vene.
Ma era ustionato e mezzo cieco. Era indebolito. Il ragazzo sentiva la vittoria in pugno.
Avrebbe superato la prova.
Era diretto dall’altra parte della testa, per colpire l’altro occhio, ma un rapido colpo di coda lo bloccò.
Jay si ritrovò tra le spire di quel cobra gigante.
Era l’altro che stava ridendo, in quel momento.
-Davvero credevi di sconfiggermi in questo modo, Jay?!- sibilò, con tono derisorio –Io sono più forte di te! Sono la parte di te che non stai accettando! Una parte che può renderti più forte! Non ti serve un Keyblade per proteggere i tuoi amici! Basta il tuo potere! Devi solo accettarmi e cedere all’Oscurità! Come nostro padre!-
Come suo padre. Aveva ucciso la concubina ed esiliato il figlio per il potere. Jay non avrebbe mai ripetuto il suo errore: non avrebbe mai messo il potere prima delle persone che amava. Voleva, piuttosto, usare il potere per difendere coloro che amava.
Era per questo che si era tenuto l’anello: per ricordarsi cosa contava di più per lui. Per non ripetere gli errori del padre.
-Io… sono…- rantolò, soffocato dalle spire; si stava dimenando, per liberarsi -Molto meglio… di te… e… di Jafar!-
Si erano elevate delle fiamme intorno a lui, che ustionarono quel lato del cobra, che urlò di nuovo di dolore.
Jay si era finalmente liberato. Corse verso il trono.
-Come osi?!- protestò il cobra, inseguendolo.
Cercò nuovamente di colpirlo con un altro attacco con le fauci, ma batté la testa contro il muro: Jay si era schivato in tempo.
Dei calcinacci caddero sulla testa dell’altro Jay. Ma la rabbia non gli fecero provare dolore.
Il vero Jay osservò l’altro se. Poi osservò il soffitto: c’erano delle crepe, dovute alle continue testate del cobra.
Bastava poco.
Tutto sarebbe crollato.
Jay serrò le labbra: doveva tentare.
Attese un altro attacco dal cobra.
Schivò con un salto un colpo di coda. Puntò il Keyblade in alto: una sfera di fuoco colpì il soffitto.
Le crepe si unirono tutte.
Anche l’altro Jay, in procinto di deridere nuovamente la mira del vero, guardò in alto.
Il vero obiettivo di quello vero.
-No!- urlò, prima che un grosso pezzo di calcinaccio cadesse sulla sua testa, schiacciandola.
Sconfitto.
Jay rise, per scaricare l’adrenalina.
Sentì una sensazione di leggerezza nel suo cuore. Non sapeva spiegarsi perché.
Ma il suo sorriso svanì quasi subito: il palazzo stava crollando.
Jay avrebbe fatto la fine dell’altro se stesso, se fosse rimasto lì: corse verso il balcone, per sfuggire ai calcinacci.
Ma anche il balcone era pieno di crepe. Si stava sbriciolando.
Non poteva scappare. Non c’era via d’uscita.
Cadde insieme al balcone. In mezzo ai calcinacci.
Temette fosse la sua fine.
Ma Agrabah era svanita non appena era caduto nel vuoto. Era tornato nel buio.
Era un’illusione.
Quella era la sua prova. E l’aveva superata.
Aveva affrontato la sua rabbia e la sua brama di vendetta.
Sconfiggendo se stesso era come aver sconfitto suo padre.
Questo spiegava quel senso di leggerezza nel suo petto…
 
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It's good to be bad
And we're proof of that
Used to be lost, now we're on the map

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Capitolo 8
*** Carlos' Story ***


Note dell'autrice: oh! Finalmente il mio Descendant preferito! ^-^ Preparatevi al colpo di scena. Qui ci sono altre citazioni a "Once Upon A Time"

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Carlos' Story



Il matrimonio tra due baroni inglesi era arrangiato, ma ciò non significava che non si rispettassero a vicenda. Il barone era un uomo buono e gentile, ma la baronessa era una narcisista, una cacciatrice di dote.
La figlia che nacque dalla loro unione, Adele, mostrò fin dall'infanzia segni di infermità mentale.
Quando la baronessa Madeline, maritata De Mon, scoprì il marito defunto di fronte al camino e la figlia di cinque anni che sorrideva maligna, decise di cambiare i suoi piani, rinunciando all'idea di mandare la figlia in un collegio. La morte per avvelenamento del barone venne addossata alla cameriera che gli aveva portato il tè della sera. Anche se avesse voluto, non avrebbe denunciato la figlia: non voleva macchiare la sua reputazione.
Madeline non rinunciò alla sua caccia di dote: nei successivi quindici anni, si era risposata altre due volte. Entrambi i mariti erano ricchi imprenditori, che potevano giovare alla reputazione della baronessa, come loro erano allettati all'idea di avere un titolo.
Tuttavia, entrambi i mariti vennero uccisi da Adele, nello stesso modo in cui aveva ucciso suo padre.
Ma per non destare sospetti, uno venne gettato in un dirupo con la sua macchina, dopo avergli fatto ingerire dell'alcool, per giustificare la guida in stato di ebbrezza, mentre l'altro venne sbranato dai dalmata della baronessa, facendola poi passare per legittima difesa a causa di aggressione da parte del marito.
Madeline, quindi, ne usciva sempre pulita, guadagnando i soldi e le attività dei mariti, grazie alla follia della figlia, che dall'omicidio del primo marito chiamava affettuosamente “Crudelia”. Per entrambe era come un gioco.
La sua reputazione non subì alcun ribasso. Continuava ad organizzare ricevimenti sontuosi e, grazie alla casa di moda “lasciatale” dal suo secondo marito, vestiva sempre in modo impeccabile, talvolta presentando i nuovi capi prima ancora delle sfilate. Anche Adele veniva sempre vestita in modo impeccabile. Ma ciò che richiedeva sempre erano le pellicce, o qualunque altro capo che avesse manto di animale. Da quando il suo primo patrigno le aveva regalato una pelliccia, non riusciva più a farne a meno. Amava come “abbracciassero” il suo gracile corpo. Era come avere un animale sempre a portata di mano, immortale.
Vedere madre e figlia insieme era uno spettacolo. Tutti gli invitati le coprivano di complimenti. Nessuno sospettava che fossero delle folli. Fu in uno di quei ricevimenti che Adele incontrò un uomo che le avrebbe cambiato la vita.
A prima vista, doveva avere una decina di anni in più di lei. Di aspetto non era una gran bellezza, ma c'era qualcosa in lui che attirava la giovane De Mon. Forse era la cicatrice che aveva sulla guancia sinistra. E aveva una benda sull'occhio destro, mentre l'altro era giallo.
Lui la fissava e lei si avvicinò, avvolgendosi nella sua stola di pelliccia di tigre siberiana che copriva solo una parte del suo vestito argentato. Anche l'abito dell'uomo era tendente al grigio, con una camicia nera sottostante.
-Vostra madre è favolosa, milady, ma voi lo siete di più.- iniziò, complimentandola.
-Un adulatore. La mammina non ne sarebbe contenta. Lei gli adulatori li vuole tutti per sé. Ma non è giusto che ammirino solo lei. Voglio dire, guardate che meraviglia questa stola, non trovate?-
-Tigre siberiana. Il suo manto è tra i più belli, è vero. E su di voi fa faville.- si inchinò, baciando la mano guantata di nero della giovane -Braig. Molto piacere, signorina De Mon.-
Braig aveva subito affascinato Adele.
La baronessa, come al solito, si guardava intorno, alla ricerca di un nuovo, facoltoso marito. Non pensava mai a sistemare la figlia. O avrebbe perduto il suo più prezioso mezzo per la sua caccia alla dote. Ogni tanto, però, le lanciava occhiate sfuggenti, notando subito l'uomo a cui si era avvicinata. Pensò subito che volesse fare lei da cupido, perciò non reagì o intervenne.
Ma Adele non presentò Braig alla madre: erano rimasti insieme tutta la sera, a parlare, bere champagne, anche a ballare.
-Adele, io conosco il tuo segreto.- le sussurrò Braig, all'orecchio -So che ci sei tu dietro agli assassini di tuo padre e dei tuoi patrigni.-
Era impossibile, pensò la giovane. Sua madre aveva cancellato ogni traccia di quei delitti. Era forse un detective con l'intenzione di ricattare la baronessa?
-Ma non temere. Io non dirò niente. E non voglio niente. Sono qui per un'offerta.-
-Che tipo di offerta?-
-Prima rispondi alla domanda: perché hai ucciso tuo padre?-
-Non lo so. Il solo pensiero sembrava divertente. E l'ho fatto.-
Era una folle. Ma questo non spaventò Braig.
-La cara mammina poi mi ha chiesto di fare la stessa cosa con gli altri due mariti. E' praticamente un gioco tra noi. Io uccido e lei mente alla polizia.-
Folle e nessuna capacità di giudizio.
-Un gioco pericoloso.- commentò Braig, quasi indifferente -E se ti proponessi io, un bel gioco?-
-Sono tutta orecchie.-
-Che ne pensi di ripetere questo gioco direttamente su tua madre?-
La baronessa trattava la figlia come uno dei suoi cani dalmata. Ai suoi occhi, tutti erano formiche. Adulava la figlia senza, però, amarla, perché era una sua creazione.
-Per forza è favolosa, è mia.- diceva a tutti coloro che si complimentavano con l'aspetto di Adele.
Gli occhi della giovane brillarono.
-Di conseguenza, se lei muore, tutto quello che ha diventa tuo. O nostro, se lo desideri.-
-Mi piace questo gioco. Hai un piano?-
Fu un gioco di sussurri, quello tra Adele e Braig, due menti egualmente folli.
Quel piano doveva essere effettuato quella sera stessa.
Per prima fase, gli ospiti dovevano congedarsi. Braig sarebbe rimasto nascosto da una parte fino al momento giusto.
Adele si offrì volontaria per portare i cani nelle loro cucce, al posto dei servi. Ma, invece, li portò da Braig.
-Guarda cosa posso fare.-
Agitò le dita delle mani con movimenti lenti e fluidi, quasi ipnotizzatori. Una nebbiolina oscura partì da quelle dita, circondando, per un breve tempo, i due cani.
-Ora sono sotto il tuo controllo. Puoi ordinare loro quello che vuoi, adesso. Non ascolteranno più i comandi di tua madre.-
-E poi posso farci quello che voglio?-
-Tutto quello che vuoi. Tanto, tutto sarà tuo, mia cara.-
-Oh, quanto ho desiderato una pelliccia con il loro manto...-
La baronessa, quella notte, sotto lo sguardo soddisfatto della figlia Adele, venne aggredita dai suoi cani, che la spinsero dalla finestra della sua stanza. La caduta risultò fatale.
Per legge, i due dalmata vennero soppressi il giorno seguente, proprio quando venne ritrovato il corpo della baronessa, segnalato da Adele stessa.
Lei stessa non ci pensò due volte a squoiare i due cani e fare la pelliccia che tanto desiderava.
Festeggiò l'eredità lasciatale dalla madre con il suo complice Braig, un'anima affine alla sua. La notte, e la dimora erano tutte per loro.
Tuttavia, al suo risveglio, era da sola. Braig era sparito. Niente biglietti.
Era stata abbandonata. E questo causò la sua ira.
Qualcosa cambiò, da quel giorno: i suoi capelli, per magia, cambiarono colore, solo da una parte. Erano sempre stati biondi chiari. Ma l'Oscurità acquisita per tutto quel tempo e la delusione di essere stata abbandonata dall'uomo che le era stato complice nell'assassinio di sua madre Madeline, li aveva ormai colorati di nero, sebbene solo dalla parte destra. E non solo: decise di abbandonare il nome di battesimo, Adele, per adottare definitivamente il nome che la descriveva per quello che era: Crudelia.
Un mese dopo, scoprì di essere incinta.
E dopo nove mesi, diede alla luce un maschio, Carlos. Non lo abbandonò, anzi: decise di tenerlo, come strumento di vendetta contro Braig.
Il bambino era uguale al padre. Aveva solo i capelli della madre.
Crudelia non lo aveva mai amato: Carlos, infatti, rappresentava il male che le aveva fatto Braig.
Nei primi anni della sua vita, lo aveva affidato ad una comunità gestita da suore, con la promessa di riprenderlo non appena compiuti gli otto anni.
Non voleva vederlo crescere. Non voleva affezionarsi a lui. Era solo uno strumento, ai suoi occhi.
Carlos crebbe nella rigidità delle suore, ma aveva stretto amicizia con gli altri bambini. Insieme, passavano il tempo ad immaginare che volto avrebbero avuto i loro nuovi genitori, le loro case, e immaginavano le cose più assurde, come un padre milionario, la madre una stella della musica, la casa fatta di gelatina di frutta ed altre cose.
Poi, in effetti, era arrivato qualcuno per Carlos: una donna scheletrica, dai capelli bicolori, neri e bianchi, e una pelliccia che l’avrebbe riempita tredici volte tanto. Era davvero orrenda.
Non volle credere che fosse la sua vera madre.
Aveva urlato e pianto, implorando le suore di non lasciarlo andare.
Ma Crudelia era la sua vera madre. Ed aveva pagato una cospicua cifra per la sua permanenza: un milione di sterline per l’orfanatrofio, se le avessero ceduto il figlio dopo l’ottavo anno di età.
Carlos aveva sempre pensato, come il resto dei bambini, che i suoi genitori lo avessero lasciato lì perché non potevano permettersi di prendersi cura di lui, economicamente, soprattutto.
Ma dopo aver visto la casa della madre, dovette ricredersi: Crudelia era un’ereditiera. Alla morte della madre, la casa, il denaro e tutte le attività dei De Mon erano passati a lei.
Carlos non immaginava di essere ricco.
Pensava di vestire ogni giorno abiti nuovi e sontuosi: abiti nuovi ne indossava ogni giorno, ma non da vero ereditiero. Crudelia non vedeva e trattava suo figlio come tale: era più un suo servo.
Doveva lavarle i vestiti, farle la tinta, sprimacciare le pellicce e tagliarle le unghie, oltre ad occuparsi delle faccende di casa.
Per questo Crudelia aveva licenziato la servitù: aveva il figlio, che poteva lavorare gratis.
Solo negli eventi mondani lo metteva in ghingheri e lo portava con sé. Ma solo per mostra.
Tutti gli aristocratici facevano i complimenti a quel bambino, sempre così pulito ed ordinato.
Carlos non parlava: annuiva e basta. Sua madre lo obbligava a tacere, o lo avrebbe messo in castigo in camera sua.
Se qualcuno chiedeva, Carlos era un autistico, incapace di parlare. Crudelia narrava sempre di averlo salvato dalle grinfie di un padre violento e sempre ubriaco che lo picchiava ogni giorno e lo aveva costretto al mutismo.
Solo lì Crudelia appariva gentile con il figlio. Ma appena tornati a casa, lo mandava subito nella sua stanza e gli ordinava di non uscire fino alla mattina seguente.
La follia della madre peggiorava di giorno in giorno: era ossessionata dalle pellicce, in particolare dalle pelli degli animali, soprattutto quelle dei cani. Era dalla sera in cui aveva creato pellicce con i manti dei cani dalmata della madre che ne era davvero ossessionata.
In quel periodo, aveva fatto conoscenza dei due ladri Orazio e Gaspare: avevano cercato di irrompere in casa sua, per rubare i preziosi. Carlos, sceso in cucina per un bicchiere d’acqua, si era accorto della loro presenza, e aveva urlato, per avvertire la madre. Ma la manona di Orazio gli aveva bloccato la bocca.
Ma Crudelia era scesa ugualmente.
-Indietro, signora, o il bambino qui rimane secco!- aveva minacciato l’altro, Gaspare, con una pistola puntata sulla tempia di Carlos.
Lei aveva fatto spallucce.
-Fate pure. Non è importante per me.- rivelò, indifferente; quella notte, Carlos comprese definitivamente i sentimenti della madre nei suoi confronti –Ma per voi quanto importa andare in prigione? Possiamo raggiungere un compromesso, se volete. Io non chiamerò la polizia, ma voi dovrete lavorare per me e io posso pagarvi bene. A patto, inoltre, di portare mio figlio con voi.-
L’offerta dei soldi fece gola ai due ladri. Venne loro concesso di dimorare nella vecchia villa di campagna dei De Mon.
Carlos non abitò più dalla madre. I due ladri erano divenuti i suoi nuovi tutori.
Gaspare ed Orazio usavano il bambino per distrarre la gente, mentre loro svaligiavano negozi e case, oppure per entrare in posti larghi abbastanza per far passare un bambino. Gli avevano insegnato come essere un ladro, scassinare le porte e borseggiare. Nessuno avrebbe mai sospettato di un bambino.
Sua madre gli aveva minacciato di diseredarlo e di buttarlo in mezzo alla strada, se si fosse rifiutato di stare con i due ladri.
Ma una notte nevosa, Carlos, Gaspare ed Orazio stavano tornando nella magione dopo una rapina in gioielleria ed in un canile, e qualcosa aveva attraversato la strada.
-Attenti! C’è un cane!- aveva urlato Carlos. Quell’urlo aveva fatto sobbalzare Gaspare, e fatto derapare l’auto. Orazio stava dormendo sul sedile passeggero, neppure la manovra lo aveva svegliato.
Non si ribaltarono, per fortuna.
-Sei pazzo, ragazzino?!- aveva esclamato Gaspare, come rimprovero –Ora chi la sente, tua madre?-
Ma Carlos era sceso lo stesso, scavalcando l’enorme corpo di Orazio. Questo lo aveva svegliato.
Si era avvicinato al bordo, dove aveva intravisto il cane.
-Vieni, bello, non ti faccio niente.- aveva detto, con voce dolce ed allungando una mano. All’orfanatrofio c’erano due gatti ed un cane. Sapeva già come trattarlo.
Vide due occhietti neri nell’ombra. E dei guaiti. Aveva paura. Doveva essere un cucciolo.
Fece qualche passo verso il piccolo umano. Gli annusò la mano. E poi la leccò. Si lasciò grattare sotto il muso e persino dietro le orecchie. Poi si era messo sulla schiena, lasciandosi grattare anche sulla pancia.
Carlos, per la prima volta dopo anni, sorrise.
Lo prese in braccio, ed il cane, un meticcio dal pelo color miele, non si oppose.
-Sì, tu vieni a casa con me. Ti chiamerò Rudy.-
Gaspare era alle sue spalle, costantemente in agguato.
Era ancora arrabbiato con il bambino; ma sorrise in modo strano appena vide il cane.
-Ah… ma guarda che bel cagnetto… Bravo, ragazzino. Lo metteremo con gli altri.- aveva allungato una mano, per carezzargli la testa con un dito. Ma Rudy gli aveva ringhiato. E Carlos gli aveva dato le spalle, per fare da scudo al cucciolo.
-Non toccarlo! È mio!- protestò.
-Come osi rivolgerti a noi così?!- brontolò l’uomo.
-Guarda che noi lo diciamo alla tua mamma!- aggiunse Orazio, puntandogli il dito contro.
Infatti, si erano diretti nella villa di Crudelia. Ella aveva riposto la sua attenzione sul cucciolo di meticcio.
Non le importava che cosa il figlio avesse detto ai due ladri.
-Ma guarda un po’ qua…- sibilò, fissando quel cucciolo spaventato con occhi bramosi –Bravo, figlio mio. Ancora qualche mese e sarà della misura perfetta per farne dei paraorecchie.-
Ma Carlos non era del suo stesso parere.
-È già perfetto, ma come amico!- esclamò; persino Orazio e Gaspare si stupirono di quel tono sfrontato –Sono stufo di rapire animali per le tue stupide pellicce, mamma! E anche essere il tuo bambolotto nelle feste con gli aristocratici! Quindi smettila!-
Crudelia aveva fissato il figlio con aria fredda. Poi gli aveva mollato uno schiaffo sulla guancia. Essendo magra e con le dita nodose, il colpo risultò persino più forte e doloroso di una mano tornita.
-Ingrato ragazzino viziato!- rimproverò lei –Ho fatto di tutto per te, ti ho dato da mangiare, hai avuto un tetto sulla testa ed è così che mi ringrazi?!-
Lo mise in castigo nella sua vecchia stanza, senza cena. Ma non gli rubò Rudy.
Il piano principale era fallito, a causa della presenza di Rudy. E sapeva che ormai Carlos non le avrebbe più obbedito.
-Sapete cosa fare.- ordinò a Gaspare ed Orazio.
Carlos, a causa dei morsi della fame, non riusciva a dormire. Persino Rudy stava guaendo dalla tristezza del padroncino.
Gaspare ed Orazio entrarono in camera sua. Il ragazzo non fece in tempo a reagire che la sua faccia venne coperta da un fazzoletto. Lo stesso fece Orazio con Rudy.
-Sei davvero un bambino ingrato!- rimproverò Gaspare -Tua madre ti ha liberato da uno squallido orfanatrofio! Come minimo, avresti dovuto darle quel cagnaccio come ringraziamento!-
Entrambi il cane ed il ragazzo erano stati addormentati. Così fu facile metterli entrambi in un sacco.
La macchina si fermò lontano dalla villa De Mon, precisamente sul ponte che sovrastava il Tamigi. Nessuno li avrebbe visti. Era notte, ed erano in aperta campagna.
-Arrivare ad uccidere il proprio figlio...- commentò Orazio, trasportando fuori il sacco con Carlos e Rudy -La signorina De Mon è proprio impazzita.-
-Non dirmi che ti sei affezionato a quel marmocchio.-
-No, ma era davvero utile a distrarre le guardie. Ora dovremo trovare un altro diversivo.-
-Mah, un altro colpo, e saremo finalmente sistemati. Non ci servirà più un marmocchio.-
-Hai detto così anche l'ultima volta.-
-Smettila di blaterare e finiamo questa seccatura.-
Carlos non era pesante, ma anche Gaspare contribuì a lanciare il sacco.
Se ne andarono non appena sentirono il suono di un oggetto caduto in acqua.
Ma l'oggetto non era il sacco, ma un sasso. I due ladri non si erano accorti di essere seguiti. Qualcuno, a quanto pare, non voleva vedere Carlos morto.
Era bastato uno schiocco di dita e il sacco, come per magia, era svanito nel nulla.
Il buio aveva giocato un ruolo a favore.
E Carlos e Rudy non si erano accorti di nulla. Nemmeno che qualcuno lo aveva appena liberati dal sacco.
-Mi dispiace non poter fare di più, figlio mio. Ma so che te la caverai. E un giorno ci rivedremo.-
Una mano guantata di nero toccò i capelli del ragazzo e nessuno poté vedere un uomo con una benda nera sull'occhio destro ed una cicatrice sulla guancia sinistra baciare la sua fronte.
Carlos sentì una sensazione strana, al tatto. Era sdraiato su qualcosa di duro, ruvido. La lingua di Rudy gli bagnò la punta del naso.
-Dove mi trovo...?-
Non era nella villa di campagna. E la strada e gli edifici circostanti non assomigliavano affatto a Londra.
Quando lesse qualcosa su un cartello impallidì: l'Isola degli Sperduti. Sua madre lo aveva abbandonato.
Era rimasto solo con Rudy.
Dovevano affidarsi l’uno all’altro, per sopravvivere. Carlos aveva trovato un rifugio dove ripararsi dalla pioggia, mentre Rudy rubava di nascosto dei viveri.
Tuttavia, un giorno, il cane aveva rubato del pane dalla tasca di un ragazzo. Questi se ne accorse subito, infatti si era lanciato al suo inseguimento.
Quello fu il primo incontro tra Jay e Carlos.
La storia e la condizione del secondo fecero provare compassione nel primo. Gli propose di seguirlo nel suo rifugio: Carlos fece la conoscenza anche di Evie.
Poco tempo dopo, anche Mal si unì al gruppo.
I quattro scoprirono di avere molte cose in comune; per questo divennero inseparabili.
Rudy aveva stretto amicizia anche con Mal, Evie e Jay. Era diventato anche il loro cane.
Con il decreto del futuro re Ben, Carlos ebbe l’opportunità di vivere ad Auradon.
Ivi poteva passeggiare tranquillamente con Rudy senza il rischio di essere aggredito o inseguito.
Anzi, ebbe persino l’occasione di frequentare dei corsi di addestramento dei cani. Essendo stati compagni di furti nell’Isola degli Sperduti, avevano già instaurato un legame.
Fu questione di poco tempo che Carlos e Rudy primeggiassero nelle gare cinofile, soprattutto gli ostacoli.
Grazie a queste opportunità che avevano ottenuto su Auradon, nessuno dei quattro ragazzi volle seguire l’ordine di rubare la bacchetta della Fata Smemorina per conto di Malefica.
Successivamente l’incursione di Malefica e Pietro nel mondo di Auradon, con lo scopo di conquistarlo e sommergerlo dall’Oscurità, un altro evento avvenne. Un evento che cambiò per sempre la vita di Carlos: l’incontro con suo padre.
Era avvenuto quasi per caso. Carlos, come ogni mattina, stava passeggiando con Rudy per il cortile della scuola, quando notò un uomo dai capelli grigi, una benda sull’occhio e un curioso cappotto nero.
Carlos avrebbe dovuto avvertire i sorveglianti per la presenza di un intruso, ma l’uomo era riuscito a calmarlo.
-Tu sei il figlio di Crudelia De Mon?-
-E tu come fai a saperlo?-
-Io sono tuo padre.-
L’uomo si era presentato come Xigbar.
Carlos non volle credere alle parole di quello sconosciuto. Ma egli gli aveva mostrato un tovagliolo di carta, con una dedica ed un segno di un bacio fatto con il rossetto.
“Al mio salvatore”
Carlos riconobbe la calligrafia della madre.
Crudelia non aveva mai parlato al figlio del padre: anzi, evitava ogni domanda del figlio al riguardo.
Osservandolo bene, Carlos notò delle somiglianze con se stesso. Aveva sempre pensato di essere stato adottato dalla madre. Aveva ereditato soprattutto i lineamenti del padre.
Non furono rare, da quel giorno, le visite di Xigbar al figlio, persino dopo Uma ed Audrey. Passava a trovarlo ogni volta che finiva una missione di ricognizione dei mondi. E si erano promessi di passare un’intera giornata insieme, ogni volta che Xigbar avrebbe avuto il giorno libero.
A volte gli permetteva persino di unirsi a lui nelle missioni di ricognizione. Ma per tutti i giorni in cui portava il figlio nei mondi esterni, Xigbar aveva in mano un altro cappotto nero, della misura del ragazzo: viaggiavano per i mondi attraverso i Portali Oscuri. Senza una protezione, aveva spiegato l’uomo, si rischiava di essere divorati dall’Oscurità e divenire Heartless.
Riuscivano persino ad incontrarsi all’insaputa degli amici di Carlos, di Jane e di Rudy, che, da quando aveva iniziato a parlare per colpa di un incantesimo di Mal, non riusciva a fare a meno di fare la spia. Avrebbe riferito alla Fata Smemorina dell’incursione di uno dell’OrganizzazioneXIII ad Auradon. Xigbar sarebbe stato messo in prigione e questo Carlos non poteva permetterlo.
Amava i momenti che trascorreva con il padre. Amava le avventure che viveva con lui. Amava la sua compagnia. Parlando, si era reso conto di avere molte cose in comune con lui. Si sentiva se stesso. Libero. Non aveva trovato solo un padre, ma un amico. Cosa che non aveva mai trovato con la madre Crudelia.
Anche Xigbar scoprì di starsi affezionando al figlio. Essendo Nessuno, un essere senza cuore, non doveva provare emozioni. Ma lui un cuore lo aveva, sebbene fosse solo una proiezione di quello vero. E quello che provava per il figlio era vero.
Ciò che inquietava sempre questi, però, era sempre l’occhio giallo del padre.
Xigbar gli aveva raccontato la storia al riguardo, e che, un tempo, aveva gli occhi marroni, esattamente come i suoi.
Secondo la Fata Smemorina, una persona che si avvicinava troppo all’Oscurità ne portava i segni partendo dagli occhi: gli occhi sono lo specchio dell’anima, come affermavano scrittori del passato. E quegli scritti erano fondati.
Carlos non poteva credere che suo padre si fosse avvicinato all’Oscurità. Ma aveva visto del buono, in lui.
Qualunque maleficio, sempre secondo la Fata Smemorina, poteva essere spezzato con un atto di vero amore. Come aveva dimostrato il bacio di Mal con Ben, vanificando l’incantesimo su di lui lanciato da Uma.
Ma l’amore non è solo quello romantico. Anche l’affetto tra i membri di una famiglia è amore, poiché coinvolge un legame tra due o più persone.
Poteva essere un abbraccio, un bacio, una carezza.
A Carlos era bastato un abbraccio, per cambiare qualcosa di suo padre: il suo occhio si stava sfumando, divenendo quasi marrone.
-Abbracciami di nuovo, papà!- aveva esultato Carlos –Qualunque maleficio può essere spezzato da un atto di vero amore!-
Xigbar non eseguì il desiderio del figlio. Anzi. Furioso, lo aveva spinto in avanti. L’occhio era tornato giallo.
-No! È un trucco di tua madre, vero?- insinuò, deluso –Per farmi rammollire, farmi affezionare a te, e poi usarti come ostaggio per cercare di manovrarmi, per soddisfare il suo desiderio di vendetta, non è così?-
Il piano di Crudelia era quello, in effetti. Ma il gesto di Carlos non dipendeva dalla madre: era partito dal suo cuore. Voleva davvero liberare il padre dall’Oscurità.
-Mi hai deluso, figliolo. Addio.-
Tali erano state le sue parole. Amarezza, mescolata a delusione.
Doveva essere un momento lieto, per Carlos. Ma il suo cuore, da quel giorno, conobbe di nuovo la tristezza e la solitudine.
Evitava i suoi amici, per non farli preoccupare. Quando era in loro compagnia, invece, esibiva sorrisi forzati.
Avevano intuito che qualcosa torturava Carlos.
La sua tristezza lo avrebbe condotto nell’Oscurità.
Fu allora che, nello stesso luogo in cui aveva incontrato suo padre per la prima volta, notò nuovamente una sagoma incappucciata.
-Papà?-
Non era suo padre: era un giovane dalla pelle scura, capelli grigi. Occhi rossi.
Il suo nome era Xemnas. Audrey aveva già parlato di lui: era lo stesso uomo che l’aveva spinta a cedere all’Oscurità, divenendo la Regina del Male.
-Vuoi rivedere tuo padre, non è così?-
La tentazione di chiamare le guardie era forte. Ma più forte era il desiderio di ricongiungersi col padre Xigbar. L’unico ostacolo che lo separava da lui era sua madre Crudelia.
Tolta di mezzo, suo padre non avrebbe dovuto temere di essere vittima di una congiura.
Esattamente come con Audrey, Xemnas aveva corrotto Carlos.
Lo fece tornare nel suo mondo, con Rudy, corrotto anche lui, per evitare che desse l’allarme a tutta Auradon.
Crudelia era appena uscita dal manicomio per il suo secondo tentativo di rapimento e scuoiamento dei 99 cuccioli di dalmata ed era rientrata a casa. Quella sera mancava la luce, e, all’esterno, imperversava un temporale.
Tra la luce dei lampi notò con sorpresa il figlio.
Lo trovò cambiato: freddo, minaccioso. Come il cane che avanzava minaccioso verso di lei.
-In questi anni ho addestrato Rudy e gli ho insegnato diversi comandi.- sibilò il ragazzo, con sguardo malefico, come quello di Xigbar -Questo è quello più recente. Uccidi.-
Il giorno seguente, la polizia trovò un cadavere all’interno della casa dei De Mon, una donna scheletrica, con dei segni di morsi di cane sulla giugulare.
Xemnas, Carlos e Rudy erano tornati appena in tempo ad Auradon, prima di essere scoperti.
Carlos fu distolto dalla sua “ipnosi”. Ma sapeva quello che aveva fatto.
-Bene, mia madre è morta. Ora riportami da mio padre!- ordinò Carlos.
La risposta che diede il giovane gelò letteralmente il sangue nelle sue vene.
-E davvero credi che ti riporterò da tuo padre nelle tue condizioni?- fece, con sguardo altezzoso –Hai ucciso tua madre, Carlos. Hai compiuto un atto oscuro. Guarda il tuo cuore.- gli aveva affondato la mano nel petto, ed estratto qualcosa: il suo cuore; notò una grande macchia nera al centro –Con questo gesto hai macchiato il tuo cuore di Oscurità. Tuo padre ti amava perché eri ancora un essere puro. Come credi ti guarderà, sapendo che ora il tuo cuore è oscuro come il suo?-
Carlos era stato ingannato. Ciò provocò ira, nel suo cuore. Altra Oscurità.
-Mi hai ingannato!-
-Fammi capire… tu mi implori di farti rivedere tuo padre, hai ucciso tua madre di tua spontanea volontà e poi te la prendi con me?-
Non era stato Xemnas a manovrarlo contro sua madre: era davvero un desiderio di Carlos, per rancore e vendetta della vita che era stato costretto a vivere.
L’Oscurità di Jane, Uma ed Audrey messe insieme non bastavano per far cadere Auradon nell’Oscurità: fu quella di Carlos la sua rovina, causata dal matricidio.
Il cielo si era fatto scuro, ed una sfera enorme aveva preso il posto del sole: stava risucchiando tutto ciò che esisteva ad Auradon.
Con quella sfera erano apparsi gli Heartless, i quali, uno ad uno, rubarono i cuori degli abitanti. Anche di quelli dell’Isola degli Sperduti.
Carlos vide i suoi amici cadere per colpa degli Heartless. E Rudy si era sacrificato per lui, saltando su uno Shadow apparso alla finestra della sua stanza. Non era sopravvissuto alla caduta.
Rivide suo padre, per l’ultima volta: Xigbar era venuto a conoscenza dell’orda di Heartless ad Auradon e il suo primo pensiero fu per il figlio.
Aveva pianificato di portarlo con sé nel Mondo Che Non Esiste. Ma, infine, anche Carlos venne colpito da uno Shadow, per fare da scudo al padre, intento, nel frattempo, a sparare ad altri Heartless.
Svanì tra le sue braccia e le sue urla di imploro di non svanire.
Era rinato come Heartless e come Simile. In entrambi i corpi, non poteva avvicinarsi al padre, per ordine di Xemnas, o lo avrebbe eliminato.
Come Heartless era stato eliminato da Roxas.
Come Nessuno aveva assistito alla scomparsa del padre per mano di Sora.
Disperato, Carlos-Simile si era buttato sul Keyblade.
Alla liberazione dei cuori dal Kingdom Hearts artificiale dell’OrganizzazioneXIII, anche lui era tornato completo, insieme a Jane ed i suoi amici.
L’omicidio di sua madre lo aveva cambiato, segnato per sempre: era diventato più freddo, distaccato, malinconico, da quando era tornato umano.
 
Durante una gita a Crepuscopoli con gli amici, decide di rivelare il suo desiderio: divenire custode del Keyblade. Per difendere il poco che ancora possedevano.
Gli amici lo supportano, accettando la sua proposta. Yen Sid riconosce in Carlos i tratti di Xigbar, membro dell’OrganizzazioneXIII, ma accetta comunque di renderlo suo allievo.
A tutti i profughi viene proposto il Tuffo nel Cuore, per ottenere il proprio Keyblade. Yen Sid afferma che è una prova pericolosa, ma Carlos non si tira indietro.
Avrebbe affrontato anche la morte, per rivedere il padre. Sa che è ancora vivo e che lo sta aspettando…

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Capitolo 9
*** Carlos' Dive Into The Heart ***




Carlos' Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Il Tuffo nel Cuore.
La prova di ogni aspirante custode del Keyblade.
Carlos lo desiderava più di tutti i suoi amici.
Per vendicare la sorte di Auradon. Ma, soprattutto, per rivedere il padre, Xigbar.
Aveva stretto i ricordi legati a lui nel suo cuore, nella speranza che gli sarebbero stati utili nella prova che lo attendeva.
Stava sprofondando nel buio.
“Dove mi trovo…? Da quanto tempo sto cadendo…?” pensò, riaprendo lentamente gli occhi.
Qualcosa lo mise in orizzontale, e poi con i piedi in basso.
Guardò in basso: una piattaforma in vetro colorato. Il colore dominante era il rosso.
C’era lui, con gli occhi chiusi. Con Jane, Rudy e suo padre. E anche Mal, Jay ed Evie. Le persone a lui più care.
Atterrò dolcemente su di essa.
L’unica luce era quella piattaforma. Intorno a lui regnava solo il buio.
Osservava melanconico quella piattaforma; specie l’immagine del padre.
-Papà…-
Dal primo momento in cui era tornato umano che sperava di rivederlo.
Sapeva che era vivo. Ed era tornato umano. Lo sentiva nel suo cuore.
Eliminando il suo Nessuno, Sora aveva permesso che tornasse “qualcuno”.
Lo aveva portato via da lui, ma almeno, così, sarebbe tornato ad essere una persona vera, non una mera proiezione. Quindi, da un certo punto di vista, gli era grato.
“Perché mi hai chiamato Roxas?”
“Ehehe… Vorresti saperlo, eh…?”
Queste furono le ultime parole pronunciate da Sora e Xigbar, prima della sparizione di quest’ultimo.
Aveva uno sguardo malinconico in volto: stava pensando al figlio. Agli ultimi ricordi di Auradon, con lui che svaniva tra le sue braccia. Almeno, si sarebbero rincontrati. Se non in Kingdom Hearts, faccia a faccia, tra persone normali e complete.
Per questo Carlos, da Simile, si era gettato volontariamente sul Keyblade di Sora: aveva deciso di restare un Simile per stare con il padre. Ma lui era svanito, che senso aveva, per lui, continuare a non-vivere?
Ma ora Carlos era tornato normale. E anche Xigbar. Si sarebbero rincontrati. Di questo Carlos era fiducioso.
-Il Maestro Yen Sid non ha detto molto sul Tuffo nel Cuore…- mormorò, per farsi compagnia in quel luogo scuro e solitario –“Possa il tuo cuore essere la tua guida”… Cosa vorrà dire?-
Yen Sid non aveva voluto rivelare molto del Tuffo nel Cuore, se non che avrebbero superato delle prove per dimostrare di essere degni di brandire un Keyblade. E prima di iniziare, aveva pronunciato una frase:
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”.
Forse comprendere il suo significato faceva parte della prova.
-E, soprattutto, come saranno queste prove? Io non sono ancora armato.-
Ebbe una strana sensazione: di essere osservato.
Si voltò. Non vide nessuno. Anche guardandosi intorno.
Niente.
Ma quella sensazione non voleva andare via.
Guardò in basso. Un meticcio dal pelo color sabbia.
Rudy.
Il suo cane.
Carlos aprì la bocca, sgomento. Era come se avesse visto un fantasma. Letteralmente.
Rudy era morto per proteggerlo da uno Shadow.
-Rudy?!- esclamò –Cosa… cosa fai qui?! Come puoi essere qui?! Tu sei… sei… deceduto! E questo posto... No, non può essere l’aldilà…!-
Era dentro il suo cuore. E nella piattaforma c’era l’immagine di Rudy.
Carlos comprese la realtà.
Rudy era stato importante per lui. Avrebbe avuto per sempre un posto speciale nel suo cuore.
Infatti, era di fronte a sé. Dimostrazione dell’affetto che provava per lui. Che continuava a provare per lui.
-Di cosa hai più paura?- domandò il cane.
Quella domanda sorprese il ragazzo.
-Cosa…?- fece, confuso.
Molte erano le cose di cui aveva paura. Di una in particolare.
-Restare da solo. Senza famiglia. Senza amici. Abbandonato da tutti.-
Rudy svanì. Esattamente come un fantasma.
Era solo una proiezione del ricordo che Carlos aveva di Rudy. Ma non riuscì a non piangere.
Il suo primo amico. La sua chiave per liberarsi dalla crudeltà della madre. E suo complice nel matricidio.
Per colpa di Xemnas.
Gli mancava. Tanto. Gli mancavano le carezze che gli faceva sulla pancia e le leccatine che riceveva come ringraziamento. Gli mancava passeggiare con lui, lanciare la palla, i tipici giochi che una persona è solita fare con il proprio cane.
Ma non doveva piangere lacrime di lutto: era anche per Rudy se era lì. Per vendicarlo.
E per affrontare gli Heartless gli serviva un Keyblade.
Lo avrebbe ottenuto ad ogni costo.
Accanto alla piattaforma comparvero dei gradini, anch’essi di vetro colorato. Collegavano la prima piattaforma alla seconda.
Percorrendo quei gradini, notò che la circonferenza di quelle piattaforme erano fatte di vetrate simili ad una cattedrale gotica, come quella di Auradon.
Al centro della seconda piattaforma, un’altra persona sembrava in attesa del ragazzo.
Un uomo. Alto. Con un cappotto nero. E una benda sull’occhio.
Carlos si illuminò.
-Papà!-
Era corso da lui, sorridendo. Ma si fermò: non era il suo vero padre. Ma una proiezione di come ricordava suo padre.
Provò gli stessi sentimenti che aveva provato poco prima con Rudy.
-Cosa è più importante per te?-
Carlos avrebbe tanto voluto prendere il padre per le mani, e stringerle forte. Ma la sua mano gli passò attraverso.
Abbassò lo sguardo, dando la risposta.
-Le persone che amo di più. Jane, mio padre, i miei amici.-
Come Rudy, anche Xigbar svanì.
Carlos pianse. Di nostalgia. Era per amore del padre che aveva ucciso la madre. L’amore aveva fomentato l’odio. Odiava, infatti, Xemnas persino più di Sora.
Xemnas aveva corrotto Audrey, poi lui, per distruggere Auradon. Tutto faceva parte del piano del Maestro Xehanort di estinguere la Luce, da come aveva rivelato Yen Sid.
E per distruggere un mondo, era sufficiente un cuore oscuro.
E quello di Carlos era oscuro a sufficienza per causare la distruzione del mondo in cui era rifugiato.
Si sentì un ingrato e responsabile per la sua distruzione.
Ma era determinato a rimediare. Divenendo un custode del Keyblade.
Sapeva che spettava a Ben, Chad ed Audrey, in quanto figli di Principesse della Luce, a ricostruire il mondo, ma lui voleva aiutarli a velocizzare il processo.
Ma ora, doveva solo concentrarsi per la sua prova.
Era apparsa una terza piattaforma. Ad attenderlo, una terza persona.
Jane.
La sua Jane.
Si era infatuato di lei quasi al primo sguardo: i suoi occhi, azzurri come il cielo, ed il suo sguardo puro.
Questo lo aveva colpito. E dove lei si reputava brutta, lui trovava bellezza e dolcezza.
Era stato solo grazie a Rudy ed a suo padre, se aveva trovato il coraggio di dichiararsi a lei.
Non avrebbe mai compreso cosa suo padre Xigbar avesse trovato in sua madre Crudelia, per avere una storia con lei. Forse anche lei appariva innocente e pura come Jane, in gioventù.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Molte, troppe cose. E Jane era tra queste.
-Che questa situazione passi.- rispose -E che possa ricongiungermi con mio padre e vivere serenamente.-
Jane svanì. La prima parte della prova era stata superata.
Dove prima si trovava Jane, era apparso un oggetto etereo, trasparente: un mitra a canne mobili a forma di ossa.
-Sei a metà del tuo viaggio, Carlos.- disse una voce, nella mente del ragazzo –Sei ben cosciente della posizione che tuo padre ha preso nella guerra che verrà, eppure non demordi, continui a lottare, e continui a sperare che si ricongiunga con te. Sei pronto ad affrontare questo destino?-
Carlos avrebbe persino affrontato la morte, per rivedere suo padre. Non si sarebbe fermato di fronte a nulla.
-Farei qualunque cosa, per mio padre. Siamo schierati in fazioni opposte, e continueranno a dirmi di guardarmi da lui, ma questo non cambierà quello che provo per lui. È mio padre, è la mia famiglia. L’unica persona che mi abbia amato come avrebbe dovuto fare mia madre. Non posso abbandonarlo.-
-Allora prosegui. E non avere paura. Dentro di te batte il cuore di un prescelto. Non fallirai.-
Il cuore di un prescelto?
A cosa si stava riferendo?
Una scala a chiocciola formata da vetri colorati apparve di fronte a lui, al centro della piattaforma.
La voce gli aveva detto di proseguire.
Non aveva altra scelta.
Non appena mise piede sul primo scalino, la piattaforma svanì.
Ora poteva andare solo avanti.
Salì, notando gli scalini svanire uno per uno.
Decise di percorrerli di corsa.
Le scale lo stavano conducendo verso l'alto: verso la luce.
“Non posso aver già concluso la prova.” pensò, serio, ed in allerta; non sapeva cosa lo avrebbe atteso “Avrei già ottenuto il Keyblade.”
Era sempre più vicino alla luce.
Era troppo intensa per tenere aperti gli occhi. Fu costretto a chiuderli.
Un attimo.
In un attimo la luce era svanita.
Ma Carlos non era più su una scala a chiocciola.
Era in un atrio.
-Non può essere...!- esclamò, sgomento.
Era la villa di campagna dei De Mon. Dove lui viveva con Gaspare ed Orazio.
Era esattamente come la ricordava: polverosa ed in rovina.
Fece un giro per tutta la casa: le stanze, i mobili, tutto era come lo aveva lasciato. Come se il tempo non fosse mai scorso.
Si ricordò di essere ancora nel Tuffo nel Cuore: tutto quello che vedeva erano frammenti della sua memoria.
-Di tutti i posti, proprio qui dovevo tornare...?-
Quella casa non rievocava ricordi piacevoli: era il luogo in cui sua madre Crudelia lo aveva abbandonato insieme ai due ladri Gaspare ed Orazio. E loro non erano più gentili di sua madre.
Ogni suo tentativo di ribellione o esitazione, per loro, era un'occasione di ricatto: se non avesse obbedito, lo avrebbero detto a sua madre, che aveva minacciato di diseredarlo e buttarlo in mezzo alla strada.
Forse era stato un bene se Gambadilegno lo aveva fatto esiliare nell'Isola degli Sperduti: era libero da quella vita misera.
Tornando nell'atrio dalla sua stanza, si accorse di un particolare che non aveva notato prima: la porta principale era leggermente aperta. Quando ancora viveva lì, quella porta restava sempre chiusa. E con la chiave. Così lui non scappava.
Usciva solo in compagnia di entrambi i ladri, per le loro truffe.
Quella porta lo insospettì.
Ma dentro sentiva che doveva uscire dalla villa. Perché sarebbe stato fuori la sua vera Prova.
E uscire dalla villa avrebbe significato la rottura definitiva con il suo passato.
Senza indugio, Carlos allungò la mano verso la maniglia, spalancando la porta.
La campagna esterna alla villa non era tanto allegra della villa stessa, ma era comunque all'esterno di quell'inferno.
Ma ciò che vide non era la campagna inglese in cui era cresciuto: intorno a lui, un prato pieno di fiori.
Non crescevano mai fiori intorno alla villa.
E non era in piano. Era vicino al ciglio di un burrone.
Di fronte a lui c'era una città, con case e strade di pietra. Al centro si ergeva una grande torre dell'orologio.
Carlos era confuso.
-Ma cosa...?-
Non riconosceva la città. Non era la Città di Mezzo. Non era Crepuscopoli. Tantomeno Auradon.
Era molto bella. E, non sapeva perché, ma sentì come un senso di nostalgia.
-Bella, vero?-
Dal nulla, era apparsa una figura, accanto a lui, facendolo sobbalzare.
Era alto quanto lui. Con una tunica bianca con uno scialle color arancio che fungeva anche da cappuccio.
Sul volto portava una maschera da capra.
-Auropoli.-
Auropoli. Il nome della città.
Carlos era sempre più sorpreso. Il mondo da cui tutto era iniziato. Sapeva della sua esistenza, ma non aveva idea della sua forma. Nessun dipinto l'aveva mai raffigurata: tutto era andato distrutto con la Guerra dei Keyblade.
-Un tempo i mondi che conosci erano uno solo: questo. Secondo la leggenda, dopo la guerra, Auropoli si frammentò in tanti piccoli mondi, mentre la Luce venne divorata dall'Oscurità. O forse non del tutto, visto che con pochi frammenti di luce, un nuovo mondo venne costruito, Scala Ad Caelum. Ma nessuno sa che un frammento di Luce di Auropoli riuscì a sfuggire dall'Oscurità, fino a quando non venne ritrovato da uno stregone, grazie a cui fondò un nuovo mondo: Auradon. Rinata dalla Luce di Auropoli. Praticamente la sua discendente. Non lo trovi incredibile, Carlos?-
Solo la parte inferiore del volto era visibile.
Carlos fissò quel ragazzo con sospetto: non aveva mai visto quel ragazzo, prima di allora.
E si sarebbe ricordato di una maschera come quella che indossava.
Perché, allora, era nella sua Prova?
-Io non conosco questo posto!- disse, sempre più confuso -È impossibile che ci sia stato! È stato distrutto anni prima che nascessi!- poi guardò di nuovo il ragazzo -E non so nemmeno chi sei tu! Come potete essere nel mio cuore?-
Il ragazzo guardò Carlos negli occhi, da dietro la maschera. Era serio.
-La memoria non sta solo nella tua testa.- rivelò -Yen Sid non ti ha detto che questa prova è incentrata sul tuo cuore? È il tuo cuore che conosce questo posto.-
Più volte gli era stato spiegato dei misteri del cuore, ma nemmeno la scienza era riuscita ad arrivare ad uno studio completo, neppure gli scritti di Ansem il Saggio conservati ad Auradon.
Auropoli era un luogo completamente estraneo a lui. Ma quel ragazzo aveva appena affermato che il suo cuore conosceva quel mondo.
-Non mi credi, vero?-
Il ragazzo sembrava aver letto Carlos nel pensiero.
-Guarda dentro di te, Carlos. Dici di non aver mai visto Auropoli, eppure eccola qua, nel tuo Tuffo nel Cuore. Come puoi spiegarlo? Sono ancora tanti i misteri nei nostri cuori. Addirittura possono arrivare a contenere memorie che non ci appartengono. Memorie del passato, di altre persone. Il tuo non è differente. Anzi, si può dire che il tuo cuore è speciale.-
-Che vuoi dire? Io non capisco.-
-Rifletti. Perché proprio tu, tra tutti i tuoi amici, sei stato l'unico a proporre di divenire Custode del Keyblade?-
-Per difendere ciò che ci rimane.-
Era così che l'aveva messa. Avevano perduto Auradon, per colpa degli Heartless. Per colpa sua, era solito pensare.
Se avessero avuto un Keyblade, Auradon esisterebbe ancora.
Carlos non voleva farsi trovare impreparato, in caso di nuova aggressione degli Heartless, o a Crepuscopoli o nella Città di Mezzo. Non voleva veder distrutta la nuova vita che lui ed il resto dei profughi di Auradon stavano costruendo.
Il ragazzo scosse la testa.
-È davvero così? Non c'è altro?-
No, solo quel desiderio. O no? Carlos iniziò a nutrire dei dubbi sul suo fine. Lui, da cui era partita la proposta di avere un Keyblade. Che ci fosse davvero altro?
-Carlos, tu sei molto più di quello che credi di essere. Il Keyblade ti sta chiamando. In te scorre il sangue dei Custodi dei Keyblade.-
Quella rivelazione stupì ulteriormente il figlio di Crudelia De Mon: lui era un discendente degli antichi Custodi del Keyblade?
-Io... cosa...?!-
Non da parte di madre, sicuramente. E come era possibile che fosse da parte di padre?
-Nessuno più di te ne ha il diritto, Carlos. Tu sei un vero prescelto del Keyblade. Persino più di Sora e Riku. E lo sai. Lo hai sempre saputo. Ma ancora non lo accetti. Tu resisti!-
-Se così fosse stato, perché non ne ho avuto uno in mano quando Auradon stava per essere distrutta?!-
-Nessun Keyblade avrebbe salvato Auradon dalla distruzione. Sarebbe stato inutile. Inoltre, il tuo cuore era troppo distrutto dalla disperazione per chiamare un Keyblade.-
Il giorno della caduta di Auradon coincideva con lo stesso giorno in cui aveva ucciso sua madre Crudelia.
Era bastata quell'Oscurità per far crollare la protezione di Luce che circondava Auradon. Insieme alla vanità di Jane, alla vendetta di Uma ed alla corruzione di Audrey. Un'Oscurità peggiore: quella della persona che aveva ucciso una persona legata a lui da un mero vincolo di sangue.
-Ma ora sei in grado di ottenere un Keyblade. Potresti evocarlo anche adesso, Carlos. Prendi tutta quella rabbia, quella delusione e incanalala nella tua mano.-
La mano di Carlos formicolava. Qualcosa sembrava voler uscire da lì. Fece quanto suggerito dal ragazzo dalla maschera di capra: pensò alla rabbia contro Xemnas, che lo aveva ingannato, alla delusione, quando si era risvegliato nella Città di Mezzo. Al suo desiderio, proteggere ciò che gli era rimasto.
Una luce apparve sul suo palmo. Diventava sempre più grande ed assunse una forma.
Una lama a forma di zampa di dalmata. Un'elsa che ricordava i capelli di sua madre.
Il suo Keyblade.
Apparso dal nulla.
-L'ho detto. Quel potere giaceva sopito dentro di te. Dovevi solo attendere il momento giusto per evocarlo.-
Quel ragazzo sapeva troppe cose.
Carlos si insospettì. Finalmente poteva difendersi da un possibile attacco.
-Dimmi una cosa...- disse, infatti -Tu chi sei?-
La risposta non si fece attendere.
-Sono un sopravvissuto della Guerra del Keyblade. Sono la persona più vicina a te, Carlos. E la tua vera prova.-
Una luce strana era apparsa anche nella sua mano: divenne un Keyblade scuro, con una testa di capra sull'elsa ed un occhio azzurro incastonato sulla lama.
Bastò un piccolo movimento della mano che lo scenario cambiò: la città, la torre, ed il prato svanirono in una nube di denti di leone. I due ragazzi, ora, stavano di nuovo su una piattaforma raffigurante Carlos.
Carlos si mise in posizione. A differenza di Jay, lui non era bravo nei combattimenti ravvicinati. Come il padre, preferiva attaccare a distanza.
-Ora che hai un Keyblade, devi dimostrare di esserne davvero degno, Carlos.- sibilò il ragazzo, mettendosi anche lui in posizione -Affrontami e scopri la verità.-
Carlos non aveva altra scelta: se sconfiggere quel ragazzo lo avrebbe riportato nel mondo reale, e finalmente con un Keyblade in mano, allora doveva vincere.
Scattarono entrambi in avanti, caricando le proprie armi.
Le incrociarono, guardandosi negli occhi.
Fecero pressione l'uno contro l'altro. Entrambi non volevano far vincere l'altro.
Ma se l'altro era davvero una proiezione del suo cuore, doveva rappresentare una parte di Carlos.
Ma non sapeva cosa. Era sempre stato sicuro del suo fine. Tuttavia, quelle parole sulla sua ascendenza lo avevano confuso, dubitato del suo fine.
Il ragazzo sembrava prevalere, in quello scontro. E Carlos era sempre più dubbioso e confuso.
I suoi dubbi ed il suo disorientamento sembravano essere la forza del suo avversario.
Forse era proprio quello che rappresentava quel ragazzo.
Ma Carlos non doveva demordere: aveva ottenuto il Keyblade. Ora doveva mostrarsi degno.
Per il suo desiderio: difendere ciò che ancora aveva. E per vendicare Auradon.
Finalmente trovò la forza per contrastare il suo avversario.
La pressione non era servita: doveva scappare. Deviò, infatti, il suo Keyblade da un lato, poi fece una giravolta, finendo alle spalle del suo avversario.
Senza pensarci, diede un colpo di elsa sulla sua testa. Il ragazzo, però, era riuscito a schivare all'ultimo.
Fu solo la sua maschera ad essere colpita.
Cadde dal volto del suo possessore.
Finalmente Carlos riuscì a vederlo in faccia. E si sconvolse più di prima.
Indietreggiò.
-Cosa...? Tu... sei me?!-
Il volto, infatti, era uguale al suo: stesso colore degli occhi, stessa mandibola ovale, stesse lentiggini, stesse labbra carnose.
Ma lo sguardo... era diverso. Più freddo, rispetto a quello di Carlos.
-Solo perché ho il tuo stesso volto non vuol dire che siamo la stessa persona.- disse. Persino la sua voce era diversa da quella di Carlos.
Il Keyblade scuro scomparve dalla sua mano.
Ciò stranì Carlos. Ma non abbassò la guardia.
-No, io non sono te. Io sono un abitante di Auropoli. O, meglio, lo ero, prima della sua distruzione.-
I suoi abiti. La sua maschera.
Finalmente Carlos intuì l'identità del suo avversario. Era troppo assurdo per essere vero, ma con quella rivelazione, ne ebbe finalmente la certezza.
-Sei uno dei Maestri Perduti, vero?-
Il ragazzo sorrise. C'era una nota di orgoglio nei suoi occhi.
-Sei un ragazzo perspicace. Motivo di orgoglio, per me.-
-Non sembri, però, uno di quelli che ho visto nei miei libri di storia. Perché sei nel mio cuore?-
Il ragazzo rise di nuovo. C'era qualcosa di strano nel suo sguardo. Un ghigno familiare.
-Ah... da dove comincio...?- anche la sua voce stava cambiando; a quella da ragazzo, si stava sovrapponendo una voce adulta, quasi rauca -Forse faccio prima a mostrartelo, Carlos. Guarda la mia vita, dai miei occhi!-
Rapido, allungò una mano sul suo volto, coprendo i suoi occhi con le sue dita.
Una serie di visioni attraversarono la mente di Carlos: visioni su città, foreste, persone. Tutte vissute in prima persona. Una lunga vita. Impossibile che fosse una sola.
Poi, alla fine, vide uno specchio. E la sua immagine riflessa.
Ma non era lui.
Carlos venne scosso da un sentimento vicino alla paura, così vicino alla sorpresa.
Era paralizzato.
Fissò quel ragazzo, sgomento.
Questi ricambiava lo sguardo, freddo.
-Finalmente comprendi?- disse.
Carlos non osò pronunciare una parola. Era ancora scosso dalle visioni.
-Carlos, tu sei molto più di quello che sembri.- riprese l’altro -In te, scorre il sangue dei custodi del Keyblade. Per questo il Keyblade ti ha chiamato. Credi davvero che sia stato un caso, se hai proposto TU ai tuoi amici di allenarvi con il Keyblade? No… c’è molto altro…-
Carlos rimirò il suo Keyblade per qualche istante.
Rifletté sulle parole di quel ragazzo: era dunque un predestinato?
Cosa intendeva dire con “il sangue dei custodi del Keyblade”?
No, era impossibile, pensò. Lui voleva brandire il Keyblade per proteggere ciò che gli rimaneva, non perché il suo sangue lo esigeva.
O sì?
Prima di quelle visioni, avrebbe affermato il contrario.
-Tu sei nato per brandire un Keyblade. Ma ancora… resisti…-
Carlos ancora non parlava: guardava in basso, verso il suo Keyblade.
-La tua prova è conclusa, Carlos. Hai tutto il tempo del mondo per accettare chi sei davvero.-
Il ragazzo svanì in tante piccole luci, lasciando Carlos da solo con i suoi pensieri.
Persino la piattaforma sotto di lui si illuminò, per poi frammentarsi in tante luci.
Era impossibile scappare.
Carlos, ancora una volta, precipitò nel buio.
La sua prova era superata: non aveva affrontato il suo passato o cancellato il dolore della sua infanzia; ma aveva scoperto qualcosa su se stesso.
Presto, altre domande lo avrebbero angosciato e torturato; e la prima tra tutte era: chi era lui, davvero?


"With us evil lives on, the right side of wrong.
There's so many ways to be wicked"

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Note dell'autrice: 
bene, e ora si conclude il ciclo dei VK! Chi sarà il prossimo di cui narrerò? Appuntamento ai prossimi capitoli!

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Capitolo 10
*** Ben's Story ***


Note dell'autrice: alla fine ho deciso con chi continuare: con i figli delle tre Principesse della Luce.
 


Ben's Story



Xaldin era stato sconfitto.

Gaston era stato sconfitto.

L’incantesimo si era spezzato. La Bestia era tornata ad essere il principe Adam. L’esperienza vissuta con Belle lo aveva maturato, rendendolo più profondo e privandolo del suo egoismo.

Il matrimonio venne celebrato solo un anno dopo.

Era stato invitato tutto il villaggio, oltre alla servitù del principe Adam.

Sora, il ragazzo armato di Keyblade che aveva salvato Adam e Belle più volte, non era tra gli invitati, con profondo rammarico degli sposi.

Ma era arrivato comunque qualcuno di inaspettato: i fratelli e le sorelle di Belle, che lei non vedeva da quasi tre anni.

Fu una sorpresa, la loro presenza. Maurice non riusciva a credere di rivedere tutti i suoi figli.

Jean-Baptiste, il secondogenito, aveva aperto una tipografia: un messaggio riguardante un matrimonio aveva attirato la sua attenzione, specie quando aveva letto il nome della sposa: Belle.

Non si era fatto scrupoli a contattare i fratelli e le sorelle.

Anne, la terzogenita, e Clotilde, la quartogenita, si erano presentate con i propri mariti, entrambi nobili, ed i propri figli.

Anche Jean-Baptiste era arrivato con la propria famiglia.

Solo Maxime, il primogenito, e Tristan, il sestogenito, erano rimasti scapoli.

Erano contenti che la loro sorellina si fosse scelta un buon partito quale era il principe Adam.

Dalla loro unione era nato un bambino: lo chiamarono Benjamin, ma per tutti era Ben.

Crebbe tra gli affetti dei genitori e dei servi, e gli agi che comportava la sua posizione, come suo padre prima di lui. Ma Ben non divenne egoista o capriccioso: sua madre e suo nonno Maurice gli avevano insegnato l’umiltà e la gentilezza.

Ed era cresciuto con la passione dei libri, passione trasmessa dalla madre: insieme, infatti, leggevano libri.

E non solo: spesso gli raccontava dell’incantesimo scagliato al padre da una fata cattiva e che solo l’amore poteva sciogliere.

Ma le storie preferite di Ben erano quelle su un ragazzo armato di spada a forma di chiave, il Keyblade, che più volte aveva aiutato e salvato i suoi genitori dalla strega Malefica, da un uomo di nome Xaldin e da Gaston, spasimante di Belle.

Questo ragazzo, Sora, era divenuto loro amico. Ben domandava spesso alla madre quando avrebbe conosciuto questo ragazzo: sentendo le storie su di lui, aveva iniziato ad ammirarlo fin da bambino.

La risposta era sempre la medesima: -Quando avrà sconfitto il male che minaccia i mondi.-

Sperava sempre di ottenere una risposta diversa dai servi, persino da Ms. Bric, madre di Chicco. Ma nessuno sapeva dargli una risposta precisa.

Quando non stava con la madre, Ben passava molto tempo con Chicco. I due erano come fratelli. A volte venivano ripresi da Tockins, quando correvano per i corridoi del castello, ma non badavano alle sue grida e continuavano lo stesso a correre. Spesso si nascondevano dietro gli arazzi o le armature, pur di non essere pizzicati dal maggiordomo. E lui correva, sbuffava e non li trovava mai.

I fratelli e sorelle di Belle non mancavano di visitare la sorella nei momenti di festa, specialmente compleanni.

Parteciparono persino al battesimo del piccolo Ben. I cugini si erano affacciati alla culla, chiedendo ai propri genitori quando avrebbero potuto giocare con lui. La risposta fu una sola, accompagnata da una carezza: quando sarebbe stato abbastanza grande.

Ben amava le visite degli zii e dei cugini.

Infatti, anche i suoi cugini si univano sempre a lui e Chicco nel gioco del nascondino, facendo impazzire sempre più Tockins.

Spesso Lumière si proponeva come complice e li aiutava a nascondersi da Tockins. La faida tra i due non si sarebbe mai estinta. Una faida amichevole e scherzosa, ma sempre una faida.

E per Adam fu strano avere una famiglia: lui aveva vissuto solo con i servi, da quando era bambino.

Man mano che i parenti acquisiti venivano a far visita al castello, iniziò ad affezionarsi a loro.

E Belle era felice di rivedere i fratelli e le sorelle, quindi anche lui era felice.

Ma ad ogni loro visita, però, qualcosa mancava: all'inizio si trattava solo di gioielli.

Adam non vi pose attenzione, in quanto a lui non servivano e Belle non li indossava.

Ma poi iniziarono a mancare delle monete, dal tesoro.

Ben aveva cinque anni, quando erano iniziati quei furti.

Stava giocando di nuovo a nascondino con Chicco ed i cugini, quando scoprì il colpevole: suo zio Maxime.

Era entrato di nascosto nella stanza del tesoro, forzando la serratura. Così stava rubando le monete.

Ben non esitò a dirlo alla madre Belle. Lei, infatti, notò qualcosa tintinnare, nella tasca del fratello.

Ormai scoperto, Maxime dovette confessare la verità: dalla caduta e separazione della famiglia, si era dato al gioco d'azzardo, accumulando sempre più debiti. Per questo stava rubando nel castello della sorella. Nemmeno Tristan, che era sempre con lui, era riuscito a farlo distaccare da quel vizio. E non era riuscito nemmeno a dissuaderlo dal rubare.

Adam aveva già dato l'ordine di cacciarlo dal castello, ma Belle gli implorò di aiutarlo: dopotutto, era pur sempre suo fratello.

Gli venne, infatti, donata una sacca con delle monete, con le quali avrebbe ripagato i suoi debiti.

Maxime ringraziò, con la promessa di non dilapidare quel denaro.

Ben, a suo modo, aveva salvato la sua famiglia. Si domandò cosa avrebbe fatto Sora, in quel caso.

Più che mai desiderava incontrarlo per chiederglielo.

Un giorno che Tockins aveva annunciato un ospite all’entrata del castello, Ben si era illuso fosse Sora, che finalmente avrebbe fatto la conoscenza del suo idolo.

Invece, era la Fata Smemorina, una conoscente di Belle.

Era giunta nel loro mondo con una proposta, ovvero far trasferire Benjamin in un mondo creato dalla Fata Smemorina stessa, con l’aiuto di Yen Sid, Merlino, le tre fate buone, la Fata Azzurra ed altri maghi: Auradon.

Come la Città di Mezzo, era un mondo-rifugio per tutti coloro che avevano perduto il proprio mondo.

Era, inoltre, il mondo in cui coloro che portavano il caos nei loro mondi venivano esiliati: quella parte del mondo era chiamata l’Isola degli Sperduti.

Essendo figlio di una Principessa della Luce, Ben era destinato a divenire anch’egli Principe della Luce. Gli serviva una preparazione adeguata per il suo futuro ruolo e un luogo sicuro in cui vivere.

E non solo: insieme ai figli di Cenerentola, Aurora e Biancaneve, era destinato a regnare su Auradon.

Per Belle ed Adam non fu facile prendere quella decisione: non volevano separarsi dal figlio, tantomeno lui da loro.

La sera prima della sua partenza, infatti, Benjamin restò chiuso nella sua stanza, a piangere.

Non voleva separarsi dai genitori e da Chicco.

Fu un'impresa convincerlo ad uscire. Alla fine, ci riuscirono.

Per sollevargli l'umore, Belle gli disse che in quel mondo avrebbe avuto più opportunità di incontrarsi con Sora.

Lui decise di crederle. Almeno aveva smesso di urlare e protestare.

A dodici anni, Ben aveva lasciato il suo mondo per vivere ad Auradon. Lì incontrò Audrey, la figlia di Aurora, e Chad, figlio di Cenerentola, suoi coetanei. Purtroppo, come aveva rivelato la Fata Smemorina, la figlia di Biancaneve risultava scomparsa da anni. Non era riuscita neppure a giungere ad Auradon.

Solo un ragazzo risultava provenire dal mondo di Biancaneve: il figlio di Cucciolo, Doug. Ma lui non era figlio di una Principessa della Luce. Il quarto trono non sarebbe spettato a lui.

Benjamin, Chad ed Audrey condividevano lo stesso destino. Questo lì unì, e divennero subito amici.

Ma Ben si rese conto che Audrey provava qualcosa di più profondo, nei suoi confronti, della semplice amicizia. E lui ricambiò tali sentimenti.

Anche Chad provava qualcosa per Audrey, ma dovette sforzarsi di essere felice per i due amici.

Ma forse i sentimenti di Ben per Audrey non erano così forti come pensava.

Ne ebbe la prova, quando incontrò Mal, la figlia di Malefica.

Ogni giorno, dalla finestra della sua stanza, osservava l’Isola degli Sperduti: era protetta da una barriera, creata dalla magia combinata dei maghi più potenti dei mondi.

Ogni tanto, venivano inviati dei Sorveglianti, nell’Isola, per assicurare l’ordine. I tre principi e principessa erano sempre presenti, quando i Sorveglianti riferivano alla Fata Smemorina delle condizioni dell’Isola degli Sperduti, dei suoi abitanti e delle sommosse che scoppiavano al suo interno.

Non era raro che parlassero di ragazzi o bambini inviati lì contro la loro volontà. Quelle notizie spezzavano il cuore del figlio di Belle e di Adam.

Sua madre gli aveva insegnato a dare al prossimo una seconda possibilità: mosso da quell’insegnamento, propose alla Fata Smemorina ed ai due amici di concedere ai bambini l’opportunità di crearsi una vita ad Auradon.

La Fata Smemorina appoggiò l’idea di Benjamin. E con lei anche Yen Sid, precettore di Re Topolino e fondatore di Auradon.

Audrey, però, era l'unica ad essere scettica su quella scelta.

-Se sono stati inviati all'Isola degli Sperduti, un motivo ci sarà!- aveva detto.

Ma il progetto ebbe comunque inizio. Con pochi, come prova.

I quattro ragazzi che vennero scelti furono: Carlos, figlio di Crudelia De Mon, Evie, la figlia della Regina Cattiva Grimilde, Jay, il figlio di Jafar, e Mal, figlia di Malefica e di Ade.

Ben era ignaro del piano che Malefica e Pietro Gambadilegno avevano per i quattro ragazzi: dovevano rubare la bacchetta della Fata Smemorina, chiave di protezione di Auradon, e permettere il loro ingresso nel mondo.

All’inizio fu così: Mal, per avere più possibilità di rubare la bacchetta, aveva lanciato un incantesimo di amore su Ben, costringendolo a rompere il fidanzamento con Audrey.

Ma forse non ne aveva bisogno: dal primo momento in cui l’aveva incontrata, Ben si era infatuato di Mal. Scoprì di provare per lei qualcosa di più profondo di quello che provava per Audrey: tenerezza, pietà, comprensione. Gli stessi sentimenti che sua madre Belle aveva scoperto di provare per suo padre, quando era ancora una Bestia.

L’incantesimo fu la spinta perfetta per dichiararsi a lei.

Non comprese il motivo, fino a quando Malefica e Pietro Gambadilegno riuscirono ad accedere ad Auradon, precisamente nella cattedrale dove lui, Chad ed Audrey avrebbero ricevuto la nomina e la benedizione della Fata Smemorina di Re e Regina di Auradon.

Mal ed i suoi amici non si schierarono con Malefica, anzi. Combatterono contro di lei. Ma furono proprio Ben, Chad ed Audrey a mandare via Malefica e Pietro da Auradon, unendo le luci dentro i loro cuori contro di loro.

Erano tutti e tre mossi da vendetta per le loro madri: Aurora, Belle e Cenerentola erano state rapite insieme ad altre quattro ragazze da Malefica e Pietro, anni prima. Ed erano state salvate da Sora.

Mal ottenne il perdono di Ben, anche dopo lo scioglimento dell’incantesimo d’amore, e quello degli abitanti di Auradon. Questo aumentò il consenso a renderla la quarta regina di Auradon, al posto della figlia di Biancaneve.

Ben, come re, era sempre impegnato con la gestione del regno. Non aveva molto tempo per Mal.

Non si era mai reso conto di come la vita da fidanzata e futura regina di Auradon fosse stressante, per lei.

Ne ebbe la dimostrazione la sua fuga improvvisa verso l’Isola degli Sperduti.

Ben, con l’aiuto di Evie, Jay e Carlos si era messo al suo inseguimento, ma fu rapito da Uma, figlia di Ursula, decisa ad usarlo come ostaggio per Mal, scambiando la sua vita per la bacchetta della Fata Smemorina.

Ben aveva provato a dissuaderla dal suo fine, proponendole un’opportunità ad Auradon.

Ma lei aveva un altro piano, con lui: esattamente come aveva fatto Mal tempo prima, anche Uma gli aveva lanciato un incantesimo d’amore.

Ma il bacio di Mal, finalmente convinta dei sentimenti che provava per Ben, vanificò tutto.

Uma si diede alla fuga.

Per qualche mese, Auradon fu in pace.

Approfittando di quel periodo, Ben decise di dichiarare il suo fidanzamento con Mal.

Questo provocò l’incursione di Oscurità nel cuore di Audrey, ancora rancorosa per la rottura e colma di gelosia.

Ben non si sarebbe mai aspettato che Audrey avesse ceduto all’Oscurità: il suo cuore doveva essere puro, come il suo, essendo entrambi figli di due Principesse di Luce.

Per fortuna, l’intervento di Ade, padre di Mal, aveva riportato Auradon alla normalità.

Audrey sembrava non ricordare nulla dei suoi recenti avvenimenti; anzi, ebbe l’impressione di aver sognato.

Ben comprese di essere stato lui la causa per la caduta nell’Oscurità di Audrey: iniziò ad avere dubbi su se stesso. Come poteva proteggere un intero mondo, se non era capace di proteggere i suoi amici.

In momenti simili, si domandava sempre: “Cosa farebbe Sora?”

Nemmeno ad Auradon aveva avuto l’occasione di incontrarlo.

Quello era un mondo-rifugio. E secondo anche la Fata Smemorina, lui viaggiava solo nei mondi attaccati dagli Heartless.

Ma anche Auradon venne attaccata dagli Heartless. Un’intera orda contro gli abitanti di Auradon e anche dell’Isola degli Sperduti.

Benjamin, Chad ed Audrey, come con Malefica, avevano unito le loro luci dei loro cuori nella speranza di creare una barriera per proteggere gli abitanti dagli Heartless.

Ma la loro Luce non era abbastanza forte: loro tre furono i primi a cadere, per mano delle creature oscure.

Esattamente come aveva fatto con le loro madri, il Keyblade di Sora aveva liberato i cuori dei tre Principi e Principessa, insieme a tutti quelli rinchiusi nel Kingdom Hearts artificiale dell’OrganizzazioneXIII.

Al suo risveglio, Ben si era reso conto di essere nella Città di Mezzo, il secondo mondo-rifugio per quelli che avevano perduto il loro mondo.

Auradon era perduta.

Ma almeno non era da solo: Audrey e Chad erano con lui. E anche Mal. E Evie, Jay, Carlos, Uma, Harry, Gil, Doug, Jane e Lonnie. Erano sopravvissuti solo loro tredici, escludendo la Fata Smemorina, con cui si riunirono.

Tutti avevano dovuto cambiare le loro vite. Ben compreso.

Cercarono di continuare a vivere come facevano ad Auradon: uscivano, scherzavano. A volte, chiedevano il permesso alla Fata Smemorina di andare a Crepuscopoli.

Ma non era come prima. Assolutamente.

 

In quei giorni, Ben realizza che se avesse avuto un Keyblade, il giorno della distruzione di Auradon, lui ed i suoi amici non sarebbero costretti a vivere da profughi e fare avanti e indietro tra Crepuscopoli e la Città di Mezzo. Se fosse stato come Sora, avrebbero ancora un mondo in cui vivere. Per questo è il primo ad approvare l’idea di Carlos di divenire Custode del Keyblade. Yen Sid rivela, inoltre, che grazie al potere del Keyblade, lui, Chad ed Audrey avrebbero avuto il potere di ricostruire Auradon. Ma per ottenere il Keyblade, avrebbero dovuto superare il Tuffo nel Cuore.

Benjamin si fa avanti, determinato. Come Sora, avrebbe seguito il suo cuore, procedendo senza alcun timore.

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Capitolo 11
*** Ben's Dive Into The Heart ***




Ben's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

“Cosa farebbe Sora?”
Ogni volta che Ben era dubbioso delle sue azioni, si poneva sempre quella domanda. Gli dava forza.
Secondo i suoi genitori, Sora era un ragazzo che non si perdeva mai d’animo e cercava sempre di vedere il lato positivo delle cose.
Ben lo ammirava. Ogni giorno sperava di incontrarlo.
Anche ora che stava annegando in un mare oscuro.
Quello era il Tuffo nel Cuore.
Yen Sid non aveva rivelato molto a proposito: solo che dovevano superare delle prove.
E li aveva salutati con una frase ambigua, apparentemente priva di significato: -Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Dovevano persino comprendere il significato di quella frase, nei propri Tuffi.
Ben si stava avvicinando sempre più all’unica fonte di luce in mezzo a quella Oscurità: una piattaforma.
Era completamente fatta di vetro. Blu e dorata.
C’era lui, con gli occhi chiusi. Con Mal. E Chad. E Audrey. Anche i suoi genitori.
-È bellissimo…- mormorò, osservando quella vetrata; così precisa, curata nei minimi dettagli; neppure le vetrate della cattedrale di Auradon erano così belle e perfette –Ma cosa significa?-
Si voltò, principalmente per osservare ed esaminare il luogo in cui si trovava. Ma c’era qualcun altro con lui.
Una donna.
-Mamma?!-
Belle, sua madre. Aveva conservato la sua bellezza, negli anni. I capelli si stavano lievemente sbiadendo, divenendo quasi grigi, ma la luce e la dolcezza nei suoi occhi era ancora forti, come quando era giovane.
Lo stesso sguardo che aveva anche Ben: dolce, risoluto e luminoso.
-Di cosa hai più paura?- domandò lei.
Quella domanda sorprese il ragazzo.
-Cosa? Che domanda è?-
A dire la verità, non sapeva neppure spiegarsi come sua madre potesse trovarsi in quel luogo.
Nel Tuffo Nel Cuore.
-Mamma, cosa fai qui? Perché non sei con papà, al castello? Come stanno gli altri? E Chicco?-
Belle non rispose a quelle domande. Rimaneva silente, con sguardo neutrale, nella sua dolcezza.
-Mamma? Mi senti?-
Ancora nessuna risposta. Sembrava attendere qualcosa.
Ben non aveva altre vie da percorrere: c’erano solo lui, sua madre e quella piattaforma.
Un vicolo cieco.
Ed una domanda. Pronunciata atona.
“Il Maestro Yen Sid non ci ha detto nulla sulla prova. Perché?” pensò il ragazzo, storcendo la bocca “Sembra che l’unico modo di proseguire sia la domanda che mi ha fatto mia madre. Beh, tanto vale tentare.”
Tornò da Belle, con la risposta alla sua domanda.
-Non essere capace di proteggere ciò a cui tengo.-
Esattamente come si era sentito il giorno in cui Auradon era stata distrutta dagli Heartless: non era stato capace di fermarli. Per questo ambiva ad ottenere un Keyblade. Per affrontarli. Ed eliminarli.
Mai come allora si era sentito completamente indegno di essere re di Auradon. Sentiva di non meritare affatto di essere un sopravvissuto: lui era ancora vivo, mentre gli abitanti vagavano ancora nell’Oscurità.
Lui non era stato capace di proteggerli: perché era ancora vivo, dunque? Non aveva fatto altro che domandarselo, da quando si era risvegliato nella Città di Mezzo.
Immerso in tali pensieri, non si era accorto che sua madre era svanita.
-Mamma?- chiamò.
Inutile.
Era svanita.
-Cosa significava, quella domanda…?-
Di fronte a sé, al bordo della piattaforma, notò un sentiero fatto di vetri colorati: conducevano verso un’altra piattaforma.
-Oh, credo di aver capito…- dedusse, quasi sorridendo; ma non senza nascondere allarme e preoccupazione.
Quella era la sua prova, dunque. O una parte.
Raggiunse la seconda piattaforma. Notò una seconda persona, al centro.
Un ragazzo biondo, di poco più grande di lui.
-Chicco?-
Il figlio di Ms. Bric, la domestica dei suoi genitori. Il suo amico d’infanzia.
Tra loro correvano cinque anni di differenza, ma non fu mai un problema. Chicco era sempre stato un fratello maggiore per Ben, il suo migliore amico, il suo confidente.
Ricordava ancora le lacrime che aveva versato il giorno in cui la Fata Smemorina aveva dichiarato il suo trasferimento ad Auradon, e che non avrebbe potuto portare Chicco con sé.
Separarsi dal suo migliore amico fu un colpo molto forte per Ben.
-Cos’è più importante per te?- domandò, atono, come Belle poco prima.
Un’altra domanda. La chiave per proseguire la prova, dedusse Ben.
-Essere un degno sovrano per Auradon, e seguire l’esempio di Sora.- rispose.
E Mal, ovviamente. Entrambi erano importanti, per lui.
Ma se non era in grado di difendere neppure le persone che amava, come poteva proteggere un intero mondo?
Era in questi momenti in cui si domandava: “Cosa avrebbe fatto Sora?”
Era il suo idolo. Lui avrebbe saputo cosa fare, si diceva sempre. Secondo sua madre, lui prendeva le sue decisioni, seguendo semplicemente il suo cuore.
Ben promise che avrebbe fatto lo stesso, una volta ottenuto il Keyblade.
Anche Chicco era svanito; Ben era troppo preso dai suoi pensieri, per accorgersene.
-Anche lui…- mormorò, sospirando.
La terza piattaforma. La terza domanda.
Una terza persona che lo stava attendendo: Mal.
Si era innamorato di lei al primo sguardo: forse non sarebbe stato necessario un incantesimo d’amore, su di lui. O forse sì. Avrebbe sposato Audrey per dovere, e non per amore.
Sarebbe stato infelice per tutta la vita: questo i suoi genitori non potevano permetterlo.
Volevano che il figlio fosse felice e non che vivesse il resto dei suoi giorni seguendo delle regole.
Per questo Belle non si mostrò contrariata alla rottura del fidanzamento con la figlia di Aurora.
Inizialmente, Belle ed Adam non videro di buon occhio Mal, in quanto figlia della donna che aveva rapito Belle con lo scopo di usare il suo cuore per accedere a Kingdom Hearts. Ma si erano accorti che non era come la madre, quindi avevano dato la loro benedizione.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Ben non indugiò nella risposta: -Garantire pace e serenità ad Auradon ed alle persone che amo.-
Mal svanì, come Belle e Chicco.
Le domande erano terminate. La prima parte della Prova era conclusa.
Di fronte a Ben era apparso uno scudo etereo, trasparente. Aveva la forma della testa del padre, quando era ancora una Bestia.
Allungò una mano, confuso ed affascinato, per toccarlo. Ma la sua mano toccò il vuoto.
-Cosa…?-
Sei a metà del tuo viaggio, Benjamin…”
Una voce improvvisa. Nella sua mente.
-Chi c’è?!- esclamò il ragazzo, dopo aver sobbalzato dallo spavento.
Il tuo viaggio per liberarti del peso e dalla colpa che ti porti nel cuore. Ma non temere. Tu sei figlio di una Principessa della Luce. L’Oscurità non deve spaventarti. E il tuo peso non deve gravare nel tuo cuore. Nessuno sarebbe stato in grado di salvare Auradon dall’Oscurità. Nemmeno Sora.”
-Nemmeno Sora…?-
“Ricostruirai il tuo mondo, più forte di prima, con l’aiuto dei discendenti delle Principesse di Luce.”
Come aveva promesso Yen Sid: lui, Chad ed Audrey, una volta fortificata la Luce nei loro cuori, sarebbero stati in grado di ricostruire Auradon, come era avvenuto nella leggenda della Guerra dei Keyblade.
Una porta era apparsa, dietro di lui. A doppia anta.
La sua prova non era ancora finita.
-Quindi il vero Tuffo nel Cuore inizia adesso…- mormorò, mordendosi le labbra.
Era deciso ad andare fino in fondo, per adempiere al suo desiderio e dovere: allungò una mano, aprendo la porta.
Una luce accecante lo costrinse a chiudere gli occhi. Ma avanzò ugualmente. Doveva terminare la sua prova.
Alla Luce seguì il Buio. Di nuovo.
Ma non era un buio come quello che circondava le piattaforme, impossibile da vedervi attraverso.
Era un buio visibile. Con una flebile luce che rendeva lo scenario almeno un poco visibile.
Ben si trovava in una stanza. Disordinata, distrutta: tendaggi a brandelli, mobili distrutti.
Ma qualcosa, in quelle decorazioni, avevano un’aria familiare.
-Assomiglia alla stanza dei miei…- mormorò il ragazzo, avanzando, guardandosi intorno –Ma i domestici devono aver scioperato per settimane...-
C’erano dei segni strani sui mobili: dei graffi. Molto profondi.
Ben sfiorò uno di quei graffi: per poco una scheggia non rimase conficcata in una delle sue dita.
-Ma cosa è successo qui…? Sembra essere passato un uragano. O una bestia.-
Osservò alle sue spalle: un dipinto. A brandelli.
Notò, però, un paio di occhi azzurri. Ciocche di capelli rossi. E dei lineamenti simili ai suoi.
Per fortuna, il dipinto non era stato fatto a pezzi e sparso per tutta la stanza: una parte del dipinto era solo strappata, ma era ancora attaccata alla radice. Si era solo rivoltata.
A Ben bastò solo prendere un lembo della tela e farla combaciare con la parte ancora intatta.
Un giovane simile a lui, ma con gli occhi azzurri. Quel ragazzo era uguale a suo padre.
Era suo padre, il principe Adam. Da giovane. Quando aveva poco meno dell’età di Ben, e nulla della sua calma e diplomazia. Poco prima di divenire la Bestia.
Ben aveva ereditato solo i lineamenti del volto, dal padre: il resto lo aveva preso dalla madre Belle.
Alla sua età, gli raccontava Adam, era irruento, egoista e viziato, sempre agiato da Tockins e dalla servitù. Era un bene, diceva sempre, che il figlio non fosse come lui da giovane.
-Questa è l’ala ovest!- realizzò Ben –Quando il castello era ancora sotto la maledizione della fata! È esattamente come me l’hanno descritta mamma e papà! Ma come può essere? Se la stanza è ancora così, allora vuol dire che c’è anche…-
Una luce rosa illuminò il suo volto.
Sotto una campana di vetro, una rosa luminosa.
La rosa. La stessa rosa che aveva maledetto il padre e tutto il castello, compresi i servitori. Tra cui Chicco.
Ben non avrebbe mai immaginato che un fiore così bello avesse avuto tale potere. Alla caduta di tutti i petali, il padre sarebbe tornato umano, o sarebbe rimasto una Bestia per sempre.
Se fosse accaduto il secondo caso, Ben non sarebbe nato.
Provò odio, contro quel fiore. Aveva rovinato il padre, ma era stata anche la sua salvezza: senza quella maledizione, suo padre non sarebbe stato la persona che conosceva. Era stata in gran parte opera del nonno e soprattutto della madre, ma anche quella rosa aveva avuto la sua parte nel cambiamento del padre.
Tuttavia, Ben percepiva ancora quella sensazione oscura: di volerla distruggere.
Le sue braccia e mani si stavano muovendo contro la sua volontà: stavano rimuovendo la campana di vetro.
La rosa era scoperta.
Era il suo momento, per vendicare la sorte del padre.
Su, avanti…” sentì, nella sua mente; una voce giovane; ma non la sua; una voce sconosciuta “Vendica tuo padre! Falla a pezzi!”
La sua mano si strinse a pugno, contro la sua volontà. Lo alzò.
Urlò, quasi ruggendo. E poi lo scagliò contro la rosa.
Ma essa rilasciò un’onda d’urto, appena fu “toccata”.
Ben venne scaraventato contro un mobile, battendo la testa. Solo allora si rese conto della sua azione: non era in lui.
Qualcun altro lo stava manovrando.
La luce era svanita. Anche la rosa.
Gli occhi di Ben vennero oscurati da un’ombra che lo circondò completamente.
Un essere alto quasi due metri, completamente coperto di peli, due corna, bocca zannuta.
E dei ringhi come sospiri.
-P-papà…?-
Era come sua madre, Chicco ed ogni servo del castello descrivevano suo padre, da Bestia.
L’essere alzò lo sguardo: i suoi occhi non erano azzurri. Ma marroni.
Osservavano Ben con odio e rabbia.
Il ragazzo impallidì: quel mostro era lui! Quando Audrey lo aveva maledetto, tempo prima.
La paura non riuscì ad immobilizzarlo: si alzò, e scappò, uscendo dall’ala ovest.
Se stesso Bestia lo inseguì, continuando a ruggire.
Per fortuna, Ben conosceva il castello. Sapeva dove svoltare e dove recavano i corridoi.
Si voltava spesso indietro, per sapere quanto la Bestia distanziasse da lui.
Non poteva nascondersi: se l’altro se aveva un poco di lume della ragione rimastogli in testa, avrebbe saputo ed anticipato ogni sua mossa.
Tentò inutilmente di rovesciare delle armature, per rallentare l’altro se: ma esso le saltava o le scostava con forza.
Se avesse avuto un Keyblade, lo avrebbe affrontato senza problemi. Come avrebbe fatto Sora.
Si ritrovarono nella hall.
L’altro Ben fece un balzo, cercando di aggredire quello vero. Ma il vero Ben riuscì ad abbassarsi.
L’altro finì in mezzo alla hall.
C’erano solo tre uscite: l’ala est, dove si trovava la sua stanza, la sala da ballo, ed il cortile.
La via del cortile era bloccata dal Ben Bestia, che si rialzò, ringhiando.
Le altre due erano delle trappole, non delle vie di fuga.
Se avesse preso le scale per l’ala est, l’altro se avrebbe avuto il tempo di aggredirlo. E lui non avrebbe superato la prova.
Rimaneva solo la sala da ballo. Non avrebbe avuto altre vie di fuga. Ma non poteva affrontare un ostacolo senza arma. Sarebbe stato un suicidio.
Ben prese la maniglia e cercò di spingere.
-Non si apre! Dannazione!- imprecò, cercando di aiutarsi anche con un piede.
Sentiva i ringhi del Ben Bestia sempre più vicini.
-Avanti! Avanti!- esclamava, battendo sulla porta.
L’altro fece un balzo in avanti, travolgendo il vero. Sfondarono, insieme, la porta della sala da ballo.
L’altro sopra. Il vero sotto.
Una vera Bestia.
Erano faccia a faccia. E si stavano osservando negli occhi marroni.
Ben era bloccato. Non sapeva come liberarsi.
Tremava. Specie quando l’altro aprì la bocca, piena di zanne.
Lì urlò.
Aveva fallito. Non sarebbe mai divenuto custode del Keyblade.
Qualcosa, però, separò violentemente i due Ben: la Bestia fu colpita da un raggio di luce; di conseguenza, venne scaraventata contro una colonna, battendo la testa.
Cadde, scuotendo la testa, ancora cosciente. L’impatto era stato tale che la colonna si era distaccata dallo stipite, persino dal pavimento.
Schiacciò l’altro sotto il suo peso. La Bestia perse i sensi.
Quello vero osservò lo spettacolo con orrore e sorpresa insieme.
Stava ancora tremando, ma riuscì almeno a mettersi a sedere.
-Uno spettacolo davvero pietoso…- la voce che aveva sentito nella sua mente. Era reale. Stava riecheggiando per la sala.
Un’altra persona stava avanzando verso Ben: un ragazzo, armato di Keyblade.
-Non è possibile…!- Ben scacciò tutta la sua paura, nel vedere quel ragazzo –Tu sei… Sora?!-
Occhi blu brillanti, ma seri, stavano fissando Ben.
Era esattamente come lo avevano descritto i suoi genitori: un ragazzo della sua età, castano, capelli a punta, occhi blu. E completo scuro. Creato con la magia delle tre fate buone, le stesse che avevano creato gli abiti da allenamento per i profughi di Auradon.
-Cielo…- Ben si rialzò in piedi, camminando verso l’altro ragazzo, sorridendo; Ben aveva sempre ammirato Sora, dai racconti dei suoi genitori, specie della madre; sognava spesso il giorno in cui lo avrebbe incontrato dal vivo; non si sarebbe aspettato di vederlo praticamente suo coetaneo –Sora, tu non immagini da quanto tempo desiderassi incontrarti…!-
-E farti salvare da me, non è vero?-
Una risposta secca e sgarbata: il sorriso di Ben svanì. Sembrava sorpreso da quella risposta.
Secondo i suoi genitori, Sora era un ragazzo solare, amichevole, sempre con il sorriso sulle labbra.
Non era come il Sora che aveva di fronte: questi stava fissando il Keyblade, squadrandolo, per trovare qualche imperfezione come ammaccature o macchie di sangue. Ma sempre con sguardo serio.
-Esattamente come ti è capitato in passato, figlio di Belle e di Adam. O Bestia.- sapeva chi era; e di chi era figlio; camminò verso Ben, per poi girargli intorno –Ogni volta che sei in pericolo, sono sempre i tuoi amici a salvarti. Ti affidi a loro, perché ti fidi. O perché da solo sei incapace di tirarti fuori dai guai?-
Un tono aggressivo, di rimprovero. Ben non se lo aspettava da Sora.
-E tu vanti di essere un re? Attendi sempre che siano i tuoi amici a risolvere i tuoi fallimenti. Resti seduto sul tuo trono, e aspetti che le persone intorno a te raccolgano le briciole che spargi e che spazzino il pavimento. Ti sei salvato da solo contro Malefica? O Uma? Hai spezzato da solo la maledizione che Audrey ha scagliato su di te ed Auradon?- fece “no” con il dito –No, è sempre stata Mal a fare quel lavoro per te. Davvero patetico…-
Era così, infatti: Ben era sempre stato la vittima, ogni volta che Auradon veniva attaccata; e Mal era la sua salvatrice. Ed i suoi amici.
-E quando Auradon è stata divorata dall’Oscurità, cosa hai fatto, Ben? Aspettavi che apparissi dal nulla? Che vi salvassi tutti? Che spazzassi via quegli Heartless?-
Quel ricordo dilaniava sempre il cuore del principe: il vero giorno in cui si era sentito impotente di fronte ad un pericolo presentato dall’Oscurità. Non sapeva cosa fare: era immobilizzato. Era completamente incapace di difendere il suo mondo. Era disarmato, contro gli Heartless. Neppure la luce che aveva nel suo cuore era riuscita a salvare lui e gli abitanti di Auradon. Non era stata sufficiente. Neppure se combinata con quella di Audrey e Chad.
Non erano abbastanza forti, contro l’Oscurità.
-Ben, non ci saranno sempre gli altri a salvarti. Dovevi prevenire quell’invasione dell’Oscurità. Era il tuo dovere come re. Auradon sarebbe ancora intatta, se tu non fossi un debole.-
Le sue parole erano taglienti e velenose, ma vere.
Non era niente di diverso da quello che Ben si rimproverava ogni giorno: ma sentirlo pronunciare dalla persona che ammirava più di tutti era ancora più doloroso.
Auradon doveva essere il luogo che in cui si sarebbe preparato per contrastare ogni minaccia dell’Oscurità. Per lui, Audrey e Chad, in quanto figli di Principesse della Luce.
Ma la Fata Smemorina aveva preferito dare la priorità alla preparazione dei tre principi in quanto tali, su come gestire un regno, non come difenderlo.
-Lo vedi quell’essere, laggiù?- Sora stava indicando l’altro Ben, la Bestia -O la rosa che hai tentato di distruggere? Rappresentano tutti i tuoi fallimenti da re. Avresti dovuto affrontarlo da solo, perché quella era la tua prova. Ma hai fallito. Non sei capace di risolvere i tuoi problemi da solo. Lasci sempre che siano gli altri a risolvere i tuoi fallimenti. E ti hanno reso un debole. Come puoi pretendere di proteggere gli unici sopravvissuti, se non sei stato capace di difendere un mondo intero?-
Ben si era di nuovo avvicinato a se stesso, abbassandosi, fissando il volto privo di sensi.
La personificazione dei suoi fallimenti: la rosa e la Bestia.
Due nemici interiori temibili: uno per quello che aveva fatto al padre, l’altro per quello che era diventato a causa della sua incapacità di gestire un’emergenza.
Quello in cui lo aveva trasformato Audrey.
Era stato un incapace: con l’incursione di Pietro e Malefica, con Uma e anche con Audrey. Non era stato capace di proteggere Auradon. Si era affidato a Mal. E questo aveva messo in crisi anche lei, con il peso del regno sulle sue spalle.
Inoltre, le parole di Sora avevano fomentato i suoi dubbi ed incertezze su se stesso: perché lui? Solo perché era figlio di una Principessa della Luce?
L’unica spinta che lo incitava a proseguire per quella strada era proprio Sora. L’idea che si era fatto del ragazzo che aveva salvato ed aiutato i suoi genitori contro Malefica, Xaldin e Gaston: impavido, valoroso, determinato.
Non il ragazzo che aveva di fronte, cinico e crudele.
Il suo unico pilastro era crollato. Ben sentì un grande vuoto dentro.
Strinse la zampa dell’altro se stesso.
-Per questo ho accettato…-
Alzò di nuovo lo sguardo verso Sora: delle lacrime stavano scendendo dalle sue guance.
-Per questo ho accettato di divenire custode del Keyblade!- rivelò, arrabbiato, deluso, triste; per se stesso –Sapevo di non essere all’altezza di essere un re, ma dovevo farlo, per non deludere i miei genitori, per tutte le persone che hanno avuto fiducia in me! Ad avermi dato forza sei sempre stato tu, Sora. Volevo e voglio tutt’ora essere come te! Solo il cielo sa quante volte ho desiderato che tu giungessi ad Auradon, per darmi dei consigli, per risollevarmi il morale.- aggrottò lievemente le sopracciglia –Ma le tue parole mi hanno fatto capire che non posso affidarmi ciecamente ad una persona. Non è questo che significa vivere. Hai ragione, ho fatto degli sbagli e non sono stato capace di proteggere Auradon dall’Oscurità. Adesso sono un re senza regno. Ma non significa che starò qui a piangere su me stesso. Quei fallimenti mi renderanno solo più forte, per evitare che accadano di nuovo, in futuro! È impossibile vivere senza compiere degli sbagli, e io ho imparato molto! Non sono degno di essere re, ma voglio comunque essere un custode del Keyblade per divenire più forte e proteggere coloro che amo dall’Oscurità più potente!-
Sora continuava a fissarlo con sguardo freddo e privo di sentimenti.
Ben non poteva cedere: si era fissato un obiettivo e lo avrebbe perseguito fino alla fine. Avrebbe rimediato ai suoi errori. E lo avrebbe fatto da solo. Finalmente.
Il Keyblade fu puntato in avanti.
-Allora dimostramelo, Benjamin.-
Il cuore di Ben sussultò: una sfida.
Contro Sora. Il suo idolo.
Avrebbe dimostrato, soprattutto a se stesso, di non essere un debole, un incapace.
Ma non aveva niente, per siglare quella sfida.
Improvvisamente, il corpo di Ben-Bestia si illuminò. Divenne una sfera lucente, per poi mutare di nuovo forma: un Keyblade.
Blu e dorato, con l’elsa a forma dell’effige di Auradon. E come lama, la testa di suo padre ancora Bestia, di profilo, con le fauci aperte.
Ben aveva accettato i suoi fallimenti: aveva smesso di piangerli o respingerli.
I fallimenti erano parte della sua vita di re, prenderli come esempio per non ripeterli in futuro.
Capì che non era affrontare il se stesso Bestia, la prova: era combattere contro Sora. Il suo pilastro, il suo esempio, ma anche le catene che lo ancoravano ai suoi dubbi ed incertezze.
Si era legato al personaggio di Sora, sperando di poter essere come lui. Ma non aveva sviluppato una propria personalità. Questo aveva comportato la perdita di Auradon e la sua “incapacità”.
Non doveva essere come Sora. Doveva prendere solo un esempio di lui: seguire il suo cuore.
E il suo cuore, in quel momento, era deciso a far dimostrare a Sora di essere degno di brandire un Keyblade.
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Sora si mise in posizione di combattimento. Anche Ben fece la medesima cosa.
Entrambi si erano messi nella medesima posizione.
Caricarono l’uno contro l’altro, incrociando i propri Keyblade. I loro sguardi si incrociarono, determinati.
Ben contro il suo idolo. Contro la persona che aveva preso come esempio di persona.
Ancora non poteva crederci. Ma doveva affrontarlo, se voleva tornare nella Torre Misteriosa e cominciare il suo allenamento con il Keyblade.
Iniziarono il vero scontro: Sora fece una piroetta su se stesso, cercando di colpire Ben con un colpo laterale, che fu parato. Ben deviò il Keyblade avversario e tentò un colpo verticale, che fu evitato con un salto.
Nessuno dei due riusciva a colpire l’altro.
Sora, ad un certo punto, aveva incanalato dell’energia nel suo corpo, risplendendo di una luce bianca. Eseguì una serie di colpi ininterrotti verso Ben. Questi si stupì, preso alla sprovvista.
Fece del suo meglio per evitare o parare quei colpi, ma erano troppo veloci per lui, essendo alle prime armi con il Keyblade.
Sora, successivamente, fece un salto all’indietro, caricando il Keyblade dietro la schiena e lanciandolo contro Ben.
Ben era ancora stordito dai colpi subiti: il Keyblade di Sora lo colpì sulla fronte, facendolo cadere.
Il suo Keyblade era davvero pesante. Non era come la spada che era solito impugnare agli allenamenti, ad Auradon.
Sora lo usava con maestria, ed era più magro e meno muscoloso di lui. Forse non era questione di peso, quanto di abilità. E se era vero quello che aveva detto Yen Sid, che un Keyblade era il riflesso di un cuore, allora il suo era davvero pesante, gravato dai suoi dubbi, soprattutto su se stesso.
Il Keyblade tornò nella mano di Sora.
Ben si mise seduto sul pavimento: il colpo sulla testa lo stava costringendo a vedere le immagini distorte, come fosse su una nave in tempesta. Ai suoi occhi, la stanza stava oscillando. E l’immagine di Sora sdoppiarsi, triplicarsi. Ma lo vedeva camminare verso di lui.
Ben doveva tornare in sé. Doveva, per mostrarsi degno di possedere un Keyblade.
Scosse la testa, con la speranza di tornare a vedere le immagini nitide.
Sora era sempre più vicino.
Stava puntando il Keyblade verso il cuore di Ben. Ancora quello sguardo freddo e deluso.
-Sei patetico…- mormorò, stringendo sull’impugnatura –Non sei degno di essere re di Auradon.-
Aveva dato voce ai suoi timori, ai suoi dubbi. Dal primo momento.
Era improbabile che il vero Sora fosse stato in grado di leggere nel cuore di Ben. Conoscere le sue paure, i suoi fallimenti, usare le parole giuste per ferirlo. Solo lui stesso sapeva come fare.
Infatti, alzò lo sguardo verso il suo avversario, con aria infuriata.
-Tu non sei il vero Sora!-
Rapido, stringendo bene l’impugnatura del suo Keyblade, eseguì un colpo laterale con giravolta sul Keyblade avversario, facendo barcollare il suo custode.
Da sempre aveva intuito che non fosse quello vero.
Era nel suo cuore: niente di quello che vedeva era vero. Solo illusioni create dal suo stesso cuore.
E con esso, tutte le sue paure, i suoi timori. Avevano preso la forma della persona che Ben aveva idolatrato in tutti quegli anni. Per distogliersi da quell’immagine e spingerlo a credere in se stesso.
Con quell’urlo, Ben si era liberato dalle catene che lo tenevano legato all’esempio di Sora da seguire.
Di conseguenza, “Sora” si era improvvisamente indebolito.
Ben non provò più alcun dubbio: finalmente avrebbe imparato a credere in se stesso e non essere più dipendente dai suoi amici.
-Io sono Benjamin, figlio di Belle e di Adam!- urlò, per darsi più forza e coraggio –Sovrano di Auradon! Futuro custode del Keyblade!-
Caricò contro “Sora”. I suoi colpi si erano fatti più potenti. Perché era più sicuro di sé. Più determinato.
“Sora”, infatti, si trovò in difficoltà a parare quei colpi: il suo Keyblade quasi scivolava dalle sue mani, a causa dell’impatto violento. Ma lasciava la guardia scoperta.
Un ultimo colpo, un ascendente obliquo, decretò la sua fine: il colpo precedente aveva fatto scoprire il petto, facendo deviare il Keyblade a destra. Era il momento giusto per colpire.
“Sora” aveva assunto uno sguardo sorpreso, appena venne colpito.
Il suo Keyblade cadde, svanendo nel nulla.
-Ma come ha fatto…?- mormorò, prima di cadere sulle ginocchia.
Ben non era pentito del suo gesto; ma sentì comunque la sensazione di soccorrere “Sora”, cadendo anche lui e prendendolo tra le sue braccia.
-Avrai anche preso l’aspetto di Sora…- rispose Ben, finalmente sereno ed in pace con se stesso –Ma non sei lui. Sei solo un’illusione del mio cuore. E sei la mia vera prova. Sei sempre stato tu. Non solo l’altro me stesso.-
“Sora” accennò una risata.
-Allora non sei così incapace come credi di essere.- disse, fissando gli occhi marroni, ancora con sguardo freddo –Ce l’hai fatta, Ben. Ti sei liberato dalle tue catene e liberato davvero il tuo cuore da un idolo e dalla tua Oscurità, fatta di timori ed incertezze.-
-Mai più mi lascerò trascinare da questi sentimenti. Mai più.- promise Ben –Non posso. Come sovrano di Auradon non posso permettermelo. Ma…- il suo sguardo si fece ancora più malinconico –Avrò ancora bisogno della guida di Sora, per andare avanti. Dici che riuscirò ad incontrarlo, un giorno?-
“Sora” sorrise di nuovo: una strana luce lo attraversò. E stava quasi divenendo trasparente.
-Ancora non riesci a staccarti da lui, vero…?- accennò di nuovo una risata -Io sono solo un riflesso del tuo cuore. Non ho una risposta vera ed oggettiva per la tua domanda. Ma se proprio ci tieni, segui questo esempio, di Sora: ascolta il tuo cuore. Ti darà tutte le risposte che cerchi.-
Seguire il proprio cuore.
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Ben non comprese la frase del falso Sora. Questi svanì in mezzo a tante luci.
Il ragazzo era rimasto con una manciata di luce sulle mani. E con tante domande nella testa.
Guardò in avanti, insospettito da un rumore: la finestra della sala da ballo stava svanendo, tramutandosi in petali di rosa. La stessa sorte stava accadendo al resto della sala.
Fino ad arrivare a Ben.
Ma non fu nel vuoto, in cui cadde: era apparsa un’altra piattaforma.
Sua madre Belle, con il suo vestito dorato e gli occhi chiusi. E suo padre, ancora Bestia, che spuntava dietro di lei.
-Mamma…? Papà…?- mormorò Ben, osservando quell’immagine con nostalgia –Auradon è perduta. La Fata Smemorina aveva torto su di me. Non sono degno di seguire la stessa strada della mamma. Non sono stato capace di proteggere il mondo che mi ha ospitato. Ma sto cercando di rimediare, diventando custode del Keyblade, ed essere capace di proteggere ciò che mi rimane. Mi sono sempre affidato all’immagine che mi avete sempre dato di Sora. Volevo essere come lui. Ma lui stesso mi ha fatto capire che non posso essere la copia di qualcun altro, ma essere me stesso. Vi prometto che sarò un degno sovrano per Auradon, quando Audrey, Chad ed io la ricostruiremo! E sarete fieri di me! Spero di rivedere presto anche voi. Vi voglio bene.-
Saltò in alto: rimase sospeso in aria. Non sembrava sorpreso. Era come se già sapesse cosa fare.
Puntò il Keyblade verso il cuore della madre: un raggio luminoso colpì l’immagine, sul petto.
La piattaforma si illuminò completamente, riempiendo di Luce persino l’Oscurità circostante.
Ben aveva superato la prova.
Chiuse gli occhi, lasciandosi sommergere dalla Luce…

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"When you take a look inside yourself
do you wish that you were something else.
But who you are
is who you need to be"

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Capitolo 12
*** Chad's Story ***


Note dell'autrice: sì, ho messo un personaggio di Descendants 2 e 3 che non ho voluto mettere di proposito nella storia in generale, perché... beh, diciamo che nei film ha sempre avuto un ruolo marginale. Lo stesso motivo per cui non ho voluto mettere Celia, Squeaky e Squirmy, tra i protagonisti di queste serie crossover KingdomHeartsXDescendants.


 
Chad's Story


La nascita del principino Chad, primogenito di Cenerentola e del Principe, aveva donato giubilo in tutto il regno.
E con i topolini Jak e Gus era stato amore a prima vista: si affezionarono subito a quella piccola e tenera creatura. E Chad, già da neonato, sorrideva ai piccoli amici di sua madre.
Crebbe circondato dall’amore ed affetto della madre, del padre, del nonno, dei servi, e dei topolini. Chad era la persona più amata, all’interno del castello. Ma tale amore era affiancato al suo vizio.
Essendo principe, niente poteva essergli negato.
I servi non potevano obiettare ai suoi capricci, ma Cenerentola sì.
Ogni volta che si vestiva come una popolana per andare al mercato, portava anche il figlio con sé, appena superate le sue crisi e capricci perché veniva costretto a vestirsi come un comune popolano, al posto degli abiti da principe che amava.
Sua madre gli diceva sempre che il modo migliore di conoscere le persone era essere come loro, parlare con loro e pensare come loro. Questo aiutava l’interazione tra i reali ed i popolani, affinché regnasse la pace e l’equilibrio nel regno.
Voleva iniziare il figlio all’umiltà, come suo padre e sua madre avevano fatto con lei, e farlo camminare nel borgo, in mezzo alle persone comuni, le sembrava un buon inizio. Forse era persino più importante delle lezioni di galateo di Prudence.
Chad era ancora piccolo, ancora non comprendeva i discorsi della madre.
Anzi, proprio non l’ascoltava neppure: non voleva uscire dal castello e distogliersi dai suoi giochi e dai suoi amichetti topolini. Per agevolarlo, anche loro si univano alle passeggiate tra madre e figlio. Questo diminuiva i suoi capricci.
Cenerentola passava spesso dal fornaio, suo cognato, anche per far visita alla sorellastra Anastasia: i due avevano un figlio di un anno più piccolo di Chad, Andrew.
Non erano cugini di sangue, ma di fatto lo erano. Lo divennero con il tempo.
Dal suo primo incontro con Andrew, infatti, Chad attendeva impaziente il giorno in cui la madre lo portava nel borgo: lei lo lasciava dalla sorella, per poi andare al mercato, e lui giocava con il cugino.
Con loro c’erano anche Tamara, la figlia di Tobia, cane di Cenerentola, ed i figli dei topolini, tra cui Jean, figlio di Jak e Mary, e Augusta, figlia di Gus, anche lei detta Gus, per giocare.
Non era raro, infatti, che i due bambini scappassero insieme agli animali, per giocare al riporto. Anastasia, però, riusciva sempre a prenderli, prima che si allontanassero troppo.
Fu in uno di quei giorni che, di fronte alla panetteria dello zio, Chad si imbatté in quattro persone.
-Guarda dove vai, villano!-
La voce era quella di una signora anziana. Lo aveva spinto violentemente per la fronte e lo aveva fatto cadere. Se avesse saputo che era il principino, si sarebbe subito scusata.
Seduto per terra, avrebbe voluto urlare e protestare per il suo tono, ma rimase paralizzato, ad osservarli: dai loro modi di camminare e da come erano vestiti, dovevano essere dei nobili.
Una donna anziana dai capelli grigi raccolti e portamento fiero e sicuro, la stessa che lo aveva appena maltrattato, una coppia composta da una donna dai capelli neri acconciati all’ultima moda, come lo era il suo vestiario, e da un uomo da fini capelli rossi vicino alla stempiatura, baffi folti del medesimo colore, e medagliette al valore affisse sulla giacca; e, a chiudere il gruppo, una bambina di circa la stessa età di Chad ed Andrew, dai capelli rossi raccolti in due code laterali ed un abito verde. Era bruttina, ma attirò comunque l’attenzione dei due bambini. Tra le braccia, un micio di sei mesi dormiva come se fosse sopra un cuscino.
Anastasia, come era solita fare ogni giorno, era riuscita ad acchiappare i due bambini, prima di perderli al mercato: nel vedere quella famiglia, si illuminò.
Specie nel vedere la donna.
-Genoveffa! Genoveffa!- aveva urlato, sorridente, e correndo verso di lei.
Nessun abbraccio. Nessun saluto. Solo una rapida occhiata accompagnata da una smorfia di disgusto.
-Andrew, tu sai chi sono loro? E perché zia Anastasia è corsa da loro?- domandò Chad, confuso.
-Perché loro sono mia zia Genoveffa e mia nonna, sua sorella e la sua mamma. Non le ho mai viste, ma mamma mi racconta sempre di loro. Dice che la nonna è sempre stata una donna ambiziosa, anche se non so cosa vuol dire. E voleva che mamma e zia si trovavano un marito ricco e nobile, come lei ha fatto con tuo nonno. Ma nonna e zia non parlano più con la mamma da quando ha sposato papà, perché per loro papà è inferiore. A volte non capisco le parole degli adulti. Ma zia si è sposata uno ricco, quindi quella deve essere mia cugina.-
Cenerentola raccontava spesso al figlio di quando era domestica nella sua stessa casa, dei maltrattamenti della matrigna e delle sorellastre, specialmente della matrigna, quindi anche lui sapeva di Genoveffa e di Madame Tremaine.
Erano racconti a scopo educativo, per insegnargli ad essere sempre gentile con il prossimo e non trattarlo mai male per capriccio o perché lo reputasse “inferiore” a lui.
Secondo Cenerentola, tutti, nel regno, avevano pari diritti e doveri, in quanto esseri umani, e nessuno doveva permettersi di scavalcare o calpestare l’altro. Ella stessa era figlia di un nobile, ma suo marito l’amava per quello che era, non per il suo rango sociale.
Mentre Chad pensava, Tamara aveva raggiunto i due bambini: aveva fiutato qualcosa di insolito, nell’aria.
Il gatto della bambina.
Questi, infatti, si svegliò, sbadigliando e quasi stiracchiandosi.
Tamara ringhiò, fissando il gatto. Il gatto soffiò e si irrigidì tutto. Poi scivolò dalle braccia della padroncina.
Lei sussultò.
-Lucius!- esclamò.
Si voltò indietro, per un attimo: i genitori e la nonna non erano distanti. E non c’erano molte persone, al mercato. Pensò che sarebbe stata capace di riprendere Lucius e tornare da loro.
Lo inseguì, senza correre. Non poteva, con i tacchi.
-Lucius! Torna qui!-
Gatto e cane si rincorsero per tutto il mercato, scatenando il panico tra la gente.
Anche Chad ed Andrew inseguivano Tamara.
-Tamara! Qui!- ordinava Chad, correndo.
Li trovarono entrambi alla piazza della fontana. Lucius era in cima alla fontana, miagolando di paura, mentre Tamara abbaiava, con le zampe anteriori sul bordo della fontana.
-Tamara!- chiamò Chad, battendo un piede più volte –Qui, bella!-
Andrew tirò qualcosa fuori dalla tasca, una fetta di prosciutto dal panino che aveva preparato il padre, per la merenda.
-Guarda cosa ho qui per te, Tamara.-
L’odore del prosciutto allettò il cane. Si allontanò dalla fontana, per raggiungere i due padroncini.
Anche la figlia di Genoveffa entrò nella piazza della fontana. Sembrava imbronciata.
-Lucius! Torna subito qui!- esclamò, seccata ed infastidita.
Miagolando, Lucius saltò dalla fontana alle braccia della padroncina.
-Stupido gatto.- borbottò lei.
Aveva preso l’irritabilità della madre.
-Ti chiediamo scusa.- si fece avanti Chad, con voce flebile –Tamara è ancora una cucciola. È disobbediente e quando vede un gatto diventa pazza.-
La bambina fece un verso di disgusto.
-La mia nonnina dice sempre di non rivolgere la parola a dei popolani come voi. E guardate!- scostò il gatto per scoprire il busto del vestito; c’erano delle impronte di gatto -Per colpa del vostro cane, il mio gatto mi ha sporcato il vestito!-
-Ma volevamo solo chiederti scusa.- aggiunse Andrew, avvicinandosi a Chad e Tamara –E anche darti un dolcetto caldo appena sfornato del mio papà.-
L’idea del dolcetto sembrò allettare la bambina.
E Andrew non riusciva a credere di star parlando con sua cugina.
-Comunque, io sono Andrew. Lui è Chad. E la nostra cagnolina si chiama Tamara. Tu come ti chiami?-
-Lui è Lucius. Io mi chiamo…-
-Jeffy!-
La bambina si voltò di scatto, spaventata: la donna anziana di prima stava camminando con passo pesante e furioso verso i bambini.
-Quante volte ti ho detto che non devi parlare con i villani?! Te lo avevo proibito!-
-Nonnina, scusami. Lucius era scappato, e…-
Ma la donna l’aveva ugualmente presa per un polso.
-Forza, andiamocene da qui! Muoviti! I tuoi genitori stanno aspettando!-
-Nonna, aspetta!- esclamò Andrew, avvicinandosi a loro –Io sono Andrew. Sono il figlio di Anastasia. Sono anche io tuo nipote!-
Il padre era rimasto orfano da anni. E Andrew desiderava tanto avere una nonna.
Jeffy era rimasta stupita da quella rivelazione. Ma Madame Tremaine restò impassibile e disgustata.
-Chi è Anastasia? Non ho nessuna figlia con quel nome. Io ho solo una figlia e una nipote. Di fronte a me vedo solo feccia di strada. Muoviti, Jeffy, o finirai come quella marmaglia!-
Era esattamente come Cenerentola l’aveva descritta. Chad non comprese come la madre avesse avuto il coraggio di perdonare una persona come la matrigna.
-Ho un cugino?!- esclamò Jeffy, mentre la nonna la trascinava via –Nonna, perché non mi hai detto che ho una zia e un cugino?!-
-Smetti di fare i capricci e non fare domande sciocche! Lo faccio solo per il tuo bene!-
Erano appena uscite dalla piazza. Era impossibile raggiungerle, ormai.
Persino Jean ed Augusta, nascosti nel colletto di Chad, non riuscirono a fare a meno di provare tenerezza per Jeffy. Anche i loro genitori conoscevano bene la cattiveria di Madame Tremaine.
Ed essere nonna non l’aveva cambiata neanche un po’.
Lo stesso stavano provando i due bambini, specialmente Chad: secondo sua madre, tutti meritavano una seconda occasione.
Anastasia aveva avuto la sua, per farsi perdonare le cattiverie che aveva commesso con Cenerentola, innamorandosi e sposando un semplice, ma dolce fornaio.
Per Genoveffa non c’era più niente da fare: ma forse era possibile impedire che la figlia divenisse come la madre o la nonna.
Quella sera, una volta tornato al castello, parlò con sua madre, mentre gli pettinava i riccioli biondi.
-Sai, mamma, oggi ho conosciuto la figlia di Genoveffa.-
-Ah, Jeffy? Finalmente vi siete incontrati!- si stupì Cenerentola, ma ne fu anche contenta.
-Cosa? Mamma, tu la conoscevi già?-
-Certo. Genoveffa, suo marito e la signora madre vengono sempre ai nostri balli, e portano anche lei. È una bambina molto schizzinosa che sta sempre sulle sue. Forse lo sapresti, se ti degnassi di scendere quando organizziamo i balli.-
Era un rimprovero accompagnato da una lieve risata.
Chad non amava i balli e gli eventi organizzati dai genitori o dal nonno. Altrimenti avrebbe già conosciuto Jeffy.
Cenerentola si fece nuovamente triste.
-Molto probabilmente sua nonna le starà proibendo di ballare con bambini che non siano popolani o nobili semplici, come ha fatto con Genoveffa e Anastasia.- sospirò –È sempre stata molto ambiziosa. E non è cambiata affatto. Non parla più con Anastasia da quando si è sposata. E scommetto che non riconosce Andrew come nipote.-
Quello che aveva detto Andrew era vero, dunque, pensò Chad.
-Infatti lo ha trattato come fosse un estraneo. Ha anche detto delle brutte parole su zia Anastasia.-
-Non mi stupisce affatto. È una cosa terribile da fare. Ma ti posso dire, mio caro Chad, che zia Anastasia non ha colpe. Ha solo seguito il suo cuore e non il suo dovere.-
Era un insegnamento che Cenerentola stava impartendo anche al figlio: seguire il cuore, non il dovere. Solo così i suoi desideri si sarebbero realizzati.
Infatti, Chad, in quello che disse in seguito, aveva seguito il suo cuore.
-Mamma, per il mio compleanno non voglio la solita festa dagli zii ed Andrew!- decise, voltandosi verso la madre –Voglio una vera festa, qui, a palazzo. Con delle decorazioni azzurre in tutto il castello. E un ballo. E un banchetto! E anche una bella torta! Ma voglio che ci sia anche lo zio a prepararla! Lui sa quale è il mio dolce preferito, ma lo voglio grande grande grande!-
Cenerentola fu stupita di quella decisione.
-Chad, sei davvero sicuro? Pensavo non ti piacessero i balli…-
-Invece voglio che si organizzi un ballo in mio onore!- ribatté il bambino, salendo sulla sedia, sicuro come un condottiero –E che siano invitati nobili e popolani! Tutti per me! Che mi facciano dei bellissimi regali! E voglio indossare un abito da vero principe! E una corona!-
-Chad, calmati, ti prego!- lo fermò, stranita, ma anche divertita; dovette essere costretta a fermarlo, prima che stillasse una lista infinita di richieste per il suo compleanno.
Stava parlando da bambino viziato. Ma forse il suo era solo entusiasmo.
Se Cenerentola aveva detto il vero, al ballo si sarebbe presentata anche Jeffy con la sua famiglia.
Sarebbe stata la sua occasione per parlarle. Il Chad popolano non sarebbe riuscito nemmeno ad avvicinarsi a lei, ma il Chad principe sì, se l’ambizione di Madame Tremaine era ancora allo stesso livello di anni prima.
Cenerentola aveva avuto bisogno dei suoi amici topolini, della Fata Smemorina, e anche di un forestiero armato di Keyblade di nome Ventus, per andare a quel ballo in cui avrebbe incontrato suo marito.
Basandosi su quella storia, la sua preferita, Chad avrebbe aiutato Jeffy: a lei sarebbero, però, bastati i due cugini, per liberarsi dalle catene di sua nonna. Forse anche dei due topolini Jean ed Augusta.
Il mese successivo, fu il compleanno di Chad. Le sue molteplici richieste erano state esaudite.
Suo zio, con l’aiuto dei cuochi reali, aveva fatto il suo dolce preferito, la torta al cioccolato farcita con la panna, ma per più di cento persone. La torta era grande circa dieci metri. Era stupenda.
E i decoratori reali avevano ornato l’intero castello con fiocchi azzurri e motivi dorati.
Gli invitati attendevano impazienti l’arrivo dei reali.
Intanto, si godevano il buffet, gustando ogni piatto preferito del principino, o ballavano sulle note dell’orchestra reale.
L’arrivo dei reali fu annunciato tramite il suono delle trombe: per primo venne annunciato il re, ancora fiero, poi il principe suo figlio, con la consorte Cenerentola.
Infine, il festeggiato. Il principino Chad.
In un elegante abito azzurro con le rifiniture dorate, un mantello che gli copriva solo una spalla, con una pelliccia bianca e nera all’orlo. E una corona sulla testa, come aveva richiesto.
Era la prima volta che Chad partecipava pubblicamente ad un ballo: tutti gli invitati furono stupiti di vederlo.
Invece, per il suo ottavo compleanno, aveva deciso di mostrarsi alla nobiltà.
Assomigliava molto a Cenerentola. Sembrava quasi la sua versione maschile.
Scendeva le scale tenendo la testa alta e salutando tutti in maniera impostata, come gli aveva insegnato Prudence.
Come festeggiato, doveva essere lui ad aprire le danze.
Doveva, quindi, scegliere una dama. E lui l’aveva già scelta. Doveva solo trovarla.
Si fece largo tra gli invitati, che si scostavano al suo passaggio. Fino a raggiungere una melanconica e solitaria bambina seduta su una delle sedie della sala. Portava un vestito verde smeraldo con delle foglie nere come fantasia. E sui capelli rossi acconciati in due chignon laterali, con due ciuffi che cadevano sui contorni del volto, aveva messo un cerchietto con una piuma verde laterale.
Si presentò a lei, facendo un inchino.
-Signorina Jeffy Tremaine…- disse, porgendole una mano –Posso avere l’onore di un ballo con voi?-
Jeffy fu stupita da quella richiesta. E quel bambino… aveva uno sguardo ed un aspetto familiare.
Sua nonna era lì vicino. Lei, invece, aveva riconosciuto Chad nel popolano in compagnia del nipote Andrew.
Si diede della sciocca ad aver rivolto parole pesanti contro di lui, definendolo “villano”.
Ma sembrava interessato alla nipote: e la sua ambizione non si era frenata, negli anni.
-Vai, Jeffy! Vai!- sussurrò alla nipote, infatti.
Lei si era voltata verso la nonna, con sguardo quasi intimorito, come se avesse paura di contraddirla.
-C-certo, mio principe…- rispose, quasi balbettando.
Si alzò, prendendo la mano di Chad.
Camminarono verso il centro della sala. Ad un cenno del principino, la banda iniziò a suonare il valzer.
Chad conosceva bene ogni ballo. Jeffy doveva solo seguirlo.
Anche il resto degli invitati si mise a ballare, nobili e popolani.
-Scusa per il tuo vestito. Le macchie sono andate via, vero?- mormorò Chad, a bassa voce, avvicinandosi all’orecchio della sua dama.
Jeffy si illuminò.
-Non posso crederci! Tu… sei il bambino della piazza della fontana!? Ma come è possibile?!-
-Mamma, ogni volta che deve uscire, veste anche me da popolano, così possiamo girare senza farci riconoscere.-
-E quel bambino che era con te, è vero che è mio cugino?-
-Mamma mi racconta di avere due sorellastre, una è la tua mamma, e l’altra è zia Anastasia.-
-Quindi non ho un solo cugino, ma addirittura due!-
La vide sorridere e ridere. Non era bella, ma il suo volto si illuminava, quando sorrideva.
Doveva parlare con lei. Conoscerla.
-Che ne dici di andare qui fuori?- propose.
Jeffy annuì, senza smettere di sorridere. Mise il suo braccio intorno a quello del principino e camminarono verso il cortile, dove anni prima, Cenerentola ed il principe si erano messi a ballare e passeggiare.
Ma, prima di uscire, Chad aveva rivolto uno sguardo verso il tavolo del buffet: Andrew stava riempiendo il piatto di tartine e carne. Anche Jean ed Augusta stavano prendendo qualcosa di nascosto insieme agli altri topolini. Ad un cenno del principino, un occhiolino e la testa che indicava l’esterno, tutti recepirono il messaggio.
Chad e Jeffy erano rimasti un attimo da soli. Si erano appoggiati al balcone, osservando il cielo notturno.
-È anche per questo che odio i balli.- confessò Chad, sistemandosi la corona sulla testa –C’è troppa gente e c’è tanto casino. Non capisco come mamma, papà o il nonno non impazziscano con questa confusione.-
-Ecco perché non ti ho mai visto! Sai, i miei genitori e la nonna mi portano sempre a questi balli, per prepararmi al futuro e farmi sposare uno ricco, dicono sempre. Ma nemmeno a me piacciono. Li trovo noiosi.-
Proprio come Cenerentola pensava: anche Jeffy era uno strumento per Madame Tremaine per ottenere titoli di prestigio e ricchezze a volontà, per alimentare la sua ambizione. Per questo aveva incoraggiato la nipote a ballare con il principino.
Una terza persona si unì a loro: Chad e Jeffy sentirono qualcosa stringere le loro nuche.
-Allora, che si dice?!-
Andrew stava abbracciando i due cugini. Per poco non caddero giù dal balcone, dalla sorpresa.
-Mamma e papà sono impegnati a ballare, come tutti gli adulti, quindi nessuno noterà la nostra assenza. Comunque, Jeffy, io sono Andrew. Sono tuo cugino.-
-Lo so.- Jeffy stava ancora sorridendo –E sono molto contenta.- poi, si fece malinconica -Sapete, sono sempre stata sola. Mi fanno uscire solo per mostrarmi al villaggio o nei balli, ma nonnina non mi permette di uscire quando voglio. Mi sento in trappola.-
Madame Tremaine aveva costruito una prigione per la nipote. Dorata, ma pur sempre una prigione.
L’unico motivo per farla uscire era per cercare marito. Pur essendo ancora una bambina, secondo la donna non era mai troppo presto per cercare un marito facoltoso.
Chad ed Andrew non riuscirono a nascondere la rabbia per la nonna. Dovevano liberare Jeffy da quella prigione.
E Chad aveva un’idea, sfruttando la sua posizione.
Due giorni dopo, infatti, un messaggero si era recato nella tenuta dei Tremaine. Ad avergli aperto era stata nientemeno che Madame Tremaine.
Un messaggio da parte del principino Chad, che invitava la giovane Jeffy a prendere il tè con lui, quel pomeriggio.
La donna era entusiasta: non poteva non approvare una richiesta del genere da parte di un principe.
-A quanto pare, hai giocato bene la tua carta, Jeffy…- aveva detto alla nipote, intenta, come sempre, a cucire vestitini per le sue bambole –Hai attirato l’attenzione del principino. È un ottimo partito, come marito, e tu stessa potresti diventare principessa. Vedi di non lasciartelo scappare e non fare nulla di stupido.-
-Sì, nonnina…-
Era Madame Tremaine a comandare, anche dopo il matrimonio di Genoveffa: la figlia era ancora succube della madre, il genero aveva paura di lei, e la nipote era forse quella più terrorizzata.
Per lei, Madame Tremaine aveva già in mente un matrimonio con il principe, una volta raggiunta l’età da marito, affinché divenisse ella stessa principessa, ed ottenesse ricchezze e possedimenti illimitati, ed un erede dal nobile sangue.
Ad ogni sua richiesta, od ordine, Jeffy si limitava ad abbassare la testa ed approvare. Non osava mai contraddire la nonna, per timore del suo sguardo freddo e minaccioso.
Mise uno dei suoi vestiti più belli, prese Lucius in braccio, e salì sulla carrozza che l’avrebbe condotta al palazzo.
Chad la stava aspettando all’entrata, in fremente attesa.
Ma non fu lei a scendere, quanto lui a salire.
La bambina era confusa: era convinta di essere stata invitata a palazzo per un tè.
Ma i piani di Chad erano altri. Aveva persino bendato Jeffy, per rendere la sorpresa ancora più speciale.
Una volta scesi dalla carrozza, la bambina poté finalmente essere libera dalla benda: si trovavano in una collina fiorita, nascosta dal castello, lontani dagli occhi indiscreti di Madame Tremaine.
C’era una tovaglia da pic-nic stesa all’ombra di un albero, con una brocca di latte appena munto e del pane fresco con del burro e marmellata fatti in casa. Ad attenderli vi erano Andrew, Tamara, e Jean ed Augusta.
Un semplice pic-nic per liberare Jeffy dalla prigione dorata della nonna e farle respirare un po’ di felicità.
E fu così, infatti.
Tamara e Lucius avevano di nuovo preso ad inseguirsi. Anzi, era stato un doppio inseguimento, in quanto Lucius aveva annusato i due topolini e questi erano scappati dal colletto di Chad, spaventati. Esattamente come Lucifero, suo padre, faceva con Jak e Gus. E come Tobia aveva fatto con Lucifero, una volta.
-Lucius! Torna qui! Venite qui, tutti e due! Smettetela!-
-Basta, Tamara, a cuccia!- esclamavano i due padroncini.
Per fortuna, Andrew aveva portato dei biscotti per entrambi gli animali: pose fine all’inseguimento, ed il pic-nic proseguì senza ulteriori interruzioni.
Jeffy apprezzò quella giornata, persino il pane ed il latte. Lo preferì di gran lunga al tè ed alle tartine che consumava all’ora del tè.
Il piano di Chad aveva funzionato: Madame Tremaine non avrebbe mai rifiutato un invito per Jeffy da parte sua. Più il rango del corteggiatore era alto, più era degno delle sue attenzioni.
E con la scusa di un tè a palazzo, Chad ed Andrew potevano passare del tempo con Jeffy.
A giorni alternati, i tre bambini si incontravano nello stesso punto. Non facevano solo pic-nic: giocavano con gli animali, rotolavano sull’erba, un giorno si erano persino fatti il bagno nel fiume lì vicino.
Jeffy adorava i cugini: con loro si sentiva libera dalle catene della nonna, se stessa. Sorrideva sempre.
E Chad stava cominciando a provare qualcosa per lei. Era ancora un bambino, ma già percepiva per la cugina lo stesso sentimento che legava i suoi genitori.
Non era bella, ma qualcosa lo stava attraendo a lei. E non erano nemmeno cugini di sangue, quindi non ci sarebbe stata alcuna obiezione.
Da un certo punto di vista, il piano di Madame Tremaine stava procedendo come previsto, ma non come voleva lei: Chad era davvero innamorato di Jeffy. E lei ricambiava.
Un giorno, addirittura, avevano inscenato un matrimonio: riuniti sotto un albero, solo con Tamara, Lucius, Jean ed Augusta e gli altri topolini come invitati, ed Andrew come prete, Chad e Jeffy si erano scambiati i voti matrimoniali, con tanto di scambio tra anelli, ovvero steli di margherite annodati intorno al dito.
-E con i poteri a me conferitomi…- concluse Andrew, con una foglia tra le mani, come fosse un libro –Io vi dichiaro marito e moglie. Puoi baciare la sposa.-
E si erano persino scambiati un bacio. Ma poi assunsero un’espressione disgustata e si erano passati le mani sulle loro bocche.
Se fosse capitato davvero, però, il loro non sarebbe stato un matrimonio combinato o di convenienza, ma d’amore.
E con Andrew divenne pappa e ciccia, come lo erano le loro madri, prima che Madame Tremaine ripudiasse Anastasia.
Quella felicità, però svanì dopo quasi un anno: da giorni, Cenerentola sembrava inquieta. E Chad era preoccupato.
Delle strane nuvole erano apparse nel regno. In pochissimo tempo, avevano oscurato il cielo.
Creature oscure stavano spuntando dal terreno, attaccando gli abitanti del villaggio. Anche dentro il palazzo reale.
Nessuno poteva affrontarle. Nessuna arma le scalfiva.
Le guardie ed il Principe caddero, nello scopo di proteggere il palazzo.
Cenerentola aveva condotto Chad nella sua stanza.
Lo abbracciò: il suo respiro era affannoso e pesante.
-Mamma, che succede? Dov’è papà?- Chad era spaventato. E la reazione della madre non lo fece certo calmare.
Gli accarezzò i riccioli dorati con aria preoccupata.
-Sei la nostra ultima speranza, tesoro mio.- gli disse, prendendogli il visino –Starai bene. Te lo prometto.-
Delle lucine apparvero nella stanza, fino a comporre una sagoma: la Fata Smemorina.
-Ti prego, portalo ad Auradon! Lì sarà al sicuro!- supplicò Cenerentola.
La donna non se lo fece ripetere due volte.
-Conta su di me! Vieni, Chad!-
Il bambino era confuso, oltre che spaventato.
-Aspetta, cosa? Dove mi porti? No, ferma! E Tamara? E Jean ed Augusta? E Andrew? E Jeffy?! No, non possiamo lasciarli qui!-
-Non c’è tempo! Dobbiamo andare!-
-No! Mamma!-
Cenerentola era rimasta sola nella stanza, contro le creature oscure.
La Fata Smemorina aveva condotto Chad in un altro mondo: Auradon. Insieme alla Città di Mezzo, un mondo rifugio per coloro che avevano perduto il loro mondo.
Quel giorno segnò Chad per sempre: aveva perduto tutto in un solo giorno, i genitori, i suoi amici, Jeffy.
Si sentiva vuoto dentro, demente.
Senza sua madre, la sua guida, si sentiva perduto. Comprese di essere stato troppo dipendente da lei.
Questo compromise il suo sviluppo mentale: aveva sempre lo sguardo assente, spaesato, confuso, come se fosse effettivamente malato mentalmente. Ed aveva persino difficoltà ad assimilare ed apprendere le lezioni di scuola.
Durante la notte, invece non faceva altro che piangere. Sognava sempre il giorno in cui aveva dovuto abbandonare il suo mondo e le persone a lui care.
Era come se la sua personalità si fosse sdoppiata, emergendo solo in due momenti della giornata, ovvero il giorno e la notte.
Un’altra bambina giunse ad Auradon: Audrey, la figlia di Aurora, anche lei Principessa della Luce, come Cenerentola.
Anche lei era come Chad: aveva perso il suo mondo ed i suoi genitori, per colpa di quelle creature oscure.
Ma Audrey non presentava gli stessi sintomi di Chad: lei era solo triste, ma non traumatizzata.
Cercò, comunque, di essere di conforto a Chad.
Ma gli anni passavano, e Chad non era ancora guarito dal suo trauma. Assente e demente di giorno, e con gli occhi colmi di lacrime la notte.
Giravano voci indiscrete su di lui: che, nonostante fosse figlio di persone giudiziose come Cenerentola ed il Principe Azzurro, lui avesse solo ereditato il fascino da entrambi, e nient’altro. Era meglio non far sapere a nessuno del destino del suo mondo e cosa aveva provocato in lui, per evitare commenti scomodi che potevano solo far peggiorare la sua situazione.
L’arrivo di Ben su Auradon migliorò il suo stato, anche se di poco: aveva di nuovo due amici, come nel suo mondo. Non potevano sostituire Andrew e Jeffy, ma almeno non era più solo.
Non aveva smesso di pensare ai due cugini, ai suoi amici, ai suoi genitori, alla loro sorte. Anche loro meritavano di scappare con lui.
Ma la Fata Smemorina aveva salvato solo lui, perché prossimo Principe della Luce, e futuro sovrano di Auradon, con Ben ed Audrey.
I tre divennero amici, non solo perché legati da un dovere comune.
Ben ed Audrey facevano il possibile per aiutare Chad con il suo trauma e con i compiti a scuola; lui aveva ripreso a parlare, dall’arrivo di Audrey, ma per la scuola non c’era niente da fare. Non riusciva a concentrarsi od apprendere le lezioni. Infatti, i suoi voti erano sempre bassi e durante le interrogazioni faceva sempre scena muta.
Ma la sua occasione per migliorare i voti giunse con l’arrivo di quattro ragazzi dell’Isola degli Sperduti: una di loro, Evie, la figlia di Grimilde, la Regina Cattiva, sembrava attratta da lui e disposta a fare qualunque cosa, pur di uscire con lui; per questo le aveva “chiesto” di fargli i compiti.
Forse anche a lui piaceva Evie, ma non ne era sicuro.
E sapeva anche che Ben ed Audrey si erano dichiarati fidanzati, tuttavia, tutto era sfumato con l’incantesimo di Mal su Ben. E Audrey, per ripicca, si era messa con Chad.
Chad voleva bene ad Audrey, come a Ben, ma non provava nulla per lei, tantomeno per Evie, che assomigliasse ad un’infatuazione. L’unica persona per cui avesse provato una sensazione simile era solo Jeffy. Erano bambini, ma sentiva di essere legato a lei. E ora lei non era lì con lui.
Era come se, lasciando il suo mondo, avesse lasciato anche il suo cuore ed i suoi sentimenti.
Però era cosciente del fatto che nemmeno Audrey si fosse davvero innamorata di lui: era solo una ripicca per il tradimento di Ben, in fondo.
Ne ebbe la prova, quando ella fu corrotta dall’Oscurità: spinto dalla codardia, si era unito a lei, per non cadere sotto effetto di un maleficio.
O forse quella era una scusa per tentare di liberarla da quella Oscurità e riportarla alla ragione, come avrebbe fatto sua madre Cenerentola.
Ma non riuscì nell’intento: la Luce nel suo cuore era piccola e brillante, ma ancora debole per contrastare un potere immenso come l’Oscurità.
Per questo, anche lui fu tra i primi a cadere per mano degli Heartless, quando Auradon venne distrutta.
Di nuovo aveva assistito alla distruzione di un mondo, per mano dell’Oscurità.
La prima volta era riuscito a fuggire. La seconda era caduto con i suoi amici.
Quando aveva perduto il suo mondo d’origine, era solo un bambino. Questo gli aveva provocato i traumi che si portava ancora, nonostante fossero passati sette anni.
Ma quando si era risvegliato nella Città di Mezzo, non provò né paura, né vuoto. Solo rabbia. Verso se stesso.
Non era solo Ben ad essere deluso di se stesso, per non aver saputo difendere Auradon, ma anche Chad.
Anche lui, dopotutto, era uno dei sovrani di Auradon e doveva proteggere il suo mondo.
Non era più un bambino, mai più gli altri dovevano portarlo fuori dai guai.
 
Guidato da questa delusione verso se stesso, Chad acconsente all’idea di Carlos di divenire custode del Keyblade. Secondo il Maestro Yen Sid, il Keyblade è un ottimo allenamento per fortificare la Luce dentro i cuori dei Principi e Principessa della Luce, per contrastare gli Heartless, e l’Oscurità, in genere.
Chad non era stato in grado di proteggere nessuno, quando entrambi i suoi mondi sono stati distrutti; dal Tuffo Nel Cuore non sarebbe stato più così…

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Capitolo 13
*** Chad's Dive Into The Heart ***


 
Chad's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Yen Sid non aveva detto nulla sul Tuffo nel Cuore.
Non doveva, a quanto pare; era vincolato da un protocollo dei maestri del Keyblade.
Aveva solo detto una frase: -Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Per Chad, quelle parole suonavano vuote, prive di significato, vaghe.
Si sentiva solo trascinare in un abisso oscuro, senza fondo.
Ma ancora non aveva trovato il significato di quella frase, sebbene fosse solo all’inizio della sua prova.
Chad teneva ancora gli occhi chiusi.
Non stava precipitando nel buio, ma qualcosa sembrava sorreggerlo e lasciarlo atterrare delicatamente su un terreno piatto. E liscio.
Aprì gli occhi, guardando in basso, con il suo solito sguardo vuoto ed assente.
Si trovava su un pavimento fatto solo di luce.
Non un pavimento lineare: sembrava spezzato. Un lato era perfettamente circolare, ma poi si interrompeva bruscamente, come se un masso, caduto dall’alto, lo avesse ridotto in quello stato.
Non era sospeso nel vuoto: la piattaforma aveva una base che scompariva in quel buio senza fine.
-Che posto è questo…?-
Era un luogo spaventoso, ma lui non provava ancora niente.
Niente paura, né confusione. Niente.
Il tuo cuore è spezzato, Chad.
Una voce. Nella sua mente.
Avrebbe dovuto sobbalzare dallo spavento. Ma niente. Era divenuto un essere vivente incapace di provare emozioni.
Come i Nessuno.
Il tuo passato ti sta ancora tormentando. Non ha fatto altro che incrinare il tuo cuore. Questo è il solo frammento rimasto.”
Non poteva negarlo. Perdere i genitori, la casa, gli amici, il mondo intero, in un giorno solo, era stato un colpo troppo forte per lui. Soprattutto perché, quando era avvenuto, era ancora un bambino.
E con gli anni, la sua apatia era solo peggiorata: nonostante Ben ed Audrey, non era ancora guarito. Quella piattaforma a lui sottostante gli diede la conferma.
Si mise una mano sul petto.
-Il mio cuore… spezzato…-
Non sentiva il battito del suo cuore, nel petto. Non sentiva più niente.
Poteva muovere le braccia, le gambe, parlare un poco; ma non pensava più, non sorrideva, non piangeva, non riusciva più a provare un’emozione.
Non in quel luogo.
Ma tutto può essere riparato, Chad. Puoi riparare il tuo cuore.”
Alzò lo sguardo, ancora assente.
-E… come…?-
Notò una figura di fronte a sé.
Finalmente, dopo tanto tempo, gli occhi di Chad riacquisirono un po’ di luce. E sentì qualcosa nel petto.
Era una bambina dai capelli rossi, un po’ bruttina, ma dal sorriso dolce.
-Jeffy!-
Sua cugina. La figlia di Genoveffa.
Non era passato giorno senza pensare a lei. Era questo il motivo principale del suo sguardo assente.
Erano solo bambini, ma provava per lei un sentimento che non aveva provato nemmeno per Audrey.
Anzi, proprio stando con Audrey era aumentato il sentimento che provava per Jeffy.
L’amava.
Chad stava reagendo. Non era da lui.
Sorrise, davvero. Confuso, ma anche commosso.
Erano anni che non vedeva Jeffy. Non aveva nemmeno avuto modo di dirle addio.
Non si fece domande sul motivo per cui lei fosse ancora una bambina, mentre lui era cresciuto.
-Jeffy! Sei viva!- esclamò, quasi in lacrime, correndo da lei, per abbracciarla.
Lei non si mosse: rimaneva ferma, a fissare Chad sorridendo dolcemente.
Non ricambiò nemmeno l’abbraccio.
Chad, proprio in quel momento, si rese conto di non star abbracciando… niente.
Le sue braccia avevano oltrepassato il corpo di Jeffy. Ma la corsa che aveva fatto per abbracciarla lo fece sbilanciare in avanti: Jeffy si trovava proprio al bordo della crepa.
Chad dovette lottare duramente per recuperare l’equilibrio ed evitare di cadere: sarebbe precipitato per sempre in quell’Oscurità senza fine. E lui non voleva.
Riuscì solo a mettersi a sedere, spostando il baricentro in un altro punto del corpo, opposto al bordo.
-Jeffy…- mormorò, deluso; si era voltato verso di lei, senza alzarsi –Allora non sei davvero qui…-
-Di cosa hai più paura?-
-Eh?-
Anche la sua voce era come la ricordava.
Ma quella domanda… perché chiedere una cosa simile?
Nessun saluto. Neppure una frase di benvenuto o una lacrima.
Rimaneva ferma.
Con il suo sorriso gentile.
In attesa di qualcosa.
Una risposta.
-Beh, della magia oscura di Audrey, quando era ancora cattiva, s’intende, quando Audrey si arrabbia, dei ragni, del buio, e… sì, perdere di nuovo qualcosa per colpa degli Heartless e dell’Oscurità.-
Aveva dato la sua risposta senza riflettere. Si era solo lasciato guidare dal suo istinto.
Jeffy svanì.
-Jeffy!- esclamò il ragazzo, scattando in piedi, preoccupato.
Poi abbassò lo sguardo, sospirando: l’aveva persa di nuovo.
Non poteva essere quella vera.
“La vera Jeffy è morta.” pensò, malinconico “Questa era solo una stupida illusione.”
Era solo un’illusione, ma vedere Jeffy aveva risvegliato qualcosa in lui. Era ancora piccolo, quasi inesistente, ma era già qualcosa, rispetto al niente provato in quegli anni.
“Amore.”
La piattaforma si inclinò, dopo un lieve sobbalzo, come se vi fosse stato un terremoto.
Chad perse l’equilibrio. Non poté fare come prima. E non aveva nemmeno un appiglio al quale aggrapparsi, per evitare di cadere.
Capitò quello che lui voleva evitare: cadere nell’Oscurità.
-No!- urlò.
Sarebbe caduto in eterno nell’Oscurità? Lo avrebbe reso un Heartless?
Notò un’altra luce che si stava avvicinando sempre di più a lui: un’altra piattaforma, spezzata.
Ma non nello stesso punto della prima: la prima sembrava integra solo nel suo lato sinistro.
Quella aveva un contorno perfettamente tondo nella parte di destra. Ma il centro era sempre frammentato.
Di nuovo, la forza che lo aveva fatto atterrare in piedi poco prima gli impedì di cadere in modo brusco.
Nessuna immagine: solo luce.
E una seconda persona ad attenderlo.
-Andrew?!-
Il figlio di Anastasia. Suo cugino.
Anche lui, come Jeffy, ancora bambino.
E come lei, anche lui era evanescente. Chad non poteva toccare nemmeno lui.
-Cosa è più importante per te?-
-Anche tu con queste domande strane? Ma che posto è questo?! Io… non lo so cosa sia più importante per me!-
Non lo sapeva. Non ne era sicuro. Aveva passato quasi dieci anni della sua vita praticamente vivendo come un vegetale ambulante. Non aveva più capacità di pensare o desiderare qualcosa: dovevano sempre essere gli altri a dirgli cosa fare o cosa fosse più importante per lui.
-Boh, forse… cercare di sopravvivere. Non lo so.- disse, grattandosi la testa e camminando avanti ed indietro; singhiozzò, sentendosi in difficoltà, come quando non aveva studiato per un’interrogazione –O tornare nel mio mondo, nella mia vecchia vita, come se nulla fosse accaduto. Mi mancano tutti così tanto, mamma, papà, il nonno, Tamara, Jean, Augusta, tu e Jeffy… Loro erano tutto, per me. E gli Heartless me li hanno portati via! Niente era più importante di loro, per me.-
Le persone che aveva lasciato nel suo mondo. Ecco cosa era più importante per Chad.
Andrew svanì come Jeffy.
-Andrew?-
La piattaforma si inclinò di nuovo, ed il ragazzo cadde di nuovo.
Amicizia.”
Un ultimo frammento di piattaforma lucente, stavolta quello posteriore. I pezzi sembravano combaciare.
Un’ultima persona lo stava attendendo.
-Mamma! Anche tu qui?!-
Cenerentola. Nel suo bellissimo vestito azzurro, quello del ballo in cui lei ed il principe, suo marito, si erano incontrati per la prima volta.
Osservava il figlio come era solito osservarlo: con amore e dolcezza.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Un’altra domanda. Nessuno delle tre persone che aveva incontrato gli aveva rivolto un saluto, un abbraccio. Solo domande. E tanti silenzi. E ad ogni sua risposta, questi svanivano.
Chad temeva la stessa cosa per la madre. Non voleva perdere anche lei, di nuovo.
Ma se non avesse risposto, sarebbe rimasto in quel luogo oscuro per sempre, con la sagoma della madre che, invece dell’affetto e dell’amore, gli avrebbe donato solo distanze e silenzi.
E lui era lì per uno scopo: il Keyblade.
Almeno per quella domanda, Chad era sicuro della risposta. Era l’unica cosa di cui era sicuro, da quando aveva messo piede ad Auradon per la prima volta.
-Voglio tornare a casa…-
Anche Cenerentola svanì.
“Famiglia.”
Ogni persona che svaniva, il ragazzo sentiva sempre quella voce nella sua mente.
“Amore. Amicizia. E Famiglia. Questi sono gli elementi che ricostruiranno il tuo cuore, Chad.”
Erano apparsi due oggetti eterei, per aria, di fronte a lui: una balestra e delle scarpe di cristallo.
“Il tuo cammino è solo a metà. Il cammino per affrontare il trauma del tuo passato. Devi solo affrontare un’ultima prova, per dimostrarti degno di brandire un Keyblade.”
-Cosa? Vuoi dire che non era questa la prova?-
“Questo è solo l’inizio. La prova che ti attenderà sarà ancora più ardua. Ma non temere. Il tuo desiderio di tornare nel tuo mondo supera la tua paura. Lascia che sia questo desiderio a guidarti e il tuo cuore sarà ricostituito.”
Chad non aveva desiderato altro da anni. Questo lo aveva tenuto in vita.
E rivedere Jeffy, Andrew e sua madre lo avevano leggermente smosso dalla sua apatia.
Notò una porta accanto a lui.
La vera prova sarebbe iniziata una volta che vi sarebbe entrato.
Non voleva restare in quel luogo oscuro un attimo di più: entrò.
Appena aperto uno spiraglio, però, venne accecato da una luce troppo brillante, persino più della piattaforma cui stava ancora poggiando i piedi.
Gli bastò, però, coprirsi gli occhi con l’avambraccio. E poi entrò.
Quella luce durò un attimo.
La luce si era fatta più fievole. Quasi scura.
Sentì qualcosa sobbalzargli dentro, non appena aprì gli occhi: era il borgo, il villaggio intorno al castello. Era tornato nel suo mondo!
Non era giorno: era notte inoltrata; infatti, dei lumi stavano illuminando la strada.
Osservò in alto: non vide stelle. Solo buio infinito. Il cielo, inoltre, non era nero. Era di uno strano colore violaceo.
Ma il castello, il suo castello, era illuminato di luce propria. E l’orologio stava segnando la mezzanotte.
-Sono a casa…- mormorò il ragazzo, facendo il primo passo in avanti.
Il borgo. Il posto in cui Chad aveva trascorso la sua infanzia. Sua madre Cenerentola ce lo portava spesso, vestendo anche lui in abiti contadini, per non farsi riconoscere.
Ma lo lasciava sempre alla panetteria dello zio, per giocare con Andrew, mentre lei andava al mercato, a volte in compagnia di Anastasia.
Infatti, passò proprio di fronte ad un edificio a lui familiare: la panetteria. Ebbe l’impressione di sentire ancora l’odore del pane appena sfornato, il suono croccante della crosta e la morbidezza della mollica ad ogni morso. Ancora meglio con del burro e della marmellata fatti in casa.
Amava quelle piccole gioie della vita.
Sentì un’improvvisa fitta alla testa. Una visione: lui, Andrew, Tamara, la figlia di Tobia, Jean, il figlio di Jak e Mary, ed Augusta, la figlia di Gus, che giocavano proprio lì, sulla soglia del negozio, con la palla e con altri giochi, e facevano merenda con i panini ed i dolcetti appena sfornati.
Un ricordo della sua infanzia.
Il suo cuore batteva forte. Non per l’emozione. Stava reagendo a qualcosa.
Chad percepì qualcosa: tristezza. O forse nostalgia. Non ne era sicuro.
Ma non poté negare di non rimpiangere la sua infanzia, in compagnia delle persone che amava.
Per questo piangeva ogni notte. E continuava a piangere ogni notte, nel sonno.
Non poteva restare lì. Doveva continuare a camminare.
Non sapeva come avrebbe ottenuto il suo Keyblade, ma non poteva fermarsi.
Il borgo era esattamente come ricordava.
Aveva imparato a memoria tutte le stradine, ogni vicolo, giocando al riporto con Tamara.
Spesso, sia lui che Andrew ricevevano rimproveri, a volte persino pesanti, da Anastasia, per essersi allontanati troppo.
Un altro luogo in cui lui andava spesso con Andrew o con sua madre era la fontana. Per bere, principalmente.
L’acqua zampillava ancora. Non era ferma, come il resto del borgo.
Un’altra fitta alla testa: assistette, ancora una volta, al suo primo incontro con Jeffy. Tamara e Lucius, il figlio di Lucifero, si erano rincorsi fin laggiù. Era stata la prima volta in cui Chad si era imbattuto in Madame Tremaine, nonna di Andrew, e aveva visto Genoveffa, suo marito e Jeffy, sfilare in mezzo alla gente comune, solo per sfoggiarsi e vantarsi del proprio rango e ricchezze. Il cane ed il gatto si erano incrociati e dati all’inseguimento.
Lì, i tre cugini si erano incontrati per la prima volta. E non si sarebbero mai separati, da allora.
Era stata proprio quella sera che Chad aveva pianificato di organizzare un ballo per il suo compleanno, per incontrare di nuovo la cugina acquisita.
Non avrebbe mai dimenticato quel ballo, soprattutto il sorriso di Jeffy, mentre ballava con lui.
Secondo Cenerentola, Madame Tremaine avrebbe sfruttato la nipote per elevare ancor più il suo rango. In effetti, Jeffy e Chad avevano instaurato un legame. Se quel legame fosse stato perdurato fino all’adolescenza, i due si sarebbero sposati e Jeffy sarebbe divenuta principessa. Era questo che ambiva la donna.
Se il mondo non fosse stato distrutto, sì, Chad avrebbe chiesto la mano di Jeffy, e lei avrebbe accettato, ma non per adempiere alle ambizioni della nonna, ma per amore ricambiato.
Chad era ancora innamorato di Jeffy. Non aveva mai smesso di pensare a lei. Voleva liberarla dalla gabbia dorata che sua nonna aveva costruito intorno a lei.
Ma era scomparsa con la distruzione del suo mondo. E con lei Andrew.
Di nuovo, Chad sentì il suo cuore battere. Reagiva ad ogni visione del passato. Come era accaduto prima con le piattaforme e le illusioni di Jeffy, Andrew e sua madre.
Stava percependo delle emozioni. Dopo tanti anni. Ma erano fievoli. Il suo cuore era ancora spezzato.
Lo sentiva che era ancora spezzato.
Doveva continuare a camminare.
Il suo prossimo obiettivo era il castello. Casa sua. Il luogo in cui si sentiva al sicuro.
Tuttavia, mentre camminava in quella direzione, notò una sagoma: una bambina dai capelli rossi ed un abito verde smeraldo con la fantasia a foglie nere.
-Jeffy!- esclamò Chad, correndo da lei.
Anche lei sembrava diretta al castello.
Svaniva e ricompariva in un punto più lontano, non appena Chad si trovava più vicino a lei.
Si era fermata sulla soglia dei gradini che comparivano nel castello. Stava dando le spalle al ragazzo, guardando in alto: l’orologio stava ancora segnando la mezzanotte.
Il tempo si era fermato.
Ma a Chad non importava: lui voleva solo raggiungere la cugina.
-Jeffy!- esclamava, sperando che si voltasse.
Ma lei rimaneva ferma.
Lui le mise ugualmente una mano su una spalla.
Appena la toccò, sentì un’altra fitta alla testa.
Era tornato bambino, nel momento in cui aveva ballato con Jeffy, al ballo organizzato per il suo compleanno. Era felice. Il suo volto si illuminava, ogni volta che sorrideva.
Poi, ritornò ai pic nic con entrambi i cugini e gli animali di entrambi.
Il primo giorno, Lucius e Tamara si stavano ringhiando e soffiando a vicenda. Nonostante i rimproveri dei padroncini, Andrew era riuscito a calmarli con dei biscotti che il padre aveva preparato appositamente per loro.
I bagni al fiume, le corse a piedi nudi sull’erba, le ghirlande di fiori…
Momenti lieti che Chad aveva passato in compagnia dei cugini. Avrebbe tanto voluto che fossero durati per sempre.
Le visioni finirono.
Chad era ancora ai piedi dei gradini che portavano al castello. Ma era da solo. Jeffy era sparita.
-I miei ricordi… la mia infanzia…- mormorò, con tono tra l’apatico ed il melanconico.
Quasi non si accorse della lacrima che stava scendendo dalla sua guancia.
Ma un rintocco di campana lo spinse a guardare in alto: le lancette dell’orologio girarono velocemente in senso antiorario. Ogni ora che toccava la lancetta delle ore si sentiva un rintocco di campana.
Si fermò all’ora “IV”.
Molto strano, pensò Chad, stranito, ma anche sospettoso.
-L’unica cosa che posso fare...- disse, guardandosi indietro per un attimo –È andare avanti. Quando otterrò il mio Keyblade?-
Anche l’interno del castello era come ricordava. Ampio. Forse un po’ meno, ora che era diventato grande ed alto. Da piccolo credeva che fosse il castello dei giganti.
Entrò nella sala da ballo. Il luogo in cui i suoi genitori si erano incontrati.
Doveva ringraziare la Fata Smemorina, i topolini genitori di Jean ed Augusta, anche i due guerrieri del Keyblade, cui uno aveva aiutato i topolini con il vestito e l’altro aveva fatto da accompagnatore alla madre per il ballo.
Senza il loro aiuto, Cenerentola non avrebbe incontrato il principe e Chad non sarebbe nato.
Quella sala era importante per il ragazzo per un altro motivo: il suo primo ballo con Jeffy ed il suo primo passo per liberarla dalle ambizioni della nonna.
Ebbe un’altra fitta alla testa, ed un’altra visione: il ballo organizzato per il suo compleanno.
Le decorazioni con fiocchi azzurri, il buffet pieno dei suoi piatti preferiti, la torta alta venti metri… tutto come ricordava.
C’era lui, bambino, vestito come un principe, che scendeva i gradini insieme ai genitori e salutava gli invitati in maniera impostata, come gli aveva insegnato Prudence.
Ed essendo il festeggiato, era suo dovere aprire le danze. Quindi, doveva scegliere una dama. Ovviamente, la sua scelta era caduta su Jeffy Tremaine. Dopotutto, era per lei che aveva organizzato il ballo.
Non era stato necessario neppure l’intervento della Fata Smemorina.
Aveva pianificato ogni piccolo dettaglio. Da solo.
Attualmente, non sarebbe stato in grado di attuare un piano simile.
Allora aveva ancora i genitori, gli amici. Era amato e supportato. Questo gli dava la forza.
Solo, non contava niente. Non era niente.
La sala da ballo tornò vuota. C’era solo lui.
E di nuovo la sagoma di Jeffy. Con Andrew.
Erano entrambi vestiti con abiti eleganti. E stavano ballando. Insieme.
Si fermarono. Osservarono il ragazzo, sorrisero, e corsero verso le scale.
Chad li seguì.
-Jeffy! Andrew! Aspettatemi!-
Per fortuna, non erano così veloci da sfuggire allo sguardo del ragazzo.
Li seguì, senza perderli.
Erano entrati nei corridoi delle stanze da letto. Precisamente, in una camera: la sua.
Ancora con i suoi balocchi. Il suo lettino con la retina contro le zanzare. E la sua toeletta. Ancora con la spazzola con cui sua madre lo pettinava, mentre gli parlava.
Ma la finestra era aperta: e fuori era ancora buio.
Le tende si muovevano, come se in preda al vento.
No, il vento c’era davvero.
Andrew e Jeffy si erano voltati verso il principe.
-Ci hai abbandonati…- dissero, all’unisono.
Chad assunse uno sguardo sorpreso, ma anche spaventato: un alone nero era entrato nella sua stanza, circondando i due bambini, che urlarono. Quello stesso alone era diretto anche verso il ragazzo, che si fece scudo con le braccia.
Ebbe un’altra visione: la notte in cui aveva abbandonato il suo mondo.
Il cielo farsi scuro, un’enorme sfera rossa in cielo, e tutto il borgo venire circondato dall’Oscurità e dagli Heartless.
Vide persino i due cugini, nella piazza della fontana, abbracciati, che si guardavano intorno, spaventati.
Due Heartless li aggredirono, strappando i loro cuori, come avevano fatto con il resto degli abitanti, compresi quelli all’interno del castello.
-Nooooo!!!- urlò Chad.
Così li aveva perduti. Tutti i suoi amici. Anche Tamara, Jean ed Augusta. E suo padre.
Riaprì gli occhi: non era più nella sua cameretta.
Era in una stanza, buia, piena di orologi. Ognuno di essi segnava un’ora differente. E non solo il tocco, ma anche le mezza, i quarti, persino gli altri minuti.
Non emettevano nemmeno i suoni dei secondi. Erano fermi.
-Dove mi trovo…?-
Gli orologi, per fortuna, erano sistemati in modo da tracciare un sentiero percorribile.
Chad camminò lì in mezzo, osservando la propria immagine nei vetri di quegli orologi.
Ma non vedeva solo la sua immagine, ma anche frammenti della sua infanzia, con la madre, il padre, il nonno ed i suoi amici.
Ogni ora corrispondeva un ricordo.
Ricordi ancorati al suo cuore spezzato. L’unica sua ancora di salvezza che lo aveva sempre salvato da una vita da passivo. E, nello stesso tempo, la sua rovina: lo avevano reso cieco.
Presto avrebbe capito il motivo.
Il sentiero degli orologi si concludeva ad uno con la lancetta delle ore vicino alla mezzanotte. E la lancetta dei minuti aveva superato l’ora “XI”.
In quel riflesso, assistette di nuovo alla sua fuga dal suo mondo, con la Fata Smemorina, mentre l’Oscurità divorava ogni cosa che incontrava.
Odiava quel ricordo.
Per fortuna, durò poco. Vide di nuovo la sua immagine riflessa.
Ma era diverso: capelli ricci lunghi a metà collo, una corona sulla testa, ed occhi dall’iride gialla.
-Ti fa ancora male, vero?-
La voce proveniva dietro di lui.
Chad si voltò di scatto. Il ragazzo alle sue spalle era praticamente vestito con lo stesso completo che aveva al suo ottavo compleanno, con un mantello con pelliccia sull’orlo. Ma, invece che essere azzurro, era nero.
Persino il suo sguardo trasmetteva Oscurità.
Il ragazzo arretrò, allarmato.
-Cosa significa, questo? Tu chi sei?-
-Chi sono? Ovvio, sono te.-
Gli occhi gialli fissavano minacciosi il vero Chad.
-Dì un po’… che effetto fa vivere la tua infanzia, giorno dopo giorno, dopo giorno?- sibilò, girando intorno a lui –Essere ancorato al passato, nonostante il tempo continui a scorrere…?-
Allungò una mano: apparve una nube, nella quale venne trasmessa l’immagine della torre dell’orologio.
Le lancette erano ancora ferme all’ora “IV”.
-Tu sai perché le lancette hanno cominciato a girare in senso antiorario, Chad?- riprese, ancora con quello sguardo minaccioso, pieno di rancore –Quelle lancette non segnano le ore, ma gli anni. Dodici meno gli otto anni che sono passati dalla distruzione del nostro mondo fanno quattro! Non è un caso, Chad. La tua mente è ancora ferma a quando avevi otto anni! Quell’orologio è la tua mente!-
Aver perduto il suo mondo, la sua famiglia in un momento era stato un colpo troppo forte per Chad, ancora bambino. Questo gli aveva provocato il blocco mentale e la difficoltà nell’apprendimento. Fisicamente era cresciuto, ma non mentalmente. Il suo orologio era davvero fermo all’ora “IV”.
-Guarda questi orologi, Chad! In ognuno di questi c’è la tua vita!- indicò tutti gli orologi -Ogni ora corrisponde ad un attimo della vita che hai passato qui! Hai fermato la tua mente come questi orologi, quando hai perso tutto! Hai permesso al tuo dolore di prevalere, di renderti cieco di fronte alle possibilità che avevi di fronte! Potevi farti una nuova vita! Ma no! Tu hai preferito piangerti addosso e vivere nel passato! Perché vivevi bene nel tuo passato, nell’agio, tra le coccole delle persone intorno a te! Tanto valeva che la Fata Smemorina ti lasciasse divorare dall’Oscurità!- indicò se stesso -Ecco come saresti stato, se non fossi stato portato ad Auradon! Un principe oscuro! Non sei degno di ereditare il compito di nostra madre! Sei troppo debole e troppo stupido, per essere un futuro Principe della Luce!-
Non era degno. Non aveva nemmeno chiesto di esserlo. Non voleva essere un Principe della Luce.
Lo era per diritto di nascita, poiché figlio di una Principessa di Luce.
Lui voleva solo vivere la sua vita, in pace e serenità.
Si era reso conto di aver, effettivamente, vissuto nel vizio e nelle comodità della vita da reale.
Appena arrivato ad Auradon, non sapeva cosa fare. Era spaesato, confuso. Non sapeva dove andare.
Seguiva la Fata Smemorina, ma non era come seguire sua madre.
Sua madre era divenuta la sua guida: senza, si sentiva perduto.
Neppure Jane, la figlia della Fata Smemorina, era stata in grado di aiutarlo, con la sua compagnia ed i giochi che gli portava per farlo svagare.
Ma poi, erano arrivati Audrey e Benjamin. Come lui, figli di Principesse della Luce, e predestinati a seguire le impronte delle madri.
Audrey e Ben. I suoi nuovi amici. Le sue opportunità.
La mente di Chad era ancora ferma ai momenti passati nel suo mondo. Avrebbe avuto modo di conoscere, accudire, e legarsi ancor più con Audrey e Ben.
Ma non era mai passato momento senza che pensasse ad Andrew ed a Jeffy, i due amici che sentiva di aver abbandonato.
Vedere tutti quegli orologi, rivivere i suoi ricordi, e le parole dell’altro Chad, gli avevano provocato un’epifania: aveva sprecato il suo tempo. Sprecato otto anni della sua vita a vivere nel passato, invece che aprire gli occhi e scoprire che l’unica medicina in grado di guarire la sua ferita erano proprio Ben ed Audrey.
Non doveva dimenticare Andrew e Jeffy, ma solo reagire e divenire più forte, affinché altri mondi non subissero la stessa sorte del suo, e per non perdere altre persone care. Avrebbe aiutato Ben a proteggere Auradon, se fosse stato in grado di reagire dal suo trauma.
-Ho perso due mondi per colpa dell’Oscurità.- mormorò; delle lacrime stavano scendendo dai suoi occhi, contro la sua volontà -La prima volta mi ha condannato ad essere un demente, un idiota. Con il secondo… sento solo… rabbia… e delusione!- strinse un pugno; stava provando davvero della rabbia -Lì ho capito quanto fossi stato impotente, incapace. Avrei dovuto proteggere Auradon.- osservò negli occhi l’altro sé -No, non posso permettermi di perdere altro, per colpa dell’Oscurità! È per questo che voglio avere un Keyblade! Nessun altro mondo finirà come il mio o Auradon! L’Oscurità ha fatto troppi danni, per i miei gusti!-
Guardò indietro, verso l’orologio con le lancette vicine a mezzanotte.
Nessun orologio stava segnando la mezzanotte.
Sorrise, determinato.
-Trovata.- mormorò.
L’ora più vicina alla mezzanotte. Alla sua riabilitazione.
Sfondò il vetro con un pugno, per poi prendere le lancette.
L’altro Chad sembrava sconvolto.
-Che stai facendo?!- esclamò.
La mano del ragazzo stava sanguinando. Ma questo non lo aveva fermato dal suo intento.
-In tutti questi anni non ho mai smesso di pensare a Jeffy o Andrew, non solo perché mi mancassero.- rivelò, determinato -Ma anche perché sentivo di averli abbandonati. Mi sentivo in colpa. Io, unico sopravvissuto di un mondo divorato dall’Oscurità, un principe viziato e pigro, mentre loro, che meritavano una nuova vita, sono stati divorati. Specialmente Jeffy. Avevo promesso a me stesso di liberarla da sua nonna. Mi sono sempre rimproverato di averli abbandonati. Ma ora, scavando nei miei ricordi, mi sono reso conto che… non potevo fare niente. Se fossi scappato da loro, quel giorno, l’Oscurità avrebbe catturato anche me. Sono stato portato ad Auradon per divenire forte. Io non l’ho mai apprezzato, non ho mai detto grazie alla Fata Smemorina per avermi salvato ed avermi dato la possibilità di fortificare il mio cuore per contrastare l’Oscurità. Hai ragione, ho vissuto nel passato, permesso alla mia mente di fermarsi. A volte vorrei solo tornare indietro nel tempo e cambiare la mia vita da quando sono stato portato ad Auradon. Reagirei e ringrazierei ogni giorno di essere ancora vivo. Ma sono ancora in tempo per rimediare, e il maestro Yen Sid mi ha dato questa possibilità. La mia ora non è ancora giunta! Il tocco finale non arriverà mai!-
Le lancette nella sua mano si illuminarono, divenendo una sfera lucente. Quella sfera prese forma, assumendo quella di una chiave gigante.
Un Keyblade. Il suo Keyblade. L’asta era la lancetta dei minuti, l’impugnatura quella delle ore, e la lama era formata da entrambe le lancette dei minuti e delle ore. L’elsa era la cornice dell’orologio, con tutte le ore segnate.
L’altro Chad impallidì.
Quello vero mosse il Keyblade in orizzontale: tutte le lancette si mossero, compresa quella della torre dell’orologio. Si fermarono a mezzanotte.
Rintoccarono tutte nello stesso momento.
-No!- esclamò l’altro Chad.
Ad ogni rintocco, una parte del suo corpo svaniva, divenendo sabbia al vento.
Non riusciva a reagire: era immobile, osservando quello vero con rabbia e paura insieme.
Gli occhi furono gli ultimi a svanire.
Anche la stanza svanì nello stesso modo, all’ultimo rintocco.
Era una proiezione dei suoi sensi di colpa. E lui li aveva affrontati.
Restava solo un’ultima prova.
Era tornato nel buio di poco prima. Stava fluttuando a mezz’aria, senza precipitare.
Osservò in basso: le tre piattaforme spezzate si stavano riunendo, combaciando le proprie crepe nei punti giusti.
I solchi erano ancora ben visibili. E c’era ancora la luce.
Chad si mise una mano sul petto, chiudendo gli occhi.
-Possa il mio cuore essere la mia chiave guida.-
Forse aveva finalmente compreso il suo significato.
Puntò il suo Keyblade verso quella piattaforma: uscì un raggio lucente che colpì il punto più danneggiato della piattaforma.
Le crepe si illuminarono, divenendo tutt’uno con la piattaforma.
Delle piume partirono dal centro, fino a raggiungere i bordi, rivelando un’immagine fatta di vetro colorato.
Il colore dominante era l’azzurro.
C’era un ragazzo, con gli occhi chiusi: Chad. Insieme a Jeffy, Andrew, Tamara, Jean, Augusta ed i suoi genitori.
Le persone a lui più care.
La forza invisibile lo fece atterrare dolcemente sulla piattaforma.
Il suo cuore era stato ricostruito. Lo sentiva. Lo sentiva battere forte.
E di nuovo, delle lacrime stavano scendendo dai suoi occhi. A cascata.
Si sedette sulle sue ginocchia.
Urlò e singhiozzò di tristezza, di gioia e di confusione: i suoi sentimenti erano tornati. Tutti insieme, nello stesso momento.
Facevano male. Ma in confronto ad otto anni di niente e di rimpianti, erano sopportabili.
“Il tuo cuore è guarito, Chad.”
La voce era tornata.
“Hai affrontato il tuo passato. Sei disposto ad andare avanti, nel tuo cammino?”
Chad fu accecato da una nuova luce: una piattaforma raffigurante sua madre.
La sua vista rese Chad ancora più melanconico.
-Mamma, mi dispiace.- disse, ancora singhiozzando –Ti ho delusa. Ho sprecato il mio tempo. Tu non volevi questo, per me. Potevo salvare Auradon e potevo salvare anche te, se non fossi stato così debole.- tirò su con il naso –Ma ora ho un Keyblade e mi allenerò sodo per essere un Principe della Luce come te! Nessun altro mondo verrà inghiottito dall’Oscurità!-
La piattaforma di Cenerentola si illuminò. Chad venne investito da quella luce.
Così calda, confortante… come gli abbracci di sua madre.

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"Sometimes it's hard to find yourself
But it's worth it in the end
'Cause in your heart is where it all begins
"

 

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Capitolo 14
*** Audrey's Story ***


Note iniziali: ho stravolto parecchio la storia dedicata a Descendants; e ho fatto una modifica nella parte di Descendants 3 per collegarla meglio all'universo di Kingdom Hearts.

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Audrey's Story


Re Stefano e Re Umberto avevano realizzato il loro desiderio, ovvero unire i loro regni: era stato il matrimonio dei propri figli a realizzarlo.
Malefica era stata finalmente sconfitta, i regni erano in pace. Grazie anche alle tre fate buone, Flora, Fauna e Serenella, ed alla forestiera armata di Keyblade che aveva affiancato Filippo nella lotta contro Malefica.
I festeggiamenti, il ritorno della principessa Aurora ed il suo matrimonio con il principe Filippo, durarono quattro giorni.
Ma ciò che diede più gaudio al regno fu l’annuncio della gravidanza di Aurora.
Ancor più quando diede alla luce la sua primogenita: Audrey.
Assomigliava alla madre, ma aveva lo stesso colore dei capelli e degli occhi del padre.
Flora, Fauna e Serenella si innamorarono al primo sguardo della figlia della loro Aurora.
Come fecero con Aurora, al suo battesimo, anche loro diedero una virtù a testa, alla piccola Audrey: Flora le donò la bellezza, Fauna la gentilezza, e Serenella l’acutezza.
Nessuna irruzione di Malefica, come avvenuto anni prima, con Aurora. Il battesimo era proceduto senza interruzioni o spiacevoli sorprese.
Audrey visse la vita negata ad Aurora, tra l’amore e la premura dei genitori, persino dei nonni. E dire che le tre fate adoravano la bimba era poco.
E Audrey ricambiava ogni affetto che riceveva.
Spesso, lei e la madre Aurora si recavano nella casetta del bosco dove la madre era cresciuta, a fare una passeggiata in mezzo alla natura, o fare un pic nic con Filippo e le tre fate.
In quel luogo, raccontavano spesso Aurora e Filippo, ogni volta che portavano la figlia nel bosco, era dove si erano conosciuti, senza sapere chi fossero. Erano promessi sposi già dalla nascita di Aurora e lei non sapeva che il suo sposo era proprio il giovane che aveva incrociato nel bosco.
Era stata una piacevole sorpresa rivedere quel giovane, al suo risveglio dal sortilegio.
Era la storia preferita di Audrey, quella dei suoi genitori.
Ma le raccontavano anche della perfida strega che aveva incantato Aurora, costringendola ad un sonno profondo. E per evitare che si risvegliasse, aveva rapito e poi imprigionato Filippo. Ma era in quella prigione che aveva incontrato la forestiera armata di Keyblade. Si chiamava Aqua e non si era fatta scrupoli ad aiutare Filippo nella sua evasione e contro Malefica, quasi come avesse un affare personale con lei.
Era scomparsa poco dopo la sua dipartita. Nessuno aveva più sue notizie. Non era nemmeno venuta al matrimonio, come ospite onoraria.
Filippo non aveva avuto modo di ringraziarla e di questo ne aveva rimpianto.
Audrey, inoltre, amava trascorrere il tempo con le sue tre zie fate: elle la intrattenevano con le loro magie e la divertivano con i loro giochi.
Tuttavia, non aveva altri amici, all’infuori degli animali del bosco: anche lei, come la madre Aurora, amava la natura.
Quando Audrey aveva otto anni, era passato un periodo in cui Aurora trascorreva molto tempo alla finestra, con aria preoccupata.
Guardava sempre lo stesso punto, dove, un tempo, si ergeva il castello di Malefica, sulla Montagna Proibita.
Percepiva una carica oscura farsi sempre più potente.
La sua preoccupazione non allarmava solo Filippo, ma anche le tre fate.
Rivelò a tutti loro la medesima cosa: Malefica non era stata sconfitta; era ancora viva e la sua Oscurità era sempre più forte. Il regno sarebbe stato sommerso dall’Oscurità.
Filippo dispose le guardie sulle mura del castello, per contrastare ogni forma di pericolo incombente.
Alle tre fate, Aurora chiese il più grande dei favori: trarre Audrey in salvo. In un mondo sicuro, incorrotto dall’Oscurità: Auradon, il mondo rifugio fondato dalla Fata Smemorina, con l’aiuto dei maghi, le tre fate buone comprese.
Non potevano certo dire alla piccola Audrey del pericolo incombente. Decisero di metterla come una gita, come erano solite fare quando la portavano al bosco.
Ma anziché al bosco, le dissero che avrebbero visitato un posto nuovo.
Lei accettò senza pensarci due volte: le piaceva viaggiare con le zie.
Arrivate alla capanna del bosco, usarono le loro bacchette per teletrasportarsi ad Auradon.
Audrey si illuminò nel vedere quel posto: aveva un grande cortile, e l’edificio più grande era praticamente un castello.
Le piaceva.
-Ora riportatemi a casa! Lo sapete che mamma vuole che torni a casa prima del tramonto!- aveva ordinato alle tre fate.
Flora si morse il labbro: non sapeva come dirle la verità su quella “gita”.
Non era una gita. Era un vero e proprio trasferimento.
Il suo mondo era stato inghiottito dall’Oscurità. E anche i suoi genitori ed i suoi nonni. Non aveva più un posto dove tornare.
Flora cercò di dirglielo senza essere troppo diretta, né cinica.
Non potevano fare nulla contro Malefica. Neppure sua madre, in quanto Principessa di Luce.
Audrey scoppiò in lacrime.
Sua madre e suo padre si erano sacrificati per lei. Era sola. Almeno aveva ancora le tre fate buone con sé.
Non sapeva come avrebbe fatto senza di loro, a coccolarla, a consolarla. Erano diventate la sua famiglia, come lo erano state per Aurora.
Venivano a trovarla spesso, ad Auradon: era stata riservata una stanza per loro. Ma erano sempre in giro per i mondi, soprattutto nella Torre di Yen Sid.
Ma Audrey, finalmente, aveva avuto modo di farsi degli amici umani: la figlia della Fata Smemorina, Jane, Chad, il figlio di Cenerentola, una Principessa della Luce, come sua madre Aurora.
Anche Chad aveva perso il suo mondo, come Audrey. Ma lui aveva assistito in prima persona. Questo lo aveva spinto alla depressione, al mutismo, ed anche al blocco mentale, a quanto pare.
Osservava tutto con aria spenta, assente. A poco erano serviti gli abbracci di Audrey.
A lei erano serviti quelli delle sue zie: la facevano sentire protetta, non sola.
Sperava funzionasse anche con Chad.
Ma anche dopo quattro anni lui non era cambiato. Il trauma era stato troppo forte da essere curato con dei semplici abbracci.
Un altro bambino era giunto ad Auradon, con la Fata Smemorina: Benjamin, il figlio di Belle.
Audrey, Chad e Ben erano figli di tre Principesse della Luce. Presto, quel ruolo sarebbe spettato a loro.
Scoprirono di essere i tre legittimi sovrani di Auradon, e l’avrebbero protetta da ogni incursione dell’Oscurità, grazie alla Luce nei loro cuori. In realtà, doveva esserci un’altra Principessa, insieme a loro, la figlia di Biancaneve. Ma lei risultava scomparsa insieme al suo mondo.
All’età di sedici anni, sarebbero stati incoronati sovrani. Lì, ad Auradon, avrebbero imparato a gestire la Luce dei loro cuori, a fortificarla. Le loro madri non avevano avuto quella possibilità, ma i loro figli sì.
Inoltre, secondo la Fata Smemorina, un’unione tra un Principe della Luce ed una Principessa della Luce poteva far nascere una creatura incorruttibile, un essere fatto di Luce, incapace di essere corrotto dall’Oscurità.
Ben era più adatto per Audrey. La Luce di Chad era troppo debole, a causa del suo trauma.
I due avevano già legato, quindi accettarono questo matrimonio.
Ma erano ancora piccoli: sia per sposarsi, sia per prendere con coscienza decisioni simili.
Audrey voleva bene a Ben, ma non come fidanzato, ma come amico, quasi fratello. Ma le era stato insegnato ad adempiere sempre ai suoi doveri di principessa. Anche, quindi, accettare un matrimonio con una persona che non amava.
E anche lui provava lo stesso per Audrey.
Lei lo aveva sempre saputo che Ben non l’amava come una ragazza: ne ebbe la conferma quando Ben aveva dichiarato il suo amore per Mal, una dei quattro ragazzi dell’Isola degli Sperduti.
Aveva incantato Ben con un incantesimo d’amore, ma poi venne scoperto che si era davvero innamorato di lei. E lei ricambiava.
Audrey non reagì bene a quella notizia, non per gelosia: ma per paura di deludere le aspettative della Fata Smemorina e delle tre fate, sue zie. Si aspettavano davvero la nascita di un bambino puro, fatto di Luce.
Però rimaneva ancora Chad; quindi c’era ancora una possibilità.
Ma nemmeno per Chad lei provava più del semplice affetto fraterno. E si poteva dire la stessa cosa di Chad.
L’ultima goccia arrivò all’annuncio del fidanzamento di Ben con Mal.
L’amore aveva vinto sul dovere.
Erano svaniti i progetti che erano stati programmati per Audrey. Quel giorno si sentì mancare: aveva deluso tutti. Non era stata in grado di tenersi Ben. E nemmeno Chad.
Quindi addio al proposito di creare una prole completamente pura.
Non temeva che Mal le avrebbe tolto il titolo di regina: quel ruolo era suo di diritto e niente l’avrebbe revocato.
Fin da piccola le era sempre stato detto cosa doveva fare. Non era mai stata “libera”.
Per questo, quella sera si era ritirata nella sua stanza piangendo. Al di fuori di quei progetti, non sapeva cosa fare. Si sentiva vuota. Aveva scritto nel suo diario, come era solita fare da quando era stata portata ad Auradon.
-Sono stufa di fingere…- mormorò; in quel momento, l’unica parte di lei che reclamava il suo libero arbitrio emerse –Dov’è il mio lieto fine?-
Aveva seguito tutte le regole, non aveva mai superato il limite, non aveva mai desiderato nulla che non fosse suo. Ma quando il suo momento stava per arrivare, Ben aveva fatto il nome di Mal, non il suo.
Quella tristezza, quella delusione verso se stessa attirò un ospite inaspettato, nella sua stanza: un uomo vestito con un cappotto nero. Lunghi capelli grigi e occhi gialli che esprimevano freddezza.
-Davvero un peccato, vero…?- la sua voce era calma e profonda.
Audrey avrebbe voluto chiedere aiuto, ma lui le aveva rivolto uno sguardo talmente minatorio da spingerla a tacere.
-Vuoi avere quello che ti spetta, vero? Vieni con me, Audrey.-
Audrey lo stava guardando negli occhi: non avrebbe dovuto. Quell’uomo l’aveva ipnotizzata.
Insieme, si erano recati alla sala del trono. Le corone erano posizionati proprio sui troni. E quella di Audrey non faceva differenza.
Il forestiero la prese. Audrey era dietro di lui, ancora con lo sguardo assente, da ipnotizzata.
-Questa piccola corona non è abbastanza.- disse, osservandola serio e freddo –È solo un oggetto inutile che illude le persone di avere il potere di governare su altre persone. Il potere, Audrey, il vero potere, deve renderti in grado di far assoggettare le persone al tuo volere, con la paura. Così nessuno mai più oserà riderti dietro, o sminuirti in confronto di una ragazza nata dal ventre di una persona malvagia.-
Auradon sembrava, infatti, favorire Mal come regina, piuttosto che Audrey. Mal aveva salvato Auradon più volte, da Malefica e Pietro e anche da Uma. Così si era guadagnata il rispetto degli abitanti.
-Audrey, io posso donarti quel potere. La paura è il modo migliore per governare un mondo. Tutti saranno obbligati a rispettarti. Devi solo cedere all’Oscurità e quel potere sarà tuo.-
Audrey era ipnotizzata, quindi accettò.
Si mise in ginocchio, mentre Xemnas le metteva la corona sulla testa.
Qualcosa cambiò, in lei: sentì qualcosa di maligno crescerle dentro e sovrapporsi alla sua Luce.
Era per metà essere di pura Luce. Quindi poteva essere corrotta dall’Oscurità.
L’uomo aveva cambiato anche il suo aspetto: i suoi capelli avevano cambiato colore, come gli occhi, entrambi gialli. Anche il suo vestiario era cambiato: il colore dominante era il nero.
Inoltre, aveva persino osato rimuovere la campana che proteggeva la bacchetta della Fata Smemorina: nelle sue mani, si trasformò in uno scettro, simile a quello di Malefica, che porse ad Audrey.
-Vai, rivendica il tuo posto da regina! Semina il panico ad Auradon! Costringili a rispettarti! Lancia pure un incantesimo, se necessario! Ma non permettere a nessuno di approfittarsi di te!-
Con queste parole, egli svanì in un portale oscuro.
Audrey era perduta. Aveva ceduto all’Oscurità.
Non agiva di sua volontà, non completamente. Quell’uomo, Xemnas, aveva fatto emergere il suo lato malvagio, seppellendo quello chiaro.
Una parte di lei esigeva ancora il matrimonio con Ben, come suggerito dalla Fata Smemorina e dalle tre fate buone, in quel momento tramutate in pietra da Audrey stessa.
Al suo rifiuto, ella gli scagliò una maledizione: lo aveva trasformato in Bestia.
Sul resto di Auradon aveva lanciato un incantesimo soporifero. Solo Chad era riuscito a salvarsi, proponendosi come aiutante di Audrey. Forse per codardia, forse per tentare di salvarla, cercando un appiglio per la sua Luce, nel tentativo di scacciare l’Oscurità nel suo cuore.
Ma la sua Luce era troppo debole al confronto dell’Oscurità liberata da Xemnas.
Fu di nuovo Mal a salvare Auradon. Grazie alla pietra donatale dal padre Ade, fu in grado di contrastare la magia di Audrey e liberarla dalla maledizione.
Tornò normale, ma quel distacco brusco dalla sua Oscurità la condusse in stato di coma.
Ben e Chad erano rimasti in sua compagnia. La tenevano per mano: su suggerimento della Fata Smemorina, i due Principi dovevano usare le loro Luci come catalizzatori, come batterie per riaccendere la Luce di Audrey.
Dopo una settimana, infatti, ella si risvegliò.
-Ditemi che è stato un incubo!- esclamò, osservando i due amici –Volevo far soffrire tutti. Avevo fatto addormentare tutti, ti avevo trasformato in Bestia, Ben…-
Ben e Chad non sapevano cosa dirle: mentirle avrebbe significato prenderla in giro.
Ma Audrey non era una stupida: sapeva di non aver sognato. Era stato tutto reale.
Rivelò subito dell’uomo che l’aveva costretta a fare quelle malvagità. La Fata Smemorina, basandosi sulla descrizione fornitale da Audrey, rivelò il nome del forestiero: Xemnas.
Dopo la trasformazione di Audrey, era scomparso.
Il suo piano, infatti, era rendere Auradon accessibile agli Heartless. Se in un mondo era presente almeno un cuore corrotto dall’Oscurità, anche il mondo apparentemente più inespugnabile poteva essere invaso.
E pensava di sfruttare Audrey, facendo leva sulla sua tristezza e delusione. Ma era impossibile.
Era pur sempre figlia di una Principessa della Luce: come l’Oscurità era apparsa, così era scomparsa. Come se non fosse mai esistita.
Ma Auradon era scomparsa comunque. Vani i tentativi dei tre sovrani di contrastare gli Heartless: furono i primi a cadere per mano loro.
Ma non era finita per i tre principi ed i loro amici: al loro risveglio, erano nella Città di Mezzo.
Sora aveva eliminato Xemnas e liberato i cuori dal Kingdom Hearts artificiale dell’OrganizzazioneXIII, di cui Xemnas era a capo.
Carlos si sentiva responsabile per la distruzione di Auradon, in quanto il suo cuore si era macchiato di Oscurità successivamente l’omicidio di sua madre. Anche Audrey si era dichiarata responsabile.
I suoi malefici non erano nulla in confronto a quello che aveva fatto Carlos, ma lei aveva ceduto all’Oscurità.
Non era un comportamento degno della figlia di una Principessa della Luce, tantomeno di una regina, secondo lei.
Era già stata perdonata da Ben, da tutti i suoi amici. Ma non era abbastanza.
Nel suo cuore, provava odio per Xemnas. E vendetta, per averla messa contro il suo stesso popolo.
 
Questo desiderio la spinge ad addestrarsi con il Keyblade, presso Yen Sid. Ivi si riconcilia con le sue tre zie, le fate buone, sorprese e felici di rivedere la loro piccola Audrey sana e salva.
Sono quasi spaventate dalla sua determinazione a voler divenire custode del Keyblade. Ma secondo Yen Sid, questo addestramento è utile per i tre Principi e Principessa della Luce, per fortificare la propria Luce nei loro cuori ed essere in grado di ricostruire Auradon.
Inoltre, Yen Sid rivela che Xemnas non è scomparso. È tornato, e combatterà a fianco di Maestro Xehanort nella Guerra dei Keyblade.
Audrey brama ancora vendetta nei suoi confronti. Spera di incontrarlo prima della Guerra, per pareggiare i conti con lui…
 

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Capitolo 15
*** Audrey's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: vi chiedo scusa se questa storia è scritta male, ci sono errori di battitura e noterete, forse, degli apostrofi al posto degli accenti, ma ho problemi con il computer e questa storia l'ho scritta sul tablet; e, a volte, la tastiera del tablet fa le bizze e non mi riconosce le vocali accentate.
Detto questo, buona lettura.


Audrey's Dive Into The Heart


 https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Audrey teneva gli occhi chiusi.
Sentiva solo qualcosa attirarla verso il basso.
Cadeva lentamente. I capelli rosa ed azzurri fluttuavano, come se fosse in acqua.
E lei era come addormentata.
Era nel Tuffo Nel Cuore. La prova che doveva superare per ottenere il Keyblade.
Yen Sid non aveva detto nulla al riguardo: era confidenziale. I profughi di Auradon dovevano essere preparati per ogni situazione.
Anche saper gestire gli imprevisti era parte del loro addestramento.
Audrey lo sapeva bene: era una principessa, e Regina di Auradon. Faceva parte della sua educazione, essere in grado di gestire qualsiasi situazione.
Si era congedato da loro con una frase.
-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Audrey non sapeva come, ma sentiva che era legato alla loro prova. Doveva solo proseguire per scoprirlo.
Qualcosa la mise in posizione verticale. Atterrò in piedi.
Lì aprì gli occhi.
Non vedeva nulla.
Solo il buio.
-Ma… cosa…?-
Le bastò fare un passo che delle colombe si levarono in volo. Erano partite dal centro, il punto in cui Audrey aveva poggiato il piede, poi estendendosi fino al bordo, rivelando qualcosa di luminoso.
Audrey guardò in alto, seguendo quelle colombe con lo sguardo.
Era confusa, quasi spaventata. Avrebbe voluto essere in mezzo a loro e volare via da quella Oscurità.
Svanirono in essa.
Audrey guardò in basso: era su una piattaforma di vetro colorato rosa. Sembrava uno dei rosoni della cattedrale di Auradon. Su quella piattaforma, però, c’era lei. Con gli occhi chiusi.
Con i suoi genitori, le tre fate buone, e Ben e Chad.
-È bellissima…- commentò, sorridendo e provando una sensazione di pace, nel suo cuore –È forse… il mio cuore?-
Serenella le aveva donato l’acutezza di mente, il giorno del suo battesimo. Era diventata una ragazza perspicace, con gli anni. Le bastava vedere un particolare, per comprendere il totale.
Quella piattaforma era l’unica fonte di luce. Il resto era circondato di Oscurità.
Audrey si morse il labbro: percepì una sensazione familiare. Se quella piattaforma lucente era la luce dentro il suo cuore, l’Oscurità che la stava circondando, forse, era la stessa che si era insediata dentro di lei con la proposta di Xemnas.
Mai si era sentita più in imbarazzo al pensiero di quell’esperienza. Non avrebbe dovuto accettare. Non doveva farsi tentare e corrompere dall’invidia e dalla vendetta.
Non era solo Ben ad aver fallito come re: anche lei aveva fallito, come regina.
Quel ricordo, di quando era divenuta la Regina del Male, gravava nel suo cuore.
Doveva essere per quel motivo per cui la sua piattaforma era apparsa dal buio.
Notò qualcuno comparire di fronte a sé.
-Mamma?-
Aurora. Sua madre. Esattamente come la ricordava. Bionda, bella. Era il suo esempio, fin da bambina.
Non sapeva perché. Ma era lì, di fronte a lei. Forse come guida, forse come incentivo. Forse per darle forza.
-Di cosa hai più paura?-
-Cadere di nuovo nell’Oscurità.-
Non si era fatta domande. Sapeva già di dover rispondere.
Lo sentiva dentro: era come se si fossero manifestati i suoi recenti pensieri, sulla sua caduta nell’Oscurità. Il suo sbaglio era divenuto la sua paura più grande.
E sapeva che la persona di fronte a sé non era la sua vera madre: infatti, alla sua risposta, Aurora svanì.
Yen Sid aveva parlato di una prova. Non aveva spiegato i dettagli, ma Audrey aveva intuito che non sarebbe stata una semplice prova di forza, per essere degni di brandire il Keyblade. Ogni cosa che avrebbe visto o affrontato nel Tuffo nel Cuore doveva, quindi, rappresentare una prova. Doveva essere pronta a tutto.
Per brandire un’arma come il Keyblade, infatti, non era importante la forza fisica, ma quella del cuore. E il cuore sapeva essere imprevedibile. Ed il futuro custode doveva mostrarsi degno, affrontando e superando ogni ostacolo che si presentava di fronte, e non arretrare mai.
Era, però, rimasta lievemente allibita alla vista della madre ed alla domanda a lei posta. Inizialmente, non ne aveva compreso il significato.
Ma sentiva che per andare avanti doveva rispondere.
Improvvisamente, sotto di lei, sulla parte della piattaforma dove era raffigurato il suo volto, comparve una macchia oscura che lo coprì completamente. Poi anche da un lato del bordo. E in vari altre parti.
Si stavano estendendo, raggiungendo gradualmente il punto in cui si trovava Audrey.
Lei era paralizzata. Spaventata. Confusa. Non poteva fuggire. Non vedeva altre vie, al di fuori della piattaforma.
Sentì qualcosa risucchiarla verso il basso: quella macchia oscura era nientemeno che l’Oscurità stessa. La stava di nuovo attirando a sé. Era come affondare nelle sabbie mobili.
Audrey non poteva scappare. Le sue gambe erano bloccate. Anche dimenarsi si era rivelato inutile.
-Aiuto!- urlò, prima che anche il suo volto venisse coperto di Oscurità.
Sapeva di essere sola.
Nessuno sarebbe accorso per aiutarla.
L’Oscurità la avvolse completamente. Di nuovo.
Era stata esattamente quella la sensazione che aveva provato, quando Xemnas l’aveva tentata e fatta cadere nell’Oscurità: sentiva il suo cuore macchiarsi di nero, di sensazioni orribili, quali rabbia e vendetta.
Sentimenti che, come discendente di una Principessa del Cuore, non avrebbe mai dovuto provare.
Una sensazione di soffocamento che stava provando tutt’ora.
Respirava affannosamente. E continuava a dimenarsi, come per togliersi dai vestiti quell’Oscurità che la stava circondando.
Sentì il suo respiro stabilizzarsi e una superficie rigida dietro la schiena: un’altra piattaforma, uguale alla prima.
Ma la sensazione che aveva provato poco prima… era la stessa di quando era divenuta la Regina del Male.
Quelle emozioni le provocarono un profondo disagio.
Si rialzò, quasi tremando dalla paura provata poco prima.
Un’altra persona era apparsa vicino a lei. Un uomo, con una corona sulla testa. Sembrava attenderla.
-Cosa è più importante per te?-
Filippo. Suo padre. Fiero, ma dal volto gentile. Audrey venerava anche lui, da piccola. Il principe che aveva sconfitto Malefica e salvato la Bella Addormentata. Con l’aiuto delle tre fate buone e della forestiera di nome Aqua.
-Non deludere le persone intorno a me.-
Da quando era stata liberata dall’Oscurità insediatole da Xemnas, Audrey era pervasa dal dubbio. Sentiva di aver deluso tutta Auradon, Ben, Chad, la Fata Smemorina, Flora, Fauna, Serenella, persino i suoi genitori, se solo l’avessero vista.
Fra tutti i profughi di Auradon, lei era quella più scettica sul divenire custode del Keyblade. Non perché lo reputasse inutile ed uno spreco di tempo, ma per paura. Paura di non esserne degna, a causa della sua caduta nell’Oscurità.
Yen Sid aveva cercato di rassicurarla, dicendo che, dal momento in cui aveva riconosciuto i suoi errori e si era pentita, aveva la stessa possibilità di tutti i suoi amici di brandire un Keyblade.
Ma quello che aveva fatto aveva macchiato il suo cuore di Oscurità: la pozza oscura in cui era affondata poco prima ne era la prova.
La sua risposta fece svanire il padre, proprio come era successo con la madre. Un’altra pozza oscura inghiottì la ragazza, cogliendola di sorpresa.
Quando si risvegliò, si trovò sulla terza piattaforma. Ad attenderla vi era Ben.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Audrey si avvicinò a lui. Lo fissò negli occhi: lui sembrava aspettare qualcosa. La sua risposta.
Lei sospirò.
Le tornarono in mente i progetti che la Fata Smemorina aveva avuto per entrambi: far nascere una prole completamente pura, con l’unione di un Principe e Principessa della Luce.
Ma i sentimenti erano prevalsi sul dovere: Audrey non se l’era presa, quando Ben aveva dichiarato il suo amore per Mal. Le sue successive reazioni erano solo dovute al timore di aver deluso le aspettative di coloro che avevano riposto fiducia in lei e Ben.
Sentiva di aver deluso tutti.
Ma dentro di sé sapeva che il matrimonio non sarebbe stato comunque una buona idea.
-Io non ho mai amato Ben.- ammise, per la prima volta, a se stessa. -Gli voglio bene, ma come un fratello.-
Ed era la verità. Era sempre stata la verità.
Audrey era ancora troppo piccola, quando le era stato proposto il matrimonio con Ben.
Aveva semplicemente confuso l’ammirazione con l’amore. Ma non era mai stato amore, quello che provava per Ben: lo ammirava per la sua determinazione, lo rispettava per il suo giudizio e provava molto affetto per lui.
Ma non amore.
Ma era comunque una persona importante per lei, per questi motivi. Era diventato la sua nuova guida, il suo nuovo punto di riferimento.
-Ho acconsentito al matrimonio combinato solo per compiacere la mia famiglia e non deludere le aspettative di nessuno. Sono onorata di regnare al suo fianco, ma non come sua consorte. Quindi, ciò che mi aspetto è diventare una degna Regina di Auradon, con Ben e Chad pronti a sostenermi ed io a sostenere loro. Insieme siamo una squadra.-
Alla dissolvenza di Ben, Audrey si aspettava di precipitare nell’Oscurità un’altra volta.
Ma qualcosa era apparso di fronte a lei, due oggetti eterei, quasi trasparenti: avevano la forma di due ventagli con le lame, uno rosa, l’altro azzurro.
-Ma cosa…? Cosa sono…?-
Provò a toccarli: la sua mano passò attraverso.
Sei a metà del tuo viaggio, Audrey.” sentì, nella sua mente; quella voce la fece quasi sobbalzare “Il tuo viaggio per liberarti dell’unico ricordo che ti tormenta.”
-Vuoi dire di quando ho ceduto all’Oscurità ed ho terrorizzato Auradon? Ti prego, dimmi cosa devo fare! Non passa giorno o notte senza che io ci pensi! Vorrei tanto cancellare quel ricordo! Vorrei tanto non aver detto sì a quello Xemnas! Vorrei fargliela pagare, per quello che mi ha fatto!-
Non è con la vendetta che solleverai il tuo fardello. Ma non temere. Hai riconosciuto i tuoi errori e ti sei pentita. Trasforma la tua brama di vendetta in determinazione e i tuoi tormenti finiranno.”
-Come posso farlo? È colpa mia se Auradon è stata distrutta! Come posso sistemare tutto?-
La voce tacque e Audrey si sentì più a disagio di prima.
Cadde sulle sue ginocchia. Singhiozzò.
Non era così che doveva andare, pensò lei.
Doveva essere forte. Non doveva lasciarsi prendere dalla vendetta e dall’inadeguatezza.
E in quel momento era sola. Non c’erano né Ben né Chad con lei, a darle forza.
Non sapeva neppure, effettivamente, in che punto fosse della sua prova: era finita? Era iniziata? Cosa intendeva la voce con “Sei a metà del tuo viaggio”? Si riferiva alla Prova? O alla sua esperienza come custode del Keyblade?
Notò una porta accanto a lei: era già mezza aperta. Uno spiraglio di luce colpì uno dei suoi occhi, facendola quasi accecare.
-Devo forse entrare lì, per proseguire…?- mormorò.
Non vedeva altre vie. Poteva essere effettivamente il proseguimento della sua Prova. O una trappola.
Si alzò ed entrò ugualmente. Doveva affrontare qualsiasi ostacolo, nel Tuffo Nel Cuore.
La luce svanì in pochi secondi; Audrey si trovò in un luogo scuro, semplice. Tutto era in legno.
L’odore del legno le provocò un sentimento di nostalgia che quasi la fece commuovere.
-La casetta delle zie! Quella del bosco! Sono tornata a casa!- esultò, guardandosi intorno, felice.
Corse verso la porta, cercando di aprirla: era bloccata. Dall’esterno.
Questo fece inquietare la ragazza: il blocco era sempre all’interno della casa. Lo ricordava bene.
Spinse di nuovo, senza successo. Voleva solo uscire e correre nel bosco, come faceva da bambina.
Poi si fermò, guardando per terra.
-Oh, giusto. Sono ancora nel Tuffo Nel Cuore…- realizzò; l’euforia le aveva provocato un lieve momento di amnesia. Aveva nostalgia del suo mondo, dei particolari della sua infanzia, prima fra tutte la casetta nel bosco, dove sia lei che sua madre avevano passato l’infanzia.
Non era chiaro per quanto ancora dovesse stare lontana dal suo mondo: secondo Yen Sid, il suo mondo era stato ricostruito insieme a quello di Chad in seguito alla battaglia di Sora contro Ansem.
Ma ancora non poteva tornare a casa: aveva altre priorità, al momento, tra cui la ricostruzione di Auradon.
E le serviva il Keyblade.
Non poteva fallire, come regina di Auradon. Aveva già fallito una volta e ancora non se lo era perdonato.
Una volta superato il Tuffo nel Cuore, avrebbe dedicato ogni giorno a potenziare la sua luce.
Ma non era ancora finito: non aveva ancora superato il suo più grande ostacolo, la sfida finale.
Era ancora bloccata nella casetta. Non poteva uscire.
Anche le finestre sembravano bloccate.
Tuttavia, qualcosa catturò l’attenzione della ragazza: una luce verde. Proveniente dal piano superiore. La sua camera da letto.
La curiosità la spinse a salire le scale.
I suoi passi erano lenti. I tacchi incrinavano leggermente il legno.
Si accorse che più saliva, più le scale aumentavano.
-Che succede? Questa non è la casetta.-
Gli scalini che portavano alla camera da letto erano solo mezza dozzina ed erano in legno.
Al sesto scalino, tuttavia, qualcosa era cambiato: il settimo era di pietra. E anche tutti quelli che seguivano.
Persino le pareti erano in pietra.
E mentre saliva, aveva l’impressione di girare in tondo. Stava salendo su una scala a chiocciola.
Buia.
Solo con quella misteriosa luce verde a guidare la ragazza.
Arrivò in cima: era una stanza completamente di pietra, con una finestra sull’esterno. Fuori, il sole era vicino al tramonto.
Audrey ricordava quella stanza: era una delle torri del castello dei suoi genitori.
Al centro della stanza, la fonte da cui proveniva la luce verde: un arcolaio.
Di legno nero. E la ruota era illuminata di verde.
Come l’arcolaio di cui le avevano parlato Flora, Fauna e Serenella, quello che aveva condannato sua madre Aurora ad un sonno profondo.
Sembrava un arcolaio come altri, innocuo, ma incuteva inquietudine.
Lo sguardo di Audrey, però, era incentrato sul fuso: anch’esso, come la ruota, era illuminato di verde.
-Che sensazione strana…- mormorò; non stava sbattendo le palpebre.
Qualcosa la stava attirando a quell’arcolaio. Non di sua volontà.
-Qualcosa mi sta attirando… È così magnetico… Il mio corpo si muove… e non è sicuro dove andare…-
Parlava in modo strano: era stata ipnotizzata. Dall’arcolaio. Era stato lanciato un incantesimo, su di esso.
Audrey non riusciva a controllare il suo corpo: il suo sguardo era fisso sull’arcolaio. La sua mano era tesa in avanti, verso la punta del fuso.
-Cosa sto facendo…? Perché non mi fermo?- domandò, cercando di fermarsi.
Non voleva toccare la punta. Ma lo stava facendo. E il suo dito venne ferito da essa.
Audrey si risvegliò da quella trance.
-Aspetta! Cosa è successo?!- era sbigottita dal sangue che stava cadendo dal suo dito –E cosa mi sta succedendo? Io… io… mi gira la testa…-
Stava cominciando a vedere sfocato. E tutto si muoveva come se fosse stata sopra una nave in tempesta.
Le sue palpebre si stavano facendo sempre più pesanti. E le sue gambe non reggevano più il suo peso.
Resistere era inutile.
Audrey cadde, apparentemente addormentata.
Ma non atterrò sul pavimento di pietra: cadde in un abisso senza fondo.
E non lentamente, come prima, all’inizio del Tuffo Nel Cuore. Stava precipitando nel vuoto, a volte girando su se stessa.
Urlò.
I capelli rosa e azzurri le stavano coprendo la faccia, quasi impedendole la visuale; non riusciva a vedere cosa la stesse circondando.
Non cadde nel buio. Ma in un vortice temporale: le pareti stavano trasmettendo la sua vita. Attraverso i suoi occhi.
Rivide volti familiari: sua madre, suo padre, le tre fate buone, i suo nonni, le pareti del suo castello, la Fata Smemorina, Ben, Chad, ogni abitante di Auradon. E Xemnas.
Non avrebbe mai scordato l’uomo che l’aveva costretta a cedere all’Oscurità. Quegli occhi freddi, ma ambiziosi. Quel sorriso malefico, ma orgoglioso, quando si era trasformata nella Regina del Male.
Vide di nuovo, con un altro sguardo, tutto ciò che per lei era sembrato un sogno. Ma era stato tutto reale.
Gli abitanti di Auradon la stavano osservando spaventati, terrorizzati dalla sua magia, cadendo facilmente vittime dei suoi incantesimi, con quello del sonno e quello della pietra. Vide soprattutto il volto spaventato e confuso di Chad, l’unico da lei risparmiato per opportunismo.
Non si riconosceva: era un’altra Audrey, quella che aveva vissuto quell’esperienza. Una Audrey che aveva permesso alle sue paure e timori di prevalere nel suo cuore, occultando tutto il resto.
-Questa non sono io! Non avrei mai fatto queste cattiverie agli abitanti di Auradon!-
Odiava quella Audrey. Con tutta se stessa.
Ma questo equivaleva a dire che odiava se stessa e ancora non era riuscita a perdonarsi.
Sarebbe stata una sfida più ardua del Tuffo nel Cuore.
La voragine si stava restringendo. Audrey sentiva qualcosa sfiorarle i capelli, le spalle. Sembravano tante mani. Apparse dalla parete.
-Traditrice!-
-Auradon è stata distrutta per colpa tua!-
-Se fossi stata più forte, saremmo ancora vivi!-
-Strega!-
-Non sei degna di essere la nostra regina!-
-Tua madre non avrebbe mai fatto quello che hai fatto tu!-
-Non meriti di essere la discendente di una Principessa del Cuore!-
-Sei una vergogna!-
Riconosceva quelle voci: erano gli abitanti di Auradon. I non sopravvissuti all’attacco degli Heartless.
Le voci dei suoi sensi di colpa: nonostante le parole di Ben e di Chad per confortarla, Audrey si sentiva ancora responsabile della distruzione di Auradon.
Poteva biasimare Xemnas, per averla tentata. Ma il suo cuore le diceva che era tutto partito da lei.
-No! Lasciatemi!- esclamò, coprendosi il volto e cercando di scacciare quelle mani che volevano afferrarla -Non ero io! Non avrei mai fatto niente del genere! Io non volevo!-
-Bugiarda!-
-Bugiarda!-
-Bugiarda!-
Quelle voci, le loro parole, manifestavano i suoi sensi di colpa, che la stavano ancora tormentando dentro.
-Mi dispiace! Mi dispiace!- urlò, quasi in lacrime.
Uno strattone la liberò dalla presa di una delle mani.
Audrey precipitò di nuovo.
Vide una luce sotto di lei. Non era una piattaforma di vetro colorato. Sembrava un’uscita.
Atterrò in piedi, inginocchiandosi, dopo una caduta infinita.
Era su un pavimento di pietra lucida rossa, che lei conosceva molto bene.
Udì una risata, dall’altra parte della sala. Una risata femminile molto familiare.
-Bentornata a casa, Audrey!-
Alzò lo sguardo, non appena tornò in piedi: notò due troni.
Impallidì, quasi smise di respirare, quando vide le due persone sedute sui due troni: Xemnas, in un’armatura bianca, grigia e blu ed una corona sulla testa, e lei, se stessa, come la Regina del Male. Capelli blu e fucsia, abito rosa sfumato con il nero, mantello di piume nere. E lo scettro che Xemnas le aveva donato quel giorno. E gli occhi gialli, come quell di Xemnas.
Stavano entrambi sorridendo, soddisfatti ed orgogliosi.
Uno spettacolo orribile.
-Che c’è? Non ricordi nemmeno casa tua, adesso?- disse l’altra, alzandosi dal trono ed avvicinandosi a quella vera -Che delusione che sei. Potevo a malapena chiudere un occhio sulla tua recente ossessione di volerti dimenticare di quando eravamo potenti e temute, ma addirittura casa nostra, Audrey!-
Audrey, invece, ricordava molto bene il suo castello, i suoi colori, i suoi profumi: era solo impensabile la presenza della Regina del Male e dell’uomo che l’aveva resa tale.
Ma poi osservò bene gli arazzi che decoravano la sala del trono: non c’erano più le effigi di famiglia, ma un simbolo strano, un cuore rovesciato, ma con due frecce, una verticale, l’altra orizzontale.
Persino le pareti ed il pavimento stavano cambiando, divenendo tutto in marmo bianco. Persino i troni.
Non era più il castello dei suoi genitori.
L’altra Audrey guardò in alto, con aria da falsa innocente.
-Oh, scusa. Era necessario tentare un approccio graduale, o potevamo rischiare che tu avessi uno shok e non ti risvegliassi più. E sì, abbiamo dovuto cambiare un po’ l’interno del castello. Sai, il vecchio arredamento non piaceva al mio caro consorte. Non esprimeva il nostro potere! E devo dire che questo mi piace molto di più!-
Solo una parola di quelle frasi sconvolse ulteriormente la vera Audrey.
-Consorte?!-
-Sì, esatto.- il sorriso della falsa Audrey era strano, come se ogni cosa che dicesse fosse ovvio -Vedi, sorella, da un certo punto di vista dovremo ringraziare la peste di Malefica.- stava parlando di Mal; mentre parlava, camminava verso il trono; precisamente, verso Xemnas -Non ci saremo mai rese conto che Ben è solo un debole, patetico, che si ostina a vedere il bene anche nei sassi. Quella notte, noi abbiamo trovato di meglio…- prese Xemnas per i capelli, ma non per tirarglieli; bensì per fare ciò che la vera Audrey non gli avrebbe mai fatto -Un uomo forte, risoluto, deciso, e con tanto potere nelle sue mani.- si voltò indietro, notando lo sguardo sgomento e disgustato della vera; si inquietò -Che c’è?! Non crederai mica ancora all’assurda storia della prole pura e perfetta che potevo avere da Ben! Guardati, Audrey! Guarda me! Guarda te stessa! Ecco cosa ti ha fatto la Luce! La sua ipocrisia, la sua ostinazione ad esigere la perfezione e l’incorruttibilità! Hai avuto così paura di deludere le aspettative di gente ipocrita che hai tentato un gesto disperato! Cosa avremmo avuto da Ben? Altra ipocrisia ed illusione della perfezione! Un altro essere che avrebbe seguito delle leggi idiote e che avrebbe vissuto nella paura di trasgredire quelle regole!- si toccò il ventre, con orgoglio -Ma con Xemnas al mio fianco, potrò dar vita al vero essere perfetto, potente, persino più di Yen Sid, di nostra madre, anche di Maestro Xehanort! Rivendicheremo il potere che ci spetta! Il potere che anche tu hai bramato, quando eri così!-
Un piano disgustoso, pensò Audrey. Come vedere l’altra se stessa accarezzare la testa dell’uomo che odiava più di chiunque altro.
C’era stato un tempo in cui gli era grata; ma solo in quel tempo, quando ella stessa era la Regina del Male.
Guidata dalla paura, dal dubbio, dal timore che Auradon preferisse addirittura Mal a lei, come regina di Auradon, in quanto fidanzata di Ben.
Questa era stata davvero la goccia che l’aveva spinta a cedere all’Oscurità, alle tentazioni di Xemnas.
La ragazza che aveva di fronte era la prova che quei giorni non erano stati un sogno, ma la realtà.
Xemnas l’aveva resa potente e temuta. Ma non era così che voleva governare Auradon. Non era così che voleva guadagnarsi il rispetto dei cittadini. Non era così che era stata educata.
Non poteva essere lei, quella ragazza. Non poteva davvero aver pensato di sposare un essere come Xemnas. Era un lato del suo cuore che ancora non aveva estirpato. Un errore al quale voleva
porre rimedio all’istante.
Strinse il pugno e si morse le labbra, scuotendo la testa.
-No… tutto questo è sbagliato.- mormorò, rivolgendo, poi, uno sguardo furioso verso l’altra se stessa e Xemnas -Voi siete sbagliati! Voi non siete neppure reali! Esistete solo nella mia testa! Siete solo delle illusioni! E posso eliminarvi!- fisso’ l’altra se stessa negli occhi gialli -A cominciare da te!-
Scattò verso di lei, quasi urlando.
Guidata dalla delusione verso se stessa e dalla frustrazione nel ricordare il suo sbaglio, aveva agito in maniera troppo avventata.
Se ne accorse, quando un laser la colpì in pieno petto, facendola scaraventare lontano, riuscendo, comunque, a cadere in piedi: Xemnas si era alzato dal suo trono, facendo da scudo all’altra Audrey.
-Stai lontana dalla mia consorte.- minacciò, nella sua voce profonda.
Mosse nuovamente la mano in modo circolare, facendo comparire altri tre laser, per aria.
Quei laser furono diretti verso la vera Audrey, che la colpirono al petto, uno alla volta.
Non vi furono conseguenze sul completo: era rimasto integro. Ma aveva comunque subito dei danni.
Cadde supina in mezzo al pavimento, con gli occhi ancora aperti. Singhiozzò, per il suo fallimento.
L’altra Audrey si mise a ridere in modo malefico, prendendo un braccio di Xemnas.
-Davvero, sorella?- disse, con tono derisorio -Credevi davvero di poterci affrontare... senza un Keyblade?-
Un Keyblade. Sarebbe stato provvidenziale, se fosse apparso in quel momento.
Ricordò le voci diffamatorie, prima di vedere l’altra se stessa. Che la davano della traditrice, dell’indegna di essere la regina di Auradon. Aveva negato, convinta che non fossero vere e solo riflessi dei suoi sensi di colpa che poteva scacciare.
Ma vedere l’altra se stessa, la Regina del Male, con l’uomo che l’aveva resa tale, aveva fatto nascere altri dubbi in se stessa.
Aveva fallito.
Non aveva superato la prova. Era stata incapace di fronteggiare se stessa.
Aveva sperato che sarebbe bastata la sua Luce per sconfiggere la sua macchia di Oscurità. Si sbagliava.
-Ho fallito….- mormorò; sentiva le sue palpebre pesanti, sempre più vicine a chiudere i suoi occhi -Non sono degna di essere la regina di Auradon…-
Uscì di nuovo sconfitta: chiuse gli occhi, tra le risa dell’altra se stessa e di Xemnas.
Qualcosa la trascinò verso il basso. Esattamente come all’inizio della prova.
Forse quella era la discesa definitiva verso l’Oscurità.
Audrey era incapace di muoversi. Nemmeno aprire gli occhi.
Intorno a lei vi era solo il buio più profondo.
Dal suo petto stava fuoriuscendo una macchia oscura, che si stava estendendo per tutto il suo corpo.
Era la sua Oscurità, che stava prendendo il sopravvento, stavolta in via definitiva.
Nessuno, stavolta, l’avrebbe salvata.
-Ehi, mi senti?-
Una voce. Nella sua testa. Non era la stessa di prima.
Esattamente come in un sogno, Audrey vide delle immagini, nonostante fosse ancora ad occhi chiusi.
Una sagoma in controluce. Notò che aveva fattezze femminili. Come anche la voce era femminile.
-Chi sei?-
Audrey parlava con il pensiero: sprofondare nell’Oscurità le stava privando persino della forza di parlare.
-Mi chiamo Aqua.-
-Aqua? Quella Aqua? Papà mi parlava spesso di te. Sei la forestiera armata di Keyblade che lo ha aiutato contro Malefica?-
-Malefica? Tu sei quindi la figlia di Filippo?!-
-E della principessa Aurora. Mi chiamo Audrey. E ti ringrazio a nome loro. Hanno rimpianto non averti ringraziata quando potevano.-
-Percepivo, infatti, della Luce, in te, Audrey. Dunque sei una discendente di una Principessa della Luce. Ma sento anche dell’Oscurità, nel tuo cuore. E tanta tristezza e delusione.-
Le stava leggendo il cuore. Yen Sid aveva parlato ai profughi di Auradon delle capacita’ che acquisivano i Maestri del Keyblade. E secondo quanto raccontato da lui stesso, Aqua era una Maestra del Keyblade.
-Ho fatto una cosa orribile, in passato. Ho ceduto all’Oscurità. Non avrei dovuto farlo, lo so. Ma avevo tanta paura.-
-Sì, percepisco anche questo. Vedo dei volti spaventati, degli incantesimi che hai scagliato.-
-E adesso, che sto affrontando il Tuffo nel Cuore, quella persona è apparsa di fronte a me, insieme all’uomo che mi ha manipolata e usato la mia delusione per me stessa per farmi cedere all’Oscurità. Speravo di affrontarli con la mia Luce. Ma ho fallito. Ho sempre pensato che l’unica arma contro l’Oscurità fosse la Luce. Ma mi hanno sconfitta. E ho fallito la mia prova. Sento l’Oscurità impadronirsi di me...-
La macchia si era estesa fino alla zona del petto, e stava quasi raggiungendo l’ombelico.
Audrey non riusciva a vedere il volto di Aqua, ma vide comunque la sagoma della testa scuotersi.
-Un tempo la pensavo come te.- rivelò, con tono dolce e rassicurante -Ma ho scoperto che più la luce è forte, più grande diventa l’ombra. Non puoi eliminare l’una con l’altra, perché non puoi eliminarle. L’una deve esistere grazie all’altra. Luce ed Oscurità devono coesistere. Forse la tua prova non è eliminare la tua parte malvagia.-
-Vuoi dire che dovrei accettarla?-
-Ti ha aperto gli occhi su molti fatti, non puoi negarlo.-
-Tutto quello che ho conosciuto, quando ero io la Regina del Male, è stato solo vendetta e solitudine! Il solo pensiero mi tormenta ancora!-
-Eri davvero sola, Audrey? Io vedo due Luci che ti hanno sostenuta, quando eri in difficoltà.-
Due Luci: Ben e Chad. Gli unici ad aver avuto il coraggio di affrontarla, ma non armati di lame, bensì di fiducia e speranza. Chad era rimasto con lei, apparentemente nella speranza di essere risparmiato dai suoi malefici, ma voleva, invece, trovare un modo per riportarla come prima. E Ben ancora vedeva del buono in lei.
Le sue Luci. I suoi sostegni. I suoi amici.
-Ben… Chad…- mormorò Audrey, quasi commossa.
Aqua, forse, stava sorridendo.
-Io stessa sto affrontando la tua situazione. Sono anni che sto vagando nel Regno Oscuro, senza ancora trovare un’uscita. L’unica cosa che mi sta impedendo di cedere allo sconforto ed alla tristezza è il ricordo dei miei migliori amici. Non so come, ma più di una volta sono accorsi in mio aiuto, quando ero vicina a farmi travolgere dall’Oscurità. Come Ben e Chad hanno fatto con te, quando credevi di essere ormai perduta. Erano i due frammenti di Luce rimasti nel tuo cuore, anche se credevi che fosse ormai macchiato di Oscurità. L’amicizia è la vera arma contro l’Oscurità. Se gli anelli che compongono la catena sono forti, niente può spezzarla, nemmeno l’Oscurità più potente.-
L’Oscurità aveva superato la zona inguinale e raggiunto le gambe.
Audrey stava ancora precipitando lentamente.
Ma nella sua mente, oltre alla sagoma di Aqua, erano apparse altre due figure, di due ragazzi. Nemmeno di loro riuscì a vederne il volto, ma riconosceva la forma dei loro capelli.
-Loro ti hanno sempre sostenuta. Tu non sei mai stata sola, Audrey. E non lo sarai mai.-
-Ben… Chad…-
I sovrani di Auradon. I figli di Belle e Cenerentola. Come lei, discendenti delle Principesse di Luce.
I suoi amici.
Vide le due figure allungare le mani verso di lei.
Finalmente, riuscì a muoversi: allungò le sue, prendendo le mani dei suoi amici.
-Possa il mio cuore essere la mia chiave guida…- mormorò, ricordando le parole di Yen Sid -La Luce non può sconfiggere l’Oscurità... I miei amici… sono il mio potere!-
Le due figure maschili si illuminarono una di rosa, l’altra di azzurro. Si trasformarono in due fasci di luce, che si posarono sulla sua mano.
L’Oscurità si arrestò. E gli occhi della ragazza si aprirono di scatto.
Era ancora nella sala del trono. Ancora sentiva le risate di Xemnas e dell’altra se stessa.
Sentiva il suo braccio formicolare e provare uno strano calore al suo interno.
Ebbe lo stimolo di alzarlo in alto ed aprire la mano. Apparve una luce, che prese forma.
Un Keyblade. Rosa ed azzurro. Era quasi diviso in due, con le aste quasi tra loro intrecciate, e come lama avevano un’ala ciascuna. L’unica cosa a tenerle unite erano un paio di ali messe tra l’elsa e l’asta.
Una forza invisibile sollevò la Regina di Auradon.
La luce fece voltare Xemnas e l’altra Audrey. Quasi si spaventarono alla vista del Keyblade.
Quella vera scattò velocemente verso di loro, con il Keyblade pronto per un affondo.
-Ti sbagli!- esclamò.
Xemnas era di nuovo pronto a fare da scudo alla sua Audrey, ma presto si accorse che il colpo era diretto a lui e non a lei. Preso alla sprovvista, infatti, venne colpito al petto. Fu praticamente inchiodato al trono.
L’altra Audrey urlò.
-Xemnaaaaaaaas! Nooooo!-
Lo sguardo di questi converse verso l’altra Audrey. Tentò persino di allungare una mano verso di lei.
-Audrey…-
Piegò la testa in avanti e il braccio cadde.
Stavolta fu l’altra Audrey a guardare quella vera con ira.
-Come hai osato?! La pagherai per questo!-
-Ti sbagli!- ripeté quella vera, riprendendo il suo Keyblade -La Luce non è patetica e l’Oscurità non ti rende più potente! Devono coesistere! E ti sbagli anche su Ben. Lo ammetto, non l’ho mai amato, ma non significa che debba degradarlo così! Lui, e anche Chad, sono stati gli unici ad essere rimasti con me, quando ero te, a non aver paura dei miei incantesimi, a sperare che fossi ancora io. Questo mi ha impedito di cedere completamente all’Oscurità. Non ho bisogno di uno come Xemnas per essere potente! I miei amici sono il mio potere!-
Una luce brillò sul suo petto.
L’altra Audrey digrignò i denti e strinse la presa sul suo scettro.
-Sciocchezze! Tutte sciocchezze!-
Una curiosa nube rosa era apparsa da sotto il suo mantello, facendola levitare a quasi tre metri di altezza.
Era una magia di gravità. E la pietra del suo scettro era illuminato.
Gli occhi gialli erano colmi di ira. Scagliò dei fulmini contro quella vera.
Audrey lo schivò con una semplice giravolta. Non fu il solo ad essere scagliato. Ma nessuno prese quella vera.
Tuttavia, non sapeva come contrattaccare. Provò a lanciare il suo Keyblade contro l’altra, ma anche lei era riuscita a spostarsi. Praticamente stava volando. E la sua magia proveniva dallo scettro. Per spostarsi, le bastava solo inclinare lo scettro.
Era impossibile colpirla. Audrey aveva persino provato a parare un fulmine, ma si era rivelato inutile: la colpì in pieno.
L’impatto l’aveva fatta cadere per terra.
L’altra rise, divertita.
“Così nessuna di noi ne uscirà vincitrice…” pensò quella vera, osservando l’altra con aria seria “Devo pensare ad un’altra strategia per sconfiggerla…”
Osservò di nuovo il suo Keyblade: aveva una forma strana, particolare. Non sembrava uniforme: il confine tra il lato rosa ed il lato azzurro sembrava diviso. Era come se fosse in grado di dividersi.
Le bastò esercitare due forze contrastanti sull’impugnatura, che il Keyblade, effettivamente, si divise, divenendo due mezzi Keyblade. Meno resistenti per parare agli attacchi, ma, forse, più rapidi per attaccare.
C’era, inoltre, qualcosa sull’elsa che colpì l’attenzione di Audrey: due ali. Dello stesso colore del Keyblade.
-Se solo fossi in grado di volare con queste ali…- mormorò, osservando l’altra, che stava ancora sorridendo malignamente.
A quelle parole, le due ali sulle due mezze else si illuminarono; poi si staccarono da esse, posandosi sulle scapole della ragazza. Erano persino mutate di dimensioni, divenendo grandi abbastanza per farla volare.
Erano due ali quasi trasparenti, leggere come la brezza, ma forti come ali di aquila.
Audrey sorrise, confusa.
-Cielo, il mio Keyblade è davvero un portento!- commentò, orgogliosa -Vediamo se ci riesco al primo tentativo.-
Erano una parte di sé: poteva muoverle secondo la sua volontà. Le bastò saltare e poi muovere le ali, per fare come aveva sempre visto fare gli uccellini del bosco dove era cresciuta.
Roteò i suoi due mezzi Keyblade e raggiunse l’altra sé, intanto sconvolta da quello che aveva appena visto.
Il mezzo Keyblade rosa le sfiorò i capelli: era riuscita a spostarsi in tempo. Ma la sua sicurezza, il suo orgoglio di poco prima era svanito, di fronte a quel Keyblade ed a quelle ali.
Ma non doveva mostrare esitazione.
-Forza, sorella, fatti avanti! Mostrami il tuo cosiddetto “potere”!- esclamò, con lo scopo di provocare quella vera.
Ma Audrey non si lasciò scomporre. Non doveva dimostrare niente all’altra. Lei voleva solo superare il Tuffo. Voleva solo eliminarla. Per superare le sue angosce.
Raggiungeva facilmente l’altra, grazie a quelle ali, e sfoderava un colpo. L’altra era sempre più sconvolta e terrorizzata.
“Dove trarrà questa energia?” pensava “Che ottenere quel Keyblade abbia risvegliato la sua sicurezza e la sua risolutezza?”
Lo sguardo di quella vera, infatti, era determinato e non più titubante, come prima.
Audrey sapeva di avere la vittoria in pugno.
Tentò un nuovo colpo: lanciò entrambi i mezzi Keyblade verso l’altra. Questi rotearono in orizzontale, facendo un “8” verso il loro obiettivo.
Si scontrarono insieme, colpendo la pietra dello scettro: essa si frantumò.
-NOOOO!!!- esclamò l’altra, più terrorizzata che mai. La nube rosa era svanita con la distruzione della pietra.
I mezzi Keyblade tornarono nelle mani della loro custode, che li riunì.
Poi scattò verso l’altra sé, che stava precipitando.
-E’ ora di farla finita, mio imperdonabile passato!- esclamò, preparando il Keyblade per il colpo finale -Possa il mio cuore essere la mia chiave guida!-
L’altra non poté opporre resistenza: subì il colpo in pieno ventre. Cadde sul pavimento, di schiena.
Audrey, invece, atterrò sui suoi piedi, aiutata dalle sue ali; esse tornarono sulle due mezze else, come decorazioni.
Si avvicinò all’altra, ancora sdraiata sul pavimento. Sembrava quasi incapace di muoversi.
-Tu non ti libererai mai di me, lo sai?- disse, furiosa, ma anche tremande dal dolore; serrò le labbra, piena di delusione -Io sono te! Non puoi sbarazzarti di me!-
Audrey strinse la presa sul suo Keyblade. Era pronto ad alzarlo e scagliarlo contro la persona che odiava di più.
Liberarsi di quel ricordo. Del suo passato da persona malvagia. Ecco cosa voleva il suo cuore. O così credeva.
Ma vedere la Regina del Male in quello stato… non si sentiva appagata, soddisfatta. Avvertì un vuoto, nel suo petto. Come se fosse riuscita a rimuovere in un colpo solo un macigno che le stava gravando per anni.
Il suo cuore non le stava dicendo di eliminarla.
Si mise sulle sue ginocchia, con sguardo pieno di pietà per se stessa.
-Non ho mai pensato a me come cattiva.- mormorò -Ho sempre pensato che sarei stata Regina. Ma non avrei mai immaginato quello che avrei dovuto affrontare.- fece una breve pausa, fissata dallo sguardo incredulo dell’altra sé -Mi sono sempre seduta sugli allori, fantasticando sulla vita meravigliosa che avrei avuto da Regina, tra agi e favori, come mi veniva raccontato quando ero piccola. Ma mi sono resa conto che non è affatto così. Forse sì, da un certo punto di vista devo ringraziare Xemnas e l’esperienza come cattiva, perché mi hanno fatto capire che io non sono perfetta come ho sempre pensato di essere, o come gli altri dicevano che fossi. La Luce è perfetta e quindi anche io desideravo esserlo. Ho ceduto all’Oscurità, perché avevo paura di non essere all’altezza del mio compito. Ma ho capito che non basta discendere da una famiglia nobile per essere un degno sovrano. Bisogna avere a tesoro ogni esperienza vissuta, sia buona che malvagia.- rivolse nuovamente lo sguardo verso la Regina del Male; il passato che non era mai riuscita a perdonarsi -Non voglio liberarmi di te. Anzi, sono pronta ad accettarti. Dopotutto, lo hai detto, tu sei me. Avendo vissuto sia nella Luce che nell’Oscurità ho trovato l’equilibrio. Ho incontrato una persona, prima di ottenere il Keyblade. Mi ha detto che l’unica cosa che devo fare per sanare la mia angoscia è accettare anche te. Non posso vivere con la delusione verso me stessa per sempre. Non sarò mai una degna Regina, se continuo a tormentarmi così. Ho riconosciuto e ammesso il mio errore, ed ho avuto il coraggio di affrontarti. Ora sono pronta a perdonare me stessa.-
Le aveva persino porto una mano, sorridendole dolcemente.
L’altra Audrey non la respinse, neppure le rivolse parole minatorie. Sembrava rilassata: non aveva più lo sguardo carico di ira ed odio.
Un po’ confusa, forse, ma alzò una mano e toccò quella della vera Audrey, stringendola.
La usò per alzarsi almeno con il busto. Non si fermò: continuò a piegarsi in avanti, divenendo sempre più eterea. Attraversò il corpo di Audrey.
Era tornata nel suo luogo d’origine.
Finalmente, una sensazione di pace si manifestò in Audrey. Aveva perdonato se stessa, accettato quella parte della sua vita che voleva rinnegare.
-Possa il mio cuore essere la mia chiave guida.- recitò, mentre una lacrima le scendeva da un occhio.
La sua prova era conclusa. L’aveva superata.
La sala del trono cominciò a dissolversi, partendo proprio dal punto in cui Audrey era ancora in ginocchio.
Non cadde. Restò sospesa a mezz’aria.
Era di nuovo nel buio.
C’era solo un’unica fonte di luce, di fronte a sé: una ragazza bionda, bellissima, con una rosa in mano.
-Mamma...?-
Aurora. Una delle sette Principesse della Luce. Ruolo che un giorno sarebbe spettato ad Audrey. O forse quel giorno era già arrivato.
La ragazza si mise una mano sul cuore, con aria triste. Ma sorrise. Pensò alla madre Aurora ed al padre Filippo. Sentiva la loro mancanza.
-Mi dispiace avervi delusi.- ammise, ma senza provare colpa -Ma forse è stato meglio così. Una Regina deve essere preparata per qualsiasi evenienza, giusto? Non ero ancora pronta, quando
sono stata incoronata, e nemmeno adesso mi sento pronta, nonostante abbia affrontato il mio lato oscuro. Il mio errore è stato aggrapparmi a quello che persone esterne avevano deciso per me. D’ora in avanti, seguirò il mio cuore. Come hai fatto tu, papà, quando hai affrontato Malefica per salvare la mamma. E avevi ragione su Aqua. Come ha salvato te, ha salvato anche me. Ma l’importante, per me, adesso, è ricostruire Auradon con Ben e Chad.- si mise la mano sul cuore -Grazie, ragazzi. Senza di voi sarei persa.-
Aveva parlato di Aqua: Yen Sid aveva rivelato che, dopo la battaglia contro Xehanort, lei era scomparsa. Ma era ancora viva e le aveva parlato, salvandola dall’Oscurità.
-Ti troverò, Aqua.- disse, osservando il suo Keyblade -E ti salverò, come hai fatto con mio padre e con me…-
Lo alzò in alto: partì un raggio di luce che illuminò tutto il buio che aveva intorno.
Audrey si elevò a quella luce, chiudendo gli occhi…

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"I never thought of myself as mean
I always thought I'd be the Queen.
And there's "no" in between,
Cause if I can't have that
Then I will be the leader of the dark and the bad
Now there's a devil on the shoulder where the angels used to be
And it's calling me the Queen of Mean"

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Capitolo 16
*** Uma's Story ***


Note dell'autrice: e... si continua con il trio dei pirati!

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Uma's Story
 

Si narrava, tra i marinai, che i sovrani di Atlantica discendessero direttamente dalle antiche divinità del mare. La prova era il tridente che brandivano, un tempo appartenuta a Poseidone, dio greco dei mari.
Infatti, proprio in onore a questo dio, il nome dell’attuale sovrano di Atlantica era proprio Poseidone. Un tempo un sovrano giusto; tuttavia, dalla morte dell’amata moglie per mano dei pirati, il suo cuore si era indurito e aveva giurato vendetta contro gli umani.
Poseidone aveva due figlie, Ursula e Morgana, molto amate dai genitori.
La madre aveva insegnato loro il canto.
E tra di loro, Ursula, la maggiore, aveva la voce più bella.
Poseidone, per adempiere alla sua brama di vendetta, decise di sfruttarla a proprio vantaggio; infatti, da quel giorno, molte navi, barche, scomparivano misteriosamente, senza più tornare nei porti.
E le navi dei pirati non erano da meno.
Inizialmente, Ursula aveva appoggiato il piano del padre, principalmente per timore nei suoi confronti. Ma dopo aver visto ciò che stava causando, una sera decise di non cantare: c’era una nave, in avvicinamento. Non era chiaro se fosse una nave mercantile o pirata, ma Ursula, tutt’a un tratto, aveva smesso di cantare.
Ciò non sfuggì agli occhi di Poseidone.
Ursula non voleva più fare del male alle persone. Si era ribellata agli ordini del padre.
Questi, deluso, le diede un ultimatum: -Fai come ti pare, ma per la marea alta ti rivoglio qui!-
Ursula aveva preso la sua decisione: rubò un bracciale incantato e andò nel mondo degli umani.
Voleva viaggiare e cantare per loro, allietare le loro anime, non distruggerli, come il padre le aveva ordinato.
In una taverna, incontrò un pirata, uno sfuggito al suo richiamo. Per ringraziarla di aver risparmiato la sua vita, le aveva offerto un passaggio sulla sua nave, per realizzare il suo sogno di viaggiare per il mondo.
Non passò molto tempo, prima che i due si innamorassero.
Ma la loro storia non poteva durare: il pirata l'aveva venduta al padre Poseidone, in cambio di ricchezze.
E per ottenerle, doveva privare la ragazza del suo canto.
E così aveva fatto.
Era questa la lezione che Poseidone voleva impartire alla figlia, sugli umani.
Lei non lo avrebbe dimenticato. Quell'esperienza la cambiò per sempre.
Poseidone sperò si sarebbe finalmente schierata dalla sua parte, contro gli umani. Ma lei, con uno sguardo carico di odio sul volto, aveva preso il suo tridente.
-Il mio unico reato è stato quello di ribellarmi alla tua tirannia, padre!- esclamò lei, puntando il tridente contro di lui, di fronte allo sguardo sgomento dell'intero regno -Cantare era tutto quello che avevo e tu me lo hai portato via! Come mi hai portato via l'amore! Sì, io amavo davvero quell'umano e tu me lo hai portato via! Tu mi hai rovinata, padre, e ora la pagherai!-
-Ursula, cosa vuoi fare?!-
Era palese la paura negli occhi di Poseidone.
-Tu mi hai chiamata Ursula, come un'antica regina dei mari, e secondo la leggenda lei era potente! E io diventerò come lei!-
La sua coda, grazie al potere del tridente, si divise in otto tentacoli neri.
L'Oscurità si era insidiata in lei dal momento in cui era stata privata del suo canto. Non sarebbe più tornata indietro.
-Sento i miei poteri divenire sempre più forti.- disse, con tono cupo e sguardo freddo -Ora tutti mi temeranno e i sette mari saranno sotto il mio potere. E coloro che oseranno deludermi od ostacolarmi verranno eliminati. A cominciare da te, padre.-
Dal tridente venne scagliato un fulmine, che colpì e scaraventò Poseidone contro la parete del palazzo. Il colpo fu fatale, per lui.
Quel giorno, iniziò il regno di Ursula.
Alcuni scapparono da Atlantica, tra cui Morgana, la sorella minore.
Gli altri, per paura della nuova sovrana, decisero di sottomettersi.
L'esperienza sulla terraferma non lasciò Ursula senza conseguenze: nove mesi dopo, diede alla luce una figlia. Polpo, come lei. Ma con sangue umano.
La chiamò Uma.
Per fortuna, assomigliava alla madre. Non c'erano segni del padre.
Uma crebbe tra feste e musica: Ursula sentiva molto la mancanza della musica. Voleva sentirla di continuo, per colmare il vuoto dentro di lei.
Aveva perso la sua voce, ma era riuscita comunque ad insegnare alla figlia come cantare.
Ed esattamente come lei alla sua età, la voce di Uma incantava chiunque la ascoltasse.
Tutti, ad Atlantica, conoscevano il nome della principessa Uma.
Ogni sera veniva allestita una festa, nel palazzo. Tutti erano invitati. E una grande orchestra per accompagnare l'atmosfera ed il canto di Uma.
Ma queste feste costavano molto. Ursula aveva raddoppiato le tasse, per pagarle.
Il palazzo risplendeva, ma il regno cadeva nella miseria ogni giorno.
E chi supplicava la regina, finiva per firmare un contratto con lei: lei li avrebbe aiutati, ma loro dovevano sempre fare qualcosa per lei.
Circolavano voci strane, su Ursula, tra cui che praticasse le arti magiche per ipnotizzare il regno ed impedire una rivoluzione.
Ed era così. Usando il potere del tridente, era riuscita ad incantare gli strumenti musicali, per ipnotizzare gli invitati: incantati dalla musica, tornavano poi nelle loro case senza avere alcuna memoria della serata e delle loro intenzioni di ribellarsi contro la regina. E forse anche la voce della figlia.
Non la odiava, nonostante fosse frutto dell'amore con un umano che l'aveva tradita, ma nemmeno era affettuosa con lei.
Uma, esattamente come la madre, amava la musica. Ma sentiva la sua vita vuota.
Il suo volto era sempre triste.
Durante le feste, sedeva sempre al fianco della madre, quando non cantava: con gli anni, Ursula era divenuta una regina bellissima. Tanti re e principi provenienti da lontano avevano chiesto la sua mano, invano.
I suoi prossimi piani, però, avrebbero coinvolto il futuro matrimonio della figlia.
Infatti, le feste erano incentrate sul cercare un ottimo partito. O così diceva.
Ma Uma non sembrava interessata.
-Uma, dolcezza, cosa ti turba?- le chiese una sera, nonostante il volume della musica dell'orchestra fosse alto.
Anche Uma aveva timore della madre: bastava poco per farla infuriare.
Ma doveva dire quello che si stava tenendo dentro da tempo.
-Madre, non credo sia giusto quello che stiamo facendo.- rivelò, infatti -Noi dovremo aiutare la nostra gente. E allietarla con la musica, non controllarli. Guardo fuori dalla finestra di camera mia e vedo che stanno morendo di fame. Ma tu sei sempre impegnata ad organizzare queste feste! Stai condannando alla fame il nostro regno, madre! Io vorrei cantare per rendere la gente felice, non per far loro del male!-
Esattamente le stesse parole che Ursula aveva rivolto al padre anni prima.
Avrebbe voluto ridere, per quella coincidenza.
Ma fece esattamente la stessa cosa che suo padre fece con lei: rimproverò la figlia e la cacciò dalla sala.
Uma era stufa della condizione cui la sottoponeva la madre. Nel regno temevano anche lei, esattamente come temevano la regina.
Per questo non aveva mai avuto amici. Era cresciuta da sola, con la sola compagnia della madre e della servitù.
Di rado si concedeva una piccola fuga dal palazzo, stando bene attenta a non farsi sorgere dalle guardie, soprattutto dopo una discussione con la madre. E non erano poche. Una piccola passeggiata per sbollire la rabbia.
Infatti, anche quella sera, scappò dal palazzo.
Solitamente, riusciva a camminare nell'ombra, per non farsi scorgere nemmeno dagli abitanti. Per non farsi riconoscere, cercava di coprire i tentacoli e si liberava degli abiti regali.
Casualmente, però, si era scontrata con un giovane tritone.
-Principessa Uma!- esclamò lui, sorpreso e facendo un lieve inchino -Perdonatemi. Sono un vero sbadato.-
Uma fu quasi stranita. Si chiese come avesse fatto a riconoscerla.
Poi guardò in basso: nell'urto, un tentacolo era fuoriuscito dalla coda fasulla.
Imbarazzata, cercò di rimetterlo dentro. Ma era impossibile: si era creato uno strappo. Si potevano scorgere tutti i tentacoli.
Osservò il giovane tritone negli occhi, con aria supplichevole.
-Ti prego, non dirlo a nessuno. Mi riporteranno a palazzo.-
Ma il tritone sorrise dolcemente e fece un lieve inchino.
-State tranquilla.-
Gli occhi erano azzurri. Ed aveva dei brillanti capelli rossi.
-Vi sento spesso cantare, principessa.- complimentò -Perdonate la mia sfrontatezza, ma... eheh...- ridacchiò, anche lui imbarazzato -A volte vorrei che poteste cantare solo per me. No, aspettate! Mi sono espresso male! Ecco, vorrei... vorrei... che poteste cantare per il regno, non obbligata in una festa. Oh, per gli dei del mare, sono così imbranato...-
Uma rise. Non aveva mai sorriso così in vita sua.
-Stai tranquillo. Va tutto bene.- cercò di confortarlo -Sarebbe davvero bellissimo, comunque, poter cantare per i miei sudditi.-
Qualcosa li fece voltare entrambi: due narvali dall'aria minacciosa.
-Eccola là!-
-Fermo, tu! Allontanati dalla principessa!-
Uma impallidì.
-No, le guardie! Presto, fuggiamo!-
Liberatasi del travestimento, Uma nuotò più velocemente che poteva, stringendo il polso del giovane tritone, che seguì i suoi movimenti.
-Fermi!-
-Fermatevi, principessa! In nome di vostra madre!-
Ma Uma non si fermava. Non voleva affrontare l'ira di sua madre.
Riuscirono a nascondersi dietro un riff. I due narvali non riuscirono a trovarli, quindi decisero di rinunciare alla ricerca e tornare indietro.
Uma ed il tritone riuscirono a tirare un sospiro di sollievo.
-Ora sono un ricercato...- mormorò lui, con tono sarcastico.
-Quando tornerò a palazzo, spiegherò tutto. “Se” tornerò a palazzo...- assicurò Uma -Scusa se ti ho trascinato via, ma non volevo che ti catturassero per colpa mia.-
-Non era necessario, principessa. Ma vi ringrazio.-
Uma sorrise.
Poi guardò in alto: una strana luce provenire dal mondo della superficie.
-Che cos'è?- fece, prima di nuotare in alto.
Riuscì a far emergere la testa.
Era vicina ad una riva. E su quella riva si ergeva un paese.
C'erano tante luci, e voci di persone che ridevano. Fuochi strani che esplodevano in cielo.
Sentiva della musica. Della musica allegra. E gente che cantava.
Non vedeva bene, a causa delle case, ma se c'era della musica, allora dovevano esserci anche persone che ballavano.
Uma non riuscì a fare a meno di sorridere.
Ecco come voleva usare il suo canto. Ecco il mondo a cui aspirava.
-Principessa!-
Uma sobbalzò, distolta improvvisamente dai suoi pensieri. Il tritone era emerso accanto a lei.
-Perdonatemi. È solo che... vi ho vista salire improvvisamente sulla superficie e mi sono preoccupato. Non dovremo stare qui. Vostra madre...-
-Ascolta... la musica.- chiuse gli occhi, senza smettere di sorridere; addirittura si mosse un pochino, seguendo le note -Oh, se potessi unirmi e ballare insieme agli umani... Mi basterebbe per essere felice.-
-Vorrei tanto aiutarvi.- commentò il tritone -Ma nelle mie condizioni non ne sono davvero in grado.-
-Oh, sì che puoi!- ribatté Uma, voltandosi verso di lui -Ma certo! Se riesco a convincere mia madre a fare di te la mia guardia del corpo, sicuramente mi lascerà libera di girare per il regno! Invece verremo qui, a ballare insieme agli umani! Eh, che ne dici?-
-Principessa, io...-
Il tritone aprì la bocca, inizialmente senza dare alcuna risposta. La mosse, come per dire qualcosa.
-Non vedo come sia possibile! Guardateci! Siamo due creature del mare. E si dice che questi della superficie ci odiano! Come potete pensare di potervi confondere tra di loro.-
-Io conosco un modo. Nessuno scoprirà che apparteniamo al popolo del mare, tranquillo. Ti prego, è tutto quello che desidero. Io ti ho aiutato contro le guardie di mia madre. Ora ti chiedo di esaudire questo piccolo desiderio. Non chiederò altro, promesso.-
Non sembrava nulla di male. In fondo, era solo per un ballo. E non poteva dire di no alla richiesta di una principessa.
Sospirò e fece una lieve riverenza.
-Io... sì, accetto. Ogni vostro desiderio è ordine, principessa.-
Uma, senza pensarci due volte, lo abbracciò, colma di gioia.
-Grazie, grazie infinite! Aspetta, non ho ancora chiesto come ti chiami.-
-Delfino, principessa Uma.-
Al suo ritorno, Ursula le diede un notevole rimprovero. Ma Uma aveva creato una storia, per giustificare la sua fuga da Atlantica: lei si era spaventata, alla vista delle guardie, e il ragazzo che era tornato nel palazzo con lei li aveva semplicemente scambiati per malviventi, per questo erano scappati insieme. Non aveva intenzione di rapirla, come avevano intuito le due guardie.
Poi arrivò il momento della richiesta di una guardia del corpo.
Ursula non era affettuosa con la figlia; ma era molto protettiva con lei. Avrebbe preferito qualcuno di più fidato, al suo fianco, ma Uma aveva esplicitamente richiesto il ragazzo che l'aveva riportata a casa. Illesa.
A malincuore, Ursula acconsentì: non voleva vedere la figlia infelice. Al fianco di quel popolano, però, sembrava felice e sicura di sé.
E Uma riuscì a mantenere la sua promessa: il giorno seguente, infatti, lei e Delfino se ne andarono da Atlantica di buon'ora, per raggiungere il mondo in superficie.
Il giovane tritone aveva qualcosa sul polso: un bracciale. Rubato da Uma dalla stanza della madre. Lo stesso bracciale che ella stessa, anni prima, aveva indossato per diventare un'abitante della superficie.
Infatti, appena vicino alla superficie, Delfino sentì la sua coda dividersi e divenire un paio di gambe.
Abituato a nuotare ed essendo incapace di camminare, cadde sulla sabbia: al posto della coda era comparso una specie di telo che lo copriva dalla vita ai piedi.
Ma non fu scoraggiato o spaventato, anzi: era entusiasta.
-È incredibile! Io... bipede?!-
Ma poi osservò la principessa.
-Aspettate, ma voi...?-
Uma stava sorridendo. Non sembrava infelice o preoccupata.
Si avvicinò sempre più alla riva.
Delfino fu quasi sorpreso di vederla avanzare verso di lui, camminando sulla sabbia. I suoi tentacoli erano divenuti una gonna. Due gambe brune muovevano quelle pieghe.
-L'ho scoperto per caso quando ero piccola.- raccontò lei -Non avevo bisogno di artefatti magici o incantesimi. Mi è sempre bastato toccare la terraferma. A corte dicono che sono benedetta dagli antichi dèi del mare, per avere questo dono. O maledetta. Ma mia madre non mi ha mai detto perché posso trasformarmi in bipede.-
Una scoperta avvenuta per puro caso. Ma che da quel giorno e per tanti anni non aveva fatto altro che creare un vortice di domande, nella testa di Uma: perché poteva trasformarsi in bipede? Era davvero maledetta o benedetta dagli antichi dèi del mare? Era un incantesimo della madre?
Ma la più importante, per la ragazza, era una sola: chi era suo padre?
Ursula le aveva raccontato che, un tempo, aveva avuto una relazione con un tritone, ma, purtroppo, era stato ucciso dai pirati. Non aggiungeva mai altro. Ed era molto evasiva sull'argomento.
Ma Uma sapeva, nel profondo, che stava mentendo: aveva cominciato a dubitare della madre, dal giorno in cui, per caso, aveva scoperto di poter camminare e respirare sulla terraferma.
Era anche per quel motivo che era sempre triste e malinconica.
Ma quel giorno non ebbe alcun pensiero: voleva solo ballare e divertirsi con Delfino.
Grazie ad Uma, stava imparando a stare stabile in piedi ed aveva imparato a camminare in poche ore.
Dovettero rubare dei vestiti appesi ad un filo, per imbucarsi nella festa di paese.
La musica era decisamente più allegra di quella suonata nel palazzo di Atlantica.
Uma sorrideva. Quel sorriso partiva dal cuore.
Non resistette e ballò a quelle note, trascinando Delfino con sé.
Era più complicato che danzare in acqua, con le code.
Non furono rari i momenti in cui il tritone barcollava e cadeva per terra, spesso facendo cadere anche la principessa. Ma anche lui si divertì.
Non fu l'unica volta in cui danzarono sulla terraferma: ogni volta che ne venivano a conoscenza, Uma riprendeva il bracciale magico per Delfino e, insieme, tornavano sulla terraferma.
E Delfino si stava ormai abituando alle gambe ed si rivelò, inoltre, un ottimo ballerino.
La loro presenza, però, non passava inosservata, tra gli abitanti del paese: non avevano mai visto quei due giovani, per le strade. Non erano paesani. Ma comparivano solo durante le feste ed i balli.
E come comparivano così scomparivano.
Continuavano a chiedersi chi fossero quei due forestieri.
Le voci raggiunsero anche le più improbabili delle orecchie.
Erano ormai da settimane che Uma e Delfino si imbucavano nelle feste.
Conoscevano i balli, persino le canzoni a memoria.
Una sera, tuttavia, il ballo era stato annullato, poiché il cantante della banda aveva perso la voce.
Uma non si tirò indietro: salì sul palco, proponendosi come nuova cantante.
Fu una sorpresa, per tutti i paesani, sentire la voce della ragazza: così soave, melodiosa, quasi ipnotica.
Il ballo non fu affatto annullato, anzi. I festeggiamenti durarono a notte fonda. Tutti incitavano Uma a fare il bis, persino i membri della banda paesana.
E Delfino era tra i primi ad acclamarla. Danzare sulla sua voce non era come danzare con le altre canzoni.
In quella voce aveva come l'impressione di percepire il cuore ed i sentimenti della principessa.
E si commosse, infatti.
Le applaudì, appena ella tornò da lui.
-Principessa, lasciatemelo dire. La vostra voce è davvero stupenda.-
-Delfino, basta con queste formalità. Ti prego, chiamami Uma e dammi del “tu”.-
Erano giorni che si avventuravano insieme nel mondo degli umani, ma ancora il tritone non aveva il coraggio di trattarla come pari. Aveva paura della sua reazione. La frase di Uma lo confortò non poco.
-E, comunque, anche tu sei un ottimo ballerino.-
Più sere Uma sostituì il cantante della banda; tutti acclamavano la sua voce e non per effetto di un incantesimo. La gente era davvero felice. E anche lei era felice. Aveva realizzato il suo sogno.
Avrebbe continuato quella vita per sempre.
Da sola non ci sarebbe mai riuscita: Delfino le dava la forza e la sicurezza cui aveva bisogno.
Si sentiva al sicuro con lui. Non era solo un ottimo ballerino, ma anche una valida guardia del corpo.
Una sera, infatti, Uma si era seduta da una parte, attendendo che Delfino le portasse da bere.
Tre giovani paesani l'avevano circondata, apparentemente per chiederle di danzare con loro; ma le loro intenzioni erano altre.
Delfino, per fortuna, era tornato in tempo: da solo, era riuscito ad affrontare i tre giovani.
Uma fu colpita.
-Mio fratello ed io facciamo spesso a botte e lui è più largo di loro.- spiegò il ragazzo, ridacchiando soddisfatto.
Non nascondeva a se stessa di starsi affezionando a lui. E i sentimenti che provava per lui, lui provava lo stesso per lei.
Lo scoprirono, infatti, quella sera della rissa, tornando al litorale. Si erano avvicinati l'un l'altra, più del solito, non per un abbraccio. Si erano scambiati un bacio.
Lo avevano visto fare da una coppia nella piazza. Volevano provare anche loro. Scoprire come amavano gli umani, rispetto ai marini.
E quella sera avevano scoperto l'amore.
Quando non andavano sulla terraferma, si incontravano nei giardini di Atlantica, lontani dalle guardie.
Ma il loro posto preferito rimaneva la terraferma, dove entrambi potevano essere liberi, lontani da Ursula.
Stavano iniziando a pianificare di scappare per sempre da Atlantica e vivere come umani.
Uma doveva solo scoprire la pozione che avrebbe reso Delfino un umano per sempre, senza usare il bracciale.
Ma il talento di Uma non era passato inosservato.
I due abitanti del mare, infatti, una sera, tornando al litorale, non si erano accorti di essere seguiti.
E quella persona, un uomo grasso e dall'alito alcolico, li aveva visti mutare forma, non appena avevano toccato l'acqua del mare.
Da un certo punto di vista, la loro vera natura era stata scoperta. O poteva essere anche un'allucinazione dovuta al rum.
Uma e Delfino erano sempre più curiosi sulla vita degli umani. Il paese dove si recavano spesso non poteva essere tutto il mondo; dovevano pur esserci posti come quello. Avevano, però, bisogno di denaro, per viaggiare.
La loro occasione si era presentata con un uomo che stava trainando, a fatica, un carro: Delfino ed Uma non ci pensarono due volte, ad aiutarlo.
Disse di essere un mercante, di viaggiare molto e che, effettivamente, aveva bisogno di un paio di braccia in più, per la sua attività.
I due ragazzi accettarono subito.
L'uomo possedeva una nave; era così che viaggiava.
Uma e Delfino sarebbero stati finalmente lontani da Ursula e da Atlantica, e avrebbero vissuto la loro vita.
Ma l'uomo non era un mercante. Appena saliti sul ponte, Uma e Delfino furono circondati dai pirati.
E chi li aveva portati non era il capitano, ma il nostromo.
-Capitano, sono loro. Cioè, almeno credo che lo siano. Sembrano umani, ma vi assicuro che se toccano l'acqua sono diventano creature marine.-
Dall'ombra era apparso un uomo molto alto. Era orrendo, volto lungo con il mento appuntito, capelli che sembravano candele nere. Gli occhi erano azzurro glaciale, forse l'unica caratteristica “bella” di quell'uomo.
-Quindi questi due sarebbero creature marine...?-
Il suo sguardo era fisso su Uma.
-Tu hai un'aria familiare, ragazzina.- disse; persino la voce era sibilante -Dove ti ho già vista?-
Uma non rispose. Delfino si fece avanti per lei.
-Come osi rivolgerti alla principessa Uma in questo modo?-
La minaccia non arretrò il capitano; anzi, per poco non rideva.
-Oh, addirittura una principessa? Quindi il prezzo aumenta, quando chiederò il riscatto dai tuoi genitori! Dell'altro non so che farmene, quindi, uomini, è tutto vostro, ma la principessina viene con me.-
Delfino non poteva permettere un simile affronto alla principessa.
Si morse il labbro e, lesto, spinse Uma fuori dalla nave.
-Scappa, Uma! Mettiti in salvo! Tornerò presto!- urlò.
Lei non fece in tempo a protestare che cadde in acqua.
Da umana tornò mezza polpo.
Dalla paura, non aveva agito.
Delfino le aveva implorato di scappare. Lei si allontanò dalla nave, ma per cercare aiuto.
Tornò al palazzo, dove, per fortuna, trovò delle guardie. Spiegò che lei e la sua guardia del corpo erano stati attaccati dagli umani e lui era rimasto a combattere contro di loro, per permetterle di scappare.
Uma tornò allo stesso punto dove Delfino l'aveva spinta, con mezza dozzina di guardie.
Ma la nave era sparita.
Notò qualcosa sprofondare sempre più sul fondale: un tritone. Delfino.
Non si muoveva. E la testa era pericolosamente piegata in avanti.
Uma si avvicinò, per poi impallidire: Delfino era morto!
Guardò il suo braccio: la mano su cui portava il bracciale era stata tagliata. Si erano presi il bracciale.
Ed il suo corpo era stato mutilato.
Tornò ad Atlantica, con il corpo di Delfino tra le braccia. Non riuscì a nascondere le lacrime. Piangeva a dirotto.
Le guardie non sapevano cosa dire.
Tutta una folla si era riunita intorno alla principessa, quando mise piede nella città. La stavano osservando sgomenti.
Lei si guardò intorno, spaventata, disorientata, ancora scioccata dalla morte di Delfino.
-Non sono stata io...- mormorò, tra le lacrime.
Udì una voce e qualcuno farsi largo tra la folla, per avvicinarsi alla principessa.
-Delfino!-
Era un tritone di qualche anno più grande di Uma e anche di Delfino, dai lunghi capelli rossi.
Il suo sguardo era fisso su di lui. Impallidì e lo strappò dalle braccia della principessa.
-No! Delfino! Fratello mio!-
Anche una donna si era unita a lui. Da come aveva urlato, doveva essere la madre.
Un'altra persona si unì alla folla: la regina Ursula.
-Cos'è questo casino?!- esclamò -Cosa sta succedendo?!-
Poi notò la figlia, le persone intorno al tritone morto.
Ebbe una lieve sincope di sorpresa allo spettacolo.
-Chi è stato?- domandò.
Il giovane tritone alzò lo sguardo. Prima osservò la regina. Poi la principessa.
-Lei! È stata lei!- esclamò, indicando la principessa.
Tutti gli occhi erano puntati su Uma.
-No! Madre! Non lo farei mai!-
Ursula credette alla figlia. Ma il popolo no.
-Non vi bastava prendere il nostro denaro, regina Ursula? Ora prendete anche le vite dei vostri sudditi!?-
Per quella sera, furono le guardie a sedare la rabbia del popolo.
Ursula, dopo aver ascoltato tutta la storia, aveva messo in castigo la figlia, per essersi allontanata dal regno ed aver osato salire sulla superficie.
Uma era rimasta chiusa per due giorni in camera sua, a piangere. Era di nuovo da sola.
Da lì, però, assistette ad una scena che non avrebbe mai dimenticato: tutto il popolo si era riunito nella piazza principale. Al centro vi stava il fratello di Delfino, Tritone.
-La morte di mio fratello Delfino non sarà vana. Noi tutti siamo qui riuniti contro la tirannia della regina Ursula! Ci ha costretti alla povertà, per pagare le sue feste, ha eliminato tutti coloro che si erano recati da lei in cerca di aiuto. E ora ha preso la vita di un innocente! Abbiamo sopportato anche troppo! Atlantica! Insorgiamo contro Ursula, la Strega del Mare!-
Non erano bastate le guardie, contro il popolo: i cancelli furono sfondati, e tutti gli abitanti di Atlantica avevano assediato il castello.
Avrebbero cercato anche lei, oltre la madre. Doveva scappare da Atlantica, per sempre.
Fece come era solita fare quando si incontrava di nascosto con Delfino, uscendo dalla finestra.
Nuotò per giorni, senza avere una meta.
In quanto abitante del mare e membro della famiglia reale di Atlantica, era in grado di viaggiare attraverso i mondi.
La paura era stata la chiave per scoprire un aspetto di se stessa: i poteri magici.
Lo aveva scoperto quando si era trovata faccia a faccia con uno squalo.
Non c'era più Delfino a proteggerla. Temeva sarebbe stata la fine, per lei.
Ma le era bastato allungare le braccia in avanti, per scagliare una corrente d'acqua violenta che scaraventò lontano lo squalo.
Non doveva più avere paura.
Quegli stessi poteri le permettevano di viaggiare nei mondi. Le bastava pensare a qualcosa che questo si avverava.
Stava soffrendo della solitudine, dalla morte di Defino.
Questo l'aveva condotta al salvataggio di due ragazzi della sua età, annegati in acqua.
Per farli respirare, aveva circondato le loro teste con due bolle.
Ma non poteva viaggiare a lungo. Tutti e tre avevano bisogno di un posto sicuro in cui stare.
Le bastò pensarlo; e poi si trovò di fronte ad un nuovo litorale, dove adagiò i due ragazzi.
I loro nomi erano Harry e Gil.
E furono sorpresi della doppia natura della loro salvatrice, ma non spaventati.
I tre divennero inseparabili. Avevano una cosa in comune: tutti e tre non erano apprezzati da coloro cui erano circondati.
Uma continuò ad esercitarsi con i suoi poteri. Continuava a pensare a Delfino. Anche nella morte, continuava ad essere la sua forza ed il suo incentivo a divenire più forte.
Nel luogo in cui si trovava, l'Isola degli Sperduti, venne a conoscenza di quanto avvenuto ad Atlantica, dopo la sua fuga: Tritone, il fratello maggiore di Delfino, aveva spodestato Ursula, costringendola all'esilio, ed era divenuto re di Atlantica.
Non era più una principessa. La notizia non la sconvolse. Odiava essere una principessa, in fondo.
Con Harry e Gil, si erano promessi di divenire pirati. Per aiutare Uma a vendicarsi dei pirati che le avevano portato via il suo primo amore.
Ma dovevano unire tante persone per formare una ciurma.
Fu in questo progetto che Uma e Mal si incontrarono.
Uma le aveva proposto di unirsi alla ciurma, ma Mal rifiutò, dicendo di non voler prendere parte ad una causa persa. E, per schernirla, l'aveva persino chiamata “gamberetto”.
Aveva visto come si atteggiava Mal: sembrava una specie di reginetta, sicura di se stessa.
Se Uma doveva raggiungere il suo scopo, doveva avere anche lei quell'atteggiamento.
Doveva fingere di essere come la madre.
Da quel momento, infatti, divenne più autoritaria, più aggressiva.
Chiedeva continuamente ai suoi seguaci: -Come mi chiamo?-
Si era legata al dito il nomignolo datole da Mal.
Per qualche giorno, anche alcuni ragazzi della sua ciurma la chiamavano “gamberetto”, compreso Gil. Anche per questo aveva cambiato atteggiamento.
Da allora, tutti iniziarono a rispettarla, come veniva rispettata ad Atlantica.
Si era creata un'armatura, dietro la quale nascondeva il suo cuore spezzato. Solo la notte riusciva a sfogare tutte le lacrime che reprimeva nel giorno.
In realtà, c'era un motivo reale per cui era ossessionata dal voler far ricordare a tutti il suo nome: una volta ottenuta la libertà, avrebbe gridato il suo nome ai sette mari, non per dare inizio alla sua egemonia, ma per trovare presto il pirata che aveva ucciso Delfino.
Se si fosse fatta un nome, lui sarebbe giunto da lei, curioso di misurarsi con un pirata temuto tanto quanto lui. E lì, Uma avrebbe consumato la sua vendetta.
Avrebbe atteso per tutta la vita, se necessario.
Tuttavia, la sua invidia per Mal aumentò con il decreto di re Ben: lei non era stata scelta per il progetto di integrazione con Auradon.
Nell'Isola degli Sperduti aveva scoperto di non poter più usare il suo potere per viaggiare nei mondi. Se fosse stata scelta per andare ad Auradon, avrebbe continuato la sua ricerca dell'assassino di Delfino, oltre a scoprire qualcosa di più sulle sue origini, su chi fosse suo padre.
L'occasione arrivò con il ritorno di Mal nell'isola.
Uno strano forestiero era giunto sull'isola: un uomo con un cappotto nero. Non rivelò il suo nome.
Ma le rivelò del ritorno di Mal e dell'inseguimento di Ben.
Sapeva della sua origine, chi fosse, sua madre, sapeva tutto di lei.
Anche della sua perdita.
Sfruttando quest'ultimo elemento, le aveva fatto un'offerta: lei si sarebbe impegnata a rapire Benjamin e lui le avrebbe rivelato come uscire dall'Isola, per adempiere alla sua vendetta.
A quanto pare, l'unico modo per uscire davvero era la bacchetta della Fata Smemorina, in quanto essa aveva creato la barriera.
Fece quanto proposto dall'uomo: rapì Benjamin e ricattò Mal.
Ma fu ingannata e la bacchetta datole da Mal era falsa.
Non le rimase altro che ingannare Ben, sottoponendolo ad un incantesimo di amore.
Così lo avrebbe costretto senza usare la forza a dissolvere la barriera magica e permettere a lei ed alla sua ciurma di viaggiare per i mondi, alla ricerca dell'assassino di Delfino. In realtà, avrebbe potuto farlo da sola, con il suo potere di viaggiare tra i mondi. Ma non ne aveva la forza o il coraggio. Si era affezionata alla sua ciurma, a modo suo. Da sola sentiva di non poter partire per il suo viaggio.
Ma il bacio che Mal aveva dato a Ben vanificò i suoi progetti.
Colma di rabbia, Uma si gettò in mare.
Nell'Isola degli Sperduti non c'era magia. Ma, una volta superata la barriera, sentiva qualcosa bruciarle nelle vene. Era il potere derivato dalla rabbia che aveva covato per tanti anni, e le stava “dicendo” di farlo uscire.
Quando riemerse, Uma non era più la stessa: si era trasformata in un mostro simile al Kraken.
Prima di gettarsi in acqua, infatti, c'era qualcosa di strano nei suoi occhi: erano diventati neri, con una piccola pupilla gialla in mezzo.
Anche Mal si trasformò, per proteggere Auradon.
Drago e Kraken si affrontarono.
Ben fu costretto ad intervenire, per evitare che si uccidessero l'un l'altra.
Uma scomparve dopo quella sera.
Si diceva che stesse pianificando la sua vendetta, attendendo che Auradon abbassasse le proprie difese, ma non era così.
E Mal lo scoprì durante la maledizione scagliata da Audrey: voleva trovare solo una falla nella barriera per poter uscire dall'Isola.
Le due ragazze raggiunsero un compromesso: Uma avrebbe aiutato Mal contro Audrey con la promessa di aprire la barriera per sempre.
L'aiuto di Uma fu indispensabile contro Audrey.
E lei e Mal ebbero modo di scoprire, inoltre, di avere molto in comune.
Chiarirono gli errori del passato e si perdonarono a vicenda.
Uma, Harry e Gil decisero di stabilirsi ad Auradon, una volta salvata Audrey e con la distruzione della barriera dell'Isola degli Sperduti. Avevano ormai legato con coloro che avevano sempre considerato i loro rivali.
Poi, giunsero gli Heartless. Anche Uma, nonostante avesse provato a contrastarli con i suoi poteri, cadde a causa loro, sprofondando nell'Oscurità, insieme agli abitanti di Auradon. Il suo desiderio di vendetta non si sarebbe più esaudito.
Al suo risveglio, temeva di essere di nuovo da sola, come quando era fuggita da Atlantica.
Ma, per fortuna, Harry e Gil erano con lei. E anche Mal e gli altri ragazzi di Auradon con cui avevano legato.

Nonostante gli ultimi avvenimenti, Uma non ha mai dimenticato ciò che stava cercando da anni: l'uomo che ha ucciso Delfino e suo padre. Alla proposta di Carlos di divenire Custode del Keyblade, Uma trova una possibilità che la avvicini al suo obiettivo, oltre a controllare i suoi poteri. Per tutta una vita, le persone hanno protetto lei: le guardie di Atlantica, Delfino, Harry, Gil... ora tocca a lei proteggere le persone a lei care. E ottenere le risposte che cerca. Ma il Tuffo nel Cuore rivela sempre sorprese inaspettate...

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Capitolo 17
*** Uma's Dive Into The Heart ***


 

Uma's Dive Into The Heart


https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs



“Dove mi trovo...?”
Uma stava sprofondando. Lentamente.
Si osservò le gambe.
“Non posso trovarmi in acqua... sarei un polpo.”
Guardando in alto, notò una fievole luce quasi ondeggiata, come se, effettivamente, fosse dentro l'acqua e quello fosse il sole.
Poi si voltò e guardò in basso: notò una piattaforma in vetro colorato, di colore acquamarina, il suo colore preferito.
“Quella sono io...?”
Con sua sorpresa, c'era raffigurata lei, con gli occhi chiusi.
Insieme a lei vi erano anche Harry, Gil, Mal, sua madre Ursula. E anche un giovane dai capelli rossi.
Atterrò dolcemente su di essa.
Ogni suo passo riecheggiava nell'aria.
Si guardava intorno, inquieta; anche un po' delusa.
-Quando il vecchio ha parlato di Tuffo nel Cuore non pensavo a questo.- disse, sfrontata; anche per tenersi in compagnia in quel luogo sperduto, solitario e cupo; non nascose di provare un poco di timore -E poi quella frase... “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida”. Ma che significa? Mah, io questa gente non la capirò mai.-
Camminò per quella piattaforma, per scoprire eventuali strade invisibili. Ma ogni punto che toccava fuori dal bordo, il suo piede pareva affondare nel vuoto.
Era bloccata lì.
-E il vecchio si aspetta che superiamo delle prove?- stava perdendo la pazienza; era confusa; per la prima volta, non aveva idea su come agire; aprì le braccia, guardando in alto -COME POSSO SUPERARE DELLE PROVE, SE NON C'È NIENTE QUI?! CHE DOVREI FARE SU QUESTA PIATTAFORMA? RESTARE FERMA IMMOBILE AL CENTRO?!-
Nessuna risposta.
Solo la sua voce che riecheggiava.
Sospirò.
-Va bene. Chi tace acconsente.-
Si voltò, fermandosi di scatto: non era sola.
C'era qualcuno, in mezzo alla piattaforma.
-Harry?-
Il suo secondo. Uno dei suoi più cari amici.
I brillanti occhi azzurri la fissavano con sguardo vuoto.
Si avvicinò a lui, confusa.
-Che fai qui? Non dovresti essere anche tu nel Tuffo nel Cuore?-
Harry non rispose. Non alla sua domanda.
Aprì la bocca, ma per dire: -Di cosa hai più paura?-
Uma inclinò la testa, sempre più confusa.
-Eh? Che razza di domanda è, Harry? Lo sai che non ho paura di nulla! Ma che ti prende...?-
Cercò di allungare una mano verso il suo braccio. Non lo toccò. Lo attraversò.
La ragazza ebbe una lieve sincope e fece un rapido passo all'indietro, toccandosi entrambe le mani come se l'una fosse lo scudo dell'altra.
Continuò a fissare Harry: lui rimaneva fermo, silenzioso.
Non era da Harry passare momenti senza dire qualcosa. E Uma lo conosceva bene.
Provò di nuovo a toccarlo: e di nuovo, la sua mano oltrepassò il suo corpo.
Era come toccare il vuoto.
-Ma cosa...? Tu non sei...?-
Poi comprese: non poteva essere il vero Harry. Che motivo avrebbe avuto per trovarsi nel suo cuore?
Da un certo punto di vista, aveva un posto speciale nel suo cuore.
A suo modo, teneva a lui: le aveva sempre guardato le spalle. Il minimo che Uma poteva fare per ricambiare era mostrarsi riconoscente.
E “Harry” le aveva formulato una domanda.
Non c'erano altre vie su quella piattaforma. La chiave per procedere doveva essere rispondere a quella domanda.
-Perdere di nuovo una persona cara.-
Harry scomparve a quella risposta.
Ciò sorprese Uma. Ma non così tanto.
-In fondo, non era quello vero...-
Osservò la piattaforma, poi intorno a sé, sperando che qualcosa cambiasse: una scala, una porta, un portale, qualunque cosa le facesse proseguire la sua prova.
Niente cambiò.
-Ehi! Io ho risposto alla domanda!- protestò, a gran voce -Come minimo, avrei diritto a continuare questa maledetta prova!-
Aveva fatto un passo in avanti, involontariamente.
Il suo piede affondò, ma di pochi centimetri.
Uma sobbalzò, sorpresa: erano comparse delle increspature sulla superficie della piattaforma.
Curiosa, Uma fece un altro passo in avanti: affondò fino al polpaccio.
Più avanzava, più affondava. Come se fosse sulla riva del mare.
La piattaforma era diventata d'acqua.
Sorrise lievemente, speranzosa.
-Ho capito...-
Fece altri due passi, di corsa, e poi si buttò nella piattaforma, come se fosse effettivamente il mare.
Ma emerse subito, su un'altra piattaforma, uguale alla precedente. Solida.
-Sono tornata indietro?!- esclamò, delusa.
Vuota, come la precedente.
Notò solo una figura, al centro, un ragazzo.
Gil.
Esattamente come Harry, Uma lo aveva salvato in acqua. La gratitudine si trasformò presto in amicizia.
Non eccelleva in intelligenza ed arguzia, ma anche lui le aveva sempre guardato le spalle e le era molto fedele. Dove andava lei, lui la seguiva. Esattamente come un cane.
Non la sorprese trovare anche lui, nella sua prova.
-Anche tu hai una domanda per me?- disse, sorridendo.
-Cos'è più importante per te?- domandò “Gil”, infatti.
Uma abbassò lo sguardo, stringendo il pugno.
-Scoprire chi sono. Perché posso diventare bipede senza aver bisogno di artefatti magici. Scoprire chi è mio padre.-
Una ricerca che la teneva impegnata da quando era piccola, da quando aveva messo piede sulla terraferma per la prima volta ed aveva scoperto di poter diventare bipede.
Sua madre Ursula non le aveva raccontato molto di suo padre; anzi, cercava sempre di evitare quel discorso.
Ad Atlantica si diceva che la principessa Uma fosse stata maledetta dagli antichi dèi del mare, poiché figlia di una relazione fuori dal matrimonio.
Nessuno sapeva chi fosse il padre.
Ed erano più di dieci anni che Uma cercava una risposta.
Sperò che sarebbe stato Yen Sid a rivelarla: ma lui aveva fatto un gesto con la testa, di dissenso, pronunciandole, poi, la frase: “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Doveva trovarla da sola, la risposta.
Anche Gil svanì e la piattaforma era di nuovo diventata d'acqua.
Anche la terza era come le precedenti.
Ad attenderla vi stava il ragazzo dai capelli rossi raffigurato sul vetro acquamarina.
Uma sentì il suo cuore sprofondare. E un forte istinto di piangere.
-Delfino...-
Il suo primo amico.
Il suo primo amore.
La prima persona ad aver viaggiato con lei nel mondo degli umani.
Strappatole dai pirati.
Per questo voleva scappare dall'Isola degli Sperduti. Per questo voleva infrangere la barriera che la separava da Auradon. Per cercare il suo assassino e vendicarlo.
Ora era di fronte a lei. Non era davvero lui, ma la sua immagine. Ma era come avere quello vero, di fronte a sé.
Voleva allungargli una mano, prendere una delle sue e stringerla forte.
Ma gli passò attraverso, come era successo con Harry.
Scosse la testa, rassegnata.
-Lo so che non sei davvero lui.- mormorò; poi alzò la testa, mostrando le lacrime che, effettivamente, le stavano scendendo dagli occhi -Ma sento comunque il bisogno di dirlo. Mi dispiace, Delfino. Non avrei dovuto abbandonarti. Avevo tanta paura. Ero piccola. Ma so che non sono scuse. Ma non ti ho mai dimenticato. Giammai ti dimenticherò. Avrai sempre un posto speciale, nel mio cuore. Grazie a te, ho conosciuto il mondo degli umani, ho vissuto come una di loro, ho realizzato uno dei miei sogni. Avrei tanto voluto passare il resto dei miei giorni con te, come umani. Ma sono stata una vera egoista. È stato il mio egoismo ad ucciderti. Io sapevo che tu volevi restare ad Atlantica, con la tua famiglia. Non meritavi quello che ti è accaduto. Mi dispiace, Delfino, è stata tutta colpa mia. E se tu fossi quello vero, non ti biasimerei, se non vuoi perdonarmi.-
Il ragazzo non disse nulla. Continuava a fissarla, con sguardo vuoto.
Poi aprì la bocca.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Uma non si aspettava una risposta alle sue scuse. Ma voleva ugualmente togliersi un peso dallo stomaco che la stava dilaniando da anni, che la costringeva a piangere nel sonno. Continuava a vedere il corpo mutilato di Delfino, e sangue uscire copioso dal braccio, tagliato a metà.
Si asciugò le lacrime, e fece un respiro profondo.
-Voglio liberarmi di questo orribile ricordo che ho su Delfino. Vivere il resto dei miei giorni serenamente, con i miei amici.-
Non voleva dimenticare Delfino. Solo liberarsi del senso di colpa per la sua morte. Harry, e forse anche Gil, avevano notato il costante sguardo melanconico della loro amica, ogni volta che la guardavano.
Loro non sapevano tutto del suo passato: non aveva mai accennato a Delfino.
Aveva solo raccontato di essere la principessa di Atlantica e di essere riuscita a scappare dal suo regno con la rivoluzione di Tritone contro Ursula, ma non della sua avventura nel mondo della superficie o di Delfino.
Uma sperava di trovare tutte le risposte, su se stessa, sul suo senso di colpa, nel Tuffo nel Cuore.
Delfino svanì, come Harry e Gil prima di lui.
Al suo posto, comparve un oggetto: un tridente. Lo stesso che brandiva sua madre, quando era ancora regina di Atlantica.
Era etereo, trasparente. Non poteva essere toccato.
Sei a metà del tuo viaggio, Uma.” disse una voce, nell'aria “Il viaggio per ottenere le risposte che cerchi su te stessa, e per guarire il tuo cuore.”
Uma si guardò intorno: doveva pur esserci qualcun altro con lei.
-Come faccio? Ancora non sono riuscita a trovare la persona che ha ucciso Delfino! Come posso trovarle qui?-
Sei confusa. Ma non devi temere. Il tuo cuore sarà la tua guida, in questo tuo viaggio. Entrambe le tue domande hanno la stessa risposta.”
-Che vuoi dire?-
Comparve una porta, accanto a lei.
Devi proseguire. Oltre questa porta, otterrai ciò che cerchi.”
Non passaggi dentro la piattaforma, ma una porta.
Uma stava provando angoscia. E anche paura.
Non aveva più provato una sensazione simile dalla sua fuga da Atlantica.
Cosa l'avrebbe attesa oltre quella porta?
Dentro di lei, conosceva la risposta. Ma non sarebbe mai stata pronta ad affrontarla.
Tuttavia, doveva proseguire, se voleva ottenere il Keyblade.
-Basta scappare...- mormorò tra sé e sé -È giunto il momento di affrontare il mio passato, se è questo che mi porterà questa porta.-
Decise, dunque, di aprirla, mordendosi entrambe le labbra.
Filtrò una luce dallo spiraglio che si aprì, non appena Uma scostò una delle ante della porta. La luce divenne sempre più intensa.
La ragazza fu costretta a chiudere gli occhi, per evitare di venirne accecata.
I suoi occhi erano ormai abituati all'Oscurità, escludendo la luce delle piattaforme. Ma la loro luce non era forte come quella della porta.
La luce era durata un attimo. Giusto quel lasso di tempo impiegato da Uma per attraversare la porta.
Quando riaprì gli occhi, il suo cuore batté forte dall'emozione.
-Ma questa è...!-
Atlantica. Casa sua. Il suo mondo.
Era dentro la città. Non nel palazzo.
Non era come ricordava: era oscura, in rovina, sperduta, disabitata.
La Atlantica che ricordava era sempre festosa e gioiosa.
Anche il Palazzo sembrava spento.
Sua madre organizzava balli ogni sera; il Palazzo era sempre luminoso e pieno di musica.
Ma queste feste erano alquanto costose e per organizzarle Ursula non faceva altro che tassare il regno, spingendolo alla povertà.
Erano queste le braci della rivoluzione di Tritone.
E la morte di Delfino era stata la miccia che le avevano innescate.
Ursula era stata esiliata; e Uma era scappata.
“È così, quindi, che ho lasciato Atlantica...?” pensò Uma, presa dal rimorso.
Spesso aveva immaginato Atlantica dopo la rivoluzione di Tritone. Esattamente in quel modo.
I suoi timori si erano rivelati fondati: la rovina di Atlantica. Della sua stessa casa.
Era vicina a piangere, di nuovo. Per aver abbandonato la sua stessa casa.
Ma era ancora viva, si era fatta una nuova vita, dei nuovi amici. Una vita persino migliore da principessa di Atlantica.
Ma la chiave della sua nuova vita era stata la morte di Delfino. Questo fardello aveva sempre continuato a pesarle nel cuore. E lo avrebbe fatto per sempre.
-Uma...-
Una voce maschile. Di un ragazzo.
Flautata. Dolce. Velata.
La ragazza si voltò intorno: era complicato scoprire da dove provenisse quella voce.
-Delfino...?- mormorò -Dove sei...?-
-Uma...-
La voce continuava a chiamarla. Lei camminava in avanti, continuando a girarsi intorno.
Lui era lì.
Poi, non sentì più nulla.
Fu lì che realizzò di essere ormai sulla soglia del palazzo reale. La sua casa.
In rovina, incrinato, oscuro, come il resto del regno.
-Devo entrare qui dentro...?-
Non aveva bei ricordi legati a quell'edificio. Era la sua prigione, non la sua casa.
Una prigione incantata dove sua madre Ursula, sì, le aveva insegnato a cantare, ma non per rendere gli abitanti di Atlantica felici, ma soggiogati.
E di conseguenza, Atlantica rischiava di cadere in povertà. Ma ad Ursula non importava.
Uma non aveva altra scelta: aveva una prova da superare.
Fra tutti i superstiti di Auradon, lei era tra i meno convinti ad ottenere un Keyblade.
Ma Yen Sid le aveva rivelato che con il Tuffo nel Cuore avrebbe ottenuto le risposte che cercava, su se stessa, su suo padre.
Non si sarebbe fermata di fronte a nulla, pur di ottenere quello che stava cercando da anni.
Rientrò nella sala da ballo, il luogo preferito di sua madre, il vero centro del palazzo, dove organizzava le sue feste. Il trono era ancora intatto. E il tridente era ancora incastonato lì accanto.
Mancava il secondo trono, quello di Uma: la colonna era spezzata.
Vi era rimasto solo un trono.
Quella sala sembrava più in rovina di tutta Atlantica stessa.
Ma c'era qualcosa di diverso.
Una bolla enorme, luminosa, su un piedistallo dalla forma di una bocca dai denti aguzzi.
Non ricordava un qualcosa di simile, nella sala da ballo.
Cercò di toccarla: si deformò, come una bolla normale.
Si rese conto che i suoi movimenti erano lenti.
Anche quando camminava avvertiva la stessa sensazione: camminava lenta, come se qualcuno le avesse legato dei pesi dietro la schiena, le caviglie, i polsi.
-Io non capisco... Sono sott'acqua...- notò; si guardò le gambe -Perché non sono un polpo?-
-Perché questa non è la vera Atlantica.-
Una voce femminile. La sua.
Proveniva dall'alto.
C'era una conchiglia gigante sul soffitto, simile al guscio di un paguro.
Vi uscì... lei stessa. Mezza polpo.
Era vestita con il solito abito che indossava quando ancora viveva lì ad Atlantica.
La se stessa del passato. La principessa di Atlantica.
Stava sorridendo malignamente. Lo stesso sguardo di sua madre.
La vera Uma indietreggiò, sorpresa ed inquieta.
-Cosa...? Tu...?! Come puoi...?-
-Sei sorpresa, vero, sorella?- tagliò corto l'altra, ondeggiando intorno a lei -Vedi, voglio consolarti, dicendo che questa è solo l'Atlantica del tuo... come si chiama? Subconscio? Quindi è logico che tu non sia... me. Non so se mi spiego...- indicò i tentacoli.
Era ancora nel Tuffo nel Cuore. Non era la vera Atlantica.
-Allora... sai anche cosa è successo alla vera Atlantica?-
L'altra Uma assunse uno sguardo disgustato a quella domanda.
-Ti importa davvero di Atlantica?- rispose, strafottente; poi le diede le spalle -Se ti può consolare, per quello che potrei sapere, Atlantica è ancora in auge. Il caro Tritone lo ha reso un regno luminoso, bla bla bla. Ti basta?-
Restò in silenzio per un breve periodo.
-Ma non posso saperlo per certo. Io abito nel tuo cuore. Quindi, io sono te. E quello che sai tu, lo so anche io.- si voltò di nuovo verso di lei -Ma non è questo quello che vuoi sapere, vero? Tu sei qui per ben altro. Da quelle, tanto per cominciare.-
Indicò le gambe.
-Dal primo momento in cui hai messo piede in superficie ed hai scoperto di essere come gli umani che non fai altro che domandartelo... “Chi sono io? Perché posso trasformarmi i un'umana? E chi è mio padre? È forse legato a questo? E perché mia madre mi ha mentito?”-
Gli unici dubbi di Uma. Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Harry e Gil.
La prima volta in cui i due ragazzi l'avevano vista trasformarsi da polpo ad umana senza alcuna formula magica lei aveva scherzosamente rivelato che era stata benedetta dagli déi marini del passato. Era questo che si diceva ad Atlantica ed era la stessa cosa che le aveva detto sua madre Ursula.
Ma dentro di lei, sentiva che non era una benedizione divina.
L'altra Uma si era fatta più seria.
-Forse tu sapevi già la risposta. Proprio qui.- le toccò un punto del petto, proprio dove si trovava il cuore; poi, tornò a nuotarle intorno, agitando i tentacoli -Sai, si dice che i genitori trasmettano i propri dilemmi e le proprie angosce ai figli. Le angosce di nostra madre sono iniziate molto prima di quando siamo nate, quando ha perso sua madre, per colpa degli umani.- sua madre, quando era piccola, quando le insegnava a cantare, le parlava infatti di sua madre, di quanto fosse stata per lei un punto di riferimento per il canto, di come la amava; era il suo idolo; ciò che Ursula non era mai stato per Uma -E ogni volta che chiedevamo di nostro padre cambiava sempre discorso. Avrà perso anche lui? O lui le avrà fatto un torto? E veniamo alla tua, di angoscia, sorella, quando hai perso Delfino. Ucciso dagli umani, come nostra nonna. E forse anche come il nostro ipotetico padre, da come raccontava nostra madre. Ma sarà davvero la verità? E se ti dicessi... che tutti questi eventi hanno un anello che li lega?-
Impossibile, pensò la vera Uma. Ma non doveva lasciare nulla al caso.
Non pensava più alle storie su sua nonna da quando sua madre aveva smesso di raccontarle. Come potevano essere collegate al suo fatto di essere metà umana?
Quale poteva essere l'anello che collegava le sue angosce con quelle di sua madre?
L'altra stava allungando una mano verso la bolla luminosa, come se volesse invitare quella vera a dare un'occhiata.
-Allora? Sei pronta a scoprire la verità, sorella?-
Per tutta una vita si era posta domande, su se stessa.
Finalmente aveva l'occasione di scoprire chi fosse davvero.
Si morse entrambe le labbra, con aria determinata, strinse i pugni, e si avvicinò.
Qualcosa si mosse, all'interno della bolla.
Vide una sirenetta di circa sette anni, sorriderle e ridere. La sua mano le stava carezzando i capelli neri.
Assomigliava a lei.
Acuì lo sguardo.
-Aspetta, quella...? Mamma...?!- aveva riconosciuto sua madre, nella piccola sirena -Ma come è possibile...?-
Aveva distolto lo sguardo, osservando il suo riflesso: era una sirena molto bella, dal sorriso dolce, dai lunghi capelli neri intrecciati con perle.
-Allora... quella è la nonna?!-
Sentì il suo canto: era davvero melodioso, come le raccontava sempre sua madre.
Comprese la venerazione che provava per la propria madre. Quello che Uma non aveva mai provato per la sua.
Ursula sembrava davvero felice. E non il sorriso malefico che Uma le scorgeva sempre in volto, ma un sorriso che esprimeva felicità, spensieratezza, comune nei bambini.
Ma, improvvisamente, una nave pirata si stava avvicinando agli scogli su cui si erano posate.
Sua madre, insieme ad un uomo, probabilmente il padre, nonno di Uma, era saltata in acqua.
Ma sua nonna no: la sua coda si era impigliata tra gli scogli.
Non era riuscita a scappare in tempo: la nave l'aveva travolta.
L'ultima cosa che aveva visto prima di morire era un ragazzo circa coetaneo di Uma, vestito con abiti poveri, sporgersi preoccupato dal fianco, ed urlare non appena aveva scorto la sirena.
I suoi occhi erano cerulei, ed i capelli neri come la notte. Sembrava la copia di Harry.
Poi, il buio.
Uma rimase sconvolta dalla visione di quel ricordo. Aveva lasciato un segno indelebile nella madre, anche nel nonno, se da quel momento questi aveva nutrito odio nei confronti degli umani.
Ma quel ragazzo... Uma sentì una stretta al cuore. Perché stava provando quella sensazione?
La bolla si mosse di nuovo.
Era apparso un giovane. Molto bello. Vestito come un pirata, ma dallo sguardo sincero.
I suoi occhi erano cerulei ed i suoi capelli neri come la notte.
Si trovava in una taverna, in mezzo ad altri uomini. Le stava parlando di fronte ad un boccale di birra.
Uma vide di nuovo il suo riflesso nel liquido: una ragazza perfettamente identica a lei.
Quella ragazza era sua madre, alla sua età.
Bipede, grazie ad un bracciale magico che portava al polso. Lo stesso che ella stessa aveva fatto usare su Delfino, per portarlo nel mondo degli umani.
Da come si parlavano, da come lui, negli attimi seguenti, le teneva la mano, Uma ebbe un'intuizione.
Il suo cuore cominciò a battere forte.
Vide, inoltre, il secondo momento che aveva sconvolto la madre: il giovane, accanto ad un tritone dall'aria imponente, aveva in mano una conchiglia, da cui era uscito un raggio verde, che si era posato sulla gola di Ursula.
Era quello il motivo per cui non poteva più cantare! Il canto le era stato tolto! Per quello organizzava sempre feste. Per colmare il vuoto lasciato dalla sua privazione del canto.
Ma non era abbastanza, nemmeno aver insegnato alla figlia come cantare.
E poi, aveva scoperto come sua madre si era trasformata in polpo: aveva preso il tridente del padre e lo aveva rivolto verso se stessa: la sua coda si era divisa in otto tentacoli neri.
Non provava odio solo per il padre. Ma anche per il giovane che l'aveva tradita.
Di nuovo buio.
Poi, una terza visione.
Vide Delfino, il suo primo amore. Stava vivendo un suo ricordo. Il più doloroso.
Quando erano stati catturati e circondati dai pirati.
Ricordava ancora il capitano, il suo volto orrendo, lo sguardo freddo e crudele, la sua mise elegante.
Gli occhi cerulei che fissavano i due abitanti del mare con bramosia ed i lunghi capelli che parevano tante candele nere. Non lo avrebbe mai dimenticato.
Uma si fece sospettosa. Una sensazione familiare. Quegli occhi... quello sguardo...
Cercò di squadrarlo bene, prima che Delfino la spingesse in mare.
E di nuovo il buio.
Era il tempo sufficiente per la ragazza di avere un'epifania.
Tre ricordi.
Di una nonna, di una madre e di una figlia, le cui vite erano state rovinate dalla stessa persona: un umano dagli occhi cerulei ed i capelli neri come la notte.
Uma era pallida in volto. Scosse la testa, mentre il cuore continuava a batterle forte.
-Non... può... essere...- mormorò.
L'altra Uma ridacchiò, gioendo delle sensazioni della vera.
-Ci sei arrivata, vero?- sibilò, mettendosi di nuovo accanto a lei -Una sola persona era presente in tutti questi momenti. Un umano, sorella! Proprio così. Nostro padre... era un umano!-
La bolla mostrò tre persone: il ragazzo che aveva urlato alla morte di sua nonna, il pirata che aveva privato sua madre della voce, ed il pirata che aveva dato l'ordine di uccidere lei e Delfino.
Tutti e tre erano la medesima persona.
-QUELL'umano, precisamente...-
Ecco perché poteva divenire bipede, appena toccava terra.
Non era stata benedetta o maledetta dagli dèi: era una mezzosangue! Metà umana e metà polpo!
Sua madre aveva avuto una relazione con un umano, non con un tritone, come affermava sempre.
Era frutto di un amore proibito.
Le sue gambe stavano cedendo. Combatté la tentazione di cadere.
-Mio padre... è... umano...?-
Non fu solo quella rivelazione a sconvolgerla: Harry parlava spesso di suo padre, anche se non con orgoglio, quanto il contrario. La sua descrizione corrispondeva perfettamente con il pirata che aveva ucciso Delfino.
Si mise la mano sul cuore.
-Questo vuol dire che Harry... è mio fratello?!-
Uno shock. Ma benigno.
Le scappò un sorriso ed una risata, seppur confusa.
Harry aveva gli occhi cerulei, proprio come quell'umano, suo padre.
Ecco perché avvertiva sempre un disagio inspiegabile, ogni volta che lo guardava negli occhi.
-Certo che coincidenza, cavoli...- commentò, senza smettere di sorridere; su una guancia le stava persino cadendo una lacrima -Credevo ormai di essere da sola, di non avere più una famiglia. Invece... ho un fratello!-
Fratello o no, Harry era sempre stato come tale, per Uma. Lui forse provava qualcosa in più che semplice rispetto ed amicizia, ma lei non era mai stata interessata. Forse perché sapeva la verità, nel profondo.
Sentì il suo cuore alleggerirsi. Aveva ottenuto la risposta che cercava da anni. Su chi fosse suo padre. Sul motivo per cui poteva divenire bipede sulla terraferma.
E non solo: aveva persino scoperto di avere una famiglia, di sangue.
Harry, il suo fratellastro.
La voce dell'altra Uma la distolse dal momento di sollievo che stava provando dopo anni.
-Ehi, non stai dimenticando nulla? Davvero credi che sia finita qui?-
Uma aprì gli occhi di soprassalto; dei due pesi nel suo cuore, solo di uno si era liberata. E di quello più leggero.
-La tua vera prova sta iniziando adesso, sorella...- riprese l'altra Uma, riprendendo a nuotare intorno alla vera -Il tuo cuore non è ancora libero. Hai scoperto la verità su te stessa. Sarai altrettanto forte da affrontare il tuo rimpianto?-
La vera sembrava confusa.
-Cosa intendi?-
L'altra non rispose: indicò l'entrata del palazzo.
Una terza persona si era unita a loro.
Avanzava con la testa chinata. I capelli seguivano la corrente del mare. Era un ragazzo, un tritone, dal fisico robusto ed atletico.
Più si avvicinava, più era semplice notare la sua fisionomia.
-U...ma...-
La sua voce era familiare. Molto familiare.
Sentire il proprio nome fece rabbrividire la ragazza.
Finalmente fu abbastanza vicino da squadrarlo.
Quel tritone portava i segni di una mutilazione. E gli mancava una mano.
Uma impallidì, come se di fronte a sé avesse un fantasma. Forse, effettivamente, lo era.
-Delfino!-
Il suo primo amore.
Il volto era pieno di graffi ancora freschi. Il torace e la coda erano pieni di fori di stiletti. E dal polso usciva sangue.
Esattamente come l'ultima volta che lo aveva visto.
Uma era paralizzata. Dalla paura, dalla sorpresa.
-Delfino! Come...- la sua voce tremava -Come puoi essere qui?!- lo osservò bene, notando le ferite, la mano mancante, con aria sgomenta -Come...?!-
Il tritone dai capelli rossi le stava rivolgendo uno sguardo carico di odio. Non sembrava contento di vederla.
-Sei stata tu! Sei stata tu a farmi questo!-
Il senso di colpa tornò.
Anche il ricordo: entrambi circondati dai pirati; poi, la fuga di Uma in mare. Al suo ritorno, nello stesso punto in cui era caduta, il cadavere di Delfino, ridotto proprio come si presentava in quel momento. Ma privo di conoscenza. Morto.
Per colpa sua. Era scappata. Lo aveva abbandonato. Lo aveva lasciato solo contro i pirati.
Si voltò verso l'altra: restava ferma, impassibile.
-Che significa questo?!- esclamò, infatti.
-Se vuoi superare il Tuffo nel Cuore, devi affrontare le tue ombre, Uma.- spiegò l'altra -Allora sì che sarai degna di brandire un Keyblade.-
Yen Sid non aveva rivelato niente delle prove che lei ed il resto dei profughi di Auradon avrebbero dovuto superare. Dovevano dimostrare di sapersela cavare in ogni evenienza.
Uma era tra i meno interessati ad ottenere un Keyblade, ma lo stregone era riuscito a convincerla. Aveva detto che avrebbe ottenuto le risposte che cercava da tempo. E le aveva ottenute.
Non si aspettava, però, dover affrontare il suo più grande rimpianto.
Uma restava lì, paralizzata, di fronte al primo ragazzo che aveva amato. Ma che poi aveva abbandonato per salvarsi.
Il cuore le batteva forte.
Non era pronta, non si sentiva pronta ad affrontare il suo rimpianto.
-Non posso!- per la prima volta, Uma era in difficoltà; non sapeva cosa fare; indietreggiò, verso l'altra -Non posso farlo! Non ci riesco!-
L'altra restava ferma, impassibile.
-Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.-
Con questa frase, ella svanì, divenendo una massa di bolle.
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Erano le stesse parole di Yen Sid.
Uma ancora ignorava il significato.
Ed ora era lì. Sola con il fantasma di Delfino.
Lui avanzava rabbioso verso di lei. La coda era piena di ferite, ma avanzava velocemente, come se quelle ferite non fossero presenti.
-Non meriti di divenire una custode del Keyblade!- le esclamò -Nemmeno di essere ancora viva! Sei un'egoista! Non ti importa di nessuno a parte di te stessa!-
Parole velenose. Soprattutto perché provenienti da una persona a cui Uma teneva davvero.
-No... non è vero...- mormorò, continuando ad indietreggiare -Ti ho pensato ogni notte, Delfino. Piangevo nel sonno, perché non ho fatto altro che sognare il giorno in cui sei morto! Era per questo che volevo abbandonare l'Isola degli Sperduti! Per trovare l'uomo che ti ha ucciso e vendicarti! Non mi importa se è mio padre! Per quello che mi riguarda, lui non esiste!-
-Bugiarda!- ribatté lui.
Uma sentì la sua mano stringerle la gola. Fu sollevata da terra. Non poteva fuggire, ormai. Agitò le gambe, nel tentativo di salvarsi.
Lo guardò negli occhi: persino il bianco degli occhi presentava macchie di sangue
-Se così fosse stato, saresti tornata, per salvarmi! Ma non sei più tornata! Sono stato solo uno strumento per te, Uma? Una scusa per visitare il mondo degli umani?!-
All'inizio sì.
Questo Uma non si vergogno ad ammetterlo a se stessa.
Ma poi aveva iniziato a provare dei sentimenti forti per quel giovane tritone. E lui ricambiava.
Non voleva abbandonarlo. Mai avrebbe pensato di abbandonarlo.
Fece un ultimo passo indietro: la sua schiena toccò la base del trono del sovrano di Atlantica.
Guardò in alto: il tridente era lì accanto. Luminoso, come lo ricordava. Come se fosse stato lucidato da poco.
Sentiva il suo cuore battere, ma non come prima: sembrava stesse per uscire dal suo petto, per toccare quel tridente.
Qualcosa la attirava verso il simbolo della sovranità di Atlantica.
Era il suo cuore.
In quel momento, le tornarono in mente le parole di Yen Sid e dell'altra Uma: “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
“Il tridente...”
Era una decisione folle, ma doveva tentare.
Si voltò per un attimo, guardando Delfino negli occhi. La presa sulla sua gola era sempre più forte.
Se non avesse agito, sarebbe morta.
Strinse bene le mani sul suo braccio e con uno slancio riuscì a colpirlo in faccia con un calcio.
Lui arretrò, ringhiando e toccandosi il volto.
Uma era libera.
Dopo aver tossito un poco, prese, lesta, il tridente un tempo appartenuto a sua madre.
Puntò le punte contro il tritone.
-NON POTEVO FARE NIENTE!- ammise, determinata.
La verità era finalmente sorta.
Parole che si stava tenendo dentro da anni; parole bloccate dal suo senso di colpa.
-NON ERO IN GRADO DI SALVARTI! ERO ANCORA PICCOLA E NON SAPEVO DI AVERE DEI POTERI! NON TI HO ABBANDONATO! ERO TORNATA AD ATLANTICA A CERCARE AIUTO! E QUANDO SONO TORNATA DA TE CON LE GUARDIE ERA TROPPO TARDI! TE LO GIURO! È LA VERITÀ!-
Non poteva fare niente contro i pirati.
Non poteva salvare Delfino.
Lo aveva ammesso.
-È per questo che ho accettato di affrontare il Tuffo nel Cuore! Per non perdere altre persone care! Per proteggerle! Per non ripetere la stessa esperienza che ho vissuto quando ho perso te! Non voglio perdere i miei amici come ho perso te! Questo è quello che mi ha fatto andare avanti negli anni!-
Delfino si era fermato, perplesso, di fronte al tridente. La sua ira sembrava essere svanita.
Il tridente, intanto, si era illuminato. Divenne una sfera luminosa. E poi, finalmente, ottenne una forma.
Un Keyblade.
Il suo Keyblade.
La lama era un tridente. L'asta e l'impugnatura erano parte di un corallo. L'elsa era composta da due tentacoli.
Uma rimase affascinata dal suo Keyblade. Le scappò persino un sorriso.
Tornò triste, non appena incrociò di nuovo lo sguardo con Delfino.
Si era calmato.
Aveva un'espressione serena sul volto: era come se egli stesso fosse stato l'incarnazione dei sensi di colpa di Uma.
Ma ora lei era libera. I suoi sensi di colpa erano svaniti. Per questo il suo sguardo colmo di odio era svanito.
Uma non aveva alcuna colpa della sua morte: lui si era sacrificato di sua volontà, per lei.
Anche se avesse voluto, non sarebbe stata in grado di salvarlo. Sarebbe morta anche lei, se ci avesse provato.
-So che tu non sei davvero Delfino...- disse, con un filo di voce, avvicinandosi a lui; gli prese la mano -Lui è morto da tanto tempo, ormai. Non voglio dimenticarmi di lui. Ma non posso tenerti qui, come un prigioniero. Devo guardare avanti e dimenticare. È l'unico modo per non ripetere le esperienze del passato.-
Delfino annuì, senza obiettare.
-Sì. Dovresti.- disse, sorridendo -Ma, aspetta, Uma.-
Mise la mano dietro la nuca della ragazza, tirandola a sé.
Si scambiarono un bacio. Un ultimo bacio. Uma non oppose resistenza.
Le scese persino una lacrima sulla guancia.
-Forse era questo il tuo più grande rimpianto.- fece notare Delfino, una volta staccati -Non aver avuto l'occasione di baciare il vero Delfino un'ultima volta.-
Lei, con le lacrime agli occhi, annuì.
-Sì, lo credo anche io.-
Non era quello vero, ma la sensazione che aveva provato era la medesima che provava con quello vero.
-Ora, lasciami andare, Uma.-
Lei obbedì, continuando a piangere: per la gioia, per essersi finalmente tolta il macigno dal suo cuore, perché non era pronta a dire addio a Delfino.
Ma doveva, per il suo bene. Per il suo futuro.
Puntò il Keyblade verso il tritone: un raggio di luce colpì il suo petto.
Delfino svanì, divenendo schiuma di mare, come si raccontava divenissero gli abitanti del popolo del mare, alla loro morte.
Uma non doveva dimenticarlo definitivamente. Non doveva più addossarsi la colpa per la sua morte.
Ma avrebbe comunque avuto per sempre un posto speciale nel suo cuore.
Tutto il palazzo di Atlantica cominciò a svanire, tra tante bollicine.
Uma era tornata di nuovo sola. Nel buio.
Stava fluttuando. Ma aveva ancora le gambe.
Guardò in alto: una luce. Si muoveva, come quando guardava il sole da sott'acqua.
Sapeva che quella era l'uscita. Nuotò verso l'alto.
Aveva superato la sua prova.
Aveva scoperto la verità su se stessa. E si era liberata del suo fardello.
Avrebbe vissuto serenamente il resto della sua vita.


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"I'm gettin' tired of the disrespect
We won't stop 'til we rule the world
It's our time, we up next!
Our sail's about to be set
They ain't seen nothing yet
Tell 'em who's in charge so they don't forget!"

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Capitolo 18
*** Harry's Story ***


Note dell'autrice: ci ho messo elementi dei due cartoni di "Peter Pan", del libro originale, e anche di "Once Upon A Time", oltre che al consueto "Descendants". E un richiamo ad una storia precedente.
 
Harry's Story

James ed il suo fratello maggiore Liam erano ancora bambini, quando il loro stesso padre, un ubriacone con il vizio del gioco, li aveva venduti ad un pirata.
James non conobbe altro che il mare, da allora.
Per anni, fino al conseguimento del diciottesimo anno di età, lui ed il fratello Liam lavorarono come nostromi.
Avevano assistito a saccheggi, rapine, persino ammutinamenti. Una volta, la loro nave aveva persino travolto ed ucciso una sirena. Una scena che non avrebbero mai dimenticato.
Temevano entrambi di vivere quella vita fino alla fine dei loro giorni.
I loro timori si conclusero, quando si presentò l'opportunità di entrare nella marina reale. Con i loro risparmi e l'incentivo, erano abbastanza monete per essere liberi.
Al pirata che li aveva comprati non importava molto dei due giovani nostromi: potevano lasciare la sua nave a patto di essere pagato.
E un pirata non si volta mai indietro di fronte al denaro.
L'opportunità colta al volo dai due fratelli si rivelò fruttuosa: in soli due anni, Liam divenne capitano, e James il suo secondo.
Non si erano mai separati. Erano diventati ormai l'uno la famiglia dell'altro.
Più volte si erano scontrati con i pirati, imprigionandone non pochi.
Tra di essi, persino il capitano per cui avevano lavorato per anni.
Erano migliorati nel carattere, nell'intelletto, persino nella scherma. Tutto parte dell'addestramento.
L'ultima spedizione organizzata dal re in persona consisteva nel ritrovare una pianta dalle capacità curative.
Liam era entusiasta: finalmente aveva l'occasione di fare qualcosa di utile per il regno, oltre a salvarlo dai pirati.
Ma James nutriva non pochi sospetti su quella spedizione.
Infatti, la pianta che dovevano cercare non aveva alcuna capacità curativa: era un veleno.
Quando lo avevano scoperto era troppo tardi: Liam, nel raccoglierla, si era punto con una spina.
Per i primi minuti, non era accaduto niente.
Ma Liam diventava sempre più pallido, febbricitante, e con le gambe tremanti, ad ogni minuto che passava.
Perse i sensi, non appena era entrato nella sua cabina.
Neppure il medico di bordo poté fare qualcosa: Liam morì, tra le braccia del fratello.
Qualcosa, dentro James, si era spezzato, ed oscurato. Non ricordava niente della madre, il padre lo aveva venduto e suo fratello era morto.
Era rimasto solo.
Il corpo di Liam venne gettato in mare, secondo le usanze della marina.
Ma il suo sacrificio non sarebbe stato vano: Liam era morto per l'egoismo e le ambizioni di un re che aveva mentito ai suoi stessi uomini.
Per questo, James e la sua flotta decisero di divenire pirati, per vendetta per il destino del loro capitano.
La loro nave, la Jolly Roger, divenne la più temuta dei sette mari.
Il dolore della perdita del fratello bruciò per molto tempo nel petto di James.
Nella sua stiva, infatti, era ancora intatto il ritratto di lui e Liam, ancora nelle vesti di capitano e secondo.
Non lo avrebbe mai tolto. Ma lo teneva sempre nascosto con un paravento.
Per un attimo, quel dolore era svanito, quando conobbe una giovane sirena di nome Ursula, dal canto dolce e soave, che aveva alleggerito il suo fardello.
Le aveva promesso che avrebbe visto il mondo, se fosse rimasta sulla sua nave, al suo fianco.
Se ne era innamorato, ed era ricambiato.
Ma il padre di lei, re Poseidone, aveva promesso oro a volontà, se avesse rubato la voce della figlia.
Aveva porto una conchiglia al pirata.
James non ci aveva pensato due volte a compiere quella richiesta: amava Ursula, ma scoprì di amare più il denaro, di lei.
La conchiglia aveva brillato e una luce verde si era posata sulla gola di Ursula, come per rubarle qualcosa.
Una scelta cui si pentì per sempre.
Non rivide mai più Ursula, ma non scordò mai l'espressione piena di rabbia che aveva sul volto, prima di buttarsi in mare.
Gli anni passarono. Lui invecchiava. La sua leggendaria bellezza stava per svanire. Ma la sua bramosia di denaro e ricchezze non svaniva mai.
Talvolta, se non razziavano, si fermavano nelle taverne, per fare rifornimento di viveri. Talvolta si dirigevano nei bordelli per avere delle compagnie femminili per una notte.
James compreso.
Ebbe, infatti, innumerevoli amanti.
Solo una di esse diede alla luce un figlio, morendo nell'intento; occhi azzurri e capelli neri, come il padre.
Gli venne dato il nome Harry.
Non venne abbandonato o ucciso: la mezzana pensò che, raggiunta la giusta età, sarebbe stato un ottimo manovale, senza bisogno di pagarlo.
Il piccolo Harry, infatti, appena compì cinque anni, divenne servo del bordello in cui lavorava la madre.
Lavava i pavimenti e gli abiti delle prostitute, aiutava in cucina e puliva le latrine.
Dormiva sempre nell'attico, ma le urla ed i mugoli delle prostitute e dei loro clienti gli toglievano costantemente il sonno.
A volte veniva coccolato dalle donne, ma veniva spesso punito dalla mezzana, quando non svolgeva correttamente i suoi doveri.
A otto anni, una ciurma di pirati era irrotta nel bordello, con una sacca piena d'oro per la mezzana.
Harry stava lavando il pavimento dell'ingresso quando erano entrati.
Li osservò uno ad uno: uno più brutto e tozzo dell'altro. E puzzavano.
Ma l'unico che attirò davvero la sua attenzione era il capitano: l'unico della ciurma con una veste elegante.
Ma era il più brutto di tutti: pelle bianca, quasi cadaverico, mascella sporgente, naso grosso ed aquilino, e lunghi capelli neri che sembravano tante candele nere messe in fila.
Questi rivolse il suo sguardo al bambino, fissandolo a lungo.
Lì, Harry notò il colore degli occhi: azzurri, come i suoi.
Quando lo vide parlare con la mezzana, a voce bassa, si insospettì.
-Chi è la madre?- lo sentì udire.
Ad udire il nome, l'uomo si paralizzò.
Ma diede comunque altri soldi alla donna: aveva comprato Harry.
Suo figlio.
Quel pirata si chiamava James.
La sua nave era la Jolly Roger. Ancora la più temuta dei sette mari.
Nel vederla, Harry quasi si paralizzò dalla sorpresa. Non aveva mai visto una nave.
Aveva sempre vissuto nel bordello. Usciva nel cortile solo per svuotare i vasi da notte delle prostitute, ma il suo mondo finiva sempre lì.
James, salendo la rampa che conduceva alla nave, non smetteva un attimo di voltarsi ed osservare il figlio, così uguale a lui. Ma non sorridendo, ma con disgusto ed invidia.
Harry, invece, sorrideva. Aveva ritrovato la sua famiglia, aveva scoperto di avere un padre. E quel padre era un pirata. Fantasticava spesso sulle avventure che avrebbe vissuto su quella nave.
Tuttavia, i suoi compiti non erano diversi da quelli che faceva nel bordello: puliva, spazzava. Era diventato aiuto-nostromo.
James voleva vederlo il meno possibile, giusto per servirgli i pasti: gli ricordava troppo se stesso da giovane.
E tornavano i rimorsi, i rimpianti, la realizzazione che non avrebbe mai più avuto la bellezza di un tempo.
Era vicino ai quaranta, ormai. La sua bellezza era svanita. L'unico segno di essa erano i suoi occhi azzurri.
Harry avrebbe voluto trascorrere il tempo con il padre, ma il nostromo, Spugna, lo esortava gentilmente a non disturbarlo.
Per fortuna, Harry non rimase da solo: c'erano altri due bambini a bordo, che lavoravano sempre nelle cucine, come lavapiatti.
I figli di quel gentile nostromo, i gemelli Squeaky e Squirmy. La loro mamma era una cameriera, purtroppo anche lei morta di parto.
Avevano solo due anni in meno di Harry, ma divennero subito amici.
Il loro gioco preferito era nascondino. A volte, alcuni membri della ciurma si univano a loro.
La nave era molto grande e c'erano tanti posti in cui nascondersi.
Un giorno era toccato ad uno dei gemelli contare. Harry e l'altro gemello dovevano trovare dei nascondigli in fretta. Quel giorno erano solo loro tre a giocare.
Non erano rimasti molti posti in cui nascondersi. Il posto preferito di tutti e tre era il deposito dei liquori.
Nascondersi lì, ormai, era scontato.
Harry doveva trovare un posto in cui nessuno avrebbe mai pensato di trovarlo.
C'era, in effetti, un posto in cui poteva nascondersi: la cabina del capitano.
Gli era proibito entrare, ma Harry sapeva essere disubbidiente. Ed era anche molto curioso.
Persino quando era al bordello, la sera scendeva le scale e guardava attraverso i buchi delle serrature, per scoprire perché le persone emettevano quei versi.
La cabina del capitano era molto in ordine, arredata come una reggia. Un tappeto persiano era steso sul pavimento, c'erano vari forzieri pieni di monete e gioielli vari, una grande scrivania con una mappa del mondo ed una finestra con vista sul mare.
Il letto era grande ed a baldacchino, non come i letti delle cabine della ciurma.
Aveva sempre desiderato entrare dentro quella cabina.
Spugna, Starkey ed ogni altro membro della ciurma gli avevano proibito di entrare, per rispetto nei confronti del capitano.
Ma la curiosità aveva atterrato il timore delle punizioni. La mezzana lo puniva sempre, quando lo beccava a spiare nelle serrature. Era abituato alle bastonate.
Affondò le mani nei vari forzieri, provando una sensazione piacevole nel toccare tutte quelle monete.
Prendeva un anello, una collana, li indossava e poi si specchiava, pavoneggiandosi e facendo pose da vanesio.
Poi toccò alla scrivania.
Sulla mappa vi erano tante croci a penna, forse i luoghi calpestati dalla ciurma, o dove era stato avvistato un tesoro.
C'era anche un bocchino con due sigari.
Harry si inebriò con il profumo di tabacco.
Decise di rovistare anche tra i cassetti.
Trovò una pistola. La vedeva spesso alle cinture dei visitatori del bordello; e anche su quelle dei pirati.
Poi una fiaschetta ed una bottiglietta di rum. Ne aprì una e l'annusò: l'odore era disgustoso. Per questo non bevve e chiuse il cassetto. L'altra era una fiaschetta di veleno, che James usava per disfarsi dei suoi nemici.
Lo stesso veleno che anni prima gli aveva portato via il fratello Liam.
Nell'ultimo cassetto, invece, trovò una conchiglia. Aveva la forma di chiocciola, color perla, ed un piccolo rubino incastonato sopra.
Non era la prima volta che Harry trovava una conchiglia; amava portarle all'orecchio e sentire il suono del mare.
Fece la medesima cosa con quella.
Non udì il mare, ma un canto. Il canto più bello che avesse mai udito.
Sentì dei passi: stava arrivando qualcuno.
Harry doveva trovare un buon nascondiglio: non nell'armadio, non sotto il letto.
Ma dietro il paravento che si trovava di fronte alla scrivania.
Nei giorni passati, infatti, quando Harry puliva il pavimento del corridoio, gli capitava spesso di passare di fronte alla porta della cabina del padre.
Guardava attraverso la serratura: lo vedeva sempre con sguardo melanconico di fronte a quel paravento.
Era curioso di sapere cosa nascondesse quel paravento.
Un ritratto di due uomini in divisa, a mezzo busto.
Lo sguardo di Harry era fisso sul più basso: molto bello, dagli occhi azzurri, come i suoi. E ciocche di capelli neri che si intravedevano dal cappello da ufficiale.
Gli somigliava molto.
“Chi è l'altro...?” pensò, inclinando la testa.
Era James ad essere entrato nella cabina.
Non ci mise molto a scovare il figlio dietro il paravento.
Andò su tutte le furie.
-Ah, piccolo demonio che non sei altro!- esclamò, prendendolo per un polso e tirandolo via di lì -Come ti permetti di frugare tra le mie cose?!-
Non aveva visto la conchiglia: Harry l'aveva nascosta nei suoi pantaloni appena in tempo.
Fu messo in punizione, per essere entrato nella cabina del capitano senza il suo permesso: dovette pulire il ponte tutta la notte e fu lasciato senza cena.
Per fortuna, Squeaky e Squirmy avevano messo da parte una porzione del loro pasto per Harry, quindi non rischiò la fame.
Qualche giorno più tardi, James ed il resto della sua ciurma si erano fermati in un paese posto proprio di fronte al mare.
Mosso di nuovo dalla curiosità, Harry aveva seguito suo padre, restando ben nascosto: avevano portato un ragazzo dai capelli rossi a bordo, di poco più grande di lui.
Lo stavano portando in uno stanzino dove suo padre ed alcuni della ciurma si dirigevano quando facevano prigionieri.
Harry, giocando a nascondino con i gemelli, aveva scoperto un passaggio segreto che portava proprio sotto quella stanza.
Udì delle grida strazianti, urla di dolore, e qualcosa che sembravano più colpi di coda che di gambe. Tra le travi stava persino gocciolando del sangue, che caddero sul suo volto e anche sui suoi vestiti.
Udì anche qualcosa riguardo il popolo del mare, ma di quest'ultimo fatto non ne era sicuro.
Non vedeva bene cosa stava accadendo, ma quel giorno, Harry vide per la prima volta la crudeltà del padre, il piacere che provava nel vedere il sangue altrui.
Era tornato di corsa nella sua stanza. I gemelli stavano già dormendo.
Fece il possibile per togliere le macchie di sangue dal volto e dai vestiti. Non ebbe successo con i vestiti. Rimasero le macchie.
Suo padre James entrò qualche istante più tardi.
Harry si mise sull'attenti, abbassando, però, lo sguardo. Gli occhi azzurri del padre erano fissi sul figlio.
-Guardami.- gli ordinò.
Gli occhi azzurri si incrociarono.
Fece una lieve smorfia e gettò qualcosa ai suoi piedi.
Sembrava un bracciale.
-Visto che ti piacciono i gioielli, te lo puoi tenere. Io non me ne faccio niente.-
Detto ciò, era uscito dalla cabina, quasi sbattendo la porta.
Il bracciale era ancora insanguinato. Apparteneva al ragazzo che avevano portato dentro la nave.
Ma ad Harry non importava. Almeno, finalmente, poteva sfoggiare un oggetto per dire: “Questo me lo ha regalato mio padre.”
Ma James odiava il figlio. Odiava vederlo in faccia.
Lui sarebbe cresciuto, sarebbe diventato più bello; mentre lui continuava ad invecchiare e divenire sempre più brutto. La ciurma avrebbe preferito il figlio a lui.
Non doveva permetterlo.
Ma se lo avesse ucciso, la ciurma si sarebbe ammutinata. I suoi uomini rispettavano Harry.
Anche farlo sembrare un incidente era impensabile.
Gli ritornò in mente una leggenda che lui e Liam avevano sentito quando erano bambini: un'isola dove nessuno invecchia o muore mai.
Veniva chiamata l'Isola che non c'è.
Dopo due anni, finalmente trovò le coordinate per raggiungerla.
Lo aveva annunciato ai suoi uomini, della nuova meta.
Un tempo erano marinai della flotta reale, ma erano sempre popolani: non compresero le parole del loro capitano. Ma sembrava entusiasta, quindi anche loro dovevano mostrarsi tali.
Harry, Squeaky e Squirmy assistettero da sotto coperta all'annuncio.
Un nuovo luogo da visitare, pensarono, sorridendo.
Era un'isola come tante altre. Nessuno poteva sapere che la Jolly Roger vi avrebbe attraccato a lungo.
James mandò degli uomini in avanscoperta, per verificare eventuali abitanti o bestie feroci nei paraggi. E se trovavano tesori, dovevano assolutamente portarglieli.
E non solo: mandò i tre bambini a raccogliere provviste e legna.
Per un po' non avrebbe visto il volto del figlio. Harry sarebbe rimasto bambino per sempre e lui non sarebbe mai invecchiato.
Gli uomini tornarono verso il tramonto, fornendo al capitano una dettagliata descrizione dell'isola.
I bambini... dopo un giorno non erano ancora tornati.
La ciurma avrebbe tanto voluto addentrarsi nell'isola per cercarli, ma James lo proibì.
L'occasione che aveva atteso da tempo: si era liberato del figlio.
Non avrebbe mai più visto il suo volto. Non si sarebbe più tormentato dai rimorsi e rimpianti.
Ma Harry, Squeaky e Squirmy non erano scomparsi.
Erano talmente presi dalla loro missione che non si erano accorti di essersi persi.
Harry aveva un discreto carico di rami sulle braccia, mentre i gemelli avevano raccolto delle bacche.
Era quasi il tramonto, ma loro non avevano idea di come tornare alla nave.
Dovevano restare insieme, per non perdersi.
Erano da soli in un luogo sconosciuto.
Si misero a piangere, impauriti.
Tutto ciò che erano riusciti a fare era solo accendere un fuoco con i soli mezzi che avevano a disposizione e mangiare ciò che avevano raccolto.
Almeno non avrebbero avuto freddo e non avrebbero sofferto la fame.
Non potevano muoversi e non c'era nessuno nei paraggi.
Decisero, dunque, di dormire.
Harry, per addormentarsi, usava la conchiglia che aveva rubato dal padre: quella voce meravigliosa conciliava il suo sonno.
Era strano che non facesse lo stesso effetto sul padre.
Una mattina, era entrato nella sua cabina, per svegliarlo. Si stava agitando nel sonno.
E mormorava qualcosa. Versi incomprensibili. Harry era riuscito solo a comprendere due nomi:
-Liam... Ursula...-
Si illuse di poter udire il nome della madre. Ma non lo diceva.
“Forse Ursula è il nome di chi canta.” pensava, oltre a “Ma chi è Liam? L'uomo del ritratto?”
Sguardo fiero. Come quello del ragazzo accanto a lui, nel ritratto.
Ma quella sera, nonostante il suono della conchiglia, Harry non riusciva a prendere sonno: troppe domande, troppi pensieri.
Ed un rumore sospetto.
-Squeaky, Squirmy, svegliatevi!- incitò, scuotendo i due gemelli.
Allarmati dal tono di Harry, i due gemellini si strinsero l'un l'altro, per darsi forza.
Harry prese un rametto infuocato, a mo' di spada.
I rumori erano sempre più vicini. Sembrava una campanella.
Non era una bestia, ciò che i tre bambini videro. Ma un altro bambino. Di poco più grande di Harry.
Portava una tuta verde ed un cappellino con una piuma rossa.
I suoi capelli erano rossi. Ricordava il ragazzo che Harry aveva scorto settimane prima, l'ultimo prigioniero del padre.
Ma questo bambino non camminava: volava!
-Ehi, Trilli, guarda! Nuovi arrivati!- esultò, volando intorno ad Harry ed i gemelli -Ciao, io mi chiamo Peter Pan. E voi siete? Che c'è? Non sapete parlare? Siete rimasti congelati?-
Nessuno dei tre sapeva cosa dire: restavano fermi, a fissare terrorizzati quel bambino volante.
-Tu... tu voli?!- esclamò Harry, quasi tremando.
Il bambino, Peter Pan, eseguì un paio di acrobazie, sempre volando.
-Sì, è vero. Mi piace. Sapete, potete provare anche voi, basta un pensiero felice. Ma mi volete dire chi siete? E cosa fate qui?-
Peter Pan si mise a sedere, continuando a stare a mezz'aria, per ascoltare la storia dei nuovi arrivati. Rimaneva fermo, ad ascoltare attentamente.
-Oh, poverini...- commentò, infine, facendo un lieve broncio di commozione -Deve essere straziante vivere con gli adulti.- poi, scattò in piedi, volando ancora più in alto -Bene, allora saremo noi la vostra nuova famiglia! Da questo momento, voi sarete i miei Bimbi Sperduti!-
Confusi, ma divertiti dal suo discorso, Harry, Squeaky e Squirmy decisero di seguire Peter Pan, verso un posto che aveva chiamato “L'albero dell'Impiccato”. Era un albero molto strano, con diversi fori, grandi abbastanza da farvi entrare un bambino. E c'erano anche dei cappi, ecco il motivo del nome.
Dentro era addobbata con pelli di animali e letti imbottiti di paglia.
C'erano altri due bambini, insieme a Peter Pan: uno vestito come una volpe e l'altro come un orso.
Si facevano chiamare Svicolo ed Orsetto. Avevano dimenticato il loro vero nome.
Esattamente come i tre bambini nuovi, anche loro erano stati abbandonati dai genitori.
E in Peter Pan avevano trovato un fratello maggiore disposto ad aiutarli. Una nuova famiglia.
Una famiglia in cui la priorità era giocare e stare insieme, come una squadra.
Ciò attirò non poco l'attenzione dei tre bambini nuovi.
Nella nave non erano molti i momenti in cui potevano giocare. L'unico svago che si concedevano era nascondino con la ciurma o da soli.
Sarebbe stato bello poter giocare con altri bambini.
Decisero dunque di rimanere, incuranti delle reazioni della ciurma alla loro assenza.
Divennero anche loro dei Bimbi Sperduti: Harry si era vestito come un lupo, infatti il suo nome da Bimbo Sperduto divenne “Lupetto”, mentre Squeaky e Squirmy si vestirono da orsetti lavatori. Loro venivano semplicemente chiamati “I Gemelli”.
A nessuno dei tre mancò la vita che vivevano nella Jolly Roger: niente piatti, pavimenti o abiti da lavare, niente punizioni, niente urla da parte del capitano.
Solo giochi e bambini con cui giocare.
A volte giocavano a nascondino, altre si divertivano a duellare, altre ancora nella caccia al tesoro, talvolta giocavano a fare gli agguati agli indiani dell'isola o a nuotare con le sirene. E tanti altri giochi.
Anche la piccola Trilli aveva preso in simpatia i nuovi arrivati.
Ciò che mancava loro era la capacità di volare.
-Basta un pensiero felice.- aveva detto Peter Pan -Un po' di fantasia, di coraggio e, ovviamente, la polvere di fata.-
Ma nessuno dei tre bambini aveva un pensiero felice a cui aggrapparsi. Nemmeno i due gemelli: nonostante il loro padre fosse una persona gentile, non aveva mai dato loro una carezza o un abbraccio. Se non lavorava, era sempre ubriaco.
I primi tempi fu complicato provare a volare, nonostante la polvere magica di Trilli.
Ma poi, tutti e tre avevano realizzato che il loro primo pensiero felice era proprio essersi uniti a quella famiglia.
Harry fu il primo a volare: concentrandosi su quel pensiero, e anche sulla melodia della conchiglia, era riuscito a sollevarsi ad un metro da terra.
Successivamente, riuscirono anche i gemelli.
Erano diventati Bimbi Sperduti in tutto e per tutto.
Più tardi, altri due bambini si erano uniti a loro: vennero dati loro i nomi Leporello, dall'abito di coniglio, e Trottolo, la puzzola.
Erano una famiglia numerosa, unita e giocosa.
Harry, per la prima volta, era felice.
Avrebbero giocato per sempre e non sarebbero mai diventati grandi.
La vita era perfetta.
Fino a quando Peter Pan non decise di cambiare gioco: nei suoi voli di ricognizione aveva notato la Jolly Roger ed i pirati. Da solo, aveva fatto delle marachelle, ma non era mai stato catturato.
Per questo era già entrato nel mirino del capitano, divenendo suo nemico.
Ma Peter non voleva continuare da solo: aveva deciso, quindi, di coinvolgere i Bimbi Sperduti nel suo “attacco” contro i pirati. Lo aveva messo come gioco. I Bimbi Sperduti sembravano entusiasti a quell'idea.
Harry ed i due gemelli no. Per loro significava mettersi contro la loro famiglia.
Un po' riluttanti, ma, per non fare un torto a Peter Pan, decisero comunque di unirsi all'attacco.
Per tutta la notte, stillarono un piano, senza dormire.
All'alba, ognuno aveva preso la sua arma, e, quatti quatti, si erano avvicinati alla nave pirata.
Il loro grido di battaglia aveva svegliato l'intera ciurma.
Non era un vero attacco: era solo una marachella per infastidire i pirati.
In fondo, erano ancora bambini.
Ma i pirati sapevano essere suscettibili. Anche loro avevano preso le loro armi, rispondendo al contrattacco.
Per Harry fu difficile combattere contro quella che era la sua famiglia. Ma ormai, erano Peter Pan ed i Bimbi Sperduti la sua famiglia. Non aveva ricordi piacevoli legati alla Jolly Roger. I suoi dubbi furono spazzati via.
Fino a quando non vide il padre, scuro in volto e con gli occhi iniettati di sangue. Aveva in mano il suo stiletto.
-Peter Pan!- esclamò.
Peter non sembrava spaventato, anzi. Rideva. Per lui era come un gioco.
Ma James non sembrava del suo stesso umore.
-Mi hai rubato mio figlio e ora vieni qui come se nulla fosse?-
-Io non ho rubato nessuno! È lui che è venuto da me perché tu lo odi!-
Per Harry fu difficile vedere il proprio padre combattere contro la persona che vedeva ormai come un fratello.
Peter aveva il volo dalla sua parte, ma James aveva più esperienza di lui nella scherma.
Era persino riuscito a disarmarlo con un semplice colpo.
Peter era alle strette.
-Sei spacciato, Peter Pan!-
Harry dovette intervenire: rubò una sciabola da uno dei pirati e corse in soccorso di Peter.
-Padre! Lascialo stare!-
James non fece in tempo a voltarsi che vide il suo stesso figlio, vestito come un lupo, caricare contro di lui.
Gli occhi azzurri ed il volto così maledettamente uguale al suo lo fecero paralizzare.
Harry abbassò la spada con forza, nel tentativo di disarmarlo. Ma non fu solo la spada a cadere: anche la mano destra del padre cadde sul ponte.
Voluto o non voluto, neppure Harry ne era sicuro.
Ma non avrebbe dimenticato l'urlo straziante del padre e il sangue che usciva dal polso reciso.
Come aveva fatto con il ragazzo dai capelli rossi, tempo addietro.
Persino il volto di Peter si era macchiato di sangue.
Harry non provò rimorsi. Aveva fatto quello che doveva fare per proteggere la sua vera famiglia.
-Figlio incapace e ingrato! È questo il modo di trattare tuo padre?!-
Harry era bloccato, non sapeva cosa dire: guardava suo padre negli occhi. Vedeva... rabbia, delusione, bramosia.
Peter gli fece da scudo.
-Tu per lui non hai fatto un bel niente!- ribatté, determinato come un leone; aveva preso la sua mano recisa -Quale padre tratterebbe il proprio figlio come uno schiavo?! Te lo sei meritato!-
Nessuno dei due conosceva la storia di James. Se l'avessero saputa, forse avrebbero provato compassione, per lui.
-Ridammela, moccioso insolente!-
-Rivuoi la tua mano, vecchio stoccafisso? Prenditela!-
L'aveva lanciata in acqua.
James stava per gettarsi per recuperarla, ma era troppo tardi: un coccodrillo stava passando casualmente sulla costa. La mano era caduta proprio vicino ad esso. Non ci pensò due volte a divorarla.
Il capitano notò con terrore che si stava leccando le fauci.
Infatti, si era avvicinato alla nave, cercando, in ogni modo, di salire e cercare di divorare il resto di James.
Lui arretrò, con terrore.
Da allora erano nate le sue due più grandi paure: del coccodrillo ed anche del suo stesso sangue.
Non tutti i Bimbi Sperduti erano impegnati nella battaglia: i gemelli erano entrati nella cabina del capitano, per prendere qualche gioiello per riportare all'Albero dell'Impiccato come bottino di guerra. Tra gli oggetti presi, c'era anche una sveglia.
Ma Orsetto, in quel momento, aveva caricato una spallata contro un pirata; ma questi era più largo e più robusto del bambino, infatti, Orsetto rimbalzò indietro, dopo aver impattato contro di lui.
Andando indietro, urtò uno dei gemelli: la sveglia gli era scivolata dalle mani, cadendo in mare.
Il coccodrillo era proprio lì sotto, a fauci aperte. Si aspettava il corpo di James, ma, invece, inghiottì quella sveglia. Sentì la testa rintronare da quel trillo.
-Ritirata!- aveva annunciato Peter Pan. Il gioco era finito; avevano vinto i Bimbi Sperduti.
Si erano alzati tutti in volo, per tornare all'Albero dell'Impiccato, con l'aiuto della polvere magica di Trilli.
Tutti tranne uno: qualcosa teneva Harry stretto per la caviglia, e lo tirò indietro.
-Tu non vai da nessuna parte, moccioso ingrato!- gli ringhiò il padre, stringendogli il petto con il braccio senza una mano.
-Pet...!- avrebbe urlato Harry, se la sua bocca non fosse stata tappata dalla mano sinistra del padre.
Fu solo al ritorno nel nascondiglio, che Peter Pan si accorse dell'assenza di Harry.
Harry fu imprigionato nella sua vecchia cabina. Gli fecero togliere l'abito da lupo e lo rivestirono con gli stessi abiti che indossava quando ancora viveva lì.
Era tornato solo. Ma almeno sapeva che Peter Pan, Squeaky, Squirmy e gli altri Bimbi Sperduti erano salvi.
La mattina seguente, all'alba, suo padre aprì la porta della cabina.
Un uncino sostituiva la mano mancante.
-È dal primo momento in cui sei salito su questa nave che mi hai creato problemi, ragazzino...- sibilò, prima di ordinare ai suoi uomini di prenderlo, legarlo e condurlo sul ponte.
Per ammutinamento, era stato condannato alla trave.
La Jolly Roger aveva preso il largo, ma senza allontanarsi dall'Isola.
L'acqua era più profonda.
-Il prigioniero ha qualcosa da dichiarare, prima di saltare?- aveva domandato James.
-Io ti odio, padre.- rivelò Harry, voltandosi verso il padre -Tu non sei mai stato mio padre.-
-E tu non sei mai stato mio figlio.-
I piedi nudi di Harry percorsero quella trave. Avrebbe voluto volare. Ma non aveva pensieri felici. Non c'era Trilli. Era la fine, per lui.
E Peter Pan, tornato alla Jolly Roger per salvare il suo Bimbo Sperduto più promettente, era arrivato troppo tardi.
Harry aveva già saltato.
-Lupetto!- esclamò, preoccupato.
Avrebbe voluto gettarsi in acqua, ma fu improvvisamente circondato dai pirati.
-La pagherai cara, Uncino!- esclamò, tirando fuori il suo pugnale.
Quella fu l'ispirazione, per James, di cambiare il suo nome in Capitan Uncino. Un nome che incuteva più timore di capitano James.
Decise di tenerselo.
Peter Pan non fece in tempo a salvare Harry. L'acqua del mare lo aveva già inghiottito.
Lui ed i Bimbi Sperduti lo piansero per un'intera settimana.
Ma Harry non era morto.
Aveva perduto i sensi, appena gettato in acqua.
Non poteva nuotare, essendo stato legato alle mani ed alle caviglie.
Ma qualcosa lo aveva preso tra le sue braccia, portandolo via dall'Isola Che Non C'è. Una creatura non umana. Ma non malvagia.
Si risvegliò su una spiaggia. Non era solo. C'era un altro bambino con lui. Ed una bambina di poco più grande di lui.
Si stupì nel notare che era mezza polpo. Ancor più scoprire che, se toccava la terraferma, poteva diventare umana.
L'aveva salvato lei. Ed anche l'altro bambino.
A quanto pare, aveva il potere di viaggiare tra i mondi, un potere comune tra la gente del mare, specie di stirpe reale.
I due bambini si erano presentati come Gil ed Uma. Come Harry, erano rimasti orfani.
Non avevano nessun altro, ed erano in un mondo sconosciuto. Decisero di rimanere insieme.
Si trovavano su un'altra isola: veniva chiamata l'Isola degli Sperduti, dove venivano condotti gli esiliati, tutti coloro che erano stati scacciati dai propri mondi per i loro crimini.
Una prigione, insomma.
I tre bambini dovettero fare affidamento sulle loro forze, per sopravvivere.
Usando la sua esperienza da Bimbo Sperduto, Harry si rivelò abile nel rubare provviste e denaro agli abitanti. Tra di essi, persino un uncino. Pensò sarebbe stato utile sia come arma, che come strumento di scippo.
Ma c'era un altro abile tanto quanto lui: un bambino di nome Jay. I due divennero presto rivali.
La storia di Harry ispirò Uma e anche Gil su come formare la propria banda. Sarebbero divenuti pirati.
E lui stesso aveva addestrato ogni membro sulla scherma: aveva assistito tante volte ai duelli dei pirati del padre e con Peter Pan aveva avuto modo di mettere a frutto quegli insegnamenti.
Ma non aveva il carisma di Uma: lei, infatti, divenne leader, lui e Gil le sue braccia.
Lì non era come l'Isola che non c'è: restando in quell'isola, Harry scoprì di star crescendo.
Lo vedeva ogni mattina, quando si guardava allo specchio. Stava assumendo dei lineamenti del volto duri e decisi. Stava diventando bello.
Sembrava quasi la copia dell'uomo del ritratto che aveva trovato nella cabina del padre.
Infatti, tutte le ragazze dell'Isola si voltavano per guardarlo. E di ciò lui ne era fiero.
Tutte tranne la ragazza che interessava a lui: Uma. Lei evitava il possibile per guardare il ragazzo negli occhi, e quando lo faceva, sembrava triste.
Ma aveva comunque altre priorità. E lui, essendo il suo secondo, doveva assecondarla.
Quando venne a scoprire che Jay, il suo rivale, era stato scelto per vivere ad Auradon, anche Harry andò su tutte le furie, come Uma con Mal.
Anche loro volevano uscire dall'Isola, ma non per il programma di integrazione voluto da Ben, ma per altri motivi.
Harry, infatti, voleva tornare nell'Isola che non c'è, da Peter Pan, dai gemelli, dai Bimbi Sperduti. E regolare i conti con il padre James.
Sentiva la loro mancanza. Gli unici oggetti che si era portato dietro erano la conchiglia magica ed il bracciale “regalato” dal padre. Li teneva sempre nascosti nelle vesti, per evitare che qualcuno li rubasse.
L'occasione era arrivata con il ritorno di Mal nell'Isola degli Sperduti. E con lei anche l'ingresso di re Ben.
Era un'ottima merce di scambio per la libertà.
Ma quel piano andò in fumo, a causa della bacchetta fasulla che Mal aveva porto ad Uma.
La vendetta di Harry sarebbe stata solo rimandata.
Successivamente l'inganno della bacchetta, Uma era sparita. Harry e Gil erano rimasti soli a comandare la loro ciurma.
Non sapevano dove fosse o per quanto tempo sarebbe stata lontana dalla barriera.
A volte temevano che li avesse abbandonati per tornare nel suo mondo.
Fu un sollievo scoprire che, in realtà, stava solo cercando un punto della barriera dove poteva far uscire tutti gli abitanti.
Anche lei, quindi, aveva bisogno delle sue braccia più fidate, per compiere la sua vendetta. Erano una squadra, ormai.
Mal e la sua squadra avevano bisogno di aiuto contro Audrey. Fecero un patto: il loro aiuto, per la promessa di togliere la barriera che separava l'Isola degli Sperduti da Auradon.
Così, infatti, accadde.
Per i primi tempi, i tre pirati avevano vissuto la vita piena di occasioni della splendente Auradon.
Ma Harry avrebbe dovuto attendere ancora, per adempiere alla sua vendetta.
La sua spada ed il suo uncino si rivelarono inutili contro gli Heartless comparsi ad Auradon.
Fece da scudo ad Uma, ma il suo cuore venne comunque divorato dagli Heartless. Di conseguenza, era caduto nell'Oscurità.
Al suo risveglio, scoprì di essere in un nuovo mondo. Uma e Gil erano con lui, per fortuna.
Anche la banda di Mal, i tre principi della Luce, con Jane, Lonnie e Doug.
Si erano riuniti con la Fata Smemorina, che aveva spiegato loro cosa era accaduto.
Per la prima volta da quando aveva lasciato l'Isola che non c'è, Harry si sentì debole e spaesato.

Ma cerca di nascondere i suoi disagi con la risata. Per questo, alla proposta di Carlos di divenire Custode del Keyblade, è fra le persone a mostrarsi scettiche e poco interessate. Anzi, addirittura vi ride sopra, appena gli viene descritta la forma dell'arma. Erano risate guidate dall'ignoranza. Ma viene comunque costretto a presentarsi al cospetto dello stregone Yen Sid, che racconta a tutti i profughi dei vantaggi del Keyblade. Harry pensa che se fosse riuscito ad ottenerne uno, sarebbe potuto tornare nell'Isola che non c'è, dalla sua famiglia. Rimangia tutto ciò che aveva detto in precedenza ed accetta di sottoporsi al Tuffo nel Cuore. Non sa cosa lo aspetta, ma avrebbe agito come Peter Pan: lo avrebbe preso come un gioco.

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Capitolo 19
*** Harry's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: scusate se è un po' lungo. Purtroppo mi sono entrati vari elementi di "Once Upon A Time"...
 


Harry's Dive Into The Heart
 

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Harry teneva gli occhi chiusi, mentre sprofondava nel buio.
Lo stregone, Yen Sid, lo aveva chiamato “Tuffo Nel Cuore”.
Come sempre, Harry aveva riso, per nascondere la sua insicurezza. Lo aveva reputato “una sciocchezza”, “roba per persone deboli” ed altro ancora.
Non era ancora convinto di voler divenire Custode del Keyblade. Era stata un'idea di Carlos, non sua.
Avrebbe evitato di sottoporsi alla prova; ma Jay aveva aderito a quell'idea, e Harry non amava restare indietro, rispetto a lui.
Aveva deciso prenderla come una sfida. Per dimostrare, come al solito, di essere meglio di Jay.
Aprì gli occhi di scatto.
Si stava allontanando sempre di più da una fievole luce proveniente dall'alto.
Voleva muoversi, ma era come bloccato.
E lui sapeva nuotare bene.
-Perché?! Perché non riesco a muovermi?!-
Era come se fosse stato trasportato da una forza invisibile, che lo stava conducendo in basso. Verso un'altra forma di luce.
Una piattaforma. Di vetro color rosso carminio, il suo preferito.
Vi era raffigurato lui, con gli occhi chiusi. Accanto a lui notò delle miniature con i volti di Uma, Gil, Peter Pan, e anche di Squeaky e Squirmy, i figli di Spugna.
-Cos'è? Uno scherzo?- disse, prima di atterrarvi dolcemente.
I suoi passi riecheggiavano nel buio che lo circondava.
Camminò verso i bordi, guardando in basso: non vedeva la base della piattaforma. Si perdeva in quel buio infinito.
-Andiamo, non può essere infinito.- disse, per darsi forza -Ogni cosa ha un fondo, persino l'oceano ha un fondo di sabbia.-
Frugò nella sua tasca, tirando fuori un munny. Lo gettò nel buio.
Il suo luccichio svanì in un istante. Il buio lo inghiottì.
Harry provò a scorgersi dal bordo, con l'orecchio rivolto verso il basso: niente.
Non sentì alcun rumore.
Né un tintinnio. E se in fondo ci fosse stato il mare? No, avrebbe sentito un tuffo.
-Ok, non lo sento, ma il fondo c'è.-
Lo aveva detto con voce quasi tremante. Non osò immaginare cosa sarebbe accaduto, se, casualmente, fosse caduto da quella piattaforma. Avrebbe precipitato per sempre. Senza poter tornare indietro, da Uma e da Gil.
Loro non c'erano, per sostenerlo.
C'era solo lui, in quel luogo sperduto.
Ciò lo stava mettendo a disagio.
Non doveva avere paura. Non doveva mostrare di aver paura. Lo aveva sempre fatto.
Solitamente lo nascondeva con la risata.
Ma un nuovo sentimento era emerso, in quel momento.
-Me lo sentivo che sarebbe stata una perdita di tempo...- mormorò, serrando le labbra -Quel vecchio gufo ci ha ingannato tutti! Diceva che avremmo superato una prova. Per quello che mi riguarda sono bloccato qui su una piattaforma. Cosa si aspetta che faccia?! Che cammini nel vuoto? Che mi butti?!- guardò in basso, in particolare verso se stesso; si sistemò i capelli ed assunse uno sguardo soddisfatto -Però, devo ammettere che questo ritratto non è affatto male. Sono davvero bello in tutti i modi...-
Rialzò la testa e tornò indietro. Tuttavia, fece un lieve urlo e sobbalzò.
Per fortuna, era vicino al centro e lontano dal bordo.
Si era accorto di non essere più da solo.
C'era un ragazzo di fronte a lui. Vestito con una tutina verde.
-Peter?!-
Harry non riusciva a credere ai suoi occhi: Peter Pan, di fronte a lui. Non era cambiato affatto. Era rimasto come lo ricordava.
Non lo stupì: l'Isola Che Non C'è, in fondo, permetteva a tutti di non avanzare con l'età.
-Bello, che ci fai qui? E come ci sei arrivato?- domandò, sorridendo, incredulo; ma era lieto di vedere un volto amico in un posto sconosciuto.
Aveva allungato le mani per prendergli le spalle. Ma qualcosa non lo convinceva: Peter Pan non era un tipo silenzioso. Non passava minuto, infatti, senza che lui parlasse o desse dimostrazione della sua bravura nel volo.
Ma il ragazzo di fronte a lui restava immobile e silente.
Harry, infatti, si fermò, sospetto.
-Peter...?-
Allungò una mano, sempre diretta alle spalle.
-Di cosa hai più paura?- disse Peter Pan, con tono piatto.
Non era lui.
Harry aggrottò le sopracciglia, allarmato. Poteva essere una trappola.
Non aveva un'arma per difendersi. Non aveva nemmeno il suo uncino.
Yen Sid non aveva detto nulla su ciò che avrebbero dovuto affrontare nel loro Tuffo Nel Cuore, se non informazioni vaghe. E una frase a primo orecchio senza senso: -Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Harry aveva riso a quella frase: -Ma non ha senso!-
E continuava a pensarlo.
Ma il suo pensiero era fisso su Peter Pan e la domanda che aveva appena posto.
-Non ha senso...- commentò, di nuovo -Cosa significa? Cosa c'entra con la mia prova?-
Peter Pan non rispose. Restava fermo. In attesa di una risposta.
Harry soffiò dal naso.
-Questo è ridicolo! È una perdita di tempo!- si voltò indietro, alzando lo sguardo -Ehi, vecchio gufo! Riportami immediatamente indietro! Non ho intenzione di andare avanti con queste sciocchezze!-
Niente.
Silenzio.
Solo la sua voce in eco.
La sua voce non aveva raggiunto Yen Sid.
Accennò una risata di rabbia.
-È ridicolo. Tutto questo è solo un'illusione!- camminò verso il bordo, con passi furenti -Magari se salto non succede nulla. Ma sì, potrei tornare indietro. Tanto non ho alcuna intenzione di ottenere quel giocattolo che chiami Keyblade. Quindi, addio.-
Stava camminando, con la speranza di tornare nella stanza di Yen Sid. Jay avrebbe avuto il Keyblade e lui no, ma ormai non aveva più importanza. Il Keyblade, secondo Harry, era troppo sopravvalutato. Era inverosimile l'esistenza di un'arma con la forma di una chiave gigante e l'eguale efficacia di una spada normale.
Si stupì che persino Uma avesse, infine, accettato a sottoporsi al Tuffo Nel Cuore. E anche lei era scettica, all'inizio.
-Tanto lo so che superato questo bordo non succede nulla. Guarda.-
Il suo piede toccò e sprofondò nel vuoto.
Lui si sbilanciò rapidamente in avanti.
Non ebbe il tempo di recuperare l'equilibrio che, improvvisamente, si ritrovò oltre il bordo.
Aveva detto a se stesso di non avere paura, che non sarebbe successo niente, se fosse caduto nel buio. Ma, involontariamente, era riuscito ad aggrapparsi al bordo della piattaforma con la mano destra.
Il suo cuore batteva forte ed il suo respiro si era appesantito.
Guardò di nuovo in basso: persino la luce delle vetrate laterali svaniva con il buio sottostante.
La sua testa era pronta a compiere quel gesto. Ma non il suo cuore.
Venne pervaso dal dubbio: e se si fosse sbagliato? Se non si fosse aggrappato in tempo, sarebbe caduto in eternità in quel buio senza fine? Sarebbe divenuto un Heartless?
Non voleva precipitare.
Aveva paura.
Per la prima volta da tempo, provò paura.
Aveva avuto persino una piccola visione, del suo passato: se stesso, da bambino, sulla rampa, con i polsi legati, l'oceano di fronte a lui. E poi, quell'oceano si era richiuso intorno a sé.
Da allora, i tuffi in acqua da grandi altezze lo terrorizzavano.
Quella stessa paura era tornata in quel momento.
-Ok...! Mi hai convinto, vecchio!- riuscì ad urlare, senza smettere di tremare, e riprendendo a guardare in alto -Vuoi che continui questa inutile prova? Va bene! Ma non cambio idea sul fatto che sia una perdita di tempo!-
Riuscì ad aggrapparsi anche con l'altra mano e, con una spinta decisa delle braccia, tornò su.
Non poteva tornare indietro. E gettarsi nel buio era una pessima idea.
-Bene, sono prigioniero qui dentro...- mormorò, sistemandosi il cappotto -Almeno, se otterrò quella copia di un'arma, potrò suonarle al vecchio gufo... E poi... se persino Uma ha accettato, forse ne varrà la pena. L'importante è che possa usarla per combattere. Del resto non mi importa niente.-
Peter Pan era ancora lì. Fermo, silenzioso. Stava ancora aspettando la sua risposta.
“Di cosa hai più paura?”
-E tu non puoi dire altro?-
Nessuna risposta. Nessun movimento. Era strano vedere Peter Pan comportarsi in quel modo.
Ma Harry ormai sapeva che il ragazzo di fronte a lui non era il vero Peter Pan.
La paura di cadere in un vuoto senza fine non era la sua paura più grande.
Forse quando era bambino. No, aveva sempre avuto una sola, grande paura.
-Restare da solo. Abbandonato da tutti.-
Si sentiva vulnerabile, quando era solo. Squeaky, Squirmy, Peter Pan, i Bimbi Sperduti, Uma e Gil... gli avevano sempre dato la forza che gli serviva per andare avanti. Perché stavano insieme.
Peter Pan svanì a quella risposta.
Harry era di nuovo da solo.
Tornò a guardare in alto.
-Ho risposto alla domanda, vecchio. Come minimo, avrei diritto a proseguire questa stupida prova!-
Tornò a guardare in avanti: un sentiero di vetri colorati era apparso per condurlo verso la piattaforma successiva.
Alzò le sopracciglia, quasi sorpreso.
-Ah, quindi devo solo rispondere a delle domande?- dedusse, guardando quel sentiero con sufficienza -Che delusione... Ora non mi sorprenderebbe se anche Jay o Gil riuscissero ad ottenere quell'arma...- sospirò -Ma visto che ci siamo... continuiamo.-
Era come camminare su un vero sentiero, per fortuna. Ma Harry fece comunque del suo meglio, per non guardare in basso. I vetri erano quasi trasparenti. Si poteva vedere il buio infinito sottostante.
La piattaforma era esattamente uguale alla precedente. Stessi disegni, stessi colori.
Ma con un'altra persona ad attenderlo.
Anzi, due.
Due bambini vestiti come mozzi, dai paffutelli volti lentigginosi.
-Squeaky?! Squirmy?!-
I suoi primi amici. I figli di Spugna.
Harry era sempre più sorpreso. Prima Peter Pan. Ora Squeaky e Squirmy.
E non erano vestiti da Bimbi Sperduti, ma da mozzi, come quando vivevano nella Jolly Roger.
Gli stessi abiti che aveva indossato anche lui, da bambino.
Sperava che fossero ancora sani e salvi, all'Isola Che Non C'è, sotto la protezione di Peter Pan.
-Cosa è più importante per te?- domandarono, all'unisono.
Un'altra domanda. Un altro passo per ottenere il Keyblade.
-E questa sarebbe una prova? A me sembra un'interrogazione...- commentò, deluso.
Poi rifletté.
Aveva perso tutto, quando suo padre lo aveva condannato alla rampa. La sua vera famiglia, Peter Pan ed i Bimbi Sperduti. Quel giorno pensava sarebbe scoccata la sua ora. Ma Uma lo aveva salvato.
Gli aveva donato una nuova vita. Una vita simile a quella che viveva nell'Isola Che Non C'è. Con la sola differenza che stava diventando grande.
Peter Pan aveva sempre detto che diventare grande era un male. Si invecchiava, si moriva.
O si diventava brutti, a giudicare dall'aspetto dei pirati della ciurma del padre, Uncino.
Ma Harry diventava sempre più bello, con gli anni.
Da piccolo invidiava il volto di Peter Pan. Ma se fosse stato in grado di rivederlo, pensò che sarebbe stato Peter stesso ad essere invidioso del suo, di volto.
-Non diventare brutto come mio padre.- rispose -Cercare di mantenere questo aspetto a lungo.-
Anche i gemelli svanirono, come aveva fatto Peter Pan.
Da quando aveva scoperto di star crescendo, era quella la sua priorità.
Nutriva ancora un po' di rancore nei confronti del padre, ma non era il suo desiderio più grande.
Se voleva seguire Uma nel suo piano di uscire dall'Isola degli Sperduti era solo per tornare da Peter Pan, dirgli che era ancora vivo e che stava bene. E gli avrebbe ovviamente presentato Uma.
Forse, pensava, doveva dire che anche lei era importante, per lui. Gli aveva salvato la vita, quando era bambino. Le doveva un favore.
Il sentiero di vetri colorati tornò. E una terza piattaforma, alla fine.
Harry sospirò e fece spallucce. Poi camminò.
Come nelle piattaforme precedenti, una persona lo stava attendendo, al centro.
Harry si illuminò.
-Uma?!-
Quella vera avrebbe risposto: -Esatto, è così che mi chiamo.-
Ma la ragazza che si trovò di fronte rimaneva in silenzio, in attesa di qualcosa. Come Peter Pan e Squeaky e Squirmy.
Non fu sorpreso di trovare anche lei: le doveva la vita. Lo aveva salvato quando era piccolo, le era rimasto sempre accanto, per sdebitarsi. Provava ammirazione e rispetto, per lei. E tanto affetto.
E sapeva di essere la sua persona più fidata: infatti, Uma si confidava spesso con Harry, alla ricerca di una parola di sostegno, un consiglio, o semplicemente una valvola di sfogo per le sue delusioni e scatti d'ira.
Uma era diventata importante per Harry. L'avrebbe protetta a costo della vita.
-Cosa ti aspetti dalla vita?- domandò lei, con aria impassibile.
Harry avrebbe voluto ridere. Lo accennò e basta.
Gli bastava sopravvivere, non gli importava dove fosse. Questo avrebbe voluto rispondere.
Ma non era così.
Amava stare al fianco di Uma, e non disprezzava la compagnia di Gil, quando non faceva lo stupido, ma nella sua vita mancava ancora qualcosa. Il senso di serenità, di pace interiore che aveva quando era all'Isola Che Non C'è.
Gli mancava quella vita.
Pensò a Peter Pan, ai momenti lieti passati da Bimbo Sperduto, da Lupetto, e sorrise, guardando un punto, in basso.
-Poter, un giorno, tornare dalla mia famiglia, nell'Isola Che Non C'è.- rispose, con un tono stranamente tenero -Da Peter Pan, dai Bimbi Sperduti. Se possibile, insieme ad Uma. E perché no, anche con quello scemotto di Gil.-
Il suo cuore era diviso in due: sentiva la mancanza dell'Isola Che Non C'è; ma sapeva anche che, se fosse tornato, avrebbe sentito la mancanza di Uma.
Per questo voleva tornare là con lei.
Anche Uma svanì.
Al suo posto, erano apparsi due uncini, eterei. Uno di essi era collegato alla base da una catena.
-Che belli...- mormorò, allungando una mano; i suoi occhi stavano brillando; aveva perduto il suo uncino, la sua seconda arma e il suo strumento più efficace per i furti, alla distruzione di Auradon -Sono per me...?-
Ne volle toccare uno, per brandirlo, ma la sua mano toccò il vuoto.
La delusione era palese, nel ragazzo.
-Allora, vecchio gufo, lo fai apposta!- esclamò, guardando in alto -Perché sventolarmi delle armi in faccia se non posso prenderle?!-
Udì finalmente una voce. Ma non era Yen Sid.
Sei a metà del tuo viaggio, Harry...” era nella sua mente “Il viaggio per rinunciare alla tua vendetta contro tuo padre.”
-Rinunciare? Io non voglio affatto rinunciare!- protestò il ragazzo -Non mi ha mai voluto! Non mi ha mai accettato come figlio! Non si è nemmeno degnato di cercarmi, quando sono scomparso nell'Isola Che Non C'è.- serrò le labbra e guardò in basso, stringendo i pugni -E non si è fatto scrupoli a condannarmi alla rampa, quando ne ha avuto l'occasione...-
Il tuo passato conserva molti brutti ricordi. E l'odio che provi per tuo padre ha colmato il tuo cuore. Presto capirai, però, che non deve essere ucciso per vendetta, ma per essere salvato.”
Harry assunse uno sguardo confuso.
-Cosa vuoi dire? Come “salvato”?-
Queste parole potranno apparirti confuse, all'inizio. Ma non devi temere. In questo viaggio non sarai da solo. Né ora, né quando affronterai tuo padre.”
-Quando potrò affrontarlo? Devo per forza ottenere il Keyblade per... salvarlo...?-
Apparve una porta, alla sua sinistra. A due ante e con due grandi maniglie dorate.
Devi proseguire, se vuoi ottenere le tue risposte. Devi essere pronto a qualunque sfida ti presenterà il tuo cuore, Harry.”
-Il mio cuore...?-
Si toccò il petto, confuso.
Cosa c'entrava il suo cuore con il suo desiderio di vendetta contro il padre?
E cosa intendeva, quella voce, con “salvarlo”?
Ormai, regnava il silenzio, in quel buio infinito.
La voce taceva.
Harry serrò di nuovo le labbra.
-E ti pareva...- borbottò -Proprio come il vecchio gufo. Ti lasciano con il fiato sospeso, con queste frasi vaghe. Bah, io non vedo l'ora di finire questa perdita di tempo. Quindi devo proseguire qui? Magari dovrò rispondere ad altre domande...-
Senza indugi, aprì la porta.
Fece un rapido scatto con la testa, accecato dalla luce che filtrò dallo spiraglio di una delle ante.
-Ah!- urlò, coprendosi gli occhi con una mano -Però poteva anche avvertirmi di questa luce, quella voce! Manca poco che divento cieco!-
Non aveva altre strade da percorrere: doveva per forza entrare in quella luce.
Aprì completamente l'anta, senza distogliere la mano dagli occhi. Poi entrò.
La luce era quasi svanita. Non era più accecante come prima.
Harry intuì di trovarsi in un luogo chiuso, a giudicare dall'assenza di eco che aveva notato sulle piattaforme.
Udì degli scricchiolii, ed un insolito, ma familiare movimento oscillatorio della superficie.
Scostò la mano dagli occhi, che sgranò, con il respiro ormai mozzato.
Era nella Jolly Roger. Nella cabina del capitano, suo padre.
Dalla finestra, una vista sull'Isola Che Non C'è.
-Sono... sono tornato a casa...?- balbettò, avvicinandosi alla finestra, poggiando le mani sul vetro.
Era tutto come ricordava: la spiaggia, il mare, gli alberi. Persino la cabina era come ricordava: l'odore di tabacco dei sigari del padre, gli scrigni pieni di oro e gioielli, la scrivania con le mappe dei tesori con i suoi segni di penna per indicare i luoghi dove quei tesori erano stati scovati. Ma su di essa non trovò solo le mappe: notò una fiaschetta di vetro con del liquido scuro all'interno e una conchiglia a forma di chiocciola.
Due oggetti a lui familiari.
Si voltò: il paravento non c'era.
Il ritratto era in mostra. I due uomini in divisa militare.
Accanto a quel ritratto c'era uno specchio. Harry vide la propria immagine.
Poi osservò di nuovo quel ritratto. Era la copia dell'uomo più basso.
Stessi occhi, stesso sguardo, stessi lineamenti.
-Io non capisco...- mormorò, confuso -Non posso credere che uno di loro sia mio padre... l'altro, allora, chi è...?-
-Sono io.-
C'era un'altra persona con lui.
Harry notò il suo riflesso sullo specchio. Si voltò, mentre il suo cuore fece un battito fortissimo dallo spavento.
Un uomo alto, dai capelli ricci e bruni.
Si avvicinò al ragazzo, con le mani alzate in segno di resa.
-Calmati, non voglio farti del male.- cercò di rassicurarlo.
Ma Harry indietreggiava, ansimando.
-Chi sei tu?! Cosa fai qui?!- domandava, ormai con le spalle al muro; non aveva niente con cui difendersi -Come puoi essere qui?!-
L'uomo non si mosse.
-Harry, non devi avere paura di me.-
-E come sai il mio nome?! Ho una specie di fantasma interiore e il vecchio gufo non mi ha detto niente?!-
L'uomo guardò da una parte, mordendosi il labbro inferiore.
-Diavolo... e adesso da dove comincio...?- mormorò, a bassa voce; poi inspirò, per ritrovare i pensieri -Ok, Harry, lo so che sembrerà assurdo, ma io non sono un'illusione. Sì, potrei essere un fantasma, ma non ho alcuna intenzione di farti del male. Lungi da me, te lo giuro.-
I suoi occhi sembravano sinceri. Erano chiari, come quelli di Harry. Come quelli di suo padre James.
Il ragazzo rilassò i muscoli; non aveva altra scelta, in mancanza di un'arma con cui difendersi.
Avrebbe atteso il momento giusto per aggredirlo, forse un attimo di distrazione.
Guardò di nuovo il ritratto: l'uomo che aveva di fronte era uguale, identico all'uomo alto.
-Ok...- iniziò -Ora che abbiamo forse chiarito cosa sei, vuoi dirmi chi sei e cosa ci fai qui?-
L'altro sospirò di nuovo. Guardò indietro per un attimo, per poi sedersi sul fondo del letto a baldacchino.
-Il mio nome è Liam.- si presentò; quel nome non era nuovo, alle orecchie di Harry -James era mio fratello minore. Sono tuo zio, Harry.-
Harry non sapeva nulla di suo padre. Tantomeno che avesse avuto un fratello maggiore.
Quella notizia lo sorprese non poco.
Fissò di nuovo il ritratto.
-Quindi vuoi dire che l'altro è... mio padre?!-
Stessi lineamenti del volto, stessi occhi, stesso sguardo. Harry lo aveva già intuito, nel suo cuore.
Non assomigliava affatto al James che conosceva lui, brutto, vecchio, con i capelli lunghi e neri e la mandibola sporgente.
-Come... come si è ridotto in quel modo...?!- domandò, sconvolto; poi si voltò verso l'uomo che aveva dichiarato essere suo zio -E tu come puoi essere qui, se non ti ho mai conosciuto?!-
-Quando sono morto, gli dei mi hanno concesso di restare qui, come spirito, per vegliare su mio fratello. La mia anima, quindi, è praticamente legata alla Jolly Roger.- toccò un'asta del baldacchino -Dopotutto, un tempo, questa nave era mia, quando ero capitano della Marina e James era il mio secondo...-
Harry scosse la testa, sempre più sconvolto.
-C-cosa?! M-mio padre un marinaio?!-
Liam sospirò di nuovo.
-Trovati qualcosa su cui sederti, Harry. Sembra che dovrò raccontarti tutto dal principio.-
La scrivania. Harry si sedette sopra le mappe, senza curarsi di rovinarle.
-Tuo padre ed io siamo praticamente cresciuti sul mare. Nostro padre, tuo nonno, ci ha venduti ad un pirata, per saldare dei debiti. Da allora, il nostro mondo era solo una nave. Eravamo spazzini, mozzi, lavapiatti, insomma facevamo solo mestieri umili.-
Come era accaduto anche ad Harry, quando era piccolo: un mozzo, ma sulla nave del suo stesso padre.
-Abbiamo assistito a saccheggi, rapine... non ne potevamo più. Quando io avevo vent'anni e tuo padre diciotto, abbiamo colto l'occasione di far parte della marina reale. Con i soldi dell'incentivo siamo riusciti a liberarci del nostro padrone.-
-Mio padre... un marinaio? Davvero?-
-Sì. E in poco tempo siamo riusciti a salire di grado. Io capitano e lui il mio secondo. Avevamo allestito la nostra flotta e questa era la nostra nave. Ne eravamo fieri. Proteggevamo il regno dai pirati e li incatenavamo. Adoravamo quella vita. L'ultima missione che ci era stata affidata era troppo semplice, per noi, ma comunque importante. Dovevamo cercare una pianta dalle proprietà curative. Ma James non era convinto di quella missione. Io, come un idiota, non gli ho creduto. Ero troppo orgoglioso, e ne ho pagato le conseguenze.-
Mostrò un dito al ragazzo: c'era un segno, come una puntura.
-Nel coglierlo, mi sono punto con una spina. Non sono riuscito a sopravvivere. L'ultima cosa che ricordo è il volto di James, che mi implorava di vivere, i suoi pianti. Poi, il buio.-
Il suo tono si era fatto melanconico e nostalgico, pieno di colpa.
Harry provò una strana sensazione, come se una mano invisibile fosse entrata nel suo petto e stesse iniziando a strizzare una parte del suo cuore.
Stava provando pietà per il padre.
-Mi aspettavo il buio eterno. Ma, a quanto pare, gli dei mi hanno concesso di restare, come fantasma, per vegliare su mio fratello, fino alla fine dei suoi giorni. Così ho potuto vedere, con i miei stessi occhi, cosa è seguito dalla mia morte. Cosa James è diventato, a causa della mia ingenuità.-
-E cosa ne è stato del veleno?- domandò Harry, inquieto.
-Ha deciso di tenersi quel veleno come ricordo e come arma da usare contro i suoi nemici. Distillando i petali, è possibile ottenere il liquido. Uccide all'istante con una sola goccia. Troppe volte l'ho visto usarlo contro coloro che osavano ammutinarsi...-
La mente di Harry venne fulminata da un ricordo della sua infanzia: la fiaschetta che aveva notato sulla scrivania, nella realtà, era sempre attaccata alla cintura del padre.
“Ecco perché alcuni uomini sparivano...” pensò, mentre un brivido gli percorreva la spina dorsale. Non osò immaginare se un giorno avesse deciso di usarlo contro il suo stesso figlio. O contro Peter Pan.
-James era diventato un pirata. E la nostra flotta la sua ciurma. Ciò che speravo non divenisse. Non potevo fare niente per fermarlo. Potevo solo osservarlo. Tuttavia, per un momento, avevo sperato si distogliesse da questo cammino. Aveva incontrato una ragazza, infatti. Aveva una voce meravigliosa. Il suo canto era riuscito a distoglierlo dal dolore della mia perdita. Aveva ripreso ad amare. Anche io ero sollevato. Ma la strada del pirata è una in discesa. Ormai amava l'oro più di qualsiasi altra cosa al mondo. Aveva abbandonato quella ragazza e rubato la sua voce, per oro a dismisura. Un gesto cui sentivo, lo percepivo, si sarebbe pentito per sempre. James amava Ursula, tantissimo. Non amò nessun'altra donna più di lei, neppure tua madre. L'unico ricordo che conservò di lei è quella conchiglia. Che tu hai preso, quando eri piccolo.-
La mano di Harry era sulla conchiglia, infatti. Era sceso dalla scrivania, dando le spalle allo zio.
Il giorno in cui aveva osato entrare nella cabina del capitano e sbirciare dietro il paravento, aveva notato quella conchiglia e vi aveva posato l'orecchio. Non udì il suono del mare, ma un canto meraviglioso, dolce, armonioso, soave.
-Ursula...- mormorò Harry -Mio padre faceva spesso il suo nome, oltre al tuo, quando dormiva... Ora so perché. Non era riuscito a salvarti ed ha vissuto nel rimpianto di aver abbandonato una donna che amava...- ridacchiò -Mi sorprende che mio padre fosse capace di amare... A me, che ero suo figlio, non degnava neppure uno sguardo, che non fosse di disgusto. Spugna e gli altri della ciurma dicevano perché era invidioso di me, che crescendo sarei divenuto più bello, mentre lui sarebbe invecchiato e deperito.-
-Non era così.- tagliò corto Liam, senza alzarsi -Tuo padre aveva paura di affezionarsi a te.-
Harry si voltò verso di lui, scettico, ma anche sorpreso.
-Dici sul serio?-
-Aveva paura di soffrire, il giorno in cui ti avrebbe perduto, come quando ha sofferto quando ha perso me e come ha perso Ursula. Il suo cuore non avrebbe retto ad un'altra perdita. Per lui era più facile odiarti, anziché amarti.-
Harry era rimasto con la bocca semi aperta, dalla sorpresa. Suo padre... aveva paura di perderlo?
-Quando gli hai reciso la mano, ho visto la delusione, e anche paura, nel suo volto. Aveva capito di aver perduto anche te. Senza volerlo, si era affezionato a te. Eri l'unica corda che gli stava impedendo di cadere nell'Oscurità.-
E lui l'aveva spezzata.
James non odiava suo figlio. Aveva paura di affezionarsi a lui. Per questo lo aveva allontanato.
Ma è impossibile che un padre non ami il proprio figlio, anche inconsapevolmente.
Harry aveva vissuto nell'odio e rancore verso il padre. Inutilmente.
Aveva ascoltato la sua storia, da una persona che era sempre rimasto con lui, aveva scoperto un altro lato dell'uomo che lo aveva allontanato.
I suoi dolori, le sue perdite...
Se ne fosse stato subito a conoscenza, Harry non avrebbe provato quei sentimenti negativi per il padre. E ora era troppo tardi per scusarsi, dirgli che gli dispiaceva.
Se stava divenendo il pirata più temuto dei sette mari, era solo colpa sua. Perché lo aveva abbandonato.
Gli sfuggì una risata. Una risata nervosa, forzata.
Poi un sussulto, un singhiozzo. Il suo respiro si bloccò in gola.
Emise degli strani rantoli, dalla bocca, dal naso.
La mano invisibile stava completamente stringendo il suo cuore.
Le sue guance erano ormai bagnate dalle lacrime.
Il suono del riso si stava mescolando con quello del pianto. Piangeva quasi urlando e singhiozzando.
Non piangeva da quando era un bambino.
E per tanti anni aveva cercato di nascondere le sue emozioni negative con le sue risate nervose.
-Zio Liam...- mormorò, guardando il paesaggio esterno e stringendo la conchiglia; gli fece uno strano effetto pronunciare la parola “zio”; ma gli piaceva il suono; probabilmente legato al fatto di avere un altro membro della famiglia accanto a sé -Cosa ho fatto...?-
Liam scattò dal letto, raggiungendo il nipote.
-No, Harry. Non colpevolizzarti! Non lo sapevi!- lo rassicurò, mettendogli una mano sulla spalla -Era già compromesso prima di conoscerti. Quando sei salito sulla nave, sapevo che potevi essere tu la chiave che lo avrebbe liberato dalla sua Oscurità. Per questo ho smesso di vegliare su di lui per vegliare su di te.-
Harry si voltò verso di lui.
-Hai vegliato su di me per tutto questo tempo...?-
Liam annuì.
-La mia anima, in realtà, è legata alla Jolly Roger. Ma, non so come, sono riuscito a trasferire una parte di me nel tuo cuore. Ecco perché sono qui.-
Harry, quindi, non era mai stato solo. Suo zio, anche se una parte, era sempre rimasto con lui. Gli scappò un lieve sorriso. Ma si fece subito serio, appena un pensiero balenò nella sua mente.
-Come vanno le cose, nell'Isola Che Non C'è?- domandò, sbattendo più volte le palpebre, con aria preoccupata -Peter Pan, i Bimbi Sperduti...-
-Purtroppo non posso uscire dalla nave. Te l'ho detto, la mia anima è legata lì, fino alla fine dei giorni di James.- fu la risposta, con tono inquieto -Ma sono preoccupato per lui, comunque. La sua Oscurità si sta facendo incontrollabile. È questione di tempo, prima che arrivi a contaminare l'intera Isola Che Non C'è e farle fare la stessa fine di Auradon.-
Harry si preoccupò: la distruzione di Auradon era stato un colpo anche per lui. Non poteva perdere anche la sua casa e la sua vera famiglia.
-Devo tornare nell'Isola Che Non C'è, allora!- esclamò, battendo un piede per terra -Devo salvare Peter Pan e gli altri!-
La mano di Liam premette sul petto del nipote.
-No, Harry, non puoi affrontare tuo padre nelle tue condizioni.- lo avvertì, serio -Per liberare un cuore dall'Oscurità, hai bisogno del Keyblade.-
-Allora così sia!- decise il ragazzo, senza indugio -Proseguirò la prova per salvare Peter Pan e l'Isola Che Non C'è dall'Oscurità di mio padre!-
-Ma sappi, Harry, che non dovrai essere da solo, a compiere quest'impresa.-
-Certo. Peter sarà con me e...-
-Non parlavo di Peter Pan.- tagliò corto Liam -Solo un consanguineo può liberare James dalla sua Oscurità. La ragazza che ha conosciuto ed a cui ha rubato la voce era una creatura del mare. Da questa relazione, ha avuto una figlia. E questa figlia è rimasta al tuo fianco dal momento in cui hai messo piede nell'Isola Degli Sperduti.-
Un'altra rivelazione che sconvolse Harry: conosceva solo una creatura del mare. Umana sulla superficie e polpo in acqua.
-Uma?!- esclamò, con voce tremante -Uma è mia sorella?!-
Era legato a lei. Provava rispetto per lei. Si era innamorato di lei. Ma lei non ricambiava.
Perché erano fratelli. Non poteva funzionare.
Il suo cuore si fece più pesante a quella rivelazione.
Si era innamorato di sua sorella.
Si sedette sul letto, sgomento. Liam prese posto accanto a lui.
-Mi sono innamorato di mia sorella...- mormorò, contemporaneamente dandosi dell'idiota.
Liam gli mise di nuovo una mano sulla spalla.
-Stai calmo, Harry. Va tutto bene. Non è successo nulla.-
-Ma come può essere successo? Come ha potuto mio padre amare un'abitante del mare?-
-A causa di un bracciale. Un bracciale in grado di tramutare gli abitanti del mare in esseri umani.-
Un altro ricordo si palesò nella mente di Harry: il bracciale che gli aveva “regalato” suo padre!
Lo aveva già visto indosso ad un'altra persona: un ragazzo dai capelli rossi. Catturato e poi torturato dal padre. Era una creatura del mare.
E non era da solo: era in compagnia di una ragazza dai capelli acquamarina. Uma.
Quel giorno non si erano conosciuti. Ma Harry aveva visto lei.
-Ho visto mio padre torturare quel tritone...- mormorò -Uno spettacolo orrendo. No, non posso permettere che continui. Devo fermarlo, prima che lo faccia anche con Peter Pan! Otterrò il Keyblade, costi quel che costi!-
Un sorriso si manifestò sul volto di Liam. Sembrava orgoglioso della scelta del nipote.
-Finalmente hai capito, Harry.- tornò nuovamente serio -Ma sei davvero pronto per affrontarlo? Per perdonarlo?-
-Perdonarlo? Che vuoi dire?-
Vi fu un lieve momento di silenzio.
La nave oscillò pericolosamente. Un movimento improvviso, inaspettato.
Il cielo si stava oscurando, all'esterno. Nuvole nere stavano coprendo il sole ed il cielo dell'Isola Che Non C'è.
-La tua vera prova inizia adesso, Harry.- aggiunse Liam, sempre più serio -Ora conosci la storia di tuo padre. Sta a te decidere se ucciderlo per salvarlo o per vendetta.-
-Zio Liam, non capisco!-
Anche la cabina divenne scura. Niente luci. Con l'eccezione di un lampo che illuminò la stanza per un attimo.
Harry si rese conto di essere rimasto da solo.
-Zio Liam...?- chiamò, guardandosi intorno, inquieto e preoccupato.
Un grande senso di angoscia prese il suo cuore. Era di nuovo solo. Sperduto. Confuso.
E la nave continuava ad oscillare. Era nel bel mezzo di una tempesta.
Harry non vi era più abituato da quando aveva messo piede nell'Isola degli Sperduti.
Si resse alla scrivania, per non cadere.
-Zio Liam!!!- chiamò, di nuovo.
Niente.
Solo tuoni, e scricchiolii della nave.
E dei passi.
Harry si inquietò. Il suo cuore batteva forte dalla paura.
Liam gli aveva rivelato che quella sarebbe stata la sua vera prova.
Se fosse riuscito a superarla, avrebbe ottenuto il Keyblade.
Aveva trovato il giusto obiettivo, per ottenerlo: salvare Peter Pan e l'Isola Che Non C'è dall'Oscurità del padre.
Non voleva ripetere l'esperienza della distruzione di Auradon.
La porta della cabina si aprì, di scatto. Una sagoma oscura. Con un cappello enorme. Ed un uncino al posto della mano destra.
Un lampo rivelò la sua fisionomia.
-Padre...?- balbettò Harry.
Era diverso. I suoi occhi non erano azzurri, ma gialli. E non era oscuro solo a causa del buio. Tutto il suo corpo era nero. Come un Heartless.
Era spaventoso.
Forse perché era quella l'immagine che Harry aveva del padre, quando era piccolo.
E a quell'immagine si era aggiunto il suo trauma per gli Heartless quando avevano invaso Auradon.
Per questo sembrava un Heartless.
-Padre...?- ripeté Harry, chinando la testa in avanti, per squadrare meglio la figura che era apparsa nella stanza, senza muoversi.
La sagoma non rispose: sguainò il suo stiletto, puntandolo verso il ragazzo.
Il cuore di Harry non smetteva di battere velocemente. Era quasi paralizzato.
Era disarmato. Non poteva affrontare il padre.
I suoi occhi girarono per tutta la stanza, alla ricerca di un'arma.
Poi ricordò il barile dove il padre conservava tutte le sue spade.
Era esattamente dove ricordava. Ma era lontano da dove si trovava: il tempo in cui l'avrebbe raggiunto, l'ombra lo avrebbe aggredito.
Attese.
I passi di James erano sempre più vicini a lui.
Un affondo.
Ma la lama affondò nel legno della scrivania: Harry era scattato appena in tempo da un lato.
Nemmeno l'uncino era riuscito a prenderlo.
Harry scelse la prima spada che aveva toccato, sguainandola dal barile. Ora poteva affrontare il padre.
Entrambi avevano la stessa posizione di combattimento: busto di profilo al nemico, gambe piegate e divaricate, lama puntata in avanti, e mano libera rivolta in alto, per l'equilibrio.
Stavano duellando.
Lo sguardo di Harry era ancora pieno di terrore per quella sagoma. Ma ora era armato. Tuttavia, non si sentiva ancora al sicuro.
Fu “James” a sferrare il primo colpo. Harry riuscì a pararlo.
Quel colpo semplice sembrava potergli togliergli la spada di mano. Per fortuna, Harry mantenne la presa salda. Non avrebbe avuto la medesima fortuna, al prossimo colpo.
L'ombra non gli dava il tempo di rispondere: Harry riusciva solo a deviare.
Combattevano ed avanzavano. Harry si sentiva sempre più a disagio.
Uscirono sul ponte, senza smettere di combattere.
Non erano più sull'Isola Che Non C'è, ma in alto mare. Nel bel mezzo di una tempesta. La nave continuava ad oscillare.
Harry stava perdendo l'equilibrio, ma resisteva, seppur a stento. E la pioggia era così fitta da impedirgli la visuale sul suo avversario.
“James” approfittava di quei barcolli per colpire il figlio.
Harry riusciva a schivarlo all'ultimo secondo. La lama riusciva solo a tagliare un lembo dei suoi abiti, della giacca o dei pantaloni.
Sentiva le sue forze mancargli ad ogni minuto che passava. Suo padre, invece, sembrava divenire sempre più forte: ogni colpo sulla spada avversaria era sempre più vicino a farla cadere.
La presa di Harry si faceva più debole ad ogni colpo.
Cercò di parare un colpo orizzontale, ma le sue forze lo avevano abbandonato. E continuava a vacillare a causa dei movimenti della nave e della pioggia.
Lo stiletto scivolò via, lontano da lui.
Cadde persino sul ponte, scivolando sul legno ormai viscido.
“James” stava avanzando, lentamente, verso di lui. Con la punta dello stiletto rivolta verso la sua gola.
Harry cercò di indietreggiare, ansimando, sgranando gli occhi azzurri.
L'essere di fronte a lui non era il padre: era la sua ombra. La sua parte oscura.
Con la sagoma dell'uomo che conosceva. Chissà se la sua parte chiara era il giovane sul ritratto, pensò il ragazzo.
La sua schiena toccò l'albero maestro. Almeno non era vicino al bordo. Non avrebbe rischiato di cadere in mare.
I suoi occhi erano fissi su quelli gialli. Ansimava rumorosamente, temendo la sua fine.
L'ombra non si fermava ancora.
Ripensò alle parole di Liam, alla storia che gli aveva raccontato. Lui era l'ultima corda che ancorava il padre alla Luce, seppur sottile.
Tagliandogli la mano, anche se per salvare Peter Pan, ne aveva causato la rottura. E la sua discesa nell'Oscurità.
Se non avesse superato la prova, l'Isola Che Non C'è sarebbe sprofondata nell'Oscurità, come Auradon.
Per evitarlo, doveva ottenere il Keyblade. Ad ogni costo.
Non poteva fallire.
Aprì la bocca, parlando, finalmente, con il cuore.
-Padre, mi dispiace!- esclamò; l'ombra si fermò -Non sapevo nulla della tua vita! Non sapevo nulla di quello che hai dovuto passare per essere quello che sei! Non meritavi di essere abbandonato da tuo padre! E Liam è ancora in colpa per non averti ascoltato, quel giorno! E io...- abbassò la testa per un attimo, per poi rialzarla, piena di lacrime, che si mescolavano con la pioggia -Perdonami... Volevo solo salvare Peter Pan! Non volevo tagliarti la mano! Se solo avessi saputo... non ti avrei abbandonato! Anche se avresti continuato a trattarmi male, io sarei rimasto! Perché sono tuo figlio, la tua famiglia! Io... ti perdono, padre! Perdono tutte le cattiverie che mi hai fatto, perché non hai conosciuto altro che tristezza e solitudine, dalla morte di Liam. Tutto ciò che avrai da me sarà solo compassione.-
La tempesta si stava calmando. Così il cuore di Harry. Quelle parole sembravano averlo alleggerito dall'odio e dal rancore che provava per il padre James.
Tutto grazie a Liam; suo zio, e ora il suo angelo custode.
Harry si toccò il petto, quasi sorridendo.
-Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida...- ripeté, rimembrando le parole di Yen Sid -Ora ho capito...-
L'ombra abbassò lo stiletto, senza smettere di fissare il ragazzo.
L'uncino dalla sua mano destra cadde sul ponte, atterrando vicino ad Harry.
Il suo sguardo era fisso su quell'oggetto. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
L'uncino. Il simbolo dell'abbandono. Il ricordo della mano recisa, per proteggere un amico.
Da un certo punto di vista, era legato a lui. Sentiva, quindi, di doverlo prendere.
E così fece.
-Il mio cuore ha deciso!- rivelò, alzandosi in piedi -Io ti ho perdonato per le cose che hai fatto a me. Ma per quel tritone, per Peter Pan... no, non posso perdonarti. Quando tornerò all'Isola Che Non C'è, ti darò la caccia e ti ucciderò. Non per odio, ma per salvare il mio mondo e la mia vera famiglia!-
Esattamente come aveva profetizzato la voce.
L'uncino si illuminò, sulla sua mano, divenendo una sfera luminosa.
Anche il volto del ragazzo si illuminò.
La sfera prese forma: una spada. Come lama aveva un uncino. L'elsa e l'impugnatura erano parte di un timone. L'asta, invece, sembrava un albero maestro.
Harry osservò l'arma con stupore: il suo Keyblade.
-Per i sette mari...!-
Si pentì di aver rivolto commenti di sufficienza su di esso. Lo ammirò, in ogni angolo.
Era esattamente di suo gusto. Adorava, in particolare, l'uncino come lama.
Osservò in avanti, con un movimento fulmineo: l'ombra era ancora ferma, ma con lo sguardo fisso sul ragazzo.
La tempesta, seppur non fosse furiosa come prima, non era ancora cessata.
E quell'ombra non poteva restare a lungo nel suo cuore.
Strinse la sua nuova arma, e scattò verso di essa.
-Questo è solo l'inizio!- esclamò, sferrando un attacco orizzontale.
L'ombra svanì in una nube oscura, con sguardo quasi sorpreso.
Un colpo solo.
La tempesta era finita: raggi di sole si fecero strada tra le nuvole, lasciando spazio ad un cielo sereno ed azzurro. Il mare smise di far ondeggiare la Jolly Roger.
Harry era stupito: squadrò di nuovo il Keyblade.
-Mi rimangio ogni cosa cattiva che ho detto.- ammise, sorridendo soddisfatto -Quest'arma è fantastica!-
-E tu hai superato la prova. Bravo.-
Liam. Era tornato. E stava camminando verso il nipote, sorridendo con orgoglio.
-Zio Liam...- salutò Harry -Pensavo non saresti più riapparso.-
Liam ridacchiò.
-Era la tua prova, Harry. Io sarei stato solo un ostacolo.-
-Quindi, la tempesta, la forza di mio padre nei suo colpi...-
-Venivano tutti da te. Dal tuo cuore. Ma hai perdonato tuo padre. Questo ha placato la tempesta che avevi nel tuo cuore. Perché, sì, quello che stava provando il tuo cuore era paragonabile ad una tempesta. E l'odio che provavi per tuo padre accresceva la sua Oscurità. Ora sei pronto ad affrontarlo.-
Sì, era esattamente quello che aveva sempre provato. Ma ora, Harry provava un senso di leggerezza, nel suo petto, ed un sorriso sincero sulle sue labbra.
Tuttavia, il suo sorriso si tramutò presto in uno sguardo triste.
-Quindi, adesso devo tornare indietro?- realizzò -Non voglio. Voglio restare ancora un po' con te, zio Liam. Mi piaceva l'idea di avere ancora una famiglia, che tenesse a me, almeno.-
Liam rise di nuovo.
-Ma tu non sei solo. Hai una sorellastra, ricordi?-
Uma. La persona a lui più vicina. Non l'aveva mai data per scontato.
-Sì, giusto.- ammise; mise di nuovo una mano sul proprio petto, osservando di nuovo l'uomo di fronte a lui -Zio Liam... quando quel giorno arriverà, quando Uma ed io affronteremo nostro padre... tu sarai con noi, vero...?-
Liam rivolse al nipote un sorriso rassicurante, lo stesso che era solito rivolgere al fratello minore. E gli toccò la testa, affondando la mano sui suoi capelli.
-Io starò sempre con te, Harry.-
Harry sorrise di nuovo. Non era più solo.
Aveva scoperto che la ragazza che lo aveva salvato anni prima era sua sorella. E suo padre aveva un fratello maggiore.
Zio e nipote si scambiarono un fugace abbraccio, prima che il primo svanisse nell'aria.
La Jolly Roger sobbalzò di nuovo: poi, iniziò ad affondare.
Stava imbarcando acqua: aveva urtato degli scogli.
Harry si guardò intorno, con terrore.
-No, no, no!- esclamò, cercando una via d'uscita.
La nave affondò velocemente. Harry non riusciva a muoversi. Presto le sue caviglie si bagnarono con l'acqua del mare. Poi toccò al resto del suo corpo.
Trattenne il fiato, pensando di star sprofondando nel mare.
Ma respirava.
Aprì gli occhi. Non era nel mare. Era tornato nel buio della Stazione del Risveglio.
Non c'erano piattaforme. Solo una luce che illuminava il ragazzo.
Era distorta, come se fosse visibile da sotto una superficie acquatica.
Poteva muoversi, in quel buio, esattamente come se fosse effettivamente in acqua.
Mantenendo la sua presa al Keyblade, nuotò verso quella luce...
Aveva superato la sua prova.
Aveva perdonato il padre e trovato un obiettivo per ottenere il Keyblade.

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"We're gonna break this down
We're gonna rock the town
Everyone all around
Just be whoever like this
Stronger together like this
We reunited like this"

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Capitolo 20
*** Gil's Story ***


Note dell'autrice: ultimo pirata! Dopo il suo "Tuffo nel Cuore", passiamo all'ultimo trio e poi FINITO!!!
 

Gil's Story

Quando Gaston aveva pianificato il suo matrimonio con Belle, tutto si aspettava meno che essere rifiutato da lei. Letteralmente cacciato fuori di casa e con la testa dentro la pozza dei maiali.

Di fronte all'intero villaggio.

Non si era mai sentito più umiliato di così.

Forse, se non fosse stato per il sostegno del fido LeTont e dei suoi amici, avrebbe passato come minimo una settimana a lamentarsi della stupidità di Belle a rifiutare uno come lui.

Non si era nemmeno dato all'alcool, all'inizio.

Ma con il discorso di incoraggiamento di LeTont, ed il successivo piano di far rapire il padre di Belle, Maurice, con lo scopo di ricattarla, aveva riacquistato fiducia in se stesso e, inoltre, deciso anche lui di bere, per festeggiare al suo futuro matrimonio.

Anzi, avevano deciso di fare una gara a chi beveva più birra. Gaston aveva vinto, di almeno cinque boccali in più del secondo arrivato.

Ma era completamente ubriaco. E non rispondeva più delle sue azioni.

L'ultima volta che i clienti della locanda lo avevano visto, stava entrando nel retro, insieme alle tre gemelle che da tempo gli facevano il filo.

Due ore dopo, LeTont lo aveva trovato che dormiva tra i sacchi di grano. Le tre gemelle erano uscite poco prima, ridacchiando tra di loro.

Al suo risveglio, Gaston non ricordava nulla, se non il piano che aveva architettato per sposare Belle.

Un piano fallito a causa dello Specchio Magico che la Bestia aveva regalato a Belle, ed anche alla Bestia stessa.

Il villaggio aveva pianto la perdita di Gaston per due giorni.

L'angolo della taverna decorato con il suo ritratto ed i suoi trofei di caccia divenne un luogo di contemplazione per tutti coloro che volevano piangerlo e portare dei fiori, non avendo mai ritrovato il cadavere.

Era stata un'idea delle tre gemelle, con l'aiuto di LeTont.

Ma l'umore della taverna sembrò migliorare, quando venne annunciata una lieta notizia: le tre gemelle stavano aspettando i figli di Gaston.

Una parte di Gaston, quindi, sarebbe comunque sopravvissuta.

Tutte e tre volevano dare loro il nome del padre, se fossero nati tutti maschi. Ma avevano trovato un accordo: solo il primo nato avrebbe avuto il nome del padre.

I loro figli nacquero a distanza di un giorno ciascuno.

La prima a partorire fu Claudette. Poi Paulette. E poi Laurette.

Claudette ebbe un maschio, Gaston II. Paulette una femmina, Ginette. L'ultimo nato, un maschio, venne chiamato Gil. Aveva la “G” di “Gaston” e la “L” di “Laurette”.

Gaston II e Ginette avevano i capelli neri e gli occhi azzurri, come il padre. Motivo di orgoglio e venerazione per le madri e per i clienti della taverna.

Solo Gil era biondo, come la madre. Lui, infatti, per la poca somiglianza con il padre, con l'eccezione del mento, non veniva molto considerato. La madre Laurette, infatti, si vergognava di lui.

L'unica persona che lo ricopriva di attenzioni era solo LeTont. Forse perché Gil, a differenza di Gaston II e Ginette, non lo trattava male e con sufficienza come lo trattava il padre. E forse anche perché, da un certo punto di vista, era più simile a lui di quanto non lo fosse con Gaston: un'ombra di una figura a lui superiore.

I cugini avevano, infatti, la stessa arroganza del padre. Ma erano altrettanto stupidi. Compreso Gil.

Ciononostante, veniva sempre coccolato da “zio LeTont”, come lo chiamava.

Gli piaceva sedere sulle sue ginocchia, mentre raccontava le vicende del padre Gaston, spesso indicando il grande quadro ancora presente nella taverna. E Gil lo fissava senza quasi battere le palpebre, ammirato dalla figura ritratta: un uomo fiero, muscoloso, prestante, gagliardo... tutto ciò cui ambiva.

La sua storia preferita era quella in cui suo padre aveva combattuto coraggiosamente contro un orrendo mostro che aveva rapito la donna da lui amata e che minacciava di assalire il villaggio e rapire i bambini per poi mangiarseli; morendo, mentre gli toglieva la vita.

Gil non era contento di aver perduto il padre, ma era contento che fosse morto da eroe, per proteggere il villaggio. Non poteva sapere che, in realtà, era una bugia; e che la realtà, dietro quella storia, fosse stata ben altra...

Anche i suoi due cugini nutrivano una grande ammirazione verso la figura paterna, anche loro influenzati dalle storie di LeTont: spesso, Gaston II tentava di imitarlo, nella posa, con grande supporto ed ammirazione dei clienti. Anche Gil tentava la medesima cosa del cugino; ma le sue erano solo goffe imitazioni. E tutti, compresi i cugini, ridevano di lui. Perché non assomigliava a Gaston.

Questa si rivelò essere l'infanzia ed i primi anni di adolescenza di Gil.

Una continua lotta con il cugino su chi fosse più simile al padre, spinti dai continui confronti con lui.

Gaston II cresceva sempre più forte e stava davvero prendendo i modi ed i lineamenti del padre.

Grazie ad alcuni amici del padre, stava imparando a cacciare, con la speranza di poter divenire in tutto e per tutto come lui. Anche Gil voleva andare, ma non gli permettevano di cacciare; gli era concesso solo mettere gli animali colpiti dai fucili in un sacco, come LeTont faceva con Gaston. E le prede erano varie. Nessuno lo aiutava a portare quel peso. Presto aveva deciso di rinunciare a quel ruolo: piuttosto preferiva rimanere nella taverna a fare il garzone.

Le tre gemelle, negli anni che erano passati, avevano perso la loro grazia e bellezza, diventando grasse e sempre più grinzose, a causa delle birre che bevevano ogni giorno insieme ai clienti; qualità che, invece, stava guadagnando Ginette. I clienti si voltavano spesso per ammirarla: i suoi lunghi capelli corvini erano sempre legati in una treccia e gli occhi, azzurri come quelli del padre, affascinavano al primo sguardo.

Tra le tre gemelle Laurette, la madre di Gil, beveva di più, principalmente per la vergogna.

La prima volta che Gil venne bullizzato dai cugini, cercò conforto tra le braccia della madre. Ma lei aveva schiaffeggiato le braccine del figlio, per poi tornare al suo lavoro. Gil capì di essere solo.

L'unico con cui poteva sfogarsi ed essere se stesso era sempre stato LeTont.

All'età di dodici anni, Gaston II era già muscoloso, e Ginette era già la più bella del villaggio. Entrambi erano popolari nella taverna, ed anche nel villaggio.

Gaston II portava, con l'aiuto degli amici cacciatori, selvaggina fresca da fare al forno, mentre Ginette serviva da bere ai clienti, ogni tanto civettando con loro.

Gil era ormai un servo: puliva i pavimenti, i piatti ed i boccali, spolverava i vecchi trofei da caccia del padre, e anche il suo ritratto.

Ogni giorno lo osservava, pieno di ammirazione ed un pizzico di invidia nei confronti del padre. Sperava, un giorno, di divenire come lui.

In parallelo, cresceva l'odio e l'invidia per Gaston II e Ginette.

Fratelli, poiché figli di uno stesso padre, e cugini, poiché figli di tre donne tra loro sorelle.

Ma Gil non li vedeva in nessuno dei due modi. E tale sentimento era ricambiato, a causa delle influenze delle persone cui si erano circondati, degli adulatori che vedevano e volevano vedere nei figli di Gaston la copia di egli stesso.

Discriminavano Gil solo perché non gli somigliava.

Ma lui si dava da fare, per essere apprezzato nel suo lavoro. Anche se gli avventori facevano cadere per terra, di proposito, avanzi dei loro pasti o boccali, giusto per ridere di quella “patetica copia di Gaston”.

Ed i cugini erano tra i primi.

Gil li osservava, con rabbia, mentre ridevano e scherzavano con i clienti abituali della taverna.

Lui lavorava, e loro si divertivano. La vita aveva sempre sorriso a loro, perché assomigliavano al padre. Gaston II nella forza e Ginette nella bellezza.

Iniziò ad essere stufo di quella situazione.

Protestò, infatti, con la madre.

-Loro non fanno niente tutto il giorno e tutti pendono dalle loro labbra!- aveva esclamato -Io che non faccio altro che pulire, nessuno mi parla! Loro sono di troppo, qui!-

Laurette, presa da un'improvviso stimolo di rabbia, molto probabilmente dovuto all'alcool, gli diede uno schiaffo. La mano enorme della donna quasi circondava tutto il volto del ragazzo.

-Sei tu ad essere di troppo, qui!- gli aveva urlato -Perché?! Perché non assomigli a tuo padre?!-

Gil sapeva che sua madre lo odiava. Ma era pur sempre suo figlio. Un briciolo di amore doveva pur averlo, per lui.

Quello schiaffo e quelle parole gli diedero la conferma del suo timore più grande.

Di essere solo, in quel mondo piccolo.

Per fortuna, LeTont era entrato nella taverna, proprio in quel momento.

Gil corse subito da lui, in lacrime.

-Oh, piccolo Gil, che succede? Cosa sono quei lacrimoni?- gli aveva detto, abbracciandolo.

Le urla di Laurette avevano raggiunto le orecchie di Gaston II e Ginette. Le sue parole fecero loro riflettere, ed escogitare un piano malefico.

L'occasione che attendevano da tempo: liberarsi dell'inutile Gil.

Erano passati due giorni dallo schiaffo di Laurette al proprio figlio. Come al solito, lui stava lavando il pavimento dai frammenti di cibo lasciati cadere di proposito dai clienti. Gaston II era appena rientrato dall'ennesima battuta di caccia, mentre Ginette aveva comprato la terza spazzola in una settimana con i soldi della taverna. O erano andati semplicemente fuori a pavoneggiarsi in mezzo alla gente.

Un vento gelido entrò nella taverna, fino a quando non chiusero la porta. Erano i primi segni dell'inverno. Forse il giorno successivo sarebbe caduta la neve.

-Ehi, sfigato, alzati da quel pavimento!- ordinò Gaston II.

Era da quando erano bambini che entrambi chiamavano Gil “sfigato”. Gil non ci avrebbe mai fatto l'abitudine, ma non aveva la forza per protestare.

Infatti, si rialzò, con le sopracciglia aggrottate.

-Vuoi che la smettiamo di prenderti in giro? Bene, ma tu dovrai dimostrare che non sei un fesso.-

-E come? Potrò finalmente cacciare con te e gli altri?- disse, sognante e speranzoso.

I due cugini si guardarono, prima di ridere.

-No, sfigato. Una prova di coraggio.- chiarì Gaston II -Mentre cacciavo con gli altri, mi hanno mostrato il luogo dove è morto nostro padre. Un bel dirupo.-

-Vogliamo che tu trovi nostro padre!- tagliò corto Ginette, con uno strano sorriso in volto.

Gaston vantava di essere il più furbo. Ma Gil non aveva ereditato questa caratteristica. Era il più ingenuo, tra i tre figli. Per questo accettò la prova.

Impiegarono mezza giornata per raggiungere il castello dove un tempo era abitato dal mostro che aveva ucciso Gaston e terrorizzato il villaggio, secondo le voci che circolavano.

Un ponte separava il bosco da quel castello. Ma non era il castello l'obiettivo dei tre figli di Gaston.

Quando a Gil avevano parlato di un dirupo, non si aspettava fosse così alto.

Impallidì, notando quanto fossero in alto.

-Cos'è, sfigato? Hai paura?- canzonò il cugino.

Era la sua occasione per farsi valere. Doveva solo scendere, per dimostrare di essere un degno figlio di Gaston. E forse persino trovare il padre.

Si sporse di nuovo, deglutendo.

LeTont raccontava che Gaston vantasse una resistenza ed una capacità atletica rara nel suo genere. Ma scavalcare quell'intero pendio avrebbe messo alla prova anche uno stambecco.

Gil fece un piccolo passo in avanti, per avere una visione completa.

Tuttavia, il suo piede scivolò e lui perse l'equilibrio.

Di fronte a lui c'era solo il vuoto. Nessun appiglio dove aggrapparsi.

Precipitò, nello stesso luogo e punto dove era precipitato il padre anni prima.

L'urlo che emise era da oltretomba. Forse perché era il luogo in cui pensava sarebbe andato.

Si avvicinava sempre più al fiume sottostante il pendio.

Atterrò, finendo in acqua.

Perse i sensi, ma non morì.

Il flusso dell'acqua lo trasportò lontano dal villaggio, dal castello, da ogni luogo da lui conosciuto.

Era stato un miracolo, che fosse sopravvissuto ad un'esperienza simile.

Al suo risveglio, sentiva un sapore strano in bocca. Sale. Acqua di mare.

Ma lui era caduto in un fiume.

Si rese conto di non essere più nei pressi del villaggio.

Contava quasi di risvegliarsi nella taverna, circondato dalla madre, per una volta preoccupata per lui, dal suo caro zio LeTont, e dal medico che rassicurava tutti, mentre gli metteva una pezzolina calda sulla fronte, dicendo che si sarebbe ripreso dopo pochi giorni.

Ma era sdraiato su una piccola spiaggia. E non era solo.

C'era un altro ragazzo, semicosciente come lui. Ed una ragazza mezza polpo. La sua salvatrice, da come aveva raccontato. Fu stupito da come si era trasformata in umana, non appena aveva messo piede sulla terraferma.

Si era presentata come Uma.

Aveva visto Gil in acqua, privo di coscienza, quindi aveva allungato un tentacolo verso di lui, traendolo in salvo.

Anche l'altro ragazzo, Harry, era stato salvato da Uma.

A quanto pareva, lei aveva il potere di viaggiare da un mondo ad un altro, restando in acqua.

Il posto in cui erano riemersi si chiamava l'Isola degli Sperduti, un luogo in cui venivano esiliati coloro che avevano seminato il caos nei propri mondi. Una prigione, insomma, sorvegliata da Auradon, un rifugio per coloro che, invece, erano sfuggiti dall'Oscurità.

Gil comprese che non sarebbe mai più tornato nel suo mondo.

Ma almeno non era da solo: Harry ed Uma avevano deciso di rimanere con lui.

Avevano vissuto esperienze simili: tutti e tre, infatti, si erano allontanati dai propri genitori, per sfuggire dalle loro cattiverie. Avevano avuto vite tristi, proprio come Gil.

Questo li aveva uniti.

Uma ed Harry non erano come Gaston II e Ginette: loro non umiliavano Gil o gli facevano scherzi di proposito. Tuttavia, non lo consideravano nemmeno loro pari.

Gil, in fondo, calava di intelligenza ed arguzia; non erano rari i suoi momenti di goffaggine ed ingenuità.

Questo faceva innervosire Uma; quindi, Harry lo metteva in punizione, facendolo sedere in un angolo, con lo sguardo rivolto verso il muro. Una punizione semplice, ma non umiliante, come quelle che subiva nella taverna.

Ma non venne mai abbandonato od allontanato dal gruppo. Questo, per lui, era importante.

Anche quando avevano creato la loro ciurma, Gil era divenuto il braccio sinistro di Uma, non un membro qualunque.

A modo loro, quindi, Harry ed Uma tenevano a lui.

Aveva ritrovato una famiglia. Ed avrebbe fatto qualunque cosa per loro.

Per questo eseguiva ogni loro ordine, senza fiatare, e sosteneva i due amici sempre e comunque, anche se era poco convinto; non aveva niente contro Mal e la sua banda, ma se Uma ne era la rivale, allora lo era anche lui.

Tutto, pur di non essere abbandonato.

E non se l'era nemmeno presa per non essere stato scelto per il programma di integrazione proposta da re Benjamin. Per questo non aveva espresso alcun commento al riguardo.

A lui importava solo stare con Harry ed Uma. E rimpinzarsi di cibo.

Il suo appetito non aveva eguali. Ma non influì sul suo peso.

Anzi, stava mettendo su massa muscolare. Tanto quanto Gaston II.

Da quando era sull'Isola degli Sperduti non pensava più alla sua vecchia vita, a sua madre, le sue zie, i suoi cugini, nemmeno LeTont. Ormai facevano parte del passato.

Ora il suo presente era con Uma ed Harry, per i quali avrebbe fatto qualunque cosa, grato per avergli concesso di far parte del loro mondo e non averlo mai abbandonato.

Infatti, spinto da questo sentimento, non si era fatto scrupoli ad aver avvertito i due amici del ritorno di Mal, Evie, Jay e Carlos nell'Isola degli Sperduti, accompagnati nientemeno che da re Benjamin.

Uma aveva escogitato un piano per scappare dall'Isola degli Sperduti e Benjamin era la chiave per la loro libertà.

Gil non aveva protestato, come al solito.

Ma il piano era fallito. E il loro covo era stato messo a fuoco dalle guardie di Auradon. Di conseguenza, non esistette più una ciurma. Ma Harry, Gil ed Uma non si abbandonarono.

Per fortuna, tornarono in un momento propizio: Audrey era stata corrotta dall'Oscurità e poteva far precipitare Auradon in essa, ed anche l'Isola degli Sperduti. I tre pirati acconsentirono ad aiutare Mal ed i suoi amici, con la promessa di farli vivere ad Auradon.

Gil rimase affascinato da tutto ciò che vedeva in Auradon: gli odori, i colori, il cibo. Quest'ultimo più conservato, curato e decisamente più buono rispetto a ciò che mangiava nell'Isola degli Sperduti o agli avanzi che lasciavano sempre i clienti della taverna dove viveva prima.

Una volta concluso l'affare con Audrey, voleva visitare a fondo quel mondo. Ed anche tutti gli altri.

Anche ai tre pirati venne poi offerta l'opportunità di risiedere ad Auradon e seguire le stesse lezioni di Mal, Evie, Jay e Carlos. Fu lì che Gil venne a conoscenza di altri mondi oltre al suo ed Auradon. Ognuno di loro aveva la sua caratteristica. Questo aveva stimolato la sua curiosità ed il suo desiderio di viaggiare per i mondi.

Inoltre, aveva avuto l'occasione di conoscere e fare amicizia con Benjamin, che presto scoprì essere il figlio della donna amata dal padre.

Il loro punto di riferimento per le loro conversazioni era Gaston: Benjamin raccontava ciò che sua madre Belle raccontava di lui, mentre Gil raccontava la versione di LeTont. La loro storia preferita su Gaston, avevano scoperto, era quando aveva chiesto la mano di Belle e lei lo aveva rifiutato, facendolo cadere nella pozza dei maiali.

Una storia che faceva ridere entrambi.

Si raccontavano le medesime vicende, ma da due punti di vista differenti.

Gil aveva inoltre scoperto che il mostro che aveva ucciso suo padre era nientemeno che il padre di Benjamin, ovvero il principe Adam.

LeTont non glielo aveva mai rivelato. Forse per far apparire suo padre come eroe della vicenda.

Ma la sua ammirazione per il padre Gaston stava svanendo, con le storie di Benjamin; specie quando gli ebbe raccontato come credeva di aver ucciso la Bestia. Non lo aveva affrontato faccia a faccia: lo aveva pugnalato a tradimento, alle spalle. Aveva persino implorato pietà, quando era vicino alla morte.

Gaston non era un eroe: era un vigliacco, che si credeva un gigante perché era circondato da nani.

Esattamente come stavano facendo Gaston II e Ginette con chiunque incontrassero.

-Mi hanno sempre rimproverato di non essere come mio padre...- mormorò Gil, quasi piangendo -Mi sentivo inadeguato, debole... Quando invece era proprio mio padre ad essere un debole!-

Benjamin, per consolarlo, gli aveva messo una mano sulla schiena.

-Gil, tu non sei come tuo padre.- disse -Tu sei meglio di lui. Non hai bisogno di sentirti forte e superiore per avere degli amici. Ti basta essere te stesso.-

Quelle parole sollevarono il figlio di Gaston.

Ma Benjamin voleva dirgli un'altra cosa, una storia che lo avrebbe sconvolto. Per questo era sempre riluttante a rivelarglielo. Non voleva turbare la sua felicità.

Persino Uma ed Harry non avevano mai visto Gil così allegro e spensierato, e persino loro ne furono lieti.

Poi, però, gli Heartless erano comparsi ad Auradon, rubando i cuori degli abitanti.

Gil fu tra i primi a cadere, nel tentativo di proteggere non Uma ed Harry, ma Benjamin.

Sentiva un dolore particolare su tutto il suo corpo: stava svanendo.

Ma sentiva anche le braccia di Benjamin sostenerlo e la sua voce, che gli implorava di vivere. Oltre a quelle di Uma ed Harry. Le loro mani stringevano sulle sue.

Tentativi inutili: Gil svanì fronte ai loro occhi.

Aveva fatto ciò che suo padre non avrebbe mai fatto: sacrificarsi per i suoi amici.

Al suo risveglio, temeva di essere di nuovo da solo. Ma non lo era.

Uma ed Harry erano con lui. Anche Benjamin. E Mal, Evie, Jay, Carlos, oltre ad Audrey, Chad, Lonnie, Jane e Doug.

Erano nel secondo mondo rifugio: la Città di Mezzo. Lì si erano riuniti con la Fata Smemorina.

Erano i soli sopravvissuti di Auradon.

Gil non era felice di aver perduto la sua casa, ma almeno aveva un nuovo mondo da esplorare. Anzi, due, da quando Carlos aveva proposto di andare a Crepuscopoli, per passare una giornata di svago.

La prima cosa cui andò alla ricerca fu il cibo: era esattamente come ad Auradon. Spendeva i soldi che la Fata Smemorina gli dava per le spese giornaliere in cibo.

Aveva persino scoperto che a Crepuscopoli venivano allestite delle Food Challenges, in cui si potevano vincere dei soldi.

Evie aveva aperto una piccola attività di sartoria, e anche gli altri si stavano dedicando a piccoli lavoretti, per mantenersi da vivere.

E Gil guadagnava dei soldi con le Food Challenges. Ma non poteva vivere così a lungo.

 

Alla proposta di Carlos di divenire Custode del Keyblade, Gil aveva riso solo perché Harry ed Uma l'avevano reputata un'idea sciocca, all'inizio. Ma lo stregone riesce ad incentivarli, con le parole giuste. Quello che Gil vuole davvero coincide con il motivo esposto da Carlos: ovvero evitare di perdere un altro mondo come hanno perduto Auradon, il luogo che considerava davvero come “casa”, non il suo mondo d'origine.

E, soprattutto, dimostrare a se stesso di essere meglio e nettamente superiore ai cugini, che non avevano fatto altro che bullizzarlo da quando era bambino; perché lui era se stesso e non la copia del padre Gaston.

Non nasconde la paura per ciò che lo attende nel Tuffo Nel Cuore. Ma se anche Ben, Uma ed Harry decidono di sottoporsi a quella prova, allora lui non deve essere da meno...

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Capitolo 21
*** Gil's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: eeee.... I pirati sono finiti!

 

Gil's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs
 

Gil aprì gli occhi quasi di scatto.

Stava sprofondando nel buio. Lentamente.

Quel luogo era immenso. Era impossibile vederne l'inizio o la fine.

“Non riesco a muovermi...” pensò, guardando in alto con aria spenta.

Sembrava star sprofondando in acqua. C'era una flebile luce in alto, distorta, come se fosse effettivamente in acqua.

Si guardò le mani: un'altra luce ne stava illuminando i dorsi.

Una forza misteriosa lo fece girare verso il basso.

Una piattaforma di vetro. Il colore dominante era il marrone, il suo preferito.

C'era lui, raffigurato con gli occhi chiusi. Con Uma, Harry, e Ben. Anche LeTont. Ma c'erano anche sua madre, Laurette, le sue zie Claudette e Paulette. Ed i suoi cugini Gaston II ed Egaston.

Esattamente come li ricordava.

Atterrò su quella piattaforma dolcemente.

Poteva di nuovo muoversi.

La prima cosa che fece fu osservare quella piattaforma: gli faceva uno strano effetto vedere immagini di se stesso.

-Però, chiunque sia stato a crearla, ha colto ogni particolare del mio volto.- commentò, toccandosi la mandibola, paragonandola al ragazzo raffigurato sotto di sé, sorridendo lievemente.

Un po' di vanità non guastava mai. Glielo aveva insegnato Harry.

-Quindi... ora che devo fare?-

Gil procedeva, guardando in basso, osservando i volti delle altre persone sulla piattaforma.

-Cos'è che aveva detto Yen Sid...? “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida”? No, quella era l'altra cosa. Che prove aveva detto che avremmo dovuto superare? Ma lo avrà detto?-

Solitamente, erano Harry ed Uma a ricordargli i suoi compiti. Senza di loro, era spaesato.

Non eccelleva in furbizia od intelligenza. Ma era una spalla affidabile.

Erano gli altri a dirgli cosa fare. Da solo non era in grado di prendere decisioni importanti.

E quando era in questo stato, era solito mettersi a sedere.

-Che faccio? Devo rimanere fermo?- disse, per tenersi compagnia; si sentiva a disagio; ma soprattutto solo.

Scattò in piedi, dallo spavento: dal nulla era apparsa una persona.

-Harry?!-

Harry.

Da un certo punto di vista, il suo primo amico.

Uma li aveva salvati entrambi da una morte per annegamento. Entrambi le dovevano la vita.

-Bello, che ci fai qui?- domandò, ancora sorpreso, Gil -Non dovresti fare anche tu il Tuffo nel Cuore? O hai già finito?-

La seconda opzione non lo avrebbe sorpreso: Harry era sempre un passo in avanti a Gil. Ma non ne era mai stato invidioso.

Harry non rispose. Lo fissava, senza sbattere le palpebre.

Poi le sue labbra si mossero.

-Di cosa hai più paura?-

-Eh?-

Pensò per un attimo, cercando la risposta. Erano varie le sue paure.

Se fosse stato un ragazzo più sveglio ed intelligente, si sarebbe posto delle domande su quella domanda, specie se era una persona amica ad avergliela pronunciata.

-Beh, sentirmi inadeguato in ogni cosa che faccio.- rispose, infatti.

La risposta era sincera; Harry, infatti, svanì.

-Ehi! Torna qui!-

Era rimasto di nuovo solo.

La piattaforma tremò un attimo dopo.

-Che succede?!-

Il bordo cominciò a frammentarsi. E stava raggiungendo il ragazzo.

-Oh-oh.-

Cadde di nuovo nel vuoto.

Non urlò. Era paralizzato.

Guardò in basso: c'era un'altra piattaforma raffigurante se stesso.

Era identica alla prima.

Atterrò nel medesimo modo in cui era atterrato nel precedente.

-Wow! Che volo!- esultò, con la tipica scarica di adrenalina da scampato pericolo -Voglio fare un altro giro!-

L'euforia cessò dopo un attimo. Doveva tornare alla prova.

Notò un'altra persona, al centro della piattaforma. Un uomo molto basso, dai denti sporgenti e dal naso enorme.

-Z-zio LeTont?!-

Forse l'unica persona del suo mondo d'origine cui sentiva la mancanza. L'unico a non averlo mai preso in giro solo perché non assomigliava al padre Gaston. A differenza dei cugini, della madre e degli altri clienti della taverna, che invece lo discriminavano ed allontanavano, per tale motivo.

Amava come raccontava le storie sul padre, l'enfasi, l'ammirazione che vi metteva, per animarle.

-Cos'è più importante, per te?- domandò.

-Ehm...- di nuovo rifletté, senza domandarsi il motivo di quelle domande; lui procedeva e basta -Beh, mi basta che Uma ed Harry non mi abbiano mai abbandonato, nonostante i miei momenti di goffaggine. Oh, e naturalmente divenire amico in tutto e per tutto con Ben.-

I padri di entrambi amavano la madre di uno di loro. Avevano iniziato una lotta per amore, divenendo rivali.

Ma i figli non dovevano per forza seguire le loro orme e divenire nemici a loro volta.

Ben si stava aprendo con Gil, pian piano rendendolo il suo confidente. Si confidava e sentiva che era più libero di parlare con Gil più dei suoi amici Audrey e Chad. Persino più di Mal.

E Gil amava la compagnia di Ben, forse più di Uma ed Harry, perché non si aspettava nulla da lui, nemmeno gli dava degli ordini. Lo trattava da pari.

Stavano diventando amici. E Gil avrebbe davvero apprezzato poter coltivare quell'amicizia.

Anche LeTont svanì, come aveva fatto Harry.

-Ehi, perché le persone svaniscono? Non è educato!-

Non ottenne alcuna risposta. La piattaforma tremò di nuovo, si frammentò, e lui cadde.

Sotto di lui lo stava attendendo un'altra piattaforma. Ed un'altra persona.

Stavolta una ragazza dai capelli acquamarina.

-Uma?!-

Era ferma, con lo sguardo fisso su di lui, come era successo con Harry e LeTont.

Provava per lei un sentimento che andava oltre l'amicizia. Era in debito con lei. Gli aveva salvato la vita. Da allora non aveva fatto altro che seguirla ed esserle fedele. E supportarla in ogni battaglia che combatteva.

Quello che provava per lei era ammirazione.

Ma non si aspettava di trovarla lì di fronte.

-Anche tu qui?- domandò, quasi ridacchiando, confuso -Tu ed Harry avete già finito la vostra prova? Aspetta, non è che anche tu mi fai una domanda e poi sparisci?-

Quella vera, innanzitutto, avrebbe detto “Esatto, così mi chiamo.”, non appena il ragazzo aveva pronunciato il suo nome.

Ma la ragazza di fronte a lui era rimasta in silenzio.

-Cosa ti aspetti dalla vita?-

Proprio come Gil temeva.

-Ancora domande? Ma basta!- protestò, infatti, quasi sbuffando; ma poi rispose -Poter dimostrare che posso essere meglio dei miei cugini! E anche di mio padre!-

Lo aveva detto con tono determinato, e con il pugno stretto.

L'invidia che provava per i due cugini Gaston II e Ginette era ancora tanta.

Fin da bambino veniva paragonato a loro. Tutto perché non assomigliava al padre.

Loro potevano permettersi di fare tutti gli errori che volevano, ma venivano sempre perdonati, a causa proprio della loro notevole somiglianza con il padre Gaston.

Se era Gil a commettere degli errori, tipo pulire male il pavimento, far cadere un piatto o un boccale, veniva punito con il bastone, spesso dalla madre, e tutti i clienti della taverna gli ridevano dietro.

Pensava che con il suo “esilio” nell'Isola degli Sperduti, quel rancore sarebbe svanito. Ma si era solo affievolito.

Era rimasta solo una scintilla di quei sentimenti negativi.

Ma ancora accesa.

Era immerso nei suoi pensieri.

Poteva cadere di nuovo e non accorgersene. Non si era nemmeno accorto che persino Uma era svanita nell'etere.

Ma era comparso qualcos'altro, di fronte a lui.

Due guanti di ferro, lunghi dall'avambraccio fino a metà falange. Di cui uno provvisto di lame che ricordavano un paio di corna d'alce.

Alzò lo sguardo, finalmente notandole.

Sorrise, allungando una mano.

-Che belli... cosa sono?-

Una voce lo immobilizzò.

Sei a metà del tuo viaggio, Gil. Il viaggio per superare la tua invidia e la tua inadeguatezza verso i tuoi cugini.”

Gil rimase immobile dalla sorpresa per qualche secondo. Mise un dito dentro l'orecchio, come se volesse liberarlo da un eccesso di cerume.

-Ok, sono rimasto qui troppo a lungo. Sto impazzendo.- mormorò, continuando a grattare -Dopo le persone che svaniscono, ora sento persino le voci...-

Non è una tua impressione.” continuò la voce; una voce dolce, rassicurante “L'accettazione di se stessi è una sfida ardua. Ma non temere. Tu non sarai da solo, in questo viaggio. Hai conosciuto delle persone, in questi anni, che ti hanno accettato per quello che sei, non per quello che vorrebbero tu fossi.”

Uma. Harry. E Benjamin.

I primi due, sì, non erano rare le loro imprecazioni per le sue goffaggini, ma almeno non lo avevano allontanato ed abbandonato. Anzi, non lo avrebbero mai ammesso, ma trovavano i suoi modi goffi ed impacciati divertenti e gradevoli. E tenere il morale alto in un gruppo era un compito importante tanto quanto lo era guidarlo e mantenere l'ordine.

E con Benjamin stava instaurando un legame genuino di amicizia, proprio perché lo apprezzava per quello che era.

Queste amicizie erano genuine, non fasulle come quelle tra i cugini ed i clienti della taverna, basate sulla mera somiglianza tra loro ed il padre Gaston.

Grazie ai suoi amici, infatti, Gil aveva iniziato ad avere più fiducia nelle sue capacità.

Sentiva di doversi tenere strette quelle sensazioni.

Si mise la mano sul cuore.

-Come faccio ad andare avanti?- domandò -Mica devo cadere di nuovo?-

Apparve una porta, accanto a lui.

Prosegui. Oltre questa porta ti attende la tua vera prova.”

Una porta. A due ante.

Sembrava una porta come tante altre. Ma senza muri su cui poggiare.

Gil guardò persino dietro.

Era come appariva di fronte.

Ma inarcò comunque gli angoli della bocca verso il basso.

-Beh, entriamo.-

Spinse su una delle ante.

-Ah! Troppa luce! Mi ha accecato!-

Uno spiraglio di luce, infatti, gli aveva colpito un occhio marrone, spingendolo a coprirsi gli occhi con un avambraccio.

Ma la luce sembrava filtrare persino dal suo braccio, da quanto era brillante.

-Ok... al tre mi fiondo dentro. Uno... due... due e mezzo... due e tre quarti...- inspirò e poi espirò, senza rimuovere il braccio dagli occhi -E... TRE!-

Saltò dentro la luce.

Il salto durò un attimo.

La luce tornò normale.

Gil annusò qualcosa nell'aria. Un odore familiare.

E quell'aria fredda e pungente che quasi gli tagliava la pelle...

Aprì gli occhi.

Il cielo era coperto da nuvole grigie.

Notò un castello, tra la nebbia, costruito su un promontorio.

Si voltò indietro: alle sue spalle c'era solo una foresta. Una fitta distesa di alberi.

L'unica cosa che univa la foresta ed il castello era un ponte. Ed uno strapiombo che dava sul fiume.

Gil sentì il suo cuore sobbalzare.

-Ma questo è...!- esclamò, impallidendo -Il mio mondo!- osservò il castello -Quello è il castello di Ben! E qui è dove...-

Si sporse sullo strapiombo.

-Sono caduto... quattro anni fa...-

Un ricordo balenò nella sua mente: lui che precipitava verso il fiume.

La sensazione di vuoto che gli comprimeva lo stomaco. Rabbrividì a quel ricordo.

In cui era così vicino alla morte.

Se Uma non fosse accorsa in suo aiuto, salvandolo dall'annegamento.

Non era ancora giunta la sua ora.

-Ah... se solo fossi stato meno sbadato e curioso...-

Non è stata colpa tua.”

Gil sobbalzò di nuovo. La voce di prima era tornata.

Per poco non cadde di nuovo nel precipizio. Per fortuna, si era tenuto a debita distanza dal bordo, anche quando si era sporto. In quei quattro anni era cresciuto di statura. Non aveva più bisogno di avvicinarsi al bordo per vedere il fiume.

-C-cosa?- disse, incredulo, guardando in alto, cercando il punto da cui la voce potesse essere provenuta -Che vuoi dire?-

Il tuo cuore sa come sono andate veramente le cose, quel giorno. Ascoltalo ed osserva la verità.”

-Ascoltare il mio cuore? Ma come?-

Prima di iniziare la prova, Yen Sid aveva pronunciato una frase ai profughi di Auradon.

-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-

Gil ancora ignorava il suo significato.

E cosa intendeva la voce con “Il tuo cuore sa la verità”?

Lui era scivolato ed era caduto nel precipizio. Cosa c'era da scoprire?

C'era forse altro dietro?

Notò qualcuno avvicinarsi. I suoi passi erano sempre più forti.

Un ragazzino di dodici anni. Lui quattro anni prima.

Gil aprì la bocca dallo stupore. Si aspettò che se stesso lo notasse e si spaventasse.

Ma gli passò attraverso.

Gil guardò in basso, sgomento, toccandosi il torace.

“Sono diventato un fantasma?!” pensò, voltandosi verso se stesso. Era chino in avanti, osservando il fiume sottostante: era il giorno in cui era caduto. Quello stesso giorno, i suoi cugini gli avevano proposto la prova di coraggio, scendere per quello strapiombo per ritrovare il loro padre.

Lui avrebbe fatto di tutto per ottenere il rispetto che avevano Gaston II e Ginette.

Voleva dimostrare al villaggio di essere anche lui il degno figlio di Gaston.

In realtà, aveva paura. Ma voleva comunque provarci.

Gil provò un lieve imbarazzo a rivivere quel ricordo.

Tuttavia, udì altri passi.

Due persone.

La luce rivelò i loro volti: Gaston II e Ginette!

Gil impallidì. Poi si voltò di nuovo di scatto verso se stesso.

I due cugini erano sempre più vicini. E lui non si era accorto di nulla, immerso come era nei suoi pensieri!

Un pensiero balenò nella sua mente. Un'epifania. Intuì cosa sarebbe accaduto.

-No...! No!!!-

A Gaston II era bastato un dito per spingere il piccolo Gil verso il vuoto.

Il Gil reale corse verso il baratro, osservando se stesso cadere.

Poi osservò di nuovo i due cugini, che ridevano, dandosi il cinque, soddisfatti.

-Ci siamo finalmente liberati di lui...- sibilò, infatti, Ginette.

Gil sentì le gambe cedere, il cuore battere forte, ed il respiro mozzarsi.

Non era scivolato. Era stato spinto!

Dai suoi cugini!

Sapeva di non essere amato da loro, che non lo avrebbero mai trattato come loro pari, ma questo... non se lo sarebbe mai aspettato.

Figli di uno stesso padre. Questo doveva renderli fratelli. Ma di madri diverse, tra loro sorelle, e questo li rendeva anche cugini.

Ma per Gaston II e Ginette, Gil non era nessuno dei due. E quel sentimento era ricambiato.

Era caduto sulle sue gambe, con il cuore colmo di tristezza, delusione, rabbia. Era stato pugnalato alle spalle dalla sua famiglia.

Aveva definitivamente capito di essere solo.

Doveva piangere, per sfogare quei sentimenti, ma non ci riusciva.

Strinse solo una mano per terra, raccogliendo un mucchietto di terriccio.

Era palese la rabbia nei suoi occhi. Si poteva persino scorgere un alone giallo, nelle sue iridi marroni.

Ma era subito svanito, come una nuvola di fumo al vento.

-Mi odiavano così tanto...- mormorò, mordendosi il labbro inferiore -Da farmi questo?!-

La terra scivolò dalla sua mano, non appena la sollevò.

Per sfogare la rabbia, batté quella mano per terra.

Poi alzò di nuovo lo sguardo. Non era più nei pressi del ponte del castello.

Era tornato al villaggio.

-Non capisco...- mormorò, alzandosi in piedi, basito -Come ho fatto dalla foresta a finire qui? Senza fare un passo, tra l'altro?!-

Si accorse di essere proprio nella taverna dove lavoravano sua madre e le sue zie.

Un luogo per lui colmo di brutti ricordi. Insulti, umiliazioni, violenze.

Mentre i suoi cugini venivano adulati e riveriti. Perché loro assomigliavano a Gaston. Lui no.

Era stranamente buio. Nessun cliente. Nessuno al banco. Né sua madre Laurette. Tantomeno le sue zie Claudette e Paulette.

E tutta la taverna era stata messa a soqquadro: tavoli rovesciati, sedie spezzate, boccali ovunque.

L'unica fonte di luce proveniva dal camino.

Il lato dedicato a Gaston ed ai suoi trofei di caccia. Un punto che Gil un tempo venerava.

LeTont amava indicare uno degli animali affissi al muro e raccontare la storia di come Gaston lo avesse catturato.

E quel quadro... ancora in buono stato, nonostante la rovina in cui era caduta la taverna. Suo padre, con la spingarda in mano, posa fiera e testa alta, con i lunghi capelli corvini al vento.

Era sempre stato un'ispirazione, per Gil, da quando era bambino. Desiderava essere come il padre, avere il suo fascino, la sua sicurezza. E tanti ammiratori che lo invidiavano per le sue qualità.

E lo desiderava ancora.

-Non farti illusioni.-

-Non sarai mai come lui.-

Due voci. Molto familiari.

Gil impallidì.

Dall'ombra della taverna, infatti, spuntarono due figure, uno praticamente la copia dell'uomo nel ritratto, l'altra una ragazza molto bella, ma dallo sguardo velenoso.

Gaston II e Ginette.

I suoi fratelli. I suoi cugini.

I rei della sua caduta nel vuoto quattro anni prima.

-Voi...- sibilò Gil, serrando le labbra e stringendo i pugni -Voi... volevate uccidermi!-

Entrambi si mostrarono indifferenti alle sue parole. Si permisero persino di fare spallucce.

-E quindi?- fece Gaston II -Il debole deve soccombere. È la legge della natura.-

-Niente di personale, caro Gil...- aggiunse Ginette -Ma i parassiti devono essere eliminati. Tu eri semplicemente di troppo nella nostra sfera.-

Insolenti e prepotenti. Proprio come li ricordava.

-E questo giustifica quello che mi avete fatto?! Solo perché non mi ritenevate utile?!-

-Gil, nessuno ti amava, chiaro?- le parole di Gaston II confermarono quello che Gil sapeva da sempre -Fidati, nessuno ti ha pianto, quando ti abbiamo spinto. Ovviamente, lo abbiamo fatto sembrare un incidente.-

Ginette si mise in una posa drammatica.

-“Oh, il nostro caro Gil è scivolato ed è caduto proprio nello stesso punto dove è morto nostro padre! Non siamo riusciti a salvarlo in tempo! Oh!”-

Essendo una donna, le riusciva sempre bene fare la drammatica. Poi sorrise in modo malefico.

-E tutti hanno alzato i boccali!-

Non mancava a nessuno, nel suo mondo. Non lo sorprese così tanto.

Sperava, almeno, di mancare a LeTont. Ma non lo avevano citato.

Ma abbassò comunque lo sguardo, perché sapeva che tra le persone che avevano festeggiato alla sua dipartita ci sarebbe stata anche la madre Laurette. La sua stessa madre. Che per prima lo disprezzava.

Si rivolse verso il camino, per non dover vedere i volti sorridenti dei due cugini. Ma udiva comunque le loro risate di derisione.

-Andiamo, non te la prendere. In fondo, non assomigli a nostro padre.-

-Era logico che non saresti stato niente. Non è tutta colpa tua.-

Il loro stesso padre. Gaston.

Gil alzò di nuovo lo sguardo, verso il ritratto.

Lo sguardo e la posa fiera.

E Gaston II e Ginette avevano i suoi tratti.

Mentre lui veniva considerato e trattato come una nullità, perché non gli somigliava.

Non era niente.

O così aveva sempre pensato.

Prima della caduta.

Prima di Uma ed Harry. Prima di Benjamin.

-E voi, invece?-

La sua voce era tremante.

I due cugini smisero di ridere. Ma non di sorridere con prepotenza.

-Scusa, Gil, hai detto qualcosa?- domandò Gaston II.

In passato, Gil non avrebbe detto nulla, intimidito da quel tono.

Ma non era più il ragazzo che era un tempo. Era cambiato. Era cresciuto.

Si voltò, osservando i cugini con le labbra serrate.

-E voi, invece?- ripeté, a voce più alta -Davvero credete di essere qualcuno? Di valere qualcosa? Solo perché siete uguali a nostro padre?!- si voltò di nuovo verso il quadro -Da quando ero bambino, non facevo alto che desiderare di divenire come lui, forte, fiero, bellissimo. Ma voi mi avete fatto capire che non sarebbe mai stato possibile! Ma io non avevo mai perso la speranza! Questo quadro... era la mia ragione di vita...- era abbastanza alto da afferrare la cornice; cominciò a tirare -Ma è stata anche la mia rovina!-

Gaston II e Ginette apparvero preoccupati, allarmati.

-Fermo!-

-Che stai facendo?!-

Gil stava staccando il dipinto dal muro. Era pesante, ma riuscì a sostenerlo.

-Ogni giorno speravo di poter assomigliare ad uno stupido dipinto!- proseguì il ragazzo, osservando i due cugini, ancora con il dipinto in mano -Anche io odiavo me stesso, perché non sarei mai stato così! Ma sapete cosa? Non mi importa! Adesso non mi importa più voler essere la copia di qualcun altro!-

Senza indugio, aveva gettato quel dipinto nel fuoco.

Gaston II e Ginette non avevano fatto in tempo a fermarlo.

-NO!-

-Cosa hai fatto?!-

-Quello che avrei dovuto fare tempo fa!- si voltò di nuovo, verso tutti i trofei di caccia; salì sopra il camino, staccandone uno per uno dal muro -Tutti quei giorni in cui venivo paragonato a voi, a nostro padre...! Che mi dicevano che non avrei combinato niente...! Non mi serve essere come nostro padre, per essere qualcuno! Quando mi avete spinto, è iniziata una nuova vita, per me! Ho avuto degli amici, amici che non mi hanno mai abbandonato! Ogni giorno ne combinavo una delle mie, ma non mi hanno mai abbandonato! E, soprattutto, mi apprezzano per quello che sono, non per quello che vorrebbero che fossi!-

Si ricordò delle parole di Yen Sid e la voce.

Il suo cuore gli aveva mostrato la via da seguire. E la voce gli aveva fatto comprendere quanto avere dei veri amici potesse essere più gratificante di essere apprezzati per essere la copia di qualcun altro.

-Fermati, Gil!-

-Sei impazzito?!-

Gil aveva finito i trofei di caccia del padre. Tornò per terra, osservando i due cugini con aria da sfida.

-E non potrei essere più felice di essere me stesso!-

Era esattamente quello che gli stava comunicando il suo cuore. Con quelle parole, Gil si era liberato dei fantasmi del suo passato.

Il dipinto stava ancora bruciando, dentro il camino. Ma stava brillando.

Divenne una luce sferica, che fluttuò nell'aria, posandosi sulla mano del ragazzo.

Quella luce assunse una forma: un Keyblade.

La lama era a forma di corno d'alce.

Gil restò a bocca aperta dallo stupore. Ma poi sorrise, orgoglioso.

I due cugini erano, invece, sgomenti. Ma non per via del Keyblade.

-Sei un mostro!-

-Cosa hai fatto a nostro padre?!-

Corsero, passando oltre lui. Lo stavano ignorando, come avevano sempre fatto in passato.

Erano diretti ai trofei di caccia. Li presero, piangendo, e cercando di rimetterli al loro posto.

-No, papà!-

-Rimetteremo tutto a posto!-

Ma poi osservarono il camino, impallidendo.

Pensarono che il dipinto fosse perduto per sempre.

Toccarono le braci a mani nude, alla ricerca del ritratto.

-Stai tranquillo, papà! Sistemeremo tutto!-

-Sì, conta su di noi!-

Ma il fuoco era ancora acceso: i loro guanti presero fuoco.

Le urla di dolore che emanarono, fecero arretrare Gil.

Il fuoco li stava circondando e le loro urla non facevano che aumentare.

-GUARDA COSA HAI FATTO, SFIGATO!-

-STIAMO BRUCIANDO! STIAMO BRUCIANDO! AIUTO!-

Stavano correndo per la taverna, bruciando come torce. Le assi del pavimento erano di legno.

Il fuoco divampava al loro passaggio.

La taverna stava prendendo fuoco.

Gil ignorò i due cugini, lasciandoli al loro destino.

Comprese, finalmente, che non era nel suo mondo. Era ancora nel Tuffo Nel Cuore.

I veri Gaston II e Ginette stavano ancora festeggiando la sua dipartita e proseguendo la loro vita da cloni del proprio padre. Questo stava pensando.

Uscì, per poi voltarsi. La taverna prese completamente fuoco.

Aveva affrontato il suo passato: quello spettacolo gli diede la conferma.

Osservò il suo Keyblade, ancora con orgoglio. Sorrise, addirittura.

-Ce l'ho fatta. Da solo.-

Si guardò di nuovo intorno.

-Ma ora devo tornare indietro. Come faccio?-

Decise di puntare il Keyblade in avanti.

-Tu che indichi le vie, cosa pensi?-

Qualcosa vibrò nel suo cuore. Sentiva di dover tornare verso il castello.

Non vi fu un salto, come prima. Dovette attraversare l'intera foresta, per tornare al ponte.

Dove la sua prova era iniziata. Dove la sua nuova vita era iniziata.

Guardò di nuovo in basso, verso il fiume.

Cosa sarebbe accaduto, se quel giorno fosse rimasto alla taverna? Avrebbe continuato la sua vita da garzone, umiliato, deriso.

Sorrise, quasi ridacchiando.

Trovò ironico, dover quasi ringraziare Gaston II e Ginette, per averlo spinto.

Quello che loro pensavano fosse la sua fine, si era rivelato, invece, un nuovo inizio.

Una nuova vita. Decisamente migliore di quella che aveva nel suo mondo d'origine.

Non voleva più tornarci. Voleva passare la sua vita con Uma, Harry. E Benjamin. E tutti gli altri.

La sua vera famiglia. Perché lo apprezzavano per quello che era.

-Sarà un azzardo, ma devo provarci.-

Doveva tornare da loro, nello stesso modo in cui aveva acceduto alla sua nuova vita.

Fece qualche passo indietro, per prendere la rincorsa.

-Ok... Tre... due... uno...- non si era fermato ai mezzi -E VIA!-

Corse, saltando dal bordo, aprendo le braccia, e cadendo di nuovo nel vuoto.

Aveva superato la prova.

Aveva superato la sua inadeguatezza ed affrontato la prepotenza dei suoi cugini. Grazie ai suoi amici, perché lo apprezzavano per quello che era.

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"Believing in second chances
And we're all starting today
Marching on in a new land
Our world's a better, a better place"

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Capitolo 22
*** Jane's Story ***


Note dell'autrice: ok, questo mi è venuto lungo per via dei dialoghi.
 

Jane's Story


 

Già dalla sua nascita, Jane era la beniamina di tutti i maghi.

Si erano innamorati di lei al primo sguardo.

Il frutto dell'unione di due maghi potenti, la Fata Smemorina e Mago Merlino.

Una bambina non nata in un utero, ma in una fiala.

Un esperimento condotto dallo stregone Yen Sid, un incantesimo antico di decenni, forse secoli, originariamente per creare protettori. Ma forse era possibile creare anche esseri umani.

Ma erano necessari frammenti di due esseri magici.

Niente andò storto nella creazione di Jane.

La prima bambina ad essere nata ad Auradon.

Un mondo rifugio, insieme alla Città di Mezzo, per le persone che avevano perduto i propri mondi. Fondato da Yen Sid e dai maghi più potenti dei mondi, da un frammento di luce ramingo, separatosi dal mondo di Auropoli durante la Guerra dei Keyblade. Quella luce divenne una bacchetta. La stessa che proteggeva tutto il mondo dall'Oscurità.

Ma per giungere ad Auradon, era necessario oltrepassare portali magici. E i maghi ne avevano rivelato la presenza solo a persone fidate.

Auradon doveva essere un mondo di pura luce. Non potevano entrarvi persone con una grande quantità di Oscurità nei loro cuori.

Il compito di custode e protettrice era stato affidato alla Fata Smemorina.

Doveva mantenere la pace e l'equilibrio. E non solo.

Auradon era stata fondata, inoltre, come sorvegliante di una prigione, l'Isola degli Sperduti, anch'essa fondata da Yen Sid e dai maghi, per rinchiudere coloro che erano stati esiliati dai propri mondi.

Quell'isola era protetta da una barriera magica, lanciata dalle magie combinate di Yen Sid e della Fata Smemorina, per impedire l'accesso degli esiliati ad Auradon.

Ma la chiave per accedere all'isola era comunque la bacchetta formata dalla luce raminga di Auropoli, affidata alla Fata Smemorina.

Ogni tanto venivano inviati dei sorveglianti, nell'Isola, più delle volte per ripristinare l'ordine e sedare risse tra bande.

Non erano rari i disordini all'interno dell'Isola: rapine, risse, tentativi di evasione...

Talvolta era difficile tenere gli abitanti a bada.

Tra gli abitanti, infatti, c'erano esiliati rei di aver provocato zizzania nei propri mondi, o tentato una sommossa, o, semplicemente, la prigione del proprio mondo non era abbastanza. E il peggiore di tutti era Pietro Gambadilegno, inviato all'Isola degli Sperduti dalla Regina Minni stessa, divenendone, di fatto, il re.

Ma non erano tutti rissosi o attaccabrighe. Alcuni se ne stavano nell'ombra, impauriti da quella prigione.

E di quel tipo erano soprattutto bambini. Inviati all'Isola degli Sperduti per capriccio di persone che avevano ceduto all'Oscurità.

Era soprattutto di loro che i sorveglianti inviati da Auradon riportavano alla Fata Smemorina. Costretti, per sopravvivere, a rubare.

Lei non poteva non provare pena, per quei bambini. Avrebbe voluto portarli ad Auradon, e far vivere loro una vita migliore.

Ma non aveva il potere di decidere il loro destino.

Era la protettrice, non la regnante.

Il giorno in cui Auradon era stata fondata, Yen Sid aveva trovato un pezzo di pagina strappata, nel suo studio. Ingiallita dal tempo, ma con le lettere ancora leggibili.

Parlava di Auradon; era quindi destino che quel mondo sarebbe stato fondato.

E non solo: vi era scritto, infatti, che Auradon sarebbe stata governata da due principi e da due principesse, dal cuore pieno di luce.

In quel periodo, infatti, si diceva che Belle, Cenerentola, Aurora e Biancaneve avessero dato alla luce dei figli. Due maschi e due femmine. Figli di Principesse della Luce; quindi anche i loro cuori sarebbero stati di pura luce.

Dovevano essere dunque loro i futuri sovrani di Auradon.

La Fata Smemorina doveva proteggerli, guidarli, prepararli al loro compito di Principi e Principesse della Luce.

Inoltre, doveva istruire anche la figlia Jane, come prossima protettrice e custode di Auradon.

Doveva divenire consigliera dei regnanti. E proteggerli dall'Oscurità.

Il fato di Jane era già dunque scritto. In realtà, lo era dalla nascita: il simbolo che portava sulla pelle della schiena lo testimoniava. Un cuore con le ali.

Jane era una Dream Eater. Una Dream Eater con fattezze umane.

Per natura, era una protettrice.

Aveva pochi mesi, quando un altro bimbo era giunto ad Auradon, attraverso un portale magico.

Era in un cestino, avvolto in una copertina di lana: su di essa c'era scritto “Doug”.

Ma il cestino era troppo grande per un bambino solo. E la Fata Smemorina non aveva percepito alcuna Luce assoluta in lui. Non era uno dei figli delle Principesse della Luce.

Era il figlio di Cucciolo, uno dei Sette Nani. Quindi, con lui, doveva esserci la figlia di Biancaneve. Ma, a quanto pare, era scomparsa durante la traversata.

Ma anche se non era discendente delle Principesse di Luce, la Fata Smemorina non volle abbandonarlo.

Decise di crescerlo, insieme alla figlia Jane.

Doug, quindi, divenne il primo amico di Jane.

Col passare degli anni, altri mondi svanirono: ma alcuni abitanti riuscivano a trovare in tempo i portali che li avrebbe condotti ad Auradon.

Tra di essi vi furono Chad, figlio di Cenerentola, ed Audrey, figlia di Aurora.

Due dei futuri sovrani di Auradon.

Se Jane doveva proteggerli, doveva iniziare da subito, si diceva, tra sé e sé.

Ed iniziò da Chad: aveva assistito in prima persona alla distruzione del suo mondo. Era stato un colpo troppo forte per lui. E lo aveva portato al mutismo ed all'apatia.

Aveva iniziato con qualche parola affettuosa e dolce, per cercare di consolarlo e farlo sentire a suo agio, poi gli aveva portato dei giocattoli, iniziando un pochino a giocarci lei stessa, attendendo che anche lui allungasse una mano per prenderne uno e giocare con lei.

Ma Chad restava fermo, a guardare il vuoto, senza parlare o sorridere.

Un tempo sua madre aveva aiutato la madre di Chad: ma un vestito strappato con il conseguente attimo di sconforto, come se improvvisamente il mondo ti stesse crollando intorno, non era niente rispetto all'esperienza vissuta dal bambino.

Jane era uscita dalla stanza, scoraggiata, lasciando comunque i giochi nella stanza di Chad. Forse voleva restare da solo, o preferiva giocare da solo.

Ma Jane si sentiva comunque un fallimento, per non essere riuscita a sollevare il suo umore.

Doug l'aveva abbracciata, per consolarla. E anche sua madre fece la stessa cosa.

-Dagli tempo.- aveva detto affettuosamente alla figlia -È ancora scosso. Vedrai che presto giocherete insieme.-

Anche Doug iniziò a far visita a Chad, per dare più forza a Jane.

Dopo una settimana, Chad ancora non parlava, non si muoveva, e nemmeno mangiava.

Successivamente, arrivò Audrey, la figlia di Aurora.

Lì, qualcosa era cambiato in Chad. Quando i due principi si incontrarono, Chad aveva alzato lo sguardo, per vedere la nuova arrivata. La sua espressione era ancora priva di emozioni, ma almeno aveva reagito.

Secondo la Fata Smemorina, era dovuto alla Luce nel cuore di Audrey: interagendo con un altro cuore pieno di Luce quale era quello di Chad, aveva causato una piccola vibrazione, che lo aveva fatto reagire.

Per questo, Audrey doveva stare insieme a Chad il più a lungo possibile.

Un'altra Luce avrebbe ricostruito un cuore spezzato.

Infatti, Chad aveva ripreso gradualmente a parlare.

Jane era sempre più scoraggiata: sperava di poter aiutare lei il figlio di Cenerentola, per dimostrare alla madre ed anche a se stessa di avere la stoffa di prossima protettrice di Auradon.

Fin dal suo arrivo, Jane nutrì invidia nei confronti di Audrey: lei era bella, perfetta ed era essenziale per la riabilitazione di Chad, più di lei. Ogni bambina che veniva ad Auradon, per Jane erano tutte più belle di lei. Erano nobili, eleganti, bellissime, e venivano tutte apprezzate per questo. In confronto a tutte loro, Jane si sentiva un mostro ed inadeguata.

Per fortuna, Doug era lì per sostenerla.

E con il successivo arrivo di Benjamin, figlio di Belle, la situazione di Chad migliorò, anche se di poco: aveva ripreso a parlare, a mangiare, ad uscire dalla stanza. Ma ancora non riusciva ad esprimere le emozioni, ed i suoi problemi di apprendimento non si affievolivano.

Ma Jane non si era data per vinta: era sempre disponibile per aiutare Chad in ogni situazione. Soprattutto con i compiti di scuola, ciò in cui lui ancora scarseggiava.

Una volta adolescenti, sia lei che Doug erano divenuti gli aiutanti della Fata Smemorina: organizzavano eventi, decidendo loro stessi le decorazioni, cosa portare ai buffet, e coordinavano le varie attività all'interno della scuola, la Auradon Prep.

Nessuno dei due obiettò alla decisione di Benjamin di permettere ad alcuni abitanti dell'Isola degli Sperduti di vivere ad Auradon, specie ai bambini. Era da sempre l'idea della Fata Smemorina, ma doveva essere uno dei regnanti a proporlo, non lei.

Jane e Doug furono incaricati di fare da coordinatori per i quattro ragazzi scelti dal futuro re.

Erano due ragazzi e due ragazze: Jay, Carlos, Evie e Mal.

Le due ragazze erano molto belle, come Audrey. La sensazione di inadeguatezza di Jane peggiorava.

Avrebbe tanto voluto essere bella come loro. Ma sua madre la intimava di concentrarsi più sulla bellezza interiore, che quella esteriore, perché era lì che c'era la vera bellezza, diceva.

“Ma questo non lo hai detto a Cenerentola, ma l'hai aiutata comunque e non è nemmeno tua figlia...!” pensava sempre, sempre più invidiosa.

Anche lei voleva provare la sensazione di essere bella, apprezzata dai ragazzi per come portava i capelli, i vestiti, tutto.

L'occasione arrivò proprio con Mal, una degli abitanti dell'Isola degli Sperduti, con una proposta allettante: avrebbe donato a Jane l'aspetto che desiderava, in cambio della bacchetta della madre. Non poteva immaginare che la stesse, in realtà, usando per poter adempiere al piano della madre Malefica di invadere Auradon e farla sprofondare nell'Oscurità.

La sua vanità l'aveva resa cieca e privata del suo giudizio.

Ma la bacchetta era custodita in una campana di vetro, che si apriva solo con le impronte digitali della Fata Smemorina, non con i suoi discendenti.

L'occasione era arrivata al momento dell'incoronazione dei tre sovrani di Auradon: la Fata Smemorina li avrebbe benedetti con la sua magia.

Jane aveva approfittato di quell'attimo, per togliere la bacchetta dalle mani della madre.

-FAMMI DIVENTARE BELLA O LO FARÒ DA SOLA!- aveva urlato.

La bacchetta era impazzita alle sue mani: aveva riconosciuto l'ombra di Oscurità nel suo cuore. Dovuto alla sua vanità, ai suoi dubbi, alla sua inadeguatezza.

Sentimenti che non avevano fatto altro che crescere ogni volta che accompagnava sua madre alle riunioni dei maghi: parlavano tutti dei loro progressi nei propri mondi. E Jane ancora niente. Suo padre Merlino cercava sempre di sollevarle il morale, con qualche magia o facendo innervosire Anacleto di proposito per farla ridere. Funzionavano, per un attimo, ma poi le risate finivano.

Anche Doug l'aveva abbandonata, per non parlare di Chad: entrambi stavano correndo dietro ad Evie. Doug si era invaghito di lei e Chad la sfruttava per farle svolgere i suoi compiti.

Non si sentiva bella, non si sentiva adatta al suo compito di futura protettrice di Auradon e tutti l'avevano abbandonata.

Era niente. Si sentiva niente.

E quando una persona non ha niente, è disposta a compiere persino l'impossibile.

Non aveva paura del prezzo che avrebbe pagato con la magia.

Ma non voleva certo attirare Malefica ad Auradon. In compagnia di Pietro Gambadilegno, ex-capo dell'Isola degli Sperduti. Risultava scomparso da tempo. Malefica lo aveva liberato dal suo esilio, a quanto pare. Lui e non la figlia Mal.

Il suo intento era rubare la bacchetta magica. Tuttavia, con grande stupore dei presenti, Mal si era messa contro la sua stessa madre, per proteggere Auradon.

La bacchetta della Fata Smemorina non era abbastanza potente per combattere contro Malefica.

A cacciare via lei e Gambadilegno, infatti, furono i tre sovrani, sfruttando la Luce nei loro cuori. Con l'aiuto dei quattro abitanti dell'Isola degli Sperduti.

Jane non venne condannata alla prigione, per la sua condotta. Ma per sei mesi venne privata del suo ruolo di coordinatrice.

Ragionevole, pensò lei, con un sospiro.

Ed era di nuovo da sola.

Rimuginava spesso sulla sua vanità, seduta all'ombra di un albero del cortile della Auradon Prep. Non erano rari i momenti in cui si colpevolizzava per l'arrivo di Malefica ad Auradon.

Più che mai, si sentiva inutile ed inadeguata.

Sua madre si vergognava di lei, e tutti la evitavano, più di quanto evitassero i quattro abitanti dell'Isola degli Sperduti nei loro primi giorni ad Auradon.

E sapeva che anche suo padre Merlino era rimasto deluso dal suo comportamento.

Aveva deluso tutti. Aveva deluso se stessa.

Stava tornando sotto quell'albero, mentre era immersa in questi pensieri.

Ma c'era già qualcun altro sotto. Intravide una manica che era una parte di un cappotto nero.

-C'è qualcuno?- domandò, sporgendosi.

Quella manica si spostò, nascondendosi dietro il tronco. Prima, Jane aveva notato un cappuccio nero sporgersi lievemente, prima di nascondersi completamente.

-Ehi, non avere paura. Non ti mangio mica.- cercò di consolare la futura fata, avvicinandosi sorridendo cortesemente.

C'era una figura rannicchiata all'ombra dell'albero, quasi chiusa a riccio, come se si stesse nascondendo da qualcosa.

Quel cappotto nero era molto familiare. Ne aveva già sentito parlare in passato, durante gli ultimi consigli dei maghi.

Ciò allarmò Jane.

Ma la persona che aveva di fronte aveva qualcosa che non andava. E doveva aiutarla.

-Stai bene...?- disse, allungando una mano verso di essa -Vuoi che chiami qualcuno?-

La figura scattò di lato, facendosi scudo con la mano.

-No! Ti prego! Non devono trovarmi!-

Era una ragazza, a giudicare dal tono della voce.

Jane arretrò, sorpresa da quella reazione.

-Scusa...- si scusò, con un filo di voce -Ma... posso fare qualcosa per aiutarti...?-

La figura si mise in posizione eretta, restando seduta. Sembrava più rilassata, ma nella sua postura, nel suo tono di voce, c'era ancora tensione.

-Sì. Ti prego, nascondimi. Ho letto che questo è un mondo-rifugio. Qui non mi troveranno.-

-Chi?-

-L'OrganizzazioneXIII.-

L'OrganizzazioneXIII. Ecco cosa le ricordava quel cappotto nero.

Secondo Yen Sid, erano persone pericolose, che seminavano il caos nei mondi. E indossavano tutti un cappotto nero, per potersi muovere liberamente nell'Oscurità senza esserne divorati.

Jane scattò in piedi, allarmata.

-Sei una dell'Organizzazione?!- esclamò, impallidendo -Come sei giunta ad Auradon?! Non dovreste nemmeno entrare qui!-

La figura alzò le mani in segno di resa. Jane intravide un paio di occhi blu dall'ombra del cappuccio.

-Tranquilla, non ho cattive intenzioni.- chiarì, con voce calma -Mi serve solo un posto per nascondermi. Posso anche nascondermi in una cantina. Non disturberò nessuno e non attirerò guai.-

Era impossibile vedere il volto della ragazza. Jane scorgeva solo la parte inferiore del volto.

Guardando più accuratamente, però, riuscì a notare anche dei grandi occhi blu.

Ma perché una custode del Keyblade era entrata in un gruppo come l'OrganizzazioneXIII? Questo pensò Jane, osservando la sua interlocutrice ancora con aria sospetta.

-Perché l'OrganizzazioneXIII ti sta cercando?-

Delle spiegazioni erano d'obbligo, per chiedere asilo.

La ragazza si rilassò un poco.

-Ecco... da dove comincio...? Io, beh... lo non sono proprio una persona...-

-Lo so già che l'Organizzazione è formata da Nessuno.-

-No, non in quel senso! Io, ecco... non sono nemmeno una Nessuno...-

Jane era sempre più confusa. Per fortuna, la ragazza le raccontò dettagliatamente la sua storia.

Di come era sempre stata convinta di essere una Nessuno, fino alla sua “visita” in un posto chiamato “Castello dell'Oblio”.

Lì aveva scoperto la sua vera identità: un essere artificiale, una Replica creata da uno scienziato.

Jane era ancora incredula, ma le sue parole sembravano sincere.

Tra le altre cose, infatti, le aveva rivelato di essere una Custode del Keyblade.

E proprio per quel motivo era maggiormente sfruttata dall'OrganizzazioneXIII.

Lo aveva persino evocato, per provarglielo.

Stava rivelando delle informazioni segrete.

Era una prova certa che l'Organizzazione non era intenzionata a conquistare o invadere Auradon.

Jane iniziò a fidarsi di quella ragazza.

-Voglio crederti.- disse -È per questo, quindi, che sei scappata?-

-Esatto. Ho solo bisogno di un posto in cui nascondermi.-

-Ti aiuterò volentieri.-

Forse quella ragazza sarebbe stata la sua opportunità di riscatto dall'errore dell'incoronazione: aiutare una persona per cancellare il suo gesto egoistico spinto dalla vanità.

-Prima, però dobbiamo parlare con mia madre. Le spiegherai la situazione. Vedrai che ti permetterà di stare qui. Non mi sembri minacciosa, tantomeno non sembri intenzionata a distruggere Auradon. A differenza di me...-

-Perché? Cosa hai fatto?-

-Per colpa di un desiderio stupido, ho rischiato di distruggere Auradon e ora ne pago le conseguenze. Forse voglio riparare il danno che ho fatto facendo una buona azione.-

-Racconta.-

Era da una settimana che Jane era rimasta sola, senza parlare con qualcuno. Nessuno voleva parlare con la ragazza che aveva attirato Malefica ad Auradon. Veniva fissata, allontanata, ignorata.

Sentiva il dovere di sfogarsi con qualcuno. Anche uno sconosciuto. Anzi, meglio che fosse stato uno sconosciuto.

La ragazza incappucciata ascoltò con interesse la storia di Jane. Storse la bocca, mentre pensava ad una risposta.

-Non volevo portare Malefica qui, è stato un incidente!- concluse Jane, quasi in lacrime -Ripensandoci, ho fatto davvero una cosa stupida. E sì, mi merito questa punizione! Tanto cosa potrebbe capitarmi di peggio?- si abbracciò le ginocchia -Ora sì che non merito di divenire protettrice di Auradon...-

La figura sospirò. Non sapeva cosa rispondere, per farla sentire meglio. Non sapeva se essere diretta o cercare di consolarla.

-Già il fatto che hai riconosciuto il tuo errore è segno di maturità e giudizio, e questo te lo ammiro.- iniziò -Hai mai ripensato al tuo errore non come un qualcosa su cui piangersi addosso, ma come lezione che ti fa dire “Ne è valsa davvero la pena?”?-

Vedere un errore dal punto di vista oggettivo. Valutare cosa abbia portato a cedere alla vanità e lasciarsi corrompere dalla proposta di Mal e poi chiedersi se davvero fosse valsa la pena quello che ha causato.

Jane non lo aveva mai constatato.

-No... Non ci avevo mai pensato.-

-E non hai nessuno con cui confidarti? Un amico? Un familiare?-

-Mi hanno abbandonato tutti per quello che ho fatto. Sei la prima persona con cui parlo da una settimana.-

La figura si distese un poco, appoggiando i gomiti sull'erba.

-Sai, io ti capisco. Anche io mi sento inadeguata per il mio compito.- rivelò, con voce rilassata -Mi fanno sentire inutile, incapace, un ripiego. Ma, sai, ci sono due persone, tra i miei colleghi, a non trattarmi da oggetto. Sono tutti e due premurosi con me e mi difendono dagli altri colleghi. Alla fine di ogni missione mi portavano a mangiare un gelato. Siamo diventati quello che si chiama “amici”.-

Le parlò più dettagliatamente di questi due colleghi: Axel e Roxas, anche lui un Custode del Keyblade.

Jane sorrise lievemente. Ma stava provando un po' di invidia, nei confronti di quella ragazza.

-Almeno tu non sei sola. Hai qualcuno che ti guarda le spalle. Io proprio non ho nessuno.-

-Non è vero.- le fece notare la ragazza -Se vuoi, posso essere tua amica.-

Pur essendo figlia della protettrice di Auradon, Jane non era popolare. E ormai Doug seguiva Evie ovunque andasse. E Chad, ormai, era re, e passava molto tempo con Benjamin ed Audrey.

Nessuno, ormai, si avvicinava a lei.

Ma quella sconosciuta, però, nella sua sincerità, le stava offrendo supporto.

Come minimo, doveva mostrarle gratitudine.

-Ascolta, ti ho detto che puoi restare...- le rivelò, seria, ma serena -Ma devi stare bene attenta a non rivelare la tua identità. Auradon è un mondo rifugio, quindi far sapere della presenza di un membro dell'OrganizzazioneXIII potrebbe mettere tutti in allarme. Quindi è opportuno farti cambiare identità. E, ovviamente, costruirti una storia. Sai, è capitato spesso che delle persone compromettenti si siano introdotte nei portali speciali. Ma per fortuna vengono sempre scoperti, e, di conseguenza, inviati all'Isola degli Sperduti.-

-E se venissi scoperta? E se scoprissero che sono un membro dell'OrganizzazioneXIII?-

-Starò al tuo fianco tutto il tempo. Vedrai, in mia compagnia, nessuno ti darà fastidio.-

Da dietro il cappuccio, la ragazza sorrise, quasi commossa.

-Grazie, grazie tantissime.- rispose, entusiasta, prendendo le mani di Jane -Troverò il modo per ricambiare, promesso.-

Jane sorrise. Si sentiva già sollevata, nella sua opera di bene.

-Posso sapere, almeno, il tuo nome?-

La ragazza si tolse il cappuccio, scoprendo la testa. E con essa dei brillanti capelli neri, corti.

Stava sorridendo.

-Xion.-

Aveva un volto familiare.

-Io Jane.-

Per prima cosa, dovevano sbarazzarsi del cappotto nero di Xion: se si fosse presentata di fronte alla Fata Smemorina con esso addosso, l'avrebbe inviata senza indugi nelle carceri di Auradon.

Xion non aveva la stessa taglia di Jane. Dovevano cercare altri abiti senza destare sospetti.

Per fortuna, Jane sapeva dove trovarli: alcuni degli abitanti, infatti, mettevano via dei loro vecchi abiti, per donarli ai bambini ed ai ragazzi dell'Isola degli Sperduti.

Jane si era diretta al furgone dove gli abiti venivano depositati, facendo finta di depositare alcuni dei suoi.

Tra quegli abiti dimessi, riuscì a trovarne alcuni della taglia di Xion.

Il cappotto nero venne nascosto nell'armadio di Jane, in un cassetto, sepolto dalle sue gonne.

Nessuno l'avrebbe trovato.

Poi toccò al nome: “Xion” era troppo sospetto per un'abitante di Auradon.

Jane pensò a vari nomi, nel poco tempo che aveva a disposizione; poi, finalmente, ne scelse uno adatto: Jeanne.

Persino all'interessata piaceva.

Il nome c'era, i vestiti pure, mancava la storia con cui presentarsi alla Fata Smemorina.

Jeanne proveniva dal “Paradiso dei Burloni”, ed era tra i bambini tratti in salvo dalla Fata Azzurra.

Questo riuscirono a stillare, nel poco tempo che rimaneva.

Tuttavia, la magia della Fata Smemorina e la testimonianza della Fata Azzurra smascherarono la vera identità di “Jeanne”.

E, per fortuna, Jane aveva insistito per rimanere durante l'accettazione.

-Aspetta, mamma! Posso spiegarti io!- supplicò -Ha disertato dall'OrganizzazioneXIII! Non è pericolosa!-

-Ah, sì?- aveva ribattuto la Fata Smemorina, seria -E come fai a dirlo?-

-È una Custode del Keyblade!- rivelò, senza indugi -È legata a Sora!-

Xion non si era fatta scrupoli a rivelare a Jane ciò che aveva scoperto nel Castello dell'Oblio, sulle sue origini, ovvero di essere solo un pupazzo creato dai ricordi di Sora su Kairi. Questo spiegava la sua somiglianza con la principessa Kairi.

E la Fata Smemorina fu sorpresa da tale rivelazione, come lo fu del Keyblade di Xion.

-Xemnas dice di voler completare Kingdom Hearts per farci tornare umani.- spiegò la ragazza -Ma c'è molto altro dietro...-

Ciò che rivelò in seguito fece riflettere la Fata Smemorina.

-Se quello che dici è vero, allora siamo tutti in pericolo.- commentò, mordendosi entrambe le labbra ed aver espirato dal naso -Avvertirò il consiglio dei maghi per eventuali precauzioni. Ti ringrazio per aver condiviso queste informazioni, Xion. Ti sei guadagnata la cittadinanza ad Auradon.-

Le due ragazze sorrisero, tirando un sospiro di sollievo.

-Ma dovrai comunque farti chiamare Jeanne. Verrai chiamata Xion solo in presenza di noi due. Non facciamo allarmare Auradon. Sono ancora tutti abbastanza sconvolti dall'incursione di Malefica. E non voglio spaventarli rivelando la presenza di un membro dell'OrganizzazioneXIII.-

-Nessuno avrà il tempo di farle domande, mamma.- chiarì Jane -Mi aiuterà con l'organizzazione del cotillon. Sì, diverrà la mia assistente! Se a te va bene, ovviamente, mamma...-

-Tanto meglio. C'è tanto lavoro da fare. E il tempo stringe! Al lavoro, dunque!-

Il piano di Jane non era andato come programmato, ma almeno Xion non era stata inviata al carcere reale.

Come promesso, non fecero parola della sua presenza con nessuno, né ai re Benjamin, Chad o Audrey.

Non esisteva Xion, ma Jeanne. E tutti si erano bevuti la storia creata da Jane su di lei.

Nessuno fece ulteriori domande sulla nuova arrivata.

Era in costante compagnia di Jane. Nessuno avrebbe fatto caso a lei.

Passarono sei mesi da quel giorno.

Non era da molto che Jane aveva riottenuto il suo ruolo di assistente di sua madre e di coordinatrice di eventi.

Dal primo istante, infatti, Ben l'aveva incaricata di organizzare il cotillon. E Xion divenne la sua assistente.

Se per Mal la vita da fidanzata di Benjamin era stressante, la vita da organizzatrice di Jane lo era di più. Ma non si tirava mai indietro. Forse perché c'era Xion al suo fianco. Con lei si sentiva sicura.

Era determinata a rimediare ai suoi errori. Mai più sarebbe caduta nella frivolezza e nella vanità.

E la Fata Smemorina non errava: c'era ancora tanto lavoro da fare per il cotillon. Xion stava scappando dall'Organizzazione, ma il suo arrivo ad Auradon si era rivelato provvidenziale per Jane.

Era divenuta una valida assistente.

Insieme decidevano, commentavano sui decori, fiori, musica, buffet, persino sul regalo che Benjamin aveva in serbo per Mal. Persino Xion si sciolse di commozione non appena lo vide: una vetrata che raffigurante lui e Mal.

La vita stava tornando alla normalità.

E Doug e Chad erano tornati nella sua vita. Stava persino legando con Mal ed Evie, specialmente con Evie. E aveva scoperto definitivamente che non erano malvagie come le loro madri.

Scambiava qualche parola anche con Jay e Carlos, e nemmeno con loro si sentiva a disagio.

Tuttavia, notava qualcosa di strano in Carlos: sorrideva, ogni volta che la guardava, e balbettava.

“Forse fa così con tutti.” continuava a pensare Jane “Forse ancora non si è integrato bene.”

Ma nel suo cuore conosceva la risposta; ma era complicato, per lei, crederci. Non era bella come Audrey o Evie, ed aveva tentato, seppur contro la sua volontà, di distruggere Auradon.

Non comprese come un ragazzo potesse provare infatuazione nei suoi confronti.

 

Per distogliere la sua mente da quei pensieri, Jane si concentrò sul lavoro; ma Xion avvertiva sempre una strana sensazione, quando si trovavano, da sole, in una stanza, come se qualcuno le stesse seguendo.

Ogni tanto si voltava, notando Carlos. E lui, non appena si accorgeva di essere scoperto, scattava verso il posto più vicino dove nascondersi.

Ed era presente anche lei all'allenamento del gruppo di scherma.

Ascoltò la breve conversazione tra Jane e Carlos, e non riuscì a trattenere una risata.

-Ehi, Jane, secondo me tu gli piaci.- aveva detto a Jane, non appena erano tornate ai loro doveri di decoratrici.

Lei si fece rossa.

-Cosa? Io?- rise, imbarazzata -Andiamo, Xion!- erano sole -Mi hai vista?-

-Non sei brutta. Anzi, devo dire che i capelli lunghi ti donano.- Jane aveva sempre portato i capelli corti; ma dall'incantesimo di Mal, aveva deciso di farseli crescere, nonostante le prime proteste della madre; ma poi si era convinta, dandole, poi, il permesso -Sei dolce, hai la testa sulle spalle e non sei frivola o perfettina come le altre ragazze che ho visto qui.- fece uno sguardo disgustato -Cielo, ma chi si credono di essere? Si mettono tutte in mostra solo perché hanno degli abiti più costosi? Ma di quando in quando conta per avere un ragazzo?-

-Anche mia madre me lo diceva sempre. Ma io non le ho mai dato ascolto. Ero così cieca di invidia per le altre ragazze che ho attirato Malefica qui.-

-Ma ti sei pentita e stai facendo un ottimo lavoro per il cotillon. E questo è ammirevole, da parte tua. Se Carlos non apprezza queste tue qualità e finisce per preferire una di quelle perfettine, gli darò un bel colpo di Keyblade sulla zucca!-

Jane rise.

-No, poverino!-

Con Xion, le giornate passavano serenamente. Era contenta di avere una persona amica ad aiutarla con il cotillon.

Ormai regina, Audrey non poteva più aiutare Jane in eventi simili. Ogni tanto supervisionava il lavoro del comitato, indicando i punti da migliorare. Anche Benjamin e Chad si univano a lei.

Tuttavia, per giorni, Benjamin non si era più presentato. Con Evie, Jay e Carlos. E anche Lonnie.

Più tardi, le due ragazze, Audrey, Doug, Chad e la Fata Smemorina vennero ragguagliati sugli eventi avvenuti all'Isola degli Sperduti.

Nonostante la disavventura nell'Isola degli Sperduti, Ben decise ugualmente di proseguire con il cotillon.

Si sarebbe svolto su una barca. Le decorazioni erano state scelte dai due principi stessi.

Ed erano tutti bellissimi, nei loro abiti, tutti realizzati da Evie.

Il primo ballo, di consuetudine, spettava a Re Benjamin con la propria fidanzata. Ma, con grande stupore dei presenti, non fu Mal, ma Uma, la figlia di Ursula, la Strega del Mare.

Jane e Xion si erano scambiate uno sguardo di intesa, per sistemare il fraintendimento.

Proposero ad uno dei valletti di scoprire il regalo di Benjamin per la sua vera fidanzata, ovvero Mal.

La vetrata aveva stupito tutti.

Era bellissima.

Ma Ben la stava osservando con aria vuota, come se non ne avesse avuto memoria.

Eppure era stato lui stesso a sceglierla.

Lì venne scoperto che era stato incantato da Uma con un incantesimo d'amore. Maleficio spezzato dal bacio di Mal.

Ciò aveva provocato ira in Uma, che si era gettata in mare, trasformandosi in kraken.

Xion era tentata di rompere la sua copertura, evocando il Keyblade, per proteggere tutti da Uma. La mano di Jane sul suo polso ed il movimento della sua testa per dire “no” la intimarono di non agire.

Se avesse usato il Keyblade, si sarebbe fatta scoprire dall'OrganizzazioneXIII ed avrebbero invaso Auradon, per riprendere la disertrice.

Fu Mal ad affrontare Uma e mandarla via.

Il ballo continuò, per festeggiare un'altra impresa compiuta dalla figlia di Malefica, eroina di Auradon.

Persino Jane ballò, con Carlos: lui aveva trovato il coraggio di dichiararsi ed invitarla al ballo, e lei aveva accettato, incoraggiata da Xion.

Anche lei trovava Carlos dolce ed attraente. Non era come la madre Crudelia de Mon, per fortuna.

E non era vanitoso come Chad.

Xion li vedeva, mentre serviva il punch ed il sorbetto agli ospiti: osservava il sorriso sulle labbra di Jane e lo sguardo dolce di Carlos.

Era felice per entrambi. Ma era un sorriso triste.

Un pensiero stava scorrendo nella sua mente.

Il cotillon durò fino a notte fonda.

Jane era rientrata in camera sua, sprizzando felicità da tutti i pori.

-Non ci credo! Ho un ragazzo!- esultò, girando su se stessa -E ci credi, Xion? Mi ha invitata al cinema! Non vedo l'ora...!- guardò in avanti, facendosi subito seria.

L'armadio era aperto. E Xion si stava sistemando il cappotto nero.

-Bibbidi bobbidi...- disse, sorpresa -Xion? Cosa stai facendo...?-

Anche Xion era triste.

-Devo andarmene, Jane.-

Quella rivelazione fece precipitare Jane sul letto, seduta.

-Cosa?! No! Perché?! È per via di Uma, vero? Ti assicuro che non accade sempre. O forse ti ho stressato con il cotillon? O qualcuno ti ha trattata male? Mia madre ti ha fatto una predica?-

-No, Jane.- la mano di Xion fece tacere la futura fata, con tono calmo -Non è colpa tua, di tua madre o tantomeno di quella Uma. Si tratta di me.- sorrise di nuovo, guardando da un lato -Ho visto come sorridevi in compagnia di Carlos. Voi due farete una coppia bellissima, ne sono sicura. Mi avete fatto ritornare in mente una cosa. Quando ho disertato dall'Organizzazione, ho lasciato una questione in sospeso. Sono venuta qui ad Auradon per rifletterci su. Finalmente ho preso la mia decisione. È una cosa che devo fare per il bene dei miei, di amici.-

Si tirò su la zip del cappotto e si tirò su il cappuccio.

Il cuore di Jane sembrò sprofondare nei meandri del suo petto. Si alzò dal letto, avvicinandosi a lei.

-Se te ne vai da qui, l'Organizzazione ti cercherà, ti troverà e ti trasformerà in... qualunque cosa ti trasformeranno!- era vicina al pianto -Non voglio perderti! Sei la mia migliore amica!-

Avrebbe conservato per sempre i ricordi legati a Xion. Se non fosse stato per il suo aiuto ed il suo supporto, non avrebbe retto i ritmi dell'organizzazione del cotillon, per non parlare della questione di Carlos.

Xion l'aveva aiutata a credere in se stessa.

Questi, sorridendo di nuovo, le mise le mani sulle spalle, guardandola dolcemente.

-Mi dispiace, Jane, ma Auradon non fa per me.-

Jane lo vedeva nei suoi grandi occhi blu che non voleva andarsene. Ma, a volte, il dovere sa essere la morte di qualunque piacere.

Ciononostante, non insistette oltre. Ma delle lacrime cominciavano a farsi intravedere nei suoi occhi celesti.

-Allora, questo è un addio.-

Si abbracciarono. Ed entrambe piangevano. Nessuna delle due voleva separarsi dall'altra.

-Addio, Jane. Sii forte. Lo sei più di quello che credi.-

-Addio, Xion.-

Si separarono. Poi Xion sparì nel Portale Oscuro.

La mattina seguente, Jane lo riportò alla madre.

-Xion se ne è andata?! Ho capito bene?!-

-Aveva detto di avere una questione in sospeso. E poi se n'è andata.-

Jane non aveva dormito, quella notte. Xion era stata l'unica persona con cui fosse libera di confidarsi. Si sentiva a suo agio con lei, le parlava di tutto.

Nessuno, ad Auradon, le aveva mai dato queste sensazioni.

La Fata Smemorina sospirò, scuotendo la testa.

-Lo sapevo che non potevamo fidarci...- mormorò -Sarà tornata dall'OrganizzazioneXIII e finalmente pianificheranno di invadere Auradon, ora che sanno i nostri punti deboli.-

-Mamma, non è così, lo sai! Altrimenti perché rivelarci quelle informazioni?-

-Jane...- si alzò in piedi, camminando verso la figlia -Ti avevo avvertito sui Nessuno e come agiscono, specie quelli dell'OrganizzazioneXIII! Ma tu hai ugualmente insistito nel dare asilo a una di loro!-

-Xion non è come mi hai descritto i Nessuno! Non farebbe una cosa simile!-

-Noi lo sappiamo. Ma come giustificheremo ad Auradon la misteriosa scomparsa di Jeanne?-

Jane non ci aveva pensato. Aveva pianificato come far entrare Xion ad Auradon, ma non come agire se avesse deciso di andarsene.

Lo sguardo della madre stava già proponendo una soluzione che non piaceva ad entrambe.

Jane impallidì.

-No, mamma...-

-Dobbiamo, tesoro. Non c'è altro modo.-

Xion era stata dichiarata fuorilegge; o meglio, lo era “Jeanne”: introdotta clandestinamente ad Auradon sotto falso nome per mescolarsi al resto degli abitanti, su ordine di Uma.

Almeno non era stata proferita parola sulla sua affiliazione con l'OrganizzazioneXIII.

Era un segreto tra Jane e sua madre.

Jane si impegnò a mantenere la parola data a Xion: avrebbe avuto più fiducia in se stessa e non sentirsi mai più inadeguata.

E anche Carlos le dava una mano in questo.

Ebbe modo di dimostrarlo il giorno del suo compleanno: erano tutti riuniti al Lago Incantato.

Mancavano solo Carlos ed i suoi amici.

C'era solo Chad in sua compagnia. Gli altri invitati si erano avventati sul buffet o si stavano facendo il bagno.

-Il tuo ragazzo è in ritardo.- la canzonò il principe -Non è che si è dimenticato del tuo compleanno?-

Jane voleva bene a Chad, ma a volte non sopportava il suo tono da strafottente.

Di certo Cenerentola non si era rivolta così alla Fata Smemorina, quando aveva lanciato l'incantesimo per trasformare una zucca in carrozza, i topolini in cavalli ed i suoi stracci in un abito nuovo e sfarzoso.

-No... magari si è perso. O non è abituato a festeggiare i compleanni...-

-O se n'è dimenticato.-

Naturalmente, Jane si aspettava anche Xion. “Sarebbe il colmo.” pensò, trattenendo una risata.

Qualcuno, in effetti, comparve dal nulla, ma non era Xion.

Era Audrey.

Era cambiata. In aspetto. Ed anche in atteggiamento.

Un'aura oscura la stava circondando.

Non era in lei.

Jane sospettò lo zampino dell'OrganizzazioneXIII, ma escluse il coinvolgimento di Xion.

Scappò appena in tempo dall'incantesimo di sonno, immergendosi nelle acque magiche del Lago Incantato.

Solo lei e Chad ne erano rimasti immuni.

La prima cosa che fece fu riempire una pistola d'acqua di acqua del Lago Incantato, per ogni evenienza; poi si mise alla ricerca di Benjamin e di altri sopravvissuti dell'incantesimo di sonno.

Sperò che la luce del re avrebbe contrastato l'Oscurità di Audrey. Ma era stato trasformato in Bestia.

L'acqua del Lago lo liberò dalla maledizione, ma non poteva fare niente contro le persone addormentate o tramutate in pietra, tra cui la sua stessa madre. L'Oscurità instauratasi nel cuore di Audrey era pari alla sua Luce.

E dei tre sovrani di Auradon, lei era quella più potente.

Jane aveva fatto il possibile per aiutare. In passato si sarebbe scoraggiata e sarebbe caduta nello sconforto.

Ma aveva conosciuto Xion e Carlos. Grazie a loro, si sentiva più forte.

Ancor più con il regalo di Carlos: una catenina con la scritta “Jarlos”, l'unione dei nomi “Jane” e “Carlos”.

Con quella catenina al collo, Jane si sentiva invincibile.

Niente l'avrebbe più fermata.

Liberata dalla sua Oscurità, Audrey rivelò l'identità dell'uomo che l'aveva corrotta: Xemnas, il capo dell'OrganizzazioneXIII.

Che la Fata Smemorina avesse avuto ragione su Xion? Che fosse tornata nel suo mondo per rivelare proprio a Xemnas i punti deboli di Auradon per poi invaderla e farla cadere nell'Oscurità?

La realtà era un'altra. Jane lo avrebbe scoperto tardi.

Sua madre non poté fare molto, durante l'invasione degli Heartless ad Auradon.

Neppure la sua magia riuscì a fermarli.

Erano una marea. Non poteva affrontarli da sola.

Jane fu tra i primi ad essere attaccata da uno Shadow. Carlos stava correndo da lei, per salvarla, per farsi colpire al suo posto. Ma era arrivato troppo tardi.

Carlos, il suo volto lentigginoso pieno di lacrime e la sua mano protesa a lei fu l'ultima cosa che Jane vide, prima di svanire.

Il suo cuore sarebbe dovuto divenire un Heartless, ed il suo corpo un Nessuno.

Questo le aveva sempre spiegato sua madre, suo padre Merlino ed anche Yen Sid.

In effetti, cambiò forma, ma in nessuno dei due.

Nell'Oscurità, riuscì a vedere tutti i suoi amici. Lì si era accorta che il suo corpo non era più umano.

Ed ebbe l'impressione che i suoi amici stessero divenendo piccoli.

No, era lei che si stava ingrandendo.

Non si sentiva le gambe. E le braccia. Al loro posto, sentiva una coda ed un paio di ali.

D'istinto, circondò i suoi amici, avvolgendoli in un abbraccio con la sua coda, come per proteggerli.

Era divenuta un drago-serpente: la sua forma da Dream Eater.

Per proteggere coloro che “dormivano” nell'Oscurità, vegliando su di loro in attesa del loro risveglio.

Restò in quella forma per un tempo quasi infinito.

Dormì anche lei, insieme a loro.

Con la liberazione dei cuori dal Kingdom Hearts artificiale per mano dei Custodi del Keyblade Sora e Riku, i primi a risvegliarsi furono i tre sovrani.

Toccò anche a lei.

Al suo risveglio, si guardò le mani: era tornata umana.

E stavano toccando una strada.

Alzò lo sguardo: non era più ad Auradon; vagava ancora nell'Oscurità.

Era nella Città di Mezzo, il primo mondo-rifugio.

Ma, almeno, non era sola; erano sopravvissuti in tredici.

E con suo grande gaudio, si riunì con la madre, sopravvissuta anche lei.

Ma mancava qualcosa. Jane percepiva spesso un grande vuoto, nel suo petto, da quando era tornata umana.

Come se avesse dimenticato qualcosa. O qualcuno.

Ma Carlos era lì con lei. Come i suoi amici.

Chi mancava?

 

Sa, in un modo o nell'altro, di aver causato lei la distruzione di Auradon. Ciò che aveva fatto durante l'incoronazione di Benjamin, Chad ed Audrey era guidato da invidia e vanità, sentimenti oscuri. Si sente colpevole. Ma vuole rimediare. Il giorno in cui Carlos decide di recarsi da Yen Sid per divenire Custode del Keyblade, per proteggere ciò che rimane ai profughi di Auradon, Jane dà la sua approvazione, rivelando da subito il luogo di dimora dello stregone. È determinata a riparare al suo errore e dimostrare di non essere inadeguata. Ma non ricorda di aver superato quella fase, grazie ad una persona cui ha perduto ogni ricordo...



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Note finali: no, non ho scelto il nome "Jeanne" per mancanza di fantasia; che ci crediate o no, mi è venuto in mente così XD e se ci fate caso, provate a pronunciarlo e subito dopo pronunciate il nome "Xion" come lo dicono in KH (vale a dire "Scion"); non si somigliano, foneticamente?

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Capitolo 23
*** Jane's Dive Into The Heart ***


Note dell'autrice: mancano altri due Descendants! XD



 
Jane's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Jane non era portata per le armi. E meno di tutti si sentiva idonea di divenire Custode del Keyblade.
Ma Carlos aveva esposto una tesi convincente: proteggere ciò che rimaneva loro.
Questo l'aveva convinta almeno a tentare il Tuffo Nel Cuore.
Se non fosse stata ritenuta idonea, forse Yen Sid l'avrebbe fermata. Ma non l'aveva fatto.
Anzi, l'aveva persino esortata a tentare il Tuffo Nel Cuore.
Aveva letto, nel suo cuore, i dubbi, i sensi di colpa del giorno in cui, inconsapevolmente, aveva attirato Malefica ad Auradon.
Il Keyblade l'avrebbe fortificata, soprattutto nello spirito.
-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Non aveva detto molto sul Tuffo nel Cuore, con l'eccezione di questa frase.
Basandosi sui propri studi, Jane sapeva che era la frase con cui si rivolgevano gli antichi Custodi del Keyblade.
Ma, ormai, nessuno conosceva più quella frase. Con l'eccezione dei maghi che componevano il Concilio.
Jane doveva scoprire da sola, quale fosse effettivamente la sua chiave guida. E come il suo cuore poteva condurvela.
Ci stava pensando, mentre sprofondava nel buio.
I suoi occhi erano tra il chiuso e l'aperto. Rivolti verso una luce in rifrazione, come se fosse sott'acqua.
I lunghi capelli castani le solleticavano le orecchie e le guance.
Quella luce si allontanava sempre di più.
A quel punto, rivolse la testa verso il basso, lasciando che il suo volto venisse illuminato da un'altra luce, sottostante.
Una piattaforma. Il colore dominante era il cobalto chiaro.
Vi era raffigurata lei, con gli occhi chiusi. Ed accanto, in immagini più piccole, notò alcune delle persone a lei care: sua madre Smemorina, suo padre Merlino, Carlos, Chad, Doug. E anche una ragazza incappucciata. Era impossibile notare il volto.
La sua luce illuminava gli occhi glaciali, come fossero uno specchio.
Vi atterrò sopra, con delicatezza.
Intorno a lei vi era solo il buio.
-Bibbidi bobbidi...- mormorò lei, quasi impallidendo.
Era da sola. In un luogo sperduto. Un lieve senso di timore si impossessò del suo cuore.
E non solo timore...
Le sue mani stavano già tremando. Dalla paura, dal dubbio, dall'incertezza.
“Sarò degna di possedere un Keyblade?” pensò “E se venissi di nuovo inghiottita dall'Oscurità? O se non tornassi più nel mondo reale?”
Alzò lo sguardo, quasi sobbalzando.
-Carlos?!-
Il suo Carlos. Con il suo sguardo dolce e premuroso. Era impensabile che fosse figlio di una donna che avrebbe ucciso dei cuccioli innocenti per una pelliccia e di un membro dell'OrganizzazioneXIII.
Corse da lui, con il sorriso sulle labbra.
-Cosa fai qui? Non dovresti essere anche tu sottoposto al Tuffo?-
Allungò una mano per prendere la sua. Ma vi passò attraverso.
Aprì la bocca, dallo stupore, ed il suo cuore sussultò.
Nessun libro di storia dedicato al Keyblade aveva mai descritto dettagliatamente il Tuffo nel Cuore.
Era una prova cui venivano sottoposti i futuri possessori del Keyblade, ma non veniva mai riportato altro. Era un segreto.
Persino Yen Sid non era stato esauriente al riguardo.
Questo aveva messo Jane a disagio. Lei doveva sapere. Sarebbe stata più tranquilla.
Si sentiva esattamente come se qualcuno l'avesse improvvisamente spinta in acqua per imparare a nuotare.
Solo di una cosa era certa: che la persona di fronte a lui non era Carlos.
-Di cosa hai più paura?-
Jane assunse uno sguardo confuso. Si limitò a sbattere le palpebre una volta.
-Ehm...- iniziò.
Di troppe cose aveva paura. Una più di tutte.
-Non essere all'altezza del mio futuro compito di protettrice di Auradon, e deludere i miei genitori.-
Il compito che avrebbe ereditato dalla madre.
Aver attirato Malefica e Gambadilegno ad Auradon non le aveva dato la prova di esserne degna.
Non aveva cambiato parte. Era stato un incidente. Dovuto alla sua vanità.
Non passava giorno senza provare imbarazzo, al solo ricordo.
Ma perché quel ricordo non pesava più come prima? Non sentiva più la pesantezza nel suo cuore. Anzi, sentiva il suo cuore più leggero. Come se, in modo o in un altro, avesse superato quel momento.
Ma come?
La stessa domanda che si poneva su Carlos. Era lui che si era avvicinato a lei, e le aveva proposto di uscire e farle da accompagnatore al cotillon in onore di re Ben.
Lei, presa dai dubbi e dall'indecisione, avrebbe dovuto rispondere di no, insieme a tante scuse. Ma ricordava di aver accettato, e convinta, tra l'altro.
Cosa l'aveva spinta ad accettare? Non lo ricordava più.
Dal suo risveglio da umana, sentiva un vuoto nel suo cuore. Come se mancasse qualcuno.
Tutta la popolazione di Auradon era scomparsa. Erano sopravvissuti solo in tredici. Tutte persone vicine a Jane. Ma mancava comunque qualcuno.
Jane non riusciva a ricordare chi fosse. Il suo volto o il suo nome. O i ricordi legati ad esso.
Come se fosse svanito nello stesso modo in cui “Carlos” era svanito di fronte a lei.
Al suo posto, era apparso un sentiero fatto di vetro colorato. Conduceva verso un'altra piattaforma, uguale alla precedente.
I suoi passi riecheggiavano nel buio, nonostante procedesse in modo cauto.
Quel luogo la inquietava sempre di più. Percepiva il costante timore di essere aggredita da un abitante dell'Oscurità da un momento all'altro.
Non aveva ancora un Keyblade. Non poteva difendersi.
Raggiunse, illesa, la seconda piattaforma. Una seconda persona la stava attendendo.
-Mamma?!-
La fata Smemorina.
Aveva lo stesso sguardo che aveva Carlos. Dolce, rassicurante, ma vuoto.
-Cos'è più importante per te?-
Un'altra domanda. Almeno non era costretta ad affrontare nemici, o Heartless.
Lo scontro diretto non era il suo forte.
Ma sperava che ottenere il Keyblade l'avrebbe almeno fortificata nello spirito. Non le importava di combattere.
Si morse il labbro inferiore, guardando da un'altra parte.
-Mi basta sapere di non essere da sola.- rivelò -Che qualunque cosa faccio o farò, avrò sempre il sostegno e la compagnia dei miei amici. Non voglio più restare da sola. I miei amici sono il mio potere.-
Sapeva che era una frase dell'Eroe del Keyblade, Sora. Anche lei lo ammirava. E si rivedeva, in quella frase.
Il suo momento di debolezza, quando, spinta dalla vanità, aveva rubato la bacchetta della madre per cambiare aspetto ed essere più bella, era proprio dovuto alla sua solitudine.
La solitudine l'aveva resa più debole e vulnerabile. Se Chad o Doug le fossero rimasti vicino, anziché seguire Evie, non sarebbe stata indotta in tentazione; di conseguenza, non avrebbe attirato Malefica ad Auradon.
Anche se in quel momento, in quel luogo, era da sola, sapeva di non esserlo davvero. Al suo risveglio nella Città di Mezzo temeva di essere di nuovo da sola: fu sorpresa di rivedere i suoi amici.
Con loro, sentiva di poter fare qualsiasi cosa, persino viaggiare in tutti i mondi.
Anche sua madre svanì.
Raggiunse la terza piattaforma.
La persona che la stava attendendo portava un cappotto nero con il cappuccio alzato.
Jane, lì per lì, si allarmò: una persona che indossava un cappotto simile era dell'OrganizzazioneXIII.
Cosa ci faceva un membro dell'OrganizzazioneXIII nella sua prova? O meglio, nel suo cuore?
-E tu chi... sei?- domandò, infatti, avvicinandosi un po' circospetta.
Non provò vero timore o malafede: stava, invece, provando una sensazione di rilassatezza, confidenza, fiducia.
Come se, effettivamente, la conoscesse.
Dall'interno del cappuccio si intravedeva solo la bocca. E una ciocca di capelli neri.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Era la voce di una ragazza.
Jane si morse entrambe le labbra, mentre pensava alla sua risposta.
Poi sospirò, con aria triste.
-Vorrei trovare un modo per dimostrare che posso essere degna di proteggere Auradon, ed ereditare il ruolo di protettrice da mia madre.- rispose, con voce lieve -Lo so, ho commesso uno sbaglio, ma sono pronta a rimediare. E so che mi servirà il Keyblade, per farlo. Se sono degna di possederne uno, allora sarò anche degna di aiutare Chad, Ben ed Audrey a ricostruire Auradon.-
La ragazza incappucciata svanì, sorridendo. Mentre svaniva, Jane notò un altro particolare, di quella ragazza: da dentro il cappuccio, intravide due grandi occhi blu.
Non aveva memoria di lei. Ma qualcosa, nel suo cuore, aveva vibrato, alla sua vista. Come se avesse incontrato una persona che non vedeva da tanto tempo.
Tre piattaforme, tre persone, tre domande.
Ecco la prima parte del Tuffo nel Cuore.
Jane era tentata di appuntarlo, una volta tornata nel mondo reale, per le nuove generazioni. Ma era cosciente della sua segretezza. Avrebbe fatto parlare la voce della ragione e tenerlo segreto.
A mezz'aria, stava fluttuando qualcosa: un giglio bianco, trasparente, etereo.
Jane lo fissò, ammaliata dalla sua bellezza.
-Com'è bello...- mormorò, allungando una mano, per prenderlo sullo stelo.
-Sei a metà del tuo viaggio, Jane.-
Quella voce la fece sobbalzare e scattare all'indietro, lontana dal fiore.
-Chi c'è?!-
C'era solo lei. Quella voce stava riecheggiando nella sua mente.
-Ciò che ti ha spinto ad attirare l'Oscurità ad Auradon non è stata la tua vanità, ma il tuo senso di inadeguatezza, di inferiorità.-
Quel ricordo pungente... ancora gravava nel suo cuore. Un sassolino, non un masso.
-Non riesco a liberarmene.- confessò, a voce bassa -E non posso cambiare il passato. Cosa posso fare, dunque, per dimenticare quello che ho fatto?-
-Hai già superato quel momento.- rivelò quella voce -Con l'aiuto di una persona. Solo che non lo ricordi.-
Quella rivelazione illuminò Jane.
-Con l'aiuto di una persona...?- disse, incredula -Chi?-
-I ricordi connessi sono spariti con la scomparsa di questa persona. Ma il tuo cuore ancora ricorda.-
Aveva dunque dimenticato, quindi? Si era dimenticata di una persona? La stessa persona che, da come diceva quella voce, l'aveva aiutata a rimuovere il peso della sua colpa? Ecco perché non sentiva più quel peso, nel suo cuore.
Perché l'aveva dimenticata? Se era importante, per lei, non doveva scomparire dalla sua memoria.
Tuttavia, non era del tutto sparita dal suo cuore. Jane iniziò a comprendere la presenza della ragazza incappucciata: era forse lei la persona di cui si era dimenticata?
-Il tuo cuore si è alleggerito da quel ricordo, ma vi è ancora un'ombra attaccata al tuo cuore. Sta a te decidere se e come estrarla.-
-Come?-
Era apparsa una porta, al centro della piattaforma.
-Prosegui. Non avere timore. Il tuo cuore è la tua arma più forte. Affidati ad esso, e non perderai.-
La voce tacque, infine.
Jane era rimasta di nuovo sola.
Le domande erano la prima parte del Tuffo, dunque, pensò. Cosa le sarebbe accaduto, una volta superata quella porta?
La sua vera prova sarebbe iniziata non appena avrebbe varcato la soglia.
Si guardò indietro: il sentiero era svanito. Come le piattaforme precedenti.
Non aveva altra scelta che proseguire.
Si morse il labbro inferiore, fece un respiro profondo e mise una mano su una delle maniglie della porta.
Questa si aprì al suo tocco.
Uno spiraglio di luce colpì uno degli occhi glaciali di Jane, che chiuse eseguendo un movimento scattante della testa.
Era una luce davvero accecante. Forse rimanere nel buio a lungo l'aveva disabituata alla luce, ipotizzò.
Ma era persino più brillante di un sole in una giornata serena.
Tuttavia, doveva entrare.
Lasciò che i suoi occhi si abituassero almeno un poco a quella luce.
Proseguì, tenendo le palpebre socchiuse.
Durò un attimo.
La luce era sparita non appena aveva varcato la porta.
Si accorse di essere dentro una stanza. La sua stanza.
Ma non quella della Città di Mezzo. Quella di Auradon.
Auradon. Il suo mondo natio. Casa sua.
Sgranò gli occhi dalla sorpresa.
-N-non è possibile!- esclamò, incredula.
Si guardò intorno, mentre il cuore le batteva a mille.
Il suo letto, il suo armadio, la sua scrivania, tutto perfettamente in ordine, come lo aveva lasciato.
-Sono a casa.-
Si permise di sdraiarsi sul suo letto, con le braccia aperte, con un sospiro di sollievo.
Troppe emozioni in un giorno solo.
Chiuse gli occhi per un solo attimo. Poi li riaprì.
-Ho sognato tutto, allora.- mormorò, rilassandosi e sorridendo -La distruzione di Auradon, il mio risveglio nella Città di Mezzo, la mia visita a Yen Sid per ottenere un Keyblade...-
Sarebbe stato più facile, per lei, credere che tutto quello che aveva vissuto fino ad allora fosse stato un sogno. Un brutto sogno.
Era l'ipotesi più plausibile, dato che si era sdraiata sul letto.
Guardò sul comodino, alla ricerca della sua sveglia.
-Strano, non ha suonato.- impallidì -Oh, no! Da quanto mamma mi starà aspettando?! Devo muovermi!-
Saltò giù dal letto, correndo verso la porta.
La vita era monotona, ad Auradon, ma almeno era al sicuro. Senza il timore di un'aggressione da parte degli Heartless.
Sperò che oltre quella porta ci fosse il corridoio che conduceva all'ufficio di sua madre.
Ma i suoi occhi videro tutt'altra realtà.
-No... no... no... Non era un sogno...-
Gli occhi di Jane iniziarono ad inumidirsi.
Non era entrata nel corridoio. Era dentro un'altra stanza.
La testimonianza della dura realtà che la stava circondando.
-Sono ancora nel Tuffo nel Cuore.- ammise, a se stessa, mentre lasciava che le lacrime le rigassero le guance; ancora non riusciva a credere di aver perduto per sempre la sua casa -Auradon è stata distrutta. Vaga nell'Oscurità. E noi siamo gli unici sopravvissuti. Per colpa mia. Se stiamo sostenendo questa prova, è solo per colpa mia. Perché tormentarmi con ciò che non potrò più ottenere?! Che razza di prova è questa?!-
Era una stanza molto grande, quella in cui era entrata.
Piena di specchi.
Jane avrebbe voluto rimanere in quella stanza, un tempo camera sua.
Ma non poteva. Voleva, ma non poteva.
Non sarebbe stata come la sua vera casa. Nessun posto è come casa propria, si dice.
Inoltre, la porta dalla quale era uscita era sparita. Era rimasto solo un muro in pietra.
Jane non aveva altra scelta se non proseguire.
Quegli specchi, però, le incutevano timore.
Fece un passo in avanti, voltandosi involontariamente verso uno specchio alla sua sinistra.
Una figura stava assumendo la sua stessa posizione. Ogni movimento che Jane faceva, lo faceva anche il riflesso nello specchio.
Ma non era Jane: era una creatura orrenda. Naso enorme aquilino, dalla corporatura talmente massiccia che i suoi abiti, probabilmente di seconda mano, stringevano il suo corpo.
Jane provò a scuotere la testa, ondeggiando i boccoli bruni. La figura allo specchio non riusciva nemmeno a muovere la matassa di capelli crespi e unti che aveva sulla testa.
Ma gli occhi, sebbene contornati da profonde occhiaie, avevano lo stesso colore di quelli della ragazza. Anche i capelli.
Jane stava osservando quel riflesso con orrore.
Esso, invece, stava sorridendo.
-Dimmi, Jane...- stava parlando; aveva la sua stessa voce -Ne è valsa la pena?-
Aveva compreso dal primo momento in cui si era specchiata, chi stava osservando di fronte: un'ombra del suo passato. Come si vedeva, effettivamente, allo specchio.
Ogni volta che osservava le abitanti di Auradon, principesse, nobili, così belle, raffinate, perfette, correva in camera sua e si guardava allo specchio. In confronto a loro, si vedeva esattamente come la creatura al di là dello specchio.
Il respiro di Jane si affannò.
-Attirare l'Oscurità ad Auradon per vanità ne è valsa davvero la pena, Jane?-
Jane scosse la testa, indietreggiando. Stavolta il riflesso non si mosse.
-No... tu non sei reale... Sei nella mia mente. Tu non esisti!-
-Hai ragione, non esisto. Ma quello che hai fatto è reale. Tutto perché ti sentivi brutta? Non devi sorprenderti se i nostri genitori sono delusi di te.-
-No,no,no... è solo un'illusione, è solo un'illusione...-
Jane era scappata da quello specchio, per cercare un'uscita, facendosi strada tra gli innumerevoli specchi che la ostacolavano. In tutti vi era riflessa lei, come era solita vedersi, in passato, brutta, orrenda e grassa.
-Traditrice!-
-Vanesia!-
-Hai attirato l'Oscurità nel nostro mondo!-
-Non meriti di proteggere Auradon!-
I riflessi le stavano parlando, torturandola con il suo crimine.
Jane cercava in tutti i modi di ignorare quelle voci, di non incrociare il suo stesso riflesso. Ma erano tutti intorno a lei, con il dito puntato in avanti.
Ogni accusa gravava nel suo cuore.
Era impossibile trovare un'uscita: intorno a lei si era creato un labirinto di specchi. Era come essere circondata da se stessa.
Il tempo sembrava rallentare, mentre correva, terrorizzata, in mezzo a tutti quei riflessi.
Le mancava il respiro, e le lacrime stavano tornando.
Scansò un ultimo specchio. Improvvisamente, si era ritrovata in un angolo buio. Un vicolo cieco.
C'erano solo lei, e una fievole luce provenire dall'alto.
Riuscì, almeno, a riprendere fiato.
Il suo crimine stava tornando a gravare nel suo cuore. La voce aveva detto che era riuscita a superare quel momento. Allora perché quella sensazione stava tornando?
La sensazione di colpa, di delusione verso se stessa. E aver deluso le persone intorno a lei.
Sentì dei passi alle sue spalle, un'ombra che stava occultando la luce.
Jane si voltò; una mano piena le strinse la gola.
Il riflesso era diventato reale.
Ciò che era solita vedere allo specchio era lì, davanti a lei: una ragazza grassa, brutta, con il naso grosso, i capelli sempre fuori posto, e due fila di denti storti.
Stava osservando quella vera negli occhi, con ira.
-È valsa la pena distruggere il nostro mondo per un desiderio di vanità, Jane?!-
Jane urlò, chiudendo gli occhi.
Si aspettava un colpo, un pugno, unghie che le laceravano il volto.
Niente.
Non accadde niente.
-Ti prego, non farmi del male...- mormorava continuamente, a bassa voce, ancora con gli occhi chiusi, le spalle curve e le mani strette a pugno di fronte al volto.
Non si era accorta che niente, ormai, stringeva la sua gola.
Riaprì gli occhi. Era da sola.
E non più nell'angolo buio. Era in un luogo spazioso. Molto spazioso.
Con un ampio ed alto soffitto. Tre navate, di cui la centrale era la più larga. E grandi vetrate che raffiguravano le Sette Principesse della Luce.
Jane rabbrividì: era la Cattedrale di Auradon. Lo stesso luogo dove lei aveva consumato il suo crimine, nel giorno dell'incoronazione dei tre sovrani.
Un impeto di pazzia si era impossessato di lei, spingendola a rubare la bacchetta magica della madre.
Rivisse quel momento, per un attimo.
“FAMMI DIVENTARE BELLA O LO FARÒ DA SOLA!”
Quella frase ancora riecheggiava nella sua mente. Era come un'eco, che la torturava.
In quel momento sembrò riecheggiare nelle mura della cattedrale.
Il suo respiro si mozzò. Era pronta? Non era pronta?
Neppure lei ne era sicura.
Ma doveva andare avanti. Non poteva tornare indietro.
Avrebbe ottenuto il Keyblade o sarebbe rimasta imprigionata nel suo cuore per sempre.
Decise di fare un passo in avanti.
-Ok... niente di strano è ancora accaduto...- mormorò, principalmente per tenersi compagnia.
Procedeva a passi lenti, ma titubanti.
Canticchiò qualcosa, per farsi coraggio, la canzoncina che cantava il padre ogni volta che lanciava un incantesimo.
Ripensare a suo padre la fece sorridere. Specie quando faceva innervosire Anacleto di proposito per farla ridere.
Gli invidiava la serenità ed ottimismo che provava in ogni momento, anche in quelli critici.
Avrebbe tanto voluto essere come il padre.
Entrambi i suoi genitori erano coraggiosi, ed affrontavano qualsiasi cosa con il sorriso sulle labbra.
Non comprese da chi potesse aver preso la sua attitudine a scoraggiarsi facilmente.
Pensò a sua madre, inoltre, ed a quanto l'avesse delusa, quel giorno.
Quando le aveva strappato la bacchetta dalle mani, ed essa aveva iniziato ad impazzire.
Le aveva riconosciuto l'ombra di Oscurità nel cuore. Questo aveva attirato Malefica e Pietro.
Non si era accorta di essere vicina alla fine della navata, immersa come era nei ricordi.
C'era una piccola scalinata, che conduceva ad un tavolo con sopra una campana di vetro.
E dentro quella campana di vetro... c'era la bacchetta di sua madre. La bacchetta che garantiva la protezione di Auradon dall'Oscurità. O così dicevano.
Non aveva impedito l'avanzata degli Heartless.
A causa sua e della sua vanità.
Rimase ferma, a fissare quella bacchetta senza sbattere le palpebre.
Di nuovo un'altra fitta alla testa: di nuovo quella visione. E di nuovo quella frase.
-No! No, no, no...!- mormorava, cercando di scacciare quella sensazione. Provava imbarazzo, tanto imbarazzo e delusione verso se stessa.
La futura protettrice di Auradon che aveva rubato la bacchetta della madre per un bisogno egoistico... Nessuno l'avrebbe più ritenuta idonea per il suo compito.
Richiuse di nuovo gli occhi, scacciando quei pensieri. Espirò dalla bocca.
Riprese la calma.
Non aveva idea di cosa la stesse aspettando. Restava ferma, a fissare la bacchetta.
-Sei stata la mia rovina...- mormorò -Ma un giorno diventerai la mia salvezza... forse.-
Un giorno sarebbe spettata a lei.
Ma, attualmente, il suo obiettivo era ottenere un Keyblade. Ma cosa doveva fare?
Sospirò di nuovo, mentre il suo piede prendeva la via del primo scalino.
-Non avvicinarti a quella bacchetta!-
Una voce femminile, anziana, furibonda.
Proveniva dall'ingresso della cattedrale.
Jane si voltò di scatto: un mago dalla lunga barba bianca ed una fata un po' grassottella stavano procedendo lungo la navata centrale.
I suoi genitori: Mago Merlino e la Fata Smemorina.
Avevano lo sguardo serio, deluso.
Lei, invece, era pallida.
-Mamma...? Papà...? Ma come...?-
Altre sagome comparvero dal nulla, tutti vicini a lei.
-Un traditore non merita quel potere.-
Ogni membro del Concilio dei maghi la stava circondando.
Lei cercò di indietreggiare, sempre più pallida.
Si aspettava di inciampare sulla scalinata, ma la sua schiena toccò qualcosa; una veste blu e una lunga barba grigia. E due occhi grandi che la fissavano severi e delusi.
-Maestro Yen Sid?!- esclamò, sorpresa -Cosa... voi qui?!-
Lui evitò la sua frase: le sue parole erano mute alle sue orecchie.
-Sei un disonore per tutti noi.-
La voce di Yen Sid era ancora più terrificante di quella dei suoi genitori. E le sue parole erano più taglienti.
Jane era imprigionata; non aveva via di fuga. L'intero Concilio, tra cui i suoi genitori, si chiusero intorno a lei, rivolgendole parole velenose ed umilianti.
-Vergogna!-
-Se fossi stata più forte non avresti attirato l'Oscurità ad Auradon!-
-Ti sei lasciata tentare dalla vanità! Non meriti di divenire la protettrice di Auradon!-
-Auradon è sparita per colpa tua!-
-Traditrice!-
-Corrotta!-
Umiliazioni che un tempo non faceva che ripetere a se stessa, come pensava di essere, ormai, per gli abitanti di Auradon: una delusione. Aveva commesso uno sbaglio enorme. Aveva portato Malefica ad Auradon, rischiando di farla cadere nell'Oscurità.
Se Mal non si fosse battuta contro di lei, ed i tre sovrani, con l'aiuto della Fata Smemorina, non avessero usato la Luce dei loro cuori per cacciarla via, Auradon sarebbe già un regno oscuro.
Ma l'equilibrio era già stato compromesso. Jane aveva aperto uno spiraglio, intorno alla barriera di Luce che proteggeva il mondo dall'Oscurità: Uma e la sua brama di vendetta, Audrey e la sua caduta nell'Oscurità, e il matricidio di Carlos non avevano fatto che allargare quello spiraglio. Di conseguenza, Auradon era svanita, come i suoi abitanti.
E le parole dei maghi nei suoi confronti le straziavano il cuore. Cercò di tapparsi le orecchie, ma non riuscì a trattenere le lacrime. Sentiva ugualmente le loro parole di diffamazione.
-Basta... basta... basta...- mormorava. Stava per cedere. Quelle parole stavano indebolendo il suo cuore e la sua determinazione ad ottenere un Keyblade.
D'altronde, pensò, come poteva una persona che aveva fatto cadere il proprio mondo nell'Oscurità ottenere un'arma come il Keyblade? Un'arma che doveva proteggere la Luce, non estinguerla.
Poi, si ricordò di un fatto che sia sua madre che Yen Sid avevano raccontato: Riku, uno degli attuali custodi del Keyblade, aveva ceduto all'Oscurità e fatto sprofondare il suo mondo in essa. Inoltre, si era messo dalla parte di Ansem, per diventare più forte, da quanto aveva rivelato Mal. Ma lui, a differenza di Jane, aveva scelto di sua spontanea volontà di cadere nell'Oscurità e distruggere il suo mondo.
Ciononostante, si era pentito del suo gesto. Per rimediare al suo errore, aveva chiuso Kingdom Hearts e si era battuto al fianco di Sora contro Xemnas, liberando i cuori imprigionati nel Kingdom Hearts artificiale. E per farlo, aveva usato un Keyblade.
Non poteva tornare indietro. Ma poteva cambiare suo il futuro.
Lo stesso doveva fare Jane.
-Io ho sbagliato...- mormorò, riaprendo gli occhi, umidi dalle lacrime.
Alzò la testa.
-Ho sbagliato a cedere alla vanità.- riprese -Se potessi tornare indietro nel tempo, non ripeterei quell'errore. Ma non posso. Come non posso stare a rimuginarci sopra per tutta la vita. Non sento più quel peso nel mio cuore. La voce mi ha detto che l'ho superato quel momento, anche se non riesco a ricordarlo. Ma l'ho superato, questo vuol dire che ho imparato la lezione.- osservò i suoi genitori -Mamma, papà, se foste veramente voi, mi direste che si impara più dai fallimenti che dai successi. Soprattutto tu, papà, che combini sempre un sacco di pasticci...-
Il mago che stava osservando non era il sereno e sorridente Merlino: faceva strano vederlo con quello sguardo serio e deluso. Sapeva che non era il suo vero padre. E quel brontolone di Anacleto non era con lui.
Poi si voltò verso Yen Sid. Lo sguardo torvo era proprio suo tipico. Si sentì lievemente intimorita.
Deglutì.
-E voi, maestro Yen Sid, mi avete dato un'opportunità di rimediare al mio errore.- disse, seppure con voce tremante -Mi avete permesso di sostenere questa prova, per ottenere un Keyblade. E io l'ho colta al volo.-
Scostò la testa: la sua attenzione era rivolta alla bacchetta.
Qualcosa, nel suo petto, la stava attirando ad essa. Le diceva di prenderla.
Si ricordò delle parole del vero Yen Sid, prima del Tuffo nel Cuore.
-Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.-
In quel momento, il suo cuore le stava parlando. Le stava dicendo di prendere la bacchetta. Come quel giorno. Ma non per lo stesso fine di allora.
Ascoltò e seguì le sue parole, senza indugi. Scostò Yen Sid, salendo, di corsa, la scalinata che la separava dalla campana di vetro.
I maghi si allarmarono.
-Non toccarla!- le ordinarono, pronti a scagliare le proprie magie.
Ma lei non si fermò: alzò la campana di vetro, lasciandola cadere sul pavimento, e prese la bacchetta al suo interno, puntandola verso i maghi.
Mai, prima di allora, ebbe più fiducia in se stessa. Persino lei ne fu stupita.
-Sono stata allontanata da tutti, per l'errore che ho commesso! I miei amici mi ignoravano!- esclamò, determinata -Non era mia intenzione attirare Malefica ad Auradon. Volevo usare la magia per un desiderio superficiale! Ero così ossessionata da voler essere bella come le altre ragazze di Auradon, che ho chiuso gli occhi di fronte a ciò che conta davvero! Tutti noi compiamo degli sbagli! Io sono pronta a rimediare al mio! Voglio un Keyblade per difendere ciò che mi rimane, per essere utile a Ben, Chad ed Audrey, per poter finalmente dimostrare le mie qualità! Perché lo voglio! Il mio cuore lo vuole!-
Il Concilio stava già salendo il primo scalino, ignorando le sue parole, sguardo ancora più minaccioso verso di lei.
-Non meriti quel potere!- le dissero.
Jane non vi diede peso. Al posto delle lacrime, c'era uno sguardo deciso e determinato, sul suo volto.
Agitò la bacchetta.
-Bibbidi bobbidi bu!-
La punta era diretta all'intero Concilio. Non era impazzita. Non emise scintille.
Un raggio di luce, disegnando delle curve per aria, si posò su ogni mago, tramutando ognuno in pura luce.
Tante piccole luci si unirono alla luce della bacchetta. Essa si illuminò completamente, divenendo una sfera luminosa.
Divenne più grande, assumendo una forma particolare, di una chiave gigante.
Jane aprì la bocca dallo stupore, non appena si manifestò completamente: l'asta era uguale alla bacchetta che impugnava un istante prima. L'elsa ricordava un fiocco rosa. E come lama aveva una “J” decorata con un altro fiocco, più piccolo.
Era davvero grazioso.
Dallo stupore, la bocca di Jane si allargò in un sorriso.
-Ce l'ho fatta...- mormorò, prima di saltare dalla gioia -CE L'HO FATTA!-
Persino il suo petto si era fatto più leggero. Si era liberata di un peso.
Il Keyblade aveva scelto lei. Si era dimostrata degna. Il suo errore era stato perdonato.
E lei era riuscita a perdonare se stessa.
Era pronta a rimediare al suo gesto, e finalmente rivelarsi utile per i suoi amici. E, soprattutto, poter dimostrare alla madre di essere in grado di ereditare il suo ruolo di protettrice di Auradon.
-Ti sei liberata dell'ultimo granello del tuo macigno nel tuo cuore, Jane.-
La voce. Era tornata.
-Lei sarebbe fiera di te.-
“Lei”.
La ragazza incappucciata che aveva incontrato nella Stazione del Risveglio.
La persona che era riuscita a farla uscire dalla sua depressione e alleviato il suo senso di colpa per il suo crimine contro Auradon.
-Tu sai chi sia quella ragazza?- domandò curiosa, ma anche un po' allarmata. Forse per il timore della risposta.
-Lei ti ha aiutato quando ne avevi più bisogno. Ma anche tu hai aiutato lei. Purtroppo, la sua esistenza era precaria nel nostro mondo. Con la sua scomparsa, anche i ricordi su di lei sono spariti, non solo dalla tua mente, ma anche da quella delle persone cui era circondata. Se senti il tuo cuore più leggero è anche grazie a lei.-
Jane tentò di nuovo. Niente. Vuoto nella sua memoria.
Ricordava l'invito di Carlos al cotillon, l'organizzazione di esso, i suoi momenti di solitudine dopo l'incoronazione dei tre sovrani... ma ricordava di essere da sola.
C'era davvero qualcuno con lei, in quei momenti? Davvero qualcuno l'aveva aiutata con il cotillon e ad avere più fiducia in se stessa?
Aveva fatto così tanto per lei, che non poté fare a meno di sentirsi ingrata, nel non ricordarsi di lei.
-La rivedrò?- domandò, con un cenno di speranza nella sua melanconia.
-Tempi avversi si stanno avvicinando, Jane. Voi non siete pronti, ma il vostro aiuto verrà richiesto, per sostenere la Luce nella sua battaglia contro l'Oscurità. Incontrerete nemici, ma anche amici. Il suo ritorno farà combaciare i tasselli mancanti. E dovrete essere tutti pronti per la tempesta che sta per arrivare. Ciò che hai affrontato o provato in precedenza non ha eguali.-
Era arrivata fin lì. Tanto valeva proseguire.
Jane non si sarebbe più fermata di fronte a niente. Aveva il Keyblade, aveva riottenuto fiducia in se stessa e sconfitto il suo senso di inadeguatezza.
-Sono pronta.- disse.
In quel momento, ogni vetrata della cattedrale si frantumò. Frammenti di vetro erano sparsi per tutte le navate. La forza proveniva dall'esterno.
Persino il portone si aprì. Un vento potente scaraventò Jane verso la vetrata più grande, alle sue spalle.
Lei volò, urlando, dimenando le braccia e le gambe.
Era tornata nel buio.
La sua prova era conclusa.
L'ultima ombra del suo passato era stata sradicata dal suo cuore.


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"They all told me I should back down
Judgin' me 'cause of my background
Thinkin' 'bout changing my path now
Nah, I ain't goin' out like that now"

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Capitolo 24
*** Lonnie's Story ***


Note dell'autrice: ci sono elementi di "Mulan 2", nella prima parte. Non è frutto della mia immaginazione.

 

Lonnie's Story

L'alleanza con il Qui Gong non fu attuata.
Le tre principesse, le figlie dell'Imperatore, non avevano mantenuto il loro giuramento di matrimonio con i principi del Qui Gong, facendo, invece, anteporre i sentimenti al dovere, innamorandosi dei tre soldati che componevano la loro scorta.
L'esercito cinese dovette affrontare da solo l'armata mongola.
Come promesso dal generale Shang all'imperatore, ogni soldato dell'armata cinese combatté con la forza di dieci mongoli.
Vi furono perdite, ma la Cina trionfò di nuovo. Non sarebbe stato possibile grazie al generale Li Shang e la comandante Fa Mulan.
Ancora una volta, avevano salvato la Cina.
Finalmente poterono sposarsi.
Quel giorno vennero celebrati ben quattro matrimoni, quello tra Mulan e Shang, e le principesse Ting Ting, Su e Mei con i tre soldati Ling, Chien Po e Yao.
Tutta la Cina festeggiò quell'avvenimento: i matrimoni e la fine della guerra.
Per qualche anno, nessuno osò muovere guerra contro l'Impero Celeste.
Nove mesi dopo, Mulan diede alla luce una figlia: Lonnie.
Una gioia per la famiglia Fa.
I nonni Zhou e Li piansero di commozione non appena videro la nipotina. Anche la bisnonna non riuscì a trattenere le lacrime.
Shang per poco non sveniva, mentre teneva la mano alla moglie durante il travaglio. L'emozione lo travolse solo quando sentì i primi pianti della figlia e quando la levatrice la poggiò sul petto della madre. Lì svenne sul pavimento, facendo ridere la moglie.
Mushu provò amore a prima vista per la piccola Lonnie. Non poté non sciogliersi nel vedere quel fagottino così calmo e beato dormire sul petto della sua protetta.
E Lonnie, non appena vide il draghetto per la prima volta, sorrise. Non pianse o urlò. Non provò paura per lui, anzi.
-La mia bambina è diventata mamma...- disse Mushu, osservando teneramente Lonnie e Mulan -Ora ho due bambine da proteggere.-
Anche le principesse ebbero dei figli.
Non furono rari gli incontri tra le quattro coppie, principalmente per far conoscere i propri bambini.
Lonnie crebbe sommersa di amore da parte dei genitori, dei nonni, gli zii ed i loro figli. E anche da “zio Mushu”, come lo chiamava lei.
Da neonata, se lui si avvicinava alla sua culla, allungava le braccine e gli prendeva la coda, per poi stringerlo a sé, come fosse un pupazzetto. Mushu rischiava spesso l'asfissia tra quelle braccine tornite. Cri-Cri si permetteva persino di ridere.
Ma, in fondo, Mushu apprezzava le attenzioni della piccola.
I due stavano sempre assieme, in casa.
I nonni Fa non sapevano dell'esistenza del draghetto guardiano. Solo Mulan e Shang lo sapevano.
E se non giocava con Mushu, Lonnie giocava volentieri con i principini, il figlio di Ling e Ting Ting, Tao, la figlia di Chien Po e Sue, Zhen, ed il figlio di Yao e Mei, Jie.
Inizialmente, Lonnie era più vicina a Zhen, essendo femmina. Insieme giocavano e pettinavano le bambole.
Ma poi si accorse dei giochi che facevano Tao e Jie: giocavano alla guerra con le spade di legno. Non sapeva perché, ma era più attratta dalle spade che dalle bambole.
Mulan e Shang ridevano, ogni volta che Lonnie rubava una spada di legno ad uno dei principini per combattere con l'altro: era tutta la madre. Aveva ereditato l'ardore della famiglia Fa.
Ma il volto era del padre. Lonnie stava ereditando i tratti facciali della famiglia Li.
Per quattro anni, i coniugi Li riuscirono a godersi dei momenti come una vera famiglia. Crescevano ed amavano la figlia, avevano ascoltato le sue prime parole, rettole le mani per accompagnarla nei suoi primi passi.
E Mushu non faceva altro che sorvegliare sulla piccola. Il suo affetto per lei cresceva ogni giorno che passava.
Tuttavia, i nemici tornarono a bussare alla porta dell'Impero Celeste.
Mulan e Shang furono chiamati nuovamente alle armi. Compresi i tre consorti delle principesse: dopotutto, erano soldati.
Spezzò il cuore a tutti dover abbandonare i figli, ma proteggere la Cina era la loro priorità, come soldati.
I nemici si erano radunati sul valico, lo stesso in cui, anni prima, avevano affrontato gli Unni.
Shang era a capo della fanteria, mentre Mulan dava gli ordini agli arcieri.
L'esercito cinese era in vantaggio su quello nemico. La vittoria era vicina.
Ma, purtroppo, il male si annida dove meno ci si aspetta.
Shang era occupato ad affrontare due soldati nemici. Mulan non era lì con lui.
Non si era accorto dell'arciere che stava mirando a lui.
La freccia colpì la sua schiena. La punta fuoriuscì dal torace, nonostante la corazza.
Cadde sulla neve, macchiandola di rosso.
Solo in quel momento Mulan aveva abbandonato il suo posto per soccorrere il marito.
Era già capitato una volta. Ed era sopravvissuto.
Quel giorno, la sorte aveva deciso diversamente.
-SHANG!- esclamò, infatti, la donna, già in lacrime.
Inutile ogni tentativo di soccorso.
Il generale Li Shang era morto. In guerra. Per salvare la Cina e la sua famiglia.
La battaglia era vinta. Ma il prezzo era stato troppo alto.
Il funerale si tenne nel palazzo reale. L'imperatore volle ricordare Shang come un generale coraggioso e tenace, come un marito affidabile e come un padre affettuoso.
Lonnie era ancora troppo piccola per comprendere.
Tirava spesso la veste alla madre.
-Mamma, dì a quei signori di smetterla!- esclamava -Papà deve combattere contro i cattivi! Non può dormire! Devono svegliarlo, non metterlo in quella cassa!-
Non comprendeva la realtà. Non comprendeva che suo padre fosse morto.
Mulan non riusciva a trattenere le lacrime: cadde sulle sue ginocchia, abbracciando la figlia.
-Oh, Lonnie!- singhiozzò, stringendola forte.
Per giorni rimase chiusa in camera sua, quasi senza smettere di piangere.
Nessuno sembrava essere in grado di consolarla. Non i suoi genitori, che le stavano sempre accanto, permettendole di piangere sulle loro spalle. Non Ling, Chien Po e Yao, che non venivano mai accolti in casa Fa. Non Mushu, che Mulan respingeva sempre. E nemmeno Lonnie, che Mulan rifiutava costantemente di guardare in faccia.
Lonnie assomigliava troppo al padre. Vedere lei era quasi come rivedere suo marito. E questo aumentava il suo dolore.
Fino a quando non prese una decisione tragica.
-Mushu, non posso vivere così! Devo andarmene da qui!-
Aveva finalmente accolto il draghetto nella sua stanza. L'angoscia che le stava straziando il petto era sempre più insopportabile. Doveva parlarne con qualcuno. E Mushu era il più adatto di tutti.
-Andartene?!- si sconvolse il draghetto -E dove?!-
-Non lo so! Fuori dalla Cina, dovunque! Lavorerò come mercenaria o mi darò al crimine!-
Una scelta avventata: ormai Mulan era fuori di testa.
-Mulan, bambina mia, ascoltami.- Mushu si era avvicinato a lei, prendendole dolcemente una mano -Comprendo quello che stai passando, ma non puoi scappare. Non pensi alla piccola Lonnie? Vuoi davvero lasciare una bambina senza la madre?-
-Lo faccio soprattutto per lei, Mushu.- gli occhi ancora gonfi di lacrime erano nascosti dai suoi capelli neri -Non voglio che Lonnie cresca con una madre in costante lutto. Non voglio renderle la vita un inferno per colpa del mio dolore. E poi so che non sarà sola. Ci saranno i miei genitori, Ling, Chien Po e Yao e le principesse, e anche tu, che le darete tutto l'amore di cui ha bisogno.-
-Ma non avrà una madre. Ti prego, Mulan, ripensaci.-
Ormai Mulan aveva preso la sua decisione: doveva scappare, per il bene della figlia. Non voleva far svanire la sua serenità ed il suo sorriso con il suo lutto. Non voleva influenzarla.
-Mushu, promettimi che veglierai su mia figlia.-
Il draghetto dovette rassegnarsi: odiava vedere la sua protetta triste e non voleva che se ne andasse, ma sapeva che obbligarla a farla rimanere avrebbe aggravato la sua condizione.
Sospirò, mettendo la seconda zampa sulla sua mano.
-Come se fosse la mia.-
Non ci furono addii o discorsi. Mulan partì quella notte, senza lasciare biglietti.
Non diede neppure un bacio a Lonnie.
Era scappata, come una ricercata.
Lonnie pianse a quella notizia. Aveva perduto entrambi i genitori. Si sentiva sola.
Ma Mushu era con lei, per abbracciarla, per consolarla. Sarebbe rimasto per sempre con lei.
Per farla stare meglio, le aveva detto che sua madre era partita per un viaggio per combattere contro le persone che avevano ucciso suo padre e che sarebbe tornata quando li avrebbe sconfitti tutti.
Doveva lasciare una scintilla di speranza nel cuore della piccola Lonnie. Non avrebbe ceduto alla tristezza o al pensiero di essere stata abbandonata.
La vita di Lonnie, infatti, proseguì serenamente. Visitava spesso il palazzo reale, per giocare con i principini. O per colmare la sua solitudine.
Negli anni che passarono, Ling e Ting Ting avevano dato a Tao un fratello ed una sorella, Zheng era divenuta sorella di due gemelle e Jie aveva avuto un fratello. Ma questo non aveva compromesso l'amicizia che avevano con Lonnie, anzi.
Non la facevano sentire un'estranea, ma come parte della famiglia.
E, ovviamente, era riverita dalle principesse e dai loro consorti, in onore dell'amicizia che avevano con i suoi genitori. E anche loro dovevano darsi da fare per non farla sentire sola ed orfana.
Anche Zhou e Li ricoprivano la nipotina di amore e di attenzione. Specialmente la nonna, che, ogni sera, le raccontava le storie della figlia, di come avesse infranto le regole per amore e devozione verso il padre, come fosse divenuta soldato e come avesse salvato la Cina dal perfido e spietato capo degli Unni, Shan Yu.
Ma Lonnie preferiva la versione di Mushu: lui ci metteva più enfasi nella narrazione ed era preciso, con i dettagli. Dopotutto, lui era lì quando Mulan si era arruolata nell'esercito.
La preparazione a soldato era la parte preferita di Lonnie: rideva sempre quando Mushu le raccontava dei suoi tentativi di integrazione in un mondo completamente estraneo a lei. Era inverosimile, per lei, immaginare la madre dare un pugno a Yao, per rompere il ghiaccio.
Da non dimenticare che quello era anche il periodo in cui i suoi genitori si erano conosciuti; di come suo padre Shang avesse iniziato a nutrire rispetto per il guerriero chiamato Ping, ma poi scoprire di essersi innamorato di Mulan.
Quelle storie alimentavano l'ammirazione di Lonnie per la madre, tale da desiderare, un giorno, di poter essere come lei. O come il ragazzo che l'aveva aiutata nella sua impresa, il forestiero di nome Sora.
Avrebbe dedicato il resto della vita ad allenarsi ed entrare anche lei nell'esercito, per onorare i suoi genitori. Questo fu il suo giuramento.
E sapeva di poter contare sull'appoggio e supporto dei suoi zii.
Anche Tao e Jie, sebbene destinati a divenire principi, volevano entrare nell'esercito, come i loro padri. Tutti e tre si promisero che, una volta adulti, si sarebbero arruolati. E, se avessero giocato bene le loro carte, sarebbero saliti di rango e avrebbero capeggiato l'intero esercito cinese.
Lonnie sognava di divenire generale, come il padre e come il nonno. Come una degna di portare il cognome Li.
Ma sapeva che anche i principi ambivano a quel rango, quindi doveva darsi da fare per guadagnarsi quel titolo.
Già da bambini giocavano a fare i soldati. Insieme ai fratelli minori di Tao e Jie.
Zhen, le sue sorelline gemelle e la cugina restavano sempre in disparte, con le loro bambole ed il loro tè, ma comunque assistendo ai giochi di Lonnie e dei principini. Anzi, facevano tutte il tifo per Lonnie.
Erano passati otto anni dalla fuga di Mulan. Ancora non era tornata.
Lonnie, come ogni anno, stava portando dei fiori sotto la statua di suo padre Shang, eretta una settimana dopo la sua morte.
Lonnie, ormai, non ricordava più nulla di lui, solo ricordi sfocati. Per fortuna, i suoi zii le raccontavano storie su di lui, sul suo valore, sul suo coraggio, della sua risolutezza come generale.
I suoi genitori erano stati i salvatori della Cina. Lonnie era fiera di essere loro figlia.
Era ancora troppo piccola, però, per poter entrare nell'esercito. Doveva attendere almeno altri nove anni.
Tao e Jie, però, sembravano già avvantaggiati di lei, e non perché erano uomini: Ling stava insegnando al figlio le basi del kung fu, mentre Yao permetteva al suo di allenarsi con lui.
Lonnie non aveva una figura paterna a sostenerla ed allenarla. Tantomeno una materna.
E suo nonno Zhou non riusciva più nemmeno a camminare senza la sua stampella. Non sarebbe riuscito ad insegnarle quello che sapeva, non con dimostrazioni.
Di nuovo, Lonnie si sentì sola.
In momenti simili, Mushu trovava sempre le parole giuste per sollevarle il morale.
Ma quel giorno, lui aveva uno sguardo preoccupato sul volto.
-Lonnie, bambina mia...- le aveva detto, una volta salito sulle sue mani; stava evitando il suo sguardo, e sospirò -Devi venire al tempio dei tuoi antenati. Il Primo Antenato vuole parlare con te.-
-Il Primo Antenato?-
Ovviamente stava parlando del Primo Antenato della famiglia Fa: dopo il matrimonio, per onorare il gesto di Mulan nel proteggere la Cina da Shan Yu, Shang aveva deciso di anteporre gli antenati della moglie ai suoi.
Lonnie fu sorpresa dalla rivelazione del draghetto: ricordava le parole della bisnonna sul suo scetticismo a proposito delle preghiere agli antenati. Come era possibile, quindi, che chiedessero di lei?
Gli Antenati non si mostravano mai ai viventi.
Ma quella era un'emergenza.
Entrata al tempietto, infatti, Lonnie vide solo il capostipite della famiglia Fa, etereo, ma imponente.
La stava fissando negli occhi, come per studiarla. La ragazza si sentì intimidita da quello sguardo.
-Non hai ereditato l'aspetto di tua madre...- disse, con voce profonda -... ma hai il suo stesso cuore.-
Lonnie inclinò la testa, confusa.
Mushu sbuffò dal naso, dalle cui narici uscì una fiammella.
-Sì, ok, ottima osservazione!- lamentò, in posizione eretta sulle mani di Lonnie e le zampe anteriori incrociate -Te l'ho portata qui perché avevi qualcosa da dirle! Spero non sia questo!-
Il Primo Antenato sospirò. Poi parlò.
-Sì, hai ragione...- ammise, a malincuore; c'erano ancora attriti tra lui e Mushu -Lonnie, ho troppe cose da dirti e poco tempo a disposizione. La Cina è di nuovo in pericolo.-
-Sì, quando mai...- borbottò Mushu.
-Una grande forza oscura si sta avvicinando.- riprese il Primo Antenato, ignorando il commento -È ancora lontana, lo percepisco, ma non è un pericolo che si possa affrontare con armi comuni. Se non viene eliminato, potrebbe essere la fine per la Cina.-
Lonnie impallidì: un pericolo persino peggiore di quello che l'esercito cinese era abituato ad affrontare?
Non poteva permetterlo, ma non sapeva cosa fare.
Anche Mushu stava provando la stessa cosa.
-Oh, cielo. Oh, cielocielocielo!- mormorò, facendo avanti e indietro sulle mani di Lonnie -Cosa possiamo fare?! Cosa possiamo fare?!-
-Ho parlato ora con un vecchio amico, lo stregone Yen Sid...- informò il Primo Antenato, calmo, nonostante la notizia -C'è un modo per contrastare questo pericolo. Ma tu, piccola Lonnie, devi abbandonare la Cina e recarti in un posto di nome Auradon.-
-Auradon?-
-Un luogo a cui io ho contribuito nella fondazione, un mondo-rifugio per coloro i cui mondi sono stati divorati dall'Oscurità. Lì verrai preparata al tuo dovere. Lonnie, tu sola dovrai salvare la Cina, come hanno fatto i tuoi genitori anni fa.-
La sua occasione. L'occasione per divenire come i suoi genitori, un'eroina. Era lì. E gliela stava presentando il suo Primo Antenato.
Salvare la Cina da un male... ignoto. Lonnie era orgogliosa, ma era anche tanto spaventata.
Cosa l'avrebbe attesa? Sarebbe tornata in tempo per affrontarlo?
Il suo cuore era confuso.
-No, non posso andare!- balbettò, guardando in varie direzioni; dalla sorpresa stava quasi per far cadere Mushu -Ho... ho promesso a Tao e Jie che, una volta grandi, ci saremmo arruolati nell'esercito.-
-Piccola mia, se attendi ancora, non ci sarà più nessun Impero da proteggere.-
-Perché io? Perché non i principi Tao e Jie? Sono molto più bravi di me.-
-Loro non possono permettersi di sparire in un momento simile. Come figli delle principesse, la loro scomparsa desterebbe sospetti, oltre ad allarmare l'intera Cina. Lonnie, non so come dirtelo, ma questa Oscurità è legata a tua madre.-
Lonnie impallidì. Anche Mushu.
-A Mu-Mulan?!- balbettò questi, quasi svenendo sulle mani di Lonnie -Non è possibile! Non Mulan! Non o farebbe mai! Ha dato la sua vita per la Cina! Perché vorrebbe distruggerla?!-
-Il Maestro Yen Sid può vedere frammenti del futuro, non leggere nei cuori delle persone.- fece chiarire il Primo Antenato -Ma anche io percepisco dell'energia oscura avvicinarsi sempre di più. È ancora lontana, ma non puoi restare qui. E liberare una persona dalla propria Oscurità senza distruggerla è più efficace, se è un discendente a farlo. Lonnie, tu sei la sola speranza per la Cina. Ti chiedo di compiere questo sacrificio, per questa terra.-
E il sacrificio sarebbe stato abbandonarla. In un mondo che meglio l'avrebbe preparata al suo compito. Lì non aveva nessuno disposto ad allenarla, neppure con le armi. E i giochi che faceva con i principini non erano veri allenamenti. Conosceva solo le basi dell'arte della spada, ma erano ancora tutti troppo piccoli per approfondire come un adulto.
Non voleva lasciare la sua terra, la sua famiglia. Non poteva scomparire come sua madre. Ma non aveva altra scelta, se voleva salvarli.
Espirò dal naso e diede la sua risposta.
-Lo farò.-
Il Primo Antenato assunse un'espressione di approvazione.
Mushu, invece, aprì la bocca dallo stupore. Dalle mani della ragazza si mise sulla sua testa, cercando di guardare il Primo Antenato negli occhi.
-Lonnie non va da nessuna parte!- protestò, stringendo i pugni -Ho già perduto una bambina! Non posso perderne un'altra!-
Lonnie impallidì, con sguardo terrorizzato, a quella affermazione. E il suo cuore batté fortissimo.
-Cosa?!- esclamò, guardando in alto, rivolta al draghetto -Non verrai con me?!-
-Purtroppo no, piccola Lonnie.- spiegò il Primo Antenato -Non gli è permesso abbandonare questo mondo.- poi, si rivolse all'interessato -Sono cosciente dei tuoi sentimenti, Mushu, ma...-
-No! Mi rifiuto!- riprese il draghetto, sempre più furioso e disperato nello stesso momento -Ho promesso a Mulan che avrei vegliato su sua figlia! Non posso abbandonarla così!-
-Ma devi, Mushu. Tu non sei solo il guardiano di Lonnie. Sei uno dei guardiani dell'intera famiglia Fa. E Lonnie non è il solo membro rimasto della famiglia Fa.-
-Ma ho promesso...!-
-È per il bene della Cina. Se non la lasci andare, se non le permetti di diventare più forte, sia lei che Mulan saranno perdute per sempre.-
Mushu non voleva separarsi da Lonnie, come lei non voleva separarsi dal suo piccolo guardiano e migliore amico.
Ma entrambi sapevano cosa era giusto fare. E non sempre ciò che è giusto corrisponde alla nostra volontà.
Già negli occhi della ragazza si incominciavano ad intravedere le prime lacrime. Alzò le mani, sopra la sua testa, prendendo il draghetto: lui stava già piangendo.
-No, no, no, piccola mia, non piangere...-
Le aveva messo le zampine sulle guance, scostando le lacrime che stavano scendendo su di esse.
-Non voglio andare, non senza di te, zio Mushu.-
-Hai sentito il Primo Antenato, piccola. Non posso lasciare questo mondo. Sì, ho promesso a tua madre che ti avrei protetto, ma purtroppo sono vincolato qui, come protettore della tua famiglia. Credimi, dipendesse da me, ti seguirei ovunque. Ma, a quanto pare, adesso dovrai proseguire la tua strada senza di me.-
Ciò non alleviò il cuore di Lonnie, anzi.
Era combattuta tra due scelte.
Se fosse andata ad Auradon, si sarebbe separata da Mushu. Ma se avesse deciso di rimanere nel suo mondo, non sarebbe riuscita a difenderlo dall'Oscurità di cui aveva parlato il Primo Antenato.
-Vedrai, piccola mia, quando arriverà il momento, tornerai. Questo non è un addio.-
Almeno quella era una magra consolazione.
Non avrebbe perduto Mushu per sempre: anche se la sua età avanzava, Mushu era immortale. Lo avrebbe rivisto anche quando avrebbe compiuto cento anni.
Il Primo Antenato concesse loro un ultimo saluto. Mushu e Lonnie si abbracciarono come se fosse l'ultima volta in cui si sarebbero visti.
-Penserò io ad avvertire i tuoi nonni, piccola.- disse il draghetto, separandosi dalla sua protetta.
Lei annuì, ancora piangendo. Diede un bacio sulla sua testa e lo lasciò per terra.
-Sono pronta.- disse ella, rivolta al Primo Antenato.
Lui fece un gesto circolatorio con il suo bastone, sulla lastra cui era solito sedersi quando si incontrava con gli altri antenati: apparve un portale. Dall'altra parte si poteva notare un prato con un grande edificio, persino più grande del Palazzo Imperiale.
-Vai lì dentro. Chiedi della Fata Smemorina. Dille che ti mando io, le ho già parlato di te. Avrà già provveduto a fornirti una stanza. Lì avrai l'educazione che ti servirà per contrastare l'Oscurità che minaccia la Cina.-
-Quanto tempo ho?-
-Un lustro.-
Cinque anni.
Per uno spirito immortale come Mushu era un battito di ciglia. Per riottenere il suo piedistallo di guardiano aveva atteso mezzo millennio. Cinque anni non erano nulla.
Non prima di aver conosciuto Mulan e Lonnie. A malapena avrebbe resistito senza la loro presenza. L'immortalità era meno noiosa, con qualcuno da proteggere.
Presto non avrebbe avuto più nessuno da proteggere.
Lonnie rivolse un ultimo sguardo al suo guardiano personale, prima di attraversare il portale. Questi non aveva ricambiato: probabilmente per evitare di correre da lei all'ultimo minuto e disobbedire al Primo Antenato.
Forse la sua intenzione era proprio quella. Dopotutto, anche con Mulan aveva infranto le regole. Ma, non appena si era girato, il portale era sparito.
Lonnie avrebbe dovuto affrontare da sola l'esperienza che la attendeva ad Auradon.
Secondo il Primo Antenato, Auradon era il secondo mondo-rifugio per le persone che avevano perduto il proprio mondo, attraversando portali speciali.
Lonnie era un'eccezione: lei era lì per evitare che il suo mondo cadesse nell'Oscurità. E si sarebbe impegnata a fondo per farlo.
La Fata Smemorina la riconobbe basandosi sulla descrizione del Primo Antenato. La sua stanza era già pronta, come i cambi dei vestiti e l'organizzazione delle sue giornate.
Auradon non era solo un rifugio, era anche una scuola.
Presto Lonnie avrebbe fatto la conoscenza di altri ragazzi, tra cui Jane, la figlia della Fata Smemorina stessa, Doug, Chad, Audrey e Ben. Questi, scoprì, erano figli di persone che avevano conosciuto Sora, il suo idolo.
Un argomento in comune è sempre un buon inizio per stringere un'amicizia.
Dopo un anno, però, Lonnie ancora non era stata sottoposta alla preparazione promessa dal Primo Antenato. Aveva visto un'occasione nella squadra di scherma di Auradon, ma la squadra era già completa. Ma non avrebbe demorso: avrebbe continuato a fare domanda fino allo sfinimento.
Tuttavia, continuava ad allenarsi da sola, proseguendo da sola gli allenamenti con la spada che era solita fare con Tao e Jie.
Cominciava a sentire la loro mancanza. Come anche di Zhen. E dei suoi nonni. E soprattutto di Mushu.
Se fosse stato lì con lei, le avrebbe detto dal primo istante in cui aveva messo piede ad Auradon che cosa fare.
Le scappò una risata, ripensando ai consigli che aveva dato a sua madre, quando si era arruolata nell'esercito: sarebbe capitato anche a lei.
Per iniziare, le avrebbe detto di dare un pugno a Chad per fare amicizia.
Dopo altri tre anni, il futuro re Benjamin emanò il suo primo decreto: permettere ai bambini residenti nell'Isola degli Sperduti di vivere ad Auradon.
Lonnie fu tra i primi a sostenere quel progetto. Sapeva che quei bambini non avevano alcuna colpa per essere stati esiliati dal proprio mondo: erano lì solo per capriccio degli adulti. Non poteva non provare pena per loro.
Avevano iniziato con quattro ragazzi: la figlia di Malefica, la figlia di Grimilde, il figlio di Jafar ed il figlio di Crudelia De Mon. Più tardi avrebbe scoperto le loro storie, come erano stati inviati all'Isola degli Sperduti e provare compassione per loro.
C'era chi li ignorava e allontanava, per via delle loro ascendenze: Lonnie non fu tra quelli.
Come sostenitrice della proposta di re Benjamin, doveva dare il buon esempio. Dal primo istante cercò di instaurare un legame.
Aveva notato il cambio di capelli di Jane, scoprendo che era stata opera di Mal, la figlia di Malefica.
Anche Lonnie era abituata a portarli corti; non sarebbe stato male provare un nuovo taglio di capelli.
Ed era un'ottima scusa per conoscere i nuovi arrivati.
Erano spaesati, come se ancora non si fossero ambientati ad Auradon, ma non sembravano cattivi.E piano piano, anche il resto di Auradon li stava vedendo come lei.
Quella certezza sembrò sfumare all'irruzione di Malefica e Pietro Gambadilegno nella cattedrale di Auradon, durante l'incoronazione dei re Benjamin, Chad ed Audrey.
Lonnie avrebbe voluto intervenire, ma non sapeva come difendersi dalla magia: Mushu non le permetteva di allenarsi con le sue fiamme.
Nonostante gli anni passati ad Auradon, Lonnie non aveva fatto progressi con il suo obiettivo.
Anzi, non aveva neppure iniziato.
Pensieri oscuri stavano iniziando a manifestarsi nella sua mente: e se il Primo Antenato le avesse mentito? E se l'Oscurità avesse già divorato il suo mondo e lui l'avesse inviata ad Auradon solo per proteggerla? Cosa ne sarebbe stato dei suoi nonni, di Mushu, e delle altre persone a lei care che erano rimaste nel suo mondo?
Secondo la Fata Smemorina, il suo mondo era ancora integro. Ciò rassicurò Lonnie.
Ma quanto tempo le sarebbe rimasto, prima della sua distruzione?
Non doveva perdere tempo. Doveva essere pronta per quel momento.
Per governare su Auradon, re Benjamin aveva lasciato la squadra di scherma. Un posto era vacante.
Era finalmente l'occasione che Lonnie stava aspettando.
Affrontò e sconfisse il nuovo capitano, Jay, figlio di Jafar, che rimase colpito dalle sue capacità.
Fosse dipeso da lui, avrebbe accolto Lonnie nella squadra, ma l'intervento di re Chad, che lo aveva esortato a seguire il regolamento, fece declinare l'offerta: la squadra doveva essere composta da un capitano ed otto uomini.
Lonnie si arrabbiò con Jay, ma giammai si sarebbe arresa alle regole, come sua madre.
Si trovò presto costretta a giocare sporco, per i suoi obiettivi.
Mal era scomparsa. E anche re Benjamin.
Lonnie stava passando proprio accanto alla stanza di Jay e Carlos, quando lo scoprì: Ben era stato rapito, la sua vita per la bacchetta della fata Smemorina.
Finalmente aveva trovato l'occasione per dimostrare quanto valeva, quanto meritava di entrare nella squadra di scherma di Auradon, quanto fossero stati utili gli allenamenti con i principi, e non in uno stupido allenamento di scherma, ma con veri avversari.
Ma dovette ricattare i due ragazzi per farlo: avrebbero portato anche lei nell'Isola degli Sperduti o avrebbe rivelato del rapimento di Ben alla Fata Smemorina.
Auradon non poteva entrare in allarme: Jay e Carlos cedettero al ricatto e portarono la ragazza con loro.
Lonnie, finalmente, poté vedere l'Isola degli Sperduti con i propri occhi: le voci sui bambini erano vere, dunque. Era una vergogna lasciarli in mezzo ai veri ricercati. Non si pentì di essersi schierata dalla parte di re Benjamin, all'emanazione del suo decreto.
Anche i ragazzi con cui aveva incrociato la spada erano anime disperate, ma non certo perdute.
Meritavano una possibilità. Uma compresa.
La stessa possibilità che Jay aveva concesso a lei, una volta tornati ad Auradon: il regolamento diceva che la squadra di scherma era composta da un capitano ed otto uomini, ma non specificava il sesso del capitano.
Per questo aveva ceduto il ruolo a Lonnie: riconobbe la sua superiorità con l'arte della scherma, e questo non esitò ad ammetterlo pubblicamente.
Esattamente, da come le era stato raccontato, come suo padre Shang aveva fatto con sua madre Mulan, riconoscere ed apprezzare il suo valore, non giudicarla per il suo aspetto o per il fatto di essere donna.
Lonnie non avrebbe immaginato di incontrare una persona come suo padre. Questo la avvicinò a Jay, e lui ricambiava.
Al cotillon, infatti, ballarono insieme. E dopo di esso decisero di frequentarsi.
Jay si era reso conto della superiorità di Lonnie rispetto alle altre ragazze con cui era solito flirtare, e Lonnie scoprì che Jay non era così superficiale come appariva.
Continuò ad allenarsi con la squadra, migliorando le sue tecniche. Sentiva di essere quasi pronta al destino che l'attendeva.
Ma ciò che seguì fu persino più arduo del duello con i pirati di Uma: anche lei finì vittima dell'incantesimo di sonno di Audrey, senza essere in grado di contrastarla.
Non era niente che potesse contrastare con una spada.
E nemmeno gli Heartless, che apparvero dal nulla, inaspettatamente.
Mushu le aveva già parlato degli Heartless: anche sua madre li aveva affrontati, combattendo al fianco di Sora.
La sua spada non poté fare nulla contro quelle creature. Solo il Keyblade poteva eliminarli.
Lonnie, per la prima volta, sentì svanire il proprio coraggio e la propria tenacia. Cadde per mano degli Heartless, un attimo prima di Jay, che stava combattendo al suo fianco.
Un altro mondo era stato divorato dall'Oscurità. E Lonnie non era riuscita a contrastarla.
Come sarebbe riuscita a difendere il suo mondo?
Questo pensò, una volta risvegliatasi nella Città di Mezzo.
Lì, lei, Jay, ed i loro amici si riunirono con la Fata Smemorina, che raccontò loro dell'ultima impresa di Sora, che aveva comportato il ritorno dei loro corpi.
Ma non quello di Auradon.
 

Lonnie sente di aver deluso tutti. Il Primo Antenato le aveva promesso che sarebbe stata pronta per affrontare l'Oscurità che minacciava la Cina, se fosse andata ad Auradon. In quegli anni, Lonnie non aveva imparato niente che l'avesse preparata. Quando Carlos propone di recarsi da Yen Sid per divenire Custode del Keyblade, Lonnie è tra i primi ad esporre il suo assenso. È quella l'arma che avrebbe contrastato l'Oscurità imminente. Una volta ottenuta, sarebbe stata pronta a tornare nel suo mondo natio e proteggerlo. È pronta a tutto, pur di ottenerla...

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Capitolo 25
*** Lonnie's Dive Into The Heart ***


Note finali: per lei avevo meno idee rispetto agli altri, ma ho comunque arrangiato qualcosa; manca solo un Descendant e poi... e poi?



Lonnie's Dive Into The Heart


https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

Il Primo Antenato le aveva detto che solo lei poteva salvare la Cina.
E che Auradon era il solo ed unico posto che l'avrebbe preparata.
Si sbagliava.
Auradon era stata distrutta dagli Heartless.
Lei non poteva niente contro quelle creature. Neppure i re e la regina erano stati in grado di contrastarli.
Era stata una perdita di tempo? O il Primo Antenato non aveva spiegato nei dettagli in cosa sarebbe consistita la sua preparazione?
Non sapeva perché, ma Lonnie sentiva che era stato tutto programmato, che tutto era avvenuto secondo una logica: il suo viaggio e le esperienze vissute ad Auradon, la sua discesa nell'Oscurità, la sua ricomparsa nella Città di Mezzo.
Perché anche lei era sopravvissuta? Perché di tutti gli abitanti di Auradon, solo in tredici erano tornati completi?
Quei pensieri erano svaniti dalla sua mente, non appena stava discendendo verso la sua prova: il Tuffo nel Cuore.
“Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.”
Così Yen Sid si era congedato da loro. Una frase alquanto pragmatica.
Non aveva detto altro sul Tuffo, se non che avrebbero dovuto superare delle prove. Ma non aveva specificato di quale genere.
Ma Lonnie era determinata ad ottenere il Keyblade, perché quella era la sua strada. Perché quella era la vera arma che avrebbe impugnato per salvare la Cina dall'Oscurità.
Una luce la illuminò, spingendola ad aprire gli occhi: si stava avvicinando ad una piattaforma. Il colore dominante era il magenta.
Vi era raffigurata lei. Insieme a delle miniature con le persone a lei care: sua madre Mulan, suo padre Shang, Mushu, i nipoti dell'Imperatore, suoi amici di infanzia, e Jay.
Atterrò in piedi, delicatamente.
Lonnie si sistemò i capelli corvini dietro le spalle, prima di guardarsi intorno: la piattaforma era grande, ma non c'erano sentieri. Tutto intorno era buio.
-E ora dove vado?- mormorò, allarmata.
Yen Sid non aveva spiegato dettagliatamente la prova: dovevano cavarsela da soli. Dovevano essere pronti per ogni evenienza.
Solo voltandosi si accorse di non essere sola.
Fece uno scatto all'indietro, con un breve urlo di sorpresa. Poi guardò la persona in faccia.
-Jay?-
Il primo a sostenerla, quando voleva entrare nella squadra di scherma. Non aveva obiettato, neppure fatto scene da maschilista. Lo aveva visto nella sua espressione che, se fosse stato dipeso da lui, l'avrebbe ammessa nella squadra. Ma poi le aveva dato una possibilità persino più importante: divenire capitano.
E Jay non era un ragazzo che si lasciava impressionare facilmente. Per questo si ammiravano a vicenda.
Le ricordava suo padre Shang, basandosi sui racconti dei nonni e di Mushu: anche lui aveva dato una possibilità a sua madre Mulan, ammirandola per la sua tenacia ed il suo valore, anziché giudicarla per essere una donna.
Questo per Lonnie aveva significato molto.
-Di cosa hai più paura?- le domandò.
Lei aprì la bocca, sorpresa dalla domanda.
Poi le scappò una risata.
-Che razza di domanda è, Jay?- disse, divertita -E poi perché sei qui? Non dovresti sostenere anche tu il Tuffo?-
Ma Jay non rispose. Rimaneva fermo, a fissarla, con sguardo vuoto, indifferente.
Lonnie si avvicinò di nuovo a lui.
-Jay? Ci sei?-
Mosse persino una mano di fronte al suo volto. Lui non si mosse o chiuse le palpebre.
Stava aspettando qualcosa.
Forse una risposta.
La piattaforma ancora non rivelava sentieri. E non vi erano altre vie di uscita.
Forse rispondere alla domanda era l'unico modo di proseguire, pensò Lonnie, con un sospiro.
-Beh...- rivelò, con un filo di voce -Vedere il mio mondo consumato dall'Oscurità, come Auradon, e non poter fare nulla per fermarla.-
Il suo più grande timore da quando aveva messo piede ad Auradon.
Il Primo Antenato le aveva dato cinque anni.
Quanto tempo era passato nella Terra dei Dragoni? Di più? Di meno?
Il tempo scorreva diversamente in tutti i mondi: un secondo in uno potevano corrispondere cento anni per un altro, così come un anno in uno erano cinque anni in un altro e così via.
Lonnie sarebbe tornata in tempo per proteggere il suo mondo? Questo si chiedeva costantemente.
Jay, alla sua risposta, svanì.
-Ehi!- esclamò lei, facendo un passo in avanti.
Al posto del ragazzo, comparve un portale. Somigliava allo stesso che l'aveva condotta ad Auradon.
-Beh, cercavo un modo di proseguire ed eccolo qui.- dedusse -Quindi devo solo rispondere a delle domande? No, ci deve essere dell'altro dietro. Ma, per ora, proseguiamo.-
Quel portale la condusse verso un'altra piattaforma, uguale alla precedente.
Una figura femminile la stava attendendo.
Una donna cinese con indosso un'armatura da soldato.
Lonnie si illuminò.
-Mamma!-
Così l'avevano descritta Mushu ed i suoi nonni. Così la immaginava Lonnie: una donna fiera e coraggiosa che vestiva l'armatura imperiale.
Aveva tre anni, quando aveva deciso di andarsene, allontanarsi dalla Cina e dalla figlia. Non ricordava molto di sua madre.
Ma se era vero quello che le aveva riferito il Primo Antenato, era proprio lei la fonte di Oscurità che avrebbe minacciato la Cina. La stessa Cina che aveva difeso dallo spietato e crudele capo degli Unni, Shan Yu.
Perché distruggere l'Impero che aveva salvato? Un giorno lo avrebbe scoperto. E quel giorno sarebbe stata pronta ad affrontare l'Oscurità. In ricordo di Auradon.
-Cosa è più importante per te?-
Un'altra domanda. Esattamente come era successo con Jay.
Ma se rispondere le permetteva di proseguire la sua prova, non aveva altra scelta.
-La mia famiglia e tutti i miei amici.- rispose, decisa, con una nota di melanconia: sentiva la mancanza del suo mondo di origine, dei suoi nonni, dei suoi amici principi e di Mushu. Soprattutto di Mushu.
Le amicizie che aveva stretto ad Auradon non avrebbero mai sostituito quelle persone. Ma erano comunque importanti per lei.
Non avrebbe sopportato altre perdite per colpa dell'Oscurità.
Aveva già perso i suoi genitori, per poco anche la vita che aveva costruito ad Auradon.
La prossima volta in cui si sarebbe confrontata con l'Oscurità, sarebbe stata pronta a contrastarla, con il suo Keyblade in mano.
Era apparso un altro portale, non appena sua madre era svanita come era svanito Jay.
Nella terza piattaforma vide l'ultima persona che si aspettava di trovare: un uomo adulto. Con l'armatura da generale delle truppe cinesi.
Lonnie ricordava di averne visto solo la statua, eretta in mezzo alla piazza del paese. E nei racconti della nonna e di Mushu.
-Papà...?-
Shang. Suo padre.
Aveva solo ricordi sfocati su di lui. La feriva conoscere il suo volto solo a causa di una mera copia in pietra.
I suoi nonni ed i consorti delle principesse non erravano a dirle che somigliava molto al padre. Infatti, era così: Lonnie aveva preso i lineamenti e l'espressione sicura, quasi autoritaria, della famiglia Li. Ma aveva il coraggio e la tenacia di una Fa.
E lei era sempre stata fiera di queste qualità.
Come sarebbero andate le cose, se lui fosse sopravvissuto? Lonnie non sarebbe andata ad Auradon, per cominciare.
La Cina non sarebbe stata in pericolo.
Forse suo padre le avrebbe insegnato a combattere. Come anche sua madre. E, molto probabilmente, insegnarle ciò che conta davvero nella vita, seguire il suo cuore ed i suoi sogni. Come avevano fatto loro.
E forse si sarebbero accordati con una delle principesse ed i propri consorti per darla in sposa ad uno dei principi.
Lonnie rise a quest'ultimo pensiero. Ma, tutto sommato, non le sarebbe dispiaciuto.
Prima di conoscere Jay, ovviamente.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Chissà se suo padre le avrebbe fatto la medesima domanda, se fosse ancora vivo.
Sicuramente, lui e sua madre avrebbero permesso alla figlia di seguire il loro esempio ed essere ciò che voleva davvero essere.
In effetti, era quello il desiderio di Lonnie.
-Essere come te e la mamma.- rispose, infatti -Non solo un'eroina, ma un esempio da seguire. Essere tenace e coraggiosa come lo eravate voi due. Siete sempre stati i miei idoli e sono fiera di essere vostra figlia.-
Anche suo padre svanì.
Non apparvero più portali.
Solo tre domande, per la sua prima prova.
Dove prima era eretta la sagoma del padre, ora stava fluttuando un oggetto. Un'arma eterea. Una palla con catena.
Lonnie era confusa dalla sua vista.
Sei a metà del tuo viaggio, Lonnie.”
Una voce improvvisa la fece sobbalzare.
-Chi c'è?!-
Pensava di essere sola, in quella prova. Non si aspettava quella voce.
Il tuo amore per la terra in cui sei nata ti ha portato fin qui. Ti ha accompagnato per tutta la vita, spinto a compiere ogni tua scelta. E non ti ha mai abbandonato neppure dopo ciò che ti è accaduto. Ma come agirai, quando di fronte a te si presenteranno due scelte? Deciderai di affrontare chi ami, per salvare la tua terra dall'Oscurità, o deciderai di risparmiare chi ami, ma perdere il luogo in cui sei nata e che hai deciso di proteggere dall'Oscurità?”
Alludeva al collegamento tra sua madre e l'Oscurità che minacciava il suo mondo. Fino ad allora, aveva fatto il possibile per prepararsi ad affrontare quell'Oscurità. Aveva preso la decisione di ottenere un Keyblade, per questo.
Ma non aveva ancora pensato a sua madre. Avrebbe esitato nell'affrontarla? O avrebbe pensato alla salvezza della Cina?
Salvare un intero paese, ma perdere una persona cara. O decidere di non affrontare la persona cara, ma rimanere senza una casa.
Lonnie realizzò di trovarsi nel mezzo di un dilemma.
Non voleva perdere entrambi. Mulan era pur sempre sua madre, e, da come le aveva raccontato Mushu, aveva provato tanto amore per lei. Ma la Cina era casa sua. Il paese in cui era nata e cresciuta, conosciuto i suoi amici, dove aveva la sua famiglia.
Si mise una mano sul cuore, mordendosi entrambe le labbra.
-Io... vorrei poter salvare entrambi...- mormorò. Era il suo cuore che parlava.
Ammirava sua madre e amava il suo luogo natio. Non poteva rinunciare ad uno di essi.
Quando quel momento arriverà, dovrai compiere una scelta. Il tuo cuore deciderà chi salvare. Ma, per adesso, prosegui. Oltre questa porta, scoprirai il tuo futuro.”
La voce tacque.
In quel medesimo istante, era apparsa una porta.
Era in legno rosa, a due ante.
Lonnie rimase ferma a fissare le maniglie, mentre nella sua mente si stava formulando una domanda: dove l'avrebbe condotta quella porta? Cosa intendeva la voce con “scoprirai il tuo futuro”?
Avrebbe assistito al momento in cui avrebbe affrontato l'Oscurità che minacciava la Cina? E se così fosse stato, avrebbe arretrato o avrebbe deciso di affrontarla per il bene della Cina?
Di certo non avrebbe ottenuto il suo Keyblade, se fosse rimasta lì, a rimuginare.
Mordendosi di nuovo le labbra, mise le mani su entrambe le ante, spingendo.
Un primo spiraglio di luce la accecò, costringendola a chiudere almeno un occhio.
Le bastarono pochi istanti ad abituarsi un poco. Ma quella luce era davvero accecante. A stento teneva aperti gli occhi.
Ma doveva attraversarla, se voleva proseguire la prova.
Si gettò in mezzo a quella luce, espirando l'aria che aveva trattenuto pochi istanti prima.
Durò un attimo.
La luce era svanita.
In confronto ad essa, il luogo in cui si trovava era praticamente oscuro.
Ma, in effetti, non c'era luce. E se c'era, era nascosta da nuvole grigie.
Lonnie scoprì di essere in un giardino. Il giardino della sua casa materna.
Era tornata nel suo mondo.
Si guardò intorno, sgomenta.
-Ma come...? Come può essere possibile...?-
Era tutto come ricordava.
Passò di fronte alla statua del Grande Drago di Pietra, toccando una zampa, come per rituale. O per fortuna.
Poi si avvicinò allo stagno, notando il suo riflesso sull'acqua.
I lunghi capelli corvini le stavano cadendo sul petto. Scostò delle ciocche dal suo volto, scoprendo la sua mandibola.
Notò definitivamente i lineamenti del padre, sul suo volto.
Udì una risata, alle sue spalle.
Si voltò, sorpresa. Era la risata di un bambino. O meglio, bambina.
Vide sua madre e suo padre avvicinarsi a lei. Tenevano per mano una bambina, con folti capelli neri che quasi le coprivano il volto.
Quella bambina era lei.
Rideva.
La sua risata fece sorridere la Lonnie adolescente.
Era un ricordo legato ai suoi genitori.
Nella sua mente, quei ricordi erano sfumati. Ma ora erano chiari e nitidi.
Vide i volti dei suoi genitori, così sorridenti, spensierati. Non mostravano né preoccupazione, o paura.
La Cina non era stata più minacciata per tre anni. Mulan e Shang avevano dedicato tutto il loro tempo alla figlia. L'avevano circondata d'amore. E questo era sufficiente.
E da come rideva la piccola, era stato efficiente.
Lonnie provò una sensazione di leggerezza nel suo petto, e sorrise di nuovo nel rivivere il suo passato.
Dei suoi genitori aveva solo ricordi piacevoli. Di questo aveva ringraziato i suoi antenati.
Seguirono altri ricordi dei suoi genitori. Tutti quelli legati al giardino della casa materna.
In alcuni di essi notò persino Mushu. Rise a tutti i momenti in cui lo abbracciava, a modo suo, e lui lottava per l'aria e per la libertà.
-Povero zio Mushu...- mormorò -E non gli ho mai chiesto scusa. Pensò sarà la prima cosa che farò, quando tornerò a casa.-
Le erano state raccontate molte storie, sui suoi genitori, sul loro coraggio, sul loro valore, contro i nemici della Cina, tale da renderli gli eroi venerati ed ammirati dall'intera Cina.
Lonnie compresa.
Vederli così... umani faceva uno strano effetto. Non avevano nulla di particolare. Erano persone comuni.
Persone che avevano tutto il diritto di godersi dei momenti di pace e tranquillità in famiglia, con una figlia da crescere ed amare.
-La pace ci rende deboli...-
Lonnie sobbalzò.
Una voce femminile, ma grave, minacciosa.
Una donna con l'armatura imperiale, usurata, capelli neri come la notte con qualche filo grigio, districati, come se non si fosse mai pettinata, era sbucata da un angolo, lo sguardo rivolto verso il ricordo.
-Guarda che spettacolo pietoso...- continuò, indicando la famiglia Li -Abbiamo abbassato la guardia, in tutti quegli anni, mentre i nostri nemici erano praticamente sulla nostra soglia, in attesa di una breccia nelle nostre difese. E quando ce ne siamo accorti, era già tardi. Tutto per colpa tua, Lonnie.-
Gli sguardi della donna e di Lonnie si incrociarono.
La ragazza sentì il respiro mozzarsi: la pelle della donna era ormai pallida e talmente ruvida che sembrava fatta di carta, le orbite degli occhi nere e scavate, mettendo in risalto gli occhi.
Ma riconobbe ugualmente quella donna: Mulan, sua madre.
Non la fiera eroina della Cina i cui dipinti erano affissi in casa dei nonni materni o nel Palazzo Imperiale.
La donna di fronte a lei ne sembrava lo spettro.
-Mamma...?- balbettò, indietreggiando.
-Non osare chiamarmi in quel modo!- ribatté Mulan, battendo un piede per terra.
A quel movimento, il ricordo era svanito.
Persino il cielo si era fatto scuro. Nuvole grigie coprirono il sole.
Il giardino non era più fiorente e florido: i fiori erano appassiti, le foglie dei cespugli erano cadute. E la statua del Grande Drago di Pietra era pieno di crepe. Dei pezzi erano persino caduti.
Lonnie impallidì. Era esattamente come immaginava la Cina, se l'Oscurità avesse prevalso.
E se lei non fosse stata in grado di contrastarla.
Le ricordava Auradon, poco prima che venisse invasa dagli Heartless.
-È stata tutta colpa tua! Guarda cosa hai fatto!-
La donna avanzava. Lonnie indietreggiava.
Erano ormai ai piedi della scalinata che portava al tempietto degli antenati.
-Ci hai fatto abbassare la guardia!- proseguì Mulan, con la mano pronta sull'impugnatura della spada -Ci hai indeboliti! E guarda cosa ci ha portato! E Shang... oh, Shang... lui sarebbe ancora vivo!-
-Mamma, io...-
-Zitta, non voglio sentire altro da te!-
Lonnie era paralizzata. Non sapeva cosa fare. Ancora non aveva il suo Keyblade. Se sua madre l'avesse attaccata, proprio in quel momento, non avrebbe avuto alcuna arma con cui difendersi.
-Non meriti di ottenere un Keyblade! Non meriti neppure di salvare la Cina! Sei un'egoista, non vuoi davvero salvare il tuo mondo. No, tu vuoi solo dimostrare di essere migliore dei tuoi amici, vuoi cercare di essere meglio di me!-
Era davvero così? Lonnie si era posta molto spesso quella domanda.
Voleva far parte del gruppo di scherma per potersi allenare ed essere più avvantaggiata nell'ottenere un Keyblade o voleva solo una scusa per mettersi in mostra?
Fin da bambina, provava un po' di invidia nei confronti dei suoi amici principi: loro avevano dei genitori, volevano entrare nell'esercito, e si allenavano, per questo. Lei non aveva nessuno che l'aiutasse.
Voleva dimostrare agli altri di essere la migliore? O a se stessa?
Era persino arrivata a ricattare Jay e Carlos, per avere un'opportunità.
Gesto cui si era pentita poco dopo. Essere riuscita a tenere testa alla ciurma di Uma le aveva dato solo un lieve sollievo.
Ma mai quanto il suo senso di colpa.
Per fortuna, riuscì a schivare in tempo il fendente che sua madre aveva sferrato contro di lei, nonostante fosse assorta nei suoi pensieri.
La lama colpì gli scalini.
-È tutta colpa tua!- continuava ad urlare Mulan, prima di ogni colpo.
Lonnie faceva del suo meglio per schivare.
Non poteva schivare in eterno, però.
Era, involontariamente, ritornata ai piedi degli scalini verso il tempietto.
Nel tentativo di schivare un altro fendente, inciampò all'indietro, sul primo scalino.
Per poco non batté la testa. Riuscì, però, a mettersi a sedere.
Tuttavia, non aveva più modo o tempo per schivare il colpo di spada.
Guardò sua madre negli occhi, paralizzata: vedeva tanto odio. Delusione. Rabbia. Disperazione.
Un'ombra colpì il suo volto.
Delle fiamme aggredirono Mulan, facendola urlare, ed arretrare.
E qualcosa strisciò sul braccio di Lonnie, fermandosi al polso.
-Stai lontana dalla mia piccola...-
Anche quella voce era familiare.
Il cuore di Lonnie si aprì di speranza.
-Zio Mushu!- esclamò, sorpresa.
Il draghetto si era sporto in avanti, sulla sua mano, con il muso puntato verso Mulan, intenta, nel frattempo, a spegnersi le fiamme.
-Lonnie! Non devi lasciarti intimidire dalle sue parole! Devi combatterla!-
C'era qualcosa di strano in lui.
Si sarebbe aspettata un abbraccio. O parole di gioia.
Dopotutto non si vedevano da anni.
E Mushu non era tipo da cambiare atteggiamento. Non lo aveva fatto in tutti i secoli in cui aveva protetto e vigilato sulla famiglia Fa.
Ma non era il momento delle domande. Lonnie aveva una prova da superare.
Sebbene non sapesse come.
-Non posso!- esclamò -È pur sempre mia madre!-
-Piccola mia, guardala bene! Lei non è tua madre! Non ti direbbe mai frasi del genere!-
Mulan era ormai riuscita ad estinguersi le fiamme dalla sua armatura.
Fissò di nuovo la figlia negli occhi, con quel misto di emozioni negative.
Un alone oscuro sembrava circondarla.
Lonnie impallidì ancora. Le tornarono in mente le parole del Primo Antenato, sull'Oscurità che minacciava la Cina ed il suo collegamento con sua madre.
Era così che la immaginava.
Era paralizzata, impietrita da quel timore divenuto realtà.
-In tutti questi anni ti sei data ingiustamente la colpa per la morte di tuo padre!- spiegò Mushu, con tono da battaglia; decisamente non dal Mushu che conosceva -Inoltre, hai paura di non riuscire a salvare la Cina dall'Oscurità! Lei è la personificazione di entrambe! Sono la tua paura e la tua colpa a renderla forte! Sta cercando di fuorviarti dal tuo obiettivo, piccola mia!-
Una madre non umilierebbe mai i propri figli.
Lonnie avrebbe dovuto intuirlo.
Ma Mushu non errava: in effetti, da anni, si era attribuita la colpa per la morte del padre. Sentiva di aver indebolito i genitori, di aver fatto loro abbassare la guardia, adagiarsi sugli allori. Esattamente le stesse accuse che le aveva rivolto la madre.
Era stata troppo influenzata sulle storie che le raccontavano i nonni e gli amici sui suoi genitori, in cui venivano descritti e venerati come eroi. Lei li aveva rovinati, diceva sempre.
Lonnie aveva sentito di aver deluso i genitori, proprio per quel motivo.
Era anche per questa colpa che voleva ottenere il Keyblade: per rimediare.
Rimediare ad una colpa che nessuno le attribuiva, al di fuori di se stessa.
Mushu le stava aprendo gli occhi, a quel proposito.
Un atteggiamento del genere non era del vero Mushu.
-E tu cosa sei?- domandò, infatti.
Il draghetto si voltò di nuovo verso di lei. Serio.
Raramente il vero Mushu parlava con sguardo serio.
-Io sono la speranza nel tuo cuore.- rivelò -Nel tuo dolore, tu continui a sperare di salvare la Cina, che tua madre ritorni. Questa speranza viene dai tuoi amici e da Jay, che ti ha sostenuta quando altri ti giudicavano. Tu sai di poter ottenere un Keyblade! Perché hai davvero a cuore la Cina e il destino di Auradon.-
Anche quelli erano i suoi pensieri.
Prima di giungere ad Auradon, non aveva la minima idea di come avrebbe salvato la Cina, tantomeno come avrebbe ottenuto il Keyblade. Il Primo Antenato le aveva solo rivelato il destino della Cina. Non le aveva spiegato come avrebbe dovuto farlo.
Era spaesata, i primi giorni.
Ma, nel suo cuore, aveva continuato a sperare. Era terrorizzata, ma determinata e speranzosa nello stesso tempo.
Non poteva permettersi di arrendersi. Questo era il suo desiderio.
E ora era finalmente vicina ad ottenere l'arma che l'avrebbe aiutata.
Non osservò più sua madre con aria intimidita, ma determinata.
-Dimmi cosa devo fare, zio Mushu!- esclamò, più sicura che mai.
-Impugnami, piccola mia! Usa la mia forza per superare questa prova!-
Un giorno avrebbe affrontato sua madre. Quella prova l'avrebbe preparata a quel giorno.
L'avrebbe superata o ne sarebbe uscita sconfitta?
Il corpo di Mushu si illuminò, a contatto con la mano di Lonnie.
Si ingigantì, cambiando forma.
Lonnie non stava più toccando le squame del draghetto, ma un'impugnatura rivestita di cuoio.
Il resto era in ferro.
Mushu era diventato il suo Keyblade. Le sue fauci aperte erano la lama, il suo corpo l'asta.
La sorpresa ed il sollievo che provò non aveva eguali in passato.
Aveva finalmente ottenuto l'arma che avrebbe salvato la Cina. Aveva ascoltato la voce della speranza, non quello del dolore.
Infatti, sentì il suo cuore più leggero, nell'impugnare il Keyblade.
Mulan, nel frattempo, era riuscita a spegnere l'ultima fiamma sulla sua armatura.
Rivolse di nuovo lo sguardo alla figlia, carico di odio e di rabbia.
Tale sguardo fu ricambiato da uno pieno di determinazione.
Lonnie non esitò e si mise in posizione di combattimento.
La donna di fronte a lei era la sua prova.
Affrontandola, avrebbe dimostrato a se stessa di essere degna di brandire un Keyblade.
-Fatti avanti, madre...- mormorò, senza più provare timore.
Quasi ruggendo, Mulan accettò la sfida: sfoderò di nuovo la spada e caricò contro la figlia.
I loro stili di combattimento erano molto simili. Era la scherma cinese che insegnavano nell'esercito.
Le loro spade sembravano ondeggiare ad ogni loro colpo.
Non era un vero combattimento. Sembrava più una danza.
I loro movimenti erano tanto aggressivi quanto aggraziati.
Erano persino salite sulla ringhiera del ponticello. Entrambe tenevano perfettamente l'equilibrio.
Mulan cercava di colpire la figlia alle gambe, nei momenti in cui notava la sua distrazione, ma lei riusciva a saltare da un pomello all'altro.
Era come se lo avesse praticato per anni. Era sicura nei suoi piccoli salti. Non scivolò nemmeno una volta.
Saltarono giù nello stesso momento ed entrambe effettuando una ruota.
Mulan tendeva ad attaccare. Lonnie parava e deviava, più volte girando su se stessa e tenendo la spada sopra la spalla, a mo' di scudo.
Fissava la madre negli occhi, rimanendo concentrata, come aveva imparato ad Auradon.
Incrociarono di nuovo le spade, stavolta facendo pressione l'una sull'altra.
Lonnie era sgomenta dall'aspetto della madre, da quel volto, quegli occhi pieni di rabbia.
Non rappresentava affatto l'immagine che si era creata della madre.
Ma se Mushu aveva ragione, quella Mulan rappresentava le sue paure, le sue insicurezze, la colpa che si era attribuita alla morte del padre.
Una volta sconfitta, avrebbe finalmente esorcizzato dal suo cuore quei sentimenti negativi.
E non solo. Avrebbe dimostrato a se stessa di essere più che adeguata per il compito assegnatole dal Primo Antenato: la salvezza della Cina, anche se ciò avesse significato incrociare le spade con la propria madre.
Non si sarebbe tirata indietro. Non dopo aver visto quella misera copia della madre che stava affrontando.
Il suo aspetto aveva incentivato Lonnie a perseguire il suo scopo.
Ma doveva prima trovare un modo per disarmare o colpire la madre in un punto scoperto. Doveva pur avere un punto debole.
Da come si muoveva, dava l'impressione di non averne alcuno.
-Zio Mushu, aiutami, ti prego!- implorò, con il pensiero, rivolta al suo Keyblade -Come faccio a sconfiggerla?-
-Lei è parte di te, piccola mia.-
Lonnie fu sollevata nell'udire nuovamente la voce del suo guardiano, tra i ringhi della madre.
Ma non era come prima. Non era una voce che si poteva udire con le orecchie.
Sembrava le stesse parlando nella sua mente.
Mulan non poteva sentirlo.
-Non capisco.-
Lonnie doveva rimanere concentrata per evitare i colpi della madre. Ma doveva prestare attenzione anche alle parole di Mushu.
-Avrai anche deciso di affrontarla, ma stai ancora permettendo alle tue paure di dominarti. Questo la sta rendendo più forte. Come me, lei è solo una proiezione del tuo subconscio. Non ha punti deboli. Ad eccezione di uno. Come il mio.-
Un punto debole.
Lonnie non ne vedeva nella donna.
La sua difesa era impenetrabile.
Raramente le permetteva di contrattaccare.
La spada non difendeva alcun punto del suo corpo.
Ma Mushu le aveva rivelato che entrambi condividevano un punto debole.
Ed entrambi erano solo proiezioni, nel suo cuore. Non erano quelli veri.
Le proiezioni non nascono dal nulla, pensò Lonnie.
Ma non aveva tempo di riflettere sulle parole di Mushu.
Doveva guadagnare tempo.
Sua madre stava pressando sempre più sul suo Keyblade.
Lonnie iniziò a barcollare: le forze l'avrebbero abbandonata presto.
La sua caviglia toccò qualcosa: il primo scalino verso il tempietto della famiglia Fa.
Dove il suo viaggio era iniziato.
Doveva correre lassù, per guadagnare tempo.
Ma doveva prima liberarsi di sua madre.
Era nettamente più forte di lei. Una spinta non avrebbe fatto nulla.
Ma Jay le aveva insegnato una nuova tecnica: usare la forza dell'avversario a proprio vantaggio.
Attese un attimo, piegandosi lievemente all'indietro.
Poi girò su se stessa, senza perdere il contatto con la spada della madre.
Seguì la lama fino ad arrivare alla punta.
Poi scattò alle sue spalle.
Mulan, presa alla sprovvista, si sbilanciò in avanti, perdendo l'equilibrio, per poi inciampare sugli scalini.
La sua fronte batté contro di essi. La pietra si macchiò di sangue.
Lonnie restò a fissarla per pochi secondi, il giusto tempo per assicurarsi se si stesse riprendendo o meno.
Ma sperò di aver guadagnato abbastanza tempo per salire gli scalini ed entrare nel tempietto.
Infatti corse, senza guardarsi indietro.
Non poteva arretrare. Non così vicina alla fine.
L'interno del tempietto era rimasto integro, almeno. C'era anche il piccolo stele della famiglia Li.
Lonnie doveva pensare in fretta alle parole di Mushu. Non sapeva per quanto Mulan sarebbe rimasta priva di sensi.
Mushu le aveva detto che quella Mulan era frutto del suo subconscio, formata dalle sue paure ed incertezze.
Tuttavia, non sembrava essersi indebolita, una volta ottenuto il Keyblade.
Ogni colpo che sferrava la fortificava.
Ogni colpo che Lonnie subiva era un'altra vittoria delle sue insicurezze.
Ripensò di nuovo alle parole di Yen Sid: “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Il suo cuore, in quel momento, era in preda al panico: batteva così forte che Lonnie non riusciva a sentirlo.
Non aveva idea di come sconfiggere sua madre.
Un sibilo era sempre più vicino alle sue orecchie.
Lonnie si voltò appena in tempo per schivare, urlando, un altro fendente.
Mulan era sempre più cadaverica, più spaventosa. E sulla fronte aveva un taglio, procurato dalla caduta.
Piantò la spada nel suolo. Vi appoggiò le mani, curvata in avanti, come se fosse il suo unico sostegno.
Ansimava.
Non potevano essere bastate delle scale ed una caduta ad indebolirla così, pensò Lonnie, arretrando di qualche passo.
La sua mano toccò qualcosa di freddo: lo stele del Primo Antenato.
-Non hai scampo...- sibilò Mulan, rialzandosi in piedi; la sua voce era diventata demoniaca.
L'alone oscuro tornò a circondarla.
Avanzò lentamente verso la figlia, con passi sincopati, come se avesse una gamba rotta.
-Ti sei messa in un vicolo cieco... Non è stato furbo da parte tua... E ora cosa farai?-
Non era stata una mossa astuta, in effetti. Ma il suo cuore le stava dicendo che era proprio lì che doveva andare.
Tuttavia, era tanto un rifugio quanto una trappola. Sua madre aveva ragione a rivolgerle quelle parole.
Sapeva che non era il vero tempietto di famiglia, ma non se la sentiva di combattere lì, per non distruggere gli steli dei suoi antenati.
Ma sua madre aveva caricato un colpo ascendente.
Dovette saltare sopra di lei, per schivarlo. Le era bastato mettere le mani sopra le sue spalle, per raggiungere l'uscita.
Sperava di poter scendere gli scalini e scappare di nuovo.
Un senso di vuoto la colpì, non appena tentò di uscire fuori.
Non si mosse dalla soglia. Era subito tornata indietro.
Gli scalini erano spariti.
Anche il giardino. E lo stagno. Persino la statua.
Il tempietto stava ormai fluttuando sul nulla. Intorno a lei, nient'altro che nuvole nere.
Era in trappola.
Gli unici rumori che ormai riusciva a sentire erano i fulmini intorno a lei e la risata malefica di sua madre, che rideva di lei.
Non aveva idea di come agire.
Le sue mani iniziarono a tremare.
E Mushu stava tacendo.
Sentiva di aver fallito la sua prova.
Il suo respiro si fece più affannoso.
-Mamma...- mormorò, tentando, a stento, di trattenere le lacrime di delusione.
Mulan era sempre più vicina, sorridendo come un demonio.
Ma il suo sorriso svanì presto: la punta del Keyblade si illuminò, con grande stupore di entrambe, specialmente della portatrice.
La scia colpì lo stele della famiglia Li, che si illuminò.
La sua luce si faceva sempre più intensa, accecando la donna e la ragazza.
Lonnie doveva stare bene attenta a non indietreggiare, o sarebbe caduta nel vuoto.
Era cambiato qualcosa, nel tempietto.
-Stai lontana da lei...-
Qualcosa, o meglio, qualcuno, si era messo tra Lonnie e Mulan.
Un uomo fiero, possente. Non indossava un'armatura, ma una tunica bianca.
Entrambe si stupirono alla sua vista.
-Shang?!-
-Papà?!-
Non era il vero Shang. Intorno a lui si estendeva un'aura lucente. E lui stesso non era completamente corporeo, ma etereo.
Mulan aveva abbassato la spada, alla sua vista.
Lonnie avrebbe tanto voluto abbracciare il padre, ben cosciente che non fosse davvero lui, ma lui, con uno scatto, raggiunse la donna, per poi stringerle il polso con forza.
La spada cadde per terra, frammentandosi in una nuvola di cenere.
Inutili i tentativi di liberarsi: Shang riuscì a metterle entrambe le mani dietro la schiena. Era sempre stato il più forte dei due.
Poi, con altrettanta forza l'aveva bloccata di fronte allo stele del Primo Antenato, facendo premere la sua testa contro la fredda pietra.
Lei urlava, si dimenava, come un animale selvaggio in catene, ma invano.
-Lonnie! Usa il tuo Keyblade contro di noi!- ordinò Shang, rivolgendo il suo sguardo alla figlia, da sopra la sua spalla.
La ragazza era rimasta sbigottita dallo spettacolo: in poco tempo, lui era riuscito a disarmare e bloccare Mulan.
Anche lui, naturalmente, era frutto del suo subconscio, creato dalle storie che i nonni, Mushu ed anche i consorti imperiali raccontavano su di lui. Ed era così che lo immaginava: forte e coraggioso.
-Ascolta, lo so che ancora ti senti in colpa per me...- proseguì Shang, tenendo testa agli strattoni di Mulan -Ma non è stata colpa tua. Tu non hai colpe per la mia morte.-
Lonnie era ancora paralizzata. Stavolta dalla sorpresa, non dalla paura.
Non si aspettava di udire tali parole da suo padre, seppure solo una proiezione.
-L'amore per te non ha indebolito né me, tantomeno tua madre. Anzi, ci ha reso più forti, perché avevamo un motivo più personale per combattere contro i nemici della Cina. Non rimpiango il mio sacrificio, Lonnie. Quindi non sentirti in colpa per qualcosa che non ha commesso. Ma non rendere vano il mio sacrificio. Io voglio che tu sia felice, figlia mia. Lo so che non ci siamo mai stati, ma hai comunque avuto amore nella tua vita. E ora hai una nuova famiglia. Ti chiedo di compiere la mia ultima richiesta per ricongiungerti con loro.-
-Papà, io non voglio perderti di nuovo!-
Le lacrime stavano scendendo dalle lacrime di Lonnie. Non poteva più trattenerle, alla vista del padre.
-Lo so, tesoro mio. Ma se resti qui, non supererai la prova. Non otterrai il Keyblade. E non salverai la Cina. Cederesti ad un desiderio egoistico, piuttosto che salvare il tuo mondo natio?-
Di nuovo quel dilemma. Il dilemma che l'avrebbe colta, il giorno in cui avrebbe affrontato la sua vera madre.
Risparmiare le persone care o salvare un mondo intero?
Guardò in avanti: le due persone a lei di fronte non erano i suoi genitori. E lei lo sapeva benissimo.
Era l'unica occasione per lei di rivedere suo padre. Parlare con lui.
Ma il suo cuore già conosceva la risposta.
Lo sapeva da anni.
La vista del padre aveva infranto la barriera di insicurezza che la tratteneva.
Finalmente aveva preso la sua decisione.
Il Keyblade tornò nella sua posizione di attacco.
L'altra mano era sul suo cuore.
-Possa il mio cuore essere la mia chiave guida.- mormorò, sorridendo.
Aveva compreso il suo significato.
Agì come il suo cuore le stava consigliando.
Prese bene la mira e poi caricò contro i genitori, urlando, per liberarsi definitivamente dalle ombre che si erano create intorno al suo cuore.
Aveva preso la sua decisione. Niente l'avrebbe più fermata.
La punta del Keyblade, ciò che rappresentavano le fauci di Mushu, attraversò entrambi i corpi di Shang e Mulan. Furono trapassati proprio nelle zone in cui si trovava il cuore.
Oltrepassò persino lo stele del Primo Antenato.
Mulan rimase immobile, con la bocca spalancata.
Il suo corpo, ancora tenuto ben saldo dalle mani di Shang, cominciò a tremare, e dalla sua bocca si elevarono lamenti da oltretomba.
Lonnie ne rimase assordata. Voleva coprirsi le orecchie, ma non poteva perdere la presa sul Keyblade.
Lo stele si stava illuminando. Così anche il corpo di Mulan.
Anzi, il corpo di Mulan stava quasi divenendo tutt'uno con lo stele: ecco perché stava urlando.
Anche Shang subì il medesimo destino.
Ebbe solo un attimo per voltarsi verso la figlia, un'ultima volta, con il sorriso sulle labbra.
-Sono fiero di te, figlia mia...- mormorò, prima di svanire nella luce.
Lonnie allungò una mano, nella speranza di poter riuscire a toccare suo padre.
Era troppo tardi. La mano gli passò attraverso.
I suoi genitori erano svaniti. Come stavano svanendo dai suoi ricordi.
L'amarezza tornò nel suo cuore. Ma il senso di colpa... non c'era più.
Rivedere il volto di suo padre, le sue parole, l'avevano alleviata da quel fardello che si era creata.
“Sono fiero di te.”
Chissà se anche il suo vero padre le avrebbe detto così, pensò, con un lieve sorriso.
Abbassò lo sguardo, verso il suo Keyblade. Una mano lo stringeva ancora sull'impugnatura, l'altra stava reggendo l'asta.
Uno spiritello etereo era apparso su di esso, osservando Lonnie con orgoglio nei suoi occhi: Mushu.
-Sei stata fantastica, piccola mia.- commentò, sedendosi -Hai superato la tua prova. Lo sai cosa significa, vero? Che quando arriverai ad affrontare tua madre, non arretrerai, per il bene della Cina.-
-Non sceglierò mia madre alla Cina o viceversa.- dichiarò Lonnie, decisa -Salverò entrambi. Lo so che posso farlo.-
L'orgoglio era ancora palese in Mushu.
-Io so che puoi farcela. Ho sempre avuto fiducia in te.-
Le parole erano incoraggianti. Ma lo sguardo di Lonnie era ancora triste.
Tirò su con il naso, mentre un'altra lacrima le stava scendendo sulla guancia.
-E io senza di te non so come fare.- confessò, a cuore aperto -Zio Mushu, noi due ci rivedremo, vero? Non sai quanto tu mi sia mancato. Mi sono mancate tantissimo le nostre conversazioni, le storie che raccontavi su mia madre e mio padre, il tempo trascorso insieme.-
Non era sicura di parlare con quello vero. Ma sentiva davvero la mancanza del suo draghetto guardiano.
Lo avrebbe tanto voluto al suo fianco, nelle sue avventure ad Auradon.
Avrebbe avuto supporto in tutte le occasioni, e, almeno, l'avrebbe fatta ridere.
Mushu osservò la sua protetta con sguardo dolce. Strisciò verso la mano stretta sull'impugnatura e la toccò con entrambe le zampine.
-Te la sei cavata benissimo senza di me, in questi anni.- le disse, rassicurandola -Ma hai ragione. Tempi avversi si stanno avvicinando e tu e i tuoi amici avete bisogno di ogni risorsa. Hai ottenuto il potere di invocarmi, piccola mia. Quando avrai bisogno di me, chiama il mio nome. Accorrerò in tuo aiuto contro i tuoi nemici.-
Lonnie si illuminò, piena di speranza.
-Sul serio?!-
Aveva perduto i genitori, ma almeno avrebbe avuto il potere di invocare il suo draghetto guardiano.
-Sì, ma solo per poco tempo.- spiegò il draghetto -E non temere. Mi rivedrai prima di quanto credi. Te lo prometto.-
Se fosse stato reale, la sua testa avrebbe avuto il privilegio di ottenere un piccolo bacio.
Lonnie si arrangiò comunque. Era sempre stato così che manifestava il suo affetto per Mushu, e per dirgli grazie.
-Grazie, zio Mushu.-
Lui rispose con un cenno al bacio. Poi posò le zampine eteree sul volto della ragazza.
-Sei diventata grande...- mormorò, proprio come se fosse quello vero; o forse era sempre stato quello vero -Ti prego, non crescere in fretta. Devo ancora godermi i tuoi anni!-
Entrambi ridacchiarono.
Lonnie non smetteva di sorridere: il peso nel suo cuore le aveva creato un vuoto, ma di certo non quel tipo di vuoto che porta all'apatia. Aveva scacciato la sua colpa ingiusta, i suoi dubbi, lasciando spazio alla speranza ed alla determinazione di perseguire il suo scopo.
E sapeva che non si sarebbe tirata indietro, il giorno in cui avrebbe affrontato sua madre Mulan.
Sperò solo che non fosse così orrenda e deformata.
-Avanti, forza, cosa aspetti?!- la incitò Mushu, indicando un punto dietro di lui -Non vuoi tornare indietro?-
Detto ciò, svanì.
Lonnie, in effetti, guardò in avanti: sullo stele, lo stesso dove Shang cercava di contenere Mulan, era apparso un portale.
L'ultimo della sua prova.
Nella Terra dei Dragoni, quel portale l'aveva condotta ad Auradon.
Quello portava allo studio di Yen Sid.
Entrambi luoghi dove poteva iniziare una nuova vita.
Aveva ottenuto il Keyblade.
Aveva superato la sua prova, aveva sconfitto la proiezione di sua madre, si era liberata della sua colpa.
Era il momento di tornare indietro.
Senza indugi, attraversò il portale.

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"I can't decide what's wrong what's right
Which way should I go?
If only I knew what my heart was telling me
Don't know what I'm feeling
Is this just a dream?"

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Capitolo 26
*** Doug's Story ***


Note dell'autrice: eeee... vai con l'ultimo Descendant! Lo so, è cambiato rispetto al precedente: diciamo che l'idea di un nano che ha un figlio, effettivamente, non è molto plausibile, ma ho avuto un'idea per un upgrade. Comunque, non cambia il fatto che nel film non ha un ruolo principale (sì, giusto per la formazione di Evie e la sua maturità, ma niente di che), ma io, nella mia fantasia, gli ho dato un ruolo-chiave che noterete nei prossimi crossover KHXDescendants, anche perché qui si nota la presenza, o meglio, un personaggio di "Once Upon A Time" (a cui ho voluto cambiare nome, ma si tratta comunque di Emma). Infatti, visto che ne ho parlato tanto nelle recenti storie, non ho voluto citare la trilogia dei Descendants, e soffermarmi sul particolare.
Spero vi piaccia ugualmente, anche se scritta senza cura (come le altre storie; l'ho detto, sono scritte "alla come viene, viene" di proposito; sono dei sunti, dopotutto)
 


Doug's Story
 

Doveva essere un giorno come un altro, per i sette nani. Con l'esclusione di vagiti provenienti dall'esterno della porta.

Brontolo aveva già in mano un piccone.

-Queste bestiacce non ci fanno dormire!- esclamò -Ma ora vi faccio vedere io!-

Aveva aperto la porta, in procinto di agitare il piccone, per spaventare qualunque animale avesse trovato di fronte.

Ma non c'erano animali.

C'era una cesta, con un bambino avvolto in una copertina.

Stava piangendo, e a pieni polmoni.

-Ehi, venite tutti qui!-

Ancora un po' assonnati, il resto dei nani si unì a Brontolo. Ebbero tutti la sua stessa reazione, alla vista del neonato piangente.

-Un bambino! Che carino!- notò Mammolo, arrossendo ma dalla tenerezza.

Dotto si guardò intorno, inquieto.

-Come sarà arrivato qui? E dove saranno i suoi traditori? Ehm! Genitori?-

Cucciolo, tra tutti i nani, era il più curioso ed affascinato da quel bambino. Infatti, si avvicinò e fece dondolare l'indice.

Il bambino aveva smesso immediatamente di piangere. Il dito era molto vicino alla sua bocca: infatti, succhiò il polpastrello, spalancando i grandi occhi verdi.

Cucciolo spalancò la bocca in un grande sorriso, quasi saltellando.

-Oh, il piccolo ha fame.- realizzò Dotto; si guardò di nuovo intorno -Ehi, potremo dargli del latte di cerva.-

C'era, infatti, una cerva, non molto lontano dalla casetta.

Il latte venne raccolto in una ciotola di legno. Fu Cucciolo stesso a nutrire il neonato, intingendo prima il dito nel latte, e poi avvicinandolo al neonato. Questi non protestò sul pasto.

Ma un altro pensiero incupiva il resto dei nani.

-Non possiamo tenerlo.- iniziò Dotto, pensieroso -Abbiamo il nostro lavoro e non possiamo portarlo con noi. Idea! Possiamo portarlo da Biancaneve! Lei già aspetta un bambino e forse il suo castello sarà un luogo più adatto dove crescere il piccolo!-

Cucciolo non sembrava condividere la sua idea: appena udita la proposta di Dotto, Cucciolo aveva stretto a sé il neonato, facendo “no” con la testa.

-Non bambinare il faro, Cucciolo! Ehm, non fare il bambino!- brontolò Dotto -Come possiamo crescerlo? Chi lo cresce?-

Cucciolo indicò se stesso, con un grande sorriso.

Una cosa era certa: Cucciolo si era subito affezionato a quel bambino dai grandi occhi verdi e non aveva intenzione di separarsene.

E nemmeno il resto dei nani, Brontolo compreso. Decisero, dunque, di tenerlo con loro.

Non gli diedero un nome. Lo chiamavano semplicemente “Piccolo”.

Era già il beniamino di tutti. Oltre Cucciolo, anche Mammolo adorava prenderlo in braccio e cullarlo.

Ogni volta che piangeva, Gongolo faceva le facce buffe. Per addormentarlo, lo mettevano in braccio a Pisolo, mentre Dotto gli raccontava una fiaba. E se Eolo stava per starnutire, lo allontanavano da lui.

E Brontolo, mentre gli altri non guardavano, faceva finta di sparire e poi ricomparire semplicemente nascondendo il volto dietro le mani, gioco che faceva sempre ridere “Piccolo”.

Si davano tutti da fare per accudire il nuovo membro della famiglia. E lui sorrideva sempre ai suoi “papini”, di tanto in tanto tirando loro la barba o prendendo i loro grossi nasi.

Gli avevano persino costruito una culla, con le gambe a dondolo, accanto al letto di Cucciolo.

Cucciolo amava osservare il bambino quando dormiva: per cullarlo, faceva oscillare lievemente il lettino.

Non gli staccava mai gli occhi di dosso. E non c'era giorno in cui non gli riempisse il visino di bacini.

Nessuno si chiese più da dove provenisse. Per loro, “Piccolo” era un dono del cielo. Forse era stato davvero così, perché una Gummiship era atterrata in un punto del bosco, curandosi di fare poco rumore. Una donna, una scienziata che, a quanto pare, aveva scelto la sua carriera al figlio, aveva deciso di affidarlo a persone più meritevoli di lei, per crescere un bambino. Il frutto di una notte priva di inibizioni razionali con un suo collega, un brillante scienziato di un mondo chiamato Radiant Garden, che non voleva avere figli per timore che lo ostacolassero con la sua ricerca.

Una settimana dopo, nacque anche la figlia di Biancaneve e Florian, Beatrix.

Presto la fecero conoscere ai nani, compreso “Piccolo”. Lui già osservava, nei suoi grandi occhi smeraldini, la piccola che dormiva beatamente avvolta in una copertina di lana che aveva il suo nome ricamato.

Biancaneve ne aveva realizzata una anche per lui.

Furono giorni felici, sia per i nani che per i due sovrani. Ma il sorriso svanì improvvisamente dal volto di Biancaneve.

Dopo poche settimane dalla nascita della figlia, continuava a fissare fuori dalla finestra e parlare di Oscurità.

Nuvole nere si stavano avvicinando. Non erano nuvole da temporale.

In tutto il regno erano apparse delle strane creature, formiche giganti con gli occhi gialli.

Pur essendo Principessa di Luce, Biancaneve non aveva abbastanza potere per contrastare quelle creature.

Era stato lo Specchio Magico ad avvertirla del pericolo.

Prima delle sue nozze con Florian, le era stato concesso di tornare nel suo castello, a prelevare i suoi beni.

Curiosando in tutti gli angoli, era entrata in una stanza oscura, con un grande specchio, con i segni zodiacali come cornice.

La presenza del Mago la spaventò, all'inizio. Ma scoprì rivelarsi un valido alleato.

Come la sua matrigna, anche Biancaneve si rivolgeva a lui, ma non per chiedere se fosse ancora la più bella del reame, ma per mostrarle il reame e chiedergli consigli.

Come sulla sensazione che aveva percepito da giorni.

-L'Oscurità ha in questo mondo trovato una breccia...- aveva rivelato esso -Si espanderà e distruggerà, come al passaggio di una freccia.-

E le aveva rivelato come potesse trasformarsi in un portale verso un mondo-rifugio, dove portare Beatrix. Voleva che almeno lei si salvasse dall'Oscurità.

Anche i nani erano corsi al castello, al primo accenno di pericolo, almeno per assicurarsi che la loro Biancaneve e la piccola stessero bene.

Venne subito rivelata loro la situazione e come salvare almeno Beatrix.

A quelle parole, Cucciolo, con “Piccolo” tra le braccia, si fece avanti, porgendo il bambino alla regina con aria supplichevole.

Il messaggio era chiaro, anche se non aveva proferito parola.

Biancaneve sorrise dolcemente.

-Ma certo, Cucciolo. Anche lui.-

Il cesto era abbastanza grande per i due bambini.

Beatrix e “Piccolo” non erano coscienti di cosa stesse accadendo. Di fronte ai loro occhi c'era solo un cielo nero. E un nano dagli occhi azzurri tristi.

Raggiunsero la miniera sani e salvi. Ma non avevano ancora molto tempo.

Brontolo, Gongolo, Mammolo, Pisolo ed Eolo rimasero a guardia del castello, con re Florian ed il resto delle guardie.

Quest'ultimo diede un bacio sulla fronte della figlia, con le lacrime agli occhi.

-Ti saluto, piccolo angelo. Sii forte.- le disse, in un sussurro.

Persino i nanetti diedero un ultimo saluto al loro “Piccolo”, pieni di rimpianti: non lo avrebbero visto crescere.

Dotto e Cucciolo accompagnarono Biancaneve alla sala dello specchio. Pregarono che le creature oscure non saltassero fuori all'improvviso. Non prima di aver condotto i bambini nello specchio.

Cucciolo si prese il suo tempo, per salutare il figlio: gli riempì il volto di baci; umidi, per le lacrime che stava versando.

Dalla tasca estrasse qualcosa, che mise nella copertina, stringendovi le manine del piccolo.

-Che cos'è?- domandò Biancaneve, incuriosita; Beatrix, anche lei avvolta nella sua copertina, era tra le sue braccia, con il volto umido dalle lacrime che stava versando la madre.

-Una Gemma della Memoria.- spiegò Dotto, anche lui addolorato per la separazione da “Piccolo” e Beatrix -Una Gemma magica che ti fa ricordare dei momenti della tua vita. Sono molto rare. Questa la stiamo conservando da anni.-

“Piccolo” non avrebbe più rivisto il padre adottivo. Ma non lo avrebbe dimenticato.

Gli addii non potevano durare a lungo: le creature oscure si stavano avvicinando.

Anche Dotto e Cucciolo presero i picconi, per proteggere i due bambini.

Biancaneve, intanto, stava avvicinando il cesto allo specchio.

-Povere creature...- disse, senza smettere di piangere; anche Beatrix e “Piccolo” iniziarono a piangere; forse avevano percepito il pericolo -Il destino è stato crudele con voi. Ma dovete farvi coraggio. Il luogo dove andrete, almeno, è un luogo sicuro e vi preparerà per il vostro futuro. E forse, un giorno, libererete questo mondo dall'Oscurità. Mi dispiace solo che non saremo lì con voi, quando avrete bisogno, ma sappiate solo che vi vogliamo tanto bene.-

Una luce avvolse i due bambini. I loro occhi assistettero all'aggressione delle creature oscure su Biancaneve, che cadde per terra.

Questo fu il loro ultimo ricordo, prima di lasciare il loro mondo.

Erano entrati nel portale. Il cesto stava ondeggiando, come se fosse stato in balìa delle onde del mare.

L'unico rumore erano i loro pianti.

Quel portale avrebbe dovuto condurli in un luogo sicuro. Un mondo chiamato Auradon, fondato dai maghi per poter essere il secondo mondo-rifugio per tutti coloro che avevano perduto il loro mondo.

Ma i due bambini non erano ancora al sicuro.

Aure oscure si stavano avvicinando al cesto. Presero forma delle creature oscure, le formiche giganti. C'erano anche delle teste con la bocca zannuta, contorta in un sorriso.

I bambini non facevano altro che piangere. Non avevano nulla contro le creature oscure.

Beatrix, però, tra i pianti, aveva poggiato, per un secondo, la manina sulla Gemma portata da “Piccolo”.

Il suo corpo cominciò ad illuminarsi.

Quella luce fu dannosa per le creature oscure: infatti, stavano arretrando, chiudendo gli occhi.

Esse sparirono in nubi oscure.

E con esse, anche Beatrix.

Una luce solitaria stava fluttuando in quel mare luminoso.

“Piccolo” era rimasto solo, nella cesta.

La donna che, ad un certo punto, si era chinata su di lui, era rimasta sorpresa dalla sua sola presenza.

Beatrix, la figlia di Biancaneve, fu data per dispersa. Non aveva mai raggiunto Auradon.

Non fu possibile rintracciarla. Si temeva che l'Oscurità l'avesse divorata.

L'unico sopravvissuto fu affidato alle cure della Fata Smemorina. Lo crebbe insieme alla figlia Jane, della sua stessa età. Siccome non aveva un nome, fu lei a darglielo: Doug.

La prima cosa che aveva fatto, una volta preso Doug in braccio, fu notare la Gemma della Memoria. La prese, per evitare che il bambino, involontariamente, la rompesse o tentasse di fagocitarla.

Gliela restituì a cinque anni. E quello stesso giorno gli raccontò della sua origine e perché si trovasse lì, ad Auradon.

Quando la Fata Smemorina cominciò a parlargli di Beatrix, Doug rivelò, con grande sorpresa della fata, che da un paio d'anni gli stava capitando di sognare una bambina di nome Beatrix.

Avevano scoperto i propri nomi con le copertine con su ricamati i loro nomi che tenevano in mano.

Non la vedeva e basta: lui con lei ci parlava, ci giocava. L'aveva chiamata “l'amica di sogno”.

Non si aspettava che Beatrix fosse una persona reale. E, soprattutto, figlia di una che la Fata Smemorina aveva chiamato “Principessa di Luce”.

In realtà, solo lei era attesa ad Auradon, in quanto regina prescelta. La presenza di Doug non era prevista.

La Gemma della memoria avrebbe mostrato cosa fosse successo durante la transazione. Ma solo Doug poteva usarla.

Rivisse i suoi ultimi ricordi nel suo mondo natale: un uomo, no, un nano, forse suo padre, che lo baciava continuamente sulla fronte, con aria triste. Poi una donna, triste anch'ella, che parlava con lui e con un'altra persona, probabilmente Beatrix.

Secondo la Fata Smemorina, il nano era suo padre, e la donna era la Principessa di Luce Biancaneve.

Vide, inoltre, un luogo tutto luminoso. E una creatura oscura affacciarsi verso il cesto, con un artiglio rivolto verso di lui.

Udì un pianto, ed una luce fortissima allontanare la creatura oscura.

Non aveva mai rivolto lo sguardo a Beatrix.

Fu impossibile scoprire come fosse scomparsa.

Quella stessa notte, Doug ed Beatrix si incontrarono di nuovo.

Ogni notte, lo scenario intorno a loro cambiava, a seconda di come si sentivano: a volte si incontravano in un parco, altre in un negozio di dolci, altre in una spiaggia, e così via.

Nei giorni dei loro compleanni, erano entrambi di fronte ad una torta con le candeline. Nella realtà, non festeggiavano il loro compleanno: ma almeno potevano festeggiarlo in sogno, e di ciò ne erano felici.

Stavolta, si erano incontrati in una camera. Quella di Beatrix, a quanto pare.

Lei era seduta sul suo letto. Stava ascoltando della musica dalle cuffie. C'era una piccola scacchiera di fronte a lei, con i pezzi già sistemati.

Sorrise, nel notare il suo “amico di sogno”.

-Doug!- esclamò, togliendosi le cuffie, saltando giù dal letto, e gettargli le braccia al collo.

Si erano entrambi seduti sul letto, giocando a scacchi.

A lui piaceva trascorrere del tempo con lei; ma non sapeva come rivelarle ciò che aveva scoperto su entrambi.

Alla fine, lo rivelò, senza girare intorno alla questione.

Beatrix rimase sgomenta nello scoprire di essere una principessa.

E da quel giorno, Doug provò uno strano senso di colpa: si sentì responsabile per la scomparsa di Beatrix.

Sentiva di averle rubato la vita.

Tutte le notti in cui si sognavano, entrambi si raccontavano le proprie giornate.

Doug raccontava della sua vita ad Auradon, della Fata Smemorina e dei giochi con Jane.

Beatrix, a quanto pare, viveva in una casa famiglia, la stessa che l'aveva accolta quando era ancora in fasce. Non andava d'accordo con gli altri bambini: veniva spesso bullizzata da quelli più grandi. Stava, infatti, pianificando di andarsene, quando sarebbe stata più grande.

Quella sarebbe stata la vita di Doug, a ruoli invertiti: Beatrix avrebbe vissuto la vita a cui era destinata ad Auradon, di cui, secondo quanto rivelato dalla Fata Smemorina, sarebbe divenuta regina, insieme ai figli di altre tre Principesse di Luce; e Doug avrebbe litigato con gli altri bambini di una casa famiglia.

Ogni notte che si incontravano, Doug concludeva le conversazioni con Beatrix con una parola di scusa e la promessa di trovarla.

Beatrix non sembrava arrabbiata con il suo “amico di sogno”. Continuava a sorridergli. Ma, forse, nel suo sguardo, si poteva scorgere una lieve nota di invidia.

E Doug non l'avrebbe certo biasimata.

Per anni, Doug ed Beatrix continuarono ad incontrarsi in sogno. Per anni, si raccontavano le proprie giornate.

E, naturalmente, quando Doug iniziò a parlare dei figli delle tre Principesse della Luce Belle, Cenerentola ed Aurora, tre ragazzi come lei che, un giorno, avrebbero ereditato il compito delle proprie madri e governato su Auradon, Beatrix chiedeva costantemente di loro.

Il primo a giungere ad Auradon fu Chad, figlio di Cenerentola. Anche lui aveva perduto il suo mondo a causa delle creature oscure, gli Heartless. Ma lui aveva assistito in prima persona alla sua distruzione. Quel trauma lo aveva reso muto.

Jane aveva tentato di farlo svagare con dei giochi, e anche Doug, ma non fu sufficiente.

Poi era arrivata Audrey, figlia di Aurora. E infine Benjamin, figlio di Belle.

Ma ad Auradon c'erano quattro troni. Ed erano presenti solo tre, fra i futuri regnanti.

Beatrix era ancora dichiarata dispersa.

Nemmeno Doug non sapeva dove si trovasse, nonostante parlasse con lei quasi tutte le notti. Era un mondo lontano, a quanto pare, dove non erano presenti portali magici.

L'unico modo per raggiungerla, forse, era il Keyblade.

Anche usare continuamente la Gemma della memoria non era sufficiente: non riusciva a trovare indizi sulla sua ubicazione. Solo suo padre, Biancaneve, l'Heartless e la luce.

Solo la Fata Smemorina sapeva del legame di Doug con Beatrix. Per sicurezza, era meglio tenere quella questione segreta.

Tuttavia, c'era una piccola speranza che, magari, fosse stata inviata per sbaglio nell'Isola degli Sperduti.

Poi giunse la proposta di Benjamin, consentire ai bambini ed ai ragazzi che abitavano lì di vivere ad Auradon.

Doug sperava che tra i primi scelti ci fosse Beatrix.

Ma dalla vettura che dall'Isola era tornata ad Auradon, erano scesi quattro ragazzi, di cui due ragazze. Nessuna di loro era Beatrix.

Tuttavia, una di loro attirò la sua attenzione: Evie, la figlia di Grimilde, la Regina Cattiva. Da un certo punto di vista, la “zia” di Beatrix.

C'era qualcosa, in Evie, che gli ricordava Beatrix, pur non essendo imparentate.

Fu colpito dalla sua bellezza dal primo momento in cui l'aveva vista. Ma lei, all'inizio, non ricambiava.

Aveva visto come aveva fatto gli occhi dolci a Ben. Poi a Chad.

Non poté biasimarla. Loro erano principi. E, soprattutto, erano molto belli.

Doug, in confronto a loro, si sentiva orrendo.

Suo padre era un nano: si considerò fortunato a non essere tale.

Da qualche anno, inoltre, aveva iniziato a portare gli occhiali. Questo aveva compromesso il suo aspetto, pensava.

Le ragazze ridevano di lui, per il suo aspetto da nerd e per la sua passione per le materie scientifiche, soprattutto chimica, in cui aveva i meriti più alti.

Era anche entrato nella banda della scuola, poi divenuto capo, per attirare l'attenzione delle ragazze, ma con scarso successo. Lo ignoravano per andare dietro ai giocatori.

L'unica persona con cui poteva consolarsi era Beatrix stessa.

Talvolta, sognava di avere una chitarra, e suonava qualcosa. Soprattutto l'ultimo brano che aveva imparato.

Beatrix lo apprezzava e lo supportava nella sua carriera da musicista.

Anche lei stava diventando bella. Assomigliava sempre più a Biancaneve.

La sera dell'arrivo dei quattro ragazzi dell'Isola degli Sperduti, la sognò di nuovo. E ovviamente le raccontò il fatto di quella giornata. E del suo incontro con Evie, che rivelò essere la figlia della matrigna di sua madre Biancaneve, quindi una sorta di zia.

Da quella notte, non vi fu un momento in cui non parlasse di Evie, di quanto fosse bella, e dei suoi tentativi di conquistarla.

C'era qualcosa di strano, nello sguardo di Beatrix. Lei e Doug erano praticamente cresciuti insieme, anche se si incontravano di rado e nei sogni. Chissà quanti mondi li separavano l'un dall'altra. E avevano chiarito da tempo di non provare altro che sincera amicizia l'un per l'altra.

Ma Beatrix non sembrava più convinta.

Tuttavia, più avanti, anche lei aveva dichiarato di star frequentando un ragazzo. Quindi non aveva più motivo di essere gelosa di Doug e della sua infatuazione verso Evie.

Doug, da fratello di fatto, aveva iniziato a fare domande su domande su questo ragazzo, nome, età, comportamento e tante altre.

Beatrix rideva sempre alla sua reazione.

Tra lei ed il suo ragazzo non durò, a quanto pare. Cosa l'avesse spinta a lasciarlo, non volle dirlo.

Doug rispettò la sua volontà e non volle fare domande.

Ma sembrava contenta alla notizia che Evie fosse finalmente divenuta la sua ragazza. L'aveva conquistata con la sua gentilezza e la sua simpatia, non con l'aspetto.

-Sei un ragazzo fantastico, Doug. Sei dolce, sensibile, intelligente, gentile e simpatico.- gli diceva sempre Beatrix, ogni volta che lui si lamentava di essere troppo brutto e troppo nerd per avere una ragazza -Se le ragazze non ti apprezzano per quello che sei, allora non ti meritano.-

“Più intelligente di Chad, questo è sicuro.” pensò Doug, non nascondendo un sorriso.

Anche Beatrix rideva delle gaffe del principe.

Naturalmente, venne anche a conoscenza di quanto avvenuto il giorno dell'incoronazione. Temeva il peggio per gli altri tre principi, ma fu sollevata nel sapere che tutto si era risolto.

La relazione tra Doug ed Evie continuò e progredì.

Lei, con il suo talento da sarta, aveva avviato una piccola attività. E Doug le teneva la contabilità.

Pensava spesso al giorno in cui la sua ragazza e la sua amica di sogno si sarebbero incontrate: Evie avrebbe odiato Beatrix come sua madre odiava la sua, o sarebbero divenute amiche?

Non avrebbe dovuto aspettare, per ottenere una risposta.

Da un giorno, Evie e Ben erano scomparsi dopo la scomparsa di Mal. Jay e Carlos avevano detto a Doug che Evie era andata in campeggio, forse con un altro ragazzo. La storia sembrava inverosimile, ma forse aveva un fondo di verità.

Temeva si fosse stufata di lui, che avesse trovato qualcuno più interessante.

Quella notte si era sfogato con Beatrix: continuava a camminare avanti e indietro, mentre parlava con tono nervoso.

Lei lo inseguiva, cercando di calmarlo.

-Magari non è quello che pensi.- ipotizzò -Sono sicura che ci sia una motivazione, dietro. Secondo me dovresti aspettarla e chiarire con lei, prima di perdere la testa. Non trarre conclusioni affrettate. Potresti pentirtene.-

Beatrix aveva ragione: doveva verificare, prima di trarre conclusioni affrettate.

Attese con pazienza il ritorno di Evie.

-Lui chi è?!- le esclamò, non appena la vide. Era raro vederlo furioso.

Non sopportava il pensiero di tornare ad essere solo.

Lei, con calma e con un sorriso rassicurante sulle labbra, gli rivelò quanto accaduto, del rapimento di Ben e del piano della figlia di Ursula, Uma. E, soprattutto, che nessun ragazzo l'avrebbe separata da lui.

Doug fu sollevato dalla sua rivelazione.

Lei era stata sincera con lui; lui doveva essere altrettanto con lei.

Le rivelò della sua “amica di sogno”, Beatrix, la figlia di Biancaneve.

-Neve ha avuto una figlia?!-

Evie ne era rimasta sorpresa. Ma non c'era odio, nei suoi occhi.

Ma entusiasmo.

-Vorrei tanto conoscerla!- disse -Pensi di farmi entrare nei tuoi sogni?-

-Purtroppo non credo sia possibile...- le mostrò la Gemma della memoria -Non so perché io e lei siamo legati e possiamo comunicare nei sogni, ma forse è connessa a questa. Qui ci sono i miei ultimi ricordi nel nostro mondo natio.-

-Fammi vedere.-

Evie prese quella Gemma, stringendola in mano.

Niente.

Non vide niente.

-Purtroppo funziona solo con me.- spiegò il ragazzo -Vedo solo mio padre, mentre mi saluta, Biancaneve. E poi solo un mare di luce. Ma la Fata Smemorina ha trovato solo me, nel cesto che mi ha portato qui. Non ho idea di dove si trovi Beatrix.-

Evie era entusiasta: Biancaneve, sua sorella, aveva avuto una figlia. E questa figlia era rimasta in contatto con Doug per tanti anni. Provò anche un poco di gelosia. Ma Doug aveva scelto lei, non Beatrix. Sapeva che si vedevano solo come amici.

Era solo il sogno, per ora, a legare Doug con Beatrix.

Ma quando venne colpito dalla maledizione del sonno scagliata da Audrey, qualcosa andò storto.

Era entrato sì nel mondo dei sogni. Ma non era vigile.

Dormiva anche nel sogno.

Beatrix lo trovò disteso sul letto, sopito. Non poté non preoccuparsi.

-Doug?! Doug!- esclamava, continuando a scuoterlo per svegliarlo.

Gli era bastato toccarlo, per capire che fosse vittima di un sortilegio.

Non sapeva assolutamente cosa fare.

Un pensiero folle, in effetti, le aveva attraversato la mente: provò a baciarlo. Sulle labbra.

In effetti, lui si svegliò, ma non nella vita reale. Solo nel sogno.

Era lieto di non essere solo, in quella disavventura.

Neppure la Luce nel cuore di Beatrix era in grado di contrastare l'Oscurità di Audrey. Non l'aveva allenata come lei.

Evie, tornata ad Auradon dall'Isola degli Sperduti, notò Doug sopito nel suo negozio.

Il bacio del vero amore spezzò il sortilegio su di lui.

Ma anche quello di Beatrix era un bacio del vero amore.

E lì Doug scoprì di avere due grandi amori: quello per Evie e quello per Beatrix. Uno romantico e uno fraterno.

Questo spiegò la sua risatina, una volta sveglio. Era finalmente stata la scusa, per Evie, di dichiarare il suo amore per Doug. Per mesi, non avevano fatto altro che girare intorno a quell'argomento.

I sentimenti che lui provava per lei erano ben palesi. Era lei quella ancora incerta: ma per paura della sua reazione, non perché fosse insicura di quello che provava per lui.

Per questo, aveva lasciato che fosse Evie a fare un passo avanti.

E il bacio che gli aveva dato era la prova dei sentimenti che provava per lui.

Per la prima volta, Doug era felice.

Da piccolo, temeva che sarebbe rimasto solo per sempre. Ma ora aveva Beatrix. Evie. E tutti i suoi amici.

Non era più solo. Aveva trovato una famiglia.

Ma doveva ancora trovare un modo per portare Beatrix ad Auradon.

Quell'occasione non arrivò mai.

Gli Heartless, gli stessi che avevano distrutto il suo mondo anni prima, avevano trovato accesso anche ad Auradon.

I tre sovrani non avevano la Luce abbastanza forte per contrastarli.

Doug fece da scudo ad Evie, lasciando che uno Shadow gli estirpasse il cuore.

-Evie... Beatrix... perdonatemi...- sussurrò, prima di svanire in una nube oscura, mentre stava tra le braccia di Evie. Alcune lacrime erano cadute sul suo volto.

Al suo risveglio, temeva di essere solo.

Evie era con lui, per fortuna. Anche i tre sovrani di Auradon. E tutti gli altri. Erano in tredici.

Si trovavano nella Città di Mezzo, il primo mondo-rifugio.

Ebbero modo di ricongiungersi con la Fata Smemorina, che raccontò loro le ultime gesta di Sora, l'Eroe del Keyblade.

Carlos era il più provato dall'ultima esperienza subita, ma anche gli altri erano cambiati.

A Crepuscopoli avevano tutti provato a ricostruirsi una vita. L'unica a sostenere gli altri era Evie e la sua attività di sarta. Doug le teneva ancora la contabilità.

Anche gli altri si davano da fare con piccoli lavoretti.

Ma Auradon era distrutta, scomparsa, svanita nell'Oscurità. Con essa, anche le loro vite.

E questo non era nemmeno la cosa peggiore accaduta a Doug.

 

Dal suo risveglio, infatti, si è reso conto di un particolare: anche a distanza di settimane, Beatrix non appare più nei suoi sogni. Dal suo risveglio, dorme senza sognare. Qualcosa ha interrotto il suo legame con Beatrix, con la sua caduta nell'Oscurità. Neanche Evie riesce a consolarlo dal suo sconforto. La notte non sogna, e durante il giorno sente un gran vuoto nel suo cuore. Ogni giorno si chiede se Beatrix stia bene, se le sia capitato qualcosa. Con la proposta di Carlos di divenire Custodi del Keyblade, nel cuore di Doug si è acceso un lume di speranza. Secondo quanto aveva appreso nelle lezioni di storia, il Keyblade possedeva, tra le altre cose, il potere di aprire passaggi verso i mondi. Finalmente ha trovato la sua occasione di mantenere la promessa fatta ad Beatrix: finalmente l'avrebbe trovata e l'avrebbe portata con sé, per vivere la vita che le era stata negata.

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Capitolo 27
*** Doug's Dive Into The Heart ***


 

Doug's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

C'era solo una luce in mezzo all'Oscurità in cui Doug stava sprofondando.
Sui suoi occhiali si poteva vederne il riflesso.
C'era una piattaforma in vetro colorato, sotto di lui. Il colore dominante era il verde.
E c'era raffigurato un ragazzo, con gli occhi chiusi: lui stesso.
Intorno a lui c'erano miniature di persone a lui care: suo padre Cucciolo, Evie, Ben, Chad, Jane. Ed Emma.
-Ma cosa...?-
Yen Sid non aveva lasciato loro sufficienti informazioni sulle prove che avrebbero dovuto superare nel Tuffo Nel Cuore. Era un segreto, a quanto pare.
Si era congedato da loro con una frase: -Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.-
Era una frase che gli antichi Custodi del Keyblade solevano dire per congedarsi o per augurio.
Questo Doug lo aveva imparato nei libri di storia.
E ne era rimasto affascinato.
Aveva sempre desiderato un Keyblade: sapeva che si trattava di un'arma formidabile, in grado di aprire e chiudere qualunque cosa. Anche aprire passaggi e creare collegamenti tra i mondi.
E finalmente ne avrebbe ottenuto uno. Per raggiungere l'ultima sovrana di Auradon, la figlia di Biancaneve, Emma, da sempre connessi l'un l'altra attraverso i sogni.
La piattaforma era davvero grande. Doug si sentiva quasi una formica.
Nessun sentiero. O portale. Per ora, era tutto lì.
-Bene, e adesso...?- domandò, mettendo le mani sui fianchi, storcendo la bocca.
Si sistemò il codino, lisciandosi i capelli, poi si guardò intorno.
La piattaforma era l'unica fonte di luce. Tutt'intorno nient'altro vi era se non buio.
E il rumore dei suoi passi sul vetro.
Poi, un pianto.
Doug si voltò, sorpreso.
C'era un cesto, in effetti, per terra. Una neonata stava agitando le braccine e le gambine all'interno di una copertina di lana. E piangeva.
Quel pianto suonava familiare.
-Ehi, e tu da dove salti fuori?-
Doug si piegò: un volto paffuto e grazioso spuntava da quella copertina di lana.
La prese in braccio, iniziando a cullarla.
-Buona, buona... va tutto bene... adesso ci sono io...- le diceva, dolcemente.
La neonata, appena presa in braccio, aveva smesso di piangere. Aprì gli occhi, fissando Doug.
Lo fissava, senza sbattere le palpebre. Come se lo stesse studiando.
-Ehi, hai smesso di piangere? Non sapevo di essere così bravo. Cosa ci fai in questo luogo brutto?-
Si rese conto che quella copertina era familiare. Quella sensazione di morbidezza, di conforto...
Lui ne aveva una simile. Ma i particolari erano verdi. Quelli della neonata erano gialli.
Tornò a fissare la bambina negli occhi, stavolta con sguardo sorpreso.
-Emma...?-
Era impossibile che fosse lei. Doveva avere la sua età. Non poteva essere rimasta neonata in tutti quegli anni.
Ogni volta che si incontravano nei sogni, lei cresceva, come lui.
Entrambi avevano sedici anni, quasi diciassette.
Il tempo scorreva diversamente di mondo in mondo, ma l'avanzare dell'età di Emma era compatibile con quello di Doug.
Com'era possibile, allora, la presenza della Emma neonata tra le sue braccia?
Poi si ricordò che si trovava nel Tuffo Nel Cuore. Tutto era un'illusione.
Per assicurarsi che fosse lei, si era messo a cercare il suo nome, sulla copertina.
Non trovò il nome “Emma”. Ma una frase. Una domanda.
“Di cosa hai più paura?”
Doug lesse e rilesse quella domanda, perplesso.
La Emma neonata continuava a fissarlo, con la bocchina mezza aperta.
Sapeva che non era quella vera, ma lui continuava a cullarla.
-Già da piccola eri così bella...- mormorò lui, sorridendole e sfiorandole la fronte con il dito indice.
Le paure che gli stavano venendo in mente erano solo paure piccole, comuni, quasi insignificanti.
Poi guardò la neonata, e gli ritornarono in mente i momenti passati ad Auradon.
Veniva spesso preso in giro per il suo aspetto, per le sue passioni.
Lui era triste per questo, ma aveva cercato di non scoraggiarsi.
In fondo, aveva Emma, anche se si incontravano in sogno.
Fino all'arrivo dei ragazzi dell'Isola degli Sperduti, aveva solo lei come amica. Oltre ad avere brevi conversazioni con due dei tre futuri sovrani. Ma non erano paragonabili ad una vera amicizia.
Tuttavia, aveva fatto il possibile per fare da coordinatore per i nuovi arrivati, ed essere disponibile per chiarimenti.
E con Evie ce la metteva tutta per aiutarla nella sua attività di sartoria.
Era passato un momento in cui pensava che non fosse abbastanza; ma Evie gli aveva dimostrato il contrario, facendogli capire quanto fosse speciale, per lei. Ed erano le stesse parole che gli aveva rivolto Emma, prima.
Questo contava, per lui.
Faceva il possibile per aiutare, non rimanere indietro, sebbene non fosse bello come Chad o forte come Jay.
Ma anche lui aveva offerto il suo aiuto, quando i tempi erano avversi. Per dimostrarlo, aveva accettato di sottoporsi all'addestramento del Keyblade ed affrontare il Tuffo Nel Cuore.
Le parole gli uscirono dalla bocca.
-Essere inutile per tutti i miei amici.-
Era la risposta alla domanda.
La sua più grande paura.
La neonata svanì tra le sue braccia.
-Emma?- chiamò lui, sorpreso.
Una luce immensa lo accecò, mentre svaniva.
Non cambiò nulla.
Era ancora fermo, immobile, sulla piattaforma con lui raffigurato.
Un'altra persona era apparsa di fronte a lui: stavolta era una bambina di cinque anni.
Assomigliava molto alla neonata.
-Sei sempre tu, Emma?-
Era in piedi, con aria seria, fissa sul ragazzo.
Era la Emma bambina, come la ricordava nel loro primo incontro, nel mondo dei sogni.
E per anni si sarebbero incontrati in quel modo.
-Cosa è più importante per te?-
Un'altra domanda.
Yen Sid non aveva rivelato molto del Tuffo Nel Cuore. Dovevano essere pronti per ogni evenienza, aveva detto.
Dovevano verificare le loro capacità, se fossero degni di possedere un Keyblade; i primi a cui dovevano dimostrarlo dovevano essere loro stessi.
Su quella domanda, Doug non aveva indugi sulla risposta.
-Evie ed Emma. Sono tutto per me.-
La sua ragazza e la sua amica di sogno. La figlia di Grimilde, la Regina Cattiva, e la figlia di Biancaneve, una Principessa di Luce. Zia e nipote, da un certo punto di vista.
Questa coincidenza aveva sempre fatto ridere Doug.
Come il fatto che il figlio di uno dei nani stesse frequentando la figlia della donna che volevano uccidere per vendicare la madre della sovrana perduta di Auradon.
Una era divenuta la sua compagna di vita e l'altra era rimasta con lui dall'infanzia. Entrambe lo avevano fatto sentire speciale, non inutile, tantomeno inferiore ed inadeguato.
Doveva molto ad entrambe. Erano importanti, per lui.
Emma bambina sparì e la luce tornò.
La Emma che trovò di fronte era alta quasi quanto lui: stava apparendo come era apparsa l'ultima volta che si erano incontrati, prima degli Heartless ad Auradon.
I lunghi capelli biondi stavano quasi raggiungendo i fianchi.
Ma c'era qualcosa di strano, nel suo sguardo. Non sorrideva.
Appariva, piuttosto, delusa.
-Cosa ti aspetti dalla vita?-
Era l'ultima domanda.
Doug guardò in basso. Poi, tentò di prendere Emma per mano, ma la trapassò.
Sapeva che si trattava di un'illusione, ma voleva comunque tentare.
-Trovare Emma.- rivelò -E se Auradon esistesse ancora, la porterei lì. Ma la porterei comunque via dal mondo in cui è stata portata, quando ci siamo separati.-
Anche la Emma adolescente sparì.
Al suo posto, era apparso un oggetto sospeso in aria, etereo.
Un keytar.
Sei a metà del tuo viaggio, Doug.”
Una voce. Nella sua mente.
Doug sobbalzò.
-Chi sei?-
Era una voce familiare.
Purtroppo, però, ancora non è giunto il momento, per te, per ricongiungerti con la discendente di una delle Principesse di Luce. Un pericolo più grande sta minacciando te e tutti coloro che sono sopravvissuti alla distruzione di Auradon. L'Oscurità sta incombendo di nuovo su tutti i mondi, e voi sarete costretti a prendere parte alla battaglia contro di essa. Ma prima, Doug, devi superare una tua battaglia. Una battaglia che ti sta dilaniando dal primo momento in cui hai incontrato la sovrana perduta.”
Doug abbassò lo sguardo.
Per anni, dal momento in cui aveva scoperto l'identità di Emma, si era colpevolizzato di averle rubato la vita.
Di averla involontariamente spinta fuori dal cestino, mentre dal loro mondo si stavano recando ad Auradon.
La gemma della memoria che Cucciolo gli aveva messo nelle manine non mostrava molto di come fossero andate le cose.
-Ma potrò rivederla, non è così?-
I vostri cammini presto si reincroceranno. E da allora, dovrai restarle accanto, come lo siete stati nei vostri sogni.”
-Giammai la abbandonerò!- disse, deciso.
Era disposto a tutto, pur di restituire ad Emma la vita che le era stata negata.
In quel momento, una porta a due ante era apparsa di fianco a lui.
Supera questa porta, Doug. Ti condurrà verso la tua vera prova. Sarai pronto ad affrontare ciò che si nasconde nel tuo cuore?”
“Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Yen Sid si era congedato da loro con questa frase.
Doveva essere in un modo o nell'altro collegata alla prova, pensò Doug, serio.
Ancora non aveva compreso il suo significato.
Ma sperava di trovarlo nella prossima fase della sua prova.
Gonfiando il suo petto, aprì quella porta, lasciando che la luce che filtrava dai primi spiragli lo avvolgesse.
Non aveva paura della Luce.
Non poteva fargli male.
Ma il buio che seguì lo fece allarmare.
Aprì gli occhi: non era in un luogo completamente buio come prima. Era in una grotta.
Dalle pareti stavano spuntando delle gemme.
Doug spalancò ancor più gli occhi, sgomento e sorpreso.
-Ma questo non è...!?-
Nella sua memoria ne aveva visto solo un frammento. Ma esisteva solo un luogo, tra quelli che conosceva, dove le gemme erano incastonate nella roccia.
Quella era la caverna dei sette nani.
Era più buia di quanto ricordasse.
Ma le gemme, splendenti nei loro colori, brillavano.
Era incredibile, pensava Doug, come sette nanetti riuscissero a lavorare in un luogo di quelle dimensioni.
Ammirò la loro tenacia.
Passò una mano sulla parete, toccando una gemma.
Ricordava molto quella che lui aveva dall'infanzia; la Fata Smemorina l'aveva chiamata la Gemma della Memoria. Una pietra rara, in grado di mostrare alle persone qualunque ricordo desiderassero.
Doug la usava spesso per rivedere i suoi momenti nel suo mondo natio.
Specialmente l'ultimo.
Sperava sempre di poter vedere Emma, come fosse scomparsa durante la traversa nel portale.
Ma qualcosa sfuggiva sempre al suo sguardo.
Udì dei passi. Si avvicinavano sempre di più.
Notò tre persone avvicinarsi a lui: una donna, con una cesta in mano, e due uomini molto bassi.
Li riconobbe tutti e tre: erano Biancaneve, suo padre Cucciolo e suo zio Dotto.
Doug rimase fermo, paralizzato.
Non si stavano fermando. Eppure stavano guardando proprio nella direzione in cui si trovava lui.
Non poteva nemmeno schivarsi, perché era ormai alla parete.
Ma il trio continuava comunque a camminare, come se lui non ci fosse.
Dotto incitava gli altri due ad affrettare il passo.
Confuso, Doug li seguì. Era la sua occasione per scoprire la verità.
Diede persino un'occhiata fugace alla cesta: c'erano due neonati all'interno, avvolti in due copertine di lana.
Su una vi era ricamato il nome “Doug”, nell'altra “Emma”.
Raggiunsero un vicolo cieco, una parete con una conca, grande abbastanza per la cesta.
Quello era l'ultimo ricordo di Doug nel suo mondo.
Cucciolo, suo padre, gli stava donando la Gemma della Memoria. Non riusciva a trattenere le lacrime, e continuava a baciare il figlio neonato, sulla testina.
Doug non poté non commuoversi, a quella scena.
Non importava quante volte rivivesse quel momento, lui piangeva sempre.
Si avvicinò al nano.
-Papà, non fare così...-
Papà.
Gli faceva così strano pronunciarlo.
-Sono qui. E sto bene. Non mi senti?-
Allungò un braccio in avanti, per toccargli la spalla.
Ma gli passò attraverso.
Doug aprì la bocca, dallo stupore.
Era un ricordo. Il suo ricordo.
Non lo stava più vivendo con gli occhi di se stesso neonato.
Ma da “estraneo”.
Nella sua posizione avrebbe forse ottenuto le risposte che cercava sulla scomparsa di Emma.
Notò l'espressione di Dotto, quando Biancaneve parlava ai due bambini.
Gli Heartless si stavano avvicinando.
I due nani non sarebbero sopravvissuti. Doug assistette alla scomparsa del padre e poi di Biancaneve, per mano di quelle creature. Esattamente come avevano aggredito gli abitanti di Auradon.
-No!- esclamò, sconvolto.
Si voltò verso la conca: la cesta era sparita. Lui ed Emma dovevano aver varcato il portale.
Alcuni Heartless, una volta rapita Biancaneve ed eliminato i due nani, rivolsero la loro attenzione verso di esso.
Un paio entrarono nella conca.
Una luce, proveniente proprio da lì, li avvolse, colpendo anche il ragazzo. Stavolta, fu costretto a coprirsi gli occhi.
Non stava più toccando il suolo. Stava fluttuando.
Aprì gli occhi, stupendosi ancor più di prima: era all'interno del portale.
Un altro frammento dei suoi ultimi ricordi nel suo mondo natio.
La cesta era proprio accanto a lui.
E i due Heartless, misteriosamente sopravvissuti alla luce, si stavano avvicinando.
Si affacciarono sui bordi, incuranti dei pianti dei bambini.
Anche Doug fu tentato di avvicinarsi.
Non poteva impedire agli Heartless di fare del male ad Emma o a se stesso, ma, almeno, avrebbe scoperto, finalmente, cosa fosse accaduto durante la traversa.
Quello, nei suoi ricordi, doveva essere il momento della luce.
Ma non accadde nulla.
Un Heartless, uno Shadow, era riuscito a mettere le mani dentro la cesta, prelevando uno dei bambini.
Doug.
Dopodiché, si allontanarono, portando il neonato con loro.
Il Doug ragazzo impallidì, senza parole.
Seguì, con lo sguardo, i due Heartless allontanarsi, con lui tra le braccia.
La cesta, con Emma sopra, stava proseguendo la sua traversata.
Raggiunse un altro portale.
Si trovò sulla soglia del castello di Auradon.
I pianti della neonata erano ancora molto forti.
La Fata Smemorina uscì dal portone. Notò la cesta e prese la piccola tra le sue braccia.
-Oh, che gioia! La figlia di Biancaneve è arrivata!- esultò, sorridendo -Sana e salva, per fortuna.-
Tornò dentro, senza curarsi della cesta, o chiedersi perché fosse così grande per una neonata.
Doug rimase fermo. La Fata Smemorina non si era accorta di lui. Non gli aveva nemmeno rivolto lo sguardo.
Il suo, invece, era sconvolto, confuso.
-No... le cose non sono andate così...- mormorò.
Nella realtà, era lui ad essere giunto ad Auradon.
E la fata Smemorina lo aveva osservato con aria allarmata e delusa, non con gioia, come aveva fatto con Emma.
Ebbe un'epifania: ciò a cui aveva assistito non erano i suoi ricordi. Ma cosa sarebbe accaduto, se fosse stata solo Emma ad aver raggiunto Auradon.
Un pensiero gli passò nella mente. Non poté non impallidire di nuovo.
-Io... avrei potuto vivere la vita di Emma...-
E lei vivere la sua.
Dal suo arrivo, avrebbe subito vissuto la vita da futura sovrana di Auradon, come Ben, Chad ed Audrey.
Auradon sarebbe stata più protetta, con il quarto cuore di Luce a proteggerla.
Emma avrebbe vissuto la vita che le spettava.
Non ci sarebbe stata l'incursione di Malefica. Ben non sarebbe stato rapito da Uma. Audrey non avrebbe ceduto all'Oscurità.
No, sarebbero accadute comunque.
Ben avrebbe comunque stillato quel decreto di integrazione con l'Isola degli Sperduti.
In fondo, era da lì che tutto era cominciato.
Ed Emma ed Evie si sarebbero incontrate dal vivo. Si sarebbero odiate come le loro madri o sarebbero divenute amiche?
Emma avrebbe vissuto le sue stesse esperienze, con Evie? L'avrebbe aiutata e supportata? Anche nella sua attività di sartoria?
E cosa sarebbe accaduto a lui, se avesse vissuto la vita che aveva vissuto Emma?
Più volte ci aveva pensato. Non avrebbe avuto le opportunità che aveva avuto ad Auradon, ma almeno, forse, avrebbe avuto una nuova famiglia. Una famiglia per cui sarebbe stato solo un buono pasto, una scusa per avere più soldi. E se poi qualcosa andava storto, tutto iniziava da capo.
Non poteva immaginare che questa era stata la vita di Emma, da quando era neonata.
E lui gliela aveva rubata.
Si sentì un ladro.
-Sarebbe stato meglio, se così fosse stato...-
Di fronte a sé, in un vestito da principessa, la sua amica di sogno.
Nel buio, sembrava risplendere di una luce propria.
-Emma?!- esclamò, sorpreso.
Non era sorridente, o con sguardo sereno, come appariva sempre nei suoi sogni.
Era furente. Delusa.
-Emma, come...?- Doug non trovava nemmeno le parole; stava tremando e non solo nel corpo.
Prima, aveva solo incontrato delle illusioni che avevano preso le sembianze di Emma.
La ragazza che aveva di fronte gli stava parlando. Riusciva a vederlo.
Come se fosse realmente lì.
-Come puoi essere qui?!-
Lei serrò ancor più le labbra, sempre più delusa.
-Non hai idea di come ci si senta a far parte di un mondo a cui non appartieni!- esclamò, avvicinandosi al ragazzo -Della sensazione di inadeguatezza, di estraneità che ho dovuto soffrire, ogni volta che venivo adottata o entravo nell'ennesima casa famiglia! NON HAI IDEA DI QUANTO SIA STATA SOLA IN TUTTI QUESTI ANNI, DOUG!-
Doug si allarmò.
Era un tono aggressivo. Emma non gli aveva mai parlato così.
Cosa le stava accadendo?
-E tu...- osservò il ragazzo con aria disgustata -Ti sei trastullato con le opportunità che Auradon ti ha offerto. Quella vita doveva essere MIA! E tu lo sai!-
Sì, lo sapeva. Per anni continuava a ripeterselo.
Dal suo primo incontro con Emma, dal primo istante in cui la Fata Smemorina gli aveva parlato di lei, avvertì la sindrome dell'impostore.
Era Emma la vera attesa ad Auradon, in quanto futura sovrana. Lui non era previsto.
E lo sapeva.
Talvolta, immaginava di essere rimasto ad Auradon per pietà.
Ma dentro, sapeva di aver rubato la vita ad un'altra persona. Alla quarta regina di Auradon.
-IO dovevo vivere ad Auradon, non tu!- proseguì Emma, girando intorno a Doug -Mi hai rubato ciò che mi apparteneva di diritto! Tu! Il figlio di un misero minatore e di una serva! Credi davvero che si sarebbero preoccupati per uno come te?! Non eri nemmeno atteso. E poi perché dovevi esserlo? Guardati, non vali nulla! Non hai fatto nulla per aiutare i tuoi amici quando ne avevano bisogno, perché sei un debole! Non sai nemmeno tenere in mano una spada, figurarsi un Keyblade!-
Parole taglienti, velenose. Le stesse che si rivolgeva a se stesso.
Non dalla vera Emma.
Conosceva Emma troppo bene, per sentirle dire frasi di quel tipo.
Lei non era la vera Emma.
Quella che aveva di fronte era solo una proiezione dei suoi dubbi che aveva preso la sua forma.
Era lei la prova.
Superare il suo senso di colpa, la sua sensazione di aver rubato una vita.
La vera non lo aveva mai accusato di essere un ladro.
Anzi, quando lui le parlava della vita che dovevano condurre Ben, Chad ed Audrey in quanto sovrani, lei tirava un sospiro di sollievo e rideva.
-Beh, un lato positivo di non essere giunta ad Auradon, almeno...- diceva.
Non era invidiosa della vita di Doug. Era triste solo per essere rimasta sola, ma non era invidiosa.
Doug le rivolse uno sguardo minatorio.
-Smettila di comportarti come lei...- mormorò, quasi sibilando dalla rabbia -La vera Emma non mi direbbe mai queste cose!-
“Emma” non arretrò. Si limitò solo a fissarlo con aria fredda, indifferente. Era una proiezione, non una persona vera.
-È vero, ho vissuto una vita che non meritavo! Ho colto al volo le opportunità che Auradon mi offriva e mi ci sono buttato a capofitto!- ammise il ragazzo, stringendo un pugno -Ma, nello stesso tempo, studiavo e cercavo un modo per trovare il mondo in cui Emma era stata condotta e come fare per portarla ad Auradon. E ho scoperto che l'unico modo per ottenere entrambi i miei obiettivi era il Keyblade.- strinse al cuore la Gemma della Memoria -Sfruttando il legame tra lei e me, mi sarebbe bastato puntare il Keyblade per condurmi da lei. E ora che sono ad un passo nell'ottenerlo... non sarai tu a fermarmi!-
Gli ritornarono in mente le parole di Yen Sid: “Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida.”
Il suo cuore già da tempo aveva deciso la sua via: trovare Emma e darle la possibilità di vivere la vita che meritava.
La gemma brillò, illuminando il volto sorpreso di Doug e quello indifferente di “Emma”.
La luce cambiò forma, divenendo più grande. Circondò la mano del ragazzo, assumendo, in basso, una forma ondulata. Andando in alto, si faceva più stretto e sinuoso. Fino ad arrivare in cima, una lama ondulata.
Il Keyblade di Doug, finalmente, si manifestò: l'impugnatura e l'asta ricordavano la sua chitarra. La lama, invece, era un piccone. Un misto fra il suo talento di musicista e la sua discendenza da un minatore.
Aveva fatto breccia sul suo senso di colpa ed aveva ottenuto un Keyblade.
Doveva solo eliminare l'ombra di Emma.
-No!- esclamò lei, furibonda, allargando le braccia.
Auradon svanì in un fascio di luce.
Il buio era rimasto. Più profondo di quello della notte.
Doug guardò in basso: una piattaforma di vetro colorato.
Era tornato al punto di partenza.
Ma non c'era solo lui, raffigurato nella piattaforma.
Capovolta, c'era anche Emma. E la piattaforma aveva cambiato colore. Da verde si stava sfumando nel giallo chiaro.
Due persone nello stesso cuore.
-Pensi davvero di essere degno, Doug?!-
Da indifferente era divenuta furiosa. Persino il suo tono era paragonabile ad un ruggito.
-Dimostralo!-
La sua pelle divenne sempre più scura, nera, come la notte. I suoi occhi, da azzurri, divennero gialli.
I capelli si avvolsero intorno al suo volto, coprendolo interamente, a parte gli occhi. E, fattore più visibile, si stava ingrandendo. Di dieci metri. Pari alla Auradon Prep.
Doug indietreggiò, pallido.
L'essere che aveva di fronte non era più Emma: tutto il suo corpo era nero, come uno Shadow. E freddi occhi gialli lo stavano fissando.
Un grande buco a forma di cuore occupava tutto il petto.
Era un Heartless.
Lo aveva intravisto, durante la distruzione di Auradon. L'Heartless più grande che avesse mai visto.
E ora lo aveva di fronte.
Il suo cuore iniziò a battere veloce. Il respiro si affannò.
Stava tremando, e il Keyblade con lui.
Ebbe l'istinto di scappare, lontano da quel mostro.
Ma la piattaforma non aveva un sentiero.
Si bloccò, non appena arrivò al bordo.
Era in trappola.
L'Heartless gigante da una parte. Il vuoto dall'altra.
Doug non ebbe altra scelta.
Doveva affrontare l'Heartless. Era l'unico modo per tornare nel mondo reale.
Non era mai stato portato per le armi, ma doveva comunque tentare.
Voleva tener fede alla promessa fatta ad Emma.
Non poteva deluderla. Non poteva più lasciarla sola in un mondo cui non apparteneva.
Strinse con decisione l'impugnatura del suo Keyblade ed attese la mossa del suo avversario.
Questi stava già raccogliendo energia nella sua mano. Si era formata una sfera oscura.
Fu scagliata contro il ragazzo, che riuscì a schivarla, per poco.
In realtà, non aveva idea di come affrontare quell'Heartless.
Non aveva idea di come combattere.
E gli attacchi che esso sferrava, li schivava per poco; ma riuscivano comunque a sfiorarlo, sulla pelle o sui vestiti.
Era troppo alto. Quindi, per prima cosa, Doug doveva trovare un modo per abbassarlo.
Doveva lavorare sui tendini dietro le caviglie.
Una volta schivato l'ennesimo colpo, scivolò alle sue spalle, colpendo dietro la caviglia con tutta la forza che aveva.
Niente.
L'Heartless non avvertì il colpo.
Doug non era molto forte, infatti.
E il Keyblade non era abbastanza lungo per farlo inciampare.
Esso rivolse il suo sguardo verso il basso.
La sua mano enorme cercò il ragazzo. Nel raggiungerlo, in effetti, si piegò sulle ginocchia.
Lui, per difendersi, mosse il Keyblade come aveva visto fare nei tornei di scherma di Auradon. Ma più che colpi di scherma, sembrava stesse facendo vento con un ventaglio gigante.
Agitava il Keyblade senza tecnica, e con gli occhi chiusi.
Qualcosa, però, colpì. La mano dell'Heartless venne ritratta con un movimento scattoso.
A giudicare da quella reazione, un suo punto debole dovevano essere le mani, pensò Doug, serio.
Doveva solo attendere la prossima mossa, per verificare le sue teorie.
L'Heartless, infatti, scagliò un pugno contro il ragazzo.
Lui lo schivò all'ultimo, perdendo lievemente l'equilibrio nel tentativo.
Non doveva perdere altro tempo: con tutta la sua forza, scagliò un colpo contro quella mano.
Le sue teorie si rivelarono esatte: i suoi punti deboli erano le mani.
Da come le contorceva ad ogni colpo, non poteva essere altrimenti.
Ma non sembrava abbastanza.
L'Heartless era ancora lì. Forte quanto prima.
Doug non avrebbe retto a lungo a schivare i suoi attacchi. I suoi riflessi cominciarono a divenire lenti e prevedibili.
Quando l'Heartless mise nuovamente la mano sulla piattaforma, Doug non fece in tempo ad attaccare: inciampò su una delle dita, finendo sdraiato sul dorso.
Di istinto, si resse al polso, circondandovi le braccia, ed usando il Keyblade come ultimo anello della catena. L'Heartless iniziò ad agitare la mano, per togliere l'intruso.
Doug faceva il possibile per resistere. Ma le sue mani iniziarono a perdere la presa. Il Keyblade stava per scivolargli dalle mani.
Finì, invece, per dondolare nel vuoto. Fece il possibile per reggersi.
-Non guardare giù... Non guardare giù...- mormorava, stringendo i denti.
Con le gambe, cercava di raggiungere almeno il pollice dell'Heartless.
Vi fu uno scambio di sguardi tra il ragazzo e l'Heartless gigante.
Entrambi non sbatterono le palpebre. Doug rimase con il fiato sospeso.
Gli occhi...
Aveva trovato il suo obiettivo. Il punto debole di qualsiasi creatura vivente.
Un movimento di polso improvviso, scaraventò il ragazzo in aria.
Verso l'alto, non il basso.
Urlò. Ma doveva riprendere la concentrazione.
Era sempre più vicino all'Heartless. Era una questione di tempistica.
Doveva attendere il momento giusto: troppo presto, l'Heartless si sarebbe spostato; troppo tardi, lui sarebbe caduto sulla piattaforma, probabilmente senza sopravvivere.
Era sempre più vicino alla testa.
“È un azzardo. Ma devo tentare comunque.”
Posizionò il Keyblade sopra la testa.
-Prendi questo!- esclamò.
La lama si conficcò in uno degli occhi gialli, come aveva pianificato.
L'Heartless si dimenò, urlando senza emettere suoni. Le mani coprirono il volto.
Si piegò in avanti. L'altezza dalla piattaforma si era ridotta.
Lasciando la presa dal Keyblade, Doug tornò per terra, atterrando, purtroppo, di deretano.
In quello stesso istante, l'Heartless aveva colpito la piattaforma a mano aperta, facendola tremare.
Stava continuando a fissare il ragazzo negli occhi.
“No... non è stato sufficiente...?” pensò questi, impallidendo.
Sentì qualcosa solleticargli le gambe.
Guardò in basso, inorridito: una melma oscura si stava formando dalle mani dell'Heartless gigante, circondando l'intera piattaforma, e stava iniziando a coprire anche il ragazzo.
Non riusciva più a muovere le gambe. La melma stava raggiungendo il suo addome, il petto, le braccia, il volto.
Tentò di dimenarsi, per liberarsi.
Più la melma avanzava, più l'Heartless svaniva.
-No, no, no, no!- esclamava, agitandosi.
Il Keyblade era sparito subito dopo l'attacco.
Non aveva speranza di liberarsi.
L'Oscurità lo stava per inghiottire.
Ormai la melma aveva raggiunto il suo mento. Un braccio era bloccato. L'altro riuscì a malapena ad allungarlo in avanti.
L'Heartless era svanito.
Ma l'Oscurità che aveva generato aumentava.
Ansimava, con il cuore pieno di paura.
-Aiuto...!- riuscì ad esclamare, prima che la melma gli coprisse la bocca.
Guardava in alto, con aria supplichevole. Delle lacrime stavano per scendere dagli occhi chiari.
Notò una scintilla, prima che fosse costretto a chiudere gli occhi a causa della melma.
Una mera speranza, pensò.
Ma poi, sentì qualcosa di caldo e vellutato toccare la sua mano e stringerla dolcemente.
Da quel tocco, una luce potente e brillante scacciò via quella melma, liberando, così, il ragazzo.
Doug continuava a tenere gli occhi chiusi, sbarrati.
Tuttavia, non avvertiva più il freddo ed il senso dell'oppressione che gli stava provocando la melma.
Quello che ora stava provando era... calore.
E dei capelli lunghi e fluenti.
Stava abbracciando qualcuno. E qualcuno stava abbracciando lui.
Decise di aprire gli occhi.
Non era più nel buio. Ma in una stanza.
Era una stanza chiara, luminosa. Con un tavolino imbandito di un servizio da tè e dei dolcetti.
Conosceva bene quella stanza.
E quell'odore... solo una persona aveva quell'odore, sui suoi capelli.
-Emma...?-
Scostò la testa, per osservare la ragazza negli occhi: ella teneva gli occhi chiusi.
Sembrava sopita. No, concentrata.
Non appena udì il suo nome per la seconda volta, le sue palpebre si alzarono.
Ci vollero pochi attimi, prima che gli occhi chiari mettessero a fuoco la sagoma di chi aveva di fronte.
Doug si commosse allo sguardo di stupore di Emma.
-Doug...?!-
Le mani delicate si posarono sul suo volto, in particolare sulle sue guance, studiandolo, assicurandosi che fosse davvero lui.
Gli occhi le divennero umidi. Poi, le lacrime scesero come una cascata.
-Doug!!!-

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Il ragazzo per poco non barcollò dalla forza con cui Emma si era gettata su di lui, abbracciandolo forte.
Le sue lacrime stavano già bagnando la sua spalla.
Piangendo anche lui, ricambiò l'abbraccio.
Non aveva bisogno di prove: lei era la vera Emma. Il suo odore, la sensazione che provava ogni volta che le toccava i capelli... erano prove sufficienti.
Come i suoi pianti.
Si guardarono di nuovo in faccia.
Emma dovette mettersi in punta di piedi, per raggiungere il suo volto: coprì le guance e la fronte di baci. Le scappò persino un velato bacio sulle labbra.
-Sei vivo! Sei vivo!- lo abbracciò di nuovo, senza smettere di piangere -Dove sei stato?! È quasi passato un anno!-
Un anno. Ecco da quanto tempo Auradon era svanita.
-Non immagini quanto mi sia sentita sola, per tutto questo tempo!-
-Emma, mi dispiace, mi dispiace tantissimo!-
Non era solo per la sua assenza che Doug si stava scusando.
Si staccarono l'uno dall'altra.
-Il fatto è che... Auradon è stata invasa dalle stesse creature che hanno distrutto il nostro mondo.- spiegò lui, a malincuore -Io sono caduto nell'Oscurità.-
Emma si coprì la bocca, sgomenta. Non poté credere di aver perduto il suo amico di sogno come aveva perduto sua madre ed il suo mondo natio.
Ma era tornato. Ed era di fronte a lei. Questo importava.
-Al mio risveglio, mi sono accorto di essere tornato umano. Ma, quando dormivo, non riuscivo più a sognarti. Emma, mi dispiace.-
Emma lo abbracciò un'ultima volta.
-Oh, Doug! Sei tornato! Sei tornato, tornato!- le lacrime stavano cessando, lasciando spazio ad un sorriso.
Squadrò il ragazzo in tutti gli angoli.
-Ehi, ti sei lasciato il codino?- con un dito giocherellò con una ciocca.
-Oh, beh, sì. Non avevo voglia di tagliarmeli.-
-Non stavi male con i capelli corti. I capelli lunghi ti rendono uno sciatto.-
-Ma lo sai che me lo dice anche Evie?-
-Oh, Evie! Come sta? Anche lei è tornata, vero?-
-Sì, sta bene, non preoccuparti. Alcuni di noi sono sopravvissuti agli Heartless. E ora...-
Si illuminò, per poi guardarsi le mani. Erano vuote.
Il Keyblade era scomparso.
Tuttavia, sentiva una sensazione di prurito provenire dal palmo destro.
Come se qualcosa volesse uscire.
Doug intuì di cosa si trattasse.
-Emma, guarda.-
Con un movimento fluido del polso, aprì la mano.
Una luce si manifestò, prendendo forma.
Il Keyblade era tornato.
Entrambi si stupirono.
-Ah! Lo sapevo!- esultò Doug -Una volta ottenuta, non abbandona il suo possessore!-
Emma rimase affascinata dalla chiave gigante.
-Doug, cos'è?-
Il ragazzo la guardò negli occhi, e, con l'altra mano, prese la sua.
-Ciò che stavo cercando da anni.- spiegò, pieno di speranza, nello sguardo, nel suo cuore -Un modo per portarti via da quel mondo.-
Emma inclinò la testa, confusa.
-Questa è un'arma con cui è possibile viaggiare nei mondi. Le altre soluzioni a cui ero arrivato non erano quelle esatte. Tutto si era incentrato a questo. E adesso l'ho ottenuto! Possiamo finalmente vederci dal vivo! Oh, sapessi quante cose sono successe e cosa ho dovuto affrontare per ottenerlo. E... accidenti, da dove inizio, adesso...?-
Doug si era lasciato andare dall'entusiasmo. Le parole stavano per uscirgli dalla bocca in ordine sparso.
Emma si mise a ridere.
-Ok, adesso calmati.- lo incitò, con tono dolce e rassicurante -Anche io ho tante cose da raccontarti. Ehi, guarda, perché non ne parliamo con calma? Sediamoci e prendiamoci un tè, come facevamo prima. Abbiamo tutto il tempo del mondo.-
Non aveva torto. Ogni volta che entrambi si sognavano, il tempo si fermava. Tranne quando dovevano svegliarsi.
Ma Doug non voleva ancora tornare indietro.
Si godette quei momenti con Emma, bevendo tè e mangiando i pasticcini, e parlando.
Lei gli raccontò delle avventure che aveva vissuto dal momento in cui avevano smesso di sognarsi. Lui, invece, le raccontò di quanto avvenuto dal suo risveglio, e del Tuffo nel Cuore, delle prove che aveva sostenuto, della proiezione che gli aveva rivolto parole al veleno.
Emma rimase sconvolta da quest'ultimo elemento.
E notò lo sguardo dispiaciuto di Doug, mentre lo raccontava.
-Emma, lo so che non me lo hai mai detto, ma... volevo comunque chiederti scusa.- fece persino un gesto della testa, voltandola verso il basso -In tutti questi anni, mi sono sentito un ladro. Ti ho rubato la vita che ti spettava ad Auradon, mentre tu eri costretta a lottare per la vita. Meritavo di venire soffocato da quella melma oscura. Però... ho sentito qualcosa portarmi via da lì. Eri tu, vero Emma? Riconoscerei a mille il tuo tocco.-
Emma, sorrise dolcemente.
-Avevo percepito un pericolo, nel sonno. Mi è bastato seguire quella sensazione. E ho trovato te.- gli prese una mano, senza stringerla -Doug, tu non hai rubato nulla.- disse, per rassicurarlo -Tu non c'entri nulla con quello che è successo. È stato un incidente.-
Doug lo sapeva. Lo aveva visto nella Gemma della Memoria.
Gli unici responsabili della scomparsa di Emma erano gli Heartless, non lui.
Ma aveva lasciato parlare il suo senso di colpa, quasi annebbiando il suo giudizio.
-Non ti avrei mai detto quelle parole orrende, lo sai, vero Doug?-
-Sì, lo so. Per questo non mi sono lasciato scoraggiare. E sono riuscito ad ottenere il Keyblade.-
Le tazze erano vuote, come la teiera. Anche i piatti dei pasticcini lo erano.
-Per quanto desideri restare qui con te, devo tornare nel mondo reale, Emma.- ammise il ragazzo, a malincuore. Si alzò, con sguardo triste.
Emma seguì i suoi passi, abbracciandolo di nuovo.
-Oh, no, ti prego, non andare! Resta un altro pochino! Non ci vediamo da tanto tempo!-
-Mi dispiace, Emma. Ma devo.- le carezzò i capelli -Devo allenarmi, per riuscire a portarti nel mondo dove vivo ora. Ma tanto ci rivedremo nei sogni, non temere.-
-Non voglio più incontrarti nei sogni.- Emma aveva affondato il volto sul suo petto; la sua voce era ovattata -Voglio incontrarti dal vivo.-
Doug le prese il volto, spingendola a guardarlo in faccia.
Stava sorridendo.
-Presto ci incontreremo. Te lo prometto. Devi solo aspettare un altro po'. Ma vedrai che ci incontreremo dal vivo.-
Le baciò la fronte, per poi guardare il muro.
C'era una porta, apparsa dal nulla. C'era solo una grande serratura sul legno.
-Doug...-
-Sì?-
-Salutami Evie. E dille che non vedo l'ora di conoscerla.-
-Eheh... Sapessi quant'è curiosa anche lei di conoscerti...-
Gli bastò puntare il Keyblade in avanti per aprire quella porta.
Il legno svanì, lasciando entrare una luce brillante che invase la stanza.
Doug aveva superato la sua prova.
Aveva ottenuto il Keyblade per ritrovare la quarta sovrana di Auradon.

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"You can find me in the space between
Where two worlds come to meet
I'll never be out of reach
'Cause you're a part of me so you can find me in the space between
You'll never be alone
No matter where you go
We can meet in the space between
"

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Note finali: YEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE! Ho finito! Ho finito! Ho finito con i Descedants! Oh, aspettate, c'è ancora l'epilogo e questa storia finirà. Ai pochi che hanno letto questa serie di capitoli: quale è stata la vostra storia o Tuffo nel Cuore preferito? Scrivetelo nei commenti!
...
No, eh?

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Capitolo 28
*** Epilogo - Conseguenze ***


Note dell'autrice: EEEEEEE FINITO! Fine di queste storielle "alla come viene e viene". Adesso solo roba seria. Rimanete connessi per degli sviluppi, perché con questi bei ragazzotti non ho ancora finito... ;-3

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Di cosa hai più paura?
Mal: Che qualcuno faccia del male alle persone che amo.
Evie: Diventare come mia madre.
Jay: Non poter proteggere i miei amici.
Carlos: Restare da solo.
Ben: Essere incapace di proteggere ciò a cui tengo.
Chad: Perdere qualcosa per colpa dell'Oscurità.
Audrey: Cadere di nuovo nell'Oscurità.
Uma: Perdere una persona cara.
Harry: Essere abbandonato.
Gil: Sentirmi inadeguato.
Jane: Non essere degna del mio compito.
Lonnie: Vedere il mio mondo sommerso nell'Oscurità.
Doug: Essere inutile.
 

Cos'è più importante per te?
Mal: Ben.
Evie: Le mie creazioni.
Jay: I miei amici.
Carlos: Le persone che amo.
Ben: Essere un degno sovrano.
Chad: I miei amici e familiari.
Audrey: Non deludere le persone intorno a me.
Uma: Scoprire chi sono.
Harry: Conservare il mio aspetto.
Gil: Sapere che i miei amici non mi abbandoneranno mai.
Jane: Non essere sola.
Lonnie: La mia famiglia.
Doug: Emma e Evie.

Cosa ti aspetti dalla vita?
Mal: Vivere serenamente la mia vita con Ben al mio fianco.
Evie: Dimostrare di non essere come mia madre.
Jay: Essere una persona migliore di mio padre.
Carlos: Ricongiungermi con mio padre.
Ben: Grantire pace e serenità ad Auradon.
Chad: Tornare a casa.
Audrey: Essere una degna regina per Auradon.
Uma: Liberarmi del mio ricordo peggiore.
Harry: Poter tornare dalla mia famiglia, all'Isola Che Non C'è.
Gil: Dimostrare di essere migliore di mio padre e dei miei cugini.
Jane: Dimostrare di essere una degna protettrice di Auradon.
Lonnie: Essere come i miei genitori.
Doug: Ritrovare Emma.

Mal era rimasta traumatizzata dal rapimento di Ansem, ma aveva compreso che, senza di lui, sarebbe divenuta come sua madre.
Evie aveva provato disprezzo per la madre, ma aveva scoperto che un tempo era come lei.
Jay non aveva perdonato il padre per averlo esiliato, ma una volta affrontata la sua ombra si era liberato di quel rancore.
Carlos era l'unico a non avere dubbi, ma dopo il suo Tuffo Nel Cuore aveva delle domande su se stesso.
Ben aveva sempre visto Sora come guida, ma aveva capito di non dover sempre contare sull'aiuto degli altri.
Chad aveva il cuore spezzato, ma era riuscito a ricomporlo.
Audrey si vergognava del periodo in cui aveva ceduto all'Oscurità, ma aveva imparato ad accettare quella parte.
Uma voleva sapere chi fosse, e aveva scoperto di essere anche figlia di un umano.
Harry aveva provato rancore per il padre, ma dopo il racconto di suo zio, provò solo pietà per l'uomo che era diventato.
Gil aveva sempre preso suo padre come esempio da seguire, ma aveva imparato a credere in se stesso.
Jane ancora si vergognava di aver attirato l'Oscurità ad Auradon, ma aveva scoperto di aver già superato quel momento.
Lonnie si era attribuita la colpa della morte del padre, ma aveva scoperto di non avere alcuna colpa.
Doug voleva trovare un modo per portare via Emma dal mondo in cui era stata mandata, e finalmente aveva ottenuto un Keyblade.

Avevano superato il loro Tuffo nel Cuore. Avevano ottenuto il proprio Keyblade.
Avevano superato gli unici ostacoli che li inibivano.
Erano tutti riuniti nella stanza di Yen Sid.
Lui aveva uno sguardo soddisfatto sul volto, ammirato dalla loro tenacia.
Avevano tutti deciso di ottenere un Keyblade per Auradon. Quello era il loro motivo principale.
-Avete fatto breccia nei vostri cuori e distrutto gli ostacoli che li inibivano, rendendovi dei degni custodi. Ma superare una semplice prova non è abbastanza: i vostri Keyblade non sono solo semplici spade. Ognuno di loro custodisce un potere che voi dovrete liberare. Un Keyblade, come saprete tutti, rappresenta il cuore di chi lo custodisce. Ogni Keyblade è diverso l'uno dall'altro, come i vostri cuori. Il potere che i vostri Keyblade rilasceranno rappresenteranno una parte di voi. Ma adesso sarete stanchi dalle vostre prove. Domani comincerà il vostro addestramento. Ora riposatevi e recuperate le forze.-
Lasciarono tutti la stanza, dopo aver salutato il loro Maestro.
Carlos, invece, aveva deciso di rimanere nella stanza.
Aveva uno sguardo cupo, preoccupato, pensieroso.
-Giovane Carlos...- iniziò Yen Sid, premuroso -Qualcosa ti turba?-
Il ragazzo si morse entrambe le labbra, inspirando dal naso.
-Maestro Yen Sid... durante la mia prova... ho come avuto una visione.- raccontò; il suo cuore batteva forte -La mia “ombra” mi ha rivelato che non è stato un caso se sono stato io a proporre agli altri di divenire custode del Keyblade. Ha detto che il sangue dei custodi del Keyblade scorre nelle mie vene. E poi, prima di tornare qui, ho visto qualcosa. Anche se per un attimo. Un ragazzo che portava la maschera di una capra. Il suo volto era simile al mio.-
Lo sguardo di Yen Sid si indurì.
-C'è altro?- domandò, incrociando le dita e mettendole di fronte alla bocca.
-No.-
Carlos si allarmò nel notare la reazione di Yen Sid alle sue parole. Lui sapeva qualcosa.
-Maestro Yen Sid... che succede...?-
Yen Sid, poco prima, era sereno, fiero dei tredici ragazzi. Ma la rivelazione di Carlos sul ragazzo dalla maschera di capra, lo aveva incupito.
-Giovane Carlos... conosci la leggenda del Maestro dei Maestri e dei suoi sei allievi?-

Jane si stava contando le dita delle mani. Dal suo Tuffo Nel Cuore stava cercando di ricordarsi qualcosa.
Era dal suo risveglio nella Città di Mezzo, che sentiva un vuoto strano nel suo cuore.
Come se si fosse scordata di qualcosa di importante.
-Scusatemi...- disse, con voce flebile.
Stavano tutti scendendo le scale della Torre.
Nessuno si fermò, ma ascoltarono comunque la fata.
-Io ho organizzato il cotillon da sola?-
Ben si mise a ridere, confuso.
-No, ovviamente. C'era un comitato apposito. Ma tu hai saputo coordinare il tutto ed hai fatto un ottimo lavoro.-
-Sei sicuro? Non c'era nessun altro con me? Perché anche io ricordo di aver presieduto il comitato da sola, però... non so. Ho sempre l'impressione che ci fosse stato qualcun altro con me. Ma non riesco a ricordare.-
-Anche io ricordo che sei stata da sola.- aggiunse Doug.
-Per quello che vale, io ricordo ancora che mi avevi tempestato di domande sui regali da fare agli ospiti.- ricordò Mal, anche lei ridendo -Per poco mi esplodeva la testa. Se ci fosse stata un'altra persona, come minimo avrebbe dovuto portarmi via.-
Anche gli altri non ricordavano.
Questo, però, non convinse Jane. Lei sapeva che c'era un'altra persona con lei, in quel periodo.
Altrimenti, perché avvertiva la sensazione di non provare più quella colpa dilaniante di aver attirato l'Oscurità ad Auradon, con l'incursione di Malefica e Gambadilegno il giorno dell'incoronazione dei tre sovrani?
Ancora non riusciva a spiegarselo.
Anche i suoi amici, però, stavano ancora pensando ai propri Tuffi nel Cuore.
Ognuno era perso nei suoi pensieri.
Dopo quella discussione, erano tornati silenti e seri.
Anche nel treno che li stava riportando a Crepuscopoli, nessuno disse più una parola.
Yen Sid aveva ragione a pensare che fossero ancora scossi dalle proprie prove. Avevano bisogno di riprendersi, per iniziare l'allenamento con dedizione.
Per alcuni, una notte non sarebbe bastata.

Infatti, non tutti tornarono nella vecchia villa, ove risiedevano.
Uma aveva chiesto di essere lasciata sola.
Alla stazione, aveva preso un altro treno, che l'avrebbe portata in un'altra zona di Crepuscopoli.
Era diretta verso la Terrazza del Tramonto.
Da lì, aveva una vista completa sulla città. Per fortuna, non c'era nessuno.
Poteva finalmente godersi dei piccoli momenti di pace.
Ciò che aveva scoperto nel suo Tuffo nel Cuore l'aveva scossa.
Non voleva farsi vedere in quello stato dagli altri, tantomeno essere compatita.
Aveva preferito stare da sola.
-Ehi...-
Qualcuno si stava avvicinando: Harry.
L'aveva seguita dalla stazione. Stranamente, stava sorridendo. Ma gli occhi erano tristi.
-Harry, devi proprio seguirmi ovunque?- domandò, acida.
-Pensavo volessi almeno la mia compagnia.- si difese lui, prendendo posto accanto a lei, sulla ringhiera che dava sulla ferrovia e sul panorama sulla città.
Lei non cercò di allontanarlo.
Gradiva sempre la sua compagnia. In fondo, era stata la persona che, in qualunque situazione, le era rimasta accanto.
Entrambi, però, stavano tacendo. Perché nei loro Tuffi avevano scoperto una cosa che li accomunava.
-Lo hai scoperto anche tu, vero?- domandò, infatti, Uma.
Era sempre stata diretta. E conosceva Harry come il palmo della sua mano: la sua faccia stava parlando per lui. Qualcosa lo turbava.
E forse era la stessa cosa che turbava anche lei.
-Cosa?-
-Beh... che abbiamo lo stesso padre.-
-Sempre così diretta. Potevi almeno girarci intorno, prima di arrivare al punto.-
Risero entrambi.
-Sì. E ne sono contento.-
Era per questo che Uma non rispondeva ai suoi corteggiamenti: erano fratellastri.
Harry ne fu scioccato. Ma, in fondo, non gli dispiacque.
Aveva un motivo in più per rimanere al fianco di Uma.
Lei si era voltata verso di lui, toccandogli una guancia.
-Pensavo di essere rimasta sola.- disse, sorridendo -Sono contenta di aver trovato un fratello.-
-E io una sorella.-
Uma non aveva nessuna somiglianza con Capitan Uncino. Lo stesso non si poteva dire di Harry.
Ma avevano lo stesso sangue.
Era bastato sostenere il Tuffo Nel Cuore per scoprirlo.
Quella rivelazione li aveva sorpresi, ma era stata una sorpresa buona. Entrambi, avevano trovato una famiglia. Anche se non avessero condiviso il sangue, lo erano già, una famiglia.
-Che tipo era?-
Harry si fece cupo. Riprese a guardare il panorama.
-Capriccioso.- rispose -Gli piaceva dare ordini. E mi trattava da servo. Pensavo che mi avrebbe insegnato a fare il pirata per poi, un giorno, prendere il suo posto come capitano. Che sciocco, vero? Mai la realtà sarebbe stata più lontana. Dal primo istante in cui avevo messo piede nella Jolly Roger, mi ha messo a lavorare come sguattero. In compenso, potevo andare dove volevo, tranne nella sua cabina, specie dietro un paravento. Un giorno mi era capitato di entrarci e nascondermi proprio lì dietro. Avevo scoperto un quadro, con lui e nostro zio. Sì, anche nostro padre aveva un fratello. Ed è stato questo fratello a raccontarmi la sua storia, di come è diventato l'uomo che entrambi conosciamo. La tua faccia non mente, Uma. Anche per me è difficile immaginare nostro padre in un altro modo. Ma ricordo ancora il giorno in cui lo vidi compiere un atto veramente brutale. Non mi aspettavo fosse così crudele. Eravamo fermi in un villaggio e ho visto il nostro nostromo avvicinarsi alla nave con due ragazzi. Lei era riuscita a scappare, l'altro era rimasto. Mi ero nascosto da una parte, per osservare quel ragazzo da vicino. Riuscivo a sentire le sue urla, mentre mio padre lo torturava. A volte, mi sembra di sentire ancora quelle urla, mentre dormo, o quando sono da solo.-
Il cuore di Uma iniziò a battere forte.
Specialmente quando Harry, dalla sua giacca, aveva tirato fuori un bracciale. Alla sua vista, anche il suo respiro si mozzò.
-Il giorno seguente, mio padre mi ha dato questo. Lo avevo visto sul polso di quel ragazzo. Mi aveva detto che potevo tenermelo e che lui non sapeva cosa farsene. Non so se considerarlo come un regalo, ma almeno potevo dire di aver ottenuto un qualcosa da mio padre, non necessariamente l'amore. Nostro zio mi ha raccontato che questo bracciale lo aveva visto su un'altra persona. La prima donna amata da nostro padre: tua madre Ursula.-
Uma aveva preso quel bracciale: delle lacrime stavano scendendo su di esso.
Era lo stesso bracciale che aveva dato a Delfino, per poter diventare umano.
Anni prima, era stato indossato dalla madre Ursula, per il medesimo motivo.
-È stata a causa di nostro padre, se tu madre è divenuta la strega del mare.- Harry aveva nuovamente messo la mano in tasca; estrasse una conchiglia, molto simile a quella che Uma aveva al collo -Tua madre voleva cantare per rendere felici gli umani. E nostro padre le ha rubato ciò che lei aveva di più caro. Questo le ha spezzato il cuore.-
Per quel motivo, Ursula era sempre stata evasiva alle domande della figlia su chi fosse suo padre.
Uma non la biasimò.
Fissò quella conchiglia, curiosa, ma anche affascinata.
-Gliel'ho rubato sotto il naso e da allora l'ho sempre tenuta con me. Anche questa è una dimostrazione della crudeltà di nostro padre. Una voce, in cambio di ricchezze, ti rendi conto? Ma sembra che nostro padre abbia sofferto quella scelta. E forse ne soffre ancora, secondo nostro zio. A volte, lo vedevo portarsela all'orecchio e piangere. Non lo biasimo, in effetti. Vieni, ascolta la voce di tua madre.-
Harry le stava porgendo la conchiglia: lei avvicinò la testa, poggiando l'orecchio sull'incavo.
In una conchiglia, solitamente, sentiva il suono del mare. Ma in quella... sentì una voce.
Una voce meravigliosa.
Era la voce di sua madre. Quando aveva la sua età. Era un'altra Ursula, piena di sogni e speranze.
Uma sentì l'istinto di cantare, seguendo la melodia. Le due voci si somigliavano.
Altre lacrime scesero dai suoi occhi. Era un lato che Ursula aveva sotterrato, lasciando emergere la temuta Strega del Mare.
Anche Harry pianse, commosso dalla reazione della sorella.
-Nostro padre ha rovinato tua madre e ucciso quel ragazzo.- disse -Capisco quello che provi. Anche io ho sofferto per entrambi. Se vuoi vendicarli, io di certo non ti fermerò. Sarà la nostra missione, una volta che ci saremo addestrati con il Keyblade.-
Uma si asciugò le lacrime.
-Che vuoi dire, Harry?-
Harry sospirò. Poi storse la bocca e riprese ad osservare la ragazza.
-L'Isola Che Non C'è, Uma. Il mondo da dove mio padre mi ha esiliato. Sta rischiando di fare la stessa fine di Auradon.- spiegò, serio e preoccupato -L'Oscurità di mio padre sta per divorarla completamente. Io ho ancora una famiglia, lì, e non voglio perderli. Tuttavia, nostro zio ha detto che non devo essere da solo ad eliminare nostro padre. E non sarà Peter Pan a combattere con me. Ma tu. Siamo entrambi sangue del sangue di nostro padre, per questo dovremo essere noi a liberarlo dalla sua Oscurità.-
Uma, prima del suo Tuffo Nel Cuore, desiderava conoscere l'identità del padre: fu uno shock scoprire che si trattava dell'assassino del suo primo amore. La vendetta l'aveva spinta a rapire Ben per ricattare Mal: voleva scappare dall'Isola degli Sperduti per cercare quell'uomo ed eliminarlo.
Non le importava che fosse suo padre: aveva fatto soffrire sua madre, privandola del suo canto, ed ucciso il suo primo amore.
Per lei non aveva fatto nulla e nemmeno per Harry.
Nessuno dei due figli avrebbe esitato ad eliminarlo. Una per vendetta, l'altro per proteggere la sua vera famiglia.
-D'accordo. Verrò con te.- decise lei, senza indugi -Sto cercando quell'uomo da anni. Grazie, Harry, non so proprio cosa farei senza di te.-
Lui, finalmente, le sorrise.
Si abbracciarono, non più come complici. Ma come fratello e sorella.

Anche dalla Torre della Stazione si aveva una panoramica sulla città.
Gil si era sdraiato sul parapetto, lasciando le gambe verso il vuoto.
Il suo sguardo era rivolto verso il cielo.
Da quando era precipitato nel dirupo, nel suo mondo natio, aveva paura delle altezze. Per questo non si era seduto.
Ma non sapeva dove altro andare, per stare in pace e silenzio.
Non si aspettava il volto di Ben apparire all'improvviso.
-Gil!- esclamò.
Il ragazzo urlò e scattò in avanti. Per poco non perse l'equilibrio e cadde di sotto.
Ben lo prese per il colletto del gilet appena in tempo, riportandolo al sicuro.
-Ben! Mi hai fatto prendere uno spavento! Lo sai che ho paura dell'altezza!-
-Allora perché sei venuto qui sopra?-
-Beh, perché... non sapevo dove altro andare!-
Notò solo in quel momento che Ben aveva in mano due gelati sullo stecco.
-Ho preso questo. L'ho visto mangiare da quei ragazzi che abbiamo incontrato l'altro giorno. Dicono sia un gusto di moda e ho voluto prenderlo.-
-Potevi offrirlo a Mal.-
-In realtà, volevo parlare con te. E so che hai sempre un appetito da leoni.-
Sorridendo, Gil prese il gelato dalla mano dell'amico.
Il figlio della Bestia ed il figlio di Gaston erano seduti uno accanto all'altro.
Entrambi morsero il primo pezzo di gelato. Sbatterono le palpebre e storsero la bocca un attimo dopo.
-Wow! È salato!- notò Gil -No, è dolce. Che razza di gelato è questo?-
-La signora ha detto che è al gusto di sale marino.- spiegò Ben, lievemente stranito -Non mi sembra questo granché.-
-Io lo trovo originale. Ma oggi non ho molto appetito...-
Il suo sorriso, infatti, era triste.
Solitamente, sorrideva, spensierato. Ma qualcosa sembrava turbarlo.
-Ben, io... ho visto qualcosa nel mio Tuffo nel Cuore.- raccontò, abbassando lo sguardo -Non sono scivolato, i miei cugini mi hanno spinto nel dirupo!- la sua mano libera si stava stringendo a pugno, ed il suo tono si faceva più furioso -I miei cugini! La mia famiglia! Lo sapevo che non avevano rispetto per me, che mi consideravano inferiore a loro, ma farmi questo! Io...!-
-Gil... io lo sapevo già.-
La frase di Ben sconvolse ulteriormente Gil.
-Quel giorno...- il tono di Ben si era fatto più flebile, insicuro; non era facile per lui raccontare una storia simile; dopotutto, coinvolgeva un tentato omicidio -Io ed il mio amico Chicco eravamo saliti sulla torre più alta, dove ci piaceva fare osservazione degli uccelli. Ogni volta facevamo a gara a chi ne indovinava di più. Ma io avevo notato qualcosa, vicino al ponte che portava al castello. C'eri tu, chino sul dirupo. Altri due ragazzi si erano avvicinati a te, e uno di loro ti ha spinto. Io ho cercato di avvertirti, urlando, ma era troppo tardi.-
Gil aprì la bocca, sgomento.
-Cosa...? Tu sapevi...?!- da un certo punto di vista, si era sentito ingannato -Ben, perché non me lo hai mai detto?!-
-Non è un argomento da trattare alla leggera.- si giustificò il principe -Ti vedevo così sereno, ad Auradon. Non me la sentivo di rovinare il tuo buonumore.-
Tutto Ben voleva, meno che prendere in giro Gil. Talvolta si compiono scelte sbagliate per ciò che si ritiene giusto. Anche tacere.
Riprese a raccontare, più sollevato e confidente, stavolta.
-Ma ricordo di essere corso dai miei genitori, raccontando quello che avevo visto. Con i servitori, ti abbiamo cercato nelle pendici della cascata, ma ti te non c'era più alcuna traccia. Se avessi saputo che eri nell'Isola degli Sperduti, avrei scelto anche te, tra i primi ragazzi ad abitare ad Auradon. Ma non sono riuscito a riconoscerti dalle descrizioni delle guardie. Solo quando ti ho visto all'Isola degli Sperduti, mi sono ricordato di te. Ero sollevato di rivederti, vivo. Avevo proposto di inviare anche a te l'invito di stabilirti ad Auradon, ma... quale complice di Uma, di una incorsa illegalmente ad Auradon, mi è stato proibito. Mi dispiace, Gil.-
Il figlio di Gaston guardò di nuovo il suo gelato: c'era ancora il segno del primo morso.
Ben sapeva. Sapeva già quale fosse stata la realtà dietro la sua “scomparsa”. Ma aveva taciuto, per non turbare il suo quieto vivere.
Lui avrebbe detto subito la verità. A Uma, infatti, aveva subito rinfacciato di averli abbandonati, dopo la sua incursione individuale ad Auradon, senza curarsi della sua reazione.
Ma apprezzava, comunque, che Ben si fosse preoccupato di lui. Dopo una vita da escluso o da deriso, faceva una strana impressione avere un vero amico.
I loro padri erano rivali, ma loro erano diventati amici.
Lo perdonò.
-Beh, ora lo so. E questo mi basta.- rivelò, addentando un altro pezzo di gelato -Tutta una vita a farmi sentire inadeguato solo perché non somiglio a nostro padre e poi decidono di uccidermi.-
-Sono loro i veri inadeguati, Gil.- cercò di consolarlo Ben -Hanno fatto loro credere di essere perfetti solo perché somigliano a Gaston, ma al di fuori di questo non sono nessuno. Tu, invece, hai avuto una scelta. Non devi somigliare per forza a tuo padre, per essere qualcuno. Guardati, ora hai un Keyblade! Entrambi abbiamo un Keyblade. Abbiamo imparato qualcosa, dalle nostre prove e ne siamo usciti vincenti. Questo non è abbastanza, per dimostrarti che sei superiore ai tuoi cugini?-
Non aveva torto. E lo aveva verificato nella sua prova, quando aveva preso il quadro di suo padre e gettato nel camino: i suoi cugini si erano gettati tra le fiamme, per recuperarlo, finendo, di conseguenza, bruciati.
Era la conseguenza della loro venerazione verso il padre Gaston. Un tempo, anche lui era come loro.
Ma poi aveva incontrato Uma, Harry e anche Ben. Loro lo apprezzavano per quello che era, non per essere il figlio di Gaston.
E Ben sapeva bene cosa provasse: in quanto figlio di una delle Principesse della Luce, anche lui veniva spesso paragonato alla madre. Un giorno avrebbe ereditato il suo compito, in fondo.
Gil gli rivolse un sorriso sincero, di ringraziamento.
-Sai che ti dico? Hai ragione, Ben. Che i miei cugini continuino a seguire l'esempio di nostro padre, io andrò per la mia strada!-
-Ben detto.-
Fecero scontrare i loro gelati e continuarono a mangiarli.
-Ehi, Ben, guarda! Ho vinto!-
Sul bastoncino, infatti, c'era scritto “Hai vinto!”.

Gli altri, invece, erano già tornati nella vecchia villa.
Aveva molte stanze da letto. Ognuno dei tredici ragazzi aveva una stanza propria.
-Doug?-
La voce di Evie sembrò non raggiungere le orecchie di Doug.
Aveva la testa altrove. Stava ancora pensando alla sua prova. Ad Emma.
-Sì?-
-Non pensi che sia ora di dire di Emma anche gli altri? Voglio dire, ora hai un Keyblade, potresti raggiungerla...-
-No, Evie. Non ancora.-
La ragazza inclinò la testa, confusa.
-Non capisco... Ci tenevi così tanto.-
Avvicinandosi a lui, Evie si accorse che qualcosa lo stava preoccupando. Era più pallido del solito.
Il riflesso sulla finestra accentuava il suo pallore.
-Sta per accadere qualcosa.- le disse -Non posso ancora portarla qui. Mi è accaduta una cosa, nel mio Tuffo nel Cuore.-
Le raccontò dettagliatamente le prove che aveva superato, la voce che aveva sentito.
Anche Evie impallidì, alla notizia di un pericolo incombente.
-Dovremo dirlo a Yen Sid.-
-Forse lui lo sa già. Per il momento, dovremo tutti concentrarci sull'allenamento. Dopotutto, noi dobbiamo solo pensare ad Auradon. Non è compito nostro combattere l'Oscurità.-
Non era il loro compito. Perché non erano i Guardiani della Luce.
Non avrebbero avuto ruoli, nella Guerra del Keyblade.
Questo lo avrebbero scoperto settimane dopo.

Il giorno seguente, tornarono tutti e tredici nella Torre.
Da quel momento, avrebbero dedicato le proprie forze a sviluppare i poteri dei propri Keyblade.
Yen Sid aveva già sistemato dei bersagli, nel cortile della Torre.
Il primo passo fu scoprire il potere dei Keyblade di ognuno dei tredici profughi di Auradon.
Bastava solo che puntassero il Keyblade contro un bersaglio, per scoprirlo.
Alcuni poteri si manifestarono al primo impatto. Altri erano poteri particolari, non necessariamente visibili.
Inoltre, scoprirono che i loro Keyblade potevano persino cambiare forma.
Con un accurato allenamento, avrebbero perfezionato le loro tecniche. Non solo sarebbero stati finalmente capaci di proteggere qualsiasi mondo dagli Heartless, ma avrebbero persino avuto la possibilità di ricostruire Auradon.

Il Keyblade di Mal poteva trasformarsi in un paio di ali meccaniche ed in un paio di artigli da drago. Il suo potere era il fulmine.
Il Keyblade di Evie poteva trasformarsi in due grandi specchi fluttuanti che potevano creare delle copie della loro portatrice. Il suo potere era l’illusione.
Il Keyblade di Jay poteva trasformarsi in una frusta. Il suo potere era il fuoco.
Il Keyblade di Carlos poteva trasformarsi in un mitra a canne mobili. Il suo potere era lo spazio.
Il Keyblade di Ben poteva trasformarsi in uno scudo con un rilievo della testa di suo padre da Bestia, che ruggiva ad ogni contrattacco. Il suo potere erano i campi di forza.
Il Keyblade di Chad poteva trasformarsi in una balestra con il potere di rallentare i movimenti di chiunque venisse colpito da una delle frecce ed in un paio di scarpe di cristallo che acceleravano il suo, di movimento. Il suo potere era il tempo.
Il Keyblade di Audrey poteva trasformarsi in due ventagli, uno rosa l’altro azzurro. Il suo stesso Keyblade poteva dividersi in due Keyblade. I suoi poteri erano la luce e l’oscurità.
Il Keyblade di Uma poteva trasformarsi in un tridente. Il suo potere era l’acqua.
Il Keyblade di Harry poteva trasformarsi in due grandi uncini, uno per mano, di cui uno dotato di catena per attacchi a distanza. Il suo potere era il vento.
Il Keyblade di Gil poteva trasformarsi in due tirapugni, di cui uno dotato di due lame che ricordavano le corna di un alce. Il suo potere era la terra.
Il Keyblade di Jane poteva trasformarsi in un giglio dai poteri curativi. Il suo potere era la guarigione.
Il Keyblade di Lonnie poteva trasformarsi in una palla catenata. Il suo potere era il ghiaccio.
Il Keyblade di Doug poteva trasformarsi in un keytar con un bocchino simile a quello di una tromba in grado di emettere raggi stordenti. Il suo potere era la confusione.

In soli pochi giorni, erano riusciti a scoprire i poteri nascosti dei propri Keyblade. Non sarebbe passato molto tempo, prima che avessero avuto l'occasione di misurarsi con i primi Heartless che erano comparsi a Crepuscopoli.
Ma il loro allenamento non era ancora completo.
Qualcosa si stava avvicinando, minacciando di nuovo i mondi.
Ed i profughi di Auradon ne avrebbero preso parte...

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"I'm rotten to the core
Rotten to the core
I'm rotten to the core
Who could ask for more?
I'm nothing like the kid
Like the kid next door
I'm rotten to the core
I'm rotten to the core."


 

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