La duchessa

di Shadow writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giuramenti infranti ***
Capitolo 2: *** Sorpresa ***
Capitolo 3: *** Nostro figlio (pt. 1) ***
Capitolo 4: *** Nostro figlio (pt. 2) ***
Capitolo 5: *** Fiori d'arancio ***
Capitolo 6: *** Patti eterni ***
Capitolo 7: *** Amori segreti ***
Capitolo 8: *** La vendetta di Medea ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Giuramenti infranti ***


 GIURAMENTI INFRANTI

 

 
La duchessa viveva in periferia.
Il suo era un palazzo dall’esterno modesto, circondato da una striscia di giardino prima del grande cancello metallico.
Chiunque avesse avuto l’onore di entrarvi parlava di stanze suntuose, pareti affrescate, una grande corte interna, in cui si innalzava una fontana zampillante decorata da statue di marmo bianco.
Chi non vi era mai stato, chi non l’aveva mai conosciuta, ammantava la sua figura con una buona dose di false dicerie e racconti quasi mitologici, mentre quelli che l’avevano incontrata all’interno della sua casa adoravano farcire le vicende con aspetti misteriosi e non essere mai veramente esaustivi riguardo la proprietaria.
Chi lei fosse veramente, non si sapeva. Che non avesse davvero il sangue blu, questo era quasi certo, ma nessuno osava contestarlo.
La verità sul suo conto, qualunque fosse, non era nota al pubblico, e alla gente piaceva guardare a questa donna enigmatica nel costante sforzo di capire chi fosse, senza mai riuscirci.
Alexander prese il bicchiere di champagne che il cameriere gli tendeva e lasciò vagare i suoi occhi nel salone in cui si trovava.
L’interno del palazzo era davvero degno di una dimora nobiliare. Una parete era occupata da un affresco ambientato in epoca classica, la cui scena era dominata da una donna che filava con una leonessa accucciata ai suoi piedi. Il dipinto era di alta qualità e rivelava il buon gusto della padrona di casa.
Intorno a lui, piccoli drappelli di persone conversavano a bassa voce.
«È grazioso e terrificante allo stesso tempo, non trovi?»
Alexander si voltò e vide la sua fidanzata avvicinarsi, con gli occhi fissi sull’affresco. Quella sera Camille indossava un semplice abito di seta color acquamarina, che si intonava con i suoi grandi occhi. Il parrucchiere le aveva legato i capelli biondi in un’acconciatura semplice, che metteva in risalto il suo volto affilato dagli zigomi alti e il naso sottile.
«Perché terrificante?» le chiese Alexander e lei scrollò le spalle.
Lui riprese a guardarsi attorno e scorse Jefferson poco lontano. Da buon responsabile della sua campagna elettorale, Jefferson gli fece cenno che mancava ormai poco tempo all’inizio della cena e quindi mancava poco alla comparsa della duchessa.
Alexander annuì e prese un respiro profondo. Era impaziente di vederla e allo stesso tempo preoccupato. Non esistevano fotografie di lei e Jefferson era stato piuttosto vago nel descriverla. 
«Sii attento e lucido» gli aveva detto prima di entrare. Ottenere un invito a quella cena gli era costato qualche favore e nessuno dei due voleva sprecare quell’opportunità.
«Devo essere onesto con te e dirti che senza il suo appoggio, le possibilità di vittoria sono molto basse» gli aveva detto. Alexander sapeva di essere in svantaggio, lo aveva saputo da quando aveva deciso di candidarsi come sindaco contro il sindaco uscente, che con il precedente mandato aveva acquistato una certa popolarità in città. 
«La tua debolezza principale è che sei tornato in città solo due anni fa, alla gente questo non piacerà» gli aveva detto Jefferson. E da lì era nata l’idea di chiedere aiuto alla duchessa. Si diceva che in città non venisse strappato un filo d’erba senza che lei lo sapesse.
«È la nostra donna. Dobbiamo farci invitare ad una delle sue cene, presentarle la nostra offerta e convincerla a darci il suo appoggio pubblico». Il piano era semplice, chiaro, ma Alexander non si sentiva per nulla tranquillo.
Era abituato da tutta la vita a utilizzare la forza della persuasione per piegare i suoi interlocutori, ma il fatto di non conoscere questa donna, di non sapere neanche che faccia avesse, lo preoccupava. Si sentiva come un ragazzino che non aveva studiato al giorno del test.
Bevve d’un fiato il calice di champagne, cercando di darsi una calmata. Jefferson lo stava ancora fissando e di certo non avrebbe apprezzato il suo nervosismo. “Non fa bene all’immagine” avrebbe detto, se fosse stato lì al suo fianco.
Camille gli sfiorò il braccio, inclinando il capo verso la sua spalla. Alexander abbassò gli occhi e, dall’anulare della giovane, il diamante di fidanzamento brillò verso di lui, ammiccante.
Improvvisamente, il brusio che aveva attraversato la sala fino a quel momento si spense e lo sguardo di tutti si rivolse verso il grande scalone di marmo rosa.
Alexander imitò il resto dei presenti.
Sulla cima, era comparso un giovane dalla pelle color caramello e i capelli di un biondo ossigenato. Indossava una camicia alla coreana azzurrina, pantaloni dello stesso colore e dei mocassini blu notte. Stava guardando al suo fianco, dove finalmente comparve lei. La duchessa.
Il suo nome era sulle labbra di tutti, anche se non un suono percorreva l’aria.
Lei si lasciò ammirare per un istante, da quello stuolo di ospiti adoranti, prima di cominciare a scendere le scale, aggrappata al braccio del suo accompagnatore.
Chi non aveva mai visto la duchessa, avrebbe potuto rimanerne deluso. La ragazza dimostrava a malapena vent’anni e indossava solo una vestaglia su cui si intrecciavano disegni floreali. Portava i lunghi capelli castano-ramati sciolti sulla schiena in ricci scomposti e i suoi piedi erano scalzi. Sotto alla vestaglia, si intravedevano le forme morbide del suo corpo e c’era una certa sinuosità nel modo in cui scendeva le scale. Era come una pantera dentro al corpo di una ninfa.
Quando raggiunse l’ultimo gradino, si guardò attorno. La sua espressione era serena, ma impenetrabile.
I suoi occhi olivastri si fissarono su Alexander e vi rimasero per qualche secondo, poi tornò a rivolgerli al resto dei presenti. Nella sala stavano poco più di cinquanta persone.
Jefferson aveva parlato di “cena intima”.
«Benvenuti» disse la duchessa. Aveva una voce calda e misurata.
«Spostiamoci nella sala da pranzo.»
I presenti si allargarono come un mare aperto in due e lei avanzò in quel corridoio umano, sempre sostenuta dal suo accompagnatore. Alle loro spalle, la folla rompeva i ranghi per seguirli nella sala adiacente.
Si trattava di un locale meno ampio del precedente, attraversato nel centro da un lungo tavolo in legno scuro, già riccamente apparecchiato.
La duchessa prese posto ad un capotavola e l’accompagnatore si mise alla sua destra. Alexander vide che gli occhi della giovane cercarono Jefferson e gli fecero cenno di sedersi alla sua sinistra.
Lui si affrettò ad eseguire e indicare ad Alexander di prendere posto al suo fianco, con Camille di fronte.
Quando tutti si furono seduti, alcuni camerieri cominciarono a servire la cena, mentre uno di loro rimase fisso alle spalle della duchessa, incaricato solamente di versarle il vino.
«Lei non mangia, non lo fa mai» aveva detto Jefferson ad Alexander, mentre studiavano come il loro incontro si sarebbe svolto. «Ma beve vino per tutta la serata. Se all’inizio sarà più rigida, dopo alcune ore sarà più facile strapparle qualche promessa, quindi prima tastiamo il terreno e solo più tardi cominciamo a forzarlo. Ricordalo.»
Il primo piatto che fu servito consisteva in un uovo che, una volta colpito dalle posate si rivelava di pastafrolla. Al suo interno nascondeva una crema di verdure e dei bocconcini di carne.
Mentre il tavolo era percorso da un mormorio di approvazione per l’arguzia della padrona di casa, Jefferson cercò di intavolare una conversazione con la giovane.
Lei lo ascoltava sotto alle palpebre socchiuse, senza cambiare espressione.
L’uomo cercava di coinvolgere Alexander nella conversazione, facendo riferimento a lui o qualcosa che lo riguardasse.
«Questa casa è proprio un gioiello, si vede che lei se ne intende» stava dicendo in quel momento, sotto lo sguardo della duchessa che sorseggiava il suo calice di vino. «Sa che Camille, la fidanzata di Alexander, ha studiato arte?»
Gli occhi verdastri della duchessa si spostarono sulla donna e appoggiò con delicatezza il calice sulla tovaglia bianca. 
«Ah sì?» commentò. «E di cosa si occupa?»
«Al momento non lavoro» rispose Camille, cogliendo la strada che Jefferson le aveva spianato, «ma ho studiato Storia dell’arte a Parigi. Queste stanze mi ricordano i palazzi della mia città.»
La duchessa fece un sorriso di cortesia: «Non mi lusinghi. È difficile ottenere un’Operà barocca in questa metropoli urbanizzata. Siamo ben lontani da Parigi qui.»
Camille tacque un istante, prendendo un boccone di cibo. Cercò lo sguardo di Alexander, che però era concentrato sul suo piatto. Pareva teso nello sforzo di evitare che le sue mani tremassero, senza successo.
«Lei dipinge, signorina Lefebvre?»
«Oh no» rise l’altra. «Ma, la prego, mi chiami Camille.»
La duchessa fece cenno al cameriere alle sue spalle di riempirle il calice e mentre lui eseguiva, replicò: «Certo, e lei mi chiami Cassandra».
Camille sorrise, come se avesse appena ottenuto un grande premio. «Il mio fidanzato dipinge» aggiunse, per far continuare la conversazione.
Lentamente, lo sguardo della duchessa si spostò su Alexander. Anche il giovane biondo che era seduto alla sua destra la imitò.
Alexander non poté fare altro che reggere quella coppia di sguardi, con un rivolo di sudore che scendeva sul suo collo.
«E cosa dipinge?» gli domandò.
A rispondere fu Camille: «Oh, non saprei. Non mi mostra mai le sue opere.»
La duchessa non spostò gli occhi da Alexander e lui prese la parola: «Dipingo i miei sogni.»
«E cosa vede quando sogna?»
Lui deglutì, attraversato da quello sguardo penetrante.
«Il mio passato, principalmente.»
Jefferson ritenne fosse arrivato il suo momento di intervenire: «Non so se sa, Cassandra, che Alexander ha studiato per due anni nel Regno Unito e che ora da due anni lavora attivamente per questa città. È proprio il suo desiderio che ci ha fatti incontrare, io e lui.»
Mentre Jefferson continuava a parlare del loro rapporto, la duchessa sollevò il calice e prese un lungo sorso.
«Lei conosce la Medea, Jefferson?» lo interruppe.
Lui si bloccò, colto alla sprovvista. Cercò l’aiuto del biondo al fianco della padrona di casa, ma quello era tanto impenetrabile quanto lei, e aveva a malapena aperto bocca durante la cena. 
«Lo prendo come un no» proseguì la duchessa. «Io ho avuto il piacere di rivederne un adattamento qualche settimana fa, in un piccolo teatro fuori città. Suppongo non conosca la storia, quindi gliela racconto. Medea è una giovane straniera, che sacrifica tutto, inclusa la sua famiglia per aiutare il giovane che ama, Giasone. I due fuggono insieme, promettendosi fedeltà reciproca, ma dopo anni di avventure insieme, Giasone rompe i patti e decide di sposare una nuova donna, non straniera, che gli garantirà una migliore posizione sociale. A questo punto, con il cuore straziato, Medea decide di vendicarsi sacrificando ciò che Giasone ha di più caro: i loro figli».
La duchessa tacque, con quattro paia di occhi che la fissavano. Il resto del tavolo non badava a loro e si dedicava esclusivamente alla cena.
Jefferson cercò di parlare, ma parve improvvisamente ammutolito.
Lei si crogiolò in quell’attesa per qualche istante, la piega delle labbra che rivelava la sua soddisfazione, arrotolando una ciocca di capelli intorno all’indice, prima di aggiungere: «Mi rivedo molto in Medea».
Rise, tenendo sulle spine il suo pubblico.
«Ora, sono molto lontana dal solo concepire un infanticidio, ma ci sono cose che sarei disposta a fare, proprio come Medea, se qualcuno tradisse la mia fiducia».
Prese il bicchiere e bevve il vino d’un fiato, poi appoggiò il capo allo schienale della sua sedia, socchiudendo gli occhi. Le lunghe ciglia nere proiettavano ombre sottili sui suoi zigomi. 
«Quello che sto cercando di dire, Jefferson, è: non chiedete il mio aiuto, se non siete in grado di rispettare le mie condizioni.»
Jefferson cominciò a sudare come chi viene colto sul fatto, ma cercò di rimanere impassibile. La duchessa aveva appena saltato tutte le tappe che lui aveva costruito nella sua preparazione.
«Non ha ancora sentito le nostre proposte, Cassandra».
Lei gli mostrò un sorriso tirato: «Non ne ho bisogno, so già che non mi interessano.»
Posò i piedi a terra e spinse indietro la sedia.
«Perdonatemi» disse, sempre con quel suo modo pacato e impenetrabile.
Si alzò e lasciò la stanza, senza fretta, con il calice di vino in mano.
Jefferson tirò una gomitata ad Alexander e gli fece cenno di seguirla.
Controvoglia, lui si alzò in piedi ed eseguì.
La duchessa si era infilata in un corridoio collegato con la sala da pranzo. Il pavimento ero coperto da elaborati tappeti colorati, mentre una serie di lampadari di cristallo pendeva dal soffitto.
Alexander la vide svoltare a destra e la seguì in una piccola anticamera in cui erano sistemate due poltrone, davanti ad un caminetto spento.
La duchessa stava di fronte ad esso e guardava l’uomo dal grande specchio posto sopra al caminetto, sorseggiando il suo vino. Nessuno parlò per qualche istante, ma si fissarono attraverso i loro riflessi.
«Hai costruito un bello show» fu Alexander a rompere il silenzio, facendo un passo avanti.
Nello specchio, lei non cambiò espressione. C’era una certa freddezza nel modo in cui lo guardava.
«Perché?» le chiese.
Il volto della giovane si contrasse impercettibilmente in una smorfia.
«Credi di essere nella posizione di fare domande?» replicò lei.
Alexander appoggiò la mano su una delle poltrone e fece scorrere il palmo sul velluto soffice, in attesa.
«Sapevi che ero io?» continuò infatti lei.
Lui scosse il capo: «Jefferson ti chiamava “duchessa” e non esistono foto di te.»
«Bene».
«Che cosa hai fatto, Emily?»
Lo sguardo di lei si oscurò. Strinse gli occhi e serrò le labbra.
«Emily è morta. Puoi chiamarmi Cassandra, se vuoi.»
Lui sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«Non hai risposto alla mia domanda» insistette.
Lei si voltò di scatto e finalmente si guardarono negli occhi, senza nessun riflesso che li mediasse.
«E tu non hai risposto ai miei messaggi, alle mie chiamate, alle mie lettere cinque anni fa. Sei scomparso nel nulla e mi hai lasciata in quel buco come spazzatura.»
Alexander riuscì a vedere come lei si stesse sforzando di mantenere una certa freddezza, a fatica. Il suo viso era contratto e arrossato, e il calice che teneva in mano era quasi vuoto.
«Avevo chiesto a mio padre di recapitarti del denaro» le disse e lei scoppiò in una risata isterica. Buttò il capo indietro, facendo ondeggiare i capelli scuri e mettendo in mostra i denti bianchi.
«Tuo padre? Dio, Alex, sei troppo ingenuo per diventare sindaco. Davvero credevi che tuo padre lo avrebbe fatto?»
Lui non rispose, ma strinse i denti e la sua mascella guizzò.
«Ho bisogno del tuo aiuto per la campagna elettorale».
La duchessa abbassò le palpebre e prese un respiro profondo, come se stesse gustando qualcosa. Le sue labbra si erano nuovamente curvate in un sorrisetto soddisfatto.
«È così bello sentirti dire che hai bisogno di me. Finalmente sai cosa si prova» gli disse e i suoi occhi brillavano, mentre avanzava verso di lui. «Sei così disperato da farmi ridere. Lasci parlare Jefferson al posto tuo, lasci che ti scelgano una moglie solo per poter realizzare i sogni della tua famiglia. Sei un burattino e sei qui a supplicarmi.»
Lo fissava divertita, quasi esultante e avanzò fino a raggiungerlo. Lo guardò dal basso, ma senza perdere la sua fierezza, con il mento alto e lo schiena dritta.
Si piegò in avanti e, quando gli parlò, la sua voce era ridotta ad un sussurro: «Ed è così bello dirti di no.»
Fece per allontanarsi, ma lui le afferrò un braccio e le strappò il calice dalle mani.
«Nonostante tutto quello che hai costruito intorno a te, non sei cambiata.»
Lei cercò di divincolarsi e di riprendersi il bicchiere, ma lui lo avvicinò alle proprie labbra. Prima ne annusò il contenuto, poi sorrise e ne assaggiò un sorso.
«Succo di mirtillo?» le disse, divertito.
Lei riuscì a liberarsi della sua stretta e fece un passo indietro, indispettita.
«Sei furba, te lo concedo, ma ti darò un consiglio: molti hanno interessi nella mia candidatura a sindaco e potrebbero esserci anche i tuoi, dipende da te.»
Lei lo trafisse con lo sguardo.
«Vaffanculo Alex».
Lui scrollò le spalle.
«Che tu ci creda o no, mi dispiace davvero per come sono andate le cose. Se vuoi parlarne ci sono.»
Le lanciò un ultimo, lungo sguardo, prima di darle le spalle e lasciarla sola.
 
 

 
Dall’ampio balcone che affacciava sul giardino posteriore, la duchessa ascoltava il rumore del personale che sistemava le sale dove si era tenuta la cena.
Era ormai mezza notte passata e anche gli ospiti più tardivi se ne erano andati.
Si era alzato un venticello leggero e per poter rimanere all’esterno la giovane aveva dovuto coprirsi le spalle con uno scialle di lana e infilarsi le pantofole di pelo.
Udì un rumore di passi alle sue spalle e domandò: «Roman? Sei tu?»
La figura familiare di Roman, con i capelli ossigenati ben pettinati e la lucida pelle ambrata, entrò nel suo campo visivo, fermandosi accanto a lei sul bordo della terrazza.
«Com’è andata?» le chiese lui.
La duchessa si voltò a guardarlo, rilassandosi per la prima volta dall’inizio della serata. Pensò che era finito ormai, erano tornati ad essere solo loro due.
«Sono sbottata» gli rispose e notò lo sguardo divertito dell’altro. «L’ho insultato.»
«Non ne dubito» rise lui, «e sicuramente lo meritava. Ti ha fatto un’offerta?»
Lei scrollò le spalle: «Nulla di specifico, ma gli ho detto di no.»
Si voltò verso Roman e gli prese le mani, guardandolo nei suoi occhi scuri. 
«È stato così bello vederlo supplicante, come se i ruoli si fossero invertiti. Lui spera che io cambi idea.»
Lui la scrutò, con un sorriso solo accennato sul volto: «E lo farai? Accetterai?»
La giovane gli lasciò le mani e tornò a scrutare il paesaggio davanti alla terrazza, senza parlare.
«Emily?» Roman si era sporto verso di lei. «Sai che abbiamo bisogno di lui. Tu hai bisogno di lui.»
«Lo so» replicò di getto, interrompendolo, con gli occhi grandi e spalancati rivolti a lui «ma questo non lo rende più facile.»
Prese un profondo respiro e fece uscire l’aria lentamente, socchiudendo le palpebre. Era stanca, la serata aveva messo a dura prova il suo autocontrollo e lei aveva perso.
Roman le si avvicinò e le lasciò un bacio sulla guancia.
«È tardi ormai, rimanda i pensieri a domani» le disse, poi ammiccò: «Buona notte, duchessa.»
Lei sorrise e lo salutò a sua volta, poi lo guardò lasciare la terrazza e seguì la sua sagoma al di là delle tende bianche finché non uscì dalla stanza.
La giovane lanciò un ultimo sguardo al giardino immerso nel buio e si decise a rientrare.
Si spogliò e indossò il pigiama di seta piegato sul grande letto matrimoniale, poi si infilò sotto alle coperte.
L’ultima cosa che vide, prima di addormentarsi, fu il soffitto affrescato della sua camera.
 
Il sonno in cui cadde non fu un sonno tranquillo. Delle immagini, dei ricordi, tornarono a tormentarla, evadendo da quel passato in cui credeva di averli rinchiusi.
Furono le cose più banali a tornarle alla mente, come i pomeriggi trascorsi bevendo cioccolata calda sul grande letto che faceva anche da divano nel loro monolocale. Ricordò come ogni preoccupazione sembrasse rimanere fuori dalla porta, anche solo per un istante, quando erano lì insieme. Le bastava sentire il suo abbraccio, il calore dei loro corpi vicini, guardare nei suoi occhi ambrati per dimenticare all’improvviso tutti gli affanni della vita quotidiana.
Nella stanza del suo palazzo, Emily si svegliò di soprassalto.
Si mise seduta e guardò l’orologio posto al fianco del letto. Non erano passate più di quattro ore da quando si era coricata. 
Raccolse la vestaglia che aveva lasciato al fianco del letto e si alzò in piedi, cercando di schiarire la mente dalle ultime immagini che i sogni le avevano lasciato.
Uscì dalla sua camera e percorse il lungo corridoio su cui si affacciava anche la stanza di Roman, per accedere nella libreria che si trovava prima delle camere.
Come al solito, qualcuno aveva lasciato il fuoco acceso e l’ambiente era rischiarato dalla sua piacevole luce rossastra. Di fronte al camino erano posti un divano e una poltrona, i suoi luoghi preferiti per leggere, mentre le pareti della stanza, nei pochi punti non coperti dalle alte librerie, lasciavano intravedere una carta da parati damascata. Emily si sedette sul divano, raggomitolandosi con le gambe al petto, e si mise a fissare la vecchia bicicletta che era stata appesa sopra al camino. 
Era un modello economico, verniciato alla buona di un colore crema, anche se in alcuni punti si era scrostato. Portava ancora sulla parte davanti un cestino di vimini e all’interno di questo stavano dei fiori che erano continuamente curati dai domestici della duchessa.
Sul divano, Emily continuò a fissarla, come impietrita e nella sua mente aveva stampate quelle iridi color ambra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 




 
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Capitolo 2
*** Sorpresa ***


SORPRESA

 
 


La chiamata di Jefferson aveva colto Alexander di sprovvista. Era in ritardo, lo sapeva chiaramente, ma se Paul Jefferson chiamava lui doveva rispondere.
Gli aveva già mandato un messaggio per informarlo che il suo ultimo incontro era andato bene – Jefferson non si era presentato solo per evitare che la sua presenza al fianco del futuro sindaco risultasse morbosa – quindi non sapeva cos’altro gli dovesse dire.
«Sto lavorando sul convincere la duchessa a collaborare. Ho avviato una ricerca sul suo conto» fu la prima cosa che gli disse.
Mentre lo ascoltava, Alexander guadava la pioggia cadere sul finestrino nel taxi.
«Va bene. Hai qualche informazione su come si sia procurata il suo patrimonio?» gli domandò.
«Le fonti più numerose dicono che si tratti di un’eredità, un parente lontano defunto che ha lasciato tutto alla nipotina sconosciuta». Jefferson prese una pausa, poi aggiunse: «In ogni caso, si ritiene che la sua fortuna sia aumentata nel corso degli anni, probabilmente affari tramite un prestanome. La duchessa non si sporca le mani, ma lo fa fare agli altri, dico bene?».
«Già» rispose Alexander laconico.
«In ogni caso, tieniti pronto per la prossima volta che la fronteggerai. Non te ne andrai a mani vuote, puoi giurarlo.»
Alexander gli aveva fornito una versione rielaborata di come si era svolto il suo colloquio con la duchessa. Le aveva fatto la sua proposta, ma lei era rimasta sulle sue. Non era riuscito a convincerla. Jefferson si era subito messo all’opera per rimediare e da allora erano passati quattro giorni.
«Per quanto riguarda la sua identità, non ho trovato nulla. Dice a tutti di chiamarsi Cassandra, ma dubito sia il vero nome.»
“Non mi dire” pensò Alex.
Jefferson continuò: «Ho provato a cercare dei contratti, ma la casa in cui vive è stata acquistata tre anni fa a nome del suo amico, Roman Deleon»
«Sai qual è il rapporto tra i due?»
«No. Qualcuno crede siano amanti, ma il loro atteggiamento in pubblico non lascia supporre nulla.»
Il taxi si fermò e l’autista lo informò che era arrivato.
«Devo andare ora. Ti richiamo stasera» disse al telefono e si congedarono.
Mentre il taxi ripartiva alle sue spalle, Alexander lanciò uno sguardo al grande palazzo davanti a sé.
Prese un respiro profondo e si infilò nell’atrio.
Il portiere lo accolse con un grande sorriso ed estrema gentilezza e lo fece accompagnare fino all’ascensore, dove un secondo uomo aveva già il dito sul piano giusto prima che lui glielo dicesse.
Quando arrivò alla sua destinazione, scese dall’ascensore e si diresse verso una delle due porte del piano.
Il portiere aveva già avvisato del suo arrivo e non dovette suonare il campanello.
Aprì la porta, superò la sala d’attesa ed entrò nello studio, scusandosi per il ritardo.
Mentre si toglieva la giacca, notò che Camille era già comodamente seduta sul divanetto di pelle bianca e sorseggiava una tazza di tè caldo. Su un divano speculare al primo stavano i signori Fairbanks, una coppia intorno ai cinquant’anni di vita e i venticinque di matrimonio lavorando insieme come terapisti di coppia.
Alexander non era entusiasta di dover seguire un corso prematrimoniale - «Devo anche studiare come essere un bravo marito?» aveva detto a Camille – ma la situazione era decisamente peggiore se i terapisti erano grandi amici dei futuri suoceri. Alexander non aveva dubbi che i Fairbanks facessero rapporto ai genitori di Camille, ma se voleva sposarla, non aveva alternativa. Nonostante quello che aveva detto Emily, Camille non era stata scelta da altri per essere sua moglie. Certo, suo padre era stato ben contento quando aveva saputo del suo interesse per la figlia di uno dei più importanti banchieri di Francia, ma Alexander aveva agito di testa sua.
Camille gli sorrise, quando prese posto al suo fianco.
«Non preoccuparti, capiamo quanto tu sia impegnato con la campagna elettorale» gli disse la signora Fairbanks, una donna sottile come uno spillo, con i capelli talmente chiari da apparire bianchi. I suoi occhi cerulei, cerchiati da una ragnatela di rughe, lo scrutavano in attesa. 
Lui fece un cenno di assenso: «Sì, arrivo proprio ora da un incontro con gli industriali della città.»
«Sarai un ottimo sindaco» aggiunse lei e suo marito, al suo fianco, assentì.
Gli offrirono tè e pasticcini e come al solito la terapia fu più che altro una chiacchierata amichevole.
«Dove vi vedete tra dieci anni come famiglia?» domandò ad un tratto il signor Fairbanks.
Fu Alexander a rispondere per primo: «Il piano è quello di comprare una casa più grande e mi piacerebbe aver avuto uno o due figli.»
Si voltò verso Camille e lei prese la parola: «Sono d’accordo per la casa, ma per i figli si vedrà.»
I signori Fairbanks fecero saltare lo sguardo tra i due.
«È una cosa di cui avete già discusso?»
I due scossero il capo.
«Avere dei figli è una scelta importante» disse il signor Fairbanks. «Al di là di ogni problema o gratificazione che può derivarne, è fondamentale che ci sia una profonda comunicazione all’interno della coppia.»
Camille allungò una mano e la mise su quella di Alexander: «È sicuramente qualcosa di cui parleremo, a lungo. Si vede come brillano i vostri occhi.»
La signora Fairbanks fece una risata a metà tra il divertito e l’imbarazzato.
«È impossibile nasconderlo. Il nostro Noah ha appena compiuto gli anni e non potremmo essere più felici del vederlo crescere forte e sano».
Alexander pensò che la signora dovesse essere più giovane di quanto le rughe lasciassero presupporre e si voltò verso Camille, per vedere se le parole della donna avessero fatto breccia nella sua risolutezza.
Lei sorrideva, guardando i terapisti, senza che la sua espressione rivelasse nulla.
«Direi che per questa sera abbiamo finito» disse il signor Fairbanks e aspettò che i due futuri sposi si alzassero in piedi per poterli accompagnare alla porta. 
«Le nostre sessioni sono quasi terminate, si avvicina la fatidica data» aggiunse la signora, seguendo il marito.
«Due settimane» rispose Camille e poi si voltò verso Alexander, che le cinse il fianco per avvicinarla a sé: «Siamo così vicini.»
Quando raggiunsero l’atrio, Alexander le chiese se volesse cenare in quel ristorante italiano sulla via di casa e lei acconsentì.
Mentre cenavano, accompagnati dalla leggera musica del pianoforte, Alexander ripensò a quando le aveva chiesto di sposarlo.
Erano a Parigi, in quel ristorante che affacciava sulla Tour Eiffel che a Camille piaceva tanto.
Aveva dovuto prenotare settimane in anticipo – sarebbero stati mesi se non avesse usato il cognome di Camille – e aveva aspettato fino al dolce, per porgerle quella scatolina di velluto blu notte.
L’aveva aperta lui, senza mettersi in ginocchio – entrambi concordavano che si trattasse di un gesto imbarazzante ed esibizionista – rivelando il diamante che conteneva.
Gli occhi di Camille si erano sgranati, improvvisamente lucidi e aveva annuito.
«Sì, Alexander, lo voglio» erano state le sue parole.
Fuori dalla finestra, la Tour Eiffel aveva cominciato a scintillare. 
 
 
 
Alexander aveva atteso con ansia il sabato sera per poter rimanere in casa e riprendersi dalla frenesia della settimana.
Aveva convinto Camille che avrebbe cucinato lui, anche se, poco fiduciosa, lei aveva tentato di insistere ad uscire.
«So quello che faccio» le aveva detto e si era diretto in cucina.
Quando aveva iniziato ad impastare gli ingredienti per fare dei ravioli, lei gli aveva rivolto uno sguardo perplesso, ma non si era alzata dalla poltrona da cui stava leggendo un romanzo né aveva fatto commenti.
«Dove hai imparato?» gli chiese, quando lo vide stendere l’impasto con il mattarello.
Alexander non indossava il solito completo elegante, ma una semplice maglia a maniche lunghe che aveva arrotolato per non sporcare con la farina e si chiese quanto dovesse apparirle diverso dalla veste ufficiale che portava tanto spesso.
«Una volta mi piaceva cucinare. E non avevo nessun altro che lo facesse per me».
Camille sollevò le sopracciglia: «Credevo fossi sempre stato ricco.»
Non c’era presunzione né accusa nella sua voce, ma semplice curiosità.
Lui annuì: «Ricordi quando mio padre parlava del mio “periodo di sbandamento”? Avevo deciso di vivere da solo e cavarmela con le risorse che riuscivo a procurarmi, così ho imparato a cucinare.»
La donna socchiuse il libro, lasciando il pollice all’interno per tenere il segno.
«Mi ricordo. Com’è andata la tua avventura?»
Lui rise: «Un disastro. La prima sera sono rimasto chiuso fuori casa, non ero tagliato per quella vita.»
«Ci credo» replicò Camille e il sorriso sul suo volto dimostrò che la cosa la divertiva. 
Riaprì il romanzo e tornò alla lettura.
Non molti minuti dopo – Alexander aveva appena cominciato a ritagliare i ravioli – il cellulare dell’uomo squillò. Si pulì le mani su uno straccio e rispose.
«Pronto?»
«Ha accettato di vederti» annunciò Jefferson. 
«Chi?»
«La duchessa. Mi ha chiamato poco fa e ha detto che accettava ed è già arrivata. Ti aspettiamo nel mio ufficio, non fare tardi.»
Prima che potesse replicare, Jefferson riattaccò.
Alexander guardò la pasta sul bancone, poi prese il cesto dell’immondizia e vi buttò dentro tutto.
«Jefferson mi ha chiamato, devo andare al suo ufficio» disse a Camille. «Non aspettarmi per cena, se ti va di uscire.»
Le si avvicinò, le lasciò un bacio leggero sulle labbra e andò a cambiarsi.
Camille non protestò, era abituata, e lo salutò ancora con un bacio qualche minuto dopo mentre usciva vestito di tutto punto.
L’ufficio di Jefferson si trovava a una ventina di minuti di taxi dall’attico che divideva con Camille, e Alexander promise all’autista una mancia abbondante se fosse riuscito a ridurre i tempi.
Quando arrivò alla sua meta, Jefferson lo aspettava nel corridoio e camminava avanti e indietro, passandosi nervosamente la mano tra i capelli radi.
«Eccoti» quando lo vide gli andò incontro. «Questa è un’occasione unica. Non conosco nessuno che l’abbia incontrata fuori da casa sua.»
Mentre gli parlava, Alexander si diresse verso la sala conferenze, l’unica stanza illuminata degli uffici in quel sabato sera.
«E c’è un'ultima cosa…ho trovato un’informazione che potrebbe ridurla totalmente in nostro potere…»
Impaziente, Alexander aprì la porta e Jefferson si zittì.
Lei era lì.
Sedeva al capotavola del lungo tavolo di vetro della sala. Era il posto che di solito occupava Alexander, esattamente di fronte al proiettore.
Indossava una sorta di kimono di raso nero, stretto in vita da una cintura, rosa come i fiori che decoravano il tessuto. L’abito era talmente lungo da coprirle i piedi.
«Finalmente, Alexander» gli disse, muovendo il capo nella sua direzione.
«Ho avuto poco preavviso» si giustificò lui e ricambiò il suo sguardo.
Si sedette al suo fianco, lasciando un posto tra di loro, mentre Jefferson rimaneva in piedi.
«A cosa dobbiamo questo cambio di decisione?» le chiese e sentì il suo collega tossicchiare.
“Al diavolo” si disse, “so quello che faccio”.
«Quale cambio di decisione?» la duchessa sbatté le lunghe ciglia nere con aria ingenua.
Alexander strinse i denti. Jefferson non aveva tutti i torti, doveva essere cauto con lei.
«Intendo la decisione di concederci un nuovo incontro. Siamo…molto onorati da questa scelta» si morse la lingua per trattenersi.
Lei si appoggiò allo schienale della sedia.
«Dovete ringraziare Roman. È stato lui ad insistere che vi ascoltassi ancora.»
«Non sprecheremo quest’occasione.»
Alexander si schiarì la voce: «Credo potremmo ottenere un buon accordo se ci fosse da parte sua un sostegno pubblico alla campagna. Ovviamente da parte nostra ci sarebbe un supporto garantito dalla posizione attuale e successivamente da quella di sindaco. Avere dalla sua parte un’autorità potrebbe aprirle molte porte.»
Lei non rispose subito, ma ci pensò su, con le braccia incrociate strette al petto.
«La cosa che non mi piace di questa faccenda è che io otterrei dei vantaggi solo se voi vincerete le elezioni, o sbaglio?»
Jefferson fece per intervenire, ma Alexander lo bloccò e prese la parola: «La mia posizione attuale nell’economia e nella politica non è indifferente. Ci sarebbero dei vantaggi immediati, in qualsiasi settore lei richieda, ma vincere le elezioni sarebbe di certo un vantaggio per entrambi.»
Lei tamburellò con le dita sul tavolo di vetro. Spostò lo sguardo sulla vetrata, che affacciava su un altro grattacielo, poi tornò nella sala e si posò su Jefferson.
«Cosa dovrei fare io?» gli domandò.
«Presenziare ai nostri eventi, non a tutti, ma abbastanza da dimostrare adesione alla nostra campagna. Se possibile, anche favorire alcune trattative o accordi con persone che vi sono legate per amicizia o legami di altro tipo. Come ha detto Alexander, vincere queste elezioni è di interesse per le due parti in causa.»
«Quali eventi?» incalzò lei e Jefferson proseguì: «Alcune inaugurazioni, incontri con la popolazione e, certamente, il matrimonio di Alexander e Camille tra due settimane. Sarà un evento meraviglioso.»
Alexander tossicchiò e Jefferson lo intese come cenno di fermarsi. Gli sguardi di entrambi gli uomini furono sulla duchessa.
«No» disse lei. 
Nessuno parlò per qualche istante, finché Jefferson chiese: «No cosa?»
Lei spinse la sedia indietro, come per alzarsi, e aggiunse: «Non vi aiuterò.»
«Aspetti» tentò ancora l’uomo, mentre Alexander rimase in silenzio.
«Non sono interessata» scandì lei, rivolgendogli uno sguardo di ghiaccio.
Jefferson perse ogni atteggiamento accondiscendente e si indurì.
«Aspetti ad alzarsi. Devo farle vedere una cosa. Mi dispiace essere arrivato a questo.»
Mentre lui si avvicinava al computer e accendeva il proiettore, la giovane lanciò un’occhiata ad Alexander. Lui resse quello sguardo che cercava su di lui informazioni, senza farle capire che ne sapeva meno di lei. Immaginò che Jefferson stesse per sfoderare la notizia di cui parlava prima di cominciare l’incontro.
Ronzando il proiettore cominciò a caricare l’immagine sul telo bianco. 
Alexander vide la reazione di Emily ancora prima di guardare l’immagine. La ragazza sbiancò e ogni espressione si spense sul suo volto, paralizzandosi. Dischiuse le labbra, sgranò gli occhi, come terrorizzata.
Lui si voltò lentamente, mentre Jefferson diceva: «Mi hanno detto che queste fotografie risalgono a poco più di quattro anni fa.»
Quando vide l’immagine, Alexander ebbe un capogiro. Si sentì improvvisamente senza forze e la stanza prese a vorticare intorno a lui.
La prima fotografia rappresentava una giovane Emily all’interno di un supermercato. Nonostante il maglione che indossava, era evidente il grosso pancione che nascondeva.
La seconda fotografia ritraeva la stessa ragazza, in una stanza di ospedale, con un piccolo fagotto stretto al petto.
Senza gli abiti elaborati, senza l’alone di mistero, senza un ricco palazzo, quella era solo Emily, struccata, stanca, appesantita. E con un bambino appena nato.
Jefferson stava parlando, ma Alexander non riusciva a distinguerne le parole.
Si voltò a fatica verso la ragazza e vide che stava evitando il suo sguardo, ma che le sue guance erano rigate dalle lacrime. 
«Quando è nato?» le chiese e percepì la propria voce come un rantolo strozzato.
Avrebbe voluto gridare, alzarsi e sbattere la sedia contro il tavolo e invece si sentiva come di marmo, mentre dentro di lui tutto era in subbuglio.
Emily lo guardò e strinse le labbra, senza parlare, ma i suoi occhi furono eloquenti.
Alexander si passò una mano sul volto e si accorse che stava piangendo a sua volta.
«Dov’è?» le chiese a fatica.
Emily, tremando, fece cenno di no con il capo.
Alexander imprecò e si alzò in piedi di scatto, poi le si avvicinò a grandi passi. La ragazza si era come rimpicciolita sulla sedia.
«Dov’è ora?» quasi ringhiò.
«Alexander» lo richiamò Jefferson e si rivolse alla ragazza. «Puoi lasciarci soli?».
Lei scivolò via dalla sedia e superò Alexander, ma lui la bloccò per un braccio.
«Emily…» la sua voce era a metà tra una supplica e una minaccia.
«Lasciala, le potrai parlare dopo» gli disse Jefferson e quando lui allentò la presa, lei si liberò e uscì dalla sala.
«Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, ti ho chiesto un’unica, semplicissima cosa» gli disse l’uomo, cercando con insistenza lo sguardo di Alexander, «qualsiasi scheletro nell’armadio tu avessi, anche il peggiore, dovevo saperlo. Solo conoscendo i tuoi punti deboli avrei potuto difenderti.»
Tacque come in attesa di una replica, che non arrivò.
Alexander aveva il respiro affannato, la mascella tesa e i pugni contratti.
Jefferson proseguì: «Come ti è saltato in mente di non dirmi che avevi una relazione con la donna più importante della città? E avete anche avuto un figlio!»
«Non lo sapevo» mormorò lui.
«Non sapevi di essere andato a letto con lei? Gesù, Alexander chissenefrega del bambino, è del tuo passato che sto parlando.»
L’altro non replicò. Fissava Jefferson con uno sguardo accecato dalla rabbia. Era palese che non stesse ragionando lucidamente.
Jefferson prese un respiro profondo, poi allungò un braccio e gli batté la mano sulla spalla, guardandolo negli occhi.
«Sono stato assunto per farti vincere le elezioni, e lo farò al meglio delle mie capacità. Ma questo, Alexander…» prese un altro lungo respiro, «questo mette in forse tutto, lo capisci?»
Alexander strinse le labbra e non parlò.
«Torniamo da lei.»
Così fecero e trovarono la giovane fuori dalla porta, al centro del corridoio. Bastò un’occhiata per capire che Emily era sparita ed era tornata ad essere la duchessa.
«Complimenti, signor Jefferson» anticipò ogni possibile parola dei due uomini, recuperando la sua solita freddezza «ha legato la propria squadra con le sue mani. Faccia quello che vuole con la fotografia, ma ormai avrà già capito che diffonderla causerebbe più danni al suo protetto che a me. Se avrete ancora bisogno di me, sapete dove trovarmi».
Senza lasciar loro il tempo di parlare, si voltò e si diresse verso l’ascensore.
Alexander la seguì con lo sguardo, senza muoversi. Aveva recuperato sufficiente buon senso per capire che non era abbastanza lucido. Si sentiva ribollire, era sudato e instabile sulle gambe, e sapeva benissimo cosa succedeva quando lasciava le emozioni guidarlo. “L’ira non ti dona affatto” gli diceva sempre Emily.
La guardò sparire, al di là delle porte dell’ascensore, e la lasciò andare.
“Per ora” si disse.
 
 
 
***
 
 
 
Camille aveva insistito perché andassero a quella galleria in centro, dove era appena stata inaugurata una nuova esibizione. Era raro che la donna gli chiedesse con insistenza qualcosa, così Alexander l’aveva accontentata senza pensarci due volte. 
«Ci saranno anche molte persone a cui farà piacere vedere un candidato amante dell’arte» gli aveva sussurrato lei a fior di labbra, mentre si preparava per uscire.
Il suo profumo inebriante aveva invaso le narici di Alexander e lui aveva pensato che quella sera Camille era bellissima. Portava un abito di tulle lilla che le lasciava scoperte le gambe lucide e toniche e, per uscire, si infilò una pelliccia dello stesso colore delicato. Grazie ai sottili tacchi argentati, abbinati alla pochette, era quasi alta come lui.
«Ti ricordi quando ci siamo incontrati?» le chiese lui una volta che si furono seduti nell’auto che avevano chiamato.
Lei gli sorrise, il suo profilo perfetto si stagliava sul finestrino scuro.
«Certo, perché me lo chiedi?»
Lui scrollò le spalle: «Non so, ci stavo pensando. E tra una settimana ci sposiamo, non lo trovi strano?»
«Sei tu che stai facendo discorsi strani questa sera» rise lei e si inclinò verso Alexander, diffondendo ancora il suo profumo nell’aria.
«Eravamo in quel caffè a Portobello. Tu stavi sfogliando un libro appena comprato e io ti guardavo da un altro tavolo» le disse e lei si voltò a guardarlo, come per invitarlo ad andare avanti.
«Ti avevo vista in università, quindi sapevo chi fossi.»
«E io sapevo chi fossi tu» replicò lei, inclinando leggermente il capo.
Lui sorrise. «Quel giorno ho pensato che fossi bellissima. Portavi gli occhiali e indossavi un maglioncino color crema, me lo ricordo. Credo sia stato questo a spingermi a venire a parlarti.»
Camille allungò una mano e gli sfiorò la guancia appena ruvida. Si era rasato quella mattina stessa.
«Sono contenta che tu l’abbia fatto» 
Lui si sporse e le lasciò un bacio sulla guancia. Sapeva che non l’avrebbe perdonato se le avesse rovinato il rossetto.
 
La galleria era già affollata da signori elegantemente vestiti. Camille aveva ragione, era una bella vetrina.
I quadri e le installazioni erano disposti in una serie di stanze con le pareti di un bianco splendente.
Prima si preoccuparono di salutare tutti quelli che conoscevano. Camille si era tolta la pelliccia e con quel suo abito lilla attirava l’attenzione di molti uomini. Lei pareva non rendersene conto e scivolava con disinvoltura tra la gente.
Trovarono anche la madre della ragazza, che viveva a Tridell anche quando il marito conduceva affari a Parigi.
Mentre Camille e sua madre chiacchieravano sorseggiando champagne, Alexander ne approfittò per allontanarsi e visitare la mostra.
Passeggiò nelle varie stanze, facendo scorrere lo sguardo sulle varie opere.
Una in particolare attirò la sua attenzione. Si trattava di un vaso di alabastro su cui erano state dipinte le figure di un uomo e di una donna che ballavano abbracciati. La finezza del tratto lo assorbì nella contemplazione e non si accorse che qualcuno si era avvicinato fino a che non lo ebbe al suo fianco.
Inizialmente non ci fece caso – pensò si trattasse di un normale visitatore – ma quello se ne stava stranamente vicino e sembrava non avere intenzione di andarsene.
Si voltò a guardarlo e il suo cuore accelerò all’improvviso quando si rese conto che si trattava del giovane biondo che aveva visto nel palazzo di Emily.
Roman – ricordava che questo era il suo nome – lo guardava dritto negli occhi.
«Buona sera, Alexander» gli disse e lui si accorse che una sfumatura nel suo accento rivelava che veniva da lontano.
Alexander non rispose, ma lo fissò, con i denti serrati.
L’altro sorrise, quasi divertito dal suo atteggiamento. 
«Non credere che le tue visite nella scorsa settimana siano passate inosservate» gli disse infatti, allegro.
Alexander strinse i pugni. Non aveva più visto Emily dal loro ultimo incontro, ma aveva passato i giorni seguenti a fare ricerche. Come sospettava, nessun registro riportava la nascita né diceva dove si trovasse il bambino. Si era recato al palazzo della duchessa diverse volte, lo aveva guardato da lontano, ma non si era mai avvicinato per suonare il campanello. Qualcosa lo aveva trattenuto.
«Emily aveva ragione a dire che sei molto irascibile» continuò Roman.
I muscoli di Alexander guizzarono involontariamente. Lui sapeva il suo vero nome e, per quanto Alexander ne sapesse, era l’unica persona oltre a se stesso.
«Cosa vuoi? Ti manda lei?» gli chiese, stringendo gli occhi.
Roman non smise di sorridere. «No, se lo scoprisse potrebbe cacciarmi di casa. Sono venuto di mia spontanea volontà.»
La risposta sorprese Alexander, ma non lo lasciò vedere. Non sapeva quanto potesse fidarsi dell’altro.
«Emily ha tenuto la bicicletta che le hai regalato. La tiene appesa nella sua libreria personale. Si mette a fissarla quando ha bisogno di conforto e consolazione e questa settimana non si è mossa un attimo dalla libreria.»
Questa volta Alexander non riuscì a trattenere il suo stupore. Non solo Roman sapeva molto più di quanto si aspettasse, ma gli stava anche rivelando qualcosa che metteva Emily in debolezza, qualcosa che la faceva apparire come la piccola, goffa Emily che lui aveva lasciato quattro anni prima.
«Perché me lo stai dicendo?» 
Roman si strinse nelle spalle: «Dovresti parlarle. Questa storia del bambino la distrugge ogni volta.»
«Quale storia del bambino?» Alexander sentì di nuovo il sangue rombargli nelle orecchie e il volto dell’altro ondeggiò per qualche secondo.
Roman scosse il capo: «Come ho detto, dovresti parlarle. Emily ha tutta la mia lealtà, per questo te lo sto dicendo.»
Gli fece un cenno di saluto e si allontanò.
Alexander rimase fermo per qualche istante. Tornò a guardare le figure sull’alabastro e le fissò così a lungo che avrebbe giurato di averle viste ballare davvero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 




 
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Capitolo 3
*** Nostro figlio (pt. 1) ***


NOSTRO FIGLIO
 (pt. 1)
 
 



Emily si guardava nel grande specchio che aveva davanti. A separarla dal proprio riflesso, c’era la piscina rotonda che aveva fatto scavare al piano terra del suo palazzo. L’acqua era cosparsa di petali colorati, come piaceva a lei.
Nonostante avesse raccolto i capelli color mogano in uno chignon, li sentiva appiccicati alla nuca per l’alta temperatura che c’era nella sala.
Sentì la porta aprirsi alle sue spalle, ma non si voltò e osservò la scena dallo specchio.
Sapeva già che si trattava di Alexander. Roman non avrebbe saputo tenerle segreto neanche il suo regalo di Natale, figurarsi la sua conversazione con l’uomo del momento.
Si stupì di constatare che Alexander non portava uno dei suoi soliti completi, ma un semplice dolcevita color ghiaccio e dei pantaloni grigio scuro. I suoi capelli chiari erano spettinati in modo più adatto ad un ragazzo svogliato che ad un politico preoccupato della propria immagine.
«Dobbiamo parlare» le disse.
La sua voce – solida, vibrante – percosse la giovane e i suoi battiti aumentarono. 
Quando gli rispose cercò di mantenere un tono saldo: «Certamente».
Si studiarono attraverso i loro riflessi, in silenzio, come due combattenti che aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa.
«Prima devi spogliarti» gli disse lei.
Lo vide corrugare la fronte, unico segno della sua perplessità.
«Togli tutto ed entra nell’acqua.»
Alexander si fece seccato: «Perché?»
Emily trattenne un sorriso. Stava cominciando a capire che le sue scelte erano ragionate.
Fissò intensamente il suo riflesso: «Voglio assicurarmi che non indossi microfoni.»
Un lampo attraversò il volto di lui. Dolore, forse?
«Credi che lo farei?»
«Sì, Alex» la sua voce suonò più dura di quanto intendesse. «Credo che lo faresti».
Dato che l’altro non dava cenno di muoversi, Emily sciolse la cintura che le stringeva la vita e la lasciò scivolare a terra insieme alla sua vestaglia, rivelando che non portava niente sotto.
Avanzò lentamente verso la piscina, con gli occhi fissi su Alexander. Infilò un piede nell’acqua calda, facendo muovere i petali colorati, e scese la scala che si immergeva.
L’altro dovette capire di non avere scelta e si sfilò il dolcevita. Emily sentì il suo volto scaldarsi, ma non distolse lo sguardo. Pensò che Alex aveva preso massa in quegli anni. Lo ricordava più magro.
Lui si tolse le scarpe, slacciò i pantaloni e dopo averli sfilati li sistemò piegati insieme al maglione. Emily distolse gli occhi dallo specchio quando lui rimosse anche le mutande.
Non appena Alexander fu nell’acqua, nascosto dalla coltre di petali sulla superficie, lei si avvicinò al bordo della piscina e schiacciò un pulsante. Intorno a loro si accese l’idromassaggio con il suo suono rombante.
«È proprio necessario?» le chiese Alex.
Lei strinse le labbra, nascondendo un sorriso di soddisfazione. Lo aveva messo a disagio.
Dissimulò tutto con falsa noncuranza: «Il rumore dell’acqua copre del tutto le nostre voci, nel caso ci sia qualcosa che registri sui tuoi vestiti.»
Un piccolo spasmo sul volto dell’altro rivelò il suo fastidio.
«Sei perfida, Cassandra» pronunciò il nome quasi come un insulto. «Perché proprio questo nome?»
Lei mosse lentamente le braccia nell’acqua e inspirò il profumo dei petali.
«Perché per quanto la gente possa ritenermi strana o pazza, alla fine le cose andranno come dico io.»
«È un po’ pretenzioso».
Lei storse il naso: «Sei venuto ad insultarmi o volevi sapere qualcosa?»
Lui prese un respiro profondo e la certezza nei suoi occhi vacillò.
«Voglio sapere del bambino» le disse. «Per favore.»
Emily capì era che pronto a supplicarla e provò una certa compassione nei suoi confronti.
Si infilò nell’acqua fino al mento e fece vagare lo sguardo intorno a sé, perdendosi nei ricordi. Sentiva su di sé lo sguardo di Alexander, pressante, impaziente. 
«Ho scoperto di essere incinta qualche settimana dopo che te ne sei andato.» 
Era giunto il momento di dargli ciò che voleva e non avrebbe usato fronzoli.
«Ovviamente, il mio primo pensiero è stato che dovevo avvisarti. Ero ancora piuttosto scossa dalla tua improvvisa scomparsa e non ragionavo lucidamente. Ho quasi creduto che sarebbe bastato per farti tornare».
I suoi occhi si spostarono su Alexander come se volessero trapassarlo.
«Che stupida» continuò. «Sospettavo avessi cambiato numero di cellulare e così è stato. Allora andai a casa di tuo padre, ma com’era prevedibile nessuno mi fece entrare. Ti scrissi delle lettere, ma anche quelle furono inutili. La cosa più difficile fu realizzare che ero completamente e spaventosamente sola.»
Fece una pausa e seguì con lo sguardo il movimento di alcuni petali di rosa intorno a sé.
«Cercai di lavorare fino a che il corpo me lo permise, sapevo che mi sarebbe servito tutto il denaro possibile per crescere un figlio e intendevo farlo con la maggiore dignità possibile.»
Il suo silenzio fece intendere ad Alexander che stava per arrivare la parte più difficile. Evitò lo sguardo di lui, fissando i petali colorati quasi senza sbattere le palpebre.
«Quando nacque, ero felicissima, radiosa. Credo di non aver mai visto una meraviglia più grande. Lo amavo con tutto il mio cuore, più di quanto avrei mai potuto amare qualcuno, perfino me stessa. Purtroppo, il mio amore da solo non bastava per vivere. Ti ricorderai com’era la nostra vita. Quando c’eri tu, i soldi bastavano per l’affitto e per mangiare, ma da sola non riuscivo a garantirli entrambi, soprattutto non con un neonato da mantenere.»  
Emily chiuse gli occhi e cercò di cacciare indietro le lacrime: «Così presi una decisione.»
Non era il momento di mostrarsi debole.
«Dovevo trovare una famiglia che volesse adottarlo.»
Lanciò un’occhiata ad Alexander, cercando una reazione sul suo volto. Lui aveva gli occhi sgranati e ascoltava in silenzio. 
«Mi informai e trovai la soluzione migliore: potevo affidare il bambino ad una famiglia fino a che non avessi avuto le possibilità di garantire a entrambi una vita dignitosa. Era una sorta di adozione aperta che mi permetteva di incontrarlo periodicamente anche mentre viveva con la famiglia a cui era affidato.»
Strinse i denti e sentì il suo tono farsi più rigido: «Inutile dire che le cose non andarono così. La famiglia a cui fu affidato all’inizio sembrava perfetta: erano benestanti, non avevano altri figli e parevano entusiasti dell’adozione. Avrei dovuto capirlo prima, c’erano dei segni evidenti e io li avevo ignorati per convincermi che tutto andava bene. Presto cominciarono a impedirmi di vederlo, inventavano scuse e passavano anche alcune settimane prima che riuscissi a incontrarlo.»
Emily sentì una lacrima rigarle la guancia e la sfregò velocemente per cancellarla.
«Mi spezzò il cuore quando ricevetti una lettera, tre anni fa, dicendomi che, legalmente, non avrei più potuto avvicinarmi a mio figlio. Mi avevano privata del mio diritto di essere madre.»
«Non è possibile» mormorò Alexander, attonito. 
«Ero una ragazza povera e senza istruzione, loro avevano molte conoscenze e una certa influenza nelle sfere alte della città. Non avevo nessuna possibilità, Alex.»
Lui sbatté le palpebre, sbigottito, come incapace di parlare. Emily immaginò che l’avvocato in lui stesse cercando di capire come fosse stato possibile. Le guance dell’uomo erano arrossate, difficile dire se per la temperatura o la rabbia.
«Alla cena hai detto che ho costruito un bello show» riprese lei. «Avevi ragione. L’ho fatto con l’unico scopo di riportare mio figlio, anzi nostro figlio a casa. Non voglio più essere quella ragazzina impaurita e senza risorse, ho bisogno di essere questo, di essere Cassandra per poterlo avere tra le mie braccia.»
«E come hai fatto?»
Emily giocherellò con un petalo di peonia sul filo dell’acqua.
«Quello che si dice in giro è vero. Ho ricevuto un’eredità, da un fratello di mia nonna che non conoscevo». Si strinse nelle spalle: «Poi sono riuscita a farla fruttare con scelte finanziarie intelligenti».
Lanciò un lungo sguardo ad Alexander e proseguì: «Quello che ho ora è anche merito dei tuoi insegnamenti».
Lui scosse il capo: «Non avresti dovuto metterlo a frutto se io non fossi arrivato così tardi.»
«Si potrebbe dire che sei in ritardo, Alex» rispose lei, lasciandosi galleggiare nell’acqua, «o forse solo un grande stronzo.»
«Mi dispiace» mormorò lui.
Emily lo guardò con la coda dell’occhio e riuscì a leggere tutto ciò che stava pensando sul suo volto trasparente, tutto il dolore per la consapevolezza che se non se ne fosse andato o se fosse tornato prima, tutto quello non sarebbe successo.
L’idromassaggio si spense, ma nessuno si preoccupò di farlo ripartire.
«Per questo Roman insiste che noi collaboriamo» continuò lei. «Avere dalla mia parte il sindaco sarebbe decisamente utile».
«Ti aiuterò in ogni modo possibile».
Lei fece roteare gli occhi: «Sappiamo entrambi quanto valgano le tue promesse.»
«È anche mio figlio, Em, e mi dispiace davvero per tutto quello che hai dovuto attraversare. Se hai delle carte, posso cercare qualcosa».
«Ti farò sapere» lo interruppe lei bruscamente. «Ora puoi andare».
Emily notò come Alexander fu colto di sorpresa dal rapido mutamento del suo atteggiamento.
«Aspetta» le disse, «non mi hai ancora detto il suo nome.»
Lei lo fissò in silenzio per qualche istante, poi gli si avvicinò e si mise al suo fianco. Lo guardò negli occhi, nei suoi occhi color ambra, poi si chinò verso il suo orecchio e, sottovoce, gli sussurrò il nome.
 
 
 
***
 
 
 
Alexander leggeva le mail dal divano, con il portatile sulle gambe, e alle sue spalle sentiva i movimenti di Camille, mentre apparecchiava il tavolo. Si era offerto di aiutarla, ma lei aveva insistito perché si dedicasse al suo lavoro fino a che non fossero arrivati gli ospiti. 
Con il matrimonio alle porte, l’uomo aveva rallentato la sua partecipazione alla campagna elettorale per dedicarsi agli ultimi dettagli. Jefferson non aveva del tutto disapprovato questa deviazione, dato che aveva previsto un incremento di consenso dopo il matrimonio. Le foto della cerimonia avrebbero mosso i cuori di tutti e per questo dovevano essere perfette.
Il suono del campanello distolse Alexander dalla sua lettura. Si voltò verso Camille e anche lei parve sorpresa quanto lui.
«Sono in anticipo» gli disse infatti.
«Forse non sono loro, vado io» si offrì lui e si diresse verso l’ingresso.
Aprì la porta e non riuscì a nascondere il suo stupore nel trovarsi davanti Emily e Roman. 
«Cosa ci fai qui?» chiese, guardando lei. «Qualcuno avrebbe potuto vederti entrare e…»
«E pensare cosa?» replicò lei. «Che sono venuta a trovare il mio caro amico nonché il candidato che sosterrò per le elezioni? Dovresti ringraziarmi.»
Emily aveva un tono saccente e Alex intuì che l’aveva irritata per la sua accoglienza. Roman lo guardava con un’espressione serena, quasi dilettato dalla loro conversazione
«Ti ho portato le carte di cui abbiamo parlato» proseguì lei, accennando ad una cartelletta che teneva sottobraccio. 
Alexander si guardò alle spalle. Il salotto era troppo lontano per essere raggiunto dalle loro voci.
Si rivolse ad Emily: «Quelle dell’adozione?»
Lei annuì.
«Be’, puoi lasciarmeli, li guardo appena riesco.»
Emily fece una risata, guardò Roman e anche lui rise, poi tornò ad Alex.
«Sciocchino» gli disse, «credi che ti lascerei questi documenti? Toglitelo dalla testa. Possiamo accomodarci?»
Non aspettò la sua risposta e sfilò al suo fianco, con la cartelletta stretta al petto, entrando nell’appartamento. La seguì rapidamente e lasciò la strada aperta a Roman, che si accodò a loro.
Alex vide Emily percorrere il corridoio che dall’ingresso conduceva al salotto e poi guardarsi attorno, studiando l’ambiente. I suoi occhi scivolarono sui due grandi divani, sulla libreria di fronte, che incorniciava la televisione, sul grande tavolo, apparecchiato per quattro e infine su Camille, che se ne stava in piedi dietro a esso, guardando verso di loro.
«Oh, aspettate ospiti?» domandò Emily, voltandosi verso Alexander. Non c’era rincrescimento nella sua voce, quasi l’avesse detto per convenzione.
«Che piacere vederti, Cassandra» la salutò Camille con un grande sorriso sul volto. «Devo aggiungere due posti a tavola?»
«No» rispose subito Alexander. «Faremo in fretta, è per la campagna elettorale. Perché non rimani qui con Roman, mentre noi andiamo in cucina?»
Camille acconsentì subito e invitò Roman a prendere qualche stuzzichino mentre i due si spostavano nell’altra stanza.
«Perché la cucina?» gli domandò Emily, non appena si furono accomodati sugli sgabelli di fronte alla penisola. «Lo studio è troppo privato?»
«Tu non ti sei risparmiata in precauzioni, quindi preferisco seguire la tua linea» replicò lui e guardò la cartelletta in attesa che gliela tendesse.
Emily sbuffò, ma così fece.
Alexander cominciò a leggere rapidamente i documenti, sotto l’occhio di lei. Sapeva di avere poco tempo prima di cena e questo non lo aiutava a concentrarsi. Con la coda dell’occhio vedeva Emily al suo fianco, che giocherellava con i lunghi capelli sciolti e faceva dondolare una gamba, così che il suo abito frusciasse. Era tanto vicina che riusciva a percepire il calore del suo corpo e a sentire il suono leggero del suo respiro.
«Ho bisogno di più tempo per leggerli tutti» le disse, guardandola.
Lei sbatté le palpebre sugli occhi color muschio, facendo vibrare le lunghe ciglia scure.
«Ci vedremo nei prossimi giorni, se servirà» gli rispose.
Lui scosse il capo: «Servirà di sicuro, ma sarò impegnato.»
Emily corrugò la fronte e Alexander pensò che sembrava una bambina perplessa. Improvvisamente realizzò che lei non aveva ancora compiuto venticinque anni e un improvviso macigno gli schiacciò il petto. Era poco più che una ragazzina, nonostante tutto il mistero che aveva creato intorno alla sua figura, nonostante tutta l’influenza che aveva concentrato nelle sue mani. 
«Impegnato con cosa?» gli chiese.
Lui deglutì. “Mi sposo tra due giorni” pensò, ma non lo disse. Nei giorni che erano trascorsi dal loro ultimo incontro nella piscina, Alexander aveva riflettuto a lungo e aveva capito di avere due possibilità. La prima era dire tutto a Camille, - della sua storia passata, del bambino - e sperare che la sua fidanzata fosse comprensiva e decidesse al massimo di rimandare il matrimonio, senza cancellarlo. La seconda – si sentiva un verme anche solo a pensarlo – prevedeva di non dire nulla a Camille e procedere come se niente fosse. Solo con il matrimonio avrebbe acquisito i punti necessari per vincere le elezioni e solo come sindaco avrebbe potuto aiutare Emily a riprendersi suo figlio. Sapeva come funzionavano le cose a Tridell e quanto contasse una posizione di potere.
In definitiva, si trattava di scegliere tra le due donne, ma qualunque fosse stata la sua decisione, le avrebbe fatte soffrire entrambe.
Il campanello suonò nuovamente. I due tacquero, in ascolto.
Alexander sentì il chiacchiericcio soffuso e riconobbe la voce dei suoi ospiti, i signori Fairbanks. Avevano deciso di invitarli a cena per congedarsi dai loro servizi. Lui era stato impaziente per quella cena, dato che sarebbe stata l’ultima volta che i terapisti li osservavano come futuri sposi, appuntandosi cosa riferire ai Lefebvre. 
I suoi occhi si posarono su Emily e ogni possibilità di fare una buona impressione svanirono. Lei e Roman non erano decisamente persone sobrie e discrete, di sicuro avrebbero suscitato domande.
«Sono arrivati i tuoi ospiti» la giovane lo fece riemergere dai suoi pensieri.
Fece un cenno di assenso e scese dal suo sgabello.
«Non vuoi proprio lasciarmi i documenti?» tentò un’ultima volta.
Quando Emily scosse il capo, ad Alexander parve di leggere nel suo volto quasi un dispiacere a doverglielo negare. Teneva le labbra strette e si sistemava nervosamente i capelli.
«Va bene, ti accompagno alla porta.»
Lei si alzò in piedi, senza parlare e lo seguì verso il salotto.
La prima cosa che Alex notò quando entrarono nella stanza fu che Camille aveva aggiunto due nuovi posti a tavola e Roman sedeva a uno di questi. Sapeva che la sua fidanzata aveva orrore della scortesia e aveva voluto invitare i due ospiti inattesi. 
I signori Fairbanks si stavano guardando attorno con aria circospetta, mentre Camille appendeva i loro cappotti. Vide un bimbo, ipotizzò il figlio, che correva ridacchiando e barcollò verso di lui.
«Così vedremo se te la cavi con i bambini» scherzò Camille, mentre lui si abbassava per salutarlo. 
«Ciao» gli disse e il bimbo gli rispose con la mano aperta, poi tese le braccia, come per chiedere di essere preso in braccio. Alex guardò i Fairbanks e loro parvero acconsentire, così fece come il piccolo gli chiedeva.
Una volta preso in braccio, si voltò verso Emily, che era rimasta alle sue spalle, e si rese conto che era pallida come un cencio. I suoi occhi, vitrei, erano fissi sul bambino.
Alexander non ci mise molto a elaborare i dati: gli anni del piccolo, la storia che aveva sentito nella piscina, i Fairbanks, la loro amicizia con i Lefebvre, lo sguardo di Emily. 
Un profondo terrore cominciò a stringergli lo stomaco mentre realizzava che quello che teneva in braccio era suo figlio.









 
 
 
 
 
 


 




 
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Capitolo 4
*** Nostro figlio (pt. 2) ***


4. NOSTRO FIGLIO 
(pt. 2)
 
 



Sedevano a tavola da più di mezz’ora e Alexander non aveva aperto bocca. Stava a capotavola, con Camille al suo fianco e il signor Fairbanks di fronte. L’uomo che aveva portato via suo figlio.
Alex non riusciva a pensare ad altro e a stento si tratteneva dal continuare a guardare Emily, che sedeva al suo altro lato e come lui era stata in silenzio nei precedenti trenta minuti.
A condurre la conversazione erano soprattutto Camille e Roman, che cercavano di coinvolgere l’altra coppia. Noah sedeva tra i signori Fairbanks, rialzato da un paio di cuscini per poter mangiare da solo.
Alexander continuava a fissarlo, incredulo, incapace di credere che quello, proprio quello, era suo figlio. Qualcosa dentro di lui tremava se pensava di essere l’artefice di quel corpicino, se si soffermava sull’idea che dentro le sue piccole vene, scorreva il suo stesso sangue. Più lo guardava, più si convinceva che certo, era logico, che quello fosse suo figlio. Aveva i suoi stessi occhi ambrati. E le stesse lentiggini che spuntavano ad Emily quando prendeva il sole. Di lei aveva anche quelle labbra color ciliegia, ma aveva preso da lui i capelli chiari. 
«Alex?»
Camille dovette chiamare il suo nome una seconda volta per attirare la sua attenzione.
«Scusatemi, ero sovrappensiero.»
Lei accarezzò il suo braccio, sorridendogli dolcemente: «Robert ha chiesto come hai conosciuto Roman e Cassandra.»
Alexander spostò lo sguardo verso il signor Fairbanks, che attendeva la sua risposta.
«Collaboriamo per la campagna elettorale» replicò lui. «A quanto pare abbiamo interessi in comune.»
Sentì Emily trattenere il fiato.
«Mi stupisce che persone così diverse possano avere punti di contatto» replicò quello.
Alex serrò la mascella, ma prima di poter replicare, sentì qualcuno tirargli un calcio sotto il tavolo. 
Emily. 
Incrociò il suo sguardo di ghiaccio.
“L’ira non ti dona affatto”.
Prese un respiro profondo e deglutì.
«Camille, perché non mostri ai signori Fairbanks la vista che abbiamo dal nostro terrazzo prima del dolce? Ricordo che ne abbiamo parlato in uno dei nostri incontri.»
La donna non se lo fece ripetere due volte e invitò i due ospiti a seguirla.
«Non preoccupatevi per Noah» aggiunse Alex, «lo controllo io».
La signora Fairbanks non riuscì a trattenersi dal lanciare uno sguardo incerto ad Emily, che subito disse: «Nel frattempo userò il bagno, scusatemi.»
Si alzò in piedi e uscì dalla sala da pranzo, seguendo la direzione indicata da Camille.
Come rincuorati dalla sua assenza, i signori si convinsero a seguire la padrona di casa verso la terrazza, a cui si accedeva da un’altra stanza. Roman si aggiunse a loro e lasciò il salotto.
Rimasto solo con Noah, Alex si alzò e gli si avvicinò, per controllarlo. Il bimbo pareva ignaro della tensione che lo aveva circondato e si dedicava con grande attenzione a seguire i disegni argentati sulla tovaglia.
Alex si voltò verso il corridoio in cui era scomparsa Emily e la vide riaffacciarsi, circospetta.
«Se ne sono andati» le disse Alex e lei lo raggiunse. I suoi occhi, pieni di lacrime, erano fissi sul bambino.
«Ciao Noah» gli sussurrò, abbassandosi per poterlo guardare in viso. 
«Ciao» le rispose lui sorridendo.
Emily tremava, mentre allungava una mano e gli sfiorava una guancia. Il suo volto era contratto in una smorfia di dolore, nonostante si sforzasse di apparire serena.
«Ti ricordi di me?» gli chiese.
Alex le posò una mano sulla spalla e la sentì trasalire.
«Non lo so» rispose Noah, inclinando il capo. «Eri al compleanno di Sam?»
Emily scosse il capo: «No, ma non importa. Come stai?»
«Bene, oggi ho mangiato due caramelle» le mostrò sulle dita il numero.
Lei gli prese la mano: «Davvero? Erano buone?»
Noah annuì entusiasta, poi il suo volto si rabbuiò: «Però la mamma dice che non fanno bene e di solito non mi lascia mangiarle.»
Emily tirò su con il naso e si voltò verso Alexander, che se ne stava in silenzio al suo fianco.
L’uomo vide che una lacrima stava scivolando sulla sua guancia, così, quasi involontariamente, gliel’asciugò con un dito.
«Non piangere, Em» mormorò.
Lei strinse i denti e tornò a guardare il bambino.
«Posso abbracciarti, Noah?»
Lui le rivolse un’espressione perplessa, ma infine acconsentì.
Mentre li guardava, Alex ripensò alla cena, a quando Emily aveva parlato di Medea. Aveva creduto fosse un modo indiretto per pugnalarlo, per farlo sentire in colpa per aver scelto un partito migliore. Lui era una copia di Giasone, ne era consapevole, ma stava cominciando a chiedersi se non fosse stata una tecnica per fargli sapere del bambino. 
Una cosa era certa e Emily lo aveva detto lei stessa: c’erano cose che era disposta a fare per ottenere ciò che voleva e nulla l’avrebbe fermata. Alexander ebbe come la sensazione che il racconto mitico si fosse invertito. Pur di riavere suo figlio, Emily ne avrebbe anche ucciso il padre.
Un rumore di passi segnalò che gli altri stavano tornando, così la ragazza tornò al suo posto e Alexander rimase insieme a Noah. 
Mangiarono il dolce, simulando nonchalance e tenendo la conversazione su argomenti generali.
Alexander percepì che tutti stavano cercando di nascondere qualcosa agli altri. Tutti tranne Camille.
La padrona di casa pareva rallegrata dalla presenza di ospiti e si divertiva a conversare con loro, cercando di coinvolgere tutti i presenti.
Quando venne il momento di congedarsi, Noah si era addormentato e la signora Fairbanks lo teneva tra le braccia, sotto lo sguardo tagliente di Emily. 
Alex si offrì di accompagnarli fino all’ingresso del loro palazzo, ma Camille insistette per farlo al suo posto, per poterli salutare al meglio, e lo lasciò solo con Emily e Roman.
Emily se ne stava vicino alla finestra del salotto e guardava in basso, verso la strada che scorreva sotto di loro.
«Ho apprezzato il tentativo di lasciarmi sola con lui» gli disse, quando Alex le si avvicinò.
L’uomo vedeva il suo riflesso contro il vetro, gli occhi persi e le ciglia che quasi sfioravano la superficie trasparente. Le sue labbra, leggermente dischiuse, lasciavano uscire un filo d’aria che appannava la finestra.
«Era il minimo» le rispose.
Era sempre consapevole della presenza di Roman all’interno della stanza – lo scorgeva girovagare intorno alla libreria – ma riteneva che Emily si fidasse abbastanza di lui da non avere nulla da nascondergli.
«Non voglio giustificarmi, Em, ma se la cosa può esserti di consolazione, quando mio padre è venuto a prendermi, credevo mi avrebbe riportato a casa nel giro di qualche ora».
Lei non rispose né cambiò espressione e lui lo prese come un permesso di continuare.
«Forse penserai che sono stato ingenuo, ma speravo di riuscire a convincerlo a lasciarmi vivere la vita che volevo. Capii che mi stava portando via da te solo quando arrivammo all’aeroporto. Ci vollero due uomini per tenermi fermo e comunque non sarebbero riusciti a farmi salire sull’aereo se mio padre non mi avesse fatto una promessa: ti avrebbe recapitato abbastanza denaro per condurre una buona vita e mi avrebbe permesso di rimanere in contatto con te mentre finivo i miei studi, a patto che io salissi su quell’aereo di mia spontanea volontà. Sapevo che era pronto a tramortirmi pur di farmi andare con lui, così accettai convinto di fare la cosa migliore per te.»
Un rumore lo fece voltare verso la porta d’ingresso, ma era solo Roman che sfogliava un libro. Tornò a guardare Emily.
«Una volta in Inghilterra, mi disse che non poteva permettermi di chiamarti o mandarti messaggi per questioni di sicurezza, ma ti avrebbe recapitato le mie lettere. Ci credetti davvero e mi spezzò il cuore constatare che non ricevevo mai alcuna risposta. Sono stato uno stupido Em, e lo so, ma in quel periodo ero così sconvolto da non riuscire a ragionare lucidamente.»
Le si avvicinò e appoggiò una mano sul braccio della ragazza, ma lei si sottrasse di scatto, rivolgendogli uno sguardo duro.
«Non è stato mio padre a scegliere Camille, sono stato io. Dopo quasi due anni ero certo che tu avessi voltato pagina e io ero pronto a fare altrettanto.»
La guardò, in silenzio, cercando di decifrare il suo volto. Emily lo stava fissando impassibile, poi fece una smorfia.
«Appoggio la tua campagna perché rivoglio mio figlio, ma credo che saresti un pessimo sindaco. Sei così avventato e imprudente da rasentare la stupidità.»
Si guardò attorno e fece un cenno a Roman, poi tornò a guardare Alexander: «Grazie per la cena.»
Senza dire altro, si diresse verso l’ingresso.
Roman si trattenne per salutare il padrone di casa, prima di seguirla a ruota. Alexander pensò che sembrava un cane che seguiva il padrone.
Cercò il suo cellulare e mandò un messaggio a Jefferson. Emily gli aveva appena detto che non sarebbe stata un’alleata affidabile e lui doveva agire di conseguenza.
 
 
 
***
 
 
Emily guardava la città scorrere fuori dal suo finestrino. Sapeva che avrebbe impiegato un’ora a tornare a casa, ma nelle sue vene scorreva una leggera adrenalina che la teneva sveglia. Davanti agli occhi aveva ancora il volto tenero di Noah che la guardava con i suoi grandi occhi ambrati. L’idea che fosse così vicino e allo stesso tempo così intoccabile le provocava un dolore fisico.
Ogni fibra del suo corpo le aveva gridato di stringerlo al petto e portarlo via. Lontano da tutti loro, lontano da quel mondo in cui era entrata solo per far uscire lui.
Prese un respiro profondo e trattenne l’aria nel suo corpo. Quando la fece uscire, immaginò che insieme se ne andasse anche tutta la sua tensione. Doveva tornare ad essere lucida ed efficiente. 
«Chiamata in arrivo» la avvisò Roman, seduto al suo fianco, indicandole lo schermo davanti a loro che recitava “Arthur Lowe”.
Emily chiuse la finestra che le permetteva di comunicare con l’autista e accettò la chiamata.
«Buona sera Arthur» rispose, voltandosi verso Roman, per assicurarsi che fosse attento. Il giovane teneva gli occhi su di lei, concentrato.
«Cassandra!» le rispose Lowe in tono gioviale. «Buona sera.»
«A cosa devo questa chiamata?»
Emily vedeva il volto di Roman perplesso tanto quanto il suo.
«Ci sono voci, in giro, che dicono che stai allargando la tua cerchia di amici» rispose l’uomo.
Lei scelse con cura le parole: «Come sai, le mie scelte sono sempre molto selezionate, quindi potrai capire da solo se le voci sono vere o false.»
Roman le fece un cenno di assenso. Approvava le sue parole.
«Le voci riguardano Alexander Henderson, il giovane candidato» continuò Lowe.
«In questo caso allora sono vere».
Emily si appoggiò allo schienale e allungò le gambe davanti a sé, tenendo gli occhi sullo schermo che segnalava la durata della chiamata.
«Credi abbia buone probabilità di vincere?»
La ragazza si voltò verso Roman e si scambiarono un sorriso, poi cercò di mantenere un tono neutrale.
«Credo vincerà. Sai che i perdenti non mi interessano.»
Sentiva le proprie labbra tendersi verso l’alto per la soddisfazione. I primi pesci stavano cominciando ad abboccare. Presto tutti avrebbero saputo che lei appoggiava Alexander e sarebbero accorsi per guadagnarsi un posto dalla parte del vincitore.
«Voglio conoscerlo, pensi di poter organizzare un incontro?» le domandò l’uomo.
«Mi offende che tu abbia dovuto chiederlo» gli rispose. «Ti farò sapere una data.»
Si congedarono e la conversazione si chiuse.
Quando Emily si voltò verso Roman, vide che anche lui aveva un’espressione compiaciuta. 
«Arthur Lowe si aspetta sempre di stringere patti con i suoi “amici”, credi che Alexander accetterà?» le domandò.
Lei strinse le labbra e non rispose subito, pensierosa.
«Il suo senso di giustizia gli provocherà tanti rimorsi, ma non avrà scelta.»
Emily tornò a rilassarsi sul sedile, con gli occhi fuori dal finestrino.
«Non mi hai mai raccontato come vi siete incontrati.»
Non si voltò verso Roman, ma replicò: «Perché vuoi saperlo ora?»
«So tutta la storia tranne il suo inizio. Mi sembra incompleta, non credi? Ma possiamo fare un’altra volta, è stata una lunga serata.»
Intorno a loro i grattacieli avevano lasciato il posto a palazzi più bassi e modesti, segno che si stavano allontanando dal centro. Le luci erano più soffuse e rade, le vie meno affollate.
«È una storia piuttosto breve in realtà» rispose Emily. «Si era appena trasferito nel palazzo di fronte al mio, dove vivevo dalla morte di mia nonna. Lo avevo notato perché spiccava come un pesce fuor d’acqua: con quei suoi capelli biondi e l’aspetto di un attore di Hollywood non apparteneva certo alla periferia in cui vivevamo.»
Emily socchiuse gli occhi e fu come se il tempo la riportasse indietro sei anni prima.
«Quella sera pioveva a dirotto e io stavo tornando a casa dal lavoro. Lui corse sul marciapiede per fermarmi. Sembrava un pulcino bagnato abbandonato dalla mamma, i capelli attaccati al volto e il maglione fradicio. Mi disse che era rimasto chiuso fuori dal palazzo e non sapeva come rientrare.»
Roman ridacchiò e commentò: «Questi ragazzi ricchi non sanno vivere senza un portiere.»
Emily sorrise dolcemente: «Era così disperato, ma la cosa si risolse in pochi secondi. Conoscevo la signora che viveva al primo piano: suonai e le spiegai la situazione. Lei ci aprì e ci invitò in casa a bere un tè.»
«La dama salva il cavaliere in pericolo» disse Roman. «Sembra l’inizio di una grande storia.»
Emily sospirò: «E lo è stata. Ho passato questi anni esercitandomi ad odiarlo e solo stasera mi sono accorta di non aver mai smesso di amarlo.»
Si voltò verso Roman e vide il volto di lui ondeggiare al di là delle lacrime che le offuscavano gli occhi.
Senza parlare lui allungò un braccio e la strinse a sé. Emily affondò il volto sul suo petto, lasciandosi cullare da quell’abbraccio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Fiori d'arancio ***


Fiori d’arancio
 
 



La luce del mattino filtrava calda attraverso le tende della stanza di Emily e sullo specchio della toeletta facendolo risplendere. Dalla finestra appena socchiusa s’infilava un filo d’aria che faceva gonfiare e ondeggiare il tessuto.
Emily finì di indossare il suo abito e si guardò allo specchio, proprio mentre Roman faceva il suo ingresso nella stanza. Aveva l’abitudine di non bussare mai e lei ormai ci era abituata.
Si voltò a guardarlo, mentre lui la sondava a fondo.
«Sei bellissima» le disse infine. «Ruberai la scena alla sposa».
Emily sorrise. «Ne dubito» rispose, ma tornò a controllarsi nello specchio.
Indossava un semplice abito rosa pallido – così pericolosamente simile al bianco – e si era fatta raccogliere i capelli, che di solito portava sciolti, decorandoli con alcuni fiorellini rosa infilati tra le ciocche. 
Quando ebbe finito di ammirarsi, si avvicinò a Roman e gli infilò nel taschino della giacca azzurra un paio di piccole rose, poi gli sistemò il colletto della camicia.
«Ora sei perfetto» gli sussurrò.
Lui le sorrise e posò le sue mani sulle spalle di lei. 
Emily si lasciò accogliere dai suoi occhi color nocciola, porto sicuro in tutti quegli anni. Roman aveva lo straordinario dono di essere calmo anche nelle situazioni più disperate ed Emily aveva apprezzato più volte questa sua capacità.
«Andrà tutto bene» le disse. «Hai detto tu stessa che la famiglia di Alex non sa che faccia tu abbia e io sarò al tuo fianco tutto il tempo.»
Lei strinse i pugni, nervosa.
«La madre della sposa conosce te» gli disse e vide il volto di lui contrarsi impercettibilmente. Non voleva ricordarlo e sapeva quanto costasse a Roman accompagnarla.
«Non è un problema. È meglio per lei fingere di non conoscermi».
Emily si alzò sulle punte dei piedi, appoggiò il mento sulla spalla di Roman e lo abbracciò. Entrambi ne avevano bisogno.
 
 
Il matrimonio si teneva nel grande parco della villa di proprietà di un qualche parente degli sposi. 
Per la cerimonia era stato allestito un enorme gazebo sulla cima della collinetta artificiale che dominava il parco. Il sole splendeva nel cielo e scintillava sugli abiti degli invitati che si inerpicavano lungo il sentiero segnato da un tappeto lilla nel prato. 
Per i meno volenterosi, uno stuolo di golf cart faceva avanti e indietro dall’ingresso al gazebo, caricando e scaricando uomini in completi lucenti e donne in abiti lunghi e tacchi alti.
Emily e Roman sedevano accanto alla navata, in seconda fila come era stato loro assegnato. Chi arrivava lanciava loro un’occhiata incuriosita, talvolta perplessa, ma nessuno si era ancora avvicinato a parlare.
«Credi sappiano che non facciamo parte del loro gruppo sociale?» stava chiedendo Roman, guardando impassibile la gente intorno.
«Credo che il nostro aspetto li inganni.»
«Secondo me riescono a fiutarli, i non aristocratici».
Emily trattenne un sorriso: «Non c’è nulla di più falso di un gruppo che si proclama aristocratico. Ognuno di loro nasconde dei piccoli sporchi segreti e sarebbe pronto a morire per non rivelarli».
La loro conversazione si spense quando una concitazione generale segnalò che qualcuno di importante era arrivato. Gran parte degli invitati si spostò sotto al gazebo e alcuni presero posto.
Emily guardò verso l’ingresso della navata e vide sbucare Alexander, nel suo completo nero da sposo. Cercò di mantenersi impassibile, ma il suo cuore saltò un battito e sentì il volto accaldarsi. 
Alex appariva nel suo luogo naturale, perfetto e impeccabile, con i capelli ben pettinati e neanche un velo di barba. Avanzò, lentamente, e parve accorgersi solo alla fine della presenza di lei. 
Emily lo vide sgranare gli occhi e aprire la bocca, senza che ne uscisse alcun suono. L’uomo rallentò, poi smise di camminare e rimasero a fissarsi fino a che lei non distolse lo sguardo, fissando gli occhi verso il parco.
Si sentiva il volto in fiamme e il matrimonio non era ancora iniziato. Così non andava.
Roman si irrigidì al suo fianco e trattenne il respiro. Emily seguì la direzione del suo sguardo e vide una donna sottile, avvolta in un abito color corallo che faceva risaltare i suoi capelli biondi.
L’innegabile somiglianza lasciava intuire che si trattasse della madre di Camille. Camminava verso il gazebo accompagnata da un giovane uomo che doveva essere suo figlio o un altro familiare.
«Oggi è il giorno in cui ci dimentichiamo entrambi di avere un cuore» mormorò Emily al suo compagno. «Perché a volte fa meno male esserne privi.»
Roman cercò la sua mano e gliela strinse. Emily ricambiò la stretta salda e si costrinse a tornare a guardare verso l’interno del gazebo.
Ormai quasi tutti gli invitati avevano preso posto e Alex stava parlando con quello che lei sapeva essere suo padre. Era un uomo alto e austero, dalle spalle larghe e i capelli a spazzola che lo facevano assomigliare a un marine.
Robert Henderson era un avvocato in pensione che aveva fatto la sua fortuna come consulente degli imprenditori più disparati. Seppure fosse nato ricco, nulla gli aveva impedito di incrementare il proprio patrimonio e proporzionalmente anche la propria influenza sugli affari della città. Non faceva segreto di essere un patriarca severo ed esigente, ma gli piaceva proporsi come il tipo di uomo per cui la famiglia era il valore cardine dell’esistenza. Emily disprezzava il modo soffocante con cui ricopriva il ruolo di capo famiglia, senza concepire impulsi divergenti rispetto alla retta via che lui tracciava per gli altri. Se qualcuno tendeva ad uscire da questa direzione, lui lo spegneva come una candela a cui è tolto l’ossigeno.
L’orchestra cominciò a suonare e tutti si zittirono. Le prime damigelle cominciarono a sfilare tra gli invitati, spargendo petali chiari sul tappeto. Dai banchi i colli erano tesi per cogliere una prima impressione della sposa, per riuscire a vederla prima degli altri.
Camille apparve come una dea. Scivolava sul tappeto, seguita dal lungo strascico dell’ampia gonna. L’abito, di un bianco splendente, le copriva le spalle con un tessuto trasparente e scendeva in un corpetto stretto prima di spalancarsi nei molti strati della gonna. 
Gli occhi di tutti erano su di lei, la guardavano come se potessero assaggiarla attraverso le pupille. E la musica pareva seguire lei, non viceversa.
Quando arrivò all’altare, il padre le lasciò il braccio e lei si fermò al fianco di Alexander. Non indossava il velo, ma si fermarono un istante a guardarsi prima di girarsi verso l’officiante. 
L’uomo cominciò a parlare ed Emily si accorse in quel momento di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo. Espirò lentamente e si inclinò verso Roman per cercare il suo sostegno. Chi aveva voluto ingannare? Non c’era modo di fingere di non avere un cuore mentre guardava l’uomo che amava sposare un’altra donna.
Non che non lo odiasse, anzi, sapeva che tutto sarebbe finito nel momento in cui lui le sarebbe stato indifferente. L’odio che provava per lui era sintomo dell’amore non estirpato.
La cerimonia stava andando avanti, ma le parole le giungevano ovattate. Riacquistò consapevolezza mentre l’officiante diceva: «Vuoi tu, Alexander Henderson, accogliere Camille Lefebvre come tua sposa, promettendo di esserle fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla e onorarla tutti i giorni della tua vita?»  
Emily riusciva a vedere il suo volto serio fisso su quello della futura sposa. Poi, all’improvviso, gli occhi di Alexander guizzarono via e si posarono su di lei. Emily era abbastanza vicina per capire che non era un’impressione, Alex la stava proprio guardando.
Il suo cuore accelerò improvvisamente, per l’emozione quanto per la paura che qualcuno se ne accorgesse. Cercò di mantenersi impassibile, ma sentiva il volto accendersi. Lui la guardava come se potesse trafiggerla e parlarle da dentro, dirle con quegli occhi ciò che a parole non riusciva. Sembrava chiederle scusa. Scusa per tutto il dolore che le aveva provocato. Scusa per essersene andato senza guardare indietro.
Emily ricordava tutto così bene. La notte fredda, così fredda da pungerle la pelle. Il modo in cui riusciva a percepirlo scomparire all’interno delle stanze e l’eco dei suoi passi ormai lontani che la teneva sveglia. L’aveva tagliata via, gettata e lasciata a marciare come spazzatura. Tutto ciò che lei aveva sempre sperato era che, se mai avesse dovuto deluderla, sarebbe avvenuto lentamente, mostrandole la comprensione di cui aveva bisogno. Sapeva che venivano da due mondi diversi e credere che fossero compatibili era un’illusione non eterna.
Il suo addio era stato un taglio netto che le aveva spezzato per sempre il cuore.
Al matrimonio, Emily si chiese se non stesse travisando il senso di quello sguardo. Le sue emozioni la stavano guidando verso una strada creata dalla sua mente.
«Sì, lo voglio.»
Le parole decise di Alexander furono accolte da un tripudio generale.
La cerimonia si concluse in tono festante e gli sposi furono accolti da una pioggia di petali di rosa e chicchi di riso. Mentre tutti gli invitati li seguivano, Emily si sentì improvvisamente debole e si appoggiò a Roman, con una mano sul suo petto. Lui la strinse a sé, senza parlare.
 
 
Tutto si spostò in un’altra area del parco, dove era stata allestita un’enorme sala da pranzo all’aperto.
Alexander si sentiva travolto da sensazioni troppo forti perché ci fosse posto per la razionalità. Sorrideva, salutava tutti, baciava Camille, posava per le foto, senza essere veramente presente. Era come se guardasse la realtà dall’alto, riusciva quasi a scorgere se stesso, che così ben vestito si lasciava ammirare e corteggiare.
I sorrisi dei genitori di Camille, suo padre gli batteva sulla schiena, gli invitati che facevano a gara per andare a parlargli, tutto era un vortice indistinto.
Durante la pausa tra una portata e l’altra, riuscì a sottrarsi alle attenzioni voraci degli invitati e si rifugiò in bagno.
Si sciacquò il volto con dell’acqua e poi rimase a fissarsi allo specchio per qualche istante. Si sentiva estraniato da quella figura che il riflesso gli restituiva.
Scorse la porta dei bagni aprirsi e si raddrizzò di scatto, ma vide che si trattava di Roman.
«Giornata no?» commentò ironico il nuovo venuto, avvicinandosi.
Alex sospirò: «Lo sai più di me.»
«Questa è la tua festa però, dovresti divertiti. Alla fine, sei stato tu a sceglierlo».
Alex annuì e tornò a guardarsi nello specchio. Non c’era niente di felice nella sua espressione. Eppure, quando aveva chiesto a Camille di sposarlo, lo era stato. Aveva desiderato davvero che lei fosse sua moglie.
«Sai perché ho deciso di portare avanti il matrimonio?» chiese, voltandosi verso Roman. L’altro scrollò le spalle.
«Per il bambino. Ho ragionato a lungo e questo è l’unico modo per assicurarsi che possa tornare a casa.»
Nessuno parlò per qualche istante e Alex vide Roman rimuginare sulle parole, con la fronte aggrottata.
«C’è una pecca nel tuo sistema, Alexander».
Lo guardò, in attesa che continuasse.
«Così facendo il bambino recupererà solo uno dei genitori.»
Alexander strinse i denti.
«Troverò una soluzione, più avanti.»
Roman sorrise e gli si avvicinò, con un sorriso sul volto: «Lo spero per te, perché mi stai simpatico. Se non lo farai, la duchessa ti distruggerà.»
Gli diede una pacca sulla spalla, come un vecchio amico e così si congedò uscendo dal bagno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Patti eterni ***


Patti eterni
 
 


Il sole era alto nel cielo e, nonostante fosse ormai inverno, rendeva piacevole la merenda che si stava svolgendo nel giardino posteriore del palazzo della duchessa. I pochi invitati sorseggiavano tè caldo seduti attorno ad un grande tavolo rotondo. Diverse conversazioni si stavano svolgendo tra i presenti ed Emily cercava di ascoltarle tutte senza intervenire in nessuna.
Da un lato lo scultore del momento parlava con la contessa Irina Fedorovna, una nobile russa di una famiglia aristocratica decaduta politicamente ma non economicamente. Le stava spiegando il senso delle sue ultime istallazioni e di tanto in tanto nel discorso interveniva anche l’esperto di pietre preziose che la russa si portava sempre appresso. 
Dall’altro lato del tavolo il figlio scapestrato di un grande politico locale si faceva raccontare da un giudice in pensione certe vicende a cui aveva assistito in tribunale. Lo ascoltava interessata anche Miss Ketty, la proprietaria del più famoso locale di Burlesque della città.
I presenti erano frequentatori assidui della casa della duchessa e chiacchieravano in tono affabile e disinvolto. 
«E tu cosa ne pensi, Cassandra?» disse Ketty, interrompendo tutte le conversazioni. «È impossibile farsi spazio da soli a Tridell?»
«Purtroppo non è ancora possibile essere qualcuno senza usare gli altri» replicò lei fermando il proprio sguardo su ognuno dei presenti. Tutti loro ne sapevano qualcosa.
«Non essere così drammatica, lo fai sembrare una brutta cosa» replicò il ragazzo che stava parlando con il giudice. «A volte usarsi può essere di vantaggio per entrambe le parti.»
«Gabriel ha ragione» intervenne la russa. «Prendiamo voi due per esempio, Cassandra. Siete entrambi giovani e spavaldi, come coppia potreste ottenere importanti traguardi.»
Gabriel parve divertito dalla piega che la conversazione aveva preso e sul suo volto si stampò un sorriso sfacciato.
«Non vorrei sembrare blasfemo, ma potremmo addirittura far impallidire la coppia del momento, Alexander Henderson e Camille Lefebvre.»
«Gran coppia quella. Ho sentito che hanno rinunciato alla luna di miele per gli impegni politici di lui» commentò il giudice.
Emily raddrizzò la schiena e si sistemò gli occhiali da sole, guardando verso il ragazzo. 
«Insieme avremmo così tanto potere da sfiorare la crudeltà, mio caro».
Emily conosceva i tipi come Gabriel. Dalla vita ottenevano tutto grazie alla faccia da angelo e tutto potevano grazie all’indole diabolica che si nascondeva sotto alle loro camicie ben stirate. Si trattava di giovani che non conoscevano il significato di “no” e “basta”. Era stata proprio l’attitudine all’eccesso che aveva fatto incrociare la strada di Gabriel con quella di Cassandra. Si era rivolto a lei per risolvere un grosso guaio in cui si era cacciato ed Emily doveva ancora riscuotere il suo favore, più tutti quelli che si erano accumulati nel frattempo.
«Cosa vuoi dire?» il ragazzo non voleva lasciar perdere.
«Tu ed io siamo simili, ciechi ai bisogni degli altri se intralciano la strada verso i nostri. Lasceremmo solo distruzione dietro di noi.»
Gabriel non ne aveva abbastanza, Emily lo vedeva dal modo in cui si era proteso in avanti sul tavolo, ma la conversazione fu stroncata dall’arrivo di Roman, che uscì dalle vetrate e si diresse verso la padrona di casa.
«È per te» le disse, tendendole il cellulare che teneva in mano.
Lei lo prese e chiese ai suoi ospiti di scusarla mentre si allontanava. 
Roman si sedette al suo posto per intrattenere i presenti e lei si diresse verso le vetrate.
«Siamo d’accordo come al solito?» disse la voce dall’altro capo, non appena appoggiò il cellulare all’orecchio. Faceva affari con Arthur Lowe da tempo e non aveva bisogno di presentazioni per riconoscerlo. 
«Ovvio, perché mi hai chiamata?»
Emily accostò la vetrata alle sue spalle e si spostò verso il suo studio.
«Voglio assicurarmi che ci sia anche il nostro ospite speciale.»
Emily strinse i denti: «Ha ricevuto il mio invito e sa che è nel suo interesse presentarsi.»
«Sai che non mi piace perdere tempo» Lowe non si preoccupò di nascondere il tono scocciato.
«Un’altra cosa in cui ci assomigliano, caro. Ci vediamo stasera» tagliò corto Emily. Chiuse la telefonata e riportò il cellulare al suo posto, in una cassaforte nel suo studio insieme a tutti gli altri che utilizzava.
Aveva detto ad Alexander che doveva portarlo in un posto e che aveva a che fare con la sua campagna elettorale, ma si era assicurata di essere piuttosto vaga per non avere un rifiuto in partenza. 
Alex era tanto incline all’ingenuità quanto al moralmente corretto ed Emily sapeva che avrebbe dovuto sfoderare tutta la sua retorica per convincerlo ad accettare qualsiasi cosa Lowe gli avrebbe proposto.
Prese un respiro profondo, mentre richiudeva la cassaforte e cercò di tornare sicura di sé prima di ripresentarsi dai suoi ospiti.
 
 
L’auto si fermò di fronte al palazzo in cui viveva Alexander e tutta la forza che Emily aveva racimolato nel corso del pomeriggio era improvvisamente scomparsa. 
Non lo vedeva dal matrimonio e non sapeva come avrebbe reagito alla vista di lui. A peggiorare le cose, Roman non c’era quella sera e non poteva contare sul suo sostegno.
Lo vide uscire dall’ingresso e avvicinarsi alla macchina. Aveva scelto un completo scuro non esageratamente elegante, ma comunque formale. 
Quando entrò nell’auto prese posto di fronte ad Emily e solo guardandolo lei capì che non era di buon umore.
Teneva le labbra serrate e la fronte corrugata. Un ciuffo di capelli chiari gli ricadeva sulla fronte, segno che era stato troppo irritato per sistemarlo.
«Togliti quella faccia» gli disse, «lo stiamo facendo per la tua campagna.»
«Ti ho chiesto sostegno pubblico, non iniziative di cui sono all’oscuro» replicò lui.
Lei fece un sorriso malizioso e allungò le gambe davanti a sé, sfiorando quelle di lui: «Non ti fidi di me, Alexander?»
Lui strinse gli occhi: «Dimmelo tu. Posso fidarmi di te, Emily? Oppure Cassandra? O duchessa? Ricordami chi sei, per favore, perché tendo a dimenticarlo.»
Lei si raddrizzò sul sedile e sbuffò infastidita. Quel litigio proprio non ci voleva, avrebbe rovinato il loro colloquio con Lowe.
«Così improvvisamente il mio aiuto non ti va più bene? Cosa è cambiato?» gli disse.
Alex la guardò, uno sguardo così duro che lei si sentì trafiggere il cuore da una freccia. Lui l’aveva sempre guardata con amore, affetto, senso di protezione, e neanche quando litigavano le aveva mai rivolto uno sguardo di fastidio. In quel momento la stava odiando e faceva così male. Non erano più loro stessi.
«Sto cominciando a capire cosa c’è dietro a tutto lo spettacolo della “duchessa”» replicò lui, continuando a fissarla. «Ho fatto delle ricerche.»
«Su cosa?» mormorò lei.
«Su tutto. Te, le persone con cui lavori. Roman.»
Alex tacque e sondò il volto di lei come se cercasse una qualche reazione.
Lei deglutì e alzò il mento: «E cosa hai trovato? Che era al mio fianco in ospedale, quando mi portarono tuo figlio? Che mi ha aiutato a crescerlo per i primi mesi? Che senza di lui, io e Noah saremmo vissuti per strada?»
Alex cercò di ignorare le sue parole.
«Non ho trovato nulla sul suo vero nome, come sospettavo, ma una sua fotografia è comparsa su un sito davvero interessante.»
Emily strinse i denti e arpionò la pelle del sedile con le dite. Erano stati attenti a cancellare ogni traccia della loro vita passata, ma a quanto pare non abbastanza da resistere ad un attacco di Jefferson.
«Si proponeva come un “accompagnatore per signore desiderose di compagnia, single e sposate, di qualsiasi età”.»
«L’hai studiato a memoria?» replicò lei ironica.
«Era un gigolò, Em!»
Lei finse un’espressione stupefatta, portandosi le mani intorno al volto: «Oh no! Ora dovrò cacciarlo di casa e rimpiazzarlo con l’uomo che mi ha abbandonata anni fa!»
Alex fece schioccare la lingua, chiaramente scocciato, e puntò lo sguardo fuori dal finestrino, guardando la città scorrere al contrario. Non rimase in silenzio a lungo, perché subito aggiunse, tornando a guardarla: «Se qualcuno lo scoprisse, potrebbe rovinare la mia immagine e la campagna. Sai quanto conti l’influenza dei conservatori da queste parti.»
«Allora fai in modo che nessuno lo scopra» replicò lei.
Alexander era contrariato, le sue narici si dilatavano a ritmo del suo respiro accelerato e la sua mascella era contratta. Quando parlò, non si voltò verso di lei, ma tenne gli occhi fuori dal finestrino.
«Questo mi fa dubitare delle altre persone di cui ti circondi. Possiamo fidarci di loro?»
Emily guardò a sua volta fuori dall’auto.
«Irrilevante pensarci ora. Siamo arrivati.»
Si allungò per bloccare la mano di Alexander già sulla maniglia della portiera. Erano entrambi protesi in avanti e a un soffio di distanza. Emily riusciva a vedere se stessa nelle iridi ambrate di lui. Se avesse inspirato, sarebbe riuscita a sentire il profumo intenso che lui usava nelle occasioni formali. 
Le pupille di Alex guizzarono più in giù, sulle labbra ciliegia della ragazza.
«Per favore, cerca di non contraddirmi quando saremo là» gli sussurrò. «Lo dico per te.»
Ritirò la mano da quella di Alex e aspettò che lui scendesse per primo per poi seguirlo.
Fuori dall’auto li attendeva un omone alto dalle spalle larghe, che Emily portava con sé quando doveva recarsi in posti poco frequentati.
Il punto di incontro scelto da Lowe era un vecchio edificio in periferia dall’aspetto abbandonato. 
«Molto rassicurante, Em» commentò Alex.
Averlo al suo fianco le trasmetteva emozioni contrastanti. Come Emily, la vecchia Emily, la faceva sentire al sicuro e protetta. Avrebbe solo voluto prendere la sua mano e lasciarsi guidare da lui. Ma come Cassandra, la duchessa, si sentiva preoccupata per come lui avrebbe reagito. Avrebbe potuto rovinare i suoi affari.
Raggiunsero l’ingresso dell’edificio, che dall’aspetto pareva una fabbrica in disuso. Due uomini vestiti di scuro li stavano aspettando e, quando li videro, aprirono la grande porta metallica senza parlare.
Si infilarono all’interno e lo trovarono buio. Solo la flebile luce dei lampioni, che si infilava dall’alto, delineava i contorni degli oggetti che si trovavano nella fabbrica.
«La situazione non sta migliorando» mormorò Alex, inspirando l’aria che sapeva di polvere.
Lei lo fulminò con lo sguardo. «Smettila di lagnarti come un bambino» gli disse, poi si voltò e lo guidò attraverso una strada che conosceva a memoria.
Ad un tratto rallentò, per fare cenno ad Alex che cominciava una scala di metallo. Vide che lui stava strizzando gli occhi, nel tentativo di abituarsi all’oscurità.
Salirono fino al primo piano, dove trovarono un altro uomo che sembrava di guardia ad una porta. Non appena li vide, bussò vigorosamente e, ricevuto il segnale dall’interno, aprì per farli entrare.
Emily prese un respiro profondo e avanzò.
Lowe li aspettava seduto ad un tavolo di legno scuro, mentre nella stanza intorno a lui stavano altri tre uomini in nero e dall’aspetto tanto rassicurante quanto quello di doberman inferociti.
La sala in cui si trovavano era un vecchio ufficio, aveva ancora gli stessi arredi consunti e nell’aria permaneva un certo odore metallico. La parete di fronte alla porta era occupata da grandi vetrate che, se non fossero state schermate dalle veneziane, avrebbero permesso una visione della sala macchine al piano inferiore.
«Che piacere vederti, Cassandra» esordì Lowe, andando loro incontro. 
Salutò la giovane con tre baci sulle guance, stringendole la mano.
Arthur Lowe era un uomo di media altezza e dalla struttura fisica piuttosto esile, ma a cui compensava la vivacità dei suoi gesti. Questo aiutava a dargli un che di magnetico, nonostante non fosse stato disposto di bellezza naturale. Un naso lungo e arcuato gli attraversava il volto, sormontando dei baffetti nero-grigi e delle labbra sottili. I capelli radi insieme alle rughe che attraversavano il viso indicavano che era ormai prossimo alla sessantina. Indossava sempre completi eleganti, che mettevano in chiaro il suo stato sociale.
«E anche il tuo nuovo amico» aggiunse, tendendo una mano ad Alexander.
Quello gliela strinse, non senza una certa rigidità, ma che riuscì a controbilanciare con un sorriso affabile. 
Emily pensò che forse solo lei era in grado di leggere le sue reazioni più microscopiche.
«Accomodatevi» li invitò il padrone e presero posto intorno al tavolo.
I primi minuti di conversazione occuparono solo Lowe ed Emily. I due si scambiarono rapidamente dati e carte e nessuno sarebbe riuscito a seguirli senza conoscere più approfonditamente l’argomento.
Quando ebbero concluso, Lowe si rivolse ad Alexander.
«I sondaggi dicono che hai buone possibilità di vittoria.»
«Farò del mio meglio fino alla fine» replicò l’altro.
Lowe non parve impressionato dalla sua risposta. Si voltò verso Emily, che sedeva al suo fianco, poi tornò a guardare Alex, un posto più in là.
«Vedi, la nostra cara amica crede che noi due abbiamo altre cose in comune oltre alla sua amicizia.»
Alex sollevò le sopracciglia e guardò Emily: «Ah sì?»
Lei strinse i denti e aspettò che fosse Lowe a portare avanti la conversazione.
«Ci sono certi interessi, che potrebbero convergere.»
«Non vedo come» replicò Alex e si beccò uno sguardo furente da parte di Emily. Quando lei lo guardò, vide che teneva i pugni serrati e tutto il suo corpo era in tensione nello sforzo di trattenersi. Quell’uscita non era che un assaggio di quello che poteva fare se fosse esploso.
Emily deglutì il proprio orgoglio e disse, con un sorriso tirato stampato sul volto: «È molto semplice. A te servono elettori e ad Arthur serve un sindaco che sia dalla sua parte. Un perfetto match.»
«Credevo di aver già fatto lo stesso accordo con te» ribatté Alex, «mi stai quindi dicendo che il tuo aiuto non è sufficiente?»
Rovente in volto, Emily si voltò verso Lowe, che stava osservando la scena quasi deliziato.
«Puoi lasciarci un paio di minuti per discuterne da soli?»
Lui annuì: «Assolutamente.»
La ragazza scattò in piedi e afferrò Alex per un braccio, intimandogli: «Andiamo.»
Lui alzò gli occhi al cielo, ma si alzò e la seguì.
Uscirono dalla stanza, seguiti dalla guardia di Emily, che rimase a distanza di sicurezza rispettando la loro privacy. L’uomo che li aveva fatti entrare si spostò per lasciarli soli.
«Che cazzo stai facendo?» sibilò Emily guardandolo da così vicino che dovette inclinare il capo per guardarlo negli occhi.
«Sei seria?» replicò lui, sgranando gli occhi.
«Mi stai mettendo in ridicolo e ti stai comportando come un ingrato, ecco cosa stai facendo» sbottò lei, piantandogli l’indice nel petto. «Mi rovinerai gli affari.»
«Gli affari? Dio, Em, non dirmi che fai affari con questo criminale.»
Lei si raddrizzò in modo da poterlo incenerire con gli occhi ancora da più vicino: «Abbassa la voce e non fare tanto il santo. Sapevi che avresti dovuto fare dei sacrifici.»
Lui alzò le braccia, poi le lasciò cadere all’improvviso, come se non riuscisse a trovare le parole. Prese un respiro profondo e quando parlò, cercò di farlo con calma e un tono di voce contenuto.
«Tutti sanno cosa fa Arthur Lowe. Il centro commerciale di cui è proprietario è il principale luogo di spaccio della città e il terzo punto della mia campagna è eliminare la droga dalle strade per rendere Tridell più sicura» prese un altro respiro. «Non posso farlo.»
Emily lo osservò per un istante.
«Prima di tutto, credevo fosse tua intenzione diventare sindaco per sottrarre una certa cosa che ci appartiene alle persone che se ne sono appropriate» chiarì in modo deciso. Alex aprì la bocca per ribattere, ma lo anticipò: «E poi, se anche intendi proseguire con quello che era stato il piano iniziale, che immagino fosse stabilito da tuo padre, diventare primo cittadino non è altro che una tappa e non la meta finale, o sbaglio?»
Alex non rispose e questo le diede ragione. Emily sentì il suo volto scaldarsi nuovamente con la consapevolezza che aveva fatto centro. Fin dall’inizio Alex aveva seguito ciò che suo padre gli aveva detto e lei non lo aveva mai dubitato.
«Il mio aiuto può essere vincente a Tridell, ma l’appoggio di Lowe è fondamentale per tutte le restanti tappe della carriera politica che tuo padre ha fissato. Questa sera stai decidendo il tuo futuro, Alexander.»
Lui strinse spasmodicamente i pugni, evitando il suo sguardo, pensieroso. Quando lo riportò su di lei, mormorò: «Ultimamente sembra che ogni decisione che io prenda deciderà il mio futuro.»
Emily roteò gli occhi: «Se avessi voluto una vita tranquilla e priva di responsabilità, non saremmo qui. È anche colpa tua.»
Lui annuì e rimasero in silenzio per qualche istante. Emily non sapeva a cosa stesse pensando Alex, ma dal suo sguardo immaginò che i loro pensieri fossero sintonizzati. L’unico momento in cui avevano avuto una vita tranquilla erano stati quegli anni insieme. L’unica responsabilità era procurarsi i soldi a sufficienza per arrivare a fine mese, ma per il resto vivevano senza preoccupazioni e paure, contenti solo di aversi l’un l’altra.
«Torniamo dentro» Alex interruppe i suoi pensieri e lei non poté far altro che acconsentire.
Si fecero aprire e tornarono ai loro posti.
Lowe li guardò in attesa e fu Alexander a prendere per primo la parola: «Ha ragione, l’amicizia che condividiamo con questa donna è un forte legame. Il suo acume mi ha fatto rivalutare le mie parole e sono pronto ad ascoltare la proposta.»
Guardò Emily e lei si trattenne da alzare gli occhi al cielo e insultarlo.
Sul volto dell’altro di aprì un sorriso storto e irregolare e i suoi occhi luccicarono, mentre replicava: «Come sono certo saprai, mi occupo di numerosi affari a Tridell. Questo mi mette in contatto con molte persone, che sono sempre molto disponibili ad ascoltare i miei consigli, ad esempio su quale candidato votare.»
Alex fece un cenno di assenso ed Emily notò il disagio che cercava di celare attraverso uno sguardo saldo fisso su Lowe. Vide un rivolo di sudore sul collo di lui infilarsi nella camicia.
«Tutto ciò che chiedo in cambio sono dei colloqui, degli incontri amichevoli diciamo, per tenermi informato su quanto avviene in municipio. Se potessi avere delle anticipazioni sui provvedimenti, ne sarei molto grato.»
Lowe gli rivolse un sorriso gentile che però non si estendeva fino agli occhi. La sua non era una richiesta, ma una pretesa.
Emily guardò Alex, che evitò invece il suo sguardo. Il silenzio di lui le fece accelerare rapidamente il battito cardiaco. Quello che Lowe chiedeva non era poco e anche Alex avrebbe dovuto ingoiare il suo orgoglio per accettare.
«Certo, mi assicurerò di avere sempre tempo per i nostri colloqui» rispose in tono pacato.
La ragazza sospirò mentalmente, mentre i due uomini si stringevano la mano sugellando il patto.
Si alzarono tutti in piedi, ma prima che potessero uscire Lowe le chiese di trattenersi un minuto in più del suo compagno. 
Emily fece cenno ad Alex che lo avrebbe raggiunto e lui uscì dall’ufficio.
«Sei soddisfatto?» domandò poi, voltandosi verso Lowe.
Lui aveva un volto indecifrabile, come se fosse assorto nei suoi pensieri, e fissava la porta da cui era appena uscito Alex.
«Non ancora» replicò, spostando gli occhi su di lei, «il tuo amico non mi sembra una persona affidabile.»
Emily sbuffò: «Non è ancora abituato al modo in cui si fanno affari a Tridell.»
Lowe parve sfiorato lievemente dalla battuta della giovane, ma qualcos’altro dovette divertirlo, perché le sue labbra si incresparono in un ghigno.
«In ogni caso, assicurati che mantenga le sue promesse. Non vorrei dover ricorrere ad estremi rimedi.»
Emily sentì un brivido gelido correrle lungo la colonna vertebrale.
«Cosa intendi?»
Negli occhi di Lowe brillò una luce luciferina e lei strinse i denti per tenere a freno i tremori derivati da quello sguardo.
«Diciamo che mi sono procurato una garanzia nel caso Alexander Henderson decida di cambiare parte.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Amori segreti ***


Amori segreti
 
 



Camille si sentiva come assorbita dal quadro. Era di medie dimensioni, circondato da una cornice dorata che faceva risaltare i colori freddi della composizione.
Le pennellate rapide, quasi frenetiche, che volevano riprodurre il vorticante movimento dell’acqua, le parevano invitare a lasciarsi prendere da quell’onda che stava travolgendo la barca, frantumandone il legno.
Quasi le faceva girare la testa il modo in cui Turner aveva percosso la tela e il modo in cui nessuna linea apparisse ferma davanti ai suoi occhi.
Camille aveva sempre saputo dell’invidia che la gente provava per i soldi della sua famiglia, ma non l’avevano mai turbata gli sguardi invidiosi che le amiche lanciavano ai suoi capi d’alta moda o che la seguivano quando entrava per prima ad un evento importante. Gli unici momenti in cui davvero si era sentita ricca erano davanti a quei quadri. 
Avrebbe potuto adattarsi ad una vita in abiti di seconda mano, cibo del discount e nessuna cameriera a servire il pranzo, ma non avrebbe mai potuto sopportare di vivere senza le tele che suo padre acquistava per disporle nelle loro case.
«Un grande acquisto questo Turner, vero?»
La voce di sua madre distolse Camille dalla contemplazione e la fece voltare verso la donna alla sua destra.
«Je dois remercier papa» rispose lei sorridendo. 
«Oui, tu devrais le remercier» le disse la madre e si concesse un istante per ammirare la tela, prima di aggiungere: «Allons retrouvez les autres».
Camille annuì e lei la prese sottobraccio per ricondurla in salotto, dove Alexander e suo padre stavano conversando di qualcosa di estremamente serio, a giudicare dalle loro espressioni. I loro discorsi vertevano sempre sulla politica o sull’economia, Camille era abituata a quelle espressioni truci.
Quando la vide entrare nella stanza, Alex le andò incontro sorridendo, mentre sua madre si allontanava, e lui le lasciò un bacio leggero sulla guancia.
«Manca poco» le sussurrò, guardandola negli occhi.
«Sei agitato?» gli chiese.
Lui scrollò le spalle, ma non riuscì a nascondere un sorriso nervoso.
Camille pensò che c’era solo un’altra cosa nella sua vita che le provocava quel leggero giramento di testa e batticuore che veniva dai quadri, e si trattava di Alexander.
A volte pensava che era così perfetto da sembrare finto. Certo, anche lui aveva i suoi difetti – a volte si perdeva così tanto nei suoi pensieri da non ascoltarla, lasciava gli abiti in giro per la casa, si arrabbiava eccessivamente se qualcuno lo deludeva – ma ogni suo difetto diventava adorabile attraverso gli occhi di Camille, soprattutto considerando gli innumerevoli pregi che compensavano. Essere sua moglie era un sogno.
Qualcuno suonò il campanello e mentre una domestica si accingeva ad aprire, Camille ed Alex raggiunsero i genitori di lei.
«Ci siamo» disse il signor Lefebvre. Di lì a pochi minuti Jefferson sarebbe entrato nel salotto portando i risultati delle elezioni. 
La porta del salotto si aprì ed entrarono alcuni membri dello staff di Alex, tra cui il responsabile della campagna.
«Allora? Non ci tenga sulle spine!» esclamò il signor Lefebvre, con voce tonante.
Jefferson si avvicinò ad Alexander e gli tese la mano: «Complimenti, signor sindaco.»
I presenti si sciolsero in un coro di esultanza, abbracciandosi e battendo le mani.
Il signor Lefebvre si fece avanti per stringere la mano di Alex e dargli due pacche sulla schiena.
«Complimenti, figliolo, non ci aspettavamo nulla di meno.»
Fu poi il turno della madre di Camille, che lo abbracciò stampandogli due baci sulle guance con entusiasmo.
A turno tutti si congratularono con lui, finché lo squillo del cellulare non lo distrasse.
«Ho appena visto i risultati» esordì la voce di suo padre, «congratulazioni, ce l’hai fatta, Alexander. Tua madre ed io siamo molto orgogliosi.»
«Grazie» rispose lui allontanandosi dalla folla vociferante verso un angolo più tranquillo del salotto.
«Ora sei dentro e la strada sarà sempre in salita, ricordalo».
Alex deglutì: «Certo, come potrei dimenticarlo?»
«Bene. Perché stasera non porti la tua signora a cena da noi? A tua madre farebbe molto piacere.»
«Stasera non posso, domani a pranzo?»
Sentì suo padre borbottare qualcosa lontano dal microfono del telefono, poi tornò da lui.
«Domani a pranzo va bene.»
Si salutarono e Alex chiuse la chiamata.
Aveva appena assaporato la vittoria e già non aveva tempo per godersela. I giorni seguenti sarebbero stati pieni di impegni e novità e non era sicuro di avere abbastanza ore di sonno per affrontarli.
Quella sera, lui e Camille erano invitati dalla duchessa per un “aperitivo di celebrazione” – Emily lo aveva presentato in questo modo ancora prima di sapere gli esiti delle elezioni – poi si sarebbe dovuto recare al municipio per preparare il discorso di insediamento del giorno successivo. Dopo il pranzo a casa dei suoi, ci sarebbe stata una cena in grande per festeggiare con tutti coloro che erano stati coinvolti nella campagna, a cui sarebbe seguita una cena per pochi intimi voluta dai Lefebvre. 
Si sentì quasi svenire, ma Camille venne in suo soccorso, riportandolo alla realtà. Passò le braccia intorno al busto di lui e lo strinse a sé, in un abbraccio saldo, mentre Alex appoggiava il proprio mento sul capo di lei.
 
 
 
«Delizioso!» sentenziò Emily dopo aver assaggiato il contenuto del calice che il suo cameriere le aveva appena versato.
L’aperitivo si svolgeva in una piccola sala, per raggiungere la quale avevano percorso così tanti corridoi da far sospettare ad Alex che la padrona di casa volesse far perdere loro il senso dell’orientamento.
«Sarai orgogliosa di tuo marito, Camille» commentò poi lei, rivolgendosi alla donna.
Camille allungò una mano per posarla sopra a quella di Alex, vicino al proprio bicchiere: «Non ho mai dubitato di lui, neanche per un secondo.»
«Ammirevole» aggiunse Emily, ricevendo un’occhiataccia da Alexander. Solo Camille parve ignorare il sarcasmo velato nel suo tono.
«Quindi tanti auguri per questo mandato» disse Roman, al fianco di Emily, sollevando il calice: «che porti fortuna e prosperità a tutti noi.»
Emily svuotò il suo bicchiere, poi lo posò sul tavolo e si rivolse nuovamente all’altra donna presente.
«Quindi a quando la luna di miele? Ho sentito che la rimandate per impegni istituzionali».
Il calcio che le arrivò da sotto il tavolo proveniva decisamente da Alexander.
Camille sorrise, quasi imbarazzata, e lanciò uno sguardo al marito, prima di rispondere: «Quando sei sposato, hai davanti a te una vita insieme. Per la luna di miele ci sarà sempre tempo.»
Roman si voltò verso Emily, ma prima che potesse dire qualcosa, Alex intervenne: «Non dovevamo discutere di affari?»
La giovane alzò gli occhi al cielo: «Così dedito al lavoro da essere quasi noioso, o sbaglio?»
I suoi occhi si erano di nuovo posati su Camille, che fece una risatina: «Io lo amo così com’è.»
Emily si trattenne dal simulare un conato di vomito e si rivolse a Roman: «Potresti mostrare alla signorina la sala dell’arte? Sono certa che l’apprezzerà.»
Lui annuì e si fece seguire da Camille fuori dalla sala per lasciarli soli.
«Che ti prende?» l’aggredì Alex non appena furono fuori dalla portata delle loro orecchie.
Emily roteò vistosamente gli occhi e si versò da sola altro vino dalla bottiglia che il cameriere aveva lasciato sul tavolo.
«Vacci piano, quello non è succo di mirtillo» aggiunse lui, lanciando uno sguardo scettico al calice nuovamente pieno.
«Quella ragazza si scioglie mai? Dio, dev’essere terribile essere tua moglie se bisogna comportarsi come una bambolina tutto il tempo.»
«Non un ruolo adatto a te, quindi.»
Emily quasi si soffocò con il vino che aveva in bocca. Cominciò a tossire e la vista le si appannò. Stava solo provocando Alex, anche quando punzecchiava Camille, ma non si aspettava quell’uscita così brusca e violenta.
Improvvisamente le si era formato un nodo in gola.
Alex dovette accorgersi della sua reazione, perché l’espressione ghignante gli si spense sul viso e mormorò delle parole di scuse.
Lei si riprese rapidamente: «Non siamo qui per litigare. È arrivato il momento di passare alla fase operativa e riprenderci ciò che ci spetta.»
Alex annuì: «Ti ascolto. Dimmi cosa devo fare.»
 
 
 
***
 
 
 
Camille raddrizzò il coltello, poi fece un passo indietro per osservare la sua opera complessiva. Il tavolo era ben apparecchiato con il servizio più elegante e i tovaglioli di stoffa.
Alexander le aveva proposto di chiamare la loro solita cameriera per la serata, ma lei aveva voluto fare le cose da sé. Aveva apparecchiato il tavolo, ordinato il cibo nella gastronomia di fiducia e Alex si era ancora proposto di cucinare il dolce. Era stato stranamente accondiscendente quando avevano deciso di invitare i Fairbanks per festeggiare insieme a loro la buona riuscita del matrimonio e delle elezioni. Inoltre, i suoi genitori avevano insistito, erano sempre stati grandi amici.
«È perfetto» le disse Alex, affacciandosi dalla porta della cucina. Dalle sue spalle si diffondeva un caldo profumo di dolci appena sfornati.
Quando arrivarono i Fairbanks, fu Camille ad andare ad aprire per poi condurli nella sala da pranzo.
«Non c’è Noah questa sera?» chiese Alexander, dopo averli salutati. La sua domanda precedette qualsiasi altra forma di conversazione e Camille dovette percepirla come scortese, perché ridendo, commentò ironica: «È proprio impaziente di avere un figlio».
I Fairbanks risero e anche Alex simulò una risata mentre avrebbe solo voluto prendere a pugni il muro.
«Noah è con la tata. Non può rimanere sveglio fino a tardi troppo spesso» gli rispose la signora, con un sorriso gentile dipinto sul volto.
«È chiaro» acconsentì Alexander e fece loro cenno di accomodarsi a tavola.
Mentre mangiavano, chiacchierarono delle ultime novità, del lavoro che aspettava Alex e delle loro prime settimane come marito e moglie.
«E pensate alla vostra luna di miele» si raccomandò il signor Fairbanks.
«Non possiamo dimenticarcene» rise Camille, «anche Cassandra ce lo ha ricordato».
Si voltò verso Alexander, per vedere se anche lui fosse divertito, e l’uomo l’accontentò tirando le labbra in un sorriso.
La signora Fairbanks si mosse sulla sedia, come a disagio.
«Cassandra?» ripeté, lanciando un’occhiata al marito. «Siete in rapporti stretti?»
«Solo affari» la tranquillizzò Alex.
«Sì, Cassandra è stata molto disponibile e lo ha gentilmente aiutato nella sua campagna elettorale» rispose Camille. Aveva sempre trovato affascinante la duchessa e le piaceva poter parlare bene di lei in una conversazione.
«Sì, be’, alla fine non si sa mai fino in fondo cosa nasconde una persona, o sbaglio?» aggiunse Alex, guardando l’altra coppia.
Quasi simultaneamente, i due mostrarono un sorriso che perfino a Camille parve forzato, mentre annuivano.
La conversazione si interruppe perché era arrivato il momento del dolce e Alex si alzò per andare a prenderlo.
Portò la torta divisa in quattro piattini diversi e ricevette molti complimenti dagli ospiti, prima per l’impiattamento e poi per il sapore del dolce.
«Un uomo da sposare» commentò la signora Fairbanks e tutti risero.
Dopo aver finito di mangiare, si trattennero a chiacchierare ancora un poco, fino a che non fu troppo tardi e gli ospiti decisero di congedarsi. Rimasero a conversare ancora qualche minuto mentre si rimettevano i cappotti e infine si salutarono sulla porta.
Alexander si impuntò perché Camille andasse a dormire mentre lui sistemava la sala da pranzo e avviava la lavastoviglie.
«Ho insistito io per non chiamare la cameriera» insistette lei, ma lui la prese tra le braccia e le sussurrò a fior di labbra: «Infatti, hai già fatto fin troppo. Vai a riposare.»
Lei lo salutò con un bacio fugace e si allontanò verso la camera da letto.
Alex finì di sparecchiare, poi si spostò nel suo studio. Tese l’orecchio, ma nessun rumore dava segno che Camille fosse ancora sveglia.
Aprì la piccola cassaforte sotto alla scrivania ed estrasse il cellulare usa e getta che Emily gli aveva procurato.
La maledisse mentalmente per la sua scelta antiquata mentre pigiava i tasti duri per scrivere: “Fatto”.
Osservò per un istante lo schermo giallastro, poi schiacciò invio.
 
 
***
 
 
Alexander seguì impazientemente l’uomo che gli aveva aperto la porta, mentre lo conduceva nei corridoi labirintici del palazzo della duchessa. In un altro momento, si sarebbe chiesto come Emily potesse permettersi tutti quei domestici, dato che ne vedeva uno diverso ogni volta, ma l’ansia che gli stava divorando lo stomaco gli impediva di pensare ad altro.
Quasi cadde addosso all’uomo quando quello si fermò per bussare alla porta. Attesero per qualche istante e dall’interno non venne nessuna risposta. 
L’uomo aprì la porta e annunciò Alex mentre lui si precipitava all’interno.
«Li hanno arrestati!» esclamò, avanzando verso la poltrona su cui era seduta Emily. 
Lei sollevò il capo, poi guardò l’uomo ancora fermo sullo stipite: «Puoi lasciarci soli?»
Lui annuì e se ne andò accostando la porta.
Alexander nel frattempo si era guardato attorno, notando di trovarsi in una piccola stanza arredata da mobili in legno su tutte le pareti. Davanti alle due poltrone era posto un piccolo televisore, sintonizzato su un tg locale.
«Siediti» gli disse Emily, che se ne stava rannicchiata tra i cuscini.
«Mi hai sentito?» ribatté Alex. «Hanno arrestato…»
«Chiunque in questa casa ti ha sentito, Alexander. Siediti e ascolta.»
Lui fece come gli era stato detto e si mise a guardare il televisore insieme a lei.
«…la grossa quantità di sostanze stupefacenti è ora sotto sequestro della polizia e i due coniugi sono stati arrestati, risultando entrambi positivi al test antidroga. Tra due giorni il processo, mentre già si discute…»
«Dove ti sei procurata tutta quella droga?» chiese Alex voltandosi verso la ragazza.
Le labbra di lei si sollevarono in un sorriso divertito: «Non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta.»
Tornarono a guardare la tv, ma il servizio era finito.
«Quando hanno fissato il processo?» domandò Emily.
«Tra due giorni.»
«Credi usciranno?»
Alex annuì: «Sono abbastanza benestanti da potersi permettere la cauzione, ma la loro reputazione è ormai rovinata. Durante il processo potremo insistere sull’affidamento senza problema.»
Quando Emily si voltò a guardarlo, lui notò che i suoi occhi brillavano per le lacrime. Alex allungò una mano e riuscì a sfiorare quella di lei sul bracciolo della poltrona.
«Ci riprenderemo Noah».
Le labbra di Emily stavano tremando mentre tentava di frenare il pianto.
«Non piangere, Em, ci siamo quasi.»
Lei non riuscì a trattenersi e si alzò per andare a sedersi accanto a lui sulla poltrona. Lo spazio era così ristretto che finì per stendersi su di lui, rannicchiandosi sul suo petto.
Alex, colto alla sprovvista, non poté far altro che prenderla tra le braccia tentando di consolarla. La sentiva stringere il suo maglione tra le mani, con la guancia poggiata sullo sterno.
Pareva così piccola e indifesa da somigliare a malapena alla donna che pochi giorni prima gli aveva dato istruzioni precise per attuare la sua vendetta. Lei si sarebbe preoccupata di piazzare la droga nell’auto dei Fairbanks e di fare una soffiata alla polizia, mentre lui avrebbe dovuto far mangiare loro dei dolci contenenti una quantità sufficiente di stupefacenti da essere individuata con controlli, ma abbastanza innocua perché i due non se ne accorgessero. Emily era stata fredda e metodica mentre aveva illustrato il suo piano, come se lo avesse ripetuto così tante volte da averlo interiorizzato.
«Forse non sarà sufficiente per metterli in carcere, ma a questo ci penseremo dopo. Un’accusa del genere farà perdere loro ogni credibilità e li renderà inadatti all’affidamento. So per esperienza quanti requisiti debba rispettare una coppia per avere un bambino» gli aveva detto.
Quando Alex le aveva chiesto quale sarebbe stata la mossa successiva, lei aveva sorriso divertita come se si trattasse di una partita a scacchi: «Un passo alla volta e lo scoprirai»
Tra le sue braccia, Emily si ricompose e si raddrizzò, asciugandosi gli occhi con i lembi delle maniche.
La sua espressione mutò e il suo volto prese una piega risoluta. Si alzò in piedi, come se niente fosse e tornò a rintanarsi nella sua poltrona.
Un suono deciso indicò che qualcuno aveva bussato alla porta della stanza. 
«Non rispondi?» domandò Alex, quando si accorse che Emily se ne stava muta.
«Sa che se non rispondo può entrare» rispose lei e infatti lo stesso uomo che aveva accolto Alexander si fece avanti.
Si avvicinò ad Emily e le mostrò il sacchetto di plastica che aveva tra le mani: «È stato consegnato a nome di Jack Simmons».
«Va bene, grazie. Lascialo pure qui» rispose lei indicando il tavolino davanti a lei.
L’uomo eseguì e se ne andò in silenzio.
«Lo conosci?» chiese Emily, voltandosi verso Alexander.
«Il nome non mi è nuovo»
Lei strinse le labbra e fissò l’involucro di plastica meditabonda.
«È l’avvocato dei Fairbanks. Una mia vecchia conoscenza.»
Nei margini del suo campo visivo, Emily riuscì a vedere Alex agitarsi all’udire la sua risposta.
«Non sono ancora usciti dal carcere» le disse.
La ragazza lo guardò beffarda: «Sei un avvocato, sai come funzionano queste cose. Durante il colloquio gli avranno dato indicazioni di recapitarmi questo»
«Quindi sanno che ci sei tu dietro al loro arresto» constatò lui ed Emily sentì il peso del suo sguardo attraversarla.
Scrollò le spalle: «Chi altro avrebbe motivo di accanirsi contro di loro?»
Alexander allungò il collo verso l’oggetto sul tavolino ed Emily gli fece cenno di servirsi pure. Con fare esitante, l’uomo si alzò dalla poltrona e sollevò delicatamente l’oggetto. Rimosse l’involucro, rivelando due dischi argentei senza scritte.
«Cosa significa?» domandò, guardandola in cerca di spiegazioni.
«C’è un lettore lì sotto» Emily gli indicò il mobile di legno sotto al televisore.
Lui aprì il mobile e inserì un disco nel lettore. Lo schermo del televisore si oscurò, poi comparì una schermata che indicava che il dvd conteneva un solo file. Alex si abbassò per avviare filmato, poi si raddrizzò e fece un passo indietro, ponendosi accanto alla poltrona di Emily.
Sullo schermo apparve una camera da letto, ripresa dall’esterno e da un’angolatura bassa. Si vedeva il letto bianco circondato da un alto baldacchino e le tende che contornavano la vetrata. Per qualche secondo non accadde nulla, finché nella stanza entrò un giovane alto, i cui capelli ossigenati rivelavano che si trattava, senza ombra di dubbio, di Roman. Il giovane si voltò verso quello che doveva essere l’ingresso della stanza e continuò a parlare con una figura nascosta alla telecamera, dopodiché cominciò ad arretrare e la seconda persona entrò nell’inquadratura. Si trattava di una donna bionda, che gettò le braccia intorno al collo di lui e i due si baciarono con passione. Le mani di Roman corsero lungo il corpo della donna, per poi finire sulla zip del suo abito chiaro, che presto scivolò a terra.
Prima che altro potesse accadere, Alex si sporse in avanti e bloccò il filmato.
Quando si voltò verso Emily, non lesse alcuna sorpresa sul suo volto, ma solo collera e sdegno.
«Che cazzo significa?» domandò, esterrefatto.
«È una minaccia» replicò lei. «O confesso la verità o diffonderanno questo video.»
Alex si sentì mancare il respiro e annaspò in cerca delle parole. 
«Questo lo avevo capito» ansimò, «la mia domanda era un’altra: cosa ci fa la madre di Camille insieme a Roman?»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** La vendetta di Medea ***






La vendetta di Medea
 
 




Alla domanda di Alexander, Emily roteò vistosamente gli occhi, appoggiando il capo alla poltrona su cui era seduta.
«Non devo spiegarti cosa due adulti consenzienti facciano di notte in una camera da letto» ribatté, ottenendo un verso di frustrazione da parte dell’altro.
«Merda, Em, quante altre cazzate avvengono dietro alla mia schiena?»
Alex gesticolava agitato e si muoveva a grandi passi nello spazio ristretto della sala.
«Calmati».
«Calmarmi? Tu giri con signori del crimine e ti procuri droga come se fossero caramelle, Roman è l’amante della madre di mia moglie e Dio solo sa cos’altro sta succedendo in questa città marcia del cazzo!»
«Alexander, calmati» gli intimò alzandosi in piedi per ridurre la loro differenza di altezza.
Lui smise di muoversi e si fermò, a pochi passi di distanza,
«Va bene, mi calmo se mi dici che hai un piano».
Emily alzò gli occhi al cielo e sbuffò, scocciata.
Alex sgranò gli occhi, prendendo atto che erano allo sbando. Si costrinse a fare un respiro profondo prima di parlare.
«Ecco cosa faremo» le disse ed Emily puntò gli occhi nei suoi, in attesa. «Rilasceremo il video».
«Che cazzo stai dicendo?» sbottò la ragazza infiammandosi nel volto. La tensione del suo collo indicava lo sforzo che stava compiendo di non lanciarsi avanti e prenderlo a sberle.
«Credono che il video sia una minaccia. Rilasciamolo e togliamo loro questo potere.»
Emily storse il naso e arricciò le labbra, contrariata.
«Alex, ti stai sentendo?» lo apostrofò.
Lui parve estenuato dal doversi spiegare ancora. 
«Roman non ne verrà danneggiato, non più di tanto almeno. Viviamo nel tipo di società per cui l’uomo cade sempre in piedi e ci preoccuperemo di fargli una propaganda positiva. La madre di Camille ha tradito suo marito e questo è uno di quei segreti che presto tutti sanno. In ogni caso, le basterà rifugiarsi in Francia per sfuggire all’eventuale scandalo. È semplice.»
Emily lo guardava come se attendesse che una parola sensata uscisse dalla sua bocca. Quando lei parlò, lo fece in modo conciso: «Toglitelo dalla testa».
«Em!» protestò lui, ma lei si diresse verso la porta della stanza.
«Non sei più una persona gradita in questa casa. Ti accompagno all’uscita» si fermò sulla soglia per assicurarsi che lui la seguisse.
Alex sondò il suo volto, alla ricerca di un qualche appiglio, ma il furore rendeva chiaro che ogni tentativo di dialogo sarebbe stato inutile.
«Me ne vado, ma dobbiamo risolvere questa cosa, il prima possibile.»
Si avvicinò alla porta e passò accanto a lei, che torse il capo in un’altra direzione per non doverlo guardare.
«Lo facciamo per Noah» mormorò, «lo hai dimenticato?»
Gli occhi di Emily guizzarono su di lui, incandescenti.
«Scelgo io le regole del gioco» ribatté.
Alexander sospirò e si lasciò guidare verso l’uscita.
 
 
 
L’aria del pomeriggio era fredda e il debole sole che ormai tendeva verso l’orizzonte non riusciva a riscaldarla.
Sulla terrazza di camera sua, Emily scrutava il volto di Roman in cerca di una qualche reazione. 
«Questo non lo avevamo previsto» fu l’unica cosa che disse, senza scomporsi.
Emily si sentì pervadere da un senso di impotenza e rabbia. Roman l’aveva sempre protetta e accudita e ora lei non sapeva come fare altrettanto.
«Cosa ha detto Alexander?»
La ragazza roteò gli occhi: «È un idiota. Ha detto di rilasciare il video per togliere loro potere.»
Roman non rispose, ma abbassò gli occhi, pensieroso.
«Non lo starai davvero considerando?» gli chiese Emily allarmata e allungò una mano per stringere il suo braccio.
Roman riportò i suoi occhi nocciola sul volto di lei: «Sto valutando ogni opzione. Se a noi sono state recapitate due copie dello stesso video, è probabile che ne esistano altre. E magari una è stata portata a Liliane.»
Emily sentì il suo battito accelerare improvvisamente. Non aveva considerato che anche la signora Lefebvre avrebbe potuto far parte del gioco. I Fairbanks erano amici di famiglia, ma avrebbero fatto qualsiasi cosa in loro potere per scagionarsi dalle accuse.
«Credi che lei ti tradirebbe per questo?» gli domandò e subito si pentì della domanda quando gli occhi lucidi di Roman si posarono nei suoi.
«Ho sempre saputo che nella nostra relazione il mio amore andava senza tornare e la cosa mi stava bene. Finché lei voleva vedermi, potevo fingere di ignorare la sensazione di essere solo una fuga momentanea dal suo matrimonio».
Emily gli si avvicinò, prese le sue mani e le strinse a sé. Roman le rivolse uno sguardo carico di dolore.
«È in momenti come questo che capisco il peso dell’illusione. Forse Liliane mi ha voluto bene, ma non mi ha mai amato. Io l’ho sempre amata e ora le voglio meno bene.»
La ragazza allungò una mano e gli accarezzò la guancia su cui minacciava di cadere una lacrima.
«Troveremo un’altra soluzione, abbiamo ancora tempo.»
Lui fece un cenno di assenso e abbozzò un piccolo sorriso tirato: «Ce la caveremo».
Assicurandosi che Roman non avesse più bisogno della sua presenza, Emily lasciò la terrazza e si diresse verso il piano interrato, dove la piscina l’attendeva già cosparsa di petali di rosa. Sentiva la necessità di immergersi nell’acqua calda, distanziarsi dalla realtà e pensare.
 
 
Riemerse dalla piscina un’ora più tardi, con la pelle calda e profumata e la sensazione di essere rinata. La sua mente non era ancora lucida, ma stava ricominciando a ragionare sulle alternative che avevano.
Più le idee si facevano chiare, più considerava stupido il senso di disperazione che l’aveva attraversata prima.
Indossò una vestaglia asciutta e raccolse i capelli in un asciugamano, poi risalì verso la sua stanza.
Mentre si trovava sulle ampie scale di marmo che conducevano al primo piano, un domestico la fermò.
«Signorina, c’è una cosa che deve vedere».
Perplessa, Emily si lasciò guidare verso la sala con il televisore, che era già acceso e nuovamente sintonizzato sul telegiornale. Sullo schermo scorrevano le immagini che lei e Alexander avevano visto poche ore prima dal dvd, mentre la voce della giornalista commentava quello che si prospettava come uno degli scandali più chiacchierati per le settimane seguenti. Il video era stato rilasciato.
Con la mente sconvolta e sconcertata, Emily si lanciò in avanti, verso il lettore, dove il dvd era ancora inserito. Afferrò allora l’involucro di plastica sul tavolo e scoprì che l’altro disco era scomparso.
Una rabbia feroce cominciò a montarle dentro e i suoi pensieri si fecero a dir poco vorticanti. Superò il domestico e lasciò la stanza, diretta verso il proprio studio. Si chiuse dentro, cercò il cellulare giusto per chiamare l’unico numero della rubrica.
«Cassandra!» le rispose gioviale la voce dall’altro capo. «A cosa devo la chiamata?»
Lei faticava a respirare e percepì il tono duro con cui le parole le uscirono dalla bocca: «Alexander Henderson è fuori dai giochi. Fai ciò che devi con la tua “garanzia”.»
 
 
 
***
 
 
 
Quel leggero singhiozzare intercalato da parole francesi suonava come un’antica nenia dimenticata.
Quando Camille gli aveva detto che dovevano andare a casa dei suoi genitori, Alexander non aveva immaginato l’uragano in cui si stavano cacciando.
Liliane si era chiusa nella camera da letto mentre il marito gridava dall’esterno minacciando di buttare giù la porta e farcendo tutto con una serie di insulti in francese poco comprensibili. Alexander aveva temuto di essere sul punto di assistere ad un omicidio domestico.
Un’ora più tardi, la situazione si era fatta più calma. Liliane non era ancora uscita dalla stanza, ma parlava con Camille attraverso la porta. La giovane se ne stava con il capo appoggiato al legno, mormorando frasi dolci alla madre.
Il signor Lefebvre si era spostato nel salotto, al piano inferiore, e stava sorseggiando nel whiskey per calmarsi i nervi. Alex si muoveva tra l’anticamera e il salotto, assicurandosi che la situazione rimanesse se non quieta, almeno non turbolenta. 
«Ti porto qualcosa?» domandò a Camille.
Lei scosse il capo e gli rivolse un sorriso di ringraziamento. Nonostante il volto disteso, i suoi occhi erano corrucciati come non mai e le borse al di sotto rendevano palese il pianto ormai asciutto. I capelli chiari, sempre ben pettinati, erano raccolti in una coda scomposta e disordinata.
Alex si trattenne per qualche minuto con lei, poi scese al piano inferiore per assicurarsi delle condizioni del padre di Camille.
Gerald Lefebvre era un uomo affascinante nonostante gli anni gli avessero scolpito numerose rughe sul volto e dipinto di bianco molti capelli. Teneva la sua chioma ancora folta pettinata all’indietro, il che gli dava un’aria da principe di altri tempi insieme ai completi eleganti che indossava.
Se ne stava seduto al tavolo, con il bicchiere di cristallo vuoto e la bottiglia aperta e per metà svuotata poco distante.
Si voltò di scatto verso Alexander quando lo sentì entrare e i suoi muscoli si rilassarono nel riconoscerlo.
«Un intero matrimonio basato su una bugia» sputò. «Perché? Perché lo ha fatto?»
Scandagliò il volto di Alex alla ricerca di una risposta, ma lui scosse il capo: «Non saprei, signore.»
«Per il rischio? Per l’adrenalina?» continuò lui, poi sgranò gli occhi, improvvisamente allarmato. «Perché lo ama?»
Scacciò subito quell’opzione con un’espressione disgustata: «Non può amare un ragazzino, non può.»
Il suono del campanello interruppe i suoi vaneggiamenti, con sollievo per Alex, che fece per dirigersi verso la porta, ma il signore Lefebvre lo anticipò: «Vado io, ragazzo.»
Alex lo seguì ugualmente, assicurandosi che si reggesse sulle sue gambe e quando raggiunsero l’ampio ingresso, un cameriere aveva già aperto e dalla porta stavano entrando due poliziotti e un terzo uomo in borghese.
«Grazio a Dio!» esclamò il padrone di casa. «Stavo proprio per chiamarvi.»
Il detective, l’uomo in borghese, lo bloccò: «Mi dispiace, signore, ma siamo qui per un altro motivo. Abbiamo un mandato d’arresto.»
Il signor Lefebvre diventò bordeaux, come se non riuscisse a sostenere quell’ennesimo colpo.
«Per arrestare chi?» domandò, improvvisamente ostile.
Gli occhi del detective si spostarono sull’altro uomo che li aveva accolti.
«Alexander Henderson.»
 
 
 
Alexander non sapeva quante ore fossero passate da quando la polizia lo aveva scortato via da casa Lefevbre sotto lo sguardo sconcertato del padrone di casa. A giudicare da come il suo stomaco brontolava, dovevano essere parecchie.
Sapeva come funzionavano quelle cose, ma viverle dall’interno lo aveva lasciato confuso e frastornato. E sicuramente non pronto a sentire la predica che Jefferson gli stava facendo in quel momento. Aveva già parlato con il suo avvocato e gli era stato concesso quel colloquio aggiuntivo, anche se per una volta Alex si pentì di non essere trattato come tutti gli altri. 
Sapeva che non era più sindaco, senza che Jefferson glielo sbattesse in faccia insieme al cellulare su cui veniva riprodotto ininterrottamente il video del suo incontro con Arthur Lowe. In quel momento, sul piccolo schermo, lui e Lowe si stavano stringendo la mano per sugellare il patto che gli aveva fatto vincere e perdere la carica di sindaco nell’arco di pochi giorni. La figura di Lowe era abilmente in ombra e non riconoscibile, a differenza della sua. Il video era stato consegnato al giornale più importante di Tridell e rapidamente era arrivato il mandato d’arresto. 
Alex si chiese cosa suo padre avesse promesso a Jefferson per costringerlo a rimanere dalla sua parte. Conoscendo suo padre, si era trattato più probabilmente di minacce che di promesse.
«E non immaginerai cosa ha fatto la cara duchessa un’ora prima del tuo arresto» gli stava dicendo in quel momento.
Alex si passò le mani tra i capelli: «Ero impegnato ad impedire un’altra tragedia familiare. Cos’ha fatto?»
«Ha annunciato il suo fidanzamento con Gabriel Leroy, il figlio del tuo avversario.»
Alex lo fissò interdetto, cercando di capire se fosse serio. Richard Leroy, ex sindaco di Tridell e suo avversario nella campagna appena conclusa, aveva un unico figlio e non poteva credere che Emily intendesse sposarlo.
«Ha deciso di abbandonare la barca non appena ha cominciato ad affondare» commentò Jefferson, rivolgendogli uno sguardo grave. «C’è da chiedersi se non fosse stato il suo piano fin dall’inizio, fare il doppio gioco.»
Alex si sentì mozzare il fiato e si diede dello stupido. Era così chiaro che non aveva senso metterlo in dubbio.
Fin dall’inizio Emily aveva stabilito che tutto ciò a cui puntava era riprendersi Noah e che altrimenti non avrebbe mai sostenuto la sua campagna elettorale. Non doveva destare sorpresa che avesse cambiato partito non appena lui aveva perso ogni possibilità di vittoria.
Alex avrebbe voluto vomitare. Aveva mentito a Camille, aveva portato avanti quella farsa nell’illusione di poter salvare suo figlio e rimediare ai suoi errori passati e invece non si era procurato altro che problemi. E non aveva nulla in mano per fare pressione su Emily. Alla fine, la duchessa aveva fatto scacco matto.
«Dobbiamo sapere chi ha consegnato questo video al giornale» gli disse Jefferson, battendo l’indice sul tavolo metallico.
«Ha importanza?»
Si sentiva esausto. Il video era così incriminante che il giudice non avrebbe permesso il rilascio su cauzione e non sapeva quanto tempo sarebbe trascorso fino al processo.
«Potrei metterci la mano sul fuoco che è stata la duchessa» continuò Jefferson e lui avrebbe voluto contraddirlo, ma si rese conto che l’ipotesi aveva le sue motivazioni. Aveva appena constato quanto la fedeltà di Emily fosse scostante e non poteva escludere che quella fosse stata la sua mossa per eliminarlo dal gioco, soprattutto dopo la discussione che avevano avuto a casa di lei.
Sembrava passata un’eternità da quando avevano guardato il filmato di Roman e Liliane e invece era stato solo quel pomeriggio. 
«È ora di andare».
Un poliziotto era entrato nella stanza e fece cenno a Jefferson di alzarsi in piedi. 
«Ci vediamo domani» disse ad Alexander e lui gli rispose con un fiacco cenno di saluto.
 

 
 
***



 
Emily guardava Gabriel, in piedi davanti a lei, e pensava che se si ignorava la sua arroganza, la passione per lo sballo, la tendenza alla distruzione e le sue due o più dipendenze, tutto sommato poteva essere un buon partito. Il suo viso era di una bellezza algida ed era abbastanza alto e ben formato da fare un certo effetto quando camminava.
Il sarto aveva appena finito di prendergli le misure e si congedò con un piccolo cenno del capo.
Emily trangugiò il contenuto del suo bicchiere, sentendosi rapidamente riscaldare. Erano passate meno di dodici ore dall’annuncio del suo fidanzamento e già si sentiva stanca.
«Quando ci siamo conosciuti?» domandò a Gabriel, che si stava rimirando nell’alto specchio verticale al suo fianco. Indossava solo una camicia bianca e un paio di pantaloni blu che Emily gli aveva procurato e pareva uno studente di college in vacanza, il che non era lontano dalla verità se le vacanze durassero dai tre ai cinque anni.
«Lo abbiamo già ripetuto» le disse con un sorriso canzonatorio.
Emily roteò gli occhi: «Tre anni fa, ad un’asta di beneficenza. Quali erano le circostanze?»
Fu il turno di Gabriel di sbuffare, interrotto nella sua autocontemplazione: «Mio padre era invitato all’asta in quanto sindaco e tu hai fatto la più grande donazione della serata».
Gabriel scese dal suo piedistallo – solo fisicamente, pensò Emily – e le si avvicinò. Si mise in ginocchio, ai suoi piedi e con fare melodrammatico aggiunse: «Perché la mia futura sposa è una donna dal cuore immenso.»
Emily lo calciò delicatamente via e lo incalzò: «Perché abbiamo tenuto la nostra relazione segreta?»
«Volevamo prendere le cose con calma e non amiamo l’attenzione della stampa».
La ragazza si sentì soddisfatta. Gabriel era perfino un bugiardo migliore di quanto si aspettasse.
«Ricorda il piccolo favore che dovrai chiedere a tuo padre» gli disse e lui, alzandosi in piedi, le rivolse uno sguardo perplesso: «Ancora non ne ho capito il senso.»
Emily gli rivolse uno sguardo comprensivo: «Il tuo compito non è capire, ma seguire il piano.»
La porta alle sue spalle si aprì e Roman fece il suo ingresso nella stanza. Ad una qualsiasi persona, la sua espressione sarebbe parsa serena, ma Emily lo conosceva abbastanza bene da leggervi tracce di turbamento. 
«Possiamo parlare?» le chiese infatti.
Non si vedevano dalla loro conversazione sulla terrazza, il pomeriggio precedente, perché Emily aveva voluto lasciargli il tempo di riprendersi dopo gli ultimi avvenimenti. Immaginò che Roman avesse ormai scoperto che il video era stato rilasciato.  
Intimò a Gabriel di rimanere nella sala - «Senza rompere nulla» - e seguì Roman verso il proprio studio.
Non appena furono all’interno, il giovane chiuse la porta a chiave e si allontanò da essa, per non far udire la conversazione all’esterno, nonostante le pareti fossero insonorizzate.
«Che diavolo sta succedendo?» le chiese, con gli occhi sgranati. Raramente Emily lo aveva visto così stravolto e la cosa la preoccupava.
«A mali estremi, estremi rimedi» replicò lei e Roman aprì la bocca esterrefatto: «Gabriel Leroy mi sembra un rimedio piuttosto estremo.»
Emily strinse le labbra, scocciata di non potergli dare torto. Lei e Roman avevano sempre deciso insieme, ma non avevano mai messo in discussione che fosse lei a prendere la decisione finale.
«Dopo quello che Alexander ti ha fatto, mi sono assicurata che venisse arrestato e con lui fuori dai giochi, non ho avuto altra scelta.»
Roman le si avvicinò e il modo in cui la preoccupazione continuava a rabbuiargli il suo volto spaventò la ragazza.
«Stai parlando del video di me e Liliane?»
Emily annuì e fece per slanciarsi in avanti e stringerlo tra le braccia, certa che non avesse ancora superato quel dolore, quando le parole di lui la colpirono come sassi.
«Sono stato io a condividerlo».
La ragazza si bloccò, sbigottita e sconcertata da quella rivelazione. Dovette appoggiarsi alla scrivania al suo fianco perché le gambe le si fecero molli.
«Cosa stai dicendo?»
Roman la guardava con le sopracciglia corrugate: «Devo la mia lealtà a te molto più che a Liliane. Non mi hai dato motivo di dubitare del tuo amore per me e sapevo che era la cosa giusta da fare, nel caso i Fairbanks avessero minacciato anche lei. Liliane avrebbe solo complicato la situazione pur di non essere scoperta e non potevo permetterlo.»
Emily boccheggiò, senza fiato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
 
Alexander si lasciò trascinare per i corridoi del carcere, con un poliziotto per lato che lo teneva.
Era trascorsa una settimana da quando lo avevano rinchiuso e sapeva che erano stati clementi con lui. La cella che gli avevano assegnato era pulita e aveva una finestra abbastanza ampia da far filtrare la luce del giorno.
Quello che non riusciva a sopportare, erano gli sguardi di disprezzo che gli rivolgevano tutti, polizia, secondini, persino gli altri carcerati. La sua faccia era diventata sinonimo di traditore della patria e lui non riusciva ad accettarlo.
L’unica persona che non aveva smesso di guardarlo con amore, era stata Camille. Quando era venuta a fargli visita, lo aveva rassicurato, accarezzandogli una mano. La guardia era intervenuta subito per separarli, ma Alex si era sentito rincuorato.
I due secondini lo condussero nella sala interrogatori, dove sapeva che suo padre lo stava aspettando. Non era pronto a vedere il suo sguardo di rimprovero e ad ascoltare le sue parole di scherno, ma sapeva di non avere scelta.
Suo padre era già nella sala, in piedi accanto al tavolo dove lo fecero sedere. Ringraziò i due uomini, che li lasciarono soli e chiusero la porta nell’uscire.
«Ci stanno ascoltando?» domandò Alex, guardando la parete riflettente alla sua destra. La superficie gli rimandò il riflesso di un uomo scarmigliato, con quella ridicola tuta grigiastra che gli pendeva sul corpo come un sacco dello sporco.
«No, me l’hanno assicurato» gli rispose il padre in tono rude.
Non era il loro primo colloquio e Robert aveva già avuto modo di riversare addosso al figlio la sua rabbia e frustrazione. Alex sapeva che non ce l’aveva con lui per quello che aveva fatto, ma perché era stato abbastanza stupido da farsi beccare.
Discussero per qualche istante delle opzioni che avevano. Suo padre voleva evitare che dovesse dichiararsi colpevole e ancora sperava che ci fosse un modo di dimostrare la falsità del filmato. Benché le parole che i due pronunciavano nel video fossero ben chiare, rimaneva il fatto che uno dei due interlocutori era in ombra e questo poteva giocare a loro favore.
«In ogni caso, non hanno esitato a cacciarci dal municipio» gli stava dicendo Robert, camminando avanti e indietro per la stanza con fare militaresco.
«L’indagine ha coinvolto tutto il tuo team, quindi per non lasciare la città senza amministrazione, Richard Leroy ha ripreso temporaneamente l’incarico».
Alex si massaggiò le tempie, mentre assimilava la notizia. 
Suo padre fece uno sbuffo indignato: «Come se quell’uomo fosse pulito. Ricordi Caroline Thompson?»
Alex gli rivolse uno sguardo interdetto, senza capire cosa centrasse quella vecchia amica di sua madre con la faccenda.
L’altro lo accontentò subito: «Ricordi che non poteva avere figli? Ha deciso di tentare con l’adozione e ha aspettato un anno prima che gliene affidassero uno. Gabriel Leroy lo ha ottenuto in una settimana.»
Alex sentì un brivido attraversarlo e lentamente portò gli occhi su suo padre, raccogliendo il coraggio per fare una domanda di cui temeva la risposta.
«Quale bambino?»
Suo padre parve sorpreso dal suo interesse, ma la cosa non lo preoccupò, perché subito rispose: «Il piccolo dei Fairbanks. Anche quella povera coppia, te lo dico io, è stata incastrata per qualcosa più grande di loro…»
Alexander smise di ascoltare. Si estraniò dallo spazio e dal tempo, catapultandosi fuori da quella stanza squallida nel carcere di Tridell.
Emily aveva Noah. Emily aveva raggiunto il suo obiettivo. Era stato quello il suo piano? Fin dall’inizio? Non dubitò più delle parole di Jefferson, perché ormai sapeva che aveva ragione. Solo Emily era presente quella sera oltre a Lowe e solo lei ci aveva guadagnato dal diffondere il video che lo aveva fatto finire in carcere.
Si sentì usato e poi buttato come uno straccio ormai logoro che ha smesso di essere utile. Ancora una volta, non poté evitare di darsi dello stupido. I segni erano chiari, fin dall’inizio Emily gli aveva detto di non volerlo aiutare. “È così bello sentirti dire che hai bisogno di me. Finalmente sai cosa si prova” gli aveva detto la prima sera in cui si erano visti, “Ed è così bello dirti di no“.
Come Medea, anche lei aveva avuto la sua vendetta e Alex non poteva far altro che guardarla trionfare.
 
 
***
 
 
 
Emily seguiva con il dito i disegni sulla carta, leggendo sottovoce il testo del racconto. Il suo indice sfiorò una nuvola celeste e si spostò sulla capigliatura splendente del protagonista.
Gettò uno sguardo al suo fianco e vide che, avvolto dalle coperte e circondato da mille cuscini, Noah si era addormentato.
Chiuse delicatamente il libro e si alzò dal letto, poi gli rimboccò le coperte e si concesse di lasciargli una carezza sul volto, fermandosi un istante ad ammirarlo. Non aveva mai conosciuto vista migliore. Suo figlio dormiva sotto il suo tetto, abbracciato all’orsacchiotto peluche che si era portato dalla vecchia casa.
Emily lo osservò ancora per qualche minuto, poi si decise ad uscire dalla stanza e lasciarlo solo. Si spostò nella propria camera da letto – adiacente a quella di Noah – e trovò Roman seduto sulla poltrona di fronte al letto.
Quando lei entrò, l’altro si alzò in piedi e le andò incontro.
«Sta dormendo?» le chiese, ricevendo un segno di assenso in risposta.
«Ancora non riesco a crederci» confessò Emily senza trattenersi dallo sfoderare un grande sorriso.
Noah era arrivato quella mattina e aveva accettato con straordinaria tranquillità l’idea di una nuova casa – solo provvisoriamente, gli era stato detto. Emily aveva preparato da tempo la storia da raccontargli, per spiegargli che era lei la sua vera mamma e perché lo aveva lasciato ad un’altra famiglia, ma non aveva ancora avuto il coraggio di farlo. Temeva di sconvolgerlo e di terrorizzarlo. Aveva aspettato tutti quegli anni e, anche se era impaziente di ricucire il rapporto con suo figlio, sapeva di poter attendere ancora un poco di più per fare le cose bene.
Quando lo aveva visto varcare la soglia del suo palazzo, avrebbe voluto che Roman la pizzicasse per assicurarsi che fosse tutto vero. Aveva riprodotto quell’immagine nella sua testa migliaia di volte, ma viverla davvero era stato ancora più bello e spaventoso. Noah doveva ricordarsi di lei dalla cena, perché non era sembrato troppo sconvolto. Era stato educato, a tavola aveva mangiato tutto e aveva aiutato a sistemare i suoi giocattoli nella nuova cameretta. Emily ancora temeva che dopo tutta quella calma ci sarebbe stata una tempesta, ma il suo cuore era troppo traboccante di gioia perché se ne preoccupasse veramente.
«Vuoi rimanere con me? Stanotte non me la sento di dormire da sola» chiese a Roman e lui le sorrise, comprensivo.
«Certo, mia duchessa» le rispose scherzoso.
Emily allungò una mano e gli sfiorò braccio, cercando i suoi occhi: «Non ce l’avrei mai fatta senza di te.»
«Lo sappiamo entrambi, cara».
Lei si slanciò in avanti e l’abbracciò. Roman era stato la sua ombra in tutti quegli anni e ormai lo sentiva come parte di se stessa. Era come un fratello per lei e il fatto che avesse messo da parte la sua vita privata per aiutarla ancora la faceva sentire in colpa.
Quando le aveva rivelato di aver diffuso lui stesso il video che lo riguardava, Emily si era sentita sconvolta. Troppe emozioni l’avevano attraversata: rabbia perché glielo aveva taciuto, dolore per il suo sacrificio, confusione per la scelta che aveva fatto, ma alla fine aveva compreso che non avrebbe dovuto stupirsi. Il Roman che conosceva era fatto così.
«Stai ancora respirando?» le chiese e lei sciolse l’abbraccio, ridacchiando.
Si diresse verso il letto e s’infilò sotto le coperte dal suo lato, mentre Roman faceva altrettanto dall’altra parte.
«Qual è la prossima mossa?» le chiese e ricevette uno sguardo confuso da parte di lei.
«In che senso?»
Roman rise: «So cosa significa quell’espressione, Cassandra
Il viso di lei si corrucciò, come punta sul vivo. Fingere che lui non le leggesse dentro era un’illusione. Allora raccolse tutta la sua decisione e indossò la sua faccia da duchessa, con il mento alto e la schiena dritta. Piantò i propri occhi in quelli scuri di Roman e scandì bene le parole: «Ora capiamo come diavolo tirare fuori Alexander da quel carcere.»







 




 
Angolo autrice
Ciao a tutti!
Grazie di cuore a tutti coloro che sono arrivati fin qui e hanno letto la storia, sia silenziosamente, sia facendomi sapere i loro pensieri. 
Questa storia è stata scritta per un concorso con un limite di lunghezza, quindi la prima parte si ferma qui, ma le vicende continuano con La duchessa - Atto IISpero di potervi ritrovare anche in questa seconda parte <3

Ancora grazie per aver seguita la storia fino a questo punto!

Alla prossima,

M.


P.S.: EFP mi ha cancellato questo capitolo che avevo precedentemente pubblicato per non so quale strano motivo, quindi mi scuso se qualcuno avesse per caso ricevuto la notifica di un nuovo aggiornamento. Ho solo ripubblicato l'epilogo.

P.P.S: sono anche su instagram!

 

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